Artintime N.7 - Luglio

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IN TIME n.7 - Luglio 2015

ARTE | CINEMA | MUSICA | TEATRO | LETTERATURA | INTERVISTE | EVENTI | LONDON NEWS



ARTINTIME L’EDITORIALE “C’è bisogno solo di voglia, interesse e una dose massiccia di costanza”, ce lo dice il nostro Alessandro Frau nell’articolo che inaugura in questo numero di luglio una nuova sezione del nostro magazine, dedicata al giornalismo digitale. Una sorta di parentesi meta-riflessiva – il giornale che si riflette sul suo stesso mondo, linguaggio e funzionamento – per fermarsi un attimo a considerare come stanno evolvendo i codici dell’informazione cui tutti siamo abituati, e quali bivi ci aprono, quali e quante possibilità offrono ai lettori, potenzialmente in aumento, anche se le statistiche ci dicono il contrario, ma anche a chi l’informazione lavora per farla. Volevamo ricordarci e ricordarvi che abbiamo gli occhi aperti sulla realtà, la voglia, l’interesse e dosi massicce di costanza pronte a traghettare un progetto con ormai tre anni di esperienza alle spalle oltre la crisi, l’incertezza, la precarietà. Tutte armi a doppio taglio, che permettono quella bellissima attività definita otium dai latini e da noi moderni associata al non fare nulla. In realtà l’ozio è pratica per benestanti, e include quella ormai leggendaria, perché così difficile nei tempi agitati e frenetici che ci avvolgono, attività di speculazione intellettuale, libera. Libera da vincoli, da tempi, scadenze, consegne. La libertà di indagare per capire, di più, e meglio. Forse è proprio quello che potremmo augurarci e augurarvi per questa estate ormai esplosa, tra le ultime settimane di lavoro per molti e le ferie già iniziate per altri: un ozio produttivo. Che non implica staccare totalmente la spina dal mondo: sarebbe impossibile, e nemmeno troppo utile per chi ha intenzione di riprendere il neg-otium autunnale più consapevole e con nuovi strumenti. Quello che vi proponiamo è invece un ozio fatto di sguardi sempre più acuti sul mondo che ci circonda, di tentativi di analisi critica dei fenomeni mediatici, di intenso lavorio di fantasia – movimento di cellule grigie, direbbe l’Hercule Poirot di Agatha Christie – teso a finalità produttive. Senza ostacoli, liberi di spingere oltre e ancora oltre la linea, senza le barriere che il concreto quotidiano ci impone suo e nostro malgrado. Potrebbero essere vacanze davvero produttive: e se le idee migliori venissero proprio in momenti insospettabili, sdraiati sotto al sole al riparo dalle larghe falde di un cappello di paglia, disturbati solo dal sottofondo acustico della natura? Niente tablet, pc, smartphone: qualche foglio e da scrivere, i giornali, dalla lettura lenta e approfondita, e sì, anche qualche parola crociata, non sia mai che dallo scontrarsiincontrarsi di giochi linguistici su assi verticali e orizzontali nasca anche qualche nuova connessione di idee. Che ne pensate, potrebbe funzionare? Naturalmente, vi auguriamo tutto questo ozio produttivo solo dopo aver dato un’ultima occhiata al pc per leggere il nuovo numero di Artintime: ci sono troppe cose belle che rischiereste di perdervi, e soprattutto qualche bel consiglio per vivere al meglio un’estate di arte. Si parte dal cinema, in particolare in Piemonte, che offre una ricca stagione di proiezioni per tutto luglio e agosto. Per i fans, c’è anche tutto l’occorrente per rivivere al meglio la saga di Jurassick Park. E poi libri, teatro, musica, la Biennale d’arte di Venezia, città magica in cui perdersi a oziare circondati dalla bellezza. Oppure volare a Londra e sognare Hollywood, passeggiare nel centro di Torino e trovare l’antico Egitto... Insomma, a voi la scelta. A noi non resta che augurarvi buona estate e buon ozio artistico! Alessandra Chiappori

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ARTINTIME SOMMARIO 6 . TOBIAS JESSO JR. by Angelica Magliocchetti

8 . JURASSIC CINEMA: EVOLUZIONE O ESTINZIONE? by Matteo Ghidella

12 . MONOLOGHI PRECARI E INSODDISFATTI by Alessandra Chiappori

14 . ESTATE AL MUSEO EGIZIO by Roberta Colasanto

16 . CINEMA (ANCHE) D’ESTATE CON PIEMONTE MOVIE by Alessandra Chiappori

20 . FINISCE UNA STORIA D’AMORE, MA INIZIA UN GRANDE SUCCESSO by Barbara Mastria

22 . AT BFI SOME LIKE IT HOT by Cristina Canfora

24 . IL MONDO SOMMERSO DEL GIORNALISMO DIGITALE by Alessandro Frau

26 . SUNTIAGO by Angelica Magliocchetti

28 . STORIA DELLA MAGIA DELLE PAROLE by Alessandra Chiappori

30 . SUGGESTIONI DALLA BIENNALE DI VENEZIA 2015 32 . EVENTI

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TOBIAS JESSO JR. L’autobiografica “Hollywood” è la colonna sonora ideale per parlare di Tobias Jesso Jr. e della sua carriera musicale. Classe 1985, il giovane artista canadese comincia la sua carriera come tanti, seguendo il richiamo americano. Nel 2008 sbarca a Los Angeles e inizia il suo percorso come bassista per la band The Sessions e come musicista al seguito della cantante pop Melissa Cavatti. Dopo alti e bassi in cui si dedica a fare da autore per altri artisti, è proprio nel momento in cui sconfortato torna a casa in Canada che la sua carriera ha una svolta. Si avvicina alla composizione con il pianoforte (fino ad allora aveva prediletto la chitarra) e inizia a sperimentare anche le sue doti di cantante. È da questo momento in cui sembra tutto perduto che ritrova la sua strada. Inizia a comporre la futura “Just A Dream”, una ballata intensa ed emozionante, immaginata da un ipotetico padre e dedicata alla figlia neonata.

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Notato dal musicista Chet “JR” White, Tobias Jesso Jr. torna negli Stati Uniti e ottiene un buon successo sul web, tanto da arrivare a calcare il palco del Pitchfork Music Festival di Parigi. Nel 2015 fa uscire il suo primo album: “Goon”. Dodici brani che arricchiscono e ampliano la base compositiva di piano e voce con una serie di sonorità che non ne alterano la grande sensibilità emotiva. Notevole e senza tempo questo primo lavoro ci permette di esplorare l’intensità della poetica del giovane artista canadese. Da citare la rivisitazione di “Just A Dream” ora coronata dagli archi, la malinconica e un po’ vintage “How Could You Babe” e l’incanto di “The Wait”. Tra qualche rimando e qualche influenza dei produttori (Chet “JR” White, Ariel Rechtshaid, John Collins e Patrick Carney), l’album scorre via in un soffio, delicato ed intenso. So, Enjoy!

Angelica Magliocchetti


MUSIC

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JURASSIC CINEMA: EVOLUZIONE O ESTINZIONE? “Professor Grant, mia cara Professoressa Sattler... Benvenuti al Jurassic Park!”. Con questa frase John Hammond apre le porte del suo parco ai due paleontologi e a noi spettatori, mostrandoci le meraviglie che la scienza è arrivata a ricreare: i dinosauri. Era il 1993, e Steven Spielberg, con la collaborazione di Michael Crichton, autore del romanzo, e David Koepp, sceneggiatore principale, mostrava al mondo il suo “Jurassic Park”, film destinato a entrare prepotentemente nella storia del cinema. La pellicola è di puro intrattenimento, ha naturalmente i suoi difetti ed è tutt’altro che perfetta. I pregi sono però decisamente superiori e l’hanno resa un vero e proprio kolossal conosciuto in tutto il mondo, che in pochissimi non hanno visto o di cui non hanno subito il fascino, rimanendone incantati. Di seguito proverò a elencare alcune di queste qualità, quelle che ritengo più importanti. Innanzitutto la trama, assolutamente innovativa. La riproduzione genetica di creature estinte da milioni di anni, con l’utilizzo di filamenti di DNA modificati, la creazione di un parco a tema per mostrare queste creature agli occhi del mondo, l’immancabile incidente e il contatto, spesso letale, tra dino-

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sauro e uomo, sono un mix esplosivo di emozione e intrattenimento unico e difficilmente ripetibile. Gli effetti speciali meravigliosamente curati. Sono passati ventidue anni e, sembra incredibile ma è così, non c’è Computer grafica o 3D che tenga, quei dinosauri, con tutti i loro piccoli difetti, hanno un’anima, sembrano veri, sembrano lì vicini agli uomini. La regia di Spielberg, che sapientemente ci conduce nel parco orchestrando le inquadrature per farci rimanere a bocca aperta. La famosissima scena dalla quale ho citato la frase iniziale, ad esempio, è pressoché perfetta, con la macchina da presa che gira nel momento in cui tutti noi, personaggi e spettatori, vogliamo vedere. Un Maestro del genere. I personaggi e gli attori che li interpretano, che non sono stati scelti per la loro fama, ma per la funzionalità al progetto. Caratteri ben disegnati, con una personalità definita e chiara ma mai troppo ingombrante, un pensiero ben inquadrato per ognuno e rapporti semplici ma efficaci. Infine, la colonna sonora di John Williams, da sempre in simbiosi con Spielberg, le cui indimenticabili tracce aiutano i dinosauri a prendere vita e lo spettatore a emozionarsi di fronte a loro. Una mano indispensabile che completa alla perfezione il disegno.

Il successo commerciale fu enorme. Probabilmente nessuno si aspettava un fenomeno del genere, la nascita di un merchandising così forte e così straordinariamente diffuso in tutto il pianeta. Tutto questo rese il sequel pressoché obbligatorio. Quattro anni dopo, nel 1997, esce infatti “Il mondo perduto”, ancora diretto da Spielberg. Premettiamo che, come il precedente, fu un successo di pubblico clamoroso e sbancò i botteghini. Dal punto di vista commerciale, quindi, fu un’operazione azzeccata e riuscita in pieno. Sul piano artistico sicuramente un po’ meno, vediamo perché. Il film riprende a grandi linee le tematiche dell’originale, semplificando però la parte etica e introspettiva e andando a privilegiare quasi esclusivamente l’intrattenimento. Una traccia dei temi già sviluppati in “Jurassic Park” c’è, ad esempio la contaminazione e la volontà di intrusione compulsiva da parte dell’uomo anche in emisferi che non gli competono, ma è tutto decisamente più stereotipato e abbozzato, i personaggi e le loro storie sono prestati all’esigenza di far vedere l’azione e di metterla al centro della pellicola. È infatti un film molto più veloce, più tendente al disastro, con più dinosauri feroci, conseguente sangue e morte, e scene forzatamente estreme, come


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il finale con il Tirannosauro a spasso per San Diego. Spielberg commissionò appositamente a Crichton un seguito del suo “Jurassic Park”, una prima volta per lo scrittore americano, ma si discostò poi ampiamente dal romanzo, prediligendo, come detto, la realizzazione di un film più spettacolare ma meno elaborato del precedente. Tale aspetto fu possibile anche per l’idea di ambientare il libro prima e il film subito dopo su un’isola gemella a quella del parco, dove però non esistevano recinzioni e gli animali erano liberi di vivere la loro indole selvaggia, spesso aggressiva e mortale per l’uomo. In sostanza, quindi, stiamo parlando di un film meno interessante, ma non per questo da cestinare. Gli effetti speciali sono nuovamente all’avanguardia e giovano naturalmente di quattro anni di storia, vediamo dinosauri realistici e vivi, meno rigidi e anche più intelligenti. Gli sceneg-

giatori, inoltre, avendo capito le enormi potenzialità dei preferiti dal pubblico, il Tirannosauro e il Velociraptor, hanno deciso di proporli in numero maggiore e renderli sempre più feroci e protagonisti, soprattutto il primo, che come per “Jurassic Park”, è la star assoluta anche di questo “Mondo Perduto”. Passano altri quattro anni e la Universal decide che è il momento di riproporci ancora un film giurassico, ampliando così ulteriormente la saga. Il 2001 è l’anno di “Jurassic Park III”. Spielberg diventa produttore esecutivo e lascia il testimone della regia a Joe Johnston, i risultati sono parecchio deludenti. Il film incassa meno del previsto ed è un flop anche sul piano artistico. La storia sa di riciclato e già visto, il pretesto per riportarci sull’isola del secondo film è quanto meno forzato e insulso, i personaggi sono dimenticabili in un batter d’occhio

(lo stesso Professor Grant/Sam Neill sembra demotivato e fuori posto), e i dinosauri non riescono a emozionarci come dovrebbero, nonostante – forse a causa – un utilizzo massiccio della computer grafica, che li rende decisamente più artificiali e finti. La decisione poi di sostituire il Tirannosauro con lo Spinosauro come carnivoro e cacciatore dominante, si rivela parecchio infelice. I fan della saga, infatti, non riescono affatto a riconoscersi nella nuova star giurassica e la pellicola perde ulteriormente interesse. In sostanza, un film di passaggio che non lascia alcuna traccia di sé. Un semplice pretesto per farci nuovamente vedere i dinosauri, l’azione e il sangue, senza nessuna evoluzione del filone narrativo e della storia, puro intrattenimento fine a sé stesso che risulta, a dire il vero, stucchevole e insulso. E con questo terzo capitolo sembra chiudersi definitivamente la

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saga, in palese declino rispetto al 1993. E invece... Siamo nel 2015 e pochi giorni fa è uscito “Jurassic World”. Dopo quattordici anni Hollywood ha pensato che, in fondo, i dinosauri avessero ancora qualcosa da dire... E ha avuto ragione. Il film è infatti già un successo planetario, si sta rivelando un vero e proprio boom ai botteghini incassando in tutto il mondo e riempiendo i cinema giorno dopo giorno. Sono trascorsi ben ventidue anni dal capolavoro di Spielberg e oggi il parco sognato da John Hammond ha finalmente aperto i battenti, accogliendo milioni di visitatori entusiasti di poter vedere le meraviglie del mondo giurassico. Ma all’uomo questo non basta e, per accrescere ancor di più i già consistenti guadagni, si inventa il dinosauro geneticamente modificato, l’ibrido,

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un mix di varie razze che genera un animale “nuovo”, un ferocissimo predatore assetato di sangue che “uccide per il gusto di farlo” e che, ovviamente, crea l’immancabile scia di disastri, sangue e morte. Diretto dal semi debuttante Colin Trevorrow, sempre con Spielberg produttore esecutivo, il film è un cocktail di citazioni dell’originale – al quale si ispira dichiaratamente ignorando volutamente i due sequel -, di computer grafica in dose più che massiccia, che rende sempre più artificiali i rapporti tra dinosauri e uomo, di azione in quantità e di cliché di successo per il genere. Nel complesso, però, è un altro capitolo della saga, l’ennesimo, altamente sottotono. Rispetto al precedente è certamente più interessante, se non altro presenta qualche personaggio simpatico e

la storia ha un suo senso e qualche tratto di originalità, la sensazione però è di una grande occasione persa: si poteva fare molto di più. Dopo così tanti anni di attesa, lo sviluppo sarebbe potuto essere differente, magari impostato maggiormente sugli incidenti del passato e sull’evoluzione di quegli incidenti, anche con una crescita maggiore dei personaggi e qualche richiamo in più ai precedenti. La produzione ha invece virato, come accennato, sulla cancellazione simbolica dei primi due sequel ed esclusivi continui riferimenti al primo film. Una scelta che si può condividere, a patto però che questi riferimenti (scene pressoché identiche, dinosauri che tornano alla ribalta, la ripresa dei temi della colonna sonora di John William) non fossero, come invece è stato, esclusivamente dediche per


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i fan accaniti, ma anche maggior attenzione alla storia originale, con uno sviluppo meno superficiale e più elaborato. Peccato. Senza fare ulteriori e invasivi spoiler, non mi sento comunque di sconsigliare la visione del film. Lo ripeto, c’è qualche spunto interessante e anche qualche tratto originale, e se non altro soddisfa la fame di rivedere quegli scenari e quelle storie. Tutto questo, forse, può bastare per pagare il prezzo del biglietto. Dunque, al termine di questo breve viaggio, torniamo alla domanda che fa da titolo all’articolo e proviamo adesso a darne una risposta il più completa possibile: cinema giurassico, evoluzione o estinzione? Sicuramente non la prima, altrettanto certamente nemmeno la seconda. I dinosauri sul grande schermo piacciono ancora e mol-

to, infatti si parla già di un quinto capitolo, o per meglio dire di una nuova trilogia che riparta da questo “Jurassic World”. Quindi il discorso estinzione, per il momento, non è contemplabile. I fan della serie di ieri, infatti, magari bambini all’epoca del primo film, e quelli di oggi, nati da poco, dimostrano che la passione per i dinosauri è tutt’altro che estinta e prescinde dalle generazioni. Di contro però, dimentichiamoci almeno per il momento anche il discorso evolutivo. Trame e personaggi si sono sempre più appiattiti e l’unico interesse risiede nel far vedere più effetti e azione possibili. La cura nei dettagli e la magia dell’atmosfera del film di Spielberg sono del tutto tramontati. È in corso una nuova era giurassica, più ritmata e meno ragionata, più frenetica e meno introspettiva. I ritmi dell’originale, al-

meno della prima parte, con un cambio comunque evidente nella seconda, non possono probabilmente esistere più. Facendo un po’ di filosofia spicciola, possiamo dire che i sequel si sono via via adattati al mondo che li ospita, più veloce e più superficiale, e paradossalmente anche animali estinti da milioni di anni si sono dovuti adeguare a questa frenesia. Più finti, più superficiali, di grande impatto ma poca anima. Ma con egual successo, almeno per ora.

Matteo Ghidella

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MONOLOGHI PRECARI E INSODDISFATTI Una domanda un po’ assurda ma, a pensarci bene, chiara e motivata: perché non sono un sasso? Una cosa non viva, statica, ferma, immobile, senza problemi, senza ambizioni. La vita, forse, sarebbe molto più semplice se Matteo Gemmi, protagonista di questo esordio di Gianni Agostinelli, fosse davvero un oggetto inanimato e non un trentenne rimbalzato dalla vita, fragile quanto disilluso, afflitto, disoccupato e privo di ogni sogno e tensione verso un cambiamento, un futuro, una differenza produttiva. Dopo aver abbandonato gli studi in filosofia e aver cercato lavoro con poca convinzione, trovando esclusivamente posti precari che lo hanno visto poco partecipe e interessato, Matteo, contraddistinto da una spiccata tendenza all’isolamento e alla metariflessione, è ossessionato da un pensiero martellante: quello del posto fisso. Quale metafora più acuta e intensa per parlare attraverso la narrazione e una storia singola, dei giorni nostri? Matteo si guarda intorno e sa, e vede, rari contratti a tempo indeterminato che, nel grande calderone della vita delle cosiddette “persone normali”, sembrano una meta impossibile. Vuoi per le concrete e stereotipiche caratteristiche del mercato del lavoro contemporaneo, vuoi per una profonda mancanza di ambizioni che caratterizza questo personaggio – simbolo

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di un certo tipo di giovane d’oggi - ripiegato su se stesso di fronte al muro che lo separa dagli “altri”. Altri che osserva però con cura, nei dettagli, cercando forse di recuperare ciò che manca a lui per essere come loro, vivere – o fingere di vivere – una vita normale che non preveda giornate pressoché vuote e ripetitivi pranzi a casa della mamma, dove ancora vive. Stereotipica anche questa immagine, come le tante che costellano l’intero romanzo, appositamente incasellate nel mosaico di una vita fallita. Gli altri, un’ossessione e un esempio perfetto e “da posto fisso” che porteranno il protagonista a trasformarsi in quello che potremmo definire un vero e proprio voyeur. Invece di cercare di vivere una vita propria, Matteo sperimenta il piacere sottile di vivere vite diverse dalla sua attraverso l’osservazione ossessiva degli altri. E così si mette in macchina e giorno dopo giorno ripercorre le tappe della quotidianità di una serie di personaggi, di cui arriva a conoscere le abitudini, i luoghi. Gli altri rappresentano ciò che lui non è e non è riuscito a essere, oltre quel traguardo raffigurato come un’ipotetica realizzazione della propria vita, il posto fisso come emblema, l’inconcludenza come grammatica. Il linguaggio di questo romanzo è un tutt’uno con la sua storia di ossessione, osservazione e tendenza all’immobilità: lo sguardo di Matteo,

protagonista attraverso la cui voce ci inoltriamo nella storia, è vigile e mobile, guidato da cliché che contribuiscono paragrafo dopo paragrafo ad alimentare anche l’ironia, che in qualche modo è un’ancora di salvezza alla discesa narrata da questa storia e al vuoto del personaggio. Il suo è un monologo, denso di espressioni e sintagmi del parlato, quasi un flusso di coscienza sospeso, paradossalmente incosciente nei momento in cui la testa di Matteo pensa e scrive, mentre il corpo agisce senza che avvenga un reciproco e continuativo scambio, quello che dovrebbe garantire equilibrio, saggezza, o per lo meno una forma di maturità. Insomma, la pienezza di una vita. Invece Matteo Gemmi una vita non ce l’ha, è un’ombra vuota e incolore chiusa in un guscio di cui dipinge le pareti. Le difficoltà del quotidiano hanno innescato, in complicità inossidabile con la sua indole riflessiva e solitaria, un meccanismo distruttivo di negazione e impossibilità. La sua è una ricerca senza ambizione: di lavoro, di scoperte, di senso. Mollata l’università e incapace di trovare un suo posto nel mondo, Matteo gira in macchina, spiando persone con la colonna sonora unica delle canzoni dei Festival di Sanremo degli anni Novanta. Un ennesimo stereotipo, ironico quanto simbolico, di quella distruzione e di quella vita altrui così normale, con quel posto fisso e quella stabilità economica, ma so-


BOOKS prattutto esistenziale, che il mondo moderno sembra voler negare separandola dalle vite comuni attraverso una serie invisibile di ostacoli insormontabili.

A lessandra Chiappori

“Tutti il posto fisso. E pure io, come ho detto più di una volta, voglio il posto fisso. Ma mica per tutti, per me. Come loro, lo vogliono per sé. Perché poi quando càpita, non càpita eh, ma quando a qualcuno càpita, che diventa un lavoratore con contratto a tempo indeterminato succede che quello esce dal corteo e il sabato pomeriggio riempie il carrello, spulcia il sito di Ryanair per il ponte di Ognissanti, e la sera quando c’è un dibattito politico comincia a sbadigliare e domanda alla moglie se ha chiuso la porta a chiave”

Gianni Agostinelli, “Perché non sono un sasso”, Del Vecchio, 2015

Gianni Agostinelli Finalista al Premio Calvino 2014 con questo suo primo romanzo, Gianni Agostinelli, classe 1978 e originario di Panicale, nella provincia perugina, è giornalista ed ex libraio. Il mondo delle lettere non è quindi una novità assoluta per lui, che si è distinto in passato con racconti pubblicati da varie riviste, alcuni diventati un ebook per «Zibaldoni e altre meraviglie». Suoi scritti sono apparsi su “Nazione Indiana”, “Atti impuri”, “Nuova Prosa”, “Granta Italia”, “Doppiozero”.

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ESTATE AL MUSEO EGIZIO Ormai riaperto da qualche mese, il rinnovato Museo Egizio di Torino ha già conquistato tutti. Il secentesco palazzo di via Accademia delle Scienze ospita oggi uno spazio espositivo modernissimo collegato da scale mobili e arricchito da allestimenti accattivanti. La giusta veste museale per una collezione tra le più importanti al mondo, quella di antichità egizie, da sempre vanto della città di Torino e da sempre studiatissima, tanto da far dire al celebre decifratore dei geroglifici Jean-François Champollion: “pour moi le chemin de Memphis et de Thèbe passe par Turin”. Sebbene i primi reperti risalgano ad acquisizioni secentesche, il nucleo fondante della collezione è ottocentesco (la raccolta di Bernardino Drovetti, console di Francia in Egitto per volere di Napoleone, che fu acquistata da Carlo Felice di Savoia) arricchito dai ritrovamenti e dagli acquisti seguiti alle spedizioni in Egitto effettuate tra fine Ottocento e la prima metà del Novecento. La collezione del Museo viene principalmente mostrata, durante il percorso di visita, secondo un andamento cronologico che va dalla cosiddetta epoca predinastica fino all’età romana. Gli ambienti espositivi all’entrata hanno il compito di introdurre il visitatore alla storia del Museo e ai principali protagonisti delle sue vicende. Il primo reperto esposto incuriosisce

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immediatamente: si tratta della Mensa Isiaca che, arrivata a Torino nel 1628, diede in un certo senso inizio a quella egittomania che portò in seguito al desiderio di costituire una più consistente raccolta di antichità egizie. Un falso, realizzato a Roma nel I secolo d. C, con tanto di geroglifici indecifrabili perché del tutto inventati. La visita inizia e lo spettatore impara a conoscere questa antica e complessa civiltà tramite manufatti e reperti di vario genere: dagli oggetti di uso quotidiano alle sepolture, dagli ornamenti, alle statue, ai papiri... Vere e proprie tombe sono ricostruite, come quella di Iti e Neferu, con tanto di decorazioni parietali a tempera asportate dal sito originario con la tecnica dello strappo e ricomposte in museo, o la tomba del pittore Maia con le sue straordinarie illustrazioni dei riti funebri. E ancora la statuaria, i monumentali coperchi di sarcofagi antropoidi, le pesantissime statue monolitiche che arrivarono passando per gli Appennini su carri d’artiglieria –gli unici in grado di sopportarne il peso - trainati da decine di cavalli. Il percorso si conclude con i suggestivi ambienti creati dallo scenografo premio Oscar Dante Ferretti, e con la ricostruzione del tempietto di Ellesiya, scavato nella roccia e donato all’Italia dalla Repubblica Araba d’Egitto nel 1970, per il significativo supporto tecnico e scientifico fornito

durante la campagna di salvataggio dei monumenti nubiani, minacciati dalla costruzione della grande diga di Assuan. L’Egizio è dunque finalmente tornato a rivestire il suo ruolo di grande attrazione per il pubblico, unendo all’approccio storico e filologico nei riguardi di un patrimonio straordinario un’esposizione moderna e immediata che non manca mai di catturare l’attenzione e l’interesse dei visitatori. Imperdibile.

Roberta Colasanto


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ARTINTIME CINEMA (ANCHE) D’ESTATE CON PIEMONTE MOVIE È stata inaugurata lo scorso 19 giugno e proseguirà fino al 23 agosto la stagione estiva di proiezioni cinematografiche nei presidi locali del Piemonte Movie gLocal Network. 25 proiezioni e 4 province, intrecciate con altrettante occasioni di svago e approfondimento, diverse tra loro e inserite in cornici dedicate, per non perdere il buon vizio del cinema neanche in estate. Artintime ha avuto il piacere di fare quattro chiacchiere con Alessandro Gaido, direttore generale delle attività di Piemonte Movie, per scoprire meglio l’offerta della rassegna estiva e conoscere da vicino le attività e l’impegno dell’associazione. La rassegna estiva di Piemonte Movie prevede proiezioni fino a fine agosto in 4 province e 5 presidi cinematografici locali. Di cosa si tratta? Potremmo dire che si tratta della nostra programmazione annuale, che vuole portare il cinema fatto in Piemonte in giro per il Piemonte. Abbiamo una programmazione invernale che punta su alcuni presidi cinematografici locali, le zone dove noi lavoriamo e dove abbiamo dei

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referenti che organizzano i cineforum in collaborazione con le comunità locali. Questa che proponiamo ora è la nostra parte estiva, se vogliamo un po’ più leggera come tipo di programmazione, durante la quale ai film realizzati in Piemonte – cortometraggi, documentari, lungometraggi – viene anche affiancata una programmazione più classica, di distribuzione nazionale o anche internazionale. Piemonte Movie organizza infatti ogni anno un gLocal Film Festival, che già dal nome sottolinea il legame con il territorio. Quale è la vostra mission per il Piemonte? È molto semplice: il nostro mantra è la promozione e diffusione del cinema realizzato in Piemonte, a cui si affianca anche il voler portare il cinema laddove per mille motivi non c’è più o perché hanno chiuso le vecchie sale cinematografiche, o perché ci sono soltanto multisale. Noi andiamo nei paesini e nelle cittadine dove era presente una cultura cinematografica, magari c’erano dei piccoli cinema che ora non ci sono più. In alcuni casi que-

ste strutture sono ancora esistenti, ma non più con una programmazione fissa in ogni momento dell’anno: a Cherasco per esempio c’è un bellissimo cinema storico che viene utilizzato molto poco. In altri casi queste sale sono state chiuse o trasformate e così ci adattiamo a fare delle proiezioni negli auditorium, nei teatri, organizzando delle mini stagioni cinematografiche. E soprattutto portando i film dei registi che hanno realizzato questi film in Piemonte. Ci saranno anche delle proiezioni legate al gLocal festival nella vostra rassegna estiva? Assolutamente sì, non abbiamo portato in estate il prodotto documentario, è difficile per una stagione in cui la gente vuole qualcosa di più leggero e si è all’aperto. Ma ciò nonostante abbiamo “Qui” di Gaglianone, un documentario importante che è passato anche al Torino Film Festival. Lo proiettiamo in due occasioni, una a Carignano, in apertura della rassegna “Diritti & Rovesci” e una a Grugliasco nella rassegna “Cascina Duc”. E in più, cosa molto più semplice da portare in estate, ci saranno molti cortometraggi tra quelli che


INTERVISTANDO

sono passati al Piemonte Movie gLocal Film Festival e che hanno vinto premi: saranno messi in programmazione a precedere i lungometraggi.

Mitton rispondeva proprio a questa caratteristica, anche se ormai vive all’estero, e gli assegneremo il premio durante la serata del 30 luglio dopo la proiezione del film.

A Cherasco ci sarà inoltre Paolo Mitton, autore importante per il suo film indipendente “The Repairman”, a cui sarà consigliato un premio… Sì, Cherasco è il nostro primo presidio storico nato nel 2010 ed esempio per la successiva realizzazione da parte nostra di altri presidi del genere. A Cherasco manteniamo da tre anni un premio, organizzato in collaborazione con il Museo del Cinema e con la Film Commission Torino-Piemonte che si chiama Talenti Emergenti. È un premio nazionale, ma cerchiamo spesso, quando riusciamo, ad abbinare talenti emergenti conosciuti a livello nazionale che siano anche piemontesi. Paolo

C’è qualche curiosità legata alle varie rassegne estive? Più ancora della rassegna legata al cibo, che è molto importante perché ci ha dato la possibilità di esplorare un nuovo territorio, quello del Lago d’Orta, insieme alla preziosa collaborazione con l’ecomuseo del Cusio e le pro loco locali, mi piace sottolineare la rassegna che realizzeremo a Carignano, in collaborazione con l’associazione Trame che attualmente sta lavorando per l’ospitalità dei profughi. Non a caso l’abbiamo chiamata “Diritti & Rovesci”, perché sono tutte tematiche legate ai diritti civili o comunque diritti umani. A questa rassegna parteciperanno anche

ragazzi che arrivano dalle zone più sfortunate del mondo, a Carignano sono ospitati in 60, e faremo le proiezioni con sottotitoli in inglese anche per loro, sarà un importante momento di integrazione sociale.

Alessandra Chiappori

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La maratona cinematograca estiva di Piemonte Movie Questi i luoghi del cinema estivo di Piemonte Movie: Carignano, Grugliasco, Moncalieri (Provincia di Torino), Cherasco (Provincia di Cuneo) e il comprensorio del Lago d’Orta (Novara e Verbano Cusio Ossola). Sul sito www.piemontemovie.com trovate l’elenco completo con le date delle proiezioni, qui vi forniamo un assaggio delle diverse rassegne che proseguiranno nei mesi di luglio e agosto. Nei sette comuni del Lago d’Orta - Armeno, Bolzano Novarese, Invorio, Miasino, San Maurizio d’Opaglio, Soriso (Novara) e Casale Corte Cerro (Verbano Cusio Ossola) – “Ciak… si cena”, ha selezionato una serie di titoli dedicati al gusto e alla buona tavola. La rassegna è a ingresso libero, è realizzata in collaborazione con l’Associazione La Traccia, l’Ecomuseo Cusios e le proloco locali e proseguirà fino al 23 agosto. “Diritti & rovesci” è invece il titolo della rassegna di Carignano (Torino): fino al 15 luglio proiezioni in collaborazione con l’Associazione

Trame e con la Compagnia teatrale Fric – Filo2, aperte da una selezione di cortometraggi di Piemonte Movie. che sta operando sul territorio nel campo dell’accoglienza profughi. Dal 3 al 31 luglio ogni venerdì “Take the Train” in un viaggio attraverso i generi cinematografici all’aia della Cascina Duc di Grugliasco. Le proiezioni si svolgono nell’ambito di “La Nouvelle Vache”, goliardica manifestazione realizzata in sinergia con l’Associazione ColoriQuadri e il Muuh Film Festival, e con il sostegno della Città di Grugliasco. Infine Cherasco, storico presidio, proietterà il 23 luglio “Grand Budapest Hotel” di Wes Anderson, apripista per sette film e per “The Repairman”, esordio alla regia del torinese Paolo Mitton che, giovedì 30 luglio, verrà insignito del “Premio Talenti Emergenti Città di Cherasco”. Gran finale il 23 agosto con la presentazione dell’ultimo film del giovane regista cuneese Sandro Bozzolo “Ilmurràn - Maasai in the Alps”.

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ARTINTIME

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TEATRO teatro@artintime.it

FINISCE UNA STORIA D’AMORE, MA INIZIA UN GRANDE SUCCESSO Ventinove anni e una passione coinvolgente per il teatro che sin dall’infanzia spinge Giulia Pont a dedicarsi a quest’arte. Nata a Torino, presto Giulia capisce che le materie scolastiche non le interessano così tanto come imparare a memoria i più celebri monologhi teatrali del repertorio classico. Anche la sua famiglia deve fare i conti con questa passione, finché non è lei a chiarire apertamente che questa sarà la sua ragione di vita. Giulia ha frequentato il Dams nella sua città natale e nel frattempo si è diplomata all’Atelier Teatro Fisico di Philippe Radice, tra i suoi più importanti maestri. Il successo, per una come lei, così determinata, non si fa attendere: nel 2012 vince il concorso di monologhi Uno di Firenze con lo spettacolo “Ti lascio perché ho finito l’ossitocina”. Con lo stesso titolo si presenta l’anno successivo al Torino Fringe Festival; il pubblico accoglie la

sua performance positivamente e il successo appare dichiarato fin da subito. Oltre cinquanta repliche per un monologo che incarna in palcoscenico le situazioni tipiche di una coppia che scoppia; Giulia in palcoscenico oltrepassa la parete che la tiene distante dal pubblico e comincia a dialogare con esso, in una simpatica e incalzante terapia in cui i ruoli si ribaltano: lei paziente, il pubblico terapeuta, si scambiano battute sulle motivazioni di una rottura sentimentale. Giulia Pont è giovane e la sua freschezza non passa inosservata. Usa la parola e la trasforma giocando con i significati creando sagaci raffiche e giochi di cinismo verbale, e la sua autoironia, al limite tra l’introspezione e l’assurdo, crea immedesimazione e complicità con il pubblico.

Barbara Mastria

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ARTINTIME fromlondon@artintime.it

AT BFI SOME LIKE IT HOT The British Film Institute, known as BFI, is bringing sexy back with its summer programme dedicated to Hollywood’s most enduring sex symbol, Marylin Monroe. Surely the best season to enjoy the finest work of such a passionate and iconic star. Born the first of June 1926 and died, at the early age of 36, the 5th of August 1962, Marilyn embodies summer. Her flourishing beauty and youth, paused forever and sacredly locked in our minds, make her the queen, or even better, the goddess of summer. The curators Helen de Witt and Laura Adam picked a series of popular movies to celebrate Monroe’s performances: The Misfits, Bus Stop, Some Like It Hot, The Seven Year Itch, The Prince and the Showgirl, There’s No Business Like Show Business, How to Marry a Millionaire, Let’s make Love. If these titles don’t ring a bell then you are missing out on some great fun. The event that provides in-depth discussion on the Marilyn phenomena is completely sold out, proving that her cultural significance is still untouched nowadays. She was blessed with her beauty but nothing came easily in building this modern myth. Far from being the dumb-blonde stereotype that the studios wanted her to play, Marilyn stood up for herself, got back to study at The

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Actors Studio even after the amazing success, took control over her career and proved everyone that she was a Golden Globe type of actress. Although, she was very insecure, seeking for approval, fighting the ghosts of her past and the nightmares of a future with no kids in it. She evolved from Norma Jeane Baker to the pin-up shaped sex symbol, the object of every men’s desire. She fulfilled the American Dream. She mastered the art of make-up creating an image loved by every camera. Her posture, her semi-closed eyes, her quivering mouth open a signature of sex appeal. That’s why she was a muse for photographers such as Richard Avedon, Cecil Beaton, Bert Stern, Milton Green, Sam Shaw and Douglas Kirkland. Her image transcended her films and inscribed her in pop culture. However her stardom came at substantial personal cost. The media coverage on her private life events was enormous, she was under a magnify glass 24for7. Her gentle soul was crushed by it, the industry that helped her getting out the obscurity, was now sinking her. To cope with the pressure she became addicted to alcohol and prescription drugs. Her cheerful smile shadowed by deep sadness. To quote her character’s line from Some Like It Hot: “All the girls drink. But I am the one

that get caught. Story of my life”. A tragic life, a complicate person who left behind so much joyfulness in her work. --------------------------------------------Il British Film Institute, conosciuto come BFI con sede a Southbank, rispolvera la sensualità con la sua programmazione estiva dedicata alla più longeva figura di sex symbol di Hollywood: Marilyn Monroe. La stagione di certo è la più indicata per gustarsi le migliori performance dell’iconica star. Nata il primo giugno 1926 e scomparsa, alla giovane età di 36 anni, il 5 agosto 1962, Marilyn simboleggia l’estate. La sua prosperosa bellezza e giovinezza, per sempre interrotte e conservate religiosamente nelle nostre menti, fanno di lei la regina, o meglio la dea dell’estate. Le curatrici della retrospettiva, Helen de Witt e Laura Adam, hanno scelto una selezione tra le pellicole più popolari dell’attrice: Gli Spostati, Fermata d’autobus, A qualcuno piace caldo, Quando la moglie è in vacanza, Il principe e la ballerina, Follie dell’anno, Come sposare un milionario, Facciamo l’amore. Se nessuno di questi titoli vi suona familiare, vi state perdendo del grande intrattenimento. Inoltre, l’evento organizzato per confrontarsi sul fenomeno Marilyn è tutto esaurito, a testimonianza che la rilevanza culturale della attrice è a tutt’oggi indiscussa.


FROM LONDON

La sua bellezza è una benedizione, ma nulla le è arrivato facilmente durante l’ascesa a mito moderno. Molto diversa dallo stereotipo di stupida bionda che gli studios amavano farle interpretare, Marilyn ha preso in mano il suo destino, decidendo di studiare all’Actors Studio persino dopo lo sfavillante successo di cui già godeva. Ha scelto di controllare lei stessa la sua carriera provando a tutti di essere una attrice degna dell’Oscar. Nonostante ciò era una persona molto insicura e fragile, costantemente alla ricerca di approvazione, in lotta con i fantasmi del suo passato e gli incubi di un futuro privo di eredi. Si è evoluta dal brutto anatroccolo Norma Jean Baker allo stupendo sex symbol dalle curve da pin-up, oggetto del desiderio di ogni uomo sulla terra. Ha portato a compimento il sogno americano. Ha affinato la sottile arte del perfetto make-up

creando un’immagine di se stessa che ogni macchina fotografica esaltava. La sua postura, i suoi occhi semi chiusi, la bocca sensualmente dischiusa, tutto fa parte del suo indistinguibile sex appeal. Per questo divenne musa di innumerevoli fotografi, da Richard Avedon a Cecil Beaton, da Bert Stern, a Milton Green, per finire con Sam Shaw e Douglas Kirkland. La sua immagine trascende le pellicole di cui è protagonista per inscriversi nella cultura popolare. Tuttavia il successo arrivò seguito da costi non indifferenti. La sua vita privata era sotto una lente di ingrandimento ventiquattro ore al giorno, sette giorni su sette. Il suo animo gentile fu duramente messo alla prova, l’industria dello spettacolo che l’aveva innalzata al ruolo di diva togliendola dall’oscurità dell’anonimato si cibava delle sue debolezze personali è la spin-

geva verso l’abisso. Per resistere alla pressione costante fece ricorso all’alcool e agli anti depressivi cadendo in una spirale autodistruttiva. Il suo dolce sorriso offuscato dall’ombra di una profonda tristezza. Per citare una frase del suo personaggio in A qualcuno piace caldo: “Tutte le ragazze bevono. Ma io sono quella che viene beccata. È la storia della mia vita” Una vita tragica, una persona complicata che ha tuttavia lasciato tanta

Cristina Canfora

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ARTINTIME IL MONDO SOMMERSO DEL GIORNALISMO DIGITALE Quando chiedo di farmi un esempio di giornalismo digitale, molte delle persone che interpello rispondono citando Snow Fall. Per chi non lo conoscesse si tratta di un reportage immersivo e molto elaborato, prodotto dal New York Times, qualche anno fa. Un esempio perfetto di giornalismo del futuro, fatto di longstories e di tanti linguaggi espressivi in grado di mischiarsi e intersecarsi tra loro. Un lavoro durato sei mesi, realmente interattivo, a cui hanno collaborato costantemente quindici professionisti. Un eccellente prodotto che ha permesso al più importante quotidiano del mondo di vincere il premio Pulitzer nel 2013. Ma un progetto simile è possibile anche in Italia? Ovviamente la risposta che ricevo è assolutamente banale: “no, mancano le risorse finanziarie per portare avanti un progetto di questo tipo. In molti casi anche le competenze tecniche”. Ho sempre pensato che questo ritornello fosse semplicistico, adatto a liquidare il problema, perfetto per “ignorare l’elefante in mezzo alla stanza”. Nella maggior parte dei casi, infatti, si tratta solo di paura (e forse di pigrizia). L’immobilismo come forma di difesa; il conserva-

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torismo come ultimo baluardo di chi non ha intenzione di cambiare (e di rischiare). I linguaggi e gli strumenti alternativi, già disponibili per i giornalisti di oggi, vengono utilizzati nel nostro Paese con il contagocce. Sono così sporadici da non esistere nell’immaginario del lettore medio. Sono ombre, semplici entità intangibili. Agli inizi del 2015, Journalism Tools (cercate il suo profilo su Twitter e Medium) pubblicò sul web una piattaforma per festeggiare un primo considerevole traguardo: il follower numero diecimila. In quella occasione decise di condurre un’inchiesta che constava di tre consigli da sottoporre a trenta esperti digitali: quale fosse lo strumento più utile, quello più innovativo e quello meno conosciuto (ma preziosissimo) per il lavoro quotidiano di cronisti, social media editor, content manager (etc etc..). La cosa più interessante, emersa subito ai miei occhi, stava nel fatto che tra tutti gli esperti non ci fosse neanche un italiano. Nonostante la scelta fatta sia stata molto variegata e i paesi rappresentati siano moltissimi. Un indizio forte, rumoroso. Un’assenza che permette di capire quanto

sia diventato pesante il nostro ritardo nei confronti di numerosissime altre realtà internazionali. Negli ultimi dieci mesi ho dunque iniziato un percorso per capire che cosa oggi venisse offerto a un giornalista digitale. E ho trovato un universo parallelo inaspettato, degno di mondi come Narnia. Un paradiso di possibilità, di strumenti, di mezzi espressivi capaci, già adesso, di rivoluzionare il mondo dell’informazione. Anche in Italia. Se solo lo volessimo. Strumenti che variano per settore e categoria: storytelling, video, foto, social, data... Insomma, una vera miniera d’oro. Soprattutto perché in grado di sgonfiare le obiezioni poste all’inizio di questo ragionamento. La maggior parte di essi, infatti, sono free o freemium (in parte gratis, in parte a pagamento), con costi certamente abbordabili per una testata di valore. In più la maggior parte di questi può essere usata senza scrivere neanche una linea di codice. Senza cioè masticare di programmazione o linguaggi tecnici. C’è bisogno solo di voglia, interesse e una dose massiccia di costanza. L’ultima cosa da rimarcare è il modo con cui questi tools, piattaforme o applicazioni, vengono realizzati: in molti casi si tratta di startup con team


GIORNALISMO DIGITALE

multidisciplinari, multi etnici, dislocati nel mondo. Molti hanno ricevuto diversi e consistenti round di finanziamento (anche svariati milioni di dollari) e sono stati sviluppati anche grazie all’intervento di investitori e business angel. Sono riconosciute come idee di valore, su cui puntare. In Italia tutto ciò si verifica con assai meno frequenza e le cifre che girano non sono certamente le stesse. E ora però di fare qualche esempio. Provate shorthand per i vostri racconti lunghi; tiki tojki per le timeline; videolicious per i video; tableau public per fare data journalism; canva per ritoccare le vostre foto; mapbox o carto db per costruire mappe interattive e tematiche; thinglink per unire più materiali partendo da un’immagine. Sono consigli che possono mostrarvi la semplicità

e l’efficacia (nonché le prospettive) di quello che essi potrebbero fare. E questa è solo la piccolissima punta di un iceberg che nasconde un sommerso sempre più difficile da ignorare. Anche se in Italia, dove la parola cambiamento si pronuncia con grande cautela, proviamo ancora a farlo con esasperata e cieca insistenza.gaiezza nei suoi lavori.

Alessandro Frau

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ARTINTIME music@artintime.it

SUNTIAGO Roma, 2010. Giovanni Ciaffoni (alla voce e chitarra), Stefano Danese (al basso) e Nahuel Rizzoni (alla batteria), fondendo insieme due band già esistenti, Sundowner ed Embrione, danno vita a un nuovo progetto, i Suntiago. Nel 2011 esce il loro primo EP, “12:34”, in italiano, ma liberamente ispirato al rock britannico. Carico di ritmi che già dal primo ascolto rimangono impressi nella mente, questo primo lavoro mostra da subito il talento della band. L’ispirazione quasi swing di “Maschere”, la melodia di “Daisy” e la solarità di “Suntiago”, quasi un manifesto del mondo che la band vuole mostrare, sono solo il primo assaggio di quello che la formazione romana ha da dire. Anno 2013, distribuite da Audioglobe arrivano le tredici tracce del primo album della band: “SPOP”. Un pop sporco, eclet-

tico, che spazia dal funk (“Linea sottile”) al rock, passando per il ritmo tribale di “Africa”, per il sound quasi elettronico di “Seguimi”, per il fascino e l’intimità di “Viola” e di “Spogliami”, e il profumo d’oriente di “L’ultima volta”. La band romana ha fatto il grande passo, e piace. Nel 2013 vince il premio di Exit Well e nel 2014 il concorso Arezzo Wave Ius Soli. Con oltre 80 concerti in tre anni, forti della loro esperienza live e delle contaminazioni che negli anni hanno influenzato il loro sound, i giovani artisti romani sono ormai inarrestabili. A riprova uno dei loro ultimi lavori: la collaborazione con Daniele Coccia, cantante de Il Muro Del Canto, e la versione sperimentale, dal sapore rock, di “Un Ottico” di Fabrizio de André. So, premete il tasto play and... Enjoy!

Angelica Magliocchetti

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MUSIC

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ARTINTIME books@artintime.it

STORIA DELLA MAGIA DELLE PAROLE C’era una volta San Paolo del Limone, archetipo di una città sudamericana la cui storia e origine leggendaria affonda nel ricordo di vicende miscelate a religione, credenza, necessità storica, in una narrazione marmorizzata e persa nel tempo, storicizzata, appunto, o forse semplicemente romanzata, proprio come certe realtà. Su questo sfondo c’è Octavio, picaresco protagonista di questa storia giovane per l’età dell’autore, ma al contempo così compartecipe della storia, della cultura, e della letteratura sudamericana. Più piani narrativi scorrono insieme alle pagine: la vicenda reale, filosofica ed esistenziale di Octavio, la storia della città che si sviluppa e della sua bidonville intessuta di povertà, diseguaglianza, fede e tradizione, la storia della scrittura, che si stende come un raggio di sole a illuminare, e a raccontare il mondo che incontra. “La straordinaria capacità del linguaggio di possedere il mondo” è la chiusura della quarta di copertina che avvia alla scoperta di questo universo letterario. Octavio, personaggio schivo e, all’inizio di questa vicenda, analfabeta, intraprende passo dopo passo un viaggio concreto e metaforico alla scoperta di sé e del mondo. Attraverso l’amore di una donna si accende di voglia di scoprire, e impara a leggere e scrivere liberandosi da quell’onta che lo costringeva cittadino di apparenze mai comprese davvero fino in fondo.

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Ma la metanarrazione, la storia di Octavio come scrittura e scoperta del suo potere descrittivo, è un livello per lettori già più arguti, in cerca di significati metaforici. Ancora prima di questo approccio critico, a monte della costruzione letteraria, il viaggio di Octavio porta con sé una magnetica forza attrattiva, quella della magia. Non a caso questo esordio di Miguel Bonnefoy è stato associato al realismo magico. Come non pensare, allora, al Sud America di Garcia Marquez, a tutto quell’inspiegabile apparato di fenomeni non reali, inseriti nella cornice della saga familiare di “Cent’anni di solitudine”? C’è il Sud America, certo, c’è il suo potente apparato mitologico e religioso a fare da sfondo alle storie, la stessa religiosità umana e mistica che accompagna Octavio, di vicenda in vicenda seguito da stranezze che il lettore, stretto un patto con il mondo magico del libro, accetta, affascinato e piacevolmente stranito. La vicenda di Octavio, redento dall’amore per Venezuela, colta donna di teatro grazie alla quale troverà una chiave di accesso al mondo, non ha però dinnanzi uno svolgimento lineare. A interrompere la storia d’amore regolare interviene un imprevisto: un furto, compiuto proprio a casa di Venezuela dalla banda di Guerra, bizzarro – non è una novità, ormai lo si è colto – capo, un po’ ladro gentiluomo un po’ simbolo carismatico. Neanche a dirlo, Venezuela scopre il tradi-

mento, e per l’immensa vergogna, avendo percepito a fondo il significato del suo gesto (non ha caso Octavio ricorrerà alle parole e all’alfabeto, inseganti proprio dalla donna, per ammettere le sue colpe prima di fuggire), il nostro protagonista scappa, cambia vita. Non ha meta né il lettore, ormai impratichito con le regole del mondo magico di questo Sud America frizzante quanto povero, si aspetta che il viaggio porti a una scoperta reale. Più Octavio si addentra nella foresta e in nuovi paesi, più capiamo che l’esperienza dell’allontanamento dai propri luoghi sicuri è qualcosa di diverso dalla semplice fuga: è scoperta di sé, esperienza dell’altro, a contatto con una natura maestosa, con forze anche soprannaturali, le stesse che dominano questo affresco letterario fin dalle prime pagine. Ed è con riferimento all’apertura della storia, che ci conduce adagio alla scoperta del luogo attraverso la sua leggendaria storia, che si chiude, in una perfetta struttura circolare, questo libro. Torniamo a San Paolo del Limone, a quel necessario mito fondante, e in un lento zoom all’indietro abbandoniamo la vicenda di Octavio e torniamo alla natura, letteralmente, insieme a lui, che piano piano si dissolve, diventando parte di un paesaggio dell’anima, di un mondo dipinto nelle sue fascinose pieghe magiche e credenze, e struggenti bellezze naturali inenarrabili se non attraverso l’espediente del verbo, che tutto raccoglie, amplifica, ma in


BOOKS qualche modo riesce anche a plasmare, levigare, restituendolo imbevuto di vita, di emozioni, di struggente poesia. Che è poi quella del Sud America, in un romanzo vagabondo e sognante capace con pochi e raffinati tocchi di proiettarci in un mondo inesistente nascosto proprio lì, sotto la superficie visibile delle cose.

A lessandra Chiappori

“L’aria tutt’intorno li conteneva come le pagine di un libro. Octavio tenne il passamontagna. La cecità guidava i loro sguardi. Si girò lentamente, senza fretta né violenza, lasciandosi Venezuela alle spalle, come se la stesse abbandonando per sempre. Davanti a loro, tra di loro, si era aperto un vuoto come si apre un paesaggio, un’apertura che andava già richiudendosi” Miguel Bonnefoy, “Il meraviglioso viaggio di Octavio”, 66thAND2nd, 2015

Miguel Bonnefoy Un mix di suoni e culture ha circondato da sempre questo giovane autore nato nel 1986 a Parigi da madre venezuelana e padre cileno. Francia, Venezuela, Portogallo: queste le terre di formazione di Miguel, la cui scrittura si staglia come un ponte tra vecchio continente e Su America, intrecciando il surrealismo europeo al realismo magico sudamericano. Nel 2013 ha ricevuto il Prix du Jeune Écrivain de langue française per il racconto “Icare”, mentre con “Il meraviglioso viaggio di Octavio” è finalista del Prix Goncourt du premier roman e si è aggiudicato il prestigioso Prix Edmée de la Rochefoucauld per l’opera prima.

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ARTINTIME popart@artintime.it

SUGGESTIONI DALLA BIENNALE DI VENEZIA 2015 La 56esima edizione della Biennale di Venezia, curata da Okwui Enwezor, indaga sul tema del futuro del mondo. “All the World’s Futures” , questo il titolo, vuole scavare nel rapporto che lega ad oggi gli artisti con lo stato delle cose, in tutti i i modi possibili, meglio se inesplorati, meglio se in bilico tra essenzialità e apparenza. A rappresentare questa idea 136 artisti e 159 opere inedite. Tra queste è da citare “The Key in the Hand” di Chiharu Shiota (Padiglione del Giappone), che cerca di ricostruire i ricordi del mondo tramite due barche, legate tra loro da una vera e propria ragnatela di fili rossi; a capo di ogni filo è legata una chiave. L’opera, che arriva a contare oltre 180 mila chiavi, vuole circondare lo spettatore con un oggetto comune (le chiavi sono state donate da migliaia di persone via internet) ma dal forte valore simbolico, capace di parlare di intimità, segreti e di spazi importanti da proteggere. Un’opera

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che l’artista propone come riflessione sul senso dell’essere nella vita. Interessante è anche l’opera dell’artista Adrian Piper, vincitrice del Leone d’oro come migliore artista. L’installazione, “The Probable Trust Registry” vuole coinvolgere i visitatori in una teatralizzazione dei contratti tra persone: in uno scenario aziendale, infatti, ognuno può firmare degli atti dichiaratori che lo impegnano a una maggiore responsabilità morale verso gli altri e verso se stesso. L’artista, inoltre, completa la sua opera con una serie di fotografie (“Everything Will Be Taken Away, Erasers”), tutte in parte cancellate e segnate con il titolo, in stampatello, a ricordare quanto siano effimeri quelli che per noi oggi sono i nostri valori.


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ARTINTIME events@artintime.it

COLLISIONI FESTIVAL

KAPPA FUTURE FESTIVAL

L’ESTATE AL CINEMA

Nello scenario delle colline delle Langhe torna il Collisioni Festival. Quattro giorni di incontri e concerti nella cornice di Barolo. Passenger, Paolo Nutini, J.Ax e Fedez, Mark Knofler e Sting per riempire di musica le serate estive dal 18 al 21 luglio.

Torna a Torino il Kappa Future Festival, l’evento diurno 100% dance. Tanti i nomi in programma che si alterneranno sul palco l’11 e il 12 luglio Louie Vega, Tony Humphries, Tale Of Us, Rockwell, Discrete Circuit, DJ Harvey, Daniele Baldelli e tanti altri.

www.collisioni.it

www.kappafuturfestival.it

34 serate per 67 film in programma, ecco la programmazione prevista per l’estate al cinema torinese. La rassegna promossa dall’Associaizone Museo Nazionale del Cinema, Molecola e Associazione Baretti, anche quest’anno porta in campo un calendario ricco di laboratori, incontri e proiezioni. www.movieontheroad.com

CASCINA SOTTO LE STELLE

DIALOGO CON IL DUOMO

FESTIVAL JAZZ DI MILANO

La Cascina Roccafranca, a Torino zona Mirafiori, si prepara per offrirvi una serie di serate dedicate alla musica, la danza, il cinema e il teatro. Il programma copre tutto il mese di luglio fino al 6 agosto.

Prosegue fino a ottobre, a Milano, il “Dialogo con il Duomo” dell’artista Tony Cragg che ha realizzato delle opere d’arte moderne sulla Terrazza del Duomo. Impressionante per dimensioni (quasi tre metri) e materiali (marmo) l’installazione ispirata alla Madonnina, “Paradosso”.

Prosegue fino al 15 luglio la nona edizione di “Il Ritmo delle Città”, che quest’anno si focalizzerà all’interno del quartiere Città Studi, nell’ambito dell’Area M, portando avanti l’idea del festival di sdoganare la musica Jazz e di cercare nuovi spazi per darle vita.

www.duomomilano.it

www.area-m.it/concerti-e-biglietti

www.cascinaroccafranca.it

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EVENTS SOTTO LE STELLE DEL CINEMA

BRASSAI, POUR L’AMOUR DE PARIS

EUROPEAN YOUNG THEATRE 2015

In Piazza Maggiore a Bologna fino al 15 agosto vi aspetta un calendario di oltre 50 serate che porterà in scena tutte le sere i classici della storia del cinema e le più recenti produzioni. Nella seconda metà di luglio ci sarà una retrospettiva dedicata al genio di Orson Welles.

Lo scrittore, il fotografo e cineasta Brassai e il suo amore lungo cinquant’anni per gli angoli più reconditi della capitale francese. La creazione della leggenda di Parigi attraverso 260 fotografie vintage in mostra a Palazzo Ducale a Genova.

Dal 1 all’11 luglio torna la 58ma Edizione del Festival dei 2 Mondi di Spoleto. Oltre 50 giovani attori e registi proveniente dalle principali scuole di Teatro europee prenderanno parte alla rassegna dedicata alla nuova creatività presso il Teatrino delle 6.

www.palazzoducale.genova.it

www.festivaldispoleto.com

LUCCA SUMMER FESTIVAL

GOA-BOA FESTIVAL

FESTIVAL DELLE SCUOLE D’ARTE

Robbie Williams, Sir Elton John, Mark Knopfler, Lenny Kravitz e Billy Idol per un’edizione del Lucca Summer Festival che già dalle prime conferme pare scoppiettante. A luglio Piazza Napoleone, a Lucca, si riempirà di musica.

Il Porto Antico di Genova è di nuovo protagonista del festiva che combina musica commerciale con quella di nicchia. Dal 6 all’11 luglio sfileranno sul palco George Ezra, Jimmy Cliff, i Franz Ferdinand & Sparks e molti altri ancora.

Torino ospita la prima edizione di questo festival internazionale. I giovani artisti si troveranno ad affrontare il tema “Il senso del corpo” declinandolo attraverso tutte le possibili forme di espressione.

www.cinetecadibologna.it

www.summer-festival.com

www.goaboa.it

www.albertinafisad2015.eu

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