Il Custode dell’orto
Questa pubblicazione è stata realizzata in occasione della mostra Il Custode dell’orto XVI secolo – Loris Cecchini XXI secolo Galleria Canesso, Milano 29 aprile – 10 giugno 2022 in collaborazione con
Coordinamento editoriale Ginevra Agliardi con l’assistenza di Eleonora Scianna Grafica Valeria Zevi Stampa Galli Thierry Stampa, aprile 2022 © Galleria Canesso Milano Srl Via Borgonuovo 24, 20121 Milano www.canesso.art Crediti fotografici Alberto Bernasconi: copertina e pp. 10-15, 22, 25-26 © Manusardi Studio Fotografico Milano: pp.4-5, 40-41 Da R. Cara, Il custode di casa Aliprandi. Una scultura arcimboldesca dal Gasletto di Monza, 2016 (ASMi, Fondo di Religione, cart. 1349): p. 16 © Archivio fotografico Civici Musei di Brescia-Fotostudio Rapuzzi: p. 19 Pubblico dominio, cortesia di Metropolitan Museum, New York: p. 21 Publico dominio, cortesia di Art Institute of Chicago: p. 21 Uffizi, Gabinetto disegni e stampe, Firenze: p. 23 Castello di Skokloster, Svezia: p. 24 Fondazione Zeri, Bologna: pp. 27, 32 © Archivio Fotografico Musei Civici Cremona: p. 27 Nationalmuseum, Stoccolma: p. 28 Susanna Zanuso: p. 31 StudioLoris Cecchini: pp. 42, 44-45, 47
Sommario
Prefazione Maurizio Canesso
p. 7
Arcimboldi e gli scultori nel ducato di Milano: il Custode dell’orto Susanna Zanuso
p. 17
L’iscrizione del Custode dell’orto Felice Milani
p. 37
Tempo dopo, quello che cresce intorno al Custode dell’orto Loris Cecchini
p. 43
Prefazione
Quando ho visto per la prima volta una fotografia di questo burbero e simpatico gigante di pietra, ne sono rimasto subito molto impressionato. A segnalarmi la particolarissima scultura è stato Enrico De Pascale che l’aveva riscoperta in una villa di Trescore Balneario. Ho voluto vedere la scultura dal vivo. Quando l’ho avuta davanti non ho avuto dubbi sulla sua capacità, a distanza di cinque secoli, di farsi portatrice di un messaggio fortemente attuale: il Custode dell’orto è l’umano che si fa tutt’uno con la natura per difenderla. La potenza del colosso di pietra esprime con insuperabile efficacia questa unione tra l’uomo e la natura e, allo stesso tempo, il ruolo tutelare che noi umani dobbiamo avere nei suoi confronti. L’esistenza dell’uomo dipende intrinsecamente dalla salute del mondo che abita. Se, negli ultimi due secoli, abbagliati da una sorta di delirio di onnipotenza industriale-tecnologica, ci siamo poco a poco dimenticati di coltivare questa fondamentale armonia, oggi iniziamo finalmente a sentire forte l’esigenza di sanare i danni commessi e, forse per la prima volta, l’uomo assume un atteggiamento protettivo nei confronti dell’ambiente. E, se cinquecento anni fa la scultura proteggeva un orto privato, oggi è simbolo dell’intera natura che ha bisogno di un Custode. Per la sua qualità artistica poi, insieme a Ginevra Agliardi, direttrice della sede milanese di Galleria Canesso, abbiamo deciso di esporla. Abbiamo chiesto a Susanna Zanuso, esperta di riferimento per la scultura lombarda, un nuovo studio di approfondimento capace di inquadrare l'opera in un contesto culturale complesso come quello della Milano borromaica.
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Il Custode dell’orto, è espressione di quel tardo Manierismo lombardo particolarmente legato alla tradizione leonardesca delle teste di carattere. Giuseppe Arcimboldo (1526-1593) diede origine a una vera propria moda, un gusto che gli sopravvisse per oltre un secolo. Questo è uno dei rari casi in cui l’autore, ancora ignoto, è riuscito mantenere quella coerenza plastica che distingue le opere del capostipite dalle tante imitazioni non di rado mediocri. Qui le verdure non sono semplicemente affastellate a riempire le forme del corpo umano: sono invece giustapposte con sapienza, con fantasia e senza mai perdere la loro individuale essenza. Il guardiano lapideo, scrutando l’orizzonte, volta la testa verso destra: gli occhi sono castagne, il naso un fico, due cipolle per guance e una mela cotogna a dar corpo alla fronte, il mento è un carciofo le cui foglie formano due grossi baffi. Come ad instaurare un legame con la mitologia antica, la posa del Custode fa pensare a un maestoso Ercole vegetale. La mano destra è posata sulla nocchiosa clava e il braccio sinistro, invece della pelle di leone, sorregge un mantello tessuto con un raffinato intreccio di foglie di agrumi. Il gigante ha un tale carattere che la sua voce è stata incisa sulla pietra: io, presiedo all’orto, metto in mostra l’orto, allontano il nemico; tu che sei presente e leggi, se desideri qualcosa, chiedi gentilmente, tieni quello che hai chiesto e vattene. È sempre stimolante avventurarsi nel porre in dialogo l’arte antica e quella contemporanea. Grazie alla collaborazione nata con Galleria Continua, è stato bello trovare un altro scultore milanese, Loris Cecchini, che mezzo millennio dopo utilizza, seppur diversamente, un lessico che trae origine dal mondo organico. Il Custode dell’orto sarà così circondato da quattro opere dell’artista Loris Cecchini che, come rami metallici, daranno vita a un giardino contemporaneo.
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Infatti il giardino è anche il luogo dove si osserva e studia la natura nei suoi processi di crescita e mutamento. Proprio le forme del divenire organico, regolate da leggi più forti di quelle della razionalità umana, sono alla base del lavoro di Cecchini. Le sue ultime ricerche sono infatti indirizzate a strutture reticolari e conformazioni molecolari che costituiscono la struttura di base di piante e minerali. Da qui nascono affascinanti elementi modulari che aggregandosi e proliferando danno vita a strutture complesse. Approfitto per ringraziare ancora una volta Enrico De Pascale senza il quale questa occasione non si sarebbe forse mai presentata. Un ringraziamento anche ad Andrea Bacchi e Susanna Zanuso per la loro competenza in ambito scultoreo, a Felice Milani per la sua raffinata analisi letteraria e a Guido Galimberti che, con entusiasmo, mi ha aiutato a far nascere questo progetto. Maurizio Canesso
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Scultore lombardo fine XVI- inizi XVII secolo Il Custode dell’orto Pietra arenaria (pietra di Viggiù) 197 x 72 x 81 cm Collezione privata Provenienza: Gasletto (Monza), Antonio Aliprandi, 1664 circa; Crescenzago (MI), Villa Pino, Giuditta Cernuschi con Ercole e Gaetano Mantegazza, 1834; Trescore Balneario (BG), Giuseppe Della Torre Piccinelli, 1921; per discendenza all’attuale proprietario. Esposizioni: Il cibo nell’arte. Capolavori dei grandi Maestri dal Seicento a Andy Warhol, Brescia, Palazzo Martinengo, 24 gennaio 2015 – 14 giugno, 2015; Face à Arcimboldo, Centre Pompidou-Metz, 29 maggio – 22 novembre 2021.
Arcimboldi e gli scultori nel ducato di Milano: il Custode dell’orto Susanna Zanuso
Questa sorprendente scultura è entrata nell’orizzonte degli studi solo nel 1995 quando Gian Giacomo Della Torre Piccinelli, che ne era allora proprietario, pubblicava un articolo nel quale la attribuiva senza incertezze a Giuseppe Arcimboldi (1526-1593): allora conservata nella sua villa di Trescore Balneario, dove era giunta per via ereditaria, era accompagnata da una targa marmorea con una lunga iscrizione in latino, dall’autore trascritta e tradotta, nella quale il misterioso personaggio metteva in guardia l’osservatore di non scambiarlo per una immagine di Vertunno, la divinità antica che presiedeva alla mutazione delle stagioni e alla maturazione dei frutti, essendo egli un più domestico “custode dell’orto” preposto a sorvegliare e difendere i suoi prodotti . Della Torre raccontava poi la dettagliata storia della sua provenienza senza tuttavia indicare le fonti o i documenti ai quali aveva attinto: il Custode, secondo le notizie in suo possesso, sarebbe stato scolpito da Arcimboldi nel 1591-1592 per la villa suburbana di Martino de Leyva nei pressi di Crescenzago1. Di lì a poco, nel 1996, Giacomo Berra, impegnato a recuperare le invenzioni di Arcimboldi tra le fonti figurative della natura morta caravaggesca, la prendeva nuovamente in esame rifiutando il riferimento a Arcimboldi e considerando come dovesse trattarsi di un’opera più tarda, vicina per alcuni particolari tipologici (la figura intera, gli asparagi tra loro legati, le mani e i piedi che terminano con carote e radici…) ai dipinti con le Stagioni della Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia la cui attribuzione allora oscillava, secondo la bibliografia citata in nota dallo stesso Berra, tra un anonimo artista verso il 1592, un pittore veneto o il fiorentino Francesco Zucchi (1562-1622) che, secondo le fonti, a Roma dipingeva teste arcimboldesche nella bottega del Cavalier d’Arpino2. Sulle Stagioni bresciane erano però già intervenuti nel 1989 Mauro Natale e Alessandro Morandotti che, riconoscendovi lo stesso pittore delle due Stagioni conservate al Wadsworth Atheneum di Hartford
G. Quadrio (?), Progetto di una nicchia nella prospettiva del Gasletto di Monza con la statua del Custode dell'orto
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(inv. 1939.211/212), avevano riferito tutto il gruppo a “imitatore settecentesco di Arcimboldo”3. Partendo da tale indicazione, nel 2015 Angelo Dalerba aveva proposto di datare i dipinti di Brescia al 1695-1698 attribuendoli al poco noto Antonio Rasio, autore di una natura morta firmata e datata 1677 conservata nel Museo di Santa Giulia della stessa città4. Angelo Loda, infine, notava come, grazie ai recenti studi sul pittore Giovanni Stanchi (1608 - post 1673), anch’egli autore di figure composte di frutti e fiori, il revival arcimboldesco del tardo XVII secolo pare oggi connotarsi come un fenomeno prevalentemente romano, quindi anche la cultura figurativa del Rasio sarebbe, più che lombarda, quella dei pittori di natura morta attivi a Roma a fine secolo5. Prima considerate opere lombarde a cavallo tra Cinque e Seicento, poi (forse) romane della fine del Seicento, le Stagioni bresciane (e le analoghe di Hartford), hanno comunque continuato a essere indicate come il termine di confronto stilistico più appropriato per il Custode dell’orto anche nei più recenti interventi di Enrico De Pascale e di Roberto Cara, entrambi sostenitori della datazione della scultura alla seconda metà del XVII secolo. Se il primo ha chiarito i passaggi collezionistici del Custode dal 1834 in poi6, si deve a Roberto Cara l’averne intercettato la presenza verso il 1664 nel giardino della “villa da nobile” detta il Gasletto nei pressi di Monza, allora di proprietà di Antonio Aliprandi. Quest’ultimo, ereditata la villa nel 1611, aveva intrapreso vari lavori di rinnovamento a partire dal 1648 e sotto la direzione dell’architetto Girolamo Quadrio: tra i disegni relativi a tale ristrutturazione se ne conservano alcuni (forse del Quadrio stesso) con il progetto di una “prospettiva” da costruire nel giardino che prevedeva uno spiazzo ottagonale circondato da una tribuna lignea (una sorta di berceau) e da sei nicchie semicircolari. In un secondo disegno compare il particolare di una di queste nicchie al centro della quale è abbozzata una statua simile nella posa al Custode dell’orto privo però degli ortaggi che lo compongono; in un secondo schizzo è prospettata un’alternativa per la stessa nicchia, questa volta realizzata con rocce naturalistiche. È certo, tuttavia, che nel primo schizzo sia effettivamente raffigurata la nostra scultura arcimboldesca poiché essa è ben riconoscibile nella descrizione che ne fa Giuseppe Maria Campini, canonico del duomo di Monza, in visita al Gasletto
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Susanna Zanuso
A. Rasio, Autunno, Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo, inv. 958
nel 1769 dove poteva vedere e trascrivere anche le altre due iscrizioni poste sul suo piedestallo oggi disperse7. Secondo Cara, questa serie di circostanze dimostrerebbe che la statua era stata “appositamente eseguita” verso il 1664 per l’Aliprandi, cioè quando i documenti d’archivio registrano una serie di spese relative alla costruzione della “prospettiva” del Gasletto: sebbene il Custode non sia mai nominato nelle carte, Cara scrive che il suo autore sarebbe comunque da cercare tra gli scultori del duomo di Milano, dove il Quadrio era stato capo architetto dal 1658 al 1679. L’indagine sembrerebbe così arrivata a un punto fermo, tanto che tale ricostruzione dei fatti pare oggi data per scontata. In realtà, non è affatto facile immaginare il Custode nel contesto della scultura barocca del ducato: sono gli anni in cui Dionigi Bussola (1615-1687), tornato
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a Milano dopo cinque anni di studio a Roma, nel 1658 viene eletto protostatuario del duomo impegnando tutta la scultura locale al confronto con le nuove frontiere del barocco romano ed entro tali coordinate pare non trovare spazio un ‘esercizio di stile’ sulla cultura artistica della Milano di quasi cent’anni prima quale sembra essere il Custode. Non soddisfa nemmeno il reiterato accostamento con le Stagioni di Brescia che, se documentano la perdurante fortuna della maniera arcimboldesca, sono opere il cui carattere decorativo e aneddotico è molto lontano dalla potente fermezza araldica di questa grande scultura. A questo punto conviene allora rileggere attentamente fonti e documenti pubblicati da Cara per rendersi conto che, se attestano con certezza la presenza della statua nel giardino dell’Aliprandi, non escludono affatto la possibilità che il Custode fosse già da tempo di proprietà della famiglia o che provenisse da qualche altra parte e che i disegni attribuiti al Quadrio riguardino solo il suo allestimento in una nicchia del Gasletto attorno al 1664. Tra l’altro, tale possibilità sembra trovare conferma nel fatto che il Custode è scolpito a tutto tondo (anzi, oggi è proprio nel lato posteriore, rimasto al riparo dagli agenti atmosferici, che si può apprezzare meglio l’altissima qualità dell’esecuzione): concepito per essere visto da tutti i lati, è del tutto improbabile che fosse nato per essere collocato all’interno di una nicchia. Liberi dalla data vincolante del 1664, si può tornare a osservare il Custode per notare come i suoi caratteri stilistici siano coerenti con una cultura figurativa più antica: la sua posa spavalda è ancora in debito con le invenzioni messe a punto dai manieristi nordici nell’ultimo quarto del Cinquecento, ben note nell’ambiente artistico milanese anche attraverso la larga diffusione delle incisioni: tra le figure in atteggiamenti simili si può ricordare il Portatore di Stendardo di Hendrick Goltzius del 1585 oppure i personaggi raccolti nella splendida serie disegnata anch’essa da Goltzius e incisa dall’allievo Jacob de Gheyn nel 1587 con gli Ufficiali e soldati della guardia del corpo di Rodolfo II: serie, quest’ultima, alla quale anche Cerano pare essersi ispirato per alcune figure che popolano i quadroni con la Vita di San Carlo del duomo di Milano, l’impresa pittorica più prestigiosa portata a termine nella capitale del ducato tra il 1602 e il 16048.
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H. Goltzius, Portatore di stendardo, 1585
Dalla serie di H. Goltzius e J. de Gheyn, Ufficiali e soldati della guardia del corpo di Rodolfo II, 1587
Anche nel cosiddetto Carnet di Rodolfo II degli Uffizi che raccoglie una serie disegni per mascherate dello stesso Arcimboldi9, si possono trovare confronti stringenti con la posa del Custode: tra tutti i personaggi qui ritratti basterà citare il Cavaliere (inv. 3199) che, in controparte, è colto nell’identico atteggiamento, con il peso del corpo arretrato, il braccio destro con il dorso della mano appoggiato sul fianco e il polso sinistro che si flette quasi ad angolo retto per afferrare il bastone; si può anche osservare come nei lacci vegetali che stringono a intervalli le braccia del Custode si riconosca la volontà dello scultore di evocare il tipico camiciotto di un cavaliere del secondo
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Susanna Zanuso
G. Arcimboldi, Carnet di Rodolfo II, Firenze, Uffizi, Gabinetto disegni e stampe, inv. 3199
Cinquecento, con le maniche decorate da stretti galloni disposti perpendicolarmente, così come lo vediamo riprodotto in vari costumi dello stesso Carnet e in tanti ritratti dell’epoca. Quando Giuseppe Maria Campini vedeva la scultura nel giardino degli Aliprandi nel 1769 era già “alquanto logora dall’ingiuria del tempo” e tuttavia, al di là delle abrasioni della pietra, la qualità della resa dei singoli ortaggi, descritti con rara sottigliezza naturalistica, è ancora oggi perfettamente leggibile. Né è da meno la qualità dell’invenzione nel suo complesso che è sostanzialmente diversa da quella messa in campo dai dipinti arcimboldeschi del tardo Seicento. Laddove questi sono costruiti come una piatta silhouette sulla quale sono
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Arcimboldi e gli scultori nel ducato di Milano: il Custode dell’orto
G. Arcimboldi, Ritratto dell’Imperatore Rodolfo II come Vertunno, Svezia, Castello di Skokloster, inv. 304
affastellati fiori e frutti che ne riempiono i contorni adattando la propria forma alla necessità di rendere riconoscibile il soggetto, nel Custode il procedimento è inverso: sono infatti gli ortaggi nella loro integrità formale che, nel loro sapiente assemblarsi, danno magicamente luogo a un’immagine riconoscibile. Così, ad esempio, nel Custode manca la stucchevole simmetria delle Stagioni bresciane, tanto che le sue ginocchia sono una rapa e una pera, i pettorali una lattuga e un melograno, le spalle una pera e una mela cotogna; il melone che collega l’ingui-
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Titolo saggio
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Susanna Zanuso
G. Arcimboldi, Flora, ubicazione ignota
Seguace di Arcimboldi, L’ Ortolano, Cremona, Museo civico “Ala Ponzone”, inv. 324
ne alla coscia sinistra è più grosso del necessario, ma lo scultore rimane fedele alle sue dimensioni naturali piuttosto che sottometterlo alla tirannia di una più verosimile anatomia umana: un metodo di lavoro che pare anch’esso più in sintonia con le invenzioni di Arcimboldi che con quello dei suoi tardi imitatori. Il Ritratto dell’Imperatore Rodolfo II come Vertunno (Svezia, Castello di Skokloster), che Arcimboldi dipingeva nel 1590 a Milano dove era stato immediatamente celebrato da un gran numero di versi encomiastici, sarà da contare, come è stato più volte scritto, tra le fonti figurative utilizzate dall’autore del Custode; ma è altrettanto interessante considerare la Flora (attuale ubicazione ignota) dipinta per l’Asburgo prima dell’agosto 1589 a Milano e ugualmente celebrata dal mondo letterario: il manto vegetale del Custode non è infatti composto da “foglie di spinacino” ma pare citare proprio le vesti della Flora composte, come spiegava Gregorio Comanini nel 1590, “di foglie d’aranci, di cedri… sparse di mille altre sorti di fiori”10.
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Arcimboldi e gli scultori nel ducato di Milano: il Custode dell’orto
Attribuito a G. A. Brambilla, Estate
Altrettanto interessante è il confronto con il cosiddetto Ortolano del Museo Civico Ala Ponzone di Cremona, un dipinto più spesso riconosciuto come opera autografa degli ultimi anni milanesi, ma che è anche stato considerato di un diverso artista, forse appartenente a una generazione successiva: il volto dell’Ortolano è formato, in economia, con pochi e grandi ortaggi come quello della nostra scultura e, inoltre, le due opere sembrano condividere un’interpretazione più domestica e irriverente (che nel caso dell’Ortolano, connotato sessualmente, è anche più “grossolana”) delle raffinate simbologie di Arcimboldi11. In nessuno di questi dipinti, né in altre teste attribuite a Arcimboldi, il collo del personaggio è analogamente costruito con un rigido mazzo di asparagi legati in basso da un laccio che ricorda un antico fascio littorio: vale perciò la
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pena di segnalare che lo stesso motivo compare nell’acquaforte con L’Estate, attribuita dubitativamente al milanese Giovanni Ambrogio Brambilla (notizie dal 1560- 1591) dove il collo è ottenuto con un simile rigido fascio di gambi vegetali (forse di spighe) anch’esso legato in basso da un doppio laccio12. Se dunque il Custode pare inserirsi senza difficoltà nel panorama artistico di fine Cinquecento, ancora nulla di certo è emerso sulla sua primitiva collocazione né sul suo autore. La provenienza indicata da Della Torre dalla villa di Martino De Leyva (1548- 1600 circa), situata a Greco in località Cascina de’ Pomi come ha chiarito De Pascale13, non è verificabile ma è comunque degno di nota che si sia tramandata la provenienza da un luogo, il circondario di Greco appunto, dove a cavallo tra Cinquecento e Seicento sorgevano alcune delle ville suburbane più sfarzose del milanese, tutte andate distrutte. Tra queste, è suggestivo ricordare come in quella dei Porro, famiglia che tra l’altro era imparentata con gli Aliprandi14, Bartolomeo Taegio avesse ambientato nel 1559 la messinscena di un colto dialogo sui segreti dell’agricoltura che si svolgeva tra i nobili convitati dei Porro e “l’ortolano di casa”, cioè colui che era preposto alla cura delle coltivazioni ortofrutticole nonché l’olitor nominato nelle due epigrafi perdute che accompagnavano il Custode: un umile personaggio dai tratti grotteschi che qui, forse per la prima volta, assurgeva a figura letteraria15. Di Arcimboldi non esistono opere plastiche, ma sappiamo da un inventario rudolfino del 1607-1611 che aveva modellato per gli Asburgo dei frutti in cera insieme a un altro artista, il misterioso “Giovan Vermaiden”16. Inoltre, è assai probabile che il tema delle statue da giardino si fosse affacciato alla sua mente nei lunghi anni in cui si progettava il Neugebäude, la villa di delizie voluta da Massimiliano II nei dintorni di Vienna i cui lavori, iniziati nel 1568 si sarebbero protratti, sotto Rodolfo II, fino al 1587: ben poco è rimasto di questo grandioso complesso ma, nel “giardino segreto” sono ricordati “cespugli e piante poste in forma dell’arma imperiale”, un’idea arcimboldesca al servizio dell’arte topiaria17. Non si può escludere che a Milano, dove era tornato definitivamente nel 1587 per morire nel 1593, circolassero di sua mano progetti per statue realizzate con lo stesso procedimento con cui aveva dipinto i suoi famosi ritratti, tuttavia nessuna notizia permettere di associare il nome di Arcimboldi a qualche scultore attivo in
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città in questi anni18. Nondimeno, il fatto che le opere che dialogano in modo più stringente con il Custode appartengano tutte alla fine del Cinquecento è un segnale che non si può sottovalutare e che rende assai probabile che questa scultura sia stata realizzata nel XVI secolo o poco oltre: nei primi decenni secolo successivo, infatti, l’idea di tradurre nella pietra la maniera del maestro poteva ancora essere praticabile per chi aveva conosciuto direttamente le sue opere o era cresciuto nel ricordo della loro fama19. Tra gli scultori, un possibile candidato potrebbe allora essere il milanese Gaspare Vismara, del quale non è nota la data di nascita da collocare comunque entro gli anni ottanta del Cinquecento. Dal 1610 impiegato alla Fabbrica del duomo, nel 1632 ne sarebbe diventato il protostatuario mantenendo la carica fino alla morte nel 1651. Nel corso della sua lunga carriera Gaspare doveva avere maturato una particolare competenza nella modellazione di fiori, piante e frutti poiché a lui saranno commissionati nel 1638 i modelli in cera destinati alle lesene del portale centrale del duomo, poi scolpiti in marmo da Gian Giacomo Bono e Andrea Castello con un tripudio di elementi vegetali recentemente definiti “una delle prove più significative e allo stesso tempo troppo poco nota di naturalismo seicentesco lombardo”20. Pere, zucche e carciofi del duomo, presenti anche nei notevoli festoni di frutta e ortaggi della facciata della chiesa di San Paolo Converso dove tra 1614 e 1620 circa era all’opera la stessa équipe di scultori, possono utilmente essere messi a confronto con gli analoghi ortaggi che formano il Custode, ma l’indizio, bisogna ammetterlo, è troppo debole per insistere oltre in questa direzione e il Custode rimane di fatto un unicum difficile da considerare al di fuori dal clima culturale della Milano di fine secolo. È curioso, tuttavia, che Vismara compaia, unico scultore nominato, negli inventari seicenteschi della collezione dei nobili Orrigoni21 ai quali era appartenuta l’unica altra statua arcimboldesca finora nota. Ricordata laconicamente dal Della Torre nel 1995 in collezione Litta Modignani, stranamente non è mai più stata citata da chi si è in seguito occupato del Custode benché fosse stata esposta alla mostra veneziana di Palazzo Grassi del 1987 e, nel catalogo, ne fosse pubblicata anche l’immagine22. Alta anch’essa circa due metri e formata solo da frutti e ortaggi, scolpita in pietra arenaria e solo abbozzata sul retro, raffigura un personaggio indefinibile, forse femminile date le due protuberanze
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Milano, Duomo, particolare delle lesene del portale maggiore
vegetali all’altezza del petto; il puntello di pietra che ancora congiunge il braccio destro alzato alla testa, un elemento di sostegno che doveva probabilmente essere eliminato, fa pensare che l’opera fosse rimasta incompiuta. Nel fascio di verzura che tiene nella mano sinistra sono scolpite, in bella vista, tre ghiande da riferire allo stemma araldico degli Orrigoni nella cui villa di Biumo inferiore (presso Varese) la statua era allestita all’interno di una nicchia del giardino anche dopo che la proprietà era passata ai Litta Modignani23. Non è invece dato di sapere da quando questa scultura appartenesse alla famiglia poiché, se la costruzione dell’attuale palazzo risale alla metà del XVII secolo, a Biumo inferiore (e a Milano) gli Orrigoni avevano case “da nobili” e proprietà almeno dalla seconda metà del XVI secolo24. In ogni caso, quello che pare certo è che il suo autore doveva conoscere il Custode dell’orto poiché certe soluzioni paiono tradurre, semplificandole e appiattendole, invenzioni che in quest’ultimo sono condotte con più intelligenza e maestria: si veda, ad esempio, come i calzari
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Attribuito a G. Stanchi, Autunno, ubicazione ignota
vegetali della statua Orrigoni siano un’imitazione impoverita di quelli assai più sofisticati del Custode oppure come, nella prima, l’espressione del volto risulti confusa nell’affastellarsi dei troppi vegetali di cui è composto. Più che il tentativo di scolpire un pendant del Custode da parte di un artista meno dotato, sembrerebbe trattarsi di un episodio della sua fortuna nel Seicento avanzato, tanto che anche la posa con il braccio alzato che tiene il grappolo d’uva ricorda le raffigurazioni dell’Autunno dei citati dipinti arcimboldeschi di metà secolo oggi attribuiti a Giovanni Stanchi e ai suoi imitatori.
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Note Della Torre Piccinelli 1995. Per il testo dell’iscrizione che lo accompagna si rimanda al saggio in questo volume di Felice Milani. 2 Berra 1996a, pp.119-120, e p.147 nota 49, fig. 42. Al Custode dell’orto Berra aveva accennato negli stessi termini anche in Berra 1996b, p.61 nota 47. 3 Natale, Morandotti 1989, p.202, n.45. 4 A. Dalerba in Da Raffaello a Ceruti 2004, pp. 204-213, cat. 38-41. Compare qui l’intenibile annotazione (p.208), ripresa poi da Loda (vedi nota seguente), secondo la quale la presenza della pannocchia di granoturco nei dipinti bresciani sarebbe un dato “oggettivo” per la loro datazione post 1630, ma la pannocchia è presente anche nel Ritratto di Rodolfo II come Vertunno di Arcimboldi del 1590. 5 A. Loda in Il cibo 2015, p.96, cat. 24. Sui dipinti arcimboldeschi attribuiti a Giovanni Stanchi: Proni 2005. Come mi segnala Loda che qui ringrazio, sul Rasio è intervenuto recentemente anche Crispo 2020. 6 De Pascale in Il cibo 2015, pp. 104-106, cat. 27; idem in Face à Arcimboldo 2021, pp.28-29. 7 Campini [1773] 2011, pp. 279-280; Cara 2016. Questo il testo di Campini: “…vedesi nel giardino [del Gasletto] una prospettiva con simolacro di vivo sasso ideato sul gusto del secolo passato in figura umana elegantemente intagliata in tre distinti aspetti formanti volto e abbigliamenti con frutti, fiori e simboli, l’uno in ciascun aspetto, e rivolto a ciascun viale con la rispettiva epigrafe ridotta sul morale. L a bizzarria d i questo ingegnoso ritrovato m’indusse a visitarlo e ricopiar le Iscrizzioni [SIC] il dì 17 maggio dell’anno 1769”. Il testo delle iscrizioni poste sugli altri lati del piedestallo poi andate disperse (tradotte dallo stesso Campini) recitava, a occidente: NE DICAS ZOILE HANC MOLEM/ESSE CHIMAERAM MERAM/NAM CONGERIES FRUCTUUM/NON OMNINO INFORMEM/IMO/TERRAE FRUCTUS/IURE NON INIURIA/QUEM SUSTENTANT/OSTENDUNT ET NON OSTENTANT/VAE TIBI ET MIHI/CLAMAT OLITOR/SI FRUCTUS DEESSENT/ DEESEMUS AMBO/ ET OMNES (Non dire o Zoilo [o Vivente] che questo sasso/ è solo una Chimera/Invero è una congerie di frutti/non del tutto informe/Nel profondo/ della terra i frutti/meritevolmente/mostrano e non ostentano/colui che nutrono/Guai a voi e a me!/grida l’ortolano/ se mancassero i frutti/ mancheremmo entrambi e tutti). A oriente: NON IGNAVUS SCULPTOR/ FUIT OLITOR/ HAC STATUA CLARE STATUIT/HOMINEM ESSE TERRAE FRUCTUM/NATURA PRUTENTIOR/ QUIA MINUS FRAGILEM FECIT/MIRARIS/HOC LOCI CAULEM ET CUCURBITAM/EVADERE HOMINEM/O QUOT CUCUMERES IN URBE/VIVOS VIDERE VIDEMUS/LECTOR CREDE MIHI/NON RARO RURI/QUAE CENSENTUR INSPIDA/ PLUS SAPIUNT (Uno scultore non vile/ fu l’ortolano/ che stabilì chiaramente con questa statua/che l’uomo è un frutto della terra/La natura fu più saggia/ poiché fece (l’uomo) meno mutevole/Ammiri/ in questo luogo il cavolo e la zucca/diventare umani/O quanti cocomeri vediamo/ in città che sembrano vivi!/ Lettore credimi/ non di rado in campagna/le cose che si ritengono insipide /hanno più sapore). 8 Cfr. Bober 2005. 9 Sul Carnet si veda almeno la scheda di G. Berra in Rabisch 1998, pp. 200-201, cat. 43 con bibliografia precedente. 10 La Flora, della quale si sono perse le tracce, era stata pubblicata da Federico Zeri nel 1987 (su “La Stampa” del 22 aprile, p.3) e poi in Zeri 1990, pp.71-76; per la datazione del dipinto e i versi di Comanini si veda Berra 2011, in particolare pp.295-301; al saggio di Berra si rimanda anche per il Ritratto dell’Imperatore Rodolfo II come Vertunno. L’identificazione della specie vegetale del manto del Custode con lo “spinacino” è di De Pascale in Il cibo 2015, p.104. 11 Questa lettura dell’Ortolano è in Tanzi 2016, p.42, nota 27. 12 L’Estate fa parte delle due incisioni con le Quattro stagioni conservate a Stoccolma, Nationalmuseum, inv. NMG 400-401 /1904, cfr. da ultimo Arcimboldo 2011, pp.228, 371, cat. 200-201. 13 De Pascale in Il cibo 2015, p.104. 14 Nel primo quarto del XVI secolo Ambrogio Porro aveva sposato Caterina Aliprandi. Si veda in proposito Rossetti 2013. Sulle opere d’arte contenute nella villa si veda inoltre G. Agosti in Bernardino Luini 2014, pp.208-209, cat.39 con bibliografia precedente. 15 Taegio 1559, pp.155-162: “[L’ortolano di casa Porro] … al fine della cena (quasi in atto di commedia) s’appresentò alla tavola…discinto e scalzo con una ghirlanda in capo di foglie di vite, onde tra i pampini e tralci pendevano i grappoli dell’uva matura con un bronco di pero in mano che poco dianzi haveva rotto l’empito del vento…”. 1
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Arcimboldi e gli scultori nel ducato di Milano: il Custode dell’orto
Bauer, Haupt 1976, p.108, n.2065. Cit. in Lippmann 2006-2007, p. 165, nota 81. Su Arcimboldi e il Neugebäude si veda inoltre S. Ferino-Pagden in Arcimboldo 2011, pp. 198, 210. 18 Il testo di riferimento per Arcimboldi a Milano è Leydi 2007. 19 Per la sopravvivenza dei modi arcimboldeschi nella Milano di fine secolo si veda soprattutto il caso delle “sfrenate fantasie metamorfiche” dei costumi teatrali disegnati da Nunzio Galizia in Morandotti 2005, p.90, nota 348. 20 Su queste opere, da ultimo: G. Bora in Milano Duomo 2017, pp. 303-304, cat. 237. Un riassunto dell’attività di Gaspare in Casati 2020. 21 Sulla collezione Orrigoni si veda, in sintesi, Morandotti 2008, p. 42 nota 44 (che ringrazio per avermi fatto consultare le fotocopie degli inventari inediti). Al foglio 44 dell’Inventario dei beni di Giacinto Orrigoni (m. 1662) del 20 gennaio 1686 compare “Sisara che viene trafitto d’un chiodo da Dalida [SIC] del Vismara scultore che ha fatto i quadri esteriori d’intaglio sopra le porte del duomo”. Si tratta forse del bassorilievo con Giaele e Sisara, del quale un modello preparatorio in terracotta (Milano, Museo del duomo) e il marmo (in sito) sono in realtà opera di Giovan Pietro Lasagna (m.1658); questo degli Orrigoni era forse un secondo bozzetto del Vismara, autore della maggior parte dei rilievi della facciata e dei relativi modelli in terracotta, realizzati a partire da disegni di Cerano. Su questa impresa si veda G. Bora, in Milano Duomo 2017, pp. 297-304. 22 Effetto Arcimboldo 1987, fig. a p.369. 23 Donna Giuseppa Orrigoni aveva sposato il marchese Don Eugenio Litta Modignani nel 1764. La “grottesca statua formata in sasso, tutta di ortaggi” nel giardino di Biumo Inferiore è ricordata da Ghirlanda 1817, p.63. 24 Sulla villa Orrigoni di Biumo Inferiore e i suoi affreschi della seconda metà del Seicento si veda, per un riassunto degli studi, Cassinelli 2012, pp.75-78 con bibliografia. Mancano invece gli studi sugli Orrigoni nel XVI secolo per i quali molti documenti inediti sono conservati in Archivio di Stato di Milano, Fondo Litta Modignani, I acquisto, XXI (Orrigoni), c.1-3. 16 17
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Bibliografia citata Arcimboldo. Artista milanese tra Leonardo e Caravaggio, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale) a cura S. Ferino - Pagden, Milano 2011. R. Bauer, H. Haupt, Das Kunstkammerinventar Kaiser Rudolfs II, 1607-1611, in “Jahrbuch der Kunsthistorischen Sammlungen in Wien”, XXXVI, 1976, pp. 11-191. Bernardino Luini e i suoi figli, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale) a cura G. Agosti, J. Stoppa, Milano 2014. G. Berra, Arcimboldi e Caravaggio: “diligenza” e “patienza” nella natura morta arcaica, in “Paragone”, 47, 1996, 8-10, pp. 108-161. G. Berra, Un autoritratto cartaceo di Giuseppe Arcimboldi, in “Arte Lombarda”, 116, 1996, pp.55-61. G. Berra, L’Arcimboldo “c’huom forma d’ogni cosa”: elogi letterari e scherzi poetici nella Milano di fine Cinquecento, in Arcimboldo 2011, pp.283-313. J. Bober, Cerano e la cultura dell’incisione del tardo Cinquecento, in Il Cerano (1573-1632). Protagonista del Seicento lombardo, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale) a cura M. Rosci, Milano 2005, pp.57-73. G. M. Campini, Chiese di Monza, del suo territorio e della sua Corte (1773), a cura R. Cara, Milano 2011. R. Cara, Il custode di casa Aliprandi: una scultura arcimboldesca dal Gasletto di Monza, in “Monza illustrata”, 2, 2016, pp. 69-111. A. Casati, s.v. Vismara, in Dizionario Biografico degli Italiani, 99, 2020. D. Cassinelli, Carlo Francesco Nuvolone al Sacro Monte di Varese e in città, in Nuvolone tra sacro e profano al Sacro Monte sopra Varese, catalogo della mostra (Varese, Sala Veratti) a cura dei Musei Civici di Varese 2012, pp.72-78. A. Crispo, Due enigmi a confronto. Fioravanti e Rasio, un maestro e il suo presunto falsario, in “Parma per l’arte, 26, 2020, pp.181-221. Da Raffaello a Ceruti. Capolavori della pittura dalla Pinacoteca Tosio Martinengo, catalogo della mostra (Brescia, Civica Pinacoteca Tosio-Martinengo) a cura E. Lucchesi Ragni, R. Stradiotti, Conegliano 2004. G.G. Della Torre Piccinelli, Una statua inedita dell’Arcimboldo: il custode dell’Orto, in “La rivista di Bergamo”, n. s. 1, 1995, pp. 4-11. Effetto Arcimboldo. Trasformazioni del volto nel sedicesimo e nel ventesimo secolo, catalogo della mostra (Venezia, Palazzo Grassi) a cura S. Rasponi, C. Tanzi, Milano 1987. Face à Arcimboldo, catalogo della mostra a cura C. Parisi, A. Horvath, Centre Pompidou-Metz 2021. G. Ghirlanda Compendiose notizie di Varese e de’ luoghi adiacenti compreso il santuario del Monte, Milano 1817. Il cibo nell’arte. Capolavori dei grandi maestri dal Seicento a Warhol, catalogo della mostra (Brescia, Palazzo Martinengo) a cura D. Dotti, Cinisello Balsamo 2015. S. Leydi, Giuseppe Arcimboldo à Milan. Documents et hypothèses, in Arcimboldo 1526-1593, catalogo della mostra (Paris, Musée du Luxembourg) a cura S. Ferino-Pagden, Paris 2007, pp. 37-52. W. Lippmann, Il Neugebäude di Vienna: genesi e analisi di un insolito complesso, in “Annali di architettura: rivista del Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio”, 18-19, 2006-2007, pp.143-168. Milano. Museo e Tesoro del Duomo. Catalogo generale, a cura G. Benati, Milano 2017. A. Morandotti, Milano profana nell’età dei Borromeo, Milano 2005. A. Morandotti, Il collezionismo in Lombardia. Studi e ricerche tra ‘600 e ‘800, Milano 2008. M. Natale, A. Morandotti La natura morta in Lombardia, in La natura morta in Italia. 1, a cura C. Pirovano, F. Zeri, F. Porzio, Milano 1989, pp. 196-317 M. S. Proni, La famiglia Stanchi, in G. Bocchi, U. Bocchi, Pittori di Natura Morta a Roma. Artisti italiani 1630-1750, Viadana 2005, pp.273-275. Rabisch. Il grottesco nell’arte del Cinquecento. L’accademia della Val di Blenio. Lomazzo e l’ambiente milanese, catalogo della mostra (Lugano, Museo Cantonale) a cura G. Bora, M. Kahn-Rossi, F. Porzio, Milano 1998. E. Rossetti, I Porro di Greco e la roggia Certosa Porro. Ascese sociali e trasformazione del territorio nel Rinascimento, in Il Paese dell’acqua. I Luoghi Pii elemosinieri di Milano e le loro terre: un itinerario nel paesaggio dal medioevo ai nostri giorni, a cura L. Aiello, M. Bascapé, S. Rebora, Milano 2013, pp.211-221 La Villa. Dialogo di Bartolomeo Taegio, Milano 1559. M. Tanzi, Gli sposi bergamaschi, Cremona 2016. F. Zeri, Orto aperto, Milano 1990.
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Non sum Vertumnus nec Pomonam cupio sum in humanis et non homo simulacrum hominis simulatum horti custos horti fructus collegi in unum puta ut fragiles diu duraturos habeas imo ne habeas exposui oculo fictos ut a veris manum avertas sed mentiri nescio licet mentita figura sum sine sexu saxum non sine humanitate quia fructuosi hominis amica imago ego compendium horti horto praesideo hortum exibeo hostem prohibeo tu qui ades et legis urbana lege si quid apetis pete petitum habe et abi.
L’iscrizione del Custode dell’orto Felice Milani
Non sono Vertumno e non bramo Pomona; sono in sembianze umane e non sono uomo, bensì statua finta di uomo; custode dell’orto, ho raccolto e unito insieme i frutti dell’orto, fa’ conto, affinché questi, che sono caduchi, tu li abbia duraturi a lungo; anzi, affinché tu non li abbia; ho infatti esposto all’occhio frutti finti, affinché tu distolga la mano da quelli veri; ma non so mentire, anche se sono una figura contraffatta; sono un sasso senza sesso, non senza umanità, perché sono l’immagine amica dell’uomo carico di frutti; io, compendio dell’orto, presiedo all’orto, metto in mostra l’orto, allontano il nemico; tu che sei presente e leggi, se desideri qualcosa, chiedi gentilmente, tieni quello che hai chiesto e vattene. (L’iscrizione presenta exibeo per exhibeo e apetis per appetis). Il custode nega di essere Vertumno, eppure ha unito, per formare il suo corpo, i frutti dell’orto, come dichiara lui stesso traducendo in latino, si direbbe, i versi del poemetto Il Vertunno dell’Arcimboldo (1591), opera di Gregorio Comanini: «io, che de’ frutti, cui produce e porge l’anno […] le varie forme, in una strette, accolgo» (i poeti italiani usano scrivere Vertunno, assimilando in -nn- il nesso consonantico -mn-). Come è noto, con la descrizione di Vertumno, fatta dal Comanini, entrerà in gara Giovan Battista Marino nell’idillio Proserpina, compreso nella raccolta La Sampogna (1620). Nella poesia latina Vertumno, il dio che presiede ai cambiamenti delle stagioni, fa la sua comparsa in una elegia di Properzio (IV, 2), dove, parlando di se stesso in prima persona, si sofferma sull’origine del suo nome: mi chiamo così perché la mia natura è adatta a tutte le figure; tu convertimi in qualunque figura vuoi e sarò bello, ma la mia gloria più grande sono i doni degli orti: il cocomero, la zucca e le rape mi distinguono, e i fiori dei prati mi ornano la fronte.
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L’iscrizione del Custode dell’orto
La prosa della nostra iscrizione è attentamente elaborata dal punto di vista retorico, con allitterazioni, riprese, accostamenti e giochi di parole. Chiunque scrivesse in latino possedeva una formazione scolastica, basata sulla conoscenza dei poeti antichi; non a caso alla dichiarazione di non essere Vertumno segue quella di non bramare Pomona, ovvia allusione alle Metamorfosi di Ovidio (XIV, 623-771): la ninfa Pomona era dedita alla coltivazione degli orti, ma non aveva desiderio d’amore. Recinge dunque i frutteti, proibendo l’accesso agli uomini («accessus prohibet […] viriles»; il verbo ricorre nell’iscrizione: «hostem prohibeo»). Vertumno la ama e per cercare di vederla si trasforma in vari modi, anche in un mietitore («verique fuit messoris imago!», nell’iscrizione c’è un costrutto analogo: «fructuosi hominis amica imago»). Un giorno si camuffa da vecchia e racconta a Pomona la storia di Ifi, che si impiccò perché respinto dalla crudele Anassàrete; questa fu trasformata in una statua di sasso (e si può pensare che alla disumanità della ragazza il nostro custode voglia contrapporre la propria umanità, «non sine humanitate»). Nell’antichità il dio custode degli orti era Priapo, rappresentato con una falce e un grande fallo. La sua protezione contro i ladri e gli uccelli è invocata da Tibullo in un’elegia (I, 1) e da Virgilio nelle Georgiche (IV, 110-11; ma si veda anche la settima egloga, vv. 33-36). In una satira di Orazio (I, 8) un Priapo posto sull’Esquilino, dove un tempo venivano gettati i cadaveri degli schiavi e ora ci sono gli orti, parla in prima persona: lamenta che lo preoccupano le fattucchiere, che nelle notti di luna raccolgono ossa ed erbe velenose, e lui non riesce a impedirlo («has nullo perdere possum / nec prohibere modo», ulteriore riferimento per «hostem prohibeo» dell’iscrizione). Al Priapo itifallico sembra alludere, per contrasto, il nostro custode con le parole «sine sexu»: dopo aver negato di essere Vertumno, negherebbe anche implicitamente di essere Priapo. Priapo è largamente presente nella poesia rinascimentale in italiano e in latino: basti accennare al capitolo In lode di Priapo di Giovanni Mauro e al Priapus di Pietro Bembo; nel De Priapo di Battista Mantovano c’è una trama narrativa: il poeta, passeggiando con un amico negli orti suburbani, è mi-
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nacciato da Priapo e si giustifica dicendo che sono venuti solo per vedere; il dio li perdona e vuole fare loro dei doni, invitandoli a prendere noci e uva, e raccoglie poi con la falce due poponi. Si noti che anche il custode dell’iscrizione invita il passante a non rubare ma a chiedere. Più rada è nel medesimo ambito cronologico la presenza di Vertumno; possiamo citare l’egloga Acon di Giovanni Pontano: Nape viene fatta morire dalle ninfe Naiadi, dopo che il suo innamorato aveva detto che era più bella di loro; Vertumno la trasforma in un navone, che è una specie di rapa. Nel Seicento ha grande fortuna europea il poema latino Hortorum libri IV del gesuita francese René Rapin, uscito a Parigi nel 1665. Nel libro primo, dedicato ai fiori, si legge che il tulipano era una ninfa della Dalmazia, a cui piaceva la varietà dei colori; Vertumno cercò di farle violenza, ma si ritrovò tra le braccia un fiore, il cui calice può assumere tutti i colori a seconda del terreno. Cento anni più tardi, Vertumno riceverà ancora l’omaggio di Giuseppe Parini, che nel poemetto Il Mezzogiorno (1765) ai commensali seduti a mensa col giovin signore, e intenti a esaltare fanaticamente il commercio, contrappone i prodotti dell’agricoltura lombarda ricorrendo alla mitologia: «Bacco, e Vertunno i lieti poggi intorno / ne coronan di poma». Poi in epoca romantica anche a Vertumno, come a tutti gli dei antichi, toccherà invece di subire lo sberleffo di Carlo Porta anticlassicista nel lunghissimo Sonettin col covon, del 1817.
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Tempo dopo, quel che cresce intorno al Custode dell’orto Loris Cecchini
Quando Guido Galimberti e Lorenzo Fiaschi mi hanno proposto una collaborazione con la galleria di Maurizio Canesso ed in particolare con il Custode dell’Orto non ho avuto esitazione: sono molto felice quando mi si propone il dialogo con un contesto preciso, forse maggiormente quando la relazione con gli elementi della nostra storia, nelle arti visive, o in architettura, appartengono ad un paesaggio culturale diverso da quello attuale, ma non per questo lontano dal nostro. Stratificato nel nostro tempo, anche se dimenticato a memoria. Durante la preparazione della mostra ho visto varie immagini di questa scultura esposta al Centro Pompidou di Metz nell’esposizione Face à Arcimboldo del 2021, nata da un dialogo fra Maurizio Cattelan e Chiara Parisi: circondata da tante opere contemporanee, da Mario Merz a Wolfgang Tillmans, da Pierre Huyghe a Ed Ruscha e molti altri, la scultura rimane generativa nella propria forza poetica e nella capacità di trasfigurazione. Questa capacità di mutamento non è solo dell’aspetto o della fisionomia della figura del Custode, ma innesca il prezioso processo dell’arte di generare altre immagini e luoghi simbolici, attiva in chi guarda un momento di formazione che non è più – finalmente – informazione e che si deposita nella sensibilità, in una sorta di risonanza emotiva che ha volte rilascia un’eco lungo e conduce lo spettatore in saperi differenti. Parlando con Maurizio Canesso cercavo di chiarire quanto il soggetto Natura sia suscettibile di orizzonti culturali diversi, in un paradigma sempre mutevole; di una mia personale ricerca che trova in essa una prima fonte d’ispirazione, e nella scienza, includendovi empiricamente la matematica o la fisica, lo strumento attraverso cui declinare un agire estetico. La scultura intesa come diagramma aperto, come comportamento periodico e ripetizione minimale, mi dà la possibilità di lavorare sull’espansione e la contrazione di una forma nello spazio, muovendomi con la libertà di un corpo organico
The Developed Seed (organizing a system that can continously construct itself - sequence 324), 2022 Moduli di acciaio inox 316 saldati, 204 x 124 x 20 cm [HxWxD] Courtesy Galleria Continua S. Gimignano/Beijing/Les Moulins/Habana/Roma/Sao Paulo/Paris
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Tempo dopo, quel che cresce intorno al Custode dell’orto
danzante, in cui l’unità, nella propria libertà di posizionamento, sottostà ad un ordine formale che è determinato dall’energia complessiva dell’insieme. Al di là di un processo preciso con cui agire la scultura, che è sempre suscettibile di percorsi e vettorialità differenti, credo che essa debba infine uscire da ciò che la determina per manifestarsi con un carattere musicale, l’eleganza di una pianta, la leggerezza di un’idea. In questo senso le sculture spesso sono immagini che parlano di una natura metaforica che incessantemente crea e trasforma, natura naturans colta nei suoi elementi primari, restituendo una dimensione del naturale colto nel momento del suo generare proliferazioni e trasformazioni. Chissà come la prenderà il Custode nel giardino delle mie sculture…
Nelle pagine precedenti: Germination rates on four poles (sequence 380), 2022 Moduli di acciaio inox 316 saldati, 240 x 188 x 21 cm [HxWxD] Courtesy Galleria Continua S. Gimignano/Beijing/Les Moulins/Habana/Roma/Sao Paulo/Paris
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The developed seed (organizing a system that can continously construct itself - sequence 442), 2022 Moduli di acciaio inox 316 saldati, 248 x 175 x 21 cm [HxWxD] Courtesy Galleria Continua S. Gimignano/Beijing/Les Moulins/Habana/Roma/Sao Paulo/Paris