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SUL FILO DELLA MEMORIA
BINOTTO
«TORNEREMO A VINCERE»
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INTERVISTA AL TEAM PRINCIPAL DI FERRARI CORSE. COME È CAMBIATO L’APPROCCIO DEL CAVALLINO ALLA F1 E QUAL È LA STRADA CHE PORTERÀ DI NUOVO SUL TETTO DEL MONDO.
di Danilo Castellarin
Alla Ferrari ci sono 1200 specialisti che lavorano per riportare il titolo mondiale a Maranello. L’imbarazzante digiuno dura dal 2007, quando campione fu Kimi Raikkonen. E continua dopo il secondo titolo conquistato a Suzuka da Verstappen. Per spiegare l’impegno della squadra, Mattia Binotto, nato a Losanna il 3 novembre 1969 da genitori italiani e cresciuto in Svizzera, butta lì un esempio facile: «Quando iniziai a lavorare per la Ferrari, nel 1995, c’erano 600 persone impegnate nel reparto corse, oggi sono il doppio perché le specializzazioni si sono moltiplicate, i power-unit hanno imposto studi e ricerche incrociate, l’aerodinamica è diventata estremamente sofsticata . Ormai è fnita l’epoca in cui le auto da corsa erano ispirate alla massima leggerezza e al motto “Meno roba c’è, meno roba si rompe”. Ricordi lontani anche per gli appassionati di auto storiche, quelli che non dimenticano quando per vincere di persone ne bastavano molte di meno. «Oggi il prodotto è troppo complesso e per gestirlo servono specia i a ioni mo to sofsticate, i risu tato non mai so o i una ersona, ma i un gru o motivato , sottolinea Binotto. E aggiunge che fra gli avversari, «la Red Bull ha una capacità di sviluppo superiore alla Merce es . Una constatazione che aiuta a comprendere come sia cambiata la F1 Red Bull, infatti, non ha il bagaglio di esperienze di due colossi come Ferrari e Mercedes. Ma ha la genialità di Adrian Newey, un
pilota eccezionale e la condiscendenza FIA che ha chiuso un occhio sul superamento di budget, equivalente, spiega Binotto, «ad una settantina di ingegneri in più che lavorano sullo sviluppo, con vantaggi in pista per almeno ue stagioni . Non è poco. Iniziato bene, anche il 2022 è stato deludente, con un Verstappen pigliatutto. Proprio come faceva Schumi all’inizio del duemila, quando Binotto era fresco d’assunzione e la Ferrari era una delle squadre meglio assortite della Formula 1, con Luca Cordero di Montezemolo, Jean Todt, Ross Brawn, Rory Byrne. E in pista Micheal Schumacher e Eddie Irvine. Da allora Binotto ha conquistato fducia e nuove responsabilità e nonostante il lavoro che aumenta, riesce sempre a mantenere la calma, l’entusiasmo, la modestia e l’umanità. Se gli chiedi cosa avrebbe voluto fare nella vita se non fosse diventato ingegnere, ti risponde il falegname ed è contento che a Marco e Chiara, i due fgli, non sia venuto in mente di seguire le sue orme professionali. Credente, ma non sempre praticante, si rilassa camminando nei boschi o pedalando in bici. E a chi gli dice che è un intransigente ingegnere svizzero, racconta che cosa gli capitò nel 2003. «A Monza Schumacher partì in pole, restò davanti a Montoya per tutta la gara e riuscì a vincere dopo una battaglia maledettamente impegnativa, ingaggiata giro o o giro, com attuta su f o ei centesimi i secon o. rima e ran remio ta ia c erano state ue gare i fci i e i am ionato era incerto. a vittoria a on a, che non mai una gara qualsiasi, lo caricò e lo portò verso il quarto tito o mon ia e . La vittoria di Schumi fn per travolgere il giovane tecnico. o ero ingegnere motorista e, tornan o a casa, vicino a arma, su erai con la mia auto il limite di velocità e beccai una mu ta con i focchi . Di più. «Mi ritirarono anche la patente e per andare a lavorare a Maranello chiesi in prestito il motorino a Felipe Massa, a e oca co au atore . Spigolature serene, scampoli di vita vissuta raccontati con un sorriso affabile. Forse è stata anche questa modalità rassicurante, mai aggressiva e arrembante, ad aprirgli una carriera straordinaria culminata il 27 luglio 2016 con la nomina a “Chief tecnical offcer” e dal 7 gennaio 2019 Managing director e team principal, come dicono alla Ferrari. Parole straniere che signifcano Direttore tecnico, la posizione prestigiosa che per tanti anni fu del grande Mauro Forghieri, tutt’altra personalità, tanto che i meccanici lo chiamavano ‘Furia’ per le sue tirate improvvise, ma sempre in piedi sulla tolda del vascello a fanco del Grande Vecchio, il timone stretto fra le mani, burrasca o bonaccia che fosse, per affrontare in giro per il mondo epiche sfde contro colossi Ford, Porsche, Matra. Un’altra era. Forse più affascinante, certamente più pericolosa, sicuramente meno esasperata. Tanto che lo stesso Binotto, a Maranello, durante la presentazione del docuflm di Giangiacomo De Stefano L’Aviatore’ dedicato a Villeneuve, ha ammesso che non deve essere stato per niente facile lavorare con piloti come lui, che «gui avano istinto, non vo evano sa erne e cam io automatico, rifutavano i congegni e ettronici e non so ortavano ingegneria i ista . Tutta un’altra cosa rispetto ai giovani d’oggi. «Quando har es ec erc arrivato in cu eria , racconta, «l’ho preso in diparte e gli ho detto con un sorriso u sei nato ne otto re e mio fg io ne novem re, uin i non are i ur o erch so come siete atti e come ragionate . Solo una battuta perché in fondo il suo cuore è tenero e l’occhio abbastanza lungo per comprendere la squadra, motivare Charles e Carlos, perfno ricordare con affetto Sebastian Vettel uan o avorava con noi e ne e ause ai o asco tava in cu fa oto utugno e u o . E soprattutto promettere: orneremo a vincere .
Quest’anno il “Premio ASI per il Motorismo Storico” è stato assegnato a Giacomo Agostini. In passato il premio è stato consegnato alla Presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati nel 2019, all’ingegner Giampaolo Dallara nel 2020 e ai due designer Marcello Gandini e Leonardo Fioravanti nel 2021. Quest’anno il Consiglio federale ha deciso di assegnarlo a Giacomo Agostini in occasione del suo 80° compleanno. La sua storia sportiva è unica ed eccezionale e ancora oggi è l’esempio di un’eccellenza italiana composta da talento e disciplina. I nostri lettori conoscono molto bene le sue imprese, i suoi 15 titoli iridati conquistati tra il 1966 e il 1975 e “Anche i 18 titoli italiani - vuole sottolineare il campione -che non sono una cosa banale”. Pochi giorni prima della consegna del Premio ASI, abbiamo incontrato - insieme al presidente della Commissione Manifestazioni Moto Palmino Poli - Giacomo Agostini nella sua casa di Bergamo, una bella villa che lui stesso aveva progettato. L’architettura e l’edilizia rivolta al restauro di case di pregio sono diventate la sua passione, una volta ritirato dalle competizioni. Lo accompagna in questa avventura il fglio Piergiacomo, che ci accoglie insieme al campione. La prima impressione è quella di grande serenità, nonostante il coinvolgimento di tutta la famiglia nell’intenso impegno lavorativo nel curare diversi interessi in Italia e all’estero.
All’interno del parco Giacomo Agostini ha costruito, integrandolo nel verde, il suo museo, inaugurato alla fne del 2019, che contiene tutti i trofei vinti, la sue tute, i suoi caschi e molto altro ancora, oltre, naturalmente, ad alcune motociclette che hanno segnato la sua carriera. Ci sediamo intorno a un iconico tavolo realizzato in occasione del compleanno con la sigla AGO a reggerlo, lo stesso intorno al quale si sono sviluppate le diverse puntate celebrative a cura di Guido Meda, trasmesse sui canali SKY. Circondato dai suoi ricordi, Giacomo Agostini ci regala una conversazione nella quale ci fa entrare nel suo fantastico mondo che oggi è legato alla storia della sua vita. “Innanzitutto sono felice di ricevere un altro premio. Quest’anno continuo a festeggiare i miei 80 anni e non so quando fniremo. Forse a fne stagione quando inizieranno gli 81. Il premio troverà posto qui nella Sala trofei”.
IMPEGNO AL 100%
Passiamo quindi a esaminare gli aspetti anche noti della sua carriera, caratterizzata dall’impegno profuso dal campione. “Se vuoi fare delle cose per ottenere il 100% devi dare il 100%. Quando ho iniziato a correre e sono diventato professionista avevo anche delle responsabilità e ho pensato che osse giusto che mi re arassi sia fsicamente con g i a enamenti, sia ne a nutri ione. erch ho ensato che correvo er una asa, rima er a orini, oi er a gusta, ove oro acevano sacrifci con im egni anche economici er arteci are a ueste gare e uin i io ovevo contraccambiare. Per vincere ho pensato che dovevo essere anch’io per forza al 100% in ogni gara e uin i er me a enamento, a re ara ione sono stati mo to im ortanti. a seriet ensare che avevo una moto er oter vincere e che i u ico as ettava a me a vittoria e uin i non otevo tra ir i . Anche perché all’epoca si poteva correre in più categorie nello stesso giorno. Quindi ci voleva un gran fsico. ettivamente si. o acevo ue categorie, fnita uno ini iava a tra. e evo a moto che assava sotto i a co urante a remia ione er raggiungere a it ane. ito una gara, una e e tante, a a is urgo, ove ioveva e aveva iovuto er tre giorni. na gara terri i e, mo to rischiosa. o vinto con a , ero istrutto, tremavo a re o ero su o io e ho visto che i meccanici s ingevano a a arten a a . i icevo ma no i tocca i nuovo. uan o sono sceso ero tutto agnato, mi sono to to g i stiva i e un meccanico mi ha ortato una acine a iena i ac ua ca a, ma avevo so amente minuti erch a moto era gi su a inea i arten a. i sono sca ato i ie i con uesta acine a i ac ua e oi ho messo un aio i ca e asciutte che mi ha im restato un meccanico, g i stiva i ancora agnati, e sono artito er a . uin i era ura, ma a a fne ero e ice erch e ho vinte tutte e ue. a sera a iamo esteggiato .
L’APPOGGIO DELLA FAMIGLIA
Contrariamente a quanto scrivono alcune biografe, la famiglia per Giacomo Agostini è stata una costante, sin da quando gli venne regalato, all’età di 9 anni, un Bianchi Aquilotto, tutt’ora conservato nel suo museo.
Poi le prime gare, giovanissimo, come la cronoscalata MalegnoBorno nelle quali seppe dimostrare il suo talento. a amig ia mi seguiva er io non o sa evo. meg io, sa evo ma non li vedevo. C’erano mio padre e mia madre che venivano a vedermi correre er non vo evano che io i ve essi orse er non crearmi tensione, non crearmi reoccu a ione. rano nascosti, a irittura non mi chie evano mai i ig ietti, non so come acessero a entrare. Forse i com ravano o i riconoscevano, comun ue i ve evo so o ua che vo ta o o a gara o ure oro sca avano e tornavano a casa . Questo senso della famiglia c’è anche da parte sua. Qui con noi c’è suo fglio Piergiacomo, presente soprattutto in questa parte storica della sua vita. Lo abbiamo visto ad ASI Moto Show a Varano de’ Melegari, dove ha guidato una delle sue moto. ui a icco o icco o amava i i ca cio che e moto. oi an ato in nghi terra a stu iare e ha imenticato sia i ca cio sia e moto e a esso, uan o accio ua che reviva , s ecia mente a ue o i arano, ui mi segue e si iverte a are ua che giro con me. i iace, er er correre ci vorre e un a tra assione e avre e ovuto ini iare mo to rima .
I GIOVANI E I MITI DEL MOTOCICLISMO
Approfttando della presenza di Piergiacomo Agostini gli chiediamo cosa prova in sella a queste moto. nnan itutto un onore erch sono moto storiche che hanno vinto molto - spiega Piergiacomo - emozione ma anche tanta responsabilità erch non si u s ag iare con ueste moto. È e issimo, mi iverto tanto, sem re con caute a, e uan o ossi i e o accom agno. u tima vo ta stato uest anno a oto ho . i ivertiamo, acciamo ua che giro insieme sem re una gioia gran e . Qual è secondo lei oggi il rapporto di suo papà con gli appassionati? i assione ce n avvero tantissima e curioso ve ere come ci sia a iverse genera ioni a gente i a u ta e et i mio a re, ma s esso e vo entieri ci sono tanti a assionati i giovani, i o meno e a mia et o anche i giovani, raga ini. uesto mo to e o erch vuo ire che a ha asciato tanti ricor i e anche i i giovani possono documentarsi e rendersi conto di cosa ha rappresentato. Il bel o i uesti eventi ro rio i mi genera iona e . Giacomo, secondo lei, cosa spinge i giovani verso la moto d’epoca? oca ci sono i ricor i e assato che i genitori raccontano. n giovane che rova a moto si a assiona su ito erch , a i eren a e a macchina, a moto a cava chi e tu a orti. io , tu vai con a moto, tu an i con a moto, ieghi con a moto, uin i a moto a orti. orma mente dico che dalla macchina sei portato e la moto la porti. È una gioia che a tre cose non ti anno .
IL NO (SOFFERTO) A ENZO FERRARI
Quindi il rapporto con l’automobile è stato molto diverso. C’è stato un momento al termine della carriera motociclistica in cui iniziò a correre sulle 4 ruote. i, a a fne e a mia carriera. vevo gi avuto una ro osta a Ferrari a met e a mia carriera motocic istica oi, con gran e is iacere, o o aver ensato e non ormito er tre notti, ho etto i no, erch ho ensato che i mio amore erano e ue ruote e uin i era giusto rimanere li. oi, o o i ritiro a e corse motocic istiche, er imenticare un o e ruote, ho atto ua che gara in Formu a , oi ho atto un cam ionato con a Formu a urora con a i iams. i sono ivertito, er c era i fco t erch ovevo imenticare ue che acevo in moto e im arare come si gui ava una macchina. a gente e i u ico reten eva che io vincessi subito perché avevo sempre dato vittorie ogni domenica. n giorno i i au a mi isse iacomo, io non ca isco una cosa ho im iegato anni rima i vincere in Formu a e a gente reten e che tu vinca su ito i rimo anno . o g i ho ris osto erch i ho a ituati tro o ene vincen o tutte e omeniche in moto, uin i si as ettavano ua cosa i i . omun ue mi sono ivertito, ma ero a fne carriera. on reten evo a tro che conoscere come si gui a una Formu a .
UNA PASSIONE NATA NELL’INFANZIA
Facciamo un bel salto indietro: cosa è stato importante per l’inizio da motociclista? Cosa l’ha portata al professionismo? “È i fci e ris on ere. o sono nato e gi a icco issimo sognavo e ruote. irittura mio a re, uan o ho com iuto anni, mi ha rega ato una e issima a omeo iu ietta rint rossa, erch ensava i armi imenticare uesta assione che avevo er e ruote erch ui non vo eva che io corressi. oi mi sono com erato una moto, ho cominciato e rime gare. irittura ne a rima gara, su i oti sono arrivato . mio meccanico era i anettiere e aese, uin i immaginate a ricor o erch stata una cosa tutta mia, non avevo nessuno che mi aiutasse, a moto avevo com rata a concessionario orini e era una moto a astan a stan ar . rrivan o mi sono convinto che e fettivamente non erano tutti dei mostri come iceva mio a re, im ossi i i a battere perché erano tutti dei grandi cam ioni. isto i risu tato ho etto ro a i mente osso continuare . n atti o o o gare ho vinto su ito e poi la mia carriera ormai la conoscete tutti .
PROFESSIONISTA CON LA MV AGUSTA
Con la MV Agusta le stagioni più esaltanti. uan o ho asciato a orini con a ua e avevo a ena vinto i cam ionato ita iano ei ro essionisti con a , a gusta mi ha chiamato erch volevano un pilota italiano che collau asse a ena nata ci in ri . conte gusta vo eva un i ota ita iano e io ero ronto. a i ini iata a mia gran e carriera. on a gusta ho vinto tito i mon ia i e er mo ti anni stata a mia secon a amig ia. È stato un ercorso e issimo, ma so rattutto un percorso familiare. Ci volevamo ene tutti, i miei meccanici, i conte gusta, come in una gran e amig ia . E poi comunque la grande soddisfazione di essere in grado di vincere anche con una moto diversa. i, erch oi a a fne e ho visto
che ormai con a non c era i niente a are, ne senso che era mo to i fci e con un motore tem i avere i oten a e uin i ho ensato che, con gran e rammarico, ovevo cam iare. vevo avuto a ro osta a amaha, cos ho asciato a con gran e is iacere. o ini iato a nuova carriera con a amaha e a i ho vinto tutto comun ue. i ne a rima gara a tona, mo to im ortante erch non avevo mai corso su una ista so rae evata, non avevo mai corso in merica, non avevo mai corso su una moto i ci in rata, su una tem i uin i ho vinto una gran e gara e oi cam ionati e mon o sia con a , sia con a . cam io stato a eccato erch o o oco i motori a tem i si sono ritirati e er anni i motori a tem i sono stati rotagonisti . Oggi questo abbinamento con Yamaha la porta nuovamente in pista con l’heritage. i, con amaha accio ei reviva ove ca ita. er a storia ha e mie ue amig ie a gusta e a amaha. o vinto con tutte e ue e i en e a cosa re eriscono g i organi atori eg i eventi e uin i an iamo avanti cos .
IL DRAMMA DI SMETTERE
È diffcile smettere di correre in modo agonistico o to i fci e, erch chi ama i ro rio s ort si innamora in ua siasi isci ina. rrivi a un momento in cui evi ire asta e sei ancora giovane. Tu pensi e sei giovane. È ura rinunciare a o s ort che ti ha ato tanto, che ti ha ato gioie e che tu hai sognato a uan o sei nato. sai che uan o ci asta asta, fnita. Finire una storia uan o tu sei ancora giovane mo to ura. er isogna aver a or a, erch enso che sia giusto asciare uan o ai ancora e e gioie a tuo u ico e non asciare uan o i u ico ice ma overino er ha una certa et . a isco, anche er me stata ura, ho ianto ua che giorno uan o ho etto asta, mi ritiro È anche er uesto che oi ho rovato a gareggiare in auto. i ha aiutato a unto a so rire meno i uesta rinuncia a e com eti ioni e a e moto . Viene a mancare la routine del partire, gareggiare … na cosa che tu ami, i o io, a gente che ti a au e. oi ne caso mio a so is a ione i cosa sono riuscito a are. i ercorri a storia a mia rima vittoria in una gara, oi i rimo cam ionato ita iano, i cam ionato ita iano senior, oi i cam ionato e mon o. ono stato anche ortunato, ravo e ortunato erch tanti i oti non sono riusciti a avere ue che ho avuto io. evo ire gra ie e essere e ice i ue che ho atto . Bravo e fortunato, ma non solo. Lei ha applicato la sua disciplina in un mondo dove non tutti i piloti erano atleti. n e etti sono sem re stato mo to igno o, mo to reciso e ho sem re reso uesto mio s ort con seriet e con ro essiona it . ono riuscito anche a avere risu tati gra ie a a mia recisione, a a mia seriet , a a re ara ione sia fsica che nutri iona e. ome ho etto rima, ho sem re voluto essere al 100% perché il pubblico si aspetta da te solo la vittoria. i ricor o ue e oche vo te che sono arrivato o , c era gi chi iceva gostini fnito . uesto mi aceva ma e, er mi caricava .
NELLE CORSE DIFFICILE ESSERE AMICI
Nelle biografe si legge che tra gli avversari non c’erano veri amici. È solo dovuto alla competitività o forse anche alla mancanza di affnità culturali? “Soprattutto la competizione. Perché con gli ultimi o i comprimari l’amici ia c . on u esserci uan o otti er i rimo osto, erch natura mente per vincere non puoi essere sempre corretto al 100%. Tante volte devi magari rischiare un o e toccarti con avversario. ui nasce un o i astio. era ai miei tem i, c oggi, im ortante avere ris etto, ca ire che oggi u succe ere a te, omani a un a tro. evi ren ere ecisioni a a ora, e anche se non uoi, a vo te ca ita i s ag iare .
Avversari, ma mai nemici. L’avversario è sempre indispensabile per lo spettacolo. n atti ico sem re che er a mia carriera evo ire gra ie anche a en o aso ini erch io ero un om ar o che correva in mi ia omagna, ove si acevano uasi tutte e gare. o an avo a ottare contro un romagno o che aveva un sacco i ti osi. o ne e rime gare non avevo nessuno. er fortunatamente le mie vittorie mi hanno portato ad avere tantissimo pub ico anche in mi ia omagna. o e aso ini a iamo sem re ottato, non c mai stato nessun e iso io rutto. i, a gran e riva it c era, er ci rispettavamo. Eravamo anche amici nel senso che ogni tanto potevamo anche an are a mangiare insieme. osa che oggi non si a .
GRANDE CONTRIBUTO PER LA SICUREZZA
Conosciamo anche un Giacomo Agostini paladino della sicurezza. “Per la sicurezza credo aver fatto abbastanza. In tanti anni ho visto alcuni miei amici e co eghi asciarci e uin i ho ensato che isognava are ua cosa. o sem re ottato anche nei circuiti ui in ta ia, so rattutto citta ini, ove cercavo i ar mettere un camion in i i a e i ag ia, icen o ag i organi atori che a vita i im ortante. o atto cance are i ourist ro h come gara e am ionato e on o. o etto hi vuo correre corra ure, ma non evi essere o igato . esso corrono ancora, una gara interna iona e, er non sei o igato a correrci er esigen e i cam ionato . Nonostante la vittoria al Tourist Trophy. eh, io ho vinto ourist ro h . orrere e vincere uesta gara un emozione che non trovi e non provi in nessun’altra pista. Difatti anche la gente che va anche so o a ve ere rimane co ita a uesto tracciato che ti un a rena ina, una gioia, ma natura mente non evi ensare a erico o . Delle moto che ha usato qual è quella che le è rimasta più impressa? on ne ho so amente una erch ho tre gran i ricor i. no i rimo con a mia moto rivata a rima vittoria a a o ogna an uca e stata una gioia erch su ito o o i commen ator orini mi ha ro osto i correre con una sua moto u fcia e. a secon a a gusta. ono entrato in uesta a ien a conosciuta in tutto i mon o e entrarvi stata una cosa meravig iosa. o vinto su ito i cam ionato e on o, oi , oi fno a . ome stato e o uan o sono an ato a a amaha ho vinto ancora ue mon ia i . utti in imentica i i, come i rimo, uan o sono artito con un sacco con entro e ane, una coto etta, ei sa ami e a irittura e ustine i ro itina er gasare ac ua e con i mio meccanico che era i anettiere e son tornato a casa con a vittoria. na vittoria tutta mia, con a mia moto, com erata a rate, meccanico in i fco t a cam iare una can e a. uesta vittoria non a otr mai imenticare . Qui c’è questa collezione di motociclette e ci sono anche i suoi ricordi. n uesta icco a sa a tro ei ci sono tutte cose origina i. utte e cose che io ho usato urante a mia carriera. a e moto con cui ho vinto, a e tute, a a rima tuta che esava un chi o e grammi a u tima e a ainese che esa chi i e me o con air ag. o a se uen a ei caschi, a rimo a sco e a fno a u timo integra e i oggi. o i cam ionati e mon o, i tito i ita iani ei ua i non se ne ar a mo to, ma sono im ortanti erch giusto che si tenga resente che ta ia mi ha ato tito i o io ho ato a ta ia . L’Italia continua a comportarsi bene con i suoi piloti nella Moto GP. ta ia ne a storia sem re stata insieme a nghi terra una e e na ioni in cui i motocic ismo era a e ste e. e senso che a iamo avuto tanti i oti, tante a ien e che hanno atto a storia. a uan o nato o s ort ta ia in rima inea e oggi ancora a iamo ei gran i i oti che si stanno orman o e s ero che a reve avremo nuovamente ua che cam ione e mon o ita iano e magari con una moto ita iana .
Una storia che continua forse grazie anche a Giacomo Agostini e alle sue vittorie, un esempio per generazioni di giovani piloti. a u icit anima e commercio. o ti hanno visto gostini che correva, che vinceva e i motocic ismo iventato o o are. ono partito con la tuta nera e siamo arrivati con le tute co orate. on c erano g i s onsor che sono poi arrivati durante la mia carriera. Sono felice e orgoglioso di aver portato il motociclismo a un certo ive o e a esso continuano g i atri, giustamente e spero che lo tengano sempre in alto come a iamo atto noi .
AGOSTINI PERSONAGGIO
Il personaggio serve allo sport? “Sempre. Il pubblico vuole vedere lo sportivo che fa cose che gli altri non riescono a fare. Se tutti vincono e uesto sare e e o i gran e u ico ire e eh, a ora aci e . og iamo ve ere assius a , ara ona, er , gostini, a entino ossi, g i a tri rima i me, ohn urtees. og iono ve ere e ersone che anno cose che asciano tutti a occa a erta, erch icono ome u are uesto . Un personaggio esce anche dagli schemi, va in Tv, fa del cinema … o avuto anche a ortuna che a ini io, o o aver vinto ue tito i mon ia i, hanno incominciato a chiamarmi per fare dei fotoromanzi che a e oca non sa evo nemmeno cosa ossero. o atto ue o, ho atto ei arose i , ho atto tre f m. e a mia carriera ho atto un o i tutto e sono felice perché oggi so come si guida una moto uori i u io , ma anche come si girano i otoroman i, i arose i , come si anno i f m. cinema una cosa artico are, una cosa mo to attraente, iversa a ue a che acevo e ho vo uto rovare a correre in macchina er ca ire come si gui a una Formu a . uin i irei che ho rovato tutto e sono orgog ioso e e ice i uesto . Lei ha anche fatto il team manager. uan o ho smesso i correre sia a amaha, sia a hi i orris, mio gran e s onsor, mi hanno ro osto i are una s ua ra. ini io ero un o titu ante oi mi sono eciso. o reso a amaha come artner, con a son, cam ione americano, a iamo vinto tre cam ionati e mon o. nche ui grande soddisfazione per essere riuscito a vincere anche come direttore e capo di un team. È stata una e a es erien a anche ue a . Invece con la Suzuki? a u u i stata una arentesi uan o stavo er smettere. vevo una mia s ua ra con gusta, amaha e anche u u i. a u u i era una moto meravig iosa erch an ava ortissimo e si gui ava mo to ene. motore, urtro o, era mo to e icato. er stata una e a es erien a anche ue a, erch uan o non gri ava vincevo. eramente era una moto ecce iona e .
Guidiamo la prima auto a circolare in Italia
COME SI GUIDA UNA VETTURA DELLA FINE DELL’800? CE LO SIAMO FATTI SPIEGARE DA FABRIZIO TAIANA CHE HA SCOPERTO LA PRIMA AUTO CIRCOLANTE IN ITALIA E, OGGI, PRESENTA IL SUO LIBRO CON LA LIBRERIA ASI.
di Fabrizio Taiana
Sterzare, frenare, accelerare sono movimenti ormai automatici per tutti noi, ma quando nel 1893 arriva la prima auto in Italia, nessuno ha idea di come farla funzionare e di come guidarla. La Casa suggerisce di seguire un corso pratico di pochi giorni prima di utilizzare la vettura. Ovviamente il corso è in francese, visto che si tratta di una Peugeot e che si tiene presso gli stabilimenti nel Doubs. Quando Gaetano Rossi il 2 gennaio riceve per ferrovia la sua auto a Piovene Rocchette ci immaginiamo che abbia coinvolto uno dei suoi tecnici - che ha mandato in Francia a seguire il corso - e poi, con il libretto “uso e manutenzione” in mano, lo traduce e contribuendo così ai primi metri di una vettura a petrolio sul suolo italiano. Il libretto è molto dettagliato e completo, vi presentiamo quindi solo i fatti più salienti e curiosi. Il serbatoio del carburante è posto sotto al sedile anteriore e può essere riempito con un imbuto oppure trasportato (perché il serbatoio è amovibile) in un locale dove si trova la riserva del carburante. Con una piccola pompa, bisogna immettere l’aria nel serbatoio della vettura generando una pressione suffciente sulla superfcie del liquido, affnché il carburante vada a riempire sia il carburatore à léchage sia il serbatoio dei brûleur il cui “troppo-pieno” serve a riempire il carburatore. Il carburante da impiegare deve avere un peso specifco tra i 680 e i 700 gr/m . Una benzina leggera è più adatta alle basse temperature. L’acqua deve servire a raffreddare i cilindri e viene immessa nella vettura con un imbuto. Va caricata fnché il serbatoio speciale e i tubi del telaio siano completamente riempiti. Quando si è in marcia, è suffciente rimettere il livello dell’acqua che si è persa per evaporazione, senza bisogno di aspettare che tutto il telaio o il serbatoio siano vuoti. necessario che la lubrifcazione venga fatta con olio minerale puro, il solo che non lasci residui nei cilindri e che si decompone col calore. Si inizia a riempire il motore con l’olio, in due o tre passaggi consecutivi, fno alla piccola tacca posta alla base delle aste della distribuzione. Si fa aspirare questo olio dal motore girando lentamente la manovella, si riempiono poi gli ingrassatori e infne una goccia d’olio va fatta cadere sulla leva della manovella di avviamento, lungo le aste della distribuzione e anche sulle articolazioni delle valvole di scarico. Di tanto in tanto è bene versare all’interno dei cilindri uno o due bicchieri di petrolio; si lascia poi scolare lungo la vite di spurgo che si trova nella parte bassa del motore, dopo averlo fatto girare un poco a mano.
È necessario anzitutto l’ingrassaggio dei sei ingrassatori posti sugli alberi dei diversi ingranaggi, di tutte le leve dell’articolazione dei comandi e in generale di tutti i pezzi che si muovono. Le catene devono essere ingrassate abbondantemente, soprattutto se si ha circolato con la pioggia. Dopo aver lubrifcato il motore, si controlla che sia in buono stato facendo ruotare la manovella. Ad ogni giro si incontrerà una resistenza abbastanza forte dovuta alla compressione dell’aria nella parte superiore dei cilindri. La mancanza di compressione signifca che c’è una fuga in un cilindro da parte di una valvola, dal tubo di platino, che potrebbe non essere fssato adeguatamente o essersi bucato, oppure da una guarnizione che non tiene e quindi da sostituire. Svitare di due o tre giri la vite centrale del serbatoio di alimentazione dei bruciatori, poi svitare quella posizionata alla biforcazione del tubo che va ai br leur e accenderli fno all’ottenimento di un fuoco di colore giallo. Dopo circa un minuto la famma da gialla diventa blu e molto viva; quindi, i tubi di platino diventano incandescenti. Quando i tubi di platino sono incandescenti, la messa in moto deve sempre avvenire con la leva del cambio a folle, cioè tra la prima e la seconda marcia. Dopo aver aperto completamente l’ammissione del carburante, si gira la manopola fno al segno “O” sul settore del rubinetto di regolazione, ruotando a destra la manopola posizionata dietro. Bisogna compiere poi qualche giro di manovella, al fne di provocare lo spandersi dei gas e poi rimettere progressivamente la manopola verso sinistra fnché si avverte l’esplosione.
La maggiore o minore apertura del rubinetto dipende da varie cause, come: la qualità del carburante, la quantità che resta nel carburatore, la temperatura, ma con l’esperienza l’avviamento diventa sempre più facile. Una volta che il motore è avviato e gira secondo la regolazione della manopola, il conducente prende posto sul sedile con i piedi tra il piantone dello sterzo, stacca quindi la frizione usando il pedale, attende un momento mentre l’albero che porta al disco della frizione si fermi completamente e poi spinge la leva verso la prima marcia, cioè la velocità ridotta, stacca poi lentamente il pedale della frizione sollevando il piede e contemporaneamente con la mano destra sgancia la leva del freno. Per passare da una velocità media a una velocità maggiore, dopo aver premuto col piede il pedale della frizione, bisogna spingere più lentamente possibile la leva del cambio nella posizione della marcia superiore e in seguito staccare il piede dalla frizione senza lasciare il tempo alla macchina di rallentare. In ogni circostanza è bene fermarsi progressivamente schiacciando il pedale della frizione e tirando la leva del freno. Non fermarsi bruscamente se non in caso di emergenza. Per l’arresto defnitivo occorre attendere qualche secondo dopo aver spento le famme dei br leurs e avere l’accortezza di chiudere le due viti che avevamo aperto per l’immissione del carburante dei brûleurs. Carburatore: avere cura di non riempirlo eccessivamente lasciando sempre spazio per la formazione dei gas. Può capitare dopo qualche tempo che il liquido che resta in fondo al carburatore abbia una densità superiore ai 680-700 gr/m e che dopo aver messo il carburante a 680 si misuri un peso specifco di 730 o più: in qual caso il motore funziona in modo irregolare soprattutto in fase di avviamento.
COME È FATTA LA TYPE 3
Partiamo dal motore, il famoso Panhard & Levassor costruito su licenza Daimler. un bicilindrico verticale a V di 17° posizionato posteriormente con basamento e pistoni in ghisa, due segmenti, solo la testata è raffreddata ad acqua. L’alesaggio è di 60 mm, la corsa di 100 mm per una cilindrata di 565 cm e un rapporto di compressione di 2,5:1. La potenza massima è di 1,65 CV a 920 giri, sul massimo di 1000 giri/min, la valvola di aspirazione è automatica per depressione del pistone, quella di scarico è a comando meccanico con aste e rinvio. Il peso del motore è di 61,5 g. L’accensione avviene attraverso un sistema di brûleurs. L’alimentazione del carburante avviene attraverso un carburatore à lechage o barbotage, lo scarico è libero. La lubrifcazione avviene per sbattimento, mentre il raffreddamento avviene a termosifone, per evaporazione dell’acqua immagazzinata nei tubi del telaio, senza scambiatore di calore. L’ avviamento è a manovella. Il telaio della Type 3 è composto da tubi in metallo saldati tra di loro con passo di 1,65 m e carreggiate di 1,15 m, le ruote anteriori hanno un diametro di ottanta centimetri, quelle posteriori di un metro. Lo sterzo è diretto e comandato da una leva a queue de vache che comanda una catena. Le sospensioni sono a balestra, mentre i freni sono sulla trasmissione. Il cambio è a 4 marce più retromarcia. La frizione è a cono con il cuoio come materiale di attrito e collega il motore alle ruote tramite un differenziale, mentre la trasmissione fnale avviene tramite due catene. La carrozzeria è di tipo vis-à-vis a 4 posti costruita in legno. La lunghezza totale è di 2,56 m e la larghezza di 1,35 m, con un’altezza di 1,59 m e 2,05 m con capote alzata. L’illuminazione anteriore è garantita da due candele in cera spinte da una molla per compensarne il consumo. Il peso totale della Type 3 è di 500 g. Quanto a prestazioni, possiamo indicare un consumo di circa 9,5 litri ogni 100 m e una velocità massima di 18 m/h, da rapportare a quella di un cavallo al passo che è di 5-7 m/h sulle lunghe distanze, anche se al galoppo un destriero può raggiungere gli 88 m/h. Un’analisi di effcienza del motore, svolta dal Centro Ricerche Peugeot negli anni ’60, afferma che il consumo specifco è di 560 gr/CV/h, rapportato ai circa 200 gr/CV/h di una Peugeot 404 del 1961 e la pressione media effettiva è di 10,8 g/cm , contro i 50-60 g/cm di una 404. un’indicazione dello sviluppo motoristico.
IN UN LIBRO TUTTA LA STORIA DELLA TYPE3: FILOSOFIA E METODI DI GUIDA DI UNA VETTURA DELL’800
2 gennaio 1893, arriva in Italia la prima auto. È una Peugeot Type 3 acquistata da Gaetano Rossi delle famose industrie tessili. Arriva a Piovene Rocchette (Vicenza). L’avvincente scoperta storica, il ritrovamento della vettura, le caratteristiche tecniche e il suo restauro. Oggi può essere ammirata presso il MauTo di Torino. Il testo che ne racconta la storia, il ritrovamento e la rinascita, a frma di Fabrizio Taiana, segretario del Club Storico Peugeot Italia e scopritore proprio di questo modello, è un breve saggio suddiviso in cinque parti. L’avvento dell’automobile cambia lo scenario della mobilità individuale, fno allora dominata dal mondo dei cavalli. L’innovazione, la visione europea, le perplessità, i problemi tecnici ma poi nasce il settore automobilistico. Perché la Peugeot Type 3 è la prima auto a circolare in Italia Le sue vicissitudini nei 130 anni tra la data dell’ordine e la presenza oggi presso il più importa Museo del motorismo in Italia. La metodologia della ricerca storica. Come è fatta e come si guida una Type 3.
Filosofa e dettagli del suo restauro. “La Prima Auto a Circolare In Italia” di Fabrizio Taiana, testo in italiano; oltre 200 immagini b/n e colori; 200 pag; formato 14x 21,5 cm; 24,00 €. È bene quindi riempire il carburatore prima dell’avviamento con carburante fresco della giusta densità. In caso di marcia per più ore consecutive, la macchina funzionerà bene anche con benzina più pesante e potrebbe proseguire anche fno allo svuotamento del carburatore. Di tanto in tanto è bene svitare il tappo a vite che si trova sotto al carburatore per spurgare completamente dai residui che si possono formare. Se i brûleurs non funzionano bene, le famme flano o si spengono, malgrado il serbatoio di alimentazione non sia vuoto, ciò può indicare che un piccolo foro si è creato nel brûleur stesso, dal quale fuoriesce il carburante. In tal caso bisogna svitare il brûleur, levare il tubetto dentro al cilindro per controllare che non sia carbonizzato e che non ci siano residui di carburante pesante e quindi volatile. In tal caso bisogna cambiarlo svitando il dado di uscita del carburante, sia con uno sforzo applicato al tubo, sia passando un flo metallico sottile e rimettere poi in posizione il brûleur dopo aver fatto cadere qualche goccia di benzina fresca sul tubetto di platino. A volte i tubetti si sporcano di nero fumo che bisogna eliminare quando freddi o, se caldi, con un tampone di amianto. Alla lunga si deposita all’interno di questi tubetti una leggera polvere rossa che si deve eliminare di volta in volta con carta vetrata fne. Questa polvere di tartaro, inspessendosi, nuoce all’accensione dei gas. Assicurarsi spesso che le catene di trasmissione, dello sterzo e i raggi delle ruote siano suffcientemente tesi. Accertarsi pure che non manchino bulloni, coppiglie, rondelle e che i dadi siano serrati forte. Queste precauzioni sono successive alle vetture nuove. Rispetto alle auto anche dei primi 900, quando il magnete a bassa tensione e le candele sono responsabili dell’accensione e con la presenza di un carburatore a polverizzazione, si osserva la grande attenzione al funzionamento dei brûleurs e al peso specifco della benzina. Nel libro sulla prima auto a circolare in Italia troviamo poi la presentazione di tre apparati anacronistici: il carburatore à léchage, l’accensione a brûleurs e il controllo della velocità del motore (dei giri e quindi della velocità) attraverso un sistema regolatore a manopola. Per gli appassionati di tecnica si tratta di informazioni interessanti e perlopiù sconosciute.
PORSCHE 914:
DOPO CINQUANT’ANNI è TORNATA
UN’ AUTOMOBILE INCOMPRESA, CHE HA PENATO DECENNI PER VEDERE RICONOSCIUTO IL SUO VALORE INNOVATIVO, OGGI STABILMENTE APPREZZATA DAI COLLEZIONISTI DI NICCHIA E DA QUELLI PIÙ AVVEDUTI.
di Nino Balestra - foto Presscentre, Actualfoto, Archivio Porsche
Quando venne presentata nel settembre del 1969 al Salone di Francoforte, di fronte alle sue linee tese, quasi spigolose (nate da un prototipo presentato dallo studio Gugelot di Ulma e assemblata dalla Karmann di Osnabrück), lasciò meravigliati i visitatori, perché era tanto diversa dalla tradizione tondeggiante e levigata delle Porsche classiche. La nuova 914 nasceva da studi approfonditi di Volkswagen e Porsche, che pensavano ad una vettura intermedia, più prestante delle Karmann Ghia, ma meno costosa delle impegnative vetture di Zuffenhausen, dove inizia ormai a farsi insistente la necessità di sostituire il modello 912 a 4 cilindri. Allo scopo, i due Marchi, nel 1966 crearono la società VW-Porsche Vertriebsgesellschaft mbH con sede a Ludwigsburg. Alla non eccessiva potenza del quattro cilindri boxer da 1679 cm³ e 80 CV realizzato interamente da Volkswagen (è quello della berlina 411 LE) alimentato a iniezione che equipaggiava la entry-level 914/4 (come il numero dei cilindri), si aggiungeva però la collocazione posteriore-centrale del motore, non più a sbalzo come su Maggiolino e Karmann Ghia, che rendeva l’auto leggera, scattante e dalla formidabile aderenza in curva, il tutto aiutato dalle sospensioni a 4 ruote indipendenti e dai 4 freni a disco, tutto progettato da Porsche, così come il telaio a piattaforma. Contemporaneamente si poteva scegliere, per chi volesse di più, anche la 914/6: come dice la sigla, questo modello era dotato del più performante motore sei cilindri, sempre boxer di 1991 cm³ e 110 CV di potenza alimentato con 2 carburatori, lo stesso che equipaggiava le Porsche 911T e quindi realizzato negli stabilimenti di Zuffenhausen (piccola curiosità: che questa sia una “mini-Porsche”, lo testimonia la disposizione della chiave di accensione, a sinistra, come sulle 911, mentre le 4 cilindri la mantengono in posizione classica, a destra). La velocità aumentava da circa 175 a qualcosa di più dei 200 Km/h, migliore ovviamente l’accelerazione, mentre il peso rimaneva comunque contenuto, passava infatti da 900 a 940 Kg. Oltre che col cambio manuale a 5 rapporti, la 914/6 è disponibile anche con cambio Sportomatic, senza pedale della frizione. Due gli allestimenti disponibili al lancio: Standard e S, quest’ultimo riconoscibile per i montanti del tetto rivestiti in vinile nero.
Nel 1972 Vol swagen si sflò defnitivamente dal progetto e Porsche proseguì da sola (ottenendo comunque la fornitura dei motori 4 cilindri di Wolfsburg). Nel settembre dello stesso anno venne abbandonato il sei cilindri da 110 CV e montato un due litri (1971 cm³, 914 2.0) a quattro cilindri da 100 CV, più adatto a collocare la vettura in una fascia di mercato più bassa di quelle impegnate dalle altre Porsche e più consono alla clientela Volkswagen. In questo caso la velocità di punta scendeva a circa 190 Km/h, mentre l’anno dopo la 1.7 diventava 1800 (1793 cm³, 85 CV), perdeva l’iniezione per i carburatori ma guadagnava
cinque CV, con la velocità che ora sforava i 180. Tutti i motori a 4 e 6 cilindri, erano caratterizzati dal raffreddamento ad aria. La 914 in tutte le sue versioni incontrò però sin dall’inizio tre ostacoli: la linea, il prezzo e la Marca. Era sì innovativa e estremamente moderna, ma non si sapeva se fosse una Volkswagen o una Porsche, con linee sconosciute ad entrambe le Case, poi c’era il prezzo. La 914/4, parliamo della 1.7, costava in Italia all’epoca tra i 2.350.000 e 2.450.000 lire, a seconda degli optional, come un’Alfa Romeo 1750, mentre la 914/6 saliva a 3.780.000, troppi considerando che la Porsche 911 T, con lo stesso motore, ne costava “solo” 4.100.000. Così il riscontro del pubblico fu piuttosto tiepido e già nel 1976 le 914 uscirono di produzione. I “porschisti” continuarono a preferire la nuova ma
classica 911 nelle sue varie versioni, mentre anche i collezionisti dopo una ventina d’anni non degnarono di considerazione le 914. La “Volksporsche” purtroppo non è riuscita a trovare subito una sua giusta collocazione né da nuova né in qualità di auto d’epoca, almeno fno a una decina d’anni fa, quando fnalmente si è capita la modernità del progetto, la bellezza della sua linea, l’originalità del motore centrale, come nelle indimenticate Porsche 550 Spyder Sport degli anni ’50. Sembra che in Italia (dove ne arrivarono poco più che 2500, la maggior parte 1.7) ne siano rimaste poche, fra belle e brutte non dovrebbero esserne sopravvissute più di una settantina. Uscì di scena dopo che in Karmann ne vennero assemblati 118.978 esemplari, a fronte dei 30.000 l’anno previsti. Sarebbe stata rimpiazzata dalla Porsche 924, vettura profondamente diversa, tanto che, per trovarne un’erede tecnica e putativa, bisognerà aspettare la Boxster, spiderina a motore centrale presentata nel 1996. Cosa vuol dire oggi, guidare una VW-Porsche 914? Il primo “step” è entrare nell’angusto abitacolo, che analizziamo prima di accendere il motore: le fniture e i materiali sono di altissima qualità e oggi, con un po’ di cura, sembrano nuove. Il leitmotiv è quello delle altre Vol swagen ma non mancano alcune raffnatezze tipiche Porsche, come volante e strumentazione. Partiamo. Il motore ha il classico ringhio ferroso dei motori Volkswagen pompati, è gradevole su questo tipo di vettura. L’accelerazione è buona anche se non fulminea, in fondo ha solo 80 CV, il cambio, con la prima in basso, tipico delle sportive pure del periodo, è apprezzabile: innesti precisi e veloci, con le cinque marce tutte sincronizzate. Ottimo l’assetto di guida, anche se bisogna farci un po’ l’abitudine perché si è seduti a quindici centimetri da terra e una vecchia 500 che ci affanca a un semaforo mi sembra alta
POSSEDERE OGGI UNA PORSCHE 914
Quando me la sono trovata davanti ho pensato che avessero ripreso la produzione e che fosse un’auto nuova. Impeccabile nella sua poco nota livrea nera, che costava qualcosa di più perché optional, era lì luccicante al sole. “Non è nuova” - mi dice il proprietario - “ha ormai compiuto i 50 anni essendo del ’71. La vernice è la sua originale, senza ritocchi, solo pulita e lucidata con cura, così come gli interni. Prima di me un solo proprietario” - prosegue l’appassionato - “e soltanto 73.000 Km. Io mi sono divertito a smontare, pulire, lucidare, imbottire un po’ la seduta dei due sedili, tappetini nuovi e sostituzione di tutte le guarnizioni, trovate originali. Ho voluto il suo specchio esterno giusto per l’epoca e oco a tro. ome meccanica ho sostituito o io, f tro, candele e messa una nuova batteria. L’ho trovata già in ottime condizioni, con freni rifatti, così come i giunti sul leveraggio del cambio (punto delicato) e gomme nuove. Va che è una meraviglia”. Il proprietario mi porta a fare un giro. Viaggiamo a cielo aperto, con il tettuccio in plastica rinforzato con fbra di vetro, alloggiato sui suoi supporti, anche questi nuovi, all’interno del coperchio del bagagliaio posteriore, senza che l’aria mi abbia dato fastidio. L’operazione di rimozione del tettino-targa è abbastanza macchinosa. Rientriamo, ci giro attorno, alla 914, la guardo da tutti i lati, mi faccio aprire il cofano anteriore. Sotto il suo tappeto c’è la ruota di scorta, sopra ci stanno un paio di borse, L’accesso al motore non è agevole, la griglia è strettina ma, in qualche modo, le operazioni di semplice manutenzione, si riescono a fare. Belli i cerchi Pedrini originali, naturalmente optional, che non vogliono imitare i più famosi Fuchs con la parte interna nera, solo lega d’alluminio lucido e opaco.
n.b.
SCHEDA TECNICA VOLKSWAGEN-PORSCHE 914 1.7
MOTORE: 4 cilindri orizzontali contrapposti, valvole in testa, aste e bilancieri con albero a camme centrale mosso da ingranaggi. Cilindrata 1679 cm³, alesaggio e corsa mm 90x66, potenza 80CV DIN a 4900 giri/min. Alimentazione a iniezione elettronica, lubrifcazione forzata a carter umido con pompa e radiatore, impianto elettrico a 12 V.
TRASMISSIONE: motore posteriore-centrale, trazione posteriore, frizione idraulica monodisco a secco, cambio a 5 marce tutte sincronizzate, comando a leva centrale. CORPO VETTURA: coupé due posti, telaio a piattaforma integrato con la carrozzeria.
SOSPENSIONI E FRENI:
avantreno a ruote indipendenti, barre di torsione, ammortizzatori idraulici telescopici, retrotreno a ruote indipendenti con molle elicoidali e ammortizzatori idraulici telescopici, freni a disco (ATE) sulle 4 ruote e doppio circuito. RUOTE E PNEUMATICI: ruote a disco in lamiera, pneumatici 155SR15.
DIMENSIONI E PESI: passo 2,45 m, carreggiate 1,34 m ant. e 1,39 m post., lunghezza 3,96 m, larghezza 1,65 m, altezza 1,20 m, peso a vuoto 900 kg.
PRESTAZIONI: velocità 175 Km/h, consumo carburante 10 litri per 100 Km.
Quello che lascia davvero stupiti è la tenuta di strada: rispetto alle altre Volkswagen, lei ricorda più i go kart della giovinezza, con il classico comportamento che si dice “letteralmente incollata alla strada”. Dopo 20 m la voglia sarebbe di farne 200 Dinamica, moderna, sbarazzina, con prezzi in salita ma ancora abbordabili, questa spider-targa dopo una cinquantina d’anni si gode la sua rivincita, gustando anche l’ammirazione sincera del nuovo pubblico d’oggi, che si gira per guardarla passare o si incanta se è parcheggiata, facendo capannello attorno ad essa: più di un giovane chiede se sia un nuovo modello
Si ringrazia”Alemaggiolino” per la preziosa collaborazione
LAVORO & PIACERE
NATA NEL 1948, QUESTA PARTICOLARISSIMA UTILITARIA DEL MARCHIO TORINESE, CON LE SUE TIPICHE FIANCATE IN LEGNO FACEVA IL VERSO ALLE “WOODY” AMERICANE, UNENDO PER LA PRIMA VOLTA IN UN UNICO MEZZO L’UTILIZZO PROFESSIONALE E QUELLO PER LA FAMIGLIA. OGGI È UN PEZZO RARO E DA COLLEZIONE, DAL GRANDE VALORE STORICO E SOCIALE.
di Matteo Comoglio - Foto archivio Bellinazzi, Ferretti e Centro Storico Fiat
Nella seconda metà degli anni ’40, la vita in Italia è ancora molto lontana dalla ripresa economica e dal benessere. Molte famiglie si possono permettere a malapena di mettere i pasti in tavola e spesso, automobili, scooter o motociclette sono un miraggio per tante persone. In più, molte industrie faticano a riavviare la produzione, soprattutto quella metalmeccanica. Grazie però al “Piano Marshall”, giungono fnalmente dei fondi che danno all’Italia una boccata di ossigeno, aiutandola a risollevarsi. La Fiat, ritenuta un’industria strategica, riprende a produrre, seppur con diffcoltà, le sue vetture e fra queste anche la piccola 500, soprannominata da tutti “Topolino” per via di quei suoi due faretti così simpatici. Dopo poco tempo, risultò comunque chiaro che anche la 500, che arriva direttamente dagli anni ’30, necessiti di qualche piccolo aggiornamento e così, nel 1948, la Fiat prepara il futuro modello dell’utilitaria, denominandolo “500 B”. A livello estetico le differenze sono davvero poche: le chiusure del cofano anteriore, le colorazioni e altri particolari, mentre gli interni vengono aggiornati, con un cruscotto e un volante più moderni e adatti al periodo. Anche la meccanica benefcia di un miglioramento non da poco: un nuovo monoblocco con distribuzione a valvole in testa e un nuovo carburatore, che permettono di dare un po’ di brio in più al propulsore, donandogli un’erogazione più regolare e progressiva. Parallelamente a questa 500 berlina rinnovata, la Fiat ha allo studio l’idea di una 500 con vano di carico ampliato e accessibile, omologata per il trasporto di quattro persone, che possa essere adatta per il lavoro e per le gite domenicali delle famiglie. Pare che la Fiat per studiare questa variante di 500, si sia liberamente ispirata a un prototipo presentato proprio nel 1948 dalla Carrozzeria Simonetti che, tolte alcune piccole differenze (portellone posteriore diviso in due e motivo sulla fancata leggermente diverso), è identica al modello poi presentato dalla Casa Torinese. Così, la Fiat presenta anche questa inedita versione della 500, che prenderà il nome di “Giardiniera Belvedere”. La sua costruzione mista in legno e acciaio gli conferiva un aspetto elegante che si ispira ai carrozzieri come Viotti e alle mastodontiche “woody” americane, le station wagon costruite appunto con lunghe fancate in legno. L’aspetto anteriore della nuova Giardiniera Belvedere è identico alla berlina, ma già le due portiere sono in legno, così come l’intera fancata e il portellone posteriore.
Viene mantenuto l’acciaio per gli archi superiori del tetto (apribile) e naturalmente per parafanghi e pedane. L’aspetto estetico è davvero molto gradevole e il successo di pubblico è incredibile: in molti vedevano fnalmente in quei quattro posti “veri” e in quel vano di carico ampio, la possibilità di avere fnalmente una vettura che avesse insieme le peculiarità utili per il lavoro ma anche per le gite domenicali con la famiglia. La costruzione di una vettura come la Giardiniera Belvedere però, richiedeva una manodopera molto specializzata, soprattutto per tutta la parte riguardante il legno ed è per questo motivo che veniva assemblata nel Reparto Carrozzerie Speciali del Lingotto. Questo dipartimento della fabbrica è un fore all’occhiello della Fiat ed è in grado di lavorare con grande maestria e minuziosità, al pari dei tanti carrozzieri indipendenti. La struttura del legno non vi è certezza sia in frassino, su molti documenti è segnato solo genericamente “legno”, mentre le pannellature più scure sono in masonite. Nella parte posteriore l’unico fanalino di posizione e stop è posizionato centralmente sopra la targa. Si tratta davvero del primo modello di 500 a 4 posti e, molte delle vetture vengono immatricolate come autocarro, proprio perché per la maggior parte del tempo sono utilizzate da rappresentanti o artigiani, per poi cambiare destinazione nel fne settimana, trasportando moglie e fgli nelle scampagnate. Sembrerà forse romantico, ma fnalmente le famiglie possono pensare anche ad evadere dalla solita quotidianità e assaporare, grazie a questa vetturetta una nuova libertà. Però la realtà è ancora dura e
l’economia ben lontana dal regalare quel benessere che sarebbe venuto negli anni successivi, per questo la 500 B Giardiniera Belvedere avrà ancora una diffusione molto limitata e gli esemplari che sopravvivono oggi sono pochissimi e hanno un grande valore storico ed economico. Un solo anno dopo la presentazione della 500 B, al Salone di Ginevra del 1949 la Fiat presenta la nuovissima “500 C”, con una linea completamente rinnovata e moderna, decisamente più adatta al gusto di quelli che saranno poi gli anni ’50. Il frontale è ora più squadrato e perde le linee aerodinamiche degli anni ’30, i fanali sono incassati nei parafanghi. Il posteriore ha ora la ruota di scorta protetta in un vano chiuso da uno sportellino che ospita anche la targa e il disegno della parte destinata a baule (dal solo accesso interno) è ora decisamente più spiovente. Per ciò che riguarda la berlina, restano disponibili le due versioni a tetto rigido e a tetto apribile. L’interno è quasi uguale a quello della precedente versione B, con alcune differenze nella selleria, così come la meccanica che subisce solo dei piccolissimi aggiustamenti volti a renderla più affdabile. Naturalmente anche la Giardiniera Belvedere viene aggiornata sulla base del modello C, benefciando di tutte queste modifche estetiche ed evolvendo ulteriormente il concetto di vettura per il lavoro e per il piacere. Con la 500 C, fnalmente l’utilitaria diventa davvero accessibile per una clientela più vasta e molte famiglie vedono il loro miraggio diventare concreto e, seppur con grandi sacrifci, acquistano fnalmente questa vettura.
La 500 C Giardiniera Belvedere, con le sue caratteristiche fancate in legno diventa pian piano una costante del panorama italiano, dai piccoli e sperduti paesini della Sardegna, fno alle più grandi città, dalle montagne al mare: gradualmente conquista l’Italia. Molte le rappresentazioni bucoliche nelle cartoline dell’epoca proprio con questa piccola automobile, ma molte anche le testimonianze di “vita vera”, di famiglie che viaggiano e fnalmente scoprono e iniziano timidamente ad affacciarsi verso una nuova vita. La Giardiniera Belvedere continua ad essere prodotta nel reparto Carrozzerie Speciali del Lingotto, mentre le berline, già dalla versione B sono prodotte nello stabilimento di Mirafori. La richiesta di questa vettura inizia però ad essere sempre maggiore e soprattutto più pressante e proprio il reparto del Lingotto, che costruiva in modo semiartigianale, non riusciva più a mantenere questi ritmi di produzione e la Fiat decise così, nel 1951 di evolvere ulteriormente la Giardiniera Belvedere, spostandone la produzione a Mirafori e abbandonando per sempre il legno, facendola diventare interamente metallica. Si ringraziano per la grande collaborazione ed amicizia Paolo Bellinazzi e Gabriele Ferretti
LA PAGINA DEDICATA E IL CENSIMENTO
Oggi le Giardiniere Belvedere rimaste sono davvero molto poche ed è molto interessante l’iniziativa di alcuni appassionati che hanno creato delle pagine Facebook puntuali e precise, su cui si possono trovare moltissime informazioni e soprattutto conoscere a fondo e nel dettaglio questa vettura così particolare. La prima si chiama “Fiat Topolino Giardiniera Legno” ed è possibile trovare davvero tutto, le foto dell’epoca e leggere storie avvincenti. Per chi invece vuole andare nel dettaglio e seguire un progetto più ampio e soprattutto carico di passione, può seguire la pagina “www.zeroa.it - Fiat Topolino” e, il relativo sito (www.zeroa.it), curata dal grande appassionato e conoscitore Paolo Bellinazzi la cui cultura sui modelli 500 Topolino è davvero incredibile. Molto interessante il progetto di censimento delle Giardiniere Belvedere rimaste ancora oggi, portato avanti da Gabriele Ferretti, che ad oggi è riuscito a censire ancora in tutto il mondo ben 383 di queste vetture.
L’edonismo degli anni ’80 porta con sé nuove mode lussureggianti e costumi più orientati all’apparire: i giovani non sognano più l’avventura rude, l’impresa estrema ai limiti dell’umano e non hanno più tanta voglia di sporcare i loro preziosi abiti all’ultimo grido ma aspirano piuttosto al viaggio Oltreoceano, sui Jumbo, attratti dal sole californiano e dalla frenesia di Manhattan. Ecco che quindi, in questo contesto, le automobili più apprezzate sono quelle veloci ma al contempo lussuose e dotate di qualsiasi gadget possibile, mentre, fra le moto, le “regolarità” specialistiche tanto in voga fra i teenager negli anni ’70, lasciano il posto alle rastremate stradali derivate dai modelli da pista, in primis, e poi alle enduro: versioni imborghesite delle “regolarità”, adatte principalmente all’asfalto e a un po’ di fuoristrada leggero che, nelle cilindrate più elevate, piaceranno anche ai papà. Per soddisfare questa nuova moda (che oggi, fra i 16-20 anni di allora, sta tornando forte come il ricordo della prima fdanzatina), le piccole realtà artigianali che si occupano delle classiche “regolarità”, lasciano il posto a costruttori più grandi, che sono poi quelli che faranno la loro fortuna con le 125 stradali: in Italia Aprilia, Gilera e Cagiva. Quest’ultima è la creatura dei varesotti fratelli Castiglioni e costruisce moto solo dal 1978 ma, nelle competizioni, si è già fatta valere per la qualità e l’effcienza dei suoi prodotti (oltre che per una ricca campagna di marketing e pubblicità), doti che si riversano ovviamente anche nei modelli di produzione, che conoscono un successo sempre crescente. Nel 1983, Cagiva ha in listino una enduro dal discreto successo, la SXT 125 raffreddata ad aria ma, per sbaragliare la concorrenza, ci vuole qualcosa di sensazionale. Per esempio, fra le stradali, sono sempre più diffusi i motori raffreddati a liquido… perché non proporlo anche su una enduro? Sarà proprio questa la grande novità della nuova enduro “alla moda degli anni ’80” di Cagiva, soluzione tecnica che seguiranno poi anche gli altri produttori che abbiamo citato sopra. Partiamo quindi dal motore: è il monocilindrico 2 tempi di 124,63 cm (alesaggio e corsa 56x60,5 mm) della SXT ma ristudiato dall’ingegner Egisto Cataldi per ospitare un raffreddamento a liquido con circolazione mediante una pompa da 56 mm, l’ammissione lamellare e la lubrifcazione con miscela olio/benzina separata con pompa Mikuni a portata variabile, elementi che gli varranno la denominazione di WSXT, dove la W sta per “Water”, “acqua”. La sigla è però piuttosto diffcile da pronunciare e da ricordare e cos , commercialmente, la moto sarà rinominata Aletta Rossa, nome che, seguito da altri colori come “Blu”, “Azzurra”, “Oro”, da quella torrida estate del 1983, identifcherà diversi modelli 125 enduro e stradali di produzione Cagiva.
Grazie al carburatore Dell’Orto PHBL 24 BD, la potenza supera i 15 CV a 7000 giri/min, utili a raggiungere una velocità massima di circa 114 km/h. La modernità dell’Aletta Rossa continua poi in un agile telaio in acciaio a doppia culla chiusa con trave superiore (derivato dalla SXT ma aggiornato nella geometria di sterzo e interasse), nella forcella anteriore telescopica idraulica prodotta dalla spagnola Llobe con molle elicoidali e in un inedito forcellone posteriore oscillante “tipo Soft Damp” con monoammortizzatore idropneumatico Corte&Cosso regolabile nel precarico. Il cambio è a 6 rapporti, la frizione multidisco in bagno d’olio. Il sistema frenante consiste in un disco Brembo anteriore da 240 mm e un tamburo posteriore da 125. Le ruote di serie sono delle WM in acciaio, da 21” davanti e da 18”
dietro (omologata anche quella da 17”) che, a richiesta, possono essere sostituite da delle Akront in alluminio. Moderna e accattivante anche l’estetica, anni luce avanti a quella della S T: a dominare il proflo spigoloso e frastagliato, il serbatoio sviluppato in verticale, al quale fa eco il faro rettangolare con un ampio cupolino che replica le potenti enduro utilizzate in gare di durata come la Parigi-Dakar. Ampi il parafango anteriore e i fanchetti, mentre, fra gli accessori, si possono avere i parasteli e la carenatura del disco freno anteriore in tinta. La sella - con il bel terminale di scarico verniciato di nero ancorato subito al di sotto - è comoda per due persone, segno che la Aletta Rossa non è più un modello da regolarità specialistica ma una moto adatta anche a fare tragitti a medio raggio senza rimpiangere una maxienduro. Il modello di lancio è rosso con telaio e sella neri ma la AR è disponibile anche bianca o nera, in entrambi i casi con telaio e sella rossa. Il cupolino e i fanchetti hanno invece sempre la tabella nera e le scritte bianche. In pieno stile Cagiva, la pubblicità dell’Aletta Rossa occupa l’intera ultima pagina della Gazzetta dello Sport di Ferragosto ’83, contribuendo al successo immediato che, nel solo autunno del 1983, porterà in casa ben 12.000 ordini. Sull’onda del suo successo, Cagiva diversifcherà la produzione presentando anche la grande Ala Rossa, molto simile alla Aletta ma più affusolata nella linea, dotata di un “mono” 4 tempi da 343,3 cm³ in grado di erogare 27 CV; lanciata con slogan del tipo “Papà, non litighiamo più per la moto! A ciascuno la sua” o “La preferita di papà”, è chiaramente indirizzata a una clientela più matura, elemento che è probabilmente proprio il motivo del suo scarso successo. Infne presenterà il prototipo della Aletta Rossa 200, pensata per il mercato americano, con lo stesso motore WSTX ma con cilindrata portata a 190,38 cm³: la moto verrà poi accantonata per lasciar spazio alle Elefant 125 e 200 ma sarebbe poi stata prodotta e venduta dal gruppo brasiliano Agrale col nome di S T 27.5 (cifra che indica la potenza in CV). Il successo della AR da un ottavo di litro invece, non conosce essioni: nel 1984, nonostante il lancio della bella Gilera RX e poi della potente Aprilia ETX (e della stessa Elefant 2 che, nel 1985, avrebbe portato la potenza del 125 raffreddato a liquido oltre i 20 CV), raddoppierà le vendite, andando di pari passo anche con il rinnovamento estetico che, di fatto, avrebbe portato alla II serie del modello, della quale fa parte l’esemplare che vedete ritratto in queste pagine. Si riconosce per gli importanti aggiornamenti grafci e delle decalcomanie (riprendono quelli introdotti dalla Aletta Rossa 200 prototipo) e per la sella con la bella scritta “AR” nella parte posteriore. Il radiatore è maggiorato, le pedane passeggero imbullonate e non più saldate al telaio, il disco freno in ghisa. Oltre alla forcella Llobe, è ora disponibile una Marzocchi sempre con steli da 35 mm. Il suo successo avrebbe portato la casa ad affancarle - e poi sostituirla con esso - un modello ispirato ai raid africani come la Dakar, la Elefant, che sarebbe poi diventata una saga importante per la casa di Varese mentre, l’effcientissimo 125 a liquido, avrebbe toccato vette leggendarie sull’indimenticabile stradale Mito 125, con potenza massima alla ruota di oltre 30 CV.
MATURITÀ CLASSICA
CON LEI SI CHIUDE LA LEGGENDARIA EPOPEA DEL 6 CILINDRI IN LINEA BELLA, RAFFINATA, ELEGANTE - E NELLA CONFIGURAZIONE “R” ANCHE MOLTO POTENTE - PUR CON UN DESIGN FEDELISSIMO AL CONCETTO ORIGINARIO, LA X300, 4^ SERIE DELLE XJ, È UNO SPARTIACQUE NELLA VICENDA DELLE BERLINE ALTO DI GAMMA JAGUAR.
di Luca Marconetti
La storia delle Jaguar XJ è lunga, articolata e complessa. Ma quando ci troviamo di fronte alla sua 4 serie, quella identifcata a Coventry come “ 300”, qualche considerazione generale, possiamo permetterci di farla e possiamo perché, i concetti che stiamo per affrontare, la 300 li incarna portandoli a maturazione in maniera esemplare: il “progetto ” rappresenta una delle pagine più importanti della storia aguar poiché è stato in grado di trasformare gradualmente innovazioni assolute - telaio a scocca portante, il nuovo motore 6 cilindri in linea che sostituisce il glorioso degli anni 30, linea flante ma grintosa che la confgureranno come la prima “berlina sportiva” della storia - in tradizioni da rispettare rigorosamente, grazie anche a scelte apparentemente anacronistiche ma, col senno del poi, rivelatesi vincenti. Un esempio Il design. Se infatti con la 40 del 1986, nel tentativo di discostarsi da stilemi tradizionali ormai in voga da quasi 30 anni (è il 1968 l’anno di nascita della Series I), assistiamo all’esordio di linee più spigolose, tagli netti e motivi geometrici come i fari rettangolari, operazione tipica dell’edonismo che avrebbe investito anche le Case automobilistiche nella seconda metà degli anni ’80, nella 300 troviamo una linea che riprende massicciamente la classicità del Marchio - e questo, per la sua clientela affezionata, è sempre stato positivo e rassicurante - attualizzata con sobrietà e raffnatezza dalla felice matita di Geoff Lawson (padre della magnifca supercar 220 del 1992 e poi della GT best seller del 1996, ne abbiamo parlato nel numero di giugno 2022 de La Manovella ndr). Ma c’è molto altro da scoprire nella storia di questa importante berlina inglese, che gli appassionati stanno piano piano ritrovando…
SUMMA DELL’ESPERIENZA JAGUAR NEL CAMPO DELLE AMMIRAGLIE
Quando i teli si alzano e le luci dell’Expo di Parigi, che ospita Le Mondial de l’Automobile dell’ottobre 1994, illuminano le forme sinuose, leggiadre e sfuggenti della nuova ammiraglia aguar, tutti si rendono presto conto che il momento è segnante: da quell’istante, la gamma si sarebbe suddivisa in un flone “classico”, quello delle “Series”, dalla prima alla terza, che va dal 1968 al 1992 e uno “innovativo”, quello timidamente inaugurato dalla 40 nel 1986 e che sarebbe continuato fno alla 308 del 1997 con, nel mezzo, la protagonista del nostro servizio, la 300 che, quindi, agli occhi di tutti, è la summa dell’esperienza, dell’evoluzione motoristica e tecnica, della crescente cura costruttiva - tutt’altro che limpida, per aguar, negli anni ’70 e ’80 ma ora in grado di competere senza alcun complesso di inferiorità con la concorrenza premium tedesca - dei tecnici di Coventry il tutto sotto una nuova egida, quella di Ford. A convincere subito è la linea dato un energico colpo di spugna alle spigolosità della 40, la 300 riprende a piene mani elementi della Series III: frontale con due coppie di faretti tondi per tutte e venature sul cofano che ne seguono i profli linea laterale fortemente orizzontale ma resa morbida dagli ampi “labbri” sugli archi ruota, dal proflo sotto le maniglie e dall’appena accennato inserto antiurto nella parte inferiore degli sportelli coda dal disegno rastremato ed elegante, con proiettori nuovamente triangolari ma riammodernati i nuovi paraurti “a fascione” totalmente in materiale plastico. Completano l’opera un vasto assortimento di cerchi in lega e una forte riduzione delle cromature, ora atte a impreziosire pochi, azzeccati particolari. All’interno ci si sente come in una sala del castello di Balmoral: alla plancia forzosamente moderna della 40, qui si sostituiscono profli più morbidi e neoclassici, impreziositi da inserti in legno (di diverse essenze a seconda dell’allestimento), pellame a rivestire qualsiasi angolo dell’abitacolo e selleria ridisegnata per aumentare il confort degli occupanti. Sull’utilizzo degli indicatori digitali si è già fatta marcia indietro con la 40 stessa, tanto che qui abbiamo una classicissima e razionale strumentazione analogica, mentre le apprezzate “plancette satellite” ai lati del volante sono mantenute. Tutto è, fnalmente, tornato a essere squisitamente e perfettamente inglese.
UNA MECCANICA COLLAUDATA, QUASI LEGGENDARIA
Squadra che vince non si cambia e cos , la meccanica della 40 non cambia moltissimo: l’apparato sospensivo è garantito da quattro ruote indipendenti con telaietti ausiliari, all’anteriore per sostenere bracci trasversali, molle elicoidali e barra stabilizzatrice, al posteriore il tipico quadrilatero articolato (un braccio trasversale superiore costituito dai semiassi con funzione “attiva” di sostegno e guida della ruota, e due braccetti inferiori incernierati su boccole elastiche), sempre con molle elicoidali e barra stabilizzatrice. I freni a disco sono autoventilanti (solo gli anteriori per le 3.2), l’ABS è di serie, cos come il servosterzo progressivo, il differenziale autobloccante e il sistema antipattinamento.
Anche sotto il cofano troviamo gradite conferme supportate da novità che ne ottimizzano il funzionamento: i motori disponibili sono le estreme evoluzioni di quelli presentati sulla leggendaria E-Type negli anni ’60 e ’70, i due 6 cilindri in linea della serie A 16 di 3239 cm (211 CV a 5100 giri/min, coppia di 301 Nm a 4100 giri/min) o 3980 cm (249 CV a 4800 giri/min, coppia di 375 Nm a 4000 giri/min). Per entrambi distribuzione a 4 valvole per cilindro, due assi a camme in testa) e il mastodontico V12 di 60° di 5993 cm (distribuzione a 2 valvole per cilindro, un asse a camme in testa per bancata, 311 CV a 5350 giri/min, coppia di 475 Nm a 2850 giri/min. Tutte le col 12 cilindri assumono la sigla interna 305), ma entrambi sono ora equipaggiati da un unico impianto di alimentazione a iniezione Multipoint e accensione totalmente integrato a controllo elettronico, caratterizzato da una singola bobina per ogni candela. I cambi proposti sono un manuale Getrag a 5 rapporti (tranne che per le V12) e un automatico a 4 rapporti a controllo elettronico, utilizzabile anche in modalità manuale. Rivisto l’assetto e la taratura delle sospensioni, cos come cerchi e pneumatici, disponibili in una vasta gamma di disegni e misure, da
16 o 17”. I 6 in linea equipaggiano le 6 “base”, Sport, Sovereign e Daimler/Vanden Plas Six. Il modello d’attacco è già dotato di fniture in radica e plancia rivestita in pelle, le Sport replicano l’allestimento delle XJR ma mantengono i motori aspirati mentre Sovereign e Daimler (Vanden Plas, per gli USA, dove il marchio Daimler è registrato da Mercedes-Benz) sono le versioni di lusso della gamma, con interni totalmente rivestiti in pelle, impianto hi-f e gestione elettrica di sedili, climatizzazione e posizione del volante. Nel 1995 a queste si aggiungono la versione Executive, dedicata alle otte aziendali più esigenti, zeppa di accessori ma che mantiene la sobrietà del modello base e la versione a passo lungo L B (Long heel Base), che aumenta da 287 cm a quasi 3 metri, per una lunghezza di 515 cm a fronte dei 502 iniziali: è riconoscibile dalla portiera dietro visibilmente più lunga, a tutto vantaggio dei passeggeri posteriori. Le V12, preferite col passo allungato, sono abbinabili esclusivamente agli allestimenti Sovereign e Daimler/Vanden Plas: con questi ultimi assumono l’aristocratica denominazione “Double Six”, ossia “Doppio Sei”, in riferimento alle due bancate da 6 cilindri l’una del motore.
Le Daimler/Vanden Plas Double Six rappresentano il top di gamma assoluto della serie 300. La potenza sorniona del suo 6 litri è fltrata da un allestimento specifco che più degli altri avvicina la 300 alle progenitrici: cromature a profusione, sobri cerchi in lega da 16” con pneumatici 225/60, la tipica mascherina con lavorazione “ uted”, ossia la zigrinatura superiore che replica quella dei radiatori delle Daimler originarie e interni che sono la quintessenza del lusso, tra pellami e radica scura, estesa perfno alla strumentazione e serigrafata con dei profli dorati. Non plus ultra è la versione Century su base Daimler Six e Double Six L B, presentata nel 1996 per festeggiare il secolo dalla fondazione di Daimler e realizzata in soli 100 esemplari, con tutti i possibili accessori disponibili offerti di serie. Sul piano della sicurezza, infne, tutte le 300/ 305 sono dotate di doppio airbag e interruttore inerziale del usso carburante.
XJR: SOTTO IL COFANO DEL “GATTONE” PIÙ POTENTE LA GRANDE NOVITÀ TECNICA
Ma la novità più grande che potrete trovare sotto il cofano di una 300 è quella che alberga sotto quello della nuova R, dove la “R” chiarisce subito ogni dubbio: sta infatti per “Racing”, “corsa”. Infatti, se le versioni sportiveggianti della 40 avevano una meccanica non troppo discostante da quella degli allestimenti eleganti, la R 300 ha invece un’iniezione di potenza di ben 76 CV per 325 totali (a 6000 giri/min, coppia di 516 Nm a 3050 giri/min), sprigionati dal 6 in linea di 4 litri grazie all’adozione di un grosso compressore volumetrico Eaton M90 “tipo Roots”: due giranti che fanno presa l’una all’altra, messe in movimento da una cinghia collegata all’albero motore, spingono aria “pulita” nel collettore di aspirazione, creando, aiutate da un particolare intercooler aria-liquido, una pressione di sovralimentazione proporzionale al regime di rotazione del motore che, nel caso della R, ha il picco massimo a 0,7 bar. Rispetto ai sistemi con normali turbocompressori che utilizzano gas di scarico, l’incremento di coppia è più morbido, progressivo e pronto fn dai bassi regimi. la prima volta che una berlina aguar si presenta in variante sovralimentata. Tali novità si accompagnano ovviamente a un affnamento telaistico - sospensioni ritarate, assetto ottimizzato e ammortizzatori irrigiditi - e a un design dedicato, che, a nostro avviso, la rende la più bella delle 300, fuori e dentro: le cromature sono pressoché scomparse (le guarnizioni vetro sono nere, la mascherina in tinta carrozzeria con griglia a nido d’ape) per “scarpe” ha dei meravigliosi cerchi in lega in alluminio spazzolato da 17” a 5 spesse razze con mozzo centrale rosso
(come rosse sono le scritte pressofuse sul coperchio punterie) con calzati pneumatici 255/45 all’interno sedili - sempre in pregiata pelle Connolly, che riveste anche volante, pannelli porta e plancia - più proflati e sportivi rispetto alle sorelle più paciose e le straordinarie fniture in acero scuro trattato con mordente “smo e” (fumé, per preservarlo da raggi UV o sbalzi di calore) e applicato su un substrato di alluminio. Se le versioni aspirate, V12 comprese, fanno della souplesse di guida e della possibilità di tenere medie autostradali molto elevate, il loro punto forte la R è una sportiva in abito da sera, un vero giaguaro da combattimento brillante, rapidissima, potente e dal tipico comportamento aguar esuberante ma sicuro, sovrasterzante solo nel misto più stretto ma effcace e preciso nella marcia veloce, che diventa una vera supercar se si sceglie col granitico 5 marce Getrag, con innesti che sembrano quelli di un’auto da corsa ed ecco che l’omaggio alle berline M 2 che negli anni ’50 andavano a battere barchette e berlinette nelle più importanti competizioni, è servito.
L’ULTIMA XJ “PURE BRITISH”
La 300 sarà l’ultima aguar a essere equipaggiata con lo “StraightSix” e col V12 direttamente derivati dalle storiche unità concepite per la E-Type e per le antenate : a partire dal 1998 la 308, esteticamente non è nient’altro che un maquillage estetico della 300 ma sotto il cofano monta, per la prima volta su una berlina a marchio aguar, un’unità V8, quella delle nuove coupé 8 del 1996. In conclusione, la 300 è stato un modello in grado di coniugare l’aristocrazia e la nobiltà del Marchio creatura di Sir illiam Lyons, delle quali i suoi proprietari sono sempre andati molto feri, con contenuti fnalmente all’avanguardia, un’immagine rinnovata ma rispettosa delle tradizioni e un’attenzione ai particolari che, solo 10 anni prima, sembrava irrimediabilmente compromessa da una situazione societaria alquanto travagliata: alla fne, a dominare, sono stati il lusso e lo charme di una Casa fuori dal tempo e collocatasi sempre al di sopra della voluttà di mode passeggere.
Si ringrazia per la collaborazione e la sempre preziosa disponibilità l’amico Claudio Castelli.