ATLANTE
DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO
Quarta edizione
INFOGRAFICA L’ATLANTE DELLA PIRATERIA
FONTE DEI DATI
ICC INTERNATIONAL MARITIME BUREAU RELAZIONE PER IL PERIODO DI 1 GENNAIO - 30 GIUGNO 2012
433
L’Oceano Indiano e le acque adiacenti il Corno d’Africa restano, in assoluto, le aree dove si verifica la maggior parte degli attacchi dei pirati. Nello specifico, in questi ultimi anni si è verificato un aumento esponenziale degli attacchi in Somalia, in Nigeria, nel Golfo di Aden e nel Capo di Buona Speranza. Spostandoci verso Est, tra Sumatra e la penisola della Malesia, anche lo stretto di Malacca rappresenta uno dei passaggi più insidiosi per le navi mercantili. Il “caso” Somalia rappresenta, in assoluto, il centro nevralgico della pirateria mondiale. Basti pensare che il 92% del totale dei sequestri di tutto il mondo legato a questa attività criminale si è verificato in quest’area. Nel corso degli anni i pirati somali hanno allargato notevolmente il proprio raggio d’azione, arrivando a raggiungere a Sud il Canale di Mozambico e a Est il 72° parallelo dell’Oceano Indiano.
2007 37 29 5 55 126
2008 39 31 2 42 114
2009 151 36 0 53 240
2010 100 35 2 59 196
2011 160 35 3 68 266
2012 78 39 2 58 177
2007 33 71 9 13 126 263
2008 20 71 11 12 114 293
2009 56 78 75 31 240 406
2010 47 70 48 31 196 445
2011 62 99 76 29 266 439
2012 52 80 25 20 177
Tipi di violenza all'equipaggio Tipo di violenza Ostaggio Rapimento Minaccia Aggressione Ferimento Uccisione Disperso Totale
2007 152 41 3 20 19 3
2008 190 6 4 5 19 7 7 238
2009 561 7 6 3 19 6 8 610
2010 597 3 9 1 16 1
2011 495 13 21 4 39 7
2012 334 3 10 1 9 4
31 160milioni 238
627
579
O
di dollari
Somalia
Indonesia
S 17
Nigeria
13
Golfo di Aden
E’ il numero di riscatti pagati ai
per un totale di
44
32
E
361
pirati somali nel
125 Le seguenti cinque località hanno contribuito al 66% del totale di 177 incidenti segnalati nel periodo gennaio - giugno 2012
N
Tipo di attacco Categoria Tentato Abbordaggi Fuoco su Dirottato Sub Totale Totale fine anno
Attacchi a navi mercantili dal 2008 a metà del 2012. Quelli riusciti sono stati
I LUOGHI A MAGGIOR RISCHIO
Tipi di armi usate durante gli attacchi Tipo di Armi Pistole Coltelli Altre armi Non dichiarato Totale
ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO
BULK CARRIER CHEMICAL TANKER CONTAINER TANKER PRODUCT TANKER GENERAL CARGO TUG LPG TANKER OFFSHORE SUPPLY SHIP DHOW FISHING VESSEL RO-RO CARGO SHIP REFRIGERATED CARGO SHIP LING TANKER PIPE LAYER VESSEL RESERCH VESSEL NAVAL AUXILIARY SHIP GUARD VESSEL
1 1 1 1
2 2 2
6 6 5 5 4
8
13
22
26
33
39
TIPOLOGIA DI NAVI ATTACCATE DA GENNAIO A GIUGNO 2012
12
Mar Rosso
Attacchi effettivi Attacchi tentati Navi sospette Rotte marine Somalia Indonesia Nigeria Golfo di Aden Mar Rosso
INFOGRAFICA L’ATLANTE DELLA PIRATERIA
FONTE DEI DATI
ICC INTERNATIONAL MARITIME BUREAU RELAZIONE PER IL PERIODO DI 1 GENNAIO - 30 GIUGNO 2012
433
L’Oceano Indiano e le acque adiacenti il Corno d’Africa restano, in assoluto, le aree dove si verifica la maggior parte degli attacchi dei pirati. Nello specifico, in questi ultimi anni si è verificato un aumento esponenziale degli attacchi in Somalia, in Nigeria, nel Golfo di Aden e nel Capo di Buona Speranza. Spostandoci verso Est, tra Sumatra e la penisola della Malesia, anche lo stretto di Malacca rappresenta uno dei passaggi più insidiosi per le navi mercantili. Il “caso” Somalia rappresenta, in assoluto, il centro nevralgico della pirateria mondiale. Basti pensare che il 92% del totale dei sequestri di tutto il mondo legato a questa attività criminale si è verificato in quest’area. Nel corso degli anni i pirati somali hanno allargato notevolmente il proprio raggio d’azione, arrivando a raggiungere a Sud il Canale di Mozambico e a Est il 72° parallelo dell’Oceano Indiano.
2007 37 29 5 55 126
2008 39 31 2 42 114
2009 151 36 0 53 240
2010 100 35 2 59 196
2011 160 35 3 68 266
2012 78 39 2 58 177
2007 33 71 9 13 126 263
2008 20 71 11 12 114 293
2009 56 78 75 31 240 406
2010 47 70 48 31 196 445
2011 62 99 76 29 266 439
2012 52 80 25 20 177
Tipi di violenza all'equipaggio Tipo di violenza Ostaggio Rapimento Minaccia Aggressione Ferimento Uccisione Disperso Totale
2007 152 41 3 20 19 3
2008 190 6 4 5 19 7 7 238
2009 561 7 6 3 19 6 8 610
2010 597 3 9 1 16 1
2011 495 13 21 4 39 7
2012 334 3 10 1 9 4
31 160milioni 238
627
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di dollari
Somalia
Indonesia
S 17
Nigeria
13
Golfo di Aden
E’ il numero di riscatti pagati ai
per un totale di
44
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pirati somali nel
125 Le seguenti cinque località hanno contribuito al 66% del totale di 177 incidenti segnalati nel periodo gennaio - giugno 2012
N
Tipo di attacco Categoria Tentato Abbordaggi Fuoco su Dirottato Sub Totale Totale fine anno
Attacchi a navi mercantili dal 2008 a metà del 2012. Quelli riusciti sono stati
I LUOGHI A MAGGIOR RISCHIO
Tipi di armi usate durante gli attacchi Tipo di Armi Pistole Coltelli Altre armi Non dichiarato Totale
ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO
BULK CARRIER CHEMICAL TANKER CONTAINER TANKER PRODUCT TANKER GENERAL CARGO TUG LPG TANKER OFFSHORE SUPPLY SHIP DHOW FISHING VESSEL RO-RO CARGO SHIP REFRIGERATED CARGO SHIP LING TANKER PIPE LAYER VESSEL RESERCH VESSEL NAVAL AUXILIARY SHIP GUARD VESSEL
1 1 1 1
2 2 2
6 6 5 5 4
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TIPOLOGIA DI NAVI ATTACCATE DA GENNAIO A GIUGNO 2012
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Mar Rosso
Attacchi effettivi Attacchi tentati Navi sospette Rotte marine Somalia Indonesia Nigeria Golfo di Aden Mar Rosso
ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO Quarta edizione Dedicata a Malala Yousafzai
Associazione 46° Parallelo
ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO QUARTA EDIZIONE Direttore Responsabile Raffaele Crocco Capo Redattore Federica Ramacci
assoc iazio ne cultu rale
2
In redazione Beatrice Taddei Saltini Daniele Bellesi Hanno collaborato Paolo Affatato Andrea Baranes Barbara Bastianelli Giulia Bondi Fabio Bucciarelli Pietro Cavallaro Francesco Cavalli Luigi Cortellessa Angelo d’Andrea Angela de Rubeis Angelo Ferrari Marina Forti Federico Fossi Emanuele Giordana Flora Graiff Diego Ibarra Sanchez Rosella Ideo Adel Jabbar Stefano Liberti Enzo Mangini Federica Miglio Luisa Morgantini Enzo Nucci Ilaria Pedrali Alessandro Piccioli Alessandro Rocca Stefano Rossini Ornella Sangiovanni Luciano Scalettari Renato Kizito Sesana Pino Scaccia Alessandro Turci Roberto Zichittella Editing Marika Tamanini Anna Cinzia Dellagiacoma
Redazione Associazione 46° Parallelo Via Piazze 34 - Trento info@atlanteguerre.it www.atlanteguerre.it
Un ringraziamento speciale a: Laura Boldrini, portavoce dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR)
Foto di copertina ©Diego Ibarra Sánchez www.diegoibarra.com
Giovanni Puglisi, Presidente Commissione Nazionale Italiana per l’Unesco Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International
Si ringrazia Flora Graiff, creatrice de “Il mondo di Kako”, per aver voluto partecipare al progetto
Testata registrata presso il Tribunale di Trento n° 1389RS del 10 luglio 2009 Tutti i diritti di copyright sono riservati ISSN: 2037-3279 ISBN-13: 978-8866810186 Finito di stampare nel dicembre 2012 Grafiche Garattoni - Rimini
Progetto grafico ed impaginazione Daniele Bellesi Progetto grafico della copertina Daniele Bellesi
Algeria Ciad Costa d’Avorio Guinea Bissau Liberia Libia Mali Nigeria Repubblica Centrafricana Repubblica Democratica del Congo Sahara Occidentale Somalia Sudan Sud Sudan Uganda
48 52 56 60 64 68 72 76 80 84 88 92 96 100 104
Colombia Haiti
112 116
Afghanistan Cina/Tibet Filippine India Iraq Kashmir Kirghizistan Pakistan Thailandia Timor Est Turchia Yemen
124 128 132 136 140 144 148 152 156 160 164 168
Israele/Palestina Libano Siria
178 182 186
Cecenia Cipro Georgia Kosovo
194 198 202 206
Editoriale Raffaele Crocco Saluti Amministratori Introduzione Barbara Bastianelli Introduzione Flavio Mongelli Introduzione Riccardo Noury Istruzioni per l’uso Raffaele Crocco La situazione Raffaele Crocco Il mondo in movimento/1 Laura Boldrini Beni a rischio/1 Giovanni Puglisi Banche e guerra Andrea Baranes Informazione e guerra Enzo Nucci Vittime di guerra/1 Luisa Morgantini Geografia della guerra Rosella Ideo Evoluzione dei conflitti Enzo Nucci Land grabbing Stefano Liberti Vittime di guerra/2 Renato Kizito Sesana SPECIALE La pirateria La pirateria/1 Alessandro Rocca La pirateria/2 Enzo Mangini La pirateria/3 Luciano Scalettari Africa Libertà e giustizia sono il sogno africano Amnesty International SCHEDE AFRICA
108 109 110
Inoltre Etiopia America C’è ancora Guantanamo nell’America di Obama Amnesty International SCHEDE AMERICA
120 121 122
Inoltre Messico Asia Fra integralismo e dittature Amnesty International SCHEDE ASIA
172 175 176
Inoltre Birmania - Corea del Nord/Sud - Iran Medio Oriente I diritti umani sono lontani Amnesty International SCHEDE MEDIO ORIENTE
191 192
Europa In Europa vince la chiusura Amnesty International SCHEDE EUROPA
210
Inoltre Paesi Baschi
211 213 215 218 222 223 225 227 231 234 239 241 245 246 247
SPECIALE SVOLTA ISLAM Resta il dubbio sull’inizio del cambiamento Adel Jabbar Foto reportage dalla Siria Fabio Bucciarelli Altri stati coinvolti Ilaria Pedrali Le missioni Onu Nazioni Unite - I Caschi Blu Raffaele Crocco Vittime di guerra/3 Federico Fossi Il mondo in movimento/2 Giulia Bondi Foto reportage dalla Colombia Diego Ibarra Sanchez Beni a rischio/2 Luigi Cortellessa Beni a rischio /3 Federica Ramacci Gruppo di lavoro Glossario Fonti Ringraziamenti
3
Indice
5 6 9 10 11 14 15 17 19 21 23 25 27 29 31 33 37 39 41 43 45 46
Idea e progetto Associazione 46° Parallelo Via Piazze 34 - Trento
Edizione Editrice AAM Terra Nuova S.r.l. Via Ponte di Mezzo, 1 50127 - Firenze Tel. +39 055 3215729 Fax +39 055 3215793 info@aamterranuova.it www.aamterranuova.it
Associazione 46° Parallelo Via Piazze 34 - Trento info@atlanteguerre.it www.atlanteguerre.it
Foto di Fabio Bucciarelli
Partner
Con il supporto di
Con la collaborazione di
4
www.ilariaalpi.it
Con il patrocinio di
Con il contributo di
Sponsor PROVINCIA DI PESARO E URBINO
In collaborazione con
Editoriale
Mi hanno raccontato una storia.
Conoscere la guerra, per smettere di farla
Lorenzo Taliani - Fzero Photographers
Il Direttore Raffaele Crocco
5
U
n giorno, qualche anno fa, in un luogo che non ricordo, forse negli Stati Uniti, forse in Europa, era stato organizzato un convegno per trovare soluzione alle troppe guerre dell’Africa. Erano stati invitati Presidenti, capi di Governo, capi Tribù e ognuno di loro aveva raccontato quello che accadeva nel proprio Paese. Ad un certo punto si era alzato un vecchio capo, di non so quale Regione. “Anche noi – aveva detto – siamo stati impegnati per anni in una tremenda guerra contro i nostri vicini. Per un tempo interminabile noi e loro abbiamo combattuto per controllare l’acqua della nostra terra. Poi, un giorno, vicino ad un pozzo c’è stato un morto. Era davvero troppo: abbiamo subito smesso di combattere”. Davvero è accaduto, non è una favola. Davvero esistono nel mondo, in qualche Regione sperduta che poco conosciamo, essere umani che smettono di farsi la guerra se qualcuno muore. Potrà sembrare un sogno, invece è un segno: dentro la nostra pancia, nella nostra testa o nell’anima, se preferite, c’è l’idea che la morte in guerra di qualcuno sia ingiusta, per qualsiasi ragione. È un’idea da coltivare anche leggendo questo Atlante. Per la quarta volta, in quattro anni, mettiamo in fila ciò che accade nel Pianeta. Alcune guerre sembrano essere alla fine, dopo decenni: nei Paesi Baschi, in Colombia, in parte nelle Filippine. Altre sono arrivate a sconvolgere la vita di milioni di persone, costrette a fuggire, a lasciare tutto. Nel Mali l’integralismo sta distruggendo storia e cultura di un popolo in nome di un dio. In Siria il potere difende se stesso uccidendo chi dovrebbe governare. Storie che teniamo lontane. La Comunità internazionale sta mostrando – anche in questi casi, soprattutto in Siria – la propria incapacità nel trovare soluzioni, nel portare pace. Gli interessi contrari e contrastanti delle potenze che siedono nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite impediscono interventi e rendono inevitabile l’idea del massacro. Quando non siamo distratti, scopriamo di essere addolorati e impotenti. L’unica strada possibile, allora, è continuare a raccontare quello che avviene, insistere nell’informare, pensando che ognuno, poi, possa avere una libera opinione e possa chieder conto di quello che accade. È la vecchia storia della democrazia, amici miei. Lo abbiamo dimenticato, ma a volte funziona ancora.
Saluti
6
Q
uesta quarta edizione dell’“Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo” è al tempo stesso un monito e un impegno per tutti noi. La drammatica geografia dell’orrore diffuso nelle zone più calde del mondo, che molto spesso sono anche le più povere, si ripete ormai ossessivamente anno dopo anno, con una macabra contabilità che porta a cifre incredibilmente assurde, mettendo sotto accusa la superficialità e l’indifferenza di tanta parte del cosiddetto mondo occidentale, che è anche il mondo più ricco. Guerre grandi, che hanno gli onori della cronaca quotidiana, e guerre piccole, di cui solo gli addetti ai lavori conoscono le reali proporzioni, sono qui inanellate l’una dopo l’altra suddivise per continenti, in una galleria feroce e crudele che miete le proprie vittime di preferenza tra le fasce più deboli e affamate e abbandonate delle popolazioni coinvolte. Ci sentiamo impotenti e anche moralmente stanchi, quando giungiamo al termine di questo Atlante: riconosciamo sulle nostre spalle il peso della debolezza umana e vorremmo che i nostri governi intervenissero con le strategie più opportune e che le organizzazioni internazionali avessero finalmente quell’autorevolezza di cui avrebbero bisogno per far sentire la voce dei pacificatori. È un monito, questo Atlante, ma è anche un grande manifesto che dà spazio a chi si impegna per combattere questi drammi e per alleviare le condizioni di vita dei profughi, degli sfollati, dei perseguitati. È l’altra faccia della medaglia di una tragedia mondiale che coinvolge fedi religiose, culture, lingue e storie diverse: è l’elenco puntiglioso delle missioni di pace promosse dall’ONU, è l’attività dei diplomatici che si lanciano nella difficile impresa di far dialogare i contendenti, è la presenza spesso silenziosa e sotto traccia, ma non per questo meno importante e indispensabile delle organizzazioni di solidarietà che si occupano dei milioni di vittime come lievito nascosto sotto la cenere dei conflitti... Il nostro Trentino di fronte a questi drammi può dire la sua, e lo sta facendo con le centinaia di progetti di solidarietà che in tutti i continenti della Terra contribuiscono a migliorare le condizioni di vita dei più fragili; con la presenza caritatevole e generosa dei nostri missionari sui fronti della fame e dello sfruttamento; lo sta facendo con le moltissime associazioni di volontariato che, dal Trentino, supportano, sostengono e finanziano programmi di crescita. Lo sta facendo, mi permetto di aggiungere, anche con apposite leggi a sostegno della solidarietà internazionale e con la partecipazione a specifici Tavoli di confronto che fanno del Trentino un laboratorio all’avanguardia – in Italia e in Europa – nella comprensione delle cause che scatenano i conflitti e nel sostegno operoso e attivo offerto alle popolazioni coinvolte. Ecco perché la Provincia autonoma di Trento ha deciso di contribuire alla realizzazione anche di questa quarta edizione dell’Atlante: siamo infatti convinti che questo sia uno strumento fondamentale per diffondere informazioni, dati, numeri, cronache e prospettive sulle ingiustizie che lacerano il nostro pianeta. Senza informazioni, senza dati reali e verificati è difficile che possano nascere e diffondersi e rafforzarsi coscienza e impegno, ma è altresì impossibile che possa avverarsi il nostro obiettivo segreto: il sogno che ci guida è che un giorno non lontano si possa finalmente sfogliare, magari a partire già dalla prossima edizione, un “Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo” sempre più leggero e sempre più sottile. Lorenzo Dellai Presidente della Provincia autonoma di Trento
N
onostante il periodo di notevoli difficoltà finanziarie che la Provincia di Firenze sta attraversando, come tutto il sistema delle Autonomie Locali, a seguito dei pesanti tagli imposti dal Governo nazionale, abbiamo anche questo anno deciso di sostenere la nuova edizione dell’Atlante delle Guerre e dei Conflitti. Lo abbiamo fatto con convinzione perché crediamo che sia una ottima pubblicazione ed un valido strumento di informazione e formazione culturale e politica. Per questo assieme alla Commissione Consiliare che si occupa di cooperazione internazionale e politiche di pace vogliamo, come abbiamo fatto negli anni scorsi, diffonderlo e farlo conoscere nei nostri Comuni e nelle scuole del territorio provinciale. Crediamo, infatti, che la dura e profonda crisi economica e sociale che stiamo vivendo non ci debba far rinchiudere in un orizzonte piccolo ed angusto, ma dobbiamo all’opposto alzare lo sguardo sul mondo, sui tanti, troppi conflitti ancora aperti, sulle cause reali e su cosa e cosa possiamo fare anche noi per risolverli, evitarli, prevenirli. Il nostro pensiero va infine alla difficile situazione del Medio Oriente ed in particolare alla Palestina perché si possa riaprire un concreto processo di pace che dia finalmente a quella terra il futuro di due popoli e due stati che convivono in pace, libertà e giustizia. Andrea Barducci Presidente Provincia di Firenze
Saluti
S
crivo queste note introduttive alla quarta edizione di questo prezioso “Atlante delle guerre e dei conflitti nel mondo” mentre si è appena instaurata una fragile tregua fra palestinesi ed israeliani giunti, per l’ennesima volta nel corso degli ultimi anni, sull’orlo del baratro della guerra totale. Ma per una tregua che si instaura, dobbiamo registrare la nuova strage di bambini (10 tutti sotto i 15 anni) colpiti dalle bombe a grappolo dell’esercito in Siria dove si svolge una guerra civile sorda e ormai penetrata nel nostro quotidiano come un dato ineluttabile, quasi scontato tanto da aver perso di notiziabilità. Come, del resto, per molti altri conflitti di cui non ci parlano i media (spesso attenti piuttosto ad eventi più frivoli ed esiziali). Così a sfogliare e leggere il volume diretto da Raffaele Crocco e frutto del lavoro documentato e appassionato di decine di collaboratori, si ricava la sensazione che forse lo stato delle relazioni fra popoli e nazioni del pianeta non sia altro che una fragile tregua in una guerra totale nei quattro angoli del globo. Dove, sia chiaro, la guerra non è solo il perdurare di decine di conflitti armati in atto ogni giorno mentre noi facciamo colazione, andiamo al cinema o entriamo in ufficio, ma anche la condizione di milioni di profughi, la violazione dei diritti umani e civili ad ogni latitudine del globo, i rapporti fra finanza e produzione e commercio degli armamenti. Sono problematiche che interrogano tutti noi, che viviamo in Stati e zone pacifiche, ma che forse non lo sono veramente perché non possiamo tirarci fuori dai processi della globalizzazione. I nostri risparmi entrano in flussi finanziari globali che non è escluso – e noi non lo sappiamo – che entrino in circuiti che vanno ad alimentare commerci di armi e guerre; i profughi dei conflitti del nord Africa spingono nei nostri territori migliaia di profughi. Noi abbiamo in dovere e l’interesse ad agire, costruendo azioni di solidarietà (come ha fatto la Toscana con i profughi libici e tunisini), iniziative di dialogo (come avvenuto per progetti di cooperazione fra israeliani e palestinesi nella nostra regione), progetti di cooperazione allo sviluppo, attività educative per contrastare il razzismo. L’Atlante ci aiuta in questo lavoro quotidiano e testardo di quanti, volendo la pace, la prepara ogni giorno nella vita sociale, culturale, economica e politica.
7
Enrico Rossi Presidente Regione Toscana
C
ome già lo scorso anno, abbiamo deciso di sostenere l’Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo, arrivato alla quarta edizione, con l’intenzione di farne uno strumento utile nelle scuole, nelle associazioni, là dove l’informazione sul Mondo, sull’altro da noi, diventa importante. Conoscere le ragioni che costringono milioni di essere umani a fuggire, lasciando la terra dove sono nati, per raggiungere nuove mete, nuove case, è fondamentale per capire i nostri tempi e per imparare a riconoscere chi viene a vivere nelle nostre città, lavorando al nostro fianco. Da questo punto di vista, continuo a pensare che la geografia sia uno strumento essenziale per iniziarci tutti a questa conoscenza. L’Atlante diventa allora, anche per chi è chiamato ad amministrare la cosa pubblica, un ausilio valido per le sfide di questi tempi difficili, in un territorio che cambia volto e che si evolve culturalmente, muta. Impossibile pensare a politiche efficaci se manca la visione globale, d’insieme. L’informazione torna così ad avere un ruolo centrale, si mette al centro di processi culturali e ci permette di sperare in un futuro migliore del passato Alessia Morani Assessore alla Pubblica Istruzione, Integrazione interculturale, Cooperazione internazionale, Educazione alla Pace e alla Legalità - Provincia di Pesaro e Urbino
Saluti
L
a Provincia di Siena ha deciso di rinnovare, anche per questa 4^ edizione, il sostegno alla pubblicazione “L’Atlante delle Guerre” riconfermandolo come un ottimo strumento per veicolare presso il territorio e le scuole, i valori della pace e della non violenza. In quest’ottica il volume ha partecipato al “IV Salone degli Editori Senesi“ promosso dall’Amministrazione “Leggere è VOLARE”, con la presentazione avvenuta al Liceo Volta di ColleVal d’Elsa. La ricognizione puntuale sullo stato dei conflitti nel pianeta che troviamo all’interno dell’Atlante, rappresenta uno straordinario strumento di analisi, riflessione aggiornato e documentato per tutti coloro che si occupano di cooperazione internazionale e azioni di pace. Occorre ricordare come la gente raramente vince le guerre, di solito viene uccisa mentre i governi si ricompongono o si trasformano, oppure viene soffocata nei suoi diritti di libertà e di espressione. Il messaggio che arriva è l’urgenza di una voce forte, piena di rabbia ma anche di compassione per le vittime di qualunque bandiera e religione, al fine di condannare in modo lucido e documentato i rischi della globalizzazione dell’economia mondiale, della privatizzazione delle risorse energetiche, del divario tra Oriente ed Occidente, tra Nord e Sud del mondo. Vi sono, come affermano gli autori, guerre dimenticate di cui non viene fatta parola che devastano paesi e popolazioni; il mondo praticamente è in guerra da sempre. L’Atlante ricostruisce e fotografa questi scenari dando un contributo alla riflessione comune, auspicando che ne derivino atteggiamenti consapevoli ed efficaci nelle iniziative da intraprendere a favore della pace e solidarietà internazionale. Gabriele Berni Assessore alla Cooperazione Internazionale - Provincia di Siena
8
L
’informazione gioca un ruolo chiave nel sensibilizzare l’opinione pubblica su quanto accade nel mondo: conflitti spesso ignorati e talvolta sconosciuti sono causa di enorme sofferenza in molte parti del mondo, eppure pochi si muovono concretamente per porvi fine. E troppe volte ciò accade a causa dell’indifferenza, dovuta ad una carenza di informazioni. Ecco perché ho accolto con grande favore la possibilità di stampare una seconda edizione di questo Atlante, che rappresenta davvero una luce su questi conflitti, uno strumento ideato per testimoniare e far conoscere realtà dimenticate. Questo è il grande pregio di un’opera che, trattando un tema così drammatico in maniera oggettiva, spiega soprattutto ai più giovani quanto sia fragile l’equilibrio che mantiene stabile la nostra società e quali responsabilità abbiamo verso il prossimo. Il Trentino-Alto Adige/Südtirol è una terra di confine, che vanta una storia millenaria di convivenza tra popoli di lingua e cultura diversa, ma dove non sono mancati periodi carichi di tensioni e incomprensioni, alternati ad altri di prolifica collaborazione. Oggi proprio la nostra Regione è un modello che viene preso ad esempio da molti, ma quello che ha portato allo Statuto d’Autonomia di cui godiamo non è stato certo un percorso facile. Non sorprende dunque che proprio qui, in un territorio ancora segnato dalle cicatrici della Grande Guerra, abbia trovato sede una associazione che vuole diffondere questo forte messaggio di Pace. Da questa consapevolezza nasce la volontà di contribuire alla diffusione di un testo così importante, per il quale ringrazio in particolar modo Raffaele Crocco, giornalista di grande professionalità ed umanità, e tutti gli autori che, attraverso l’Associazione 46° Parallelo, stanno diffondendo un messaggio di solidarietà di straordinario valore. Marco Depaoli Vicepresidente del Consiglio regionale Trentino Alto Adige
L
a guerra distrugge, l’artigianato costruisce. La guerra allontana, frammenta e desertifica, l’artigianato avvicina, compone e coltiva. Due mondi opposti, interpretati da uno stesso protagonista: l’uomo. Capace di fare “quasi” tutto. Di creare attorno a sé sia il giorno più splendente sia la notte più buia. Forse consapevole di come la notte, per quanto buia, si dissolva sempre in una nuova alba. Roberto De Laurentis Presidente dell’Associazione Artigiani di Trento.
Introduzione
In 20 anni nulla è cambiato
Ricordare vuol dire difendere l’informazione
Barbara Bastianelli Premio Ilaria Alpi
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S
ono passati 18 lunghi anni da quel 20 marzo 1994, quando a Mogadiscio in Somalia furono uccisi la giornalista del Tg3 Rai Ilaria Alpi e l’operatore Miran Hrovatin. I due giornalisti erano in Somalia per documentare il ritiro delle truppe italiane del contingente Unosom. Ilaria e Miran arrivati in Somalia scoprono un traffico internazionale di armi e rifiuti tossici che vedono coinvolta anche la Cooperazione italiana. Il 20 marzo mentre i due giornalisti sono impegnati nelle ricerche sul coinvolgimento italiano in questi traffici vengono assassinati da un comando di sette uomini. Dopo 18 anni la verità sulla morte di Ilaria e Miran non ha trovato ancora la parola fine e il fascicolo sul caso è ancora aperto sulle scrivanie della Procura di Roma. Nel 1994, a pochi mesi dal duplice omicidio di Mogadiscio, Comunità Aperta associazione riccionese, oggi si direbbe con valori civici forti, pensa e istituisce il Premio Ilaria Alpi. Ilaria non è di Riccione, la sua famiglia neppure, ma la sua passione e il suo impegno per questo mestiere colpiscono a tal punto che è naturale pensare subito al suo nome per intitolarle un Premio che vuole riconoscere e accreditare l’impegno per l’inchiesta giornalistica sulle tematiche sociali. E così a Riccione ogni anno viene assegnato questo premio per migliori inchieste televisive. Un modo per valorizzare il buon giornalismo d’inchiesta fatto in Italia e nel mondo, ma per dare anche valore a quello spirito professionale che attraverso l’indagine, ricerca e tesse tra loro il senso dei fatti. Ogni anno al Premio Ilaria Alpi arrivano anche i servizi, reportage ed inchieste che raccontano attraverso immagini e parole i conflitti che ci sono nel mondo, i cosiddetti teatri di guerra che sono uno dei terreni dove questo tipo di giornalismo, quello che anche Ilaria e Miran facevano, trova il suo ambito più duro e vero di realizzazione. Purtroppo negli ultimi anni l’attenzione su questi conflitti specialmente da parte dei media tradizionali italiani è venuto sempre meno. Ci troviamo spesso di fronte a conflitti dimenticati: come quelli che accadono nel continente africano, con le innumerevoli guerre che si sono susseguite negli ultimi decenni, all’infinito conflitto mediorientale, dall’America Latina all’Oriente. Così fin dalle sue primissime edizioni il Premio Ilaria Alpi ha scelto di tenere accesa l’attenzione su queste guerre parlandone, facendo diventare l’evento riccionese l’occasione per cercare di ricordarle mediante il lavoro che tanti giornalisti di anno in anno hanno continuato a svolgere in quei luoghi e Paesi martoriati. La collaborazione alla pubblicazione di questo Atlante delle guerre nel mondo, che giunge quest’anno alla quarta edizione, è per il Premio Ilaria Alpi la consacrazione di un sogno quello di vedere su carta e con un forte valore storico e didattico, quello che l’Archivio Ilaria Alpi raccoglie sotto forma di filmati che in questa pubblicazione vengono valorizzati come immagini.
Introduzione
La propaganda alimenta la guerra Serve informazione per capire il mondo
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C
i vuole un voluminoso Atlante delle Guerre, con molte schede per dar conto delle guerre e dei conflitti nel mondo: sono tante, troppe e ognuna è una ferita nella comunità internazionale. Ognuna denuncia l’effetto placebo dei nostri media, dimostra la limitatezza dell’orizzonte locale con cui guardiamo il mondo globale, l’ipocrisia che questo sia il migliore dei mondi possibili. C’è disordine sotto il cielo del nostro pianeta. Centinaia di milioni di persone soffrono a causa delle guerre e dei conflitti: la loro vita quotidiana, di sofferenza, privazione e disperazione, le priva anche del loro futuro. E quante altre centinaia di milioni di persone sono vittime di regimi autoritari? Perché anche queste situazioni sono paragonabili a subdole guerre contro popoli, libertà e diritti. La crisi economica, che si declina in tante crisi nazionali, è incubatore di violenza, può alimentare il fuoco della guerra, anche sociale, le cui vittime sono gli strati deboli della popolazione. La piccola Grecia non è lì a dimostrarlo? Petrolio, gas, pipelines, materie prime, acqua, infrastrutture, ecc. Per queste cose si combatte nelle guerre locali e nelle guerre globali, nelle guerre per procura e in quelle condotte direttamente. Logiche di potere e di potenza, per mantenere o estendere i confini dei propri interessi, della propria avidità. Nelle nostre democrazie il diritto ha avuto un’evoluzione progressiva, dal diritto romano, in cui la legge discende dall’imperatore, al diritto contemporaneo, alla sovranità popolare, passando per il diritto divino e quello naturale. A livello internazionale siamo ancora al diritto imperiale, al diritto che proviene dal più forte, da chi detiene la forza per imporre le proprie ragioni. Per questo ci sono le guerre. Per la debolezza della comunità internazionale. Perché esistono poteri e potenze sovranazionali non democratiche, che obbediscono a logiche diverse da quelle del rispetto dei diritti umani, perché la cittadinanza globale non ha luoghi in cui esprimersi e contare. Il movimento per la pace, che ha dimostrato quanta parte dell’opinione pubblica mondiale rappresenti, ha sempre coniugato la lotta per la pace alla domanda di un ordine mondiale più giusto. Per non andare troppo lontano si pensi alle manifestazioni degli anni ‘80 contro i missili e per il superamento di un ordine bipolare. Il movimento per la pace denuncia con le guerre le sue cause, domanda pace e globalizzazione dei diritti, richiede un ordine mondiale più giusto, fondato sulla soluzione non violenta dei conflitti. Anche per questo non si può liquidarlo con espressioni come “anime belle”. Non è ingenuo e non realistico il movimento della pace. Anzi si misura con la complessità della realtà, la conosce, e denuncia, avanza proposte. Sono piuttosto ingenui coloro che credono alla propaganda di guerra, alle sue semplificazioni. Tra gli aspetti più negativi della guerra infatti non bisogna trascurare la comunicazione che precede, accompagna e segue l’evento bellico. C’è una vera e propria strategia comunicativa per preparare e conquistare l’opinione pubblica, per costruire il nemico e rendere necessario il suo annientamento. Solo che questa disinformazione, fatta anche di menzogna, questa propaganda, che realizza capovolgimenti semantici chiamando le guerre “etiche”, “umanitarie”, “giuste”, condiziona per lungo tempo il pensiero, incide nelle coscienze, costruisce stereotipi, interpretazioni della realtà, forma opinione pubblica. Per questo serve la fatica della conoscenza, dello studio, dell’analisi e della loro diffusione. Per questo serve informazione libera e controinformazione. Per questo serve l’Atlante delle Guerre, per dare strumenti di lettura critica e consapevolezza, restituire verità, contribuire a formare cittadinanza, a rafforzare la promozione della pace e della sua cultura, al servizio della soluzione non violenta dei conflitti. Flavio Mongelli Presidenza nazionale ARCI
UNHCR/S.Phelps
Introduzione
Diritti umani, diritti di tutti
Una lotta quotidiana per difendere le libertà
Amnesty International
Riccardo Noury Portavoce Amnesty International Italia
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I
n molte parti del mondo, milioni di persone non hanno il diritto di esprimersi liberamente. La minaccia della censura, del carcere e della morte le dissuade dal semplice gesto di dire ciò che pensano. Intere comunità vivono nel terrore della violenza armata, dei governi come dei gruppi armati. Altre comunità sono colpite profondamente dall’avidità delle grandi multinazionali e dal disinteresse delle autorità. Per molte donne dei Paesi poveri il cammino più pericoloso della loro giornata è quello dal loro rifugio temporaneo ai servizi igienici. La minaccia dello stupro le segue passo passo. Nei Paesi ricchi, le segue anche dentro casa. Negare, togliere o limitare i diritti umani è una scelta. La fanno tanti Governi. Agire e vivere per difendere i diritti umani è un’altra scelta. La fanno, da oltre mezzo secolo, le attiviste e gli attivisti di Amnesty International. Con qualche risultato dalla loro parte. Nei suoi primi 50 anni di attività, Amnesty International ha favorito l’abolizione della pena di morte in 124 Paesi, ha avuto un ruolo decisivo nell’adozione di centinaia di leggi nazionali e di trattati internazionali in favore dei diritti umani e ha contribuito alla scarcerazione di oltre 50mila prigionieri di coscienza. Uno degli ultimi è Amadou Scattred Janneh, rilasciato in Gambia il 17 settembre 2012, insieme a un altro detenuto. Stava scontando una condanna all’ergastolo, emessa nel 2011, per aver stampato e distribuito un centinaio di magliette su cui erano scritti slogan critici nei confronti del Governo. L’Atlante delle Guerre, con cui Amnesty International Italia inizia una collaborazione, è un ottimo luogo dove raccontare queste storie e quelle scelte.
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ciad
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nigeria
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paesi baschi mali
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SITUAZIONE A OTTOBRE 2012 CONFLITTI, MISSIONI ONU, INOLTRE
algeria
sahara occidentale
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costa d’avorio
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messico
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Messico
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Etiopia
Corea Nord Corea Sud
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Paesi Baschi
MISSIONI ONU
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UNTSO
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MONUSCO
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UNIFIL
Algeria
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Sahara Occidentale
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UNSMIS
Kirghizistan
Ciad
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Costa d’Avorio
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somalia
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Guinea Bissau
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Turchia
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Repubblica Centrafricana
Cina/Tibet
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Filippine
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Iraq
Georgia
Kashmir
Kosovo
Istruzioni per l’uso Raffaele Crocco
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Piccola guida alla lettura di questo Atlante Come vuole la tradizione, qualche riga per spiegare come leggere questo Atlante. Lo ripetiamo ogni anno: i temi trattati sono “sensibili”, si prestano a interpretazioni, prese di posizione, perché no anche a strumentalizzazioni. Chiarire, quindi, le ragioni che ci hanno portato a scrivere, trattare e impaginare in un certo modo argomenti e fatti diventa essenziale per dare la giusta chiave, o almeno quella che secondo noi è la giusta chiave. Detto questo cominciamo, scusandoci con i lettori affezionati, che si ritroveranno dinnanzi a cose già dette. Prima di tutto, una novità: quest’anno ad introdurre ogni continente è un rapporto di Amnesty International sul rispetto dei diritti umani nell’area. Ci sembra un cambiamento importante, utile ad introdurre al meglio le schede conflitto. Sotto ci sarà una vignetta firmata da Flora Graiff. Non è solo un modo di alleggerire temi “seri”. E’ il tentativo di guardare ai conflitti con occhi diversi, di cogliere aspetti che altrimenti gettiamo alle spalle. L’elemento principale, in questo libro, è proprio la forma grafica, la scelta di essere Atlante. Come vedrete, ogni guerra ha esattamente lo stesso spazio, il medesimo numero di pagine. Questo per evitare di dare ad una maggiore importanza rispetto alle altre. È una scelta “politica”, che vuole mettere tutte le guerre allo stesso livello. Così, le schede conflitto sono tutte di 4 pagine, divise rigorosamente per continente, come in un Atlante, appunto. Attenzione: in questo – che è un Atlante particolare – troverete delle schede conflitto, non delle “schede – Paese”. Qui si disegna un profilo geografico ad una guerra e, quindi, vi sono schede che non corrispondono a Stati o Nazioni, ma ad aree di conflitto. È una differenza fondamentale. Quest’anno non daremo in questa pagina le definizioni di Guerra o Conflitto o di altri termini “ambigui” nell’informazione. Vi rimandiamo al Glossario che troverete nelle ultime pagine. Leggetelo, perché è importante per avere un criterio univoco e senza incertezze. Le definizioni che diamo non sono scientifiche, lo ripetiamo sempre, ma sono una scelta, fatta dopo giorni di discussione. E danno un indirizzo preciso alla lettura. Vi diciamo, poi, che troverete, sotto le carte geografiche di ogni scheda conflitto, i dati sulla situazione profughi e rifugiati. È stata realizzata in collaborazione con l’Alto Commissariato per i Rifugiati dell’Onu e si aggiunge al tradizionale rapporto sul tema che pubblichiamo, come tradizione, nelle ultime pagine. Altre istruzioni: le foto che trovate in questo Atlante ci sono state fornite dall’Alto Commissariato dei Rifugiati, altre sono tratte da video di reporter sparsi in tutto il mondo. Sono quelli che tecnicamente si chiamano “frame”, cioè fermi immagine di un filmato. Per questo, a volte, possono sembrare di qualità strana, magari mosse o sgranate. Le abbiamo volute e scelte per la loro efficacia, per la capacità di raccontare tutto in una sola immagine. Un’ultima cosa: le carte geografiche sono quasi tutte messe a disposizione dalle Nazioni Unite, per questo sono in inglese. Dovrebbe essere tutto. Buona lettura.
Foto in alto Francesco Cavalli
La situazione
Raffaele Crocco
Foto in alto Fabio Bucciarelli
Dalle città: per tentare di capire il Pianeta del 2012, il suo stato di salute, i meccanismi che ne regolano la vita, non si può che partire dalle città. Nel 2011 metà della popolazione mondiale viveva in centri urbani. 3miliardi e 600milioni di esseri umani ammassati in luoghi che diventano sempre più grandi, estesi, ingovernabili. Per capire: nel 1950, cioè solo sessant’anni fa, la popolazione urbana mondiale era composta da appena 750milioni di uomini e donne. Bene, si potrà pensare, qual è il problema? È nel fatto che le città devono garantire a sempre più gente cibo, acqua potabile, case, servizi decenti, cioè tutti i beni necessari per vivere. E non ce la possono fare. L’insieme delle città del Pianeta occupa appena il 2% della superficie terrestre. Devono ricevere dall’esterno – inevitabile – quasi tutto ciò che serve, soprattutto il cibo. Sono dipendenti dalla terra che le circonda e questo le rende inevitabilmente fragili. Producono però il 70% delle emissioni totali di anidride carbonica, contribuendo in modo decisivo al degrado del clima e dell’ambiente. Lo dicono le statistiche: gli edifici consumano il 40% dell’energia prodotta a livello mondiale. Gli abitanti delle aree urbane già ora utilizzano il 75% delle risorse naturali della Terra, senza riuscire a creare un ecosistema compatibile, che permetta di sopravvivere. Il sistema dei trasporti, invece, produce il 13% del totale dell’anidride carbonica emessa, ma è destinato anche questo a crescere, visto il continuo aumento di auto e pullman per i trasporti urbani. Non è finita: nei prossimi anni a crescere saranno soprattutto – il fenomeno è ampiamente già iniziato – le città dei Paesi ad economia più fragile. Si stima che nel 2050 la popolazione urbana in Africa sarà di 1miliardo e 200milioni, dai 414milioni attuali. In Asia passerà da 1,9miliardi di oggi a 3,3miliardi. Significa un incremento, in vent’anni, dell’86%. Storia drammatica, se si pensa che in queste città oggi – e sarà sempre più così – almeno un terzo della popolazione vive in baraccopoli. Tutto questo avviene mentre in più parti del Mondo, attorno alle stesse città, la terra viene venduta a multinazionali e governi di Paesi ad economia forte. È la battaglia per il controllo del cibo, iniziata già da qualche anno e che vede impegnati tutti contro tutti. L’Africa è – come spesso le accade – la terra prescelta per lo scontro. In pochi anni, l’equivalente di un territorio pari alla Francia è stato ceduto “ad altri”, perché lo trasformassero in terra che produce alimenti. Chi controlla il pane, controlla il mondo. Lo sapevano i Romani che governavano il Mediterraneo duemila anni fa, lo sanno benissimo
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Sono le città la chiave per capire il futuro
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oggi. Nell’agosto del 2012 una combinazione di eventi - la grande siccità degli Stati Uniti, le catastrofi in Asia, i raccolti scarsi in Russia portò il costo del frumento a 869 centesimi di dollaro per buschel, unità di misura pari a 24,4 chili. Nel 2010, due anni prima, il frumento costava 428 centesimi di dollaro. Il mais schizzò a 785 centesimi di dollaro da 306. Un’impennata che costrinse i Governi del G20 – il club delle più importanti economie mondiali – ad incontrarsi, per trovare misure che calmierassero i prezzi. La Food and Agricolture Organization di Roma prevedeva un aumento medio globale del prezzo del cibo del 6%, insostenibile per molti. E tra i primi interventi decisi dal G20 vi fu la scelta di non utilizzare i terreni agricoli per il bio – carburante – sembrava la grande soluzione energetica del futuro - ma di servirsene per produrre frumento e mais ed abbassare i prezzi sul mercato. Attorno al cibo si scateneranno – lo dicono gli esperti – i conflitti del futuro. Attorno al cibo e per controllare le sommosse inevitabili che ci saranno nelle grandi, future, megalopoli. Parigi nel 2009, Londra nel 2011 sono stati piccoli esempi di città messe e ferro e fuoco da chi vuole di più, da chi vuole sopravvivere. Sarà peggio, dicono i signori della guerra. La Nato ha elaborato strategie di intervento e si sta organizzando. A Bergamo, in Italia, si studiano gli esoscheletri – avete presente Goldrake e gli eroi dei manga giapponesi? – per moltiplicare all’infinito le capacità di ogni singolo soldato messo in campo. Il mondo aeronautico sta sviluppando aerei di piccole dimensioni, con motore a scoppio – come quelli che irrorano di antiparassitari i campi – in grado di intervenire in modo “mirato”, preciso, con il pilota nelle condizioni di decidere “a vista” dove colpire. Al di là di questi interventi mirati, strategici, la tradizionale corsa al riarmo non si ferma. Resta il miglior business planetario. La Cina ha deciso di portare il proprio budget per le forze armate a 238miliardi di dollari l’anno entro il 2015, raddoppiando quello attuale. Il Giappone investe 64miliardi l’anno. L’India importa il 10% delle armi prodotte nel mondo e il volume d’affari mondiale legato agli armamenti è cresciuto, fra il 2007 e il 2011, del 24%. Tutti si riarmano, quindi, pensando a mostrare i muscoli per risolvere conflitti e rivendicare territori. La gara al controllo delle risorse essenziali – non solo petrolio e minerali, ormai – resta una competizione pericolosa. Qualche buona notizia c’è. È stato, ad esempio, raggiunto con cinque anni d’anticipo l’obiettivo di dimezzare, sul Pianeta, il numero delle persone senza accesso all’acqua potabile. Nel 2010, due miliardi di persone, con un programma iniziato nel 1990 all’interno degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio varati dall’Onu, hanno avuto la possibilità di avere acqua, con pozzi protetti e impianti idrici. Un salto in avanti notevole, che lascia però a secco ancora 740milioni di esseri umani: nell’Africa Sub Sahariana, ad esempio, solo il 69% delle persone ha acqua a disposizione. Le conseguenze, non solo in quella terra, sono devastanti, perché la mancanza di impianti e di pozzi potabili porta alla morte, ogni anno, di almeno 1milione e mezzo di bambini. Servono soldi, investimenti, dicono economisti e tecnici, distogliendo risorse dalla corsa alle armi. Sarebbero utili per disinnescare un’altra forma di ingiustizia, quella legata alla mancanza di alfabetizzazione. Ancora oggi, 775milioni di adulti e di giovani, nel mondo, non sanno leggere e scrivere. 122milioni di bambini non vanno a scuola e, come in molti altri campi, è il mondo femminile a pagare il dazio maggiore: le donne sono i due terzi della popolazione mondiale non alfabetizzata. In questo quadro di statica ingiustizia, restano immobili il dramma di decine di milioni di profughi in fuga da guerre e calamità, lo scontro per il controllo e il commercio di petrolio, metano, minerali, il pericolo delle armi atomiche – ancora 20530 le testate esistenti e in possibile uso – usate per risolvere storici conflitti regionali. Nel 2012 il Pianeta continua a non essere in salute. E sono proprio gli uomini, pare, la malattia peggiore.
UNHCR/R. Arnold
UNHCR/P. Rubio Larrauri
Il mondo in movimento/1 Laura Boldrini
Foto in alto UNHCR/July 2012
UNHCR/S. Malkawi
Hanno voglia di parlare i rifugiati siriani, di far sapere al mondo quello che sta succedendo nel loro Paese. Raccontano storie drammatiche, accorate, una galleria di orrori che ognuno di loro ha vissuto in venti mesi di violenza e conflitto. Sono donne e uomini traumatizzati e terrorizzati che in presenza di fotografi e telecamere non vogliono mostrare il loro volto per timore di rappresaglie contro i familiari rimasti ancora lì. Ma non per questo rinunciano a raccontare e denunciare. Madri che spesso hanno visto morire i propri figli o da mesi non ne hanno più notizie. Ragazze violentate. Giovani rimasti mutilati. Famiglie distrutte per sempre. “Dobbiamo usare tutte le misure per proteggerci. Non possiamo far vedere le nostre facce. Ci temono perché noi siamo la prova delle atrocità commesse contro i civili indifesi. Noi che siamo riusciti a scappare e ora possiamo parlare, rappresentiamo la loro vergogna,” sottolinea con forza una donna nel campo di Za’atari in Giordania che ospita circa ventimila rifugiati siriani. Con l’aumentare degli arrivi il Governo giordano, che aveva inizialmente optato per un’accoglienza diffusa sul territorio, ha deciso di aprire a fine luglio un campo con una capienza massima di quaranta mila persone. In questa distesa di tende e prefabbricati nel mezzo del deserto tre mesi fa non c’era niente, solo sabbia e pietre. Nonostante tutti gli sforzi messi in atto finora, per i rifugiati non è facile vivere in queste condizioni. “Insieme alle altre organizzazioni abbiamo fatto una corsa contro il tempo per riuscire a stabilizzare il terreno e evitare l’effetto delle tempeste di sabbia, portare acqua, elettricità, un sistema per lo smaltimento dei rifiuti, allestire la scuola, costruire cucine in muratura e fare una nuova strada,” evidenzia Paolo Artini, vice rappresentante dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati in Giordania. “Ma, per rendere il campo ancora più vivibile, ora necessitano
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Una galleria degli orrori nella vita dei nuovi profughi
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ulteriori stanziamenti”. Il campo di Za’atari è pieno di donne e bambini. La gran parte di loro proviene da città siriane come Daraa, Hama e Homs. Persone abituate a vivere in appartamenti confortevoli, con elettrodomestici, Tv e computer. Commercianti, muratori, casalinghe, imbianchini, gente della classe media che fa molta fatica a adattarsi a un tale drastico e duro cambiamento. Tala, che insieme ai suoi quattro figli abita da due mesi nella tenda, è in attesa di essere trasferita in uno dei 2500 container destinati al campo. Questo passaggio migliorerà la loro esistenza. Una sistemazione meno scomoda, ambita da tutti specialmente con l’arrivo dell’inverno quando le temperature si fanno molto rigide. “I miei figli in Siria erano ben curati ma qui sono sempre sporchi di polvere. Qui non si può essere puliti, la sabbia non dà tregua” nota con rassegnazione la donna. “Non ho potuto portare niente con noi. Quando hanno iniziato a bombardare il nostro quartiere a Daraa non abbiamo pensato ad altro che scappare. Non c’è stato tempo di prendere nulla. Vestiti, documenti, niente. Solo le chiavi di casa. Ma non ci serviranno più…”. A venti mesi dall’inizio della violenza in Siria si contano quasi 1,5milioni di sfollati che sono rimasti all’interno dei confini nazionali e oltre 360mila fuggiti nei Paesi confinanti: Giordania, Libano, Iraq e Turchia. Il numero di civili costretti a scappare è destinato ad aumentare con l’intensificarsi delle operazioni militari in prossimità o all’interno dei centri abitati. Secondo le ultime stime delle Nazioni Unite è probabile che a fine anno il numero dei rifugiati tocchi quota 700mila. Il Governo giordano stima che sul suo territorio abbiano trovato rifugio 200mila siriani di cui la metà registrati con l’Unhcr. La maggior parte di queste persone vive fuori del campo di Za’atari nelle città come Amman, Irbid, Mafraq, in case affittate o presso conoscenti e parenti. Molti però stanno finendo gli ultimi risparmi senza sapere come poter tirare avanti. “Ogni mattina ci sono centinaia di persone in fila davanti al nostro ufficio di Amman. Sono rifugiati siriani in attesa di registrarsi ma anche tanti che hanno paura di essere sfrattati perché da mesi non riescono a pagare l’affitto e fanno richiesta per ricevere un sussidio”, rileva Sara Baschettti, funzionaria dell’Unhcr per la procedura di asilo. “Un aiuto che noi però riusciamo a dare solo a 6000 famiglie”. Ci sono quartieri di Irbid e Amman dove sembra di stare in Siria. Spesso in appartamenti fatiscenti di cinquanta metri vivono famiglie di sei persone. Gli affitti variano e arrivano fino a trecento dinari giordani, poco meno di 300 euro. “Le migliaia di rifugiati siriani che si sono riversati in Giordania utilizzano gli stessi ambulatori, gli stessi ospedali e le stesse scuole dei nostri cittadini. La Giordania è un Paese povero di acqua e ogni giorno al campo di Za’atari ne servono un milione di litri,” evidenzia Hanmar Al Nimer, portavoce del Governo giordano sulle questioni relative ai rifugiati. “Noi stiamo accogliendo i fratelli siriani al meglio delle nostre possibilità ma abbiamo bisogno di un maggior sostegno da parte della comunità internazionale”, conclude il portavoce. Nello stesso edificio a volte sono sistemate famiglie di parenti anche se non è raro che siriani di città diverse, ma con storie di violenza molto simili, si trovino a diventare vicini di casa. Come Khaled e Muraf, entrambi trentenni e entrambi mutilati. Senza la mano destra il primo e con mano e parte del braccio amputati il secondo. Nel caso di Khaled la mano gli è stata colpita da un cecchino mentre filmava con un telefonino l’irruzione di uomini armati in casa di un suo amico che insieme a lui aveva fornito alle Tv satellitari arabe le immagini delle manifestazioni di protesta a Daara. Nel caso di Muraf il braccio gli è stato tranciato da un colpo sparato da un carro armato che avanzava velocemente per le strade di Hama mentre lui, con gesti e urla, stava tentando di avvertire alcuni feriti di lasciare l’ospedale dove erano appena giunti. Muraf Ha visto la mano cadere a terra e l’ha raccolta, come in un movimento automatico. Ma il dolore lancinante che lo ha assalito purtroppo non gli ha fatto perdere subito i sensi. E quello che ha visto rimarrà sempre scolpito nella sua mente.
UNHCR/A. Rummery
UNHCR/S. Malkawi
Beni a rischio/1 Giovanni Puglisi
La motivazione si può leggere sul sito dell’UNESCO al link http://whc.unesco. org/fr/list/946/; la traduzione italiana è a cura di chi scrive. 1
La mattina del 9 novembre 1993 le forze armate croate distruggevano lo Stari Most, lo straordinario ponte “a schiena d’asino” che dal XVI secolo collegava le due parti della città di Mostar, quella cristiana e quella musulmana: la distruzione del Vecchio Ponte, lungi dal rispondere esclusivamente alla “necessità militare” di impedire il passaggio delle truppe bosniache, annientava così simbolicamente ogni possibilità di contatto, dialogo e scambio tra le due culture e religioni. Oggi il Ponte, interamente ricostruito sotto il coordinamento dell’Unesco e grazie a finanziamenti internazionali fra i quali quello italiano, è stato proclamato dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura “patrimonio culturale dell’umanità” e iscritto nella Lista del Patrimonio mondiale istituita in seno alla Convenzione per la protezione del patrimonio naturale e culturale mondiale (Parigi, 16 novembre 1972). Tale prestigioso riconoscimento da parte della comunità internazionale è avvenuto non solo per l’intrinseco valore eccezionale del monumento, ma anche a causa dell’alto valore simbolico assunto dalla sua ricostruzione. Come si legge nelle motivazioni della proclamazione fornite dall’Unesco, infatti, “la «rinascita» del vecchio ponte e dell’area circostante ha rafforzato il significato simbolico della città di Mostar come emblema universale della coesistenza di comunità di origini culturali, etniche e religiose differenti, sottolineando al tempo stesso gli sforzi illimitati compiuti dalla solidarietà umana per la pace e la cooperazione di fronte alle più sconvolgenti catastrofi1”. Come appare evidente, una simile motivazione contiene in sé, accanto alla pur importante celebrazione della solidarietà umana e della cooperazione internazionale, l’ammissione di un tragico fallimento: il fallimento – almeno parziale – dell’ampio e articolato sistema della legislazione internazionale riguardante la protezione e la conservazione del patrimonio culturale e naturale mondiale in caso di conflitto armato, che non è stato sufficiente a evitare la distruzione dello Stari Most né, per rimanere nell’ambito del medesimo e a noi vicino conflitto, l’incendio della Biblioteca di Sarajevo. Tale sistema normativo, che non esito a definire imponente – comprendendo almeno la Convenzione dell’Aja del 1954 con i suoi precedenti (Convenzioni dell’Aja del 1899 e del 1907 e Patto di Washington del 1935) e i suoi protocolli aggiuntivi (I Protocollo del 1954 e II Protocollo del 1999), la Convenzione sul divieto e sulla prevenzione dell’importazione, esportazione e trasferimento illeciti di beni culturali mobili (Parigi 1970) e la Convenzione sul recupero dei beni culturali rubati o illecitamente esportati (Roma 1995), oltre all’insieme degli strumenti internazionali per la protezione e la salvaguardia del patrimonio culturale, naturale, subacqueo e immateriale (cd. Convenzioni Unesco del 1972, del 2001 e del 2003) – in effetti ha mostrato, nel corso della guerra nei territori della ex-Jugoslavia come anche in altre dolorose occasioni, tutti i suoi limiti, sia di natura teorica che ap-
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L’arte vittima di guerra a dispetto delle Convenzioni
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plicativa. Lascio alle appuntite penne dei giuristi il compito di entrare nel merito dei primi, che vanno dall’astrattezza e per certi versi ambiguità del concetto di “necessità militare” (art. 11 par. 2) all’estrema macchinosità e lentezza del sistema dei controlli sull’esecuzione (artt. 20-28), e mi permetto, nel breve spazio di questo scritto, di evidenziare alcune delle principali difficoltà che incontra, ancora oggi, l’applicazione della Convenzione del 1954 e degli altri strumenti ad essa collegati. La Convenzione dell’Aja prevede che le “Alte parti contraenti” ottemperino a due distinti obblighi, l’uno cosiddetto di “rispetto” (art. 4) e l’altro di “salvaguardia” (art. 3). Se il primo consiste essenzialmente in un obbligo di non fare – ovvero di astenersi dal compiere atti di ostilità nei confronti del patrimonio culturale e dall’utilizzare beni appartenenti a quello stesso patrimonio per scopi che potrebbero causarne l’attacco in caso di conflitto – e può essere considerato di relativamente facile definizione ed esecuzione (come dimostra il fatto che i tentativi di una sua migliore attuazione si sono concentrati fino ad oggi prevalentemente sulla determinazione delle corrette sanzioni amministrative e penali in caso di violazione), il secondo rappresenta invece un obbligo di fare, un vincolo all’azione per i singoli Stati, che sono tenuti a impegnarsi per l’attuazione della Convenzione già in tempo di pace. È l’adempimento a quest’ultimo obbligo, quello di tutela per così dire “preventiva”, che comporta, a mio avviso, le maggiori difficoltà. Esso, infatti, implica non solo specifiche azioni concrete quali, a puro titolo di esempio, la predisposizione di rifugi per i beni culturali mobili, la definizione di tempestive procedure di intervento e messa in sicurezza dei beni immobili o l’iscrizione di elementi del patrimonio culturale di particolare valore nel Registro internazionale dei Beni Culturali sotto Protezione Speciale (che per ora è uno strumento ampiamente sottoutilizzato), bensì più in generale la creazione e l’attuazione di una normativa per la tutela, conservazione e protezione dei beni culturali che sia in grado di funzionare efficientemente in tempo di pace e contemporaneamente di rispondere con rapidità ed efficacia alle situazioni di emergenza dovute a conflitti armati o calamità naturali. Tale obbligo di salvaguardia è caratterizzato da un ampio margine di discrezionalità concesso ai singoli Stati e la sua concreta realizzazione si scontra inevitabilmente con le molteplici difficoltà – in primis di bilancio – che affliggono ormai da molti anni qualsiasi tentativo di azione politico-legislativa a tutela del patrimonio culturale che voglia essere lungimirante e non solo emergenziale. Si scontra, in altre parole, con la mancanza di una reale consapevolezza del valore che il patrimonio culturale di ogni popolo riveste per l’intera umanità, e con la conseguente assenza di una ferma volontà di protezione da parte dei singoli governi. Ora, adempiere all’obbligo di salvaguardia previsto dalla Convenzione dell’Aja del 1954 significa proprio costruire questa consapevolezza, radicare questa volontà. Senza tali condizioni, qualunque strumento normativo di tutela, anche quello dotato di maggiori strumenti di attuazione e di più forti capacità sanzionatorie, apparirà senz’altro largamente insufficiente, come è avvenuto ad esempio nel caso della distruzione volontaria dei Buddha di Bamiyan in Afghanistan. In effetti quando, il 12 marzo 2001, le milizie governative talebane avviarono la loro demolizione, a nulla valse invocare le Convenzioni elaborate dall’Unesco, a nulla valse il biasimo della comunità internazionale che, anni dopo, ha trovato espressione nella Dichiarazione Unesco sulla distruzione intenzionale del patrimonio culturale (Parigi, 17 ottobre 2003). D’altra parte, ciò che avrebbe potuto salvare quelle impareggiabili testimonianze dell’arte e della fede buddista, ovvero la profonda coscienza del loro valore unita a una larga diffusione di una cultura della pace e del dialogo, non può essere oggetto di alcuna Convenzione, né frutto di alcuna imposizione normativa, bensì – e solo – di un atto d’amore nei confronti dell’essere umano e delle sue culture.
Banche e guerra Andrea Baranes*
*Questo articolo è stato scritto a quattro mani con Mauro Meggiolaro.
I greci sono alla fame, ma hanno gli arsenali bellici pieni. E continuano a comprare armi. Con queste parole si apriva un articolo pubblicato dal Corriere della Sera a febbraio 20121. Non è un fenomeno nuovo. Da anni la Grecia è il Paese europeo, il secondo dell’Ocse alle spalle degli Usa, che spende di più in armi in rapporto al suo Pil. Colpisce come ancora nel 2012, in una situazione gravissima per l’economia e ancora prima per la popolazione, il fatto che il Paese ellenico continui a spendere cifre spropositate in armamenti. Il 3% del Pil. Ancora peggio, sempre più esplicitamente si sono rincorse voci e notizie secondo le quali il Governo greco, per potere accedere agli aiuti messi a disposizione dalla Troika (Bce, Commissione Ue e Fmi) abbia di fatto dovuto acquistare armi tedesche e francesi2. Già nel 2010 una agenzia Reuters titolava: “Sei a pezzi? Compra alcune navi da guerra, raccomanda la Francia ai greci”3. Tornando indietro di qualche anno, nel 2008, allo scoppio della crisi finanziaria e con le prime nubi che si addensavano su Atene, la Grecia risultava il quinto Paese al mondo per importazione di armi4. Nel 2010, il 58% della spesa militare della Grecia è andato alla Germania5. Nel 2012, nelle farmacie greche scarseggiano i medicinali, anche quelli di prima necessità, ma il Paese ha confermato l’acquisto di due sottomarini tedeschi, per una spesa di 1,3miliardi di euro e di 223 carri armati per oltre 400milioni di euro. Mentre si rincorrono le voci su una possibile uscita della Grecia dall’euro, il Paese continua a prevedere per il 2012 una spesa militare superiore ai 7miliardi di euro, in crescita a doppia cifra sull’anno precedente. Il meccanismo non riguarda unicamente la Grecia, e non riguarda unicamente le armi. L’Europa si trova al centro di una bufera speculativa. Gli analisti concordano nel segnalare come uno dei principali problemi risieda in un’Europa a due velocità, con un centro che ruota attorno alla Germania e una periferia che include Grecia, Spagna, Portogallo. La Germania ha un enorme surplus commerciale, realizzato per l’80% nei confronti degli altri Paesi dell’Ue. Specularmente, i Paesi della periferia registrano deficit commerciali. Com’è stato finanziato un tale deficit? Semplice, per anni le stesse banche dei Paesi “forti” (Germania, Francia, Gran Bretagna) hanno prestato somme enormi alle loro omologhe nelle Nazioni più deboli, o acquistato titoli di Stato di questi Paesi, o comunque favorito il loro indebitamento. In pratica la Grecia s’indebitava con la Germania per continuare a comprare prodotti tedeschi che inondavano il mercato greco. Oggi la Grecia si trova al centro di una crisi finanziaria, economica, sociale e deve accettare delle draconiane misure di austerità e piani “lacrime e sangue” che servono in primo luogo a restituire i debiti contratti con le banche tedesche, fran-
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Armi, debito, crisi finanziaria: il caso della Grecia
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cesi e inglesi. In questa situazione di debito e di fragilità, la stessa Grecia è costretta a continuare a comprare prodotti provenienti dalle Nazioni economicamente più forti. E non prodotti qualsiasi, ma in particolare armi, ovvero l’emblema stesso di spesa improduttiva. Le armi comprate non hanno ricadute occupazionali, non producono ricchezza, non creano “sviluppo”. Si spera che non servano a nulla, e se servono, è a distruggere. Su una cosa le armi sono utilissime: per distribuire tangenti. Da sempre il settore degli armamenti è uno dei più esposti alla corruzione. E i rapporti tra Grecia e Germania non fanno eccezione, come nei casi della Siemens, accusata, sia dalla giustizia tedesca sia greca, di tangenti per un ammontare prossimo al miliardo di euro. Secondo un articolo apparso su Mondialisation, “Il principale dirigente dell’azienda Siemens-HellasV, che ha ammesso di aver “finanziato” i due grandi partiti greci, è fuggito nel 2010 in Germania e la giustizia tedesca ha respinto la richiesta di estradizione avanzata dalla Grecia”6. Al di là della corruzione, parliamo di una gigantesca quanto vergognosa partita di giro. I cittadini ellenici ridotti letteralmente alla fame per onorare i debiti contratti con Francia e Germania per fare girare le industrie degli armamenti francesi e tedesche devono continuare a indebitarsi per comprare armi tedesche e francesi. L’aspetto più paradossale dell’intera vicenda è il fatto che non si metta in discussione questo meccanismo, ma che francesi e tedeschi casomai litighino su come spartirsi la torta. Pochi mesi fa i francesi hanno proposto alla marina greca uno sconto e una dilazione nei pagamenti sull’acquisto di due fregate. Una mossa che ha scatenato le ire della tedesca ThyssenKrupp, secondo la quale in questo modo di fatto la Grecia potrà usufruire degli aiuti europei, e quindi anche dei fondi messi a disposizione dalla Germania nel fondo salva-stati, per favorire la vendita di navi francesi a scapito di quelle tedesche7. Quello che stiamo vedendo in Grecia non è certo nuovo. Da decenni moltissimi Paesi del Sud del mondo sono intrappolati in una spirale di debito, ricatti economici e commerciali, vera e propria perdita di sovranità nazionale. Debiti contratti per armi, spese improduttive o comunque per fare girare e moltiplicare i profitti delle grandi imprese del Nord, mentre il conto viene pagato dalle popolazioni delle Nazioni più povere. Oggi gli stessi meccanismi riguardano la “ricca” Europa, e le divisioni al suo interno. E rendono espliciti i ricatti politici che costringono nazioni indebitate e in difficoltà economiche e sociali a proseguire e intensificare programmi di armamento che peggiorano ulteriormente la situazione, sia in termini di debito e povertà, sia in termini di dipendenza dall’estero. Mentre il governo italiano, in piena recessione economica, taglia sulle spese sociali e il welfare ma conferma l’acquisto dei cacciabombardieri F35 per un costo di almeno una decina di miliardi di euro...8.
Grecia: Spese militari. Il bilancio della Difesa ellenico al record del 3% del Pil Fregate, sottomarini e caccia. Quelle pressioni di Merkel e Sarkò per ottenere commesse militari. Corriere della Sera (13/2/12) 2 L’estate scorsa il Wall Street Journal rivelava che Berlino e Parigi avevano preteso l’acquisto di armamenti come condizione per approvare il piano di salvataggio della Grecia. 3 Reuters, 23 marzo 2010. 4 Giorgio Beretta, Unimondo - 09 giugno 2009 5 Giornalettismo, 15 febbraio 2012. 6 Eric Toussaint su www.mondialisation.ca 7 Der Spiegel, 17 ottobre 2011. 8 http://www.disarmo.org/nof35/ 1
Informazione e guerra Enzo Nucci
Nel 2000 gli scambi economici tra la Repubblica Popolare Cinese ed il continente africano furono di 100milioni di dollari. Nel 2011 hanno superato il traguardo di 155miliardi di dollari. Il colosso asiatico è il primo o il secondo partner economico di più della metà dei 54 Stati africani. La sua impetuosa crescita necessita di energia e materie prime di cui l’Africa trabocca: ferro, rame, nichel, oro, uranio, coltan. Il petrolio africano soddisfa il 30% del suo fabbisogno. In cambio il Dragone cinese costruisce o rinnova le infrastrutture, un’impresa cui le vecchie potenze coloniali hanno rinunciato perché concentrate nelle proprie aree di influenza. Ma non è tutto oro ciò che luccica, mette in guardia la Banca Africana per lo Sviluppo che sottolinea invece lo squilibrio della relazione commerciale e di investimento fra Cina ed Africa. Insomma l’arrivo degli investimenti asiatici non ha contribuito a differenziare le economie africane ma le ha rese maggiormente dipendenti dalle esportazioni di materie prime. In sintesi per l’autorevole organismo bancario l’invasione cinese non sta favorendo una crescita armonica. Una penetrazione economica così capillare è supportata da un’adeguata strategia di creazione del consenso, secondo la filosofia del “soft power” (il potere morbido) che Pechino utilizza per conquistare il favore delle Nazioni ricorrendo a investimenti economici e culturali senza disdegnare le donazioni. La China Central Television (Cctv), ovvero la televisione di stato, è parte integrante di questa offensiva politica e mediatica. Nel 2012 è stato inaugurato a Nairobi (Kenya) l’ufficio centrale di Cctv Africa, cui fanno capo le 18 redazioni sparse in Egitto, Algeria, Senegal, Nigeria, Congo, Angola, Zambia, Zimbabwe, Sudafrica, Ruanda, Tanzania, Etiopia, Sudan. La Cctv è forse il network televisivo più grande del mondo con 71 uffici di corrispondenza presenti nei 5 continenti e programmi diffusi su sei canali internazionali in lingua cinese, inglese, francese, spagnolo, russo e arabo. Pang Xinhua è il direttore di Cctv Africa. Lo incontriamo nella fantascientifica sede della televisione in un modernissimo edificio che sorge nelle nuove strade commerciali di Nairobi. “Qui lavorano stabilmente 60 giornalisti e tecnici, di cui 50 kenioti. Abbiamo 5 inviati pronti a partire per ogni destinazione e corrispondenti in tutti i Paesi africani. Oggi produciamo un telegiornale della durata di un’ora ma dal 2013 raddoppieremo con una seconda edizione quotidiana sempre di un’ora. Per questo nuovo impegno sono programmate le aperture di 17 nuove sedi di corrispondenza. E poi abbiamo due talk show politici settimanali, sempre della durata di un’ora ciascuno. Insomma – taglia corto Pang Xinhua – è un’informazione pensata e scritta dagli africani per gli africani”. Mister Pang sfoggia la tradizionale cautela diplomatica quando gli chiediamo perché la Cina ha de-
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China Center Television No, non è la BBC
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ciso di fare un investimento del genere. “Africa e Cina intrattengono da tempo ottimi rapporti. La nostra economia è la seconda al mondo. Per questo vogliamo portare l’Africa al centro dell’attenzione creando un ponte con la Cina e favorire la conoscenza reciproca. Ma principalmente vogliamo cambiare l’immagine negativa su questo continente alimentata dai mezzi di comunicazione di massa. Certo, ci sono disastri, guerre ma vogliamo anche mostrare lo sviluppo veloce che sta attraversando l’Africa”. Beatrice Marshall è la anchor woman più famosa del Kenya. Alle spalle ha anni di lavoro nella tv privata più importante del Paese. Quando le chiediamo se subisce pressioni e se si sente libera nel suo lavoro risponde: “Certamente. Ma che significa libertà? Io lavoro con un team di 4 persone, tecnici, giornalisti, ricercatori. Tutti kenioti. Ogni settimana discutiamo tra di noi gli argomenti da trattare e prepariamo i programmi con interviste e servizi nella più assoluta libertà, senza alcuna censura. Guardami. Io sono africana. Questa è l’Africa. Noi siamo africani e questo vogliamo mostrare alla gente. Non vogliamo parlare di Africa come di un’unica entità ma delle sue differenze”. Molta attenzione la Cctv dedica all’economia africana. Lo spiega Ramah Nyang, giovane ed autorevole notista finanziario. “La gente solitamente guarda al business privato con la prospettiva europea ma in Africa ci sono enormi opportunità di investimenti. Per esempio una piccola compagnia di assicurazione medica ha appena vinto un appalto per 125milioni di dollari battendo un’altra società che lo scorso anno ha incassato cifre da capogiro. Eppure europei ed occidentali in genere credono che gli investimenti in Africa siano rischiosi. Nei nostri servizi televisivi facciamo conoscere le nuove opportunità”. Il personale giornalistico e tecnico è stato portato via da altre tv e quotidiani a suon di dollari, con stipendi più alti della media, prendendo il meglio che il mercato del lavoro offriva. Studi, attrezzature e tecnologia sono all’avanguardia. In Africa il canale internazionale della tv cinese è diffuso da piattaforme sia a pagamento che libere. Poiché non tutti possono permettersi l’acquisto del televisore o l’abbonamento, la Cctv diffonde i suoi contenuti anche attraverso telefoni cellulari, personal computer, smartphone, tablet, grazie alla Huawei, un gigante delle telecomunicazioni, un’azienda di stato cinese di cui anche l’Esercito possiede quote azionarie. La Huawei ha lanciato sul mercato africano apparecchi a prezzi accessibili, in particolare due anni fa ha messo in vendita uno smartphone con sistema Android dal costo di solo 100 euro che in breve è diventato il più comprato in Kenya, sfiorando i centomila pezzi venduti. Per quanto riguarda i contenuti giornalistici, la Cctv può contare sulla stretta collaborazione con la Xinhua (la Nuova Cina), l’agenzia di stampa ufficiale del governo di Pechino, un colosso multimediale che impiega 11mila persone in 107 uffici di corrispondenza sparsi nel mondo. Xinhua possiede anche un proprio network televisivo che produce e diffonde servizi filmati. La Nuova Cina dispone di 20 uffici di corrispondenza nel continente. La televisione del Dragone ha annunciato investimenti per 7miliardi di dollari nei canali per l’estero. È partita così la sfida verso i grandi network (innanzitutto Al-Jazeera che proprio in Africa ha fatto grandi investimenti) in un momento in cui i media internazionali pagano un fortissimo prezzo alla crisi con la chiusura delle sedi. In particolare la Cctv vuole spezzare l’assedio mediatico dei canali statunitensi che in Africa trasmettono dagli anni ottanta e che possono contare su un’audience consolidata e affezionata ai format a stelle e strisce. Ma Pechino ha la urgente necessità di offrire il suo punto di vista su politica ed economia, rinnovare l’immagine del Paese per renderla più consona al peso crescente che sta acquistando nella politica economica mondiale. Non è casuale che il governo abbia da tempo favorito la nascita in tutto il mondo degli Istituti Confucio per la diffusione della cultura e della lingua con 5mila insegnanti di cinese pagati dal ministero dell’ Istruzione. La Cctv Africa predilige le buone notizie alle cattive, una scelta politica e professionale che nelle intenzioni dei finanziatori cinesi ha il compito di restituire il continente nero alla sua reale dimensione economica e sociale. Ma auguriamoci che non accada come in Cina, dove dissenso e repressione sono due parole che non hanno posto nel vocabolario del regime.
Vittime di guerra/1 Luisa Morgantini
È davvero dolce l’anguria di Diyarbakir. I palestinesi si offenderanno molto quando, raccontando dei miei incontri nel Kurdistan turco, dirò che mi è sembrata persino migliore di quella di Jenin, e sarà ancora peggio per il pane che mi è sembrato più buono di quello di Nablus. Pane e anguria è il pasto che ho condiviso con una decina di ex prigioniere/i curdi, nella loro sede, dove a una parete, dipinto da una ex carcerata, è appeso un quadro con una donna che guarda l’isola di Imrali, la prigione di Ocalan. Pane e anguria, per me un pasto eccezionale, per loro la quotidianità, l’unico pasto che possono permettersi insieme al bicchierino di tè che si servono dolcissimo. Molte/i di loro hanno sguardi lontani e segnati dalla depressione, i volti e i corpi piagati dalla sofferenza, dalle torture, dalle privazioni. Mezgin invece ha gli occhi allegri, è bella, ha più di quarant’anni, si è sposata, come succede ancora a molte donne curde, in età giovanissima. Appena la vedo e ci stringiamo le mani non penso che lei sia stata in carcere, troppo diretta, spavalda. Invece ci è stata tre anni, il marito è in carcere da più di nove anni, il figlio nella guerriglia è stato ucciso durante un bombardamento dell’esercito turco, la figlia di ventidue anni è ancora sulle montagne. Mezgin non sa nulla di lei da lungo tempo, spera che sia viva e intanto organizza l’associazione dei prigionieri perché quelli ancora in carcere abbiano assistenza e quelli usciti non siano soli, abbandonati agli incubi, alla impossibilità di trovare un lavoro, al riadattamento alla vita ‘normale’. Hanno aperto centri culturali, cooperative, tutte gestite da ex prigionieri, ma sono una goccia nell’oceano. Mohammed aveva diciassette anni quando è entrato in carcere. È uscito lo scorso aprile dopo quindici anni, passati girando da un carcere all’altro. Torturato come tutti, tenuto in piedi per giorni e notti, botte, elettroshock, costretto a mangiare le sue feci, diverse volte in isolamento, per giorni e giorni ammucchiato con tanti altri in una cella di due metri per due, tanto stretta da non riuscire quasi a sedersi, ma “ho studiato”, dice Mohammed, “ho imparato molto dagli altri compagni, è stata la nostra università e poi quando c’era una cosa per qualcuno era per tutti”. La prigione come la tortura sembrano uguali in tutto il mondo. Quante volte l’ho sentito dire da italiani antifascisti, da spagnoli, cileni, brasiliani, argentini, sudafricani e dai palestinesi, penso a Nizar che si è sposato con Neta, una pacifista israeliana. Quando lo incontrai a Nablus nel corso della prima Intifada, aveva diciannove anni, era appena uscito dal famigerato campo di Ansar 3, nel deserto del Negev. Non aveva perso le splendore del suo sguardo verde ma sembrava anoressico tanto era magro. Di fronte alla mia pena per lui mi disse: “Sì, è stato duro, sotto le tende, caldo, freddo e fame, ma accanto a me c’erano tutti i miei miti, leader che non avrei mai conosciuto, si prendevano cura di me, discutevamo, di questo non mi scorderò mai”. Mentre inghiot-
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Carcere e tortura La lunga notte curda
to l’anguria faccio la solita, banale domanda: come ci si riadatta quando si torna fuori? Ridono e raccontano qualche storia, per esempio di un carcerato di Mersin, che non aveva mai visto un ascensore, quando stava per entrarci ha letto “per tre persone”, si è fermato in attesa che arrivassero gli altri due. Si guardano e dicono che non possono fare a meno l’uno dell’altro. Solo quando sono insieme si sentono sicuri, fuori “è un mondo in rovina”. E poi arriva da parte loro la solita domanda-invocazione: “Perché l’Europa ha abbandonato Ocalan, perché non impone al Governo turco la democrazia, perché noi dobbiamo andare in carcere solo perché vogliamo parlare, cantare, amare nella nostra lingua ed essere rappresentati in Parlamento?”. Non sono l’Europa, rispondo, faccio parte di quell’Europa che si ribella ai due pesi e due misure, che crede nei diritti umani per tutte e tutti, per questo sono qui, per questo dobbiamo unire le nostre debolezze, per farci forti. Nel Novembre 2012, sono circa 10mila i prigionieri politici nelle carceri turche. Nel 2009 il Governo turco aveva annunciato un’“apertura democratica”, ma ben poco è stato fatto per cambiare il Codice Penale e le norme anti-terrorismo che permettono l’arresto e la detenzione di attivisti e di cittadini, colpevoli di voler affermare la loro identità e di esprimersi nella propria lingua. La repressione dopo le elezioni politiche del 12 Giugno 2011 si è drasticamente intensificata, cosi come si sono intensificate le azioni di guerriglia del Pkk. Partiti, Sindacati, ai quali viene impedita ogni attività. Parlamentari, sindaci, giornalisti, studenti, cittadini, incarcerati con l’accusa di terrorismo o di essere membri del Kck (Unione delle Comunità del Kurdistan considerato il braccio urbano del Pkk), ma sono in carcere anche 5 parlamentari, decine di sindaci del Bdp, partito che rappresenta maggiormente i curdi ed è legale in Turchia (20 parlamentari eletti).
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I curdi in Turchia Nella terra dove nascono il Tigri e l’Eufrate, in quella parte di mondo che nella Bibbia viene situato l’Eden, è il Kurdistan: persino il cavallo arabo è di origine curda, così come il cane da cui deriva il pastore tedesco e inglese. E il petrolio di cui è pieno Mossul, Kirkuk, la parte del Kurdistan in Iraq. Un Eden, devastato dalle guerre, con i curdi separati tra Iran, Siria, Turchia, Armenia. Nell’agosto 1920 il trattato di Sèvres che dissolve l’impero ottomano, sancisce all’art. 63 che i curdi potranno rivolgersi alla Società delle Nazioni e chiedere l’indipendenza dalla Turchia, ma a Losanna il 23 Luglio 1923, Impero britannico, Francia, Italia, Giappone, Grecia, Romania e lo Stato serbo-croato-sloveno firmano con la Turchia un accordo che cancella Sèvres. Non si parla più di kurdi e neppure di minoranze in Turchia. Oggi si valuta che i curdi siano complessivamente 50milioni (compresi i curdi della diaspora, un milione e mezzo in Europa), di questi 22milioni, il 30 % della popolazione sono in Turchia e sono discriminati. I curdi non hanno mai accettato la distruzione della loro identità ed hanno sempre combattuto sia militarmente che in modo pacifico. Nel 1924 si vara la nuova Costituzione che stabilisce che in Turchia esiste un solo popolo, quello turco. Il Governo di Mustafà Kemal, il padre dei turchi “Ataturk”, proibisce scuole, associazioni, pubblicazioni curde, il califfo, le scuole coraniche e le confraternite religiose. Il 27 Novembre del 1978 si tiene il primo congresso del Pkk (partito dei lavoratori del Kurdistan). Abdullah Ocalan, in carcere dal 1999, viene eletto Segretario generale. Mentre i responsabili delle maggiori organizzazioni politiche e culturali curde si rifugiano in Europa per sfuggire alla repressione, il Pkk si radica sul territorio ed inizia nel 1984 la lotta armata. Nel 1998, Ocalan decide di rinunciare alla lotta armata e viene in Italia e in Europa per portare il suo messaggio di pace. Non è ascoltato. Nel 1999, viene sequestrato dalla forze turche coadiuvate da forze occidentali e portato nella prigione di Imrali, dove continua a stare in totale isolamento. La popolazione curda in Turchia e nel mondo chiede la sua liberazione, dal carcere Ocalan, proclama diverse volte il cessate il fuoco unilaterale, chiede negoziati. Non accade nulla. Avrà ragione Leyla Zana, parlamentare curda e premio Sakharov del parlamento Europeo, dieci anni nelle prigioni turche, a dichiarare che oggi il partito AKp ed Erdogan possono essere in grado di rispondere alle legittime richieste dei curdi? Tra due anni ci saranno le elezioni presidenziali. Nella Regione Erdogan e l’Akp hanno una posizione relativamente forte, Iran e Siria non gli faranno guerra, ha buone relazioni con i leader curdi in Iraq, sarà capace di usare questo momento di discussione sulle riforme costituzionali per accogliere le richieste di uguaglianza, dignità, sviluppo, autonomia dei curdi? Saprà riprendere le trattative con il Pkk per impedire che continui una guerra che è costata più di 45mila morti? E qui sta la responsabilità dei Paesi forti e della Comunità Internazionale che usa due pesi e due misure a seconda dei propri interessi geopolitici invece di far rispettare i diritti umani ovunque siano violati.
Geografia della guerra Rosella Ideo
La linea di confine lungo il 38° parallelo che divide le due Coree.
La pace fra le due Coree è ancora lontana. I due Stati sono nati dopo la seconda guerra mondiale dalla divisione “temporanea” del Paese al 38° parallelo fra Stati Uniti al Sud e Urss al Nord per ricevere la resa delle armi del Giappone (di cui la Corea era colonia) sconfitto dagli alleati. La Repubblica di Corea (Rdc) e la Repubblica Popolare Democratica di Corea (Rpdc), proclamate nel 1948, sono diventate due realtà socio economiche e culturali così distanti da costituire due mondi separati e antitetici. Come illustrano le foto notturne dei satelliti: uno sfavillio di luci al Sud, benestante e democratico e il buio quasi totale nel piccolo regno comunista dei Kim, privo di energia elettrica. Le Coree e le potenze regionali (Usa, Cina, Giappone e Russia), impegnate da anni nei colloqui a sei per risolvere la controversia nucleare, sembrano temere la pace e soprattutto l’unificazione e preferire, per motivi diversi e confliggenti, il mantenimento dello status quo. In realtà il problema nucleare deriva proprio dalla mancanza di un trattato di pace e dal senso di insicurezza della Rpdc, che si sente assediata dagli americani ancora presenti in forze al Sud della penisola. Il sistema della divisione è la conseguenza di una serie di circostanze drammatiche che hanno indelebilmente segnato la storia di un Paese dalla millenaria unità statale, e diviso un popolo omogeneo per razza, lingua e cultura: la brutale colonizzazione giapponese (1910-1945), la guerra fredda e la guerra di Corea (1950-1953). È stata la guerra fredda fra Stati Uniti e Urss, presenti al Sud e al Nord fino al 1948, a favorire la polarizzazione delle ideologie che avevano alimentato la diaspora all’estero della resistenza contro il Giappone. Lo scontro fra due modi di produzione e fra due ideologie contrapposte portò alla nascita di regimi autoritari sia al Sud sia al Nord. La guerra di Corea (1950-1953) acuì e cementò la divisione, non portò alla riunificazione, ma a una divaricazione sempre più marcata. Bisogna attendere il 1991 perché i due Stati si riconoscano formalmente all’Onu e il 2000 perché ci sia il primo storico incontro fra i capi di Stato del Sud e del Nord. Le alleanze internazionali dei due Paesi, si configurano secondo le parti giocate nel conflitto. La Rpdc è appoggiata da Urss e Cina, ma riesce a mantenere la sua indipendenza giocando sulla loro rivalità. Scopo precipuo di Kim: firmare la pace con gli Usa. La RdC diventa un alleato degli Stati Uniti, difeso come il Giappone, dalle basi militari e dall’ombrello nucleare di Washington. La Rpdc, organizzata su modello sovietico, è marcata dal culto della personalità del suo fondatore, Kim Il-song, che si è sbarazzato nel corso di varie purghe dei suoi oppositori interni; è politicamente stabile e diventa uno dei primi stati industrializzati dell’Asia grazie alla riforma agraria e a un sistema sociale egualitario. L’altro lato della medaglia è il controllo capillare che partito unico, esercito, polizia e polizia politica esercitano sul popolo, irreggimentato e martellato dalla propaganda. Per i “dissidenti” o i sospetti tali ci sono i gulag. Questo sistema di controllo totale spiega la mancanza di qualsiasi forma di opposizione e la lunga sopravvivenza del regime. La RdC sconta, più del suo vicino, la divisione della penisola. Negli anni sessanta il reddito pro capite è pari a quello dei più poveri paesi africani. Le industrie lasciate dai giapponesi e le materie prime sono concentrate al Nord e il malessere sociale, dovuto alla corruzione dilagante,
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Coree: un popolo, una storia divisi da una frontiera
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al malgoverno, e all’incapacità di gestire gli ingenti aiuti americani, provoca continue rivolte. Per 40 anni la Repubblica conosce solo regimi autoritari e dittature militari. È il generale Park Chung-hee (1963-1979) che, manu militari, mette le basi della modernizzazione economica e prepara il ribaltamento delle parti fra le due Coree. I costi sociali sono altissimi, la repressione dei movimenti di opposizione brutale. Gli Stati Uniti si turano il naso e mantengono al Sud, fino al 1991, armi nucleari e migliaia di truppe. La svolta morbida dalle dittature alla democrazia è del 1992 con l’elezione del primo Presidente civile, cui segue il primo politico dell’alternanza democratica, Kim Tae-jung (19982003), che incarna anche la prima apparizione di una sensibilità di sinistra al vertice dello Stato. È a lui che si devono: la prima vera apertura alla Rpdc con l’adozione della politica della mano tesa (sunshine policy) per portare gradualmente alla riconciliazione e alla pace e massicci aiuti economici al “paradiso socialista”, ormai ridotto alla fame in seguito alla carestia di proporzioni africane del 1995-1997. Si stima sia morto dal 3% al 5% della popolazione. Nel 2000 il Kim del Sud riceve il Nobel per la pace e tutti i paesi europei, tranne la Francia, riconoscono la Rpdc. Nel quinquennio successivo l’avvocato dei diritti umani, Rho Moo-hyun prosegue la politica di generosa apertura del predecessore. La sunshine policy viene sconfessata e sepolta dal Presidente conservatore Lee Myung-bak (2008-2012): il Nord torna ad essere un “nemico”. Gli aiuti sono sospesi in attesa che la Rpdc smantelli il suo apparato nucleare che, dall’inizio degli anni ’90, ha dato luogo a due crisi internazionali. Il motivo per cui Kim Il song (e poi suo figlio) ha voluto il nucleare è presto detto. Le armi nucleari sono l’unica garanzia di sopravvivenza non solo della famiglia Kim e del regime, ma dell’indipendenza stessa di un Paese in ginocchio. Il netto declino della Rpdc cominciò dal calo della produzione industriale negli anni ‘80 e dalla mancanza cronica di fonti energetiche per sostenerlo. Quando l’Urss di Gorbaciov nel 1991 taglia aiuti e forniture di carburante (necessario per far funzionare industrie già obsolete) al debitore recidivo, è il crollo. Per inciso, la Russia ha condonato nel settembre 2012 il 90% dei debiti chiaramente inesigibili. La Rpdc, sottoposta a sanzioni dalla fine della guerra di Corea, è sempre più isolata. L’economia di piano è già allo sfascio alla morte di Kim Il-song nel 1994. Kim Jong-il, figlio ed erede dell’unica dinastia socialista mai esistita, deve affrontare nel giro di un anno la carestia (chiedendo per la prima volta aiuti internazionali) e accettare, obtorto collo, le prime crepe nell’economia pianificata con la nascita di mercati spontanei. Muore nel dicembre del 2011 e lascia un’eredità pesante e con pochi sbocchi possibili al figlio, Kim Jong Eun. La Rpdc ha subìto nuove sanzioni in seguito ai test nucleari e missilistici; non può accedere a nessun credito internazionale, è isolata e sostenuta economicamente dalla sola Cina. La quale teme le conseguenze di un eventuale crollo del regime: l’allargamento della presenza militare americana su tutta la penisola e la massa di profughi che si riverserebbe nelle sue Regioni Settentrionali, destabilizzandole. Paura condivisa anche dalla Rdc (13ma economia mondiale e terzo creditore degli Usa) che vedrebbe sbriciolare benessere e pace sociale sotto l’urto di una valanga di disperati. Il terzo Kim sa bene che non può permettersi le necessarie riforme di struttura perché con l’apertura del Paese più chiuso del mondo gli occhi dei suoi sudditi si spalancherebbero sulla realtà dell’altra Corea. Se rinunciasse al deterrente atomico il suo regime finirebbe come quello iracheno e libico anche se non può usarlo perché il Paese verrebbe raso al suolo dalla controffensiva americana e sudcoreana. Lo sanno benissimo anche gli Stati Uniti che, dopo aver inutilmente aspettato e cercato di favorire l’implosione del regime (W.G. Bush) o congelato la situazione (B. Obama), sfruttano il “cattivo comportamento” dei Nordcoreani per contenere la Cina. Che senso avrebbe altrimenti un secondo scudo antimissile in Giappone contro la “minaccia nucleare” dei Kim? Quest’ulteriore ipocrisia diplomatica va benissimo anche all’ex colonizzatore. Al di là delle colpe altrui non si possono fare sconti al sistema Nordcoreano, che, in nome di una dissennata strategia autarchica, (nominale e mai effettiva) ha condannato alla morte per fame negli anni novanta oltre un milione di persone e ha segnato “una generazione di bambini con una miriade di malattie fisiche e mentali legate alla denutrizione” (Haggard e Noland). La presenza a Seoul di 23000 rifugiati ne dà piena evidenza.
I due Stati sono nati dopo la seconda guerra mondiale dalla divisione “temporanea” del Paese al 38° parallelo fra Stati Uniti al Sud e Urss al Nord per ricevere la resa delle armi del Giappone (di cui la Corea era colonia) sconfitto dagli alleati. Il bilancio della guerra di Corea è disastroso e le conseguenze sono durature. Circa 3milioni fra morti e feriti fra i soli coreani, 5milioni di rifugiati, 10milioni di famiglie separate (fino ad oggi); la distruzione delle arterie di comunicazione, più della metà delle strutture produttive e più di un terzo degli edifici. La zona, eufemisticamente chiamata “demilitarizzata”, frapposta a cuscinetto fra i due Stati, diventa in realtà il confine più militarizzato e sigillato del mondo.
Evoluzione dei conflitti Enzo Nucci
In un’audiocassetta diffusa dalla televisione satellitare araba Al-Jazeera nel febbraio 2003, il defunto leader di al-Qaeda Osama bin Laden identificava Giordania, Marocco, Nigeria, Pakistan, Arabia Saudita e Yemen come “le regioni più qualificate per la liberazione”. C’è da notare che l’Iraq (dove si sarebbe consumata una lunga carneficina) spiccava per la sua assenza da questo testo. Dunque con largo anticipo sui “successi terroristici” del gruppo Boko Haram i propugnatori della “guerra santa” avevano capito quanto fosse fertile la Nigeria per la diffusione del radicalismo islamico. Il primo Paese produttore di petrolio nel continente africano (e l’ottavo al mondo) è infatti sempre più stretto nella tenaglia di durissime proteste sociali e del furore religioso. La sua classe politica è inadeguata nella gestione della complessità rappresentata dalle 250 etnie e dai 36 Stati federali che compongono la Nazione. Il 65% dei 160milioni di nigeriani vive con meno di due dollari al giorno perché quasi l’80% delle enormi risorse del Paese è saldamente concentrato nelle mani di meno dell’1% della popolazione. Nel gennaio 2012 uno sciopero generale (in cui almeno 20 manifestanti sono stati uccisi dalla polizia) ha paralizzato la Nigeria per 5 giorni ed ha costretto il Presidente a ripristinare il 30% del sussidio statale per calmierare il prezzo della benzina. Il costo del carburante era infatti raddoppiato per decisione unilaterale del Governo che aveva giustificato la soppressione della sovvenzione statale per ridurre la spesa pubblica ed incoraggiare gli investimenti locali nel settore della raffinazione. Il paradosso della Nigeria è che sebbene l’esportazione di greggio e gas copra il 95% dell’export complessivo, deve poi importare l’85% dei prodotti raffinati per le scarse capacità produttive interne. Ma ad accrescere l’instabilità politica si aggiungono le stragi di cristiani ed animisti nel Nord-Est del Paese (a maggioranza musulmana) ad opera di Boko Haram, un gruppo terroristico islamico collegato ad al-Qaeda. Boko Haram (che significa “l’istruzione occidentale è peccato”) fu fondato nel 2000 da un carismatico imam che concentrò le sue predicazioni contro il sistema scolastico nigeriano – simile a quello occidentale – che forma una classe dirigente che nel complesso è considerata avida e corrotta. Il gruppo ha incassato una crescente popolarità fino alla svolta del 2009 quando l’esercito massacrò 3mila militanti che si erano asserragliati in una moschea. I reduci operarono un salto di qualità: si armarono e raccolsero i frutti della radicalizzazione dello scontro, cominciando a guadagnare adesioni anche tra i musulmani moderati che si sentirono minacciati dallo stato centrale. La nuova fase coincise anche con la grande abilità
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Boko Haram, il terrore Il paradosso Nigeria
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dei leader di Boko Haram nel trasformare le rivalità etniche (che storicamente dividono le popolazioni del Nord-Est) in violentissimi scontri di carattere interreligioso. Le profonde diversità etniche, religiose, culturali, linguistiche della Nigeria sono inoltre acutizzate dai fortissimi squilibri economici e sociali. Nel Nord (a maggioranza musulmana) sono stati solo i cristiani a godere dei vantaggi della modernità mentre gli islamici hanno rifiutato il progresso, come dimostrano le stragi di cristiani del 1992 ad opera dei fondamentalisti terrorizzati dall’occidentalizzazione del Paese. Le autorità centrali del resto non si sono mai preoccupate di modernizzare il Nord, a fronte di un Sud a maggioranza cristiana più ricco e sviluppato, concedendo invece ampi poteri agli sceicchi locali che hanno favorito la nascita di oligarchie in forte competizione tra loro, la gestione clientelare delle risorse petrolifere, la corruzione, alimentando di conseguenza la povertà nella maggioranza della popolazione. L’obiettivo di Boko Haram è di instaurare nel Nord la shari’a (ovvero la legge coranica), cacciare cristiani ed animisti ed impadronirsi delle loro proprietà. Il gruppo già nella seconda metà del 2011 è ormai pronto a portare la sua sfida ai più alti livelli, dimostrando anche inaspettate capacità militari. Il primo campanello d’allarme è l’attentato del 23 agosto 2011 nella capitale Abuja, dove un attentatore suicida (novità assoluta in Nigeria) si lancia contro la sede delle Nazioni Unite, uccidendo 25 dipendenti. L’offensiva in grande stile riprende il 25 dicembre 2011 quando le bombe radono al suolo alcune chiese in cui i cattolici stanno celebrando il Natale: 60 morti. Meno di un mese dopo (il 20 gennaio 2012) Boko Haram attacca la città di Kano, capitale dell’omonimo Stato federale, la più popolosa del Nord con 10milioni di abitanti. Vengono lanciati otto assalti con bombe e colpi di mortaio contro posti di polizia ed alcune sedi dei servizi segreti: auto imbottite di esplosivo ed assassini in divisa da poliziotti provocano più di 180 morti in otto ore di battaglia. E poi le domeniche di sangue che puntuali si ripetono nel corso dei mesi: kamikaze che si lanciano con le loro auto contro i fedeli riuniti in preghiera, gruppi armati che fanno irruzione nelle chiese. Totale un migliaio di morti nei primi sei mesi del 2012. Il gruppo terroristico dispone di campi di addestramento nei confinanti Niger, Chad e Camerun: da qui sono partiti combattenti diretti in Somalia, Afghanistan, Mauritania, Mali, Sudan. Boko Haram è riuscita a consolidare importanti rapporti internazionali e ad instaurare collaborazione con altri gruppi terroristi come al-Qaeda per il Maghreb islamico (Aqmi) che opera nel Nord Africa. Il Presidente nigeriano Goodluck Jonathan ha denunciato le connivenze di cui gode Boko Haram tra i vertici dello Stato, in parlamento, nel governo, nella polizia, servizi segreti ed esercito. Una rete di complicità che rischia di innescare una guerra civile sanguinosa come quella del Biafra che tra il 1967 ed il ’70 causò un milione e 200mila morti. Il terrorismo è una minaccia all’esistenza stessa della Nigeria, alla sua unità, ed un forte elemento di destabilizzazione per tutti i Paesi confinanti che rischiano di trasformarsi in basi sicure per il terrorismo internazionale. Per questo motivo reparti delle forze speciali dell’esercito statunitense affiancheranno i militari governativi nella caccia ai terroristi. Ma le parole di Goodluck Jonathan non sono servite a rasserenare gli animi perché gli islamici lo accusano di aver violato la regola (non scritta ma sempre rispettata) dell’alternanza alla guida della Nigeria di un capo di Stato cristiano ed uno musulmano. E Jonathan è salito al potere dopo la morte improvvisa del presidente Yar’Aduo (musulmano) di cui era vicepresidente, senza quindi svolgere l’intero mandato. Per questo ha potuto far valere il suo diritto alla candidatura. Ma oggi è sempre più un uomo solo al comando, abbandonato dal suo stesso esecutivo e dagli alti vertici del potente esercito.
Land Grabbing Stefano Liberti
Milioni di ettari che passano dal pubblico al privato, miliardi di dollari investiti nell’agricoltura nei Paesi del Sud del mondo. Il nuovo grande affare è quello delle terre. Dall’inizio del 2009 a oggi, un’ondata di investimenti si è riversata sul settore agricolo in America Latina, nel Sud-Est asiatico e soprattutto in Africa. Basta fare un giro per le campagne etiopiche verso la Rift Valley per vedere il risultato di questa nuova corsa alla terra: serre modernissime, iper-tecnologiche, in cui vengono coltivati prodotti alimentari. Prodotti che vengono poi inscatolati, messi su un camion, caricati su un aereo ed esportati nel Golfo persico. Il primo elemento di criticità di questi accordi è proprio questo: le produzioni che scaturiscono da questi accordi sono spesso incentrate alla pura esportazione, anche quando tali accordi vengono stretti in Paesi che hanno problemi di sovranità alimentare – come la stessa Etiopia, parte della quale finisce spesso sotto il morso della siccità e per questo riceve aiuti alimentari dall’esterno. Investitori stranieri sono stati accolti a braccia aperte, in modo che producano su terre etiopiche (ma anche tanzaniane, mozambicane, ecc) prodotti destinati ad altri Paesi. Il secondo elemento di criticità è che queste terre sono affittate in cambio di canoni irrisori: in Mozambico le terre vengono affittate per un dollaro annuo all’ettaro; in alcune zone dell’Etiopia, come la remota ma ricchissima d’acqua Gambella, il canone è di 0,5 dollari annui all’ettaro. Il terzo elemento di criticità è che, nello stringere tali accordi, il Governo centrale non tiene in alcun conto le necessità di chi su quelle terre sta, o che quelle terre usa, provocando quindi lo spostamento coatto di agricoltori o la deviazione forzata dei tragitti di spostamento di pastori nomadi. Tutti questi elementi hanno portato al conio della nuova espressione “land grabbing”, letteralmente “accaparramento dei terreni”. Un fenomeno che presenta almeno due elementi di novità. Il primo sono le dimensioni: secondo un rapporto della Banca mondiale pubblicato nel 2010, in due anni sono passati in mani private 56milioni di ettari, soprattutto nell’Africa sub-sahariana – una superficie pari a quella totale della Francia. Il secondo – legato al primo – è la profonda finanziarizzazione del settore. In questo ambito non si muovono infatti solo i tradizionali gruppi dell’agro-business, ma soprattutto attori provenienti dall’alta finanza: società di intermediazione, private equity fund, fondi di investimento messi in piedi da uomini e donne che fino a poco tempo prima lavoravano per Goldman Sachs, Merryl Linch e altre società analoghe. Tutto è iniziato nel 2007, con la grande crisi che ha investito il mercato azionario di Wall Street. Scottati dalle perdite registrate, i gruppi dell’alta finanza hanno spostato interesse e capitali su alcuni beni rifugio, tra cui i prodotti alimentari di base, come la soia, il mais e il grano. In seguito all’afflusso di miliardi di dollari di capitale speculativo, il valore di questi prodotti alimentari di base è schizzato alle stelle, provocando aumenti su tutta la filiera e moti per la fame in decine di Paesi del Sud del mondo. L’assalto alle terre, che è cominciato in maniera massiccia subito dopo, non è altro che il corollario di questo spostamento di interesse del capitale finanziario: quando si analizza chi sta investendo in modo massiccio nell’acquisizione di terreni, si vede come la parte del leone la fanno proprio i fondi di investimento. Il ragionamento dei grandi investitori è semplice: dal momento che la popolazione mondiale è destinata a crescere e che nessuno rinuncerà a nutrirsi, l’investimento sulla terra garantirà ottimi ritorni. Ma di fatto gli investitori fanno il proprio lavoro: produrre profitti. Chi sono invece i principali responsabili di questa spoliazione di ricchezze? In primis, sicuramente i Governi dei Paesi coinvolti,
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Guerra e affari. È il cibo il business del futuro
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che hanno deciso di dare via le terre in cambio di niente (o quasi), immaginandosi che l’afflusso di capitale straniero avrebbe portato ricchezza. Governi autoritari – o fragili – hanno ceduto parte del patrimonio del Paese, inseguendo nel migliore dei casi il sogno di uno sviluppo agricolo che nei fatti non sta avvenendo; nel peggiore, intascandosi qualche bustarella. Oltre ai Governi, un ruolo del tutto particolare in questo sommovimento lo hanno poi avuto anche quelle organizzazioni internazionali che in teoria sarebbero più preposte a vigilare su questi accordi, come la Fao e la Banca mondiale. Partendo dal presupposto che l’agricoltura aveva patito negli ultimi trent’anni di una cronica mancanza di investimenti, queste organizzazioni hanno accolto con entusiasmo il rinnovato interesse di grandi investitori nelle terre. Questo era il modo, nella loro visione, di uscire da un’agricoltura di mera sussistenza e promuovere una nuova “rivoluzione verde” anche nell’Africa subsahariana. La Banca mondiale si è spinta fino a partecipare attivamente ad alcuni investimenti, o a fornire garanzie assicurative ad altri. La posizione di queste due organizzazioni è coerente con tutta la loro storia e si sposa perfettamente con il modello di sviluppo a cui fanno riferimento, basato su un’agricoltura di tipo meccanizzato, estensiva, a monocultura, con produzioni di tipo industriale. Questo modello è del tutto in contraddizione con quello prevalente nell’Africa sub-sahariana, basato sul piccolo produttore, che ha con i propri campi un rapporto strutturato e si tramanda conoscenze da generazioni su come trattare la terra. Un modello che sconta in effetti una cronica mancanza di investimenti e di tecnologia e che pertanto si muove nel solco di una pura sussistenza. Le politiche pubbliche degli Stati e le organizzazioni internazionali considerano questo modo di produzione del tutto anacronistico e fanno di tutto per farlo scomparire, quando in realtà non è dimostrato che un’agricoltura di piccoli produttori dotati di un minimo di tecnologia e supportati da un reticolo di infrastrutture per la distribuzione sia meno produttiva di un’agricoltura industriale in mano a grandi gruppi. Quel che è certo è che i due modelli succitati non sono conciliabili: non solo perché insistono entrambi su una risorsa che per sua natura non è infinita (la terra); ma anche e soprattutto perché fanno riferimento a due universi culturali opposti, da cui discendono due diversi modelli socioeconomici. Questi due modelli sono destinati sempre più a entrare in rotta di collisione – come dimostrano i primi focolai di resistenza alla cessione delle terre, in Madagascar, e più recentemente in Senegal, dove grandi manifestazioni popolari hanno nel primo caso rovesciato un Governo che aveva ceduto metà della terra all’estero, nel secondo portato al congelamento di un accordo di cessione. È del tutto prevedibile che conflitti di questo tipo si estenderanno progressivamente a livello globale, con uno scontro sempre più acceso tra i rappresentanti dei piccoli agricoltori e quelli del grande capitale.
Vittime di guerra/2 Renato Kizito Sesana
Foto di Francesco Cavalli
Sono andato per la prima volta clandestinamente in Sudan nel 1988. Sapevo di fare un’azione considerata illegale, anche se andavo solo per portare aiuti umanitari seppur ero stato invitato da un pilota ingaggiato dal movimento di liberazione. Atterrammo a Kapoeta, una cittadina senza importanza, se non per essere la prima conquistata dal movimento e vicina al confine col Kenya. Ricordo benissimo la tensione nel piccolo aereo, con quattro passeggeri e un carico di medicine. A quei tempi non esisteva il Gps, si volava a vista, ed era nuvoloso. Sapevamo che dovevamo avvicinarci da Est, perché a Ovest ci sono i Monti Didinga, e il movimento vi aveva una batteria antiaerea. Avrebbero potuto spararci, perché non eravamo sicuri avessero ricevuto comunicazione del nostro arrivo. Kapoeta era in realtà un grande villaggio con non più di una ventina di costruzioni in muratura. La popolazione civile locale, del popolo Topossa, continuava la vita di sempre come pastori seminomadi, ma le centinaia di sfollati dalla non lontana Torit, ancora sotto il dominio del Governo centrale di Khartoum, erano ridotti alla fame. Non c’era un medico o una struttura sanitaria in un raggio di 150 chilometri. L’unico edificio, gravemente danneggiato e saccheggiato, era la chiesa. In quegli anni il movimento di liberazione era ancora pesantemente influenzato dal marxismo-leninismo. Poche settimane dopo, in una missione simile, lo stesso pilota, senza altri a bordo, durante una tempesta si schiantò sui Monti Didinga. Da quegli anni sono cambiate molte cose – ormai da molto tempo è il Governo americano che sostiene lo Spla, la guerra civile è finita, il Sud è diventato un Paese indipendente - ma tutto è rimasto uguale in termini di sofferenza per la popolazione civile. Da allora l’ho visitato, dalla mia base di Nairobi, mediamente tre volte all’anno. Nell’aprile 2012 sono stato ancora una volta sui Monti Nuba. Di quel viaggio ho in mente alcuni immagini indelebili. Una donna molto anziana, esausta per un cammino durato alcuni giorni. È il primo pomeriggio, la temperatura ancora sopra i 40 gradi. Si sdraia sulla terra nuda, all’ombra di un albero rinsecchito, in posizione fetale. Un maschietto nudo, appena messo a terra dalla mamma che lo portava sulla schiena, le si siede accanto e le accarezza il volto. Una bambina mi si avvicina e mormora qualcosa indicando con un cenno del capo la donna prostrata. Non capisco la lingua, ma il messaggio è chiaro, e me lo traduce il mio accompagnatore nuba mentre sto già raggiungendo il sacco con i manghi: “Padre, mia nonna ha fame”. Abbiamo solo alcuni manghi e li porgo alla bambina. Acqua non ce n’è, allora ne pulisce uno accuratamente strofinandolo sul vestitino sdrucito e impolverato e si inginocchia di fianco alla nonna porgendole il mango. Un momento di rispetto e di dolcezza in un Paese devastato dalla guerra. Per questo gruppo di una trentina fra donne e bambini, il calvario è finito, sono ormai vicini
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Dove la pace non arriva Nuba, il popolo senza Stato
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alla capanna di paglia che serve da centro di registrazione per i profughi nuba che arrivano a Yida, in Sud Sudan. Oltre 400 persone arrivano qui ogni giorno, in fuga dalle bombe e dalla fame. La maggior parte di loro soffrono di grave malnutrizione e disidratazione. L’afflusso continua e aumenta, così che a fine settembre 2012 il campo ospita quasi 80mila persone. Sempre, in stragrande maggioranza, donne e bambini. Eppure nel novembre 2011, quando erano meno di ventimila, il campo venne bombardato, come se fosse una minaccia militare al regime di Khartoum. Dal giugno dello scorso anno il Presidente del Sudan, Omar el-Bashir, ha scatenato una guerra non dichiarata contro i nuba colpevoli di non accettare la sua politica di arabizzazione e islamizzazione che ha fatto dei nuba degli emarginati nel loro Paese. In un anno fiorenti centri e piccoli villaggi sono stati bombardati indiscriminatamente. Buram, a una trentina di chilometri a Sud di Kadugli, la capitale della Regione e ormai l’unica località controllata dal Governo, lo scorso anno aveva circa diecimila abitanti, ma oggi è una città fantasma, la metà rasa al suolo da ripetuti bombardamenti, la scuola costruita due anni fa abbandonata, dopo che le bombe l’hanno mancata per un soffio. In tutti i Monti Nuba solo alcuni coraggiosi insegnanti tengono aperte le scuolette di villaggio, operando in strutture improvvisate e senza libri, cancelleria e lavagne. Le sette scuole secondarie che erano state aperte dopo il 2005 sono chiuse perché sono state i primi bersagli dei bombardamenti. La guerra genera fame. L’attuale conflitto è iniziato proprio quando l’anno scorso stava per arrivare la stagione delle piogge. Le persone si sono rifugiate sulle montagne, riparandosi nelle grotte, e le terre fertili della pianura che erano già state dissodate in preparazione alla semina sono state abbandonate. Adesso, giugno 2012, in alcune zone già si muore di fame. Yida è l’ultima speranza per la sopravvivenza. La gente non ne può più di questa guerra. Molti non hanno ancora dimenticato quella che sembrava finita qualche anno fa. Hanno ancora lutti da piangere e ferite dell’anima da curare. Eppure non vogliono arrendersi. Il catechista di Yida, circondato da centinaia di bambini, dice: “La violenza genera violenza. Qualunque cosa cercheremo di insegnare a questi bambini, essi cresceranno sempre più determinati a lottare contro l’imposizione della lingua araba e delle religione islamica. Anche se sono musulmani. I nuba vogliono il diritto di fare le loro scelte personali. I bombardamenti rafforzano questa convinzione.” Cosa fa la Comunità internazionale? Dalla fine della seconda guerra mondiale la Comunità internazionale si è presa l’impegno di proteggere i civili nei conflitti armati e prevenire il genocidio, i crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Nel 1948 una convenzione su questi temi è stata adottata dalle Nazioni Unite, ed è entrata in vigore tre anni dopo. La promessa era: “Never Again”. Ma è stata disattesa. La fine del 20 ° secolo e l’inizio del terzo millennio hanno segnato un cambiamento nella natura dei conflitti armati: abbiamo visto alcune, poche, grandi guerre tra Stati, ma sono proliferati I conflitti, dove le vittime sono in maggioranza civili. I genocidi in Cambogia, Ruanda, Bosnia e Darfur sono entrati nelle case di tutti attraverso la televisione, mostrando l’incapacità della comunità internazionale a prevenirli. I meccanismi di intervento erano insufficienti. Ai tempi dei miei primi viaggi in Sudan si parlava di intervento umanitario o di ingerenza umanitaria. Nel ‘91, dopo la caduta del regime di Mengistu in Etiopia, volevo andare a Fugnido, in Sud Sudan, dove erano rientrati alcuni migliaia di ragazzini dai campi profughi in Etiopia, perché si temeva che il nuovo Governo etiopico li avrebbe comunque cacciati. A Nairobi arrivavano notizie drammatiche sulla loro condizione, erano senza cibo e oggetto di continui bombardamenti dall’aviazione di Khartoum. Per di più tutti sapevano che quei minori erano addestrati militarmente dallo Spla, contrariamente agli impegni che lo Spla si era assunto di non usare bambini-soldato. Andai prima nell’ufficio di Nairobi dello Unhcr. Il responsabile mi disse che loro non potevano far nulla, li aiutavano quando erano in Etiopia ma adesso tecnicamente non erano più profughi, erano cittadini sudanesi in Sudan. Andai dalla Croce Rossa e mi sentii dire che loro possono intervenire solo se sono invitati da entrambe le parti in conflitto. Non riuscivo a credere a ciò che mi veniva detto. Nel ‘95 il Governo di Khartoum fece prigioniero il dottor Pino Meo, a Pariang, sorpreso da una colonna governativa in una zona contestata mentre cercava di far partire un piccolo posto di pronto soccorso. Evitai la cattura perché vi arrivai con un altro aereo con un paio d’ore di ritardo sull’appuntamento che ci eravamo dati sulla pista. Poche settimane dopo un personaggio dell’ambasciata sudanese di Nairobi chiese di incontrami in un caffè di periferia.
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Mi disse che sapevano delle mie incursioni per portare aiuti umanitari e cercò di dissuadermi. Risposi che avrei continuato ad andare in Sudan finché c’erano persone che avevano bisogno di aiuto. Mi minacciò: quando ti prenderemo non ti lasceremo andare come abbiamo fatto col dottor Meo. Oggi non si parla più di intervento o ingerenza umanitaria, ma di “Responsabilità di Proteggere”, in inglese “Responsibility to Protect”, o R2p. I principi fondamentali di R2p, come stipulato dal Outcome Document of the 2005 United Nations World Summit (A/RES/60/1, para. 138-140) e formulato nel Secretary-General’s 2009 Report (A/63/677) on Implementing the Responsibility to Protect sono: 1. Lo Stato ha la prima responsabilità di proteggere la popolazione da genocidio, crimini di guerra, crimini contro l’umanità, pulizia etnica e dall’incitamento a commetterli; 2. La Comunità internazionale ha la responsabilità di incoraggiare e assistere gli Stati nell’adempimento questa responsabilità; 3. La Comunità internazionale ha la responsabilità di utilizzare appropriati mezzi diplomatici, umanitari e di altro tipo per proteggere le popolazioni da tali reati. Se uno Stato manifestamente fallisce nel proteggere la sua popolazione, la comunità internazionale deve essere pronta a intraprendere azioni collettive per proteggere le popolazioni, in conformità con la Carta delle Nazioni Unite. Anche in questo campo la terminologia è cambiata, ma i fatti restano gli stessi. La comunità internazionale interviene a “proteggere i civili” solo quando alcune potenze vogliono difendere i loro interessi economici e influenze geo-politiche. Per quanto riguarda i Monti Nuba, una dichiarazione 14 febbraio 2012 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha sottolineato che “i membri del Consiglio di sicurezza hanno espresso la loro profonda e crescente preoccupazione per l’aumento dei livelli di malnutrizione e insicurezza alimentare in alcune zone del Sud Kordofan e Blue Nile in Sudan, che potrebbe raggiungere livelli di emergenza se non immediatamente affrontate, e con la mancanza di accesso per il personale delle organizzazioni umanitarie internazionali per effettuare una valutazione della situazione e fornire assistenza urgente” e hanno “invitato il Governo del Sudan a consentire l’accesso immediato al personale delle Nazioni Unite” e chiesto al Governo del Sudan e allo Splm-N di collaborare pienamente con le Nazioni Unite e altre agenzie umanitarie per consentire la fornitura di assistenza in linea con le norme internazionali per l’intervento umanitario. Nonostante questa dichiarazione e una proposta tripartita (Onu, Unione Africana e la Lega degli Stati arabi) per la fornitura di assistenza umanitaria a tutta la popolazione civile provata dal conflitto, il Governo di Khartoum nega l’accesso alla zona controllata dal Splm-N, circa il 90% del Kordofan Meridionale, non solo ai giornalisti, ma anche al personale dell’Onu e a tutti gli operatori umanitari. Hanno torto i nuba quando dicono che la guerra contro di loro è tentato genocidio? “Per il Governo di Khartoum – dice Ernesto Kutti, del Segretariato per l’Educazione - noi non siamo nessuno. Vogliono solo controllare la nostra terra. Se riuscissero a farci fuggire tutti in Sud Sudan sarebbero felici. Forse loro sanno che anche la nostra terra è anche ricca in petrolio”. Un video ritrovato dai ribelli nuba in una postazione governativa sembra confermare almeno la prima ipotesi di Kutti: vi si vede Haroun ordinare a truppe governative la pulizia etnica: “Non fate prigionieri. Non sapremmo dove metterli”. Le condanne dell’Onu e della comunità internazionale contro il Governo di Khartoum sono solo parole. In realtà si fa poco o nulla. I profughi nuba hanno visto passare delegazioni internazionali e giornalisti, qualcuno ha perfino visto George Clooney (e si è domandato chi fosse questo personaggio cosi riverito) visitare per poche ore la loro area, e hanno saputo che ha portato la sua testimonianza davanti al Congresso Usa. Ma niente cambia. Gli aiuti sono ad un livello di sussistenza minimo, nel campo profughi di Pariang, poco lontano, che dovrebbe offrire ai giovani la possibilità di studiare, c’è sempre un solo pozzo dove bisogna fare la coda per ore per avere un po’ d’acqua: non ci sono insegnanti, libri di testo, quaderni. I nuba sono di nuovo dimenticati da tutti. Il primo giugno Abdel Aziz ha lanciato un appello alla comunità internazionale chiedendo di “unilateralmente e
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urgentemente” portare aiuti umanitari alla popolazione civile, senza rispettare la proibizione di Khartoum. Il dottor Tom Catena, americano di origine italiana, gestisce l’efficiente ospedale di Gidel, uno dei due ospedali in funzione in tutto l’area dei Monti Nuba controllata dai ribelli. Da quando è arrivato qui quattro anni e mezzo fa non si è più mosso. “I nuba - dice – sono persone straordinarie, con un carattere forte e dolce. Ti rubano il cuore”. Mi fa visitare i pazienti, oltre ottanta sono feriti o mutilati da bombardamenti recenti. Daniel Kuku, 15 anni, porta al collo, come tanti altri, un rosario di plastica. Mi racconta dello spavento quando ha sentito le bombe cadere, e di come in un disperato tentativo di cercare protezione abbia abbracciato un albero. Una scheggia di bomba ha colpito l’albero, tagliandogli entrambe le braccia appena sotto il gomito. Si guarda i moncherini e dice: “Sarà difficile lavorare i campi. Mia mamma e i miei fratelli sono andati a Yida. Io resto qui con mio papà a proteggere il nostro villaggio”. Il diritto e la politica internazionale ancora stanno arrancando per elaborare teorie per giustificare un intervento in un dramma come quello dei nuba. È più semplice agire lasciandosi guidare dal più elementare senso di solidarietà umana, o alle parole del Vangelo, che ti fanno reputare privilegiato quando puoi condividere la tua vita con quella dei poveri e delle vittime dell’ingiustizia.
La guerra civile in Sudan, iniziata nel 1983 e ufficialmente terminata nel 2005 con la firma della pace a Nairobi, ha causato due milioni di morti e due milioni di rifugiati. L’accordo di pace, prevedeva elezioni democratiche e un censimento in tutto il Paese, un referendum nel Sud per decidere se restare uniti o secedere, consultazioni popolari per il diritto all’autodeterminazione in due Regioni che avevano combattuto a fianco del Sud ma che erano state escluse dal referendum (il Kordofan Meridionale meglio conosciuto come Monti Nuba e il Nilo Azzurro Meridionale) e una commissione per indagare le violazioni dei diritti umani da parte del Governo. Capitoli separati del voluminoso, e in diversi punti poco chiaro, trattato di pace riguardavano l’integrazione dei due eserciti, lo status giuridico dei circa 700mila Sud sudanesi residenti al Nord, la distribuzione delle entrate petrolifere e la definizione del confine, che passa proprio sopra i giacimenti petroliferi. Gli anni trascorsi tra la firma della pace e la proclamazione dell’indipendenza del Sud Sudan (9 luglio 2011) non sono stati sufficienti a definire nessuna delle questioni chiave, in particolare il confine, lasciando cosi aperta la possibilità di un ritorno alla guerra. In questo contesto si inseriscono i nuba, un milione di persone residenti sui Monti Nuba e un altro milione dispersi in Sudan, Sud Sudan e Paesi vicini. Durante la guerra civile i nuba hanno combattuto al fianco dei Sud Sudanesi – per affinità etniche, storiche e culturali, e anche, bisogna pur dirlo, per essere stati vittime della schiavitù praticata per secoli dai loro vicini del Nord - ma al tavolo dei negoziati non avevano ottenuto di poter esercitare la scelta se rimanere al Nord o integrarsi col Sud. La loro Regione è quindi rimasta in Sudan e adesso confina con il nuovo stato indipendente del Sud Sudan. Sono cosi intrappolati in due guerre, quella non dichiarata fra i due stati sudanesi per il controllo dei giacimenti petroliferi, e quella che il Governo di Khartoum ha scatenato contro di loro. Sui Monti Nuba il conflitto armato è infatti riesploso nel giugno 2011, poco dopo le elezioni per il governatore, che opponevano il leader nuba Abdel Aziz ad Ahmed Haroun, dello stesso partito del Presidente Omar al-Bashir, entrambi già incriminati e ricercati dalla Corte Criminale Internazionale dell’Aia per crimini contro l’umanità e crimini di guerra commessi in Darfur. Quando al-Bashir ha dichiarato vincitore Haroun, e per prevenire ogni protesta ha iniziato una feroce repressione, i nuba si sono riorganizzati nel Sudan People Liberation Movement -North (Splm-N) e si sono alleati con i movimenti del Darfur e del Nilo Azzurro Meridionale nel Sudan Revolutionary Front, con lo scopo dichiarato di rovesciare il Governo di Khartoum per instaurare un regime secolare e democratico. Le posizioni sono polarizzate. Abdel Aziz e i nuba non vogliono cedere e dichiarano: “Bashir ha una superiorità militare aerea. Ma a terra noi siamo molto più forti e siamo pronti a marciare su Khartoum”. D’altro canto il fondamentalismo islamico promosso da al-Bashir e la sua chiusura ad ogni dialogo da quando ha preso il potere nel 1989 fanno pensare che un cambiamento pacifico attraverso negoziati sia quanto meno improbabile.
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SPECIALE LA PIRATERIA
La pirateria in pillole L’Icc International Maritime Bureau (Imb) è una divisione speciale dell’International Chamber Of Commerce (Icc). È una organizzazione no-profit, nata nel 1981 per il contrasto di ogni tipo di crimine e illecito marittimo. I dati che riportiamo sono parte dell’annuale Rapporto dell’Imb sulla Pirateria (Report on Piracy and Armed robber). Il Rapporto si basa sulla definizione di pirateria contenuta nell’art 101 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 (Unclos) Articolo 101 Definizione di pirateria Si intende per pirateria uno qualsiasi degli atti seguenti: a) ogni atto illecito di violenza o di sequestro, od ogni atto di rapina, commesso a fini privati dall’equipaggio o dai passeggeri di una nave o di un aeromobile privati, e rivolti: i) nell’alto mare, contro un’altra nave o aeromobile o contro persone o beni da essi trasportati; ii) contro una nave o un aeromobile, oppure contro persone e beni, in un luogo che si trovi fuori della giurisdizione di qualunque Stato; b) ogni atto di partecipazione volontaria alle attività di una nave o di un aeromobile, commesso nella consapevolezza di fatti tali da rendere i suddetti mezzi nave o aeromobile pirata; c) ogni azione che sia di incitamento o di facilitazione intenzionale a commettere gli atti descritti alle lettere a) o b). Questi, in pillole, i dati del Rapporto Riscatto - Nel 2011 i riscatti pagati ai pirati somali sono stati 31, per un totale di 160milioni di dollari. La media di ogni riscatto è stata di circa 5milioni di dollari, superiore ai 4milioni del 2010. Nonostante nel 2011 si sia registrato un minore successo delle azioni dei pirati, l’incremento nel prezzo del riscatto ottenuto dimostra come i pirati siano riusciti ad ottenere maggiori introiti a fronte di un minore numero di sequestri.
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Assicurazioni - Le due principali forme di assicurazione utilizzate contro la pirateria sono la “war risk and kidnap” e la “ransom” (K&R). Questo mercato delle polizze si è modificato nel corso del 2011 per adeguarsi ai continui sviluppi del fenomeno della pirateria. Dal 2011, la regione considerata “war risk” è stata ampliata per ricomprendere tutto l’Oceano Indiano. Molte compagnie marittime sono riuscite ad ottenere una riduzione sulle polizze grazie ad un servizio privato di sicurezza, armato, a bordo delle navi. Il costo totale delle assicurazioni “war risk” e K&R è stato di circa 635milioni di dollari nel 2011. Attrezzature di sicurezza e guardia armata - Un interessante trend nel 2011 riguarda la rapida escalation nell’uso privato della sicurezza armata. Il costo totale dell’attrezzatura di sicurezza e della guardia armata nel 2011 è stato di circa 1,16miliardi di dollari. Cambi di rotta - Nel 2011 alcune navi hanno scelto di evitare le aree a maggiore rischio di attacchi da parte dei pirati scegliendo di transitare lungo la costa Occidentale dell’India. Il costo di questo cambio di rotta per le navi cargo e le petroliere è quantificabile tra i 486 e i 680milioni di dollari nel solo 2011. Aumento di velocità - Secondo i dati raccolti dall’Imb, nessuna nave che viaggiasse ad una velocita’ di 18 nodi o più è mai stata abbordata con successo dai pirati. È per questo che molte navi aumentano la propria velocità di navigazione nel tratto di mare a maggiore rischio di attacchi. Con la velocità aumenta però anche il carburante consumato. Secondo il Rapporto, i costi extra per le sole navi container si aggira intorno ai 2,7miliardi di dollari. Lavoro - Nel 2011, 1118 marinai sono stati presi in ostaggio, 24 sono morti. A causa dell’elevato rischio, il compenso per i marinai è stato raddoppiato nel periodo di navigazione nelle aree più a rischio e per tutta la durata di un eventuale sequestro da parte dei pirati. Secondo lo studio il costo totale dell’aumento di stipendio è quantificabile in 195milioni di dollari nel 2011. Processi e carcerazioni - 20 Paesi hanno arrestato, incarcerato o processato sospetti pirati. Il costo totale dei processi e delle incarcerazioni è stato di circa 16,4milioni di dollari nel 2011. Operazioni militari - Più di 30 Paesi hanno contribuito con personale militare, equipaggiamento e navi a contrastare le attività di pirateria nel 2011. Secondo questo rapporto il costo totale di queste operazioni è quantificabile in 1,27miliardi di dollari nel 2011. Organizzazioni di contrasto alla pirateria - Un notevole numero di iniziative da parte di organizzazioni della società civile sono state impostate nel 2011 per contrastare il dilagare del fenomeno della pirateria. Secondo i dati del Rapporto il costo totale a carico di queste organizzazioni si aggira intorno ai 21,3milioni di dollari.
La pirateria/1
Alessandro Rocca
Quella della pirateria marittima è una attività criminale a tutti gli effetti. Con conseguenze che ricadono sull’economia globale: rotte poco sicure, sequestro di mercantili ed equipaggi, richiesta di riscatto, incremento delle spese da parte degli armatori legate alla sicurezza e alle assicurazioni, con conseguente aumento dei prezzi delle merci. Immaginare i pirati come semplici ladri di navi mercantili o rapitori di equipaggi è però molto riduttivo. Basta prendere in esame alcune cifre. Nella zona al largo delle coste somale e del golfo di Aden ogni anno si contano 22mila transiti di navi (di cui circa 2mila italiane). Da questa rotta passa il 15% dei carichi mondiali e il 30% del petrolio. Controllare o inibire il passaggio delle merci attraverso il canale di Suez influisce, pertanto, sui prezzi finali dei prodotti. E ancora, il “tracciamento” dei pagamenti dei riscatti ha permesso di verificare come spesso il flusso di denaro passi per Londra e Dubai: un percorso che rende plausibile ritenere che dietro i predoni del mare ci siano, in realtà, organizzazioni criminali internazionali, collegate in qualche caso anche a gruppi terroristici. “Nel 2008 sono stati guadagnati con la pirateria più di 100milioni di dollari, tutti proventi dei riscatti”, sostiene, in merito, Nicolò Carnimeo, docente di Diritto della navigazione e dei trasporti presso la facoltà di Economia di Bari. Contrastare il fenomeno è molto complesso e costoso. Secondo gli esperti militari - vista la mancanza di un’autorità responsabile in Somalia per il contrasto al fenomeno e il conseguente vuoto legislativo lasciato, da sempre, dai Governi locali - l’unica strategia vincente è puntare in modo massiccio su impianti e infrastrutture lungo la costa del Paese, finanziati direttamente dalle Nazioni Unite. Ad oggi, tuttavia, nessuna forza militare internazionale ha voluto assumersi i rischi di un intervento diretto contro le “tortughe” dei predatori (operazione, peraltro, autorizzata già nel 2009 da due risoluzioni delle Nazioni Unite) e, se si escludono le navi russe e indiane, nessuna marina usa le armi contro di loro, lamentando ancora un vuoto normativo che impone quasi sempre di liberare i criminali catturati dalle navi delle flotte Nato e Ue. Secondo lo studio “Oceans Beyond Piracy” del think tank statunitense One Earth Future il costo pagato dalla comunità internazionale a causa delle incursioni dei pirati, soprattutto di quelli somali, oscilla tra i sette e i 12miliardi di dollari l’anno. I riscatti versati dagli armatori per recuperare le navi e gli equipaggi sequestrati giustificano solo una parte di questo bilancio (anche se si tratta di cifre comunque ingenti: nel 2009, per esempio, questa voce è stata stimata intorno ai 120/150milioni di dollari e l’anno scorso l’arma-
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Criminalità e violenza questa la pirateria moderna
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tore del cargo coreano Samho Dream ha pagato la cifra record di 9,5milioni di dollari). Altri costi per gli armatori sono determinati dagli equipaggiamenti di sicurezza, dall’imbarco di personale armato (se gli stati di bandiera lo consentono) e dai premi assicurativi schizzati alle stelle per le navi che attraversano l’Oceano Indiano. Non vanno dimenticate, inoltre, le spese per la mobilitazione delle flotte militari, che dovrebbero superare il miliardo di dollari annui. Molte navi affrontano rotte alternative, come la circumnavigazione dell’Africa per evitare le aree dove operano i pirati, con un costo di circa 2,5/3miliardi di dollari annui. Infine, da registrare il denaro versato dagli organismi internazionali mobilitati contro la pirateria e quello speso nei processi ai pirati catturati in flagranza di reato effettuati dai tribunali di Kenya e Seychelles, in base ad accordi finanziati dall’Unione europea. Molti mercantili oggi si proteggono da soli con team di sicurezza armati a bordo, che possono essere militari o appartenenti a società di sicurezza private a seconda del Paese di Bandiera della nave. Secondo una recente stima sono almeno 1500 le navi che ogni mese attraversano il Golfo di Aden e l’Oceano Indiano con guardie armate a bordo. Ogni viaggio protetto ha per l’Armatore un costo di circa 60mila dollari. Costa però meno che qualche tempo fa, grazie anche all’aumentata capacità di azione delle unità navali da guerra internazionali che operano al largo del Corno d’Africa e che, rispetto al passato, con operazioni mirate e anche con una maggiore coordinazione tra loro, stanno riuscendo a contenere molto di più il fenomeno. Di fronte a questa nuova realtà i pirati somali hanno cercato di correre ai ripari. Hanno per prima cosa allargato la loro area di azione. Oltre che nel bacino somalo sono arrivati ad attaccare le navi anche vicino alle coste della Tanzania, Kenya, Yemen, Oman e in profondità nell’Oceano Indiano. Una sorta di migrazione che però, non ha dato loro i frutti sperati.
I dati della pirateria Dal 2008 ad oggi al largo della Somalia e nelle acque dell’Oceano Indiano in totale sono stati registrati almeno 433 attacchi contro navi mercantili di cui 125 andati a buon fine. Il fenomeno oggi, sebbene i pirati somali siano attivi più che mai, fa registrare però, una brusca frenata. A rivelarlo sono i dati dell’Imb (International maritime bureau) aggiornati al 16 agosto scorso relativi agli episodi di pirateria marittima denunciati al largo della Somalia e Oceano Indiano. Nel 2012 finora sono stati registrati 70 attacchi di cui 13 andati a segno. Nel 2011 erano stati 151 e 25 erano andati a buon fine. Secondo Nautes “Il gruppo terroristico di Abu Sayyaf, ‘la spada di Dio’ si finanzia con atti di pirateria al largo delle coste filippine: un’area che insieme al mar della Cina e allo stretto di Malacca ha fatto registrare nel 2004 il record di attacchi (oltre 400) di cui in Italia non si è saputo quasi nulla. Mentre ne sono bene a conoscenza gli armatori italiani che sono presenti su quelle rotte così importanti per i commerci internazionali e la movimentazione delle merci. Nel maggio del 2012 la sezione ricerca della Marina statunitense ha bandito un concorso da un milione di dollari per realizzare un pacchetto di applicazioni web-based per combattere la pirateria marittima. Lo scopo è quello di analizzare le migliaia di dati e di altre informazioni che possono consentire di alzare un efficace muro contro pirateria marittima, traffico di stupefacenti e di armi, oltre a pescatori di frodo, ecc. Nell’epoca delle applicazioni per smartphone e dell’intelligenza artificiale all’interno di queste piccole app, la Marina pensa di poter equipaggiare con un software specifico i propri marinai, al fine di individuare subito con chi si trova a che fare nei mari aperti. Certamente non si tratterà di web app come quelle per i nostri smartphone, ma di applicazioni molto più spartane, che potranno girare su browser di computer desktop. Lo scopo, comunque, è quello di beneficiare delle enormi potenzialità che esprimono gli sviluppatori di software ai giorni nostri e che mancano però fra le file della Marina statunitense.
La pirateria/2
Enzo Mangini
Il 25 marzo 2012, alle 9,30, nell’aula bunker di Rebibbia, a Roma, davanti alla seconda sezione della Corte di Assise, è iniziato un processo che non ha precedenti nella storia italiana recente. Un processo per pirateria. Imputati sono una dozzina di giovani somali, di cui tre minorenni, accusati di aver tentato di impadronirsi della nave italiana Montecristo, in navigazione a circa 200 miglia dalla costa somala. I fatti, per come sono stati ricostruiti in aula dal pubblico ministero Francesco Scavo, si sono svolti tra il 10 e il 17 ottobre del 2011. Un gruppo di pirati somali, a bordo di due motoscafi veloci, ha assalito all’alba del 10 ottobre la Montecristo, a circa 620 miglia ad Est della costa somala. L’equipaggio è riuscito a rifugiarsi nella cittadella blindata, adiacente alla sala macchine e così a mantenere il controllo della nave, che non è stata dirottata verso la costa somala. I pirati hanno cercato di divellere la porta blindata della cittadella, anche usando razzi Rpg e cercando di appiccare un incendio, ma i tentativi sono stati vani. Intanto, l’equipaggio - 21 persone, di cui 6 italiani - è riuscito a chiamare i soccorsi. Ventiquattro ore più tardi, la Montecristo è stata intercettata da una nave da guerra statunitense e da una britannica, la HMS Somerset, una fregata, che con il suo elicottero ha tenuto d’occhio la nave italiana. Poche ore più tardi, una seconda nave britannica, in forza alla flotta Ue impegnata nella operazione antipirateria Atalanta, la HMS Fort Victoria è arrivata sulla scena del tentato sequestro. Dalla Fort Victoria una squadra di Royal Marines ha abbordato la Montecristo, catturato i pirati e messo in salvo l’equipaggio. Per circa un giorno i britannici sono stati a bordo della nave italiana, fino a quando non è arrivata la nave della Marina Militare Italiana Andrea Doria che ha preso in consegna i pirati, a quel punto in stato di arresto. Il processo in corso a Roma è il primo nel suo genere in Italia e dovrebbe concludersi entro la fine del 2012 o all’inizio del 2013 con una sentenza che rischia di spedire i somali in carcere per una ventina d’anni. L’accusa ha inserito tra i capi di imputazione anche la finalità di terrorismo, ipotizzando che i soldi del riscatto che i pirati avrebbero chiesto sarebbero almeno in parte finiti a finanziare gli Al Shabab, il movimento islamista radicale che controlla ampie zone del Sud della Somalia. Questo legame, tuttavia, non è stato provato, tanto che il tribunale dei minori di Roma che ha processato a parte i tre somali minorenni non ha considerato questa aggravante e li ha condannati a otto anni di carcere. Contrariamente a quello che ci si sarebbe potuti attendere, il processo è stato sostanzialmente ignorato dalla stampa italiana. Eppure, le questioni politiche e giuridiche (competenza, garanzia dei diritti degli imputati, ruolo del diritto internazionale) lo rendono un caso quasi
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Un processo invisibile contro i nuovi pirati
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unico. In tutta Europa, infatti, sono stati pochissimi i processi di questo tipo celebrati finora e un paio di questi, in Olanda e in Germania, si sono arenati sulle questioni di competenza: può un tribunale tedesco giudicare dei cittadini somali arrestati in acque internazionali, a bordo di un peschereccio yemenita? Il caso della Montecristo è in qualche modo più semplice, visto che i presunti pirati sono stati fermati (dai britannici) a bordo di una nave italiana e poi trasferiti alla Marina Militare, prima di essere formalmente arrestati, con interrogatorio di garanzia fatto in videoconferenza. È più intricato, invece, un secondo processo, iniziato il 25 novembre 2012. Riguarda un altro gruppo di undici somali accusati del tentato sequestro della motonave Valdarno, il cui equipaggio è riuscito a respingere l’assalto dei barchini dei pirati, grazie alla presenza a bordo di un team di sicurezza. I somali di questo secondo gruppo sono stati arrestati non a bordo della nave italiana ma su un peschereccio yemenita che, secondo l’accusa, è stato usato come “nave madre”, cioè come la piattaforma da cui far partire i veloci motoscafi, detti skiff, impiegati di solito negli abbordaggi. I due processi sono, non solo per l’Italia, un fatto storico. Non solo perché in Italia non ci sono precedenti recenti di processi per pirateria, ma anche per il modo di condurre l’inchiesta, per la collaborazione con le Marine Militari statunitense e britannica (che hanno mandato i propri comandanti a testimoniare), per l’impianto accusatorio e per le difficoltà giuridiche connesse. Il quadro del diritto internazionale sulla pirateria è infatti piuttosto complicato. Le leggi internazionali contro la pirateria risalgono alla fine del XIX secolo e l’unico trattato corrente, la Convenzione Onu sulla Legge del Mare, che pure definisce la pirateria come crimine internazionale, non è stata recepita dalle legislazioni nazionali di molti Paesi. Perciò non è chiaro se eventuali pirati fermati debbano essere processati dal Paese a cui appartiene la nave che li ha catturati o se invece sia meglio processarli in Somalia, dove non esiste un Governo dal 1991, o addirittura in un Paese terzo. L’Olanda ha adottato la prima interpretazione e all’inizio del 2011 un tribunale olandese ha condannato 5 somali riconosciuti colpevoli del sequestro di un cargo olandese nel Golfo di Aden nell’aprile del 2009. Presunti pirati somali sono in carcere anche negli Stati Uniti, in Francia, nello Yemen e in Germania, ma il grosso dei pirati “arrestati” dalle forze navali internazionali è al momento in Kenya, sospesi in un limbo giuridico. Nel 2009, Il Kenya, infatti, aveva accettato dei trattati bilaterali con una serie di Paesi (Cina, Usa, Canada, Regno Unito e Danimarca, oltre all’Unione Europea) per celebrare davanti ai propri tribunali i processi a carico dei presunti pirati. Nell’aprile del 2010, però, un giudice keniano ha stabilito che le leggi nazionali non sono applicabili e dunque che i tribunali del Kenya non sono competenti a decidere sui casi di pirateria avvenuti in acque internazionali o in acque territoriali di Paesi terzi. Così, si deve ricominciare e della questione è stata investita direttamente l’Organizzazione delle Nazioni Unite. A gennaio 2011, Jack Lang, inviato speciale del Segretario dell’Onu Ban KiMoon ha consegnato il proprio rapporto: il consiglio è di creare dei tribunali ad hoc in alcune Regioni della Somalia, tra cui il semi-autonomo Stato del Puntland, che però non è riconosciuto a livello internazionale. I processi di Roma cercano in qualche modo di creare un precedente che permetta di porre rimedio a una incertezza normativa che favorisce i pirati e gli assicuratori marittimi: i premi delle assicurazioni per le navi che battono le rotte a rischio nell’Oceano Indiano continuano sistematicamente a salire. Tanto che, alla fine, per qualcuno, pagare il riscatto è il male minore.
La pirateria/3
Luciano Scalettari
Negli ultimi anni parlare di pirateria è parlare di pirateria somala. I mezzi d’informazione hanno acceso i riflettori soprattutto su questa fetta di mare del pianeta, che va dall’ultima parte del Mar Rosso fino alle acque al largo della città di Obbia, in Somalia. Grosso modo un terzo del mare antistante i 3300 chilometri della costa del Paese del Corno d’Africa. Se ne parla più o meno dal 2007 e 2008, ma le radici della cosiddetta pirateria somala vengono da qualche anno più indietro. Ossia, come tante altre delle piaghe del Paese, dall’inizio della guerra civile somala, nel 1991. Tutto comincia con la caduta di Siad Barre, il dittatore somalo che aveva guidato il Paese per oltre 20 anni. Con la dissoluzione del regime, sono venute a mancare le autorità di polizia e di controllo sulle acque costiere, che viceversa sotto Siad Barre erano piuttosto strutturate. C’era una guardia costiera e una marina militare abbastanza moderna e armata, per un Paese africano. Poi, più nulla. Si dà il caso, tuttavia, che le acque somale, e in particolare quella che nella geografia marittima viene chiamata “Area 51” (prospiciente la Regione del Puntland), siano fra le più pescose del mondo: è una sorta di immensa pianura sottomarina con una presenza ittica straordinaria: secondo stime, per difetto, il potenziale di pescato – senza mettere in pericolo il ciclo naturale di ripopolamento delle acque – è di 200mila tonnellate l’anno, con varietà di specie fra le più pregiate. Quindi, tanto e ottimo pesce. E nessun “padrone” di quelle acque. È per questo che nella prima metà degli anni ’90 si sviluppa la pesca di frodo: pescherecci di altri Paesi si spingono fin nelle acque somale, con mezzi sempre più potenti. I pescatori locali reagiscono, a quello che considerano un vero furto: questa “guerra della pesca” è la premessa storica della pirateria, perché anche i somali si organizzano e cominciano a sequestrare le barche dei pescatori di frodo stranieri. Attacchi e pirateria da parte somala, armi o getti di acqua bollente dai pescatori di frodo. Non sono pochi i pescatori locali sepolti lungo la costa, uccisi per essersi scontrati con i pescherecci stranieri. L’agenzia internazionale “Closing the Net” (“Chiudere le Reti”) ha stimato che operano in quel tratto di mare circa mille pescherecci d’altura, enormi imbarcazioni all’avanguardia della tecnologia, in grado di fare tutta la lavorazione a bordo. Tante sono poi le imbarcazioni che operano senza scrupoli, utilizzando reti a strascico, dinamite di profondità. Pescando fin quasi sottocosta, per cui entrano in collisione con i pescatori tradizionali, che usano poveri mezzi e vivono di sussistenza. Gli operatori locali si vedono privati di tutto, inevitabile che nel tempo ne siano nati violenti conflitti. È su questa storia remota che si è evoluta la situazione verso il fenomeno attuale. I pescatori locali, privi di tutele istituzionali, si sono organizzati da soli la “difesa” del mare. I pescatori di frodo hanno reagito allo stesso modo. Ecco l’origine dell’escalation. Prima bande locali, poi livelli organizzativi sempre più elevati, fino alle organizzazioni criminali, sia di parte somala che internazionali. Una vera industria del crimine. Un episodio, raccontato dall’agenzia di stampa Reuters, rende l’idea del business che oramai sostiene il fenomeno della pirateria. Una giovane donna somala, al momento del divorzio dal marito (un miliziano), ottiene l’unico bene significativo che lui aveva: un bazooka, valore 500 dollari circa. La donna decide di investire la sua “proprietà” affittando l’arma a un’imbarcazione di pirati che, poco dopo, sequestra e ottiene il riscatto di una tonniera spagnola. Ebbene, in poche settimane la donna si ritrova con 22mila dollari. Chi glielo spiega che è un’attività illegale? Probabilmente risponderebbe che ha solo contribuito a difendere il proprio mare, il sequestro non è avvenuto in acque spagnole. Nelle regioni costiere della Somalia la pirateria è un’industria piuttosto struttu-
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Pirateria somala, una storia mai raccontata
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rata. Esiste persino una “piazza”, un po’ come fosse una borsa europea, dove ci si reca per formare equipaggi e ottenere investimenti: ciascuno mette quello che ha, e guadagna in proporzione. Chi sono, poi, i pirati somali? In molti casi sono ex marinai della guardia costiera, ex militari di Marina, ma anche ex ufficiali, funzionari, in qualche caso pescatori. Molti, tuttavia, non sanno neanche nuotare. Provengono dall’entroterra, perlopiù arruolati fra i pastori nomadi, attratti dall’occasione di arricchimento veloce. Oggi, i miliziani somali che vanno a fare i sequestri col kalashnikov sono l’ultimo anello della catena. Il vero business è altrove, tra i “colletti bianchi” che mettono gli investimenti per organizzare barche da pirateria sempre più sofisticate e complesse; tra gli “operatori del settore” che riescono a fornire con precisione le rotte delle navi da intercettare; tra gli armatori e tra i mediatori che, in tempo reale, sono in grado di mettere in contatto le bande criminali con le compagnie e che “risolvono” in fretta il caso con un riscatto che comprende laute provvigioni. Tutte figure che con la Somalia hanno ben poco a che fare. Dall’altro lato c’è il business delle assicurazioni, delle compagnie private di sicurezza. Infine, delle operazioni di polizia internazionale, nelle acque somale. Sulla pirateria, oggi, gli interessi in gioco, somali e internazionali, sono enormi. Solo che la componente somala è quella che – perlomeno rispetto al livello alto – prende le briciole. Ecco perché, oggi, le organizzazioni più attente della società civile non parlano semplicemente di pirateria, ma di twin piracy, pirateria gemella: perché i somali sono pirati tanto quanto gli attori esterni e i pescatori internazionali di frodo. Quanto al programma internazionale di vigilanza – l’Operazione Atlanta – forse pochi sanno che l’accordo fra la Commissione Europea e lo Stato somalo (accordo che permette l’intervento armato per terra e per mare, la garanzia della non punibilità in territorio somalo, la totale libertà di movimento e di pattugliamento, la possibilità di arresto ed estradizione dei pirati, e tante altre cose) è stato firmato il 31 dicembre 2008, ossia due giorni dopo le dimissioni dell’allora Presidente della Somalia Abdullahi Yussuf – cioè in un momento di vuoto di potere – dall’ambasciatore somalo presso il Kenya e da un rappresentante della Commissione Europea. Un accordo i cui vantaggi, da parte somala, equivalgono a zero. In altre parole, un accordo che dal punto di vista del diritto internazionale è un mostro giuridico. Un atto che, peraltro, essendo stato ratificato in sede di Unione Europea, vincola tutti i Paesi membri. Perché una procedura tanto anomala? Forse lo spiega il fatto che l’aiuto dato dalla comunità internazionale alla Somalia assomma a un quinto del guadagno netto per gli armatori europei, che ora si trovano a pescare e a trafficare con la protezione delle navi da guerra dei Paesi ricchi, anche italiane. C’è chi sostiene che, se si volesse combattere alla radice la piaga della pirateria, la soluzione ci sarebbe: non un “assegno in bianco” alle operazioni di polizia, ma un accordo articolato, che permettesse anche ai pescatori e alla popolazione costiera del Paese di trarne vantaggio, di avere garanzie di lavoro e una vera tutela contro i pescherecci senza scrupoli (che tra l’altro stanno mettendo in pericolo molte specie ittiche di quell’area). Questa strada potrebbe estirpare alla radice un fenomeno ben più complesso di quanto si voglia far credere. Due società di analisi americane hanno fatto una stima di quanto è costato alla comunità internazionale il caos somalo di questi 20 anni: 55,83miliardi di dollari. E anche di quanto è stato “pagato” il fenomeno della pirateria: poco più di 22miliardi di dollari. Una cifra da capogiro. Se è vero che il pattugliamento di una sola nave da guerra nel basso Mar Rosso costa 200mila dollari al giorno, ben si comprende la cifra complessiva. Sulla Somalia la pirateria ha avuto un impatto estremamente negativo: ha portato ad arricchimenti improvvisi e a un giro di denaro impressionante. La ricaduta colpisce tutto il territorio a Nord di Mogadiscio fino al Somaliland. Si tratta di ingenti quantità di quattrini di provenienza illegale che entra violentemente in un tessuto sociale poverissimo, dove vige da decenni un’economia di sussistenza. Un impatto socio-economico devastante. Insomma, a parte il pugno di pirati, dalla pirateria la Somalia ha avuto solo conseguenze negative. Da un lato, la pesca di frodo e la “svendita” della propria integrità territoriale alle operazioni di polizia internazionale, dall’altra un fiume di denaro illecito, capace di corrompere e disintegrare quel poco di economia sana rimasta nel Paese.
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Fabio Bucciarelli
A cura di Amnesty International
Libertà e giustiza sono il sogno africano La transizione nei Paesi dell’Africa del Nord, dove nel 2011 sono stati deposti regimi rimasti complessivamente in carica per un secolo, procede tra progressi istituzionali e arretramenti nella difesa dei diritti umani. Elemento comune a Tunisia e Libia è la quasi totale assenza di giustizia per le vittime di decenni di violazioni e delle rivolte dello scorso anno. In Tunisia, dalla maggioranza parlamentare e dalle piazze viene attaccata la libertà d’espressione, con un ampio uso della normativa contro i comportamenti indecenti e immorali. Nell’Assemblea costituente, uno dei temi di maggiore scontro è quello del ruolo della donna, di cui si è anche proposta la “complementarietà” all’uomo. In Libia, lo stato di diritto stenta ad affermarsi. Migliaia di persone sono detenute in centri controllati dalle milizie, senza accusa né processo, perché sospettati di aver combattuto per Gheddafi. Ci sono stati casi di torture mortali e non è cessata la discriminazione dei migranti. La popolazione di Tawargha, vittima di una pulizia etnica collettiva che ha colpito 30mila persone,
vive nell’emarginazione e nella precarietà. L’instabilità del Paese è stata evidente nell’attacco al consolato Usa di Bengasi, che ha causato la morte dell’ambasciatore e di altre persone. In Egitto, il Presidente Morsi è atteso da sfide sul piano politico e dei diritti umani, tra cui porre sotto controllo e chiamare a rispondere del loro operato le forze di polizia e l’esercito. Sebbene abbia sciolto i servizi segreti militari, sinonimo di tortura durante il regime di Mubarak, l’impunità nel Paese resta diffusa. Migliaia di persone arrestate o processate per “aver sostenuto la rivoluzione” sono state amnistiate in occasione dei primi 100 giorni della presidenza. Dopo la rivoluzione del gennaio 2011, aggressioni e violenza sessuale nei confronti delle donne sono aumentati. Le rivolte nordafricane hanno conosciuto, un anno dopo, uno sviluppo nell’Africa Subsahariana e in Senegal e in Sudan le forze di sicurezza hanno reagito con un uso eccessivo della forza. In Sudafrica oltre 30 minatori che protestavano contro l’inadeguatezza dei salari e per mantenere il posto di lavoro sono stati uccisi. Il Sud Sudan, indipendente dal luglio 2011, vive ancora nell’instabilità, tra minacce di guerra e scontri veri e propri col Sudan. L’esercito Sudsudanese si è reso responsabile di stupri e torture durante una campagna che aveva l’asserito obiettivo di disarmare gruppi armati e ritirare le armi. Il Mali attraversa la peggiore crisi dei diritti umani dei suoi primi 50 anni d’indipendenza. La costituzione di una Giunta “di coalizione” dopo il colpo di stato di marzo, non ha impedito che un’alleanza tra indipendentisti tuareg e gruppi armati del fondamentalismo qaedista finisse per controllare il Nord del Paese. Un altro Paese dove nel 2012 c’è stato un colpo di stato, le Maldive, è in piena crisi politica. Dopo gli arresti di sostenitori del Presidente deposto, a ottobre è stato ucciso il primo parlamentare (filogovernativo) della storia del Paese. In Guinea Bissau, al colpo di stato del 12 aprile sono seguite crescenti limitazioni alla libertà di espressione, manifestazione, informazione e movimento. Le prime avvisaglie di una ricostruzione istituzionale in Somalia, dopo due decenni, non hanno impedito che proseguisse la caccia ai giornalisti. Dal febbraio 2007, sono stati assassinati almeno 35 giornalisti e nessuno è stato chiamato a rispondere. Nonostante l’Africa continui a guidare la tendenza mondiale verso l’abolizione della pena capitale, ad agosto si è registrato un passo indietro con l’esecuzione di nove condanne a
morte in Gambia, le prime dopo 27 anni. In Nigeria proseguono gli scontri intercomunitari, con attacchi sanguinosi del gruppo armato fondamentalista Boko Haram a civili e a luoghi di culto dei cristiani Sono aumentati, inoltre, gli sgomberi forzati in nome di “progetti di sviluppo” o di “riqualificazione” che hanno lasciato senza casa migliaia di persone. Il 26 aprile, il Tribunale speciale per la Sierra Leone, ha giudicato colpevole l’ex Presidente liberiano Charles Taylor per i crimini commessi durante il conflitto nel Paese (1991-2002). Fabio Bucciarelli
Il mondo di Kako di Flora Graiff Ciotola di guerra
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2011 uscito nel giugno 2012 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DALL’ALGERIA RIFUGIATI
6.121
RIFUGIATI ACCOLTI NELL’ALGERIA RIFUGIATI
94.148
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI SAHARA OCCIDENTALE
90.000
Sono sei milioni gli analfabeti
Sei milioni di analfabeti, su una popolazione complessiva di 37milioni di individui, quindi poco sopra la soglia del 22%. Sono questi i ‘’numeri’’ dell’Algeria di oggi nel campo dell’alfabetizzazione. Il fenomeno dell’analfabetismo resta dunque piuttosto ampio, nonostante gli sforzi compiuti dal Governo in questo settore in mezzo secolo di indipendenza. Tuttavia c’è un dato consolante. Il 93% dei ragazzi compresi nella fascia di età fra i 6 e i 12 anni sono alfabetizzati. Si prevede che entro il 2018 il tasso di analfabetismo possa calare di almeno il 10%.
Marzia Lami
Nel 2012 l’Algeria ha celebrato il 50° anniversario dell’indipendenza, proclamata ufficialmente il 5 luglio del 1962 dopo una difficile e sanguinosa guerra contro la Francia, durata sette anni e mezzo e costata un milione e mezzo di morti. L’evento è stato festeggiato con numerose iniziative organizzate in tutto il Paese dal Governo centrale e dalle autorità locali: concerti, spettacoli pirotecnici, il conio di una nuova moneta da 200 dinari, messa in circolazione dalla banca d’Algeria con il logo dell’anniversario. Ma nonostante l’esaltazione per la festa, il folklore e lo sventolio delle bandiere distribuite generosamente alla popolazione, l’anniversario è stato vissuto con un sentimento di disillusione. Questo sentimento è stato espresso soprattutto dalla società civile e da parte della stampa. Cinquant’anni dopo la conquista dell’indipendenza l’Algeria appare come un Paese bloccato, sia a livello politico che a livello economico, ancora incapace di esprimere tutte le sue potenzialità. Lo si è visto anche dall’esito delle elezioni legislative del maggio 2012, vinte ampiamente dal Fln (il partito del Presidente Bouteflika) e caratterizzate da un alto tasso di astensionismo. Ad Algeri il vento della “primavera araba” del 2011 non è arrivato, o almeno è arrivato molto debole. Questo è avvenuto per diverse ragioni. Prima di tutto, dopo il traumatico decennio degli anni Novanta, caratterizzati da un terrorismo e da una violenza eccezionali, gli algerini temono un processo di cambiamento traumatico, che potrebbe sfociare in nuova violenza. Inoltre in Algeria, nonostante il sistema politico appaia bloccato, esiste formalmente il pluripartitismo e la stampa gode di una relativa libertà di espressione (anche se radio e televisione restano di proprietà statale). Non si può, quindi, parlare dell’esistenza di un regime simile a quello dell’egiziano Mubarak e del tunisino Ben Ali. Infine, la rendita che deriva dall’export di petrolio e gas naturale garantisce al Governo le risorse finanziarie sufficienti per garantire la pace sociale e soddisfare, almeno nell’immediato, le diverse rivendicazioni popolari. Tuttavia lo scontento della popolazione algerina resta palpabile, soprattutto fra i giovani (il tasso di disoccupazione giovanile oscilla fra il 30 e il 35%). Non esiste un movimento nazionale di contestazione, la protesta si esprime in genere a livello locale,
ALGERIA
Generalità Nome completo:
Repubblica democratica popolare di Algeria
Bandiera
49
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Arabo, francese, tamazight (berbero)
Capitale:
Algeri
Popolazione:
Circa 35 milioni
Area:
2.381.740 Kmq
Religioni:
Musulmana sunnita (99%), cristiana ed ebraica (1%)
Moneta:
Dinaro algerino
Principali esportazioni:
Risorse naturali: petrolio, gas naturale, ferro, fosfati, uranio, piombo, zinco Risorse agricole: grano, orzo, avena, uva, olive, cedri, frutta, pecore, bestiame
PIL pro capite:
Us 7.000
con brevi fiammate che richiedono comunque l’intervento delle forze dell’ordine. La buona notizia del 2012 è l’assenza di gravi attentati terroristici, anche se restano presenti sul territorio algerino gruppi armati legati all’estremismo islamico.
I militanti del gruppo al-Qaeda per il Maghreb islamico mirano ad unire le forze jihadiste della regione nordafricana per combattere contro l’Europa e la presenza occidentale nei Paesi del Ma-
ghreb. L’obiettivo sembra in gran parte fallito per mancanza di fondi, di uomini e anche per l’azione repressiva condotta dall’esercito algerino.
Per cosa si combatte
50
Marzia Lami
L’Algeria ha vissuto un 2010 relativamente tranquillo. I gruppi terroristi armati che si ricollegano ad al-Qaeda (al-Qaeda per il Maghreb islamico) hanno compiuto azioni meno sanguinose rispetto agli anni precedenti e la loro attività si è concentrata soprattutto nella zona meridionale del Paese. Resta instabile, in parte, anche la situazione della Cabilia, la regione montuosa che si estende da Algeri vero l’Est lungo la costa mediterranea. Il terrorismo che minaccia oggi l’Algeria non ha la forza, i numeri e la pericolosità di quello che ha sconvolto il Paese nel corso degli anni Novanta. La data chiave è il 1991, quando il movimento politico Fis (Fronte islamico di Salvezza) vince il primo turno delle elezioni politiche generali. Di fronte alla minaccia islamista a gennaio i militari interrompono il processo elettorale, il Fis viene dichiarato fuori legge e comincia uno scontro sempre più sanguinoso tra i gruppi terroristi di
ispirazione islamica radicale e l’esercito algerino. L’organizzazione terroristica dominante è il Gia (Gruppo Islamico Armato), in seguito affiancato dal Gspc (Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento). In Algeria il terrorismo islamico raramente ha preso di mira gli stranieri. Le vittime sono state soprattutto cittadini algerini. Nel decennio di sangue sono stati colpiti intellettuali, scrittori, giornalisti, esponenti della vivace società civile che caratterizza l’ex colonia francese. Numerosi anche gli attacchi contro poliziotti e militari. A migliaia i caduti fra la popolazione civile, sia nei centri urbani che nei villaggi. Tra gli stranieri sono stati colpiti esponenti della chiesa cattolica, da sempre minoritaria ma costantemente a fianco della popolazione musulmana nei momenti difficili del Paese. Vanno ricordate le uccisioni del vescovo di Orano Pierre Claverie e dei sette monaci trappisti del monastero
Quadro generale
Troppi morti senza volto
Cinquanta anni dopo l’indipendenza resta ancora controverso il numero esatto delle vittime provocate dalla guerra. Il bilancio ufficiale più affidabile è quello relativo alle perdite francesi. I morti fra i militari sono 24614 (15583 caduti in combattimento o a causa di attentati), mentre i feriti sono quasi 65000. I civili francesi caduti sono 2788 (i feriti sono oltre 7500). Resta difficile da valutare il numero esatto dei morti algerini. La retorica del Governo del Fln ha celebrato a lungo “un milione e mezzo di martiri”, invece le autorità militari francesi riconoscono di aver ucciso 143mila ribelli. Una stima più verosimile calcola complessivamente in 300mila i caduti algerini.
Marzia Lami
Ahmed Ben Bella (25 Dicembre 1916 Algeri 11 Aprile 2012)
La lunga via della droga
L’Algeria sta diventando sempre di più un Paese di transito della droga verso l’Europa e il Medio Oriente. La quantità di sostanze stupefacenti sequestrata fra il gennaio e l’agosto del 2012 è raddoppiata rispetto allo stesso periodo del 2011 e più che decuplicata rispetto al 2007. Nel 2012 la Gendarmeria ha sequestrato 51 tonnellate di kif (hashish), oltre 42mila compresse di sostanze psicotrope, vari quantitativi di cocaina ed eroina. Gran parte della droga arriva dal Marocco, che resta il principale esportatore verso l’Europa di cannabis, introdotta nel nostro continente attraverso la Spagna e il Portogallo.
di Tibherine. Si calcola che in totale le vittime del terrorismo in un decennio siano state circa 100mila. Una via di uscita dal tunnel del terrorismo è stata cercata a partire dal 1999, quando è stato eletto alla presidenza della Repubblica Abdelaziz Bouteflika. Bouteflika ha voluto impegnarsi per la riconciliazione e ha offerto una amnistia ai combattenti islamici in cambio del loro disarmo. Questo processo di riconciliazione è andato avanti con difficoltà e anche ambiguità. Alcuni gruppi hanno continuato le loro attività terroristiche, ma lentamente la vita degli algerini è tornata a essere più tranquilla, soprattutto nei principali centri urbani. Anche se negli ultimi anni c’è stata una ripresa delle azioni terroristiche anche ad Algeri, per opera dei militanti di al-Qaeda per il Maghreb islamico attentati del dicembre 2007 e dell’agosto 2008. L’Algeria non ha quindi raggiunto una condizione di completa stabilità e sicurezza. A questa condizione si aggiunge un quadro politico assolutamente immobile. Arrivato alla presidenza nel 1999 Bouteflika, rieletto nell’aprile del 2009 (è il terzo mandato consecutivo), ora conta di restare
I PROTAGONISTI
al potere fino al 2014. Quando divenne presidente, Bouteflika alimentò molte speranze. Promise di ristabilire la pace, la riforma della pubblica amministrazione, della scuola e della giustizia. Assicurò di voler garantire il prestigio della nazione. Ma i progressi sperati non ci sono stati. O sono stati molto timidi, ben al di sotto delle attese. Come ha scritto il quotidiano indipendente El Watan, Boueflika non ha cose nuove da dire e presenta da un decennio lo stesso programma. Restano perciò irrisolti molti problemi come la corruzione, l’inflazione, la disoccupazione e la crisi degli alloggi, che colpisce soprattutto i giovani. Sulla scena politica non si affacciano uomini nuovi e resta dominante una casta di politici, militari e burocrati che gli algerini definiscono genericamente Le Pouvoir (Il potere). Di fronte a questa immobilità l’Algeria non collassa solo perché galleggia su un mare di petrolio. Grazie alle riserve di idrocarburi l’Algeria negli ultimi anni ha potuto arricchire le sue riserve valutarie (145miliardi di dollari) sfruttando gli aumenti del prezzo del greggio (ma con un calo sensibile nel corso del 2009). Tuttavia questa ricchezza non si è riversata sulla popolazione e la forte dipendenza dalle risorse petrolifere non ha favorito una diversificazione dell’economia. Gli introiti incassati dall’export di gas e petrolio vengono in gran parte utilizzati per l’importazione di alimentari, medicinali e materiali per l’edilizia.
51
Il 2012 ha visto l’uscita di scena di Ahmed Ben Bella, morto ad Algeri l’11 aprile. Era nato il 25 dicembre del 1918 ed è passato alla storia per essere stato il primo Presidente dell’Algeria indipendente. Figlio di contadini, dopo una carriera militare come valoroso combattente durante la seconda guerra mondiale (fu ferito sul fronte di Cassino e in seguito decorato dal generale De Gaulle) Ben Bella comincia a militare nell’esercito clandestino del Fronte di Liberazione Nazionale (Fln). Arrestato dai francesi nel 1950, riesce ad evadere in modo rocambolesco e si rifugia in Egitto. Nuovamente arrestato dai francesi nel 1955, Ben Bella resta in carcere fino alla firma degli accordi di Evian, nel marzo del 1962. Tra marzo e settembre si scatena una lotta di potere che coinvolge il Governo provvisorio, i dirigenti del Fln e le forze armate. Da questo scontro esce vincitore Ben Bella, proclamato Presidente l’11 settembre. Tribuno carismatico e populista, Ben Bella incarna per qualche tempo i sogni degli algerini. Ma nel 1965 un colpo di stato del suo vecchio compagno d’armi Houari Boumedienne lo estromette dal potere. Esiliato in Svizzera, torna in Algeria nel 1990, quando ormai non conta più nulla e l’Algeria è insanguinata dal terrorismo.
Marzia Lami
52
Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2011 uscito nel giugno 2012 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DAL CIAD RIFUGIATI
42.640
PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI SUDAN
31.871
CAMERUN
5.251
SFOLLATI PRESENTI IN CIAD 124.000 RIFUGIATI ACCOLTI NEL CIAD RIFUGIATI
366.494
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI SUDAN
298.311
REPUBBLICA CENTROAFRICANA
67.414
Lo spettro della fame
Il Presidente Déby (al potere dal 1990) deve fronteggiare la carestia che ha investito le nazioni del Sahel. 4milioni di ciadiani (sui 12 che abitano il Paese) sono a rischio. Su un terzo della popolazione grava lo spettro della morte per fame perché all’appello mancano 640mila tonnellate di cereali. All’origine ci sono le scarsissime piogge ed il pericoloso abbassamento del livello dell’acqua del Lago Ciad, che ha perso nove decimi di superficie per la riduzione della falda e dell’intenso sfruttamento. Nel Nord del Ciad in poco meno di 20 anni il deserto del Sahara ha occupato una fascia di 200 chilometri e l’avanzata continua. Le annate di siccità drammatica sono state 3 negli ultimi 7 anni. Nel 2011 i raccolti si sono dimezzati rispetto all’anno precedente mentre il prezzo dei cereali è salito vertiginosamente del 40% nei mercati popolari. Ad esplodere, puntuale come una bomba ad orologeria, è stata la guerra tra pastori nomadi e contadini stanziali per il controllo di acqua e pascoli fertili.
UNHCR/H. Caux
Monsignor Michele Russo, 66 anni, missionario comboniano, per 22 anni vescovo della diocesi di Doba (una ricca Regione petrolifera) è stato espulso dal Ciad nell’ottobre 2012. In una omelia trasmessa da una radio privata aveva criticato la gestione governativa delle risorse petrolifere che arricchisce illecitamente una minoranza e condanna la popolazione alla miseria. Mentre l’impatto ambientale dell’estrazione dell’oro nero avvelena il territorio. Il Governo di N’Djamena ha prima accusato la radio di attentare all’ordine pubblico e poi ha puntato il dito sul vescovo contestandogli di svolgere una attività incompatibile con il suo status concedendogli una settimana di tempo per lasciare il Paese. Chi tocca i fili muore, è la morale di questa parabola. Il Presidente Idriss Déby con i proventi petroliferi ha potenziato essenzialmente l’esercito, procedendo secondariamente alla ristrutturazione di strade ed alla costruzione di edifici pubblici. Ma non ha mantenuto gli impegni di investire gran parte degli introiti per ridurre la povertà in cambio di finanziamenti internazionali per la costruzione di un oleodotto. Per questo la Banca Mondiale nel 2008 ha sospeso gli aiuti. Un rapporto della organizzazione non governativa Terre Solidaire denuncia che nel 2010 il Ciad ha speso 234milioni di euro in armamenti, cifra ancora alta rispetto ai 420milioni di euro del 2008 quando il Presidente Déby (arrivato al potere con un colpo di stato) dovette fronteggiare la guerriglia che arrivò a minacciare la capitale. Tra il 2004 ed il 2010 il Paese africano con l’acquisto di armi ha violato la legge che stabiliva che il 10% dei proventi del suo petrolio dovesse essere depositato su un apposito conto per le generazioni future; l’80% doveva essere investito in sanità, affari sociali, insegnamento, infrastrutture, sviluppo agricolo e degli allevamenti, ambiente e risorse idriche; mentre il 5% sarebbe stato destinato alle comunità locali delle Regioni dove viene estratto
CIAD
Generalità Nome completo:
Repubblica del Ciad
Bandiera
53
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Francese, Arabo
Capitale:
N’Djamena
Popolazione:
9.826.419
Area:
1.284.000 Kmq
Religioni:
Musulmana (53,10%), cristiana (35%), animista (10%)
Moneta:
Franco CFA
Principali esportazioni:
Prodotti agricoli
PIL pro capite:
Us 1.519
il greggio. Questa legge era stata imposta dalla Banca Mondiale per la concessione di fondi destinati alle infrastrutture necessarie allo sfruttamento del petrolio, in particolare per la costruzione dell’oleodotto che collega il Ciad al porto di Doula in Camerun. La legge (approvata nel 1999) non è mai stata applicata anzi sei anni dopo ne è stata varata un’altra che ha soppresso i proventi destinati alle generazioni future ed ha invece aumentato le quote per sicurezza, giustizia e amministrazione del territorio: settori definiti prioritari a cui di conseguenza è stato attribuito il 65% degli introiti.
Il Ciad è al 183° posto su 187 Paesi per l’indice di sviluppo umano. L’80% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, appena il 9% ha accesso a servizi sanitari adeguati mentre solo il 48% usufruisce dell’acqua potabile. Una situazione sociale esplosiva che con la proliferazione del passaggio di armi (soprattutto leggere) sul proprio territorio ha visto crescere in maniera esponenziale la violenza tra le comunità locali. Il Ciad è una tappa essenziale per l’esportazione di armi verso i Paesi vicini, in particolar modo nella Regione sudanese del Darfur. Resta ancora gravissimo il problema di un milione di mine in circolazione e dei due milioni di ordigni inesplosi che minacciano la vita dei civili.
I conflitti tra le oltre 200 etnie che popolano il Paese sono all’ordine del giorno, una instabilità che torna utile al Governo centrale che sulla filosofia del “divide et impera” basa il suo potere. I confini (specialmente quelli orientali) restano caldi. Qui rapimenti ed attacchi contro i civili sono portati a segno dalle centinaia di milizie stanziate nel Darfur e che facilmente attraversano le frontiere - groviera che separano il Sudan dal Ciad. Ed inoltre sono molto attivi i gruppi interni di resistenza armata che si oppongono al Presidente Déby. E spesso, troppo spesso, queste differenti tipi di violenza si sovrappongono, si uniscono, e si separano alla velocità della luce. A farne le spese la popolazione inerme.
Per cosa si combatte
Una condanna per il presidente
Su pressione delle Nazioni Unite, il Senegal nel luglio 2011 sospese il rimpatrio dell’ex Presidente del Ciad Hissène Habré, condannato a morte dal Governo di Dakar per crimini di guerra e contro l’umanità durante la sua presidenza tra il 1982 ed il 1990, quando fu rovesciato da Déby con un golpe. Nel marzo 2012 la Corte Internazionale Penale dell’Aja ha esaminato la richiesta di estradizione di Hissène Habré presentata dal Belgio che nel 2005 ha emesso un mandato di arresto contro l’ex Presidente, accusato di aver ordinato la morte di 40mila persone tra oppositori e gruppi etnici diversi. A luglio la Corte dell’Aja ha imposto al Senegal di iniziare il processo o estradare il prigioniero. Si è usciti dall’impasse grazie ad un accordo tra Senegal e Unione Africana per creare un tribunale speciale.
54
UNHCR/H. Caux
La Repubblica del Ciad, situata nell’Africa Centrale e circondata dagli Stati confinanti della Libia, del Sudan, del Camerun, della Nigeria, del Niger e della Repubblica Centraficana è considerata uno dei Paesi più poveri del mondo, attraversato da forti instabilità interne e da conflitti ancora irrisolti. Proprio la vicinanza con molti Paesi dove si combattono guerre violente e sanguinose ha aggravato la crisi interna del Ciad, guidato da un Governo che fatica a gestire i forti flussi di rifugiati in fuga dai conflitti e dalle tensioni interne. Dopo una lunga storia da ex colonia francese, il Ciad è diventato indipendente nel 1960. Una transizione pacifica che sembrava presagire un futuro di stabilità per il Paese che nello stesso anno, il 20 settembre, è entrato ufficialmente a far parte dell’Onu. Il primo Presidente del Ciad, eletto l’11 agosto del 1960, è stato François Tombalbaye che nel dopoguerra aveva fondato uno dei principali partiti ciadiani, il Partito Progressista del Ciad (Ppt). Le speranze del Paese furono presto deluse dal Governo di Tombalbaye, che si trasformò in una guida autoritaria. Solo due anni dopo la sua elezione, il Presidente aveva messo al bando tutti gli altri partiti politici attivi in Ciad e cominciato
una forte repressione contro quelli che considerava oppositori politici. Il malcontento nel Paese cresceva e in più di una occasione il Governo dovette sedare rivolte interne. Tensioni si registravano nel Nord del Paese, abitato da popoli di fede islamica ma anche al Sud dove le popolazioni erano cristiane e animiste. Nel 1966, nel confinante Sudan, venne fondato il Fronte Nazionale per la Liberazione del Ciad (Frolinat). Il gruppo di ribelli imbracciò le armi contro il Governo dando inizio ad una sanguinosa guerra civile, proseguita anche dopo il colpo di stato militare del 13 aprile del 1975, quando Tombalbaye venne ucciso e il generale Félix Malloum, capo della giunta militare, divenne il nuovo capo di Governo. Nell’impossibilità di annientare la guerriglia del Frolinat, nel 1978, Malloum decise di nominare primo Ministro il leader dei ribelli Hissène Habré. La convivenza dei due ai vertici del Paese durò poco. L’anno successivo le forze ribelli del Frolinat e l’esercito di Malloum si scontrarono apertamente nella capitale N’Djamena. Il generale golpista Malloum fu costretto alla fuga ma il Paese scivolò in una crisi interna ancora più profonda. La guerra civile coinvolgeva, oltre al Frolinat, numerose fazioni di ribelli e la situazio-
Quadro generale
Amani Hilal (1961)
Non c’è speranza per chi si oppone
Amnesty International denuncia costantemente gli abusi e le persecuzioni giudiziarie contro oppositori politici e giornalisti. Tra i casi segnalati merita attenzione la condanna a dure pene detentive e pesanti multe contro tre sindacalisti ed un giornalista accusati di incitamento all’odio razziale e diffamazione per aver diffuso il contenuto di una petizione pubblica in cui erano denunciati la cattiva gestione dei fondi pubblici e la corruzione di alcuni funzionari degli enti locali. Gali Ngote Gatta, deputato dell’opposizione, è stato arrestato e condannato ad un anno di prigione (nonostante l’immunità parlamentare) per corruzione e bracconaggio, poiché la polizia avrebbe sequestrato selvaggina a bordo della sua auto. Dopo alcuni giorni di detenzione, il parlamentare ha presentato ricorso e riconosciuto innocente. La magistratura troppo spesso si presta a trasformarsi nel braccio armato della legge al servizio di un regime dispotico. 55
Il più importante hotel di Khartoum (Sudan) ha ospitato nei mesi scorsi una cerimonia speciale: il quinto matrimonio tra il Presidente del Ciad Idriss Déby Itno e Amani che (a differenza del significato del nome, ovvero Pace) è la figlia di Musa Hilal, capo delle spietate milizie janjawid (i sanguinari “diavoli rossi”) che al soldo del Presidente sudanese El-Bashir diffondono morte, violenza e terrore in Darfur. La neo sposa ha negato di essere stata costretta a sposare il Presidente del Ciad. “Nessuno mi ha imposto questo matrimonio. Non siamo nell’età della pietra” ha dichiarato alla stampa locale. Il parterre degli invitati era sceltissimo, come si conviene ad un matrimonio di rango. Non mancava ovviamente il “padrone di casa”, ovvero Omar El-Bashir, Presidente del Sudan, ricercato dalla Corte Penale Internazionale dell’Aja per crimini contro l’umanità e genocidio in Darfur. Al sontuoso ricevimento c’era il nigeriano Ibrahim Gambari, capo della missione di pace in Darfur delle Nazioni Unite, che ha a lungo conversato piacevolmente con il ricercato El-Bashir. La dote versata da Idriss Déby per avere Amani in sposa è stata di 26milioni di dollari. Uno schiaffo alla miseria visto che il reddito pro capite annuo di un abitante del Ciad è di 851 dollari.
UNHCR/H.Caux
ne nel Paese era ormai fuori controllo. L’Onu intervenne e traghettò il Paese alla firma, nell’agosto del 1979, di un trattato di pace l’Accordo di Lagos - che permetteva la formazione di un Governo di transizione che avrebbe dovuto guidare il Paese alle elezioni politiche. A capo di questo Governo il Presidente Goukouni Oueddei, mentre Habré fu nominato ministro della Difesa. Dopo 18 di mesi la situazione era però immutata e gli scontri continuavano ad imperversare. Oueddei riuscì a conquistare il controllo della capitale ma per farlo chiese aiuto alla Libia che inviò le proprie truppe. Ancora grazie alla Libia nel 1983, l’esercito governativo sferrò un nuovo attacco contro le forze di Habré, che ottenne il sostegno delle forze francesi già presenti sul territorio. Nel 1984 la Francia e la Libia siglarono un accordo per ritirare le proprie truppe dal Ciad. Accordo che non fu però rispettato dalla Libia che mantenne i propri soldati nella striscia di Aouzou. Solo nel 1987 Ciad e Libia firmarono un cessate il fuoco, che rimase
I PROTAGONISTI
in vigore fino al 1988. Negli anni Ottanta la stabilità interna del Ciad è minata da una serie di colpi di stato. Nel 1990 un disertore dell’esercito di Habré, Idriss Déby riuscì con un golpe ad instaurare un nuovo Governo, di cui egli stesso divenne Presidente. Negli anni successivi altri tentativi di colpo di stato furono sferrati contro il Governo di Déby che è però tuttora in carica. Il Paese è ancora attraversato da violenti scontri tra le varie anime della guerriglia ciadiana, e l’instabilità è costantemente in aumento nonostante i tentativi del Presidente Déby di siglare trattati di pace con le fazioni ribelli. La situazione si è poi ulteriormente aggravata dal 2003, quando centinaia di rifugiati in fuga dalla Regione sudanese del Darfur, martoriata da un conflitto civile, hanno iniziato ad entrare in Ciad per sfuggire alle violenze. Il 23 dicembre del 2005, il Governo del Ciad ha dichiarato ufficialmente lo stato di guerra contro il Sudan. Alla base della decisione una lunga serie di violenti scontri lungo il confine tra i due Paesi ai danni delle popolazioni che abitano la frontiera. Nel 2010 i due Paesi hanno firmato un accordo di pace.
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2011 uscito nel giugno 2012 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DALLA COSTA D’AVORIO RIFUGIATI
154.824
PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI LIBERIA
128.067
GUINEA
6.380
TOGO
5.151
SFOLLATI PRESENTI NELLA COSTA D’AVORIO 126.668 RIFUGIATI ACCOLTI NELLA COSTA D’AVORIO RIFUGIATI
24.221
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI LIBERIA
23.650
Come mi mangio il guardiano
Il custode dei coccodrilli, conosciuto in tutta la Costa d’Avorio per la sua familiarità con i rettili, è stato ucciso dagli stessi coccodrilli a cui badava nel lago sacro della capitale Yamassoukrou. Dicko Toké ha dato da mangiare ai rettili per oltre trent’anni al Caiman Lake, creato artificialmente dal Presidente fondatore del Paese, Felix Houphouet-Boigny, nei primi anni ’80. Topké è stato ucciso dopo aver posato con i rettili per delle foto: era insieme a un gruppo di soldati pakistani dell’Onu. Dopo le fotografie, il custode ha tentato di allontanarsi dalla riva, ma è stato afferrato dal “capitano”, uno dei coccodrilli più grandi. Per lui non c’è stato nulla da fare e il corpo non è stato più trovato.
UNHCR/G. Gordon
A dieci anni dal mancato golpe contro l’allora Presidente Laurent Gbagbo, la Costa d’Avorio è ancora in attesa di pace e verità. Il 19 dicembre 2002 è una data che ha segnato per sempre la storia del Paese, trascinandolo in una crisi che ancora oggi non è terminata. La gente aspetta ancora la verità su quel giorno, sulla nascita della ribellione, su responsabilità esterne, ma soprattutto aspira alla pace e alla riconciliazione. In quell’anno ci fu anche la misteriosa morte del generale Robert Guei, capo di Stato tra il 1999 e il 2000. Il procuratore militare, Ange Kessi, all’inizio di settembre, ha annunciato la riapertura di un’inchiesta in seguito a una denuncia presentata dai familiari di Guei prima della prescrizione decennale. Nonostante la fine più di un anno fa del braccio di ferro elettorale tra Gbagbo e l’attuale Presidente Alassane Dramane Ouattara, negli ultimi mesi del 2012 si sono verificati pesanti attacchi ai danni delle popolazioni delle Regioni Occidentali, cuore produttivo del pregiato cacao da esportazione, e delle sedi militari governative. Scambi di accusa sono all’ordine del giorno tra sostenitori pro Ouattara e pro Gbagbo: i primi sospettano i secondi di voler destabilizzare la Costa d’Avorio dalla Liberia e dal Ghana, dove molti personaggi della vecchia guardia si sono rifugiati nel 2011. I sostenitori dell’ex Presidente Gbagbo – processato dalla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità – accusano invece il potere di attuare una “giustizia dei vincitori” e di perseguire il Fronte popolare ivoriano (Fpi), principale partito di opposizione. Intanto in Costa d’Avorio si contano ancora i morti. Un’inchiesta commissionata dal Presidente Ouattara sulle violenze commesse durante la crisi rivela che le forze armate regolari hanno ucciso più di 700 persone, mentre quelle dell’ex mandatario Gbagbo circa 1400. “La crisi ha dato luogo a massicce violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario internazionale”, ha detto Paulette Badjo, titolare della commissione nazionale d’inchiesta, al momento di consegnare a Ouattara il dossier che è costato
COSTA D’AVORIO
Generalità Nome completo:
Repubblica della Costa d’Avorio
Bandiera
57
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Francese (ufficiale), dioula, baoulé, bété, sénoufo
Capitale:
Yamoussoukro
Popolazione:
16.600.000
Area:
322.460 Kmq
Religioni:
Cristiana, musulmana
Moneta:
Franco CFA
Principali esportazioni:
Prodotti agricoli, diamanti, manganese, nichel, bauxite, oro
PIL pro capite:
Us 1.510
oltre un anno di lavoro e che raccoglie le testimonianze di 16mila persone. La Commissione accusa, inoltre, le forze non convenzionali che hanno preso parte ai combattimenti, come le milizie pro Gbagbo o i cacciatori “dozo”, sostenitori di Ouattara, di aver ucciso almeno 200 persone. La Nazioni Unite parlano di circa 3mila morti durante la crisi originata dal rifiuto di Gbagbo di ammettere la sconfitta alle urne nel novembre 2010 e conclusasi l’11 aprile 2011 dopo due settimane di guerra.
Sessanta diversi gruppi culturali, risorse infinite: le ragioni della guerra in Costa d’Avorio sono da ricercare nel controllo delle ricchezze del territorio, controllo che viene rivendicato dai diversi gruppi dirigenti facendo leva sull’appartenenza ad un clan. L’interdizione dalle cariche politiche delle popolazioni a sangue misto ha creato tensioni che non si assopiscono, innestate su un deficit democratico costante nella storia della Costa d’Avorio sin dall’indipendenza. Inoltre, l’economia del Paese, una delle migliori
del continente africano, dipende quasi interamente dall’esportazione delle materie prime e questo scatena da sempre gli interessi delle grandi aziende multinazionali, pronte a finanziare i diversi gruppi pur di assicurarsi - con la presa del potere - il controllo del mercato. Insomma, è un Paese diventato terreno di confronto per interessi esterni, con Francia, Stati Uniti e Cina a contendersi il ruolo di “partner” privilegiato.
Per cosa si combatte
Foto sediziose Chiusi i giornali
Il Consiglio nazionale della stampa (Cnp) ha sospeso sei quotidiani vicini all’ex Presidente Laurent Gbagbo per aver pubblicato fotografie e testi di natura tali da alimentare divisioni politiche. La notizia è stata diffusa dal sito d’informazione ivoriano “Abidjan. net”. Nella motivazione del Cnp, viene evidenziato come i giornali in questione “hanno pubblicato in quarta di copertina fotografie di Gbagbo e di personalità a lui vicine tutti in stato di detenzione ma con – in didascalia – le precedenti qualifiche da ministro”. Secondo la Cnp le didascalie fanno intuire che in Costa d’Avorio esistono due Governi: “Una scelta vicina alla sedizione che potrebbe far perdurare la crisi post elettorale”.
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UNHCR/G. Gordon
La Costa d’Avorio ottiene l’indipendenza nel 1960 grazie a uno dei padri della decolonizzazione, Felis Houphpuet-Boigny. Legato sia per il proprio passato politico sia per gli interessi economici alla Francia, Boigny garantisce al suo Paese uno sviluppo economico considerevole. Grazie a un programma di incentivi statali sostenuti anche da Parigi, Boigny porta la Costa d’Avorio a essere il primo esportatore mondiale
di cacao e il terzo di caffè. Per 20 anni l’economia del Paese cresce al ritmo del 10% all’anno, superata solo dall’economia dei grandi Paesi produttori di petrolio e diamanti. Boigny gode di enorme credito politico, cosa che gli permette di governare con pugno di ferro, senza permettere la nascita di partiti politici né, tanto meno, di organizzare elezioni libere. All’inizio degli anni ’80 crolla il prezzo del cacao e del caffè con ef-
Quadro generale
UNHCR/H. Caux
Robert Guei
(16 marzo 1941 19 settembre 2002) UNHCR/G. Gordon
Troppe guerre, niente scuole
Secondo i dati dell’Unicef sarebbero almeno 39milioni i bambini che non frequentano le scuole primarie a causa delle guerre che si combattono nel proprio Paese. Una delle situazioni più drammatiche è quella in cui versa la Costa d’Avorio dove oltre 800mila bambini non vanno a scuola ormai da mesi e vengono spesso reclutati per combattere da tutte le fazioni armate coinvolte nel conflitto. L’Unicef ha avviato diverse campagne per sensibilizzare la comunità internazionale su questo tema e molti passi avanti sono stati fatti negli ultimi mesi per garantire il diritto all’infanzia e all’istruzione dei bambini che vivono in zone di conflitto, ma serve ancora molto impegno e soprattutto risorse finanziarie per rispondere alle esigenze più pressanti: scuola, acqua e igiene, salute e nutrizione per i bambini. 59
Robert Guéï era un militare di carriera. E’ stato Capo di Stato della Costa d’Avorio tra il 1999 e il 2000 e le circostanze della sua morte, avvenuta nel 2002, non sono state ancora del tutto chiarite. E’ stato un fervente sostenitore dell’ex Presidente Félix HouphouëtBoigny che lo ha nominato capo delle forze armate nel 1990. Dopo la morte di Boigny e con l’avvento del nuovo Presidente ivoriano Henri Konan Bédié, i rapporti tra Guéï e la nuova leadership politica si sono raffreddati, tanto che il militare si rifiutò, nel 1995, di mobilitare le proprie truppe per intervenire in una scontro politico tra il Presidente e l’allora leader dell’opposizione Alassane Ouattara. Una scelta che lo costrinse a rassegnare le dimissioni dal suo incarico. E’ rimasto comunque un personaggio di spicco nella vita politica della Costa d’Avorio, ha fatto parte di un Forum per la Riconciliazione nel Paese e nelle elezioni del 2000 è stato battuto da Laurent Gbabo, ma non ha voluto riconoscere il risultato elettorale partecipando alle massicce proteste che miravano a destituire il neo eletto Presidente. E’ stato ucciso il 19 settembre del 2002 quando la guerra civile cominciava ad esplodere nel Paese. La sua morte viene attribuita alle forze leali al Presidente Gbabo.
fetti disastrosi sull’economia del Paese. Il debito estero triplica e cresce la criminalità, la stabilità del governo comincia a vacillare. Boigny, nel 1990, deve affrontare le prime proteste di piazza. Il Presidente risponde al malcontento attraverso la concessione di alcune libertà politiche, tra cui il multipartitismo. Le prime elezioni libere confermano alla guida del Paese il padre della patria. Boigny muore nel 1993 e viene sostituito da Henri Konan Bèdiè, che riesce a migliorare il quadro economico anche grazie a una svalutazione del 50% del franco Cfa, legato a quello francese e ora all’euro. La repressione del dissenso crea un forte malcontento che viene sfruttato, nel 1999, da un gruppo di militari capitanati dal generale Robert Guei, che rovescia Boèdiè e organizza le elezioni presidenziali. Le consultazioni del 2000 si svolgono in un’atmosfera pesantissima, caratterizzata da tentativi di brogli compiuti da Guei e dall’esclusione di Alssane Ouattara, principale
I PROTAGONISTI
candidato dell’opposizione, perché di sangue misto. La decisione scatena la rabbia dei musulmani del Nord. Dalle urne esce vincitore Laurent Gbagbo, principale oppositore di Boigny. Nel 2002 parte dell’esercito di ammutina e tenta di rovesciare il Presidente Gbagbo che resiste e il golpe si trasforma in una vera e propria guerra civile che spacca il Paese in due: il Nord controllato dai ribelli del Fronte Nuovo e il Sud sotto controllo del Governo. La Costa d’Avorio entra in uno stallo politico e istituzionale che paralizza il Paese. Nel 2003 vengono firmati accordi di pace che, tuttavia, rimangono sulla carta. Molti nodi costituzionali rimangono tali, soprattutto quelli che riguardano l’eleggibilità delle popolazioni di sangue misto. Il Paese rimane diviso in due. E i tentativi del Presidente di riprendere il potere sul territorio sotto controllo dei ribelli, manu militari, falliscono anche grazie alla forza di interposizione dell’Onu, 10mila uomini ancora presenti nel Paese, e ai contingenti francesi che controllano la zona di sicurezza al “confine” tra Nord e Sud del Paese. Le elezioni libere vengono continuamente rimandate, fino alle elezioni del novembre 2010 che hanno visto la vittoria di Ouattara.
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2011 uscito nel giugno 2012 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DALLA GUINEA BISSAU RIFUGIATI
1.123
RIFUGIATI ACCOLTI NELLA GUINEA BISSAU RIFUGIATI
7.800
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI SENEGAL
7.658
Ancora troppe donne mutilate
Nonostante l’approvazione di una legge che vieta nel Paese le mutilazioni genitali femminili (con sanzioni che prevedono pene carcerarie tra uno e cinque anni) in Guinea Bissau questa pratica illegale e barbara contro le donne non è stata ancora debellata. Nell’ottobre del 2012 i leader religiosi musulmani della Guinea Bissau hanno lanciato un appello contro le mutilazioni genitali femminili contenuto in un documento dal titolo “la dichiarazione di Bissau” sottolineando la necessità “di debellare totalmente questa pratica ancestrale”. Il documento è stato firmato al termine della Conferenza Islamica per l’abbandono delle mutilazioni genitali femminili, organizzata tra gli altri dal Consiglio Nazionale Islamico della GuineaBissau e delle Nazioni Unite. Nel mondo sono circa 140milioni le ragazze e le donne che hanno subito mutilazioni genitali, più di 3milioni sono a rischio in Africa e 320mila sono le vittime nella sola Guinea Bissau.
Il clima è rovente e anche la ricorrenza della raggiunta indipendenza dal Portogallo, 24 settembre 1974, non ha portato alcun beneficio in Guinea Bissau. Dopo il golpe del 12 aprile 2012, che ha destituito Raimundo Pereira, il Paese ha imboccato la strada della transizione affidata a Manuel Serifo Nhamadjo. Un cambiamento politico non riconosciuto da diversi partner internazionali, tra cui la Comunità dei Paesi di lingua portoghese (Cplp) e l’Unione Europea, che hanno sospeso la cooperazione allo sviluppo. Senza un appoggio di una parte della comunità internazionale la transizione procede con difficoltà e ciò si ripercuote inevitabilmente sulla gestione della normale amministrazione del Paese e nella vita quotidiana dei guineani. Permangono, insomma, le accese rivalità politiche e la crisi del sistema sociale si fa sempre più acuta. Un esempio. L’inizio del nuovo anno scolastico è stato subito interrotto da uno sciopero di 60 giorni indetto dai principali sindacati degli insegnanti del settore pubblico per protestare contro il mancato pagamento di 18 mesi di stipendi arretrati, che ha costretto gli scolari a rimanere a casa. Inoltre il vescovo di Bissau, monsignor José Camnate Na Bissign, ha denunciato la totale paralisi del settore sanitario, in particolare la carenza di farmaci contro la tubercolosi e aids, causata direttamente dall’isolamento politico e diplomatico del Paese. “Nessuno sa quanto durerà – ha detto il presule – ma chi pagherà le conseguenze di questa nuova crisi saranno, come sempre, i gruppi sociali più vulnerabili: ammalati, donne, bambini e anziani. Per evitare il peggio abbiamo bisogno che qualcuno ci aiuti ad attuare un piano di emergenza”. Il nuovo potere cerca di recuperare consenso politico, ma nemmeno gli incontri a margine dell’Assemblea generale dell’Onu sono serviti. Il Presidente Nhamadjo, con un pomposo annuncio, ha detto che nei “corridoi” del Palazzo di Vetro spiegherà “ al mondo intero le motivazioni che hanno portato al colpo di Stato”. La transizione, secondo un calendario che c’è da giurarci subirà ritardi, dovrebbe terminare con le elezioni generali previste per maggio 2013, ma il nodo fondamentale,
GUINEA BISSAU
Generalità Nome completo:
Repubblica di Guinea-Bissau
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Portoghese
Capitale:
Bissau
Popolazione:
1.345.479
Area:
36.120 Kmq
Religioni:
Animista (45%), musulmana (40%)
Moneta:
Franco CFA
Principali esportazioni:
Anacardo
PIL pro capite:
Us 736
che nessuno sembra voler sciogliere, rimane il traffico di droga. La Guinea Bissau, non a caso, è chiamata la “narconazione” proprio per i traffici di stupefacenti, in cui sono coinvolti, in prima persona, i vertici militari, ma contro questo stato delle cose nessuno protesta. E a nulla servono le bugie dei militari. Hanno spiegato che la ragione dell’ultimo colpo di stato è da ricercarsi in un complotto ordito dal Governo per favorire l’invasione del Paese da parte di una forza straniera, in particolare l’Angola. La ragione vera è il controllo del traffico di droga, che dalla Colombia passa in Guinea Bissau, prima di arrivare in Europa.
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La Guinea Bissau è un Paese in mano ai signori della droga. Anni di guerra civile non hanno fatto altro che rendere il lavoro dei narcotrafficanti più sicuro e tranquillo. Il Paese è nelle mani di pochi trafficanti di droga, con complicità dirette dell’esercito, e la popolazione è lasciata al suo destino. Qui la principale preoccupazione è quella di fare da ponte, da punto di smistamento del traffico della droga dall’America Latina, ma anche dall’Asia e dal Marocco, alle grandi piazze europee. La popolazione non ha a disposizione l’acqua e
da più di un quindicennio non c’è energia elettrica. Ora il Governo, con il contributo della Banca Mondiale, finanzierà un progetto di 2,5milioni di dollari per iniziare i lavori che dovrebbero garantire la corrente elettrica e l’acqua alla capitale. Militari e dipendenti pubblici non vengono pagati se non due o tre volte l’anno, con la differenza che per i militari spesso si muovono “interventi di emergenza” per pagare gli arretrati ed evitare, probabili, colpi di stato. Insomma la Guinea Bissau è la “terra di nessuno”.
Per cosa si combatte
La Guinea Bissau è stata colonia portoghese con il nome di Guinea portoghese sino al 1974 quando ottenne l’indipendenza. Ma è il 1956 l’anno della svolta. Nello stesso anno nasce una realtà che sarà protagonista della storia del Paese fino ai giorni nostri. Si tratta del Paigc, Partido Africano da Independencia de Guiné e Cabo Verde. Amilcar Cabral, scrittore e fondatore del partito. Ha guidato il Paese verso una rivolta culturale. Il processo, però, viene accompagnato da un periodo di guerriglia interno. Il partito e la guerriglia fanno loro il Paese in poco tempo, in primo luogo per le caratteristiche del territorio, grandi distese di foreste, e in secondo luogo
per il presunto appoggio di Cina, Unione Sovietica e altri stati africani che avrebbero fornito le armi ai guineani. Ma solo il 24 settembre 1973, con la firma di un accordo definitivo, si può dire libera dal Portogallo. Nel novembre dello stesso anno ottiene il riconoscimento ufficiale dell’Assemblea delle Nazioni Unite. Il governo viene affidato a Luis Cabral, fratello di Amilcar, che rimane al potere fino al 1980 quando un colpo di stato, da parte di Joao Bernardo Vieira, lo spodesta. Vieira rimane a capo del Paese fino al 1998, anno dell’inizio di una sanguinosa guerra civile. Il generale Absumane Manè si ribella alla sua deposizione da capo delle forze armate. La guerra
Quadro generale
Il presidente chiede aiuto
Ha chiesto l’aiuto della comunità internazionale il Presidente di transizione Manuel Serifo Nhamadjo, durante l’Assemblea generale dell’Onu. “La Guinea Bissau è finita al centro dei traffici internazionali di droga, ma da sola non è in grado di arginare la piaga” ha detto Nhamadjo che è alla guida del Paese dopo il colpo di stato del 12 aprile. Nhamadjo ha poi assicurato ai partner, di cui buona parte ha interrotto i rapporti con la Guinea Bissau, che “il mio Governo non risponde agli ordini dei militari” e che la transizione “si concluderà con elezioni generali” nel 2013.
Raimundo Pereira Raimundo Pereira è un uomo politico guineano, nato a Dar Salam nel 1955. Dopo gli studi ha intrapreso la carriera di avvocato, prima di dedicarsi perlopiù alla politica a partire dagli anni Duemila. Membro del Partito africano per l’indipendenza della Guinea e Capo Verde (Paigc), nel 2008 è stato eletto nell’Assemblea nazionale; ne è diventato il Presidente l’anno successivo. Sul finire del decennio, il clima politico e sociale del Paese si è fatto sempre più instabile, ma Pereira ha saputo rimanere una figura di riferimento e, dopo l’assassinio di Joao Bernardo Vieira (2009), è stato Presidente ad interim sino all’elezione di Malam Bacai Sanhá. La situazione in Guinea Bissau non è però migliorata, e nel gennaio del 2012 (dopo la morte di Sanhá) Pereira è stato chiamato a guidare nuovamente il Paese in attesa delle elezioni previste per la seconda metà dell’anno. Tuttavia, nell’aprile del 2012 Pereira è stato arrestato da un gruppo di militari insieme con il capo di Governo C. Gomes Júnior. Entrambi godono ancora del forte sostegno della Comunità dei Paesi di lingua portoghesi, a differenza del Presidente ad interim che attualmente guida il Paese.
Paese insicuro, niente affari
L’instabilità seguita al colpo di stato dell’aprile 2012 sta pesando e non poco anche sull’economia della Guinea Bissau. Il Paese è il quarto produttore di anacardi al mondo, un settore che garantisce occupazione all’80% della popolazione del Paese (1,6milione di persone) e le cui piantagioni ricoprono quasi la metà del territorio. Dopo il colpo di stato l’insicurezza e l’instabilità politica hanno penalizzato il settore e gli acquirenti stranieri sono più riluttanti a viaggiare e fare affari nel Paese. L’India poi, che degli anacardi era il principale importatore, ha aumentato di molto la propria produzione nazionale. Nel luglio del 2012 le esportazioni di anacardi della Guinea Bissau si sono letteralmente dimezzate, passando dalle oltre 120mila tonnellate del 2011 alle 60mila tonnellate del 2012.
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(Dar Salam, 1955)
civile dura un anno e pone fine alla dittatura di Vieira. Solo nel 1999, a febbraio, viene firmata la tregua e 11 mesi dopo i cittadini vengono chiamati alle urne per eleggere il nuovo Governo. Nel 2000 Kumba Lalà viene eletto Presidente. Ma la calma non dura a lungo. Appena tre anni dopo un nuovo colpo di stato
I PROTAGONISTI
porta all’arresto del Presidente considerato incapace di risolvere i problemi del Paese. Nel marzo 2004 si tengono nuove elezioni, ma il Paese non esce dallo stato di confusione in cui è piombato, tanto che nell’ottobre dello stesso anno l’esercito si ammutina. Nel 2005 ancora elezioni e Vieira torna al potere. Il 2 marzo 2009 viene assassinato. Il giorno prima viene ucciso il capo di stato maggiore Tagma Na Wai. Insomma un copione scritto.
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2011 uscito nel giugno 2012 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DALLA LIBERIA RIFUGIATI
66.780
PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI COSTA D’AVORIO
23.650
GHANA
11.295
GUINEA
9.972
RIFUGIATI ACCOLTI NELLA LIBERIA RIFUGIATI
128.293
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI COSTA D’AVORIO
128.067
Il giornale alla lavagna
In Liberia, con 400 dollari all’anno di reddito, avere una radio o una televisione è un lusso quasi inconcepibile. Sono davvero pochi quelli che possono permetterselo. Anche i giornali costano ed acquistarli non è da tutti. Così, è davvero difficile far circolare le informazioni tra la gente. Alfred Sirleaf ha trovato una soluzione, fondando un giornale innovativo, The Daily Talk. Alfred lo scrive ogni giorno su una lavagna nel centro della capitale Monrovia. Liberiano, nato e cresciuto a Monrovia, Alfred ha capito che solo con un gesto fantasioso avrebbe potuto tentare di informare al meglio i suoi concittandini, spesso all’oscuro di quanto accadeva attorno a loro. L’iniziativa sta avendo successo e pare qualche imitatore.
UNHCR/G. Gordon
Tensioni enormi, una guerra sempre latente, la pace garantita da forze multinazionali e una disoccupazione che sfiora l’85%: la Liberia del 2012 è questa. Ellen Johnson-Sirleaf, insignita nel 2011 del Premio Nobel per la Pace, è stata rieletta Presidente: un secondo mandato dopo quello del 2005. I problemi da affrontare restano enormi per un Paese che sino al 2003 ha vissuto una devastante guerra civile. Il reddito medio pro capite, nonostante sia cresciuto negli ultimi anni, non supera i 400 dollari al giorno e la Liberia è al quinto posto al mondo nella terribile graduatoria delle morti infantili. La Presidente si trova alle prese con problemi enormi, come la corruzione dilagante nelle amministrazioni e la svendita di intere porzioni di Paese ai privati. Le organizzazioni internazionali hanno denunciato il passaggio a proprietà privata di un quarto del territorio liberiano e del 40% delle aree boschive negli ultimi anni. Il tutto con pesanti ripercussioni sulla popolazione: per il legname, ad esempio, solo l’1% della ricchezza prodotta ricade in qualche modo sugli abitanti dell’area. Una situazione che crea difficoltà alla Presidente non solo sul fronte politico interno, ma anche su quello internazionale, dato che Onu e donatori vari hanno messo sul tavolo 30milioni di dollari per bloccare il fenomeno della deforestazione. Sullo sfondo, poi, è tornata in qualche modo a stagliarsi la figura del “grande male” liberiano: Charles Taylor, Capo dello Stato sino al 2003, condannato dalla giustizia internazionale a cinquant’anni di carcere per crimini di guerra e contro l’umanità. Stupri e assassini fra gli 11 capi di imputazione a carico di Taylor. Centinaia di migliaia di morti
LIBERIA
Generalità Nome completo:
Repubblica della Liberia
Bandiera
Lingue principali:
Inglese
Capitale:
Monrovia
Popolazione:
3.842.000
Area:
111.370 Kmq
Religioni:
Cristiana (66%), animista (19%), musulmana (15%)
Moneta:
Dollaro Liberiano
Principali esportazioni:
Cocco, caffè, legname, ferro, bauxite, oro, diamanti
PIL pro capite:
Us 1.033
sono il bilancio della guerra civile che l’ex Presidente liberiano avrebbe fomentato per mettere le mani sui preziosi diamanti della Sierra Leone. E’ la prima volta che un Capo di Stato viene condannato dalla giustizia internazionale, ma la cosa non ha fermato i suoi ancora troppi sostenitori e, soprattutto, la ex moglie, Jewel Howard Taylor, attualmente senatrice. Due giorni dopo la notizia – in aprile – della condanna del marito, ha annunciato di volersi candidare alla presidenza della Repubblica. Un’ipotesi che ha allarmato molti dalle parti di Monrovia.
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Le dittature di Samuel Kanyon Doe prima e di Charles Taylor poi, con i colpi di stato che li hanno portati al potere, sono la ragione vera della lunga guerra civile liberiana. I due dittatori hanno governato appoggiandosi a pochi elementi dei loro clan familiari, puntando poi allo scontro con gli Stati vicini per impadronirsi di risorse naturali e aumentare la loro ricchezza personale. La sollevazione di gruppi armati è motivata dal bisogno – per larga parte della popolazio-
ne – di reagire all’oppressione, al reclutamento forzato dei bambini soldato e all’assassinio indiscriminato di ogni oppositore. Gli accordi di Accra, che hanno portato all’attuale presidenza, sono stati firmati dalle fazioni ribelli puntando a un rinnovamento del Paese. Per ora tengono, pur con le tensioni create dal permanere in molte aeree della Liberia di gruppi armati pronti a scendere in campo.
Per cosa si combatte
66
UNHCR/G. Gordon
Poteva essere una storia di libertà e, invece, è stata una storia di sangue e di diamanti. Già il nome, Liberia, definisce una comunità di “liberi uomini di colore”. Una storia che inizia nel 1822 quando in questo territorio si installano i coloni afroamericani sotto il controllo dell’American Colonization Society. Una terra promessa che, tuttavia, doveva essere contesa agli indigeni che in quel luogo vivevano. Il nuovo stato aveva l’estensione delle terre controllate dalla comunità dei coloni e da coloro che ne erano stati assimilati. Gran parte della storia della Liberia è un continuo susseguirsi di scontri e tentativi, raramente coronati da successo, di una mino-
UNHCR/G. Gordon
ranza civilizzata di dominare una maggioranza considerata per tanti aspetti “inferiore”. Se all’inizio lo scontro è scandito dalla necessità di affermare un principio di civiltà contro un principio di inciviltà, così erano pensati gli uomini che vi abitavano, poi è diventato uno scontro per accaparrarsi i diamanti della vicina Sierra Leone. Negli ultimi vent’anni i focolai di conflitto hanno più volte ripreso vigore, sfociando in violenze e veri “stermini etnici”. La rivolta del 1989 ha messo fine alla violenta dittatura di Samuel Doe, preparando l’avvento dell’altrettanto sanguinaria era di Charles Taylor. Tra il 1992 e il 2002, con l’intento di conquistare
Quadro generale
Troppa carità troppa corruzione
La Liberia, uno dei Paesi più poveri del mondo, ha depositati in Svizzera 4,3miliardi di dollari. Lo ha rivelato la Banca Nazionale Svizzera (Snb), pubblicando i dati sui fondi segreti presenti nel sistema bancario elvetico. Si è scoperto così che 43 nazioni africane controllano oltre 16miliardi di dollari americani depositati in Svizzera, che corrisponde al 36% di tutti gli aiuti umanitari dati al continente nei quattro decenni scorsi. Durissimo il commento dell’economista zambiana Dambisa Moyo, autrice di “La carità che uccide”. Per lei da sempre gli aiuti che arrivano dai Paesi ricchi alimentano corruzione e ricchezze personali, senza risolvere i problemi delle popolazioni. “Gli aiuti, pensati per sostenere la popolazione, finiscono spesso per rimpinguare le casse dei burocrati”, ha scritto. La lista pubblicata dalla Svizzera sui conti correnti dei Paesi africani sembra darle ragione.
Radio Veritas (Monrovia 1997)
UNHCR/E.Compte Verdaguer
Cinquant’anni contro il terrore
Una pena esemplare per i militanti dei diritti umani, un evidente accanimento per la difesa: sia come sia, nel 2012 il Tribunale Speciale delle Nazioni Unite per la Sierra Leone ha condannato a cinquant’anni di carcere l’ex Presidente della Liberia, Charles Taylor. E’ una specie di record il suo: è il Primo Capo di Stato ad essere condannato dalla giustizia internazionale. Nel verdetto si legge che Taylor avrebbe “aiutato, incoraggiato e pianificato alcuni dei peggiori crimini della storia dell’umanità”. All’accusa che aveva richiesto una pena di 80 anni il capo del suo team legale, Courtenay Griffith, aveva risposto già alla vigilia con scetticismo. Una pena così pesante – dice in sostanza la difesa – equivale di fatto a un ergastolo e non farà che sottolineare agli occhi del mondo l’accanimento contro Charles Taylor. Opposta l’interpretazione dei militanti per diritti umani, che facendo eco a manifestazioni all’Aja e in Sierra Leone, parlano invece di pronunciamento modello. 67
Nell’ottobre del 2012, l’Arcivescovo cattolico di Monrovia, Lewis Ziegler, ha annunciato la fine delle trasmissioni di Radio Veritas. Motivazioni ufficiali: mancano fondi, impossibile comperare attrezzature e continuare l’attività. Fondata nel 1997, nel pieno della dittatura di Taylor, la radio cattolica era nota per le continue denunce sui casi di corruzione, sulla drammatica situazione femminile, educativa, sanitaria del Paese. Soprattuto, l’emittente non risparmiava critiche al Governo della Presidente Ellen Sirelaf sull’impunità garantita a molti signori della guerra del recente passato, diventati Senatori e Ministri. Per questa ragione, la radio era poco tollerata dal Governo, preoccupato per la crescente attenzione che la popolazione – la radio resta il miglior sistema di informazione in Africa – prestava ai servizi giornalistici. Insomma, nonostante la cautela dell’arcivescovo – che ha parlato di problemi tecnici e non politici alla base della chiusura – sono in molti a pensare che la fine delle trasmissioni sia dovuta alle pressioni del Governo. A confermare questi timori é la Direttrice di Radio Veritas, Ade Wede Kekukeh, che avrebbe spiegato che il Governo non ha concesso il rinnovo della licenza per le trasmissioni.
le miniere di diamanti della confinante Sierra Leone, Taylor appoggia il Revolutionary United Front (Ruf) di Foday Sankok. Al potere, Taylor, ci arriva nel 1997 dopo una lunga scia di sangue e di traffici loschi. A Monrovia instaura un regime di terrore. La polizia speciale liberiana, che fa capo direttamente al Presidente, non ha avuto pietà con gli ex oppositori del Movimento Unito di Liberazione (Ulimo): arrestati, torturati e uccisi a centinaia. Mentre il terrore vive a Monrovia, non cessano i conflitti interetnici e le lotte fra fazioni. I membri del Governo appartenenti alla famiglia di Taylor, intanto, non perdono occasione per dimostrare la loro incompetenza nel tentativo di rilanciare un’economia distrutta dalla guerra e che vede nel miraggio dei diamanti sierraleonesi una possibilità di rilancio che, però, non si materializza. È così che i vecchi sostenitori abbandonano Taylor che, nel 2003, guadagna l’esilio da “signore
I PROTAGONISTI
della guerra”. Un esilio offerto dalla Nigeria, ma Taylor giura: “Col volere di Dio, tornerò”. I liberiani si augurano, invece, che non torni mai più e che venga condannato per crimini di guerra e contro l’umanità dal Tribunale Internazionale. Tutto ciò pone fine ad un era sanguinaria: 200mila morti e un milione di profughi. La Liberia ha vissuto quattordici anni di guerra civile. Ci sono state devastazioni, distruzioni. Intere generazioni che hanno vissuto, convissuto e partecipato alla guerra. Bambini sono stati sottratti alla loro infanzia, per essere spediti nei campi di battaglia, drogati per renderli feroci e incoscienti. Menti e vite sono state distrutte e ora debbono essere ricostruite. Con gli accordi di Accra (2003) nasce il Governo guidato da Jyude Bryant, che regge due anni grazie all’appoggio degli Usa e alla presenza di una forza multinazionale a mandato Onu composta da 15mila caschi blu. Nel 2005 la Liberia comincia a intravedere una nuova luce con l’elezione della prima donna Presidente in Africa, Ellen Johnson Sirleaf, che nel 2011 riceve prima il Nobel per la Pace e poi viene rieletta per un secondo mandato.
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2011 uscito nel giugno 2012 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DALLA LIBIA RIFUGIATI
4.384
SFOLLATI PRESENTI NELLA LIBIA 93.565 RIFUGIATI ACCOLTI NELLA LIBIA RIFUGIATI
10.130
Arresto Saif Gheddafi
Saif Gheddafi, detto Saif Al-Islam, è il secondogenito del dittatore libico Muammar Gheddafi. Laureato in architettura, è stato fondatore e Presidente della Gaddafi International Foundation for Charity Associations oltre a controllare il settore delle telecomunicazione durante il Governo della Jamahiriya fino al 2009. Dopo avere lottato a fianco del padre durante la guerra civile, ha assunto il controllo della resistenza contro i ribelli alla morte del Rais. Il 19 novembre 2011 viene arrestato durante la sua fuga atta a organizzare l’offensiva contro il nuovo Governo di transizione, presso il confine tra Libia e Niger. Viene trasferito immediatamente a Zintan, dove tuttora è tenuto in stato di isolamento. Saif è stato consegnato al popolo libico e verrà processato nel Paese e non dalla Corte Internazionale dell’Aja.
Fabio Bucciarelli
La Libia post-Gheddafi, la nuova Libia. Dal 1969 al 2011, sgretolata dagli Shabaab e dalle bombe Nato, termina la Jamahiriya e la quarantennale dittatura di Mu’ammar Gheddafi. La libertà dal giogo del Rais è stata pagata con una guerra civile con più di 30000 morti e 50000 feriti. Oramai è scritto nei libri di storia: il 20 ottobre 2011 viene catturato ed ucciso il dittatore. I libici esultano nelle piazze centrali, grandi spazi che il sangue dei ribelli ha rinominato Freedom Square e Marthir Square. Il 19 Novembre, nei pressi di Obari nel Sud della Libia, viene arrestato anche l’ultimo erede della famiglia Gheddafi, il secondogenito del Rais, Saif Gheddafi detto al-Islam, designato suo successore. Il destino della nuova Libia viene messo nelle mani del Cnt, il Consiglio Nazionale di Transizione, organo politico nato durante le prime fasi del conflitto, ma riconosciuto ufficialmente dall’Assemblea Generale dell’Onu solo il 16 settembre 2011. Senza perdere ulteriore tempo il Cnt e la comunità internazionale lavorano insieme alla ripresa della produzione del greggio e gas naturale, necessaria per garantire le risorse finanziarie per gestire la complessa transizione politica. L’industria energetica libica riprende la produzione. A poco più di tre mesi dalla caduta del regime la quantità totale di greggio raggiunge 1,3milioni di barili, circa il 90% rispetto ai livelli pre-conflitto. Nonostante la rapida ripresa energetica, non mancano le tensioni fra i diversi gruppi paramilitari che durante la rivoluzione, approfittando dell’assenza di un potere centralizzato, hanno rafforzato il loro potere sul territorio. Ora al Cnt tocca organizzare libere elezioni e redigere una nuova costituzione. Se per quasi mezzo secolo la Libia ha avuto le sembianze del volto di Gheddafi, la situazione pre-elettorale risulta una babele di nuovi volti. La Coalizione delle Forze Nazionali capeggiata da Jibril, vince le elezioni conquistando 39 degli 80 seggi riservati ai partiti. In contrasto con gli altri Paesi scossi dalla Primavera Araba, in Libia l’Alleanza moderataliberale sconfigge il ramo politico appartenente ai Fratelli Musulmani. Nonostante gli sforzi della Coalizione delle Forze Nazionali, la società beduina libica rimane frantumata in clan e tribù armate fino ai denti, dove le incursioni dei superstiti sostenitori di Gheddafi e le infiltrazioni terroristiche di al-Qaeda cercano
LIBIA
Generalità Nome completo:
Repubblica di Libia
Bandiera
Lingue principali:
Arabo
Capitale:
Tripoli
Popolazione:
6.120.585 (2008)
Area:
1.759.840 Kmq
Religioni:
Musulmana (97%), Cristiani (3%)
Moneta:
Dinaro libico
Principali esportazioni:
Petrolio, gas naturale
PIL pro capite:
Us 13.805
di deviare il cammino verso la democrazia. Ad undici anni dalla caduta delle Torri Gemelle, un gruppo di dubbi manifestanti, apparentemente come segno di protesta a un film offensivo nei confronti di Maometto, hanno attaccato il Consolato Usa di Bengasi uccidendo l’ambasciatore americano Christopher Stevens e tre funzionari della sede diplomatica. Dura la reazione degli Stati Uniti che hanno deciso di inviare 200 marines e droni diretti ai campi di addestramento jihadisti. Mentre la nuova Libia si prepara a festeggiare il primo anniversario dalla fine della dittatura, il suo popolo continua il lungo cammino pieno di insidie verso uno stato democratico.
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Si è combattuto per il controllo del potere, in Libia, nel 2011, con la volontà di abbattere un regime fondato sull’appartenenza tribale e sul clan famigliare. La famiglia Gheddafi controllava direttamente o attraverso amici, l’intera macchina economica della Libia, soprattutto per quanto riguarda il petrolio. E decideva con chi fare affari in modo rigido. Il meccanismo si
è rotto e ora l’intero pacchetto del controllo dei giacimenti – prima in buona parte italiani – verrà riduscusso, con nuove alleanze internazionali alle porte. Francia e Inghilterra, grandi sponsor della rivoluzione, saranno in prima fila, a discapito dell’Italia, forse troppo amica del Colonnello in passato.
Per cosa si combatte
Prime elezioni dopo la guerra
dopo 42 anni di dittatura, nel 2012 sono state indette le prime elezioni libere dell’era postGheddafi. Annunciate prima il 19 giugno, poi spostate al 7 luglio, le elezioni politiche in Libia hanno portato alla vittoria il partito moderato-liberale di Muhmud Jibril. Il trend dei Paesi attraversati dalla Primavera Araba, dove le elezione post-rivoluzione hanno proclamato i Fratelli Musulmani come prima forza politica, è stato quindi spezzato dalla vittoria di un partito moderato-liberale. Mohmud Jibril, leader della Coalizione delle Forze Nazionali, diventa il primo uomo chiave della nuova epoca. La strada verso la democrazia in Libia non passa attraverso l’Islam.
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Fabio Bucciarelli
Fabio Bucciarelli
Ex colonia italiana, la Libia, come entità statale, è un’invenzione recente, legata proprio al dominio italiano nella prima metà del ‘900. La presenza italiana in quella che allora si chiamava Tripolitania risale all’800, ma il primo studio pratico di un piano di occupazione fu sviluppato solo nel 1885, in corrispondenza con quella di Beilul e Massaua in Eritrea. È nel 1911, con la Guerra Italo-Turca (28 settembre 1911-18 ottobre 1912), che inizia il dominio italiano sulla regione. Il 18 ottobre 1912 le due potenze siglano, attraverso il Trattato di Losanna, il passaggio della Regione (Cirenaica
e Tripolitania) dall’Impero Ottomano a Roma. Nasce la Libia italiana. Ma la popolazione autoctona da subito filo da torcere ai soldati italiani: leader della resistenza è Omar al Mukhtar. Nel 1931 la svolta: al Mukhtar viene arrestato. Dopo un processo farsa, il 16 di settembre dello stesso anno il vecchio ribelle libico viene impiccato poco fuori Bengasi. Tre anni dopo, nel 1934, viene istituito il Governatorato Generale della Libia (Tripolitania e Cirenaica). Primo governatore è Italo Balbo. Nel 1937 la Libia italiana viene divisa in quattro province: Tripoli, Misurata, Derna e Bengasi. Il Fezzan è compre-
Quadro generale
Mohmud Jibril
(Beni Walid, 28 Maggio 1952) Fabio Bucciarelli
Il film blasfemo ‘Innocence of Muslim’
11 Settembre del 2012, un gruppo di manifestanti ha attaccato il consolato americano di Bengasi uccidendo quattro funzionari americani tra cui l’ambasciatore Christopher Stevens. Le fonti ufficiali considerano l’attacco terroristico una reazione al trailer del film Innocence of Muslim. Secondo altre, l’attacco sarebbe una vendetta di al-Qaeda all’uccisione del numero 2 dell’organizzazione terroristica, Abu Yahya al –Libi. Le manifestazioni, cominciate in Egitto, sono dilagate in tutto il mondo islamico ed hanno provocato vittime e scontri in Africa, Medio Oriente e Asia. Il regista del film, Nakoula Basseley Nakoula, di origine egiziana e fede cristiano copta, ha dichiarato più volte il suo odio verso l’Islam. Il Presidente Americano Barack Obama promette giustizia, dichiarando che gli Stati Uniti non si ritireranno di fronte alla violenza. Bisogna sottolineare che, nonostante i violenti scontri, i gruppi islamici che hanno messo a fuoco i diversi Paesi, sono meno dell’ 1% della popolazione di fede Musulmana.
so nel ‘Territorio Militare del Sud’. Durante la II Guerra Mondiale il territorio viene occupato dalle truppe alleate: è il 1943. Con il Trattato di Pace del 1947, il Paese viene diviso in due amministrazioni: Tripolitania e Cirenaica sotto gli inglesi e Fezzan alla Francia. Nel 1951 arriva l’indipendenza. La Libia è il primo Paese africano a liberarsi dal giogo colonialista. Re Idriss I sale al potere. Sarà il primo e l’unico re di Libia. Nel 1969, in settembre, infatti, il giovane ufficiale Muhammar Gheddafi attua un incruento colpo di stato, insieme ad altri ufficiali. In quello stesso anno, Gheddafi allontana gli inglesi dal Paese, chiudendo tutte le loro basi militari. L’anno successivo, confisca i beni ai tanti italiani che ancora sono in Libia e li caccia, aprendo un lungo contenzioso sui danni portati dal colonialismo italiano.
I PROTAGONISTI
Nel 1975 Gheddafi pubblica il Libro Verde, il suo pensiero politico alternativo tra comunismo e liberalismo, una sorta di mix tra socialismo reale e democrazia ateniese, mescolato con gli interessi tribali, gestito dai ‘Comitati popolari’ organismi di base della volontà popolare. Nel frattempo, viene accusato di finanziare i gruppi terroristici internazionali e gli Stati Uniti lo dichiarano nemico numero uno, tentando più volte di ucciderlo, con bombardamenti aerei (1986) e attentati. Lui, continua ad arrestare e far sparire gli oppositori, inseguendoli e uccidendoli anche all’estero. Negli anni ‘90, dopo la prima guerra del Golfo (1991), inizia un lento avvicinamento all’Europa e agli Stati Uniti, operazione che sfocia nella ripresa delle relazioni diplomatiche con Washington e con la ripresa degli affari con il Vecchio Continente. Nulla sembra turbare il regime, sino alla primavera del 2011, quando le rivolte popolare di Egitto, Tunisia e altri Paesi islamici danno fiato ad una opposizione interna che sembrava sconfitta.
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Appartenente alla tribù Warfalla, la più grande fra le tribù libiche, Jibril nel 1980 ha frequentato un master in scienze politiche in Pennsylvania, dopo essersi laureato in economia all’università del Cairo. Jibril è il primo politico del dopoGheddafi riconosciuto dalla maggioranza del Consiglio delle Nazioni Unite. Durante la guerra civile, il 23 Marzo 2011, è stato nominato primo Ministro ad Interim dal Consiglio Nazionale di Transizione. Durante gli ultimi sette mesi di guerra civile, Jibril ha unificato i ribelli sotto la bandiera della rivoluzione per poi lasciare il mandato di ministro ad Interim a Ali Tarhuni e candidarsi alle elezioni politiche come leader dell’Alleanza delle Forze Nazionali. Il suo partito, considerato di spirito moderato-liberale vince prendendo il 48,8% dei voti; seguito da Giustizia e Sviluppo dei Fratelli Musulmani con il 21,3% dei voti. Diversamente dal vicino grande Egitto e la cordiale Tunisia, in Libia viene dato il compito di ricostruire il Paese scosso dalla Primavera Araba ad un partito di matrice liberale.
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2011 uscito nel giugno 2012 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DAL MALI RIFUGIATI
4.295
RIFUGIATI ACCOLTI NEL MALI RIFUGIATI
15.624
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI MAURITANIA
12.442
Ecowas sono in 16
La Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale, Ecowas in inglese (Economic Community of West African States) o Cedeao in francese: (Communauté Économique des États de l’Afrique de l’Ouest ) è un accordo economico al quale aderiscono 16 stati dell’Africa Occidentale dal 1975. Le nazioni dell’Ecowas hanno firmato un protocollo di non aggressione nel 1990, nonché uno di assistenza difensiva reciproca che consente la creazione di Forze Armate Alleate della Comunità. Sono membri dell’Ecowas: il Benin, il Burkina Faso, Capo Verde, la Costa d’Avorio, il Gambia, il Ghana, la Guinea, la Guinea Bissau, la Liberia, il Mali, il Niger, la Nigeria, il Senegal, la Sierra Leone e il Togo.
UNHCR/H. Caux
Fonti diplomatiche sostengono che l’intervento militare delle forze panafricane non inizierà prima del gennaio 2013. Di certo nell’Azawad, lo stato autoproclamatosi indipendente dal Mali nell’aprile 2012 ma non riconosciuto dalla Comunità internazionale, le forze islamiste di Ansar Dine, un tempo federate coi nazionalisti Tuareg dell’Mnla, hanno preso il controllo della situazione emarginando i vecchi alleati. Tanto basta perché Francia e Stati Uniti, consapevoli del pericolo di un Sahel sotto il giogo di forze islamiste radicali, abbiano predisposto contromosse più militari che politiche. Dalla primavera scorsa milioni di dollari hanno continuato a rafforzare l’esercito del Mali, in primo luogo, ma anche del Niger e della Mauritania. La stampa americana durante l’estate ha dato notizia, non smentita, di esercitazioni militari svolte in Guinea e in Gambia. I consiglieri militari di Washington e di Parigi (l’ex potenza coloniale) si sono quindi installati nelle diverse capitali della regione con compiti di consulenza e di addestramento. Le basi aeree del Burkina Faso, che si affaccia sul Nord del Mali, servono invece da base ai droni Usa, i famosi aerei senza pilota usati nel conflitto afghano e libico. Ban Ki-Moon in settembre ha ricevuto dal premier ad interim del Mali, Diocounda Traoré, una lettera di richiesta d’aiuto che ha prontamente girato al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Vista la scarsa preparazione dell’esercito maliano, rapidamente sconfitto negli scontri con i ribelli Tuareg, circa tremila uomini si stanno radunando nella capitale Bamako: i contingenti sono messi a disposizione dalla Costa d’Avorio, dalla Nigeria (impegnata a fronteggiare la minaccia interna della setta Boko Haram) e dal Burkina Faso, lo stato che rappresenta geograficamente la porta verso il Nord del Mali. Le operazioni militari, che il Presidente francese François Hollande durante l’ultima visita a New York ha auspicato imminenti, si svolgeranno quindi sot-
MALI
Generalità Nome completo:
Repubblica del Mali
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Francese
Capitale:
Bamako
Popolazione:
14.517.176
Area:
1.240.142 Kmq
Religioni:
Musulmana (80%), animisti (18%) e altre (2%).
Moneta:
Franco CFA
Principali esportazioni:
n.d.
PIL pro capite:
Us 1.252
to la bandiera dell’Ecowas (La Comunità Economia degli Stati dell’Africa Occidentale) già protagonista della mediazione politica che ha portato Diocounda Traoré al potere dopo il colpo di stato che aveva estromesso il contestato Presidente in carica (Amadou Toumani Touré). Ban Ki-Moon ha nominato contestualmente Romano Prodi come rappresentante dell’Onu per il Sahel, con lo scopo di dare la parola alla politica appena il fuoco delle armi si sarà placato. La crisi maliana, dal principio della rivolta Tuareg del gennaio 2012, ha sinora provocato oltre 400mila profughi, principalmente rifugiatisi in Mauritania e in Burkina Faso.
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Si combatte per restituire al Mali la propria integrità territoriale dopo la proclamazione nell’aprile 2012 da parte dell’Mnla dell’indipendenza dell’Azawad, terra che prende il nome da un’espressione berbera per indicare il letto arido di un fiume che attraversa il Niger, il Nord del Mali e il Sud dell’Algeria. L’Mnla (Movimento Nazionale per la liberazione dell’Azawad), alleato con gli islamisti di Ansar Dine, ha condotto una guerra d‘indipendenza che da una parte si è inserita in una lunga tradizione di rivolte tuareg e dall’altra si ricollega alle recenti ostilità libiche che hanno visto la tribù nomade combattere al fianco di Gheddafi e conservare, alla fine del conflitto, ingenti disponibilità d’armi. Le note capacità guerriere dei tuareg e le mire egemoniche degli islamisti
loro alleati, unitamente alla debolezza militare delle truppe regolari maliane, sono stati gli ingredienti che hanno fatto rapidamente virare le sorti delle ostilità a favore dei ribelli, capaci appunto di conquistare il Nord del Mali proclamandone unilateralmente l’indipendenza. Oggi a Bamako si stanno quindi radunando i contingenti militari provenienti dagli stati limitrofi per una spedizione bellica che, oltre all’integrità territoriale, intende contrastare l’avanzata del fondamentalismo islamico, dal momento che i rapporti di forza tra Mnla e Ansar Dine si sono rapidamente capovolti a favore di quest’ultima, con la conseguente applicazione indiscriminata della Shari’a su tutto il Nord del Paese.
Per cosa si combatte
Il conflitto in Mali, e l’imminente operazione militare panafricana sotto bandiera Ecowas per restituire al Paese la propria integrità territoriale, può essere inquadrata come la più recente, e a questo punto principale dal punto di vista storico, delle ribellioni tuareg. Quella del 2012 è, infatti, solo l’ultima sollevazione della Tribù, le cui turbolenze o richieste di autonomia da qualsivoglia autorità centrale corrono indietro nel tempo sino agli inizi del secolo scorso, con momenti di grande tensione come nel 1911, 1962, 1990 e 2007. La crisi che ha il suo epicentro in Mali è in realtà quella di un’intera Regione, il Sahel. Con ragionevole certezza si può infatti ritenere che il conflitto nel Sub-Sahara scatenato dalle forze islamiste influenzerà i futuri equilibri del continente africano se è vero, come la cartina geografica rivela, che il controllo del Sahel significherà in potenza l’apertura di due direttrici, o due teste di ponte se si preferisce, verso il Maghreb e verso l’Africa Centroccidentale dove la Nigeria, il più popoloso Stato africano, è ormai da qualche anno sotto la persistente minaccia di una destabilizzazione a matrice islamista. Lo scenario, partendo dalla crisi maliana, potrebbe quindi rapidamente evolvere in crisi regionale se i fondamentalisti di Ansar Dine – che alleatisi con le tribù tuareg dall’aprile scorso hanno preso il controllo
del Mali settentrionale ribattezzandolo Azawad – dovessero stabilizzare il loro potere, perché questo galvanizzerebbe, oltre a dare appoggio logistico, la rete di Aqmi (al-Qaeda per il Maghreb) e quella di Boko Haram (la setta nigeriana). Il risultato sarebbe un’enorme fascia di territorio, dal Mediterraneo sino al golfo di Guinea, costretta a gravitare nell’orbita oscurantista della shari’a. Le truppe dell’Ecowas (composte da Mali, Burkina Faso, Costa d’Avorio e Nigeria) conteranno circa tremila uomini. L’intervento panafricano deve porre rimedio a un duplice problema:
Quadro generale
Profughi e povertà
Il conflitto in Mali ha provocato un’emergenza profughi di vaste dimensioni, che si è aggiunta alla già grave carestia alimentare che dai primi mesi del 2012 affliggeva tutto il Sahel. Inoltre il Mali, a discapito di una recente ripresa economica, rimane uno dei Paesi più poveri al mondo: infatti nel 2011, prima dell’inizio del conflitto, era al 175° posto su 187 per Indice di Sviluppo Umano. Oltre metà della sua popolazione vive con poco più di un dollaro al giorno. I circa 400mila profughi, principalmente di etnia Tuareg si trovano, secondo stime ufficiali, in Mauritania (108953), in Burkina Faso (61500), in Niger (35mila) e nello stesso Mali del sud (175mila).
Federica Miglio
Ansar Dine
UNHCR/H. Caux
Arte e storia distrutte dalla guerra
Timbuctù è nota come “la città dei 333 santi”, e nei secoli è stata un centro di grande fermento religioso. Anche per questo gli islamisti di Ansar Dine, seguendo probabilmente l’esempio dei talebani che nel 2001 distrussero con l’esplosivo i due Budda giganti di Bamiyan scolpiti nella roccia (un capolavoro del sesto secolo dopo Cristo), hanno abbattuto in giugno il mausoleo di argilla dello sceicco sufista Mahmoud Ben Amar. Il mausoleo, come quelli di altri due santi sufisti ugualmente sfregiati, e come Timbuctù stessa, era stato dichiarato dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Anche la porta sacra della moschea Sidi Yahiya, chiusa da oltre cinquecento anni, è stata demolita a colpi di piccone verso la fine di ottobre perché colpevole d’istigare l’idolatria. Tutti i mausolei della città, ha fatto sapere un portavoce di Ansar Dine, verranno immancabilmente rasi al suolo.
quello della sovranità territoriale e quello del conflitto religioso; dovrà insomma cercare di sradicare dal Nord Ansar Dine, che ormai controlla i principali capoluoghi, su tutti Timbuctù. Qui l’avvento dell’ortodossia islamista ha una precisa valenza simbolica, perché mortifica la tradizione sincretistica della città: un luogo che nei secoli si è distinto come centro d’interscambio culturale tra il ceppo afro e il ceppo arabo. Ormai è palese come il Nord del Mali sia divenuto la calamita transnazionale del combattente islamico. In questo senso il fondamentalismo nel Sahel presenta attinenze con lo scenario afgano, ma anche con quello somalo. Il Mali infatti accoglie oggi esperti terroristi da diverse nazioni come a suo tempo fece l’Afghanistan in lotta contro l’occupazione sovietica, il cui territorio fu la terra promessa dei mujaheddin di diverse aree geografiche, primo fra tutti il saudita Osama bin Laden. Il modello afgano lascia però il campo a quello
I PROTAGONISTI
somalo quando si prende in considerazione la morfologia del territorio: alle montagne dell’Uruzgan si sono sostituite le distese del Sahara. Se in Somalia abbiamo assistito all’esperienza parcellizzata delle corti islamiche, nel Sahel operano oggi diverse formazioni, alcune delle quali tendono poi a fondersi in nuove sigle, con complesse oscillazioni nella catena di comando. Attualmente il quadro dell’Azawad comprende, per quanto è dato capire, i già citati Mnla e Ansar Dine in primo piano, ma anche l’Aqmi (di matrice algerina ma ramificata in tutto il Maghreb e il Sahel), e infine Mujao (gli islamisti mauritani) sullo sfondo. I fondamentalisti tendono inoltre a destabilizzare i paesi limitrofi al Mali, con significative infiltrazioni nel tessuto sociale. In Niger sei cittadini francesi sono stati rapiti e destinati nel Nord maliano (dove si trovava anche Rossella Urru, rapita in Algeria). Gli islamisti minacciano l’esecuzione degli ostaggi se le truppe panafricane dovessero attaccare l’Azawad, una minaccia che tuttavia non sembra fermare i venti di guerra.
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Il fondamentalismo in Mali porta il nome del gruppo Ansar Dine: “I difensori della Fede”. Il suo leader è Iyad Ag Ghaly, già capo della rivolta Tuareg del 1990. Ansar Dine ha rivendicato la sua prima azione nel marzo del 2012 e un mese dopo, affiancando in ruolo subalterno l’Mnla di matrice Tuareg, ha conquistato il Nord del Mali. In pochi mesi ha ribaltato i rapporti di forza nell’autoproclamato stato dell’Azawad, imponendo con la forza la legge islamica a tutta la Regione. La battaglia decisiva si è svolta a fine giugno a Gao, tra Ansar Dine e Mujao da una parte e Mnla dall’altra, ed è culminata con la vittoria degli islamisti e il conseguente annuncio del controllo teocratico di tutta la Regione. Il gruppo ha legami importanti con Aqmi (al-Qaeda per il Maghreb islamico), mentre si pensa che da una sua costola sia nato il Mujao (Movimento per l’Unicità della Jihad in Africa Occidentale). Ansar Dine controlla i principali centri del Nord, come Gao, Kidal e naturalmente Timbuctù. Qui, oltre ai tipici fenomeni riconducibili alla Shari’a, quali l’imposizione del velo alle donne e la proibizione della musica e del ballo, il gruppo ha distrutto anche importanti monumenti, considerati dall’Unesco patrimonio mondiale, perché portatori d’idolatria.
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2011 uscito nel giugno 2012 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DALLA NIGERIA RIFUGIATI
17.141
RIFUGIATI ACCOLTI NELLA NIGERIA RIFUGIATI
8.806
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI LIBERIA
5.299
Il Paese dei paradossi
La Nigeria in cifre presenta una situazione pesantissima, tanto da farne il Paese dei paradossi. (il Paese è l’ottavo produttore di petrolio al mondo e il primo in Africa, mentre nel continente è preceduto solo dalla Libia per riserve di greggio). Pur essendo all’ottavo posto fra i maggiori produttori di greggio al mondo, importa la quasi totalità dei carburanti di cui ha bisogno. E pur presentando un Pil pro capite abbastanza elevato rispetto a tanti Paesi africani (2600 dollari l’anno), sette nigeriani su dieci vivono sotto la soglia di povertà. Nonostante i tassi di crescita elevati, fra il 2003 e il 2010 sempre intorno al 7%, il Nord del Paese e il Delta del Niger (quella petrolifera) rimangono profondamente sottosviluppate. L’aspettativa di vita nel Paese è di 52 anni, una delle più basse del mondo, un terzo della popolazione è analfabeta, il 40% non ha accesso a servizi sanitari adeguati e il 36% non ha acqua potabile. Infine, la mortalità infantile sotto i cinque anni è al livello record del 138 per mille.
Il Biafra ci riprova
C’è chi nel Biafra continua a sognare l’indipendenza. Dopo 45 anni dalla Guerra del Biafra (che costò la vita, fra il 1967 e il 1970, ad almeno un milione di persone), nella Regione alcune centinaia di manifestanti sono scesI in piazza. Si tratta dei membri del Biafran Zionist Movement (Bzm), che hanno proclamato l’indipendenza, sventolando bandiere rosso-neroverdi. L’allegra rimpatriata era stata convocata per domenica 4 novembre 2012, per celebrare la nascita del leader del Biafra, Chukwuemeka Ojukwu, morto lo scorso anno. Gli indipendentisti hanno cantato inni pro-Biafra e ballato per un’ora, poi si sono diretti al principale mercato di Enugu, la principale città della Regione. La marcia è durata poco: sono arrivate 25 camionette della polizia, in tenuta antisommossa. Risultato: 385 manifestanti portati in caserma, 115 arrestati.
La Nigeria continua a essere una polveriera sociale. La questione più grave resta il terrorismo di Boko Haram, ma non è certo l’unico problema che ha caratterizzato la vita del gigante africano: scontri e proteste hanno scosso il Paese durante tutto il 2012. La causa profonda delle tensioni sociali che attraversano la Nigeria rimane l’estrema povertà in cui versa la stragrande maggioranza (il 70%) della popolazione, a fronte dell’oligarchia di ricchissimi, costituita da uomini politici, alti vertici dell’esercito (hanno guidato il Paese fino al 1999), e una ristretta cerchia di businessman. Emblematica la vicenda che ha inaugurato il 2012: a gennaio la decisione governativa di ridurre i sussidi sui carburanti (che ne avrebbero raddoppiato il prezzo, da 65 a 141 naira, da 35 a 75 centesimi di euro al litro) ha provocato una settimana di proteste, scioperi generali, scontri fra esercito e manifestanti (con decine di vittime), paralizzando l’intero Paese. Il Presidente, Goodluck Johnson, alla fine ha dovuto fare una parziale marcia indietro riportando il prezzo a 97 naira, circa 47 centesimi di euro. Tutta la vita del Paese di fatto ruota attorno al petrolio. Mentre è in cantiere un provvedimento che dovrebbe riformare profondamente l’intera industria estrattiva (e tentare di eliminare sprechi e corruzione), la Nigeria nel 2012 ha raggiunto la produzione record di 2,7milioni di barili al giorno, e la media annua di 2,46milioni di barili. Ma il Paese detiene anche il primato negativo del petrolio perduto: i furti, effettuati forando gli oleodotti, sottraggono secondo il Governo 150mila barili al giorno per un mancato introito di 7miliardi di dollari. Tuttavia, le associazioni di tutela dei diritti umani imputano anche alle compagnie petrolifere parte delle dispersioni di greggio, per la scarsa cura e manutenzione degli impianti. Gli episodi di fuoriuscita di greggio, in effetti, sono frequenti. La compagnia Mpn (della Exxon Mobile), che gestisce 90 piattaforme off-shore, nel novembre 2012 ha dovuto prodigarsi per contrastare una grossa dispersione (almeno 100 barili) da un oleodotto sottomarino, nelle acque dello Stato di Akwa Ibomn. Si è trattato del terzo incidente, dopo quelli dell’agosto precedente. E nel marzo 2012 è stata avviata un’azione legale a Londra nei confronti della Shell (prima produttrice in Nigeria) da parte di 11mila pescatori nigeriani. La class action è stata intentata per il disastro ambientale provocato tra il 2008 e il 2009 dalla fuoriuscita di circa 4mila barili di greggio che, secondo le accuse, avvelenarono terreni e acque privando dei mezzi di sostentamento decine di villaggi nella Regione Meridionale del Delta del Niger.
NIGERIA
Generalità Nome completo:
Repubblica Federale di Nigeria
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Inglese (lingua ufficiale)
Capitale:
Abuja
Popolazione:
170.500.000
Area:
923.768 Kmq
Religioni:
Negli Stati del Nord la popolazione è per la quasi totalità islamica; nel Centro-Sud c’è una larga maggioranza cristiana (in prevalenza protestante/evangelica), ma c’è anche una forte presenza di sette d’importazione americana e della rinascenza africana. Islam 50%, cristianesimo 40% (di cui oltre un terzo cattolicesimo), religioni tradizionali 10%.
Moneta:
Naira
Principali esportazioni:
Petrolio (che costituisce oltre il 90% delle esportazioni), cacao, caucciù
PIL pro capite:
Us 2.600
Dall’agosto 2011, con l’attacco kamikaze contro i quartieri generali dell’Onu ad Abuja (23 morti), è stata una tragica escalation: il gruppo estremista islamico Boko Haram ha colpito sistematicamente con ordigni, autobombe e missioni suicide in tutto il Centro-Nord della Nigeria, prendendo di mira in particolare chiese e luoghi di incontro dei cristiani. Un’attività terroristica iniziata nei giorni di Natale del 2011, quando una serie di attentati provocò una quarantina di vittime. Un fenomeno che ha insanguinato il Paese per tutto il 2012 (le vittime sono almeno 2800), e provocato pesanti campagne di repressione da parte dell’esercito. Su posizioni ideologiche vicine ad al-Qaeda, gli affiliati di Boko Haram sembrano trovare coperture e appoggi fra le istituzioni del Paese: lo stesso Presidente Goodluck Johnson ha denunciato la capacità di infiltrazione del gruppo all’interno delle forze di polizia e persino fra i
servizi di sicurezza nigeriani. Viceversa, le azioni di Boko Haram sono state costantemente condannate sia dai leader musulmani che da tutti gli altri capi religiosi presenti nel Paese. Il gruppo (il cui nome, in arabo-hausa, significa “educazione occidentale vietata”) ha le proprie basi nello Stato Nord-Orientale del Borno e nella sua capitale Maiduguri. Si batte – come hanno sostenuto suoi portavoce nelle rivendicazioni – contro “la violazione dei diritti dei musulmani e l’indifferenza nei confronti dei crimini commessi dal Governo contro le popolazioni nigeriane del Nord”. Preoccupante è anche il crescere in quantità e tecnologia delle armi di cui è dotato e la sua capacità di entrare in collegamento con le altre organizzazioni filo-qaediste africane, prime fra tutti i gruppi estremisti islamici del Nord del Mali e gli Shabaab della Somalia.
Per cosa si combatte
Disegnato con squadra e compasso. Alla radice di tanti problemi della Nigeria c’è il fatto che per molti aspetti è ancora lo Stato artificiale creato nel 1914 dai colonialisti inglesi. Paese federale, composto di 36 Stati e un territorio (l’area di Abuja, la capitale federale), vi abitano 250 etnie differenti, con tre gruppi dominanti: gli HausaFulani in tutta la parte settentrionale, gli Yoruba nel Sud-Ovest, gli Ibo nel Sud-Est. L’estrema eterogeneità di culture, economie, storia, lingue, realtà climatico-ambientali, religioni (il Nord è islamizzato, il Sud è cristiano-animista) rende difficile la crescita di un forte senso di identità nazionale. La sua storia post coloniale (l’indipendenza è del 1960) è costellata di tensioni e scontri etnici, e addirittura di una guerra di secessione, quella del Biafra, che comportò anche la prima grande
crisi umanitaria per la quale si mobilitò l’Occidente, verso la fine degli anni ‘60. I primi 40 anni della sua storia di Paese indipendente sono una catena pressoché ininterrotta di colpi di Stato e regimi militari. Fino al 1999, quando per la prima volta i nigeriani hanno potuto votare liberamente, eleggendo alla guida del Paese Olusegun Obasanjo, che ha poi governato la federazione per due mandati. Alle successive elezioni (21 aprile 2007), ha vinto Umaru Yar’Adua, delfino dell’ex Presidente e membro dello stesso partito, il Partito Democratico del Popolo (Pdp). A differenza di Obasanjo, uomo del Sud e cristiano, Yar’Adua era originario dello Stato di Katsina, nell’estremo Nord musulmano. Yar’Adua tuttavia ha sofferto di una lunga malattia che gli ha impedito per diversi mesi, dal novembre 2009, di esercitare le sue funzioni.
Quadro generale
La più grave inondazione da decenni
78
Alluvioni del genere non si vedevano da decenni. È stata definita un “disastro nazionale” la serie di inondazioni che ha colpito il Sud della Nigeria fra l’estate e l’autunno 2012. Secondo l’Agenzia Nazionale per la Gestione delle Emergenze, le vittime sono state 400, più di 18mila i feriti, travolti dai fiumi, mentre altre 2milioni e centomila persone hanno dovuto abbandonare le proprie case. Le alluvioni hanno coinvolto quasi 8milioni di persone, anche per la conseguente crisi alimentare dovuta ai danni delle colture rimaste sommerse dall’acqua. Aspre sono state le critiche degli alluvionati all’intervento tardivo e insufficiente delle istituzioni nigeriane, nonostante il fatto che il fenomeno delle forti piogge avvenga ogni anno, tra agosto e ottobre, in particolare negli Stati di Bayelsa e Delta.
Wole Soyinka
(Abeokuta, 13 luglio 1934)
Solo 4 ore di elettricità al giorno
Nonostante i suoi mille problemi, la Nigeria mette in campo qualche “grande opera”. Il Governo ha stanziato 1,15miliardi di dollari per costruire una centrale idroelettrica da 700 megawatts nello Stato federale del Niger, che dovrebbe essere costruita dai cinesi nei prossimi 4 anni. La centrale dovrebbe dare lavoro a 10mila persone. Attualmente, nel Paese, l’energia elettrica è garantita per circa quattro ore al giorno. Ma non basta. Il miliardario Aliko Dangote ha deciso di aprire, a Objana (Stato di Kogi) il più grande cementificio dell’Africa sub sahariana: uno dei maggiori investimenti fatti nel Paese se si eccettua il settore petrolifero. Per concludere, sempre nel 2012, il Governo ha firmato il preliminare di accordo con l’americana Vulcan Petroleum per la realizzazione di sei nuove raffinerie di greggio. Il Paese, nonostante sia l’ottavo produttore al mondo, importa la maggior parte del carburante perché ne ha solo quattro, spesso ferme per guasti o manutenzione. La Nigeria dipende dall’estero per il 90% del suo fabbisogno energetico.
Il potere, durante tutto il periodo di inabilità del Presidente, è stato gestito dal suo vice, Goodluck Jonathan, che ne ha anche preso ufficialmente le funzioni dal 9 febbraio 2010. Il 5 maggio Yar’Adua è morto e, come previsto dalla Costituzione nigeriana, il giorno successivo Goodluck Jonathan ha giurato come Capo dello Stato. Candidatosi alle elezioni del 16 aprile 2011, le ha vinte a larga maggioranza (59,6% dei consensi, 22milioni di voti), sconfiggendo Muhammadu Buhari, già generale golpista dell’esercito, fermatosi al 32,3% di preferenze (12milioni di voti). La Nigeria è considerata uno dei giganti africani, insieme al Sud Africa, non tanto per la sua forza economica, quanto per la concentrazione di popolazione – ha superato i 170milioni di abitanti in un territorio relativamente piccolo (quasi tre volte l’Italia) – e per le sue riserve di greggio, per le quali si colloca all’ottavo posto fra i produttori mondiali, e si contende il primato africano con l’Angola. È in questi ultimi dieci anni, con l’avvento della democrazia, che sono scoppiate le principali contraddizioni del Paese. Prima delle quali la que-
I PROTAGONISTI
stione petrolifera: a fronte degli enormi introiti legati alle concessioni per l’estrazione del greggio (che costituiscono il 95% delle esportazioni, l’80% delle entrate fiscali e il 40% del Pil), la grande maggioranza della popolazione nigeriana (il 70%) vive con meno di un euro al giorno ed è proprio il Delta del Niger, l’area petrolifera del Paese, una delle Regioni più povere. La seconda grande contraddizione è legata alle tensioni religiose. Gli scontri fra cristiani e musulmani, avvenuti in particolare lungo la fascia di coabitazione nel Centro-Nord del Paese, sono iniziati improvvisamente all’indomani dell’elezione di Obasanjo, intorno al 2000-2001. Da allora vi sono stati ricorrenti crisi che talvolta hanno provocato anche migliaia di vittime. Tensioni che, dopo decenni di pacifica e tollerante convivenza fra cristiani e musulmani, sembrano essere state utilizzate più come elemento strumentale di pressione politica che come reale contrapposizione di fedi. Infine, terzo grave problema, l’inurbazione selvaggia, che ha creato caotiche megalopoli. Prima fra tutte Lagos, capitale commerciale del Paese, che ha ormai superato i 20milioni di abitanti. Smisurate città dove all’estrema povertà delle periferie si somma anche un elevato tasso di criminalità.
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“Nessun dialogo con gli assassini di massa che hanno come filosofia l’omicidio di persone innocenti”. Posizione netta, quella di Wole Soyinka. Primo africano a vincere il Nobel per la letteratura (nel 1986), 78 anni, drammaturgo, poeta, scrittore, è uno degli intellettuali più importanti del continente. Soyinka accusa anche i leader politici “di essere responsabili delle violenze a sfondo religioso”, per aver strumentalizzato le azioni di Boko Haram. Nato ad Abeokuta, nel 1934, Soyinka è di etnia yoruba. Laureatosi all’Università di Ibadan (Nigeria) poi a quella di Leeds (Inghilterra), segue i corsi di arte drammatica al Royal Court Theatre di Londra. Tornato in patria, si occupa di teatro e fonda due compagnie drammatiche. All’inizio della guerra del Biafra, un suo appello per la conciliazione gli vale due anni di prigionia (1967-69). Liberato alla fine della guerra, nel 1985 diventa Presidente dell’Istituto internazionale del teatro dell’Unesco e l’anno successivo riceve il premio Nobel. Dopo il colpo di Stato di Sani Abacha (1993), Soyinka denuncia più volte il regime golpista. Per questo, nel 1994, le autorità gli ritirano il passaporto e il lasciapassare Onu. Riesce a lasciare la Nigeria in tempo per evitare la condanna a morte. Ora vive negli Stati Uniti.
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2011 uscito nel giugno 2012 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DALLA REPUBBLICA CENTRO AFRICANA RIFUGIATI
162.862
PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI CAMEROON
90.176
CIAD
67.414
SFOLLATI PRESENTI NELLA REPUBBLICA CENTRO AFRICANA 105.206 RIFUGIATI ACCOLTI NELLA REPUBBLICA CENTRO AFRICANA RIFUGIATI
16.730
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO
13.427
Una crisi dimenticata
Medici Senza Frontiere: con una popolazione di 4,4milioni di persone e una situazione di perenne instabilità, che perdura fin dall’indipendenza dalla Francia nel 1960, la Repubblica Centrafricana è uno dei Paesi più poveri del mondo e con un tasso di mortalità definito “spaventoso”. L’organizzazione umanitaria denuncia che a causare così tanti decessi sono malattie che sarebbe relativamente semplice trattare, come la malaria e l’Hiv e un sistema sanitario “fantasma” che non garantisce alla popolazione nemmeno il minimo di cure mediche.“La Repubblica Centrafricana è classificabile come una crisi dimenticata” spiegano gli operatori di Msf “e non sta ricevendo l’impegno umanitario di cui avrebbe bisogno”.
UNHCR/L.Foster
La Repubblica Centrafricana continua ad essere teatro di violenti scontri tra gruppi armati ribelli. Nei primi mesi del 2012 le forze armate della Repubblica Centrafricana di concerto con quelle del Ciad hanno lanciato una offensiva militare per catturare Abdel Kader, alias Baba Laddé, leader dei ribelli del Front Populaire pour le Redressement (Fpr). L’operazione si è concentrata in modo particolare nelle zone di Ouandago e Gondava nel Centro Nord del Paese, rispettivamente a 80 e 45 km di distanza dalla città di Kaga-Bandoro. Gli scontri tra le forze armate e i ribelli hanno seminato il terrore nell’area, dove migliaia di persone sono state costrette ad abbandonare le proprie case. Molto complicato è stato il lavoro delle organizzazioni umanitarie, in molti casi impossibilitate, a causa degli scontri e delle cattive condizioni del territorio, a portare gli aiuti necessari alle popolazioni sfollate. Molte le vittime innocenti. Pesanti le denunce di Albert Vanbuel, Vescovo di Kaga-Bandoro, raccolte dai media locali: “Le forze armate fermano i cosiddetti ribelli, li torturano, li uccidono senza sapere se sono davvero ribelli oppure no. Molti innocenti sono morti in questo modo”. Le organizzazioni umanitarie hanno denunciato le gravissime violazioni dei diritti umani subite dalla popolazione civile: uccisioni illegali, torture, rapimenti e stupri. Violenza e insicurezza caratterizzano ormai da anni la Repubblica Centrafricana, dove imperversano numerosi gruppi armati tra cui l’Esercito di resistenza del Signore (Lord’s Resistance Army) attivo nel Sud-Est e nell’Est del Paese, dove si stanno intensificando la frequenza e la gravità degli attacchi alla popolazione civile. Continua silenziosamente anche il dramma dei bambini reclutati per combattere tra le file dei ribelli. La Repubblica Centrafricana è, secondo il Rapporto del 2012 di Human Rights Watch, uno dei 14 Paesi dove i bambini soldato stanno attualmente combattendo (6 Paesi su 14 sono
Repubblica
CENTRO AFRICANA
Generalità Nome completo:
Repubblica Centrafricana
Bandiera
81
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Francese
Capitale:
Bangui
Popolazione:
3.683.538
Area:
622.984 Kmq
Religioni:
Cristiana (51%), animista (34%), musulmana (15%)
Moneta:
Franco CFA
Principali esportazioni:
Cotone, caffè, minerali, diamanti
PIL pro capite:
Us 1.128
africani). In questo stato di emergenza costante, diventa cruciale ma anche complicatissimo l’intervento delle organizzazioni umanitarie, gravate anche da una cronica mancanza di fondi. Nell’Ottobre del 2012 l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati Antonio Guterres, ha dichiarato che l’Agenzia “ha a disposizione meno della metà del denaro necessario per le proprie operazioni” soprattutto in Africa. Attualmente sono circa 60mila le persone fuggite dalla Repubblica Centrafricana a causa del conflitto perenne.
La Repubblica Centrafricana non ha mai conosciuto una vera democrazia. Provata da decenni di malgoverno e colpi di stato il Paese non è mai riuscito a risollevarsi. Negli ultimi anni la Repubblica Centrafricana ha dovuto poi subire le pressioni e l’instabilità causate dalle vicende politiche degli stati confinanti, dal Ciad al Sudan che hanno innegabilmente inciso nella tenuta interna del Paese, totalmente impreparato a ricevere le ondate di profughi in fuga da altri teatri di guerra. L’insicurezza e il pericolo, oltre
ad una rete inesistente di strade per lo più disastrate, hanno impedito alle agenzie umanitarie di raggiungere le zone colpite dai combattimenti, in particolare nel Nord-Est, e di portare sostegno alle popolazioni. Non da ultimo la criminalità fuori controllo e il traffico clandestino di diamanti (è la seconda voce nelle esportazioni del Paese) contribuiscono ad aumentare la già drammatica situazione interna della Repubblica Centraficana.
Per cosa si combatte
Tanti soldi in aiuti
Secondo i dati dell’Agenzia dell’Onu Ocha (Office for the Coordination of Humanitarian Affairs) la Repubblica Centrafricana ha ricevuto più di 82milioni di dollari in aiuti umanitari nel 2012. I fondi sono arrivati da almeno 17 donatori e sono stati destinati a 24 organizzazioni umanitarie per 50 diversi progetti operativi in tutto il territorio del Paese, ma con particolare attenzione alla zona Centrale e a quella ad Est e SudEst, dove maggiori sono le necessità urgenti della popolazione civile. Nonostante le somme investite nella Repubblica Centrafricana per progetti umanitari, la reale necessità del Paese è quantificata dalle organizzazioni attive sul territorio in più di 134milioni di dollari.
82
UNHCR/N.Rost
Storia di schiavi, colpi di stato e imperatori. Questa è la Repubblica Centrafricana. Una terra abitata da tempi antichissimi: vari ritrovamenti testimoniano l’esistenza di antiche civiltà anteriori alla nascita dell’impero egizio. Terra contesa tra vari sultanati che utilizzavano l’attuale Repubblica Centrafricana come una grande riserva di schiavi, dalla quale venivano trasportati e venduti nel Nord Africa attraverso il Sahara, soprattutto al mercato de Il Cairo. La nascita della Repubblica è stata fortemente voluta da Berthelemey Boganda, un prete cattolico leader del Movimento d’Evoluzione Sociale dell’Africa Nera, il primo partito politico del Paese, Boganda governa fino al 1959 quando muore in un misterioso incidente aereo. Gli succede suo cugino David Dacko che nel 1962 impone un regime monocratico. Inizia una lunga storia di colpi di stato. Il primo ai danni di Dacko è del colonnello Jeab Bedel Bokassa, che sospende la costituzione e scioglie il Parlamento. La follia di Bokassa arriva al punto di autoproclamarsi Presidente a vita nel 1972 e imperatore del risorto Impero Centrafricano nel 1976. Un impero di follia e povertà per la gente. La Francia, ex potenza coloniale, decreta la fine di Bokassa nel 1979 e restaura la presidenza di Dacko, con un altro colpo di stato. Nel 1981 il generale Andrè Kolimba prende il potere. Pressioni internazionali costringono il dittatore a convocare elezioni nel 1993 che vengono vinte da Ange-Felix Patassè. Il neo presidente dà vita a una serie di epurazioni negli appara-
ti statali. Promulga una nuova costituzione nel 1994, ma le forti tensioni sociali sfociano in rivolte popolari e violenze interetniche. Nel 1997 vengono firmati gli accordi di pace che portano al dispiegamento di una forza internazionale
Quadro generale UNHCR/N.Rost
Faustin-Archange Touadéra (Bangui, 21 aprile 1957)
UNHCR/E. Parsons
Non paga il conto, arrestato il figlio del Presidente Il figlio del Presidente della Repubblica Centrafricana François Bozizé Yangouvonda, è stato arrestato nel 2012 per non aver pagato il conto di 12mila euro lasciato nel miglior albergo della capitale Bangui. La France Press ha spiegato che il rampollo del Presidente centrafricano aveva passato alcuni giorni all’hotel Ledger Plaza e non aveva pagato il conto della stanza, del ristorante e di altri servizi per un totale di 8milioni di franchi, più o meno 12mila euro. Quando gli è stato chiesto di saldare il conto ha rifiutato e se n’è andato. Il Presidente Bozizé non si è mosso per aiutare il figlio, che è stato trattenuto in carcere fino a quando non ha saldato il conto in sospeso.
composta da forze militari di Paesi africani. Poi arriva il turno dell’Onu. Di nuovo alle urne nel 1999, Patassè vince, ma ormai le tensioni sono fuori controllo. Il Paese diventa una sorta di terra di nessuno dove le forze militari e ribelli razziano e rapinano la popolazione. Terreno fertile per un ennesimo colpo di stato, nel 2003, che porta al potere il generale Francois Bozizé, che poi vince le elezioni nel 2005 ritenute valide dalla Comunità Internazionale. Insomma la Repubblica Centrafricana è considerata come uno “Stato fantasma”, secondo un report del 2007 dell’International Crisis Group. Secondo quanto riportato il Paese avrebbe perso completamente la propria capacità istituzionale. Il Paese ha vissuto in una condizione di brutalità continua, sia prima che dopo il raggiungimento dell’indipendenza. Cinquanta anni di regimi autoritari hanno dato vita a uno stato predatore e violento, in cui l’unica possibilità per arrivare al potere e per mantenerlo è stato il ricorso continuo alla violenza. A ciò vanno aggiunte le
I PROTAGONISTI
pressioni esercitate dalla ex potenza coloniale, la Francia, che ha mantenuto legami molto stretti con i vari leader che si sono susseguiti, determinando la caduta o il ritorno di chi poteva dimostrarsi un interlocutore affidabile e creando un altro “pays-garnison” nella Regione, oltre al Ciad. Proprio la fragilità interna ha reso la Repubblica Centrafricana una periferia della periferia per Paesi vicini come il Ciad, il quale controlla strettamente le iniziative prese a Bangui. Solo un esempio: il finanziamento per la presa del potere di Bozizè nel 2003. Un colpo di stato regionale visti i numerosi contributi arrivati dai paesi vicini come il Congo Brazzaville e la Repubblica democratica del Congo e grazie al tacito consenso di Sudan, Libia e Francia. La lotta per il potere segue questa via: ribellione, potere, ribellione, Un apparato statale corrotto, incapace di porre freno alla bulimia dei corrotti, e una redistribuzione delle risorse guidata da interessi clientelari, portano alla nascita di movimenti ribelli che, una volta arrivati al potere, generano nuove tensioni e si comportano esattamente come coloro che hanno combattuto. Così si origina una nuova spirale di violenza. E la Repubblica Centrafricana incarna perfettamente questo schema.
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Nato a Bangui FaustinArchange Touadera è stato nominato primo Ministro della Repubblica Centrafricana il 22 gennaio del 2008 dal Presidente François Bozizé dopo le dimissioni di Élie Doté. Come Capo del Governo ha più volte dichiarato di volersi impegnare per cancellare la pena di morte dall’ordinamento del Paese. Seppur non più applicata da oltre 30 anni, la pena capitale è formalmente ancora in vigore e sia nel 2008 che nel 2012 la Repubblica Centrafricana si è astenuta in occasione del voto sulla risoluzione per una moratoria delle esecuzioni capitali all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Il primo Ministro della Repubblica Centrafricana ha ricevuto recentemente anche una delegazione italiana del Partito Radicale alla quale ha assicurato che, dopo gli impegni presi a livello nazionale con l’adozione del progetto di legge per l’abolizione della pena di morte, la Repubblica Centrafricana voterà a favore della Risoluzione sulla Moratoria universale delle esecuzioni la prossima volta che verrà presentata alle Nazioni unite a New York.
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2011 uscito nel giugno 2012 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DALLA REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO RIFUGIATI
491.481
PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI CONGO
131.648
UGANDA
81.487
REPUBBLICA UNITA DELLA TANZANIA
61.913
SFOLLATI PRESENTI NELLA REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO 1.709.278 RIFUGIATI ACCOLTI NELLA REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO RIFUGIATI
152.749
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI Angola
78.144
Ruanda
61.481
Burundi
8.915
Animali in pericolo
Tra gli effetti collaterali della guerra nel Nord Kivu c’è l’estinzione degli okapi, i ruminanti considerati gli animali simbolo della Repubblica Democratica del Congo. Un attacco armato ha infatti cancellato 25 anni di enormi sforzi ed impegno per la salvaguardia di questi animali. A luglio 2012 un gruppo di miliziani mayi mayi ha fatto irruzione in una riserva protetta uccidendo dapprima due guardiacaccia e poi sterminando la piccola colonia di okapi. Il Governo di Kinshasa ha chiesto per gli autori del massacro l’imputazione di crimini contro l’umanità davanti alla Corte Penale Internazionale dell’Aja. Se accolta la richiesta potrebbe fare giurisprudenza internazionale, facendo considerare l’uccisione di specie animali protette un attacco all’ambiente dell’intero pianeta.
UNHCR/S. Modola
La Regione del Kivu (nell’Est del Congo) è una delle zone in cui non si è mai consolidato il processo di pace ma anzi qui si sta incancrenendo la pluridecennale crisi politica della Regione dei Grandi Laghi. L’ultimo focolaio di ribellione è scoppiato nel 2012 quando il generale Bosco Ntaganda si è messo alla testa del Movimento del 23 marzo (M23), formato da ex ribelli del disciolto Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo (Cndp) e guidati sempre da Ntaganda. Nel 2009 i miliziani del Cndp raggiunsero un accordo con il Governo di Kinshasa per essere integrati nell’esercito regolare ma ad aprile 2012 per mille di loro fu disposto il trasferimento: per gli ex Cndp questa decisione ha sancito la violazione degli accordi che comprendevano l’impegno di non spostare i soldati di Ntaganda fuori dal Kivu, dove volevano restare per proteggere famiglie e proprietà. La diserzione di massa ha riacceso il conflitto in Nord Kivu, dove le violenze non sono mai cessate. Le conseguenze non si sono fatte attendere: sotto i colpi dell’artiglieria pesante migliaia di persone sono fuggite cercando scampo anche nel parco nazionale del Virunga, dove vivono i gorilla di montagna in via di estinzione. Mentre la situazione umanitaria è drammatica. Il 5 luglio 2012 un rapporto delle Nazioni Unite ha confermato le accuse al Governo del Ruanda di rifornire i ribelli di M23 di armi e munizioni e sostenere le Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda, gruppo formato da ribelli hutu ruandesi presenti da quasi 20 anni nel Nord Kivu, dove si rifugiarono dopo il genocidio dei tutsi in Ruanda nel 1994. Tra gli ufficiali ruandesi coinvolti il documento dell’Onu punta il dito sulle più alte cariche del governo di Kigali che respinge le accuse: il ministro della Difesa, il capo di stato maggiore, ed un importante generale. Il Governo statunitense ha sospeso gli aiuti militari al Ruanda, finora il suo più fedele alleato nella Regione dei Grandi Laghi. Ma questo focolaio di violenza si aggiunge agli scontri che da 20 anni contrappongono l’esercito regolare di Kinshasa ai gruppi mayi mayi (milizie popolari oggi al soldo di banditi e signori della guerra) ed ai miliziani delle Forze Democratiche per la
Repubblica DEMOCRATICA DEL
CONGO
Generalità Nome completo:
Repubblica Democratica del Congo
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Francese, lingala, kiswahili, kikongo, tshiluba
Capitale:
Kinshasa
Popolazione:
62.6 milioni
Area:
2.34 milioni kmq
Religioni:
Cristiana, musulmana
Moneta:
Franco congolese
Principali esportazioni:
Diamanti, rame, caffè, cobalto, petrolio greggio
PIL pro capite:
US 140
liberazione del Ruanda, ribelli hutu ruandesi dal 1994 riparati in questa area. Ad agosto 2012 la Conferenza Internazionale della Regione dei Grandi Laghi (Cirgl) ha deciso il dispiegamento di una forza militare multinazionale nel Nord Kivu: una risoluzione – ha spiegato il segretario esecutivo – che non sostituisce il contributo della Monusco (ovvero la missione di pace di 20mila uomini dell’Onu in territorio congolese) ma che la rafforza.
africana” che tra il 1998 ed il 2003 coinvolse in Congo 8 nazioni africane causando quasi 5milioni e mezzo di vittime. Nel 2011 il Presidente Kabila dispose il blocco dell’estrazione per coltan e cassiterite dopo il varo negli Stati Uniti di una legge sulla tracciabilità dei minerali, considerati “insanguinati” proprio come i diamanti perché i gruppi armati li hanno usati per finanziarsi. Ma ovviamente concretamente è rimasta solo una buona intenzione perché qui 12milioni di persone vivono con l’estrazione. Quindi tutto continua come prima, sotto lo sguardo attento dei soldati dell’esercito regolare che non percepiscono stipendio e di quelli ruandesi che qui sono di casa. Ed il contrabbando vola, arricchendo chi lo organizza.
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Nel Kivu è concentrata tutta la enorme ricchezza del sottosuolo. Per questo banditi, esercito regolare corrotto, gruppi di ribelli dai nomi altisonanti ma dallo scarsissimo rispetto per le popolazioni inermi, si scontrano senza pietà per il controllo dell’estrazione dei preziosi minerali. Ruanda, Burundi e Uganda (Paesi confinanti o che hanno forte influenza politico-economica) hanno dati di export molto superiori alle reali risorse minerarie, grazie al contrabbando che aumenta di mese in mese diretto verso i loro confini. Ovvio che queste nazioni non stanno a guardare né auspicano la pace ma si sono ritagliate un ruolo attivo per rendere instabile la Regione, come dimostra il loro intervento diretto in quella che fu definita la “guerra mondiale
Per cosa si combatte
La ricchezza per gli altri
I minatori impegnati nell’estrazione dell’oro guadagnano 9 dollari al giorno lavorando per 12 ore con i piedi nell’acqua, scavando con i badili ed avvalendosi del prezioso aiuto dei bambini. Ogni mese dalle miniere del Kivu ne escono almeno 500 chili, venduti in gran parte di contrabbando. Impossibile saperne di più sui lavoratori impegnati nell’estrazione di coltan e cassiterite perché i militari non fanno entrare nessuno. Tra i migliori clienti India e Cina che nel 2009 ha sottoscritto con il Governo un contratto che prevede sei miliardi di dollari di investimenti. In cambio estrarranno 10milioni di tonnellate di rame e 400mila di cobalto. Praticamente è la svendita della ricchezza del Congo da parte del Presidente Kabila.
UNHCR/S. Modola
La riconferma di Joseph Kabila per un altro mandato presidenziale nelle elezioni del 28 novembre 2011 alla guida della Repubblica Democratica del Congo non suscitò particolari reazioni nella comunità internazionale. Le Nazioni Unite (solitamente vigili) con un asettico e notarile comunicato si limitarono a prendere “nota del risultato annunciato da parte della Commissione elettorale”. Alain Juppé, ministro francese degli Affari Esteri, si soffermò invece su “una situazione esplosiva con una forte tentazione di ricorrere alla violenza”. Gli Stati Uniti espressero la “profonda delusione” per la decisione della Corte suprema del Congo di avallare il risultato elettorale. A denunciare frodi e gravi irregolarità nelle elezioni furono la Fondazione Carter (l’organizzazione non governativa dell’ex presidente statunitense Jimmy Carter) ed il cardinale Laurent Monsengwo, massimo rappresentante della Chiesa in un Paese profondamente cattolico. Schede già compilate nelle urne, numero delle preferenze maggiore dei votanti, ritardi nell’apertura dei seggi, intimidazioni, violenze e pressioni contro gli elettori furono puntualmente docu-
mentate dagli osservatori della Fondazione Carter e dalla rete dei 30mila volontari e sacerdoti sparsi nel Paese che controllarono la regolarità dello spoglio. Ma il conteggio delle schede sentenziò la vittoria schiacciante di Kabila con il 48,95% dei voti contro il 32,33% ottenuto da Etienne Tshisekedi, leader dell’opposizione, conosciuto come il “Mandela del Congo” per i lunghi anni trascorsi in carcere. Di fronte alla minaccia di crescenti proteste che causarono almeno una decina di morti, Kabila decise di giocare d’anticipo: prestò giuramento e schierò i carri armati nelle strade. Solo il dittatore dello Zimbabwe Robert Mugabe era presente alla cerimonia mentre gli altri Paesi africani scelsero di mandare i primi ministri, rimarcando così una significativa presa di distanza. Ad ispirare la colpevole acquiescenza sulle ripetute e continue violazioni dei diritti umani e politici è il saldissimo legame che unisce il quarantaduenne Presidente Kabila (figlio dell’ex presidente Laurent, l’uomo che pose fine alla sanguinosa dittatura di Mobutu Sese Seko) alle multinazionali interessate alla estrazione di materie prime di cui il Congo è ricchissimo.
Quadro generale
Bosco Ntaganda (1973)
UNHCR/S. Modola
Una condanna per i bambini soldato
La Corte Penale Internazionale dell’Aja (per la prima volta in 11 anni dalla sua creazione) ha condannato nel marzo 2012 dopo un processo durato 3 anni Thomas Lubanga, capo del gruppo di ribelli di etnia Hema, a 14 anni di reclusione per aver reclutato bambini-soldato minori di 15 anni costringendoli ad uccidere gli appartenenti all’etnia rivale dei Lendus. Lo scenario di questa carneficina è la Regione dell’Ituri, ricca di giacimenti auriferi, nella guerra del 2002-2003. Psicologo, sposato con sette figli, Lubanga fu arrestato dopo il conflitto e imprigionato a Kinshasa ma per poco, usufruendo di comodi arresti domiciliari in un albergo. Secondo il procuratore capo Luis Moreno-Ocampo avrebbe allenato bambini, alcuni anche di 9 anni, ad ammazzare, saccheggiare e stuprare. Solo tra febbraio e marzo 2003, i ribelli guidati da Thomas Lubanga avrebbero distrutto 26 villaggi ed ucciso 350 persone. A seguire il processo anche l’attrice Angelina Jolie che ha fondato una organizzazione per denunciare i crimini di Lubanga e raccontare il lavoro del Tribunale dell’Aja.
Cobalto, uranio, oro, diamanti, cassiterite (da cui si ricava lo stagno), coltan (da cui si estrae il tantalio, componente essenziale per telefoni cellulari, computer, videogiochi, dvd) sono solo alcuni dei preziosi minerali di cui trabocca il Congo: “Un vero e proprio scandalo geologico” secondo gli esperti. Un duplice saccheggio che dura da decenni: quello ufficiale di cui sono protagoniste le multinazionali (appoggiate dal Governo) e quello di frodo animato dai contrabbandieri. Unici destinatari i Paesi ricchi occidentali e orientali che utilizzano i preziosi materiali pagati a basso costo per realizzare altissimi profitti. Stati Uniti, Canada, Inghilterra, Belgio, Malesia, India e Cina sono i Paesi stranieri con i maggiori interessi. Nel Sud e Nord Kivu operano invece bande armate che con coperture governative sovrinten-
I PROTAGONISTI
dono alla esportazione illegale di materie prime che dirottate verso Ruanda, Burundi e Uganda. Da questi Paesi una rete di mediatori provvede a far fronte alle richieste delle grandi aziende internazionali. Ma il Congo resta uno dei Paesi più poveri e sottosviluppati del mondo. Uno dei punti di forza di Joseph Kabila è la profonda divisione dell’opposizione. Non a caso erano ben 11 i pretendenti alla poltrona di Presidente della Repubblica Democratica del Congo alle ultime elezioni: una atomizzazione del quadro politico che ha favorito lo scaltro e privo di scrupoli capo di stato uscente. Ma la sua popolarità è in declino. Lo dimostra la richiesta presentata in parlamento da venti partiti di opposizione per aprire la procedura di alto tradimento nei confronti di Kabila, il quale ha nascosto ai congolesi che due compagnie di forze speciali del Ruanda operavano in Congo per dare la caccia alle Fdlr (Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda) che si oppongono al Governo di Paul Kagame. Ovviamente in pieno accordo con le autorità di Kinshasa.
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Nel suo nome di battesimo emerge una lontana influenza dei missionari salesiani ma in realtà è più conosciuto con il nome di battaglia di Terminator perché “uccide facilmente” ha spiegato un testimone. Bosco Ntaganda, 40 anni, è un tutsi ruandese scappato in Congo da bambino per sfuggire alle persecuzioni razziali. A 17 anni si unì ai ribelli guidati da Paul Kagame, attuale Presidente del Ruanda. Da allora non ha più deposto le armi ed è diventato un feroce e ricchissimo “signore della guerra”, abile nello sfruttare a suo vantaggio gli improvvisi capovolgimenti di fronte della guerra civile che in Congo dura da decenni. Sul suo capo pendono tre mandati di cattura della Corte Penale Internazionale dell’Aja. L’ultimo è del marzo 2012 per aver arruolato bambini soldato. Ora è impegnato a guidare la ribellione del Movimento 23 marzo. Ha sfidato anche la missione dei Caschi blu dell’Onu minacciando di attaccare il contingente. È protetto da Kabila, impressionato dalla sua forza militare, e da Kagame, di cui è spesso ospite in Ruanda.
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2011 uscito nel giugno 2012 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DEL SAHARA OCCIDENTALE RIFUGIATI
116.413
PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI ALGERIA
90.000
MAURITANIA
26.000
Una detenzione ingiusta
Alla fine di ottobre 2012, una missione di osservazione giudiziaria sul processo in corso ai 24 detenuti politici nel carcere di Sale’ ha stilato un rapporto in cui si giudica il rinvio del processo “un segno di debolezza delle autorità marocchine”. Gli osservatori, membri di diverse associazioni e organizzazioni di difesa dei diritti umani sottolineano nel dossier come “il perdurare della detenzione senza alcuna decisione giudiziaria è contrario sia alle norme marocchine che a quelle internazionali”. “Il persistere della detenzione senza alcun atto giudiziario e senza la prospettiva di una udienza – si legge nel Rapporto – è contrario al Diritto umanitario (in particolare diritto alla libertà) e al principio del rispetto del diritto alla difesa (diritto ad un processo equo)”.
“Il Marocco ha deciso di ritirare la fiducia all’inviato speciale del Segretario Generale dell’Onu per il Sahara Occidentale”: con un comunicato ufficiale del maggio 2012, la monarchia alawita ha inferto un altro duro colpo al processo di pace con il Fronte Polisario, contestando apertamente l’annuale Rapporto presentato da Christopher Ross, mediatore internazionale di riferimento per il conflitto dal 2009. Il Marocco ha definito “parziale e squilibrato” il resoconto del rappresentate internazionale, che nel dossier ha evidenziato le violazioni dei diritti umani e l’uso eccessivo della forza da parte delle autorità marocchine nei confronti del popolo Saharawi. Il Segretario delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon ha espresso invece “piena fiducia” a Christopher Ross che nel novembre del 2012 è tornato in Marocco per una visita ufficiale che ne ha confermato il ruolo di mediatore. Conferma che la monarchia alawita ha mal digerito ma che ha dovuto accettare, accogliendo il delegato dell’Onu a Rabat con tutti gli onori. La vicenda è emblematica ed evidenzia le difficoltà di arrivare ad una soluzione definitiva che riconosca i diritti del popolo Saharawi, in esilio da ormai 37 anni. La preoccupazione è che i continui fallimenti dei negoziati (l’ultima tornata nel marzo del 2012 a New York) tra Rabat e il Fronte Polisario possa far esplodere la rabbia della popolazione Saharawi che fino ad oggi ha scelto invece una resistenza pacifica e nonviolenta contro l’occupazione marocchina. In una recente intervista il professore e attivista americano Noam Chomsky, ha assicurato che le proteste in Medio Oriente e Nord Africa sono cominciate nel novembre del 2010 nel campo di Gdeim Izik nel Sahara Occidentale occupato. “Le forze marocchine intervennero per smantellare le migliaia di tende causando una grande quantità di morti e feriti e così successivamente si è propagata la protesta”, ha detto Chomsky. La repressione della manifestazione, pacifica e nonviolenta, da parte del Governo marocchino fu durissima. I Saharawi vennero attaccati con gas lacrimo-
SAHARA OCCIDENTALE
Generalità Nome completo:
Repubblica Araba Saharawi Democratica (RASD)
Bandiera 89
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Hassaniya, spagnolo
Capitale:
El Ayun
Popolazione:
circa 1 milione
Area:
circa 280.000 Kmq
Religioni:
Islamica Sunnita
Moneta:
Dinaro algerino nei campi profughi, Dirham marocchino nei territori occupati
Principali esportazioni:
Fosfati, pesca, petrolio e probabilmente ferro e uranio
PIL pro capite:
n.d.
geni, elicotteri, carri armati e acqua bollente. A distanza di due anni, 24 prigionieri politici Saharawi si trovano ancora nel carcere marocchino di Sale’, nei pressi di Rabat. Le organizzazioni per i diritti umani denunciano le condizioni disumane in cui sono costretti i detenuti, le torture e le violazioni dei diritti fondamentali, mentre i processi, davanti ad un tribunale militare, sono stati nuovamente posticipati a data da destinarsi dal Governo del Marocco.
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Il popolo Saharawi è privato del diritto fondamentale e internazionalmente riconosciuto ad avere una terra, su cui vivere in pace e libertà. Il diritto all’autodeterminazione viene negato dal Governo del Marocco, nonostante le numerose risoluzioni di condanna delle Nazioni Unite e nonostante alcuni rappresentanti europei considerino illegale lo sfruttamento delle risorse naturali del Sahara Occidentale, costituite da grandi quantità di fosfati e abbondantissimi banchi di pesce. Molto contestato l’accordo tra Unione Europea e Marocco approvato nel feb-
braio del 2012 che liberalizza, in parte, il commercio di prodotti agricoli e di pesca includendo anche il territorio del Sahara Occidentale. Il deputato francese dei Verdi europei José Bové ha ritirato il suo nome dalla relazione dopo la votazione in segno di protesta. Decisivo in ogni caso è il contributo dell’Europa per il sostentamento dei rifugiati. Anche se, purtroppo, gli aiuti umanitari internazionali stanno diminuendo in maniera vistosa e preoccupante, così come l’attenzione internazionale rispetto al dramma vissuto dal popolo Saharawi.
Per cosa si combatte
Il Sahara Occidentale comprende le Regioni di Saquia el Hamra al Nord e Rio de Oro al Sud, 284mila Kmq. Confina con il Marocco, l’Algeria, la Mauritania e l’Oceano Atlantico. È uno dei territori più ostili alla vita dell’uomo in tutto il pianeta. Aride distese di rocce e dune di sabbia sono solcate da piccoli wadi (letti di fiumi) nei quali si accumula quel po’ di acqua che non riesce mai a raggiungere il mare a causa della rapida evaporazione. Il Sahara Occidentale, già colonia spagnola, è l’ultima colonia africana ancora in attesa dell’indipendenza: al dominio spagnolo, infatti, nel 1975 si è sostituito quello di Marocco e Mauritania, che hanno invaso il territorio. La maggior parte della popolazione è fuggita in Algeria dove, da allora, vive nei campi profughi. In pratica, la questione del Sahara Occidentale è un caso di decolonizzazione mancata. Il popolo Saharawi è privato dal 1975 del suo diritto all’autodeterminazione. Lo dimostrano le tappe di questo conflitto. Il 6 ottobre 1975, il re del Marocco dà il benestare alla “marcia verde”, attraverso la quale 350mila marocchini avanzano verso il Sahara Occidentale con l’obiettivo di conquista del
territorio. Il 31 Ottobre 1975 inizia l’invasione marocchina nella zona Orientale del Sahara Occidentale. La Spagna intanto si ritira e il 2 novembre Madrid riafferma il proprio supporto all’autodeterminazione della gente Saharawi, allineandosi agli impegni internazionali assunti. Con il ritiro della Spagna, alla fine del 1975 il Polisario (movimento di liberazione che dal 1973 lotta per l’indipendenza) sembra sul punto di guadagnare l’indipendenza. Ma con trattative separate e segrete, Madrid firma un accordo clandestino con il Marocco e la Mauritania. I tre Paesi decidono di spaccare il territorio del Sahara Occidentale fra il Marocco e la Mauritania, evitando di dare l’indipendenza ai Saharawi. Nel 1976 il Fronte Polisario proclama la Rasd, Repubblica Araba Saharawi Democratica, ma l’annessione illegale del territorio dà il via alla guerra fra Marocco e Mauritania, per il controllo del territorio. Decine di migliaia di Saharawi fuggono sotto i bombardamenti al napalm del Marocco. L’aggressione investì sia il Nord che il Sud del Paese facendo fuggire i Saharawi verso Est, in Algeria appunto, dove è stato concesso loro asilo politico. Il rientro nelle loro terre viene reso
Quadro generale
Giornalisti espulsi
Nel novembre del 2012 le autorità marocchine hanno espulso 19 giornalisti dal Sahara Occidentale perché entrati senza i dovuti permessi. In un comunicato ufficiale del Governo, si spiega che 15 giornalisti spagnoli e 4 norvegesi sono arrivati a Laayoune fingendo di essere turisti. La decisione del Governo marocchino ha suscitato numerose polemiche e segue di poche settimane un altro avvenimento controverso che vede protagonista, questa volta, un reporter di una testata francese. In Ottobre 2012, il Governo marocchino aveva infatti espulso il corrispondente della Agence France Press (Afp) Omar Brousky per aver parlato della monarchia marocchina “in un contesto sbagliato” e con degli articoli “anti-professionali”.
Aminatou Haidar (El Aioun, 1967)
Il Centro Kennedy in visita ai Saharawi
Il Centro Rfk (Robert Fitzgerald Kennedy per la Giustizia e i Diritti Umani) fu fondato nel 1968 da familiari e amici di Robert F. Kennedy come memoriale vivente per un mondo più giusto e pacificato. Gli Rfk partners for Human Rights sono impegnati in collaborazioni strategiche di lungo termine con i laureates (persone che ricevono ogni anno il Premio sui Diritti Umani) con l’obiettivo di aumentare l’efficacia delle campagne portate avanti dai leaders e supportare movimenti in favore della giustizia sociale. Fanno parte del Centro molte personalità mondiali nel campo dei diritti umani. Ha grande importanza e prestigio nel mondo e per questo la visita di una delegazione internazionale del Centro nei territori del Sahara Occidentale è stata considerata un avvenimento eccezionale. La delegazione ha pubblicato una breve relazione dove si riconoscono i cambiamenti positivi fatti nella Costituzione marocchina per il rispetto dei diritti umani ma dove si evidenziano ancora le violazioni ai danni del popolo Saharawi.
ancora più difficile dalla costruzione da parte del Marocco, a partire dal 1980, di un muro elettrificato. È un’impressionante opera militare: bunker, postazioni fortificate, campi minati (mine in gran parte italiane), lungo oltre 2200 Km alto cinque metri fatto di sassi e sabbia; si dice che il suo mantenimento costi al Governo marocchino oltre 1milione di dollari al giorno. Nel 1984, l’Organizzazione degli Stati Africani ammette come Stato membro, la Rasd, espelle il Marocco, nega di fatto valore giuridico agli accordi fra Spagna, Mauritania e Marocco. Nel 1991, dopo 18 anni di guerra, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu approva il Piano di Pace. Dal 6 settembre 1996 la Missione delle Nazioni Unite per il Referendum nel Sahara Occidentale, Minurso, sorveglia il rispetto del cessate il fuoco e organizza il referendum di autodetermi-
I PROTAGONISTI
nazione che è rimasto solo sulla carta, a causa dell’opposizione del Marocco. Sempre l’Onu, in una decisione specifica sul Sahara Occidentale, trasmessa da Hans Corell, Segretario Generale Aggiunto per gli Affari Giuridici, al Presidente del Consiglio dichiara: “Gli Accordi di Madrid non hanno significato in alcun modo un trasferimento di sovranità sul territorio, né hanno concesso ad alcuno dei firmatari lo status di potenza amministrante, dato che la Spagna non poteva concederlo unilateralmente. Il trasferimento di potere amministrativo sul territorio nel 1975 non riguarda il suo status internazionale, in quanto territorio non autonomo”. La continuazione dello status quo sta conducendo ad una repressione sempre più brutale nelle zone occupate e ad un ritorno alle ostilità. Molti giovani ed anziani parlano apertamente della necessità, per sbloccare l’impasse, di ricorrere alle armi o ad atti di terrorismo che sino ad oggi non sono stati parte della strategia Saharawi.
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Conosciuta come la “Gandhi dei Saharawi” Aminatou è una dei più importanti attivisti dei diritti umani nel Sahara Occidentale. Detenuta illegalmente dalle autorità marocchine, picchiata, torturata e minacciata di morte, ha trascorso quattro anni e mezzo in isolamento, bendata. Nonostante gli abusi dei militari, nella sua resistenza non violenta, Aminatou considera i cittadini marocchini suoi “fratelli”. È portatrice di un appello affinché l’Onu faccia rispettare i diritti umani nei territori del Sahara Occidentale occupati dal Marocco e consenta ai Saharawi di esprimersi liberamente sul proprio futuro. È stata arrestata la prima volta nel 1987, a vent’anni, durante una visita nei territori saharawi della Commissioni Onu che si recava sul posto per organizzare il referendum. Ha continuato il suo impegno sino a diventare un simbolo della lotta per la libertà e il rispetto dei diritti umani in tutto il mondo. È stata candidata per il prestigioso Premio Sakharov, ha ricevuto il premio Juan Maria Bandres per la difesa del diritto di asilo e la solidarietà con i profughi conferitole nel 2005 dalla Commissione spagnola di aiuto ai rifugiati (Cear). Ha ricevuto il Premio Kennedy per i diritti umani nel 2008.
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2011 uscito nel giugno 2012 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DALLA SOMALIA RIFUGIATI
1.077.048
PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI KENIA
517.666
YEMEN
204.685
ETIOPIA
185.466
SFOLLATI PRESENTI NELLA SOMALIA 1.356.845 RIFUGIATI ACCOLTI NELLA SOMALIA RIFUGIATI
2.099
La minaccia del Kenya
Come riferiscono l’“Institute for Global Studies” e la rivista online Meridiano42, interamente dedicata al Corno d’Africa, con la disfatta e lo sbando delle milizie islamiche in Somalia, il rischio è oggi quello di uno spostamento dei superstiti in direzione del Kenya. Non solo per vendicarsi del ruolo svolto dalle truppe di Nairobi in Somalia al fianco dell’Amisom, ma anche e soprattutto per trovare un rifugio dove poter riorganizzare le proprie forze. Il cordone di sicurezza messo in atto dal Kenya e dall’Amisom nel Sud e nel Centro della Somalia è poderoso ma le masse di profughi ancora in movimento nella Regione e le comunità accampate a ridosso del confine potranno rappresentare un’ottima copertura per gli islamisti in fuga. L’obiettivo per questi gruppi è quello di raggiungere aree remote del Kenya Settentrionale dove poter riorganizzare le forze e condurre azioni di razzia per alimentare la logistica delle milizie, per poi condurre attentati soprattutto nelle aree urbane.
La caduta di Kismayo
In Somalia è stato forse dato l’ultimo colpo mortale alle milizie Al Shabaab sferrando il 28 settembre 2012, dopo cinque anni di rigido Governo della Sharia, l’attacco a Kismayo. Un’operazione congiunta delle forze del Kenya, integrate nella missione Amisom, con quelle del contingente dell’Unione Africana e quelle del ricostituito esercito somalo. L’operazione militare pianificata da tempo, sotto il cappello dell’Amisom, è stata condotta e gestita quasi esclusivamente dalle forze militari del Kenya, che hanno impiegato un gran numero di unità terrestri, anfibie, aerei e numerose unità navali. L’intera operazione si è conclusa in meno di sei ore.
Sono molti gli eventi che hanno caratterizzato la Somalia e il suo percorso verso una normalizzazione nell’ultimo anno. Un percorso non privo di ostacoli e incognite. Ma che ha potato il Paese ad una svolta, con un Governo che va al di là delle logiche che lo hanno caratterizzato negli ultimi 22 anni: signori della guerra, interessi per traffici poco chiari, ingerenze straniere e scarsa volontà internazionale di risolvere il problema “Somalia”. Il neo Presidente, Hassan Sheikh Mohamud, docente universitario ed attivista sociale, con percorsi di studio a Mogadiscio e in India, proviene del clan Hawiye ed è considerato un islamico moderato. Il 6 ottobre 2012 ha nominato premier Shirdon Saaid nato nel 1958, un passato da uomo d’affari, sposato con un’influente attivista e pacifista somala, è un volto nuovo della politica. Le prime dichiarazioni dei due uomini sono state incoraggianti. ‘’Abbiamo nominato Abdi Farah Shirdon Said primo Ministro - ha detto il Presidente - dopo una discussione molto lunga. È la persona migliore per questa posizione. Dal canto suo, Abdi Farah, si è detto ‘’molto felice di assumere questo ruolo’’. Il 6 novembre 2012 il primo Ministro ha reso nota la lista dei membri del suo esecutivo, dopo le consultazioni con il Presidente Hassan Sheikh Mohamud e il Presidente del parlamento a Mogadiscio. Composto da soli 10 membri, il nuovo Governo presenta novità importanti. La principale è l’abbandono del cosiddetto sistema del 4,5 in base al quale ciascun grande clan della nazione dovrebbe essere rappresentato da un delegato mentre alle comunità minoritarie spetterebbe mezza rappresentanza. Il nuovo Governo vede la nomina di una donna, l’ex diplomatica e docente universitaria Fowzia Yusuf Haji, a ministro degli Affari esteri e vice primo Ministro, una prima assoluta nel Paese del Corno d’Africa. C’è un’altra donna nell’esecutivo è Maryan Qassim, titolare del dicastero per lo Sviluppo sociale. Solo un anno fa il controllo del Paese era in mano agli Al Shabaab, e proprio nell’ottobre del 2011 truppe keniote entravano per la prima volta in territorio somalo. Il Kenya rivendicava il diritto a difendersi dai somali che facevano irruzione sul suo territorio per sequestrare stranieri. La risposta dei fondamentalisti di Al Shabaab è arrivata puntuale con attentati e rappresaglie in territorio keniota fino ad oggi. Quella dell’esercito di Nairobi sembrava dovesse essere una permanenza breve, ma un anno dopo, il 28 settembre 2012, sono stati proprio loro, sotto la bandiera dell’Amisom (la missione dell’Unione Africana, sotto l’egida dell’Onu, creata nel 2007), a liberare e riconquistare l’ultimo baluardo degli islamisti, la città portuale di Kismayo, caduta dopo cinque anni di rigido Governo della Sharia. Hassan Sheik, vittima di un attentato solo 48 ore dopo la sua elezione, ha vinto conquistando 190 seggi contro i 79 dell’ex Presidente Sharif Ahmed. Uno dei problemi che dovrà affrontare il
SOMALIA
Generalità Nome completo:
Somalia
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Somalo, arabo, italiano, inglese
Capitale:
Mogadiscio
Popolazione:
10.700.000
Area:
637.661 Kmq
Religioni:
Musulmana (99%)
Moneta:
Scellino somalo
Principali esportazioni:
Banane, bestiame, pellame e pelli, mirra, pesce
PIL pro capite:
Us 600
nuovo Governo è quello legato all’informazione e alla libertà dei giornalisti, somali in primo luogo. Alla data del 2 novembre sono 18 i reporter uccisi in Somalia. La maggior parte degli omicidi sembrano essere state aggressioni mirate, tutte avvenute in zone di Mogadiscio ufficialmente sotto il controllo del Governo e tutte sono rimaste impunite. Per questo, come sottolinea Human Rights Watch “affrontare l’impunità che fa da contorno a simili atrocità è una questione che non può più aspettare. Il nuovo Presidente dovrà rendere prioritario il fatto di indagare su questi omicidi”.
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L’eterno conflitto che si combatte in Somalia è certamente influenzato anche dalla forte instabilità che caratterizza l’intera Regione del Corno D’Africa. La vicina Etiopia, guidata da un Governo cristiano e circondata da Paesi musulmani, non ha esitato ad invadere la Somalia. Le truppe etiopi sono entrate a Mogadiscio nel 2006 per contrastare le Corti Islamiche ed evitare la nascita di uno Stato islamico in Somalia. Gli stessi Stati Uniti hanno bombardato più volte il territorio somalo considerato da Washington una base ideale per i terroristi islamici. A que-
sto va aggiunto il dramma di quella che molti definiscono come una vera e propria “economia di guerra” e che è costantemente alimentata da gruppi armati e potentati locali che da una simile instabilità, ormai al limite del collasso, traggono enormi profitti grazie anche a traffici illegali di armi e rifiuti. Un Paese caratterizzato da una drammatica frammentazione politica, economica e sociale, subita prima di tutto dalla popolazione civile somala, stremata da quella che l’Onu continua a definire come “la peggiore crisi umanitaria al mondo”.
Per cosa si combatte
E’ il 26 gennaio 1991, con la caduta del dittatore Siad Barre che incomincia il periodo forse più buio della storia della Somalia. Doveva essere la fine di una dittatura, si è trasformata in una guerra di tutti contro tutti, signori della guerra, clan, bande rivali. Il territorio è stato a poco a poco conteso e suddiviso in settori sotto il dominio di tribù senza scrupoli a colpi di Kalashnicov e di Tecniche, l’arma somala per eccellenza, il mitragliatore montato sul cassone aperto del Toyota Pick-Up. Dopo quasi 22 anni però le elezioni del nuovo Presidente hanno aperto uno spiraglio di luce sul futuro di questa terra. Un Paese che fino a ieri di fatto era ancora senza istituzioni, un popolo senza diritti. Solo violenza, attentati e povertà all’ordine del giorno, dove la vita di un uomo può valere poche decine di dollari americani. In realtà non è che prima del 1991 la Somalia avesse conosciuto lunghi periodi di pace. Dalla proclamazione dell’indipendenza del primo luglio 1960, che vede l’unificazione della Somalia dell’amministrazione fiduciaria italiana (19501960) e del Somaliland protettorato britannico, per nove anni aveva visto un Governo della repubblica somala legittimamente eletto. Nel 1969 Siad Barre con un colpo di stato prende il potere ed instaura il suo regime. Nel 1977 Barre muove guerra contro l’Etiopia per la Regione dell’Ogaden, Regione etiope con alta presenza di popolazione somala da sempre rivendicata dalla Somalia. Il regime interno è poco tollerato, gli scontri aumentano e dal 1980 assumono il profilo di una vera e propria guerra civile. La Regione del Somaliland (ex Somalia britannica unificata nel 1960 nella Repubblica Somala) rivendica una propria autonomia fino ad arrivare alla auto proclamazione d’indipendenza del 18 maggio 1991. Molti oppositori al regime di Siad Barre vengono arrestati ed incarcerati, altri esiliati ed altri scappano di propria iniziativa. Dopo la caduta del regime di Siad Barre e lo scoppio degli scontri interni, la comunità internazionale decise di intervenire con l’invio di una missione Onu, la Unosom. Obiettivo della missione, nota anche come “Restore Hope”, era quello di creare un margine di sicurezza per l’invio di aiuti umanitari per la popolazione civile vittima da sempre dei conflitti somali. Ma
la intricata situazione di controllo del territorio da parte dei signori della guerra, principalmente dei due grandi oppositori di quegli anni Ali Madi da una parte e il generale Aidid dall’altra, conducono la missione Onu ad un fallimento simbolicamente identificato con la battaglia di Mogadiscio e l’abbattimento dell’elicottero americano Black Hawk. La Unosom si ritira nei primi mesi del 1994 a due anni dal suo primo invio. Anche l’Italia era presente in Somalia con la missione Ibis che si ritira il 20 marzo 1994, lo stesso giorno in cui vengono barbaramente assassinati Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Gli anni successivi sono caratterizzati da una sempre maggiore frammentazione del territorio da parte dei sempre crescenti “lord war”. In questi anni la Somalia è anche la vera terra di nessuno, inesistenza di controlli frontalieri, una frammentazione territoriale e clanica gestita dal solo controllo delle armi. Questa situazione consente lo svolgimento di traffici illeciti, rifiuti dispersi in mare e sotterrati nel deserto somalo in cambio di armi, fino alla formazione di veri campi di addestramento della milizia jihadista. Intanto i diversi clan e i molti signori della guerra, sollecitati dalla comunità internazionale e dall’Unione Africana, si incontrano cercando di trovare l’accordo. Molte le conferenze di pace messe in atto, ma ogni volta si concludono con un nulla di fatto. Bisogna aspettare il 2004 per vedere, a conclusione della quattordicesima conferenza di pacificazione, la nomina di un parlamento di transizione che elegge Presiden-
Quadro generale
Taglia su Obama
Come hanno riferito sia l’Ansa che TmNews e altre importanti agenzie, nel mese di giugno dopo che il Governo americano ha messo una maxi-taglia di 33milioni di dollari per la cattura dei sette principali leader del movimento islamico somalo, e in particolare su uno dei fondatori degli shebab, Ahmed Abdi aw Mohamed, alias Abu Zubayr, meglio noto con il soprannome di Godane (sulla cui testa pende la taglia più alta, sette milioni di dollari) molti capi degli Shabaab hanno ironizzato: “Gli Shabaab sono pronti a ricompensare con cammelli e polli chi dia informazioni per la cattura o l’uccisione dei principali leader Usa. Sheikh Mohamed Khalaf detto Shongole, ha detto di essere pronto a offrire “dieci cammelli per qualsiasi informazione riguardante Barack Obama, dieci galline e dieci galli a chi fornisca notizie su Hillary Clinton”. Ha poi anche aggiunto: “Posso assicuravi che questo genere di cose non ci dissuaderà mai dal proseguire la guerra santa”. UNHCR/B. Bannon
Samantha Lewthwaite
Stampa nel mirino
Sono 18 i giornalisti assassinati in Somalia da gennaio a ottobre del 2012 29 October 2012 - Warsame Shire Awale - Radio Kulmiye 28 October 2012 - Mohamed Mohamud Turyare - Shabelle Media Network 23 October 2012 - Ahmed Saakin Farah Ilyas - Universal Television 29 October 2012 - Warsame Shire Awale - Radio Kulmiye 28 October 2012 - Mohamed Mohamud Turyare - Shabelle Media Network 23 October 2012 - Ahmed Saakin Farah Ilyas - Universal Television 28 September 2012 - Ahmed Abdulahi Farah - Saba 26 September 2012 - Abdirahman Mohamed Ali - Ciyaarahamaanta 21 September 2012 - Hassan Youssouf Absuge - Radio Mantaa 20 September 2012 - Liban Ali Nur - Somali National TV 20 September 2012 - Abdisatar Daher Sabriye - Radio Mogadiscio 20 September 2012 - Abdirahman Yasin Ali - Radio Hamar (Voice of Democracy) 16 September 2012 - Zakariye Mohamed Mohamud Moallim - freelance 12 August 2012 - Mohamud Ali Keyre - Horyaalmedia.com 31 July 2012 - Abdi Jeylani Malaq - Universal TV 24 May 2012 - Ahmed Ado Anshur - Radio Shabelle 2 May 2012 - Farhan James Abdulle - Daljir Radio 5 April 2012 - Mahad Salad Adan - Voice of Hiran - Radio Shabelle 4 March 2012 - Ali Ahmed Abdi - Radio Galkayo - Somali Online 28 February 2012 - Abukar Hassan Mohamoud - Radio Somaliweyn 28 January 2012 - Hassan Osman Abdi - Shabelle Media Network
te Abdullahi Yusuf Ahmed e un Governo Federale di Transizione (Tfg) che dopo un primo periodo di attività da Nairobi, a giugno 2005 entra in Somalia. Mogadiscio però è considerata ancora troppo pericolosa e nelle mani dei diversi “lord war” così il Governo di transizione risiede per un periodo a Johwar e poi a Baidoa. Nell’estate 2006 gli scontri iniziati dentro Mogadiscio fra i lord war e le milizie jihadiste somale portano queste ultime, controllate dalle Corti islamiche, a scacciare i signori della guerra e a prendere il controllo della città. Da Mogadiscio poco alla volta le Corti Islamiche prendono il controllo di buona parte della
I PROTAGONISTI
zona sud della Somalia fino ad arrivare alle porte di Baidoa, la città di residenza e controllo del Tfg che nel frattempo aveva ottenuto la tutela dell’Onu e l’appoggio militare dell’Etiopia. Da Baidoa riparte l’offensiva governativa che con il determinante intervento dell’esercito etiope e il sostegno dei militari della Regione del Puntland, rispondono al tentativo delle Corti di conquistare Baidoa, con un attacco senza precedenti porta in pochissimo tempo alla conquista di Mogadiscio. Il Tfg ottiene così ufficialmente il controllo della capitale, ma nei fatti ha inizio un lungo periodo di attentati da parte dei fondamentalisti islamici, ai palazzi della presidenza e del governo con numerose vittime fra i civili e decine di migliaia di sfollati che abbandonano il centro di Mogadiscio.
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La polizia britannica l’ha definita la “vedova nera”. Per i somali è la “sorella bianca”. Nomi di battaglia che non cambiano la sua missione: organizzare attacchi terroristici, preferibilmente in Kenya. La “sorella bianca” è Samantha Lewthwaite una cittadina inglese di 28 anni, moglie di uno dei kamikaze dell’attentato del 7 luglio 2005 a Londra. La ragazza è entrata a far parte di un nucleo qaedista e da molti mesi è segnalata in Africa. In Kenya dove è sospettata di aver collaborato con una cellula eversiva, e poi forse in Somalia. Samantha, secondo fonti citate dal quotidiano inglese “Telegraph”, sarebbe in contatto con il movimento degli Shebab. Un forum islamista scrive: “Per cinque volte la sorella bianca ha sconfitto gli infedeli in Kenya e Tanzania. Lei ha offerto la vita ad Allah, e oggi comanda un’unità composta da sole donne”. La polizia è al lavoro per verificare queste affermazioni ma non esclude che Samantha stia seguendo la preparazione di un gruppo femminile di guerrigliere. Altro indizio viene da un suo presunto complice, arrestato in Kenya, che l’avrebbe indicata come finanziatrice e militante a tempo pieno.
UNHCR/S. Modola
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2011 uscito nel giugno 2012 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DAL SUDAN RIFUGIATI
500.014
PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI CIAD
298.311
SUD SUDAN
76.845
ETIOPIA
45.286
SFOLLATI PRESENTI NEL SUDAN 2.422.520 RIFUGIATI ACCOLTI NEL SUDAN RIFUGIATI
139.415
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI ERITREA
100.464
CIAD
31.871
L’Unione Africana vuole il referendum
Il Consiglio Pace e sicurezza dell’Unione Africana (Ua) garantirà il proprio sostegno perché si giunga allo svolgimento del referendum sullo status di Abyei, la Regione petrolifera contesa al confine tra Nord e Sud Sudan. L’organismo dell’Ua l’ha annunciato nel novembre 2012, concedendo sei settimane ai due Paesi per indicarne le modalità di svolgimento. La questione di Abyei era rimasta irrisolta anche nell’ambito dei diversi accordi sottoscritti dai due Presidenti – Omar el Bashir per il Sudan e Salva Kiir per il Sud Sudan – firmati alla fine di settembre del 2012. Il Consiglio ha annunciato che, in caso di mancato accordo, il referendum verrebbe organizzato sotto gli auspici dell’Onu nell’ottobre 2013. La consultazione avverrebbe fra i residenti nella Regione, escludendo la comunità nomade dei Misseriya, che invece il Governo di Khartoum vorrebbe includere fra i partecipanti. I Misseriya sarebbero favorevoli a rimanere col Sudan, i residenti di Abyei, invece, sarebbero in maggioranza pro Sud Sudan.
UNHCR/W. Stone
Il 2012 si apre con una dura diatriba fra Nord e Sud Sudan per la questione dei diritti di pedaggio che il Sud deve pagare al Nord per usarne gli oleodotti. Il Governo di Juba sceglie la linea dura: interrompe la produzione di greggio, privando il Governo di Khartoum di un ingente introito (ma anche se stesso, dato che il 98% delle entrate dello Stato dipendono dal petrolio). Seguono mesi di trattative e accordi subito disattesi: gli scontri armati al confine continuano. Nel maggio 2012 Khartoum ritira le sue truppe da Abyei (ricca di greggio, controllata dal Nord ma reclamata dal Sud). Decisione che consente di riaprire il tavolo di trattative fra i due Paesi. Intanto, però, la situazione economica del Paese precipita: il crollo delle entrate dovuto al blocco di produzione decretato da Juba provoca una progressiva impennata dei prezzi e dell’inflazione. Il Governo sudanese, per fronteggiare la crisi, emana drastiche misure di austerità, fra le quali i tagli ai sussidi sul carburante e su alcuni beni di prima necessità. La popolazione reagisce scendendo ripetutamente in piazza. Sul versante bellico, il Paese si trova in una situazione difficile: è l’unico Stato al mondo ad avere quattro fronti di guerra interna: il Darfur, il Blue Nile, il Sud Kordofan e Abyei. Verso la fine di luglio 2012 si riaccende il conflitto in Darfur. L’esercito di Khartoum si scontra con i ribelli del Jem (Movimento per la giustizia e l’eguaglianza) e proclama di aver ucciso una cinquantina dei suoi miliziani. Scontri e scaramucce continuano nei mesi successivi, nel solo mese di ottobre 2012, tre diversi agguati uccidono cinque caschi blu di Unamid, la missione ibrida Onu-Unione Africana dispiegata nella Regione Occidentale del Sudan. Intanto, peggiora la situazione nel Blue Nile e nel Sud Kordofan: centinaia di migliaia di profughi fuggono in Sud Sudan dove si viene a creare – specie nell’immenso campo rifugiati di Yida – una grave emergenza umanitaria. Finalmente, l’8 agosto, Khartoum e Juba raggiungono un primo accordo sulla questione dell’utilizzo degli oleodotti. E il 27 settembre 2012 il Parlamento di Khartoum (in contemporanea con quello di Juba) ratifica l’accordo rag-
SUDAN
Generalità Nome completo:
Repubblica del Sudan
Bandiera
Lingue principali:
Arabo, i diversi gruppi etnici parlano oltre 400 lingue locali, inglese
Capitale:
Khartoum
Popolazione:
34.500.000
Area:
1.886.068 Kmq
Religioni:
Musulmani (60%, predominanti fra arabi e nuba, nelle regioni del Centro-Nord), cattolici (15,5%), arabi cristiani (1%), aderenti a religioni tradizionali (23,5%)
Moneta:
Sterlina sudanese
Principali esportazioni:
Petrolio e prodotti petroliferi, cotone, sesamo, arachidi, gomma arabica, zucchero, bestiame
PIL pro capite:
Us 2.700
giunto ad Addis Abeba. Le intese riguardano la gestione del petrolio, i confini, la creazione di una fascia demilitarizzata lungo la frontiera e il reciproco riconoscimento dei diritti di cittadinanza (ma resta irrisolto lo status amministrativo della Regione petrolifera di Abyei).
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
98
Il Governo sudanese non può permettersi di perdere altre aree del suo territorio, con la secessione del Sud, ha dovuto rinunciare all’85% delle riserve di greggio e a buona parte della produzione agricola, che proveniva dalle fertili Regioni Meridionali, passate sotto il controllo di Juba. Il Paese, di fatto, è a rischio di disgregazione: ben quattro Stati della federazione sono abitate da una popolazione che in maggioranza rifiuta il potere di Khartoum. Nel Darfur non c’è alcuna evoluzione che faccia pensare a una soluzione della difficile situazione che perdura dal 2003 (nonostante la ripresa delle trattative fra Governo e ribelli verso la fine di novembre 2012 in Qatar), e che non riesplode con la stessa violenza dei primi anni di guerra civile solo per la
presenza della missione Onu. L’altra cruciale ragione dei combattimenti – che riguarda invece gli Stati del Nord a ridosso del confine col nuovo Paese secessionista – è il petrolio. Quel 15% dei giacimenti rimasti in mano al Governo di Omar Hassan El Bashir si trovano nelle Regioni di Abyei, del Sud Kordofan e del Nilo Azzurro, tre aree dove storicamente il movimento ribelle aveva massicciamente appoggiato l’Spla (l’Esercito di Liberazione del Sud Sudan) nella lunga guerra contro il Nord. Nelle tre Regioni si chiede il referendum per l’autodeterminazione, che finora il Governo sudanese non ha mai voluto concedere. Nel caso di Abyei, peraltro, la consultazione era stata prevista già negli accordi di pace del 2005, ma Khartoum finora ne ha impedito la realizzazione.
Per cosa si combatte
La storia tardo coloniale e post-coloniale del Paese africano è stata sempre caratterizzata da conflitti, tensioni e violenze nelle diverse regioni del Paese. Una sequela ininterrotta di guerre civili che ne hanno segnato tutta la storia, tanto che si può affermare che il grande Paese africano non ha mai avuto periodi significativi di pace e stabilità. Dagli anni ‘50 è stato un continuo susseguirsi di colpi di Stato e di giunte militari. Anche l’attuale Presidente, Omar Hassan El Bashir, che guida il Paese dal 1989, è salito al potere con un golpe. Altrettanto costanti nel tempo sono state le tensioni e gli scontri armati fra il Nord del Paese, arabo e islamizzato, e il Sud, africano e cristiano-animista. Solo con la secessione delle Regioni Meridionali e la nascita della Repubblica del Sud Sudan, avvenuta il 9 luglio 2011, questo interminabile conflitto si è chiuso, aprendone tuttavia altri, nei territori contesi degli Stati di Abyei, del Sud Kordofan, del Nilo Azzurro, ossia quegli Stati della federazione ai quali il Governo di Khartoum non ha consentito di scegliere attraverso l’autodeterminazione se rimanere con il Nord o passare nel nuovo Stato della Repubblica del Sud Sudan. La fase bellica più lunga e cruenta è stata sicuramente la guerra combattuta fra il 1983 e il 2003: i gruppi ribelli (guidati dalla più importante delle fazioni, l’Spla-Esercito di Liberazione del Popolo Sudanese) si sono battuti per ottenere l’indipendenza dal Nord. Quello che non hanno ottenuto le armi, poi, l’ha fatto il petrolio: il bisogno crescente di greggio ha portato la comunità internazionale (Stati Uniti e Cina in testa) a moltiplicare le pressioni per il raggiungimento della pace, anche perché la maggior parte dei giacimenti si trovavano nella zona di confine fra il Nord e il Sud del Paese (e ora, con la divisione in due seguita alla secessione, l’85% dei giacimenti è rimasto nel territorio del nuovo Stato, nel Sudan Meridionale). La fine del conflitto sudanese, fortemente voluta dai Paesi industrializzati e ottenuta con gli
Accordi generali di pace del 2005, ha portato in breve tempo allo sviluppo delle infrastrutture per l’industria estrattiva e all’assegnazione di molte concessioni petrolifere (in gran parte accaparrate dalla Cina), tanto che alla vigilia della divisione dei due Stati il petrolio costituiva l’80% delle esportazioni del Paese. Ma con la nascita della Repubblica del Sud Sudan sono sorti nuovi problemi: il grosso dei giacimenti è rimasto nel Sud, ma le infrastrutture sono rimaste al Nord. Inoltre, fra i due Stati si sono dovuti ridiscutere il sistema delle divisioni delle royalties e gli accordi per l’utilizzo da parte del Sud Sudan degli oleodotti che attraversano le Regioni del Nord. Problemi, questi ultimi, che hanno provocato la gran parte delle tensioni e degli scontri armati lungo la frontiera nel corso del 2012, fino all’accordo siglato ad Addis Abeba in ottobre. Sul piano internazionale, il Governo sudanese ha da molti anni rapporti non facili con l’Europa e con la gran parte dei Paesi industrializzati occidentali. Con gli Stati Uniti, le relazioni sono state a lungo molto tese, specie dopo il 2001, quando l’intelligence americana appurò che Osama bin Laden era stato protetto a Khartoum per lunghi periodi. Tensioni che erano sfociate in aperta ostilità nei primi anni della guerra ci-
Quadro generale
Quel che resta del petrolio
Centoventimila barili al giorno. È ciò che resta della produzione petrolifera sudanese dopo la secessione del Sud. Nel 2012, questa è stata la produzione del Paese africano secondo i dati del Fondo Monetario Internazionale (Fmi). All’inizio dell’anno l’obiettivo era stato fissato in 180mila barili/giorno, ma pare che problemi tecnici e la presenza di giacimenti “maturi” abbiano portato a una produzione di greggio ridotta. Sempre secondo l’Fmi, la separazione dal Sud Sudan (luglio 2011) ha dimezzato le entrate fiscali del Governo di Khartoum, ma ritiene tuttavia che future esplorazioni e la ripresa dell’attività di giacimenti esistenti potrebbero far crescere la produzione petrolifera già nel 2013, fino a raggiungere i 240mila barili/giorno nel 2020.
UNHCR/L. Aström
Ali Mahdi Nouri (Khartoum)
UNHCR/ V.Tan
La questione dei Nuba
Da giugno del 2011 sui Monti Nuba (Sud Kordofan) è guerra. Bombardamenti, raid aerei, incursioni dell’esercito di Khartoum si susseguono. Un’azione di repressione che presenta tragiche analogie con quanto avvenuto in Darfur nei primi anni della guerra civile. Da più parti, nella comunità internazionale, si parla esplicitamente di genocidio in atto. Si stima che almeno mezzo milione di persone abbia abbandonato i propri villaggi per cercare scampo dal conflitto fuggendo in Sud Sudan, dove vanno a ingrossare i campi dei rifugiati, accanto ai profughi provenienti dalle altre aree del Sud Kordofan e del Blue Nile. Il personale umanitario e i missionari che hanno potuto verificare sul posto la situazione, hanno riferito nel corso del 2012 di una situazione umanitaria drammatica, con i piccoli ospedali della Regione colmi di feriti, donne e bambini mutilati. Il conflitto oppone le Forze armate sudanesi all’Spla-N, ossia l’Esercito popolare del Sudan-Nord. I leader della ribellione accusano il Governo di aver mobilitato 45mila combattenti, per lo più reclutati dalle Forze di difesa popolari (organizzazioni paramilitari), per lanciare i loro attacchi. Khartoum, dal canto suo, accusa il Governo di Juba di sostenere i guerriglieri. Per la martoriata popolazione dei Nuba, alla guerra si aggiunge il dramma dell’assenza quasi totale di aiuti umanitari (e del silenzio generale dei mezzi d’informazione su quanto sta avvenendo): il Governo sudanese ha per lungo tempo negato l’accesso agli aiuti umanitari. Unione africana, Lega araba e Nazioni unite, nella primavera del 2012, avevano anche firmato un documento (“Proposta per la libertà di accesso degli aiuti umanitari”) per fare pressione su Khartoum e ottenere l’apertura di corridoi umanitari. Richiesta che ha trovato ascolto solo nel giugno 2012, ma a condizione che non venissero aperti campi profughi in territorio sudanese.
vile del Darfur, quando il Governo statunitense aveva operato forti pressioni diplomatiche per ottenere dall’Onu che la repressione di Khartoum sui darfuriani fosse considerata genocidio, decisione che avrebbe comportato l’intervento armato sotto l’egida delle Nazioni Unite in territorio sudanese (all’epoca ancora unito al Sud Sudan). I forti contrasti fra Washington e Khartoum si
I PROTAGONISTI
erano attenuati nella fase precedente al referendum per la secessione del Sud, e in tutta la fase seguente fino alla proclamazione dell’indipendenza dello Stato di Juba. Nel 2012 le tensioni fra i due Paesi sono nuovamente cresciute, in coincidenza con le dispute sul confine fra Nord e Sud Sudan e con l’esplodere dei nuovi focolai di conflitti civili nelle Regioni Meridionali (Sud Kordofan, Blu Nile e Abyei) nelle quali la maggioranza della popolazione vuole l’annessione al Sud Sudan. Dal 1997 gli Stati Uniti rinnovano di anno in anno l’embargo nei confronti del regime di Khartoum.
99
Attore, regista e musicista sudanese, Ali Mahdi Nouri usa da sempre l’arte come strumento di dialogo, dimostrando come il teatro possa essere essenziale per costruire processi di pace. Direttore dell’organizzazione “Villaggi del Fanciullo”, nel 2012 è stato premiato dall’Unesco come “artista della Pace” Le sue attività si svolgono quasi sempre al fronte, dove bambini soldato e rifugiati politici sono costretti a vivere, spesso senza una famiglia, in campi d’accoglienza e centri di primo soccorso, privati del naturale diritto a vivere. Oltre a essere presidente dell’associazione impegnata in Sudan con 2 Villaggi Sos e altre strutture di accoglienza per minori orfani, abbandonati e senza famiglia sostenuti con le adozioni a distanza, è anche attore e direttore teatrale. Nel 2004 ha fondato l’AlBuqaa, un’esperienza di teatro itinerante attraverso le zone in guerra del Sudan, dove ha portato performances teatrali basate su racconti popolari, tradizioni e storie dell’Africa. Lo scopo – dichiara – è di fare dell’arte un veicolo creativo per il dialogo e la multiculturalità, la pace, il reinserimento e la socializzazione per tanti bambini cresciuti e costretti a vivere in contesti difficili.
100
Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2011 uscito nel giugno 2012 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DAL SUD SUDAN RIFUGIATI
1
SFOLLATI PRESENTI NEL SUD SUDAN 560.161 RIFUGIATI ACCOLTI NEL SUD SUDAN RIFUGIATI
105.023
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI SUDAN
76.845
REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO
22.186
Bimbi, record di mortalità
Decenni di schiavizzazione e 20 anni di guerra hanno mantenuto la popolazione del Sud Sudan in una condizione di estrema povertà e ignoranza, con cui il Governo deve ora fare i conti. È sul versante medico-sanitario che il Paese ha gli indicatori peggiori. La percentuale di mortalità materna, ad esempio, è la più alta al mondo: secondo i dati Onu, una donna su sette rischia di morire a causa del parto o per complicazioni legate alla gravidanza. Quasi la metà dei bambini sotto i 5 anni (il 48%) è malnutrita. Solo uno su quattro è vaccinato contro il morbillo, e appena il 5% dei parti è seguito da staff sanitari specialistici.
Fabio Bucciarelli
Il blocco per mesi della produzione di greggio dovuto ai contrasti con Khartoum, le piogge inferiori alla media, i problemi di insicurezza in varie Regioni del Paese, tutti fattori che hanno determinato, nel corso del 2012, una grave crisi alimentare nel Sud Sudan: otto milioni di persone sono stati colpiti dalla scarsità di cibo. Ma di questi circa un milione ha vissuto una situazione ancor più grave, di vera insufficienza alimentare. L’elemento scatenante della crisi è stato indubbiamente la sospensione della vendita di greggio (costituisce il 98% degli introiti statali): ha ridotto in modo drastico la disponibilità di dollari, la moneta di riferimento per le importazioni, provocando conseguenze a catena. Il prezzo della benzina si è impennato e l’inflazione è salita vertiginosamente (a maggio 2012 aveva toccato, su base annua, l’80%). Ne è seguito un aumento vertiginoso dei prezzi, specie per i prodotti alimentari di base, portando letteralmente alla fame le fasce più vulnerabili della popolazione (oltre il 50% dei Sud sudanesi era già sotto la soglia di povertà). Una crisi che ha aggravato condizioni già pesantissime. «Si dovrà sostenere questo Paese per lungo tempo. Non basteranno tre anni e nemmeno dieci. Il Paese è indietro di 50 anni rispetto al resto dell’Africa», aveva dichiarato nel marzo 2012 Yasmin Alì Haque, responsabile dell’Unicef per il Sud Sudan. «A causa del conflitto, della mancanza di investimenti, della scarsità di infrastrutture». Il Paese delle emergenze. La percentuale di vittime nell’ambito materno-infantile è fra le più alte del mondo. Vi sono tassi elevati di malaria, malattie intestinali, malnutrizione. Per un bambino Sud sudanese arrivare in salute ai cinque anni è già un’impresa. E le priorità sono tante: l’accesso all’acqua potabile, la costruzione di un adeguato sistema sanitario, la piaga della malnutrizione infantile. Anche l’istruzione è uno dei grandi problemi del Sud Sudan: fra i 6 e i 17 anni solo il 30% dei ragazzi sa leggere e scrivere. Solo il 12% dei
SUD SUDAN
Generalità Nome completo:
Repubblica del Sudan del Sud
Bandiera
101
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Inglese (ufficiale), arabo (ufficiale), denka, nuer, zande, bari, shilluk
Capitale:
Juba
Popolazione:
10.625.000
Area:
619.745 Kmq
Religioni:
Cristiana, religioni tradizionali africane, islam
Moneta:
Sterlina sud-sudanese
Principali esportazioni:
Petrolio (98% del budget dello Stato)
PIL pro capite:
2.100
minori arriva alla licenza della scuola primaria, e meno del 10% delle bambine. Quanto agli insegnanti, nel Paese c’è soltanto il 13% dei docenti di cui ci sarebbe bisogno. Un’arretratezza eredità delle lunghe guerre, che il giovane Stato paga su tutti i fronti. Al momento dell’indipendenza, per esempio, l’intero sistema sanitario Sud sudanese poteva contare su 39 medici locali, di cui 20 impiegati in cliniche private, e mancava di almeno un migliaio di infermieri e paramedici. Ospedali e centri di salute, per ora, si reggono sulle Ong e sulle agenzie internazionali.
Juba si sono risolte con l’accordo. Il periodo peggiore è stato in primavera del 2012: gli eserciti dei due Paesi si sono combattuti nella zona petrolifera di Heglig e poco dopo Khartoum ha bombardato la città Sud sudanese di Bentiu, nello stato di Unity. Se l’accordo ha risolto molti contenziosi, non ha affrontato invece il nodo dello status di Abyei, la Regione proprio al centro fra i due Paesi: la grande maggioranza dei suoi abitanti vuole poter votare l’autodeterminazione, per passare col Sud Sudan, ma il Nord finora non ha consentito il voto (previsto dagli accordi di pace del 2005), anche perché perderebbe un’altra area ricca di petrolio. Nel novembre 2012 il Consiglio Pace e sicurezza dell’Unione Africana (Ua) si è pronunciato per lo svolgimento del referendum. Ha concesso sei settimane ai due Paesi per indicarne le modalità di svolgimento, dopo di che – ha chiarito l’organismo dell’Ua – la consultazione verrà organizzata sotto gli auspici dell’Onu nell’ottobre 2013.
Per cosa si combatte
La terra in svendita
Tra il 2007 e il 2010, in Sud Sudan, 2,6milioni di ettari di terreni sono stati affittati da società e Governi stranieri o da singoli uomini d’affari. È uno dei Paesi dove il cosiddetto fenomeno del “land grabbing” (traducibile come “accaparramento della terra”) è negli ultimi anni più vistoso. È una porzione di territorio che equivale all’intero Rwanda. Ma se si considerano tutti gli investimenti legati alla terra nei diversi settori, prima e dopo gli accordi di pace del 2005, la superficie di terra acquisita raggiunge i 5,74milioni di ettari (57400 Km²), ossia il 9% della superficie totale del Paese (mentre le terre ad uso agricolo della popolazione locale non supera l’1%)
102
Nel corso del 2012 il Sud Sudan ha vissuto almeno 15 situazioni diverse di emergenza umanitaria, in gran parte dovute a scontri armati. La più grave, forse, è quella dei rifugiati fuggiti dalla guerra oltre frontiera: 55mila profughi nel campo di Yida, provenienti dalle Regioni di Unity e Sud Kordofan; altri 115mila nei campi di Batil, Doro, Jamam, nelle Regioni Nord-orientali del Paese, in fuga dagli scontri nel Blue Nile. Inoltre, vi sono 200mila sfollati interni sono fuggiti dai violenti scontri interetnici nella regione di Jonglei, e, ancora, 70mila scappati dalla zona di confine col Centrafrica, dove si sono verificate diverse incursioni e saccheggi dei ribelli appartenenti all’Lra, l’Esercito di liberazione del Signore guidato da Joseph Kony (il gruppo ribelle che da tempo ha lasciato l’Uganda spostando il suo raggio d’azione fra Rd Congo, Centrafrica e, appunto, Sud Sudan). Insomma, un anno di conflitti, intestini e oltre confine. Fino ad ottobre, quando l’accordo su molte delle questioni aperte fra Khartoum e
Fabio Bucciarelli
La Repubblica del Sud Sudan è la più giovane nazione africana. È nata ufficialmente il 9 luglio 2011, quando è stata proclamata a Juba, la capitale, l’indipendenza dal Sudan. È il 54° Stato dell’Africa e il 193° delle Nazioni Unite. La secessione dal regime di Khartoum è stata conquistata col sangue: quasi mezzo secolo di guerre, delle quali l’ultima è durata ben 22 anni: dal 1983 al 2005. Il trattato di pace che ha chiuso il conflitto aveva anche fissato le tappe successive: un periodo di transizione di cinque anni, nei quali il Sud avrebbe goduto di ampia autonomia e il referendum per l’autodeterminazione, svoltosi il 9 gennaio 2011, nel quale il 98,83% dei votanti si è espresso a favore della secessione. Il neonato Paese africano ha la libertà, ma poco altro. È ancora alle prese con le ferite profonde dei decenni di guerra civile che hanno opposto il Nord arabo e musulmano e il Sud, africano e
cristiano-animista, non solo per ragioni religiose ed etniche, ma anche per l’iniqua distribuzione delle ricchezze nazionali e degli investimenti da parte dei governi di Khartoum. Il conflitto, aggravato da prolungate carestie, ha causato due milioni di morti e quattro di rifugiati e sfollati. Ma anche la distruzione quasi totale delle infrastrutture: scuole, strade, ponti, ospedali. Oltre alle enormi carenze dello stato sociale, nella sua breve storia il Sud Sudan ha dovuto affrontare diverse crisi umanitarie. La prima, quella legata al rientro in massa di 350mila Sud sudanesi che durante la guerra erano emigrati nelle Regioni del Nord e che sono rientrate in patria con l’indipendenza. Inoltre, sono scoppiati scontri etnici in diverse aree del Paese, il più grave dei quali ha provocato migliaia di morti nella Regione del Jonglei, con decine di migliaia di sfollati. Altre
Quadro generale
Salva Kiir Mayardit (Bahr el Ghazal, 13 settembre 1951)
Petrolio ai colossi statunitensi
Tra le prime decisioni prese dal Presidente Salva Kiir all’indomani dell’indipendenza c’è stata quella di annullare immediatamente buona parte di una grossa concessione petrolifera, accordata, a suo tempo, alla società francese Total. Si trattava di un grosso blocco pari a un’estensione territoriale di circa 120mila chilometri, nella Regione Orientale di Jonglei. Alla Total rimase un terzo circa della concessione. Gli altri due furono dati all’americana Exxon Mobile e alla kuwaitiana Kufpec (altri accordi per prospezioni e ricerca in seguito sono stati siglati anche con società cinesi e malesi). Le compagnie statunitensi avevano lasciato il Sudan fin dagli anni ‘90, nella fase più drammatica della guerra civile. Che rientrassero subito nella grande partita del petrolio Sud sudanese (350/400mila barili prodotti al giorno) non c’erano dubbi: Washington è stata uno degli alleati principali del Sud Sudan nel suo cammino verso l’indipendenza. 103
Salva Kiir Mayardit è l’uomo che ha pronunciato la fatidica formula che proclamava l’indipendenza del Sud Sudan e la nascita del nuovo Stato. Ne è quindi il primo, e finora unico, Presidente. Nato a Bahr al Ghazal il 3 ottobre 1951, è uno dei fondatori dell’Splm, il Movimento Popolare di Liberazione Sudanese, del quale guidò per lungo tempo l’ala armata. Il 26 aprile del 2010 aveva vinto (col 93% dei consensi) le elezioni nel Sudan del Sud, diventando, allora, Presidente dello Stato semiautonomo delle regioni meridionali e vicepresidente del Sudan. Salva Kiir è cristiano e appartiene all’etnia dinka, maggioritaria nel Sudan meridionale. È considerato l’erede di John Garang, il leader storico della lotta per i diritti del Sud, morto nel 2005 – poco tempo dopo la firma dell’accordo di pace – in un misterioso incidente. Rispetto a Garang, Kiir è considerato di idee più radicali. Mentre Garang era favorevole all’ipotesi di uno Stato federato con il Nord, Kiir ha sempre sostenuto l’indipendenza da Khartoum. In occasione del referendum incitava i Sud sudanesi a non accettare di essere “cittadini di seconda classe nel Sudan unito, ma persone libere nel loro Stato indipendente”.
Fabio Bucciarelli
emergenze umanitarie sono state provocate nel Sud-Ovest, lungo il confine col Centrafrica a causa delle incursioni del gruppo ribelle del Lra (Esercito di resistenza del Signore). E, ancora, lungo il confine Nord, per via degli scontri fra l’esercito di Khartoum e i gruppi armati del Sud Kordofan e del Blue Nile, due Regioni le cui popolazioni non hanno potuto votare per l’autodeterminazione, pur avendo combattuto con l’Spla (l’Esercito di liberazione del Sud Sudan) la guerra per l’indipendenza, e volendo in larga maggioranza far parte del nuovo Stato meridionale. Il conflitto in atto ha spinto alla fuga oltre 200mila profughi oltre confine. Quanto alla situazione economica del Paese, dipende totalmente dal petrolio. L’85% delle riserve di greggio, con la scissione in due del grande Sudan è rimasto nei territori dello Stato di Juba. Il Sud Sudan è in grado di estrarre fra 350 e 400mila barili di petrolio al giorno. Ma i soli oleodotti utilizzabili, realizzati prima del referendum e dell’indipendenza, sono quelli che
I PROTAGONISTI
attraversano il Nord. Il contenzioso sul “diritto di passaggio”, per il quale Khartoum esigeva un prezzo salatissimo, ha portato il Governo del Sud a interrompere, nel gennaio scorso le estrazioni. Una situazione delicatissima, dato che le esportazioni di greggio costituiscono il 98% delle entrate dello Stato, che si è risolta solo nell’ottobre del 2012 con un accordo secondo il quale il Governo di Juba pagherà a quello di Khartoum tra 9 e 11 dollari al barile per poter utilizzarne le pipeline. C’è il progetto di realizzare due altri oleodotti, uno attraverso Etiopia e Gibuti e l’altro attraverso il Kenya, ma occorreranno due o tre anni per realizzarli. Il petrolio non è l’unico problema fra i due Paesi. Anche le questioni della demarcazione del confine e della libertà di movimento delle popolazioni (ovvero del riconoscimento reciproco della cittadinanza) si sono risolte dopo mesi di dure trattative, intervallate da scontri a fuoco e scaramucce fra i due eserciti, con momenti di altissima tensione che hanno fatto temere lo scoppio di una nuova guerra. L’accordo del 17 ottobre 2012 ha chiuso il contenzioso anche su questi problemi (ratificato contemporaneamente dai Parlamenti di entrambi i Paesi).
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2010 uscito nel giugno 2011 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DALL’UGANDA RIFUGIATI
5.680
SFOLLATI PRESENTI NELL’UGANDA 29.776 RIFUGIATI ACCOLTI NELL’UGANDA RIFUGIATI
139.448
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO
81.487
SUDAN
18.268
SOMALIA
14.023
Heart Radio
Si chiama Heart radio Uganda ed è una delle iniziative del Fondo mondiale per la popolazione per diffondere informazioni utili sulla maternità e la contraccezione in Uganda. La contraccezione, in Uganda, è una questione che ha a che fare con la salute e con la tutela dei diritti umani se si pensa che su una popolazione di 34milioni di persone e una media di 6 figli per ogni donna il Paese ha uno dei ritmi di crescita demografica più alti del mondo ma anche uno dei sistemi sanitari più inadeguati e carenti, oltre ad una impostazione culturale e religiosa che vede ancora in una famiglia numerosa motivo di prestigio e un numero più alto di braccia per lavorare. Le organizzazioni umanitarie hanno calcolato che nel 2012 nei Paesi più poveri del mondo sono state almeno 80milioni le gravidanze indesiderate, 40milioni gli aborti, 100mila le partorienti decedute e 1milione e mezzo i decessi di neonati.
L’intensificarsi, nel 2012, degli scontri nella Repubblica Democratica del Congo tra l’esercito e i ribelli del gruppo M23, ha riportato altissima la tensione anche in Uganda. Gli scontri, concentrati per ora nelle Regioni congolesi del Kivu, interessano proprio il confine con l’Uganda dove dall’inizio dell’anno, secondo i dati dell’Alto commissariato per i Rifugiati dell’Onu, sarebbero oltre 40mila i rifugiati congolesi in fuga. Il Presidente dell’Uganda Yoweri Museveni, del Ruanda Paul Kagame e della Repubblica Democratica del Congo Joseph Kabila hanno diffuso un comunicato congiunto in cui si chiede ai ribelli congolesi di “interrompere immediatamente la loro offensiva”. I tre capi di Stato si sono riuniti più volte in territorio ugandese per affrontare questa nuova emergenza che destabilizza nuovamente un Paese – e una Regione intera – che ancora fatica a conquistare sicurezza e sviluppo. A pesare, in Uganda, non è solo la tensione che da decenni coinvolge la Regione ma anche un livello di corruzione tanto alto da aver fatto decidere al Regno Unito di interrompere qualunque aiuto diretto a Kampala. “Il Regno Unito ha congelato gli aiuti destinati al Governo dell’Uganda” ha spiegato una nota del Dipartimento per lo Sviluppo Internazionale di Londra, sottolineando che “l’evidenza indica che i soldi finora destinati sono stati usati in un modo non corretto”. Sotto accusa, in particolare, sarebbe proprio il Presidente Museveni. In carica dal 1986 e rieletto (non senza accuse di brogli da parte dell’opposizione) nel 2011 per un altro mandato quinquennale. Museveni è sospettato di utilizzare il denaro di provenienza straniera per elargire somme ai parlamentari invece di destinarlo per la crescita, lo sviluppo e la sicurezza nel Paese. A farne le spese, come sempre, la popolazione civile, che, nonostante la tendenza positiva registrata nel 2012 dalla Banca Mondiale, è ancora in larga parte costretta a vivere in condizioni di povertà e di scarso accesso alle cure mediche.
UGANDA
Generalità Nome completo:
Repubblica di Uganda
Bandiera
105
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Inglese, Swahili
Capitale:
Kampala
Popolazione:
25.800.000
Area:
241.040 Kmq
Religioni:
Cattolica, protestante, animista, musulmana
Moneta:
Scellino Ugandese
Principali esportazioni:
Quasi nulle, se si eccettua il caffè
PIL pro capite:
Us 1.501
Una epidemia del virus Ebola, partita dalla Provincia Occidentale del Paese a una cinquantina di chilometri dal confine con il Congo, ha causato la morte di almeno 30 persone in quattro mesi e minaccia di espandersi in tutto il Paese. Negati alla popolazione anche alcuni diritti civili e politici fondamentali da quando il Governo ha imposto nel Paese un divieto generale di manifestare pubblicamente. Un anno dunque, il 2012, in cui l’Uganda ha festeggiato i 50 anni di indipendenza dal Regno Unito - dichiarata il 9 ottobre del 1962 - ma caratterizzato ancora da una forte incertezza sul futuro politico e sulla stabilità del Paese.
Alla base della crisi che coinvolge l’Uganda e i Paesi vicini ci sono soprattutto ragioni economiche e la volontà di controllare le risorse del Paese. E la recente scoperta di giacimenti petroliferi per un valore di due miliardi e mezzo di barili, potrebbe diventare un ulteriore motivo di conflitto. L’oro nero scoperto in Uganda sta, infatti, suscitando grandi appetiti e gli attivisti ugandesi per la giustizia ambientale protestano contestando gli accordi per la suddivisione della produzione - i cui dettagli non sono stati resi noti - siglati dal Governo di Kampala con le
grandi multinazionali straniere. Le royalties corrisposte allo stato ugandese sarebbero, secondo le denunce degli attivisti, troppo basse, così come troppo morbide e compiacenti sarebbero le norme in materia di sicurezza e quelle ambientali. In questo scenario la futura stabilità del Paese dipenderà da come verranno utilizzati i proventi del petrolio. Se cioè costituiranno un vero motore per lo sviluppo, oppure andranno a soddisfare gli appetiti di pochi, innescando una spirale di proteste e violenze.
Per cosa si combatte
Regista britannico in carcere
Il regista teatrale inglese David Edwards Cecil è stato arrestato in Uganda -e rischia due anni di carcere- per aver portato in scena a Kampala una piece teatrale, “The River and the Mountain”, che ha come argomento principale l’omosessualità e racconta la vita difficile di una lesbica alle prese con l’emarginazione nel Paese. Il regista avrebbe violato l’articolo 117 del Codice Penale ugandese che vieta esplicitamente ogni manifestazione pubblica, come articoli, libri, film, documentari e rappresentazioni teatrali a favore dell’omosessualità. Il regista ha già trascorso quattro giorni in un carcere di Kampala ed è stato rilasciato su cauzione. Ora è in attesa del processo e non può lasciare il Paese.
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UNHCR/J. Akena
Il destino dell’Uganda è simile a quello di molti altri Paesi africani: indipendenza, colpi di stato, guerre e nuovamente pace e poi ancora disordini. Negli anni Cinquanta inizia il processo di democratizzazione che sfocia il 9 ottobre del 1962 nell’indipendenza. La Costituzione preve-
deva un sistema semifederale, con sufficiente spazio per le elite politiche tradizionali. Ma gli equilibri si rompono rapidamente. La convivenza tra il re del Buganda, primo Presidente del Paese, e il suo primo Ministro, Milton Obote, un “lango” del Nord, dura poco. Nel 1996 Obote
Quadro generale
UNHCR/J. Akena
Kizza Besigye (22 aprile 1956)
UNHCR/J. Akena
Caccia a Joseph Kony
Continua la caccia a Joseph Kony, leader del gruppo ribelle ugandese Esercito di Resistenza del Signore (Lra), accusato di crimini contro l’umanità e di aver, in particolare, fatto rapire numerosi bambini per farne dei soldati o per sfruttarli sessualmente. L’Unione Africana (Ua) ha deciso di mobilitare 5mila soldati africani per trovare il latitante ricercato dalla Corte penale internazionale. La missione sarà basata al confine tra Sud Sudan e Repubblica democratica del Congo. Durerà fino alla cattura di Kony. “La nostra missione è impedire a Kony di infliggere ulteriori sofferenze alle persone delle aree colpite”, ha detto il rappresentante speciale per la cooperazione anti-terrorismo dell’Ua, Francisco Caetano Madeira.
prende d’assalto il palazzo presidenziale. Inizia così una lunga serie di colpi di stato, di atrocità e di conflitti etnici. Idi Amin Dada, capo di stato maggiore dell’esercito di Obote, consolida la sua posizione, che poi usa contro lo stesso Presidente. Nel 1971 prende il potere e governa con mano pesante e con un utilizzo spietato dell’esercito. Il dittatore Amin teme il predominio degli acholi e dei lango nell’esercito e così da vita a una delle più sanguinarie persecuzioni con uccisioni di massa. Nazionalizza le attività commerciali britanniche ed espelle la popolazione asiatica. Cresce, contemporaneamente, la tensione tra Uganda e Tanzania, rea di aver ospitato Obote e alla fine degli anni ’70 inizia la guerra ugandese-tanzaniana. Nel 1979 i tanzaniani, anche con il sostegno dell’Esercito di liberazione nazionale dell’Uganda (Unla), prendono la capitale Kampala e nel 1980 torna al potere Obote. Di nuovo vendette e atrocità. Yo-
I PROTAGONISTI
weri Museveni, attuale Presidente dell’Uganda, fonda l’Esercito di Resistenza Nazionale (Nra) e inizia la guerriglia. Obote risponde con uccisioni di massa. Tre anni di scontri che sfociano nella presa del potere da parte di Museveni. È del 1995 l’approvazione di una nuova Costituzione che rinvia al 2001 il passaggio al multipartitismo, avvenuto grazie a una consultazione referendaria nel 2005. Museveni viene eletto nel 1996, rieletto nel 2001. Nonostante il potere sia saldo nelle sue mani, il Presidente ugandese deve far fronte a vent’anni di guerra civile combattuta contro l’Lra guidato dalla follia di Joseph Kony, che ha come obiettivo quello di prendere il potere e governare secondo i dieci comandamenti. Musevani interviene nella guerra della Repubblica democratica del Congo, nel 1996, prima a fianco di Laurent Desirè kabila, in chiave anti Mobutu, e poi dal 1998 al 2003 appoggiando i gruppi ribelli del Paese. Grazie a una riforma costituzionale del 2005, Museveni vieni rieletto per la terza volta nel 2006, anno in cui avvia i negoziati di pace con l’Lra, e poi, per la quarta volta, nel 2011.
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Leader dell’opposizione in Uganda, Kizza Besigye, 56 anni, è stato arrestato nell’ottobre del 2012 per aver tentato di tenere un comizio nel mercato di Kiseka a Kampala. All’inizio della sua carriera politica, una decade fa, Besigye era stato ribattezzato dai suoi sostenitori “il martello” per aver attraversato in lungo e largo l’intero Paese per la campagna elettorale del 2001 contro l’attuale Presidente Yoweri Museveni, in carica dal 1986 ad oggi. Del Presidente Museveni, Besigye è stato per molti anni il medico personale. Negli anni ‘80 ha preso parte alla ribellione armata contro il Governo di Milton Obote ed ha fatto parte del Governo di Museveni che ha però quasi subito accusato di corruzione e incompetenza. Nel 2001 dopo aver perso le elezioni contro Museveni ha fatto ricorso alla Corte Suprema denunciando brogli e attirando l’attenzione delle autorità ugandesi che hanno cominciato a monitorare i suoi movimenti e il suo partito il Forum for Democratic Change (Fdc). Nel 2006 Besigye si è rivolto nuovamente alla Corte Suprema denunciando frodi anche in questa tornata elettorale, ed è stato nuovamente arrestato e poi liberato. Ancora un arresto, nel 2011, per aver partecipato ad una marcia di protesta contro il carovita.
Inoltre Etiopia “Tra crescita economica, carestie e guerre il Paese gioca un ruolo chiave nel Corno d’Africa”.
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La scomparsa del primo Ministro Meles Zenawi lo scorso agosto ha lasciato l’Etiopia in una fase di grande incertezza, divisa tra l’opportunità e la possibilità di diventare uno stato chiave in tutta la Regione del Corno d’Africa, dal punto di vista politico, economico ed energetico, e il pericolo dell’acuirsi di scontri e guerriglie mai sopite con la vicina Eritrea e la Somalia. L’eredità politica e sociale di Zenawi, che ha governato il Paese per più di vent’anni, è tuttora viva nei progetti ambiziosi che il Paese si appresta a realizzare, ma soprattutto nel ruolo che l’Etiopia gioca nella politica centro africana. L’economia del Paese si è impennata vertiginosamente. Le fonti governative stimano una crescita del Pil tra l’11 e il 15% annuo nel periodo tra il 2012 e il 2015. Anche se il Fondo Monetario Internazionale ha rivisto al ribasso questi dati, solo nell’anno 2011-2012 il tasso di crescita è stato del 7%, in gran parte dovuto alla capacità del Paese di attrarre investimenti dall’estero, Cina ed Europa. La realizzazione della diga di Gibe III, nella valle dell’Omo - contestata per l’impatto sull’ambiente e sulle popolazioni locali - sarà garantita, in parte, proprio dai finanziamenti cinesi. Arriveranno 500milioni di dollari dall’Industrial and Commercial Bank of China. Insieme a questa, una seconda diga - la Millennium, progettata sul Nilo Azzurro - dovrebbe garantire al Paese non solo l’indipendenza energetica, ma anche il ruolo di esportatore di energia elettrica in Sudan, Sud Sudan, Uganda e Kenya, attestandosi come l’economia non basata sul petrolio più in crescita del continente. Ma emergono ancora vecchi fantasmi: carestie e siccità che flagellano il Paese, guerre sia inUNHCR/J. Ose
UNHCR/ J. Ose
terne - nella zona dell’Ogaden somalo - che con gli stati confinanti, problemi a cui si aggiunge l’arretratezza di vaste aree del Paese, che insieme alle limitazioni dei diritti civili, lo relegano, nella classifica mondiale che misura l’indice di sviluppo umano, al 174esimo su 187 posti. Ma è sul campo della politica internazionale che l’Etiopia gioca ancora le carte di Meles Zenawi. Alleata dell’America dal 2001, l’Etiopia ha utilizzato questa vicinanza per perseguire i propri scopi soprattutto nei confronti della Somalia. Dopo un primo intervento cominciato nel 2006 con l’invio di quasi 10mila soldati in Somalia a supporto delle forze del Governo di transizione, intervento conclusosi formalmente nel 2009, nel 2011 il Governo di Zenawi è nuovamente entrato in conflitto per colpire i guerriglieri islamisti del vicino somalo. I problemi ai confini del Paese non si fanno sentire solo nel Sud, con la Somalia, ma anche lungo tutto il limes eritreo. Il conflitto tra i due Paesi dura ormai da trent’anni e, sebbene si siano susseguite fasi più acute, sembra ben lungi da una vicina conclusione. L’Etiopia accusa il vicino di armare i terroristi e gli estremisti islamici somali oltre ai ribelli dei gruppi del Fronte di Liberazione Oromo (Olf) e quelli del Fronte Nazionale di Liberazione dell’Ogaden (Onlf). L’Eritrea risponde denunciando l’occupazione illegale dell’Etiopia della contesa città di Badme, sul confine. Alle continue tensioni esterne si aggiunge lo scontro con i ribelli dell’Ogaden. Quello tra il Governo di Addis Abeba e l’Onlf è uno dei conflitti più lunghi del Corno d’Africa. Ci sono forti sospetti che i ribelli del Fronte di liberazione nazionale dell’Ogaden si stiano unendo alle milizie di al-Shabaab affiliate ad al-Qaeda. Supposizioni nate dalle dichiarazioni dell’Onlf di voler liberare le città dell’Ogaden dall’Etiopia e di restituirle alla Somalia, e dalle operazioni congiunte tra Etiopia e Kenya per spingere le milizie di al-Shabaab fuori dalle città somale sulle quali avevano imposto la legge della Sharia. Ma le milizie dell’Onlf hanno fortemente negato le voci di aver mai supportato al-Shabaab.
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QUESTA PROIEZIONE EQUIVALENTE É BASATA SULLA RETE GEOGRAFICA DECIMALE DI ARNO PETERS. ESSA SPOSTA IL MERIDIANO ZERO SULLA LINEA RETTIFICATA DEL CAMBIAMENTO DI DATA - INDICATA CON IL PUNTEGGIO - E SUDDIVIDE LA SUPERFICIE TERRESTRE IN 100 RETTANGOLI LONGITUDINALI DI UGUALE LARGHEZZA E IN 100 RETTANGOLI LATITUDINALI DI UGUALE ALTEZZA. CON QUESTA PROIEZIONE SI OTTENGONO NELLA FASCIA EQUATORIALE RETTANGOLI VERTICALI CHE SI TRASFORMANO, AVVICINANDOSI AI POLI, IN QUADRATI E POI IN RETTANGOLI ORIZZONTALI. LE COORDINATE DELLA NUOVA RETE SI TROVANO AI MARGINI DELLA CARTA ACCANTO ALLE COORDINATE TRADIZIONALI.
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America
A cura di Amnesty International
C’è ancora Guantánamo nell’America di Obama L’amministrazione Usa non ha preso ancora le distanze dalle politiche della “guerra al terrore” della presidenza Bush. L’esempio più evidente della mancata discontinuità è la perdurante apertura del centro di detenzione di Guantánamo, che il Presidente Obama si era impegnato a chiudere entro un anno dall’avvio del suo mandato, ovvero entro il gennaio 2010. Guantánamo è ancora aperto, con 166 prigionieri per buona parte dei quali la prospettiva è quella di una detenzione a tempo indeterminato. Prosegue l’uso della pena di morte, anche se una singolare vicenda legata all’esaurimento delle scorte di un farmaco utilizzato nell’iniezione di veleno ha causato il rinvio di alcune esecuzioni e una serie di ricorsi alle corti statali e federali relativi all’uso di sostanze o protocolli alternativi. Un numero sempre maggiore di sondaggi mostra la disponibilità dell’opinione pubblica a considerare sanzioni diverse dalla pena capitale. In America centrale, all’insicurezza sempre più diffusa a causa dell’attività delle bande criminali e all’azione di contrasto da parte dei gover-
ni, si accompagnano – specialmente in Messico – gravi violazioni dei diritti umani. La tortura è endemica, con casi denunciati in tutti i 31 Stati e nel Distretto federale. La Commissione nazionale per i diritti umani ha registrato, nel 2011, 1669 denunce di maltrattamenti e torture ad opera delle forze di polizia e dell’esercito. A Cuba, attivisti per i diritti umani e giornalisti indipendenti vengono trattenuti per periodi che variano dalle poche ore ad alcuni giorni in stazioni di polizia o centri di detenzione, dove spesso subiscono interrogatori, intimidazioni, minacce e, in alcuni casi, anche pestaggi. Allo stesso modo, difensori dei diritti umani e i giornalisti che denunciano le violazioni in Messico Guatemala e Honduras, vengono minacciati, intimiditi e aggrediti, anche mortalmente. In Colombia, nonostante gli spirargli aperti dai negoziati di pace, il futuro resta pregiudicato dall’impunità e dall’enorme diffusione della violenza sessuale contro le donne. Nel 2011, i casi venuti alla luce sono stati 22597. Nello stesso anno, il conflitto armato ha costretto altre 259mila persone a lasciare le loro terre; 305 civili sono stati rapiti o presi in ostaggio; 111 nativi, 45 difensori dei diritti umani e 29 sindacalisti sono stati assassinati; le forze di sicurezza hanno commesso almeno 38 esecuzioni extragiudiziali; le mine anti persona piazzate dai gruppi armati di opposizione hanno ucciso 20 civili e 49 soldati. Milioni di americani, soprattutto le comunità native, dal Canada al Cono Sud, continuano a lottare per difendere i loro terreni da “progetti di sviluppo” (autostrade, dighe, oleodotti e centrali idroelettriche) e per affermare il diritto a essere consultati preventivamente e a far precedere ogni decisione che li riguardi da un consenso libero e informato. All’inizio del 2012 il Governo del Paraguay ha finalmente eseguito una sentenza della Corte interamericana dei diritti umani (il massimo organo di giustizia del continente), che nel 2005 aveva ordinato il ripristino dei diritti della comunità Yakye axa sulle sue terre ancestrali. Per quasi 20 anni, 90 famiglie sgomberate avevano vissuto in condizioni disumane ai margini di una strada a scorrimento veloce. Un’altra comunità, i Sawhoyamaxa, ha ottenuto un’analoga sentenza e attende che il Governo vi dia attuazione. Il più recente successo, storico perché costituirà un precedente legale, è stato colto dai Sarayaku in Ecuador. Questa comunità, che rischiava di perdere parte delle sue terre ancestrali a causa di un progetto petrolifero su cui non era stata consultata, si è rivolta alla Corte interamericana dei diritti umani. Nel lu-
glio 2012, la Corte ha stabilito che l’Ecuador ha l’obbligo di condurre una consultazione appropriata e partecipata con i sarayaku, in buona fede, nel rispetto delle loro pratiche culturali e con l’obiettivo di arrivare a un consenso prima di proseguire qualsiasi progetto riguardante il loro territorio. In Argentina, Uruguay e Brasile vanno avanti i tentativi, per via legislativa e giudiziaria, di rimediare a decenni d’impunità per le violazioni dei diritti umani commesse durante i regimi militari.
Il mondo di Kako di Flora Graiff La maglia con il filo...spinato
112
Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2011 uscito nel giugno 2012 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DALLA COLOMBIA RIFUGIATI
395.949
PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI VENEZUELA
201.941
EQUADOR
122.587
STATI UNITI D’AMERICA
22.004
SFOLLATI PRESENTI NELLA COLOMBIA 3.888.309 RIFUGIATI ACCOLTI NELLA COLOMBIA RIFUGIATI
219
Il tesoro per le vittime
Con l’avvio del negoziato, la procura colombiana ha iniziato a cercare i beni delle Farc, chiamate a risarcire le proprie vittime, nel caso si arrivasse alla pace. Secondo i primi accertamenti, i beni della formazione rivoluzionaria sarebbero distribuiti in 14 Paesi: Norvegia, Svezia, Finlandia, Islanda, Danimarca, Olanda, Germania, Venezuela, Ecuador, Bolivia, Messico, Honduras, Costa Rica, Panama e ovviamente Colombia, dove ci sarebbe il 30% dei capitali. Le autorità colombiane stimano che le Farc incassino ogni anno circa 2miliardi di pesos (1117 milioni di dollari), derivanti dal narcotraffico, investendo nei settori immobiliare, alberghiero e dei trasporti. Avere quei soldi a disposizione sarà fondamentale per evitare quanto accadde con la smobilitazione “Justicia y Paz” di oltre 31000 paramilitari tra il 2003 e il 2006, sotto il Governo dell’ex Presidente Álvaro Uribe. Allora le vittime furono risarcite con beni in rovina.
UNHCR/ B. Heger
È la quarta volta che provano a siglare un accordo, l’ultima era stata fra il 1998 e il 2002. Questa volta, però, pur fra mille prudenze e molto scetticismo, il processo di pace avviato fra Governo colombiano e Farc (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia) sembra avere gambe più solide. Sessant’anni di guerra e centinaia di migliaia di morti hanno tenuto in ostaggio il Paese. Ora, il negoziato avviato a Oslo il 15 ottobre 2012, dopo la tregua firmata a l’Avana a fine settembre, potrebbe portare ad una soluzione definitiva. A garantire che tutto vada bene, con il ruolo di mediatori, ci sono anche i rappresentanti di Venezuela e Norvegia. Non sarà un lavoro rapido. Un rapporto dell’International Crisis Group (Icg) sostiene che una eventuale pace non porterà alla fine della violenza in Colombia. “È assai probabile - scrive il documento - che non si riesca a convincere alcuni membri delle Farc a deporre le armi, in particolare quelli più coinvolti nel traffico di droga. Resta poi la minaccia dei gruppi armati illegali, che affonda le sue radici nei paramilitari ufficialmente smobilitati e in altre organizzazioni criminali”. Insomma, tutto da vedere. Intanto, appena due settimane prima dell’avvio dei colloqui, le Forze Aeree Colombiane hanno bombardato una base Farc, uccidendo almeno 8 guerriglieri. Una prova di forza, che comunque non ha interrotto il dialogo. A dare speranze, poi, è il fatto che la popolazione civile segue con attenzione quanto accade, questa volta appoggiando l’iniziativa del Presidente Juan Manuel Santos. Ex ministro della Difesa, diventato Presidente nel 2010, Santos è stato il primo, nel maggio del 2011, a riconoscere l’esistenza di un conflitto armato. Cosa che gli ha messo contro l’oligarchia terriera del Paese. Resta da capire, poi, cosa accadrà con l’altra organizzazione rivoluzionaria l’Eln (Esercito di Liberazione Nazionale), che chiede una uscita politica dal conflitto ed ha profilo armato decisamente più basso, negli ultimi anni. Le due formazioni – mosse anche da ideologie diverse, le Farc marxiste, l’Eln più vicine alla teologia della liberazione - sono da sempre in conflitto fra loro. I due gruppi sono molto presenti sul territorio colombiano. Le Farc, pur in difficoltà sul piano militare e politico, controllano almeno 250 municipi. L’Eln è in Arauca, Chocó, Risaralda e Antioquia, ma solo in Cauca e nel Nariño ci sono scontri con l’esercito regolare. Non ci sono
COLOMBIA
Generalità Nome completo:
Repubblica della Colombia
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Spagnolo
Capitale:
Bogotà
Popolazione:
45.900.000
Area:
1.141.748 Kmq
Religioni:
Cattolica (92%), protestante, animista ed altro (8%).
Moneta:
Peso Colombiano
Principali esportazioni:
Cocaina, caffè, carbone, smeraldi
PIL pro capite:
Us 7.560,5
combattimenti con le Farc, per effetto di un cessate il fuoco deciso nel 2010, che ha portato anche ad alcune azioni congiunte. Ma la tregua non ha retto in Arauca, Regione di frontiera, piena di coltivazioni di coca. Qui la battaglia è ricominciata, lasciando sul campo molti morti fra i civili. Farc e Eln si sono combattute soprattutto per avere pieno controllo del territorio, obiettivo che condividono con i narcotrafficanti, altra piaga colombiana sempre presente ed in grado di condizionare la vita politica del Paese.
È sempre la cattiva distribuzione della ricchezza la base della guerra infinita in Colombia. Il denaro, le risorse sono legate all’agricoltura e da lì arriva la gestione del potere. Non a caso, l’oligarchia del Paese è sostanzialmente agraria. Il 4% dei proprietari controllano il 67% dei terreni produttivi. In Colombia, poi, il reddito è distribuito in modo drammaticamente iniquo. Il Prodotto Interno Lordo è uno dei più alti del Sud America, con quasi 330mila milioni di dollari,
ma il 49% dei colombiani vive sotto la soglia di povertà. Oggi la guerra civile viene combattuta soprattutto per il controllo o la distruzione delle vaste aree trasformate per la coltivazione della coca, vera ricchezza nazionale. Proprio il narcotraffico è l’altra grande ragione di conflitto interno, con intere zone del Paese contese fra Governo, Farc, Eln e grandi organizzazioni di trafficanti.
Per cosa si combatte
UNHCR/ Zalmaï
114
UNHCR/ B. Heger
Le speranze riposte nel dialogo avviato a Oslo il 15 ottobre 2012, dopo gli scontri e le battaglie degli ultimi anni. Sessant’anni di guerra interna, combattuta da narcotrafficanti, formazioni guerrigliere e esercito, hanno fatto della Colombia una terra dal destino incerto. In questi decenni ci sono stati presidenti conservatori e riformisti. Sono nati ben 36 diversi gruppi guerriglieri, fra cui le Farc (Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane) comandante per quasi 6 decenni da Manuel Marulanda, detto Tirofijo, morto nel 2007, poi l’Eln, cioè l’Esercito di Liberazione Nazionale e l’M-19, per citare le formazioni più famose. Si sono formati gruppi paramilitari – come il Mas (Morte ai Sequestratori) – pagati dall’oligarchia agraria. Possiamo collocare una data di inizio più recente del conflitto: il 6 novembre 1985. Quel giorno, 35 guerriglieri dell’M-19 occuparono il palazzo di Giustizia di Bogotà. L’intervento dell’esercito provocò un massacro: oltre ai guerriglieri, morirono altre 53 persone, tra magistrati e civili. Di fatto, in Colombia il Governo centrale perde quel giorno il controllo del territorio. E se da un lato è la guerriglia ad assumerlo, dall’altro sono i narcotrafficanti, proprio a partire dalla metà degli anni ‘80, a proporsi come alternativa allo Stato. La guerra interna diventò così a tre – Stato, Guerriglia, Narco-
traffico – con migliaia di morti. Vennero censiti almeno 140 gruppi paramilitari attivi sul territorio, quasi tutti finanziati dai narcotrafficanti. Il Presidente liberale César Gaviria, nel giugno del 1991 diede il via a Caracas a una serie di incontri con i rappresentanti della guerriglia, con l’obiettivo di raggiungere la pace. Il processo di pace non decollò, nonostante la nuova e più democratica Costituzione. Il Governo iniziò allora una “guerra totale” contro organizzazioni civili, gruppi ribelli e narcotraffico. Pablo Escobar Gaviria – capo del cartello di Medellín, potente organizzazione di narcotrafficanti – evaso intorno alla metà del 1992, ricominciò le azioni armate. In tutta risposta apparì, nel ‘93, il Pepes (Persecutori di Pablo Escobar), che uccise trenta esponenti del cartello in due mesi e distrusse varie proprietà di Escobar, ucciso a sua volta il 2 dicembre dalla polizia a Medellín. Farc e Eln iniziarono una serie di attacchi a centrali elettriche, impianti industriali, caserme, avviando la strategia dei rapimenti. Il Governo tentò da parte sua un attacco a fondo al narcotraffico, pur nelle contraddizioni che nascevano dalla corruzione di parte della politica. Fu un periodo durissimo. Nel 1995, vennero aperti 600 procedimenti contro le forze di sicurezza, in relazione a 1338 casi di assassinio, tortura o sparizione. All’inizio del 1997, si stima che almeno un mi-
Quadro generale
Mine: i morti sono duemila
La Colombia resta uno dei Paesi al mondo con il maggior numero di mine anti uomo. Un terzo delle terre coltivabili del Paese è praticamente inutilizzabile. Gli ordigni dal 1990 al 2012 hanno causato più di 2095 morti e 7888 feriti e mutilati in tutto il Paese. Nel 2000 Bogotá ha ratificato la Convenzione di Ottawa che vieta l’utilizzo di queste armi, ma continuano ad essere piazzate. L’ultimo sequestro, casuale, è stato nell’estate del 2012. Almeno 70 mine appartenenti alla “décima cuadrilla” delle Farc sono state ritrovate a La Unión, nel municipio di Arauquita, nel dipartimento Orientale di Arauca, al confine con il Venezuela. Erano trasportate da due uomini, in moto, in una borsa. Ad un posto di blocco, sono fuggiti, abbandonando la borsa.
Gabriel Josè Garcia Marquez
Scrittore, giornalista, nato nello stesso anno di Ernesto Guevara, Marquez può essere considerato un rivoluzionario: ha cambiato profondamente, sino a stravolgerla, la struttura del racconto nella letteratura latino americana. Premio Nobel per la letteratura nel 1982, è stato per decenni l’uomo immagine di una Colombia altrimenti nota solo per il narco traffico. Considerato il maggior esponente del cosiddetto realismo magico, lettori e critici gli riconoscono una prosa scorrevole, piena di immagini e ironica. Autentico giramondo, dopo aver abbandonato gli studi di giurisprudenza, nel 1948 lascia la Colombia e vive a Roma, Parigi, Londra. Nel 1967 pubblica il romanzo che lo rende famoso “Cent’anni di solitudine”. Dalla metà degli anni settanta vive fra Messico, Colombia, Cuba e Parigi. Scrive, senza dimenticare l’impegno civile, la denuncia di quanto accade – di negativo – in Colombia e nel Sud America. Nel 2000 gli viene diagnosticato un cancro al sistema linfatico. Si diffondono false notizie sul suo stato di salute, alcuni giornali lo danno agonizzante. Invece, guarisce e riprende a scrivere. Sino al 2012, quando è il morbo di Alzhaimer a bloccare la sua penna.
Risarcimenti, terra e morte
Jario Nartinez, attivista contadino che da anni si batteva per i contadini che reclamavano le terre, è stato ucciso nel giugno del 2012: è l’ennesima vittima di una strage silenziosa in Colombia, quella che vede morire attivisti e sindacalisti che chiedono una miglior distribuzione della terra e delle ricchezza. Dal 2007 sono 60 gli uccisi, 17 da quando nel giugno 2011 il Presidente Juan Manuel Santos ha varato la Ley de Víctimas y Restitución de Tierras. La norma prevede il risarcimento in denaro alle famiglie delle vittime della lunga guerra interna e la restituzione delle terre abbandonate, dai legittimi proprietari, per l’intervento di gruppi paramilitari. Si calcola che almeno quattro milioni di colombiani godranno nei prossimi dieci anni dei benefici della legge e che almeno tre milioni di ettari di terra, circa la metà del totale, verranno restituiti entro il 2014. Ipotesi questa che non piace all’oligarchia terriera colombiana, che ha aumentato i propri possedimenti, durante la guerra, proprio grazie all’abbandono forzato da parte dei contadini. 115
(Aracataca, 6 marzo 1928)
UNHCR/ Zalmaï
lione di colombiani fossero stati espulsi dalle loro abitazioni nelle zone di conflitto. Nell’agosto del 2000 il presidente Pastrana lanciò, in accordo con gli Stati Uniti, il Piano Colombia. Vennero addestrati tre battaglioni antidroga, con l’obiettivo di distruggere 60mila ettari di coltivazioni di coca e tagliare la forza economica di guerriglia e narcotraffico. Le Farc nel febbraio 2002 sequestrarono alcuni esponenti politici, nel tentativo di influenzare le elezioni e ottenere uno scambio di prigionieri. Fra loro c’era la candidata alla presidenza Ingrid Betancourt, che sarà rilasciata solo dopo sei anni, nel luglio del 2008. Si moltiplicarono anche gli attentati. Nel 2002 salì alla Presidenza l’indipendente Uribe Velez, che chiese l’intervento diretto degli Usa nella lotta alla guerriglia e al narcotraffico. Il mese dopo, un contingente militare statunitense arrivò nella provincia di Arauca: fu il primo coinvolgimento diretto nella guerra civile colombiana. Nell’ottobre 2003 Luis Eduardo Garzón, candidato del Polo Democratico Indipendente (Idp), vinse le elezioni per il sin-
I PROTAGONISTI
daco di Bogotà, la carica politica più importante del Paese dopo la Presidenza della Repubblica. Fu una sorpresa: per la prima volta un partito di sinistra si affermava. Passi avanti che non fermarono la guerriglia: divennero 1500, in quegli anni, gli ostaggi tenuti prigionieri. Dal 2006 si tentò l’ennesimo processo di pace. Almeno 20mila paramilitari deposero le armi, in cambio di un’amnistia, del reintegro sociale e di uno stipendio per 24 mesi. La guerriglia, però, continuava la lotta armata, con sequestri e azioni contro obiettivi militari e governativi. Nel 2010 la guerra – con l’arrivo al ministero della Difesa prima e alla Presidenza poi, di Juan Manuel Santos – diventa anzi più dura. Santos, appena eletto, annuncia una Terza Via di sviluppo per il Paese, detta di Accordo di Unità Nazionale, ancorata al centrosinistra. Riconosce anche, per la prima volta, l’esistenza di un conflitto armato. Ora, il tentativo di pace con le Farc e il successo raggiunto con la pace siglata, nel 2010, con Hugo Chávez, Presidente del Venezuela, per mettere fine ad anni di crisi alla frontiera. Una pace che tiene. La collaborazione nella cattura del leader dell’Eln, Ferreira, sembra confermarlo.
116
Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2011 uscito nel giugno 2012 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DA HAITI RIFUGIATI
33.661
PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI STATI UNITI D’AMERICA
24.013
Violenza contro le donne
E’ ormai allarmante la diffusione di casi di violenza sessuale nei campi per sfollati a Port-au-Prince e nelle comunità più emarginate del Paese. Vittime delle violenze sono donne e ragazze spesso giovanissime. Difficile fare un bilancio attendibile del fenomeno poiché il numero di vittime che sceglie di denunciare non è elevato e la maggior parte dei crimini restano impuniti e i colpevoli non vengono assicurati alla giustizia, come denunciano le organizzazioni in difesa dei diritti umani. Per combattere la violenza contro le donne il Governo haitiano si è comunque attivato con un progetto di legge sulla prevenzione la punizione e l’eliminazione della violenza di genere che propone la creazione di tribunali speciali in tutto il Paese ed ha creato una unità di coordinamento sulle questioni di genere e femminili all’interno del corpo di Polizia del Paese.
Secondo il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Umano, nel 2012 Haiti si conferma la nazione più povera delle Americhe. Ancora lontano dal risollevarsi dopo le devastazioni inflitte dal terremoto del gennaio 2010, il Paese è stato nuovamente colpito, nell’ottobre del 2012, dal passaggio dell’uragano Sandy. Più di 18mila persone hanno perso la casa e si sono aggiunte alle migliaia già costrette nelle stesse condizioni in seguito al sisma. Gli sfollati interni nel Paese sarebbero circa 500mila, per fortuna in diminuzione rispetto all’anno passato. Da mesi ormai sono ospitati in accampamenti improvvisati, concentrati soprattutto nella capitale Port-au-Prince e nei suoi dintorni. Nei campi non è garantito l’accesso all’acqua e ai servizi igienici e le pessime condizioni sanitarie hanno favorito il dilagare di una grave epidemia di colera iniziata nell’ottobre del 2010 e mai debellata. Gravissime anche le conseguenze del passaggio dell’uragano sulla già fragile economia del Paese caraibico. La quasi totale mancanza di infrastrutture e la deforestazione selvaggia delle montagne haitiane (gli alberi sono tagliati per permettere l’allevamento e la coltivazione dei campi e garantire un minimo di sussistenza) moltiplicano i danni dei disastri naturali che ciclicamente si abbattono sull’isola. Il 70% del raccolto è stato distrutto dal passaggio dell’uragano Sandy aggravando un’emergenza umanitaria ormai fuori controllo. “E’ un disastro di proporzioni immense” ha dichiarato il primo Ministro haitiano Laurent Lamothe all’Associated Press, chiedendo l’invio nel Paese di aiuti da parte della comunità internazionale. Russia, Venezuela, Bolivia, Ecuador e Cuba hanno per primi raccolto l’appello del premier. Eppure, gli ingenti aiuti internazionali già inviati ad Haiti dopo il terremoto del 2010 non sono bastati a risollevare il Paese da un crisi senza fine. Povertà estrema, insicurezza, criminalità caratterizzano la società haitiana ed evidenziano le mancanze di una classe politica, guidata dal Presidente Michel Martelly, incapace di trasformare in fatti concreti le molte
HAITI
Generalità Nome completo:
Repubblica di Haiti
Bandiera
117
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Francese
Capitale:
Port-au-Prince
Popolazione:
8.528.000
Area:
27.750 Kmq
Religioni:
Cattolica, chiese protestanti, voodoo
Moneta:
Gourde Haitiano
Principali esportazioni:
Nessuna, solo economia di sussistenza
PIL pro capite:
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promesse di ricostruzione. Sul piano politico qualcosa sembra comunque muoversi per la nazione caraibica che potrebbe, già a gennaio 2013, diventare il primo Paese non africano ad essere ammesso nell’Unione Africana (Ua). Secondo il Governo haitiano l’ingresso nell’Ua sarebbe una opportunità per promuovere scambi commerciali e lo sviluppo economico del Paese caraibico che non ha mai abbandonato le sue radici e il suo legame con l’Africa. Quando Haiti era l’unico membro dell’Onu con una popolazione a maggioranza nera appoggiò l’indipendenza delle nazioni africane.
Fortunatamente oggi ad Haiti non si combatte più per le strade come qualche anno fa. Le violenze sono comunque all’ordine del giorno, ma le bande criminali che imperversavano nel Paese sembrano quasi sparite nel nulla. Oggi la guerra che si combatte ad Haiti è un’altra: quella per la sopravvivenza. La politica haitiana non è mai stata in grado di dare soluzioni ai problemi della gente, perché sempre assoggettata ai poteri forti e agli interessi economici delle grandi potenze internazionali. E intanto nel Paese si muore di fame, talvolta di sete e spessissimo per banali patologie come la diarrea. Ma si combatte anche per un tozzo di pane e migliaia di haitiani sono ormai a rischio di insicurezza alimentare e nutrizionale. L’economia
nazionale è in ginocchio e la produzione industriale haitiana è irrisoria. La Fao e il Governo di Haiti reputano necessari, per il prossimo anno, 74milioni di dollari per aiutare il settore agricolo del Paese a rimettersi in piedi. Come cornice alla guerra fra poveri che si scatena in queste condizioni di grave povertà e insicurezza sociale, c’è la forza multinazionale dell’Onu, la Minustah, che ha il compito di stabilizzare l’area. Lavoro sporco e difficile se si considera che dal primo giorno in cui i caschi blu sono arrivati a Haiti la popolazione locale li ha snobbati. Molti, moltissimi, anzi troppi i casi di abusi che hanno visto come protagonisti negativi i soldati Onu.
Per cosa si combatte
Colonia spagnola, poi francese, indipendente dal 1804 grazie alla prima rivolta di schiavi conclusa con un successo, Haiti ha una storia complessa alle spalle, caratterizzata da continue dittature militari, che sfociano nell’occupazione militare statunitense fra il 1915 e il 1934. In quel periodo, la resistenza semipacifica haitiana trova ispirazione nella propria cultura e nella religione voodoo. Protagonista è la popolazione nera, che ha il proprio leader nel popolare agitatore dottor François ‘Papa Doc’ Duvalier. Gli americani se ne vanno nel 1934, lasciando una economia a pezzi. Molti haitiani emigrano a Santo Domingo, in cerca di lavoro, provocando tensioni razziali ed economiche terminate tragicamente con una pulizia etnica che fa 20mila vittime tra gli haitiani. Agitata sempre dallo scontro fra popolazione mulatta e nera, di fatto l’isola resta dipendente dagli Stati Uniti ed è governata, come un dittatore, da “Doc” Duvalier, fino alla sua morte, nel 1971. Il potere passa allora al figlio Jean-
Claude, chiamato Baby Doc, che tenta una mediazione tra i ‘modernizzatori’ mulatti. Contemporaneamente, elimina con brutalità tutta l’opposizione. Alla crisi politica, si aggiunge all’inizio degli anni ‘80 quella economica. Haiti viene identificata come zona ad alto rischio per l’Aids e il turismo crolla. Poi, un programma statunitense per sconfiggere una malattia dei suini danneggia l’economia rurale, con l’uccisione per errore 1,7milioni di animali. Nel 1986 scoppia la rivolta popolare e Baby Doc Duvalier deve riparare all’estero con la famiglia. Si forma una giunta provvisoria militare. Il luogotenente generale Henri Namphy, confidente di Duvalier, viene nominato Presidente, ma un’organizzazione cattolica si oppone. È guidata da un giovane
Quadro generale
Sistema giudiziario
118
Un grave ostacolo al rispetto dei diritti umani resta il sistema giudiziario haitiano. Disfunzioni, lungaggini e detenzioni preprocessuali prolungate sono state denunciate dalla Rete nazionale di difesa dei diritti umani di Haiti secondo cui meno del 30% dei detenuti nelle carceri haitiane è stato processato e condannato. Stessa sorte anche per molti minori, detenuti e in attesa di processo. La situazione è peggiorata dalle condizioni assai precarie delle strutture, dalla mancanza di risorse umane e finanziarie che rendono le carceri sovraffollate e in condizioni igienico-sanitari gravi. Secondo i dati diffusi da Amnesty International nel 2012, circa 275 reclusi sono morti di colera nelle carceri.
Laurent Lamothe (14 agosto 1972)
Un pezzo d’America nella Unione Africana
L’ingresso ufficiale di Haiti nell’Unione Africana, come scriviamo nella scheda, potrebbe permettere al Paese caraibico di affrancarsi dalla logica degli aiuti internazionali e di accedere al sistema di finanziamenti e agevolazioni garantiti ai membri dell’Ua. L’Unione Africana ha sede ad Addis Abeba, in Etiopia. Ne fanno parte tutti i Paesi dell’Africa, eccetto il Marocco che si è ritirato quando l’Organizzazione dell’Unità Africana (predecessore dell’Ua) nel 1984 riconobbe l’indipendenza della Repubblica Araba Saharawi Democratica (Sahara Occidentale), su cui il Marocco rivendica tuttora la sovranità. Si tratta di un’organizzazione internazionale molto giovane, nata nel luglio del 2002 a Durban, in Sudafrica. Nell’Atto Costituivo si ricorda “l’eroica lotta dei nostri popoli e Paesi per l’indipendenza politica, la dignità umana e l’emancipazione economica” e si pone, tra gli altri, come obiettivo “l’unità e la solidarietà dei Paesi Africani e dei popoli d’Africa”.
prete: Jean-Bertrand Aristide. Le elezioni del 1987 vengono vinte a larga maggioranza da Namphy, ma nel giro di un anno un altro colpo di stato porta al potere un altro generale, Prosper Avril. Nel 1990 Avril è costretto a fuggire e sempre nel 1990 alle nuove elezioni si candida Aristide, che con lo slogan ‘Lavalas’ porta in massa la gente alle urne. Il successo di Aristide non dura molto: nel 1991 viene destituito da un golpe militare. L’Onu reagisce con un embargo totale, cui fa seguito un intervento militare degli Usa, che costringe i militari a farsi da parte. Nel 1994 Aristide può quindi tornare nel Paese e governare. Ma lo fa in piena crisi economica e in un grave clima di violenza. Alle elezioni legislative del giugno 1995, i candidati da lui sostenuti furono accusati di brogli dall’opposizione. Si arriva alle elezioni presidenziali del 1995, in dicembre, vinte da René Preval.
I PROTAGONISTI
Le violenze nel Paese non finiscono e nel 1996 il Consiglio di sicurezza dell’Onu proroga la propria missione militare sull’isola. Nel gennaio 1999 le cose precipitano, con Preval che destituisce gran parte dei parlamentari. La tensione sale ancora – come la violenza – con le elezioni presidenziali del novembre 2000, vinte dall’ex Presidente Aristide. Il conflitto tra la maggioranza e l’opposizione è violentissimo e non si placa. Nel 2004 i ribelli, formano il Fronte di Resistenza dell’Artibonite, conquistano alcune città e in seguito costringono Aristide a dimettersi e a lasciare il Paese. Spinti dall’opinione pubblica internazionale, il 30 aprile 2004 i Caschi Blu dell’Onu arrivano sull’isola per cercare di riportare l’ordine dopo le violenze seguite alla rivolta popolare che ha contribuito alla cacciata di Aristide. Presidente ad interim veniva nominato Boniface Alexandre, e premier Gerard Latortue, con l’impegno a svolgere nuove elezioni legislative entro il 2005. Le elezioni si svolgono nel 2006 e viene eletto Presidente l’agronomo haitiano Réné Garcia Préval.
119
E’ il giovane primo Ministro di Haiti. Nato a Port-auPrince il 14 agosto del 1972 è in carica dal 4 maggio del 2012, in seguito alle dimissioni dell’ex premier Garry Conille decise a causa di lotte intestine al Governo haitiano e a divergenze con il Presidente Michel Martelly. Precedentemente aveva ricoperto il ruolo di ministro degli Esteri fino ad ottobre del 2011. Cresciuto in una famiglia di artisti e letterati Laurent Lamothe ha lasciato Haiti per intraprendere, negli Stati Uniti, un percorso di studi universitari in economia e management ottenendo una laurea a pieni voti nell’Università di Saint Thomas in Florida. Insieme al compagno di studi e socio Patrice Baker ha fondato, dopo la laurea, la Global Voice Group, una piccola compagnia di telecomunicazioni oggi molto affermata sul mercato mondiale. Uomo d’affari vicino al Presidente Martelly e agli Stati Uniti, è diventato anche membro della Commissione ad Interim per la Ricostruzione di Haiti (Cirh), lavorando in stretto contatto con l’ex Presidente americano Bill Clinton, inviato speciale delle Nazioni Unite ad Haiti dopo il devastante terremoto del gennaio 2010.
Inoltre Messico
120
“Al confine con gli Stati Uniti si combatte una guerra senza regole fra Narcos”.
Il Messico perennemente in guerra? In parte si, se si tiene conto del numero di persone che ogni anno vengono uccise dalla violenza dei narcotrafficanti. Culiacán, Tijuana e Ciudad Juárez sono tre città del Messico e sono tra le più pericolose al mondo. Si trovano sul confine con gli Usa. Una posizione strategica, che le ha fatte diventare luoghi di passaggio sia di merci, sia di persone. Una vera e propria “zona di guerra”, attorno ad un unico bene: la droga. E’ una terra di confine, sempre più violenta: Ciudad Juárez è, ad esempio, fra le prime città al mondo per il fenomeno del femminicidio. Tra il 1993 e il 2007, a Ciudad Juárez sono state assassinate, ogni anno, circa 33 donne. Negli ultimi quattro anni si è raggiunta la media di 200, con un aumento del 500%. A dichiararlo è stato Julia Monárrez ricercatrice del Colegio della Frontera Norte, parlando di femminicidi in questa Regione. Le ragazze hanno età compresa tra i 13 e i 27 anni. Spesso sono operaie delle numerose “dislocazioni” di fabbriche statunitensi. È l’altra faccia della globalizzazione, dell’economia “a basso costo”, che si paga con l’inesistenza dei diritti dei lavoratori, umani, e in modo indiretto con la vita di queste donne. L’altra piaga è il narcotraffico. Negli ultimi anni sono scomparse decine di migliaia di persone. Di altre ancora si sono ritrovati i macabri resti, come dimostra una foto che ha fatto il giro del mondo: le teste mozzate di 5 ragazzi poste sul cofano di un’auto. In generale il Paese è attraversato – da Nord a Sud – dalla guerra tra gli apparati della sicurezza nazionale e gli eserciti privati sovvenzionati
dai cartelli della droga. Gli eserciti al soldo dei narcotrafficanti in questi ultimi anni hanno potenziato la loro presenza anche al di là dei confini del Messico, verso il Nicaragua, considerato terra di Narcos e di traffici di stupefacenti. “Fino all’anno scorso avevamo quindici morti al giorno, in media”, ha dichiarato il sindaco di Ciudad Juárez a Mimmo Candito, giornalista de La Stampa. “Qualche volta trenta, altre volte dieci”. E Candito, nel suo articolo del novembre 2012, continua: “Non pare nemmeno rammaricato, dà i suoi numeri con la quieta pazienza di una statistica ragionieristica. Però poi s’illumina: “Ah, ma a gennaio e febbraio siamo scesi a cinque morti al giorno”. E mi guarda soddisfatto: “Spero che alla fine il conto di marzo confermi, più o meno, questa riduzione”. Avere dati precisi è molto difficile, ma quest’anno il quotidiano messicano Excelsior ha diffuso dei numeri ottenuti dall’accesso agli archivi segreti della polizia, operazione resa possibile dalla riforma della legge sulla trasparenza. I redattori dell’Excelsior affermano, sulla base delle inchieste della polizia, che le persone scomparse senza lasciare la minima traccia, tra gennaio del 2008 e dicembre del 2011, sarebbero 14300. Cifra che si riferisce, però, solo alle sparizioni denunciate. Secondo le organizzazioni di diritti umani, gli scomparsi, in realtà, sarebbero almeno il doppio, considerando i casi non denunciati per la paura delle famiglie delle vittime. Nel 63% dei casi presi in considerazione dalle forze dell’ordine, le persone sparite sono state sequestrate da sconosciuti armati. Il Messico è “difficile” anche dal punto di vista dell’informazione. Secondo la Commissione nazionale sui diritti umani, dal 2000 al 2012 in Messico 81 giornalisti sono stati uccisi e altri 14 risultano scomparsi. Tra i quotidiani che hanno deciso di non occuparsi più di criminalità organizzata, il più recente è El Mañana, la cui redazione è stata colpita da una sventagliata di pallottole all’inizio di maggio.
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Fra integralismo e dittature il pensiero è in prigione In Afghanistan, il passaggio di competenze e responsabilità tra la forza internazionale e il Governo procede portando con sé gravi rischi per i diritti umani. Compiti di polizia e gestione delle carceri sono stati trasferiti alle autorità afgane senza garanzie per la formazione delle forze di polizia e per l’incolumità dei detenuti. Le donne continuano a pagare un prezzo molto alto, soprattutto nelle zone controllate dall’opposizione armata, dove tradizione, religione e sistemi di giustizia paralleli danno vita a sanzioni estreme e crudeli. La tutela dei diritti delle donne nel futuro del Paese appare compromessa dalla scarsa considerazione delle autorità di Kabul, pronte a sacrificarli nel contesto di negoziati di pace, condotti da delegazioni di cui fanno parte “signori della guerra” e persone implicate in gravi violazioni dei diritti umani. Nel Paese, 500mila persone, abbandonate dal Governo e dai donatori internazionali, sopravvivono nella miseria e a rischio di morte in ripari di fortuna attorno alle città del Paese. In Pakistan, la legislazione che vieta la bla-
sfemia continua a essere applicata spesso per risolvere dispute private o perseguitare le minoranze religiose, come quella cristiana e le correnti islamiche vietate. Nelle zone di frontiera, dove lo Stato è presente con operazioni militari contro i gruppi dell’opposizione armata, i diritti delle donne sono a rischio e le attiviste subiscono attacchi e intimidazioni. Il dissenso è sempre meno tollerato in Vietnam, dove nel 2012 altri blogger sono stati arrestati e condannati. Allo stesso modo, in Cina proseguono gli arresti arbitrari e le condanne di attivisti per i diritti umani e avvocati che difendono le comunità minacciate di sgomberi forzati. In Thailandia, una draconiana legislazione che punisce la diffamazione nei confronti della famiglia reale ha determinato condanne di persone che avevano criticato le politiche governative. In Corea del Nord centinaia di migliaia di presunti oppositori sono detenuti in condizioni brutali all’interno dei campi di prigionia. In Myanmar, 640 prigionieri politici, inclusi i prigionieri di coscienza, sono stati liberati, ma il Paese è teatro di violenza interetnica e religiosa tra birmani Rakhine di religione buddista, birmani Rakhine di religione musulmana e la comunità Rohingya. In Cambogia, nel contesto delle campagne per la difesa della terra e degli alloggi, sempre più a rischio a causa della propensione del Governo a soddisfare le richieste delle imprese e dei progetti di sviluppo, attivisti e giornalisti sono spesso uccisi e condannati a lunghe pene. Analogamente in India, i movimenti per il diritto alla terra subiscono violazioni dei diritti umani pur ottenendo vittorie sul piano morale e giuridico, come nello stato dell’Orissa, dove le comunità native hanno impedito l’apertura di una miniera e l’ingrandimento di uno stabilimento di alluminio della multinazionale britannica Vedanta. Dopo un anno senza esecuzioni e nonostante l’impegno del Governo ad aprire un dibattito sulla pena di morte, in Giappone sono riprese le impiccagioni. L’uso della pena di morte rimane sostenuto in Cina, anche se il rifiuto da parte del Governo di fornire dati ufficiali impedisce di analizzare la dimensione del fenomeno e di verificare le affermazioni delle autorità secondo le quali le condanne a morte sono diminuite grazie a maggiori garanzie procedurali. Nei Paesi dell’ex spazio sovietico dell’Asia centrale, la situazione dei diritti umani resta insoddisfacente. Le inchieste sugli scontri etnici del 2010 in Kirghizistan tra le comunità uzbeca e kirghiza sono parziali e lontane dagli standard internazionali,
mentre manca del tutto l’accertamento delle responsabilità per la repressione della rivolta degli operai degli impianti petroliferi di Zhanaozen, in Kazakistan, che provocò almeno 13 morti nel dicembre 2010. Gli attivisti che chiedono verità e giustizia sono minacciati e arrestati. I Governi di Uzbekistan e Turkmenistan hanno continuato a mettere a tacere le voci indipendenti.
Il mondo di Kako di Flora Graiff Bricolage con l’elmo
Il conflitto e l’Italia
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A un costo annuo di quasi 2 milioni di euro al giorno, il contingente italiano autorizzato dal Parlamento per la missione in Afghanistan è di circa 4.200 uomini dislocati soprattutto nell’area occidentale dove l’Italia ha il comando del Regional Command West (RC-W), un’ampia regione (grande quanto il Nord Italia) che comprende le quattro province di Herat, Badghis, Ghowr e Farah. Oltre quaranta soldati italiani sono morti in Afghanistan. Nel 2012 dovrebbe iniziare un primo ritiro dall’unico teatro internazionale per il quale Roma non ha deciso riduzione di fondi e di personale. Scarso resta l’impegno nella ricostruzione civile, sbandierato a parole che poco finanziato nei fatti
Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2011 uscito nel giugno 2012 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DALL’AFGHANISTAN RIFUGIATI
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I morti nella coalizione
A ottobre 2011 il bilancio dei soldati americani morti in Afghanistan dall’inizio del conflitto ha raggiunto un’altra soglia psicologica: duemila vittime. Il calcolo è basato su un conteggio tenuto da Associated Press a partire dall’invasione del 7 ottobre 2001. Secondo l’organizzazione indipendente iCasualties.org, almeno 1190 altri soldati della coalizione sono morti nella guerra in Afghanistan. Secondo l’americana Brookings Institution, il 40,2% delle morti è stata provocata dall’esplosione di ordigni improvvisati; la maggior parte di queste è stata registrata dopo che nel 2009 Barack Obama ha ordinato l’invio di altri 33mila soldati (poi ritirati).
UNHCR/J. Tanner
Nel corso del 2011 e del 2012, tre Conferenze internazionali, a Bonn (dicembre 2011), Chicago (maggio 2012) e Tokyo (luglio 2012), considerate in un certo senso le “ultime grandi Conferenze internazionali” sull’Afghanistan, hanno definito tempi e modi del ritiro del contingente Nato/Isaf, il quadro della governance e il futuro sostegno civile della Comunità Internazionale al Paese ancora retto (sino al 2013) dal Presidente Hamid Karzai. La Conferenza di Bonn, organizzata a distanza di dieci anni da quella che nel 2001 era seguita alla caduta del regime talebano, si è concentrata soprattutto sul rafforzamento dello Stato e sulla necessità di una chiara lotta alla corruzione endemica nel Paese. La Conferenza di Chicago, organizzata dalla Nato, ha invece chiarito i termini del ritiro delle truppe Isaf/Nato (entro il 2014), cercando però di lasciare una porta aperta al mantenimento di un contingente che garantisca sostegno tecnico all’esercito afgano, dal 2015 titolare in pieno della sovranità sulla sicurezza nazionale. Quanto a Tokyo, la Conferenza dei donatori ha fissato l’aiuto al Governo afgano nei termini di 16miliardi di dollari per quattro anni sotto forma di investimento nel settore civile. La guerra però è andata avanti senza diminuire di intensità anche se tattiche e strategie, sia della Nato sia della guerriglia talebana, sono cambiate, adattandosi alla svolta prevista entro il 2014 e fortemente voluta dagli americani che hanno però concluso con l’Afghanistan un accordo che consente loro di tenere basi militari e soldati nel Paese. Anche altre Nazioni, tra cui l’Italia, hanno firmato accordi di partenariato con Kabul. Il capitolo delle vittime civili ha continuato a funestare la cronaca e ad aumentare il risentimento verso gli stranieri (cresciuto anche per i vari episodi di intolleranza religiosa verso l’Islam e per la satira nei confronti del Profeta): secondo la Un Assistance Mission in Afghanistan (Unama), i morti civili sono saliti da 2790 nel 2010 a 3021 nel 2011 (erano 2412 nel 2009). La maggior parte delle vittime si deve alla guerriglia (specie ai cosiddetti Ied, responsabili di un morto su tre ossia del 32%) ma sono aumentati anche i morti nei raid aerei che invece erano andati diminuendo: 187 vittime nel 2011 con un aumento del 9% rispetto all’anno prima. Il processo di pace, da
AFGHANISTAN
Generalità Nome completo:
Repubblica Islamica dell’Afghanistan
Bandiera
125
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Il pashto e il persiano (dari) sono le lingue ufficiali. C’è inoltre una grande varietà di lingue, la maggior parte di origine persiana o altaica: hazaragi, turcomanno, uzbeco, aimaq e altri
Capitale:
Kabul
Popolazione:
32.254.372
Area:
652.090 Kmq
Religioni:
Musulmana (99%) (74% sunnita, 15% sciita e 10% altro).
Moneta:
Nuovo Afghani
Principali esportazioni:
Smeraldi, uranio, altri minerali, oppio
PIL pro capite:
Us 1.310
tutti evocato e invocato, non sembra intanto aver fatto passi avanti. Si è arenata l’idea dell’apertura di un ufficio politico talebano in Qatar mentre il Pakistan ha fatto chiaramente capire di voler essere parte in causa essenziale in qualsiasi decisione riguardi Kabul.
l’India, snodo tra Asia centrale, Medio Oriente e subcontinente indiano) ma molte altre se ne aggiungono: quella ad esempio che un fallimento afgano sarebbe un fallimento per la Nato o il rischio di lasciare che l’Afghanistan diventi una nuova Somalia, buco nero per narcotrafficanti, integralisti, contrabbandieri. Quel che va considerato è che il Paese è in guerra da trent’anni e i motivi per continuare il conflitto continuano a cambiare favorendo la sopravvivenza di eserciti privati e un’abitudine mentale a risolvere i contenziosi con la spada. Non di meno il desiderio di pace è fortissimo tra gli afgani e forse un negoziato potrebbe, dopo sei lustri, trovare terreno fertile anche se si investe troppo poco sulla società civile.
Per cosa si combatte
Gli Haqqani
La galassia talebana è formata, molto grosso modo, da tre fazioni. Quella “storica” fa capo alla “Shura di Quetta, il Gran consiglio capeggiato da mullah Omar, l’ex guida dell’emirato afgano nato con gli studenti islamisti: è la più forte e forse anche la più attendibile in un futuro negoziato, per ora molto sotto traccia. Poi c’è l’incognita Gulbuddin Hekmatyar, un signore della guerra ormai in età avanzata ma che controlla una vasta fetta del Nord. Infine c’è la cosiddetta Rete Haqqani, puri, duri e qaedisti. Sembra che l’ascendente dei pachistani sia più forte su quest’ala estremista che avrebbe compiuto gli attentati più sanguinosi del 20112012. Anche quelli rivendicati poi dal portavoce “ufficiale” dei talebani. Sono la vera variabile impazzita che probabilmente crea problemi allo stesso mullah Omar.
126
È una domanda che molto spesso è stata rivolta dall’opinione pubblica ai Governi dei Paesi impegnati in una guerra (l’ultima in ordine di tempo) che ha ormai superato il decennio e nata come una sorta di vendetta statunitense dopo l’11 settembre. Alcuni analisti hanno proposto la chiave delle risorse, ma l’Afghanistan non ha petrolio e riserve limitate di gas e può essere bypassato da oleodotti e gasdotti che provengono da altrove. Possiede un immenso giacimento di minerali già noto ai sovietici – dal rame al carbone – che resta però di difficile estrazione benché, negli ultimi anni, questo mercato sia in espansione e tenuto sotto controllo soprattutto dalla Cina. La chiave geopolitica continua a reggere (territorio di “profondità strategica” per il Pakistan in caso di guerra con
UNHCR/J. Tanner
L’Afghanistan è una repubblica islamica con una superficie di oltre 650mila km² e una popolazione stimata a circa 29milioni di abitanti. Le lingue ufficiali del Paese sono il Dari e il Pashto. Presenti molte lingue minori parlate dalle diverse comunità afgane (uzbeco, turcmeno etc). Dal momento che nel Paese non si effettuano più censimenti accurati da diversi decenni, non vi sono informazioni precise sulla composizione etniche della popolazione; stando alle stime della Library of Congress degli Stati Uniti le comunità si dividono in Pashtun, Tagiki, Hazara, Uzbechi, Aimak, Turkmeni, Baluchi e per il 4% in altre minoranze tra cui i nomadi Kuchi. La religione ufficiale è l’Islam così suddiviso: sunniti 80%, shiiti 19%, altro l’1%. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il tasso di mortalità infantile sotto i cinque anni è stimato a 147 morti ogni 1000 nati vivi (era di 209 nel 1990) e resta comunque tra i più elevati al mondo. La decrescita dei valori è avvenuta grazie all’attuazione del pacchetto base di servizi sanitari diffuso dal 2003. L’aspettativa di vita comples-
siva è cresciuta a 48 anni. Il divario città campagna resta enorme: in queste ultime ad esempio,
Quadro generale
UNHCR/S.Schulman
Hamid Karzai
(Karz, 24 dicembre 1957) UNHCR/R.Arnold
Da signore della guerra ad eroe
Dopo aver scampato la morte per trent’anni, i killer lo hanno colto di sorpresa nella sua casa nell’elitario quartiere di Wazir Akbar Khan dove stava incontrando due “talebani”. Burhanuddin Rabbani è stato ucciso nel settembre del 2011 ma è stato nel corso del 2012 che il primo Presidente mujaheddin dell’Afghanistan liberato dai russi è diventato un’icona nazionale, un eroe come l’ex compagno di battaglia Shah Massud, meglio noto come il Leone del Panjshir, ucciso alla vigilia dell’11 settembre. A capo dell’Alto Consiglio di pace per volere di Karzai che forse voleva neutralizzarne il potere, Rabbani era il fondatore del più importante partito islamico afgano e capo riconosciuto della cosiddetta Alleanza del Nord. Non è chiaro se sia stato ucciso dai talebani di mullah Omar o dalla fazione più radicale, gli Haqqani. Quel che è certo è che aveva molti nemici. La sua immagine adesso campeggia su centinaia di cartelloni della capitale. Da signore della guerra a eroe nazionale.
l’accesso all’acqua potabile è del 39% mentre in zona urbana è del 78%. In compenso una persona su due possiede un telefono cellulare. Oltre 1milione e 200mila persone usano Internet. L’economia afgana è formata per quasi il 40% dal settore primario, seguito da quello dei servizi e dell’industria ma l’Afghanistan è anche il maggior produttore mondiale di oppio, con circa il 90% della produzione totale del Pianeta. Quella legata alla coltivazione del papavero da oppio è un’economia diffusa capillarmente in modo particolare nelle zone Sud-Occidentali del Paese e coinvolge un consistente numero di famiglie: circa mezzo milione nel 2007, scese a circa 366mila nel 2008, per un totale di circa 2.4milioni di persone (circa il 10% della popolazione). Il Pnl 2010 è stato calcolato a 27.361miliardi di dollari. La condizione della donna, benché migliorata grazie a un più ampio accesso agli studi, resta
I PROTAGONISTI
ancora fortemente compromessa e nonostante gli sforzi nel settore dell’istruzione, il tasso di alfabetizzazione è tra i più bassi del mondo (0,354 Education Index Undp 2011. Italia: 0,965) e colpisce in particolare le donne. L’Afghanistan è infatti ancora compreso nella categoria Least Developed Country (Ldc), Paesi che presentano i più bassi indicatori di sviluppo socio economico sull’indicatore Undp di sviluppo umano. Sul fronte militare, nel 2013 è iniziato il ritiro delle truppe straniere aderenti alla Nato. La Forza di assistenza Isaf era stimata a 130mila soldati nel 2011 provenienti da 50 diversi Paesi: 90mila i soldati americani mentre i rimanenti provengono soprattutto da Regno Unito, Francia (dovrebbe completare il ritiro entro il 2013), Germania, Italia (4300 soldati), Canada, Australia, Polonia e Turchia. Entro la fine del 2014 si prevede il totale passaggio di sovranità della sicurezza dalle truppe internazionali alle forze afgane anche se rimarrà un contingente Nato con compiti di assistenza tecnica.
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Nonostante tutto, a cominciare nel 2011 dall’uccisione di suo fratello e dell’ex Presidente Rabbani, da Karzai voluto alla testa dell’Ufficio incaricato del negoziato di pace, il Presidente afgano continua a restare in sella a dispetto dell’ondivago appoggio della Comunità Internazionale e di un consenso nettamente in calo, specie in parlamento dove i deputati contro di lui sono in netta maggioranza. Il Presidente al suo terzo mandato (considerato il primo ad interim) non potrà ricandidarsi nel 2013 ma nessuno esclude un colpo di mano né la possibilità che Karzai presenti un delfino di cui però, al momento non c’è segno. Assai più che semplicemente il “sindaco di Kabul”, Hamid Karzai è un uomo abile e potente: ha alternato pugno di ferro a guanto di velluto, la voce grossa a un’obbedienza costante al suo alleato principale, gli Stati Uniti. In casa ha liquidato governatori e personaggi scomodi (come nella Commissione per i diritti umani) e sostituito ministri e direttori. All’estero ha alternato un abile lavoro diplomatico a dure strigliate, sull’eccesso di ingerenza straniera, da cui continua a dipendere. Dimostrando di poter, con ogni probabilità, sopravvivere a se stesso una volta ultimato il mandato presidenziale.
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La zona della Cina indicata con questa colorazione indica la parte riconducibile alla Regione del Tibet a cui questa scheda è dedicata.
Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2011 uscito nel giugno 2012 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DAL TIBET RIFUGIATI
15.068
PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI NEPAL
15.000
Nel Pacifico una polveriera
La Marina Militare Cinese deve “proseguire la propria modernizzazione” ed “essere pronta alla guerra, per salvaguardare la sicurezza nazionale e la pace”. È la posizione del Governo di Pechino, espressa nell’autunno del 2011, proprio mentre iniziavano i dialoghi militari con gli Stati Uniti, i grandi rivali nell’area del Pacifico. Per rafforzare questa tesi, la Marina cinese ha organizzato nel novembre dello stesso anno grandi manovre, proprio mentre il Presidente statunitense, Obama, era in visita in Indonesia. La tensione, nell’area, è davvero alta. Nel Mar cinese meridionale, la Cina ha dispute sulla sovranità territoriale di alcune isole con Vietnam, Filippine, Malaysia e Brunei, oltre che col Giappone e la Corea. E nel 2011, gli Usa si sono impegnati, con l’Australia, a rafforzare la loro presenza militare, proponendo anche la creazione di una zona di cooperazione economica con nove Paesi dell’area del Pacifico, senza però coinvolgere nella proposta la Cina.
Lucia Sonzogni
Un chiaro “atto d’accusa alle politiche di repressione del Governo di Pechino”: nell’estate del 2012, il capo del Governo tibetano in esilio, Lobsang Sangay, ha commentato così, con queste parole, l’ennesima ondata di autoimmolazioni di giovani tibetani, che hanno preferito suicidarsi dandosi alle fiamme, piuttosto che accettare quella che definiscono “l’occupazione cinese”. Lo scontro fra Cina e Tibet prosegue, ancora con suicidi da un lato e repressione e controlli di polizia dall’altro. Il tutto mentre la comunità internazionale sembra guardare con simpatia alla causa indipendentista tibetana, ma non interviene concretamente sul Governo di Pechino per raggiungere un’intesa. Nel 2012 il conto totale dei morti è arrivato a 51 dal 2009, anno in cui sono iniziate le autoimmolazioni. In luglio è morto Logan Lizin, studente del monastero Gedhen Choeling Tashi. In agosto è stata la volta di due cugini: Lobsang Kelsang, monaco diciottenne avviato presso il cenobio di Kirti e Lobsang Damchoe, ex monaco di diciassette anni. Secondo le ricostruzioni riportate dai monaci di Kirti in esilio a Dharamsala, i due giovani si sono dati fuoco a Ngaba (in cinese: Aba), vicino alla porta orientale del monastero di Kirti. La polizia ha come sempre reagito punto. Seguendo una prassi consolidata, ha circondato il monastero, impedendo a chiunque di entrare o uscire, tagliando gas, luce e ogni forma di comunicazione. Lo scontro è duro, come sempre, anche sul piano politico. Dopo le dimissioni del Dalai Lama da capo del Governo, nel 2010, la pressione cinese è aumentata e circa 3mila tibetani ogni anno scelgono l’esilio, raggiungendo il Nepal o l’India. In 20mila risiedono stabilmente in comunità sparse in Nepal, senza però che venga loro riconosciuto – nonostante gli accordi internazionali – lo status di profughi. Il risultato è che, di fatto, sono prigionieri. La ragione è semplice: il Nepal confina a Nord proprio con la Cina e ad Est con l’India. Si trova fra i due giganti asiatici e vuole trasformarsi – se-
CINA TIBET
Generalità Nome completo: Bandiera
Lingue principali:
Cinese mandarino
Capitale:
Pechino
Popolazione:
1.330.503.000
Area:
9.596.960 Kmq
Religioni:
Confuciana, taoista, buddista (95%), cristiana (3,5%), musulmana (1,5%)
Generalità Nome completo:
Tibet
Bandiera
Lingue principali:
Tibetano, Cinese
Capitale:
Lhasa
Popolazione:
2.670.000
Area:
1.228.400 Kmq
Religioni:
Buddista, altre
Moneta:
Renminbi
Principali esportazioni:
n.d.
PIL pro capite:
Us 948
Repubblica Popolare Cinese
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Moneta:
Renminbi
Principali esportazioni:
Praticamente tutto nel manifatturiero, più frumento, riso, patate
PIL pro capite:
Us 5.963
condo gli osservatori – in una specie di “Svizzera dell’Asia”. È attento, quindi, a non irritare il grande vicino. Così, il Tibet resta sempre più isolato, sul piano internazionale. Le autoimmolazioni, per altro, secondo molti esperti indicherebbero che la pazienza dei tibetani è al limite e sarebbero pronti – nonostante le esortazioni del Dalai Lama alla protesta civile e pacifica – a riprendere la strada della rivolta contro Pechino.
Ragioni militari, strategiche e motivi economici: queste le cause dello scontro fra Cina e Tibet. Il presidio della frontiera con l’India – Paese da sempre considerato rivale – è per la Cina fondamentale. Poi, il controllo diretto di buone risorse minerarie e delle immense riserve d’acqua, quelle che vengono dai tanti fiumi della Regione, è ritenuto vitale dai dirigenti cinesi. Pechino ha sempre voluto il controllo di quella area. Questa esigenza cinese si scontra natu-
ralmente con la voglia di indipendenza dei tibetani, che forti di una cultura politico-religiosa radicata e delle tradizioni, rivendicano il loro diritto ad essere uno Stato libero e autonomo. La scelta del Dalai Lama di trovare una soluzione attraverso il dialogo non convince tutti i tibetani. L’ala più radicale del movimento indipendentista chiede all’opinione pubblica mondiale un intervento più duro nei confronti della Cina, da loro considerata Paese occupante.
Per cosa si combatte
Il mondo guardava solo alla guerra in Corea, scoppiata all’alba di domenica 25 giugno 1950, con un attacco della Corea del Nord di Kim Il Sung alla Corea del Sud. Gli Stati Uniti intervennero militarmente, subito, chiedendo e ottenendo l’ombrello politico delle Nazioni Unite. In questo clima, l’attacco al Tibet, passò in secondo piano. Formalmente il Tibet era in una posizione di stallo, nata dall’abbandono dell’India da parte della Gran Bretagna nel 1947. Storicamente, la regione era stata a lungo indipendente, poi era caduta sotto l’influenza della Cina imperiale, prima di essere messa sotto tiro dalla Russia zarista e dal Regno Unito, che intervenne militarmente nel 1904. Da sempre, però, cultura e autonomia politica erano rimaste salde, tanto da definire una identità nazionale, che aveva nel Dalai Lama il capo di Governo e spirituale. La Cina aveva annunciato l’attacco. Mao, al potere dal 1949, aveva più volte spiegato che voleva una Cina riunita in tutti i suoi territori e questo significava anche il Tibet. Il 1° gennaio 1950 Radio Pechino annunciò che presto il Tibet sarebbe stato liberato dal giogo straniero. Così, l’occupazione avvenne senza quasi prote-
Quadro generale
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Lucia Sonzogni
Lo scontro è di quelli storici, ormai, conosciuto in tutti i Paesi del mondo. Ma al di là delle dichiarazioni di principio, nessuno pare intenzionato ad intervenire, tanto che molti Stati non hanno mai riconosciuto il Tibet come Stato sovrano e, quindi, continuano a considerare la vicenda come un problema interno alla Cina. È esattamente ciò che le cancellerie mondiali hanno pensato la mattina del 7 ottobre del 1950, leggendo sulle agenzie stampa o sui dispacci dei servizi segreti che quarantamila soldati dell’Esercito cinese avevano attraversato il fiume Yangtze e occupato tutto il Tibet orientale e il Kham - che ora è parte di tre Province cinesi - uccidendo ottomila soldati tibetani male armati. Solo sette giorni dopo l’attuale Dalai Lama, Tenzin Gyatso diventò sovrano del Tibet. Il cuore della controversa questione tibetana è tutto in una frase: è un problema interno. Nessun Paese occidentale ha mai riconosciuto il Tibet come uno Stato sovrano indipendente. Quindi, in punta di diritto internazionale, Pechino ha ragione nel definire la questione un “problema interno”. I cinesi - coerenti con questa visione - avevano pianificato tutto. Soprattutto avevano saputo cogliere il momento adatto.
Il deserto tra i binari
La desertificazione minaccia la ferrovia più alta del mondo, quella che collega Qinghai al Tibet. Lo hanno spiegato, nell’estate del 2012, i tecnici della linea ferroviaria. Circa 443 km dei 1956 totali di strada ferrata sarebbero già colpiti dal fenomeno. L’erosione del suolo negli ultimi anni è aumentata velocemente, soprattutto vicino i fiumi e nelle zone paludose dal Golmund alla Lhasa, dove i territori desertificati sono raddoppiati tra il 2003 e il 2009. Soprannominata “la strada del Paradiso”, la ferrovia si snoda al di sopra dei 4mila metri. Dal 1984, anno di costruzione, al 2002 sono stati più di 1362 i casi in cui i servizi ferroviari sono andati in tilt a causa della sabbia. Ma la linea è indispensabile: ad oggi sono stati più di 53milioni i passeggeri e sono iniziati da poco i lavori per la sua estensione. I tecnici stanno anche intervenendo per limitare i danni della desertificazione, mettendo grossi massi lungo la massicciata per bloccare la sabbia.
Hu Jintao
Lucia Sonzogni
(Jiangyan, 1942)
Il futuro della Regione è nel turismo
La Cina punta al turismo per il Tibet e nel 2012 ha messo sul piatto alcuni miliardi di euro per finanziare progetti di rilancio. Fra questi, un parco a tema di 800 ettari, che vuole celebrare gli storici rapporti fra la Cina stessa e il Tibet. Il costo dell’operazione è di 4miliardi di euro e dà il segnale preciso sui piani di Pechino, che vuole fare di Lhasa – la capitale tibetana – una città turistica. Già entro il 2015, il nuovo parco potrebbe attrarre 15milioni di visitatori, in gran parte cinesi e generare un indotto di almeno 2miliardi di euro l’anno. Le organizzazioni tibetane dichiarano di temere l’invasione di turisti: potrebbe compromettere la cultura tradizionale e i soldi, dicono, finiranno tutti ai cinesi Han, che governano il territorio. Medesima osservazione è stata sollevata per un altro progetto varato da Pechino, nella Prefettura Nyingchi. Qui sono stati stanziati 50milioni di euro per costruire 22 paesi sul modello svizzero, per accogliere i turisti. ste, messa ulteriormente in secondo piano dal fatto che i cinesi il 19 ottobre del 1950 intervennero pesantemente nella guerra di Corea appoggiando il Nord con milioni di uomini e mettendo in grave difficoltà gli Stati Uniti. Il 23 maggio 1951 il Dalai Lama firmò il “Trattato di liberazione pacifica” e diventò vice Presidente del comitato permanente dell’Assemblea Nazionale del Popolo. Il documento permise alla Cina di iniziare la colonizzazione del Tibet. Prima militarizzandolo, poi spingendo i cinesi ad andare nella nuova Regione. Il Tibet intanto rinunciava ad avere una politica estera autonoma, a batter moneta, a stampare francobolli. Le terre venivano ridistribuite, soprattutto nelle zone del Kham orientale e nell’Amdo, per non rompere i rapporti con l’aristocrazia. Da quel momento fu tutto un susseguirsi di ribellioni, avvicinamenti pacifici e rotture, spesso alimentate dall’esterno, da altri Paesi. Nel 1959 la prima grande rivolta. Il 10 marzo 1959 il movimento di resistenza tibetano guidò una protesta contro i cinesi. Per reprimerla, Pechino schierò 150mila uomini e unità aeree. Morirono in mi-
I PROTAGONISTI
gliaia nelle strade di Lhasa e in altre città. Il 17 marzo, il Dalai Lama abbandonò la capitale e chiese asilo politico in India, assieme ad almeno 80mila profughi. I morti pare furono 65mila. Nel 1965 il Tibet venne dichiarato Regione Autonoma, con una annessione di fatto alla Cina. Nel 1968 la Rivoluzione Culturale portò alla distruzione dei monasteri, almeno 6mila e all’uccisione di molti monaci. La resistenza tibetana però non mollava. Nel 1977 e nel 1980 vi furono altre due sollevazioni, anche queste represse duramente da Pechino. Dal 1976, Pechino ha riavviato l’opera di colonizzazione, tanto che in Tibet sono arrivati 7milioni di cinesi, contro i 6milioni di tibetani che ci vivono. L’obiettivo di Pechino, denuncia la resistenza, è cancellare la cultura e l’identità tibetane. Il Dalai Lama ha nel frattempo tentato la via della mediazione, rinunciando a reclamare l’indipendenza, puntando all’autodeterminazione per salvare la cultura del Paese e salvaguardare i diritti umani. Una mediazione proposta nel 1987 tramite gli Stati Uniti è fallita. E come sempre, dopo ogni fallimento, sono ricominciati gli scontri, diventati protesta internazionale a partire dalle Olimpiadi a Pechino nel 2008 e, dal 2009, autoimmolazioni di giovani monaci.
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Hu Jintao è il quarto Segretario generale del Partito Comunista Cinese, nonché Presidente della Repubblica Popolare Cinese e Presidente della Commissione Militare Centrale dello Stato e del Partito. Entrato nel Partito Comunista Cinese prima della Rivoluzione Culturale del 1966, si è laureato in ingegneria idraulica nel 1964. Il padre, proprio durante la Rivoluzione Culturale, viene invece incarcerato e torturato. Ha assunto la direzione del partito al sedicesimo congresso, dando l’idea di voler creare maggior armonia nel Paese, puntando a diminuire le disuguaglianze. Ha tentato di frenare la politica di “sviluppo economico a tutti i costi”. Molti osservatori internazionali hanno parlato di Hu come di un liberale in politica interna. Lui nel 2004 ha però spiegato che “la democrazia liberista occidentale non è adatta alla Cina”. Molto meno liberal è stato sul fronte internazionale, dove non ha concesso nulla, ribadendo ad esempio le posizioni sull’unificazione della Cina con Taiwan, anche con la forza se si dichiarasse indipendente. Una classifica stilata nel 2010 dalla rivista Forbes lo ha collocato al 1º posto nella lista degli uomini più potenti al mondo.
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2011 uscito nel giugno 2012 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DALLE FILIPPINE RIFUGIATI
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SFOLLATI PRESENTI NELLE FILIPPINE 159.465 RIFUGIATI ACCOLTI NELLE FILIPPINE RIFUGIATI
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Processo al terrore
Dal 2009 le Filippine sono scosse anche dal processo sul massacro di Magindanao, quando 57 persone vennero sequestrate e giustiziate da un commando armato che, secondo l’accusa sarebbe stato organizzato dal potente cartello degli Ampatuan. Nel febbraio del 2012 è stato ucciso il sesto testimone di quei fatti. Una sequenza di omicidi atti a intimidire chi vuole parlare. La carneficina del 2009, infatti, ha, per gli inquirenti, evidenti implicazioni politiche. Ventisei delle 57 vittime appartenevano alla famiglia Mangudadatu, rivale diretta degli Ampatuan per il governatorato della Provincia. Assieme a loro, nel giorno della strage, viaggiavano anche 31 giornalisti. Vennero fermati in autostrada, rapiti e passati per le armi. Ora, durante il processo, il terrore continua.
È come sempre una guerra tenuta lontana dai riflettori, per quanto possibile, ma nelle Filippine prosegue lo scontro decennale che vede il Governo centrale combattere da un lato gli indipendentisti islamici del Sud del Paese, dall’altro i guerriglieri comunisti che vogliono rovesciare il sistema. In febbraio un raid aereo delle forze armate filippine nell’isola di Jolo ha ucciso 15 militanti islamici, tra cui tre leader delle organizzazioni Abu Sayyaf e Jemaah Islamiyah, considerate legate ad al-Qaeda e ritenute responsabili di molti attentati. In aprile, una bomba su un autobus attribuita alle stesse organizzazioni, ha ucciso dieci persone nell’isola meridionale di Mindanao, nella città di Carmen. Nello stesso mese, a Nord del Paese, un’imboscata dei ribelli comunisti ha provocato la morte di 11 soldati e di un civile. I guerriglieri del Nuovo esercito del popolo (Npa) hanno attaccato un convoglio di tre veicoli militari, in risposta ad una azione dell’esercito, che la settimana prima aveva ucciso sei membri dell’organizzazione. Tra esercito e Npa la tensione è tornata alta. Il Nuovo esercito del popolo può contare su circa 4mila combattenti, numero ridotto rispetto ai 20mila che si stimavano negli anni ’80, ma comunque considerevole. Un tentativo di negoziato è fallito nel 2011, interrotto dal rifiuto del Governo di liberare i militanti detenuti. Così si è tornati a combattere. E se la situazione militare resta difficile, sul piano sociale il Paese nel 2012 ha attraversato un momento altrettanto complesso. A Manila, in luglio, sono state molte le manifestazioni contro il Governo del Presidente Benigno Aquino, che parla di crescita economica e miglioramento del sistema sanitario del Paese. Chi protesta, dice che la crescita ha avvantaggiato solo l’uno per cento della popolazione. Gli altri soffrono per gli alti prezzi, i bassi salari, la disoc-
FILIPPINE
Generalità Nome completo:
Repubblica delle Filippine
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Filippino, Inglese, Spagnolo, Arabo
Capitale:
Manila
Popolazione:
93.000.000
Area:
300.000 Kmq
Religioni:
Cristiana (91%), musulmana (5%), altre (4%)
Moneta:
Peso Filippino
Principali esportazioni:
Prodotti agricoli, abbigliamento e idraulica
PIL pro capite:
Us 4.923
cupazione e la mancanza di terra. Resta aperta anche la crisi internazionale, con il confronto militare per il controllo delle isole Spratly, da settant’anni contese da Cina, Taiwan, Vietnam, Malaysia, Brunei e, appunto, Filippine. Sono 750 isole coralline, fondamentali dal punto di vista strategico per i traffici nel Mar Cinese Orientale, importanti per la pesca e, soprattutto, interessanti per il petrolio e gas naturale che sembrano essere nel sottosuolo. La Cina le reclama e minaccia. Manila, forte dell’appoggio degli Usa, non molla: nel 2012 ha stanziato due miliardi di euro per riarmare l’esercito.
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Lo scontro vero, nel Paese, è tra maggioranza cristiana e minoranza musulmana, che reclama l’indipendenza. Ad alimentarlo c’è la storica, pessima, distribuzione della ricchezza. Il Nord e il Centro dell’Arcipelago sono, appunto, le aree a maggioranza cristiana e sono le zone più ricche rispetto al Sud, a prevalenza musulmana. Gli islamici - che sono il 5% della popolazione complessiva - da sempre accusano la maggioranza cristiana di non aver fatto abbastanza per distribuire le risorse equamente. La medesima
accusa viene mossa dai gruppi di origine marxista. Una cattiva distribuzione che è ben rappresentata dalla diffusione della popolazione sul territorio: il 60% degli 85milioni di Filippini, infatti, vive in una sola isola, Luzon, dove c’è la capitale. A tutto questo si somma la tensione internazionale, con le frequenti crisi con la Cina, per il controllo di isole ritenute fondamentali sia per il controllo dei traffici via mare, sia per le risorse minerali e petrolifere.
Per cosa si combatte
Nel 2011 ci si era illusi: Manila e indipendentisti islamici sembravano avviati a trovare soluzioni, sulla base di un’intesa che prevedesse, per i territori a Sud del Paese, una sovranità condivisa e garantita da Hong Kong e Cina. Niente da fare, i negoziati sono saltati, così come sono fallite le trattative con i gruppi marxisti. E la guerra è ripresa. L’elezione nel 2010 di un altro Aquino alla presidenza, Benigno, figlio dell’icona della democrazia, Cory Aquino, aveva acceso speranze nel Paese asiatico, storicamente travagliato. Prima colonia della Spagna, poi degli Usa, dopo l’indipendenza il Paese venne guidato con mano dittatoriale da Marcos sino al 1986, anno della svolta democratica, con l’elezione della presidente Cory Aquino. L’arrivo della nuova Presidente portò ad un accordo con i movimenti separatisti musulmani di Mindanao, attivi nel Sud del Paese sin dagli anni ‘50. Venne concessa loro ampia autonomia amministrativa. Questo fermò il conflitto armato con i separatisti. Continuò invece la guerra con il Nuovo esercito del popolo (Npa): nel 1990, la guerriglia riprese, dopo la denuncia della scomparsa di attivisti politici e sindacali della sinistra. Il 26 novembre 1991 un altro pezzo del passato coloniale se ne andò: gli Usa si ritirarono dalla base di Clark - una delle due esistenti nelle Filippine, l’altra è Subic Bay -, insieme a 6mila effettivi americani. Nel maggio dell’anno dopo, venne
eletto alla presidenza Fidel Ramos, ex ministro della Difesa. Nel 1996 parve risolto il problema con i separatisti islamici. Il 30 settembre venne firmato un accordo di pace e Nul Misauri, capo del Fronte di liberazione nazionale moro, diventò governatore di Mindanao, Regione autonoma enorme. Fu una pace di breve durata. Già nel 2000 i musulmani chiedevano un referendum per l’autodeterminazione, mentre la maggioranza cattolica protestava contro l’accordo non accettandolo. Intanto una serie di scandali per tangenti e corruzione travolgeva la politica. Nell’aprile del 2002 a General Santos, nel Sud del Mindanao, venne dichiarato la stato d’allerta, per l’esplosione di parecchie bombe, con 14 morti, a opera del Milf, il Fronte Islamico di liberazione moro. Era la ripresa della guerra. L’obiettivo dichiarato era creare uno stato musulmano. Lo scontro con i gruppi islamici divenne sempre più duro, ma restava alta la tensione anche con i gruppi guerriglieri di origine marxista, che riprendevano vigore. Nel 2003, Amnesty International denunciò l’uso della tortura su prigionieri politici, membri di gruppi armati e criminali comuni. Accusa che venne respinta dal Governo. Nel marzo del 2004, venne sventato un attentato simile a quello che aveva colpito Madrid l’11 marzo. Vennero arrestati quattro membri di Abu Sayyaf con 36 chili di esplosivo confiscati. Uno di loro si dichiarò responsabile dell’attentato che il 27
Quadro generale
Il web si ribella
La comunità del web è sul piede di guerra, nelle Filippine. Nel settembre del 2012, il Governo ha varato una nuova legge sul crimine informatico, ufficialmente per combattere il sesso online, la pedopornografia infantile, lo spam e il furto d’identità con pene fino a dodici anni di carcere. Le organizzazioni non governative contestano però la legittimità costituzionale della legge, che prevede multe o carcere per chiunque scriva commenti considerati diffamatori sui social network come Facebook o Twitter. Inoltre, vengono ampliati i poteri dei funzionari governativi nel controllo e nel sequestro degli account. Questo – dicono – creerà una sorta di “occhio”, in grado di vigilare sulla posta privata e sugli account dei social network di tutti gli utenti delle Filippine.
Abu Sayyaf
Gli Usa in aiuto
La crisi internazionale che vede, fra gli altri, Filippine e Cina fronteggiarsi per il controllo degli arcipelaghi del Mar Cinese, sta di fatto aiutando la politica militare degli Stati Uniti. La continua aggressività cinese ha messo in allarme tutti i Paesi dell’area, che si sono rivolti agli Usa per una maggiore protezione. Così, sono stati raggiunti nuovi accordi militari e Washington sta vendendo armi. Il Giappone, che sta riposizionando l’esercito, portandolo nelle isole Ryukyu che arrivano a Taiwan dalle vecchie postazioni al Nord per controllare il pericolo russo, ha acquistato nuovi cacciabombardieri F35. Le Filippine hanno comperato navi da guerra di seconda mano e cacciabombardieri F16. Persino il Vietnam ha stretto accordi con gli Usa e la Marina statunitense è tornata nel porto di Da Nang, per esercitazioni congiunte con la flotta da guerra di Hanoi. Anche Singapore, Malaysia e Taiwan stanno potenziando l’acquisto di armi statunitensi e i rapporti militari con Washington, che da tempo ha spostato nel Pacifico i propri interessi strategici.
febbraio di quell’anno costò la vita a 100 persone sul SuperFerry 14. Gli arrestati, che svelarono di essere stati addestrati dalla rete terroristica Jemaah Islamiah, legata ad al-Qaeda, progettavano attentati contro treni e negozi a Manila, città con dieci milioni di abitanti. Nel 2004, la Norvegia mediò un accordo fra Nuovo esercito del popolo e Governo. L’anno successivo, dopo negoziati di pace in Malaysia, indipendentisti musulmani e Governo annunciarono un accordo sulle terre ancestrali di cui i ribelli rivendicavano la proprietà da trent’anni. Tregue che non durarono. Nel 2010 sono ripresi i combattimenti. Si calcola che dal 1971 a oggi siano stati più di 150mila i filippini morti tra Mindanao e l’arcipelago di Sulu, nello scontro per l’indipendenza e oltre 50mila gli sfollati. Il conflitto con la guerriglia del Npa, invece, avrebbe procurato almeno 40mila morti, a
I PROTAGONISTI
partire dal 1969. Il doppio fronte della guerra interna alla Filippine è sempre aperto. Da un lato lo scontro con gli indipendentisti del Milf, dall’altro la guerra con Npa di matrice comunista, continuano a far pagar prezzi alti in termini di vite umane. Il neo Presidente Benigno Aquino III - eletto in giugno - ha fatto ripartire le trattative di pace con risultati scadenti, così sono continuate le offensive militari. Per le trattative, il ministro degli Esteri della Malaysia è stato chiamato a fare da mediatore, senza risultato. Il Milf vuole trattare solo sulla base della cosiddetta “sovranità condivisa”, che prevede un unico Stato con un Governo autonomo nel Sud islamico. Una ipotesi che può diventare realtà solo con una revisione della Costituzione e quindi con l’intervento del Parlamento filippino, poco disponibile a una decisione di questo tipo. Così il Milf e il gruppo Abu Sayyaf – nato negli anni ’90 e legato ad al-Qaeda - continuano a lottare per arrivare a creare uno stato islamico indipendente a Mindanao e nelle isole meridionali delle Filippine.
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Abu Sayyaf, noto anche come al-Harakat al-Islamiyya, è forse il più attivo dei diversi gruppi separatisti islamici che agiscono nel Sud delle Filippine, in Bangsamoro. Il gruppo venne costituito attorno al 1990 da Abdurajak Janjalani, un filippino musulmano che aveva combattuto nella Brigata Internazionale Musulmana durante l’invasione sovietica in Afghanistan. La prima azione militare nota è del 1991, con l’uccisione di due statunitensi, missionari evangelisti. Di lì in avanti, è stato un susseguirsi di azioni come rapimenti, attentatati ed estorsioni. Obiettivo dichiarato della organizzazione è creare uno stato islamico nel Mindanao Occidentale e nelle isole Sulu, con l’intenzione di strutturare una “nazione islamica” in tutto il Sud Est asiatico. I confini sarebbero, da Est a Ovest, l’isola di Mindanao, le isole Sulu, l’isola del Borneo, la Malesia, l’Indonesia, le isole del Mar Cinese Meridionale, la penisola Malese, che oggi è parte della Thailandia e della Birmania.In attesa di raggiungere questi obiettivi, il gruppo propone al Governo di Manila di creare la tredicesima Provincia autonoma, libera dal Governo centrale e cattolico delle Filippine.
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2011 uscito nel giugno 2012 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DALL’INDIA RIFUGIATI
16.232
PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI STATI UNITI D’AMERICA
6.657
CANADA
5.621
RIFUGIATI ACCOLTI NELL’INDIA RIFUGIATI
185.118
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI CINA
100.003
SRI LANKA
68.152
AFGHANISTAN
9.161
40milioni di armi
In India ci sono 40milioni di piccole armi e di queste solo il 15% ha una regolare licenza. È quanto emerge da un rapporto sulla “Violenza armata in India” presentato a Nuova Delhi nel 2011 e promosso dalle Nazioni Unite in occasione della Giornata Internazionale della Pace. Nonostante la grande quantità di armi e la presenza di un conflitto armato nel Nord e nel Nord Est del Paese, negli ultimi dieci anni il tasso di crimini legato all’uso di armi da fuoco si sarebbe dimezzato. Il rapporto, compilato sulla base di dati della polizia e referti medici nei 28 stati indiani, mostra che la città di Meerut, nello stato di Uttar Pradesh, è la città più ‘’violenta’’ dell’India. Preoccupa anche il traffico di armi provenienti da Paesi vicini come Afghanistan, Pakistan e Sri Lanka.
Marzia Lami
Nel marzo-aprile 2012 il rapimento di due italiani tra le montagne dell’Orissa, Stato dell’India Orientale, ha portato sui media italiani una delle guerre più sottaciute di questo inizio secolo. Paolo Bosusco e Claudio Colangelo sono stati rapiti da un gruppo di guerriglieri maoisti, o “naxaliti”. Nello stesso periodo altri sequestri hanno tenuto alta la tensione. Tutti sono stati poi rilasciati in cambio della scarcerazione di persone per lo più legate all’attività guerrigliera o al sindacalismo rurale. La rivolta armata condotta da un partito di ispirazione maoista, diffusa in alcune delle zone più remote dell’India Centrale e Orientale, è il più grave conflitto oggi presente nel Paese, per estensione e per intensità. Il 31 ottobre 2011 il ministero degli Affari Interni dell’Unione indiana ha stimato che 182 distretti in 20 Stati siano “affetti da estremismo di sinistra”, secondo la definizione burocratica, in calo da 223 distretti nel 2008; la stima è confutata dall’autorevole osservatorio indipendente South Asia Terrorism Portal, che parla di 141 distretti, soprattutto, Andhra Pradesh, Chhattisgharh, Orissa, Jharkhand, Bengala Occidentale, propaggini del Madhya Pradesh. È in calo anche il numero delle vittime: poco più di 600 nel 2011, contro un picco di 1180 morti nel 2010, e il calo è continuato nella prima parte del 2012. Secondo il Satp il motivo è che le forze di sicurezza hanno ridotto le operazioni offensive: l’operazione “massiccia e coordinata” lanciata nel 2009, nota come “Caccia Verde”, è stata di fatto sospesa dopo la disfatta subita dalle forze di sicurezza nelle foreste del Chhattisgarh Meridionale nell’aprile 2010, quando i maoisti uccisero 76 agenti della polizia federale. Da allora le operazioni sul terreno sono occasionali e scollegate. Nel marzo 2012 le forze di sicurezza indiane hanno lanciato un’operazione in una zona di foresta nello stato di Chhattisgarh, nell’India Centrale, nella foresta di Abujimard, considerata off limits per le forze di sicurezza. L’operazione militare ha coinvolto circa 3mila uomini della polizia federale (Crpf) e del suo corpo di élite, CoBra. Organizzazioni per i diritti civili hanno denunciato che durante l’offensiva sono state bruciate case, saccheggiati villaggi e numerosi abitanti sono stati arrestati. In giugno in un villaggio
INDIA
Generalità Nome completo:
Repubblica dell’India
Bandiera
137
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Hindi, inglese e altre 21 lingue
Capitale:
Nuova Delhi
Popolazione:
1.147.995.904
Area:
3.287.594 Kmq
Religioni:
Induista (80,45%), musulmana (13,43%), cristiana (2,34%), sikh (1,87%), buddista (0,77%)
Moneta:
Rupia
Principali esportazioni:
Tessuti, gioielli, prodotti dell’ingegneria e software
PIL pro capite:
Us 2.563
del vicino distretto di Bijapur, nel Chhattisgarh meridionale, 19 persone sono state uccise dai paramilitari. È risultato che le vittime erano donne, bambini e uomini disarmati; il capo del Governo del Chhattisgarh ha sostenuto che i maoisti avevano usato i civili come “scudi umani”. L’episodio illustra in modo tragico la natura di questo conflitto, di cui fa le spese la popolazione nativa.
per realizzare grandi progetti, miniere, acciaierie o dighe. Il nesso dei poteri locali - funzionari locali, polizia, politici e imprenditori forestali o coloni agricoli alleati per sfruttare la gente senza potere - ha accelerato lo sfruttamento delle terre adivasi. È questo che dà ai maoisti tanta attrattiva agli occhi di persone che dello Stato hanno visto solo il volto violento. Dall’altra parte, lo Stato lotta per riprendere il controllo del territorio, delle ampie zone dove i ribelli circolano e trovano santuario, off limits per le forze dell’ordine. Soprattutto, è l’alibi per continuare a lasciare intere Regioni dell’India rurale al ciclo vizioso di esclusione, sfruttamento, repressione.
Per cosa si combatte
Primavera indiana
Esiste il rischio di una rivolta popolare in stile egiziano in India? No secondo il premier indiano Manmohan Singh che nel corso di una conferenza stampa ha assicurato: “Non c’è motivo di ritenere che quanto avvenuto in Egitto o in altri Paesi arabi possa accadere anche in India. Diamo il benvenuto alla nascita della democrazia in ogni parte del mondo” ha detto il primo Ministro, secondo cui l’India resterà immune dalle proteste perché è “una democrazia funzionante” dove i “media sono liberi di criticare l’esecutivo”. Secondo alcuni analisti indiani, le rivolte nei Paesi arabi potrebbero influenzare i gruppi separatisti del Kashmir o contagiare le popolazioni delle zone dove sono attivi i ribelli maoisti.
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I giovani adivasi (nativi) che si uniscono alla guerriglia combattono per una cosa molto semplice: la terra. I maoisti dicono cose molto appealing per gli abitanti di villaggi rurali: denunciano lo Stato che vuole dare le terre alle multinazionali per aprire miniere e fabbriche, parlano di difendere le risorse naturali e la terra dei nativi. La popolazione rurale dell’India, e in particolare quella indigena, è stata negletta per decenni: nella povertà più assoluta, esclusa dai benefici dello “sviluppo”, termine che nel linguaggio dello Stato indiano indica sanità, scuola, i servizi di uno stato sociale, infrastrutture per lo sviluppo agricolo. Lo “sviluppo” per loro è casomai arrivato sotto forma di esproprio di terre, prese dallo Stato o da aziende private
Marzia Lami
Interrogato dall’agenzia finanziaria Bloomberg, nel marzo 2012 l’allora ministro dell’Interno del Governo indiano, P. Chidambaram, ha affermato che ci vorrà ancora qualche anno, ma lo Stato sta “vincendo la sfida”: è riuscito a fermare l’avanzata cominciata dai maoisti nel 2004 e sta riprendendo il controllo delle Regioni minerarie, dove la presenza della guerriglia - precisa l’agenzia - è un deterrente a “miliardi di potenziali investimenti”. In modo forse brutale, il Ministro ha dichiarato la portata della sfida in corso nella “Nazione emergente” dell’Asia Meridionale. Infatti l’India, con il suo miliardo e 210milioni di abitanti, spesso celebrata come la più popolosa democrazia al mondo, negli ultimi anni ha fatto notizia per il suo ingresso tra le “economie emergenti”. Nell’ultimo decennio il Prodotto interno lordo è cresciuto intorno all’8% annuo, e anche se il 2011-’12 si è chiuso con un più modesto 6,5%, l’ottimismo continua. Accanto alle information technologies, il “terziario avanzato globale” degli ingegneri di software e dei call centre, crescono anche i grandi investimenti in miniere, acciaierie, poli industriali. Grandi città
come Mumbai, New Delhi, Kolkata (Calcutta) hanno ormai l’aspetto moderno di metropoli globali. Eppure, l’India è percorsa da un conflitto interno. La rivolta armata di ispirazione maoista è una guerra strisciante che coinvolge una Regione compresa tra la parte rurale del Bengala Occidentale, il poverissimo Bihar e il Jharkhand, l’Orissa e Chhattisgarh nella Regione CentroOrientale, con propaggini in Andhra Pradesh e Maharashtra. In ciascuno di questi Stati sono coinvolte zone più o meno ampie ma sempre rurali e montagnose. La mappa delle “zone affette da insurrezione maoista” coincide quasi alla perfezione con la remota Regione chiamata “tribal belt”, dove prevale la popolazione indigena (i “tribali”, o adivasi, parola indiana che significa “abitanti originari”): sono una minoranza consistente, 90milioni di persone, ma restano la parte più povera e marginale della popolazione indiana. Questa Regione a sua volta coincide con la “mineral belt”, i territori montagnosi ove si concentra gran parte delle ricchezza mineraria indiana, solo in parte sfruttata:
Quadro generale
Soni Sori (1975)
Unicef, 61milioni di bambini malnutriti
Secondo l’Unicef, in India il 20% dei bambini sotto i cinque anni soffre di malnutrizione acuta. Più di un terzo dei bambini del mondo che soffrono la fame vivono in India. Il 43% di bambini indiani sotto i cinque anni è sottopeso e il 48% (ovvero 61milioni di bambini) sono rachitici a causa della malnutrizione cronica. La malnutrizione è notevolmente più elevata nelle zone rurali rispetto a quelle urbane. La percentuale dei bambini gravemente sottopeso è quasi cinque volte superiore tra i bambini le cui madri non hanno accesso all’istruzione, ed è molto più comune nei bambini che hanno madri a loro volta denutrite.
l’80% del ferro, il 90% della bauxite, uranio, carbone, rame, oro e quant’altro. Le mappa dei giacimenti minerari e quella delle popolazioni native si sovrappongono, ed è questa la radice del conflitto. La corsa a estrarre quelle risorse minerarie - e a creare raffinerie e poli industriali - è accelerata nell’ultimo decennio e ha esasperato la pressione su terre e foreste abitate da “tribali” e popolazioni ai margini, accelerato l’esproprio, inasprito vecchie ingiustizie. I protagonisti del conflitto armato sono diversi, anche se tutti chiamati “naxaliti”. Il nome risale alla rivolta contadina del villaggio di Naxalbari, nelle campagne del Bengala occidentale: era il 1967 ed è stato l’inizio di un movimento di lotta armata guidata da un Partito comunista maoista. Nei primi anni ‘70 il movimento maoista era di fatto finito, schiacciato dalle forze di sicurezza e spiazzato dai cambiamenti sociali. Solo alla fine degli anni ‘70, dopo lo stato d’Emergenza proclamata da Indira Gandhi nel ‘75, ha cominciato a riorganizzarsi. Ma questi sono ormai lontani antefatti. Il conflitto attuale è cominciato tra gli anni ‘90 e i primi anni ‘2000 con la lotta armata lanciata in Andhra Pradesh dal Peoplès War Group (“Gruppo della guerra
I PROTAGONISTI
di popolo”) e in Bihar dal Maoist Coordination Centre e da un Partito maoista (Cpi-m-party unity), tutte sigle in qualche modo eredi del vecchio gruppo maoista. Nel 2004 si sono fuse dando vita al Cpi-maoist, Partito comunista maoista, ovviamente illegale. A differenza degli anni ‘60, il corpo dei militanti è costituito per lo più da “tribali”, anche se la leadership sono persone istruite e di casta alta. Oggi il Cpi-maoist è presente in ampie zone del Chhattisgarh, Jharkhand, Orissa, Bihar. Altre sigle sono presenti in zone limitrofe. Lo Stato ha dato una risposta militare alla ribellione nella tribal belt, creando corpi paramilitari di polizia e aprendo scuole anti guerriglia: oggi l’India ha il più forte apparato di sicurezza interna mai visto in una Nazione democratica in tempo di pace. La “guerra ai maoisti” ha dato frutti perversi, con la creazione di milizie irregolari armate dallo stato usate per una guerra sporca fatta di raid nei villaggi sospettati di sostenere i ribelli, intimidazioni, stupri, uccisioni (il caso più noto è la milizia Salwa Judum in Chhattisgarh). La Corte suprema indiana ha, in diverse occasioni, dichiarato illegali le milizie, che però sopravvivono sotto diversi nomi. Mentre il conflitto ha travolto attivisti sociali, sindacalisti, gandhiani, avvocati e difensori dei diritti umani, spesso guardati con sospetto sia dai maoisti, sia dalle forze di sicurezza dello Stato.
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Ormai è un anno che Soni Sori è in carcere. 37 anni e tre figli, è una maestra nella scuola governativa per bambini “tribali” in un villaggio nel distretto di Dantewada, nel Chhattisgarh Meridionale, zona considerata roccaforte dei ribelli maoisti. È una adivasi, ed era riferimento di molte attività sociali. Il 4 ottobre 2011 è stata arrestata a New Delhi, dove era fuggita in seguito a minacce per la sua vita. La polizia di Dantewada l’accusava di aver fatto da corriere per i maoisti: insieme al nipote Lingaram Kodopi, 25 anni, attivista reporter, pure lui agli arresti, avrebbe preso un milione e mezzo di rupie (23mila euro) da parte del gruppo industriale Essar per consegnarle ai maoisti: la “protezione” che l’azienda paga ai ribelli perché non attacchino i suoi impianti minerari. Dopo l’arresto, è stata trasferita al commissariato di Dantewada. Là, come ha poi denunciato alla Corte Suprema, è stata costretta a spogliarsi, insultata, picchiata, sottoposta a shock elettrici e a torture sessuali. Quando la Corte ha infine ordinato un ricovero, i medici le hanno estratto delle pietre dalla vagina e dal retto. Vana finora la mobilitazione di organizzazioni per i diritti umani indiane e internazionali, o di intellettuali di fama internazionale, da Arundathi Roy a Noam Chomsky.
Marzia Lami
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2011 uscito nel giugno 2012 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DALL’IRAQ RIFUGIATI
1.428.308
PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI SIRIA
750.000
GIORDANIA
450.000
GERMANIA
48.976
SFOLLATI PRESENTI NELL’IRAQ 1.332.382 RIFUGIATI ACCOLTI NELL’IRAQ RIFUGIATI
35.189
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI TURCHIA
15.083
PALESTINA
11.549
IRAN
8.229
Petrolio quanti barili
Mentre la produzione petrolifera irachena raggiunge i 3milioni di barili al giorno per la prima volta dal 2002, superando quella dell’Iran, e facendo del Paese il secondo produttore di greggio in seno all’Opec, continua il braccio di ferro fra il Governo centrale di Baghdad e quello della Regione del Kurdistan. Oggetto della discordia: i contratti firmati autonomamente da quest’ultimo con diverse compagnie internazionali (fra cui ExxonMobil e Total) per lo sfruttamento delle proprie risorse energetiche, secondo il modello dei Production Sharing Agreements. Intanto Baghdad starebbe pensando di offrire condizioni più appetibili per le compagnie straniere nel prossimo round di gare d’appalto, dopo che l’ultimo – il quarto – ha visto assenti le grandi major. Ma il quadro normativo è incerto: la legge sul petrolio e sul gas è bloccata dal 2007. Ora il Parlamento ha ripreso in mano la questione, con la recente nomina di una commissione speciale creata ad hoc.
UNHCR/H. Caux
Trecentosessantacinque morti in attacchi e attentati in un mese: settembre 2012, il peggiore da oltre due anni. Mentre si avvicina il primo anniversario del ritiro americano, ondate di violenza continuano a insanguinare l’Iraq da Nord a Sud. E’ un copione che si ripete periodicamente dal 22 dicembre 2011. Gli ultimi soldati statunitensi se ne sono andati da soli quattro giorni: i negoziati fra Washington e Baghdad sul mantenimento di una “forza residua” sono falliti, fondamentalmente perché il Governo Maliki non è disposto a concedere l’immunità ai militari a stelle e strisce. Ma la fase post-americana parte sotto cattivi auspici: giusto il tempo che le truppe varchino il confine con il Kuwait, il 19 dicembre arriva un mandato di arresto per uno dei due vicepresidenti della Repubblica: Tariq al Hashimi – l’accusa è di “terrorismo”. E’ l’inizio di una grave crisi politica. Hashimi, sunnita, nonché uomo vicino a Washington, è esponente di spicco di Iraqiya, la coalizione nazionalista di Iyad Allawi, i cui leader lanciano un appello agli Stati Uniti: salvate l’Iraq dalla guerra civile. Lui si rifugia prima nella Regione curda, sotto la protezione delle autorità locali, poi in Turchia. Rivolge pesanti accuse al premier Maliki, dichiarandosi vittima di macchinazioni politiche. Da Ankara si dice pronto a subire un regolare processo, ma non in Iraq. Immediati i contraccolpi sulla sicurezza, cui segue una crisi della coalizione di Governo, con tentativi di votare la sfiducia a Maliki in parlamento. Ma alla fine i numeri per farlo non si trovano. L’instabilità politica diventa paralisi: intanto il premier continua ad accentrare poteri. A giugno il Governo sembra sull’orlo del collasso, mentre gli attacchi si fanno frequenti, e spesso colpiscono in tutto il Paese: 13 città, il 9 settembre; bilancio: 92 morti e più di 350 feriti. Stime delle Nazioni Unite parlano di 2010 civili morti in modo violento nella prima metà del 2012 (contro 1832 nello stesso periodo per il
IRAQ
Generalità Nome completo:
Repubblica Irachena
Bandiera
141
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Arabo, curdo
Capitale:
Baghdad
Popolazione:
27.102.912
Area:
437.072 Kmq
Religioni:
Musulmana (sciita, sunnita); minoranze: cristiani, yazidi, sabei
Moneta:
Dinar iracheno
Principali esportazioni:
Petrolio
PIL pro capite:
Us 3.400
2011), mentre secondo il Rapporto annuale sul terrorismo del Dipartimento di Stato l’Iraq resta più violento dell’Afghanistan. Questo il contesto in cui, il 9 settembre, viene emessa la condanna a morte contro Tariq al Hashimi, sentenza che, da Ankara, il vicepresidente iracheno liquida come “politicamente motivata”, dicendosi “preoccupato per il futuro del suo Paese”. E’ un’altra “pietra miliare sulla via del disastro e della guerra civile”: questo il commento di Struan Stevenson, Presidente della Delegazione del Parlamento Europeo per le relazioni con l’Iraq.
sto regionale – il Medio Oriente – che ha visto sconvolti i precedenti equilibri. Stretto fra due vicini ingombranti, Iran e Turchia, l’Iraq post-americano è sempre più vicino a Tehran, mentre i rapporti con Ankara si fanno difficili. Su tutto pesa il conflitto alle porte, in Siria. La posizione ufficiale di Baghdad, affidata all’abile ministro degli Esteri Hoshyar Zebari, è di “neutralità”: una posizione dettata non solo dall’influenza dell’Iran (alleato della Siria di Bashar al Assad), ma anche dal timore che il conflitto possa allargarsi. Quello che è certo è che la nuova dinamica regionale, che vede fra le sue incognite anche la componente curda, è destinata a influire inevitabilmente sul futuro dell’Iraq.
142
A quasi un anno dal ritiro delle truppe statunitensi, l’Iraq resta un Paese politicamente instabile, instabilità che ha ripercussioni dirette sulla sicurezza. Irrisolto il nodo del “power sharing” – l’accordo sulla condivisione del potere tra le forze politiche che a fine 2010 aveva consentito la nascita del Governo – l’Esecutivo, tuttora incompleto (Interni e Difesa sono gestiti ad Interim), è di fatto in mano al premier Nuri al Maliki. Mentre periodicamente si parla di elezioni anticipate come possibile soluzione alla crisi politica (di recente le ha evocate lo stesso Maliki), la violenza continua a insanguinare il Paese. Sono gli effetti della destabilizzazione messa in moto dall’invasione del marzo 2003, e dal rovesciamento del Regime, ora inseriti in un conte-
Per cosa si combatte
In Siria ruolo ambiguo
Sul conflitto che infuria alle sue porte, la posizione ufficiale di Baghdad è “neutralità”. Ma della veridicità del messaggio, affidato all’abile ministro degli Esteri Hoshyar Zebari, non tutti sono convinti. Gli Stati Uniti in particolare, che accusano l’Iraq di appoggiare Bashar al Assad, e non solo a parole. Secondo Washington, aerei iraniani sorvolerebbero regolarmente lo spazio aereo iracheno per fornire armi, in grandi quantità, all’esercito di Damasco. Con la connivenza del Governo Maliki - che respinge le accuse. Baghdad intanto, preoccupata per le conseguenze di un possibile allargarsi del conflitto, si sta adoperando nelle sedi internazionali per una soluzione negoziata. L’ultima proposta, lanciata da Zebari, mira a un accordo fra il Governo di Damasco e le forze di opposizione, per una transizione politica.
UNHCR/H. Caux
Provincia dell’Impero Ottomano, nel 1920 diventa una monarchia sotto mandato britannico. Nel 1932 l’indipendenza. Il 14 luglio 1958 un colpo di stato nazionalista rovescia la monarchia. L’8 febbraio 1963 il Governo di Abdul Karim Qasim viene a sua volta rovesciato da un golpe del Ba’ath, partito nazionalista arabo. Presto estromessi, i ba’athisti tornano al potere il 17 luglio 1968, con un altro colpo di Stato, che instaura il regime del partito unico. Il 22 settembre 1980, Saddam Hussein, Presidente dal 16 luglio 1979, attacca l’Iran, dove nel febbraio 1979 la Rivoluzione Islamica dell’Ayatollah Ruhollah Khomeini ha rovesciato lo Scià. Inizia così una guerra sanguinosa che vede l’Occidente – Stati Uniti in testa – schierarsi con Baghdad. Finita la guerra (20 agosto 1988), l’Iraq è in una situazione economica disastrosa, con un debito fra 60 e 80miliardi di dollari verso i Paesi arabi del Golfo, che ne hanno finanziato l’avventura militare. Il 2 agosto 1990, Saddam invade il Kuwait, accusato di abbassare il prezzo del petrolio per
indebolire l’economia irachena. Il 6 agosto le Nazioni Unite impongono un embargo, per costringere Baghdad a ritirarsi. La Guerra del Golfo (Operazione Desert Storm) iniziata il 17 gennaio 1991, dopo che il Consiglio di Sicurezza aveva autorizzato l’uso della forza, vede l’Iraq attaccato da una coalizione di 34 Paesi. Il 3 marzo Baghdad accetta il cessate il fuoco. Ma perché vengano tolte le sanzioni l’Onu dovrà certificare che l’Iraq non possiede più “armi di distruzione di massa” (nucleari, chimiche, biologiche). L’embargo devasta il Paese, con effetti drammatici sulle fasce più vulnerabili della popolazione. E rafforza il regime di Saddam. Regime che Washington ora vuole togliere di mezzo. È l’11 settembre a offrire il pretesto al Presidente George W. Bush: Stati Uniti e Gran Bretagna invadono l’Iraq, pur in assenza di autorizzazione all’uso della forza da parte del Consiglio di Sicurezza. Il 20 marzo 2003 inizia l’Operazione Iraqi Freedom. Il 9 aprile i carri armati americani entrano a Baghdad.
Quadro generale
Hoshyar Zebari
UNHCR/H. Caux
(2 December 1953)
Deriva autoritaria
Ben lungi dall’essere diventato il faro di democrazia per un nuovo Medio Oriente, l’Iraq post-americano continua nella sua deriva autoritaria, incarnata dal premier Nuri al Maliki, che a detta di molti si avvierebbe a diventare un nuovo Saddam, e sta accentrando tutti i poteri nelle sue mani. Certo è che il Paese si caratterizza per l’assenza dello Stato di Diritto: arresti di massa, abusi e torture nelle carceri, omicidi impuniti, attacchi contro i giornalisti e la libertà di stampa, regolarmente denunciati dalle organizzazioni internazionali. E l’uso sempre più frequente della pena di morte, con un aumento allarmante delle esecuzioni: 867 le condanne a morte emesse dal 2004. Secondo dati del ministero della Giustizia di Baghdad, sono almeno 96 le persone giustiziate nel 2012: 21 in un solo giorno a fine agosto. Rimasti inascoltati finora i ripetuti appelli per una moratoria rivolti sia dalle Nazioni Unite che dall’Unione Europea.
Deposto il regime, in Iraq si insedia la Coalition Provisional Authority guidata da Paul Bremer, il “proconsole americano” che riferisce direttamente al Pentagono. Ma il rapido precipitare degli eventi convince Washington a “restituire la sovranità” agli iracheni. A fine giugno 2004 il passaggio di consegne a un Governo ad interim guidato da Iyad Allawi, uno dei leader dell’opposizione irachena in esilio. Una risoluzione del Consiglio di Sicurezza legittima la presenza della “Forza multinazionale”, sotto comando statunitense, il cui mandato sarà prorogato annualmente. Il 30 gennaio 2005 le prime elezioni per un “Governo di transizione”. Il 15 dicembre 2005 gli iracheni tornano a votare, dopo che un referendum popolare – il 15 ottobre - ha approvato, di stretta misura, la nuova Costituzione. Nel maggio 2006, il nuovo Governo guidato da Nuri al Maliki: una coalizione fra partiti sciiti (religiosi) e curdi - i due gruppi
I PROTAGONISTI
perseguitati dal regime di Saddam. L’ex Presidente iracheno, catturato il 14 dicembre 2003, e condannato a morte da un Tribunale speciale, viene giustiziato il 30 dicembre 2006. Il 22 febbraio 2006 un attentato contro la moschea sciita al Askariya di Samarra innesca un ciclo sanguinoso di violenze fra sunniti e sciiti – con carattere di guerra civile. Bush Jr. risponde con la cosiddetta surge, la nuova strategia affidata al generale David Petraeus, durante la quale la presenza militare Usa arriva a quasi 170.000 uomini. Il 14 dicembre 2008, dopo mesi di faticosi negoziati, Stati Uniti e Iraq firmano lo Status of Forces Agreement (Sofa), che fissa il ritiro delle truppe Usa dai centri abitati entro il 30 giugno 2009 e il loro ritiro totale entro fine 2011. Febbraio 2009: il nuovo presidente Barack Obama annuncia che le operazioni “di combattimento” in Iraq si concluderanno entro il 31 agosto 2010. Le elezioni legislative del 7 marzo 2010 vedono vincere di strettissima misura Iraqiya, alleanza nazionalista guidata dall’Ex primo Ministro Iyad Allawi. Ma a capo del nuovo Governo, che nasce solo nel dicembre 2010 (incompleto), sarà ancora una volta Nuri al Maliki, riuscito a unificare le forse sciite.
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Come ministro è il più longevo del Governo iracheno: Hoshyar Zebari, titolare degli Esteri ininterrottamente da nove anni. Curdo, si è fatto le ossa da responsabile delle relazioni esterne del Partito Democratico del Kurdistan (al quale appartiene) negli anni dell’esilio a Londra, quando in Iraq c’era Saddam Hussein. Rientrato dopo la caduta del regime, gli affidano gli Esteri nella spartizione che vede il ministero andare in quota kurda fin dal “Governo” nominato nel settembre 2003 (in realtà, privo di poteri - foglia di fico dell’occupazione a guida statunitense). È grazie all’indubbia abilità dimostrata alla guida della diplomazia di Baghdad (oltre che al peso politico dei curdi) che è stato riconfermato nell’incarico in tutte le successive compagini governative. È Zebari che cerca, mentre l’influenza iraniana prende sempre più piede in Iraq, di ricucire o comunque di non far ulteriormente deteriorare, i rapporti fra l’Iraq e gli Stati Arabi, che non vedono di buon occhio i Governi dominati dagli sciiti insediatisi a Baghdad dal 2005. Oggi sul ministro curdo ricade il compito di gestire la posizione dell’Iraq nel conflitto siriano – un compito tutt’altro che semplice.
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Come leggere le Mappe
Nella Mappa Onu, qui sopra, troverete solamente indicato lo Jammu and Kashmir poichè si tratta dell’antico nome dell’intera area contesa da India, Pakistan e Cina. La Mappa, qui a destra, indica invece la spartizione di fatto dei territori da parte dei suddetti Stati, con diversa denominazione, mai riconosciuta a livello internazionale.
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Il Kashmir è a un punto di svolta. In questo territorio all’estremo Nord dell’India, rivendicato dal Pakistan, il livello di violenza è al livello più basso da parecchi anni. La scorsa estate ha registrato perfino un boom del turismo interno tra quelle bellissime vallate verdeggianti, per la prima volta dopo due decenni. D’altra parte però non si concretizza una soluzione politica che metta fine Si chiama LOC, abbreviazione di al ciclo di rivolta cominciato nel 1989, quando Line of Control, Linea di Controllo: nella vallata del Kashmir è scoppiata un’insurè il nome convenzionale dato rezione separatista contro il Governo centrale di alla demarcazione militare fra New Delhi, presto diventata una “guerra a basPakistan e India, proprio nell’area sa intensità” combattuta soprattutto da milizie del Kashmir. Non è un confine islamiste infiltrate dal territorio pakistano. Nel internazionale riconosciuto, perché 2011 il South Asia Terrorism Portal registrava ancora oggetto di rivendicazione. 183 morti (di cui 34 civili) in episodi di attacchi E’ stata tracciata alla fine della armati e/o attentati in Kashmir. Era un nuovo guerra indo-pakistana del 1947, se- record: ancora nel 2006 i morti superavano il guendo la linea dietro cui si erano migliaio. Nei primi tre mesi del 2012 erano 7, di assestati i due eserciti. Prese il cui 4 civili; l’attività dei ribelli si concentra ormai nome con l’Accordo di Smila del 2 in quattro distretti a ridosso della “Linea di conluglio 1972, con l’imposizione alle trollo”, il confine di fatto il Kashmir indiano e il parti di non violarla. territorio amministrato dal Pakistan. A causa di un errore nell’inte- La relativa calma delle armi però non significa sa, la linea lascia scoperta una pace. Sul piano delle relazioni tra India e Paparte della frontiera, poco a sud kistan, i colloqui ripresi timidamente nel 2010 delle montagne Saltoro, lasciando proseguono a rilento, anche se hanno dato luosenza demarcazione il ghiacciaio go a gesti di distensione, tra cui la riapertura di Siachen. Proprio lì sono iniziati, alcune comunicazioni stradali. dal 1984, scontri aramati fra i due Sul piano interno, ha segnato una svolta politiPaesi, interrotti dal cessate il fuoco ca, il gesto di Syed Ali Shah Geelani, influente del 2003 leader separatista, che nell’aprile 2011 ha fatto appello alla lotta pacifica. Geelani è l’83enne capo della Jamiat Islami del Jammu & Kashmir, partito religioso che nell’89, con il suo braccio armato Hizb-ul Mojaheddin, è stato tra i protagonisti dell’insurrezione anti-indiana. Finora però non ha portato a nulla l’iniziativa avviata nel 2010 dal Governo centrale, che aveva nominato tre “interlocutori” Generalità per avviare un dialogo con le forze Nome completo: Jammu e Kashmir nazionaliste del Kashmir: la loro reBandiera lazione giace da mesi. La promessa del Governo centrale di tagliare del 25% il numero delle truppe dispiegate in Kashmir non si è concretizzata. Tra i giovani musulmani kashLingue principali: Hindi, Inglese miri cresce la frustrazione, dopo la Capitale: Jammu e Srinagar brutale repressione della “rivolta (rispettivamente capitali delle pietre” dell’estate 2010, il moinvernale ed estiva dello vimento di massa di ragazzi disarJammu e Kashmir) mati che aveva affrontato le forze di Popolazione: 12.500.000 sicurezza con sassaiole: la polizia riArea: 222.236 Kmq spose con lacrimogeni e proiettili di gomma (112 ragazzi sono rimasti ucReligioni: Musulmana ma nella cisi). La “intifada del Kashmir” non regione Jammu prevale la hindu e in quella del si è ripetuta, ma restano le ragioni Ladakh quella buddhista della rabbia: tra cui la denuncia delMoneta: Rupia le “leggi nere”, che danno alle Forze armate il potere di fermare, perquiPrincipali Frutta, lane di cachesire, arrestare o sparare a individui esportazioni: mire, tessuti ricamati, pietre lavorate sospetti. Due anni dopo restano in vigore sia la Afspa (Armed forces PIL pro capite: n.d.
KASHMIR
Niente frontiera sul ghiacciaio
Generalità Nome completo:
Azad Jammu e Kashmir
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Bandiera
Lingue principali:
Kashmiri, Urdu, Hindko, Mirpuri, Pahari, Gojri
Capitale:
Muzaffarabad
Popolazione:
4.500.000
Area:
13.297 Kmq
Religioni:
Buddista, musulmana, induista, sikh
Moneta:
Rupia
Principali esportazioni:
n.d.
PIL pro capite:
n.d.
special power act), sia la Public Safety Act (Psa) varata nel 1978 (nel marzo 2012 Amnesty International ha pubblicato un rapporto sull’abuso di detenzione preventive e la violazione dei diritti civili permessa dalla Psa, spingendo il Governo a promettere modifiche). Intanto, diversi segnali dicono che Lashkar-e-Taiba, gruppo “jihadista” basato in Pakistan e assai attivo nel Kashmir indiano con combattenti infiltrati dal territorio pakistano, ha ricominciato a reclutare tra i giovani locali. Nella militanza armata inoltre sembrano in espansione le correnti salafite. La relativa pace in Kashmir resta fragile.
prova che la competizione tra India e Pakistan si gioca anche in Afghanistan. I contatti sono ripresi lentamente nel 2010; solo nell’agosto 2011 è avvenuto il primo contatto a livello di ministri degli Esteri da quel dicembre 2008. Sul piano interno, il dialogo avviato nel 2003 ha fatto emergere tutte le divisioni nella leadership kashmira. La All Party Hurriyat Conference (“Conferenza della libertà”), cartello delle forze nazionaliste del Kashmir formato nel 1993, era già allora discorde su questioni strategiche fondamentali: dall’obiettivo (indipendenza, annessione al Pakistan?) alle forme di lotta (pacifica? armata?). Gli indipendentisti rivendicano il referendum per l’autodeterminazione raccomandato da una risoluzione dell’Onu nel 1948. Ma per alcuni “autodeterminazione” significa scegliere tra India e Pakistan, per altri include una terza opzione, l’indipendenza, che però è inaccettabile sia a New Delhi sia a Islamabad. Soprattutto, i leader nazionalisti, dai più moderati ai più oltranzisti, sono rimasti spiazzati dalla “rivolta delle pietre” dell’estate 2010, che ha rivelato la rabbia di una generazione di giovani cresciuti nel conflitto, che rivendicano libertà, ma non si aspettano nulla da un dialogo che si trascina da troppi anni.
Per cosa si combatte
Il divorzio è meno maschilista
Qualcosa si muove, anche a favore dell’universo femminile, nel Kashmir indiano. La Corte dello Stato ha stabilito, infatti, che nel divorzio il marito non ha potere assoluto. Pronunciandosi in merito ad una causa matrimoniale, il tribunale ha stabilito che pronunciare tre volte il Talaq (formula islamica che significa “io divorzio da te”) è “l’ultima risorsa”, da usare solo dopo aver tentato altre vie di riconciliazione. Nella sentenza, il giudice ha spiegato che: “Un marito non solo deve provare di aver pronunciato il Talaq, o di aver attuato le pratiche per il divorzio, ma deve provare con ogni mezzo di aver compiuto tutti gli sforzi necessari per salvare il matrimonio e che questi sforzi non hanno portato frutti”. Solo a quel punto il marito potrà ottenere il divorzio e svincolarsi dagli obblighi previsti nel contratto coniugale, incluso quello di mantenere la moglie.
146
La pace in Kashmir dipende da un lato dalle alterne relazioni tra India e Pakistan, dall’altro dalla capacità dell’India di trovare un assetto democratico consensuale con le forze sociali e politiche del Kashmir. Per India e Pakistan il Kashmir è una contesa territoriale. E le relazioni bilaterali segnano il passo, dopo un decennio di alti e bassi. Nel 2002 le due potenze nucleari del subcontinente sembravano a un passo dalla guerra, con i rispettivi eserciti schierati lungo la frontiera comune e in massima allerta. Poi la tensione si è allentata, soprattutto sotto la pressione degli Stati Uniti, preoccupati dell’escalation tra due suoi alleati in una Regione così delicata. Nel 2003 il Governo indiano ha proclamato sconfitta la guerriglia jihadi e offerto il dialogo alla dirigenza nazionalista del Kashmir. Tra il 2005 e il novembre 2008 India e Pakistan hanno avviato il ciclo di dialogo più promettente dal 1947; era perfino ripreso il servizio di autobus tra il Kashmir indiano e il territorio occupato dal Pakistan, per la prima volta da decenni. Nel dicembre 2008 però gli attacchi terroristici a Mumbai hanno riportato il gelo. L’attacco all’ambasciata indiana a Kabul, nel febbraio 2010, in cui è risultato coinvolto l’Isi, il servizio di intelligence militare pakistano,
UNHCR/T. Irwin
Il conflitto del Kashmir è una delle crisi regionali più prolungate del subcontinente indiano. È un conflitto allo stesso tempo interno (all’India) e tra stati (India e Pakistan): e questa duplice natura fa della verdeggiante vallata del Kashmir, circondata da ghiacciai himalayani là dove si toccano India, Pakistan e Cina, una polveriera con implicazioni regionali che riverberano fino all’Afghanistan. Il conflitto interno è esploso alla fine degli anni ‘80, sotto forma di una ribellione separatista che ha raggiunto nei momenti peggiori l’intensità di una guerra civile. Questa è alimentata dalla contesa territoriale tra le due potenze nucleari del subcontinente indiano: India e Pakistan hanno combattuto per il Kashmir due guerre dichiarate (nel 1948-49 e nel 1965) e una non dichiarata (nell’estate del 1999), accompagnata da una lunga «proxy war» combattuta da guerriglieri infiltrati dal Pakistan, - anche se Islamabad ha sempre respinto l’accusa, dichiarando
di dare ai musulmani del Kashmir solo “sostegno morale e politico”. Il problema del Kashmir è una delle eredità irrisolte della Spartizione del 1947, quando dalla vecchia India britannica sono nate due nazioni separate, il Pakistan musulmano e l’India multireligiosa e secolare benché a maggioranza indù. Il principato di Jammu e Kashmir (che includeva i territori di Jammu, Kashmir e Ladakh e i territori di Gilgit e Baltistan) fantasticò di restare indipendente ma infine optò per l’India, con un atto formale che ne fece uno stato dell’Unione indiana in un quadro di ampia autonomia. La decisione presa dal locale maharaja Hari Singh (indù) con l’accordo dei notabili nazionalisti guidati da Sheikh Abdullah (musulmano) fu sgradita ai dirigenti pakistani, che rivendicavano il Kashmir. La disputa è sfociata nel 1948 nella prima guerra tra India e Pakistan. La linea di cessate-ilfuoco negoziata con la mediazione delle Nazioni
Quadro generale
Parvez Imroz
Vietate le minigonne alle turiste
Niente minigonne nel Kashmir indiano per le turiste occidentali: lo ha chiesto al governo dello Stato il gruppo islamico Jamaat – e – Islami, intimando alle donne di desistere dall’indossare vestiti succinti e minigonne, altrimenti si potrebbe scatenare un’azione rabbiosa contro di loro. L’organizzazione politico-religiosa sostiene gonne cortissime e pantaloncini minuscoli sono contro la morale e la cultura del luogo. Sono 15mila, circa, ogni anno i turisti che arrivano nella Valle del Kashmire e l’organizzazione ha chiesto al dipartimento per il Turismo di intervenire sugli stranieri per prevenire reazioni aggressive da parte della popolazione locale, dal momento che “semplici benefici monetari non possono compromettere la moralità e le abitudini della società, mettendo in pericolo la generazione futura”. unite nel 1949 è da allora il confine di fatto: a Ovest il settore sotto controllo pakistano (circa un terzo del territorio, capitale Muzaffarabad) a Est la parte sotto sovranità indiana (circa il 60% del territorio originario, capitali Srinagar e Jammu). Una zona di ghiacciai all’estremo Nord (10%) è stata ceduta dal Pakistan alla Cina nel 1962. Le risoluzioni delle Nazioni unite del 1948 e ‘49 chiesero al Pakistan di ritirare le proprie forze dal territorio occupato e sollecitavano un referendum perché i kashmiri potessero decidere del proprio futuro. Il Pakistan non si ritirò, e l’India se ne fece una scusa per non indire mai il plebiscito. Il periodo post indipendenza ha visto un crescente attrito tra le classi dirigenti kashmire e il Governo centrale dell’Unione indiana, che ha via via eroso il regime di autonomia del Jammu & Kashmir. La disaffezione è esplosa nel 1989 in una protesta civile che ha coinvolto un ampio schieramento sociale e politico, dall’Università ai sindacati ai partiti nazionalisti. Alla fine di quell’anno risalgono anche le prime azioni armate contro obiettivi governativi a Srinagar. La risposta dello stato centrale indiano è stata dura, e l’escalation inesorabile. Il primo gruppo armato, Jammu & Kashmir Liberation Front
I PROTAGONISTI
(Jklf), è stato presto sbaragliato: erano giovani con idee di lotta di popolo, il loro leader Yasin Malik fu presto arrestato e nel ‘94 il Jklf ha rinunciato alla lotta armata. Ma ormai altri protagonisti avevano preso il sopravvento: il Hizb-ul Mojaheddin, braccio armato del partito conservatore (e filopakistano) Jamiat Islami, a sua volta scavalcato da altre sigle (Jaish-e Mohammad, Lashkar-e-Taiba e altre). Erano i primi anni ‘90 e in Kashmir confluivano armi e combattenti provenienti dall’Afghanistan, formati alla jihad, la “guerra santa” (nella sua accezione politico-militare), e sostenuti dal Isi, il servizio di intelligence militare pakistano. Con i combattenti “stranieri” è arrivato in Kashmir un islam di stampo taleban estraneo alla sua tradizione sufi. È arrivato anche il terrore: attentati contro civili, bombe nei mercati, rappresaglie. Gli hindù del Kashmir, i pandit, sono in gran parte fuggiti. Il Governo centrale ha mandato l’esercito e corpi paramilitari a contrastare i ribelli, la valle è stata militarizzata. È stata una guerra largamente manovrata da servizi segreti, ma è la popolazione del Kashmir che ha pagato il prezzo più alto: tra 50 e 80mila persone sono morte dal 1989 al 2010, in gran parte civili. Senza contare migliaia di desaparecidos e una scia di ingiustizie e violazioni dei diritti umani: la guerra ha travolto le forze sociali, sindacati, forze politiche, gruppi per i diritti umani. E questo è il problema di oggi.
147
E’ un avvocato, difensore dei diritti umani, che lavora a Srinagar, capitale dello stato indiano dello Jammu e Kashmir. E’ fondatore e presidente della Coalizione della Società Civile di Jammu e Kashimr, organizzazione diventata punto di riferimento per la difesa dei kashmiri vittime degli abusi dell’esercito indiano. Negli anni ha raccolto documenti e denunciato ogni forma di sopruso, diventando collaboratore di The Gurdian. Per primo ha rivelato che sono 8mila i civili spariti nel nulla, cioè quattro volte più di quelli scomparsi in Cile ai tempi di Pinochet. Ha documentato come a fronte di centinaia di procedimenti aperti a carico di soldati e ufficiali indiani per violenze, stupri, torture e omicidi, neppure uno abbia mai raggiunto un verdetto di colpevolezza. In compenso gli abitanti possono essere incarcerati “preventivamente” senza accuse, ce ne sono 20.000 in prigione perché ritenuti semplicemente potenziali sovversivi. Per questa sua azione, ha ricevuto riconoscimenti internazionali
UNHCR/B.Baloch
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2011 uscito nel giugno 2012 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DAL KIRGHIZISTAN RIFUGIATI
3.162
SFOLLATI PRESENTI NEL KIRGHIZISTAN 163.900 RIFUGIATI ACCOLTI NEL KIRGHIZISTAN RIFUGIATI
6.095
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI Uzbekistan
5.660
Violenza etnica senza responsabili
Nel giugno del 2010 quattro giorni di odio e di violenza etnica tra kirghizi e uzbeki nelle città di Osh e Jalal-Abad, nel Kirghizistan Meridionale, causarono centinaia di morti, migliaia di feriti e decine di migliaia di sfollati. A distanza di due anni, le autorità del Kirghizistan continuano a negare l’innegabile. Nonostante, poco dopo gli scontri, il Governo avesse accolto la richiesta di costituire una Commissione internazionale d’inchiesta, e il Procuratore generale avesse ammesso che vi erano stati numerosi casi di tortura, secondo Amnesty International i crimini contro l’umanità (uccisioni di civili, stupri e torture) restano largamente impuniti. Se inchieste e processi ci sono, gli imputati sono invariabilmente uzbechi (risulta una sola condanna nei confronti di un imputato kirghizo). Secondo la Procura di Osh, su 105 processi celebrati per i fatti del 2010, che hanno coinvolto 121 imputati, solo due sono terminati con un’assoluzione.
UNHCR/ S.Schulman
Un voto, con i soliti sospetti di brogli e l’inevitabile coda di proteste, ha riportato Bishkek nell’orbita russa. Le ultime elezioni, a ottobre del 2011, hanno dato la vittoria in Kirghizistan ad Almazbek Atambajev, 55enne candidato filorusso, ex primo Ministro che, con il 63,2%, ha staccato Adakhan Madumarov, leader del partito di opposizione “Butun Kyrgystan” (Kyrgyzstan Unito) e Kamchybek Tashyjev, esponente di “Ata Zhurt” (Patria, forza politica nella coalizione di Governo) fermi rispettivamente al 14,7% e 14,2%. Il successo è stato confermato nonostante le accuse di irregolarità subito lanciate non solo da parte dei principali avversari, ma anche dagli osservatori internazionali dell’Osce e del Parlamento Europeo che ha definito il Paese ancora fortemente diviso politicamente e reduce da duri conflitti etnico-politici che, negli ultimi due anni, hanno provocato almeno cinquecento vittime. Molti tra gli esperti hanno valutato le consultazioni appena concluse come un evento chiave non solo per il Kirghizistan, ma per la politica mondiale: concordemente con le promesse pre-elettorali, Atambajev intende reagire alla pressione economica cinese ed alla debolezza militare Usa – che a Bishkek mantiene una base aerea che il nuovo Capo di Stato ha promesso di smantellare al più presto, ben prima del termine del 2014, fissato per la partenza dei soldati di Washington –, stringendo i legami con una Russia vista come garanzia di stabilità ancor più strettamente di quanto si sia fatto finora sotto l’interim Otumbajeva. Il ritorno di Bishek nell’orbita di Mosca lascia un interrogativo nel Sud del Paese fedele all’opposizione, dove, soprattutto ad Osh, non è escluso che la tensione possa elevarsi nuovamente. Inoltre, segna l’ennesima vittoria sullo scacchiere internazionale di una Russia dalle rinate velleità imperiali, decisa nel perseguire una politica eurasista. Una politica pericolosa non solo per l’indipendenza dei Paesi un tempo già sottomessi al Cremlino nell’ambito dell’Unione Sovietica,
Kirghizistan
Generalità Nome completo:
Repubblica del Kirghizistan
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Kirghizo, russo
Capitale:
Bishkek
Popolazione:
5.000.000 circa
Area:
198.500 Kmq
Religioni:
Musulmana sunnnita, minoranze cristiane
Moneta:
Som kirghizo
Principali esportazioni:
Gas naturale, oro, mercurio, uranio, carni, lana , cotone
PIL pro capite:
Us 2.184
ma soprattutto per un’Unione Europea che, con il riemergere di una superpotenza ai suoi confini – e la conseguente perdita della vicinanza politica di Paesi cruciali per la propria sicurezza come Ucraina, Moldova, Georgia, e Bielorussia è destinata ad un ruolo subalterno in un mondo sempre più globalizzato, in cui a dettare le regole sono sempre meno i fari della democrazia, e sempre più tigri asiatiche emergenti ed orsi del gas. Sicuramente qualcosa insomma è cambiato ma non si può dire che il Kirghizistan, questa minuscola ma bellissima repubblica, sia ancora uscito dal caos.
150
Russia e Stati Uniti da anni si contendono il Kirghizistan a suon di dollari camuffati da aiuti economici, per motivi squisitamente geopolitici. Gli Stati Uniti, infatti, fin dal 2002 hanno ottenuto il permesso di stanziare 2000 soldati nella base militare di Ganci, vicino Biskek, che è diventata con gli anni un importante centro di transito per le operazioni della Nato in Afghanistan. La Russia dal canto suo, che pure mantiene una sua base militare non lontana, a Kant - residuato dell’epoca sovietica - non ha mai nascosto di essere ostile a quella che giudica una sfacciata ingerenza americana nel proprio spazio d’influenza. E aveva promesso al presidente Bakiyev aiuti economici per più di due miliardi di dollari se la base di Ganci fosse stata chiusa. Immediato è stato il “rilancio” degli Usa, con una escalation di promesse economiche e di intrighi diplomatici che hanno finito per minare la stabilità del Governo, fino a diventare una concausa nella caduta precipitosa del regime di Bakiyev. Secondo alcuni analisti, la nomina a Presidente ad interim di Roza Otunbayeva - che è stata per tre anni ambasciatore negli Usa e poi in Gran Bretagna - va interpretata come una vittoria sia pur temporanea degli americani nel complicato Great Game che si combatte in Asia Centrale. Ma la partita è ancora aperta. Anche la contrapposizione fra kirghizi e uzbeki ha radici politiche, e ben poco o nulla di etnico. La sua spiegazione va cercata infatti nella scelta fatta da Stalin negli anni ‘30 di smembrare il vecchio Turkestan e creare dal nulla cinque nuove Repubbliche in Asia Centrale - Kirghizistan, Uzbekistan, Tagikistan, Turkmenistan, Kazakhistan - cercando poi di dotarle di una certa omogeneità, fondata su criteri prevalentemente etnici. Tale scelta avrebbe anche avuto una sua logica se si fosse riuscito a distribuire la popolazione di conseguenza, superando cioè la compresenza e il meticciato etnico che contraddistingueva, ieri come oggi, diverse aree geografiche e in particolare la Valle di Fergana, che è stata divisa fra Uzbekistan e Kirghizistan. Il risultato invece è stato che 700mila uzbeki si sono ritrovati a essere cittadini del Kirghizistan, con l’aggravante che in alcune città del Sud rappresentano il gruppo etnico più numeroso: ad Osh sono il 49% della popolazione, contro il 39% rappresentato dai kirghizi; a Jalalabad sono il 43% e nel distretto di Aravan addirittura il 59%. Più che su basi etniche, la vera contrapposizione in Kirghizistan si è creata fra il Sud agricolo e il Nord industriale: il primo saldamente in mano agli uzbeki, grandi commercianti, il secondo in mano invece ai kirghizi e ai russi, che detenevano le leve dell’amministrazione pubblica e quindi il potere. La convivenza non è mai stata pacifica, ma almeno in apparenza si è mantenuta nei binari dell’ordine pubblico, senza violenti scontri di piazza, fino al 1989-1990, quando la crisi dell’Urss è apparsa irreversibile
ed è cominciato a profilarsi la possibilità di un cambio di regime. È all’epoca che si segnalano le prime manifestazioni di piazza della minoranza uzbeka, capeggiata da un proprio movimento nazionalista, e i primi scontri con la maggioranza kirghiza, fedele al presidente Askar Akayev, intellettuale di prestigio ed esponente di spicco della corrente liberal del Partito comunista locale, saldamente al potere.
Per cosa si combatte
Eppure, all’inizio degli anni ‘90 fa il Kirghizistan passava per essere “la Svizzera” dell’Asia Centrale. Grazie all’abilità del suo carismatico Presidente, Akayev, era riuscito infatti a superare senza spargimenti di sangue la difficile transizione che in breve tempo aveva portato sia alla dissoluzione dell’Urss che alla proclamazione dell’indipendenza, il 31 agosto 1991. Le riforme economiche ed istituzionali promosse da Akayev avevano inoltre contribuito a creare un quadro di promettente democrazia, che non aveva paragoni nella regione, se si considera che sia in Uzbekistan che in Tagikistan la fine dell’Urss non aveva comportato alcun cambiamento sostanziale nello status quo, lasciando il potere saldamente nelle mani della nomenklatura. E invece, nel giro di qualche anno, anche il Kirghizistan subisce la classica involuzione autoritaria tipica dei regimi presidenziali. Con una serie di revisioni costituzionali poi approvate con dei referendum farsa - nel 1993, nel 1996 e nel 2003 - Akayev accentua infatti il centralismo amministrativo, rafforzando i poteri del capo dello Stato. Allo stesso tempo viene imposta una forte restrizione delle libertà politiche, parlamentari e personali, al punto che sia la scelta dei candidati alle elezioni che dei giudici e degli alti funzionari pubblici diventa una delle tante prerogative del Presidente (e del suo clan). Non è perciò casuale se le elezioni locali
Quadro generale
UNHCR / S. Schulman
Vietato ai gay
“Sono gay e musulmano” è un documentario del regista Chris Belloni, la cui proiezione era in programma a Bishkek, in Kirghizistan, in occasione del “Bir Duino” (One World), un festival dedicato ai diritti umani. Ma poche ore prima della programmazione, un tribunale del distretto di Pervomaiskii ne ha vietata la riproduzione, dopo averlo giudicato blasfemo e tendente a scatenare l’intolleranza religiosa. “Chiunque abbia visto il mio film sa che non è né anti-islamico né estremista”, si difende Belloni. Il documentario è stato girato in Marocco, dove l’omosessualità è punita dalla legge, e racconta la storia di un gruppo di giovani uomini gay e musulmani, le loro prospettive di vita, il difficile rapporto tra un’inclinazione naturale e il sentire religioso.
Almazbek Atambayev Sharshenovich ( 17 settembre 1956)
UNHCR/ S.Schulman
La condanna dell’ex
Maxime Bakiyev, figlio dell’ex Presidente del Kirghizistan, in esilio a Londra da quando suo padre Kurmanbek è stato deposto nel 2010, è stato arrestato per appropriazione indebita e abuso di potere, mentre suo padre era stato spodestato in seguito a proteste popolari soppresse con la violenza. Kurmanbek Bakiyev venne eletto Presidente nel luglio 2005, con l’89% dei voti, con la speranza di un cambiamento per il Paese, fino ad allora governato dal primo Presidente postsovietico Askar Akayev, il cui regime dispotico e autoritario era terminato con la Rivoluzione dei Tulipani. Per gli oppositori, la speranza fu vana: non avrebbe mantenuto le promesse di dare più potere al Parlamento, di non limitare la libertà di manifestazione del pensiero, di estirpare la corruzione e di risolvere i problemi economici. Gli oppositori considerarono Bakiyev alla stregua di un semi-dittatore, e ciò portò a continue proteste, che arrivarono al culmine nell’aprile del 2010 con almeno 75 morti.
del 2002 verranno fortemente contestate, per via dei brogli evidenti, con la dura repressione delle proteste popolari. Ancora più contestate saranno le elezioni parlamentari del marzo 2005, e in questo caso le proteste sono talmente violente da spingere il presidente Akayev a fuggire in Russia e subito dopo a rassegnare le dimissioni. È la cosiddetta “rivoluzione dei tulipani”, che a dispetto dell’entusiasmo con cui è stata accolta in Occidente - al pari delle altre rivoluzioni soft che si sono verificate negli stessi anni avvenute in Georgia e Ucraina - in realtà è stata solo l’occasione per un avvicendamento interno allo stesso gruppo di potere. Con l’unica differenza che mentre Akayev, originario del Nord, rappresentava soprattutto gli interessi della maggioranza kirghiza, il suo successore Bakiyev, originario del Sud, ha avuto il soste-
I PROTAGONISTI
gno della minoranza uzbeka, in cerca di riscatto sociale. È difficile capire se la transizione alla democrazia avviata dal nuovo presidente Otunbayeva potrà ora compiersi fino in fondo e, soprattutto, se i nuovi assetti politici e istituzionali che il Kirghizistan si darà riusciranno a convogliare su binari pacifici le rivalità etniche ormai esacerbate fra maggioranza kirghiza e minoranza uzbeka. Molto dipende dagli esiti del complicato Great Game che Russia e Stati Uniti stanno giocando in tutta l’Asia Centrale. C’è innanzitutto da vedere come evolverà la situazione in Afghanistan, soprattutto in caso di partenza delle truppe Usa e della Nato. E non bisogna poi dimenticare la stretta interdipendenza che ancora oggi, per motivi etnici e non solo, lega il destino del Kirghizistan a quello dell’Uzbekistan e al Tagikistan: col risultato che anche un battito di farfalla dall’altra parte della frontiera rischia, da queste parti, di provocare un terremoto.
151
Almazbek Atambayev Sharshenovich, 56 anni, è il Presidente del Kirghizistan dal dicembre del 2011. In precedenza era stato primo Ministro per quattro anni, e in precedenza ministro dell’Industria, Commercio e Turismo. Originario della Regione settentrionale di Chui, ha conseguito la laurea in economia presso l’Istituto di Management di Mosca. Aveva già tentato la scalata alla presidenza nel 2000 ma aveva ricevuto appena il sei per cento dei voti. E’ il primo ministro in Asia centrale a provenire da un partito di opposizione. Ad aprile del 2010 ha cercato di affrontare una grande protesta a Bishkek chiedendo le dimissioni di Bakiyev, ma è stato fischiato dai manifestanti. Ha firmato un accordo con la Turchia un accordo per incrementare gli scambi fino a un miliardo di dollari entro il 2015, accettando di attirare investimenti turchi. Atambayev si è più volte presentato pro Russia, annunciando l’ingresso del Kirghizistan nell’Unione doganale ottenendo altresì il ritiro della base americana dal Paese entro il 2014. Nei primi mesi del 2012 Atambayev si è recato a Mosca, dove ha incontrato Medvedev garantendogli (gratis) la base aerea di Kant.
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2011 uscito nel giugno 2012 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DAL PAKISTAN RIFUGIATI
35.952
PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI CANADA
13.149
GERMANIA
6.629
SFOLLATI PRESENTI NEL PAKISTAN 452.932 RIFUGIATI ACCOLTI NEL PAKISTAN RIFUGIATI
1.702.700
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI AFGHANISTAN
1.701.945
Diritti umani fondi scarsi
Lo standard del rispetto dei diritti umani in Pakistan è largamente insufficiente e due elementi lo dicono in modo inequivocabile: gli scarsi fondi stanziati e l’assenza di organismi indipendenti di controllo. Secondo il rapporto “Budgeting for Rights” diffuso da un gruppo di 12 Ong pakistane, l’investimento per i diritti umani è in netto calo a livello federale e provinciale. La spesa ammonta al 4,6% del Prodotto interno lordo, considerando, fra i settori che rientrano nella sfera dei diritti umani: stato di diritto, sicurezza personale (soprattutto di giornalisti, attivisti, avvocati, magistrati), istruzione, sanità, tutela della donna, diritto alla casa, rispetto per l’ambiente, rifugiati, disastri naturali, diritto al lavoro. Le Ong denunciano “gravi violazioni dei diritti umani da parte delle forze dell’ordine e di gruppi militanti a Karachi, nelle aree tribali e in Baluchistan” e chiedono al Governo istituzioni indipendenti di vigilanza.
UNHCR/T.Irwin
Un nuovo Premier e le elezioni generali alle porte; lo scontro di potere fra Governo e magistratura; la crisi energetica e le alluvioni; la sfida delle leggi islamiste e del rispetto dei diritti umani, i nodi nelle relazioni con gli Stati Uniti e la lotta al terrorismo: su tali questioni cruciali si è articolata, nell’ultimo anno, la vita sociale e politica del Pakistan. La situazione politica nel Paese resta volatile e a rischio instabilità, che potrebbe anche sfociare in un colpo di stato militare. La contrapposizione tra il potere esecutivo e il potere giudiziario è culminata, a giugno 2012, con la deposizione del primo Ministro, Yusuf Raza Gilani, destituito dalla Corte Suprema. Al suo posto il Governo del Partito Popolare del Pakistan (Ppp) ha nominato Raja Parvez Ashraf, ministro per l’Energia nel gabinetto precedente. Il mandato del Governo in carica scade a marzo 2013, ma sono possibili elezioni anticipate, in uno scenario che si preannuncia intricato, condizionato dai partiti islamisti, con la presenza dell’outsider Imran Khan, ex giocatore di cricket (vedi box). Nell’eterno scontro elettoralistico, mentre il tarlo della corruzione divora le risorse per le fasce meno abbienti, a rimetterci è la crescita economica, ostacolata da carenze energetiche, dai problemi di sicurezza e terrorismo, da scarsi investimenti in “capitale umano” e in settori chiave come l’istruzione. A ciò si aggiungono le gravi inondazioni che, per il terzo anno consecutivo, hanno investito numerose Province, decurtando la produzione agricola e minacciando i livelli di sussistenza. La popolazione era già provata dalla crisi energetica che, a metà del 2012, si è trasformata in “crisi sociale” per una ondata generale di proteste: manca il 40% del fabbisogno nazionale di corrente elettrica, mentre il Paese ne produce a sufficienza e perfino la esporta. Nuova vita si registra, invece, al confine con l’India, per le nuove norme che dovrebbero rivitalizzare le relazioni commerciali bilaterali, passo avanti nel difficile rapporto fra le due potenze. Sul versante internazionale prosegue il processo di ricucitura diplomatica dei rapporti con gli Stati Uniti, deterioratisi nell’anno prece-
PAKISTAN
Generalità Nome completo:
Repubblica Islamica del Pakistan
Bandiera
153
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Inglese, urdu, punjabi, sindi, pashto, baluchi
Capitale:
Islamabad
Popolazione:
155.694.740
Area:
803.940 Kmq
Religioni:
Musulmana (95%), in maggioranza sunniti; cristiana (2%), indù (1,6%)
Moneta:
Rupia pakistana
Principali esportazioni:
Tessuti, cotone, pesce, frutta
PIL pro capite:
Us 2.653
dente soprattutto per “il caso bin Laden”. E il Paese resta sotto osservazione: nel 2012 ha ricevuto le visite di Navi Pillay, Alto Commissario Onu per i Diritti umani, e di Catherine Ashton, Alto rappresentante della Ue per gli Affari Esteri. Entrambe hanno chiesto al Pakistan di proteggere i diritti umani, approvare leggi contro la tortura e per i diritti delle donne, frenare gli abusi sulle minoranze religiose e la “legge di blasfemia”.
154
Il Pakistan è oggi il “centro nevralgico di alQaeda” – dicono gli analisti del Pentagono – ed è un Paese chiave per la lotta al terrorismo internazionale. Inoltre, per il commercio internazionale e l’industria petrolifera, lo Stato resta al centro di interessi (e dunque di conflitti) strategici, geopolitici ed economici di vasta portata. Tanto che, pur essendo nell’orbita dell’alleanza atlantica (gli Usa finanziano programmi di cooperazione militare e civile), perfino la Cina ci ha messo gli occhi sopra: Pechino ha avviato una serie di investimenti e progetti di cooperazione economica, solida base per costruire una amicizia politica e diplomatica. Il Pakistan, d’altrocanto, affacciandosi sull’Oceano Indiano, è la strada privilegiata per far passare gli oleodotti che trasportano il greggio dai Paesi dell’Asia centrale: Turkmenistan, Kazakistan e Uzbekistan, che detengono le più vaste riserve al mondo di gas e petrolio. Per questo, attorno alla Regione centroasiatica (appena uscita dall’orbita russa) e al quadrante afgano-pakistano, si celebra oggi il nuovo “Grande gioco” (espressione usata nel sec. XIX) delle potenze mondiali, in Occidente e in Oriente, per accaparrarsi alleanza politiche e dunque sicuro approvvigionamento di risorse energetiche. Sullo scacchiere pakistano si preannuncia l’ennesimo confronto fra i due colossi mondiali, Stati Uniti e Cina, interessati ad estendere la loro influen-
za politica in una regione di grande importanza strategica. Ma in Pakistan vi sono anche tensioni di natura religiosa. Il Pakistan è uno stato a maggioranza musulmano sunnita, ma nel Paese vive anche una minoranza sciita di trenta milioni di fedeli, che fanno del Pakistan la seconda nazione sciita al mondo dopo l’Iran. Il conflitto religioso in atto nel Paese vede da una parte i sunniti appoggiati dall’Arabia Saudita e gli altri Paesi del Golfo, dall’altra gli sciiti appoggiati dall’Iran. Entrambi i fronti fanno leva sul vicino conflitto afgano, entrambi usano le moschee come luoghi di propaganda e indottrinamento, entrambi coprono o favoriscono organizzazioni terroristiche, entrambi cercano di silenziare le voci dell’islam moderato e delle minoranze religiose. Proprio le minoranze religiose (soprattutto cristiani, indù e ahmadi) sono spesso nel mirino di attacchi di massa: l’ultimo anno ha visto un aumento della violenza. Entrambi gli schieramenti trovano appoggi in partiti politici, in membri del Governo pakistano, in settori delle forze armate e dei servizi segreti. In mezzo a queste tensioni, a cercare di governarle e depotenziarle, il resto del Governo, delle forze armate e dei servizi segreti, ovvero quanti vogliono costruire un Pakistan unito, laico e democratico, rispettoso della legalità e dei diritti umani.
Per cosa si combatte
Tensioni vecchie e nuove, fra democrazia e struttura feudale, fra modernizzazione e tribalismo, fra lobby militari e forze islamiste: il Pakistan, la “Terra dei puri”, è alle prese con una profonda instabilità interna che ha radici molto antiche. Il Paese, considerato dalle cronache giornalistiche solo in casi clamorosi, come l’uccisione di Osama bin Laden, è invece uno dei protagonisti assoluti dello scacchiere politico internazionale. Situato nel cuore dell’Asia meridionale, il Pakistan nasce ufficialmente il 14 agosto 1947. Fino ad allora aveva fatto parte dell’India britannica, poi divisa in due diversi Stati: il Pakistan, a maggioranza musulmana, e l’India, a maggioranza indù. Dall’indipendenza, il Pakistan è sempre stato in conflitto con l’India per il controllo del territorio del Kashmir ma questa non è l’unica causa di destabilizzazione per il Paese. La sua stessa struttura di federazione, suddivisa in 4 Province, 2 Territori e 107 Distretti, con una composizione etnica estremamente frastagliata, ne fanno un territorio di difficile gestione, diviso tra una parte meridionale, organizzata in modo più moderno, e una parte settentrionale, profondamente tribale e attraversata da antiche spinte indipendentiste. A livello sociale e culturale, la nazione resta ancorata alla antica struttura feudale, che informa le dinamiche economiche, le relazioni e l’intero tessuto sociale, spaccato fra élites che detengono il potere economico e politico e masse
di diseredati, ridotte in stato servile. Inoltre, negli equilibri sociali e politici, hanno sempre contato molto i militari, che rappresentano uno dei “poteri forti”, sempre presenti nei momentichiave della storia nazionale: leader militari, fra l’altro, hanno governato direttamente il Paese tramite un golpe, come nel caso del dittatore Zia-ul-Haq (negli anni ‘80) e, più di recente, del generale Pervez Musharraf (dal 2000 al 2008). L’altro elemento che caratterizza fortemente, sin dall’origine, la storia e la società pakistana è l’islam, nelle sue diverse forme e declinazioni: dopo l’Indonesia, il Paese è il secondo stato al mondo per numero di fedeli musulmani (il 95% su 180milioni). Benché il fondatore della patria, il leader musulmano Ali Jinnah, abbia voluto disegnare una nazione laica e democratica – così rappresentata nella Costituzione – negli anni successivi i movimenti e i partiti islamici integralisti hanno condizionato in modo sempre più incisivo la politica, la società, il sistema giudiziario e l’istruzione pubblica. Gli islamisti, soprattutto sotto il governo di Zia-ulHaq, hanno ottenuto, in cambio dell’appoggio politico al dittatore, provvedimenti legislativi filo-islamici che hanno mutato il volto della nazione, penalizzando i diritti umani e libertà individuali. Il tasso di conflittualità è altissimo. Il Paese vive forti tensioni interne: la crisi nella Provincia del Belucistan dura dagli anni ’70; gruppi islamisti, con scuole di pensiero diverse,
Quadro generale
Rimsha e la legge di blasfemia
Una bambina cristiana, Rimsha Masih, è divenuta simbolo dei settori laici e democratici che, nella società pakistana, si oppongono alla “legge di blasfemia”. La legge punisce con l’ergastolo o la pena di morte il vilipendio al Corano e al Profeta Maometto ma, nella maggior parte di casi, è utilizzata, con false accuse, per vendette personali, anche ai danni delle minoranze religiose. Una disposizione draconiana, introdotta nel codice penale dal dittatore Zia ulHaq nel 1986, senza alcun passaggio parlamentare, per assecondare i gruppi islamici radicali. Rimsha è stata arrestata (e poi rilasciata su cauzione a settembre 2012) per le false accuse di un imam, in una manovra che intendeva istigare gli animi e cacciare i cristiani da un quartiere di Islamabad, per ragioni di speculazione edilizia.
Imran Khan
(25 novembre 1952)
Un paese off-limits per i giornalisti
Con dieci reporter uccisi nell’ultimo anno, il Pakistan si conferma off-limits per i giornalisti e per la libertà di stampa. Secondo l’Ong “Reporters sans frontières” il Paese è maglia nera nelle classifiche mondiali. Agenti segreti e membri di organizzazioni militanti sono “minacce gravi” per gli operatori dell’informazione. Il Governo, nota l’Ong, usa tutti i suoi poteri per frenare la libertà di stampa e controllare l’informazione, bloccando spesso canali TV via cavo straniere. Oltre cento stazioni radio private, in possesso di regolare licenza, non sono autorizzate a trasmettere notiziari. La stampa del Pakistan, soprattutto in inglese e urdu, è tra le più esplicite dell’Asia meridionale, ma la sua influenza è limitata dal basso livello di alfabetizzazione. Anche su Internet (oltre 29milioni di utenti) la censura è severa e filtra contenuti ritenuti blasfemi, secessionisti, contro lo stato, o contro l’esercito. cercano di imporre la loro visione; sono sempre vive le tensioni fra componenti etniche e tribali diverse della società, evidenti, ad esempio, nelle stragi della città di Karachi. Ma il Pakistan subisce anche forti pressioni esterne: la comunità internazionale si è fatta più presente, con programmi di cooperazione strategica ed economica, da quando il Paese è divenuto un hub per il terrorismo internazionale. Un fattore che da decenni crea instabilità è l’insorgenza nella Provincia del Belucistan, nel Pakistan occidentale, abitata dai beluci, popolazioni tribali, dedite alla pastorizia e alla coltivazione della terra che vivono anche nell’Ovest dell’Iran e nell’estremo Sud dell’Afghanistan. Nel Belucistan dagli anni ‘70 imperversa la guerriglia indipendentista di gruppi ribelli che si battono per l’autonomia della Regione, ricchissima di risorse naturali e per questo annessa con la forza nel 1947 al territorio pakistano. Negli anni ’80 e ’90 il movimento dei Beluci ha interrotto la lotta armata per imboccare, senza risultati, la strada della lotta politica. Ma nel 2000 alcuni
I PROTAGONISTI
gruppi di beluci hanno dato vita all’Esercito di liberazione del Balucistan, riattivando la guerriglia a cui il Governo pakistano ha risposto con il “pugno di ferro”. Dopo gli attacchi alle Torri gemelle del 2001, con l’inizio della campagna militare in Afghanistan, la guerra contro gli indipendentisti del Belucistan è finita col mescolarsi a quella contro i terroristi islamici di AlQaeda. Proprio sull’area di confine con si sono concentrate le attenzioni di intelligence delle forze pakistane (e americane), impegnate nella guerra al terrorismo e nella caccia ai leader militanti, in particolare sul distretto del Waziristan. Le pressioni americane, però, risultano indigeste a larghi settori islamici della società: ne deriva un ulteriore aumento delle tensioni e dell’instabilità interna. La scena politica pakistana di oggi, mutevole, frastagliata e rissosa, è specchio di un paese diviso, attraversato da fermenti e ideologie contrastanti, spaccato fra un’oligarchia di ricchi e il 60% della popolazione che vive sotto la soglia di povertà. Un paese in cui il posizionamento strategico internazionale è continuamente in discussione. Un paese in cui risulta sempre più difficile governare spinte centrifughe e pulsioni radicali di carattere politico, sociale e religioso.
155
Nell’anno che precede le elezioni generali del 2013, un homo novus si è imposto sulla scena politica pakistana, conquistando da subito la simpatia delle fasce popolari: si tratta di Imran Khan, ex stella del cricket (lo sport nazionale), sceso in campo in politica per trovare “una terza via”, alternativa al Partito Popolare del Pakistan (Ppp) e alle formazioni dell’islamismo militante. La ricetta politica di Khan, fondatore del “Pakistan Tehreek-e-Insaf” (“Movimento per la giustizia del Pakistan”), è un misto di populismo e demagogia, che unisce valori islamici e liberalismo economico, welfare state e lotta alla corruzione, democrazia e antiamericanismo. Tocca, però, i punti sensibili della politica pakistana. Il governo del Ppp, a suo dire, è deteriorato dalla corruzione e non riesce a rispondere alle esigenze di base della popolazione: fornitura di acqua potabile ed energia elettrica ancora mancano non solo nelle aree remote ma anche in quartieri delle grandi città come Islamabad, Lahore, Karachi. D’altro canto la sua proposta di una “politica nuova” sembra utopistica in un Paese dove un zoccolo duro dell’elettorato guarda all’islam come componente fondamentale della vita politica.
UNHCR/T.Irwin
156
Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2011 uscito nel giugno 2012 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DALLA THAILANDIA RIFUGIATI
368
RIFUGIATI ACCOLTI NELLA THAILANDIA RIFUGIATI
89.253
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI MYANMAR
88.148
Nuove dighe nuove proteste
Le comunità del Nord della Thailandia, appoggiate da alcune Ong, stanno protestando dall’aprile del 2012 contro sette progetti energetici in costruzione nella zona. Gli abitanti sono preoccupati per l’inquinamento e il dissesto ambientale che verrà creato, con la costruzione della diga di Hatgyi a Myanmar, di nuove centrali e per l’utilizzo delle strade dei loro villaggi per il trasporto di lignite da una miniera di Myanmar al Nord della Thailandia. I gruppi in protesta hanno proposto piani differenti, che prevedono il risparmio energetico e la produzione di energie alternative che riuscirebbero a far fronte alla domanda energetica della popolazione per i prossimi 18 anni. Non sono stati ascoltati e la protesta continua.
UNHCR/R. Arnold
Le ultime vittime in settembre, per una autobomba: sono stati cinque i morti e almeno quaranta i feriti nel distretto di Sai Buri, nella Provincia meridionale di Pattani. È sempre una guerra sporca, fatta di agguati, imboscate, attentati e repressione oltre i limiti dei diritti umani quella che in Thailandia si combatte fra indipendentisti islamici e Governo centrale. Teatro dello scontro sono le Province del Sud: Yala, Narathiwat e Pattani. Anche quest’anno le piccole scaramucce sono state continue, facendo arrivare il conto dei morti a quasi 4500, a partire dal 2004. La presa dell’esercito sulla popolazione resta ferrea, con arresti arbitrari e torture denunciate dalle organizzazioni umanitarie. Una buona notizia, però, c’è, almeno per quest’anno. Accettando la mediazione internazionale, Thailandia e Cambogia hanno messo fine allo scontro armato che le vedeva impegnate dal 1962 per il controllo della zona di confine vicino al tempio di Preah Vihear, inserito tra i beni patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Gli scontri, in cinquant’anni, erano stati ripetuti. L’ultimo nell’aprile del 2012, con 18 morti. Durante una cerimonia che ha coinvolto le autorità militari dei due Paesi, circa 485 soldati cambogiani e un numero imprecisato di militari thailandesi hanno caricato nello stesso momento le armi sui camion. Sono stati sostituiti da circa 600 poliziotti che vigileranno sull’area. Insomma, almeno questo conflitto pare risolversi, ma la Thailandia resta sulla linea del fuoco in politica interna. Le rivolte del 2010 – 2011 hanno lasciato il segno, nonostante la nomina di Yingluck Shinawatra a primo Ministro. Gli scontri fra “camicie rosse” – vicini agli Shinawatra, la famiglia della primo Ministro, popolari nelle campagne e nella fascia debole della popolazione – e “camicie gialle”, rappresentanti dei democratici, sostenuti dal ceto medio e dalle élite della capitale, guidati in Parlamento dal premier uscente Abhisit Vejjajiva, hanno portato morte e torture negli anni, con almeno
THAILANDIA
Generalità Nome completo:
Regno di Thailandia
Bandiera
157
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Thai
Capitale:
Bangkok o Krung Thep in thai
Popolazione:
64.200.000
Area:
514.000 Kmq
Religioni:
Buddista (95%), musulmana (4.6%), cattolica (0.75%)
Moneta:
Baht Thailandese
Principali esportazioni:
Tapioca, riso, caucciù, ananas, stagno
PIL pro capite:
Us 8.368
un centinaio di vittime fra il 2010 e il 2011. Per pacificare gli animi, il nuovo Governo ha varato nel gennaio del 2012 un piano di risarcimenti da 2miliardi di bath, (circa 63milioni di dollari). Un progetto che dovrebbe portare alla riconciliazione nazionale, ma che l’opposizione ha respinto. Panthep Puapongpan, portavoce dei “gialli” della Peoplès Alliance for Democracy (Pad), ha accusato il Governo di voler ricompensare solo le vittime del proprio colore politico, fra cui i membri “rossi” dello United Front for Democracy against Dictatorship (Udd).
Non è questione di controllo diretto di risorse: la guerra interna alla Thailandia nasce dalle differenze culturali, economiche e dalla voglia di autonomia di una delle parti. I musulmani sono una minoranza relativamente piccola nel Paese, solo il 4,6% della popolazione, ma sono concentrati tutti nella stessa area e, soprattutto, hanno avuto una lunga storia di indipendenza
dalla Thailandia. La situazione internazionale, con lo scontro in atto fra mondo cosiddetto occidentale e terrorismo islamico, ha riacceso le loro speranze di indipendenza, portandole sotto la bandiera pan-islamica. Lo scontro politico interno, poi, ha reso più debole il Governo centrale e alimentato tensioni sociali, soprattutto nella capitale.
Per cosa si combatte
158
UNHCR/K. McKinsey
L’industria turistica – vera miniera d’oro del Paese – non ammette distrazioni. Non vuole, soprattutto, che si sappia troppo di questa guerra che in Thailandia si combatte da anni, durissima. Se lo scontro politico che contrapponeva i popolari delle Camicie Rosse agli aristocratici delle Camicie Gialle sembra essersi placato, circoscritto negli ambiti istituzionali, senza le manifestazioni di piazza che nel 2010 causarono centinaia di morti, la guerra con i separatisti delle tre province meridionali a maggioranza musulmana prosegue durissima, nonostante Yala, Narathiwat e Pattani, si trovino a poche centinaia di chilometri dalle più famose spiagge thailandesi, ai confini con la Malaysia. I morti, in ormai otto anni di conflitto, sono fra i 4400 e i 4600. L’apparato militare thailandese è sottoposto ad uno sforzo continuo, con costi spaventosi. Nel 2009 il generale a riposo Ekkachai Srivilas, direttore dell’Ufficio per la Pace e la Governance dell’Istituto Re Prajadhipok, aveva proposto un approccio diverso alla crisi, proprio per evitare le spese e gli sforzi che si pagano per dispiegare 60mila soldati nel Sud. Il Governo aveva respinto l’idea e l’estate del 2009 era stata una continua offensiva per rastrellare tutti i villaggi della Regione per fare terra bruciata intorno ai pejuang, i miliziani del Fronte Rivoluzionario Nazionale (Brn). Una scelta coerente con la decisione di attaccare i ribelli per distruggerli, senza cercare mediazioni. Quindi si combatte. Il picco dello scontro è stato
nel 2007, ma non è mai cessato. Narathiwat, Yala e Pattani sono Province abitate in maggioranza da musulmani di lingua malese. Corrispondono al territorio di un sultanato annesso all’inizio del secolo scorso all’allora regno del Siam, dopo un accordo con gli inglesi, veri padroni dell’area in quegli anni. C’è una storia differente, quindi, a giustificare le richieste di indipendenza. Le realtà, però, è che anche per gli osservatori stranieri si tratta di una guerriglia poco conosciuta. Il movimento ribelle si chiama “Combattenti per la liberazione di Pattani”, ma non ha né un simbolo né un leader riconosciuto. Totalmente ignoto anche l’obiettivo reale della guerra scatenata nel 2004: non è chiaro se vogliano solo una maggiore autonomia, l’indipendenza o una unione con la Malaysia. Resta il fatto che nella Regione la stragrande maggioranza degli abitanti sono musulmani, di etnia e lingua malay. Da sempre i thailandesi li vivono come un pericolo. I pochi buddhisti della zona tendono a lavorare per conto del Governo e dal 2004 sono un facile obiettivo dei ribelli, che da sempre colpiscono soprattutto gli insegnanti, i “volti” del Governo di Bangkok, che rappresentano da soli l’11% delle vittime. Vanno a lavorare scortati dall’esercito e nemmeno questo ferma le imboscate. Una situazione che sembra diventata ingovernabile. L’esercito, protetto dallo stato di emergenza dichiarato nel 2005 dal Governo, ha scontri sporadici con i ribelli, ma tiene sotto
Quadro generale
Ora arriva la Formula 1
Il Mondiale di Formula 1 è pronto a sbarcare in Thailandia. Il Paese asiatico punta sempre più al turismo e vuole creare una immagine “moderna”. Quindi si è candidato per ospitare un gran premio dal 2014. Il Governo ha fatto sapere di avere avviato le trattative sia con la Federazione Internazionale dell’Automobile, sia con Bernie Ecclestone, patron della Formula. ”È improbabile che nascano difficoltà”, ha dichiarato il ministro dello Sport Chumpol Silpa-Archa. Resta da definire il luogo in cui disputare la gara e, siccome Bangkok ”non era perfetta”, l’ipotesi migliore avanzata dal ministero è quella del circuito di Pattaya, località balneare a un’ora dalla capitale.
Thaksin Shinawatra (San Kamphaeng, 26 luglio 1949)
UNHCR/B. Baloch
La terra di chi è libero
La Thailandia era chiamata Siam fino al 1939, quando venne ribattezzata Muang Thai o Prathet Thai, che significano “terra di chi è libero”. Nome appropriato, visto che la Thailandia non ha mai subito, nella propria storia, una dominazione straniera. Dopo la seconda Guerra mondiale tornò il vecchio nome, Siam, per assumere quello attuale, Thailandia, nel 1949. Nel Paese oltre ai thailandesi vivono minoranze cinesi, malesi, khmer, mon, indiani e le tribù delle colline. Il 99% della popolazione ha comunque la cittadinanza thailandese. Bangkok è il nome originale della zona su cui sorge la capitale e significa “il villaggio delle prugne selvatiche”. La capitale domina realmente il Paese dal punto di vista economico e sociale, tanto che la maggiore aspirazione di chi vive in provincia è, appunto, vivere a Bangkok.
pressione la popolazione della Regione, che reagisce radicalizzando lo scontro, appoggiando apertamente la ribellione e condividendo il risentimento verso Bangkok. Ad alimentare questo sentimento sono le ingiustizie create dallo stato di emergenza. In caso di violenza, esercito e autorità statali vengono assolte, non è mai chiaro chi sia il responsabile. Anche le organizzazioni internazionali hanno denunciato le violenze, i soprusi. Un rapporto di Human Rights Watch ha spiegato come per effetto delle leggi speciali thailandesi, che prevedono la carcerazione preventiva senza mandato per 37 giorni, e di un regolamento del generale Viroj - comandante dell’area - che vieta visite dei familiari per i primi tre giorni di detenzione, migliaia di musulmani, maschi, di tutte le età siano stati arrestati e torturati dall’esercito. Secondo l’organizzazione, che ha sentito le
I PROTAGONISTI
testimonianze di molti medici e avvocati di ex detenuti, vengono torturati soprattutto nei primi giorni di detenzione nelle basi locali dell’esercito. Poi, sono trasferiti alla prigione militare di Ingkhayuthboriharn, nella provincia di Pattani. I sistemi di tortura adottati sono: pestaggi con bastoni e spranghe, elettroshock, strangolamento, affogamento, soffocamento con buste di plastica, nudità forzata, esposizione a temperature estreme. È crisi dura, quindi. Per molti esperti, il movimento ribelle ha chiare origini locali. Per gli analisti internazionali, i rivoltosi – nel frattempo raccolti sono la sigla Fronte Rivoluzionario Nazionale (Brn) – sono da collegare alla rete di al-Qaeda. È di questo parere la Cia statunitense, che da sempre collabora con l’esercito nel quadro della lotta al terrorismo internazionale. A rafforzare questa opinione è arrivato, nel giugno 2009, un rapporto dell’International Crisis Group, che ha denunciato l’uso della retorica della jihad mondiale nelle scuole delle tre Province, al fine di reclutare nuovi combattenti.
159
Thaksin Shinawatra, fratello dell’attuale primo Ministro Yingluck Shinawatra, è nato il 26 luglio del 1949. Imprenditore di successo – agli inizi del 2000 era l’uomo più ricco della Thailandia - si è dato alla politica come leader del partito populista Thai Rak Thai. Eletto premier nel 2001, ha avviato una politica populista. Nel 2003 la campagna contro gli spacciatori di droga portò ad un’esecuzione extra-giudiziaria di diverse centinaia di sospetti, criticata dai difensori dei diritti umani. Nel 2005 venne rieletto con una vittoria schiacciante, aggiudicandosi 374 seggi su 500 in Parlamento. Il tutto nonostante i numerosi scandali che lo sfioravano. Nel 2001 fu molto vicino agli arresti e ad un bando di 5 anni dalla vita politica per un conflitto di interessi, ma ne uscì corrompendo la corte giudicante e manipolando le indagini. Nel settembre 2006 il premier è stato deposto da un colpo di stato mentre era a New York. Dopo il golpe, ha dichiarato il suo ritiro dalla politica e annunciato di chiedere asilo politico al Governo britannico. Il 15 aprile 2009, il suo passaporto è stato revocato dal ministero degli Esteri Thailandese, perché “il suo ritorno potrebbe nuocere al Paese”.
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2011 uscito nel giugno 2012 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DA TIMOR EST RIFUGIATI
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Violenza domestica C’è la legge
Due anni fa il Parlamento di Timor Est ha approvato una legge che introduce nell’ordinamento giuridico il reato di violenza domestica. Nonostante questo indubbio passo avanti la violenza contro le donne resta il crimine più diffuso nel Paese. Contribuiscono all’elevato tasso di questo tipo di abusi, un sistema giudiziario non efficiente, una diffusa dipendenza economica delle donne dalla famiglia e una “cultura del silenzio” che spinge solo poche vittime a denunciare. “Nonostante l’approvazione di questa legge le nostre comunità non hanno ancora cambiato il proprio comportamento – ha spiegato al britannico The Guardian Marcelina Amaral, avvocatessa che a Timor Est offre supporto e assistenza legale alle vittime della violenza – la cultura diffusa a Timor Est rende molto complicato per una donna rivolgersi alla giustizia”.
UNHCR/N. Ng
Il 2012 è stato un anno importante per Timor Est. Nel Paese si sono svolte, in aprile, le elezioni presidenziali e in luglio quelle legislative per il rinnovo del Parlamento. I due appuntamenti elettorali sono stati seguiti con grande attenzione dalla comunità internazionale che li ha considerati un vero e proprio test di stabilità politica e sociale per il Paese, che ha rischiato di piombare in una guerra civile nel 2006 e che, nelle precedenti elezioni del 2007, era stato attraversato da scontri e violenze sfociati nel 2008 in un tentativo di colpo di stato con un doppio attentato, fallito, contro l’allora Presidente Jose Ramos-Horta e il premier Xanana Gusmão. Il clima generalmente pacifico e la trasparenza dei risultati elettorali certificata dagli osservatori nei tre appuntamenti con le urne del 2012 (compreso il ballottaggio per le presidenziali), potrebbero far decidere alle Nazioni Unite di non rinnovare il mandato della missione di interposizione Unmit, in scadenza nel dicembre del 2012. Il nuovo Presidente della Repubblica è un “uomo forte” di questa giovane nazione, considerato un eroe della lotta per l’indipendenza di Timor Est: José Maria Vasconcelos, anche noto come Taur Matan Ruak. Ex comandante in capo delle forze armate di Timor Est, Taur Matan Ruak è stato eletto Presidente con il 61,2% dei voti ed ha sconfitto al ballottaggio Francisco Guterres. Nell’impianto politico-istituzionale di Timor Est la carica di Presidente della Repubblica è più che altro formale ma la sua elezione rappresenta una continuità con l’area politica del premier Xanana Gusmao, sostenuto dal partito Cnrt (Congresso Nazionale per la ricostruzione di Timor Est) che ha vinto le elezioni legislative di luglio, ottenendo 31 seggi su 65 del Parlamento monocamerale di Timor Est. Nonostante il clima generalmente pacifico in cui si sono svolte le elezioni, proteste e qualche tensione si è registrata subito dopo l’annuncio di Xanana Gusmao di voler formare una coalizione di governo con il Partito Democratico e il Frente-Mudança, escludendo il Fronte Rivo-
TIMOR EST
Generalità Nome completo:
Timor Est
Bandiera
Lingue principali:
Tetum, portoghese
Capitale:
Dili
Popolazione:
947.000
Area:
15.007 Kmq
Religioni:
Cattolica (90%), musulmana (5%), protestante (3%)
Moneta:
Dollaro statunitense e dollaro australiano
Principali esportazioni:
Legname, caffè, petrolio e gas
PIL pro capite:
Us 1.813
luzionario di Timor Est Indipendente (Fretilin), storico movimento politico per l’indipendenza del Paese. Tra una elezione e l’altra, il 20 maggio del 2012, la popolazione di Timor Est ha festeggiato i suoi primi 10 anni di indipendenza, riconosciuta ufficialmente nel 2002. Molta strada resta ancora da fare per la riconciliazione nazionale in questa giovane democrazia, che ancora aspetta giustizia per le gravi violazioni dei diritti umani perpetrate dalle forze di sicurezza indonesiane tra il 1975 e il 1999. Ma certamente Timor Est ha ricominciato a camminare.
161
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Scopo della lotta della popolazione timorese è sempre stato il raggiungimento dell’indipendenza e dell’autodeterminazione. Un’autonomia ostacolata dai forti interessi internazionali in un’area strategica per le rotte commerciali e resa difficile anche oggi dalle tensioni interne tra i diversi gruppi etnici che popolano Timor Est (78% timoresi, 20% indonesiani, 2% cinesi).
Nonostante l’indipendenza formalmente conquistata nel 2002, e le ultime elezioni presidenziali e politiche che confermano i passi avanti del Paese in termini di sicurezza e stabilità politica, Timor Est è ancora un Paese poverissimo e di fatto dipendente dal sostegno della comunità internazionale.
Per cosa si combatte
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UNHCR/N. Ng
Timor Est è composta dalla metà orientale dell’isola di Timor, dalle isole di Atauro e di Jaco e dalla Provincia di Oecussi-Ambeno, una enclave situata nella parte occidentale dell’isola, Timor Ovest, che fa parte invece dell’Indonesia. Timor ha subito centinaia di anni di colonizzazione europea, da parte dei portoghesi, che arrivarono sull’isola nel XVI secolo, e dagli olandesi. L’instabilità politica e sociale dell’isola di Timor comincia proprio a causa della convivenza forzata sul territorio delle due potenze coloniali, che causò anni di sanguinosi conflitti, risolti soltanto nel 1859, con il Patto di Lisbona che sancì la suddivisione di Timor Est in due parti: quella orientale andò al Portogallo e quella occidentale all’Olanda. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, a causa della sua posizione strategica nel Sud Est asiatico, Timor venne occupata dalle forze australiane che temevano potesse diventare una base militare giapponese. Nel febbraio del 1942 il Giappone occupò effettivamente Timor, cancellando l’assetto territoriale stabilito dal Patto di Lisbona e trasformando l’intera isola in un’unica Regione sotto l’influenza politico-militare del Giappone. Alcune centinaia di militari australiani però non deposero le armi e scelsero di continuare a combattere contro i giapponesi, sostenuti anche dalla popolazione timorese, che per questo pagò un prezzo altissimo. Quando nel 1943, l’Australia decise il ritiro completo dall’isola di
Timor, la rappresaglia dell’esercito giapponese contro la popolazione fu terribile. Si stima che le vittime delle violenze furono tra le 40mila e le 60mila. Dopo la fine della seconda guerra mondiale la parte Orientale dell’isola tornò sotto il dominio portoghese mentre nel 1949 la parte Occidentale, dopo il ritiro dell’Olanda, fu definitivamente annessa all’Indonesia. Un primo spiraglio verso l’indipendenza del Paese arrivò nel 1974 quando, in seguito alla ‘Rivoluzione dei Garofani’, il Portogallo cominciò ad allentare gradualmente il controllo sulle colonie in Asia e Africa, permettendo la formazione di partiti politici legalizzati a Timor Est. Nacque la “Frente Revolucionaria de Timor-Leste Indipendente”, detto Fretilin, destinato a diventare il movimento simbolo della lotta per l’indipendenza di Timor Est. Nel 1975 si tennero le prime elezioni politiche. Il Fretilin vinse con il 55% dei voti e dichiarò unilateralmente l’indipendenza dell’isola dal Portogallo. Lungi dall’essere un nuovo inizio per il popolo timorese, la dichiarazione d’indipendenza diede il via ad uno dei capitoli più sanguinosi della difficile storia di Timor Est. Il 7 Dicembre 1975 l’esercito indonesiano del dittatore Suharto, invase Timor Est occupando subito la capitale Dili e tutte le principali città del Paese. Nel 1976 Jakarta fa di Timor Est la sua ventisettesima Provincia. Iniziano gli scontri tra il Fretilin e l’esercito indonesiano, nell’indifferenza della
Quadro generale
Grazie a Cuba record di medici
Nel 2015 Timor Est avrà il numero più alto di dottori per abitante del Sud Est asiatico. Il record è dovuto ad un programma di scambio tra medici cubani e timoresi voluto da Fidel Castro nel 2003 e che si pone l’obiettivo di formare 1000 medici di Timor Est a Cuba per 5 anni. Il primo anno gli studenti studiano lo spagnolo, i restanti quattro approfondiscono gli studi di medicina e tornati a Timor Est affiancano per un periodo i medici cubani nei grandi ospedali e nelle piccole cliniche rurali sparse nel territorio. Il programma ha avuto sino ad oggi un grande successo. Secondo i dati ufficiali forniti dalle autorità timoresi, i casi di malaria e la mortalità infantile sono diminuiti notevolmente dal 2004.
Taur Matan Ruak
(Baquia, 10 ottobre 1956)
UNHCR/N. Ng
La prima volta di un segretario USA
Nel settembre del 2012, per la prima volta nella storia di Timor Est, un segretario di Stato Usa ha visitato ufficialmente il Paese. Hillary Clinton si è fermata sull’isola per una breve tappa. Proveniente dalla Cina e impegnata in una missione ufficiale di 10 giorni in sei Paesi della Regione, il Segretario di Stato Usa ha incontrato il neoeletto Presidente di Timor Est Taur Matan Ruak e il riconfermato premier Xanana Gusmao. La visita, ha spiegato, “è un segnale che gli Stati Uniti supportano il Paese” e la sua strada verso l’affermazione della democrazia dopo “le elezioni libere e trasparenti che hanno pacificamente consentito la transizione verso una nuova presidenza, un nuovo Governo e un nuovo Parlamento”. Hillary Clinton ha poi proseguito il suo viaggio con destinazione finale Vladivostok dove ha partecipato al vertice dell’Asia-Pacifico (Apec).
comunità internazionale, mentre Stati Uniti e Australia riconoscono ufficialmente e subito l’occupazione indonesiana di Timor Est. Per 24 anni l’esercito e le milizie filo indonesiane imperversarono sull’isola accanendosi contro la popolazione. Più di 250mila timoresi furono uccisi, praticamente un terzo degli abitanti. Il 12 novembre del 1991 un gruppo di 200 soldati indonesiani trucidò almeno 250 timoresi riuniti per il funerale di un militante indipendentista nella città di Dili. Il cosiddetto ‘massacro di Dili’ venne filmato da due giornalisti americani, che diffusero le immagini permettendo al mondo intero di conoscere il dramma del popolo di Timor Est. Le immagini del massacro provocarono manifestazioni in tutto il mondo e, almeno, la condanna delle Nazioni Unite. Caduto il dittatore Suharto, il nuovo Presidente Habibie, decise nel 1998, di dare un segnale di distensione alla comunità internazionale rendendosi disponibile
I PROTAGONISTI
a concedere uno statuto speciale a Timor Est. L’Onu si occupò di organizzare un referendum per l’autodeterminazione dell’isola, indetto il 30 agosto del 1999. La partecipazione al voto fu massiccia, il 98,6% della popolazione si recò alle urne. Gli indipendentisti vinsero con il 78,5% dei consensi ma ancora prima che i risultati venissero resi pubblici, l’esercito indonesiano e le milizie paramilitari filo-indonesiane si scatenarono contro la popolazione. I timoresi venivano uccisi sommariamente, decapitati. In migliaia furono deportati a Timor Ovest, nella parte indonesiana dell’isola. L’Onu inviò a Timor Est una forza multinazionale di pace, la Interfet (International Force East Timor). Solo il 20 ottobre il parlamento indonesiano ratificò i risultati del referendum e decise il ritiro dell’esercito. Nell’aprile del 2002 i timoresi si recano di nuovo alle urne per eleggere il primo Presidente della storia di Timor Est: Xanana Gusmão, leader storico della guerra d’indipendenza. Nel mese di maggio del 2002 viene ufficialmente proclamata l’indipendenza della Repubblica democratica di Timor Est.
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Il neoeletto Presidente di Timor Est è un ex comandante delle forze armate considerato un eroe della lotta per l’indipendenza del Paese. Nel 1975, dopo l’invasione di Timor Est da parte dell’Indonesia si è subito unito al Fretilin, il movimento rivoluzionario per l’indipendenza di Timor e ha combattuto per quasi due decadi contro l’occupazione. Nel 1979 è stato catturato dai soldati indonesiani ma è riuscito a fuggire dopo solo 23 giorni di prigionia ed è immediatamente tornato a combattere con la resistenza armata. Nel 1999, dopo il voto sul referendum per l’autodeterminazione, Ruak è diventato comandante del Falintil, il braccio armato del Fretilin, prendendo il posto dell’attuale primo Ministro Xanana Gusmao. Con la dichiarazione ufficiale di indipendenza del 2002 Ruak è stato nominato capo delle forze armate di Timor Est e oggi, a 55 anni, ha lasciato l’incarico dopo essere stato eletto Presidente della Repubblica con il 61% dei voti. In una delle sue prime dichiarazioni da Capo di Stato ha sottolineato la priorità di lottare contro l’elevato tasso di disoccupazione che affligge i giovani di Timor Est, proponendo la leva obbligatoria come “una delle possibili soluzioni”.
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2011 uscito nel giugno 2012 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DALLA TURCHIA RIFUGIATI
139.779
PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI GERMANIA
92.968
IRAQ
15.083
FRANCIA
10.885
RIFUGIATI ACCOLTI NELLA TURCHIA RIFUGIATI
14.465
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI IRAQ
7.071
E’ emergenza profughi
La Turchia è tra i Paesi che maggiormente risentono della crisi siriana per quanto riguarda la difficile gestione dei rifugiati. Per l’Alto Commissariato dell’Onu per i Rifugiati (Unchr) tra i quattro Paesi che confinano con la Siria, la Turchia è il secondo, dopo la Giordania, a dare rifugio nei campi profughi ai siriani in fuga dalla guerra di Damasco. Alle sempre mutevoli cifre ufficiali dei rifugiati che vengono registrati vanno aggiunte anche le decine di migliaia di siriani non registrati ed entrati in Turchia. L’Alto Commissariato dell’Onu per i Rifugiati si aspetta che entro la fine del 2012, nei quattro paesi geograficamente vicini alla Siria, tra cui la Turchia, i rifugiati potrebbero arrivare alla cifra di 710mila persone.
Lorenzo Taliani - Fzero Photographers
Il 2012 è stato segnato in Turchia da elevati livelli di violenza militare sia a causa della guerra sul confine con la Siria sia per la riapertura della “questione curda”. Se da un lato la Turchia ha dovuto mobilitare le proprie truppe sul confine siriano (900 km di lunghezza ), dall’altro ha ripreso la guerra, a partire dall’estate 2012, contro il gruppo armato separatista del Pkk (Partîya Karkerén Kurdîstan, Partito del Lavoratori Curdi). I due conflitti sono strettamente intrecciati. La Turchia ha accusato la Siria di rifornire di armi i curdi del Pkk. La Siria ha accusato la Turchia di appoggiare i ribelli sunniti che combattono contro il Presidente siriano Assad. Da luglio 2012, il Pkk ha lanciato la sua campagna militare contro le forze armate turche. Per la prima volta da anni i combattenti curdi non hanno colpito per poi subito ritirarsi oltre il confine turco, nelle basi arretrate nelle montagne del Nord-Iraq, ma hanno cercato di prendere il controllo di alcune parti di territorio. Ankara ha spostato nell’Anatolia Orientale migliaia di soldati appoggiati da elicotteri d’attacco, da aerei F16 e dall’intelligence fornita dai droni (aerei senza pilota) Usa. Nonostante la militarizzazione del territorio turco/curdo a Sud Est, il leader storico del Pkk, Abdullah Ocalan, detenuto dal ‘99 nell’isolaprigione di Imrali, ha fatto sapere alla stampa che “d’ora in poi nessun soldato, poliziotto o ribelle deve morire. Il sangue non deve più essere sparso e la questione deve essere risolta”. Il premier islamico nazionalista della Turchia, Recep Tayyip Erdogan, si è mostrato favorevole alle trattative con il Pkk e con lo stesso Ocalan. Anche i partiti di opposizione Chp (Cumhuriyet Halk Partisi, Partito Popolare Repubblicano) e Bdp (Barış Demokrasi Partisi, Partito della Pace e della Democrazia) esprimono posizioni di disponibilità ai negoziati. Il partito Mhp (Milliyetçi Hareket Partisi, Partito del Movimento Nazionalista), invece, si oppone al dialogo. Centinaia di amministratori locali, giornalisti, politici, studenti sono in carcere accusati di collusione col Pkk o con la Kck, l’Unione delle
TURCHIA
Generalità Nome completo:
Repubblica di Turchia
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Turco
Capitale:
Ankara
Popolazione:
78.785.548 abitanti
Area:
783.562 Kmq
Religioni:
Maggioranza mussulmana sciita e sunnita, minoranza cristiana e altre fedi
Moneta:
Nuova lira turca
Principali esportazioni:
Tessile, alimentare, ferro e acciaio. Più del 50% di tutte le merci vanno in Ue
PIL pro capite:
13,920 dollari
Comunità del Kurdistan. La stampa turca critica la politica seguita dal premier Erdogan in Siria e l’effetto boomerang che questa ha avuto nel Kurdistan. Oggi, la Turchia di Erdogan, che ambisce ad un ruolo di potenza regionale, ha problemi con tutti i vicini: dalla Siria all’Iran, dall’Iraq alla Grecia, da Cipro all’Armenia. Negli ultimi 10 anni la Turchia ha conosciuto un boom economico: è la diciassettesima economia mondiale, il reddito procapite è triplicato.
Il Pkk, nato nel 1984, ha l’obiettivo di fondare uno Stato dei curdi (Kurdistan). La Turchia si oppone a questo progetto. Dal punto di vista turco, (e dal punto di vista dell’Ue e degli Usa) i curdi del Pkk sono “terroristi” aderenti ad un’organizzazione fuorilegge. Dal punto di vista curdo, il “terrorismo” del Pkk non è altro che una lotta armata legittima, necessaria e conseguente al “genocidio culturale” ai danni della nazione
curda in Turchia. Genocidio denunciato anche dal Dtk (Congresso della società democratica), un partito politico che punta a creare “un sistema di autogoverno della gente nella propria Regione”. Il sottosuolo del territorio rivendicato dai curdi è ricco di petrolio. Questo spiega i forti interessi economici che impediscono o ritardano la creazione di uno Stato curdo.
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Lorenzo Taliani - Fzero Photographers
La Repubblica di Turchia (Türkiye Cumhuriyeti) è una penisola che si stende nel Mar Mediterraneo e nel Mar Egeo. Confina a Nord con il Mar Nero, a Nord-Ovest con la Grecia e la Bulgaria, a Nord-Est con la Georgia, ad Est con l’Armenia, l’Azerbaigian e l’Iran, a Sud-Est con l’Iraq e a Sud con la Siria. È il territorio più Occidentale dell’Asia. L’area a Sud Est della Turchia è suddivisa in 12 Province e fa riferimento alla città di Diyarbakir. È la “terra dei Curdi”, o meglio, è solo una parte di quel “Kurdistan” storico che sopravvive nella
cultura e nella memoria della popolazione locale senza essersi mai costituito in vero e proprio Stato. I Curdi e i Turchi che risiedono nell’area del confine Sud Est dell’attuale Repubblica di Turchia vivono in un contesto politico e sociale mai realmente pacificato. Il Presidente della Repubblica della Turchia è eletto dal Parlamento ed ha un mandato di sette anni. Nomina il primo Ministro e, su indicazione di questi, un consiglio dei ministri. Il primo Ministro viene scelto di norma nella persona del leader del partito o della coalizione di maggio-
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Per cosa si combatte
Un festival per i Curdi
Per mantenere viva la cultura curda la Confederazione delle Associazioni Curde d’Europa (Kon-Kurd) organizza ogni anno il festival della cultura curda. Nel 2012 la manifestazione si è tenuta nella città tedesca di Mannheim. Nell’ambito del Festival è stato organizzato il Bus Tour (Giro in Autobus) per Öcalan che ha fatto tappa in 70 città, in 8 Paesi europei, per attirare l’attenzione sulla richiesta di liberazione del leader Öcalan in prigione con regime di isolamento. A Roma l’Associazione Europa-Levante organizza il Festival del Cinema Curdo, diventato un punto di riferimento per il dibattito, la conoscenza e l’integrazione dei molti rifugiati curdi.
Quadro generale
Gli studenti in carcere
In Turchia migliaia di studenti universitari e liceali vengono arrestati con l’accusa di “terrorismo” per presunti legami con organizzazioni curde. Ad ottobre 2012, 1778 giovani detenuti per motivi politici erano in carcere in attesa di essere processati. Altri 1046, secondo il quotidiano Radikal, stavano scontando condanne per “terrorismo”. Ha fatto cronaca il caso della studentessa francese di origine curda Sevil Sevimli, 19 anni, arrestata il 10 maggio 2012 per presunta “appartenenza a una organizzazione terroristica”, solo per avere partecipato, secondo i suoi difensori, alla manifestazione del primo maggio 2012 a Istanbul e a un concerto del gruppo rock curdo di estrema sinistra Yorum. Il Governo di Parigi e la stampa francese si sono mobilitati e hanno ottenuto la liberazione della ragazza dopo circa tre mesi di detenzione.
Orhan Pamuk
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(Istanbul, 7 giugno 1952)
Crescono PIL e acquisto di armi
In Turchia, a giugno 2012 la disoccupazione era all’8%, il tasso più basso dal 2001, stando ai dati diffusi dall’Istituto nazionale statistiche Turkstat. Nel 2012, l’economia del Paese della Mezzaluna è cresciuta e ha creato migliaia di nuovi posti di lavoro. Ma la Turchia spende anche molto denaro per armi e munizioni. Il quotidiano Hurriyet ha affermato che il Governo di Ankara ha aumentato le imposte su auto, alcol e case per coprire buona parte dei costi del conflitto in Kurdistan: solo in luglio e agosto 2012, lo Stato turco ha speso 384milioni di euro, contro 333milioni spesi in tutto il primo semestre dell’anno, questo è quanto ha scritto il quotidiano Aksam secondo il quale il Governo turco dispone anche di “fondi neri” per le finanziare le sue guerre.
ranza. Oltre che al Parlamento, il Governo deve rispondere della sua attività ad un organo composto da tre membri nominati dalle Forze Armate, il Consiglio di Sicurezza Nazionale. Il potere legislativo spetta ad un Parlamento composto da una sola Camera di 550 membri, la Grande Assemblea Nazionale della Turchia (Türkiye Büyük Millet Meclisi). I deputati sono eletti a suffragio universale ogni quattro anni per il voto espresso da tutti i cittadini di almeno 18 anni di età. L’ordinamento giudiziario prevede una Corte costituzionale, i cui membri sono nominati dal Presidente, e una Corte d’Appello, eletta dal Consiglio supremo dei giudici e procuratori. La pena di morte è stata completamente abolita nel 2004. Dal punto di vista amministrativo, la Turchia è divisa in 81 Province. A capo di ognuna di esse il Governo centrale pone un Governatore. Le 81 Province sono a loro volta suddivise in 923 distretti. Il distretto centrale (capoluogo della provincia) è amministrato da un “vicegovernatore” designato, mentre gli altri distretti sono amministrati da un “sottogovernatore”. Il Kurdistan è un vasto altopiano che include
I PROTAGONISTI
l’alto bacino dei fiumi Eufrate e Tigri, il lago di Van e il lago di Urmia e le catene dei monti Zagros e Taurus. Politicamente è diviso fra gli attuali stati di Turchia (Sud-Est), Iran (Ovest), Iraq (Nord) e, in minor misura, Siria (Nord-Est). Solo il Kurdistan iracheno ha una certa autonomia politica, come Regione federale dell’Iraq, in seguito alla fine del regime di Saddam Hussein nel 2003. La questione territoriale curda nasce alla fine della prima guerra mondiale con il Trattato di Sèvres dell’agosto 1920. Il Trattato prevedeva ampie tutele per le minoranze nazionali curde in Turchia e garantiva ai curdi la possibilità di ottenere un proprio Stato. Il Trattato fu fortemente osteggiato dal “Padre dei turchi”, Mustafa Kemal Pasha (Ataturk). Si arrivò ad un nuovo Trattato a Losanna nel luglio 1923. Ogni concessione ai curdi fu cancellata e il loro territorio fu spartito fra i diversi nuovi stati mediorientali che poi hanno spesso negato l’esistenza di una specifica identità nazionale curda. Secondo Amnesty International, ad esempio, i curdi che vivono in Iran sono discriminati e, quando delinquono, possono più facilmente essere condannati anche alla pena di morte. Anche dentro i confini dell’Iran, nella sua parte Ovest, persiste un latente e poco conosciuto conflitto armato tra esercito iraniano e guerriglieri curdi.
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Premio Nobel per la letteratura nel 2006, è nato a Istanbul da una famiglia benestante. Studia al liceo americano, poi architettura e letteratura. Nel 1977 si laurea in giornalismo, quando ha già iniziato a scrivere con regolarità. Da subito, il suo rapporto con il governo è difficile. I suoi libri vendono, ma lui rifiuta il titolo di “artista di Stato”. Nel 2005 viene ufficialmente incriminato per un’intervista rilasciata ad una rivista svizzera: racconta del massacro di un milione di armeni e di trentamila curdi in Anatolia negli anni della Prima Guerra Mondiale. Il processo è clamoroso, viene sospeso e una parte dell’opinione pubblica turca comincia ad osteggiarlo. Un sottoprefetto di Isparta ordine di distruggere i suoi romanzi in librerie e biblioteche. Le accuse vengono ritirate l’anno dopo, grazie ad un nuovo codice penale che annulla l’accusa. Nello stesso anno, in ottobre, viene premiato con il Nobel, ma la situazione in patria non migliora. Viene minacciato di morte e dal 2007 vive facendo la spola fra Stati Uniti e Tirchia.
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2011 uscito nel giugno 2012 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DALLO YEMEN RIFUGIATI
2.323
SFOLLATI PRESENTI NELLO YEMEN 347.295 RIFUGIATI ACCOLTI NELLO YEMEN RIFUGIATI
214.740
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI SOMALIA
204.685
I più poveri fra gli arabi
La situazione economica e sociale nello Yemen sta diventando insostenibile. Secondo le organizzazioni internazionali, la crisi finanziaria mondiale sta facendo aumentare il numero dei poveri. I prezzi di cibo e carburante crescono senza tregua. La scarsità d’acqua e i cambiamenti climatici stanno rendendo impossibile il lavoro nei campi e l’instabilità politica provoca frequenti scontri e violenze. Di fatto lo Yemen è il più povero fra i Paesi Arabi e le ricerche dimostrano che sono migliaia le persone che stanno morendo di fame, costrette a cercare cibo nelle discariche di rifiuti, con il rischio di malattie individuali e epidemie. Qualsiasi oggetto trovato nelle discariche viene barattato per procurarsi cibo. La metà dei bambini del Paese soffre di malnutrizione cronica, uno su dieci non raggiunge i cinque anni di età e la scolarizzazione è crollata per l’impossibilità delle famiglie di mantenere a scuola i propri figli.
Resta una polveriera lo Yemen, con apparenti cambiamenti che lasciano intatte le condizioni di conflitto. Nel febbraio del 2012 l’elezione del nuovo Presidente, Abde Rabbo Mansur Hadi, non ha di fatto modificato la situazione. Proteste e scontro armato contro le frange integraliste islmiche e i clan mietono ancora morti. Hadi è un fedelissimo di Saleh, Presidente in carica per 33 anni sino a febbraio 2012: nel giugno el 2011 era stato bersaglio di un attentato durante i giorni di guerra civile con i capi clan suoi oppositori. Ferito, era riparato all’estero e Hadi aveva assunto la presidenza in qualità di “vicario”. A quel punto, perso l’appoggio di Arabia Saudita e Stati Uniti, a Saleh non è rimasto che uscire di scena, accettando la mediazione del Consiglio di Cooperazione del Golfo. Il risultato è l’elezione di Hadi, presentatosi come candidato unico. Una continuità di potere che scontenta tutti i contendenti. Lo scontro si concentra ancora in due aree: nella zona Sud, dove le tradizioni tribali sono forti e si oppongono al Governo centrale e a Nord, con le infiltrazioni dell’estremismo islamico. Le forze armate governative sono affiancate dagli Stati Uniti nella lotta ad al-Qaeda. Nell’ottobre del 2012 una decina di presunti membri dell’organizzione sono rimasti uccisi da attacchi di droni, verosimilmente statunitensi, nel Nord dello Yemen. Negli stessi giorni, nella Regione di Marib, a Est di Sanaa, tre yemeniti sono stati decapitati da al-Qaeda, con l’accusa di “spionaggio” a favore delle autorità del Paese e degli Stati Uniti. In settembre si era diffusa la notizia della eliminazione del vice comandante di al-Qaeda nella Penisola Arabica, Saeed al-
YEMEN
Generalità Nome completo:
Repubblica Unita dello Yemen
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Arabo
Capitale:
San‘a’
Popolazione:
20.975.000 (2005)
Area:
527.970 Kmq
Religioni:
Musulmana
Moneta:
Riyal yemenita
Principali esportazioni:
Petrolio, gas naturale, caffé e cotone
PIL pro capite:
Us 2.410
Shehri. E’ arrivata la smentita. In un messaggio al-Shehri, ha accusato l’Esercito governativo di aver falsificicato la notizia per “coprire il massacro di innocenti civili musulmani a al-Bayda”, nel Sud del Paese, “da parte di un aereo americano”, con ogni probabilità un drone. Una lotta infinita, che ha portato lo sceicco Sadeq al-Ahmar, leader della confederazione tribale Hashid in Yemen, a chiedere alle diverse fazioni del Paese - i musulmani sciiti Hawthi del Nord, i secessionisti armati del Sud e al-Qaeda - di rinunciare alla violenza e aprirsi al dialogo, perché l’alternativa è un conflitto armato permanente.
170
Dal 2000 le ragioni della guerra nello Yemen sono sempre le stesse: la lotta al terrorismo. A questo si aggiungono le tensioni interne – riemerse con forza nel 2011 nel contesto delle proteste popolari in tutto il mondo islamico – fra
Governo centrale e Clan, spesso legati alla tradizione e poco propensi ad accettare cambiamenti nel modo di vivere. Vi è poi il ruolo degli Stati Uniti, militarmente presenti – e non da tutti accettati – proprio per contrastare al-Qaeda.
Per cosa si combatte
Anche se nel 2010 si è celebrato il ventennale dell’unificazione fra il Nord e il Sud del Paese, che sono rimasti separati dal 1967 al 1990, per via dello scontro mondiale fra Stati Uniti ed ex Unione Sovietica, lo Yemen è un’entita statale fragile. La riconciliazione nazionale, in effetti, è ancora lontana: Sanaa e Aden restano separate dai lutti e dagli strascichi della guerra civile, oltre che dalle discriminazioni economiche e sociali di cui il Sud tuttora soffre. Il risultato è che il vento della secessione continua a soffiare, contrastato da una feroce repressione del Governo centrale, che ovviamente finisce per esasperare la situazione. In questo quadro già problematico si inserisce la presenza di al-Qaeda: il suo leader yemenita, Nasir Al Wuhayshi, ha più volte negli anni recenti manifestato il suo appoggio alle istanze secessioniste portate avanti dal Southern Mobilty Movement (Smm); e non va poi dimenticato che l’attuale leader del Smm, Tareq al-Fadhlii, è stato uno dei luogotenenti di bin Laden in Afghanistan. Quanto basta, insomma, per rendere il Sud dello Yemen una polveriera pronta ad esplodere, anche se per ora i dirigenti del Smm lavorano per arrivare ad una “insurrezione civile”, ma disdegnano – almeno a parole – la lotta armata. Un secondo “fronte” è aperto nel Nord, al confine con l’Arabia Saudita, con la minoranza sciita che fa capo al clan degli Al Houti. Si tratta di sciiti della setta zaidita, che non riconoscono alcuna legittimità al Governo centrale del Presidente Saleh, contro il quale sono in guerra aperta dal 2004. Il loro leader, il predicatore Hussein al Houti, è stato ucciso in un raid aereo del dicembre 2009. Secondo l’Onu, il conflitto ha già fatto decine di migliaia di vittime e provocato un flusso di almeno 50mila rifugiati, costretti ad abbandonare le loro case. Le autorità di Sanaa accusano l’Iran di fomentare la rivolta, per spingere al potere la minoranza sciita, che in Yemen rappresenta il 40-45% della popolazione. Certo è che le province del Nord – in particolare quella di Saada – sono off limits per l’esercito di Sanaa e sono saldamente in mano ai ribelli: una secessione di fatto, che ha provocato nel dicembre 2009 l’intervento armato dell’Arabia Saudita, che lamenta l’insicurezza di questa frontiera, troppo permeabile dai miliziani di alQaeda. A questo va sommato il quadro internazionale, con il ruolo degli Stati Uniti. Attaccati da al-Qaeda del 2000, con l’assalto alla portaerei Cole e la morte di 17 marines, gli Usa hanno
raggiunto accordi con il Governo yemenita e ampliato la loro presenza militare, mettendo fine al rapporto ambiguo che l’ex Presidente Saleh ha mantenuto per anni con l’organizzazione. È, ad esempio, provato che le milizie di al-Qaeda sono state utilizzate senza tanti problemi dal Governo yemenita già nella seconda metà degli anni ’90, per contrastare la secessione nelle Province del Sud tentata dai ribelli del “Southern Mobility Movement”. Altrettanto disinvolto è stato però il voltafaccia del Presidente Saleh dopo l’attentato alle Twin Towers dell’11 settembre 2000, quando gli americani scoprirono la consistenza della rete terroristica di bin Laden in terra yemenita. A quel punto che la caccia ai militanti di al-Qaeda diventò anche a Sanaa una priorità nazionale, resa ancora più pressante dal numero cospicuo di kamikaze yemeniti che si sono immolati in Iraq dopo il 2003, per combattere gli americani. Il paradosso è che, con la stessa velocità con cui le carceri di Sanaa si sono riempite di militanti di al-Qaeda, altrettanto velocemente si sono svuotate. Una fuga di massa si verificò ad esempio nel febbraio 2006, quando 23 miliziani di al-Qaeda, tutti di primo piano, evasero. Ed è questo l’inizio di una nuova fase, che vide i jiha-
Quadro generale
Il Corano più antico
Lo Yemen è terra – come tutte – di grande storia. Del 2012 è la notizia che sarebbe stata trovata la prima copia al mondo del Corano. A scoprirla, avvolta in un involucro di cuoio all’interno di una grotta tra le montagne della città di Dhale, nel Sud dello Yemen, un ragazzo. Si tratta di una copia del Corano, in cui, nelle prime pagine, campeggia la scritta “Questa opera è stata realizzata 200 anni dopo l’Egira”, quindi attorno al 815 della nostra era. Dopo aver effettuato i primi esami, gli esperti la giudicano come autentica.
UNHCR/P. Rubio Larrauri
Abde Rabbo Mansur Hadi
(Abyan, settembre 1945)
Sposa per forza a soli 10 anni
Una bambina yemenita, Nejood Ali, ha ottenuto il divorzio dal marito di 30 anni denunciando di essere stata costretta dal padre a sposarsi. E’ stata la stessa Nejood, 10 anni, a raccontare la sua e storia alla tv libanese ‘Lbc’, spiegando che il suo matrimonio risale a 10 mesi fa, quando aveva solo 9 anni. “Mio padre – ha spiegato - mi ha costretto a sposare una persona che non ho visto fino al giorno delle nozze. Poi, avevo paura, ma uno dei miei zii mi ha aiutato a rivolgermi alla giustizia”. Arrivata al tribunale, Nejood ha atteso che finissero le udienze in programma. Poi è stata notata davanti all’ingresso da un giudice al quale ha raccontato la sua storia. Il giudice, d’accordo con la moglie, ha convinto la bambina a trasferirsi nella sua abitazione. Tre giorni dopo il matrimonio di Nejood è stato sciolto. 171
Maresciallo di campo, questo il suo grado nell’esercito, è Presidente dello Yemen dal febbraio del 2012. E’ stato eletto, con il 65%, in una corsa elettorale che lo vedeva come unico partecipante. Nato nel Sud del Paese nel 1945, nel 1966 ha ricevuto istruzione militare in Inghilterra. Nel 1970, altra scuola militare, questa volta in Egitto. La carriera militare è tutta all’interno dell’esercito dello Yemen del Sud, sotto influenza sovietica negli anni delle divisione del Paese. Entra nel Partito Socialista. Poi, con la riunificazione entra nel nuovo staff di Governo. Diventa vicepresidente di Saleh il 3 ottobre del 1994, occupandosi anche del ministero della Difesa. Uomo che lavora all’ombra del capo, lo sostituisce in qualità di vicario nel 2011, quando Saleh deve riparare in Arabia Saudita per curarsi, dopo l’attentato di giugno. Stabilita la necessità di elezioni e di un ricambio, Hadi viene individuato come l’uomo della successione. Lui promette maggiore giustizia sociale e di voler mettere fine ai contrasti con i clan separatisti. Per ora sono solo intenzioni.
UNHCR/B. Bannon UNHCR/L. Chedrawi
disti impiantarsi sempre più saldamente nelle Province del Sud, con rapporti di contiguità se non di alleanza tattica con la guerriglia separatista, che continua a battersi per l’indipendenza. Allo stesso tempo, al-Qaeda nella penisola Arabica non smette di colpire, appena può, il nemico americano e i suoi più stretti alleati: nel 2008 vi furono due attacchi suicidi all’ambasciata Usa cui vanno aggiunti diversi attacchi contro obiettivi “occidentali”. Nell’autunno 2009, inoltre, l’Arabia Saudita ha denunciato l’infiltrazione di elementi legati ad al-Qaeda provenienti dal Nord dello Yemen, a conferma del fatto che la rete del terrore che faceva capo ad Osama bin Laden ha nello Yemen il suo principale caposaldo, con una capacità di azione ad ampio raggio ed una rete di protezioni tribali che sarà difficile smantellare, nonostante l’impegno degli Stati Uniti, che nel corso del 2010 hanno bombardato a più riprese con i loro droni presunte basi di al-Qaeda in Yemen. Sempre
I PROTAGONISTI
nel 2010 c’è da registrare una grande battaglia fra l’esercito yemenita e i miliziani di al-Qaeda, nella città di Loder, nel Sud, con decine di morti da ambo le parti. Tutto cambia nel 2011, con il crollo del Presidente Saleh. Lo scontro con gli oppositori era diventato incandescente. Il 3 giugno un bombardamento di artiglieria semi-distrusse il palazzo presidenziale. Saleh, ferito, riparò in Arabia Saudita, ma al rientro le proteste ricominciarono, portando il bilancio a 700 morti. In un discorso alla tv di stato, il 25 settembre, Saleh promise nuove elezioni a breve, per avviare un processo di transizione dei poteri. Ma la piazza reclamava, armi alla mano, le sue dimissioni immediate. Inoltre voleva processarlo per la repressione feroce e per tutti gli altri crimini commessi nei suoi 33 anni di potere più o meno assoluto. I battaglioni della Guardia Repubblicana, guidati da suo figlio Ahmed, non lo hanno salvato da una contestazione ormai estesa a tutte le tribù e a tutto o il Paese e che gli ha fatto perdere in sei mesi anche l’appoggio dei suoi storici protettori, la Monarchia saudita e il Governo degli Stati Uniti.
Inoltre Birmania/Myanmar “Timidi tentativi di conciliazione e dramma dei profughi sono il volto di un Paese che cerca amici”.
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La Birmania si avvicina al resto del mondo. Dopo la Liberazione del premio Nobel per la pace, Aung San Suu Kyi, che ha suscitato negli analisti di politica internazionale molte perplessità il Paese si muove verso una liberalizzazione dalle restrizioni economiche imposte dal mondo, Stati Uniti in prima linea. Si muovevano da qui le perplessità espresse dopo la liberazione del leader politico che nel 1990 pur vincendo le elezioni, legittimamente, non riuscì mai a governare, poiché costretta dal regime militare a rinunciare alla guida del Paese e alla libertà per oltre 20 anni. Il timore è che i passi in avanti fatti dal Governo legittimo fossero in realtà passetti di facciata realizzati per ammorbidire l’opinione pubblica internazionale (che si è mobilitata per la causa di San Suu Kyi) e spingere la stessa comunità a revocare le sanzioni economiche internazionali che di fatto hanno isolato la Birmania dalla politica economica del mondo, legandola a 4 mani con la Cina che in questo periodo ha fatto grandi affari nei territori birmani. “Movimenti” che non sono nuovi al Paese. Ne sono un esempio le elezioni del 7 novembre 2010 che portarono alla nascita del nuovo Governo con la vittoria del partito dell’Unione della Solidarietà e Sviluppo sostenuto dalla ex giunta militare al potere da più di 50 anni. Il partito filo governativo ottenne l’80% dei consensi ma dalle stesse lezioni vennero esclusi i sostenitori della Lega Nazionale per la Democrazia con la legge-pretesto che non potevano prendere parte alle elezioni coloro macchiati da vari “precedenti” ed escludendo, di fatto, tutti i sostenitori e gli attivisti del partito di San Suu UNHCR/G.M.B.Akash
UNHCR/G.M.B.Akash
Kyi. Ma il 27 settembre 2012 è proprio il Presidente Thein Sein, che intervenendo all’Assemblea generale dell’Onu ha dichiarato che “la principale leader dell’opposizione, Aung San Suu Kyi sta prendendo parte alle attività del Parlamento in quanto Presidente della Commissione sullo Stato di Diritto e la Stabilità. Come cittadino birmano, voglio congratularmi con lei per gli onori che ha ricevuto in questo Paese in riconoscimento dei suoi sforzi per la democrazia. Sta migliorando la legittimità politica del Paese e questo, facilita la creazione di una stabilità politica di base, aprendo la strada alla trasformazione economica e sociale necessaria per migliori standard di vita del popolo”. Un bel riconoscimento per la leader politica ma un bel progresso per la politica birmana anche perché è la prima volta che un leader birmano menziona la Suu Kyi in un discorso all’Onu.Nella stessa occasione, è stato annunciato – dal segretario di Stato Usa Hillary Clinton – un alleggerimento delle sanzioni contro la Birmania. Il processo comincerà imponendo meno restrizioni sulle importazioni negli Usa di merci prodotte in Birmania. Poco prima il Presidente americano Obama aveva annunciato che si andava verso la direzione di una normale ripresa dei rapporti diplomatici tra i due Paesi e della sospensione del divieto agli investimenti degli Stati Uniti nel Paese. “Questa decisione non solo sostiene investitori e imprenditori, ma aiuterà anche i 60milioni di abitanti della Birmania. L’eliminazione del divieto delle importazioni corrisponde alla rimozione di un’enorme barriera e rende più favorevole il clima per investimenti esteri” è il commento soddisfatto di Zaw Htay, direttore dell’ufficio del presidente birmano. Intanto continua il dramma dei profughi. Nell’area di rifugio temporaneo Mae La, il più grande campo per rifugiati birmani tra Thailandia e Birmania (Myanmar) vivono 50mila persone di etnia karen, l’etnia perseguitata dal regime. A loro si aggiungono 150mila sfollati e un milione e mezzo di persone che hanno lasciato il Paese d’origine illegalmente.
Inoltre Corea del Nord-Sud “Un gasdotto voluto dai russi potrebbe ricollegare due mondi separati dall’ideologia”.
le due parti. In poche parole teme di dipendere troppo dallo storico nemico. L’agenzia giornalistica Ansa in data 23 settembre 2012 batte il lancio: “La Corea del Sud e gli Stati Uniti annunceranno a ottobre un accordo per raddoppiare la gittata dei missili balistici di Seul in modo da rafforzare le difese contro la Corea del Nord. Secondo la stampa sudcoreana la portata dei missili passerà da 300 km a 800 km. in modo da coprire tutto il territorio della Corea del Nord. Gli Usa garantiscono alla Corea del Sud un’ombrello nucleare in caso di attacco. In cambio, nel 2001, la Corea del Sud aveva limitato la gittata dei propri missili”. Una battaglia psicologica e di fatto che pare non avere fine. Intanto la Corea del Sud si è aggiudicata le olimpiadi invernali del 2018. Notevole il ritorno sia economico sia di immagine. Sul primo fronte arriveranno 1.53miliardi di dollari dal comitato organizzatore, ai quali si aggiungeranno 6.3miliardi di dollari per la realizzazione di infrastrutture compresa una linea ferroviaria ad alta velocità. Naturalmente questa mossa ha alzato la popolarità di Lee Myung-Bak che nell’ultimo anno aveva alzato le tasse creando malcontento e manifestazioni di piazza. 230mila posti di lavoro verranno assegnati per preparare il Sud allo storico evento sportivo. E per una notizia buona, una cattiva: il rapporto annuale di “Nessuno tocchi Caino” vede la Corea del Nord terza al mondo per numero di esecuzioni capitali.
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Tecnicamente ancora in guerra, dal lontano 1953, quello lungo le due Coree continua ad essere il confine più protetto e militarizzato del mondo. 250 chilometri di mine, armi pesanti, filo spinato e rivelatori di movimento. Dalla fine della Seconda guerra mondiale ciascuna delle due parti rivendica la sua autorità sulla totalità della penisola coreana. Il risultato è uno stato di agitazione perenne tra il Nord (Pyongyang) e il Sud (Seul). Ed è sulla Northern Limin Line (Nll) linea di confine marittima che si consuma l’ennesimo scontro/pretesto lo scorso novembre. Semplificando: il Nord spara una raffica di colpi e il Sud risponde. A breve arriva la risposta del Nord che parla di esercitazioni e di esplosivo per lavori edili. Il Sud si oppone alla versione ufficiale di Pyongyang. Insomma una storia che si ripete sempre uguale a se stessa e che non accenna a risolversi. In questo quadro stagno, però, è accaduto qualcosa che potrebbe aiutare a smuovere le acque. E, come spesso accade, la strada della risoluzione passa attraverso un accordo economico che coinvolge parti importanti dello scacchiere, economico e politico, internazionale. Il 24 agosto 2011, in Siberia, il Presidente russo Dimitri Medvedev ha incontrato il leader della Corea del Nord Kim Jong-il per discutere della possibilità di costruire un gasdotto che colleghi la Russia con la Corea del Sud, passando per il Nord del Paese. Si tratterebbe di un’infrastruttura di 1100 chilometri, 10 miliardi di metri cubi di gas all’anno. Quantitativi allettanti ma che non riescono, da soli, a far chiudere gli occhi su alcune questioni lasciate in sospeso. In primo luogo la situazione di stallo che dal 2008 versa tra Corea del Nord e resto del mondo rispetto ai test nucleari in atto nel Paese. In cambio di questo affare, infatti, Kim Jong-il sarebbe disposto a discutere la sospensione del programma nucleare e a mettersi al tavolo delle trattative con le grandi sei: Usa, Russia, Cina, Giappone e le due Coree. Ma Seul teme che il leader possa chiudere i rubinetti a suo piacimento in caso di tensione tra
Inoltre Iran “La questione nucleare alimenta il conflitto con il resto del mondo”.
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Due fatti: il 28 settembre 2012, Benyamin Netanyahu, premier israeliano dichiara: “Il mondo con un Iran nucleare sarebbe in pericolo come davanti ad un al-Qaeda nucleare. Bisogna convincere il regime iraniano a smantellare del tutto il suo programma di armamento nucleare”. Netanyahu ha continuato dicendosi “totalmente d’accordo” con Barack Obama, che ha affermato che “un Iran con l’arma nucleare non è una sfida che può essere contenuta”. Gli Usa, quindi, faranno quel “che devono” per fermarli. “Israele sta discutendo la questione con gli Stati Uniti e sono fiducioso che potremo tracciare un percorso per proseguire insieme”, ha terminato il premier israeliano. Il 31 agosto 2012, intanto, la prima centrale nucleare iraniana costruita a Bushehr dalla Russia è entrata a regime produttivo. “Il primo blocco energetico della centrale nucleare di Bushehr ha raggiunto il 100% della sua capacità” ha dichiarato in un comunicato la filiale dell’azienda russa Atomstroiexport. Bushehr è il sito simbolo dell’accesso al nucleare di Teheran (inaugurato nell’agosto del 2010). Sono questi due fatti simbolo di quella che è, di fatto, l’unica politica e il primo pensiero dell’Iran: il nucleare, il suo sviluppo, il suo utilizzo e la minaccia di rivoltarlo contro il mondo. Ancora di più adesso che, negli ultimi due anni, si sono spente le luci sull’Ondaverde e la rivoluzione culturale dei giovani e delle donne iraniane. Se è vero che il 2009/2010 è stato l’anno della rivoluzione di piazza, delle ribellioni, della richiesta a gran voce dei diritti civili; è altrettanto vero che dopo la “primavera” del febbraio 2010 qualcosa si è spento. È il movimento ad essersi spento. Niente più: “ci riprenderemo la Fabio Bucciarelli
Fabio Bucciarelli
piazza”. Niente più: “puniremo coloro che hanno tradito la rivoluzione”. Rimane lui: l’affaire dell’armamento nucleare dell’Iran che si prende, ancora una volta la scena. Da una parte c’è chi crede nelle buone intenzioni del Paese dall’altro chi teme nella pericolosità e nella possibilità che lo stesso si stia armando con una bomba nucleare. Nel gennaio 2011 si interrompono le trattative sul nucleare, con l’Iran che insiste sul suo diritto di sviluppare proprie tecnologie nucleari. Principali nemici: Israele e Stati Uniti. Il punto di tensione più alto si è raggiunto in giugno 2011 quando il Paese guidato da Mahmoud Ahmadinejad ha dichiarato di voler triplicare la sua capacità di arricchimento dell’uranio sino ad arrivare alla quota del 20%. Una dichiarazione che ha, non solo preoccupato la comunità internazionale, ma fatto pensare che, in realtà, le intenzioni dell’Iran fossero quelle di arrivare a quota 90%, diventando così in grado di costruire una bomba atomica. Dall’altra parte l’Iran rispondeva alle accuse dicendo che le loro tecnologie nucleari sarebbero state applicate nel campo medico. Nella preoccupazione generale, intorno al 20 agosto 2011 si è consumata un’altra pagina di questa storia infinita. Fereydun Abbassi Davan, capo del programma nucleare iraniano, ha dichiarato di voler trasportare i macchinari dell’arricchimento dell’uranio da Natanz (complesso nucleare) ad un bunker sotterraneo nella città di Qom. La tensione sale nel dicembre 2011, quando l’ingegnere nucleare Mostafa Ahmadi Roshan, 32 anni, resta ucciso dall’esplosione di una bomba piazzata nella sua auto. Ahmadi Roshan lavorava alla centrale nucleare di Natanz. Un nuovo incidente per fisici, chimici o tecnici coinvolti nel progetto che negli ultimi anni sono spariti in circostanze sospette. Hassan Hanizadeh, analista iraniano in merito all’incidente ha dichiarato: “Israele cercherebbe in effetti, con questi attentati, di bloccare le attività nucleari in Iran. Teheran ha le prove, che darà alle Nazioni Unite, secondo cui è Israele che crea problemi di sicurezza in Iran seminando il terrore”.
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Medio Oriente
Francesco Cavalli
A cura di Amnesty International
Sgomberi e profughi i diritti umani sono lontani Nell’unico Paese in cui le rivolte del 2011 hanno provocato un cambio di Governo, lo Yemen, la situazione dei diritti umani resta precaria. Sulla futura, possibile, ricerca della verità e della giustizia per le violazioni commesse durante le proteste e nei decenni precedenti, pesa l’impunità garantita all’ex Presidente Saleh in cambio dell’abbandono del potere. In tutto il resto della Regione, le proteste continuano a essere represse da Governi disposti a violare i diritti umani senza timore di conseguenze. In Arabia Saudita, Oman, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti, arresti arbitrari, detenzioni senza processo e condanne a lunghe pene detentive al termine di processi iniqui hanno colpito sia manifestanti che intellettuali, giornalisti ed esponenti politici promotori di manifesti di riforma. La campagna per il diritto delle donne saudite a guidare sole prosegue, con una grande solidarietà internazionale. In Siria, a fronte di una repressione spietata che ha raggiunto la dimensione di crimini contro l’umanità da parte delle forze governative,
la rivolta inizialmente pacifica si è trasformata in insurrezione armata e la “primavera araba di Damasco” in un sanguinoso conflitto armato interno, nel quale anche l’opposizione si rende responsabile, seppur in scala assai minore, di crimini di guerra. I numerosi servizi segreti del Governo siriano si sono resi responsabili di centinaia di casi mortali di torture. Da marzo 2011, 250mila persone sono fuggite dalla Siria verso Giordania, Libano, Iraq e Turchia. I ritardi nelle procedure di registrazione lungo il confine con la Turchia hanno costretto migliaia di persone a vagare nelle zone di confine senza acqua e cibo sufficienti, mentre centinaia di altre persone sono rimaste bloccate al confine con l’Iraq, per la chiusura di alcuni posti di frontiera. In Bahrain, le manifestazioni vengono duramente represse; secondo l’organizzazione non governativa Phisycians for human rights, nei 100 anni di storia dell’uso dei gas lacrimogeni, nessun Paese ha attaccato così continuativamente il suo popolo con questi agenti chimici tossici. Le riforme promesse dalla famiglia reale si dimostrano sempre di più come provvedimenti di mera facciata. I processi in appello e in Corte di cassazione nei confronti di difensori dei diritti umani, giornalisti, operatori sanitari, insegnanti hanno confermato dure condanne, anche all’ergastolo. Nei Territori palestinesi occupati, la costruzione degli insediamenti (illegali, secondo il diritto internazionale) e asserite necessità militari da parte dell’esercito israeliano hanno causato un aumento degli sgomberi di civili palestinesi a seguito delle demolizioni di case e di altre strutture civili: dal 2009 al 2012, la media mensile di demolizioni è cresciuta da 23 a 64, quella delle persone sgomberate è passata da 52 a 103. Nel 2012, una campagna di scioperi della fame dei prigionieri palestinesi ha messo in evidenza l’arbitrarietà dell’istituto della detenzione amministrativa, secondo le cui procedure i palestinesi sospettati di costituire una minaccia per la sicurezza israeliana sono sottoposti a periodi di carcere, senza formalizzazione d’accusa e senza processo, sulla base di prove indisponibili per gli avvocati difensori e con la possibilità di rinnovi a tempo indeterminato. I negoziati che hanno posto termine a quasi tutti gli scioperi della fame, che in alcuni casi hanno condotto in punto di morte i promotori, hanno favorito alcuni rilasci, ma al contempo sono stati emessi nuovi ordini di detenzione amministrativa. La pena capitale continua a essere applicata in modo massiccio in Iran, Iraq e Arabia Saudita, dove nei primi 10 mesi del 2012 sono state eseguite rispettivamente oltre 350, oltre 100 e
oltre 70 condanne a morte, spesso al termine di processi sommari nel corso dei quali sono state utilizzate “confessioni� estorte con la tortura. In Iran, la repressione contro il dissenso pacifico continua a colpire donne e uomini colpevoli unicamente di aver scritto e reso pubbliche opinioni critiche, di aver promosso campagne per i diritti umani o aver difeso prigionieri politici. Nel corso del 2012, diversi prigionieri di coscienza sono entrati in carcere a seguito della conferma in appello delle loro condanne per motivi di opinione.
Il mondo di Kako di Flora Graiff A pesca con la canna...del fucile
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2011 uscito nel giugno 2012 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DALLA PALESTINA* RIFUGIATI
94.150
PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI EGITTO
70.029
IRAQ
11.549
*4,8 milioni di rifugiati e sfollati palestinesi rientrano nel mandato dell’UNRWA e non vengono pertanto considerati in questa tabella. RIFUGIATI ORIGINATI DA ISRAELE RIFUGIATI
1.335
RIFUGIATI ACCOLTI IN ISRAELE RIFUGIATI
41.235
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI ERITREA
31.119
SUDAN
9.000
Il nodo del lavoro
Le proteste sociali che hanno scosso Israele nel 2011 hanno fatto emergere la difficile situazione interna. Secondo i dati dell’Adva centre, “Israele è un classico esempio di Paese in cui i dati macroeconomici sono buoni ma i livelli di povertà e di disugualianza interna tra i più alti dei Paesi Ocse”. L’Undp fissa il livello di disoccupazione nei Territori palestinesi al 22,8%, con il 34,5% della popolazione che vive sotto la soglia di povertà. A Gaza la situazione è ancora più drammatica. Alcune organizzazioni, come l’israeliana Kav La Oved, tentano un approccio complessivo al problema: si occupano dei diritti dei lavoratori israeliani ebrei sottopagati, di quelli dei lavoratori israeliani palestinesi, spesso sfruttati, dei lavoratori palestinesi che entrano illegalmente in Israele e dei migranti africani o asiatici che arrivano in Israele. Non senza ricordare il legame diretto tra il costo dell’occupazione dei territori palestinesi e le politiche economiche di riduzione del welfare adottate dai governi israeliani degli ultimi anni.
Il 2012 si è chiuso ancora una volta tragicamente nella Striscia di Gaza: il 14 novembre il Governo israeliano ha compiuto un “assassinio mirato”, uccidendo il capo dell’ala militare di Hamas, Ahmed Jabari. Per i successivi sette giorni, le forze aeree israeliane hanno bersagliato obiettivi considerati militari nella Striscia mentre Hamas e altri gruppi palestinesi hanno lanciato centinaia di razzi sul Sud di Israele e per la prima volta anche su Tel Aviv. Il bilancio finale dell’Operazione Pilastro di Difesa è stato di 158 palestinesi uccisi (cifre dell’Onu), tra cui 103 civili, di cui 30 bambini e 13 donne. Dal lato israeliano, quattro civili e due soldati sono stati uccisi, i feriti sono stati 252. I feriti palestinesi sono stati oltre 1200, di cui più di un terzo bambini. Bisogna aggiungere almeno 8 presunti collaborazionisti palestinesi uccisi dai servizi di intelligence di Hamas. Dalla Striscia sono stati lanciati 1456 razzi (cifre Onu) contro obiettivi israeliani. Poco più di 400 sono stati intercettati e distrutti da Iron Dome, il sistema israeliano di difesa antimissile. Il 21 novembre 20 civili israeliani sono stati feriti dall’esplosione di una bomba su un autobus a Tel Aviv. Le elezioni politiche israeliane sono state fissate per il 22 gennaio 2013. L’anniversario della richiesta palestinese di ammissione all’Onu, il 20 settembre, aveva segnato un anno caratterizzato dallo stallo politico tra Israele e Autorità Nazionale Palestinese. A novembre 2011 la Palestina è stata comunque ammessa all’Unesco. A luglio del 2012, il Coordinatore Onu per il Processo di pace in Medio Oriente, Robert Serry, nel suo rapporto al Consiglio di sicurezza, ha sottolineato la “tendenza negativa” del quadro generale: il perdurante blocco della Striscia di Gaza, la fragilità finanziaria dell’Anp e la politica israeliana di espansione e consolidamento degli insediamenti colonici in Cisgiordania minano “in modo consistente” il processo di pace. All’inizio del Generalità Nome completo:
Stato di Israele
ISRAELE PALESTINA
Generalità Nome completo: Bandiera
Lingue principali:
Arabo
Capitale:
Ramallah
Popolazione:
4.150.000 (2007)
Area:
Dato non disponibile
Religioni:
Musulmana, cattolica
Moneta:
Sterlina egiziana, nuovo siclo israeliano, dinaro giordano
Principali esportazioni:
n.d.
PIL pro capite:
Cisgiordania Us 1.500 Striscia di Gaza Us 670
Bandiera
Lingue principali:
Ebraico e Arabo
Capitale:
Tel Aviv
Popolazione:
7.240.000
Area:
22.072 Kmq
Religioni:
Ebraica (75,6%), musulmana (16,6%), cristiana (1,6%), drusa (1,6%), non classificati (3.9%)
Moneta:
Nuovo Shekel
Principali esportazioni:
Prodotti high tech, diamanti, prodotti agricoli
PIL pro capite:
Us 27.300
Autorità Nazionale Palestinese
179
Situazione attuale e ultimi sviluppi
2012 c’era stato un momento di speranza per la visita del segretario generale dell’Onu Ban Ki Moon nella Regione. E nella primavera, uno scambio di corrispondenza tra il primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il Presidente palestinese Mahmoud Abbas aveva lasciato intravedere una possibile ripresa dei colloqui diretti tra le parti, fallita a causa dello scoglio rappresentato dalla politica del Governo israeliano sulle colonie, illegali per la legge internazionale, che continuano a erodere terra palestinese in Cisgiordania e a Gerusalemme Est.
180
Due popoli e due Stati: rimane questa la soluzione al conflitto israelo-palestinese perseguita dalle diplomazie internazionali. Da parte palestinese si chiede il ritiro delle truppe israeliane dai territori occupati nella “Guerra dei Sei giorni” del 1967 (compresa Gerusalemme Est, indicata come capitale del futuro Stato palestinese) e il diritto al ritorno per i profughi del ’48. Precondizione per ogni trattativa è anche lo stop alla costruzione di colonie, illegali se-
condo il diritto internazionale e che con la loro espansione minano la continuità territoriale e il controllo delle risorse naturali del futuro stato. Da parte israeliana, ufficialmente si rivendica il diritto alla propria “sicurezza”, ma di fatto sembra che ancora si perseguano gli obiettivi “massimi” del 1948, ovvero la realizzazione in Palestina di uno stato ebraico esteso dal fiume Giordano al mar Mediterraneo.
Per cosa si combatte
Il conflitto israelo-palestinese dura da oltre 60 anni. Momento spartiacque è la fine del mandato britannico, al termine della seconda guerra mondiale. È allora, con il ricordo ancora vivo della Shoah nazista nell’opinione pubblica internazionale, che hanno successo gli sforzi del movimento sionista, nato alla fine dell’Ottocento su iniziativa di Theodor Herzl per dare una patria agli ebrei. Il 29 novembre 1947 una risoluzione dell’Onu accoglie le rivendicazioni del popolo ebraico, assegnandogli il 73% del territorio dell’ex mandato britannico. La decisione viene respinta dai palestinesi e dai Paesi arabi. Egitto, Siria, Transgiordania, Libano e Iraq attaccano il nascente Stato, che però vince la guerra, ampliando il territorio sotto il suo controllo verso la Galilea a Nord e verso il Negev a Sud. Il 14 maggio 1948 nasce ufficialmente lo Stato d’Israele con la “Dichiarazione d’indipendenza” firmata dal primo Ministro David BenGurion. Per i palestinesi si tratta della Nakba (catastrofe): in centinaia di migliaia vengono cacciati dalle proprie case o fuggono, cercando riparo in altri Paesi vicini. Nel 1956, dopo la nazionalizzazione da parte del Cairo del canale di Suez, Israele attacca l’Egitto conquistando Gaza e il Sinai (da cui poi sarà costretto a ritirarsi). Nel maggio del 1967 il Presidente egiziano Gamal Abd el-Nasser, stringe con la Giordania un patto di difesa, che getta le basi per un attacco allo Stato d’Israele. La reazione di Tel Aviv è immediata: nel giugno del 1967 Israele attacca l’Egitto, poi la Giordania e la Siria. È la ‘Guerra dei Sei giorni’, che segna la dura sconfitta degli arabi, e l’occupazione israeliana di Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme Est, alture
del Golan (tutt’oggi sotto controllo israeliano) e Sinai (restituito all’Egitto nel 1979). In seguito ci saranno altre guerre: nel 1973 la guerra dello Yom Kippur contro Egitto e Siria e nell’83 con il Libano. È con la “Guerra dei Sei giorni” che la questione israelo-palestinese entra nell’impasse attuale. Nonostante le pressioni internazionali e le numerose risoluzioni dell’Onu, infatti, Israele non si è ancora ritirata dai Territori occupati, e ha cominciato una lenta e costante campagna di colonizzazione che prosegue tutt’ora. Nel 1987 lo stallo nel conflitto dà origine a una sollevazione popolare contro l’occupazione israeliana, nota coma Intifada (“rivolta”), che inizia nel campo profughi di Jabaliyya ma si estende presto a Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est. La rivolta dura sei anni, durante i quali i palestinesi manifestano e protestano con ogni mezzo, dalla disobbedienza civile agli scioperi generali, fino al lancio di pietre contro i militari. La guerriglia si interrompe grazie agli Accordi di Oslo del 1993, con la stretta di mano tra il primo Ministro israeliano Itzhak Rabin, e Yasser Arafat, storico leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp). Quest’ultimo, a nome del popolo palestinese, riconosce lo Stato di Israele e a sua volta Tel Aviv riconosce l’Olp come rappresentante del popolo palestinese (ruolo che dal 1995 spetterà all’Anp, l’Autorità Nazionale Palestinese). Gli accordi di Oslo si riveleranno però fallimentari e la tensione tornerà alta il 28 settembre del 2000, quando l’allora capo dell’opposizione politica israeliana Ariel Sharon fa una provocatoria passeggiata, con mille uomini armati, sulla Spianata delle Moschee di Gerusalemme. Un gesto simbolico,
Quadro generale
Francesco Cavalli
I diritti meno difesi
Nessuno ne parla volentieri: né i diretti interessati, né chi cerca di aiutarli. Nel quadro drammatico delle violazioni dei diritti umani consumate nel conflitto israelo-palestinese, le vittime più isolate e disperate sono quelle della comunità Glbt palestinese, in particolare gli uomini gay. Nonostante la Basic Law dell’Anp garantisca l’uguaglianza dei cittadini a prescindere dalle condizioni personali, compreso l’orientamento sessuale, l’argomento dei diritti dei gay è sostanzialmente tabù nella società palestinese. A Gaza rimane in vigore l’Ordinanza penale n.74, emanata dalle autorità mandatarie britanniche nel 1936 che considera reato gli atti sessuali tra uomini. Ci sono stati casi di gay palestinesi fuggiti in Israele per cercare rifugio nella comunità Glbt di Tel Aviv. In Israele, nonostante una facciata gay-friendly, le coppie omosessuali etnicamente miste, affrontano enormi difficoltà, come racconta una pellicola del 2007, Ha-Buah (La bolla).
Francesco Cavalli
Rachel Corrie
Francesco Cavalli
(10 Aprile 1979 – 16 Marzo 2003)
Jerusalem Peacemakers
I fondatori si chiamano Menachem Froman e Ibrahim Abu El-Hawa. Il primo è il rabbino della comunità di Tekoa, a Sud di Gerusalemme, ed è stato anche rabbino capo della Knesset, il parlamento israeliano. Il secondo viene da una famiglia araba, che vive a Gerusalemme dai tempi del Califfato Omayyade e sul Monte degli ulivi ha una casa-ostello, dove ogni viaggiatore, a prescindere dalla sua fede o nazionalità, è benvenuto. Menachem e Ibrahim, assieme, cercano di promuovere un dialogo di pace e riconciliazione a partire da Gerusalemme, basato sul ruolo della religione come forza pacificatrice. Le loro iniziative sono simboliche, come l’Abbraccio di Gerusalemme, che ogni anno, dal 2007, porta centinaia di persone, di fedi e provenienze diverse, a stringersi, letteralmente, attorno alle mura della Città Vecchia. Ma ci sono anche iniziative concrete, come gli accordi che Froman ha più volte mediato tra il Governo israeliano e le Autorità palestinesi, sia della Cisgiordania che della Striscia Gaza.
compiuto in uno dei luoghi più sacri per i musulmani, con cui si rivendicava Gerusalemme come capitale “indivisa” di Israele. È l’inizio della “Seconda Intifada”. Dalla Striscia di Gaza, l’anno successivo, comincia il lancio dei razzi ‘Qassam’ contro Israele. Azione questa che nel corso degli anni porterà Israele ad intervenire più volte nella Striscia al fine di “indebolire la resistenza palestinese”. Con la motivazione di difendersi dagli attentati suicidi palestinesi, Israele nel 2002 prende la decisione di costruire una “barriera di sicurezza” in Cisgiordania, che di fatto sottrae ulteriori territori ai palestinesi, grazie a un tracciato che non segue la linea Linea verde del 1967 ma entra profondamente in Cisgiordania e circonda alcune delle più popolose colonie, diventate nel frattempo piccole città. La struttura, ribattezzata “muro dell’apartheid”, viene condannata anche dalla Corte internazionale di giustizia. Nel frattempo si rafforzano le tensioni anche nel fronte palestinese, alimentate dalla vittoria di Hamas alle elezioni politiche del gennaio 2006. Gli scontri
I PROTAGONISTI
armati tra le due principali fazioni palestinesi raggiungono il culmine nel giugno 2007 a Gaza, quando si rischia una vera e propria guerra civile. Hamas ha la meglio, dando vita così a una separazione di fatto dei territori palestinesi, con la Striscia di Gaza controllata dal movimento islamico e la Cisgiordania governata da Fatah, che controlla l’Anp. Sempre nel giugno 2007, con lo scopo dichiarato di contrastare Hamas, Egitto e Israele impongono un blocco economico su Gaza, che dura tuttora, solo parzialmente attenuato. Al termine del 2008 Tel Aviv avvia anche una campagna militare contro la Striscia, durata 17 giorni e nota come “Operazione Piombo fuso”. Il bilancio finale dei raid israeliani di 1305 morti palestinesi e di 5450 feriti. Diverse organizzazioni non governative hanno tentato di rompere simbolicamente l’assedio. La spedizione più nota è quella della “Freedom Flotilla”, nel maggio 2010, attaccata dalla marina israeliana e conclusa con la morte di nove attivisti turchi. A giugno 2011 una nuova Freedom Flotilla, intitolata all’attivista italiano Vittorio Arrigoni, è stata efficacemente bloccata nei porti greci dalle pressioni del Governo israeliano e dai sabotaggi presumibilmente condotti dalla sua intelligence.
181
Il 27 agosto 2012 il giudice Oded Gershon della corte distrettuale di Haifa ha concluso il processo per la morte dell’attivista statunitense Rachel Corrie, attivista dell’International Solidarity Movement, uccisa da un bulldozer dell’esercito israeliano il 16 marzo del 2003 a Rafah, nella Striscia di Gaza, mentre si opponeva alla demolizione di case palestinesi. La sentenza ha scatenato indignate reazioni internazionali perché ha pienamente assolto l’esercito israeliano da qualsiasi responsabilità. Secondo il giudice infatti chi guidava il bulldozer non sarebbe stato in grado di vedere l’attivista che cercava di bloccare il mezzo e Corrie “si è messa da sola in una situazione pericolosa”. La sua morte, stando alla sentenza, è stata “il risultato di un incidente che lei stessa ha attirato su di sé” per non essersi allontanata da una situazione di pericolo “come ogni persona di buonsenso”. La versione ufficiale israeliana, sostanzialmente adottata dal giudice, è stata smentita in aula dai testimoni dell’evento che hanno raccontato che Rachel si trovava su un mucchio di terra, all’altezza della cabina di guida del bulldozer, che però non ha fermato la sua corsa quando l’attivista è caduta. La famiglia Corrie sta valutando un ricorso alla Corte suprema israeliana contro la sentenza.
182
Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2011 uscito nel giugno 2012 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DAL LIBANO RIFUGIATI
15.013
PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI GERMANIA
11.697
RIFUGIATI ACCOLTI NEL LIBANO RIFUGIATI
8.990
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI IRAQ
8.491
L’economia regge
Nella sua lunga storia, fin dai Fenici, lo spirito imprenditoriale libanese ha resistito e rialzato il Paese dopo guerre o tensioni sociali. Per non andare troppo lontano nel tempo, possiamo vedere come nel 2009, dopo l’operazione Piombo fuso perpetrata da Israele, l’economia libanese non è affatto crollata, registrando a fine anno una crescita del Pil dell’ 8,5%. In periodo di crisi globale, dati del genere fanno capire le potenzialità ed il dinamismo economico di questo Paese. Purtroppo però ancora una volta Beirut deve fare i conti con l’instabilità dell’area. La Siria in primis e le tensioni interne dello stesso Paese dei Cedri, sembrano aver frenato questa spinta economica. A fine 2011 il Pil del Paese si è attestato intorno all’1,5% e per quest’anno non supererà, secondo gli analisti, il 3%. A trainare l’economia del Paese sono turismo, banche ed edilizia…tutte instabili vista la situazione dell’area. Vedremo se ancora una volta il Libano sarà capace di reagire e rialzarsi. UNHCR/A.Branthwaite
La situazione di stallo che si prolungava da anni in Libano, sembra esser giunta inevitabilmente ad una svolta. Indirettamente, gli effetti della primavera araba sembrano scuotere sempre più il precario equilibrio interno del Paese dei Cedri. La situazione: Beirut assiste alla guerra civile siriana, che usa come campo di battaglia anche il suolo libanese. Il Presidente Bashar Assad, un tempo forte del supporto dei filosiriani presenti in Libano (Hezbollah in primis) vacilla sempre più anche sotto le minacce di un intervento militare capeggiato dagli Usa. Quali gli effetti all’interno del Libano? Senza dubbio effetti preoccupanti. Da una parte il susseguirsi, l’estate scorsa, di rapimenti che hanno coinvolto filo ed anti siriani riportando alla memoria il periodo cupo della guerra civile. Dall’altra gli attentati, come quello dell’ottobre scorso, nel quale sono morte otto persone con decine di feriti. L’obiettivo, il capo del Servizio Informazioni della Polizia, Wissam al Hasan, per molti un anti-siriano vicino agli oppositori di Assad. In ultimo, ma solo cronologicamente, le proteste di piazza di giovani libanesi che chiedono le dimissioni del Governo. Una bomba innescata alla quale però il Governo libanese tutto, Hezbollah compreso, sembra voler porre rimedio. La priorità, ora, è quella di difendere fisicamente e politicamente il Paese. Fisicamente, con l’assembramento delle truppe libanesi sul confine siriano, impedendo il susseguirsi di sconfinamenti da parte delle forze aeree e di terra siriane. Politicamente, cominciando un lento e lucido allontanamento dalla sfera di controllo di Damasco. Quello di spostare le truppe al confine è sicuramente un gesto molto forte preceduto, per la prima volta dopo decenni, da una protesta ufficiale di Beirut contro la Siria per le ripetute violazioni della sua sovranità da parte delle forze di sicurezza e dell’esercito di Damasco. Un distacco dunque, anche se graduale, al quale sembra voler partecipare lo stesso Partito di Dio, il quale si rende perfettamente conto del rischio che corre nell’appoggiare il Presidente siriano, forse prossimo a lasciare. La priorità resta dunque salvaguardare da una guerra civile il Libano e, a quanto pare, tutte le forze interne al Paese dei Cedri sembrano aderire. Nel frattempo, perché il peri-
LIBANO
Generalità Nome completo:
Repubblica Libanese
Bandiera
183
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Arabo, francese
Capitale:
Beirut
Popolazione:
4.000.000
Area:
10.452 Kmq
Religioni:
Musulmana (sunnita, sciita), cristiana
Moneta:
Lira libanese
Principali esportazioni:
Gioielli, apparecchiature elettriche, prodotti metallurgici, chimici, alimentari
PIL pro capite:
Us 6.681
colo persiste, Israele sembra aver congelato le sue brame espansionistiche nel Sud del Libano. Naturalmente la situazione precaria dell’intera area potrebbe innescare reazioni che la stessa Tel Aviv potrebbe non gestire. Ostacolare in qualunque modo i venti di cambiamento di tutto il mondo arabo infatti, può infiammare e favorire l’anima più integralista a discapito della maggior realtà democratica (il film su Maometto è un esempio chiaro di come qualunque provocazione si trasformi in tragedia).
quest’ultime sia il Sud del Libano custodiscono un elemento fondamentale per la sopravvivenza e la stabilità di Israele: l’acqua. Sulle Alture del Golan si trova la sorgente del fiume Giordano mentre nel Sud del Libano scorre il fiume Litani. Due risorse idriche che in un territorio come quello del Vicino Oriente risultano sicuramente strategiche. Se nelle parole possiamo trovare il significato delle cose, l’operazione “Litani” del 1978 aveva un obiettivo ben preciso. Ma il problema principale è che purtroppo il Libano subisce da decenni lo scontro tra potenze più grandi di lui: da una parte la Siria e l’Iran, che trovano, un po’ meno oggi, in Hezbollah alleati interni al Paese dei Cedri pronti a combattere Tel Aviv, dall’altra Israele diviso tra le sue esigenze di approvvigionamento idrico e le sue necessità di difendere i propri confini.
184
Gli occhi del mondo sono puntati sulla Siria e sul mondo arabo in rivolta. In questo contesto, come precedentemente detto, il Libano si colloca appieno cercando di contenere l’onda d’urto della rivolta siriana che si potrebbe trasformare in una guerra civile interna allo stesso Paese dei Cedri. Ma, benché momentaneamente lontana dai riflettori, la situazione tra Israele e Libano è tutt’altro che risolta. Le tensioni tra i due Paesi rimangono alte a causa della contrapposizione tra Israele e il movimento sciita degli Hezbollah, che ha stabilito nel Sud del Paese le sue basi operative. Secondo Israele è l’Iran, che non ha mai riconosciuto l’esistenza dello Stato israeliano, a sostenere economicamente il movimento di Hezbollah fiancheggiato anche dal Governo siriano, in conflitto con Israele per la sovranità sulle Alture del Golan. In realtà sia
Per cosa si combatte
30 anni fa, Sabra e Chatila
Era il 16 settembre del 1982, il Libano stava subendo l’ennesima invasione israeliana, denominata “Pace in Galilea”. I soldati con la stella di David comandati dall’allora generale Ariel Sharon avevano circondato ed isolato i campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila, alla periferia di Beirut, mettendo posti di osservazione e cecchini sui tetti degli edifici vicini. Niente poteva entrare ed uscire senza che gli israeliani lo volessero. Israele pensò bene di far entrare le milizie cristiano-falangiste le quali massacrarono migliaia di donne e bambini indifesi. Un orrore senza fine, una carneficina tra le più barbare che la nostra storia recente possa ricordare. Esaustive le parole di Sandro Pertini: “Ho visto i cimiteri di Sabra e Chatila. È una cosa che angoscia vedere dove sono sepolte le vittime di quell’orrendo massacro. Il responsabile è ancora al Governo in Israele. E quasi va baldanzoso di quanto compiuto. È un responsabile cui dovrebbe essere dato il bando dalla società”.
UNHCR/A.Branthwaite
Con la dissoluzione dell’Impero Ottomano, la Società delle Nazioni affidò alla Francia il controllo della Grande Siria, incluse le cinque Provincie che oggi formano il Libano. La Conferenza di Sanremo, dell’aprile del 1920, ne definirà i compiti ed i limiti. Benché la ratifica di questo passaggio di consegna avverrà solo tre anni dopo, già nel 1920 la Francia dichiarò lo Stato del Grande Libano indipendente. Uno Stato composto da vari enclave etnici: uno in Siria con una grande comunità in maggioranza cristiano maronita e l’altro a maggioranza musulmana e drusa con capitale Beirut. Solo 6 anni dopo il Libano diventerà una Repubblica, definitivamente separata dalla Siria, anche se ancora sotto il comune mandato francese. Nel 1943 il Governo libanese abolirà il mandato francese dichiarando la propria indipendenza. Bisognerà aspettare la fine della seconda guerra mondiale per assistere al ritiro definitivo delle truppe francesi dal nuovo Stato indipen-
dente. Nel 1948, dopo la risoluzione dell’Onu 181 con la quale si “ripartiva” il territorio palestinese in seguito alla nascita dello Stato ebraico, anche il Libano aderì alla guerra della Lega Araba contro Israele non invadendo però mai il neonato Stato. Dopo la sconfitta araba, Israele e Libano stipularono un armistizio ma, a tutt’oggi, mai un trattato di pace. Conseguenza di questa guerra, furono 100mila profughi palestinesi ai quali se ne aggiunsero altri dopo il conflitto arabo-israeliano del 1967. Profughi che decenni più tardi saranno la causa, secondo il Governo israeliano, di due invasione del Libano da parte dell’esercito di Tel Aviv. La prima nel 1978, denominata “operazione Litani”, volta a stroncare, secondo Israele, le attività dell’Olp lungo il confine. La seconda, sempre per lo stesso motivo ed iniziata il 6 giugno del 1982, è l’operazione “Pace in Galilea”. In realtà, quest’ultima, che si può chiamare prima guerra israelo-libanese, arrivò fino a Beirut dove aveva sede l’Olp (Or-
Quadro generale
Michel Suleiman (21 Novembre 1948)
Campi profughi palestinesi in Libano
Oltre alle tensioni esterne, Beirut non può permettersi di tralasciare un altro elemento: quello dei campi profughi palestinesi in Libano. Raggiungendo il numero di 5milioni, tutti i profughi palestinesi, sparsi in vari Paesi, rappresentano quasi un quinto del totale delle popolazioni profughe riconosciute nel mondo e quindi costituisce il più grande problema di profughi non risolto in questo secolo. Le cifre e le condizioni sono monitorate dalla Croce Rossa e dall’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi. I dati che ne scaturiscono fanno capire la sempre più crescente difficoltà in questi campi. In mezzo secolo, sono quasi 500mila i profughi oggi registrati in Libano (il 53% continua a vivere nei campi), per non contare i non registrati. I servizi e le possibilità all’interno della società civile libanese sono pressoché preclusi ai palestinesi ormai puri emarginati che negli ultimi anni hanno cominciato a condividere i campi con profughi provenienti dalle Filippine e dal Bangladesh (5-10%), gente che lavora in nero per poche lire e solo qui trova rifugio. 185
Michel Suleiman (spesso scritto: Michel Sleimane), attuale presidente libanese, è il dodicesimo Presidente dall’indipendenza nel 1943 e il terzo dopo la fine della guerra civile nel 1990. È anche il terzo militare ad aver assunto la carica dopo Fouad Chebab negli anni Sessanta, ed Emile Lahoud. La sua nomina, avvenuta nel 2008, giunse dopo un difficile accordo raggiunto tra le varie fazioni politiche. Cristiano maronita, militare di carriera, nel 1998 fu nominato comandante in capo delle Forze armate libanesi. Dopo l’assassinio di Hariri, fece dell’esercito uno strumento unico nel Paese capace di mantenere la stabilità delle istituzioni. Una delle sue frasi favorite è da sempre: “Lo Stato esiste perché l’esercito è il guardiano della struttura dello Stato”. Vista l’attuale situazione politica e le ripetute proteste al Governo di Najib Mikati da parte dell’opposizione antisiriana, Suleiman si trova ancora una volta ad essere, nell’imparzialità, il tassello di stabilità necessario in un Paese sempre pronto ad esplodere.
UNHCR/A. Branthwaite
ganizzazione per la Liberazione della Palestina). Per impedire la prosecuzione di spargimento di sangue, intervenne la diplomazia internazionale che sgomberò la dirigenza dell’Olp (rifugiatasi a Tunisi) e riversò nei Paesi limitrofi molte unità armate palestinesi. Una situazione che lasciò la popolazione civile nei campi profughi priva di alcuna protezione. Questo porterà al drammatico massacro nei campi-profughi di Sabra e Shatila, da unità cristiane guidate da Elie Hobeika, lasciate agire dalle truppe israeliane, comandate da Ariel Sharon, di stanza nell’area coinvolta. Negli anni a seguire, il Libano dovrà affrontare i delicati equilibri interni tra le diverse etnie. Sicuramente una di queste realtà, gli Hezbollah, musulmani sciiti vicini a Damasco e Teheran, cambieranno, anni dopo, le sorti del Libano. È il 12 luglio del 2006 quando miliziani di Hezbollah attaccano una pattuglia dell’esercito israeliano nel Sud del Libano uccidendo tre soldati e rapendone due. Israele reagisce con la forza, avviando un’offensiva contro il Libano
I PROTAGONISTI
per “neutralizzare l’apparato militare di Hezbollah”. Al massiccio attacco aereo non corrisponderà però quello di terra che porterà l’esercito israeliano, dopo un mese, ad un avanzamento di pochi chilometri. La resistenza di Hezbollah, infatti, dimostrerà la propria efficacia, contrattaccando il territorio israeliano con lanci di migliaia di missili. L’11 agosto, un mese dopo, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite interverrà con una risoluzione (la 1701), che troverà il voto unanime dei Paesi membri, chiedendo l’immediata cessazione delle ostilità tra le parti, il ritiro di Israele dal Libano meridionale e l’interposizione delle truppe regolari libanesi e dell’Unifil (United Nations Interim Force in Lebanon) in una zona cuscinetto “libera – come si legge – da ogni personale armato che non sia quello delle Nazioni Unite e delle forze armate regolari libanesi”. Da allora fino ai giorni nostri la situazione al confine è rimasta tesissima con saltuari scontri tra le parti provocati a volte anche da futili motivi. Un esempio: per l’abbattimento di un albero, il 3 agosto 2010, scaturì un conflitto a fuoco tra l’esercito israeliano e quello libanese provocando la morte di quattro soldati.
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2011 uscito nel giugno 2012 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DALLA SIRIA RIFUGIATI
19.931
PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI GERMANIA
10.155
RIFUGIATI ACCOLTI NELLA SIRIA RIFUGIATI
755.445
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI IRAQ
750.000
Il paradiso delle spie
Area strategica, la Siria, e quindi servizi segreti impegnati a monitorare la guerra civile, appoggiando le fazioni in lotta. La Germania si è mossa facendo incrociare davanti alle coste siriane la nave spia Oker, modernissima, con strumenti radar in grado di intercettare qualsiasi comunicazione o movimento aereo fino a 600 Km. Nel mese di marzo 2012, 18 cittadini francesi, fermati dalle forze di Damasco, hanno chiesto di avvalersi dello status di prigionieri di guerra, senza tuttavia fornire informazioni circa la loro identità e i corpi militari di appartenenza. Quattro persone, poi, sono state arrestate con passaporti italiani, pur avendo nomi stranieri. Da ricordare, poi, che le armi ai rivoltosi vengono fornite da Qatar, Arabia Saudita, Turchia e Giordania. Cina e Russia, invece, riforniscono il Governo di Damasco
Fabio Bucciarelli
Iniziata il 15 marzo del 2011 con il primo raduno di piazza a Damasco, la rivolta popolare pacifica contro il regime di Bashar al-Assad è degenerata nel giro di pochi mesi in una guerra civile. In Siria, la repressione da parte del Governo delle manifestazioni anti-Assad – diffuse in poco tempo dalla capitale ad altre città del Paese – è stata immediata e durissima. Nel 2012, mese dopo mese, l’esercito regolare e i ribelli armati dell’Esercito libero siriano (Els) – costituito nel luglio del 2011 da centinaia di disertori guidati dal colonnello Riad al-Assad – si sono affrontati per conquistare o difendere fette di territorio. I bombardamenti dell’esercito siriano hanno devastato le città, ma non sono riusciti a sedare la rivolta armata, a cui si sono uniti anche comuni cittadini. Le bombe sganciate su Homs, nel gennaio del 2012 hanno provocato centinaia di vittime. Sotto i bombardamenti muore anche Gilles Jacquier, reporter francese della France Télévisions. E’ il primo giornalista occidentale ucciso dall’inizio della guerra in Siria. Stati Uniti e Unione Europea, si schierano contro Bashar alAssad e premono perché lasci il potere. Il Presidente rifiuta e accusa i ribelli di essere “terroristi” al soldo di “nazioni straniere” che vogliono il controllo della Siria manipolando una rivolta “dei sunniti contro gli alauiti (la minoranza al potere in Siria di cui fa parte Assad)”. Nell’estate del 2012 i ribelli dell’Esercito libero siriano lanciano una offensiva cercando di prendere il controllo delle città chiave. Ad Aleppo, centro economico del Paese, al confine con la Turchia, i morti sono centinaia e i bombardamenti dell’esercito siriano colpiscono indiscriminatamente ribelli e civili. Nel novembre del 2012, a Doha, in Qatar, nasce la “Coalizione nazionale delle forze siriane dell’Opposizione”. La coalizione viene riconosciuta ufficialmente come interlocutore politico da Francia, Stati Uniti, Gran Bretagna, Lega Araba, Turchia e dai Paesi del Golfo Persico. Intanto le organizzazioni umanitarie accusano sia l’esercito regolare che i ribelli dell’Els di atrocità. Il sottosegretario agli Affari politici dell’Onu,
SIRIA
Generalità Nome completo:
Repubblica araba di Siria
Bandiera
187
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Arabo, Curdo, Armeno, Aramaico e Francese
Capitale:
Damasco
Popolazione:
20.178.485 (più 40mila persone residenti nella parte delle alture del Golan occupate da Israele)
Area:
185.180 Kmq
Religioni:
Islamica (90%, di cui 74% sunniti e 16% altre confessioni), cristiana (10%)
Moneta:
Lira siriana
Principali esportazioni:
Petrolio, prodotti petroliferi, minerali, frutta e verdura, cotone, tessili, carne e grano
PIL pro capite:
Us 5.000
Jeffrey Feltman parla di oltre 30mila morti, 2500 bambini. Una cifra, spiega Feltman, “per ora non verificabile”. Ai morti si aggiungono gli oltre 400mila rifugiati siriani in Libano, Giordania e Iraq e gli oltre 2milioni di sfollati interni.
Nata sulla scia della cosiddetta “Primavera araba” come rivolta pacifica, quella in territorio siriano è ormai una guerra per procura, combattuta sulla pelle della popolazione civile. Da una parte gli Stati Uniti, con il Qatar, l’Arabia Saudita e la Turchia che appoggiano le opposizioni. Dall’altra l’Iran e la Russia, che insieme alla Cina hanno paralizzato con il veto ogni tentativo del Consiglio di Sicurezza dell’Onu di accelerare a colpi di risoluzioni la caduta del regime di Assad. Una situazione di stallo che rischia da un momento all’altro di precipitare. Come accaduto ad ottobre del 2012, quando alcuni colpi di mortaio dell’esercito di Assad, caduti in territorio turco, hanno provocato una
rappresaglia armata di Ankara che ha fatto temere l’espandersi del conflitto a livello regionale. La radicalizzazione dello scontro su fronti opposti non ha risparmiato nemmeno la stampa, italiana e internazionale, spaccata sull’analisi del conflitto: da una parte chi parla di rivolta popolare repressa nel sangue, dall’altra chi denuncia una rivolta manipolata dall’esterno per liberarsi di un regime scomodo. Mentre i combattimenti sul terreno continuano e i morti aumentano, il rischio, dopo una eventuale fine del regime, è quello di un dopo Assad con una Siria fuori controllo, destabilizzata da lotte intestine tra fazioni e rivendicazioni delle minoranze, come quella curda.
Per cosa si combatte
Un potere quasi assoluto
La Repubblica di Siria è retta dalla costituzione varata nel 1973, che affida al partito Ba’th la guida dello Stato. Il segretario del partito è anche Capo dello Stato e guida il fronte Progressista Nazionale, alleanza dei 10 partiti legali. Il Presidente viene confermato da un referendum a suffragio universale ogni sette anni e deve essere musulmano. Il potere legislativo è nelle mani dell’assemblea del Popolo, formata da 250 persone, elette ogni quattro anni. Dal 1963 è in vigore la legge marziale, che sospende gran parte dei diritti costituzionali, giustificata dallo stato di guerra permanete con Israele e dalla lotta al terrorismo.
188
Fabio Bucciarelli
La conosciamo come Siria, un tempo era anche Soria, parola scomparsa: ne resta traccia nel gatto soriano. Per secoli terra d’imperi, l’ultimo quello turco sino al 1918, poi protettorato francese, il Paese è indipendente dal maggio del 1945. Per dieci giorni, quell’anno, il popolo siriano manifestò a Damasco per chiedere la libertà. I francesi reagirono bombardando, poi, su pressione inglese, la comunità internazionale riconobbe l’indipendenza, ufficializzata l’1 gennaio 1946. E’ l’inizio di un periodo di instabilità politica. Nel 1948 la sconfitta nella Prima Guerra arabo–israeliana dà il via al primo di 13 colpi di stato. Nel mezzo c’è la fallimentare esperienza dell’unione con l’Egitto nella Repubblica Araba Unita (1958). Nel 1963 l’ennesimo golpe porta al potere il partito laico Ba’th. Il partito gestisce tutto, da subito. Continuano, però i colpi di stato, accompagnati dalle sconfitte militari: nella terza Guerra arabo–israeliana, quella dei Sei Giorni, nel 1967, la Siria perde il controllo delle Alture del Golan, occupate da allora da Israele. Nel 1970 la “Rivoluzione Correttiva Siriana” mette sulla poltrona di capo dello Stato Hafiz
al-Assad. Governerà per trent’anni, con mano durissima, reprimendo ogni forma di opposizione e – per i servizi segreti di molti Paesi – alimentando il terrorismo internazionale.
Quadro generale Fabio Bucciarelli
Bashar al-Assad
(Damasco, 11 settembre1965)
Una storia di terre perdute
La storia della Siria è storia di rivendicazioni territoriali. La più antica è quella della provincia di Hatay, il cui capoluogo è Antiochia. Etnicamente da sempre mista, come popolazione, è stata ceduta alla Turchia dalla Francia nel 1939, negli anni del mandato francese. La Siria la rivendica come propria sin dal primo giorno dell’indipendenza. Più vicina nel tempo, la rivendicazione delle alture del Golan, perse nel 1967 durante la Guerra dei sei Giorni contro Israele, momentaneamente riconquistate nel 1973 con la guerra del Kippur e definitivamente perse con la conclusione di quel conflitto. Damasco non ha mai riconosciuta l’annessione a Israele e fa della loro restituzione il requisito indispensabile per la firma di un trattato di pace.
Nel 1982, al culmine di un’insurrezione islamica, Assad bombarda la città di Hama per reprimere la rivolta della comunità musulmana sunnita. Il New York Times parla di almeno 10mila cittadini siriani uccisi, 40mila, di cui 1000 soldati, i morti invece per il Comitato Siriano per i Diritti Umani. Negli stessi anni, alimentando la guerra civile, Damasco arriva a fare del Libano un protettorato. Assad controlla tutto, governa con mano dura. La sua famiglia fa parte della minoranza alauita, propaggine sciita in un Paese che è a grande maggioranza di Islam sunnita – ¾ della popolazione – e in parte curdo. Questo genera continui contrasti, soffocati dalla macchina statale: Assad controlla i servizi segreti, l’esercito, la polizia. Non esistono partiti d’opposizione e la stampa non è libera. L’apice si raggiunge con il passaggio “ereditario” del potere: nel 2000 Hafiz muore e gli succede il figlio Bashar. Le speranze di una apertura democratica dello stato siriano cadono rapidamente: il neo Presidente nomina nei
I PROTAGONISTI
posti che contano i famigliari. Il fratello minore, Maher al-Assad, è al comando della IV Divisione dell’Esercito, mentre il cognato Assef Shawkat, è Capo di Stato maggiore. Ruoli chiave, che si rivelano essenziali al Presidente con l’avvio della rivolta del 2011, destinata a trasformarsi in guerra civile. In febbraio, sull’onda delle tante proteste nei Paesi musulmani, anche in Siria iniziano timide proteste. Chiedono maggiore libertà e una distribuzione più equa della ricchezza. La repressione è immediata e subito ci sono centinaia di morti e migliaia di arresti. L’opposizione si organizza, crea un Governo provvisorio che raggruppa tutte le fazioni. Nel giugno del 2011, Damasco mette in campo artiglieria e aviazione e la rivolta diventa guerra civile. I rivoltosi possono contare sull’appoggio di Lega Araba, Unione Europea e Stati Uniti. Russia e Cina, invece, inviano armi al governo di Assad, opponendo il veto ad ogni risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Uno scontro internazionale che, nei fatti, alimenta la guerra civile, causando migliaia di profughi in fuga verso Turchia, Giordania, Kurdistan Iracheno e Libano. Più di un milione e mezzo gli sfollati all’interno del Paese. E così, in guerra, si arriva al 2012.
189
Nato a Damasco l’11 settembre del 1965, Bashar al-Assad studiava oftalmologia a Londra quando gli fu comunicato che sarebbe diventato il nuovo Presidente della Siria. Suo padre Hafiz al-Assad aveva infatti designato come successore suo fratello maggiore, Basil, che però muore improvvisamente in un incidente stradale nel 1994. Deceduto anche l’anziano genitore, nel 2000 Bashar eredita la presidenza. Privo di esperienza politica e per anni lontano dal suo Paese, secondo alcuni osservatori internazionali il giovane Presidente sarebbe più che consigliato da alcuni membri della vecchia cerchia dei collaboratori del padre. Il leader siriano, che ha sposato una donna di fede sunnita, Asma al-Akhras da cui ha avuto tre figli, è noto alle cronache per essere una persona piuttosto riservata rispetto alla sua vita provata. Dall’inizio della rivolta ha sempre rifiutato di lasciare la carica di Presidente e l’esilio, accusando i ribelli di essere “terroristi” manipolati “da nazioni straniere”. “Non sono un burattino, sono un siriano e devo vivere e morire in Siria” ha detto il Presidente in una recente intervista ad una tv russa.
Fabio Bucciarelli
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Europa
A cura di Amnesty International
In Europa vince la chiusura ai migranti e ai diversi In numerosi Paesi europei, politiche, prassi, linguaggio istituzionale e dei media alimentano la discriminazione nei confronti dei rom, pregiudicandone il pieno accesso a diritti economici e sociali fondamentali, quali l’istruzione, la salute, il lavoro e l’alloggio. Sgomberi forzati, illegali secondo il diritto internazionale, hanno luogo in Italia, Serbia e Romania mentre in Repubblica ceca e Slovacchia, bambine e bambini e rom sono sottoposti a programmi educativi separati e, a volte, assegnati a classi separate. Almeno 14mila persone risultano ancora “scomparse” dalle guerre dell’ex Jugoslavia (1992-2002), la maggior parte in Bosnia Erzegovina, dove si fa ancora attendere la giustizia per migliaia di casi di stupro. I Governi europei non chiariscono il loro ruolo nei programmi della Cia relativi alle detenzioni illegali e alle “rendition”. La sentenza della Corte di cassazione italiana sulla “rendition” dell’imam di Milano Abu Omar è il tentativo più riuscito di fare luce sulle complicità dei Paesi europei nella “guerra al terrore”. In molti altri Stati coinvolti, o per aver messo a disposizio-
ne scali aeroportuali o per aver ospitato centri segreti di detenzione e tortura, le indagini sono bloccate o procedono a rilento. In Bielorussia, unico Paese europeo a mantenere e applicare la pena di morte, la riduzione al silenzio del dissenso è stata pratica quotidiana, soprattutto alla vigilia di importanti scadenze elettorali, come le elezioni parlamentari del settembre 2012. In Russia, il procedimento giudiziario ai danni delle tre componenti del gruppo punk “Pussy Riot”, ha messo in evidenza una più ampia restrizione della libertà d’espressione e di manifestazione, che si esplicita in una legislazione nazionale che sottopone a controlli e permessi le adunate pacifiche (e prevede dure sanzioni pecuniarie in caso contrario) e in provvedimenti locali che criminalizzano la promozione dei diritti delle persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuali (Lgbti). Il diritto di manifestare pacificamente delle persone Lgbti viene compromesso in quei Paesi che vietano od ostacolano i Pride, come l’Ucraina e la Serbia. La libertà d’espressione è fortemente limitata anche in Azerbaigian. Alla campagna “Canta per la democrazia”, lanciata nella primavera del 2012 da attivisti per sensibilizzare opinione pubblica, mezzi d’informazione e artisti internazionali, in occasione del concorso “Eurovision 2012” e dei mondiali di calcio femminile under 17, il Governo ha risposto vietando le manifestazioni e arrestando i leader della campagna, blogger, giornalisti ed esponenti dei movimenti giovanili. In Georgia, le elezioni politiche si sono tenute in un clima di violazioni dei diritti umani, come testimoniato dallo scandalo delle torture praticate in una prigione della capitale Tbilisi. L’Europa pratica politiche di chiusura verso migranti, richiedenti asilo e rifugiati, destinando ingenti risorse a politiche di contrasto ed esternalizzazione dei controlli che violano i diritti umani. Ne è un esempio l’accordo tra Italia e Libia, firmato a Tripoli nell’aprile 2012 che, come il precedente del 2008, ha per obiettivo la cooperazione in materia di controllo dell’immigrazione irregolare e non contiene garanzie, né riferimenti testuali, per i rifugiati e i richiedenti asilo. Nel febbraio 2012, la Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per aver respinto nel 2009 profughi africani provenienti dalla Libia. In Paesi come la Grecia l’accesso alle procedure di asilo viene negato. Sempre in Grecia, così come in Spagna e in altri Paesi, la polizia si è resa responsabile di uso eccessivo della forza, attaccando manifestanti
in gran parte pacifici che protestavano contro le misure di austerità. In Italia, importanti sentenze d’appello o di cassazione hanno confermato che funzionari pubblici e alti dirigenti delle forze di polizia si sono resi responsabili di gravi violazioni dei diritti umani nello scorso decennio. L’assenza nel codice penale del reato di tortura, che l’Italia ha l’obbligo di introdurre dal 1989, ha compromesso l’inflizione di pene commisurate alla gravità dei reati accertati in sede di giudizio.
Il mondo di Kako di Flora Graiff
Questi compiti sono una grande “rottura”
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Il terrorismo al femminile
In Cecenia un nuovo gruppo terrorista tutto al femminile si sta preparando ad azioni di guerriglia. La novità è stata diffusa in un video postato dagli estremisti islamici, dove si vedono numerose donne, tutte in burqa, alle prese con gli addestramenti nell’uso del kalashnikov, granate e altre armi. Si ritiene che questo gruppo sia stato reclutato da un frangia di terroristi collegata ad al-Qaeda. E proprio per contrastare i nuovi fermenti, Putin ha ordinato alla fine di ottobre del 2012 una vasta operazione antiterrorismo delle forze speciali nel Caucaso, uccidendo 49 ribelli. L’attacco è stato coordinato in Inguscezia, Daghestan e Cecenia, distrutte 90 basi degli oppositori. Una scelta del Presidente russo Vladimir Putin per dimostrare il controllo del territorio.
La fine degli scontri armati e la successiva ricostruzione hanno portato a una stabilità che gran parte dei ceceni sta vivendo con grande sollievo. Il problema principale del Paese oggi è la corruzione endemica, che fa arricchire i clan familiari più vicini al potere. In Cecenia bisogna pagare una mazzetta per qualsiasi cosa e tutti i dipendenti pubblici sono obbligati a versare una parte del loro stipendio al Fondo Akhmad Kadyrov, una fondazione privata diretta dalla vedova dell’ex Presidente. Alcune persone, soprattutto giovani, continuano a passare alla resistenza armata. La politica del Governo Kadyrov è quella di fare pressioni sulla famiglia di chi passa alla resistenza. Le organizzazioni per i diritti umani, in primo luogo Memorial con sede a Mosca, sono continuamente oggetto della propaganda negativa del Governo. Memorial e le altre Ong denunciano le decine di sequestri e arresti illegali che ogni anno fanno le milizie governative e la polizia. Le persone sequestrate spariscono, con casi di torture ed esecuzioni. A volte, dopo mesi, contro di loro si aprono dei processi presso la giustizia ordinaria. Gli stessi attivisti sono bersaglio dei sequestri e delle aggressioni. In realtà, gli unici vanti del regime di Kadyrov sono due: aver interrotto – come detto – le violenze e portato la “riappacificazione”, e aver ricostruito quasi interamente Grozny, la capitale cecena semidistrutta dalle due guerre. Putin si è proclamato amico e sostenitore della causa cecena in ogni occasione possibile, e la via principale di Grozny è stata chiamata Prospekt Putin. Intanto, i cittadini di etnia russa sono scoraggiati in ogni modo, e spesso anche con modi violenti, a rimanere in Cecenia. L’intera gestione della situazione cecena da parte della Russia, a partire dalla fine degli anni Novanta, è rientrata nella sigla Kto, dalle iniziali che stanno per il russo “Operazione Anti-Terrorismo”. Durata ufficialmente per quasi dieci anni, dall’ottobre 1999 all’aprile 2009. Oggi la presenza militare russa rimane consistente, ma è in qualche modo confinata nelle basi militari, fuori dalla capitale e dai centri urbani. La strategia russa per risolvere il conflitto ceceno, decisa proprio da Putin, è stata quella di trovare un appoggio presso alcuni settori della società e dei gruppi di potere ceceni per diminuire progressivamente la presenza militare. Nel frattempo, per cancellare i segni della guerra, gli artificieri militari hanno cominciato lo sminamento massiccio dei territori, partendo da piccoli villaggi fino ad arrivare nel distretto di Grozni. Si prevede che lo sminamento duri tre anni e che si concluda nel 2015. Secondo un rapporto, “da mine, proiettili inesplosi e altri oggetti a rischio di esplosione sono già stati ripuliti oltre 800 ettari di terreni agricoli. Dal momento dell’inizio dei lavori di sminamento gli artificieri hanno scoperto ed eliminato 3260 oggetti a
CECENIA
Generalità Nome completo:
Repubblica Cecena
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Russo, Ceceno
Capitale:
Groznyj
Popolazione:
1.103.686
Area:
15.500 Kmq
Religioni:
Musulmana sunnita
Moneta:
Rublo, nahar
Principali esportazioni:
Petrolio
PIL pro capite:
n.d.
rischio di esplosione. Il numero complessivo di militari coinvolti nelle iniziative ammonta a circa trecento persone. Secondo i dati delle autorità cecene, durante le due campagne militari sul territorio della Repubblica Cecena in conseguenza di esplosioni di mine e fugas hanno sofferto 4049 persone. Il numero dei morti è ammontato a 2165 persone, tra cui 142 bambini. Solo nel 2011 in Cecenia sono saltate in aria su mine 20 persone. Allo stesso tempo, secondo le notizie dell’organizzazione Unicef, a partire dal 1994 in conseguenza di esplosioni di mine e fugas in Cecenia sono morti più di 700 civili e altre 2379 persone sono rimaste ferite.
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Il conflitto che oppone la Grande Russia – prima zarista, poi sovietica ed ora di Putin&Medvedev – alla piccola Repubblica della Cecenia dura più o meno da duecento anni, sia pure a fasi alterne. L’annessione infatti di questa Regione allo spazio d’influenza russo non è mai stata accettata dal popolo ceceno, fiero e combattente: non a caso, la prima Guerra Santa contro i russi è del 1839 e tutti i grandi condottieri ceceni dei secoli scorsi – dallo sceicco Mansur all’imam Shamil – hanno costruito la loro leggenda e la loro popolarità sulla resistenza ad oltranza alle forze di occupazione inviate da Mosca. Da questa prospettiva, l’epoca sovietica ha aggiunto solo nuove ferite e nuova acrimonia. Accusati di aver collaborato con i nazisti, i ceceni non godettero infatti di buona fama, ai tempi di Stalin, e già nel 1944 si rivoltarono. In seguito cercarono di opporsi alla collettivizzazione forzata delle loro terre, al punto che Stalin ne ordinò la deportazione di massa in Kazakhistan, così come fece con altri popoli caucasici. Solo l’ascesa al potere di Krusciov permise ai ceceni di rientrare in patria, costretti però a convivere con i russi che ne avevano preso il posto e che rappresentavano ormai il 30% della popolazione. Non c’è dunque da stupirsi se il Movimento Irredentista Ceceno abbia rialzato la testa sul finire degli anni ‘80, quando l’Urss comincia ad implodere; e se poi, nel 1991, prima ancora della dissoluzione dell’Urss, viene proclamata a Grozny la Repubblica Islamica Cecena di Iskheria, indipendente da Mosca. È bastato questo per scatenare il risentimento russo, sfociato poi nelle due guerre del 19941996 e del 1999-2000. La prima guerra cecena scoppia l’11 dicembre 1994 con l’offensiva a sorpresa ordinata da Boris Yeltsin, all’epoca Presidente della Federazione Russa, con il pretesto di voler difendere la minoranza russa perseguitata nella nuova Repubblica. Ma nonostante la sproporzione delle forze in campo, i russi non riescono a prevalere e sono costretti ad accettare un accordo di pace umiliante, firmato il 31 agosto 1996: con tale accordo la Cecenia mantiene la sua autonomia, suggellata dall’introduzione della sharia, e la Russia accetta di negoziare l’indipendenza, anche se in un futuro non meglio precisato. Meno incerto è il pesante bilancio dei due anni di guerra: i morti sono almeno 40mila e i profughi 250mila. Molto più breve fu la seconda guerra cecena, che scoppia il 1° ottobre 1999 e dura fino al 1° febbraio 2000, quando le truppe dell’Armata Rossa occupano Grozny, dopo averla rasa al suolo. Controversi restano ancora oggi i motivi che portarono alla guerra: è vero infatti che l’intervento russo venne ufficialmente scatenato da una serie di attentati organizzati dai ribelli ceceni in territorio russo, con una lunga scia di morti – 240 solo a Mosca, nel 1999 – ma secondo molti ana-
listi la guerra fu una prova di forza voluta dal primo Ministro Vladimir Putin per guadagnarsi una facile popolarità e preparare la propria ascesa al potere. In ogni caso l’occupazione militare russa non riesce ad aver ragione della guerriglia cecena, che non solo obbliga l’Armata Rossa a pagare un pesante tributo di sangue ma riesce anche a portare il terrorismo in casa del nemico, con un’escalation di azioni spettacolari: dal sequestro degli spettatori del Teatro Dubrovka nell’ottobre 2002 – i morti furono 130, uccisi nel blitz delle forze speciali russe – al sequestro degli scolari della scuola di Beslan, in Ossezia del Nord, dove i morti furono più di 300. Dalla guerra aperta si è passati insomma ad una guerra asimmetrica, che si protrae fino ad oggi. In ogni caso, dei 100mila uomini impiegati dall’Armata Rossa in Cecenia all’epoca delle due guerre, ne sono rimasti ormai, con la fine del Kto, solo poche migliaia, dislocati nelle casermefortezze di Gudermes, Kankalia e Kashali.
Per cosa si combatte
Va detto che oggi del sogno irredentista ceceno resta ben poco. Sotto il comando dell’autoproclamato nuovo Emiro del Caucaso, Doku Umarov, resterebbero infatti – secondo le stime del vice-ministro degli Interni russi, Arkady Edelev – meno di 500 terroristi abbarbicati sulle montagne, fra cui una cinquantina di mercenari arabi. La maggioranza di questi combattenti, inoltre, sarebbe spinta a scegliere la guerriglia non da considerazioni ideologiche o da motivi
Quadro generale
Quella festa non va bene
Il popolo dei social network, e non solo, si scatena contro Ornella Muti, che ha accettato l’invito a Grozny, la capitale della Cecenia, del leader ceceno Ramzan Kadyrov (già accusato dalla comunità internazionale di gravi violazioni dei diritti umani). Ornella Muti si è esibita in un “ballo infuocato” davanti al 35enne Kadyrov, in occasione dei festeggiamenti della Giornata della Città. In particolare, l’attrice avrebbe ballato la “lezginka”, la danza tradizionale cecena. Tra gli ospiti presenti, anche Gerard Depardieu. Ornella Muti ha dichiarato: “Sono molto contenta di essere qui con voi per festeggiare l’anniversario della nascita di Grozny”.
Ramzan Kadyrov
(Tsentoroi , 5 ottobre 1976)
I terroristi fuori dai cimiteri
La direzione spirituale dei musulmani della Cecenia ha introdotto il divieto di sepoltura nel territorio dei cimiteri sia secondo le tradizioni musulmane sia secondo le usanze locali dei corpi degli uccisi nel corso di operazioni speciali. Gli esperti notano che la dichiarazione della direzione spirituale dei musulmani è solo la constatazione della realtà esistente nella repubblica. “I criminali che sono colpevoli della morte di musulmani e di crimini crudeli non possono essere sepolti nei cimiteri usuali accanto a persone normali. Su di loro non si possono svolgere riti religiosi, perché questi vanno contro l’Altissimo e compiono i propri crimini sanguinosi sotto la copertura della religione. I corpi dei terroristi e degli assassini si possono seppellire solo fuori dai limiti dei cimiteri. A mullah e cadì dei distretti e dei centri abitati della repubblica è vietato categoricamente compiere riti di sepoltura di tali persone”.
religiosi, quanto piuttosto da motivi personali, per vendicarsi cioè di un torto subito. Dietro questo mutamento epocale c’è sia la stanchezza – in Cecenia si combatte ormai da 20 anni – che l’eliminazione progressiva di tutti i grandi leader della guerriglia: dal Presidente Dzokhar Dudaev, ucciso nel 1996 con un missile guidato via laser mentre parlava al telefonino, al suo successore Aslan Maskhadov, ucciso nel 2005, fino al comandante Shamil Basayev, ucciso nel 2006. Ma a far suonare la campana a morto per la guerriglia cecena è stata soprattutto l’ascesa di un clan forte e prestigioso, che ha scelto di abbandonare la lotta armata e si è schierato dalla parte del Cremlino: il clan dei Kadyrov. Già gran Mufti di Grozny, Akhmad Kadyrov viene eletto capo del Governo nel 2000 e diventa Presidente della Cecenia nell’ottobre 2003, carica che occupa fino al maggio 2004, quando viene ucciso in un attentato allo stadio
I PROTAGONISTI
di Grozny. Al suo posto è subentrato il figlio Ramzan, famoso per i suoi metodi brutali, che viene confermato presidente nel 2007 e regna tuttora, con pieni poteri. È la milizia dei Kadyrov che viene incaricata, negli ultimi anni, di fare la “guerra sporca”, in nome di una progressiva cecenizzazione del conflitto, perseguita da Mosca con caparbietà: ne consegue un’alternanza di bastone e carota, con ripetute amnistie per i ribelli che scelgono di abbandonare la lotta armata e una spietata caccia all’uomo per stanare gli irriducibili. Se i risultati ci sono, insomma, restano contradditori. Per imporre la sua pace, Ramzan Kadyrov ha ridotto infatti a carta straccia i diritti umani più elementari, come denunciano da anni Memorial e tutte le organizzazioni internazionali. Governando così, finisce inoltre per buttare altra benzina sul fuoco del risentimento e dell’odio che stanno alla base della questione cecena. Alle lunghe, perciò, il rimedio rischia di essere peggiore del male.
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Ramzan Kadyrov è il Presidente della repubblica di Cecenia, che fa parte della Federazione Russa, e ha solo 35 anni. Figlio di un altro Presidente, Akhmad, è arrivato al potere nel 2007, dopo aver sconfitto in una sanguinosa lotta diversi comandanti militari e politici. Oggi in Cecenia non si combatte più, e il Governo sottolinea i grandi successi nella ricostruzione postbellica: ma se la Cecenia è sparita dai notiziari, il Paese continua a essere oggetto di indagini da parte delle organizzazioni per i diritti umani, mentre l’eccentrico e autoritario Kadyrov è al centro di un vero e proprio culto della personalità. Il suo compleanno non può essere festeggiato: il Presidente ha proibito qualsiasi celebrazione per il 5 ottobre, giorno della sua nascita, e ha detto che i funzionari pubblici che proveranno a fargli un regalo saranno licenziati. Ma il caso vuole che lo stesso 5 ottobre sia anche il Giorno della Città di Grozny, in cui si festeggia la fondazione della città (nata come fortezza russa all’inizio del XIX secolo). Kadyrov ha sempre dichiarato di agire secondo le linee del padre, concentrandosi sull’eliminazione dei fondamentalisti, che ancora si scontrano con le forze governative e della federazione russa nelle Regioni montuose e Meridionali del Paese.
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2011 uscito nel giugno 2012 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DA CIPRO RIFUGIATI
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RIFUGIATI ACCOLTI A CIPRO RIFUGIATI
3.503
Trivelle e sovranità
La Repubblica di Cipro continua nelle trivellazioni esplorative al largo delle sue coste nel Mediterraneo alla ricerca di giacimenti di gas naturale. La Turchia si oppone, sostenendo che i confini marittimi di Nicosia si sovrappongono con quelli di Cipro Nord (stato riconosciuto solo dalla Turchia stessa). Il Governo turco ha minacciato di avviare anch’esso trivellazioni al largo dell’isola e di proibire alle compagnie impegnate a Cipro di lavorare sul suo territorio. La piattaforma petrolifera “Homer Ferrington” della compagnia texana Noble Energy sta già estraendo enormi quantità di gas al largo di Cipro mentre le italiane Eni ed Enel e altre 13 società di altri Paesi hanno presentato domanda per lo sfruttamento di nuovi giacimenti di gas scoperti intorno all’isola. Stati Uniti, Russia e Unione Europea acconsentono alla ricerca di idrocarburi che la Repubblica di Cipro ha avviato in accordo e collaborazione con i vicini Israele, Libano ed Egitto.
Il Governo della Repubblica di Cipro e la Repubblica Turca di Cipro Nord (di fatto, la Turchia) non hanno ancora raggiunto un accordo di riconciliazione e di riunificazione. Dal 1974 l’Isola è divisa tra la Repubblica Turca di Cipro del Nord (riconosciuta come Stato legale solo dalla Turchia) e la Repubblica di Cipro con capitale Nicosia, a maggioranza etnica greca, a Sud. Nel corso del 2012, la mancata soluzione della “questione cipriota” ha creato tensioni per il turno di presidenza della Ue che, il primo luglio 2012, è stato assunto dalla Repubblica di Cipro. Dal 2004, la Repubblica di Cipro è membro dell’Ue e come tale ha diritto a far parte della rotazione semestrale, cioè l’alternarsi alla Presidenza ogni sei mesi di ciascuno dei 27 Stati aderenti all’Unione Europea. Ma la Turchia aveva annunciato che avrebbe rifiutato qualsiasi contatto con la presidenza della Ue fintanto che l’incarico sarebbe stato ricoperto dal Governo greco-cipriota. E l’incarico di Presidenza Ue veniva assunto da Cipro in un 2012 molto difficile, anche sotto l’aspetto economico. Il 25 giugno 2012, il Governo di Cipro chiedeva ufficialmente aiuto finanziario al fondo salva-Stati a causa della forte dipendenza creditizia delle proprie banche verso la Grecia già in dissesto, diventando così il quinto Paese dell’Eurozona ad aver bisogno del sostegno alla Banca Centrale Europea e al Fondo Monetario Internazionale. Dato che la “questione cipriota” non è stata definitivamente risolta l’Onu continua a lasciare sull’isola una forza militare di mantenimento della pace, la United Nations Peacekeeping Force in Cyprus (Unficyp). Inviati a Cipro nel 1964, per porre termine alle continue violenze tra le comunità greco-cipriota e turco-cipriota, i “caschi blu” della Unficyp presidiano dal 1964 la “Linea Verde”, quell’area di circa 350 km2 che fa da cuscinetto tra il Nord turco e il Sud greco, dividendo in due anche la capitale Nicosia. Il termine “Linea Verde” ha origine dalla linea che nel 1964 il generale Peter Young, comandante delle forze britanniche sull’isola, disegnò (con una matita verde) sulla mappa di Nicosia
CIPRO
Generalità Nome completo:
Repubblica di Cipro; Repubblica Turca di Cipro Nord
Bandiera 199
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Greco, Turco
Capitale:
Nicosia
Popolazione:
793.963
Area:
9.250 Kmq (di cui 3.355 Kmq all’interno della Repubblica Turca di Cipro Nord)
Religioni:
Cristiana ortodossa, musulmana
Moneta:
Euro nella Repubblica di Cipro. Nuova lira turca, nella Repubblica Turca di Cipro Nord
Principali esportazioni:
Prodotti agricoli tipici come olive e limoni, tessuti e calzature
PIL pro capite:
Us 29.324 Repubblica di Cipro Us 5.600 Cipro del Nord
allo scopo di separare i quartieri greci e turchi della capitale. Dall’aprile del 2003 è possibile attraversare la “Linea Verde”. Nel 2008 è stato aperto il primo passaggio all’interno del centro storico della capitale, in Ledra Street.
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La battaglia di Cipro è tutta politica e diplomatica. Cipro è pacificata dal punto di vista militare grazie alla presenza dei caschi blu della missione Unficyp ma rimane separata dalla Linea Verde (Buffer Zone) che, seppure non costituisca un muro invalicabile, tuttavia rappresenta un confine di attrito dove il conflitto sempre potenziale per questioni di politica economia e di politica internazionale può generare sul territorio
scontri e incidenti tra i cittadini di origine greci e quelli di origine turca. La scoperta di ingenti giacimenti di gas naturale al largo delle coste di Cipro ha alzato il livello di scontro diplomatico tra Turchia, Repubblica di Cipro, Unione Europea. Tra l’altro, la Repubblica di Cipro ha raggiunto accordi sull’estrazione del gas anche con Israele, uno stato con relazioni non amichevoli con la Turchia.
Per cosa si combatte
Se dal punto di vista storico-culturale, l’isola di Cipro si può ritenere uno Stato europeo, dal punto di vista geografico sembra appartenere per vicinanza al continente asiatico. Cipro è la terza isola del Mar Mediterraneo per estensione, è situata 70 km a Sud della Turchia e a soli 200 Km dalla costa della Siria e del Libano. Ha una superficie complessiva di 9250 km² di cui il 59% sotto il controllo effettivo della Repubblica di Cipro, mentre la zona turco-cipriota al Nord copre circa il 36% del territorio. Due piccole aree, Akrotiri e Dhekelia appartengono al Regno Unito come basi militari sovrane. La cima più alta dell’isola è il monte Olimpo (1953 metri) che sorge nella catena montuosa di Troodos. “Mesaria” è la fertile pianura centrale dell’isola. Cipro è una Repubblica Presidenziale. Dal 1974 le istituzioni della repubblica esercitano la loro autorità solo sulla zona greca. L’attuale presidente è Dimitris Christofias, marxista-leninista. Il suo partito è il Partito Progressista dei Lavoratori (Akel). L’isola venne divisa dopo l’invasione militare della sua area settentrionale da parte della Turchia nell’estate del 1974. Ma come si era arrivato a questa invasione? Nel 1955 a Cipro si era formato un movimento di guerriglia, l’Eoka (Ethniki Organosis Kyprion Agoniston, Organizzazione Nazionale dei Combattenti Ciprioti), guidato da Georgios Grivas, a sostegno dell’idea, già esistente da decenni, secondo la quale
Cipro doveva essere annessa alla Grecia. L’idea in questione si chiamava Enosis (unione, annessione). Nel 1960, Cipro cessò di essere colonia britannica e fu proclamata indipendente sulla base del Trattato di Zurigo e Londra stipulato tra Turchia, Grecia e Regno Unito, alla presenza del leader greco-cipriota, l’arcivescovo Makarios III, e di quello turco-cipriota, il dott. Fazıl Küçük. In base a quell’intesa fu elaborata una Costituzione. Ma nel 1967 in Grecia si instaurò una dittatura militare detta “dei colonnelli”. L’Enosis, l’idea dell’annessione di Cipro, tornò viva. Ma durante la campagna presidenziale per le elezioni del 1968, il Presidente cipriota Makarios III disse che l’Enosis era impossibile mentre l’indipendenza dell’isola era l’unica strada. Così nel 1974, i fautori dell’Enosis formarono l’Eoka B e con l’appoggio del Governo militare della Grecia e della Cia americana organizzarono un colpo di Stato per cacciare Makarios III. A questo punto, le forze armate della vicina Turchia sbarcarono a Nord di Cipro per impedire che i greco-ciprioti conquistassero tutta l’Isola e la annettessero alla Grecia. A Cipro viveva già al tempo e da sempre una nutrita comunità di origini e tradizioni turche. Fino al 1974, le comunità greco e turco cipriote avevano convissuto in pace. Nel 1983 venne proclamata la Repubblica turca di Cipro del Nord (Rtcn) riconosciuta come stato legale solo dalla Turchia. La Repubblica di Cipro invece è riconosciuto a livello internazionale.
Quadro generale
God Save Cipro
Sull’isola di Cipro esistono due basi navali sotto il controllo della Gran Bretagna. Si tratta della base di Akrotiri, dove è ospitata la Raf (Royal Air Force), e della base di Dhekelia. Le basi sono da sempre un costante motivo di frizione tra Londra e Nicosia da quando l’ex colonia Cipro conquistò l’indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1960. Da allora le voci ricorrenti sulla loro imminente chiusura si sono continuamente ripetute. Nel 1962, l’allora Presidente cipriota, l’arcivescovo Makarios III, aveva definito le basi militari britanniche sull’isola “piuttosto inutili in questa epoca atomica”. E ancora oggi molti ritengono che quelle basi siano un esempio di colonialismo e siano illegali sulla base di risoluzioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Demetris Christofias (Dhikomo, 29 agosto 1946)
Banche in ginocchio
Per fronteggiare la crisi finanziaria che ha colpito le banche della Repubblica di Cipro, il Governo del Presidente Christofias ha avviato negoziati sia con l’Unione Europea sia con la Russia. Si parla di una cifra compresa tra i 2 e i 10miliardi di euro. Una cifra enorme se rapportata al Prodotto interno del Paese, che nel 2011 é stato pari a quasi 18miliardi di euro. Cipro non intende accettare aiuti dall’Ue in cambio della modifica del suo sistema fiscale che è estremamente vantaggioso per le imprese ma anche per i pensionati. E mentre parla con la Ue, Cipro tratta anche con Mosca. Il Presidente Christofias, che ha un lungo passato di studi e di formazione politica nell’ex Unione Sovietica, ha dichiarato alla stampa: “Non bisogna avere pregiudizi, la Russia di oggi non è più l’Unione sovietica. Se le loro condizioni saranno accettabili, perché no? Le condizioni dell’Unione potrebbero essere più dure”. 201
Dal 28 febbraio 2008 è Presidente della Repubblica di Cipro. Si tratta del primo capo di stato comunista in un Paese dell’Unione europea. È leader del Partito Progressista dei Lavoratori (Akel), un movimento di ispirazione marxista-leninista. Pur essendo comunista, ha dichiarato di non voler cambiare l’economia di libero mercato di Cipro. A maggio 2012, ha annunciato che non intende ricandidarsi nel 2013 per un secondo mandato a causa dell’impossibilità della riunificazione dell’isola, anche sotto l’egida dell’Onu. Secondo l’agenzia finanziaria Bloomberg, fra i 17 leader dei Paesi che adottano l’euro, con uno stipendio annuale pari a 158.551 euro (poco più di 13mila euro al mese), Christofias è il secondo più pagato dopo il premier del Lussemburgo Jean-Claude Juncker.
Cipro è divisa in sei distretti amministrativi: Famagusta, Kyrenia, Larnaca, Limassol, Nicosia, Paphos. I piani Annan. L’11 novembre 2002 il Segretario Generale dell’Onu, Kofi Annan, presentava un piano particolareggiato per una sistemazione complessiva della questione cipriota (il cosiddetto Annan I). Tenendo conto delle reazioni delle due parti, il piano fu rivisto il 10 dicembre 2002 (Annan II) e il 26 febbraio 2003 (Annan III). Il Segretario Generale propose alle parti di sottoporre l’Annan III a due separati referendum, uno per comunità, da effettuarsi simultaneamente. Ma il tutto è rimasto sulla carta. Nel gennaio 2004, il Segretario Generale Kofi Annan riprese i negoziati. Vennero redatti altri due piani: Annan IV e Annan V. Il piano Annan V fu sottoposto all’esame delle due parti il 31 marzo 2004. Era un copioso testo di quasi dieci mila pagine. I ciprioti vennero quindi chiamati a votare su
I PROTAGONISTI
questo testo il 24 aprile 2004, a distanza di appena pochi giorni dall’adesione della Repubblica di Cipro all’Ue. In seguito ad un’intensa discussione pubblica, gli elettori greco-ciprioti respinsero con ampia maggioranza il piano Annan V con il 75,8% dei voti contro il 24,2%. Al contrario, il 64,9% degli elettori turco-ciprioti approvarono il piano. Nonostante il tentativo dell’Onu del periodo 2002-2004 non abbia portato a soluzione la questione di Cipro, il referendum non ha segnato la fine del processo. Il 3 luglio 2006 il Presidente greco-cipriota Papadopoulos e il leader turco-cipriota Talat si sono incontrati di nuovo e, alla presenza del Rappresentante Speciale del Segretario Generale dell’Onu a Cipro, hanno raggiunto un nuovo accordo l’8 luglio 2006. Il 29 agosto 2006 il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha chiesto che l’Accordo dell’8 luglio fosse applicato senza ulteriori ritardi e ha espresso il suo sostegno ai continui sforzi del Segretario Generale per raggiungere una soluzione complessiva a Cipro. Di fatto, però, il processo di pace e riunificazione, pur se continuamente rilanciato con sempre nuove speranze, non è stato ancora compiuto.
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2011 uscito nel giugno 2012 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DALLA GEORGIA RIFUGIATI
10.112
SFOLLATI PRESENTI NELLA GEORGIA 273.997 RIFUGIATI ACCOLTI NELLA GEORGIA RIFUGIATI
462
Torture a Tbilisi
Dopo la trasmissione di alcuni filmati in cui si vedono agenti di custodia torturare numerosi detenuti, si sono succeduti in Georgia, a Tbilisi e in altre città, numerose manifestazioni di protesta. In seguito a queste, Khatuna Kalmakhelidze, ministro che si occupa delle carceri, si è dimessa; il Presidente Saakashvili ha sospeso a tempo indeterminato tutto il personale del carcere di Tbilisi dove le immagini sono state registrate con un cellulare e si è detto indignato che episodi del genere possano accadere. Probabilmente però lo scandalo lo ha punito alle ultime elezioni.
UNHCR /Y. Mechitov
Tutto cambierà in Georgia. Questa è l´unica certezza dopo la vittoria del leader dell´opposizione Bidzina Ivanishvili, che ha ottenuto il 55% dei voti con la coalizione “Sogno Georgiano” nelle elezioni parlamentari. Il leader della coalizione ha dichiarato che non rimarrà in carica “neanche uno dei ministri”. Ivanishvili ha anche garantito che il processo di transizione ci sarà e avverrà in un ambiente di cooperazione con il Governo uscente. L´attuale Presidente Mijaíl Saakasvili ha riconosciuto la sconfitta e ha dimenticato i rancori dopo l´invito alle dimissioni di Ivanishvili. Saakasvili ha tanti difetti: egocentrico e autoritario, spesso le sue politiche economiche sono state mal concepite, ma è, nonostante tutto, un uomo democratico. “Ha istituzionalizzato un sistema democratico che si trova in netto contrasto con le autocrazie asiatiche centrale e per la democrazia Potemkin della Russia. L´economia georgiana crescerà di circa il 7,5% quest´anno. La corruzione di Stato è stata drasticamente ridotta”, hanno spiegato gli analisti internazionali. Tutti dati positivi per la crescita. Saakashvili resterà Presidente fino alle elezioni che si terranno il prossimo anno, ma non potrà essere rieletto alla fine del 2013 perché la Costituzione impedisce un terzo mandato. Nel 2014 la Georgia diventerà una repubblica parlamentare e l´uomo forte sarà il primo ministro, eletto dalla maggioranza del Parlamento e con l´incarico di guidare la politica estera e interna del Paese. Ora nella scena politica georgiano irrompe quindi il miliardario Bidzina Ivanishvili, che molto probabilmente ricoprirà il ruolo di premier. Ivanishvili è un uomo con un patrimonio di circa la metà del Pil della Georgia. La sua fortuna è stata costruita in Russia, il che ha portato i suoi critici ad avvertire sulle possibilità che il Paese si allontani dall´Occidente ed entri nell´orbita di Mosca. Una certezza però l´ha anticipata ed è che la Georgia manterrà la disposizione di entrare nella Nato e di stringere i rapporti con gli Stati Uniti e l´Europa, oltre ad avere una posizione strategica tra la
GEORGIA
Generalità Nome completo:
Georgia
Bandiera
203
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Georgiano
Capitale:
Tbilisi
Popolazione:
4.989.000
Area:
69.510 Kmq
Religioni:
Ortodossa georgiana (76%), musulmana (9.9%), ortodossa russa (3%), armena apostolica (4.9%), cattolica (2%), altre (3.2%)
Moneta:
Lari georgiano
Principali esportazioni:
Metalli ferrosi e non, alcuni prodotti agricoli, vino
PIL pro capite:
Us 3.586
Russia, la Turchia, l’Iran e l’Asia centrale. Secondo molti osservatori, Ivanishvili diventerà un ministro forte con un approccio più pragmatico nelle relazioni con i suoi vicini di Regione. Nel mare di incertezze c´è però un punto fermo: l´accettazione della vittoria di Sogno Georgiano da parte del partito di governo Movimento Nazionale Unito è la prima dimostrazione della transizione pacifiche tra partiti a confronto dopo la caduta dell´Unione Sovietica nel 1991.
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Fra le 15 Repubbliche che componevano l’ex Unione Sovietica, la Georgia è quella che in termini di integrità territoriale e di stabilità politica interna ha pagato il prezzo più alto da quando l’Urss si è disintegrata, nel 1991. Ma è vero anche che è stato un georgiano, Iosif Vissarionovič Stalin, a creare buona parte dei problemi etnici che la nuova Repubblica della Georgia – indipendente dal 9 marzo 1991 – si è trovata a dover gestire, finora con scarsi successi. Fu Stalin, infatti, a permettere nel 1931 che la sua Georgia si annettesse il Principato di Abkhazia, la regione costiera situata a Nord, sul Mar Nero, che da secoli godeva di un’ampia autonomia all’interno dell’Impero ottomano, favorendo negli anni successivi da un lato l’immigrazione della popolazione georgiana e dall’altro l’uso della lingua georgiana al posto della lingua locale. E fu sempre Stalin ad acconsentire che l’Ossezia, altra Regione frontaliera fra Russia e Georgia, venisse divisa fra un Nord integrato nella Federazione Russa e un Sud annesso alla Georgia, senza tener conto degli inevitabili dissapori che questa divisone avrebbe creato, vista l‘omogeneità etnica e linguistica delle due Regioni. Non è dunque per caso se, già con i primi fermenti politici che porteranno alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, in entrambe le Regioni si manifestano fortissime tentazioni separatiste, a dispetto dell’esiguità dei territori in ballo: l’Abkhazia è infatti un fazzoletto di terra di appena 8mila chilometri quadrati, su cui vivono oggi poco più di 200mila abitanti; l’Ossezia del Sud è ancora più piccola, con meno di 70mila abitanti sparsi su 4mila chilometri quadrati. Sta di fatto che, subito dopo la dichiarazione d’indipendenza della Georgia, è proprio l’Abkhazia, il 23 luglio 1992, a dichiarare unilateralmente la sua indipendenza. In Ossezia, invece, il soviet supremo locale vota nel 1989 l’unificazione con l’Ossezia del Nord. Ma il giorno dopo il Parlamento georgiano revoca questa decisione e abolisce lo statuto di ampia autonomia che era stata fino ad allora accordato alla Regione. La prima guerra con l’Ossezia inizia proprio nel gennaio 1991, quando le forze armate georgiane entrano in Ossezia per riprendere il controllo della situazione. Dopo un anno e mezzo di pesanti scontri – ed un referendum popolare con cui gli osseti scelgono l’indipendenza – una tregua viene firmata, il 26 giugno 1992, dal nuovo Presidente georgiano Eduard Shervadnadze e dal nuovo Presidente russo Boris Yeltsin. Si tratta di un accordo secondo cui la Russia riconosce l’intangibilità della frontiera internazionalmente definita. Con un secondo referendum popolare, nel novembre 2006, la popolazione dell’Ossezia del Sud, a stragrande maggioranza (92%) conferma però la sua volontà secessionista. In Abkhazia la prima guerra scoppia subito dopo la dichiarazione unilaterale d’indipendenza, nel luglio 1992. In agosto tremila soldati georgiani
entrano nella Regione e dopo aspri combattimenti occupano Sukumi, la capitale. Centinaia di volontari, provenienti dalla Russia e dalle ex Repubbliche sovietiche – fra cui il famoso leader ceceno Shamil Basaiev – accorrono in aiuto delle milizie separatiste, finché la situazione sul terreno non viene rovesciata e si arriva ad una tregua, firmata il 27 luglio 1993. Una pace precaria regna nelle due Repubbliche secessioniste fino al 2004, quando la Rivoluzione delle Rose e l’ascesa al potere in Georgia del nuovo leader, Mickail Saakasvili, gettano nuova benzina sul fuoco del nazionalismo georgiano, rinfocolando la speranza di poter riprendere il controllo sulle due Regioni ribelli. A tale scopo, la Georgia procede ad un massiccio riarmo: le spese per armamenti dal 2004 in poi crescono a ritmi vertiginosi, fino a sfiorare il 10% del Pil, una vera e propria follia per un Paese povero, che dipende dalle importazioni dall’estero, in particolare dalla Russia. Nasce così la guerra-lampo lanciata dalla Georgia con esiti disastrosi nella notte fra il 7 e l’8 agosto 2008. La reazione russa è infatti immediata e sproporzionata – come stabilirà un rapporto del Parlamento Europeo – e in soli cinque giorni di combattimenti la guerra farà 850 morti e 100mila sfollati, quasi tutti georgiani. La tregua firmata il 12 agosto su iniziativa della Ue congela inoltre una situazione decisamente favorevole ai separatisti, tant’è che – forti dell’appoggio russo – sia l’Abkazia che l’Ossezia del Sud dichiarano unilateralmente la propria indipendenza, nel settembre 2008.
Per cosa si combatte
Il problema vero è che l’entità statale georgiana risulta troppo debole di fronte alla molteplicità di interessi etnici e di spinte regionalistiche che dilaniano il suo territorio. A questo si aggiunge la pressione della Russia, che in nome
Quadro generale
Ortodossi contro gay
In occasione della Giornata internazionale contro l’omofobia, per la prima volta nella storia della Georgia la capitale Tiblisi ha ospitato una manifestazione in difesa dei diritti delle persone omosessuali. L’iniziativa è stata disturbata da un gruppo radicale di cristiani ortodossi, che ha circondato la marcia e aggredito i manifestanti. L’intervento della polizia, dopo qualche esitazione, ha messo fine alla violenza. Gli agenti tuttavia hanno fermato alcuni aggressori e qualche manifestante, accusato di essersi difeso con troppa forza. Nonostante ciò, la Georgia è uno dei pochi Paesi un tempo parte dell’Urss in cui i giudizi delle Ong che misurano gli atteggiamenti omofobici nel mondo, non sono negativi.
UNHCR / Y. Mechitov
Bidzina Ivanishvili (Chorvila, 18 febbraio 1956)
UNHCR / Y. Mechitov
Contromisure informatiche
Una contromossa senza precedenti, studiata dagli esperti in sicurezza informatica del Governo georgiano. Un cracker di origini russe è stato così smascherato dalla sua stessa webcam, controllata in remoto dopo lo scaricamento di un falso documento contenente informazioni riservate. In pochi secondi, il misterioso smanettone russo si è reso conto di aver scaricato il documento sbagliato, prima di interrompere la connessione e dunque uscire dal campo visivo della webcam. Misura tardiva: il Governo di Tbilisi ha diramato un file Pdf con ben due immagini del soggetto, da tempo nel mirino delle autorità locali. Apparentemente coinvolto nelle cyberoperazioni della botnet Georbot, il cracker era riuscito ad infiltrarsi nelle infrastrutture informatiche di numerose agenzie governative, ma anche istituti bancari per trafugare informazioni come ad esempio numeri di carte di credito e di debito.
della difesa delle minoranze a lei legate, per storia e per lingua, continua a ritenere la Georgia parte integrante della sua tradizionale zona d’influenza. Mosca d’altronde non ha mai digerito la cosiddetta Rivoluzione delle Rose che nel novembre 2003 ha portato al potere a Tblisi l’attuale Presidente, Mikhail Saakashvili, considerato troppo filo-americano rispetto al suo predecessore, Eduard Shervardnaze. E da allora ha ingaggiato con le autorità georgiane una complicatissima partita a scacchi, di cui la guerra-lampo dell’agosto 2008 è solo una delle tante mosse, la più audace. Nel gennaio 2006, ad esempio, Mosca chiude senza preavviso i rubinetti del gas siberiano che rifornisce Tblisi; e nell’aprile dello stesso anno blocca le impor-
I PROTAGONISTI
tazioni di vino georgiano. Le autorità di Tblisi replicano intensificando il dialogo con Bruxelles, per un ingresso ufficiale della Georgia nella Nato. Russia e Georgia si danno inoltre battaglia nella cosiddetta Guerra dei Gasdotti: Tblisi aderisce infatti e viene coinvolta nel tracciato del gasdotto Nabucco, che porterà in Europa gas e petrolio del Mar Caspio senza passare dal territorio russo; mentre Mosca vara in risposta due progetti di gasdotti alternativi, Northstream e Southstream, che escludono dal loro tracciato l’uno l’Ucraina e l’altro la Georgia. Per molti versi, vista la disparità delle forze in campo, sembra di assistere al confronto fra Davide e Golia. Non è casuale se in vista delle prossime scadenze elettorali – le parlamentari nel 2012 e le presidenziali nel 2013 – diverse forze di opposizione hanno deciso di riavvicinarsi a Mosca, auspicando che si instauri un dialogo, che ponga fine all’insostenibile contenzioso attuale.
205
Bidzina Ivanishvili, miliardario eccentrico ed entusiasta per gli animali esotici, ha appena vinto le elezioni georgiane. E’ ancora un enigma per chi cerca di tracciarne un profilo biografico. Nell’autunno dello scorso anno, prima dell’annuncio della sua discesa in campo, di Ivanishvili si sapeva solo che era l’uomo più ricco della Georgia, che aveva società nel settore bancario e metallurgico e che aveva accumulato gran parte delle sue ricchezze nel periodo delle privatizzazioni post-sovietiche in Russia. Un oligarca, a differenza dei suoi omologhi russi e ucraini dal profilo talmente riservato che la stampa russa l’aveva definito il miliardario più misterioso al mondo. I giornali si erano occupati di lui solo quando acquistò a un’asta di Sotheby’s un quadro di Picasso per 95milioni di dollari. Nato nel 1956 nel villaggio di Chorvila, Bidzina Ivanishvili si trasferì giovanissimo a Mosca, tentando la fortuna. Chi l’ha incontrato il giorno dopo la clamorosa vittoria elettorale, si è trovato di fronte un uomo dall’eloquio stentato, dall’aria insicura, impacciato e politicamente sprovveduto. Ma proprio il basso profilo, l’aria timida e riservata da ragazzo di campagna dalle umili origini sono state sicuramente le sue armi vincenti.
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2011 uscito nel giugno 2012 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DAL KOSOVO (+ SERBIA) RIFUGIATI
161.671
PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI GERMANIA
110.455
FRANCIA
10.891
MONTENEGRO
9.367
SFOLLATI PRESENTI NEL KOSOVO (+ SERBIA) 228.215 RIFUGIATI ACCOLTI NEL KOSOVO (+ SERBIA) RIFUGIATI
70.707
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI CROAZIA
49.946
BOSNIA & HERZEGOVINA
20.673
Non essendo stato ancora riconosciuto il Kosovo i dati sono riferiti all’intera Serbia
Occupazione un sogno
In Kosovo il tasso di disoccupazione tra i giovani di età fra i 15 e i 24 anni è del 73%, mentre a essere senza lavoro è il 42% nella fascia tra 25 e 54 anni. È uno dei dati contenuti nel rapporto sullo sviluppo umano in Kosovo pubblicato a Pristina dall’Undp (United Nations Development Programme). Il salario medio mensile nel settore privato è pari a 260 euro, la metà rispetto alla vicina Macedonia, si legge nel rapporto, secondo il quale il 44,5% del personale nel comparto privato è assunto tramite raccomandazione, con il 34% dei datori di lavoro che offrono impiego servendosi di legami familiari. Evasione fiscale, corruzione, criminalità restano a livelli molto alti.
A quattro anni dall’Indipendenza (“pavaresia”), il Kosovo acquista a settembre 2012 la piena sovranità con la cessazione della sorveglianza del Gruppo Internazionale di Orientamento (Isg International Steering Group) che raggruppa 25 Paesi, compresi Usa, Turchia e gran parte degli stati Ue. Si tratta del riconoscimento dei progressi fatti dal Kosovo sulla strada della democrazia e dello stato di diritto. Mentre il premier kosovaro Hashim Thaci ha parlato di “grande successo” e di “giornata storica per il Kosovo”, da Belgrado il suo collega serbo Ivica Dacic ha ribadito che la Serbia “non riconoscerà mai l’indipendenza di Pristina”. Le relazioni diplomatiche rimangono molto difficili e anche la situazione sul terreno lo dimostra: la popolazione serba che risiede nel Nord del Kosovo continua a sentirsi parte della Serbia che mantiene un “governo parallelo” (scuola, sanità, amministrazione pubblica). La tensione militare tra i due Paesi, soprattutto nel distretto della città di KosovskaMitrovica (307500 abitanti), resta alta. La Kfor (Forza Nato in Kosovo con mandato Onu) - mantiene attualmente nel Paese circa 6mila militari (nel 1999 contava oltre 40mila uomini) di varie nazionalità (il contingente italiano è il più numeroso, seguito da quello tedesco), e continua ad inviare soldati nel Kosovo del Nord. Con una tensione interetnica sempre palpabile, nel Nord si susseguono incidenti ed episodi più o meno gravi. Già a fine 2011 si erano verificati scontri e barricate ai valichi doganali con la Serbia. E ancora nel 2012 si sono ripetuti episodi analoghi. A rendere estremamente delicata la relazione Serbia-Kosovo, rimane la questione del “traffico organi/crimini di guerra”. A settembre 2012, fa scalpore l’agghiacciante testimonianza resa al primo canale della Radiotelevisione serba (Rts) di Belgrado da un ex-guerrigliero indipendentista albanese dell’Uck (Esercito di liberazione del Kosovo), che aveva partecipato al conflitto armato contro i serbi (1998-1999). Il testimone riferisce in TV il fatto che gli organi venivano prelevati, spesso in maniera disumana,
KOSOVO
Generalità Nome completo:
Repubblica del Kosovo
Bandiera
207
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Albanese, Serbo
Capitale:
Prishtina/Priština
Popolazione:
Stime recenti parlano di 2.130.000 abitanti
Area:
10.887 Kmq
Religioni:
Musulmana, ortodossa, cattolica
Moneta:
Euro (moneta parallela al dinaro serbo al Nord)
Principali esportazioni:
Minerali e metalli non lavorati, prodotti manifatturieri
PIL pro capite:
Us 1,612
dai prigionieri serbi, e venduti poi sul mercato nero. Belgrado insiste nelle accuse di “crimini di guerra” al Kosovo. Accuse che hanno trovato conferma in un rapporto del parlamentare svizzero Dick Marty, approvato nel gennaio 2011 dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa. La Ue ha nominato il procuratore Usa John Williamson alla testa di una commissione d’inchiesta. Pristina, a cominciare dal premier Hashim Thaci - egli stesso un ex-capo Uck nel 1998-1999 - nega con forza ogni accusa.
Al centro della “questione kosovara” c’è il mantenimento dell’indipendenza nazionale conquistata nel 2008. La Serbia continua a considerare il Kosovo sotto la sua amministrazione alla luce degli articoli 108-117 della sua Costituzione del 2006: al Kosovo è riconosciuto il solo status di Provincia Autonoma. Già ai tempi della Jugoslavia di Tito, il Kosovo godeva di una grande autonomia politica ed amministrativa. Nonostante l’etnia albanese rappresentasse la stragrande maggioranza della popolazione del Kosovo, nel marzo 1989 il Presidente della Serbia, Slobodan Miloševic, revocò gran parte dell’autonomia territoriale: la lingua albanese
non fu più lingua co-ufficiale nel Kosovo accanto al serbo-croato, le scuole autonome di lingua albanese vennero chiuse, i funzionari amministrativi e gli insegnanti albanesi vennero sostituiti con serbi o persone ritenute fedeli alla Serbia. Grazie alla Lega democratica del Kosovo (Ldk) di Ibrahim Rugova si adottò per anni una resistenza non violenta ma poi prese il sopravvento la lotta armata indipendentista guidata dall`Uck (Esercito di Liberazione del Kosovo). Si scatenò la guerra tra serbi e albanesi del Kosovo che deposero le armi solo dopo i “78 giorni” di bombardamenti Nato.
Per cosa si combatte
Il Kosovo si trova nella parte Sud-Ovest della Penisola Balcanica e presenta un territorio prevalentemente montuoso con i Monti Šar a Sud e Sud-Est e la Gjeravica, a Sud-Ovest (con la cima più elevata, 2.656 metri). È ricco di fiumi e di laghi e notevoli sono le cascate del fiume Drin, alte 25 metri, e le Cascate Mirusha. Il Kosovo non ha sbocco sul mare e confina con l’Albania (per 111,7 km), con la Macedonia (per 158,7 km), con il Montenegro (per 78,6 km) e con la Serbia (per 351,6 km) Il Kosovo, indipendente dal 17 febbraio 2008, è una Repubblica Parlamentare rappresentativa, su base multietnica e comunitaria. La sua Amministrazione Pubblica è affidata all’Unmik (United Nations Interim Administration Mission in Kosovo), la missione delle Nazioni Unite nata il 10 giugno 1999 con la risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Dal 2008, dopo la dichiarazione d’indipendenza, molte delle funzioni svolte dalla missione Unmik avrebbero dovuto essere trasferite alla missione Eulex, (European Union Rule of Law Mission in Kosovo) istituita dall’Unione Europea per accompagnare il Kosovo nel processo
di istituzione delle strutture statali (polizia, magistratura, dogana, ecc.). Tuttavia, il passaggio di consegne tra le due Missioni non è ancora stato attuato. Al 1° Giugno 2012, il Kosovo è stato formalmente riconosciuto come uno Stato indipendente da 91 dei 193 Stati membri delle Nazioni Unite, più Taiwan (non-membro) e Sovrano Militare Ordine di Malta (osservatore permanente). All’interno dell’Unione Europea, dei 27 Stati che ne fanno parte, 22 hanno riconosciuto l’indipendenza del Kosovo, mentre Grecia, Spagna, Slovacchia, Romania, e Cipro non lo hanno fatto. Capo dello Stato è la signora Atifete Jahjaga nominata nell’aprile 2011. Capo del Governo e primo Ministro è il signor Hashim Thaçi leader del Partito Democratico del Kosovo (Pdk). Su Hashim Thaci pesa un’accusa durissima mossa da Dick Marty, senatore svizzero, davanti all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (16 dicembre 2010). Nel Rapporto Marty, Hashim Thaci veniva indicato come l’organizzatore di crimini efferati durante e dopo la guerra del 1999. Il Governo del Kosovo è composto da 17 mini-
Quadro generale
Dipendenza economica
208
Le esportazioni del Kosovo consistono in massima parte in prodotti agricoli e materie a basso valore. Le importazioni coprono quasi tutto lo spettro merceologico, inclusi i prodotti agricoli, a dimostrazione della scarsa autosufficienza dell’economia kosovara. Gli scambi sono limitati in massima parte ai Paesi confinanti (Macedonia, Albania, Serbia), ad alcuni Paesi europei (Germania, Italia, Slovenia, più Svizzera e Turchia) e alla Cina.
Giovani e blog
In una nazione dove il 70% della popolazione ha meno di trent’anni è nato il progetto Kosovo 2.0. Il portale web in particolare è un interessante esperimento di citizen journalism balcanico. I blogger di Kosovo 2.0 sono giovani, tra i 20 e i 30 anni, che scrivono da più parti del mondo. www.kosovotwopointzero.com/en
Atifete Jahjaga
(Djakova , 20 aprile 1975)
Ancora troppi dispersi
Sono 1781 le persone che risultano ancora disperse per le conseguenze del conflitto armato della fine degli anni novanta in Kosovo. Lo ha dichiarato ad aprile 2012 il capo della missione europea in Kosovo Eulex, il francese Xavier de Marnhac. Parlando nella Giornata Internazionale degli Scomparsi in Kosovo (30 agosto), de Marnhac ha detto che Eulex assiste il Dipartimento di medicina legale del ministero di Giustizia kosovaro nei suoi sforzi per stabilire la sorte delle persone scomparse. Ancora a fine agosto 2012, Amnesty International ricordava che i Paesi nati dalla frantumazione della Jugoslavia socialista non hanno adempiuto in modo soddisfacente ai loro obblighi internazioni nella ricerca dei dispersi, e soprattutto nella ricerca e punizione dei responsabili, omissioni da attribuire “alla mancanza di volontà politica”. 209
Atifete Jahjaga si è laureata in Legge all’Università di Pristina nel 2000. Ha poi continuato gli studi a Manchester, in Inghilterra, dove ha conseguito nel 2007 un master in “police management and criminal justice”. Si è arruolata nella polizia del Kosovo come semplice agente, per divenire poi investigatore e raggiungere la posizione di vice-capo del corpo. La Jahjaga ha seguito corsi di addestramento allo European Security Center “George Marshall” in Germania e nella “Fbi National Academy” del Dipartimento di Giustizia negli Usa. Atifeta Jahjaga si è dichiarata pubblicamente disponibile a riprendere il dialogo con Belgrado, sottolineando che: ‘’Solo nella veste di leader legali e legittimati dei nostri Paesi, che esprimono la volontà dei rispettivi cittadini, noi possiamo parlare e trovare soluzioni sostenibili e a lungo termine”.
stri. Secondo la Costituzione, almeno 3 ministri del Governo devono provenire dalle Minoranze etniche (almeno 2 devono appartenere alla Minoranza serba). Anche all’interno del Parlamento kosovaro è prevista una composizione che garantisca la presenza ai gruppi etnici minoritari. Il Parlamento è composto, infatti, da 120 deputati eletti secondo il seguente sistema: 100 per voto diretto secondo il sistema proporzionale, un minimo di 10 seggi sono garantiti alla minoranza serba e 10 alle altre minoranze presenti nel territorio tra Rom (1 seggio), Ashkali (1 seggio) ed Egiziani (1 seggio), 3 seggi a Bosniaci, 2 ai Turchi e 1 ai Gorani. I deputati durano in carica 4 anni. Dal 1999, il Kosovo è composto da sette distretti amministrativi: Mitrovica/Kosovska Mitrovica, Prishtina/Priština, Gjilani/Gnjilane, Peja/Peć, Gjakova/Đakovica, Prizreni/Prizren, Ferizaji/ Uroševac L’unica università del Kosovo è l’Università di
I PROTAGONISTI
Pristina che attualmente si divide in due unità: una in lingua albanese, con sede a Pristina e 17 facoltà attive, e l’altra, in lingua serba ed affiliata all’Unione delle Università Serbe, con sede principale a Kosovska Mitrovica, con 10 facoltà. La Corte Suprema è la massima Autorità Giudiziaria. La Costituzione prevede anche un Consiglio Giudiziario del Kosovo che propone al Presidente i candidati a giudice procuratore ed è responsabile della carriera e dei procedimenti disciplinari dei giudici. Almeno il 15% della Corte Suprema e delle Corti Distrettuali devono essere formate da rappresentanti delle minoranze. La formazione e lo sviluppo del sistema giudiziario del Kosovo sono attualmente sostenuti dalla missione Eulex. Il Kosovo ha una tra le economie meno sviluppate d’Europa, non autosufficiente, fortemente dipendente dalle importazioni. Una buona parte dell’economia rimane “sommersa”. Si stima che essa rappresenti tra il 26% ed il 35% del Pil del Kosovo (alcune stime parlano del 50%). Ciò significa anche un notevole danno erariale per lo Stato.
Inoltre Paesi Baschi “Nonostante la crisi economica spagnola il processo di pace va avanti”.
Molti tecnici della politica internazionale, nell’affrontare la questione legata alla situazione dei Paesi Baschi hanno ipotizzato che le elezioni del 21 ottobre 2012 porteranno alla guida del Paese una maggioranza pro-indipendentista composta dal Pnv (Partito nazionale vasco) e da Bildu, formazione sospettata di legami con l’organizzazione terroristica dell’Eta. Dietro all’indipendentismo dei Paesi Baschi c’è sempre stata l’ombra dell’Eta. Ma un percorso di ricostruzione e di pacificazione si è avviato e sta, passo dopo passo, andando avanti. La crisi economica che attraversa la vicina Spagna e gran parte dell’Europa non ha sicuramente creato un clima disteso nel Paese, che si è visto in diverse occasioni (l’ultima il 26 settembre 2012, durante lo sciopero generale contro le riforme di austerity proposte dal Governo di Mariano Rajoy) protagonista di numerosi scontri. Il quel 26 settembre, in particolare, violenti incidenti si sono verificati nella Regione basca e a Navarra (nel Nord della Spagna) quando i manifestanti hanno scagliato bottiglie e altri oggetti contro chi si stava recando a lavoro. Sei le persone ferite, di cui quattro poliziotti. Ma una strada verso l’abbandono della lotta armata i Paesi Baschi la stanno percorrendo. Il 20 ottobre del 2011 l’Eta ha annunciato la fine della lotta armata. Con un video inviato al quotidiano basco Gara, l’organizzazione armata che da 43 anni è stata in guerra con il Governo Spagnolo per l’indipendenza dei Paesi Baschi, ha proclamato la “fine definitiva della lotta armata” senza porre nessuna condizione e ha sollecitato “l’apertura di un dialogo diretto con i Governi spagnolo e francese per risolvere le conseguenze del conflitto”. La scelta dell’Eta
di abbandonare la lotta armata era attesa ed è la conseguenza diretta dell’indebolimento dell’organizzazione, decimata negli ultimi anni da numerosi arresti, e da un cambio radicale del quadro politico spagnolo. Il 17 ottobre 2011 si è chiusa a San Sebastian la prima conferenza internazionale di pace per i Paesi Baschi. Non riconosciuta dal Governo spagnolo che la considera una “manovra della sinistra indipendentista” per conquistare credibilità internazionale, la conferenza ha rappresentato comunque una tappa fondamentale verso la soluzione del conflitto, perché ha visto la partecipazione di tutti i partiti e i sindacati baschi – che con l’Eta hanno avuto da sempre rapporti più o meno dichiarati – oltre a nomi illustri del panorama della politica internazionale. La conferenza si è conclusa con l’adozione di una risoluzione di cinque punti nella quale si chiedeva da parte dell’Eta una dichiarazione pubblica di “abbandono definitivo della violenza”, arrivata dopo appena tre giorni. Il documento, letto dall’ex premier irlandese Bertie Ahern ha chiesto anche che “i Governi spagnolo e francese accettino di intraprendere un dialogo”. Una soluzione che è stata ufficialmente accolta anche da tutte le associazioni e i movimenti che compondono la cosiddetta “sinistra abertzale”, la sinistra indipendentista radicale basca. Dopo la tregua che l’Eta aveva annunciato nel gennaio del 2011, la sinistra indipendentista ha presentato una sua formazione per le elezioni amministrative di fine maggio 2011, ottenendo per la prima volta il via libera dei giudici spagnoli. Il partito basco Bildu (riunire) ha potuto partecipare alle elezioni ottenendo un risultato storico: con 313mila voti e il 22% dei consensi guadagnati in tutti e 4 i territori del Paese Basco, si è affermato come la forza maggioritaria nel panorama politico locale. Per i baschi si è trattato della possibilità di vedere rappresentate politicamente le proprie istanze di indipendenza. Anche le prossime elezioni, quelle dell’ottobre del 2012, danno loro come favoriti, anche se coalizzati con il Partito nazionale vasco.
211 Fabio Bucciarelli
SPECIALE SVOLTA ISLAM
Speciale Svolta Islam Adel Jabbar
A circa due anni dall’inizio delle rivolte ci si sta interrogando sui possibili sbocchi. Alcuni degli effetti già si intravedono, come per esempio il ripristino dello spazio pubblico come luogo di dibattito, confronto e scambio di idee che per molti anni era rimasto monopolio dei regimi despotici. Un altro effetto riconoscibile è lo sgretolarsi della cultura della paura con cui si è convissuto per decenni, più o meno consciamente, e di conseguenza la riscoperta dell’influenza dell’individuo sull’affare pubblico e sul potere politico. Infine, agli occhi dei cittadini, degli osservatori e probabilmente dei governanti stessi, inaspettata sorpresa, si è rivelata la molteplicità di correnti di pensiero, di opinioni e di punti di vista presenti nella società. In questo quadro si colloca oggi il contenzioso tra i diversi attori che concorrono per la gestione dei cambiamenti e di conseguenza del potere politico. Un particolare attore politico, sociale e culturale, che sta dimostrando di avere un seguito consistente, è sicuramente il filone che fa riferimento all’Islam politico nelle sue diverse anime, tra cui la confraternita dei fratelli musulmani, la realtà sfaccettata dei movimenti salafiti, fino ad arrivare all’Islam liberale. Ciò non avviene soltanto nei Paesi che sono tuttora sotto i riflettori dei media come la Tunisia, l’Egitto, la Libia e la Siria, bensì nella totalità del mondo arabo, compresi la Mauritania, il Sudan, i Paesi del Golfo e lo stesso Iraq “liberato”, che sta vivendo un endemico conflitto tra le varie componenti presenti che hanno beneficiato dell’occupazione del Paese. In sostanza notiamo che a seguito delle sollevazioni partite dalla Tunisia con la tragica vicenda di Mohammed Bouazizi nel novembre del 2010, la vita pubblica dello scenario arabo si è vivacizzata, divenendo molto più complessa. L’Islam politico e culturale che a causa delle persecuzioni da parte dei regimi durante tutto l’arco del ‘900 è rimasto ai margini della vita pubblica (tranne che per qualche eccezione come in Arabia Saudita), ora torna ad essere un protagonista dei processi politici. Nel passato periodo di emarginazione, quando questi movimenti si sono trovati ad avere spazi molto limitati per potersi confrontare concretamente con altri attori al fine di dibattere apertamente le questioni legate alla gestione pubblica, la gente comune si è creata prevalentemente due immagini degli esponenti dei movimenti islamici: da un lato l’immagine dei devoti perseguitati per la loro dedizione alla religione e dall’altro quello di una combriccola di cospiratori alla ricerca del potere per imporre la propria visione del mondo. L’attuale acquisizione di legittimità tuttavia implica l’assunzione di una serie di responsabilità, nel momento in cui dalle urne viene loro conferito la gestione della cosa pubblica. Una delle sfide più urgenti sarà quella di gestire gli aspetti legati all’economia e al lavoro e quindi l’individuazione e la definizione di modelli di sviluppo, ma naturalmente anche
213
Rivolte Arabe: resta il dubbio sull’inizio del cambiamento
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la sovranità degli Stati e la loro collocazione nel panorama geopolitico attuale. Un ulteriore tema di rilevante importanza è il rapporto tra politica e religione tarato sulla realtà dei Paesi arabi, considerando l’attuale natura molto superficiale del dibattito in atto sia da parte dei laici che da parte dei religiosi. Un’altra questione impellente è quella che riguarda il ruolo delle donne all’interno della società e dei loro diritti. Infine si avverte una forse eccessiva preoccupazione da parte di alcuni commentatori e osservatori rispetto all’affermazione dei movimenti politici di ispirazione religiosa, in alcuni casi dovuta a pregiudizi ideologici o semplicemente ignoranza riguardo alle realtà in questione, ma in altri casi di tipo strumentale. Tale preoccupazione può essere definita eccessiva in quanto questi movimenti, pur avendo una performance elettorale significativa, si confrontano con un corpo elettorale molto diversificato e scettico. L’esperienza dei movimenti religiosi che hanno avuto accesso al potere politico in alcuni Stati ha dato risultati molto deludenti, finanche drammatici, come in Iraq e in Sudan per citarne due. Nemmeno l’Arabia Saudita, stretto alleato degli Usa, rappresenta un modello di riferimento per le popolazioni dei Paesi arabi. Quindi, visto che finalmente si è aperta una dinamica di confronto politico dialettico, appare legittimo permettere di governare a chi ha ottenuto il mandato dagli elettori, i quali giudicheranno l’operato dei loro rappresentanti. Sono tante le domande che si pongono oggi nel mondo arabo sulla natura e sul futuro dei cambiamenti in atto. Una domanda in particolare si riferisce ai cambiamenti: sono il frutto e la conseguenza di una rivoluzione? La risposta di autorevoli osservatori arabi recita così: è meno di una rivoluzione e più di una sollevazione. Una rivoluzione solitamente è caratterizzata da riferimenti ideologici, da un leader carismatico e da una formazione politica che si impegna a guidare lo stato e realizzare gli obiettivi prefissati. Tutto ciò non è avvenuto in nessun Paese arabo teatro degli ultimi moti, anzi si è visto che a vincere le elezioni sono state formazioni politiche conservatrici e nemmeno le principali, se non in secondo momento, protagoniste delle proteste popolari. Questo fatto per alcuni attenti interpreti della vita politica araba potrebbe essere considerato un aspetto positivo non trascurabile nell’edificazione di un nuovo ordine politico in cui vari soggetti si trovano a dover confrontarsi sul da farsi, senza la legittimazione di un qualsivoglia primato o guida rivoluzionaria. Oggi appare fondamentale creare le premesse affinché s’inneschino veri e autentici processi di confronto libero e democratico all’interno di queste società, per sviluppare una propria sovranità di pensiero riguardo ad un rinnovato concetto di democrazia e di sviluppo.
Report Siria Fabio Bucciarelli
Aleppo. The continuing Il primoconflict raggio dell’alba between accarezza army-backed i profili paramilitaries, degli edificiguerrilla distrutti.groups and the security forIces boati continued metallicitocadenzano abuse human senza rights sostaand lo scorrere deprive the del international tempo e inchiodano humanitarian le ore alternando law as result grida of a seriousspettrali, silenzi human rights mentre abuses, uominiespecially donne e bambini in some affrontano regions anduninaltro ruralgiorno areas. fra Notleonly macerie. the violations Iofcolpi international di artiglieria law,ewar di mortaio crimes,vengono threats, crimes sparatiagainst dall’esercito humanity, dell’ancora kidnapping, Presidente forced Bashar disappearanal Asce, landmines, sad contro ipotetici torture obbiettivi are stillsensibili: present inè ilthe fato daya life scegliere of the quale civilians, edificio but also verràmost distrutto. of theOspedali, civilians get caught in panetterie, luoghi the crossfire di ritrovoofsprofondano the armed groups. in polvere seppellendo sotto i detriti decine di corpi. Civilians Ciò nonostante continued la vita to bear va avanti, the brunt ognioffamiglia the conflict, trovaespecially il coraggiothose di affrontare belongingil to quotidiano Indigenous, lavoranAfrodescendant do, mettendosi andinpeasant coda per farmer comprare communities. il pane eDue coricandosi to the rural al tramonto location of in the rifugi conflict precari. zones, Forse many per of the civilian sopportare la victims guerra èofnecessario land minestentare are impoverished di ignorarla,farmers ma miwith chiedo limited comeaccess sia possibile to medical ignorare care. Landmines are l’immagine cruda indiscriminate e continua dei weapons corpi mutilati that have accatastati killed and ai maimed lati di unprimarily ospedale,civilians. dei bambini The weafredpon dallo dati cannotsparo distinguish di un cecchino between e delle a soldier centinaia duringdiconflict morti inand un solo a civilian quartiere, stumbling in un solo upongiorno. even two decade later. L’interesse mediatico An enemy nonalike rendemutilated giustizia combatants a ciò che accade and noncombatants. da due anni in Siria: The diversamente degradation ofdalla the conflictla has Libia, scarsità led to di the risorse installation petrolifere of ed thisi giochi type ofdi cheating potere delle in school grandiyards, potenze backyards, fanno si che roads la co… Today Colombia munità internazionale is the si world’s atteggisecond a pallido dishonorable spettatorevictims di un popolo of these chetraps, da solo second combatte only toil padrone, Afghanistan, a country naufragando in affected uno scontro by an impari. international Ogni giorno war.i guerriglieri della rivoluzione armati di kalashnikov To date, Colombia fronteggiano l’esercito has lealista about 800,000 ed i suoicitizens tank. affected by landmines and unexploded ordinance. Colombia La guerra in hasSiria made nonprogress è una guerra in contrast qualunque, to the non decade incarna of the i canoni 90’s and delearly tradizionale 2000, after scontro the country bellico, subscribe strage di soldati convention-banning suddivisi tra due landmines, fronti. Il conflitto but remains siriano weak è un in gioco the areas al massacro of rehabilitation dove, come andspesreintegration so accade,ofi survivors civili sonoliving i bersagli in society. più colpiti. The tragic Web: www.fabiobucciarelli.com reality of Colombia shows how the civilian victims are still invisible and kept hidden without Mail: info@fabiobucciarelli.com being able to express their feeling.
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Siria, Aleppo – Ottobre 2012 ?????????????? Il conflitto visto da dentro
Il padre con il corpo del figlio fra le braccia piange la sua morte davanti all’ospedale Dar Al Shifa di Aleppo.
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Daily life ad Aleppo. Un gruppo di gente si sofferma davanti all’ospedale di Aleppo all’arrivo di un ferito.
Parenti di una vittima uccisa dalle forze del Presidente Assad piangono la sua morte fuori all’ospedale di Aleppo.
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Un guerrigliero del Free Syrian Army (FSA) scappa dall’attacco di un cecchino di Assad nel quartiere Suleiman Halabi.
Svolta islamica: onda lunga, democrazia breve A oltre un anno dalle proteste che hanno sconvolto il mondo arabo, modificandone in maniera indelebile gli equilibri, la situazione è ancora in continua evoluzione. Desideri di piazza e reazioni dei Governi sono sempre uguali: da una parte si rivendicano i diritti civili e dall’altra si risponde con la repressione, il che rende difficile riuscire a stilare un bilancio ed elaborare una previsione per il futuro. Le dittature moderate e amiche dell’Occidente, cadute in seguito alle manifestazioni, hanno lasciato spazio a forze ispirate alla Fratellanza Musulmana, capeggiate da civili e non da militari. In una situazione in cui i regimi totalitari sono stati sostituiti da Governi islamisti si sono inserite le reazioni alla pubblicazione in rete del trailer del film Innocence of muslims, prodotto da un gruppo di egiziani copti residenti negli Stati Uniti. Una miccia che, nella ricorrenza dell’11 settembre, ha infuocato gli animi non solo in Medio Oriente ma in tutto il mondo islamico, causando attentati alle sedi diplomatiche americane. Una pesante provocazione che ha scatenato un’onda d’urto che si è propagata ovunque. A Bengasi, in Libia, il bilancio più pesante, con l’uccisione di quattro funzionati americani, tra cui l’ambasciatore J. Christopher Stevens. Migliaia di manifestanti hanno protestato di fronte alle ambasciate statunitensi da Casablanca fino al Bangladesh, passando per lo Yemen, il Libano, l’Iran provocando in tutto decine di morti e centinaia di feriti.
218
ARABIA SAUDITA
BAHRAIN
Cuore delle proteste saudite è al-Qatif, città molto ricca di petrolio nella zona Est del Paese, dove si concentra la maggior parte della popolazione sciita, che costituisce il 10% della popolazione totale, contro l’85% dei sunniti. Gli sciiti si sentono discriminati dal regime e dal governo sul piano del lavoro, dell’istruzione, della libertà religiosa e accusano gravi sperequazioni nella distribuzione e nella fruizione sociale dei ricavi petroliferi. Negli ultimi mesi la loro situazione sta peggiorando. Chiedono uguaglianza, diritti, libertà, oltre alla liberazione dei prigionieri politici, in particolare del noto religioso sciita Sheikh Nemr al-Nemr, che da tempo si oppone alle autorità di Riyadh. Nelle manifestazioni a centinaia hanno preso d’assalto le strade della città, lanciando slogan e incendiando copertoni d’auto. Le forze di sicurezza sono intervenute con i blindati, uccidendo almeno due persone, e le autorità saudite hanno emesso vari capi di accusa, fra cui possesso illegale di armi, spari in luogo pubblico e contro la polizia, e di essere al servizio di piani stranieri per rovesciare l’ordine costituito. Secondo i regnanti Saud, infatti, le proteste sarebbero fomentate dall’Iran in chiave antisunnita. La politica estera dei sauditi, maggiori esportatori mondiali di petrolio, negli ultimi anni si è caratterizzata in chiave anti-iraniana e anti-Assad, appoggiando i ribelli siriani in nome di un Medio Oriente sunnita. Re Abdullah, inoltre, non ha mai fatto mancare l’appoggio alla repressione delle manifestazioni di protesta in Bahrein. La violenza di Casa Saud, poi, non ha risparmiato nemmeno gli attivisti per i diritti umani. Quattro di loro in particolare, l’avvocato Walid Abu al-Khair, lo scrittore Mikhlif al-Shammari, il docente universitario Abdullah al-Hamid e l’avvocato Mohammad al-Qahtani, sono stati arrestati perché accusati dal regime di aver danneggiato l’immagine dello Stato, di aver collaborato con alcune organizzazioni del diritto e di aver partecipato alle proteste anti-regime. Sei gruppi internazionali per i diritti umani, tra cui Human Rights Watch e Amnesty International, hanno chiesto alle autorità saudite l’accesso alle prove in base alle quali i quattro attivisti sono stati arrestati. Il ministero della giustizia saudita non ha fornito alcuna risposta. Le proteste in Bahrain sembrano non vedere la fine. Nel Paese a maggioranza sciita, governato dal 1971 dal califfo sunnita Khalifan Ibn Salman al-Khalifah, alleato dell’Arabia Saudita, la popolazione continua a manifestare per cacciare la casa regnante e per avere riforme costituzionali. Nel marzo scorso una protesta ha coinvolto 150mila persone, tra cui medici, informatici, ed esponenti di un’attiva classe media, ed è stata stroncata nel sangue con il supporto della polizia e delle forze armate saudite. Così come le rivolte in occasione del Gran Premio di Formula 1, che si è disputato regolarmente, incurante della situazione di crisi sociale e la forte tensione nel Paese. La gara, che frutta alle casse del Regno quasi 500milioni di dollari, nel 2011 era stata sospesa. Quest’anno per giorni migliaia di manifestanti hanno occupato le strade di Manama e dei villaggi vicini, e il Governo ha risposto con la forza imponendo il coprifuoco e arrestando centinaia di persone. Nelle varie manifestazioni che si svolgono periodicamente e cui segue una raffica di arresti e torture, oltre alla cacciata degli al-Khalifa i manifestanti chiedono la liberazione dei prigionieri arrestati durante la prima ondata di proteste del 2011. Lo chiede anche Amnesty International. Tra essi c’è l’attivista Abdulhadi al-Khawaja, condannato all’ergastolo, che per 110 giorni ha intrapreso lo sciopero della fame. E tra i prigionieri c’è anche un bambino di 11 anni, in libertà vigilata dopo un mese di carcere perché accusato di aver partecipato a manifestazioni illegali. Per questo motivo rappresenterebbe un pericolo per la società. Si stima che complessivamente i dissidenti politici arrestati siano oltre 500, su una popolazione di 600mila persone. Secondo la nuova legislazione le organizzazioni internazionali non possono permanere oltre cinque giorni in Bahrain e ciò rappresenta un forte limite per poter fare luce sulla situazione reale dei diritti umani. L’unica commissione d’inchiesta autorizzata, la Bici (Commissione di Inchiesta Indipendente del Bahrain) ha stilato un duro rapporto nei confronti delle repressioni adottate dalla polizia, escludendo ogni responsabilità da parte del re. I dati uffi-
ciali parlano di 45 morti nel corso dell’anno, ma gli attivisti e i gruppi di opposizione sostengono che le vittime siano oltre 60.
Gli Emirati Arabi Uniti sono ritenuti uno Stato chiave nel Golfo per via della posizione strategica sullo stretto di Hormuz e perché rappresentano una base sicura per gli Usa nel Golfo Persico. Non a caso recentemente è stato inaugurato un importante oleodotto che aggira lo stretto di Hormuz, passaggio obbligato per circa un quinto delle esportazioni mondiali di petrolio controllato dall’Iran: un chiaro messaggio alle minacce di Teheran di chiudere lo stretto in risposta alle sanzioni economiche imposte da Europa e Usa per punire il programma nucleare iraniano. Il nuovo oleodotto collega i pozzi petroliferi di Abu Dhabi con lo sceiccato di Fujarah al confine con l’Oman, e permette di esportare oltre 1,5milioni di barili di petrolio al giorno. Non solo: il Governo ha dato il via libera ai lavori di costruzione del primo impianto nucleare del Paese, dotato di quattro reattori, che dovrebbe cominciare ad operare nel 2017. Gli Eau sono amici dell’Occidente, e qui gli stranieri costituiscono la parte più consistente della popolazione. Sono una monarchia confederata di cinque monarchie assolute, e solo pochi dignitari hanno il diritto di voto per eleggere i componenti dell’Assemblea. Sul fronte delle proteste interne al Paese, a differenza di quanto successo altrove, negli Emirati la protesta non si è svolta nelle strade ma sul web. Per questo motivo il Governo monitora e censura costantemente e con attenzione le espressioni degli attivisti. A inizio 2012 otto persone sono state arrestate con l’accusa di coinvolgimento nel gruppo islamico al-Islah, che rivendica una maggiore partecipazione della popolazione nella vita pubblica del Paese con un ritorno alla tradizione religiosa. Tra gli attivisti che chiedono una vera riforma democratica si sono registrate le prime revoche della cittadinanza. Il blogger Ahmed Abdul Khaleq, responsabile di un sito che rivolge appelli mirati a una maggiore partecipazione democratica nella vita politica, ha subito l’espulsione coatta dal
EGITTO
219
Il Paese che più di ogni altro ha riservato sorprese nel panorama delle rivolte islamiche è l’Egitto. Dopo i fatti di piazza Tahrir, iniziati il 25 gennaio 2011, la rivoluzione non si è fermata e il processo democratico invocato dalla piazza non si è ancora concluso. Il Presidente Hosni Mubarak è stato condannato all’ergastolo per non aver impedito i massacri dei manifestanti e al suo posto, grazie alle prime elezioni libere e democratiche, è salito al potere l’islamista moderato Mohammed Morsi, candidato dei Fratelli Musulmani. La sua ascesa al potere ha decretato un ridimensionamento del potere dei militari da sempre molto potenti nel Paese dei Faraoni, e che sono saliti al potere quando Mubarak venne destituito. Una raffica di decreti presidenziali accolti con favore dalla popolazione, ma che lasciano con il fiato sospeso la Comunità Internazionale, ha azzerato i vertici militari. I primi a farne le spese sono stati il generale e ministro della Difesa Hussein Tantawi e il capo di Stato Maggiore Sami Anan, sostituiti con i generali Abdel Fatah el Sisi e Sobhi Sidki. Anche la dichiarazione costituzionale adottata a giugno dall’esercito, che conferiva ampi poteri ai militari limitando quelli del Presidente, è stata annullata. Il cambiamento ai vertici dell’esercito è avvenuto dopo che 16 soldati sono stati uccisi nel Sinai settentrionale da un commando durante uno scontro con le guardie di frontiera, cui l’Egitto ha risposto con un’offensiva militare contro i covi di terroristi jihadisti volta a riprendere il controllo della penisola. I problemi in cui versa l’Egitto, però, non sono risolti. La crisi economica incombe, tanto che l’Emiro del Qatar, da tempo uno dei principali sostenitori dei Fratelli Musulmani, si è impegnato a versare due miliardi di dollari nelle casse della Banca Centrale d’Egitto. Il costo della vita è sempre più alto così come i rincari, che diventano insostenibili per molti cittadini. Nonostante questo, però, sembra che gli egiziani siano più preoccupati dell’instabilità politica rispetto all’economia. La mossa del Presidente Morsi va nella direzione di tranquillizzare la popolazione, per dare un segnale forte della presenza del potere centrale. Per questo motivo il popolo continua a sostenere il suo primo Presidente democraticamente eletto.
EMITATI ARABI UNITI
Paese ed è stato spedito in Thailandia con un passaporto delle isole Comore procuratogli dal Governo. Khaleq è un personaggio ben noto alle forze di sicurezza emiratine, dal momento che già nel 2011 era stato condannato insieme ad altre persone per attività sovversiva e crimini contro lo Stato.
220
GIORDANIA
MAROCCO
Sebbene la Giordania abbia allestito il primo campo di accoglienza per profughi siriani in fuga dalle violenze tra ribelli e lealisti di Assad, la situazione sul fronte interno rimane carica di incertezza e malcontento. A fine anno si svolgeranno le elezioni, cuore delle riforme tanto desiderate dal popolo, che chiede un reale cambiamento del Governo più che dei personaggi che ne fanno parte. In vista del voto re Abdallah II ha approvato una controversa legge elettorale bollata come antidemocratica dai suoi critici, in particolare dagli esponenti della Fratellanza musulmana. In centinaia hanno preso parte alla manifestazione per respingere la legge elettorale e chiedere le dimissioni del Governo. A promuoverla, oltre agli attivisti indipendenti, gli esponenti del movimento islamico che in primavera, con un provvedimento votato dal Parlamento, si erano visti mettere fuorilegge l’Islamic Action Front, braccio politico della Fratellanza, principale forza di opposizione del Paese. Vietata anche la formazione di qualsiasi gruppo o partito con base religiosa, etnica e confessionale. Dura la critica da parte dei Fratelli Musulmani, che accusano il Governo di voler ridurre la loro influenza nel Paese. L’opposizione accusa la nuova legge elettorale di dare maggiore potere alle tribù filogovernative, mettendo ai margini i giordani di origine palestinese, cancellando così i diritti politici di una rappresentanza economicamente forte ma sottorappresentata in politica. Secondo molti osservatori i due controversi provvedimenti legislativi sono il risultato delle pressioni di gruppi della destra giordana vicini alle forze di sicurezza e all’esercito. In un anno, da quando sono scoppiate le proteste per ottenere riforme democratiche e contro la corruzione, il re Abdallah ha costretto alle dimissioni tre premier. Attualmente la carica di primo Ministro è ricoperta da Abdullah Nsur, dopo che al suo posto si erano succeduti Fayez Tarawneh, e Awn Khassawneh, fatto che ha suscitato aspre polemiche e manifestazioni di protesta. Il popolo giordano in piazza chiede che al Parlamento vengano concessi più poteri, tra cui la facoltà di nominare il Governo, ad oggi prerogativa del re, che può liberamente incaricare o licenziare il capo dell’esecutivo indipendentemente dalla maggioranza votata dai cittadini alle elezioni. Nonostante re Mohammed VI abbia promesso emendamenti costituzionali in grado di riequilibrare i poteri e un maggiore rispetto dei diritti dei cittadini anche in Marocco le proteste non si fermano. La nuova costituzione non ha favorito una reale transizione democratica, tradendo le speranze dei marocchini. La sfera politica rimane controllata dal Re, che oltre a nominare gli alti funzionari del governo è il vertice religioso e militare del Paese. La libertà di espressione ha subito una forte battuta d’arresto, con dure repressioni di ogni forma di manifestazione del dissenso popolare. A gennaio nella città di Taza la popolazione ha protestato contro la povertà e la miseria, rivendicando il diritto all’accesso ai servizi pubblici e alla gratuità delle risorse vitali come acqua e luce. La manifestazione è stata duramente repressa dalla polizia. Il Movimento del 20 febbraio (M20F), espressione della primavera araba in Marocco, ha ripreso, in occasione del mese di Ramadan, le tradizionali marce notturne di protesta, e anche qui la polizia è intervenuta duramente. L’Associazione marocchina di difesa dei diritti umani (Amdh) ha denunciato nel suo rapporto 2011 sui diritti dell’Uomo in Marocco dure violazioni dei diritti umani, che riflettono la mancanza di una reale volontà politica dello Stato di rispettare i diritti e le libertà, nonostante gli impegni presi a livello nazionale ed internazionale. Si sono registrate torture e violenze di ogni tipo, oltre a una totale mancanza del rispetto della libertà di stampa e a condizioni di vita disumane nelle carceri, che hanno determinato lo sciopero della fame di molti detenuti. La crisi economica fa il resto. A essere particolarmente colpiti sono i giovani, soprattutto quelli sotto i trent’anni che sono interessati da un tasso di disoccupazione del
30% e sono completamente lasciati ai margini dei processi decisionali. A peggiorare le cose è la scelta di re Mohammed VI di voler avviare una riforma dell’università pubblica che non può essere più sostenuta dallo Stato e per questo diventerà a pagamento. L’istruzione sarà gratuita solo per chi ha i redditi più bassi, mettendo la parola fine al tanto declamato sistema didattico gratuito marocchino che per decenni è stato uno dei vanti dei Paese. In questo contesto la stabilità interna del Regno è messa a dura prova.
Il Paese che per primo ha dato il via alle rivolte islamiche del mondo arabo del 2011 ha visto il suo ex Presidente Zine el-Abidine Ben Ali essere condannato in contumacia a 90 anni di carcere. Dopo la sua fuga in Arabia Saudita nel Paese si sono succeduti tre Governi di transizione fino alle elezioni che hanno visto il successo del partito islamista moderato Ennahda. Ma la città di Sidi Bouzid, da cui tutte le proteste sono cominciate, è tornata a infiammarsi e per due giorni di fila centinaia di cittadini hanno manifestato contro la disoccupazione e il Governo, chiedendone le dimissioni. Le forze di sicurezza hanno adottato la dura repressione, arrestando molti manifestanti, ferendoli e intossicandoli con i lacrimogeni. I tunisini hanno accusato il Governo di non aver mantenuto le promesse fatte agli elettori e di comportarsi come l’ex dittatore. Gli episodi di intolleranza religiosa nei confronti dei cristiani sono frequenti, e il governo islamista sta mettendo a rischio i diritti civili delle donne. Dopo la caduta di Ben Ali e la formazione del nuovo Governo si sta procedendo alla stesura della nuova Costituzione, e in particolare dell’articolo della carta che sanciva l’uguaglianza fra uomo e donna. Nella nuova bozza la donna viene ritenuta solo complementare all’uomo, con un notevole passo indietro in materia di diritti civili che cancella una legge del 1956 che garantisce alle donne la piena uguaglianza con l’uomo. Proprio il 13 agosto, giorno della festa delle donne in Tunisia, un’imponente manifestazione organizzata da associazioni femminili, organizzazioni per la difesa dei diritti umani e gruppi dell’opposizione, ha protestato contro la decisione del Governo, tenuto sotto scacco dai salafiti, che non hanno ancora visto la legalizzazione del loro partito Hizb Ettahir. Vi hanno preso parte oltre 6mila persone, per lo più donne, chiedendo il ritiro della contestata bozza dell’articolo 28, già approvato da una commissione parlamentare, secondo cui lo Stato si impegna a ‘’garantire la protezione dei diritti della donna sulla base del principio di complementarità con l’uomo in seno alla famiglia e in quanto associata all’uomo nello sviluppo del Paese”. Le prime elezioni politiche del Paese dalla caduta di Ben Ali sono previste per il marzo 2013.
OMAN
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Perno centrale del commercio tra Medio Oriente, Africa Orientale e Oceano Indiano, l’Oman si prepara ad ospitare per il 2013 i campionati mondiali di vela. In questo contesto, però, il Paese continua ad essere attraversato da tensioni che si traducono con la repressione degli attivisti. Nonostante nel 2011 il sultano re Qaboos abbia provato a sedare le proteste annunciando una serie di riforme, tra cui il rimpasto del Governo, la creazione di posti di lavoro e l’aumento dell’indennità di disoccupazione, le manifestazioni non si sono fermate. Il Sultano continua a godere della stima dei suoi sudditi, ma molte delle riforme annunciate non sono state ancora attuate. Sebbene con i suoi 17mila euro di Pil procapite, per lo più generato dalla ricchezza di idrocarburi del sottosuolo, l’Oman si debba considerare un Paese ricco, il tasso di disoccupazione si aggira attorno al 15% su una popolazione di 3milioni di abitanti, la cui metà ha meno di vent’anni. Elemento che ha esasperato gli animi e che ha portato la gente a scendere in piazza per chiedere migliori condizioni economiche e riforme contro la corruzione. La reazione della polizia locale non si è fatta attendere e in poche settimane ha arrestato decine di attivisti e manifestanti. In particolare sono stati presi di mira coloro ritenuti responsabili di incitare alla protesta, oltre a blogger e giornalisti rei di aver diffamato il Sultano, cosa che in Oman è proibita perché considerata una minaccia per la sicurezza dello Stato. Alla fine del 2011, infatti, l’art. 26 della legge sulla stampa è stato modificato. L’emendamento, esteso a tutti i mezzi di comunicazione, ha introdotto il divieto di pubblicazione di notizie che si riferiscano a organi militari o di sicurezza, e la trasgressione prevede, oltre a un’ammenda, la pena massima di due anni di reclusione. Tutti elementi che gettano una luce preoccupante sulla situazione dei diritti umani nel Paese. L’instabilità sociale, inoltre, rappresenta un elemento di insicurezza anche per la tranquillità dell’intera Regione del Golfo. Lo sanno bene anche gli Stati Uniti, che esortano re Qaboos a mettere in atto le riforme democratiche, dal momento che considerano l’Oman un elemento importantissimo per arginare Teheran.
TUNISIA
1) UNTSO
9) UNOCI
2) UNMOGIP
10) MINUSTAH
3) UNFICYP
11) UNMIT
4) UNDOF
12) UNAMID
5) UNIFIL
13) MONUSCO
222
United Nations Truce Supervision Organization (Organizzazione delle Nazioni Untie per la Supervisione della Tregua) United Nations Military Observer Group in India and Pakistan (Gruppo di Osservatori Militari delle Nazioni Unite in India e Pakistan) United Nations Peacekeeping Force in Cyprus (Forza delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace a Cipro) United Nations Disengagement Observer Force (Osservatori delle Nazioni Unite per il ritiro) United Nations Interim Force in Lebanon (Forza temopranea delle Nazioni Unite in Libano)
6) MINURSO
United Nations Mission for the Referendum in Western Sahara (Missione delle Nazioni Unite per il referendum nel Sahara Occidentale)
United Nations Operation in Côte d’Ivoire (Operazione delle Nazioni Unite in Costa d’Avorio) United Nations Stabilization Mission in Haiti (Missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite ad Haiti) United Nations Mission Integrated Mission in Timor-Leste (Missione Integrata delle Nazioni Unite a Timor-Est) African Union and United Nations Hybrid Operation in Darfur (Operazione Ibrida dell’Unione Africana e delle Nazioni Unite in Darfur) United Nations Organiation Stabilization Mission in the Democratic Republica of the Congo (Missione di Stabilizzazione della Repubblica Democratica del Congo)
14) UNISFA
United Nations Interim Security Force for Abyei (Missione per la Sicurezza nell’area di Abyei, Sud Sudan)
7) UNMIK
15) UNMISS
8) UNMIL
16) UNSMIS
United Nations Interim Administration Mission in Kosovo (Missione delle Nazioni Unite per l’amministrazione temporanea del Kosovo United Nations Mission in Liberia (Missione delle Nazioni Unite in Liberia)
United Nations Mission in the Sud Sudan (Missione delle Nazioni Unite in Sud Sudan) United Nations Supervision Mission in Syria (Missione di supervisione in Siria)
Nazioni Unite I Caschi Blu Raffaele Crocco
Qui sotto una Cartina che fotografa lo stato delle Missioni Onu sparse nel nostro pianeta. UNAMA in Afghanistan, non contemplata nei nostri schemi, è una missione di carattere politico, diretta e sostenuta dal Dipartimento delle Operazioni di Pace delle Nazioni Unite.
L’ultima arrivata è in Siria e il dibattito sull’efficacia potrebbe durare anni. Le missioni di pace delle Nazioni Unite hanno sempre vita complicata, lo raccontiamo ogni anno pubblicando questo rapporto. Strette fra interessi dei vari Paesi, scarsità di mezzi e regole d’ingaggio non sempre all’altezza della situazione, si ritrovano ad essere criticate, attaccate, non capite. Eppure, in molti luoghi, sono l’unica speranza per milioni di essere umani, abbandonati altrimenti da tutti e certamente in balia di signori della guerra, mercenari, governi aggressivi, guerriglieri spietati. Allora, meglio conoscerle. Come sempre, troverete i dati – al 31 maggio del 2012 – sul numero di persone impegnate, militari e civile, sulla dislocazione, sulla durata – alcune sono veramente antiche – e sui costi. È incredibile quanto si spenda per tentare di far cessare la guerra. Il budget è 7miliardi e 800milioni di dollari. Ma dovessimo quantificare i danni causati da guerre e rivolte nel Pianeta, la cifra diventerebbe illeggibile, troppo alta, incomprensibile. I soldi – ricordiamolo – all’Onu li danno i 193 Paesi che siedono in Assemblea, che sono ufficialmente riconosciuti. Questa la teoria. La pratica è diversa. Praticamente tutti i Paesi – anche e soprattutto i più ricchi – sono in arretrato, versano il denaro quando vogliono. Spesso, il mancato pagamento è una forma di ricatto, di pressione rispetto a decisioni che dovrebbero essere prese e che in questo modo vengono indirizzate là dove alcuni hanno maggiore convenienza. Altre volte, non vengono versati per mancanza di interesse. Così, le missioni navigano a vista, rappresentando bene le difficoltà politiche che ormai vive l’Onu. Lo dimostra drammaticamente bene proprio la missione in Siria, ultima nata fra mille problemi, con le posizioni differenti e in contrasto nel Consiglio di Sicurezza – l’organo di governo delle Nazioni Unite – fra Cina e Russia da una parte, Stati Uniti, Francia e Inghilterra dall’altro. Migliaia di persone sono state uccise in 18 mesi, centinaia di migliaia sono fuggite abbandonando tutto. La condanna nei confronti del Governo siriano è stata vibrante, ma non unanime e così non c’è stato intervento, non si sono presi provvedimenti per salvare bambini, donne e uomini disarmati, inermi, vittime. La missione si limita a vigilare. E a contare i morti.
223
Missioni di Pace Onu disarmata
Operazioni di pace delle Nazioni Unite Operazioni di pace in corso Missione
Data inizio
Truppe
Osservatori militari
Polizia
Civili internazionali
UNTSO
mag-48
0
143
0
99
UNMOGIP
gen-49
0
42
0
24
UNFICYP
mar-64
858
0
68
39
UNDOF
giu-74
1.055
0
0
41
UNIFIL
mar-78
11.845
0
0
348
MINURSO
apr-91
27
216
6
99
UNMIK
giu-99
0
9
6
148
UNMIL
set-03
7.750
119
1.313
480
UNOCI
apr-04
9.400
196
1.337
400
MINUSTAH
giu-04
7.283
0
3.126
559
UNMIT
ago-06
0
33
1.242
388
UNAMID
lug-06
17.364
591
5.511
1.097
MONUSCO
lug-10
17.042
730
1.399
954
UNISFA
giu-11
3.813
120
0
35
UNMISS
lug-11
5.157
139
484
779
UNSMIS
apr-12
0
271
0
71
81.594
2.609
14.492
5.561
Totale: Missione
Civili locali
Volontari ONU
Personale totale
Vittime
Bilancio (US$)
UNTSO
134
0
376
50
70.280.900 (2012-13)
UNMOGIP
50
0
116
11
21.084.400 (2012-13)
UNFICYP
108
0
1.073
181
58.204.247
UNDOF
103
0
1.199
43
50.526.100
UNIFIL
657
0
12.850
294
545.470.600
MINURSO
162
19
529
15
63.219.300
UNMIK
218
24
405
54
44.914.800
UNMIL
990
224
10.876
166
525.612.730
UNOCI
758
293
12.384
90
645.961.400
1.358
226
12.552
171
793.517.100
874
268
2.805
14
196.077.500
UNAMID
2.923
475
27.961
115
1.689.305.500
MONUSCO
2.864
614
23.603
43
1.489.390.500
UNISFA
12
2
3.982
7
175.500.000
UNMISS
1.289
300
8.148
1
722.129.600
UNSMIS
14
0
356
0
N/A
12.514
2.445
119.215
1.255
circa $7.84 miliardi
MINUSTAH UNMIT
Totale:
Documento preparato dalla sezione Pace e Sicurezza del Dipartimento d’Informazione Pubblica delle Nazioni Unite, in collaborazione con il Dipartimento per le Operazioni di Peacekeeping, la Divisione Finanziaria per il Peacekeeping dell’Ufficio di Pianificazione del Programma, di Bilancio e Contabilità, e del Dipartimento per gli Affari Politici - DPI/2166/Rev. 107 - June 2012
Vittime di guerra/3 Federico Fossi
Foto in alto UNHCR/B. Bannon
UNHCR/A. Duclos
I conflitti che infestano il globo danno origine ovunque a crisi umanitarie più o meno complesse. La popolazione civile paga sempre il prezzo più alto delle guerre. Uomini, donne e bambini sradicati dalle proprie case, costretti ad abbandonare tutto in pochi minuti. Oltre quattro milioni di persone nel 2011. I soli conflitti in Costa d’Avorio, Libia, Somalia, Sudan hanno obbligato 800mila persone ad attraversare i confini del proprio Paese e a diventare rifugiati. È un triste record. Si tratta infatti della quota più alta registrata nell’ultima decade. Ai rifugiati vanno aggiunti tutti coloro che sono stati costretti alla fuga per cercare riparo in aree più sicure del proprio Paese, sono 3.5milioni di cosiddetti sfollati interni, il 20 % in più rispetto all’anno precedente. A livello globale oggi sono 42.5milioni le persone nel mondo costrette a vivere lontano dalle proprie case perché in fuga da guerre, persecuzioni e violazioni dei diritti umani. Di questi, 15.2milioni sono rifugiati, 26.4 sono sfollati, 895mila sono richiedenti asilo. Sono dati che evidenziano tendenze preoccupanti, soprattutto se considerati in un’ottica decennale. Un numero sempre maggiore di persone è infatti costretto alla migrazione forzata. Le statistiche ci dicono che negli ultimi cinque anni il loro numero ha sempre superato i 42milioni. È inoltre probabile che chi diventa rifugiato rimanga in tale condizione per molti anni, spesso bloccato in un campo profughi o costretto a condizioni di vita del tutto precarie in un centro urbano. Dei 10.4milioni di rifugiati che rientrano nel mandato dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) ad esempio, infatti quasi i tre quarti si trovano in esilio protratto da almeno cinque anni, in attesa di una soluzione alla loro condizione. È fondamentale notare come i 4/5 dei rifugiati nel mondo vengono ospitati nei Paesi in via di sviluppo. Le statistiche a nostra disposizione mostrano come la maggior parte dei rifugiati fuggano nei Paesi confinanti alle aree di crisi. Le aree geografiche dalle quali proviene il maggior numero di rifugiati ospitano in media fra il 75 e il 93% dei rifugiati provenienti dalla stessa Regione. Ciò si riflette ad esempio nelle numerose popolazioni di rifugiati presenti in Pakistan (1.7milioni), Iran (886500), Kenya (566500) e Ciad (366500). Nel solo campo profughi di Dadaab, in Kenya, vivono ben 450mila rifugiati somali, mentre nel 2011 le domande di asilo nei ventisette Stati membri dell’Unione Europea sono state poco più di 277mila. Questi dati contribuiscono a smantellare l’assioma secondo il quale tutti i rifugiati vogliono venire in Europa. Per quanto riguarda i Paesi di origine dei rifugiati nel mondo l’Afghanistan, con oltre due milioni e mezzo di rifugiati in 79 Paesi, si conferma, anche nel 2011, come principale Paese di origine. In media, un rifugiato su quattro nel mondo è afghano ed il 95% dei rifugiati afghani si trovano in Pakistan e Iran. Gli iracheni rappresentano il secondo gruppo più ampio di rifu-
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Conflitti e migrazioni forzate Sono milioni in marcia
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giati, con quasi un milione e mezzo di persone che hanno trovato rifugio nei Paesi confinanti. La Somalia è il terzo Paese di origine di rifugiati nel mondo con oltre un milione di persone sradicate dalla propria terra. Il deteriorarsi delle condizioni di sicurezza, principalmente nelle Regioni centrali e meridionali del Paese, dovuto ad un mix letale di conflitto, violenze e carestia, ha costretto alla fuga 300mila persone nel solo 2011. Più della metà hanno trovato rifugio a Dadaab in Kenya, altri in Etiopia, Yemen e Gibuti. Il Sudan è stato, nel 2011, il quarto Paese di origine, con mezzo milione di persone costrette a varcare i confini con Sud Sudan ed Etiopia causa dei combattimenti nelle Regioni meridionali del Paese. Altri grandi gruppi di rifugiati vengono dalla Repubblica Democratica del Congo (quasi 500mila), da Myanmar (oltre 400mila) e dalla Colombia (quasi 400mila). Questa mappa in costante evoluzione sta subendo, nel corso dell’anno corrente, repentini sviluppi a causa di nuove crisi umanitarie che stanno colpendo principalmente la Siria, il Mali ed il Sud Sudan, dove le condizioni sanitarie degli oltre 200mila rifugiati in fuga dalle regioni sudanesi di South Kordofan e Blue Nile vanno rapidamente deteriorandosi. La maggior parte dei rifugiati sono ospitati negli stati di Unity e Upper Nile, dove quasi la metà sono bambini con meno di 11 anni, una percentuale insolitamente alta nelle emergenze umanitarie. Le loro madri sono spesso malate o troppo deboli e non riescono ad occuparsi dei loro bambini in maniera adeguata. A Yusuf Batil, un campo che ospita 34mila cittadini sudanesi provenienti dallo stato di Blue Nile, il 15% dei bambini con meno di 5 anni (quasi 1600 bambini) soffre di una malnutrizione severa. Dall’inizio del conflitto lo scorso gennaio oltre 300mila civili maliani sono fuggiti nei vicini Burkina Faso, Mauritania e Niger, mentre si calcola che altri 170mila siano sfollati all’interno del paese. Considerando la crisi a livello regionale, sarebbero 10milioni, secondo le stime, le persone che hanno bisogno di assistenza d’emergenza a causa delle precipitazioni irregolari, dei mancati raccolti, degli alti prezzi dei generi alimentari oltre che degli aspri combattimenti. Nell’inospitale ambiente del Sahel l’accesso all’acqua potabile, ai servizi igienici e medici, è di cruciale importanza per la cura e la prevenzione di patologie comuni come diarrea e infezioni respiratorie o del colera. Altri servizi, come l’istruzione nei campi, sono gravemente limitati a causa dei finanziamenti insufficienti. In Siria il flusso di civili in fuga dai combattimenti in molte zone del Paese, in particolare nelle aree urbane, sembra inarrestabile. I rifugiati siriani registrati con l’Unhcr nei Paesi confinanti sono, nel momento in cui scriviamo, oltre 360mila, ma le autorità e le organizazioni locali stimano che il numero di rifugiati arrivati e non registrati sia ben superiore. A questi si aggiungono oltre un milione e mezzo di sfollati all’interno della Siria. Circa il 75% dei rifugiati siriani sono donne e bambini e per la maggior parte di loro la sopravvivenza dipende dagli aiuti umanitari. Molti sono già stati sfollati cinque o sei volte all’interno della Siria prima di fuggire verso i Paesi confinanti, dove spesso giungono estremamente provati. I dati riguardanti queste crisi umanitarie mettono in evidenza come le donne e i bambini costituiscano una fetta rilevante della popolazione dei rifugiati a livello globale. Dei 35,4milioni di persone che rientrano nella competenza dell’Unhcr, donne e bambine costituiscono in media il 49% del totale. Il 46% dei rifugiati e il 34% dei richiedenti asilo sono bambini e ragazzi con meno di 18 anni.
UNHCR/A. Rummery
UNHCR
Il mondo in movimento/2 Giulia Bondi
Le foto dell’articolo sono di Giulia Bondi
Il muro non è fatto di cemento, e per ora nemmeno di acciaio e filo spinato, ma di uomini armati in divisa. A fine agosto 2012, sono quasi duemila i poliziotti arrivati da ogni parte della Grecia per l’operazione Aspida, Scudo, a difendere dall’immigrazione la frontiera ellenica tra Orestiada e Kastanjes. Assieme a loro, decine di ufficiali di Frontex, l’agenzia nata otto anni fa per proteggere i confini dell’Unione Europea, con un budget sempre crescente che per il 2012 ammonta a 115milioni di euro. La frontiera della Grecia con la Turchia è un tratto di terra di 12,5 km, tra la città di Nea Orestiada e il villaggio di Kastanjes. Tutto il resto del confine, fino all’Egeo, è segnato dal fiume Evros, in turco Meric. Dai campi o dal fiume, negli ultimi anni decine di migliaia di migranti sono entrati in Europa: nel 2010 circa 36mila, nel 2011 28mila, soprattutto da Afghanistan, Pakistan e Bangladesh. Un fiume umano che spaventa i governi, anche se in realtà la maggior parte degli stranieri extracomunitari entra nell’Unione dagli aeroporti, con visti turistici. Nella primavera 2012, la Grecia ha presentato il “Muro di Evros”: 12 km di acciaio e filo spinato che dovrebbero rendere invalicabile il confine terrestre con la Turchia. La costruzione si sarebbe dovuta concludere a ottobre, ma fino a metà settembre, sul terreno, non c’erano che le fondamenta, più uno spezzone di tre metri, appoggiato sulla strada sterrata accanto a un campo di mais, a beneficio di politici e fotografi. A fermare i migranti sembra comunque bastare l’enorme dispiegamento di polizia, dotata di tecnologie come le telecamere con sensori di calore, che possono individuare un essere vivente a 18 km di distanza. La barricata di Evros, assicura il capo della Polizia di Orestiada Giorgios Salamagas, precisando che non si tratta di un “muro”, “risolverà il problema dell’immigrazione”. Intanto, prosegue Salamagas, “grazie ai rinforzi, già nell’ultima settimana di agosto non abbiamo avuto ingressi di clandestini, mentre nella prima metà dell’anno ne avevamo anche 300 al giorno”. Il problema, osservano organizzazioni come il Gcr (Greek council for refugees) è che in questo modo si vieta l’accesso non soltanto ai migranti economici (“una scelta legittima per un Paese sovrano”, chiarisce l’avvocato del Gcr Eleni Velivasaki), ma anche ai potenziali richiedenti asilo. “Servirebbero centri di detenzione umani, per distinguere chi è in cerca di lavoro da chi ha diritto a ottenere protezione”, commenta Panagiotis Samouridis, 38 anni, uno degli animatori dello sparuto gruppo “Stop Evros Wall”, formato da cittadini di Orestiada che si oppongono alla costruzione del “muro”. Quasi tutti i migranti fanno comunque domanda di asilo per guadagnare tempo ed evitare la deportazione. “In teoria, chi è detenuto avrebbe diritto a una risposta entro 3 mesi”, chiarisce ancora Eleni Velivasaki: “In realtà ce ne voglio-
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Evros, un nuovo muro divide Asia ed Europa
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no 4 o 5, e in caso di decisione negativa si può ricorrere. A quel punto, si aspettano anni per vedere riesaminato il proprio caso”. Crisi e tagli al settore pubblico complicano le cose: “Ad oggi – aggiunge Eleni - a valutare le domande di asilo sono le stesse forze di polizia e le domande accolte sono pochissime”. Chi entra in Grecia non sarebbe intenzionato a restarvi, ma le regole europee di “Dublino II” impongono che a esaminare le domande di protezione umanitaria debba essere il primo Paese nel quale lo straniero viene identificato. Suil e Johe, 18 e 20 anni, dal Bangladesh alla Turchia hanno attraversato otto confini. Non sognavano di vendere sigarette di contrabbando a Exarchia, il quartiere anarchico di Atene, “ma come si può tornare indietro – spiegano - quando la tua famiglia ha speso tutto per mandarti a fare fortuna. Sognano ancora la Germania o la Svezia, ma la Grecia non ha frontiere terrestri con altri Paesi dell’area Schengen, e nessuno rischierebbe di nuovo la vita per entrare in Albania, Bulgaria o Ex Repubblica Yugoslava di Macedonia. Molti attendono a Patrasso, come Han, 19enne somalo, sperando in un passaggio su uno dei camion che si imbarca per l’Italia. Han è accampato con decine di altri uomini, tra le palme, l’erba secca e i rifiuti. Una rete separa il loro “ghetto” dal viale costiero che congiunge il vecchio porto a quello nuovo. Scappato dalla guerra, vive di espedienti, rovistando nella spazzatura. Due giovani tunisini mostrano punti e ingessature: “Le ferite – dicono – ce le ha fatte la polizia”. Dal 5 agosto, con il nome surreale di Xenios Zeus (Zeus protettore degli stranieri), sono iniziati rastrellamenti che hanno portato migliaia di stranieri dalle strade ai centri di detenzione. In un mese, la polizia ha fermato 16mila 836 fermi di migranti, di cui 2mila 144 privi di permesso. “Le persone sono state prelevate su base etnica, e nei centri di detenzione sono finiti molti stranieri che in realtà erano in regola”, conferma Eleni Velivasaki. Nel Paese, la xenofobia dilaga. Secondo Human rights watch, nella sola Atene, nei primi 6 mesi del 2012, almeno 59 migranti tra i quali due donne incinte hanno denunciato attacchi razzisti, “da parte di gruppi vicini a Xrise Auge”, Alba Dorata, il partito di estrema destra che ha il 6% dei seggi in Parlamento. A Salonicco, Eksandar e la moglie Kauka passano la serata su una panchina di Platia Dikastirion. Assieme al figlio 14enne sono fuggiti da Homs, in Siria, in primavera. Fino a Istanbul in pullman, più altri 10 giorni con i trafficanti, fino al confine greco. Il viaggio per tutta la famiglia è costato 16mila dollari. Altri 12mila se ne sono andati a Edirne, rubati. “Erano i risparmi per raggiungere la Svezia”, spiega Eskandar in una lingua mista di arabo, greco e inglese. Nell’attesa che la pink card greca si trasformi in un documento valido, la famiglia vive in un centro d’accoglienza. Molti degli altri ospiti sono afghani. “Da loro la guerra c’è stata nel 2001. Ora vengono in Europa per motivi economici – protesta Eskandar - Noi invece siamo stati costretti a scappare, ci hanno bombardato la casa”. Kauka estrae dalla borsa cinque o sei foto, le mostra come reliquie: tutti insieme al mare, il figlio con il cappello rosso e il ponpon bianco il giorno di Natale. “Siamo cristiani, con gli afghani facciamo fatica ad andare d’accordo”, spiega Eskander, e aggiunge: “I greci sono brava gente, ma la loro legge è ingiusta”. Prima di arrivare a Salonicco, Eskandar e famiglia hanno passato un mese nel centro di detenzione di Filakio, poco lontano da Orestiada. Per anni sovraffollato e fatiscente (“erano gli stessi migranti a danneggiarlo sperando di essere rilasciati prima”, afferma il capo della polizia di Orestiada, Salamagas), Filakio è stato ristrutturato con un investimento di 860mila euro. La polizia non lascia entrare i giornalisti e
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i migranti tentano di comunicare, con cartelli in inglese, attraverso le sbarre delle finestre: “Il Governo greco ha trasformato i rifugiati in schiavi”, “Vogliamo libertà e pace”, “Non siamo criminali”, “Aiutateci”. Dalla finestra parla Hussein: “Sono iraniano, facevo canzoni pop a tema politico e per questo sono dovuto scappare”, grida. Racconta dell’avvocato di Atene al quale lui e molti altri hanno pagato 800 euro a testa, e che ora non risponde più al cellulare. “Possiamo uscire 5 minuti al giorno, e telefonare una volta a settimana”, grida ancora in inglese. Il dialogo è spezzettato, presto sarà interrotto dagli agenti. Alla domanda “Ci sono bambini?” squilla una voce femminile, “Sì”, dalla finestra accanto. Le altre donne gridano: “Vogliamo la libertà, siamo qui da tre mesi”. Da un’altra inferriata spuntano due polsi incrociati, a simboleggiare la gabbia. Poi due dita formano una V di vittoria: la gabbia è in Europa, e prima o poi se ne uscirà. Il capo della polizia di Orestiada assicura che “le condizioni di sovraffollamento non si ripeteranno, perché con le nuove disposizioni i migranti vengono deportati subito”. La nuova strategia, comunque, è di non fargli mettere piede su suolo Schengen. “Spesso, ad accompagnare i migranti fino al nostro confine erano gli stessi militari turchi. Per convincerli a collaborare con noi, gli portiamo dei regali, come vino o formaggio”, racconta una poliziotta greca che preferisce restare anonima. “I muri non servono”, ammette Ewa Moncure, portavoce di Frontex, “anche se sono una scelta legittima per uno Stato. Bisogna agire sulle cause – afferma - conoscere i fattori che spingono le persone a partire”. Parte del budget di Frontex è destinata a studiare i movimenti migratori, ma il grosso (85milioni di euro nel 2012) si spende in operazioni come “Poseidon Land”, grazie alle quali agenti di mezza Europa affollano gli alberghi e i ristoranti di Orestiada. “Credo che la popolazione ci veda bene”, afferma Ed Palings, un ufficiale olandese in missione per un mese. Non è autorizzato a fornire informazioni sulla missione Frontex, ma l’esperienza di conoscere poliziotti da tutta Europa gli pare stimolante. È d’accordo anche Sofia Rapti, 29 anni, ispettore della polizia di Orestiada. “Respingere i migranti irregolari è il nostro lavoro – dice - e in Grecia ce ne sono troppi. Poi – ammette – davanti alle famiglie con bambini siamo commossi. Molti colleghi si sono dati da fare per aiutarli”. Dall’altra parte del confine, in Turchia, gli uomini in divisa per le strade sono molti meno. L’abbigliamento femminile spazia dal velo alla minigonna, dal caftano nero ai calzoni larghi. La prima città che si incontra è Karagac, fino al 1922 si chiamava Orestiada ed era abitata da greci. Fu il trattato di Losanna, siglato dopo la Grande guerra, a imporre di cedere alla Turchia questo tratto di terra. Dal lato turco, la decisione si celebra con una statua monumentale. Dal lato greco, a Nea Orestiada, il museo cittadino si apre con un’installazione di cubi in plexiglass pieni di terra, quella dei villaggi che un tempo erano greci. Da Nea Orestiada, città di profughi, molti partirono come gastarbeiter in Germania, per guadagnare qualcosa di più di quello che si poteva ottenere da vigneti e pannocchie. Ora, l’economia locale ruota attorno al respingimento di altri profughi. Tolis, 27 anni, quando non è in servizio come poliziotto aiuta la madre al bar. Per 6 anni ha lavorato ad Atene, da poco l’emergenza migranti lo ha riportato qui. “Pochi giorni fa, su un’isola, uno di loro ha stuprato e ridotto in fin di vita una ragazzina – racconta. - Se succedesse a mia figlia, vorrei che il colpevole fosse evirato”, afferma deciso. Ha votato Alba Dorata, dichiara, “per difendere il mio Paese e fermare questa invasione”. In città, ammette il capo della polizia, “non c’è stato un aumento di reati a causa degli stranie-
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ri, anche perché se ne vanno subito, diretti ad Alexandroupoli, poi ad Atene”. Eppure, alla popolazione l’“invasione” non piace. “Davanti ai giornalisti piangono, ma a noi rubano la frutta”, racconta a gesti Voula, energica cinquantenne che gestisce il minuscolo bar di Filakio. Sidirò è un villaggio a una cinquantina di chilometri a Sud, abitato da musulmani di lingua turca. Poche case, una moschea, una pompa di benzina gestita dal muftì Mohammed Sharif. È lui, assieme alla moglie Fatme, a occuparsi delle sepolture dei migranti che nella traversata dell’Evros trovano la morte. L’ultimo corpo, dei 7 scoperti nel 2012, è arrivato a metà agosto. Fatme lava i cadaveri delle donne secondo il rituale islamico. “Anche bambine”, precisa con lo sguardo fermo, le sopracciglia corrucciate sul volto da contadina. Il cimitero è una collina con decine di cumuli di terra, alcuni coperti di sterpaglie. Non ci sono nomi né cartelli, solo un cancello che un ragazzino del villaggio apre e chiude. “Sono tombe individuali”, precisa Sharif. “Per le sepolture il muftì riceve un contributo dal Governo greco”, spiega ancora l’avvocato Eleni Velivasaki, “perché le fosse comuni sono vietate”. Intanto, ancora prima che la barriera di filo spinato sia ultimata, i migranti hanno cominciato a cambiare rotta. Se l’investimento in sicurezza sul confine terrestre e fluviale continuerà, è probabile che la porta orientale d’Europa si sposti a Sud, nelle isole dell’Egeo più vicine alla costa turca. Il 6 settembre, scrive l’agenzia Ekathimerini, 58 persone sono morte nel naufragio di un barcone salpato da Izmir.
Report Colombia Diego Ibarra Sánchez
L’incessante conflitto tra i paramilitari sostenuti dall’esercito, i gruppi guerriglieri e le forze di sicurezza, continua a causare abusi dei diritti umani e violazioni del diritto umanitario internazionale, in particolare in alcune Regioni del Paese e nelle aree rurali. Non solo le violazioni del diritto internazionale, i crimini di guerra, le minacce, i crimini contro l’umanità, i rapimenti, le sparizioni forzate, le mine, la tortura sono tuttora una costante nella vita quotidiana dei civili, ma la maggior parte di essi finisce per essere coinvolta anche negli scontri a fuoco tra i gruppi armati. I civili continuano a sostenere il peso del conflitto, in particolare gli Indigeni, gli originari dell’Africa e le comunità contadine. Poiché le zone di conflitto si trovano soprattutto nelle aree rurali, molte delle vittime civili sono agricoltori che vivono in condizioni di povertà e non hanno accesso alle cure mediche. Le mine sono armi indiscriminate che hanno ucciso e mutilato soprattutto i civili. Sono armi che non fanno distinzioni tra un soldato impegnato in un conflitto e un civile che ci finisce sopra per errore, magari a distanza di due decadi. Sono un nemico che colpisce allo stesso modo combattenti e non combattenti. Il degenerare del conflitto ha portato all’utilizzo di questo tipo di arma nei giardini delle scuole, nei cortili, nelle strade... Oggi la Colombia è la seconda vittima di queste trappole, dopo l’Afghanistan, un Paese attraversato però da una guerra internazionale. Secondo i dati, la Colombia conta circa 800mila civili vittime dalle mine e di ordigni inesplosi. La Colombia ha fatto molti progressi rispetto agli anni ‘90 e i primi anni del 2000, anche grazie alla sottoscrizione di una convenzione contro le mine antiuomo, ma rimane debole per quanto riguarda la riabilitazione e il reintegro dei sopravvissuti e delle vittime nella società. La tragica realtà della Colombia mostra come le vittime civili siano ancora invisibili e tenute nascoste, private anche della possibilità di esprimere i propri sentimenti. www.diegoibarra.com
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Indigeni e contadini portano sulle spalle il peso della guerra
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Luis Antonio Herrera Una mina lanciata dall’esercito è esplosa mentre stava lavorando alle dipendenze di un proprietario terriero, il 22 Dicembre del 2004. “L’esercito mi aveva raccomandato di restare a casa. Stavano combattendo. Noi siamo quelli che subiscono le conseguenze. E non so nemmeno per cosa stanno combattendo, ma la mia vita è cambiata completamente da quel giorno” ha detto Antonio.
Refugee E’ stato costretto a scappare dalla sua città nel 2006. Le mine e gli scontri a fuoco tra l’esercito e la “guerriglia” assediavano il suo villaggio. A partire dagli anni ‘80 gli sfollati sono stati oltre 5mila.
Elías Humberto Elías cammina attraverso le montagne della Colombia, una Regione pericolosa della Colombia Centro-Occidentale dove si coltiva il caffè e il luogo dove è nato Manuel Marulanda Vélez, conosciuto come Tirofijo, il leader delle Farc. Gli abitanti devono sopportare le conseguenze di vivere nel mezzo degli scontri a fuoco. 233
Carlos Humberto Un dettaglio delle conseguenze causate dall’esplosione di una mina il 17 luglio 2007. Carlos Humberto è stato ferito dall’esplosione di una mina nel profondo della foresta a Tolima, in Colombia. “Voglio giocare ancora. Vorrei tornare indietro alla mia infanzia e dimenticare le conseguenze della guerra nel mio Paese, ma non lo posso fare”. Ha spiegato Carlos Humberto nella sua casa.
Beni a rischio/2 Luigi Cortellessa*
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L’arte va difesa dalla guerra per salvare uomini e cultura Destinatario della tutela in disamina è il bene culturale latu sensu, che, per necessità sistematica, individuiamo nella definizione della legislazione nazionale italiana. Difatti, l’art. 10 del Decreto Legislativo 22 gennaio 2004 nr. 42, recante “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, definisce beni culturali “le cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle Regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico”. Sono inoltre beni culturali altri tipi di documenti e raccolte nonché i beni posseduti da privati se dichiarati tali dalle locali soprintendenze con specifica dichiarazione e non esclusi esplicitamente mediante apposita procedura. Poiché i rischi più gravi per il patrimonio di cui sopra si riscontrano in occasione di conflitti armati (a causa delle operazioni belliche e di occupazione militare e per l’alta percentuale di fenomeni consequenziali di saccheggio e trafugamento) le origini della normativa internazionale di riferimento si rinvengono nelle norme di diritto bellico, elaborate nella seconda metà del secolo scorso, allorquando la comunità internazionale prese coscienza della necessità di adozione di norme specifiche a questo scopo. In esse sono contenuti principi, recepiti poi anche nel diritto internazionale ordinario, che consacrano l’importanza di garantire tutela nello specifico delicato settore. Il più importante strumento internazionale per la protezione dei beni culturali in tempo di guerra è, tuttavia, la Convenzione adottata da una conferenza diplomatica convocata su iniziativa dell’UNESCO all’Aja il 14 maggio 1954: un trattato multilaterale di applicazione tendenzialmente universale (perché aperto alla partecipazione di tutti gli Stati), che rispecchia l’evoluzione registrata nel diritto bellico internazionale dopo la seconda guerra mondiale, con l’ampliamento della sfera di applicazione. Nello specifico, infatti, la convenzione risulta applicabile non solo in caso di “guerra dichiarata”, qualora cioè vi sia uno “stato di guerra” in senso tecnico, ma in occasione di qualsiasi conflitto armato, anche se l’esistenza di un formale “stato di guerra” non sia riconosciuta da uno o più degli Stati coinvolti nel conflitto1. È altresì attuabile in tutti i casi di occupazione bellica, parziale o totale, del territorio di uno Stato, anche se l’occupazione non incontra resistenza armata2 e vi si ricorre sempre nei rapporti tra gli Stati contraenti, anche se uno o più Stati coinvolti nel conflitto non ne sono parti3. L’articolo 19 della convenzione, inoltre, rende applicabili alcune disposizioni specifiche anche in caso di conflitto armato non internazionale e, dunque, in quelle situazioni che una volta si identificavano come “guerre civili” e che oggi vengono comunemente indicate come “conflitti interni”. Si pensi, ad esempio, al conflitto nella ex Jugoslavia ed ai più recenti casi nel Nord Africa. Fra le importanti innovazioni introdotte emerge
*Colonnello dei Carabinieri Vice Comandante del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale - Roma
CONVENZIONE AJA 1954: LE PRINCIPALI DISPOSIZIONI Entrando più nello specifico nei contenuti della Convenzione del 1954, emerge la distinzione tra “protezione generale” e “protezione speciale” dei beni culturali4: la prima è garantita e riservata a tutti quei beni che rientrano nella definizione data dalla Convenzione stessa e che possono, ma non necessariamente debbono essere dotati, in tempo di guerra, di apposito e particolare segno distintivo5; sono invece soggetti al secondo genere di protezione gli immobili inseriti nel Registro Internazionale conservato dal Direttore Generale dell’UNESCO6 e che, in tempo di guerra, devono obbligatoriamente essere contraddistinti dal già citato elemento distintivo7. Inoltre, i beni oggetto di protezione generale non possono essere utilizzati a fini bellici, ad esempio essere trasformati in basi militari, per la evidente esposizione a distruzione o a danneggiamento in caso di conflitto armato. Scorrendo gli articoli del trattato si noterà, tra l’altro, che il legislatore ha voluto ratificare alcuni doveri ed obblighi degli Stati contraenti, primo fra tutti quello “di predisporre, già in tempo di pace, adeguate forme e misure di tutela dei beni culturali dai prevedibili effetti di un eventuale conflitto armato”8, ma anche quello di garantire la prevenzione ed il perseguimento di reati contro il patrimonio culturale quali il furto, il saccheggio e gli atti vandalici. È poi reso esplicito il divieto di sottoporre a sequestro i beni mobili, nonché quelli oggetto di protezione speciale9 situati nel territorio di un altro Stato parte della convenzione stessa10, e, in linea di principio, il divieto di attaccare militarmente un bene culturale, a prescindere dalla sua eventuale illegittima utilizzazione per fini militari da parte del nemico. L’espressione “in linea di principio” è d’obbligo poiché, in effetti, la convenzione stessa consente di invocare la necessità militare per derogare a tale divieto: davvero un palese paradosso di cui non si rinviene la ratio. Per quanto riguarda i beni oggetto di protezione speciale ad esempio, si prevedono due eccezioni possibili. La prima è quella della necessità militare, che consente di derogare sia all’obbligo di non utilizzare i beni culturali per scopi militari, sia a quello di non farne oggetto di attacco11. La seconda eccezione riguarda il fatto che, nel caso in cui uno Stato violi gli obblighi imposti dal trattato, in particolare il divieto di utilizzo del bene per fini militari, lo Stato avversario può considerarsi svincolato dall’obbligo di garantire l’immunità del bene culturale, anche se ciò sarà possibile solo dopo aver richiesto la cessazione del comportamento illecito “entro un periodo ragionevole”12. Rinvenendosi dunque - nella Convenzione - talune incertezze in termini di efficace immunità dei beni culturali, si rimanda al I Protocollo addizionale del trattato risalente al
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il superamento della visione statalistica o nazionalistica della protezione dei beni culturali e l’adozione, per la prima volta in uno testo normativo internazionale, della nozione di patrimonio comune dell’umanità; ne deriva che la tutela dei beni culturali è interesse dell’umanità intera e non solo del popolo al cui specifico patrimonio culturale si potrebbe ritenere che un determinato bene appartenga (il danneggiamento dei beni culturali appartenenti ad un qualsiasi popolo comporta il danneggiamento del patrimonio comune dell’intera umanità). Tale nozione è fra i principi transitati e sviluppati anche nel diritto internazionale di pace. Altro importante limite superato con la Convenzione del 1954 è la restrittiva nozione di patrimonio culturale, che contemplava solo “edifici dedicati all’arte ed alla scienza”, “monumenti storici”, “opere dell’arte e delle scienze”. Tale impostazione recede in favore dell’introduzione del concetto di “beni culturali”, in cui far rientrare, a prescindere dalla loro natura pubblica o privata e dalla loro origine, i beni mobili e immobili di grande importanza per il patrimonio culturale di ogni popolo, gli edifici utilizzati come contenitori di beni mobili e, addirittura, i centri monumentali, cioè intere aree o quartieri di particolare interesse culturale.
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1977. Esso si fonda sulla distinzione tra obiettivi civili ed obiettivi militari e contiene, oltre alla distinzione di carattere generale, anche una norma, quella dell’articolo 53, che stabilisce l’obbligo di non attaccare i beni culturali, non utilizzarli a scopi militari, non farne oggetto di rappresaglia, pur senza fare riferimento alcuno alla necessità militare ed escludendo, di fatto, qualsiasi deroga all’immunità dal patrimonio in questione a patto che tali beni non costituiscano obiettivo militare13. E ancora, sempre nel I Protocollo addizionale del 1977, l’articolo 85, comma 4, lettera D definisce crimine di guerra l’attacco diretto contro i monumenti storici, le opere d’arte, i luoghi di culto chiaramente riconosciuti, se commesso intenzionalmente, in violazione del Protocollo stesso ed in modo tale da provocare gravi distruzioni, laddove tali beni non siano situati in prossimità di obiettivi militari. La norma de quo non riguarda però l’attacco contro qualsiasi bene culturale, bensì solo quello diretto in danno di un bene cui è stata accordata una protezione speciale in base ad un accordo particolare. Pur riconoscendo un chiaro tentativo di evoluzione del diritto internazionale verso l’interpretazione dei danneggiamenti intenzionali e della distruzione dei beni culturali quali crimini di guerra, risulta altrettanto evidente una persistente confusione in subiecta materia. Questa potrebbe essere facilmente superata se si considerasse applicabile anche in ambito di patrimonio culturale quella norma generale del protocollo del 1977 che considera crimini di guerra tutti gli attacchi indiscriminatamente lanciati contro obiettivi civili, pur sapendo che possono provocare danni eccessivi14. Va segnalata inoltre l’adozione, contestuale alla nota Convenzione, anche di un Protocollo addizionale in tema di protezione di beni culturali in caso di conflitto armato15. Fu così che, per la prima volta, un testo giuridicamente vincolante si occupava del grave problema dell’illecito trasferimento in tempo di guerra di beni culturali. Il documento non è parte integrante della Convenzione, bensì distinto accordo a carattere internazionale: non necessariamente, quindi, gli Stati parti della Convenzione sono anche parti del Protocollo e viceversa. Nel citato Protocollo si dispone anzitutto che, in caso di occupazione di un territorio da parte di una potenza belligerante, quest’ultima ha il dovere di prevenire l’esportazione dei beni culturali dal territorio occupato. Inoltre lo Stato in cui i beni dovessero essere stati importati è obbligato a prenderli in custodia e restituirli alla fine delle ostilità. Infine, “la Potenza che avrebbe dovuto prevenire l’esportazione illecita ha l’obbligo di fornire un indennizzo al possessore in buona fede di quei beni”16. PROTOCOLLO DEL 1999 Il 26 maggio 1999 viene redatto un nuovo Protocollo che, da un punto di vista formale, non si configura come emendamento della Convenzione del 195417, bensì come autonomo accordo internazionale da aggiungersi alla Convenzione, al pari del già citato Protocollo del 1954 relativo all’illecito trasferimento di beni culturali dai territori soggetti ad occupazione bellica. L’ambito di applicazione è il medesimo della Convenzione del 195418 con un indubbio progresso in termini di attuazione di norme e disposizioni anche in caso di conflitti interni. Vengono espressamente escluse solo le situazioni di disordine e tensione interna quali “sommosse, atti di violenza isolati e sporadici ed altri atti di natura simile”19. Per quanto riguarda la protezione accordata ai beni culturali in genere, l’art. 5 del Protocollo, oltre a confermare l’obbligo degli Stati parte di adottare, già in tempo di pace, misure precauzionali di protezione dai prevedibili effetti di un conflitto armato, procede opportunamente ad esemplificarne alcune: si citano, in particolare, “la predisposizione di inventari, la pianificazione di misure di emergenza per la protezione contro incendi o crolli, la preparazione per la rimozione dei beni mobili o la predisposizione di misure adeguate di
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protezione in situ, nonché la designazione di autorità responsabili della protezione dei beni culturali”. Quanto alla protezione da garantire in tempo di conflitto armato, oltre a ribadire gli obblighi di cui all’art. 4 della Convenzione del 1954, il Protocollo sancisce una serie di nuovi obblighi relativi alle precauzioni da adottare durante operazioni militari, così da evitare, ove possibile, danni - anche collaterali - ai beni culturali20; essi riecheggiano quelli già sanciti nel I Protocollo addizionale del 1977 relativamente alla protezione della popolazione civile e dei beni civili21. Vengono inoltre dettate nuove disposizioni relative ai territori occupati, che, oltre a vincolare la potenza occupante al divieto ed alla prevenzione di scavi archeologici e alterazioni o mutamenti d’uso di beni culturali allo scopo di nascondere o distruggere testimonianze culturali, storiche o scientifiche, molto opportunamente ribadiscono l’obbligo, in parte già sancito nel primo Protocollo del 1954, di proibire e prevenire l’esportazione illecita o altra rimozione o trasferimento di proprietà dei beni culturali. Accanto alla protezione accordata in termini generali al patrimonio culturale, anche il Protocollo del 1999 mira ad accordare una protezione specifica a taluni beni ritenuti particolarmente importanti per l’umanità. Al vecchio regime di “protezione speciale”, previsto dalla Convenzione del 1954, si aggiunge così un nuovo regime di “protezione rafforzata”, disciplinata dal Capitolo 3 del Protocollo. Il regime di “protezione rafforzata” si applica ai beni culturali iscritti in apposita “lista” che, a differenza del “Registro” conservato dal Direttore Generale dell’UNESCO, è custodita da un “Comitato per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato” composto da dodici esperti governativi, designati per quattro anni, eletti da tutte le Parti del Protocollo, e che monitora e supervisiona l’applicazione del Protocollo in generale22. Un esame comparato dell’articolo 6 del Protocollo del 1999 (relativo ai beni culturali in genere) e dell’articolo 13 (relativo ai beni oggetto di “protezione rafforzata”) potrebbe ingenerare l’impressione che la protezione accordata a questi ultimi sia maggiore. In realtà l’articolo 6, pur mantenendo l’eccezione della necessità militare da applicare ai beni culturali che non sono oggetto di protezione rafforzata, aggiunge che tale eccezione può invocarsi al fine di attaccare un bene culturale solo se esso è stato trasformato in “obiettivo militare” e se “non esistono alternative percorribili” per ottenere un vantaggio militare paragonabile23. Trascurando qualche differenza di dettaglio24, ciò che soprattutto conta, nell’un caso e nell’altro, è che il bene culturale non costituisca un “obiettivo militare”. È pur vero che casi recenti hanno fatto rilevare il frequente utilizzo di Musei e monumenti quali basi ed obiettivi militari, specie in occasione di conflitti interni (vedasi il caso del Museo di Beirut che nel corso del conflitto interno del 2008 venne adibito a base delle milizie di Hezbollah tese a contrastare i miliziani filo occidentali). Le disposizioni del Protocollo del 1999, relative alla responsabilità individuale in caso di violazione delle norme sulla protezione dei beni culturali, risultano particolarmente chiare nella loro differenziazione in termini di applicazione. In particolare l’articolo 15 dispone che le “violazioni gravi” del Protocollo costituiscono sempre illeciti penali, da punirsi con pene “adeguate” nel quadro degli ordinamenti giuridici interni degli Stati parte. L’elenco tassativo delle condotte configuranti reato comprende l’attacco di un bene culturale, la distruzione o l’appropriazione “estensiva” di beni culturali, il furto, il saccheggio e gli atti di vandalismo contro beni culturali, nonchè l’utilizzo di un bene culturale o delle sue immediate vicinanze in appoggio all’azione militare. Quest’ultimo reato è tuttavia qualificato come “violazione grave” solo se riguarda un bene oggetto di “protezione rafforzata”. Tutti gli illeciti devono comunque essere intenzionali e perpetrati in elusione del Protocollo del 1999 o della Convenzione del 1954 per essere considerati violazioni gravi. Per le altre violazioni del Protocollo, ivi compresa l’illecita esportazione o
altra rimozione o trasferimento di proprietà di un bene culturale da un territorio occupato, l’articolo 21 si limita ad obbligare le Parti ad adottare le misure legislative, amministrative o disciplinari eventualmente necessarie per “sopprimere” tali violazioni. Un trattamento privilegiato viene poi accordato ai beni oggetto di “protezione rafforzata” per quanto concerne gli aspetti processuali. Infatti, l’articolo 16 del Protocollo obbliga le Parti ad adottare le misure legislative necessarie per stabilire la propria giurisdizione per le “violazioni gravi” solo laddove esse siano state commesse nel loro territorio o i presunti autori siano loro cittadini; una sorta di “giurisdizione universale”, da esercitarsi in tutti i casi in cui i presunti autori, a prescindere dalla loro cittadinanza e dal “locus commissi delicti”, siano presenti nel loro territorio, è prevista solo per il caso di distruzione o appropriazione “estensiva” di beni culturali e per i casi di attacco di un bene oggetto di “protezione rafforzata” o di uso di tale bene, o delle sue immediate vicinanze, in appoggio all’azione militare. Solo per tali violazioni è inoltre previsto dagli articoli 17 e 18 l’obbligo c.d. di “dedere aut judicare”, cioè perseguire o, in alternativa, estradare l’autore. Bene culturale e conflitto armato sono termini antitetici, in ragione del fatto che la cultura è, per sua natura, collante di civiltà e malta aggregante, mentre, al contrario, i conflitti sono la più alta forma di criticità della umana coesistenza. Un tempo le guerre si combattevano ad eserciti contrapposti, schieramenti che si fronteggiavano in campo aperto e vittoria attribuita a chi mieteva più vittime nella parte avversa. Le città erano l’obiettivo finale della conquista, momento espressivo della vittoria politica accanto a quella militare: il saccheggio e la devastazione davano contezza dell’una e dell’altra. I beni culturali, nelle guerre antiche, diventavano bottino, in sostanza – e generalmente - cambiavano domicilio, per divenire simbolo, a casa del vincitore, della vittoria guadagnata. Oggi, se guerra vi è, essa è totale: non più solo cosa per soldati, bensì fattore coinvolgente ogni segmento della società senza sconti di vite umane e beni materiali. In questo drammatico coinvolgimento, non sono purtroppo esenti le manifestazioni tangibili della cultura: il dipinto e la statua, il libro e l’anfora, il monumento ed il sito archeologico. Le Convenzioni internazionali, in tema di protezione dei beni culturali, sono senz’altro uno strumento normativo di irrinunciabile valenza, tanto più se la Comunità internazionale sarà capace di mettere in campo efficaci strumenti di controllo sulla loro effettiva applicazione. Ma soprattutto sarà sempre necessario che ogni parte belligerante, pur trascinata nella perversa dinamica dei conflitti armati, assuma la consapevolezza che i beni culturali sono, indipendentemente dalla appartenenza, un prezioso strumento che ci aiuta a riconoscere il valore universale della pace. L’ordinamento italiano affida al rango costituzionale la regolamentazione della materia. Difatti l’art. 78 della Costituzione stabilisce che lo stato di guerra è deliberato dalle Camere. Il successivo art. 87 affida al Presidente della Repubblica la dichiarazione dello stato di guerra deliberato dalle Camere. 2 Cfr. l’art. 18, commi 1 e 2 della Convenzione (Applicazione della Convenzione). 3 Cfr. l’art. 18, comma 3 della Convenzione (Applicazione della Convenzione). 4 Cfr., rispettivamente, i Capitoli I (Disposizioni generali concernenti la protezione)e II (Della protezione speciale) della Convenzione. 5 Cfr. l’art. 6 della Convenzione(Segnalamento dei beni culturali). Si noti che il segno distintivo, regolato dal Capitolo V della Convenzione(Del segno), è diverso da quello predisposto da precedenti convenzioni in materia. 6 Cfr. l’art. 8, comma 6, della Convenzione(Concessione della protezione speciale) e gli artt. 12 (Registro internazionale dei beni culturali sotto protezione speciale) ss del relativo Regolamento di esecuzione. 7 Cfr. l’art. 10 della Convenzione(Segnalamento e controllo). 8 Cfr. l’art. 3 della Convenzione (Salvaguardia dei beni culturali). 9 Cfr. l’art. 9 della Convenzione (Immunità dei beni culturali sotto protezione speciale). 10 Cfr. l’art. 4 della Convenzione (Rispetto dei beni culturali). 11 Cfr. l’art. 11, comma 2, della Convenzione (Sospensione dell’immunità). 12 Cfr. l’art. 11, comma 1, della Convenzione (Sospensione dell’immunità). 13 In tal senso si sono espressi, tra gli altri, il Regno Unito in una dichiarazione risalente all’atto della firma del I Protocollo addizionale e la stessa Italia, in una dichiarazione interpretativa avvenuta all’atto del deposito della ratifica del Protocollo. 14 Cfr. l’art. 85, comma 3, lettera b, del Protocollo del 1977. 15 Testi autentici (francese, inglese, russo e spagnolo) in United Nations Treaty Series, Vol. 249, pp. 358ss. Per una traduzione italiana, cfr. Verri (a cura di), op.cit., pp. 521ss. Il Protocollo è stato ratificato dall’Italia in seguito alla già citata legge di autorizzazione alla ratifica della Convenzione. 16 Cfr. l’art. I del Protocollo del 1954 (Lista internazionale di personalità). 17 Il procedimento di emendamento della Convenzione del 1954 e del relativo Regolamento di esecuzione, è regolato dall’art. 39 della Convenzione stessa (Revisione della Convenzione e del suo Regolamento di esecuzione). 18 Cfr. l’art. 3 del Protocollo del 1999. 19 Cfr. l’art. 22 del Protocollo del 1999. 20 Cfr. gli artt. 7, 8 e 13, paragrafo 2, lett. b, del Protocollo del 1999. 21 Cfr. il Capitolo IV, artt. 57 e 58, del I Protocollo addizionale del 1977. 22 Cfr. gli artt. 24-28 del Protocollo del 1999. 23 L’art. 6 consente di invocare la necessità militare anche per utilizzare un bene culturale per scopi che potrebbero esporlo a distruzione o danneggiamento ma solo se “non c’è scelta possibile tra tale utilizzazione del bene culturale ed un altro metodo percorribile per ottenere un vantaggio militare paragonabile”. 24 Ad esempio, nel caso dei beni oggetto di protezione rafforzata, l’ordine di attaccare deve provenire sempre dal “più alto livello operativo di comando”, salvo che non sia richiesto altrimenti dalle necessità di una “autodifesa immediata”; negli altri casi, l’attacco può invece essere ordinato dal comandante di una forza equivalente almeno a un “battaglione” o dal comandante di una forza di minore consistenza se che le circostanze non permettono di fare altrimenti. Inoltre, mentre, in caso di attacco, è in ogni caso necessario, ove le circostanze lo consentano, dare un previo avvertimento al nemico, nel caso di beni oggetto di protezione rafforzata è anche necessario accordare alle forze avversarie un tempo ragionevole per por termine alla situazione che legittima l’attacco.
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Beni a rischio/3 Federica Ramacci
Foto in alto Lo Ziqqurat di Ur
Si ringrazia per la collaborazione Francesco Lanino, esperto di cooperazione presso l’Ambasciata d’Italia a Baghdad
Il sito archeologico di Ur si trova nella parte Centro-Meridionale dell’Iraq, nei pressi della città di Nassiriya. E’ immerso in un deserto di sabbia chiara, più roccioso di quelli africani. Qui la temperatura può raggiungere i 55 gradi e le paludi, le Marshland mesopotamiche, con i canneti e le popolazioni locali ancora legate alle abitudini e alle tradizioni di migliaia di anni fa, convivono con i pozzi di oro nero. Il puzzo di petrolio bruciato è tanto forte da permeare l’aria. Tutta la zona è, purtroppo, a rischio a causa dei progetti di Iran e Turchia di costruire dighe che avrebbero un impatto gravemente negativo sull’ambiente e sulle popolazioni che abitano una Regione considerata la culla della civiltà. La città di Ur è parte di questa storia affascinante ed è uno dei siti archeologici più antichi della Mesopotamia. Una vecchia “città stato” passata nelle mani dei sumeri, degli assiri e dei babilonesi con un valore enorme sia per gli iracheni che per l’umanità intera. Nel libro della Genesi la si indica come il luogo di nascita di Abramo, padre delle tre religioni monoteiste. E’ una indicazione che non ha riscontri storici o scientifici certo, ma un enorme valore simbolico: una “città della pace” e di incontro tra diverse culture e religioni. Il sito archeologico di Ur è stato inglobato nella vecchia base militare americana (una ex base irachena, bombardata dagli Usa sia nella prima che nella seconda Guerra del Golfo), in una zona dove sono stati censiti almeno 620 siti archeologici. Ur, oggi chiamata Tell el-Mukayyar, è uscita indenne dai bombardamenti americani, ma ha subito negli anni, i danni causati dagli scavi clandestini e dai saccheggi, iniziati nel periodo in cui l’Iraq si è impoverito a causa dell’embargo, e proseguiti con un picco preoccupante tra la prima e la seconda Guerra del Golfo. Negli anni ‘60 Saddam Hussein fece ricostruire la grande Ziqqurat che si trova all’interno della città, un antico tempio mesopotamico che da quel momento e per molti anni è stato lasciato però in uno stato di totale abbandono. Oggi nel sito archeologico di Ur sta lavorando una squadra di archeologi italiani guidati da Franco D’Agostino, professore dell’Università La Sapienza di Roma. Il team italiano vive all’interno del sito archeologico di Ur e sta portando avanti uno scavo finanziato dal Ministero degli Esteri attraverso la Cooperazione Italiana e insieme al Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Quella italiana è l’unica missione di questo tipo presente nel Sud dell’Iraq e alle attività di scavo affianca quelle di formazione per il personale iracheno (lettura della scrittura cuneiforme, restauro dei mattoni crudi e cotti, attività di laboratorio sulle tecniche di restauro delle tavolette di argilla). Operazioni costantemente coordinate con le autorità irachene. “La tutela del patrimonio archeologico in Iraq è stata sempre una priorità degli italiani - spiega Francesco Lanino, esperto di Cooperazione presso l’Ambasciata d’Italia in Iraq -. I rapporti tra i nostri esperti italiani e quelli iracheni sono eccezionali. In questo siamo stati molto bravi. La polizia irachena ci fornisce gratuitamente la sicurezza necessaria per lavorare e abbiamo dei rapporti ottimi con le autorità locali, che cercano in tutti i modi di incentivare la presenza italiana e sostenerci. Si fidano totalmente degli italiani con cui hanno un legame forte e di grande rispetto – prosegue Lanino -. Stimano questi archeologi che vengono a lavorare in un Paese a rischio, con lo scopo di aiutarli a valorizzare il loro patrimonio artistico”. Un clima di rispetto e fiducia che è più facile creare ora che la guerra è ufficialmente finita. Anche
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La cooperazione Italia-Iraq per salvare la città di Ur
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se nel Paese il clima è ancora di grandissima tensione, con un numero di attentati e di morti che si mantiene stabile da diversi anni e con lo spettro di una guerra civile che secondo molti analisti sarebbe dietro l’angolo. Durante la Seconda Guerra del Golfo invece, non sono state poche le proteste degli iracheni per il modo poco rispettoso con cui i militari a stelle a strisce avrebbero trattato il sito archeologico di Ur durante la loro permanenza nella base militare. Il ritrovamento di una quantità di palline da golf, ad esempio, ha fatto pensare, con sconcerto, che i soldati americani partecipassero a tornei improvvisati sulla Ziqqurat. Recentemente sono state molto forti le tensioni tra Stati Untiti e il dipartimento delle antichità irachene che ha chiesto ad alcuni musei statunitensi di fornire notizie sulla tracciabilità di alcuni reperti archeologici in loro possesso. Informazioni che gli americani hanno rifiutato di dare, creando un clima di sospetto tuttora presente. Nonostante la partecipazione, insieme agli americani, alla missione Antica Babilonia, quando la seconda Guerra del Golfo imperversava e fino al maggio del 2006, alcuni militari italiani erano già stati incaricati di fare una sorta di censimento delle aree archeologiche a rischio e di lavorare per il contrasto degli scavi clandestini organizzando difese passive dei siti. I militari italiani sono riusciti a recuperare una grande quantità di beni archeologici, 1600 reperti circa, che sono stati poi consegnati al Museo locale di Nassiriya. Con il ritiro delle nostre truppe (anche se gli americani sono rimasti, di fatto, in Iraq fino al 2011) e la fine delle operazioni militari nell’area, le autorità italiane hanno iniziato ad inviare nel Paese, archeologi esperti, sempre attraverso il Provincial Reconstruction Team e la Cooperazione italiana. Dal 2004 al 2008 l’Italia ha investito circa 300milioni di euro in progetti per la tutela del patrimonio iracheno a rischio. L’Italia sta anche finanziando la ristrutturazione del Museo di Baghdad, attraverso il restauro, la catalogazione e il recupero dei beni andati perduti a causa del conflitto (si parla di circa 15mila pezzi). Gran parte del patrimonio contenuto nel Museo di Baghdad e saccheggiato tra l’8 e il 12 aprile del 2003, non è stato ancora recuperato ed è andato ad ingrassare un mercato nero delle opere d’arte che ormai è diventato il terzo mercato illecito più redditizio del mondo dopo quello delle armi e della droga. Non si hanno ancora dati certi su questo fenomeno ma è possibile tracciare alcune “rotte” percorse dai beni sottratti illegalmente nei Paesi dove l’instabilità è alta e i controlli quasi inesistenti. I reperti rubati in Iraq, ad esempio, vengono portati a Baghdad. Da Baghdad a Bassora, dove finiscono o ad Amman in Giordania o verso Alessandria d’Egitto. Da lì e non si capisce bene come, arrivano in Europa o negli Stati Uniti o in Giappone: gli unici tre luoghi dove esiste un mercato dell’archeologia. Un pezzo viene rubato, venduto magari per dieci dollari e poi, passaggio dopo passaggio, il prezzo sale fino a raggiungere cifre di milioni di dollari. Nei giorni del saccheggio, dal museo di Baghdad, sono state rubate statue di 2000 chili, prese, fatte a pezzi e portate vie con i furgoni. Finite chissà dove, magari in casa di qualche privato con molti soldi da investire e pochi scrupoli. Durante il saccheggio del museo, mentre imperversava la guerra, gli iracheni hanno cercato strenuamente di difendere il proprio patrimonio artistico. Grandi quantità di avori portati negli scantinati si sono rovinati per sempre a causa dei bombardamenti americani che hanno danneggiato le fognature allagando tutto. Uno dei responsabili del museo è rimasto da solo, con un fucile in mano, a difendere dagli sciacalli questo patrimonio di tutta l’umanità. Ha perso un braccio durante gli scontri ed è morto recentemente, senza vedere tornare indietro i tesori per cui aveva rischiato la sua stessa vita. Anche per questo l’impegno delle istituzioni e degli archeologi italiani in Iraq è una di quelle “good news” che sembra doveroso raccontare. E’ l’impegno che si deve alla dignità e alla storia di un Paese e di un intero popolo.
Mausolei reali
La casa di Abramo
Paolo Affatato Paolo Affatato, giornalista e saggista, è responsabile della redazione “Asia” nell’agenzia di stampa vaticana Fides. Socio di Lettera22, associazione fra giornalisti specializzata in politica estera e cultura, nel 2011 ne è stato eletto presidente. Autore di servizi e reportage su diverse realtà dell’Asia, ha curato con Emanuele Giordana “Il Dio della guerra” (Guerini 2002); “A Oriente del Profeta” (ObarraO 2005), sull’islam asiatico; “Geopolitica dello tsunami” (ObarraO 2005). Ha partecipato a diversi numeri della collana di studi asiatici Asia Maior, contribuendo, fra gli ultimi testi, a “L’Asia del grande gioco” (2008), “Crisi globali, crisi locali e nuovi equilibri in Asia” (2009), “L’Asia di Obama e della crisi economica globale” (2010). Andrea Baranes Andrea Baranes lavora come responsabile delle campagne su istituzioni finanziarie private per la CRBM. Collabora con la Fondazione Culturale Responsabilità Etica, gruppo Banca Etica, per ricerche sui temi della finanza e dell’economia. È autore di diverse pubblicazioni relative ai temi della finanza e del commercio internazionali e collabora con riviste specializzate nel settore economico e della sostenibilità, quali “Valori” e “Altreconomia”. È direttore del sito di informazione “Osservatorio Finanza”. È attualmente membro del Consiglio Direttivo della rete internazionale della società civile BankTrack, e, in Italia, è membro del Comitato Etico di Etica Sgr, società di gestione del risparmio del gruppo Banca Etica. Barbara Bastianelli Giornalista, lavora al Premio Ilaria Alpi e si occupa del concorso giornalistico televisivo oltre a dirigere l’Archivio Ilaria Alpi. Dopo aver lavorato per diversi anni nelle testate giornalistiche locali, ha iniziato ad occuparsi di comunicazione, curando diversi uffici stampa. Ha seguito il Premio Ilaria Alpi fin dalla sua nascita, diventando nel 2007 vice presidente dell’Associazione Ilaria Alpi che l’ha ideato. Ha collaborato alla stesura dei volumi curati dal Premio Ilaria Alpi: L’informazione Deviata (Baldini e Castoldi, 2003), Le periferie dell’Informazione (Paoline, 2006) e Giornalismi & Mafie (Ega, 2008), Africa e Media (Ega, 2009) e Carte False (Verdenero, Ed.Ambiente, 2009). Ha curato insieme ad Angelo Ferrari il volume: Informazione e lavoro (Paoline, 2007).
Daniele Bellesi Diplomato al Liceo Artistico, ha frequentato per diversi anni la Facoltà di Architettura. Si è poi dedicato alla libera professione come grafico e consulente per la comunicazione. Ha lavorato molto anche nel mondo dell’associazionismo e del volontariato. È vicepresidente dell’Associazione Un Tempio per la Pace di Firenze (dialogo inteculturale e interreligioso) e ha fondato insieme agli altri l’associazione 46° Parallelo. Laura Boldrini Da oltre venti anni lavora nelle agenzie delle Nazioni Unite. Dal 1998 è portavoce dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) per il quale coordina anche le attività di informazione in Sud-Europa. In questi anni ha svolto numerose missioni in diversi luoghi di crisi, tra cui Ex-Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Sudan, Caucaso, Angola e Ruanda. Scrive in diverse riviste e tiene il blog “Popoli in Fuga” su Repubblica.it. Ha recentemente pubblicato per Rizzoli “Tutti Indietro”, storie di uomini e donne in fuga e di un Italia tra paura e solidarietà. Giulia Bondi Giornalista, collabora con Terre, Il mucchio e l’ufficio stampa del Comune di Modena. Suoi lavori sono apparsi su L’Espresso, Peacereporter, Protestantesimo (Rai). Ha pubblicato “Ritorno a Montefiorino”, storia della Resistenza a Modena scritta con Ermanno Gorrieri (Il Mulino, 2005) e “Io sono di Braida” su un quartiere di periferia di Sassuolo (Mo). Nel 2006 ha vinto il Premio Ilaria Alpi. Fabio Bucciarelli Prima di diventare fotoreporter Fabio Bucciarelli si è laureato in Ingegneria delle Telecomunicazioni nel 2006 presso il Politecnico di Torino. Durante gli studi universitari ha frequentato la Univiersidad Politecnica di Valencia dove si è specializzato nello studio delle immagini digitali. Dal 2009 si dedica completamente alla fotografia e comincia a lavorare come fotografo di staff per l’agenzia LaPresse/Ap. Fabio ha vinto diversi premi internazionali ed il suo lavoro è stato pubblicato dal New York Time, Stern, The Times, The Guardian, The Wall Street Journal, LA Times, Foreign Policy, The Telegraph, Vanity Fair, La Repubblica, La Stampa, Le Monde. Negli ultimi anni ha documentato i più grandi conflitti mondiali soffermandosi sugli effetti della guerra sulla popolazione civile. Recentemente ha affiancato alla fotografia il giornalismo scritto. Nel 2012 ha pubblicato il
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Gruppo di lavoro
libro ‘L’Odore della Guerra’ sul conflitto libico. Pietro Cavallaro Siciliano e fiero delle sue origini, vive a Riccione da oltre 50 anni. Ha svolto il ruolo di difensore civico ricoperto per 11 anni al quale la città lo ha chiamato. In questo ufficio ha promosso due convegni a carattere nazionale. Ha ricoperto più volte la carica di presidente di varie associazioni che lo ha condotto ad interessarsi fattivamente con passione e partecipazione di emergenze umanitarie quali le drammatiche necessità dell’Albania in seguito alla caduta del regime o più recentemente a richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica al diritto all’indipendenza del popolo Saharawi il cui territorio si trova sotto occupazione del Marocco. Francesco Cavalli Direttore generale di Icaro Communication, network di comunicazione riminese comprendente Radio Icaro, IcaroTV, Newsrimini. it e Bottega Video produzioni. Direttore del Premio Giornalistico televisivo Ilaria Alpi del quale ne è uno dei fondatori. Impegnato anche nel no-profit è vicepresidente della ONG Amani onlus. Liugi Cortellessa Colonnello dei carabinieri, è nato il 17 febbraio 1962 a Spoleto (PG). Ammesso nel 1980 all’Accademia Militare di Modena, quale Allievo del 162° Corso “Onore”, è stato nominato Sottotenente nel 1982. Dal 22 settembre 2008 è Vice Comandante del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale. E’ insignito della Medagli d’Oro al Merito di lungo comando, della Croce d’Oro per anzianità di servizio; è Cavaliere Ufficiale al Merito della Repubblica. Per operazioni di servizio ha ricevuto un Encomio Solenne ed un Encomio Semplice. E’ laureato in Giurisprudenza, Sociologia, Scienze della Sicurezza, Scienze della Sicurezza Interna ed Esterna, Scienze Internazionali e Diplomatiche. Ha frequentato i Corsi di Perfezionamento in: “Persona e Diritti Fondamentali “, “Management Pubblico, dei Servizi e Sanitario”, “Metodi e Tecniche Psicologiche dell’Investigazione Criminale”. E’ autore di due romanzi e di pubblicazioni giuridiche e di numerosi articoli su tematiche storiche e giuridiche. Raffaele Crocco Giornalista RAI, ha lavorato per alcuni anni come inviato in zone di guerra. Ha fondato la rivista Maiz - A Sud dell’informazione - ed è stato tra i fondatori Peacereporter. È l’autore
del libro “Il CHE dopo il CHE”. Ha ideato e dirige questo Atlante. Angelo D’Andrea Angelo d’Andrea ha 36 anni, giornalista pubblicista, laureato in Comunicazione a Roma , dal 2005 è funzionario dell’Agenzia delle Entrate addetto alle Relazioni Esterne e Rapporti con la Stampa per il Veneto e il Trentino. Sta seguendo il tema dei “paradisi fiscali”. Ha collaborato ad un’inchiesta su “massoneria e finanza” per la Rizzoli. Per l’Atlante cura le schede Kosovo, Turchia e Cipro nonchè la versione radio e podcast di tutti i contenuti. Anna Cinzia Dellagiacoma Interessata agli sviluppi attuali che avvengono a livello mondiale, ha studiato Scienze Internazionali e Diplomatiche. Conseguita la laurea, frequenta ora un Master in Studi Europei presso l’università di Bath. Angela de Rubeis Angela de Rubeis redattrice del sito www.ilariaalpi.it e collaboratrice del premio ilaria alpi dal 2006. Laureata in scienze della comunicazione a bologna e specializzata in comunicazione di massa, ha collaborato alla stesura del libro informazione e lavoro (Paoline, 2007) e della collana “I taccuini del premio ilaria alpi. Oggi lavora al settimanale il Ponte di Rimini. Angelo Ferrari Angelo Ferrari, corrispondente dell’Agenzia Italia dall’Africa Centrale, da anni si occupa di problematiche relative al Sud del mondo e in particolare all’Africa, dove ha seguito le più grandi tragedie del continente: dalla guerra del Rwanda a quella della Somalia, dalla Repubblica democratica del Congo alla Sierra Leone. Tra i suoi libri ricordiamo Hakuna Matata, la globalizzazione galoppa mentre l’Africa muore (2002), Amahoro (Pace) tredici anni di viaggi in Africa (2003), Sogni, le speranze dei bambini africani (2006) e Africa gialla, l’invasione economica cinese nel continente africano (2008). Ha pubblicato per la Emi, editrice missionaria italiana, il libro “Le nebbie del Congo” uscito nel 2011. Marina Forti Marina Forti è nata a Milano, dove ha cominciato a lavorare a Radio Popolare. Giornalista professionista, dal 1983 è al quotidiano Il Manifesto, dove si è occupata di attualità internazionale, immigrazione e ambiente. Già caposervizio esteri, da inviata ha viaggiato a lungo in Iran, nel sub-continente indiano e nel
sud-est asiatico. Per la rubrica “terraterra” ha avuto nel 1999 il premio “giornalista del mese”, noto come Premiolino. Con il libro La signora di Narmada. Le lotte degli sfollati ambientali nel sud del mondo (Feltrinelli 2004) ha ricevuto il premio Elsa Morante per la comunicazione 2004. Federico Fossi M.Sc. in assitenza umanitaria e sviluppo presso lo University College Dublin, da oltre dieci anni lavora nella comunicazione per il settore no-profit ed in particolare in ambito di cooperazione internazionale e rifugiati. Si è occupato di programmi europei di integrazione nel quadro dell’iniziativa comunitaria EQUAL. Dal 2008 lavora nell’ufficio stampa dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR). Emanuele Giordana Emanuele Giordana, cofondatore e sino al 2010 direttore di Lettera22 è stato docente di cultura indonesiana all’IsMEO di Milano e è vicepresidente dell’Osservatorio “Asia Maior”. Ha pubblicato con G. Corradi “La scommessa indonesiana” e curato le collettanee “Il Dio della guerra”, “A Oriente del profeta”, “Geopolitica dello tsunami”, “Tibet, lotta e compassione sul Tetto del mondo”. Nel 2007 è uscito per Editori Riuniti “Afghanistan: il crocevia della guerra alle porte dell’Asia” e nel 2010 per ObarraO “Diario da Kabul”. Editorialista di “Terra” è uno dei conduttori di Radiotremondo a Radio3Rai e portavoce della piattafroma “Afgana”. Diego Ibarra Sanchez Fotografo spagnolo, si è formato come fotogiornalista prima all’Associazione della stampa di Aragona, poi con il giornale argentino La Nacion. Rientrato in Spagna, ha lavorato ad alcune iniziative editoriali ed ha iniziato la collaborazione con l’agenzia Apa, realizzando reportage in Bosnia. Inizia anche a lavorare con una Ong catalana, documentando l’effetto delle mine antiuomo in Colombia e Algeria. Dal 2009 vive nell’Asia Centrale, in Pakistan, lavorando come corrispondente di una Tv spagnola e per l’agenzia portoghese 4Seephoto. Ha lavorato anche per l’agenzia EFE, la Otra Foto, La Razon, per l’Equipe, Avui, El Pais. Ha fondato il collettivo ZPhoto, assieme a Eduardo Moreno, Jorge Fombuena, cui si è aggiunto Alvaro Calvo. Rosella Ideo Ha insegnato storia moderna dell’Asia Orientale e Storia Politica e Diplomatica dell’Asia
Adel Jabbar È sociologo ricercatore nell’ambito dei processi migratori e comunicazione interculturale. Ha insegnato sociologia delle culture e delle migrazioni all’Università Ca’ Foscari di Venezia e Comunicazione interculturale all’università di Torino. Libero docente incaricato nell’ambito della sociologia dell’immigrazione in diverse università italiane. Svolge attività di consulenza e formazione per enti locali e realtà associazionistiche. Sui temi relativi all’area araboislamica ha pubblicato molti interventi. Stefano Liberti Giornalista, scrittore e documentarista. Pubblica da anni reportage di politica internazionale sul manifesto e altri periodici italiani e stranieri. Nel 2004 ha pubblicato, insieme a Tiziana Barrucci, Lo Stivale meticcio. L’immigrazione in Italia oggi (Carocci). Nel 2009 ha vinto il premio Indro Montanelli per la scrittura con il libro A sud di Lampedusa (Minimum Fax, 2008). Per altri suoi lavori ha ottenuto il premio giornalistico Marco Luchetta e il premio Guido Carletti per il giornalismo sociale. Il suo ultimo libro Land grabbing (Minimum fax, 2011) è stato tradotto in tedesco, inglese, spagnolo e francese. Come regista, ha lavorato per la trasmissione tv “C’era una volta” di Rai3, ha diretto il documentario “L’inferno dei bimbi stregoni” (vincitore del premio “L’Anello Debole” 2010) e co-diretto con Andrea Segre il film “Mare chiuso” (2012), che si è aggiudicato vari premi in diversi festival italiani. Enzo Mangini Giornalista professionista dal 2001 specialista di temi di politica internazionale, fa parte dell’associazione indipendente di giornalisti Lettera22, attraverso cui collabora con Il Fatto Quotidiano online, il Riformista, Terra. Ha lavorato per il quotidiano Il Manifesto e per il settimanale Carta, dove ha ricoperto anche
la carica di direttore responsabile. Dall’aprile 2010 è corrispondente in Italia di Vreme, settimanale indipendente di Belgrado, Serbia. Luisa Morgantini È stata eletta parlamentare europea nel 1999 e riconfermata nel 2004 come indipendente, nelle liste di Rifondazione Comunista. Nel gennaio 2007 è stata eletta Vice-Presidente del Parlamento Europeo con l’incarico delle politiche europee per l’ Africa e per i diritti umani. È tra le fondatrici della rete internazionale delle Donne in nero contro la guerra e la violenza, è inoltre nel coordinamento nazionale dell’Associazione per la pace, un movimento per la non violenza e la pace. Ha ricevuto il premio per la pace delle donne in nero israeliane e il premio Colombe d’Oro per la Pace di Archivio disarmo, è tra le 1000 donne nel mondo che sono state candidate al Premio Nobel per la pace. Riccardo Noury 49 anni, è il portavoce e direttore dell’Ufficio comunicazione di Amnesty International Italia, associazione di cui fa parte dal 1980. Ha curato i libri “Non sopportiamo la tortura” (Rizzoli 2000) e “Poesie da Guantánamo” (Edizioni Gruppo Abele, 2008) ed è autore o coautore di altre pubblicazioni. Ha un blog plurisettimanale sui diritti umani “Le persone e la dignità” sul Corriere della Sera e un blog settimanale sulle rivolte in Medio Oriente e Africa del Nord sul Fatto Quotidiano. Enzo Nucci Corrispondente della Rai da Nairobi per l’Africa sub-sahariana dal 2006. Napoletano, 53 anni, è in Rai dal 1988 dove ha lavorato come cronista nella redazione regionale del Lazio prima di passare al Tg3 nel 1994. È stato inviato di cronaca nazionale e di esteri. Ha seguito i conflitti nella ex Jugoslavia, Kosovo, Afghanistan, Iraq e la rivolta in Albania. Ha vinto numerosi premi giornalistici tra cui il “Testimone di Pace” di Ovada e il premio Andrea Barbato di Mantova. Ilaria Pedrali Giornalista professionista, ha vissuto e lavorato a Gerusalemme come corrispondente per le Edizioni Terrasanta e gestendo il Franciscan Multimedia Center. Ha lavorato a Mediaset, e scritto su vari quotidiani nazionali, siti internet, web tv occupandosi di cultura, esteri, cronaca. Ama il Medio Oriente, viaggiare, ed è molto curiosa. Da qualche tempo ha iniziato a studiare l’arabo.
Alessandro Piccioli Giornalista e fotoreporter. Da freelance ha realizzato reportage dall’Irlanda del Nord, Paesi Baschi, Corsica, Iraq, Palestina, Siria, Egitto. Collabora con diverse testate e svolge attività autorale in Rai. Giovanni Puglisi Nato a Caltanissetta nel 1945, è Rettore della Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano e Presidente della Commissione Nazionale Italiana per l’UNESCO. E’ iscritto all’Ordine dei Giornalisti dal 1972. Laureato in Lettere nel 1968, nel 1976 diventa Professore ordinario di Storia della Filosofia; Preside della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Palermo (1979 – 1998) e Presidente della Conferenza dei Presidi delle Facoltà di Scienze della Formazione Italiane (1983 – 1998). Nel 1993 diventa titolare della Cattedra di Letterature Comparate presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Palermo. Viene chiamato a ricoprire la stessa Cattedra nella Facoltà di Scienze della Comunicazione, relazioni pubbliche e pubblicità della Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano dal 1998. È Presidente Emerito della Consulta Universitaria di Critica Letteraria e Letterature Comparate. Dal 28 marzo del 2001 è Rettore della Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM, dal 17 dicembre 2011 è Rettore dell’Università degli Studi “Kore” di Enna e dal 2009 è Vice Presidente della Conferenza dei Rettori delle Università italiane. Dal 2005 presiede la Fondazione Sicilia (già Fondazione Banco di Sicilia). Autore di numerose pubblicazioni, ha dedicato i suoi interessi scientifici all’estetica, alla filosofia e alla critica letteraria. Federica Ramacci Giornalista. Scrive di politica italiana e internazionale per diverse testate. È inviata alla Camera dei Deputati per l’agenzia di stampa “Nove Colonne”. Ha realizzato reportages, inchieste e interviste in Italia, America Latina, Europa e Nord Africa. Alessandro Rocca Giornalista pubblicista e fotografo freelance, è regista e autore di numerosi documentari e reportages trasmessi da Rai Uno (Speciale Tg1 e A sua immagine), Rai Due (Tg2 Dossier), Rai Tre, Skytg24, Rai News24, La7 (Effetto Reale).
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Orientale nelle università statali di Milano, Roma, Trieste. Borsista all’ISPI di Milano, borsista al Salzburg Seminar in American Studies, visiting scholar all’Università di California, Berkeley. Membro fondatore dell’AISTUGIA (Associazione Italiana di Studi Giapponesi) e di Asia Major (1989-2006); membro fondatore ed ex vicepresidente di Asia Maior (2006-2010). Ha pubblicato numerosi saggi sulle relazioni internazionali in Asia Orientale con particolare riferimento al Giappone e alla Corea contemporanea e una monografia: Corea una modernizzazione mancata (EUT,2000). Intervistata come esperta da radio italiane ed estere, giornali e televisione.
Stefano Rossini Laureato in Storia delle Religioni e dottorato in Storia Medievale, è un giornalista freelance che scrive di sociale e territorio. Collabora in modo stabile con il settimanale Il Ponte di Rimini e altre testate locali e nazionali, e con il premio giornalistico televisivo Ilaria Alpi. Si occupa di comunicazione per alcune realtà sociali e di volontariato tra cui Amani Onlus.
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Ornella Sangiovanni Giornalista specializzata in questioni del mondo arabo, segue l’Iraq da circa 20 anni, e si è occupata a lungo delle sanzioni internazionali imposte al Paese in seguito all’invasione del Kuwait dell’agosto 1990. Collaboratrice di quotidiani, settimanali, e periodici, ha diretto il sito Osservatorio Iraq dal 2004 ai primi mesi del 2011. Luciano Scalettari È inviato speciale di Famiglia Cristiana. Si occupa prevalentemente di attualità africana (ha effettuato spedizioni in una trentina di Paesi dell’Africa subsahariana) e di giornalismo d’inchiesta. Nel 2000 e nel 2006 ha vinto il Premio Giornalistico Saint Vincent. Ha pubblicato, tra l’altro: 2002 (con B. Carazzolo e A. Chiara) Ilaria Alpi, un omicidio al crocevia dei traffici), B&C. 2004 La lista del console - Ruanda, 100 giorni un milione di morti, Ed. Paoline-Focsiv. 2010 (con Luigi Grimaldi) “1994”, Chiarelettere Editore. Da settembre 2007 coordina, insieme ad Alberto Laggia, il laboratorio di giornalismo sociale “La voce di chi non ha voce” organizzato dalla Scuola di Giornalismo “A. Chiodi” di Mestre. Renato Kizito Sesana Renato “Kizito” Sesana e’ un missionario e giornalista italiano comboniano. Viene ordinato sacerdote nel 1970. Assume il nome di Kizito (il nome del più piccolo dei Santi martiri dell’Uganda, proclamati beati da Paolo VI nell’anno in cui è entrato in noviziato) collabora con il mensile Nigrizia, che dirigerà inizialmente dal 1973 al 1975. Nel 1977 diventa missionario in Africa, dapprima in Zambia, dove fonda Koinonia, una comunità che opera con i bambini di strada, nei mass media e nella formazione per la giustizia e la pace. Dal 1988 vive a Nairobi, dove ha fondato New People, periodico dell’Africa anglofona. Nel 1991 fonda anche a Nairobi la comunità Koinonia: ne fanno parte nel 2008 una trentina di membri, alcuni dei quali con le rispettive famiglie, impegnati nel campo dell’assistenza ai bambini di strada, sviluppo, microcredito ed educazione alla pace. Tiene
una rubrica sul Sunday Nation. Beatrice Taddei Saltini È tra le fondatrici di 46° Parallelo. Ha collaborato a reportages dall’America Latina. Per questo Atlante si occupa dell’editing, dei rapporti con la Redazione e della distribuzione. Pino Scaccia Inviato storico della Rai e poi redattore capo degli speciali del Tg1, ha seguito i più importanti avvenimenti degli ultimi vent’anni: dalla prima guerra del Golfo al conflitto serbo-croato, dalla disgregazione dell’ex Unione Sovietica alle guerre in Afghanistan e in Iraq fino all’ultima rivolta in Libia. E’ stato inoltre il primo giornalista occidentale ad entrare a Chernobyl dopo il disastro ed a scoprire in Bolivia i resti di Che Guevara. Ha vinto numerosi premi e ha pubblicato sei libri: “Armir, sulle tracce di un esercito perduto”, “Sequestro di persona”, “Kabul, la città che non c’è”, “La Torre di Babele” , “Lettere dal Don” e “Shabab – la rivolta in Libia vista da vicino”. E’ molto attivo sul web dove gestisce numerosi blog. Marica Tamanini 23 anni, ha recentemente conseguito un Master in Diritto Internazionale (Università di Edimburgo) dopo una Laurea Triennale in Scienze Diplomatiche e Internazionali (Università di Trieste). Aspira ad una carriera nel campo del diritto internazionale umanitario. Alessandro Turci e Federica Miglio Sono due documentaristi e reporter, Collaborano stabilmente con RAI 3, Aspenia, il Foglio e Tempi, e hanno viaggiato come inviati speciali e freelance per Africa, Asia, Americhe e Medioriente. Roberto Zichittella Giornalista professionista, scrive per Famiglia Cristiana, Il Messaggero e Linkiesta. È tra i conduttori di Radio3Mondo, la trasmissione di Radio3 Rai dedicata all’attualità internazionale. Fra il 2011 e il 2012 ha realizzato per Radio 3 degli audioreportage dedicati alla rivoluzione tunisina, all’ascesa delle destra in Ungheria e alla città francese di Albi.
Glossario
Terroristi Tutti coloro che usano armi o mettono in atto attentati contro popolazioni inermi, colpendo obiettivi civili deliberatamente. In questo libro, questa è la definizione di terrorista, a prescindere dalle ragioni che lo muovono. Ne deriva che in questo volume viene definito Attentato Terroristico ogni attacco compiuto con fini distruttivi o di morte nei confronti di una popolazione inerme e civile al puro scopo di seminare terrore, paura o per esercitare pressioni politiche. Ovvero ogni attacco compiuto contro obiettivi militari, ma che consapevolmente coinvolge anche popolazioni inermi e civili. Resistenti Gruppi o singoli che si oppongono, armati o disarmati, all’occupazione del proprio territorio da parte di forze straniere, colpendo nella loro azione obiettivi prevalentemente militari. Anche in questo caso diamo questa definizione senza entrare nel merito delle ragioni. Gli attacchi di gruppi di resistenti a forze armate regolari in questo libro vengono definite Operazioni di Resistenza o Militari. Forze di Occupazione Ogni Forza Armata straniera che occupa, al di là della ragione per cui avviene, un altro Paese per un qualsiasi lasso di tempo. Forze di Interposizione Internazionali Sono invece Forze Armate, create su mandato dell’Onu o di altre organizzazioni multinazionali e rappresentative, che in presenza di precise regole di ingaggio e combattimento che ne limitano l’uso, si collocano lungo la linea di combattimento per impedire il confronto armato fra due o più contendenti. Le definizioni seguenti sono quelle ufficiali definite e riportate dall’UNCHR nei loro documenti e rapporti e a cui noi ci rifacciamo Profugo Termine generico che indica chi lascia il proprio paese a causa di guerre, persecuzioni o catastrofi naturali.
Richiedente asilo Colui che è fuori dal proprio paese e inoltra, in un altro stato, una domanda di asilo per il riconoscimento dello status di rifugiato. La sua domanda viene poi esaminata dalle autorità di quel paese. Fino al momento della decisione in merito alla domanda, egli è un richiedente asilo (asylum-seeker). Rifugiato Il rifugiato (refugee) è colui che è costretto a lasciare il proprio paese a causa di conflitti armati o di persecuzioni per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche. A differenza del migrante, egli non ha scelta: non può tornare nel proprio paese perché teme di subire persecuzioni o per la sua stessa vita. Sfollato Spesso usato come traduzione dell’espressione inglese Internally displaced person (Idp). Per sfollato si intende colui che abbandona la propria abitazione per gli stessi motivi del rifugiato, ma non oltrepassa un confine internazionale, restando dunque all’interno del proprio paese. In altri contesti, si parla genericamente di sfollato come di chi fugge anche a causa di catastrofi naturali. Migrante Termine generico che indica chi sceglie di lasciare il proprio paese per stabilirsi, temporaneamente o definitivamente, in un altro paese. Tale decisione, che ha carattere volontario anche se spesso è indotta da misere condizioni di vita, dipende generalmente da ragioni economiche ed avviene cioè quando una persona cerca in un altro paese un lavoro e migliori condizioni di vita. Migrante irregolare Chi, per qualsiasi ragione, entra irregolarmente in un altro paese. In maniera piuttosto impropria queste persone vengono spesso chiamate ‘clandestini’ in Italia. A causa della mancanza di validi documenti di viaggio, molte persone in fuga da guerre e persecuzioni giungono in modo irregolare in un altro paese, nel quale poi inoltrano domanda d’asilo. Extracomunitario Persona non cittadina di uno dei ventisette paesi che attualmente compongono l’Unione Europea, ad esempio uno svizzero.
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Guerre e conflitti Situazioni di scontro armato fra stati o popoli, ovvero a confronti armati fra fazioni rivali all’interno di un medesimo Paese. Includiamo in questo elenco i Paesi o i luoghi in cui esiste un latente conflitto, bloccato da una tregua garantita da forze di interposizione internazionali.
Fonti
Fotografie
Organismi internazionali e istituzioni Unesco Unicef Oms Alto Commissariato per i Rifugiati (Unhcr) Africa-Union Nazioni Unite Ministero degli Esteri Ministero della Difesa Central Intelligence Agency Banca Mondiale Caritas United Nations Peacekeeping Force in Cyprus The Millennium Development Goals - Onu Istituto del Commercio con l’Estero Croce Rossa Italiana
Le fotografie di quest’anno riportano l’autore. In alcuni casi giornalisti, fotografi oppure tratte dall’archivio dell’Alto Commissariato dei Rifugiati UNHCR. I Frame invece come sempre sono tratti dai video dell’archivio del Premio Ilaria Alpi. In alcuni casi abbiamo usato, invece, fotografie trovate su internet.
Informazione, giornali e istituti di ricerca Pagine della Difesa Africa News Misna Nigrizia Reuters Osservatorio Iraq Osservatorio dei Balcani Wikipedia Corriere della Sera La Repubblica La Stampa Valori Peacerporter Ansa Apcom Agimondo Adnkronos Famiglia Cristiana Limes Guerre & Pace Global Geografia Peace Link Balcanicaucaso.org Banchearmate.it Crbm.org Crisigroup.org (Europe Report N°213, 20/9/11) B.H. Editorial, 24/7/2011 Libero-news.it Italiatibet.org Chinadaily.com Ilsole24ore.com Panorama.it Asianews.it Instablog.org Filosofia.org Nuovacolombia.net Colombiareports.com Agoramagazine.it Manilanews.net Iljournal.it Bbc.co.uk Asiantribune.com
Cartografia Per la cartografia delle schede conflitto abbiamo fatto riferimento a quella ufficiale dell’Onu tranne alcune riprese dal sito dell’Università del Texas: Colombia, Cecenia, Cina, Turchia, India, Filippine e Algeria. Le carte tematiche basate sulla cartografia di Peters sono state gentilmente offerte dall’Ong Asal. Per le mappe dei continenti abbiamo usato la stessa Carta di Peters (in Italia iniziativa esclusiva Asal) che troverete nella sua forma completa nella terza di copertina.
Autori delle schede Di seguito riportiamo gli autori delle schede conflitto (in corsivo gli Inoltre). Paolo Affatato - Pakistan Fabio Bucciarelli - Libia Pietro Cavallaro - Sahara Occidentale Raffaele Crocco - Colombia, Cina/Tibet, Filippine, Thailandia Angelo D’Andrea - Turchia, Kosovo, Cipro Angela de Rubeis - Etiopia, Messico, Birmania, Corea Nord/Sud, Iran, Paesi Baschi Angelo Ferrari - Costa D’Avorio, Guinea Bissau Emanuele Giordana - Afghanistan Marina Forti - India, Kashmir Enzo Mangini - Israele/Palestina Federica Miglio e Alessandro Turci - Mali Enzo Nucci - Ciad, Repubblica Democratica del Congo Alessandro Piccioli - Libano Federica Ramacci - Haiti, Timor Est, Sahara Occidentale Alessandro Rocca - Somalia Ornella Sangiovanni - Iraq Pino Scaccia - Kirghizistan, Cecenia, Georgia Luciano Scalettari - Nigeria, Sudan, Sud Sudan Roberto Zichittella - Algeria Redazione - Liberia, Repubblica Centrafricana, Uganda, Yemen, Siria Schede Speciale Svolta Islam Ilaria Pedrali - Arabia Saudita, Bahrain, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Giordania, Marocco, Oman, Tunisia Ai nostri lettori. Per correggere un testo occorrono molti occhi. Noi abbiamo cercato di fare il nostro meglio. Laddove ci fosse sfuggito qualche refuso o errore ce ne scusiamo.
Bangkokpost.com It.euronews.net Iltempo.it Intopic.it/estero/thailandia/ Organizzazioni non governative Amnesty International Emergency
Medici Senza Frontiere Reporters Sans Fronteres Unimondo Amani Club di Roma Elisso
Altri saluti Voglio ripetermi: questo progetto vive grazie all’aiuto di tanti che ci credono. Le amministrazioni locali, Regioni e Province, nonostante le difficoltà del momento, i tagli e i problemi, anche quest’anno hanno mostrato di volerci essere e questo è stato essenziale per mettere assieme risorse ed entusiasmo. Dir loro grazie è il minimo. La Conferenza delle Regioni e delle Province autonome ha confermato il patrocinio e voglio per questo ringraziare il presidente, Vasco Errani. Per la prima volta, poi, ad entrare in questa pazzia è un attore per così dire “privato”. Parlo dell’Associazione degli Artigiani della Provincia di Trento, che il presidente Roberto De Laurentis ha portato in questa squadra. E’ bello sapere che chi crede nel lavoro – come gli artigiani – apprezza il nostro lavoro. Non dimentico chi c’è da sempre, come l’associazione Ilaria Alpi, che sostiene l’idea dell’Atlante dal primo giorno, la Tavola della Pace, Banca Etica, Arci, Asal e Unimondo, il Forum della Pace di Trento. Un pensiero va, poi, a Roberto Natale, presidente della Federazione della Stampa Italiana: ci mettono a disposizione tempi e spazi, per inseguire un’idea semplice: l’informazione va sempre cullata, alimentata e tenuta viva. Così, ci fanno sentire sempre parte di una grande famiglia.
Ringraziamenti Questo angolo dell’Atlante è una prerogativa del direttore e vi garantisco me lo godo. Posso scrivere ciò che troppo spesso non ho tempo o modo di dire a chi, in questi anni, ha consentito a questa follia di consolidarsi e diventare realtà. Quest’anno voglio iniziare da chi scrive, collabora, mette foto, offre tempo ed energie. Tutti lo fanno gratuitamente ed è straordinario pensare che vi sono professionisti capaci di avere ancora passione e voglia di inseguire dei sogni. Voglio dire grazie a Fabio Rossetti, che mai come quest’anno ci ha tolto brutte castagne dal fuoco. Stefano Fusi è praticamente un nostro “fiancheggiatore” ed è sempre interessante il confronto con lui. Poi, ci sono, in ordine assolutamente casuale, Giorgio Fracalossi, Sara Ferrari, Carlo Basani, Giuseppe Ferrandi, Wanda Chiodi, Stefano Mirabelli, Simone Siliani, Clara Santin. Tutti, in modo diverso, sono importanti per quello che riescono a fare per stampare e realizzare questo libro. Come sempre, non posso dimenticare Laura Strada: pur con qualche difficoltà e alcuni litigi, mi da modo di completare la mia vita occupandomi dell’Atlante. Vi garantisco che non è così semplice. Un grazie particolare va a Diego Ibarra, che ha messo a disposizione foto straordinarie e a Fabio Bucciarelli: l’avventura con lui continua non solo attraverso le sue foto bellissime, ma attraverso altri progetti. Poi ci sono come sempre i tre pilastri: Federica, Daniele e Beatrice. La questione, con loro, è semplice. Se non ci fossero, l’Atlante non sarebbe mai nato. Chiudo con un grazie a tutti gli amici che abbiamo trovato su Facebook: stanno crescendo e a tutti coloro, sempre tanti, che vengono agli incontri e alle serata in giro per l’Italia. Forse non lo sapete, ma stare con voi è un bellissimo regalo. Raffaele Crocco
IMENT TA AZIONE ¡ AMBIENTE ¡ ME MEDICINA ALIMENTAZIONE
Una rivista e 100 libri per un mondo migliore •
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Immaginare la societĂ della decrescita
Percorsi sostenibili verso l’età del doposviluppo di B. Bianchi, P. Cacciari, A. Fragano, P. Scroccaro cm 15 x 21 - cod. EA117 pp. 272 - ₏ 12,00
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Pensare come le montagne Prefazione di Simone Perotti
Manuale teorico-pratico di decrescita per salvare il Pianeta cambiando in meglio la propria vita.
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PENSARE COME LE MONTAGNE
Manuale teorico pratico di decrescita, per salvare il pianeta cambiando in meglio la propria vita di P. Ermani e V. Pignatta cm 15 x 21 cod. EA104 - pp. 220 - â‚Ź 12,00 ECOVILLAGGI E COVILL AGGI
Spedizione in A
Percorsi sostenibili verso l’età del doposviluppo
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OTTOBRE 2012 ¡ n° 276 ¡ ₏ 3,80
IIL L MENSI MENSILE LE PER L’ECOLOGIA L’EC OLOG IA DELLA DELL A MENTE E LA L A DECRESCITA DECRES CITA FELICE ¡ DAL 1977
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Prefazione di
Maurizio Pallante
Non prendeteci per il PIL! Lavorare meno, vivere meglio e ritrovare la libertĂ perduta
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Lo zen e l’arte di invecchiare bene
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Traduzione di Anna Bissanti
Ovvero: suggerimenti per mantenersi diversamente giovani con ironia e dignitĂ
Manitonquat – Medicine Story
Gli antichi insegnamenti dei nativi americani
Riflessioni di un nativo sulle istruzioni apprese dagli anziani della sua tribĂš.
Paolo Giordo
Prevenire e curare il cancro con l’alimentazione e le terapie naturali
NON PRENDETECI PER IL PIL!
Lavorare meno, vivere meglio e ritrovare la libertà perduta. La testimonianza di chi l’ha felicemente messo in pratica di Andrea Bizzocchi cm 11,5 x 16,5 - cod. EA112 pp. 112 - ₏ 7,00
LO ZEN E L’ARTE DI INVECCHIARE BENE
Ovvero: suggerimenti per mantenersi diversamente giovani con ironia e dignitĂ di Susan Moon cm 15 x 21 cod. EA102 - pp. 176 - â‚Ź 14,00
GLI ANTICHI INSEGNAMENTI DEI NATIVI AMERICANI
Riflessioni di un nativo sulle istruzioni apprese dagli anziani della sua tribĂš di Manitonquat - Medicine Story cm 15 x 21 cod. EA083 pp. 224 - â‚Ź 12,00
PREVENIRE E CURARE IL CANCRO con l’alimentazione e le terapie naturali
Cause, prevenzione, cure naturali e consigli utili di Paolo Giordo cm 15 x 21 - cod. EA121 pp. 168 - â‚Ź 12,00
Karl Heinz BĂśse
Recuperare l’acqua piovana
per la casa e il giardino
Thich Nhat Hanh
Fare pace con se stessi Guarire le ferite e il dolore dell’infanzia, trasformandoli in forza e consapevolezza.
Thich Nhat Hanh
L’unico mondo che abbiamo
La pace e l’ecologia secondo l’etica buddhista
Catia Trevisani
Curarsi con il
cibo
RECUPERARE L’ACQUA PIOVANA PER IL GIARDINO E LA CASA
Manuale pratico, ricco di foto a colori, per imparare a risparmiare acqua e denaro di Karl Heinz BĂśse cm 19 x 23,5 - cod. EA122 pp. 144 - â‚Ź 13,00
FARE PACE CON SE STESSI
Uno dei massimi esponenti odierni del Buddhismo ci insegna a trasformare ferite e dolore dell’infanzia in forza e consapevolezza di Thich Nhat Hanh cm 15 x 21 - cod. EA093 pp. 210 - ₏ 14,00
ss SCIAMANESIMO SCIAMANESIMO
ss BAOBAB BAOBAB
ss BIOEDILIZIA BIOEDILIZIA
Sformati e torte salate LL’albero ’’albero della longevitĂ
DOSSIER DOSS D OSS SIER IER
Giovani malati?
RICETTE ss RICETTE
Ponte Ponte tra tra natura natura e uomo
La stufa in muratura muratura
Nuove frontiere contro il dolore
Dal 1977 100 pagine a colori per una scelta di vita sostenibile e nonviolenta Ogni mese a casa tua alimentazione naturale • agricoltura biologica medicina non convenzionale • bioedilizia ecovillaggi e cohousing • cosmesi bio ecoturismo • spiritualità • maternità e infanzia prodotti a confronto • energia pulita • ricette equo&solidale • finanza etica • lavori verdi ecotessuti • esperienze di decrescita felice ecobricolage • fumetti animalismo • annunci verdi
ESSERE NEL FUOCO
Una guida per imparare a gestire i conflitti nei gruppi di lavoro e di affinitĂ al fine di migliorare la societĂ di Arnold Mindell AnimaMundi e Terra Nuova Edizioni cm 12 x 19 - cod. EA098 pp. 381 - â‚Ź 15,00
Dalle parole del maestro zen Thich Nhat Hanh, la pace e l’ecologia secondo l’etica buddhista di Thich Nhat Hanh cm 11,5 x 16,5 - cod. EA069 pp. 200 - ₏ 13,00
Annalisa De Luca
Prevenire e curare i disturbi piÚ comuni con l’alimentazione di Catia Trevisani cm 15 x 21 - cod. EA009 pp. 296 - ₏ 15,00
Prevenire e curare i disturbi piÚ comuni con l’alimentazione
C Coltivare oltivare con con la luna luna
BIMBI OBESI
La malattia come simbolo
L’UNICO MONDO CHE ABBIAMO
CURARSI CON IL CIBO
ORTO ORT OB BIO IO
2 22 2p progetti r oge t t i p per er 1 11 1 rregioni e g ion i
i ricettari
FACCIAMO IL PANE
Nuova edizione con foto a colori e oltre 50 ricette per imparare a fare il pane con il lievito naturale
a colori
di Annalisa De Luca cm 19 x 19 cod. EA096 - pp. 120 - â‚Ź 13,00
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ISBN-13: 978-8866810186
€ 20,00