ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO Edizione 2009
Associazione 46째 Parallelo
ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO EDIZIONE 2009 Direttore Responsabile Raffaele Crocco Coordinamento Federica Ramacci In redazione Barbara Bastianelli Francesco Cavalli Angelo d’Andrea Angela De Rubeis Beatrice Taddei Saltini Hanno collaborato Pietro Cavallaro Angelo Ferrari Flavio Lotti Francesca Manfroni Ettore Mo Michele Nardelli Matteo Petrucci Alessandro Piccioli Amedeo Ricucci Luciano Scalettari
Foto di copertina di Livio Senigalliesi 52 anni, milanese, fotogiornalista. La passione per la fotografia e l’attenzione ai fatti storici di questi ultimi decenni l’hanno portato su fronti caldi come il MedioOriente ed il Kurdistan durante la guerra del Golfo, nella Berlino della divisione e della riunificazione, a Mosca durante i giorni del golpe che sancirono la fine dell’Unione Sovietica. Ha seguito tutte la fasi del conflitto nell’ex-Yugoslavia ed ha iniziato un ampio lavoro di documentazione sui problemi del dopoguerra.
Progetto grafico ed impaginazione Daniele Bellesi Progetto grafico della copertina Daniele Bellesi Testata registrata presso il Tribunale di Trento n° 1389RS del 10 luglio 2009 Tutti i diritti di copyright sono riservati Editore Associazione 46° Parallelo Via Piazze 34 - Trento
Partner
www.ilariaalpi.it Redazione Associazione 46° Parallelo Via Piazze 34 - Trento Tel - fax 0461 865280 www.atlanteguerre.it info@atlanteguerre.it Finito di stampare nel novembre 2009 tipografia
In collaborazione con
Colombia Haiti Afghanistan Cina/Tibet Filippine India Iraq Kashmir Pakistan Sri Lanka Thailandia Timor Est Turchia Israele/Palestina Israele/Palestina Libano Siria/Israele Cecenia Cipro Georgia Kosovo Paesi Baschi
Editoriale Raffaele Crocco Saluti Lia Beltrami Provincia Autonoma di Trento Introduzione Francesco Cavalli Istruzioni per l’uso Raffaele Crocco La situazione Intervista a Andrea Margelletti Angelo d’Andrea La Carta di Peters Africa Ilaria, innamorata dell’Africa Barbara Bastianelli
America Latina Il futuro passa da qui Raffaele Crocco Asia Una terra che non trova pace Ettore Mo
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Algeria Ciad Costa d’Avorio Etiopia/Eritrea Guinea Bissau Liberia Nigeria Repubblica Centrafricana Repubblica Democratica del Congo Sahara Occidentale Somalia Sudan Uganda
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Indice
Medio Oriente In Libano 40 anni di guerra Flavio Lotti L’inferno di Sabra e Chatila Ettore Mo
Europa L’Europa ha le sue guerre Ettore Mo
Inoltre Angela De Rubeis Transnistria, lo Stato che non c’è Michele Nardelli Le missioni ONU Rifugiati, milioni di persone in fuga Federica Ramacci Natura e Arte, oscure vittime della guerra Federica Ramacci Fonti
Editoriale
Il mondo ancora in guerra
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Ci sono idee che stanno lì, chiuse da qualche parte, per anni. Aspettano, pare. Poi all’improvviso prendono corpo, forma, si realizzano. Questo Atlante è una di queste idee. Lavoro da anni attorno ai temi legati alle guerre e a tutto quello che le genera. Ho scritto, raccontato e vissuto le miserie di questo Pianeta. Non tutte, ovviamente, ma tante, troppe. Così, da altrettanti anni cerco - assieme a tanti altri - di far capire che la guerra esiste, è qui, ce l’abbiamo tra i piedi. Provate: chiedete se in questo momento siamo in guerra, se l’Italia è un Paese in guerra, la risposta comune è che no, non lo siamo. Domandando se il Mondo è in guerra, 9 su 10 otterrete la stessa risposta, magari con il distinguo che sì, da qualche parte, lontano, si combatte, si muore. Pochi si rendono conto che si vive quotidianamente in guerra. Migliaia di nostri soldati, ora, in questo preciso istante, sono schierati su più fronti, nel Mondo, dove si combatte. Sono lì in missione di pace, è vero, ma di fatto loro sono in guerra, cioè sono armati, addestrati, attrezzati per combattere. Questo significa - al di là di ogni posizione ideale - che il Paese, vale a dire ognuno di noi, sopporta spese immense per mantenere uomini, aerei, carri armati, elicotteri nelle condizioni di efficienza indispensabili per salvare la vita - e ci mancherebbe - ai nostri soldati e per portare a termine la missione che è stata loro assegnata. È una missione di pace, che crea però una economia di guerra permanente. La parola chiave è questa: permanente. L’Italia è costantemente in guerra da almeno 15 anni. Il Mondo è permanentemente in guerra da sempre. In questo istante, mentre leggete,
in almeno una quarantina di Paesi o Regioni ci si ammazza, si lotta per conquistare il potere, il controllo delle risorse naturali, per affermare idee più o meno buone. La guerra, quindi, resta la sola costante della vita umana, ci piaccia o meno dirlo. Ed essendo una costante, incide sulla nostra vita attraverso l’economia, le idee, le scelte dei governi, anche dei nostri governi democratici. La differenza è che fingiamo di non rendercene conto. Non ne parliamo. Soprattutto, non informiamo. Ricordo un episodio, che spiega il tutto. Nel giugno del 1991 la Slovenia combatteva prima fra tutte - per la propria indipendenza. L’Armata Federale Yugoslava avanzava per impedire a Lubiana di staccarsi dalla federazione. Per alcuni giorni si combatté a Nova Gorica, a 200 metri dal confine italiano. Tanti nostri connazionali seguivano i combattimenti dalla finestra di casa. La guerra era lì, a duecento metri da noi, eppure i giornali, le tv, tutti, la dipingevano come qualcosa di lontano. Sembra essere fondamentale questo “essere lontano” della guerra. Più la teniamo distante dalla nostra realtà, più diventa accettabile, come lo sono le bizzarrie esotiche di popoli stranieri. E se viene tenuta laggiù, sull’orizzonte, non ci riguarda più e quindi siamo in pace. Questo Atlante vuole - e vorrà - raccontare la realtà. Vuole dire che la guerra c’è, in troppi posti. Vuole spiegare le ragioni di tutte le guerre in corso, far capire perché ci si combatte e chi interviene. Vuole uscire dal sogno che la pace sia tra noi, senza prendere posizione a favore di qualcuno o qualcosa, senza parlare di buoni o cattivi. Per noi, che scriviamo questo Atlante, l’unica cattiva è da sempre la guerra.
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Raffaele Crocco
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Troppe le ragioni per non vedere
Saluti
Conoscere significa scegliere
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
L’informazione è indispensabile per una cultura della Pace
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È una vocazione antica quella alla solidarietà della Provincia Autonoma di Trento. Una vocazione che nasce dalla presenza di tante associazioni impegnate in progetti concreti di aiuto e di intervento in molte zone del mondo. Che si alimenta con i rapporti costanti, quotidiani con i discendenti dei nostri migranti all’estero. Che cresce per la volontà precisa di mettere le nostre risorse a disposizione di chi, in ogni parte del pianeta, ha bisogno di idee, denaro, speranza. Questa scelta del Trentino - lo ripeto, scelta antica - trova spazio anche nella decisione di essere sempre e comunque dalla parte della pace, nel dire no alla guerra, documentando ciò che avviene, partecipando a progetti, manifestazioni, incontri, creando occasioni di confronto e di informazione sui temi della pace. Sono queste le ragioni che ci hanno portato ad aderire in modo convinto e a sostenere il progetto dell’Atlante delle Guerre e dei
Conflitti del Mondo. Se l’informazione è il principale strumento per formare le coscienze e se le coscienze individuali sono lo strumento di pace migliore che abbiamo a disposizione, l’Atlante è un’idea forte e importante per fare informazione. Troppo spesso dimentichiamo di vivere in un mondo in guerra. I conflitti nascono, si alimentano e vivono sulla nostra non - conoscenza, sul disinteresse della comunità internazionale. Dobbiamo conoscere, sapere, per pensare di intervenire. Importante, allora, che nasca l’Atlante, per dare informazioni quanto più aggiornate possibile, senza prendere posizioni preconcette, senza voler diventare strumento di propaganda. Ognuno, leggendo i dati, le informazioni, sarà libero di creare la propria coscienza rispetto alla pace e ai disastri della guerra. Sarà un passo avanti importante. Sarà una possibilità in più per costruire una cultura della pace e della convivenza.
Lia Beltrami
Assessore alla Cooperazione e Solidarietà internazionale della Provincia di Trento
Introduzione
Tenere accesa l’attenzione sui conflitti nel mondo Associazione Ilaria Alpi
20 marzo 1994, Mogadiscio, Somalia. Ilaria Alpi e il suo operatore Miran Hrovatin vengono uccisi dentro l’auto dove viaggiavano. Dietro a questo duplice omicidio probabilmente il lavoro che i due giornalisti stavano facendo. Il contesto, quello di una Somalia in piena guerra interna che in quegli anni aveva visto anche il tentativo di pacificazione mediante l’intervento di una missione ONU internazionale miseramente fallita. Da quegli anni ad oggi la condizione della Somalia non è molto diversa. Purtroppo anche la verità sulla morte di Ilaria e Miran non ha trovato ancora la sua parola definitiva. In quello stesso 1994, a pochi mesi dal duplice omicidio di Mogadiscio, nasce il Premio Ilaria Alpi. L’intento è quello di valorizzare la professione di quei giornalisti che come Ilaria fanno questo mestiere con l’occhio della telecamera e soprattutto con la suola delle scarpe. Andando nei posti, cercando di capire, a fondo, e di raccontare quello che accade. I contesti dei conflitti, i cosiddetti teatri di guerra, spesso sono uno dei terreni dove di più questo tipo di giornalismo, quello che anche Ilaria e Miran facevano, trova il suo ambito più duro di realizzazione. Purtroppo di questi teatri ce ne sono sempre più che a sufficienza. Dal continente africano, con le innumerevoli guerre che si sono susseguite negli ultimi decenni, all’infinito conflitto mediorientale, dall’America Latina all’Oriente, fino al cuore dell’Europa. Gli anni di Ilaria e Miran, gli anni che hanno visto la nascita del Premio e dell’associazione che di Ilaria Alpi oggi porta il nome, erano gli anni delle guerre africane, quelle cruente e scioccanti in Rwanda, in Congo, nella Somalia di italiana memoria. Ma erano anche gli anni dei Balcani, della Sarajevo assediata, di Srebrenica. Così fin dalle sue primissime edizioni il Premio Ilaria Alpi scelse di tenere accesa l’attenzione su queste guerre, quando si parlava di guerre dimenticate, a Riccione, nella prima settimana di giugno, diventa-
va l’occasione per cercare di ricordarle, di tenere accesa quell’attenzione mediante il lavoro che tanti giornalisti di anno in anno hanno continuato a svolgere in quei luoghi e paesi martoriati. “Quando si spegne la guerra” il titolo di una di quelle edizioni, una intera serata di dibattito con Ennio Remondino in collegamento dalla Belgrado dei bombardamenti Nato. E poi Algeria, Israele Palestina, Sierra Leone, Sudan. Nel 2001 la scelta di dedicare una mostra e un libro alle guerre nel mondo: “Frame. Frammenti di guerra”. Eravamo prima dell’11 settembre. Poi l’11 settembre 2001. E ancora guerre e conflitti. Quelle raccontate dalla CNN e da Al Jazeera, dell’Afghanistan e dell’Iraq. Ma anche quelli non televisivi ancora in Somalia, in Repubblica Democratica del Congo, in Darfur. Nel dicembre 2007 e giugno 2008, insieme all’organizzazione kenyana Africa Peace Point, l’associazione Ilaria Alpi organizza due importanti conferenze di formazione per giornalisti sulle guerre in Africa e la loro correlazione alle risorse, alla democrazia e all’etnicità dei conflitti africani. Potremmo dire che da 15 anni esiste il premio Ilaria Alpi e da 15 anni questo appuntamento è divenuto anche un annuario fisico delle situazioni di guerra e conflitto nel mondo. La pubblicazione di questo Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo, che verrà aggiornato ogni anno con un annuario apposito sui mutamenti in corso, è il più importante passo per riportare su carta questa attività documentaristica, storica e didattica. Quello che è stato dunque negli anni uno dei lavori sistematici di osservatorio e riflessione verso il mondo che ci circonda del Premio Ilaria Alpi, oggi diviene un progetto organico grazie all’ associazione 46° Parallelo. L’associazione e il Premio Ilaria Alpi non potevano non essere al fianco di un’iniziativa così importante e significativa per orientarsi nel mondo nel quale viviamo.
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Francesco Cavalli
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Da 15 anni la missione del Premio Ilaria Alpi
Istruzioni per l’uso
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C’è bisogno di dare istruzioni, anche per questo Atlante. Può sembrare fuori luogo, ma non lo è. Per essere letto in modo corretto, questo libro ha bisogno di alcune in-
dicazioni semplici, serve spiegare la ragione di alcune scelte. Questo perché ci sono parole che hanno significati chiari, ma vengono interpretate o lette in modo differente, creando confusione. Pensate alla parola Pace: la potete riempire come volete. C’era la Pax romana, che era Pace di conquista e c’è la Pace dopo la guerra. Esiste anche la percezione di Pace come totale assenza di
guerra o la Pace come periodo che intercorre fra una guerra e quella successiva. Era un esempio, per giustificare le righe che troverete qui sotto. Così, iniziamo con le spiegazioni. Parlando di Guerre o Conflitti, in questo volume intendiamo riferirci a situazioni di scontro armato fra Stati o popoli, ovvero a confronti armati fra fazioni rivali all’interno di un medesimo Paese. Includiamo in questo elenco i Paesi o i luoghi in cui esiste un latente conflitto, bloccato da una tregua garantita da forze di interposizione internazionali. Questo il criterio che abbiamo adottato per stabilire l’elenco alle guerre e dei conflitti in atto. Come sempre, in questi casi, c’è chi lo potrà trovare discutibile, ma un anno di riflessione collettiva ci ha portati ad individuare questo modo di procedere e a questo ci siamo rigorosamente attenuti. Per dare una informazione quanto più completa e cercare di limitare eventuali danni che derivano dall’aver scelto questo criterio nel definire Guerre e Conflitti, abbiamo creato in coda alle Schede Conflitto una sezione chiamata: Inoltre. Lì troverete le situazioni “limite”, quelle che magari non sono ancora sfociate in guerra aperta o che sono in sonno, ma vanno monitorate, controllate costantemente. Nel volume abbiamo cercato di utilizzare in modo uniforme e preciso alcune parole di difficile o ambiguo uso. Abbiamo definito
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Raffaele Crocco
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Piccola guida alla lettura di questo Atlante
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Terroristi coloro che usano armi o mettono in atto attentati contro popolazioni inermi, colpendo obiettivi civili deliberatamente. In questo libro, questa è la definizione di terrorista, a prescindere dalle ragioni che lo muovono. Definiamo, invece, Resistenti gruppi o singoli che si oppongono, armati o disarmati, all’occupazione del proprio territorio da parte di forze straniere, colpendo nella loro azione obiettivi prevalentemente militari. Anche in questo caso diamo questa definizione senza entrare nel merito delle ragioni. Ne deriva che in questo volume viene definito Attentato Terroristico ogni attacco compiuto con fini distruttivi o di morte nei confronti di una popolazione inerme e civile al puro scopo di seminare terrore, paura o per esercitare pressioni politiche. Ovvero ogni attacco compiuto contro obiettivi militari, ma che consapevolmente coinvolge anche popolazioni inermi e civili. Gli attacchi di gruppi di resistenti a forze armare regolari in questo libro vengono definite Operazioni di Resistenza o Militari. Da tutto questo nascono alcune altre considerazioni. In questo Atlante, definiamo Forze di Occupazione ogni Forza Armata straniera che occupa, al di là della ragione per cui avviene, un altro Paese per un qualsiasi lasso di tempo. Le Forze di Interposizione Internazionali sono invece Forze Armate, create su mandato dell’ONU o di altre organizzazioni multinazionali e rappresentative, che in presenza di precise regole di ingaggio e combattimento che ne limitano l’uso, si collocano lungo la linea di combattimento per impedire il confronto armato fra due o più contendenti. Questi i punti fondamentali, i criteri per poter affrontare la lettura sapendo le ragioni delle scelte. Altre istruzioni: le foto che trovate in questo Atlante sono in massima parte tratte da video di reporter sparsi in tutto
il mondo. Sono quelli che tecnicamente si chiamano “frame”, cioè fermi immagine di un filmato. Per questo, a volte, possono sembrare di qualità strana, magri mosse o sgranate. Le abbiamo volute e scelte per la loro efficacia, per la capacità di raccontare tutto in una sola immagine.
Infine, una avvertenza. L’Atlante è stato pensato e scritto con l’obiettivo di “fornire dati”, di raccontare la situazione del Pianeta cercando di non prendere posizioni, senza scrivere di buoni o cattivi. Questo ovviamente per quanto riguarda le schede dei conflitti e gli scritti sulle missioni, i rifugiati. Ci sono però i contributi fondamentali di persone che il dramma della guerra - perché giornalisti, studiosi o attivisti - lo vivono costantemente e hanno per questa ragione maturato riflessioni originali sulla guerra in genere o su alcuni conflitti in particolare. Ci riferiamo a Ettore Mo, Flavio Lotti, Andrea Margelletti. Abbiamo voluto riportare i loro pensieri esattamente per come sono, proprio per non negare nulla, non nascondere alcuna visione sulla guerra. Dovrebbe essere tutto. Buona lettura.
La situazione
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Per parlare di come va, parliamo di riso, ad esempio. Gli esperti dicono che ormai non ne abbiamo a sufficienza per sfamare tutta la popolazione mondiale, che aumenta ogni minuto, mentre si perde, nello stesso minuto, un ettaro di terreno coltivabile. Nel 2050 la popolazione mondiale dovrebbe arrivare a 7,7 miliardi persone. La proiezione è questa ed è anche su questo dato che si costruisce un quadro sullo stato del Pianeta, soprattutto sulle ragioni che alimentano – oggi – 35 guerre e conflitti più o meno dichiarati e una decina di situazioni “limite”, pronte a sfociare in confronto armato. Il riso, si diceva. Il significato della vicenda, con il contemporaneo diminuire dei terreni coltivabili, è che pare probabile entro breve una vera e propria guerra per il cibo. Sempre più esseri umani saranno privi di sostentamento, di alimenti. Secondo la Fao, Fondo Mondiale Alimentare, i cambiamenti climatici, la decadenza dei terreni coltivati, l’abbandono delle coltivazioni originarie da parte delle piccole comunità, ha portato a perdere - in soli 100 anni - il 75% del patrimonio alimentare mondiale. Cosa significa? Ad esempio, che nel mondo cosiddetto occidentale, l’alimentazione si basa su sole 4 colture, cioè mais, riso, soia e grano. In una piccola comunità thailandese di sole 600 persone, invece, sono ancora oggi 387 le colture utili per mangiare. In pratica, se noi interrompiamo per qualche ragione una delle colture andiamo in immediata difficoltà, non avendo alternative pronte. Parlare di cibo era un esempio, lo abbiamo detto. Le ragioni che portano alla guerra restano innumerevoli. Il controllo delle risorse è fra queste. L’Africa ne è da sempre tragico simbolo, trasformata in luogo di scontro più o meno occulto fra multinazionali, stati e oligarchie, che si alleano o battono da decenni. Il continente è - dal punto di vista geologico - il più antico del Pianeta. In pratica, è la grande mamma di tutte le terre emerse. Questo lo rende ricco di minerali, pietre preziose e idrocarburi. C’è, insomma, tutto quello che gli Stati vorrebbero avere per aumentare la loro potenza. Inoltre, è terra diventata indipendente solo negli ultimi cinquant’anni e i legami con le ex potenze coloniali sono rimasti forti, tanto da definire - ancora oggi - zone di influenza precise. Gli Stati africani hanno spesso rapporti intensi con Inghilterra e Francia, che li dominavano, dato che le classi dirigenti africane si sono formate a quelle scuole. Una situazione che negli ultimi anni ha creato problemi, data la politica espansionistica - dal punto di vista dei mercati - di Stati Uniti prima e di Cina ora. Le due superpotenze si danno battaglia per avere il controllo delle infrastrutture stradali e portuali del continente e per condizionare le politiche dei dazi sulle merci in entrata e uscita. Lo fanno a danno non solo dei Paesi africani, ma anche di Inghilterra e Francia, che non hanno alcuna intenzione di stare a guardare. Così, le ragioni per avere guerre sul Pianeta si moltiplicano in modo proporzionale alla voglia di controllarne le risorse. Come dimenticare l’acqua, allora? Attorno alle fonti, ai pozzi, ai grandi bacini idrici, si stanno sviluppando alleanze strategiche, organizzazioni criminali e centri di potere. Perché - lo dice l’ONU - il mondo è sempre più assetato. Per
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Controllo delle risorse scontri tra culture così il pianeta va in guerra
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il più recente rapporto delle Nazioni Unite, l’accesso ai servizi di base legati all’acqua resta “insufficiente per una larga parte del mondo in via di sviluppo. Oltre 5 miliardi di persone (il 67% della popolazione mondiale) nel 2030 non avrà accesso a strutture igienico-sanitarie decenti”. Ad investire nel settore idrico non dovrebbero essere solo i Paesi ricchi: la prosperità futura dell’intero pianeta dipende dalle politiche per l’acqua. Lo sviluppo e la salvaguardia delle risorse idriche - conclude il documento - saranno un elemento chiave per garantire lo sviluppo economico e sociale e, probabilmente, la pace. In tutto questo, si inseriscono le lotte fra culture e popoli e quelle fra gruppi di potere. E di conseguenza è cambiato il “come si fa la guerra”. Gli studiosi dicono in modo concorde - e la cosa la verifichiamo sui giornali - che i conflitti fra gli Stati sono tendenzialmente declinati. Raramente combattono eserciti nazionali contro altri eserciti nazionali. Se escludiamo l’intervento da parte di altri Stati in un qualche Paese, con l’invio di truppe a sostegno di una fazione interna e i casi di operazioni militari da parte di coalizioni o di forze di interposizione, dagli anni ’90 ci sono stati solo pochi conflitti “classici”: Iraq-Kuwait, India-Pakistan, Etiopia-Eritrea. Poi ci sono state le guerre di coalizioni contro singoli Paesi: Afghanistan e Iraq. Detta così, sembra che il mondo sia in pace. Non è vero, ovviamente. Negli stessi anni, infatti, almeno 57 guerre sono state combattute in 45 diversi Paesi e sono state tutte “guerre interne” fra fazioni rivali che volevano assumere il controllo del Governo. Il dato viene confermato da una ricerca statunitense Correlates of War: nel periodo 19451999, si sono registrate 25 guerre fra Stati, con circa 3,3 milioni di morti in combattimento. Le guerre civili sono state invece ben 127, con 16,2 milioni di morti. In questa situazione è difficile parlare di “un mondo in Pace”. Le condizioni economiche, la cattiva distribuzione della ricchezza non solo fra Nord e Sud del mondo, ma anche all’interno dei Paesi più avanzati, il controllo delle risorse primarie, del cibo, le lotte culturali e religiose, creano continuamente le condizioni per guerre e conflitti. Vigilare su questi motivi, cercare di capirli e di intervenire in tempo rimane l’unico, possibile modo per evitare nuovi drammi.
La lista dei primi dieci Paesi per debito estero. Posizione
Nazione
Debito estero (in milioni di USD)
Data
TOT
Mondo
54.310.000
2004 (stima)
1ª
Stati Uniti
12.250.000
30 giugno 2007
2ª
Regno Unito
10.450.000
30 giugno 2007
3ª
Germania
4.489.000
30 giugno 2007
4ª
Francia
4.396.000
30 giugno 2007
5ª
Italia
2.345.000
30 giugno 2007
6ª
Paesi Bassi
2.277.000
30 giugno 2007
7ª
Spagna
2.047.000
30 giugno 2007 (stima)
8ª
Irlanda
1.841.000
30 giugno 2007
9ª
Giappone
1.492.000
30 giugno 2007
10ª
Svizzera
1.340.000
30 giugno 2007
Intervista a Andrea Margelletti
Come si privatizza la guerra
1. Oggi, a farsi la guerra sono, come in passato, ancora gli Stati nazionali? Esistono nel mondo, secondo lei, Agenzie parastatali capaci di esprimere potenziale bellico? Chi sono oggi gli attori della guerra? Gli attori continuano a essere gli Stati, ma come visto in Iraq, le necessità di sicurezza non possono essere assolte interamente dalle forze armate tradizionali. Per questo vediamo un proliferare di compagnie private, sostanzialmente anglosassoni, che tendono a “riempire” i vuoti esistenti.
Il Ce.Si, centro Studi Internazionali, è nato nel 2004 da un’idea di Andrea Margelletti. Il Centro si occupa di analisi geopolitica e militare nelle aree di crisi che hanno maggiore interesse per il nostro Paese, con particolare attenzione per il Mediterraneo, soprattutto il mondo arabo, l’Africa sub-sahariana, il Corno d’Africa e l’Asia Centro-orientale
2. Che cos’è la guerra asimmetrica? Dove è praticata e con quali forme? La guerra asimmetrica è una forma di conflittualità non convenzionale attuata da soggetti statali, nel caso non vogliano direttamente far evidenziare un loro coinvolgimento, o da realtà non riconosciute che attuano metodologie e attività “guerriglieresche” o terroristiche, data la loro incapacità di operare in maniera convenzionale. 3. È possibile individuare Stati o Autorità parastatali “belligeranti e silenziosi”? A suo giudizio, i grandi network riescono a coprire l’informazione su tutti gli scenari di guerra? Cosa eventualmente ne influenza le scelte: un Paese in guerra diventa notiziabile o rilevante per l’informazione dei grandi media solo a condizione che ci siano rilevanti interessi politico-economici o rilevanti ragioni umanitarie? Per quanto attiene al primo punto, ogni nazione in grado di effettuare proiezione di potenza, possiede una propria agenda “nascosta”. Per quanto attiene ai mass media, occorre sottolineare come SOLO i Paesi che hanno una tradizione diplomatica consolidata e di ampio respiro danno alla politica estera lo spazio che merita. In Italia siamo ancora un Paese di “cronaca nera” e la politica estera è “sfruttata” solo in chiave di politica interna. Questo ha chiare ripercussioni sul peso del nostro Paese all’estero. 4. Qual’è la sua opinione sulla definizione dei grandi network come “armi di distrazione di massa nella mani della politica”? Sono da sempre contrario alle teorie complottistiche, tendo a pensare ai grandi network come società in competizione tra di loro ed una visione da “Grande Fratello” mi pare se non inattuabile, perlomeno improbabile. 5. Pensando all’Africa, che opinione ha su “quanto e come” i media italiani raccontano questo continente all’opinione pubblica? Prima di tutto l’Africa è raccontata poco. In secondo luogo, viene “percepita” dai media italiani attraverso gli occhi di missionari o di Organizzazioni non-governative che hanno una visione fortemente ideologizzata dei problemi, e questo, in primis non giova alla causa africana. 6. Pensando al Medio Oriente, in quale modo i media italiani rappresentano l’area all’opinione pubblica? Il problema più evidente è che al di là delle ovvie criticità, il Medio Oriente è spesso raccontato unicamente attraverso il prisma del conflitto israelo-palestinese, sovente con la tentazione, in buona fede, di tentare di esemplificare la questione ad un semplice concetto: realtà statuale ha ragione, realtà non statuale ha torto. Il Medio Oriente è molto di più di Israele e Palestina. È soprattutto i Paesi del Nord Africa e del bacino del Mediterraneo dove il nostro Paese dovrebbe essere assai più incisivo. 7. Secondo lei, in Italia l’opinione pubblica è adeguatamente informata sul ruolo internazionale del proprio Paese? Ammesso e non concesso di avere un ruolo incisivo sullo scenario internazionale, l’opinio-
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DIRETTORE DEL CE.SI.
CENTRO STUDI INTERNAZIONALI DI ROMA
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Il mondo cambia il modo di combattere
ne pubblica italiana ha ben altri interessi.
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
8. L’opinione pubblica in Italia è adeguatamente informata sul dispiegamento delle nostre forze armate, sul significato delle missioni di peacekeeping e sulla figura del “soldato di pace” che appare come una contraddizione in termini? In assenza di un vero concetto di “sistema-Paese”, spesso le missioni sono lasciate solo all’attenzione dei tecnici o di chi, più in generale, ne segue lo sviluppo. Questo dimenticando che il lavoro di influenza e di supporto dell’Italia inizia, e non invece termina, con l’invio delle Forze di stabilizzazione. Per quanto attiene al cosiddetto concetto del “soldato di pace”, ritengo che, se di pace si tratti, si dovrebbero mandare i boyscout e non militari addestrati ed armati. Ma il sistema è “politicamente” ipocrita e con sempre maggior frequenza ci rifiutiamo di chiamare le cose con il loro vero nome.
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9. A suo giudizio, il valore costituzionale del “ripudio della guerra” si è radicato nell’opinione pubblica italiana? E questo come influenza il modo in cui si rappresenta la guerra? La guerra è “tollerata” purché fatta fuori dai confini nazionali? Il ripudio della guerra non appartiene solo alla Carta Costituzionale bensì ad ogni essere umano con una normale morale ed intelligenza. Il vero problema è che, essendo da sempre il nostro Paese diviso, sostanzialmente, tra due blocchi di fedi religiose opposte, quella cattolica romana da una parte e quella comunista dall’altra, religione laica ma non per questo meno efficace, spesso a seconda del punto di vista si accetta il concetto di “guerra giusta” o “guerra sbagliata”. Le guerre sono tutte dolorose, alcune purtroppo potrebbero diventare inevitabili. 10. Dal ripudio della guerra alla cultura della pace, crede che in Italia e in Europa l’opinione pubblica debba chiedere una diversa informazione sulle aree di conflitto? La cultura dell’informazione è figlia degli interessi di ciascun Paese. 11. Definirebbe la cultura della pace già ampiamente acquisita in Europa tanto da influenzare il linguaggio utilizzato nella rappresentazione dei conflitti? La cultura della pace è stata spesso piegata a degli indirizzi politici ben precisi che ne hanno da una parte svilito il nobilissimo e sempre attuale messaggio e dall’altra sovente svuotato della sua potenziale e poderosa forza. 12. Gettando uno sguardo altrove, quale rappresentazione della guerra/pace propongono i grandi media di riferimento del mondo arabo? Quale rappresentazione dell’Occidente? Propongono lo stesso nostro dibattito sulla distinzione tra guerra e terrorismo, terrorismo e resistenza? Vi è grande attenzione all’interno del mondo arabo per le tematiche legate alla guerra o più in generale alla sicurezza proprio perché rappresenta per loro una criticità quotidiana in grado di essere incisiva anche su ogni singolo nucleo familiare. Per quanto attiene alle distinzioni di cui mi chiede, anche in questo caso va sottolineato con forza che le differenze sulla architettura politica di questi Paesi (il dibattito sui diritti umani e sui diritti inalienabili dell’uomo, sull’economia condivisa e non proprietà di case regnanti, ma soprattutto, sull’ambito religioso) fanno sì che essi non possano che pensare alla “guerra”, al “terrorismo”, alla “resistenza” e alle relative distinzioni con una sensibilità ben diversa dalla nostra.
Carta di Peters
La Carta di Peters in Italia è una iniziativa esclusiva
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“Da cinquemila anni esistono le carte geografiche, e da tremila anni queste carte hanno contribuito a formare l’immagine che l’uomo ha del mondo. Scienziati, storici, papi, ricercatori, navigatori hanno disegnato delle carte, ma solo da 400 anni esiste il mestiere di cartografo. Come storico con interessi geografici ho studiato la storia della cartografia con particolare interesse. Mi resi conto della inadeguatezza delle carte terrestri esistenti che non favorivano, tra l’altro, la migliore soluzione che sempre sorge quando si trasporta la superficie terrestre su un foglio piano. La nuova carta, la mia carta, rappresenta in modo egualitario tutti i paesi della Terra.” (A.Peters)
Questa che avete visto è la Carta di Peters. Chi non la conosce, l’avrà trovata bizzarra. In un Atlante tutti, da sempre, siamo abituati a vedere una carta più tradizionale, la cosiddetta “carta di Mercatore”, realizzata appunto con quella proiezione. Lo avete notato: è completamente diversa. Perché? Cerchiamo di spiegarlo, per chi non lo sa, facendo capire così la ragione per cui il nostro Atlante sceglie di usare anche la “proiezione di Peters”. Rapidamente. Nel 1569 Gerardus Mercator, un famoso cartografo fiammingo, disegnò la carta che prese il suo nome. Tenete presente che era un uomo in fuga, inquisito per vari motivi. La sua carta non divenne subito popolare, anzi all’inizio non era accettata. Dopo 30 anni di incertezze, venne accolta e usata da tutti, soprattutto dai navigatori del 1600, dato che tracciò delle linee orizzontali e verticali, creando nuovi punti di riferimento e favorendo, così chi navigava e tracciava una rotta. In realtà, la sua proiezione deforma le aree, cioè le superfici dei Paesi, a causa della curvatura terrestre. Più ci avvicinavamo ai poli, più la superficie aumenta, creando problemi di comprensione della realtà. Convenzionalmente, però, nei secoli è diventata la nostra visione del mondo, anche se il pianeta non è così. Uno storico ha provato a disegnare una carta che rispetti le reali superfici dei continenti e degli Stati. È il tedesco Arno Peters che vi è riuscito nel 1973. Lo fece, ovvio, anche per ragioni ideali. Peters aveva scritto libri interessanti. Nel 1952 ne aveva pubblicato uno dal titolo: Storia del mondo otticamente sincronica. Quello che lui voleva era recuperare, anche attraverso il rispetto delle dimensioni di ogni singolo Paese, la dignità di ogni popolo, la sua dimensione. Era, insomma, una logica anticoloniale, che dava al Sud del mondo la stessa importanza del Nord. Sapendo che ogni proiezione della sfera sul piano impone delle deformazioni, Peters si rese conto che l’esatta proporzione delle superfici andava a scapito dell’esattezza delle distanze. I continenti assumevano così una forma allungata. Lui, comunque, propose la sua visione, che ha queste caratteristiche: • Fedeltà alla superficie: ogni area (Paese, continente, mare) è rappresentata secondo le sue reali dimensioni. • Fedeltà alla posizione: tutte le linee Est-Ovest sono parallele e orizzontali. Il rapporto di qualsiasi punto della carta con la sua distanza dall’equatore è subito identificabile. • Fedeltà all’asse: tutte le linee Nord-Sud sono verticali. La posizione di ciascun punto è immediatamente verificabile in termini di meridiano o fuso orario. • Totalità: la terra è completamente rappresentata, senza “tagli” o doppie rappresentazioni. • Regolarità nella distribuzione degli errori: non sono concentrati tutti nelle aree più lontane dall’Europa. • Colori base per ogni continente: tradizionalmente, le colonie avevano lo stesso colore degli Stati colonizzatori. Peters sceglie un colore base per ogni continente e assegna ai singoli Paesi delle varianti, per evidenziarne le affinità e le radici comuni. Ecco, questa è la carta che avete visto e che diventa fondamentale nel nostro Atlante. Lo è perché crediamo che questa sia la corretta visione del mondo, con i suoi problemi e le sue contraddizioni. L’abbiamo adottata per dare coerenza al nostro lavoro, che è anche geografico. Vi accorgerete che nelle singole schede Paese le carte usate sono tradizionali: c’è una logica. Ogni Stato, fotografato dal satellite è identico a come lo abbiamo sempre visto sulla carta, non subisce deformazioni. Inutile cambiare, in questo caso. Buona lettura
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Un modo diverso di leggere la Terra
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ELENCO DEI PAESI IN CONFLITTO Algeria Ciad Costa d’Avorio Etiopia/Eritrea Guinea Bissau Liberia Nigeria
R. Centrafricana R. D. Congo Sahara Occidentale Somalia Sudan Uganda
AFRICA
Barbara Bastianelli
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Ilaria, innamorata dell’Africa
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“Ilaria era innamorata dell’Africa. Se avesse potuto, avrebbe vissuto volentieri in un Paese africano. Un Paese qualunque del Continente Nero”. A parlare è Luciana Riccardi, madre di Ilaria Alpi, la giornalista del Tg3 uccisa a Mogadiscio il 20 marzo 1994. Sono passati 15 anni da quel tragico giorno e ricordi su Ilaria e il suo amore per l’Africa non sono sbiaditi. Non potevamo quindi parlare di Africa su questo Atlante senza pensare a Ilaria Alpi. Che adorava l’Africa, ma che lì in quella terra è stata uccisa. Perchè Ilaria Alpi era una giornalista e i giornalisti fanno domande. Una domanda, una fra le tante che aveva posto Ilaria quando si trovava in Africa e che aveva segnato su uno dei bloc-notes era: “1400 miliardi di lire: dov’è finita questa impressionate mole di denaro?”. Ecco una domanda che all’Africa allora interessava. E che ancora oggi è rimasta senza risposta. Dopo 15 anni. Di seguito ripercorriamo i 15 anni del caso giudiziario. 20 MARZO 1994 A Mogadiscio, un commando somalo uccide Ilaria Alpi, inviata del Tg3 Rai, e l’operatore free lance Miran Hrovatin, in Somalia per seguire la guerra tra fazioni che stava insanguinando il Paese africano e la conclusione dell’operazione “Restor Hope”. 22 MARZO 1994 La Procura di Roma apre un’inchiesta sulla morte dei due giornalisti. 25 GIUGNO 1996 Per la seconda perizia balistica il colpo contro Ilaria Alpi fu sparato a bruciapelo da una certa distanza. Alla stessa conclusione arriva la terza perizia il 18 novembre 1997. Per i periti si trattò di un’esecuzione. 12 GENNAIO 1998 Viene arrestato per concorso nel duplice omicidio il somalo Hashi Omar Hassan, a Roma da due giorni per testimoniare commissione “Gallo” sulle presunte violenze dei soldati italiani in Somalia. Hassan è identificato dall’autista di Ilaria Alpi. 24 NOVEMBRE 2000 La corte d’Assise d’Appello di Roma condanna all’ergastolo Hashi Omar Hassan. Il somalo viene riconosciuto come uno dei sette componenti del commando che ha ucciso Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. 31 LUGLIO 2003 Viene istituita con deliberazione della Camera dei deputati la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. 28 FEBBRAIO 2006 La Commissione Parlamentare d’inchiesta ha chiuso i lavori. All’interno della Commissione i deputati di maggioranza hanno approvato le conclusioni proposte dal Presidente Carlo Taormina, mentre l’opposizione non ha approvato il documento. I componenti di centrosinistra hanno prodotto un Rapporto di Minoranza; mentre il deputato dei Verdi Mauro Bulgarelli ha presentato una terza relazione sulle conclusioni a cui la Commissione è giunta in due anni di lavoro. 12 GIUGNO 2007 Il Pm Franco Ionta, titolare del procedimento sul caso Alpi/Hrovatin presso la Procura di Roma, ha chiesto l’archiviazione del caso. 3 DICEMBRE 2007 Il gip Emanuele Cersosimo, chiamato a decidere sulla richiesta di archiviazione avanzata da Ionta scrive «Omicidio su commissione. Il movente? Far tacere i due reporter sulle loro scoperte sui traffici di armi e rifiuti», le motivazioni. 10 APRILE 2008 Le novità sull’omicidio della giornalista del Tg 3 Ilaria Alpi e del came-
Somalia
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raman Miran Hrovatin, uccisi a Mogadiscio il 20 marzo 1994, sono riportate nella nota che il sostituto procuratore generale di Reggio Calabria Francesco Neri, ha inviato al suo procuratore generale Giovanni Marletta. Sottratti 11 fascicoli e perso il certificato di morte della giornalista. Neri, infatti, ha sempre confermato il ritrovamento del certificato di morte di Ilaria Alpi nell’abitazione di Giorgio Comerio, che «è il creatore della holding Oceanic disposal management - spiega Neri - che sfruttando il progetto elaborato dall’Euratom per conto della Cee, prevedeva la messa in custodia di rifiuti radioattivi delle centrali nucleari in appositi contenitori, che a loro volta venivano inglobati in siluri d’acciaio e lasciati cadere per forza inerziale nei fondali marini sabbiosi e argillosi». 11 SETTEMBRE 2008 Mentre il caso è ora nelle mani di un nuovo pm, Giancarlo Amato, arriva una notizia che mette in discussione le conclusioni della Commissione presieduta da Taormina. La Toyota acquisita nel 2006 dalla Commissione Parlamentare potrebbe non avere nulla a che fare con l’auto dove furono uccisi Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. A questa conclusione è giunta la consulenza ordinata dalla procura di Roma, secondo cui un profilo di DNA, estrapolato da due campioni di sangue rilevato su quella vettura e comparato con il codice genetico dei genitori della giornalista non è compatibile con quello di Ilaria. 16 SETTEMBRE 2009 «L’idea che mi sono fatto è stata quella che Ilaria Alpi è stata uccisa perché ha visto quello che non doveva vedere nel porto di Bosaaso, precisamente lì». Queste le dichiarazioni del pentito Francesco Fonti - collaboratore di giustizia della ‘ndrangheta - ad Andrea Palladino giornalista de “Il Manifesto”. Fonti iniziò a raccontare ai magistrati antimafia l’organizzazione dei traffici dei rifiuti nel Mediterraneo e nel Corno d’Africa nel 2005. Partendo dalla sua deposizione la Procura di Paola nel settembre del 2009 è riuscita ad individuare il relitto della Cunski, al largo del porto di Cetraro. Davanti alla commissione d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, Fonti ha parlato anche di alcuni trasporti di armi e rifiuti verso la Somalia organizzati dalla ‘ndrangheta. Il pentito cita in particolare un viaggio che sarebbe avvenuto utilizzando una nave della Shifco, nome di una compagnia strettamente legata alla morte della giornalista e dell’operatore del Tg3. C’è un legame tra gli affondamenti delle navi radioattive e gli interramenti delle scorie in Somalia? Molto probabile secondo quanto raccontato alla stampa dallo stesso Francesco Fonti. ‘’Sono stato personalmente in Somalia, nel 1993, prima dell’omicidio di Ilaria Alpi per curare lo smaltimento di un carico di scorie nocive» ha affermato in un’intervista alla Gazzetta del Sud. Nel Corno d’Africa sarebbero stati interrati - a suo dire - fusti nel Bosaaso lungo la strada che collega a Garoowe per un guadagno che variava da quattro a trenta miliardi di lire. Non è un caso che sulla costa di Bosaaso i tecnici dell’Agenzia per l’Ambiente dell’Onu rilevarono, all’epoca, altissime concentrazioni di sostanze tossiche. E nel 2005 e nel 2007 l’Associazione Ilaria Alpi in due viaggi in Somalia aveva trovato tracce di rifiuti tossici e aveva raccolto le testimonianze di coloro che sapevano che in quella strada erano stati sotterrati rifiuti tossici.
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In occasione della Giornata internazionale delle persone scomparse, le famiglie dei “dispersi”(tra 10 e 15 mila persone) algerini sono scese in piazza per reclamare “giustizia e verità” sulla sorte dei loro mariti, figli e fratelli prelevati negli anni ‘90. Le famiglie - in gran parte donne del Collettivo delle Famiglie degli scomparsi in Algeria (Cfda) - si sono riunite nel centro di Algeri, in piazza Primo Maggio, dove hanno scandito slogan contro il progetto di Riconciliazione, promosso dal Presidente Abdelaziz Bouteflika. ‘’Chi dobbiamo perdonare? Con chi ci dobbiamo riconciliare?’’, ha detto Fatma Yous, dell’Associazione SOS Disaparus, “portati via dalle forze di sicurezza”. “Vogliamo soltanto la verità”, ha aggiunto, “se sono morti, ce lo dimostrino e ci permettano di seppellire i nostri famigliari. Noi continueremo a batterci per loro, siamo convinti che siano ancora in vita”.
ALGERIA
Generalità Nome completo:
Repubblica democratica popolare di Algeria
Lingue principali:
Arabo, francese, tamazight (berbero)
Capitale:
Algeri
Popolazione:
32.877.042
Area:
2.381.740 Kmq
Religioni:
Musulmana sunnita (99%), cristiana ed ebraica (1%)
Moneta:
Dinaro algerino
Principali esportazioni:
Risorse naturali: petrolio, gas naturale, ferro, fosfati, uranio, piombo, zinco Risorse agricole: grano, orzo, avena, uva, olive, cedri, frutta, pecore, bestiame
PIL pro capite:
Us 7.300
l’Esercito prese il potere con un golpe. Il Fis fu messo fuori legge. Iniziarono massacri di civili compiuti sia dagli integralisti che dall’esercito. Nel 1999, dopo oltre 100 mila morti, fu eletto il primo Presidente civile: Abdelaziz Bouteflika. Egli offrì l’amnistia ai combattenti islamici in cambio del loro disarmo. Il Fis accettò ma non le fazioni più intransigenti: Gia e Gspc che lanciarono una campagna terroristica nei villaggi. La situazione peggiorò con la “primavera nera” del 2001 quando si fece avanti la questione autonomista della Cabilia, questione duramente repressa e ancora non
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
I dispersi
In Algeria persiste un elevato livello di conflitto socio-politico con particolare manifestazione di atti di violenza, soprattuto in anni recenti, in Cabilia, area regionale che, spostandosi da Algeri verso Est lungo la costa, comincia dopo circa 100 Km e si estende, passando - più verso l’interno - per la città capoluogo di Tizi-Ouzou, fino alla città di Béjaya affacciata sul Mediterraneo. Quest’area è occupata in buona parte dalla catena montuosa, nonché parco nazionale, di Djurdjura. Costellata di piccoli e diffusi centri montani, la Cabilia è abitata da una popolazione maggioritaria abbastanza omogenea per tradizioni e lingua, i cabili, che parlano un dialetto/idioma berbero, altro rispetto all’arabo ufficiale. La Cabilia non è propriamente una “Regione” in senso amministrativo. È una Provincia, “wilaya” dello Stato algerino il quale non riconosce “regioni” al suo interno. Ai tempi del colonialismo francese si parlava di una Grande e una Piccola Cabilia, oggi di Alta Cabilia (la parte occidentale, con Tizi-Ouzou e le vette più alte del Djurdjura) e Bassa Cabilia (la parte orientale, con Bejaya e la pianura della Soummam). Era esattamente il 12 giugno 1990, al tempo delle prime elezioni multipartitiche della storia del Paese, quando si innescò il meccanismo di una guerra che ancora oggi continua a funzionare nella forma e nei modi di uno scontro “asimettrico” tra forze regolari e “altri” combattenti, fra militari e miliziani, fra esercito e Gruppo Islamico Armato (Gia) e/o Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento (Gspc), oggi, assimilati tutti in al-Qaeda per il Maghreb Islamico. Dunque, nel 1990 il Fronte islamico di Salvezza (Fis) vinse le elezioni. Nel 1992
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Abdelaziz Bouteflika (Oujda, 2 marzo 1937)
esaurita: le montagne della Cabilia sono considerate una roccaforte di al-Qaeda. L’11 ottobre 2009 un militare algerino è morto e tre sono rimasti feriti nell’esplosione di un ordigno vicino a Tizi Ouzou durante una vasta operazione antiterrorismo lanciata giovedì 8 ottobre in Cabilia mentre il venerdi 9 ottobre, dieci membri del braccio nordafricano di al-Qaeda venivano uccisi vicino a Beni Abbes, 950 km a Sud di Algeri. Dopo il mese sacro del Ramadan 2009, diversi attacchi si sono succeduti in Cabilia: a fine settembre 2009 un militare e un “patriota” (civile organizzato in “gruppi di autodifesa” territoriale) sono stati uccisi, feriti altri 7 uomini delle forze di sicurezza. Cinque militari sono rimasti feriti proprio l’ultimo giorno del “mese del digiuno” a causa dell’ esplosione di un ordigno a 30 km a Sud di Tizi Ouzou. Estate 2009 di sangue. Dall’oltremediterraneo algerino arrivano notizie belliche a tamburo battente: lunedì 24 agosto, i miliziani islamici fanno incursione in un villaggio, El Guemaichia, vicino ad Ain Delfa, e dopo aver ucciso un civile nascondono dell’esplosivo sotto il cadavere. All’arrivo dei soccorsi, l’ordigno viene fatto esplodere uccidendo due gendarmi e ferendone altri due. L’Esercito risponde con un rastrellamento e mandando più soldati in Cabilia. Lunedì 3 agosto, quattro persone uccise da un gruppo islamico armato a Tadmait, non lontano da Tizi Ouzou. Quattordici militari uccisi, invece, in una imboscata il 29 luglio, secondo il quotidiano El Watan. Mentre l’esercito algerino aveva pochi giorni prima eliminato 16 integralisti armati in diverse operazioni.
Un militare morto e otto feriti, si registravano tra giovedì 9 e venerdì 10 luglio nell’esplosione di diverse bombe sempre nella Provincia berbera ad Est dell’Algeria. E a giugno la corrispondenza dell’Ansa Italia parla di “guerra aperta contro le sempre più folte retrovie di al-Qaeda per il Maghreb islamico” anche lungo la frontiera a Sud tra Mali e Algeria.
I PROTAGONISTI
Abdelaziz Bouteflika è nato nel 1937 in Marocco. Fu arruolato nell’esercito a 19 anni. Dopo l’indipendenza dell’Algeria dalla Francia nel 1962, divenne deputato nell’Assemblea Costituente e ministro per la Gioventù e lo Sport nel Governo presieduto da Ahmed Ben Bella. L’anno successivo fu nominato ministro degli Esteri. Nel 1999 si candidò alle elezioni presidenziali come candidato indipendente sostenuto dai militari. Fu eletto con il 74% dei suffragi ma fu denunciato per brogli. La popolazione della Cabilia boicottò la votazione. Dopo la conferma del 2004, oggi con le elezioni presidenziali del 9 aprile 2009 è al terzo mandato consecutivo.
I miliziani sono motivati dall’idea quaedista di un Maghreb Islamico e per quanto riguarda la Cabilia non è esclusa un’istanza autonomista delle popolazioni berbere locali. I militari dell’esercito regolare combattono in contrasto a tale progetto in appoggio alla politica del Presidente eletto. Alla base di tutto, naturalmente, il petrolio di cui il Paese è ricco.
La situazione attuale e gli ultimi sviluppi
L’Algeria “ha teso la mano” agli integralisti islamici armati e “questa mano resta tesa” anche se la lotta al terrorismo andrà avanti. Lo ha dichiarato, secondo l’Agenzia di stampa Aps, il Presidente Abdelaziz Bouteflika a fine agosto 2009 durante il discorso pronunciato in occasione della giornata mondiale del Moudjahid (combattente della guerra di liberazione). “È necessario riunire le condizioni propizie allo sviluppo dando un’occasione a quelli
che si sono allontanati - ha detto Bouteflika - per aver sbagliato riferimento religioso o per essere stati ingannati da mercenari che professano il crimine organizzato e la distruzione della società algerina”. Nonostante restino aperte le porte della Riconciliazione nazionale, “lo Stato resta determinato ad affrontare quelli che rifiutano la mano che gli è stata offerta”. Dopo la legge sulla Concordia civile (1999), che durante il primo mandato di Bouteflika ha portato alla scarcerazione e alla resa di migliaia di “pentiti”, nel 2005 è stata approvata con un referendum la Charta per la pace e la riconciliazione nazionale che offre il perdono a chi depone le armi. Tra i punti più controversi della Charta per la pace e la riconciliazione nazionale il divieto, pena il carcere, “di nuocere alle istituzioni della Repubblica, indebolire lo Stato, infangare l’onore dei suoi agenti che l’hanno degnamente servito, offuscare l’immagine dell’Algeria sul piano internazionale”.
I rifugiati
L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) ha stanziato 12 milioni di euro a favore dei rifugiati del Sahara occidentale. Lo ha annunciato l’alto commissario Antonio Gutteres, in visita negli accampamenti saharaoui che si trovano vicino a Tindouf, nel sud dell’Algeria. ‘’Questa somma è insufficiente’’, ha spiegato Guterres, citato da Aps, ‘’rispetto ai bisogni enormi dei rifugiati saharaoui il cui numero supera le 200 mila persone e di cui 165 mila beneficiano degli aiuti del Programma alimentare mondiale (Pam)’’.
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Per cosa si combatte
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Finmeccanica in Algeria
L’italiana Augusta Westland (Gruppo Finmeccanica) avrebbe siglato a fine giugno un contratto con il ministero della difesa algerino per la fornitura di 100 elicotteri di vario tipo. Il contratto, scrive la rivista specializzata Air Force Monthly ripresa dalla stampa algerina, prevede la fornitura di 100 elicotteri destinati a Gendarmeria, Polizia e Protezione civile che saranno assemblati in Algeria. Obiettivo di questa decisione, la volontà del Governo algerino di sviluppare un embrione di industria aeronautica nel Paese. Finmeccanica, prosegue il magazine, si era già aggiudicata un contratto con la marina algerina per sei elicotteri AW101s e quattro Super Lynx 300 MK 130.
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Mortalità infantile nel primo anno di vita: 124 ogni mille nascite Mortalità infantile entro il 5° anno di vita: 209 ogni mille nati vivi Bambini registrati alla nascita: 9% Tasso netto iscrizione scuola primaria: 50% maschi, 75% femmine Tasso di alfabetismo giovani (15-24 anni): 23% femmine, 56% maschi Speranza di vita alla nascita: 50 anni Prodotto nazionale lordo pro capite: 480 dollari USA Crescita annua della ricchezza nazionale (PIL) nel periodo 1990-2006: 2,4% Accesso all’acqua potabile: 42% della popolazione (43% nelle aree rurali) Accesso a servizi igienici adeguati: 9% della popolazione (4% nelle aree rurali) Numero stimato di bambini (0-14 anni) affetti da HIV: 16.000
CIAD
Generalità Nome completo:
Repubblica del Ciad
Lingue principali:
Francese, Arabo
Capitale:
N’Djamena
Popolazione:
9.826.419
Area:
1.284.000 Kmq
Religioni:
Musulmana (53,10%), cristiana (35%), animista (10%)
Moneta:
Franco CFA
Principali esportazioni:
Prodotti agricoli
PIL pro capite:
Us 1.519
fondato il Fronte Nazionale per la Liberazione del Ciad (Frolinat). Il gruppo di ribelli imbracciò le armi contro il Governo dando inizio ad una sanguinosa guerra civile, proseguita anche dopo il colpo di stato militare del 13 aprile del 1975, quando Tombalbaye venne ucciso e il generale Félix Malloum, capo della giunta militare, divenne il nuovo capo di Governo. Nell’impossibilità di annientare la guerriglia del Frolinat, nel 1978 Malloum decise di nominare primo ministro il leader dei ribelli Hissène Habré. La convivenza dei due ai vertici del Paese durò poco. L’anno successivo le forze ribelli del Frolinat e l’esercito di Malloum si scontrarono apertamente nella capitale N’Djamena. Il generale golpista Malloum fu costretto alla fuga ma il Paese scivolò in una crisi interna ancora più profonda. La guerra civile coinvolgeva,
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Dati sull’infanzia diffusi dall’Unicef
La Repubblica del Ciad, situata nell’Africa Centrale e circondata dagli Stati confinanti della Libia, del Sudan, del Camerun, della Nigeria, del Niger e della Repubblica Centraficana è considerata uno dei Paesi più poveri del mondo, attraversato da forti instabilità interne e da conflitti ancora irrisolti. Proprio la vicinanza con molti Paesi dove si combattono guerre violente e sanguinose ha aggravato la crisi interna del Ciad, guidato da un Governo che fatica a gestire i forti flussi di rifugiati in fuga dai conflitti e dalle tensioni interne. Dopo una lunga storia da ex colonia francese, il Ciad è diventato indipendente nel 1960. Una transizione pacifica che sembrava presagire un futuro di stabilità per il Paese che nello stesso anno, il 20 settembre, è entrato ufficialmente a far parte dell’ONU. Il primo Presidente del Ciad, eletto l’11 agosto del 1960, è stato François Tombalbaye che nel dopoguerra aveva fondato uno dei principali partiti ciadiani, il Partito Progressista del Ciad (Ppt). Le speranze del Paese furono presto deluse dal Governo di Tombalbaye, che si trasformò in una guida autoritaria. Solo due anni dopo la sua elezione, il Presidente aveva messo al bando tutti gli altri partiti politici attivi in Ciad e cominciato una forte repressione contro quelli che considerava oppositori politici. Il malcontento nel Paese cresceva e in più di una occasione il Governo dovette sedare rivolte interne. Tensioni si registravano nel Nord del Paese, abitato da popoli di fede islamica ma anche al Sud dove le popolazioni erano cristiane e animiste. Nel 1966, nel confinante Sudan, venne
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Idriss Déby Itno (Fada, 1952)
oltre al Frolinat, numerose fazioni di ribelli e la situazione nel Paese era ormai fuori controllo. L’ONU intervenne e traghettò il Paese alla firma, nell’agosto del 1979, di un trattato di pace - l’Accordo di Lagos - che permetteva la formazione di un Governo di transizione che avrebbe dovuto guidare il Paese alle elezioni politiche. A capo di questo Governo il Presidente Goukouni Oueddei, mentre Habré fu nominato ministro della difesa. Dopo 18 di mesi la situazione era però immutata e gli scontri continuavano ad imperversare. Queddai riuscì a conquistare il controllo della capitale ma per farlo chiese aiuto alla Libia che inviò nel Paese le proprie truppe. Ancora grazie alla Libia nel 1983, l’esercito governativo sferrò un nuovo attacco contro le forze di Habré, che ottenne il sostegno delle forze francesi già presenti sul territorio. Nel 1984 la Francia e Libia siglarono un accordo per ritirare le proprie truppe dal Ciad. Accordo che non fu però rispettato dalla Libia che mantenne i propri soldati nella striscia di Aouzou. Solo nel 1987 Ciad e Libia firmarono un cessate il fuoco, che rimase in vigore fino al 1988. Negli anni ottanta la stabilità interna del Ciad è minata da una serie di colpi di stato. Nel 1990 un disertore dell’esercito di Habré, Idriss Déby riuscì con un golpe ad instaurare un nuovo Governo, di cui egli stesso divenne Presidente. Negli anni successivi altri tentativi di colpo di stato furono sferrati contro il Governo di Déby che è però tuttora in carica. Il Paese è ancora attraversato da violenti
scontri tra le varie anime della guerriglia ciadiana, e l’instabilità è costantemente in aumento nonostante i tentativi del Presidente Déby di siglare trattati di pace con le fazioni ribelli. La situazione si è poi ulteriormente aggravata dal 2003, quando centinaia di rifugiati in fuga dalla Regione sudanese del Darfur, martoriata da un conflitto civile, ha iniziato ad entrare in Ciad per sfuggire alle violenze. Il 23 dicembre del 2005, il Governo del Ciad ha dichiarato ufficialmente lo stato di guerra contro il Sudan. Alla base della decisione una lunga serie di violenti scontri lungo il confine tra i due Paesi ai danni delle popolazioni che abitano la frontiera. Il conflitto tra il Ciad e il Sudan è ancora in corso.
I PROTAGONISTI
Idriss Déby Itno è diventato Presidente del Ciad il 1 dicembre del 1990. Figlio di un allevatore locale è entrato nell’Accademia Militare di N’Djamena, e si è formato anche in Francia. Protagonista della vita politica del Ciad già prima di venire eletto Presidente, Déby ha recentemente accusato le compagnie petrolifere attive in Ciad (Chevron e Petronas) di guadagnare dallo sfruttamento del petrolio senza pagare le imposte ed ha minacciato una graduale nazionalizzazione degli impianti petroliferi. Secondo una legge che il Governo di Déby ha recentemente approvato infatti, i proventi del petrolio dovrebbero essere reinvestiti in servizi per la popolazione, dalla sanità all’istruzione.
Passato da una condizione di colonia ad un regime autoritario, il Ciad è ancora lontano dal raggiungere una stabilità politica e sociale, resa ancora più difficile dalla violenza che caratterizza l’intera Regione. Secondo il rapporto dell’Unicef 2009 sulle emergenze, sono tre i tipi di violenza che caratterizzano la crisi nel Ciad, soprattutto nella parte orientale del Paese: i conflitti armati interni tra il Governo del Ciad e i gruppi di opposizione armata del Paese, gli attacchi contro i civili in prossimità del confine da parte delle milizie stanziate nel Darfur e la violenza interetnica. Spesso, secondo quanto denuncia lo stesso rapporto i tre tipi di violenza finiscono col sovrapporsi e a farne le spese è la popolazione civile, costantemente a rischio e priva di protezione.
La situazione attuale e gli ultimi sviluppi
Nonostante i tentativi di mediazione della comunità internazionale, una pace tra Sudan e Ciad è ancora lontana. Nell’otto-
bre del 2009, il Presidente della commissione dell’Unione Africana, Jean Ping, ha lanciato un appello alle due parti affinché raggiungano una rapida “normalizzazione” delle relazioni, anche grazie ai colloqui in corso tra i due Paesi. Con un comunicato, Ping ha detto di felicitarsi per la visita a N’Djamena (capitale del Ciad) di una delegazione sudanese che ha incontrato anche il Presidente ciadiano Déby. I Governi di Sudan e Ciad hanno anche stabilito di aprire il più presto possibile un nuovo tavolo di negoziato per raggiungere la pace, ma i due Paesi di fatto continuano a sostenere l’operato di gruppi ribelli contrapposti. A Luglio del 2009, il Sudan ha denunciato davanti al Consiglio di Sicurezza raid aerei ciadiani sul suo territorio. Il Ciad ha ammesso le operazioni militari ma ha spiegato di aver bombardato delle postazioni di ribelli del Ciad che hanno trovato rifugio in Darfur.
Violazione dei diritti umani
L’ONU, attraverso il Comitato antitortura (Cat), ha denunciato nel maggio del 2009 a Ginevra “le violenze sessuali” perpetrate ai danni di donne e bambini in Ciad. Le situazioni peggiori si verificano nei campi profughi, dove le popolazioni civili sarebbero sottoposte a violenze e torture di ogni tipo. Autori di queste violazioni sarebbero i guerriglieri ribelli ma anche le forze armate regolari. Il Comitato anti-tortura dell’ONU ha lanciato un appello alle autorità di N’Djaména affinché conduca “vaste campagne di informazione per fare cadere i tabù sui crimini sessuali”.
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Per cosa si combatte
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Il dramma rifugiati
È inarrestabile il flusso dei rifugiati che arrivano in Ciad in fuga dai Paesi vicini. Secondo l’Unhcr nel Ciad Sud-orientale, continuano ad arrivare rifugiati in fuga dal Nord della Repubblica Centrafricana. Attualmente sono stati registrati oltre 6.800 rifugiati. La maggior parte dei nuovi arrivati sono donne, bambini e anziani. Nel Paese ci sono già 56 mila rifugiati della Repubblica Centrafricana, nel Ciad meridionale, mentre nel Ciad orientale più di 250 mila rifugiati sudanesi del Darfur sono ospitati in 12 campi gestiti dall’Unhcr. L’Unhcr dà assistenza anche a 166 mila sfollati interni ciadiani.
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Atlante delle guerre e dei conflitti nel mondo
COSTA D’AVORIO
Generalità Nome completo:
Repubblica della Costa d’Avorio
Lingue principali:
Francese (ufficiale), dioula, baoulé, bété, sénoufo
Capitale:
Yamoussoukro
Popolazione:
16.600.000
Area:
322.460 Kmq
Religioni:
Cristiana, musulmana
Moneta:
Franco CFA
Principali esportazioni:
Prodotti agricoli, diamanti, manganese, nichel, bauxite, oro
PIL pro capite:
Us 1.510
da Guéï e dall’esclusione di Alassane Ouattara, principale candidato dell’opposizione, perché di sangue misto. Uno dei suoi genitori, infatti, proviene dal Burkina Faso. La decisione scatena la rabbia dei musulmani del Nord. Dalle urne esce vincitore Laurent Gbagbo, principale oppositore di Boigny. Nel 2002 parte dell’esercito si ammutina e tenta di rovesciare il Presidente. Gbagbo resiste e il golpe si trasforma in una vera e propria guerra civile che spacca il Paese in due: il Nord controllato dai ribelli del Fronte Nuovo (Fn) e il Sud sotto il controllo del Governo. La Costa d’Avorio entra in uno stallo politico e istituzionale che paralizza il Paese. Nel 2003 vengono firmati accordi di pace che, tuttavia, rimangono sulla carta. Molti nodi costituzionali rimangono tali, soprattutto quelli che riguardano l’eleggi-
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Le armi
Russia, Inghilterra, Angola e Romania sono da sempre i migliori fornitori d’armi del Governo. Hanno riempito gli arsenali di elicotteri da combattimento, carri leggeri e finanziano le milizie private. Più difficile capire chi arma i ribelli. I gruppi hanno sempre sostenuto di aver creato i loro arsenali nel tempo, sottraendo armi all’esercito regolare. Osservatori internazionali, però, dicono che i gruppi del Nord (Mpci) siano stati armati dal Burkina Faso. Quelli dell’Ovest (Mpigo e Mpj) hanno avuto il sostegno di Liberia e Sierra Leone.
La Costa d’Avorio ottiene l’indipendenza nel 1960 grazie a uno dei padri della decolonizzazione, Felix Houphouet-Boigny. Legato sia per il proprio passato politico sia per gli interessi economici alla Francia, Boigny garantisce al suo Paese uno sviluppo economico considerevole. Grazie a un programma di incentivi statali sostenuti anche da Parigi, Boigny porta la Costa d’Avorio a essere il primo esportatore mondiale di cacao e il terzo di caffè. Per 20 anni l’economia del Paese cresce al ritmo del 10% all’anno, superata solo dall’economia dei grandi Paesi produttori di petrolio e diamanti. Boigny gode di enorme credito politico, cosa che gli permette di governare con pugno di ferro, senza permettere la nascita di partiti politici né, tanto meno, di organizzare elezioni libere. All’inizio degli anni ’80 crolla il prezzo del cacao e del caffè con effetti sull’economia del Paese. Il debito estero triplica e cresce la criminalità, la stabilità del Governo comincia a vacillare. Boigny, nel 1990, deve affrontare le prime proteste di piazza. Il Presidente risponde al malcontento attraverso la concessione di alcune libertà politiche, tra cui il multipartitismo. Le prime elezioni libere confermano alla guida del Paese il padre della patria. Boigny muore nel 1993. Viene sostituito da Henri Konan Bédié che riesce a migliorare il quadro economico anche grazie a una svalutazione del 50% del franco Cfa, legato a quello francese. La repressione del dissenso crea un forte malcontento che viene sfruttata, nel 1999, da un gruppo di militari capitanati dal generale Robert Guéï, che rovescia Bédié e organizza le elezioni presidenziali. Le consultazioni del 2000 si svolgono in un’atmosfera pesantissima, caratterizzata da tentativi di brogli compiuti
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Quadro generale
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
(Gagnoa, 31 maggio 1945)
bilità delle popolazioni di sangue misto. Il Paese rimane diviso in due. E i tentativi del Presidente di riprendere il territorio sotto il controllo dei ribelli, manu militari, falliscono anche grazie alla forza di interposizione dell’ONU, 10 mila uomini ancora presenti nel Paese, e ai contingenti francesi che controllano la zona di sicurezza al “confine” tra il Nord e il Sud del Paese. Le elezioni libere vengono continuamente rimandate proprio per l’instabilità del Paese. Nuovi
accordi vengono firmati a Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, il 4 marzo del 2007. Accordi che aprono la via all’organizzazione delle elezioni presidenziali che ufficialmente sono state fissate il 29 novembre del 2009.
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Laurent Koudou Gbagbo
I PROTAGONISTI
Laurent Koudou Gbagbo è l’attuale Presidente della Costa d’Avorio, nonostante il suo mandato sia ufficialmente scaduto il 30 ottobre 2005. Nato nel 1945 a Gagnoa, da una famiglia Bètè, è stato professore di storia all’Università di Abidjan, poi preside della Facoltà di Lingue. Nel 1982 ha fondato il Fronte Popolare Ivoriano e nel 1985 venne costretto all’esilio, in Francia, sino al 1988. Ha partecipato alle presidenziali del 2000, contro il generale Robert Guéï. I brogli elettorali fecero scoppiare una rivolta per Gbagbo, che sosteneva di aver vinto con il 59,4% dei voti. Guéï fu costretto a fuggire, lasciando a Gbagbo la presidenza. Nel settembre 2002 un tentativo di golpe fallì, trasformandosi in rivolta. Per evitare una lunga guerra, l’Unione Africana inviò truppe e iniziarono colloqui di pace che non sono mai stati ratificati, ad oggi. Il mandato presidenziale è stato di volta in volta prolungato, sino al 2009.
La situazione attuale e gli ultimi sviluppi
Prostituzione
Almeno 400 mila giovani donne e bambini sarebbero coinvolti, in Costa d’Avorio, nel business della prostituzione e della pornografia. La denuncia è della Ong Soleterre, nel 2008. L’organizzazione ha scoperto che in Costa d’Avorio, dove il reddito medio mensile delle famiglie è di 30 euro, per avere un rapporto sessuale con un bambina sono sufficienti 46 centesimi. Molto spesso le ragazzine decidono di prostituirsi per avere i soldi necessari per iscriversi a scuola, 230 euro l’anno. Le famiglie fingono di non sapere, ma c’è anche chi abbandona volutamente bambini e ragazzi. Nella sola Abidjan sono oltre 5 mila le bambine prostitute fra i 12 e i 18 anni censite.
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Ivoritè
Nonostante il pesante deficit democratico che ha caratterizzato i suoi 43 anni di dominio, il Presidente Boigny ha avuto il pregio di riuscire a tenere insieme la società ivoriana grazie al pugno di ferro ma anche ai sussidi e a un quadro economico favorevole. Le prime crepe sono emerse sotto la presidenza di Bédié, il cui frequente ricorso al termine “ivorité” ha avuto come conseguenza la nascita di tensioni tra le varie comunità che popolano il Paese: i Baoulé, di cui fa parte lo stesso Bédié, che occupano la parte centroorientale e che costituiscono il 23% della popolazione; i Bété di Gbagbo (18%), situati nell’Ovest e le popolazioni musulmane del Nord (40%), a cui si aggiungono anche milioni di lavoratori impiegati nelle piantagioni e provenienti dal Burkina Faso e dal Mali. Tensioni che sono sfociate nell’interdizione delle popolazioni di sangue misto dalle cariche politiche, una questione non ancora risolta che ha contribuito a scatenare la guerra civile. Il conflitto ha avuto poi inevitabili conseguenze sulle condizioni di vita della popolazione. Tutti gli indici di sviluppo umano sono negativi, la percentuale di popolazione affetta dall’Hiv è del 7%, mentre la povertà aumenta. Una situazione estremamente grave per un paese che fino a 20 anni fa era uno tra i più prosperi di tutto il continente.
Sessanta diversi gruppi culturali, risorse infinite: le ragioni della guerra in Costa d’Avorio sono da ricercare nel controllo delle ricchezze del territorio, controllo che viene rivendicato dai diversi gruppi dirigenti facendo leva sull’appartenenza ad un clan. L’interdizione dalle cariche politiche delle popolazioni a sangue misto ha creato tensioni che non si assopiscono, innestate su un deficit democratico costante nella storia della Costa d’Avorio sin dall’indipendenza. Inoltre, l’economia del Paese, una delle migliori del continente africano, dipende quasi interamente dall’esportazione delle materie prime e questo scatena da sempre gli interessi delle grandi aziende multinazionali, pronte a finanziare i diversi gruppi pur di assicurarsi - con la presa del potere - il controllo del mercato. Insomma, è un Paese diventato terreno di confronto per interessi esterni, con Francia, Stati Uniti e Cina a contendersi il ruolo di “partner” privilegiato.
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Per cosa si combatte
Il trattato di pace firmato nel marzo 2007 a Ouagadougou (Burkina Faso) tra il Governo e le “Forze Nuove” ha portato ad una specie di tregua, che ha evitato scontri armati. Il clima politico nel Paese resta comunque incerto e le elezioni di fine 2009 rendono difficile la situazione dal punto di vista dell’ordine pubblico. Rimane poi la piaga di una criminalità crescente, che rende pericolose le città e allontana l’obiettivo di riavviare in tempi rapidi i meccanismi istituzionali e democratici della Costa d’Avorio. Senza dimenticare la presenza, in molte zone del Paese, di gruppi armati che ancora esercitano di fatto un controllo “autonomo” del territorio.
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Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Anche l’Etiopia dal punto di vista della vita democratica presenta enormi problemi. Il Governo è dominato dai leader del Tigrai, la Regione a Nord dell’Etiopia che aveva guidato anche la guerriglia contro Menghistu. Il Paese vede attivi ben due movimenti di guerriglia, indipendentisti: il movimento della popolazione Oromo e quello dei somali dell’Ogaden, verso i quali l’esercito conduce una repressione durissima. Le elezioni del 2002 hanno reso palesi tutti i limiti della democrazia etiopica: dopo l’elezione il Governo di Meles Zenawi, accusato di brogli, ha messo in atto una durissima operazione di repressione, arrestando in 72 ore quasi 40 mila fra oppositori, giornalisti, esponenti di associazioni per la tutela dei diritti umani, sindacalisti, intellettuali. Accuse di brogli si sono ripetuti nelle elezioni del 2005. Dura è stata di nuovo la reazione del Governo, con una forte limitazione della libertà di stampa, la chiusura dei giornali critici verso l’esecutivo e l’arresto di una quindicina di giornalisti.
ETIOPIA ERITREA
Generalità
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Democrazia e repressione
Sono passati più di dieci anni da quando è scoppiato il confitto fra Etiopia ed Eritrea, e nove dal “cessate il fuoco” che ha pressoché congelato il conflitto. Nonostante ciò, i rapporti fra i due Paesi, durante tutto questo tempo, sono rimasti molto tesi, e in alcune fasi si è sfiorato la ripresa di una guerra aperta. Un conflitto per molti aspetti incomprensibile. I due attuali Governi, sia etiope che eritreo, sono “figli” della guerra di liberazione dalla dittatura di Menghistu Hailé Mariam, il ”terrore rosso”, come veniva chiamato. La leadership attuale etiope, guidata dal primo ministro Meles Zenawi, è costituita nella sua ossatura dai capi del Fronte rivoluzionario democratico del popolo etiopico, tanto quanto quella eritrea, le cui principali figure politiche provengono dal Fronte popolare di liberazione eritrea, primo fra tutti Isaias Afewerki, il Presidente del Paese. La lunga e sanguinosa guerra di liberazione aveva portato alla cacciata del dittatore Menghistu e alla vittoria nel maggio 1991. Finita la guerra, si erano formati fin da subito due Governi provvisori e di comune accordo si era giunti presto (nell’aprile 1993) al referendum col quale il 99,8% degli eritrei avevano scelto l’indipendenza dall’Etiopia. Antiche ragioni storiche e culturali (specie legate all’epoca della colonizzazione italiana) facevano sì che gli eritrei avessero consolidato una forte identità nazionale, che i decenni di dominio dell’imperatore Hailé Selassié e poi del regime repressivo di Menghistu non avevano nemmeno scalfito. Dopo la pacifica divisione dell’ex grande Etiopia nei due Stati sovrani, i due Paesi avevano mantenuto rapporti eccellenti di
Nome completo:
Repubblica Federale Democratica d’Etiopia
Lingue principali:
Amarico e Tigrino
Capitale:
Addis Abeba
Popolazione:
81.176.000
Area:
1.104.300 Kmq
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Religioni:
Chiesa ortodossa etiopica (50,6%), protestante (10,1%), cattolica (0,9%), musulmana (32,8%), religioni tradizionali animiste (5,6%)
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Quadro generale
Moneta:
Birr
Principali esportazioni:
Caffé, pelli grezze, kat (erba che masticata dà effetti leggermente psicotropi), oro
PIL pro capite:
Us 898
collaborazione e di mutue relazioni. Contemporaneamente, la pace finalmente raggiunta, dopo decenni di guerriglia e di sanguinarie repressioni che avevano portato la popolazione etiopa e quella eritrea agli ultimi posti nelle classifiche dello sviluppo umano e della povertà, stava consentendo di avviare una crescita economica lusinghiera. Per l’Eritrea addirittura stupefacente, con ritmi di crescita del PIL oltre il 7%. Poi, inaspettatamente, fra il 1997 e 1998, sono cominciate le frizioni fra i due Paesi “cugini”: un’escalation cominciata da dispute intorno ai dazi doganali e agli accessi commerciali ai porti (l’Etiopia non ha accessi al mare e sino al 1998 aveva utiliz-
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Isaias Afewerki
(Asmara, 2 febbraio 1945)
zato i porti dell’Eritrea per l’import-export), e proseguita con crescenti tensioni fra i due eserciti ai confini. Proprio la disputa sui confini è la stata la causa dichiarata della guerra. La contesa su alcune città e località di confine ha condotto l’Eritrea, dopo l’ennesimo episodio nel quale alcuni suoi soldati erano stati uccisi in una fascia di territorio considerata propria dagli etiopi, a dichiarare guerra al Paese vicino. Un conflitto avvenuto in due fasi, la prima nel 1998 e la seconda nel 2000. Data l’enorme differenza di forze in campo - basti pensare allo squilibrio di popolazione fra i due Paesi, l’Etiopia ha oltre 81 milioni di
abitanti, l’Eritrea nemmeno 5 - l’Eritrea ha subito pesantissime sconfitte, specie nella seconda fase della guerra. Nelle alture desertiche dell’altopiano e delle impervie montagne che dividono i due Paesi, se da un lato l’Etiopia ha perduto centinaia di migliaia di soldati mandati ripetutamente all’assalto degli avamposti eritrei, dall’altro il piccolo esercito dell’Asmara, una volta rotta la linea difensiva del fronte, ha subito perdite ingentissime di uomini quando l’esercito etiopico dilagò all’interno del suo territorio. La guerra nel giugno del 2000 si è fermata per un “cessate il fuoco” richiesto dall’ONU e accettato da entrambi i contendenti.
I PROTAGONISTI
Isaias Afewerki, già leader dell’Fple, è stato il primo Presidente dell’Eritrea indipendente. Considerato uomo di idee politiche fortemente socialiste - ispirate soprattutto al maoismo cinese - era salito al potere all’indomani della liberazione del Paese a presiedere il Governo di transizione. Considerato un uomo illuminato e di grande carisma, aveva all’inizio degli anni ‘90 un enorme seguito popolare. Gli esiti del referendum, peraltro, ne avevano anche rafforzato il consenso politico. Ha guidato l’Eritrea, senza una reale opposizione politica, fino all’epoca del conflitto con L’Etiopia. Il dopo-guerra ha segnato, però, una svolta. È iniziata una rapida involuzione politica che ha portato presto il Governo a trasformarsi sempre più in regime, e Isaias Afewerki in dittatore.
Le armi
Il settembre del 2001 segna il momento di svolta autoritaria del regime eritreo. A seguito della diffusione di una lettera aperta che criticava la scelta della guerra e la carenza di democrazia, sono scattate le epurazioni: in pochi giorni sono finiti in carcere gli 11 firmatari del documento, di fatto tutta la nascente opposizione politica. Quasi contemporaneamente sono stati chiusi tutti i mezzi d’informazione che si erano espressi in modo critico verso il Governo. Nove giornalisti sono a loro volta finiti in prigione. Della quasi totalità degli arrestati, sia esponenti politici o militari sia giornalisti, non si è saputo più nulla. Da diversi anni il regime di Afewerki è assimilabile a una dittatura poliziesca, tant’è che sono migliaia tutti gli anni gli eritrei che scappano dal Paese e cercano asilo politico all’estero.
La disputa sui confini che aveva cagionato il ricorso alle armi, non è mai stata risolta. Accettato da entrambe le parti il “cessate il fuoco” voluto dall’Oua (Organizzazione per l’Unità Africana), i due Governi avevano anche accolto la proposta delle Nazioni Unite di rimettersi alla decisione della Corte permanente di Arbitrato dell’Aja per la demarcazione della contestata linea di confine, e la definizione del tracciato fu affidata a una commissione di esperti internazionali col compito di studiare la storia delle linee di confine fin dall’epoca coloniale della conquista italiana, mentre una missione di mantenimento della pace dei caschi blu (denominata Unmee, Missione ONU per
Etiopia ed Eritrea) doveva tenere sotto controllo la fascia di frontiera per evitare nuovi scontri e tracciare materialmente la nuova frontiera. La linea di demarcazione indicata dal team di esperti nel 2002 è stata accettata dall’Eritrea (e in gran parte dà ragione alle sue rivendicazioni), ma non dall’Etiopia. Un rifiuto, quello etiopico, che si protrae da anni. La situazione perciò è di fatto tuttora congelata, anche per l’inerzia dei caschi blu che non hanno mai dato seguito alla demarcazione fisica del nuovo confine, com’era previsto dal loro mandato. Ancora oggi non ci sono comunicazioni, né rapporti commerciali, né relazioni diplomatiche fra i due Paesi.
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Per cosa si combatte
La situazione attuale e gli ultimi sviluppi
La missione Unmee
Dopo l’accettazione del “cessate il fuoco” delle parti in conflitto il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha istituito una missione di peacekeeping (mantenimento della pace) chiamata Unmee, Missione delle Nazioni Unite per Etiopia ed Eritrea. Tale missione faceva parte del piano di pace della stessa ONU, che prevedeva la presenza dei caschi blu lungo tutti i mille chilometri di confini in una fascia di rispetto che facesse da cuscinetto fra i due eserciti, mentre la Commissione internazionale di esperti studiava la demarcazione della linea di frontiera. La non accettazione, poi, del nuovo tracciato da parte dell’Etiopia ha prolungato per diversi anni oltre il previsto la missione di pace.
Le conseguenze della guerra perdurano ancora oggi. Dal punto di vista economico e sociale entrambi i Paesi hanno pagato un pesante prezzo in termini di vittime e invalidi, ma anche di grave crisi economica, ristagno produttivo, deficit agricolo. La più colpita, naturalmente, è stata l’Eritrea, messa veramente in ginocchio dal conflitto. Il Paese è piombato a livelli di povertà e di emergenza umanitaria senza precedenti, in cui si dibatte ancora oggi, aggravate anche dal forte isolamento del Paese rispetto alla comunità internazionale e ai rapporti ostili con tutti gli Stati confinanti. L’Eritrea, da Paese-faro del riscatto africano dei primi anni ‘90, è divenuto uno dei Paesi per i quali con maggior frequenza le agenzie dell’ONU lanciano appelli per il susseguirsi di emergenze alimentari gravi. I tre quarti della popolazione vive sotto la soglia di povertà. L’Etiopia ha saputo reagire meglio alla crisi del dopo-guerra. Oggi presenta aree che hanno mostrato significativi segnali di svi-
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Gli insorti
La guerra fra Etiopia ed Eritrea è stata breve ma particolarmente sanguinosa. È stata combattuta prevalentemente con modalità tradizionali, in modo non molto diverso da come fu la seconda guerra mondiale, impiegando forze di terra, cannoni e mortai, carri armati, poca aviazione. I combattimenti si sono svolti nelle impervie montagne che dividono i due Stati, spesso con assalti al’“arma bianca” che sono costati decine e decine di migliaia di vittime.
luppo (l’area della capitale, Addis Abeba, e il Tigrai) e altre, specie le Regioni del Sud e dell’Ovest, che presentano ancora situazioni di povertà drammatiche.
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Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Mortalità infantile nel primo anno di vita: 119 ogni mille nascite Mortalità infantile entro il quinto anno di vita: 200 ogni mille nati vivi Bambini registrati alla nascita: 39% Tasso netto iscrizione scuola primaria: 38% femmine, 53% maschi Speranza di vita alla nascita: 46 anni Prodotto nazionale lordo pro capite: 190 dollari USA Crescita annua della ricchezza nazionale (PIL) nel periodo 1990-2006: - 2,5% Accesso all’acqua potabile: 59% della popolazione (49% nelle aree rurali) Accesso a servizi igienici adeguati: 35% della popolazione (23% nelle aree rurali) Numero stimato di bambini (0-14 anni) affetti da HIV: 3.200
GUINEA BISSAU
Generalità
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Dati sull’infanzia diffusi dall’UNICEF
La Guinea Bissau è stata colonia portoghese con il nome di Guinea portoghese sino al 1974 quando ottenne l’indipendenza. Ma è il 1956 l’anno di svolta. Il 1956 è oltre che l’inizio della fine della colonizzazione anche la nascita di una realtà che sarà protagonista nel Paese sino ai giorni nostri. Stiamo parlando del Paigc (Partido Africano da Independencia da Guiné e Cabo Verde). Amilcar Cabral scrittore e fondatore del partito guidò il Paese verso una rivolta culturale. Il processo venne, però, significativamente accompagnato da un periodo di guerriglia interno. Il partito e la sua guerriglia si imposero velocemente nel Paese, in primo luogo per le caratteristiche fisiche del territorio (grandi quantità di giungle) e in secondo luogo per il presunto appoggio di Cina, Unione Sovietica e altri Stati africani che avrebbero fornito le armi ai guineiani. Si dovrà attendere sino al 1973 per la firma d’accordo definitiva. Il 24 settembre la Guinea poteva dirsi libera dal Portogallo. Nel novembre dello stesso anno si ottenne il riconoscimento ufficiale da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Il Governo del Paese venne affidato a Luis Cabral, fratello di Amilcar che rimase al potere sino al 1980 quando con un colpo di stato Joao Bernardo Vieira (primo ministro del Governo Luis Cabral) si mise al timone della Giunea Bissau. Vieira istituì un Governo provvisorio che mantenne il potere, con un consiglio rivoluzionario, fino al 1984, anno in cui fu ricostituita l’Assemblea Nazionale. “Nino” (così veniva chiamato Vieira) rimase al potere sino al 1998, anno che segna l’inizio di una sanguinosa guerra civile. Era giugno quando il generale Absumane Manè si ribellò alla sua deposizione da capo delle forze armate. Un anno di sanguinosa guer-
Nome completo:
Repubblica di Guinea-Bissau
Lingue principali:
Portoghese
Capitale:
Bissau
Popolazione:
1.345.479
Area:
36.120 Kmq
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Religioni:
Animista (45%), musulmana (40%)
Moneta:
Franco CFA
Principali esportazioni:
Anacardo
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Quadro generale
PIL pro capite:
Us 736
ra che portò alla fine della dittatura di Vieira. Si dovette attendere sino al febbraio del 1999 per la firma della tregua, mentre 11 mesi dopo, successivo periodo di Governo provvisorio, i cittadini vennero chiamati a eleggere un nuovo Governo: si andava al voto. Nel 2000 Kumba Ialá fu eletto Presidente. Ma la tranquillità non durò a lungo. Appena tre anni dopo un nuovo colpo di stato portò all’arresto del Presidente considerato incapace di risolvere i problemi del Paese. Nel marzo del 2004 si tennero nuove elezioni legislative. Ma il Paese non uscì dal suo stato di agitazione, tanto che nell’ottobre dello stesso anno si assistette ad un ammutinamento dell’esercito e successiva morte del capo delle forze armate. Nel 2005 le ultime elezioni e Vieira di nuovo al potere.
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Malam Bacai Sanhá (5 maggio 1947)
Ma l’anno cruciale è stato il 2009. Il 2 marzo viene assassinato Vieira. Ma non per caso. Il giorno prima, infatti, veniva altresì assassinato il capo dello Stato Maggiore Tagma Na Wai, ucciso da un ordigno dinamitardo piazzato dentro un palazzo nel quale il capo si riuniva con altri militari. Nemico acerrimo del Presidente “Nino”, Na Wai, fu uno dei fautori (faceva parte della giunta militare) della caduta del suo regime negli anni ’90. A parlare del legame dei due omicidi (i militari di Na Wai avrebbero sequestrato
e ucciso Vieira) è un funzionario del blocco dell’Africa Occidentale (Ecomas) che lo conferma all’agenzia giornalistica Reuters, appena 24 ore dopo la morte di Vieira.
I PROTAGONISTI
Nel settembre del 2009 si è insediato ufficialmente Malam Bacai Sanhá, 62 anni, nuovo Presidente della Guinea Bissau. Ex Presidente dell’Assemblea popolare nazionale (Anp, il Parlamento) dal 1994 al 1999, ed ex Presidente ad interim della Repubblica (1999-2000), Sanhá è diventato Presidente candidandosi nelle file del Partito Africano per l’Indipendenza della Guinea e Capo Verde (Paigc). Il suo insediamento è stato accolto come un momento storico dalla Guinea Bissau, che spera finalmente nella stabilità ed è stato celebrato nello stadio nazionale di Bissau il 24 settembre.
L’economia
Risulta essere uno dei venti Paesi più poveri al mondo. L’economia è basata su agricoltura e pesca. Il Paese è ricco di materie prime, come: bauxite, petrolio, fosfati che vengono sfruttate poco o nulla per mancanza di infrastrutture e soldi necessari alla loro estrazione. Una delle principali voci dell’economia del Paese è l’esportazione dell’Anacardo, circa 90 mila tonnellate l’anno.
La situazione attuale e gli ultimi sviluppi
Un Paese in mano ai signori della droga. Anni di guerra civile sono base e conseguenza di questa situazione. La Guinea Bissau è un narco stato, nel senso che è uno Stato in mano a pochi trafficanti, dall’altra parte c’è tutto il resto della popolazione. Qui, la principale preoccupazione è quella di fare da ponte, da punto di smistamento del traffico della droga dall’America Latina (ma anche dall’Asia e dal Marocco) alle grandi piazze europee. La popolazione non ha a disposizione l’acqua, da più di un quindicennio non c’è l’energia elettrica, le istituzioni sono, di fatto, inesistenti. Militari e dipendenti pubblici non vengono pagati se non due o tre volte l’anno, con la differenza che per i militari spesso si muovono “interventi d’emergenza” per pagare gli arretrati ed evitare, probabili, colpi di stato. In questa “terra di nessuno” il traffico di droga trova particolare favore. Gli attentati del 2009 generano una grave crisi nel Paese. Il comando delle Forze Armate tende a gettare acqua sul fuoco diffondendo tutta una serie di comunicati
rassicuranti. “Si ribadisce l’impegno e la determinazione ad obbedire alle istituzioni democraticamente elette” si legge in una nota. Viene istituita sin da subito una commissione di comandanti che avrà il compito di gestire la crisi. In questo clima il 28 giugno si svolge la consultazione elettorale. Da una parte Malam Bacai Sanha per il Paigc (partito al Governo) e Kumba Ialà per l’opposizione. I due raggiungono rispettivamente il 39,6% e il 29,4% dei voti: è ballottaggio. Poco meno di un mese dopo, il 26 luglio, il Paese torna a votare per scegliere il nuovo Presidente. Non ci sono scontri. Il popolo ha bisogno e voglia di ricominciare. Johan Van Hecke osservatore dell’Unione Europea conferma: “Sono state elezioni pacifiche e corrette”. Malam Bacai Sanha viene eletto Presidente. Tanto sono stati pacifici elezioni e ballottaggio tanto non lo è stato il periodo pre elettorale. Da marzo, quando sono stati uccisi Vieira e Na Wai, a giugno si sono susseguiti tutta una serie di attentati. Il 5 giugno viene addirittura ucciso uno degli undici candidati: Baciro Dabo.
La droga
Sono 200 le tonnellate di stupefacenti che ogni anno transitano per l’Africa occidentale (dati Interpol) Nel 2007 l’Unione Europea ha aperto un’agenzia per combattere il traffico di droga. Ci sono stati dei sequestri, ma nell’ordine del 5% di quanto in realtà passa per quei Paesi. Nessuna stabilità, quindi, né politica né economica: quale economia costruire su di un Paese che passa da un regime militare all’altro? Le risorse primarie ci sono, le attività produttive no.
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Per cosa si combatte
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Informazioni sulla popolazione
Un milione e trecento mila, gli abitanti. Lingua, etnia e costumi rappresentano elementi di diversità che rendono la popolazione della Guinea Bissau molto eterogenea. Il 99% della popolazione è di pelle scura, mentre l’1% è mulatta (una piccola parte è costituita da una minoranza che ha origine a Capo Verde). Pochissimi i portoghesi 0,06%. Il 90% della popolazione parla lingue etniche ma la lingua più diffusa (parlata dal 44% della popolazione) è il Kriol (creolo portoghese). Appena il 14% della popolazione, poi, parla portoghese. Per quel che riguarda il credo religioso: il 45% della popolazione è animista, il 40% musulmana, il 15% è cristiana (in prevalenza cattolici).
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Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
1822 - L’American colonization society fonda la Liberia per riportare in Africa gli ex schiavi deportati in America. 26 luglio 1847 - Viene proclama la Repubblica di Liberia. 1980 - Il sergente maggiore Samuel K.Doe prende il potere con un colpo di stato. 1989 - Charles Taylor guida l’opposizione armata contro il Governo. Comincia la guerra civile. 1996 - Viene dichiarato il cessate il fuoco. 1997 - Taylor è eletto Presidente e impone un regime autoritario e violento. 1999 - Ricomincia la guerra civile. 2003 - L’offensiva dei ribelli del Lurd (Liberiani uniti per la riconciliazione e la democrazia) costringe Taylor a fuggire in Nigeria. 18 agosto 2003 - Con gli accordi di pace di Accra viene creato un Governo di transizione. Novembre 2005 - Ellen Johnson Sirleaf è eletta Presidente della Repubblica. Giugno 2007 - Comincia il processo della Corte penale internazionale contro Taylor accusato di crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
LIBERIA
Generalità Nome completo:
Repubblica della Liberia
Lingue principali:
Inglese
Capitale:
Monrovia
Popolazione:
3.842.000
Area:
111.370 Kmq
Religioni:
Cristiana (66%), animista (19%), musulmana (15%)
Moneta:
Dollaro Liberiano
Principali esportazioni:
Cocco, caffè, legname, ferro, bauxite, oro, diamanti
PIL pro capite:
Us 1.033
traffici loschi. A Monrovia instaura un regime di terrore. La polizia speciale liberiana, che fa capo direttamente al Presidente, non ha avuto pietà con gli ex oppositori del Movimento Unito di Liberazione (Ulimo): arrestati, torturati e uccisi a centinaia. Mentre il terrore vive a Monrovia, non cessano i conflitti interetnici e le lotte tra fazioni. I membri del Governo appartenenti alla famiglia di Taylor, intanto, non perdono occasione per dimostrare la loro incompetenza nel tentavo di rilanciare un’economia distrutta dalla guerra e che vede nel miraggio dei diamanti sierraleonesi una possibilità di rilancio che, però, non si materializza. È così che i vecchi sostenitori abbandonano Taylor che, nel 2003, guadagna l’esilio da “signore della guerra”. Un esilio offerto dalla Nigeria, ma Taylor giura: “Col volere di Dio, tornerò”. I liberiani si augu-
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Da sapere
Poteva essere una storia di libertà e, invece, è stata una storia di sangue e diamanti. Già il suo nome, Liberia, definisce una comunità di “liberi uomini di colore”. Una storia che inizia nel 1822 quando in questo territorio si installano i coloni afroamericani sotto il controllo della American Colonization Society. Una terra promessa che, tuttavia, doveva essere contesa agli indigeni che in quel luogo vivevano. Il nuovo Stato aveva l’estensione superficiale delle terre controllate dalla comunità dei coloni e da coloro che ne erano stati assimilati. Gran parte della storia della Liberia è un continuo susseguirsi di scontri e tentativi, raramente coronati da successo, di una minoranza civilizzata di dominare una maggioranza considerata per tanti aspetti “inferiore”. È stata chiamata Liberia per dargli il carattere di “terra degli uomini liberi”. Uomini liberi che hanno sempre combattuto. Se all’inizio il tempo è scandito dall’affermare un principio di civiltà contro uno di inciviltà, come incivili erano ritenuti gli uomini che vi abitavano, poi è diventato uno scontro per accaparrarsi i diamanti della vicina Sierra Leone. Negli ultimi vent’anni i focolai di conflitto hanno più volte ripreso vigore, sfociando in violenze e veri “stermini etnici”. La rivolta del 1989 ha messo fine alla violenta dittatura di Samuel Doe (capo della Armed Forces of Liberia), preparando l’avvento dell’altrettanto sanguinaria era di Charles Taylor, capo del National Patriotic Front of Liberia. Tra il 1992 e il 2002, con l’intento di conquistare le miniere di diamanti della confinante Sierra Leone, Taylor appoggia il Revolutionary United Front (Ruf) di Foday Sankoh. Al potere, Taylor, ci arriva nel 1997 dopo una lunga scia di sangue e di
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Quadro generale
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Ellen Johnson Sirleaf (Monrovia, 29 ottobre 1938)
rano, invece, che non torni più e che venga condannato per i crimini di guerra e contro l’umanità dal Tribunale Internazionale. Tutto ciò pone fine un’era sanguinaria: 200 mila morti e un milione di profughi. La Liberia ha vissuto quattordici anni di guerra civile. Devastazioni, distruzioni. Generazioni che hanno vissuto, convissuto e partecipato alla guerra. Bambini sottratti alla loro infanzia per essere spediti nei campi di battaglia. Drogati per renderli feroci e incoscienti. Menti e vite distrutte che ora debbono essere ricostruite. Gli accordi di Accra (2003), stipulati tra le fazioni ribelli del Lurd (Liberians United for Reconciliation and Democracy), quelli del Model (Movement
for Democracy in Liberia) portano ad nuovo Governo guidato da Jyude Bryant. Un Governo che regge due anni, grazie all’appoggio degli Usa e alla presenza di una forza multinazionale a mandato ONU composta da 15 mila caschi blu. Nel 2005 la Liberia comincia a intravedere una nuova luce con l’elezione della prima donna Presidente in Africa: Ellen Johnson Sirleaf.
I PROTAGONISTI
È presto per dirlo, ma il 16 gennaio 2006 potrebbe rappresentare una data storica per il Paese. Per ora lo è per l’Africa. Giura il primo Presidente donna, eletto nel novembre 2005: Ellen Johnson Sirleaf. E guarda caso nel Paese che ha vissuto una storia di sangue e orrore. Un compito difficile: traghettare il Paese verso la democrazia e lenire le ferite della guerra. Ma ciò che conta è che il Presidente sia donna. In Africa, questo, è un segnale positivo. La terra dove, ancora oggi, le donne sono messe ai margini delle decisioni e nella gerarchia familiare e, tuttavia, rappresentano l’asse portante della società. Ellen Johnson Sirleaf, 70 anni, si è laureata all’Università di Harvard, è stata ministro delle finanze sotto la presidenza di William Tolbert alla fine degli anni ‘70, prima di essere imprigionata due volte durante la successiva presidenza di Samuel Doe. Dopo aver appoggiato la rivolta di Charles Taylor contro Doe, l’ex ministro si è schierato contro il dittatore, che ha portato alla distruzione il Paese, fino a sfidarlo alle elezioni presidenziali del 1997, in cui è arrivata seconda. La Presidente liberiana vanta una lunga esperienza al servizio delle Nazioni Unite e della Banca Mondiale.
Commissione verità e riconciliazione
Il 2 luglio 2009 il Parlamento della Liberia ha ricevuto il rapporto finale della Commissione verità e riconciliazione, creata il 12 maggio 2005 per indagare le origini e le responsabilità della guerra civile. La Commissione è presieduta da Jerome Verdier, avvocato liberiano attivista dei diritti umani. Il rapporto ha stabilito che le cause principali della guerra sono state la povertà, l’accentramento del potere, le profonde diseguaglianze sociali ed economiche, la corruzione del sistema politico e giudiziario e le divisioni etniche. Per superare questi problemi la Commissione vorrebbe processare le persone sospettate di avere commesso crimini e ingiustizie e impedirgli di partecipare alla vita politica del Paese. Il testo presenta una lista di 94 soggetti che dovrebbero essere ulteriormente indagati per crimini economici. La lista comprende 54 aziende private, 19 rappresentanti di multinazionali e istituzioni statali e 21 singole persone. Il rapporto pone come priorità la lotta all’impunità e invita il Governo a dare un seguito alle sue raccomandazioni. Tra le raccomandazioni della Commissione, infine, c’è la richiesta di amnistia per i bambini coinvolti nella guerra. Per le donne e i bambini sono anche previste delle compensazioni per i danni subiti.
Dal 2005 la situazione è andata migliorando, anche se le condizioni di vita nel Paese restano precarie e le Nazioni Unite mantengono una forza di pace schierata sul campo (Unmil) per favorire il disarmo degli ex combattenti ed evitare si torni allo scontro armato. Ricostruire le strutture sociali ed economiche risulta essere processo più lungo del previsto e gli interventi sono limitati da una scarsa possibilità di muovere uomini mezzi, data la povera rete stradale. Nonostante questo, però, i 300 mila sfollati sono potuti rientrare nel Paese, reinserendosi nelle proprie terre. Si è affrontato anche il problema dei bambini soldato. Circa 12 mila di loro sono adesso regolarmente iscritti in una scuola e quasi 5 mila stanno affrontando i programmi di reinserimento sociale e familiare.
Le vittime
Nel giugno del 2007 comincia il processo della Corte penale internazionale contro Charles Taylor. Un processo pieno di colpi di scena che vede per la prima volta sul banco degli imputati un leader africano. Taylor, attraverso la sua difesa, nega ogni addebito. L’accusa sostiene che ha ricevuto dal Ruf diamanti in cambio di armi e munizioni. Incoraggiandolo, poi nella complicità degli atti di razzia, stupri, schiavitù e terrore seguiti alla presa di Freetown. In una udienza Taylor ha affermato: “Io, Charles Taylor, ho comprato armi e munizioni di pecekeeper dell’Ecomog in Liberia durante la guerra civile, anche quando stavamo combattendo contro di loro. So che può sembrare assurdo ma è vero, e non è niente di nuovo. In una situazione di conflitto è una costante”. L’ex Presidente ha così reagito alla presentazione, alla Corte, di un rapporto dell’ONU sul coinvolgimento di soldati della forza di pace africana in un traffico di armi e diamanti con i ribelli sierraleonesi del Fronte unito rivoluzionario (Ruf), di cui Taylor sarebbe stato il cervello. L’imputato, inoltre, ha negato di aver mai ricevuto diamanti da parte di Fodey Sankoh, capo del Ruf, né di aver mai dato in cambio armi.
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
La situazione attuale e gli ultimi sviluppi
Le dittature di Samuel Kanyon Doe prima e di Charles Taylor poi, con i colpi di stato che li hanno portati al potere, sono la ragione vera della lunga guerra civile liberiana. I due dittatori hanno governato appoggiandosi a pochi elementi dei loro clan familiari, puntando poi allo scontro con gli Stati vicini per impadronirsi di risorse naturali e aumentare la loro ricchezza personale. La sollevazione dei gruppi armati è motivata dal bisogno - per larga parte della popolazione - di reagire all’oppressione, al reclutamento forzato dei bambini soldato e all’assassinio indiscriminato di ogni oppositore. Gli accordi di Accra, che hanno portato all’attuale presidenza, sono stati firmati dalle fazioni ribelli puntando ad un rinnovamento del Paese. Per ora tengono, pur con le tensioni create dal permanere in molte aree della Liberia di gruppi armati pronti a scendere in campo.
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Per cosa si combatte
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La Nigeria in cifre presenta una situazione pesantissima, tanto da farne un Paese dei paradossi. Pur essendo uno dei dieci maggiori produttori di greggio al mondo, importa la quasi totalità dei carburanti di cui ha bisogno perché le tre raffinerie del Paese sono quasi sempre ferme per guasti e problemi di manutenzione. Pur presentando un Pil pro capite abbastanza elevato rispetto a tanti Paesi africani (2.162 dollari all’anno), quasi l’80% dei nigeriani vive sotto la soglia di povertà. Il Nord del Paese e la Regione del Delta (quella petrolifera) sono le più sottosviluppate e arretrate. In particolare il Sud-Est, proprio a causa dei decenni di sfruttamento del territorio dell’industria petrolifera, presenta livelli altissimi di inquinamento ambientale, al punto che l’agricoltura è stata quasi totalmente azzerata. L’aspettativa di vita nel Paese è di 44 anni, una delle più basse del mondo. E un terzo della popolazione è analfabeta.
NIGERIA
Generalità
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Economia
La Nigeria per molti aspetti è ancora lo Stato artificiale creato nel 1914 dai colonialisti inglesi. Paese federale, composto di 36 Stati e un territorio (l’area di Abuja, la capitale federale), vi abitano 250 etnie differenti, con tre gruppi dominanti: gli Hausa-Fulani in tutta la parte settentrionale, gli Yoruba nel Sud-Ovest, gli Ibo nel Sud-Est. L’estrema eterogeneità di culture, economie, storia, lingue, realtà climatico ambientali, religioni (il Nord è islamizzato in larghissima parte, il Sud è prevalentemente cristiano) rende difficile la crescita di un forte senso di identità nazionale. La sua storia post coloniale (l’indipendenza è stata ottenuta nel 1960) è costellata di tensioni e scontri etnici, e addirittura di una guerra di secessione, quella del Biafra che comportò anche la prima grande crisi umanitaria per la quale si mobilitò l’Occidente, verso la fine degli anni ‘60. I primi 40 anni della sua storia di Paese indipendente sono stati caratterizzati da una catena pressoché continua di colpi di stato e di regimi militari. Fino al 1999, quando per la prima volta, i nigeriani hanno potuto esprimere liberamente il voto, eleggendo alla guida del Paese Olusegun Obasanjo, che ha poi governato la federazione per due mandati. Alle ultime elezioni, tenutesi il 21 aprile 2007, ha vinto invece Umaru Yar’Adua, delfino dell’ex Presidente. A differenza di Obasanjo, uomo del Sud della Nigeria e cristiano, Yar’Adua è originario dello Stato di Katsina, nell’estremo Nord, ed è musulmano. Quest’ultimo voto per le presidenziali, tuttavia, è stato duramente contestato dalle opposizioni, con l’accusa di gravi brogli (espressa anche da diversi osservatori internazionali). La Nigeria è considerata uno dei giganti
Nome completo:
Repubblica Federale di Nigeria
Lingue principali:
Inglese (lingua ufficiale)
Capitale:
Abuja
Popolazione:
148.092.000
Area:
923.768 Kmq
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Religioni:
Negli Stati del Nord la popolazione è per la quasi totalità islamica; nel Centro-Sud c’è una larga maggioranza cristiana (in prevalenza protestante/evangelica), ma c’è anche una forte presenza di sette d’importazione americana e della rinascenza africana.
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Quadro generale
Moneta:
Naira
Principali esportazioni:
Petrolio (che costituisce oltre il 90% delle esportazioni), cacao, caucciù
PIL pro capite:
Us 2.162
africani, insieme al Sud Africa, non tanto per la sua forza economica, quanto per la concentrazione di popolazione (quasi 150 milioni di persone in un territorio relativamente piccolo) e per le sue riserve di greggio, per le quali si contende il posto di primo produttore africano con l’Angola. È in questi ultimi dieci anni, con l’avvento della democrazia, che sono scoppiate le principali contraddizioni del Paese. Prima delle quali la questione petrolifera: a fronte
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Ken Saro-Wiwa
(Bori, 10 ottobre 1941, Port Harcourt, 10 novembre 1995)
degli enormi introiti legati alle concessioni per l’estrazione del greggio (che costituiscono il 90% delle esportazioni), la popolazione nigeriana è in condizioni di grave povertà - quasi l’80% vive con meno di un dollaro al giorno - e, paradossalmente, è proprio la gente del Delta del Niger, l’area petrolifera del Paese, ad essere fra le più povere. La seconda grande contraddizione è legata alle tensioni religiose. Gli scontri fra cristiani e musulmani, avvenuti in particolare lungo la fascia di coabitazione nel Centro-nord del Paese, sono iniziati improvvisamente all’indomani dell’elezione del primo Presidente votato democraticamente, intorno al 2000-2001. Da allora vi sono stati ricorrenti
momenti di forte tensione che hanno provocato anche migliaia di vittime. Tensioni religiose che, dopo decenni di pacifica e tollerante convivenza fra cristiani e musulmani, sembrano essere state utilizzate più come elemento strumentale di pressione politica che come reale scontro di fedi. Il terzo grande problema del Paese è l’inurbazione selvaggia, che ha creato enormi caotiche megalopoli. Prima fra tutte Lagos, capitale commerciale della Nigeria, che si stima sia poco al di sotto dei 20 milioni di abitanti. Problema che non riguarda solo l’estrema povertà delle periferie urbane, ma anche i livelli di criminalità cresciuti a livelli preoccupanti.
I PROTAGONISTI
Ken Saro-Wiwa, scrittore e attivista per la tutela dei diritti umani, è stato uno degli intellettuali più significativi dell’Africa post coloniale. Sul versante del suo impegno politico è diventato un punto di riferimento per le popolazioni del Delta e in particolare per l’etnia Ogoni fin dagli anni ‘80. A partire dal 1990, quando promuove la nascita del Mosop (Movimento per la Sopravvivenza del Popolo Ogoni), la sua battaglia civile riscuote attenzione e solidarietà internazionale crescente. La Nigeria, però, è sotto dittatura militare, e quattro anni dopo Saro-Wiwa e altri 8 attivisti del movimento vengono arrestati con l’accusa di incitamento all’omicidio e dopo un rapido processo-farsa vengono condannati a morte e impiccati nella città di Port Harcourt. Un assassinio che ha suscitato vivaci e sdegnate reazioni in tutto il mondo. Nel maggio 2009, per l’omicidio dei nove attivisti del Mosop, è stato intentato un processo nei confronti della compagnia petrolifera Shell, con l’accusa di coinvolgimento nella vicenda. La Shell ha subito patteggiato pagando un risarcimento di 15,5 milioni di dollari, precisando che aveva accettato di versare l’ingente cifra non perché colpevole ma per tentare di aiutare il processo di riconciliazione nel Delta del Niger.
Amina e le altre
Hanno fatto il giro del mondo le storie di Safiya Husseini e di Amina Lawal, le due donne nigeriane condannate inizialmente alla lapidazione in applicazione alla sharia, la legge islamica adottata in molti degli Stati del Nord della Nigeria. Entrambe erano state poste sotto accusa per adulterio, e la loro vicenda processuale aveva mobilitato l’opinione pubblica occidentale e attirato l’attenzione dei media internazionali. In entrambi i casi i processi condotti dai Tribunali islamici hanno infine portato ad altrettante assoluzioni nel giudizio di secondo grado. Si sa che Safiya in seguito si trasferì dal Nord islamico al Sud della Nigeria. Nulla si è saputo, invece, della storia successiva di Amina.
Da anni il problema numero uno del Paese è la guerriglia ricorrente messa in atto nella Regione del Delta del Niger, la cassaforte petrolifera nigeriana. Gli atti di sabotaggio, i sequestri di persona e gli attentati alle piattaforme, agli oleodotti e al personale delle compagnie petrolifere occidentali sono una costante. Una guerriglia che in certi periodi sembra scemare per poi riprendere nuovamente con vigore. Nel passato, molti sabotaggi erano messi in atto allo scopo di trafugare greggio da contrabbandare oltre confine, specie in Camerun (in media viene “perduto” dalle compagnie dall’8 al 10% del petrolio estratto, una quantità impressionante), così come i sequestri erano messi in atto a scopo di estorsione. La situazione sembra essere cambiata da quando ha fatto la sua comparsa, nel 2006,
una nuova sigla di ribelli del Delta, il Mend (un acronimo che significa Movimento per l’Emancipazione del Delta del Niger), che fin dalla sua nascita ha dato una connotazione molto più ideologica alla propria causa. Il Mend ha letteralmente dichiarato guerra alle compagnie straniere, sostenendo che darà battaglia fino a far terminare l’esportazione dell’ultimo barile di greggio. Niente più richieste di riscatto, quindi, né forme di intimidazione allo scopo di ottenere denaro - così dichiarano i portavoce del movimento - ma guerriglia per ottenere giustizia, ossia adeguati benefici per la popolazione del Delta del Niger, che pur “galleggiando” sul petrolio, vive in condizioni di estrema povertà e ha subito le peggiori conseguenze del disastro ambientale dovuto alla presenza dei pozzi e delle attività estrattive.
L’Eni in Nigeria
La presenza dell’Eni, la compagnia petrolifera italiana, in Nigeria e in particolare nel Delta è piuttosto significativa. La sua attività estrattiva si aggira intorno ai 150 mila barili di greggio al giorno. L’Eni è stata più volte oggetto di attacchi da parte dei gruppi ribelli nigeriani, anche con sequestri di persona dei propri dipendenti. Nel 2007 l’allora Governo Prodi aveva avviato anche un’inchiesta ministeriale per accertare eventuali responsabilità della nostra compagnia rispetto alla situazione di pesante inquinamento e degrado ambientale della regione del Delta. Dell’indagine non si è saputo più nulla.
La situazione attuale e gli ultimi sviluppi
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Per cosa si combatte
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La situazione di costante instabilità e insicurezza della Regione del Delta ha portato negli ultimi anni a una riduzione d’interesse e d’investimento di alcune compagnie petrolifere. Inoltre, nei momenti di più intensa attività di guerriglia dei gruppi ribelli vi sono state anche soste forzate di alcuni impianti d’estrazione. Tutto ciò ha comportato una minore crescita dell’attività estrattiva in Nigeria rispetto all’Angola, al punto che è riuscita addirittura a superarla nella classifica del greggio estratto in un anno. Quanto all’attività dei ribelli, di fronte al forte intervento repressivo del Governo, il Mend aveva dichiarato all’inizio dell’estate del 2009 una tregua unilaterale, della quale ha annunciato la scadenza per il 15 ottobre
2009. “Il Mend - ha dichiarato il suo portavoce Jomo Gbomo (nome di copertura, non se ne conosce l’identità) - riprenderà con gli attacchi contro l’industria petrolifera allo scadere del ‘cessate il fuoco’. Il Mend ritiene che questa prossima fase della nostra lotta sarà molto dura, abbiamo l’intenzione di porre fine, una volta per tutte, a 50 anni di schiavitù del popolo del Delta del Niger”. Sul versante degli scontri di matrice religiosa, le ultime due ondate di violenza si sono verificate nel novembre 2008 e nel febbraio 2009, rispettivamente nelle città di Jos e di Bauchi, nel Nord-Est della Nigeria.
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Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Nel 2006 e nel 2007 il conflitto fra militari e vari gruppi ribelli ha causato la fuga di civili da numerosi villaggi, regolarmente attaccati. In molti vivono ancora nella boscaglia, in condizioni difficili, senza poter coltivare le loro terre e con la paura di essere nuovamente oggetto di violenze. E nel giugno 2009 sono riprese le tensioni nel Nord della Repubblica Centrafricana che si prepara alla elezioni del 2010. Secondo i dati forniti dall’ufficio dell’ONU per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha) nel Paese ci sono circa 126.600 sfollati interni e oltre 138 mila rifugiati in Ciad, in Sudan e in Camerun. Nella zona, una delle Regioni più povere del mondo, è presente un contingente delle Nazioni Unite, la Minurcat, dispiegato anche dal lato ciadiano del confine, il cui mandato prevede proprio il ripristino delle condizioni di sicurezza a scopo umanitario. Il contingente, tuttavia, non ha ancora raggiunto la metà dei suoi effettivi. 5.500 uomini.
REPUBBLICA
CENTRO AFRICANA
Generalità
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Migliaia di sfollati e di rifugiati
Storia di schiavi, colpi di stato e imperatori. Questa è la Repubblica Centrafricana. Una terra abitata da tempi antichissimi: vari ritrovamenti testimoniano l’esistenza di antiche civiltà anteriori alla nascita dell’impero egizio. Terra contesa tra vari sultanati che utilizzavano l’attuale Repubblica Centrafricana come una grande riserva di schiavi, dalla quale venivano trasportati e venduti nel Nord Africa attraverso il Sahara, soprattutto al mercato del Cairo. La nascita della Repubblica è stata fortemente voluta da Berthelemy Boganda, un prete cattolico leader del Movimento d’evoluzione sociale dell’Afria nera, il primo partito politico del Paese. Boganda governa fino al 1959 quando muore in un misterioso incidente aereo. Gli succede suo cugino David Dacko che nel 1962 impone un regime monopartitico. Inizia una lunga storia di colpi di stato. Il primo ai danni di Dacko e del colonnello Jean Bedel Bokassa, che sospende la Costituzione e scioglie il parlamento. La follia di Bokassa arriva al punto di autoproclamarsi Presidente a vita nel 1972 e imperatore del risorto Impero Centrafricano nel 1976. Un impero di follia e povertà per la gente. La Francia, ex potenza coloniale, decreta la fine di Bokassa nel 1979 e restaura la presidenza di Dacko, con un altro colpo di stato. Nel 1981 il generale Andrè Kolimba prende il potere. Pressioni internazionali costringono il dittatore a convocare elezioni nel 1993 che vengono vinte da Ange-Felix Patassè. Il neo Presidente dà vita ad una serie di epurazioni negli apparati statali. Promulga una nuova Costituzione nel 1994, ma le forti tensioni sociali sfociano in rivolte popolari e violenze interetniche. Nel 1997 vengono firmati gli accordi di pace che portano al
Nome completo:
Repubblica Centrafricana
Lingue principali:
Francese
Capitale:
Bangui
Popolazione:
3.683.538
Area:
622.984 Kmq
51
Religioni:
Cristiana (51%), animista (34%), musulmana (15%)
Moneta:
Franco CFA
Principali esportazioni:
Cotone, caffè, minerali, diamanti
46° Parallelo
Quadro generale
PIL pro capite:
Us 1.128
UNHCR/H. Caux
dispiegamento di una forza di interposizione composta da forze militari di diversi Paesi africani. Poi arriva il turno dell’ONU. Di nuovo alle urne nel 1999, Patassè vince, ma ormai le tensioni sono fuori controllo. Il Paese diventa una sorta di terra di nessuno dove le forze militari e ribelli razziano e rapinano la popolazione. Terreno fertile per un ennesimo colpo di stato, nel 2003, che porta al potere il generale Francois Bozizè, che poi vince le elezioni nel 2005, elezioni ritenute valide dalla comunità internazionale. Patassè, nel frattempo, è riparato in Togo. Oggi è pronto a rientrare per presentarsi alle prossime elezioni presidenziali e legislative del 2010. Nell’intento di garantire a questo importante appuntamento elettorale il massimo della trasparenza, la Corte Costituzionale del Paese ha approvato nel mese di giugno
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Jean Bedel Bokassa (Bobangi, 22 febbraio 1921 Bangui, 3 novembre 1996)
2009, un nuovo Codice elettorale ed ha predisposto la nomina di una Commissione elettorale indipendente (Cei) che dovrà occuparsi alla preparazione, organizzazione e supervisione delle elezioni presidenziali, legislative, regionali e municipali che si terranno l’anno prossimo. La Cei si è ufficialmente insediata nel mese di ottobre 2009, è composta da 31 membri, un Presidente, oltre alle personalità ‘neutrali’ elette dai membri della Coordinamento nazionale. Il Paese, nonostante il livello di povertà estrema, è ricco di diamanti, uranio, oro e ferro. Ma l’industria mineraria è poco sviluppata e l’economia nazionale versa in condizione di grave arretratezza. Nel mese di settembre 2009, per aiutare il Paese ad uscire dalla crisi, il Club di Parigi ha annullato alla Repubblica Centrafricana un’altra trance di debito, pari a 55,6 milioni di dollari. Con questa nuova cancellazione il debito del Paese nei confronti del Club di Parigi è ridotto a poco meno di 4 milioni di dollari.
UNHCR/H. Caux
Violazione dei diritti umani
Secondo il Rapporto Annuale (2009) di Amnesty International, nella Repubblica Centrafricana sarebbero decine gli uomini, le donne e i bambini rapiti da membri di gruppi armati ribelli. Moltissime donne e ragazze adolescenti hanno subito stupri e maltrattamenti di ogni genere. Secondo il rapporto anche le Forze governative e i gruppi politici armati sono responsabili dell’uccisione illegale di civili, di maltrattamenti, di detenzioni illegali e arresti arbitrari. Alcuni attivisti per i diritti umani e un giornalista sono stati, secondo Amnesty International, minacciati o detenuti per aver svolto le loro attività professionali.
I PROTAGONISTI
Jean Bedel Bokassa è stato uno dei dittatori più bizzarri e sanguinari dell’Africa, oltre che cannibale. Bokassa ha servito la Francia nella resistenza contro l’occupazione nazista durante la seconda guerra mondiale. Tornato in patria sale al potere con un colpo di stato nel 1966, poi si autoproclama Presidente a vita nel 1972 e cinque anni più tardi “Imperatore del Centrafrica, apostolo della pace e servitore di Cristo”. Sotto la sua gestione la Repubblica Centrafricana ha conosciuto una delle tirannie più feroci della storia. La cerimonia di incoronazione è costata, in uno dei Paesi più poveri dell’Africa, 20 milioni di dollari. La parabola di Bokassa conosce la fine nel 1979 quando viene deposto, con l’aiuto dei francesi, da suo cugino Dacko e ripara in un “esilio forzato”. Con l’avvento di Kolimba fa ritorno nel Paese, dove viene processato e dichiarato colpevole di alto tradimento, di assassinio e di cannibalismo. Durante il processo viene accusato di essersi cibato della carne dei suoi oppositori, di cui si diceva amava conservare la testa nel frigorifero. Fu condannato a morte, condanna poi tramutata in carcere a vita. Bokassa muore nel 1996 nel più totale anonimato.
La Repubblica Centrafricana non ha mai conosciuto una vera democrazia. Provata da decenni di mal governo e colpi di stato il Paese non è mai riuscito a risollevarsi. Negli ultimi anni la Repubblica Centrafricana ha dovuto poi subire le pressioni e l’instabilità causate dalle vicende politiche degli stati confinanti, dal Ciad al Sudan che hanno innegabilmente inciso nella tenuta interna del Paese, totalmente impreparato a ricevere le ondate di profughi in fuga da altri teatri di guerra. L’insicurezza e il pericolo, oltre ad una rete inesistente di strade per lo più disastrate, hanno impedito alle agenzie umanitarie di raggiungere le zone colpite dai combattimenti, in particolare nel Nord-Est, e di portare sostegno alle popolazioni. Non da ultimo la criminalità fuori controllo e il traffico clandestino di diamanti (è la seconda voce nelle esportazioni del Paese) contribuiscono ad aumentare la già drammatica situazione interna della Repubblica Centraficana.
La situazione attuale e gli ultimi sviluppi
L’agosto del 2009 è il mese che ha segnato l’inizio del programma di disarmo e di reinserimento che riguarda gli ex ribelli dell’Esercito Popolare per il Ripristino della Democrazia
(Aprd). L’Aprd, una delle principali formazioni ribelli attive soprattutto nel Nord del Paese, ha firmato un accordo di pace nel giugno 2008 e ha partecipato a una serie di incontri allargati (dicembre 2008) a varie anime dell’opposizione, al Governo e alla società civile. Gli incontri di dicembre sono poi sfociati nella costituzione di un Governo di coalizione cui è affidato il compito di traghettare il Paese fino alle elezioni generali in programma nel 2010. Una delle condizioni stabilite per la tenuta delle elezioni è, appunto, l’avvio del programma di disarmo degli ex ribelli e il loro reinserimento nella società. La Repubblica Centrafricana resta però un Paese instabile, sia politicamente che economicamente. Secondo il rapporto UNICEF 2009 la povertà nella Repubblica Centrafricana è “devastante” ed il conflitto armato “potrebbe essere considerato uno dei motivi principali del peggioramento della situazione umanitaria nel Paese”. Tra il maggio e il giugno del 2009 sono ripresi gli scontri tra soldati e ribelli del Nord del Paese mentre i civili sono costretti alla fuga. Secondo le stime di “Medici senza Frontiere” sarebbero almeno 8 mila gli abitanti della Regione di Kabo e Moyen Sido che si sono rifugiati nella foresta.
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Per cosa si combatte
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UNHCR/H. Caux
700 mila bambini al limite della sopravvivenza
Il tasso di malnutrizione infantile, nella Repubblica Centrafricana, ha superato la soglia di emergenza. L’UNICEF ha lanciato l’allarme sostenendo che sono almeno 700 mila i bambini con meno di cinque anni al limite della sopravvivenza. La malnutrizione in questo Paese è strettamente legata all’estrema povertà dello stesso, dove almeno il 60% degli abitanti vive con meno di 1,25 dollari al giorno, ma è legata anche al conflitto che per anni ha scosso la zona Nord del Paese e all’insicurezza provocata dai rallentamenti registrati negli ultimi mesi nel settore minerario a causa della crisi internazionale.
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Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Mortalità infantile entro il primo anno di vita: 129 ogni mille nascite Mortalità infantile entro il 5° anno di vita: 205 ogni mille nati vivi Bambini registrati alla nascita: 34% Tasso di alfabetismo giovani (15-24 anni): 63% femmine, 78% maschi Speranza di vita alla nascita: 46 anni Prodotto nazionale lordo pro capite: 130 dollari USA Crescita annua della ricchezza nazionale (PIL) nel periodo 1990-2006: - 4,7% Accesso all’acqua potabile: 46% della popolazione (29% nelle aree rurali) Accesso a servizi igienici: 30% della popolazione (25% nelle aree rurali)
REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL
CONGO
Generalità Nome completo:
Repubblica Democratica del Congo
Lingue principali:
Francese, lingala, kiswahili, kikongo, tshiluba
Capitale:
Kinshasa
Popolazione:
62.6 milioni
Area:
2.34 milioni kmq
Religioni:
Cristiana, musulmana
Moneta:
Franco congolese
Principali esportazioni:
Diamanti, rame, caffè, cobalto, petrolio greggio
PIL pro capite:
US 140
sollevazione dei ribelli contro Mobutu. Nel 1996, capeggiati da Laurent Kabila e armati da Uganda e Ruanda i ribelli occupano la capitale, Kinshasa e insediano lo stesso Kabila come Presidente. Lo Zaire torna ad essere Repubblica Democratica del Congo e Mobutu fugge in Marocco dove morirà, lasciandosi alle spalle un Paese ridotto al collasso economico e investito da un conflitto senza precedenti che coinvolge Paesi vicini e che, per la vastità del territorio coinvolto e il numero impressionante di vittime è stato ribattezzato ‘Guerra Mondiale Africana’. Il nuovo Governo non è diverso dal precedente e gli stessi Paesi che avevano contribuito a designare Kabila, decidono di rovesciarlo sostenendo le azioni di gruppi ribelli in un Paese ormai completamente
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Dati sull’infanzia diffusi dall’Unicef
La storia della Repubblica Democratica del Congo, dei suoi violenti e infiniti conflitti e delle sue drammatiche crisi umanitarie, è legata alla lotta per il controllo delle sue immense risorse naturali. Una lotta che inizia nel 1885 con la colonizzazione belga, quando i primi giacimenti di diamanti vennero scoperti e che continua ancora oggi. Il 30 giugno 1960, è Patrice Lumumba a diventare il primo ministro della neonata Repubblica Democratica del Congo. Protagonista della lotta per l’indipendenza dal Belgio, Lumumba mirava ad un affrancamento completo dall’ex potenza coloniale che manteneva ancora molti suoi soldati nei quadri dell’esercito congolese. Lumumba venne sequestrato e ucciso dalle truppe dell’esercito rimaste fedeli, dopo un ammutinamento, al capo di stato maggiore Joseph Mobutu. Dopo aver riorganizzato l’esercito, Mobutu capeggia nel 1965 il colpo di stato contro Joseph Kasavubu, primo Presidente della nuova Repubblica, instaurando un lungo regime autoritario a partito unico. Mobutu cambia il nome del Paese in Zaire e il suo in Mobutu Sese Seko. La corruzione e le violenze dilagano e in piena guerra fredda, Mobutu si guadagna l’appoggio internazionale degli Stati Uniti e di molti Governi occidentali, combattendo contro la vicina Angola, sostenuta dall’Unione Sovietica. Nel 1994, un’ondata di migliaia di profughi disperati, ruandesi e burundesi, scappa dal vicino Ruanda dove è in corso il genocidio e si rifugia nella Regione congolese del Kivu. Il Paese è ulteriormente destabilizzato e si creano le condizioni ideali per una nuova
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Quadro generale
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Thomas Lubanga Dyilo (Djiba, 29 dicembre 1960)
destabilizzato. Nel 1998 esplode la guerra civile, ancora in corso nella Repubblica Democratica del Congo. Sul campo si combattono da una parte le truppe di Ruanda, Burundi e Uganda a sostegno dei ribelli tutsi del Raggruppamento Congolese per la Democrazia (Rcd) e del Movimento di Liberazione del Congo (Mic); dall’altra le truppe di Zimbabwe, Namibia e Angola che combattono a fianco del Presidente Kabila. Nel gennaio del 2001 Laurent Kabila viene assassinato, ma gli scontri continuano. Al suo posto viene designato il figlio Joseph Kabila, che imposta da subito i negoziati
per arrivare alla firma degli accordi di pace nel 2003. Si insedia così un nuovo Governo di transizione che mette fine alle ostilità e che porta al ritiro degli eserciti stranieri alleati del Governo: Angola, Namibia e Zimbabwe e di quelli che sostenevano i ribelli: Ruanda e Uganda.
I PROTAGONISTI
È un militare della Repubblica Democratica del Congo. Fondatore e capo del gruppo dei ribelli dell’Unione dei Patrioti Congolesi e dell’ala militare del gruppo, le Forze Patriottiche per la Liberazione del Congo (Fplc), è accusato di ripetute violazioni dei diritti umani contro i civili, stupri, torture, massacri. È stato arrestato il 10 febbraio del 2006 e il suo processo alla Corte Penale Internazionale dell’Aja, dove è tuttora detenuto, è cominciato il 26 gennaio 2009. Il capo d’accusa è di aver arruolato e utilizzato minori di 15 anni nei combattimenti in Congo tra il 2002 e il 2003. Secondo le testimonianze raccolte tra i bambini-soldato, molti sono stati prelevati a forza mentre erano a scuola. Ai giudici Lubanga ha dichiarato la propria innocenza.
Il contingente ONU Monuc
I soldati impegnati nella missione internazionale dell’ONU in Congo Monuc (Mission de l’ Organisation des Nations Unies en République démocratique du Congo) sono 16475. Ne fanno parte soldati del Bangladesh, Benin, Bolivia, China, Ghana, Guatemala, India, Indonesia, Giordania, Malati, Morocco, Nepal, Pakistan, Senegal, Serbia, Sudafrica, Tunisia, Uruguay. Alla missione collaborano 562 volontari dell’ONU provenienti da tutto il mondo. Le vittime tra i peacekeepers dall’inizio della missione, nel 2000, ad oggi sono state 83. Ma la missione è considerata da molti fallimentare. Non solo per l’oggettiva incapacità di gestire il territorio e di difendere la popolazione ma anche perché alcuni caschi blu sono stati sospesi con l’accusa di stupro e sfruttamento della prostituzione ai danni di alcune ragazze locali. Nel 2004, l’allora segretario generale dell’ONU Kofi Annan è stato costretto ad ammettere gli abusi.
Il Congo è uno dei Paesi più ricchi di risorse naturali di tutto il continente africano. Dispone di vasti giacimenti di coltan e cassiterite, ampiamente utilizzati nell’industria informatica e della telefonia mobile; giacimenti di diamanti, di rame, uranio, cobalto, zinco, stagno, argento, tungsteno, alluminio. La maggior parte di queste immense ricchezze si trova nelle Regioni investite dai conflitti più violenti: il Nord Kivu, il Sud Kivu e il Katanga. Il legame tra i conflitti in corso e lo sfruttamento di queste risorse è stato accertato dall’ONU che, prima nel maggio del 2001 e poi nell’ottobre del 2002, ha pubblicato due dossier nei quali si accusano le multinazionali occidentali attive sul territorio congolese di sfruttare le risorse “favorendo il prosieguo della guerra”. Nei due rapporti viene stilata una lista dettagliata
delle compagnie e dei singoli individui, responsabili di avere alimentato il conflitto attraverso lo sfruttamento delle risorse, che sono anche la principale fonte di finanziamento dei gruppi armati ribelli, i quali controllano i giacimenti e utilizzano i proventi della vendita dei minerali per pagare i soldati e acquistare nuove armi. “Le grandi multinazionali minerarie - si legge nel rapporto dell’ONU - sono state il motore del conflitto ancora in corso, e hanno preparato il terreno per le attività illegali e criminali di estrazione nella Repubblica Democratica del Congo. I Governi dei Paesi dove hanno sede gli individui, le compagnie e le istituzioni finanziarie, coinvolte nelle attività, dovrebbero assumere la loro parte di responsabilità, anche cambiando la propria legislazione nazionale e investigando”.
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Per cosa si combatte
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La situazione attuale e gli ultimi sviluppi
Le armi
È stata Amnesty International con il rapporto dal titolo “Repubblica democratica del Congo: armare l’Est” a tracciare il lungo percorso delle armi che illegalmente entrano nel Paese africano. Secondo l’associazione, grandi quantità di armi e di munizioni partono dai Balcani e dall’Europa dell’Est dirette verso la Regione africana dei Grandi Laghi. Nel rapporto Amnesty parla in particolare di “venditori di armi, intermediari e imprese di trasporto di numerosi Paesi, quali l’Albania, la Bosnia-Erzegovina, la Croazia, la Repubblica ceca, Israele, la Russia, la Serbia, l’Africa meridionale, il Regno Unito e gli Stati Uniti”.
Joseph Kabila è stato confermato Presidente nel dicembre del 2006 con le prime elezioni democratiche della storia del Paese ma la guerra nell’Est del Paese non si è ancora conclusa. Ancora diversi gruppi armati non hanno infatti aderito al disarmo deciso dopo gli accordi di pace e continuano a sferrare attacchi contro l’esercito, i civili e il contingente della missione ONU. Tra questi ci sono anche i ribelli guidati da Laurent Nkunda, arrestato nel 2006, che dal 2004 ha aperto un violento conflitto con le forze governative nel Nord Kivu e nel Sud Kivu. Conflitto che è riesploso nella Regione congolese del Kivu nonostante la firma nel 2008, di un nuovo trattato di pace. Un ulteriore protagonista della destabilizzazione è il gruppo ribelle di ugandesi del Lra (Lord’s Resistance Army) che dalle loro basi nel Sud del Sudan entrano nel Congo settentrionale, colpendo ripetutamente la popolazione stremata. Secondo le stime
delle Nazioni Unite le vittime di queste incursioni sarebbero oltre 900. Secondo i dati diffusi dall’Unicef dal 1998 ad oggi i morti sono stati oltre 5 milioni, il prezzo più alto in vite umane mai pagato dalla seconda guerra mondiale. La quasi totalità delle vittime sono civili, la metà sono bambini. Si muore a causa dei combattimenti, per fame, malattie, mancanza d’acqua potabile e di ogni tipo d’assistenza medica e sociale. La gravità della crisi tuttora in corso ha fatto decidere per la proroga fino al 31 dicembre del 2009 della missione Monuc dell’ONU nella Repubblica Democratica del Congo. Il 26 gennaio 2009 si è aperto alla Corte penale internazionale il primo processo della storia per il reato di arruolamento di minori di 15 anni nella guerra combattuta nel 2000 nel ricco distretto congolese dell’Ituri. L’imputato è Thomas Lubanga, ex capo dei ribelli dell’Unione dei patrioti congolesi.
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Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Il muro
È una impressionante opera militare, fatta di bunker, postazioni fortificate, campi minati e sistemi di sorveglianza elettronici di oltre 2.200 km, ed un’altezza di 5 metri: da una parte “le Provincie sahariane”, ovvero i territori sotto controllo del Marocco (poco meno del 70% dell’intero Sahara Occidentale), chiamati “territori occupati” dal Fronte Polisario; dall’altra le “zone o territori liberati”. Secondo le stime al Governo del Marocco il mantenimento del “muro” costa circa un 1 milione di dollari al giorno.
SAHARA OCCIDENTALE
Generalità Nome completo:
Repubblica Araba Saharawi Democratica (RASD)
Lingue principali:
Hassaniya, spagnolo
Capitale:
El Ayun
Popolazione:
circa 1 milione
Area:
circa 280.000 Kmq
Religioni:
Islamica Sunnita
Moneta:
Dinaro algerino nei campi profughi, Dirham marocchino nei territori occupati
Principali esportazioni:
Fosfati, pesca, petrolio e probabilmente ferro e uranio
PIL pro capite:
n.d.
co e la Mauritania. I tre Paesi decidono di spaccare il territorio del Sahara Occidentale fra il Marocco e la Mauritania, evitando di dare l’indipendenza ai Saharawi. Nel 1976 il Fronte Polisario proclama la Rasd, Repubblica Araba Saharawi Democratica, ma l’annessione illegale del territorio da il via alla guerra fra Marocco e Mauritania, per il controllo del territorio. Decine di migliaia di Saharawi fuggono sotto i bombardamenti al napalm del Marocco. L’aggressione investì sia il Nord che il Sud del Paese facendo fuggire i Saharawi verso Est, in Algeria appunto, dove è stato concesso loro asilo politico. Il rientro nelle loro terre viene reso ancora più difficile dalla costruzione da parte del Marocco, a
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Le mine
La guerra silenziosa è delle mine antiuomo e anticarro (in gran parte di fabbricazione italiana) che l’esercito marocchino e quello mauritano hanno disseminato in tutto il territorio. La fascia di cariche esplosive che accompagna tutta la lunghezza del muro è considerata come una delle più alte concentrazioni di mine nel mondo. Alcuni caschi blu dell’ONU sono rimasti feriti, la Minurso (United Nation Mission for the Referendum in Western Sahara) stessa segnala casi di vittime civili. Lo sminamento è tuttavia solo parziale.
Il Sahara Occidentale comprende le Regioni di Saquia el Hamra al Nord e Rio de Oro al Sud, 284 mila Kmq. Confina con il Marocco, l’Algeria, la Mauritania e l’Oceano Atlantico. È uno dei territori più ostili alla vita dell’uomo in tutto il pianeta. Aride distese di rocce e dune di sabbia sono solcate da piccoli wadi (letti di fiumi) nei quali si accumula quel po’ di acqua che non riesce mai a raggiungere il mare a causa della rapida evaporazione. Il Sahara Occidentale, già colonia spagnola, è l’ultima colonia africana ancora in attesa dell’indipendenza: al dominio spagnolo, infatti, nel 1975 si è sostituito quello di Marocco e Mauritania, che hanno invaso il territorio. La maggior parte della popolazione è fuggita in Algeria dove, da allora, vive nei campi profughi. In pratica, la questione del Sahara Occidentale è un caso di decolonizzazione mancata. Il popolo Saharawi è privato dal 1975 del suo diritto all’autodeterminazione. Lo dimostrano le tappe di questo conflitto. Il 6 ottobre 1975, il re del Marocco dà il benestare alla “marcia verde”, attraverso la quale 350 mila marocchini avanzano verso il Sahara occidentale con l’ obiettivo di conquista del territorio. Il 31 Ottobre 1975 inizia l’invasione marocchina nella zona orientale del Sahara occidentale. La Spagna intanto si ritira e il 2 Novembre Madrid riafferma il proprio supporto all’autodeterminazione della gente Saharawi, allineandosi agli impegni internazionali assunti. Con il ritiro della Spagna, alla fine del 1975 il Polisario (movimento di liberazione che dal 1973 lotta per l’indipendenza) sembra sul punto di guadagnare l’indipendenza. Ma con trattative separate e segrete, Madrid firma un accordo clandestino con il Maroc-
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Aminatou Haidar (El Aaiun, 1967)
partire dal 1980, di sei muri elettrificati. Nel 1984, l’Organizzazione degli Stati Africani ammette come Stato membro, la Rasd, negando di fatto valore giuridico agli accordi fra Spagna, Mauritania e Marocco Nel 1991, dopo 18 anni di guerra, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha approvato il Piano di Pace. Dal 6 settembre 1996 la Missione delle Nazioni Unite per il Referendum nel Sahara Occidentale, Minurso, ha sorvegliato il rispetto del cessate il fuoco e ha organizzato il referendum di autodeterminazione che è rimasto solo sulla carta, a causa dell’opposizione del Marocco. Sempre l’ONU, in una decisione specifica sul Sahara Occidentale, trasmessa da Hans Corell, Segretario Generale Aggiunto per gli Affari Giuridici, al Presidente del Consiglio di Sicurezza in data 29 gennaio 2002,
dichiara: “Gli Accordi di Madrid non hanno significato in alcun modo un trasferimento di sovranità sul territorio, né hanno concesso ad alcuno dei firmatari lo status di potenza amministrante, dato che la Spagna non poteva concederlo unilateralmente. Il trasferimento di potere amministrativo sul territorio nel 1975 non riguarda il suo status internazionale, in quanto territorio non autonomo”. La continuazione dello status quo rischia di condurre ad una repressione sempre più brutale nelle zone occupate e ad un ritorno alle ostilità. Molti giovani ed anziani parlano apertamente della necessità, per sbloccare l’empasse, di ricorrere alle armi o ad atti di terrorismo che sino ad oggi non sono stati parte della strategia saharawi.
I PROTAGONISTI
Aminatou Haidar, leader del movimento per il rispetto dei diritti umani nel Sahara Occidentale, è portatrice di un appello affinché l’ONU faccia rispettare i diritti umani nei territori del Sahara Occidentale occupati dal Marocco, e consenta ai Saharawi di esprimersi liberamente sul proprio futuro. È stata ripetutamente arrestata dalle autorità marocchine nel corso della sua lunga militanza per la libertà e il rispetto dei diritti umani. La prima volta nel 1987, a vent’anni, durante una visita nel territorio saharawi della Commissione ONU che si recava sul posto per organizzare il referendum. Ha continuato il suo impegno fino a diventare un simbolo della lotta per la libertà e il rispetto dei diritti umani in tutto il mondo. Ha ricevuto il Premio Kennedy, è stata candidata per il prestigioso Premio Sakharov, ha ricevuto il premio Juan Maria Bandres per la difesa del diritto di asilo e la solidarietà con i profughi che le è stato conferito alla fine del 2005 dalla Commissione spagnola di aiuto ai rifugiati (Cear). Nel 2006 ha ricevuto la cittadinanza onoraria della città di Napoli.
La Camera, premesso che: - il protrarsi del conflitto, ormai più che trentennale, nel Sahara occidentale obbliga all’esilio tanti saharawi, mentre la popolazione che vive nei territori occupati dal Regno del Marocco è vittima di inammissibili violazioni dei propri diritti umani; - l’Onu, nel corso degli anni, mediante risoluzioni ha riaffermato più volte il diritto all’autodeterminazione del popolo saharawi (omississis) che non può che avvenire mediante un libero referendum per l’autodeterminazione. (omissis) Impegna il Governo: - a mettere in pratica ogni iniziativa per giungere ad una soluzione condivisa e definitiva del conflitto nel Sahara occidentale (omissis); - ad adoperarsi affinché abbia termine il dramma umanitario che il popolo saharawi vive da più di trent’anni in violazione dei propri fondamentali diritti umani; a riconoscere alla rappresentanza in Italia del Fronte Polisario lo status diplomatico, come è stato fatto in passato per altri movimenti di liberazione riconosciuti dall’ONU come interlocutori ufficiali in processi di pace; - ad assumere iniziative volte a conseguire la soluzione del conflitto mediante la piena accettazione delle parti del principio del diritto all’autodeterminazione del popolo saharawi, senza presupporre, in nessun caso, alcun diritto di sovranità del Regno del Marocco sul Sahara Occidentale finché non si sia pronunciato, mediante referendum, liberamente e democraticamente il popolo saharawi.
La situazione attuale e gli ultimi sviluppi
RASD
La Rasd nasce il 27 febbraio 1976 pochi mesi dopo l’inizio dell’invasione. Dopo trent’anni il conflitto non è ancora terminato. Le armi tacciono dall’11 novembre 1991, eppure la guerra continua, non solo sotto altre forme. Chi rimane muto sono i mezzi di comunicazione che ignorano la guerra in corso. E’ diventata pertanto una guerra nascosta, dimenticata.
tale, costituite da grandi quantità di fosfati e abbondantissimi banchi di pesce. Molte Nazioni europee considerano illegale l’estensione al Sahara Occidentale degli accordi sulla pesca, approvati nel 2006 tra il Parlamento Europeo e il Marocco. Fortunatamente le contraddizioni europee non si applicano al campo umanitario, dove il contributo dell’Unione Europea è decisivo per il sostentamento dei rifugiati.
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Mozione parlamentare in favore del popolo Saharawi del 12/07/07
Il Popolo Saharawi è privato del diritto fondamentale e internazionalmente riconosciuto ad avere una terra, su cui vivere in pace e libertà. Il diritto all’autodeterminazione viene negato dal Governo del Marocco, nonostante le numerose risoluzioni di condanna dell’ONU e nonostante Hans Corel, Segretario per gli Affari Giuridici dell’ONU abbia giudicato “illegale” lo sfruttamento delle risorse naturali del Sahara Occiden-
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Le origini
L’origine del Popolo Sahrawi (letteralmente “gente del deserto”) risale all’incontro fra i berberi che abitavano il deserto del Sahara e gli arabi Maqil venuti dallo Yemen nel XIII secolo. L’incontro ha portato ad un processo di fusione caratterizzato da una comune fede islamica sunnita, un’unica lingua (hassaniya) vicina all’arabo classico, con una organizzazione tribale molto particolare. Nonostante una storia passata così importante e dignitosa, al presente il Popolo Sahrawi si ritrova privato del diritto fondamentale ad avere una terra su cui vivere in pace e libertà.
Dopo trent’anni e in attesa di un referendum voluto dalla comunità internazionale, ma mai arrivato, il conflitto non è ancora terminato. Per l’ONU, il caso del Sahara Occidentale, deve essere risolto in conformità al principio dell’autodeterminazione. Le soluzioni contrarie a questo principio non hanno provocato, fino ad ora, enormi perdite umane e materiali sia per la popolazione saharawi sia per la popolazione marocchina. Nel maggio 2005 gravi scontri fra le forze di sicurezza marocchine e dimostranti saharawi danno inizio alla “seconda intifada saharawi”. La Commissione per i Diritti Umani
dell’ONU (Hcdh) ha dichiarato nel 2006, a seguito dell’invio di una delegazione nei territori occupati e nei campi di rifugiati di Tindouf, che le violazioni dei diritti umani nei confronti del Popolo Saharawi sono diretta conseguenza dal mancato riconoscimento del suo diritto fondamentale all’autodeterminazione, come sostenuto in più occasioni dalle Nazioni Unite. Nel rapporto si sottolinea che il Consiglio di Sicurezza e il Segretariato Generale, devono essere appoggiati e sostenuti dalla comunità internazionale nel cercare un soluzione politica, giusta e definitiva al conflitto ancora in corso.
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Per cosa si combatte
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Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Mortalità infantile entro il primo anno di vita: 90 ogni mille nascite Mortalità infantile entro il quinto anno di vita: 145 ogni mille nati vivi Bambini registrati alla nascita: 3% Speranza di vita alla nascita: 47 anni Prodotto nazionale lordo pro capite: 130 dollari USA Accesso all’acqua potabile: 29% della popolazione (27% nelle aree rurali) Accesso a servizi igienici adeguati: 26% della popolazione (14% nelle aree rurali) Numero stimato di bambini (0-14 anni) affetti da HIV: 4.500
SOMALIA
Generalità
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Dati sull’infanzia diffusi dall’UNICEF
L’unico Paese al mondo che da quasi 20 anni vive in una situazione di conflitto continuo e senza una vera autorità nazionale che abbia il controllo del territorio, quel Paese è la Somalia. Volendo datare un inizio a questa situazione di conflitto permanente dobbiamo rifarci alla caduta del dittatore Siad Barre, destituito il 26 gennaio 1991. Quella che doveva essere la fine di un regime dittatoriale si è trasformata presto nella guerra fra le più lunghe e cruente dell’Africa. Per la presa del potere, i diversi clan somali si sono contesi e suddivisi il territorio e il controllo su di esso a colpi di Kalashnikov e di Tecnica, l’arma somala per eccellenza, il mitragliatore montato sul cassone aperto del Toyota Pik-Up. In realtà prima del 1991 la Somalia non aveva conosciuto lunghi periodi di pace. Dalla proclamazione dell’indipendenza del primo luglio 1960, che vede l’unificazione della Somalia dell’amministrazione fiduciaria italiana (1950-1960) e del Somaliland protettorato britannico, per nove anni aveva visto un Governo della repubblica somala legittimamente eletto. Nel 1969 Siad Barre con un colpo di stato prende il potere ed instaura il suo regime. Nel 1977 Barre muove guerra contro l’Etiopia per la Regione dell’Ogaden, Regione etiope con alta presenza di popolazione somala da sempre rivendicata dalla Somalia come propria. Il regime interno è poco tollerato, gli scontri aumentano e dal 1980 assumono il profilo di una vera e propria guerra civile. La Regione del Somaliland (ex Somalia britannica unificata nel 1960 nella Repubblica Somala) rivendica una propria autonomia fino ad arrivare alla autoproclamazione d’indipendenza del 18 maggio 1991. Molti oppositori al regime di
Nome completo:
Somalia
Lingue principali:
Somalo, arabo, italiano, inglese
Capitale:
Mogadiscio
Popolazione:
10.700.000
Area:
637.661 Kmq
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Religioni:
Musulmana (99%)
Moneta:
Scellino somalo
Principali esportazioni:
Banane, bestiame, pellame e pelli, mirra, pesce
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Quadro generale
PIL pro capite:
Us 600
Siad Barre vengono arrestati ed incarcerati, altri esiliati ed altri scappano di propria iniziativa. Dopo la caduta del regime di Siad Barre e lo scoppio degli scontri interni, la comunità internazionale decise di intervenire con l’invio di una missione ONU, la UNOSOM. Obiettivo della missione, nota anche come “Retore Hope”, era quello di creare un margine di sicurezza per l’invio di aiuti umanitari per la popolazione civile vittima da sempre dei conflitti somali. Ma la districata situazione di controllo del territorio da parte dei signori della guerra, principalmente dei due grandi oppositori di quegli anni Ali Madi e il generale Aidid, conducono la missione ONU ad un fallimento simbolicamente rappresentato dalla battaglia di Mogadiscio e dall’abbattimento dell’elicottero americano Black Hawk.
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo 46° Parallelo
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Abdullahi Yusuf Ahmed (Gaalkacyo, 15 dicembre 1934)
La Unosom si ritira nei primi mesi del 1994 a due anni dal suo primo invio. Anche l’Italia presente in Somalia con la missione IBIS si ritira il 20 marzo 1994. Gli anni successivi sono caratterizzati da una sempre maggiore frammentazione del territorio da parte dei sempre crescenti “lord war”. In questi anni la Somalia è anche la vera terra di nessuno, inesistenza di controlli frontalieri, una frammentazione territoriale e clanica gestita dal solo controllo delle armi. Questa situazione consente lo svolgimento di traffici illeciti, rifiuti dispersi in mare e sotterrati nel deserto somalo in cambio di armi, fino alla formazione di veri campi di addestramento della milizia jihadista. Intanto i diversi clan e i molti signori della guerra, sollecitati dalla comunità internazionale e dall’Unione Africana, si incontrano cercando di trovare l’accordo. Molte le conferenze di pace messe in atto, ma ogni volta si concludono con un nulla di fatto. Bisogna aspettare il 2004 per vedere, a conclusione della quattordicesima conferenza di pacificazione, la nomina di un parlamento di transizione che elegge un Presidente Abdullahi Yusuf Ahmed e un Governo Federale di Transizione (Tfg) con primo ministro Mohamed Mohalim Gedi. Il Governo e il parlamento iniziano a svolgere la loro debole e faticosa attività da Nairobi e solo a giugno 2005 entrano in Somalia, nella città di Jowhar, 90 km a Nord di Mogadiscio, prima per stabilirsi poi a Baidoa. Mogadiscio infatti è considerata ancora troppo pericolosa e nelle mani dei lord war. I tentativi di smantellamento delle diverse
milizie e le trattative per la presa di possesso reale del controllo del debole Governo di transizione producono scarsi risultati. La svolta avviene nell’estate 2006 quando gli scontri iniziati dentro Mogadiscio fra i lord war e le milizie Jihadiste somale portano queste ultime, controllate dalle Corti islamiche a scacciare i signori della guerra e a prendere il controllo della città.
Golfo di Aden
Situato nell’Oceano indiano, tra lo Yemen e la Somalia, il Golfo di Aden è uno snodo fondamentale per l’economia dell’intero pianeta. È una rotta commerciale importante per il petrolio proveniente dal Golfo Persico ed è collegato al mar Rosso tramite lo stretto di Bab el Mandeb. Ogni anno le acque del Golfo sono attraversate da migliaia di migranti somali in fuga dalla guerra su imbarcazioni di fortuna e in acque pericolosissime. Nel Golfo sono attivissimi anche i famigerati pirati somali. Solo nel 2008 i pirati hanno sequestrato circa 130, fra navi cargo e petroliere.
I PROTAGONISTI
Yusuf viene eletto Presidente del Tfg dal parlamento di transizione somalo durante una sessione tenutasi a Nairobi, Kenya il 10 ottobre 2004 come risultato della quattordicesima conferenza di pacificazione. Già Presidente della Regione semiautonoma del Puntland, ampia zona a Nord Est della Somalia che ha come suo capoluogo Galkayo e come importante città portuale Boosaso, a Nord sul golfo di Aden. Un lungo curriculum, quello di Yusuf, di lotta contro Siad Barre durante gli anni del regime subendo il carcere e l’esilio in Etiopia. Successivamente diventa uno dei più acerrimi combattenti contro gli shabaab, definizione degli jihadisti somali. Durante la sua presidenza si ritrova ancora una volta a combattere con gli islamisti riuniti questa volta nelle Corti Islamiche contro le quali muove guerra chiedendo l’aiuto dell’esercito etiope con l’aiuto del quale conquista Mogadiscio. Il 24 dicembre 2008 rassegna le dimissioni, accolte dal parlamento il 29 dicembre. La motivazione di questa decisione - come ha dichiarato - è pervenuta dal fallimento del tentativo di portare la pace, la stabilità e la democrazia in Somalia.
Anni di guerra civile, disastri naturali e mancanza di cibo e acqua. Sono tutti fattori che rendono ormai insostenibile la situazione della popolazione civile in Somalia. Secondo i dati diffusi dalle Agenzia dell’ONU, gli sfollati all’interno dei confini nazionali sono oltre 1,3 milioni; i tassi di malnutrizione infantile hanno ampiamente superato la soglia d’emergenza del 15%, con 200 mila bambini affetti da malnutrizione acuta, di cui 60 mila gravemente malnutriti ed in pericolo di vita Il 43% della popolazione, tra cui 650 mila bambini, hanno un disperato bisogno di assistenza umanitaria. Un dato in costante crescita secondo l’UNICEF che parla di un 77% in più rispetto al gennaio 2008 e di un 300% in più rispetto agli inizi del 2007.
La situazione attuale e gli ultimi sviluppi
Rifiuti tossici
Nel 2004, l’Agenzia ONU per l’ambiente (Unep), ha stilato un rapporto sulla situazione della Somalia in seguito allo tsunami che nello stesso anno ha colpito il Paese. Nick Nuttall, portavoce dell’Unep, ha rilasciato una intervista all’emittente araba Al Jazeera nella quale ha dichiarato: “La Somalia è stata utilizzata come discarica per i rifiuti pericolosi a partire dai primi anni ‘90, e continua ad esserlo ancora oggi, attraverso la guerra civile”. “Le imprese europee - ha aggiunto Nuttal - trovano conveniente la Somalia, per liberarsi dei rifiuti, il costo è meno di $ 2,50 per tonnellata, quando i costi di smaltimento dei rifiuti in Europa sono qualcosa come 1.000 $ per tonnellata”.
Da Mogadiscio poco alla volta le Corti Islamiche conquistano nel 2006 buona parte del Sud della Somalia fino ad arrivare alle porte di Baidoa, la città di residenza e controllo del Tfg che nel frattempo aveva ottenuto la tutela dell’ONU e l’appoggio militare dell’Etiopia. La situazione cresce di tensione sulla fine del 2006. In risposta ad un tentativo di conquista della città di Baidoa da parte delle milizie delle Corti islamiche, l’esercito etiope in appoggio alle milizie del Tfg e dei militari del Puntland, rispondono con un at-
tacco senza precedenti che porta in pochissimo tempo non solo al respingimento delle Corti da Baidoa ma anche alla conquista di Mogadiscio. I mesi successivi sono caratterizzati da un susseguirsi di scontri e feroci combattimenti. Numerose le vittime civili e decine di migliaia gli sfollati. La situazione umanitaria e di vera emergenza. Sul piano militare all’appoggio dell’esercito etiope al Governo di transizione si aggiunge l’appoggio militare americano. L’Unione Africana approva l’invio di una missione chiamata Amisom incaricata di controllare la capitale dal ritorno delle milizie islamiche. I primi ad inviare un proprio contingente in Somalia sono gli ugandesi, arriveranno poi i burundesi. Nonostante queste presenze militari internazionali e un dispiegamento di forze di guerra vera e propria, questi anni sono fra i peggiori della storia somala. Gli scontri e i combattimenti sono all’ordine del giorno. La situazione è instabile anche sul piano politico. A novembre 2007 si dimette il primo ministro Gedi che viene sostituito da Nur Hassan Hussein. Ma il vero passaggio avviene alla fine del 2008. Esattamente il 29 dicembre il Presidente Abdullahi Yusuf Ahmed rassegna le sue dimissioni motivandole con l’impossibilità di portare la Somalia in una fase di pacificazione ed accordo tra le parti e criticando inoltre la comunità internazionale per il mancato sostegno economico, senza il quale non sarebbe possibile formare un esercito in grado di fronteggiare le Corti islamiche e gli altri gruppi che si contendono il potere. Il 31 gennaio 2009 il leader di una fazione moderata delle Corti Islamiche Sheikh Sharif Sheikh Ahmed viene eletto capo del Tfg.
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Popolazione sfollati
L’eterno conflitto che si combatte in Somalia è certamente influenzato anche dalla forte instabilità che caratterizza l’intera Regione del Corno D’Africa. La vicina Etiopia, guidata da un Governo cristiano e circondata da Paesi musulmani, non ha esitato ad invadere la Somalia. Le truppe etiopi sono entrate a Mogadiscio nel 2006 per contrastare le Corti islamiche ed evitare la nascita di uno Stato islamico in Somalia. Gli stessi Stati Uniti hanno bombardato più volte il territorio somalo considerato da Washington una base ideale per i terroristi islamici. A questo va aggiunto il dramma di quella che molti definiscono come una vera e propria “economia di guerra” e che è costantemente alimentata da gruppi armati e potentati locali che da una simile instabilità, ormai al limite del collasso, traggono enormi profitti grazie anche a traffici illegali di armi e rifiuti. Un Paese caratterizzato da una drammatica frammentazione politica economica e sociale, subita prima di tutto dalla popolazione civile somala, stremata da quella che l’ONU continua a definire come “la peggiore crisi umanitaria al mondo”.
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Per cosa si combatte
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Khartoum parla cinese, riferisce chi visita la capitale del Sudan. In effetti, il sodalizio fra il gigante orientale e il Paese africano è molto forte. Non solo perché la Cina importa la maggior parte del greggio estratto dai giacimenti sudanesi, ma anche per le grandi infrastrutture che in cambio il Governo di Pechino sta realizzando in Sudan: strade, edifici, oleodotti, e l’ampliamento del principale porto sul Mar Rosso, Port Sudan. Un’alleanza, quella fra i due Paesi, che si è tradotta anche in un forte sostegno politico da parte della Cina anche in seno alla comunità internazionale, e soprattutto all’interno del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Diverse risoluzioni prospettate dall’ONU di condanna per le violazioni dei diritti umani (anche relative al Darfur) non hanno mai visto la luce, o sono state formulate in maniera molto ammorbidita, per la minaccia della Cina di esercitare il suo diritto di veto.
SUDAN
Generalità Nome completo:
Repubblica del Sudan
Lingue principali:
Arabo, i diversi gruppi etnici parlano oltre 400 lingue locali
Capitale:
Khartoum
Popolazione:
40.218.000
Area:
2.505.810 Kmq
Religioni:
Musulmana predominante fra arabi e nuba, nel Centro-nord; culti tradizionali africani e minoranze cristiane (cattoliche e protestanti) nel Sud
Moneta:
Sterlina sudanese
Principali esportazioni:
Petrolio e prodotti petroliferi, cotone, sesamo, arachidi, gomma arabica, zucchero, bestiame
PIL pro capite:
Us 2.309
regione di 8 milioni di abitanti. L’elenco delle violazioni dei diritti umani commesse in Darfur è impressionante: massacri, stupri sistematici, vessazioni di ogni genere, incursioni nei campi sfollati, eccidi indiscriminati di civili. Il sistema utilizzato è di fatto il medesimo della precedente guerra ventennale con la popolazione africana del Sud del Paese: affiancare alla usuale repressione dell’esercito l’azione di gruppi paramilitari che lo stesso Governo ha armato, allo scopo di creare una sorta di azione a tenaglia.
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Petrolio giallo
Il Darfur, che si trova nella parte occidentale dell’immenso Sudan (è il secondo Paese del continente africano per dimensione), è orami da anni una delle aree di crisi più acuta del pianeta. La questione scoppia nel febbraio del 2003: il Governo arabo e islamico di Khartoum (la capitale) stava in quel momento tentando di definire l’accordo di pace con l’Splm, il Movimento di Liberazione del popolo sudanese, dopo quasi 20 anni di guerra civile fra Nord e Sud Sudan. È in quei frangenti che nel Darfur - l’area più povera del poverissimo Sudan - prende l’avvio un movimento di ribellione armata che chiedeva attenzione da parte del Governo centrale dopo decenni di trascuratezza, marginalizzazione e sottosviluppo. L’accendersi della ribellione è però l’occasione da parte del Governo guidato da Hassan El Bashir non solo di scatenare una violenta repressione verso le popolazioni non arabe e indigene della Regione, ma anche di armare i gruppi nomadi di origine araba, divenuti noti poi col nome di Janjaweed, innescando una feroce serie di scontri e scorribande fra questi guerrieri nomadi a cavallo e le popolazioni non arabe e stanziali. È l’inizio di una guerra civile fra le più sanguinose e violente vissute in Africa: in un paio d’anni sono centinaia i villaggi bruciati e rasi al suolo, con gli abitanti costretti a fuggire, a espatriare verso i campi profughi del Ciad o ad accamparsi negli smisurati campi sfollati interno allo stesso Darfur. La stima è che il conflitto abbia provocato oltre 300 mila vittime e 3 milioni di profughi (dei quali 200 mila rifugiati in Ciad e il resto nei campi sfollati all’interno del territorio sudanese), su una popolazione totale della
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Quadro generale
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Hassan El Bashir
(Hosh Bannaga, 1 gennaio 1944)
Le azioni di guerra e gli scontri sono andati avanti intensamente fino a maggio 2006, quando la principale fazione ribelle (Slm/a, Movimento per la liberazione del Sudan) ha sottoscritto col Governo un accordo di pace. Da allora continua la “guerriglia a bassa intensità”, dovuta al fatto che due fazioni minori di ribelli hanno rifiutato l’accordo. L’emergenza umanitaria, però, è rimasta drammatica: in Darfur vi sono ancora i campi sfollati più grandi del mondo e il Programma alimentare mondiale dell’ONU ha costantemente indicato, dal 2006 in poi, la crisi del Darfur come la peggiore del pianeta, insieme a quella somala. Quest’ultimo focolaio di guerra civile del resto va ad aggiungersi a una storia tardocoloniale e post-coloniale del Paese africano nella quale la stabilità e la pace non ci sono mai state. Dagli anni ‘50 è stato un continuo susseguirsi di colpi di stato e di giunte militari. Anche l’attuale Presidente, Omar El Bashir, che guida il Paese dal 1989, è salito al potere con un golpe. Altrettanto costanti nel tempo sono state le tensioni e gli scontri armati fra il Nord del Paese arabo e islamizzato e il Sud africano-cristianoanimista. La fase bellica più lunga e cruenta è stata sicuramente la guerra combattuta fra il 1983 e il 2003: per 20 anni diversi gruppi ribelli (guidati dalla più importante delle fazioni, l’Spla) si sono battuti per ottenere l’indipendenza dal Nord. Quello che non hanno ottenuto le armi, poi, l’ha fatto il petrolio: il bisogno crescente di greggio ha portato la comunità internazionale (Stati Uniti in testa) a moltiplicare le
pressioni per il raggiungimento della pace, anche perché la maggior parte dei giacimenti si trovano nel Centro Sud del Paese. La trattativa più lunga, infatti, nell’ambito dell’accordo di pace fra Nord e Sud Sudan, è stata quella sulla divisione dei proventi derivanti dalle concessioni petrolifere. L’accordo prevede tuttavia anche una serie di tappe verso la democratizzazione del Paese: fra il 2010 e il 2011 dovranno svolgersi le elezioni e il referendum, nel quale la popolazione del Sud Sudan dovrà scegliere fra il rimanere parte dello Stato federale del Sudan o l’indipendenza totale. Due sono i fattori che stanno trasformando profondamente gli equilibri politici ed economici del Paese negli ultimi anni: da un lato lo sviluppo vertiginoso della sua industria petrolifera (il greggio costituisce ormai l’80% delle esportazioni); dall’altro il fatto che la Cina si è accaparrata la gran parte del petrolio estratto, diventando ormai da qualche anno il primo partner commerciale del Sudan.
I PROTAGONISTI
Hassan El Bashir è a capo del Sudan dal 1989, quando conquistò il potere con un colpo di stato militare. Ha governato, da sempre, col pugno di ferro, ricorrendo di frequente all’arresto degli oppositori (compreso il suo ex principale consigliere politico El Tourabi, messo in prigione per due volte con l’accusa di cospirazione), e spegnendo nel sangue le rivolte scoppiate negli anni nel Sud e nell’Est del Paese, nel Darfur, nella Regione dei Monti Nuba. Nel marzo 2009, però, proprio per i fatti del Darfur, El Bashir è stato incriminato dal Tribunale Penale Internazionale dell’Aja (Tpi) per crimini di guerra e contro l’umanità nonché gravissime violazioni dei diritti umani. La Corte, fatto senza precedenti per un Presidente in carica, ha anche emesso un mandato internazionale di arresto nei suoi confronti. Questi provvedimenti giudiziari hanno scatenato polemiche roventi fra i Paesi ONU, con pesanti critiche al Tpi, specie da parte di Cina, Russia e di alcuni Paesi africani, che hanno accusato la Corte di usare due pesi e due misure incriminando il Presidente sudanese, ma ignorando i crimini e le violenze commesse dai Paesi occidentali in Iraq e in Afghanistan. Il Sudan, per ritorsione, ha espulso per diversi mesi molte delle organizzazioni umanitarie e delle agenzie internazionali che operavano nel Darfur.
La situazione attuale e gli ultimi sviluppi
La povertà
Qualche dato della povertà: la malnutrizione infantile sotto i 5 anni in Sudan è ancora al 17%, e nella stessa fascia d’età, la mortalità è ancora al 91 per mille. La speranza di vita è bassa: attualmente intorno ai 57 anni. Infine, quattro sudanesi su dieci sono analfabeti. Tra i problemi emergenti c’è quello ambientale. Il 60% del territorio è colpito dalla desertificazione, e c’è un problema crescente di inquinamento da rifiuti industriali che riguarda coste e fiumi.
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Dopo una guerra
Cosa resta del Sudan? La domanda non è retorica, riguardo a questo martoriato Paese. Sommando le vittime stimate dei diversi conflitti civili sudanesi si arriva all’impressionante cifra di 2 milioni e mezzo di morti. Tra profughi e sfollati si superano i 6 milioni, molti dei quali vivono ormai da dieci, quindici o più anni da “rifugiati permanenti” in Ciad, Kenya, Etiopia e, in misura minore, negli altri Paesi confinanti. A causa delle guerre, specie di quella ventennale fra Nord e Sud, è stata perduta di fatto un’intera generazione di studenti. Naturalmente, le zone che più a lungo sono state teatro di guerra, sono anche quelle che hanno pagato il prezzo più pesante in termini di infrastrutture e servizi: le strade sono quasi sempre piste sterrate, il sistema scolastico è semi-azzerato, quello sanitario pure. Nelle Regioni del Sud, vi sono aree in cui le equipe mediche giunte dopo il 2005 erano le prime a soccorrere la popolazione dopo un’assenza di dieci o anche quindici anni.
I diversi focolai di guerra civile che hanno ripetutamente scosso il Sudan e impoverito tremendamente la sua popolazione (oltre l’80% vive sotto la soglia di povertà) hanno avuto origini diverse: il conflitto Nord-Sud si è acceso nel 1983 per via della decisione del Governo centrale di imporre la sharia anche nelle Regioni non islamizzate nel Paese. Quella lunga guerra poi si è via via trasformata in un conflitto per le risorse, prima fra tutte il petrolio. Gli altri episodi di ribellione armata (nel Darfur, nei Nuba, nell’Est Sudan) sono nati invece soprattutto per le condizioni di emarginazione e di estrema povertà in cui queste Regioni “dimenticate” si sono sempre trovate a vivere.
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Per cosa si combatte
In questa fase storica, nonostante le tante tensioni e le contraddizioni irrisolte che attanagliano questo enorme Paese, sono in vigore ben tre diversi accordi di pace: quello fra Governo e Slpm (Sud-Sudan) siglato nel 2005; quello col maggiore gruppo politicomilitare del Darfur, sottoscritto nel 2006; infine quello con il Fronte dell’Est, il raggruppamento delle fazioni ribelli del Sudan orientale, firmato nello stesso 2006. La popolazione che oggi continua forse a subire le peggiori violazioni nel più completo silenzio della comunità e dell’informazione internazionali è quella dei Nuba. Negli ultimi tempi vi sono segnali di un aumento delle tensioni, specie fra Nord e Sud Sudan, con ogni probabilità legate all’avvicinarsi del referendum per l’indipendenza delle Regioni meridionali.
Sottosviluppo
È sempre più un Paese dai due volti, il Sudan. Quello di Khartoum e di alcune grandi città, sempre più ricche e moderne; e il resto del Paese, inchiodato a condizioni di vita di povera sussistenza dall’arretratezza delle infrastrutture e del mancato sviluppo economico. Va anche detto che al sottosviluppo ha contribuito anche l’embargo voluto dagli Stati Uniti nel 1998, quando il Sudan fu inserito dall’Amministrazione Bush nella lista degli “Stati-canaglia” per aver ospitato Bin Laden all’inizio degli anni ‘90.
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Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
UGANDA
Generalità Nome completo:
Repubblica di Uganda
Lingue principali:
Inglese, Swahili
Capitale:
Kampala
Popolazione:
25.800.000
Area:
241.040 Kmq
Religioni:
Cattolica, protestante, animista, musulmana
Moneta:
Scellino Ugandese
Principali esportazioni:
Quasi nulle, se si eccettua il caffè
PIL pro capite:
Us 1.501
presa del potere da parte di Museveni. È del 1995 l’approvazione di una nuova Costituzione che rinvia al 2001 il passaggio al multipartitismo, avvenuto grazie a una consultazione referendaria nel 2005. Museveni viene eletto nel 1996, rieletto nel 2001. Nonostante il potere sia saldo nelle sue mani, il Presidente ugandese deve far fronte a vent’anni di guerra civile combattuta contro l’Lra (Esercito del Signore) guidato dalla follia di Joseph Kony, che ha come obiettivo di prendere il potere e governare secondo i dieci comandamenti. Museveni interviene nella guerra del Congo, nel 1996, prima a fianco di Laurent-Desirè Kabila, in chiave anti Mobutu, e poi dal 1998 al 2003 appoggiando i gruppi ribelli del Paese. Grazie a una riforma costituzionale del 2005, Museveni viene rieletto per la terza volta nel 2006. Anno in cui avvia i negoziati di pace con l’Lra. Ora il Paese sta vivendo un
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
La lotta all’AIDS
L’Uganda è stato indicato come un raro caso di successo nella lotta al virus dell’Hiv del continente africano. L’approccio del Governo contro l’Aids è sempre stato diversificato: educazione, promozione dell’uso del profilattico, assistenza sessuale. Alle fine degli anni ’80 oltre il 30% dei cittadini ugandesi aveva contratto il virus. Secondo fonti governative la percentuale sarebbe scesa al 10% verso la fine degli anni ’90 e avrebbe raggiunto un 4,1% nel 2003. Dal 1986 Museveni ha iniziato la sua campagna: “evitare l’Aids è un dovere patriottico”. La sigla “Abc” ne riassume le intenzione: assistenza, fedeltà, preservativo (condom). Nel 1992 nasce l’Ugandese Aids Commission, come conseguenza nel ’98 il tasso di ragazze incinte fra i 15 e i 24 anni affette dal virus sarebbe sceso dal 21% dell’anno precedente al 9,7%. Ricerche recenti, tuttavia, mettono in guardia da un eccesso di ottimismo. Il “The Lancet” (giornale medico), nel 2002, sosteneva che le statistiche sarebbero distorte da un’errata generalizzazione a tutta la popolazione di quanto sarebbe stato misurato in piccole cliniche di città. Secondo la ong National Guidance and Empowerment Network, il tasso di persone affette dall’Hiv in Uganda si aggirerebbe intorno al 17%, quattro volte il tasso ufficiale.
Indipendenza, colpi di stato, guerre e nuovamente pace. La storia dell’Uganda è simile, per destino, a quella di molti altri Paesi africani. Negli anni cinquanta inizia il processo di democratizzazione per sfociare il 9 ottobre del 1962 nell’indipendenza. La costituzione prevedeva un sistema semifederale, con sufficiente spazio per le elite politiche tradizionali. Ma gli equilibri si rompono rapidamente. L’equilibro tra il re del Buganda, primo Presidente del Paese, e il suo primo ministro Milton Obote, un Lango del Nord, dura poco. Nel 1966 Obote prende d’assalto il palazzo presidenziale. Inizia così una lunga serie di colpi di stato, di atrocità e di conflitti etnici. Idi Amin Dada, capo di stato maggiore dell’esercito di Obote, consolida la sua posizione, che poi usa contro Obote. Nel 1971 prende il potere e governa con mano pesante attraverso l’esercito. Il dittatore Amin teme il predominio degli Acholi e dei Langi nell’esercito e così da vita a una delle più sanguinarie persecuzioni con uccisioni di massa. Nazionalizza le attività commerciali britanniche ed espelle la popolazione asiatica. Cresce, contemporaneamente, la tensione tra Uganda e Tanzania, rea di aver ospitato Obote e alla fine degli anni ’70 sfocia nella guerra ugandese-tanzaniana. Nel 1979 i tanzaniani, anche con il sostegno dell’Esercito di Liberazione Nazionale dell’Uganda (Unla), prendono la capitale Kampala e nel 1980 torna al potere Obote. Di nuovo vendette e atrocità. Yoweri Museveni, attuale Presidente dell’Uganda, fonda l’Esercito di Resistenza Nazionale (Nra) e inizia la guerriglia. Obote risponde con uccisioni di massa. La Croce Rossa, nel 1983, denuncia l’uccisione di 300 mila persone. Tre anni di scontri che sfociano nella
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Quadro generale
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
(Odek, 1961)
discreto progresso economico e una rapida trasformazione grazie, anche, alla fine del conflitto che per vent’anni ha scosso il Nord del Paese. La crescita economica per anni si è attestata intorno al 15% e anche nel 2009 non dovrebbe andare al di sotto del 5% nonostante gli effetti della crisi internazionale. Una crescita che ha portato sensibili miglioramenti nella vita politica, in quella economia, nei sistemi sanitari di base e, in particolare, nel rapido sviluppo
del sistema scolastico. Nel Paese ci sono 27 università con 5/6 mila studenti ciascuna. Aumentano i laureati ma il Paese non è in grado di assorbirli tutti. Ancora luci e ombre su questo Paese.
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Joseph Kony
I PROTAGONISTI
Joseph Kony, un ex chierichetto del Nord Uganda, a capo dell’Esercito del Signore, ha combattuto vent’anni contro il Governo di Museveni. Kony le sue truppe, soprattutto bambini, le ha reclutate nei villaggi del Nord, con razzie a danno della popolazione Acholi di cui anch’egli fa parte. La sua ideologia, un impasto di misticismo e fondamentalismo cristiano, ha dato luogo a una delle più brutali guerre civili che l’Africa ha conosciuto. Le armi, invece, sono venute dai rifornimenti del Governo sudanese ostile a Museveni. Dal 2006 è in vigore una tregua che dovrebbe portare a un accordo di riconciliazione nazionale che permetta ai combattenti dell’Lra di tornare in patria dopo aver deposto le armi e senza conseguenze penale. Ora Kony e le sue truppe si rifugiano nel parco naturale di Garamba nel Nord-Est della Repubblica democratica del Congo dove compiono ancora razzie. Su Kony e sugli altri capi dell’Lra pende un mandato di cattura del Tribunale penale internazionale dell’Aja. Il carattere del leader dell’Esercito del Signore, tuttavia, non fa ben sperare, anche perché si tratta di capire se il visionario Kony, che sostiene di essere in contatto diretto con lo Spirito Santo, rinuncerà al potere e alla devozione che è riuscito a costruire attorno alla sua figura.
Lo sviluppo economico e la fine della guerra hanno portato con sé un aumento della popolazione, passata dai 9 milioni del 1975 ai 31 milioni di abitanti del 2009. La sovrappopolazione sta diventando per l’Uganda una questione molto seria, anche perché porta un aumento delle tensioni sia all’interno delle famiglie sia nelle comunità tradizionali, ma in particolare nel settore della proprietà della terra. Quest’ultimo fattore sta diventando estremamente delicato. La fine della guerra nel Nord del Paese ha acceso la questione della terra tra gli occupanti dei campi profughi che, ritornati nelle zone di origine, si sono ritrovati a contendersi terreni in assenza di certificati di proprietà ufficiali. Contese che si riescono a controllare se nella comunità ci sono degli anziani, memoria storica dei villaggi, ma, senza questa presenza, la terra diventa motivo di forti tensioni sia nelle zone rurali sia nelle aree intorno ai centri urbani.
La situazione attuale e gli ultimi sviluppi
I numeri della guerra Vent’anni di conflitto interno hanno creato in Uganda almeno 1,7 milioni profughi, che ancora non rientrano nel Paese, dopo aver abbandonato le loro terre e chiuso le attività. Piaga enorme, poi, è quella dei bambini soldato: sarebbero almeno 25 mila quelli arruolati dall’Esercito di Resistenza del Signore (Lra) di Joseph Kony. Oltre 20 mila le persone rimaste uccise.
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La questione della terra
Le ragioni dello scontro in Uganda non sono chiare. Certo, come sempre alla base c’è la volontà di controllare le risorse del Paese. Joseph Kony, capo dell’Lra sostiene però di aver preso le armi per difendere i diritti della popolazione Acholi, che abita i distretti settentrionali dell’Ugana. Ipotesi, questa, in netta contraddizione con i fatti: sino ad oggi, le peggiori atrocità commesse dai ribelli hanno avuto proprio gli Acholi come vittime. Di fatto, con appoggiato a lungo dal Sudan, Kony sta combattendo da vent’anni, mettendo in ginocchio l’economia ugandese e facendo colassare le strutture sociali e istituzionali.
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Stanno continuando le scorrerie dei ribelli dell’Lra, nonostante le ripetute offensive dell’esercito li abbiano indeboliti. Il tutto si traduce in villaggi bruciati, civili massacrati e sequestro di bambini. Inoltre, la pace siglata in Sudan fra Governo centrale e guerriglieri del Spla (Sudan People’s Liberation Army) ha portato Khartoum a non fornire più armi ai ribelli. In tutto, si stima siano poco più di 300 i ribelli, con basi in Congo. Il Governo ugandese ha offerto un’amnistia al leader ribelle Joseph Kony, che ha però rifiutato ogni ipotesi di incontro, anche in terra neutra. A complicare il tutto, ci sono i mandati di cattura spiccati dalla Corte Penale Internazionale dell’Aja contro alcuni ufficiali dei ribelli, incluso Kony. Il Lra ha chiesto che tutto venga sospeso, proponendo una tregua. Il Governo appare però incerto, perché spesso, in passato, i ribelli hanno sfruttato i momenti di tranquillità per rafforzarsi in vista di nuovi attacchi.
I bambini le vere vittime
Malaria, infezioni respiratorie e diarrea rimangono le principali cause di morte per i bambini con meno di 5 anni. Ventimila bambini all’anno continuano a contrarre l’Hiv dalle proprie madri. Quasi la metà dei 2 milioni di orfani dell’Uganda sono stati causati dall’Aids. Secondo l’Associazione per i popoli minacciati, solo nel 2005 sarebbero stati 19 mila i bambini morti a causa della guerra civile e delle malattie.
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Per cosa si combatte
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ELENCO DEI PAESI IN CONFLITTO
Colombia Haiti
AMERICA LATINA Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Raffaele Crocco
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Il futuro passa da qui
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Parlare dell’America del 2009 è parlare del possibile futuro di tutti. È un grande laboratorio, il continente, dove si cercano formule e soluzioni per mettere assieme lotta alla povertà e sviluppo economico, stato sociale e ricchezza. Fino a qualche anno fa non era così. Per un’intera generazione, l’America è stata il continente dei sogni perduti. Il sogno americano si era spezzato nella fine dei Kennedy negli anni ‘60 e nelle dittature militari nel Sud del continente negli anni ‘70. Un lungo sonno, spezzato da un evento piccolo, a metà anni ‘90: la rivolta zapatista in Messico. Era il 1° gennaio 1994 e un gruppo di indios maya si oppose con le armi e con la ragione al Nafta, il Trattato di Libero Commercio varato da Stati Uniti, Canada e Messico stesso. Una piccola rivoluzione - chiedevano giustizia e la fine delle discriminazioni - che scosse il mondo, rilanciò il “no” al neoliberismo e diede fiato ad un continente. In Venezuela fu Chavez a diventare Presidente e a guidare il cambiamento, poi arrivarono Brasile, Argentina, Cile, Uruguay a svoltare. Infine, con l’elezione di Barack Obama, hanno cambiato orizzonte anche gli Stati Uniti, trasformando il continente - tutto nel punto di riferimento. Ora, l’economia funziona nonostante la crisi e a dispetto delle difficoltà che ancora ci sono in America Latina per la resistenze dei latifondisti, per le situazioni sociali confuse, per la scelta di modelli di sviluppo non sempre efficaci. Le idee funzionano, con la democrazia tornata abitudine in Paesi rassegnati a subire dittature, golpe e caudillos. Lo dimostrano le vicende degli ultimi anni, i resoconti dei vertici che nel continente si susseguono fra organizzazioni di Stati. Si chiamano, queste organizzazioni, Mercosur, Unasur, Gruppo di Rio. Si è aggiunto poi il primo summit dell’America Latina e dei Paesi Caraibici (Calc). Il grande protagonista è stato il Presidente brasiliano Luiz Ignacio Lula da Silva, l‘uomo che ha riportato la democrazia in Brasile. Il Mercosur è il grande mercato comune organizzato da Brasile, Argentina, Uruguay, Paraguay e recentemente Venezuela. Decide politiche tariffarie e doganali, regola i mercati fra i Paesi, insomma funziona un po’ come l’Unione Europea, tanto da avere allo studio anche una moneta comune. Recentemente, i Presidenti dell’organizzazione hanno annunciato che assorbiranno le esportazioni della Bolivia, che ha visto le sue tariffe preferenziali cancellate dagli Stati Uniti perché, secondo Washington, il Paese non stava facendo abbastanza per combattere il traffico della droga.
America Latina
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
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Altra organizzazione è l’Unasur, vale a dire l’unione dei dodici Stati dell’America del Sud, con Panama e Messico come osservatori. Di recente, questa organizzazione ha approvato la proposta del Brasile di creare un South American Defense Council, cioè il Consiglio di Difesa dell’America Latina. La proposta non è gradita agli Stati Uniti, che hanno tentato di bloccarla. Per i brasiliani, invece, l’idea rappresenta la possibilità - lo hanno detto più volte pubblicamente - di dare una America Latina ai latino americani. Una risposta al vecchio adagio Nord americano contenuto nella dottrina elaborata - nel IXX secolo dal Presidente Monroe, che diceva sostanzialmente “L’america agli americani”. Il Gruppo di Rio è invece un forum politico creato nel 1986, ed arrivato a mettere a confronto ben 22 Paesi dell’America Latina. Recentemente, nel dicembre 2008, al Forum è stata ammessa Cuba, Paese da sempre escluso dalla organizzazioni multinazionali. Una riammissione decisa all’unanimità dai 22 Paesi. Il Presidente del Messico, Felipe Calderon, che presiedeva il vertice, ha accolto il “popolo fratello” di Cuba, che in quella sede era rappresentato da Raul Castro. Da queste organizzazioni sono escluse da sempre due nazioni: Stati Uniti e Canada. Nord e Sud del continente continuano a guardarsi di traverso. La differente ricchezza e, soprattuto, i lunghi anni di interferenze statunitensi nella politica Latino Americana - ingerenza fatta di interventi militari, pressioni economiche e politiche, finanziamenti occulti a settori della società - hanno creato i presupposti per uno scontro che il tempo potrebbe però assorbire e neutralizzare. Obama sembra aver voglia di confrontarsi con i Presidenti del Sud. Sul tavolo ci sono questioni importanti, come riammettere Cuba nella Organizzazione degli Stati Americani (Osa) e rivedere i debiti esteri. La Bolivia, a questo proposito, ha recentemente dichiarato che avrebbe smesso di pagarli, visto che dopo 28 anni di regolari pagamenti il debito è rimasto sostanzialmente invariato: in pratica, ha versato solo interessi. È un continente che cambia, quindi, l’America, ma che sembra finalmente cambiare cercando il consenso, riformando e affermando la democrazia, sviluppando una propria economia. Sono passi importanti, che nessuno dieci anni fa si aspettava.
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COLOMBIA
Generalità
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I paramilitari
I gruppi paramilitari colombiani sono nati grazie ai finanziamenti dei latifondisti e alla benevolenza delle forze di polizia e dell’esercito, che spesso li hanno armati e protetti, per proteggere i proprietari terrieri dalla guerriglia. Le Forze Unite di Auto-Difesa (Auco Autodefensas Unidas de Colombia) sono il gruppo più forte. Sono accusate di crimini contro l’umanità e di traffico di droga. Il loro ex comandante Carlos Castaño, è imputato negli Usa per aver esportato 17 tonnellate di cocaina in territorio americano e in Europa dal 1997 in poi. Il gruppo si è diviso dopo la scelta di Castaño di entrare nei negoziati di pace nel 2002. La forza combattente e le azioni sono aumentate di numero e intensità, i paramilitari sono raddoppiati - da 8 a 15 mila sotto la guida dell’italo-colombiano Salvatore Mancuso. Nonostante le Auc siano state certificate come unità terroristiche dagli Stati Uniti dopo l’11 settembre, l’esercito colombiano manterrebbe ancora legami organici - ad esempio scambi di personale in azione - con i paramilitari, chiamati anche ad azioni di “limpieza social” (pulizia sociale) ai danni di piccoli criminali, senzatetto, prostitute, soprattutto nelle grandi città.
Sono più di sessant’anni che la Colombia vive in un perenne stato di guerra interna, combattuta da narcotrafficanti, formazioni guerrigliere e esercito. In questi decenni ci sono stati presidenti conservatori e riformisti. Sono nati ben 36 diversi gruppi guerriglieri, fra cui le Farc (Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane) comandante per quasi 6 decenni da Manuel Marulanda, detto Tiro Fijo, morto nel 2007, poi l’Eln, cioè l’Esercito di Liberazione Nazionale e l’M-19, per citare le formazioni più famose. Si sono formati gruppi paramilitari - come il Mas (Morte ai Sequestratori) - pagati dall’oligarchia agraria: il 4% dei proprietari controllano il 67% dei terreni produttivi colombiani. Possiamo collocare una data di inizio più recente del conflitto: il 6 novembre 1985. Quel giorno, 35 guerriglieri dell’M-19 occuparono il Palazzo di giustizia di Bogotà. L’intervento dell’esercito provocò un massacro: oltre ai guerriglieri, morirono altre 53 persone, tra magistrati e civili. Di fatto, in Colombia il Governo centrale perde quel giorno il controllo del territorio. E se da un lato è la guerriglia ad assumerlo, dall’altro sono i narcotrafficanti, proprio a partire dalla metà degli anni ‘80, a proporsi come alternativa allo Stato. La guerra interna diventò così a tre - Stato, guerriglia, narcotraffico - con migliaia di morti. Vennero censiti almeno 140 gruppi para militari attivi sul territorio, quasi tutti finanziati dai narcotrafficanti. Il Presidente liberale Cesar Gaviria, nel giugno del 1991 diede il via a Caracas ad una serie di incontri con i rappresentanti della guerriglia, con l’obiettivo di raggiungere la pace. Il processo di pace non decollò, nonostante la nuova e più democratica Costi-
Nome completo:
Repubblica della Colombia
Lingue principali:
Spagnolo
Capitale:
Bogotà
Popolazione:
45.900.000
Area:
1.141.748 Kmq
79
Religioni:
Cattolica (92%), protestante, animista ed altro (8%).
Moneta:
Peso Colombiano
Principali esportazioni:
Cocaina, caffè, carbone, smeraldi
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Quadro generale
PIL pro capite:
Us 7.560,5
tuzione. Il Governo iniziò allora una “guerra totale” contro organizzazioni civili, gruppi ribelli e narcotraffico. Pablo Escobar Gaviria - capo del cartello di Medellín, potente organizzazione di narcotrafficanti - evaso intorno alla metà del 1992, ricominciò le azioni armate. In tutta risposta appare, nel ‘93, il Pepes (Persecutori di Pablo Escobar), che uccise trenta esponenti del cartello in due mesi e distrusse varie proprietà di Escobar, ucciso a sua volta il 2 dicembre dalla polizia a Medellín. Farc e Eln fecero una serie di attacchi a centrali elettriche, impianti industriali, caserme iniziando la strategia dei rapimenti. Il Governo tentò da parte sua un attacco a fondo al narcotraffico, pur nelle contraddizioni che nascevano dalla corruzione di parte della politica. È un periodo durissimo. Nel 1995, vengono aperti 600 procedimenti
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Ingrid Betancourt
(Bogotà, 25 dicembre 1961)
contro le forze di sicurezza, in relazione a 1.338 casi di assassinio, tortura o sparizione. All’inizio del 1997, si stima che almeno un milione di colombiani fossero stati espulsi dalle loro abitazioni nelle zone di conflitto. Nell’agosto del 2000 il Presidente Pastrana lanciò, in accordo con gli Stati Uniti, il Piano Colombia. Vengono addestrati tre battaglioni antidroga, con l’obiettivo di distruggere 60 mila ettari di coltivazioni di coca e tagliare la forza economica di guerriglia e narcotraffico. Gli attentati dell’11 settembre 2001 alle Torri gemelle di New York rafforzarono il Piano e si interruppe ogni possibile dialogo con i guerriglieri, che rispondono. Le Farc nel febbraio 2002 sequestrarono alcuni esponenti politici, nel tentativo di influenzare le elezioni e ottenere uno scambio di prigionieri. Fra loro c’era la candidata alla presidenza Ingrid Betancourt, che sarà rilasciata solo dopo sei anni, nel luglio del 2008. Si moltiplicarono anche gli attentati. Il 4 maggio 2002 morirono 117 persone, tra cui almeno 40 bambini, per i colpi di mortaio sparati contro la chiesa di Bojaya. Nello stesso anno, sale alla presidenza l’indipendente Alvaro Uribe, che chiese l’intervento diretto degli Usa nella lotta alla guerriglia e al narcotraffico. Il mese dopo, un contingente militare statunitense arriva nella provincia di Arauca: è il primo coinvolgimento diretto nella guerra civile colombiana. Nell’ottobre 2003 Luis Eduardo Garzón, candidato del Polo Democratico Indipendente (Idp), vinse le elezioni per il sindaco di Bogotà, la carica politica più importante del Paese dopo la presidenza della Repubblica. È una sorpresa: per la prima volta un
partito di sinistra si afferma. Passi avanti che non fermano la guerriglia: diventano 1.500, in quegli anni, gli ostaggi tenuti prigionieri. Dal 2006 si tenta l’ennesimo processo di pace. Almeno 20 mila paramilitari depongono le armi, in cambio di un’amnistia, del reintegro sociale e di uno stipendio per 24 mesi. Una scelta, questa, che scatena le organizzazioni di pace, che dicono: chi ha commesso atrocità deve pagare. Intanto, la guerriglia continua la lotta armata, con sequestri e azioni contro obiettivi militari e governativi. Da allora, si va avanti così.
I PROTAGONISTI
Ingrid Betancourt Pulecio è nata a Bogotà il 25 dicembre 1961. Figlia di Gabriel Betancourt, ministro dell’educazione durante la dittatura Pinilla fra il 1953 e il 1957, e di una ex Miss Colombia, Yolanda Pulecio, diventata senatrice, ha vissuto all’estero - soprattutto a Parigi - la maggior parte della propria vita. Militante nella difesa dei diritti umani e fondatrice del partito di centro sinistra “Partido Verde Oxigeno”, nel 2002 si è candidata alla presidenza della Repubblica Colombiana. Il 23 febbraio di quell’anno è stata rapita dalle Farc e tenuta prigioniera per 6 anni e mezzo, sino al 2 luglio 2008, quando è stata liberata apparentemente con un blitz dell’esercito. In Spagna le è stato conferito il Premio Principe de Asturias per la Concordia con la motivazione: “impersona tutti coloro che nel mondo sono privati della libertà a causa della difesa dei diritti umani e la lotta contro la violenza terrorista, la corruzione e il narcotraffico”.
La crisi colombiana continua ad essere d’attualità. Nell’agosto 2009 l’accordo fra il Presidente della Repubblica Alvaro Uribe e Stati Uniti per la concessione di 7 basi militari agli Usa per la lotta al narcotraffico e alla guerriglia ha creato tensioni fortissime con gli altri Paesi dell’area. Il Venezuela ha
parlato di pericoli di guerra, così come il Presidente brasiliano Lula. Non più tardi del 2008, d’altrocanto, vi erano state tensioni con il confinante Ecuador: un gruppo di guerriglieri Farc erano stati inseguiti e attaccati dall’aviazione ben dentro i confini nazionali ecuadoriani. La guerra fra i due Paesi in quei giorni era stata davvero vicina. Ora resta alta la tensione, nonostante le rassicurazioni del Governo di Bogotà, che ha spiegato come il numero di soldati Usa presenti sul territorio colombiano non varierà, ma rimarrà di 800 unità come negli ultimi anni. Le difficoltà restano, però, sia sul fronte interno, che nei rapporti con i Paesi vicini. Il Venezuela, che condivide rapporti commerciali per sette miliardi di dollari, ha annunciato di voler spostare i propri affari in Argentina o in altre nazioni considerate alleate.
Le mine
Davvero poco noto - e per nulla segnalato - è il dramma che la Colombia vive per le mine anti uomo. Sono disseminate in almeno 659 municipalità. A minare i terreni sono le Farc per proteggere le coltivazioni di coca. Delle 4.575 persone colpite dal 1990 a oggi, per l’Osservatorio per le mine almeno 1.600 erano civili e 476 erano bambini. I morti sono stati 1.125, dato questo che fa della Colombia il Paese al mondo con il maggior numero di vittime per mine anti-uomo, con dati statistici spesso ben al di sopra di Afghanistan e Cambogia.
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
La situazione attuale e gli ultimi sviluppi
Paese non ricco di materie prime, la Colombia vive il proprio conflitto principalmente sulla lotta per il controllo del Governo e della distribuzione della ricchezza. L’oligarchia del Paese è sostanzialmente agraria. Il 4% dei proprietari controllano il 67% dei terreni produttivi colombiani. Il bene maggiormente prodotto ed esportato per decenni è stato il caffè. In Colombia, poi, il reddito è distribuito in modo drammaticamente iniquo. Nel 2007, ad esempio, il reddito medio storico dei colombiani è stato di 6.700 dollari l’anno, uno dei più alti del Sud America. Invece, il 49% di loro vive sotto la soglia di povertà. Queste le ragioni che hanno creato le condizioni per la nascita della guerriglia in uno Stato che - se paragonato ai vicini - ha in realtà vissuto condizioni politiche relativamente stabili, con un solo golpe fra il 1953 e il 1957. Oggi la guerra civile viene combattuta soprattutto per il controllo o la distruzione delle vaste aree trasformate per la coltivazione della coca, vera ricchezza nazionale. Secondo le stime del Governo, i gruppi della guerriglia potevano contare sino a qualche tempo fa ogni anno su 750 milioni di dollari di introiti annui dal controllo del narcotraffico. Cifra superata - sempre per le stesse ragioni solo dagli incassi realizzati dei cartelli della droga di Medellín e di Cali.
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Per cosa si combatte
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Letteralmente significa “Zio Sacco di Juta” e prende origine dalla mitologia creola. È il nome di un “Uomo Nero” che gira le strade, di notte, per rapire usando un grande sacco i bambini che restano fuori casa. Gli spaventosi Tonton Macoute di Haiti prendono origine da lì. Ufficialmente erano la Milice de Volontaires de la Sécurité Nationale (Mvsn la sigla), o Milizia dei Volontari della Sicurezza Nazionale. Tutti però li conoscevano, appunto, come Tonton Macoute. Erano al tempo stesso una milizia e una polizia segreta, creata nel 1959 dal dittatore “Papa Doc” Duvalier e che lui teneva sotto stretto controllo. A comandarli era il braccio destro di Duvalier, Luckner Cambronne, morto a Miami nel 2006, a 77 anni. Dopo la caduta di Duvalier nel 1986 la Mvsn fu sciolta. Alcuni dei suoi componenti si nascosero dietro i sommovimenti politici che caratterizzarono la travagliata storia di Haiti fino al 2000.
HAITI
Generalità Nome completo:
Repubblica di Haiti
Lingue principali:
Francese
Capitale:
Port-au-Prince
Popolazione:
8.528.000
Area:
27.750 Kmq
Religioni:
Cattolica, chiese protestanti, voodoo
Moneta:
Gourde Haitiano
Principali esportazioni:
Nessuna, solo economia di sussistenza
PIL pro capite:
Us 1.791
minato Presidente, ma un’organizzazione cattolica si oppone. È guidata da un giovane prete: Jean-Bertrand Aristide. Le elezioni del 1987 vengono vinte a larga maggioranza da Namphy, ma nel giro di un anno un altro colpo di stato porta al potere un altro generale, Prosper Avril. Nel 1990 Avril è costretto a fuggire e sempre nel 1990 alle nuove elezioni si candida Aristide, che con lo slogan ‘Lavalas’ (Inondazione) porta in massa la gente alle urne. Il successo di Aristide non dura molto: nel 1991 viene destituito da un golpe militare. L’ONU reagisce con un embargo totale, cui fa seguito un intervento militare degli Usa, che costringe i militari a farsi da parte. Nel 1994 Aristide può quindi tornare nel Paese e governare. Ma lo fa in piena crisi economica e in un grave clima di violenza. Alle elezioni legislative del giugno 1995, i
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Tonton
Colonia spagnola, poi francese, indipendente dal 1804 grazie alla prima rivolta di schiavi conclusa con un successo, Haiti ha una storia complessa alle spalle, caratterizzata da continue dittature militari, che sfociano nell’occupazione militare statunitense fra il 1915 e il 1934. In quel periodo, la resistenza semipacifica haitiana trova ispirazione nella propria cultura e nella religione voodoo. Protagonista è la popolazione nera, che ha il proprio leader nel popolare agitatore dottor François ‘Papa Doc’ Duvalier. Gli americani se ne vanno nel 1934, lasciando una economia a pezzi. Molti haitiani emigrano a Santo Domingo, in cerca di lavoro, provocando tensioni razziali ed economiche terminate tragicamente con una pulizia etnica che fa 20 mila vittime tra gli haitiani. Agitata sempre dallo scontro fra popolazione mulatta e nera, di fatto l’isola resta dipendente dagli Stati Uniti ed è governata, come un dittatore, da “Doc” Duvalier, fino alla sua morte, nel 1971. Il potere passa allora al figlio Jean-Claude, chiamato Baby Doc, che tenta una mediazione tra i ‘modernizzatori’ mulatti. Contemporaneamente, elimina con brutalità tutta l’opposizione. Alla crisi politica, si aggiunge all’inizio degli anni ‘80 quella economica. Haiti viene identificata come zona ad alto rischio per l’Aids e il turismo crolla. Poi, un programma statunitense per sconfiggere una malattia dei suini danneggia l’economia rurale, con l’uccisione per errore 1,7 milioni di animali. Nel 1986 scoppia la rivolta popolare e Baby Doc Duvalier deve riparare all’estero con la famiglia. Si forma una giunta provvisoria militare. Il luogotenente generale Henri Namphy, confidente di Duvalier, viene no-
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Quadro generale
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Jean-Bertrand Aristide (Port-Salut, 15 luglio 1953)
candidati da lui sostenuti furono accusati di brogli dall’opposizione. Si arriva alle elezioni presidenziali del 1995, in dicembre, vinte da René Preval. Le violenze nel Paese non finiscono e nel 1996 il Consiglio di sicurezza dell’ONU proroga la propria missione militare sull’isola. Nel gennaio 1999 le cose precipitano, con Preval che destituisce gran parte dei parlamentari. La tensione sale ancora - come la violenza - con le elezioni presidenziali del novembre 2000, vinte dall’ex Presidente Aristide. Il conflitto tra la maggioranza e l’opposizione è violentissimo e non si placa. Nel 2004 i ribelli, formano il Fronte di Resistenza dell’Artibonite, conquistano alcune città e in seguito costringono Aristide a dimettersi
e a lasciare il Paese. Spinti dall’opinione pubblica internazionale, il 30 aprile 2004 i Caschi Blu dell’ONU arrivano sull’isola per cercare di riportare l’ordine dopo le violenze seguite alla rivolta popolare che ha contribuito alla cacciata di Aristide. Presidente ad interim veniva nominato Boniface Alexandre, e premier Gerard Latortue, con l’impegno a svolgere nuove elezioni legislative entro il 2005.
I PROTAGONISTI
Nato nel 1953, ex sacerdote, è stato Presidente di Haiti tre volte: nel 1991, tra il 1994 e il 1996, infine dal 2001 al 2004. Ha studiato in seminario, sino a diventare prete salesiano. Ottenuta nel 1996 la dispensa da parte del Vaticano, ha sposato una avvocato degli Stati Uniti, Mildred Trouillot, di origine haitiana, da cui ha avuto tre figli, due femmine e un maschio. Esponente della Teologia della Liberazione, in politica è entrato nel 1985, come oppositore del dittatore Baby Duvalier, costretto all’esilio in Francia nel 1986. Presidente eletto democraticamente con il 67% dei voti nel 1991, fu quasi immediatamente destituito da una dittatura militare. Ritornò alla presidenza a metà degli anni ‘90 e nuovamente con le elezioni del 2000, vinte a grande maggioranza. La situazione economica e sociale del Paese, però, non allentò le tensioni e le troppe violenze di strada. Così, un nuovo colpo di stato nel 2004 lo ha costretto all’esilio in Sudafrica.
- e quella nera - discendente dagli schiavi africani che guidarono la rivolta per l’indipendenza e che grazie a Duvalier hanno trovato affermazione. Negli anni ‘90, a queste motivazioni storiche, si è aggiunta una crisi economica che non ha trovato soluzione, allargando la forbice fra la popolazione povera e quella più ricca. Circa il 50% degli haitiani non ha un lavoro fisso, i due terzi sbarcano il lunario lavorando nei campi. Lo scontro è inevitabile.
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
La missione ONU
La Minustah, Missione di Stabilizzazione delle Nazioni Unite a Haiti, è operativa dal 30 aprile 2004. Arrivò sull’isola grazie alla risoluzione 1542, per cercare di riportare l’ordine dopo le violenze seguite a una rivolta popolare che aveva anche contribuito alla cacciata del Presidente Jean Bertrand Aristide. Formata da circa 7 mila uomini, la missione di pace dei Caschi Blu negli ultimi anni si è concentrata soprattutto sui programmi legati all’istruzione della nuova polizia haitiana.
Il Paese è tra i più poveri del mondo. L’agricoltura è a livelli di pura sussistenza, l’industria è limitata e dal sottosuolo di ricava solo un po’ di bauxite e quantitativi di oro e argento lontani dallo scatenare guerre. Le ragioni del lungo, perenne, conflitto haitiano, quindi, non sono economiche, ma sociali e politiche. La lunga dittatura dei Duvalier ha creato una frattura nel Paese, fra la parte mulatta - discendente dalla borghesia francese che governava l’isola
Il debito
Haiti diventò indipendente grazie ad una rivolta che cacciò i francesi, nel 1804. Le conseguenze di quella ribellione vengono pagate tutt’oggi. Nel 1825, infatti, la Francia, minacciò una invasione dell’isola, promettendo di ripristinare la schiavitù. Il Governo Haitiano - data l’impossibilità di affrontare una guerra contro i francesi - acconsentì allora di pagare alla Francia 150 milioni di franchi in cambio del riconoscimento come Stato sovrano. La Francia insistette sulla restituzione come compenso per la perdita della “proprietà” di schiavi. Quel debito ha praticamente condizionato tutta la storia di Haiti. Ci sono voluti, infatti, 100 anni per rimborsarlo: tutto denaro - dicono gli economisti - tolto al possibile sviluppo dei sistemi educativo, sanitario e delle infrastrutture.
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La povertà
I disastri naturali - come uragani, alluvioni, piogge torrenziali, terremoti e smottamenti - causano ad Haiti migliaia di morti ogni anno, anche a causa dell’alta intensità della popolazione (280 abitanti per km/q) e per la totale assenza di servizi statali. Una emergenza perenne, insomma, che danneggia soprattutto tre dei quattro milioni di bambini, in termini di violenze subite e di mancato accesso i servizi di base, come sanità, istruzione e protezione dell’infanzia. Ad Haiti, circa il 60% delle famiglie delle zone rurali e il 32% delle città soffrono di una cronica insufficienza alimentare. Il 20% della popolazione, nel suo complesso, è in condizioni estremamente vulnerabili.
Oggi una donna è capo del Governo ad Haiti. È Michelle Pierre Louis, 61enne economista, arrivata dopo la presentazione di tre candidati da parte del Presidente Preval. Le tensioni continuano nell’isola. In agosto una grande manifestazione per la legge sugli aumenti salariali è finita in scontro feroce con la polizia, con lanci di pietre e lacrimogeni. Per legge il minimo salariale ad Haiti è ora di due dollari al giorno. A maggio il parlamento aveva approvato una proposta di alzare del triplo questi mi-
nimi, ma il Presidente haitiano, Rene Preval, non l’ha trasformata in legge, perché, dice, questa norma impedirebbe agli haitiani di ottenere un lavoro regolare. Per l’ONU, Haiti potrebbe approfittare dell’esenzione dei dazi con gli Usa nel settore tessile, creando in pochi anni migliaia di posti di lavoro. Attualmente, solo 250 mila haitiani, su una popolazione di 9 milioni, hanno un lavoro regolare. Gli altri si arrangiano.
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Per cosa si combatte
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ELENCO DEI PAESI IN CONFLITTO Afghanistan Cina/Tibet Filippine India Iraq Kashmir
Pakistan Sri Lanka Thailandia Timor Est Turchia
ASIA
Ettore Mo
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Una terra che non trova pace
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Tra la fine del ’79 e l’inizio dell’80 l’Armata Rossa invade l’Afghanistan. È l’ultima guerra coloniale del secolo. Gli “sciuravi”, i russi, si ritirano nella primavera del 1989: una sanguinosa, inutile impresa durata quasi nove anni. Obiettivi del Cremlino: sostenere il regime filosovietico di Kabul, impedire l’instaurazione in Afghanistan di una Repubblica islamica sul modello iraniano (Khomeini) e infine bloccare l’espansione dell’integralismo islamico verso le province meridionali dell’URSS abitate in prevalenza da musulmani. La pace non si addice all’Afghanistan: lo conferma la sua storia millenaria dalle incursioni di Alessandro il Grande, Gengis Khan e Tamerlano alle tre guerre angloafghane fino all’invasione delle truppe russe da Hreznev: che non ha avuto miglior sorte dei suoi predecessori. Ho seguito la vicenda afghana dal febbraio del 1980 fino ad oggi, con caparbia assiduità al punto da meritarmi l’appellativo di Mo l’afghano. Ho conosciuto e frequentato il leggendario Comandante dei mujaidin Ahmed Shah Massud, passato alla Storia come il “leone del Panshir” per aver difeso la sua vallata respingendo quattro massicci tentativi d’occupazione da parte delle truppe sovietiche. Il ritiro dell’Armata Rossa (non sconfitta ma umiliata) non pose fine alle ostilità interne che videro impegnati gli uomini di Massud, schierati nello Jamiat-Islami (uno dei sette gruppi islamici che combatterono contro i russi e i soldati del regime), e i militanti dello Hezb-i-Islami, capitanati da Gulbuddin Hekmatyar, acerrimo rivale del “leone del Panshir” e attualmente alleato di Osama Bin Laden nei combattimenti in corso lungo la frontiera afghano-pakistana. Massud venne ucciso da due kamikaze in una caserma dell’Afghanistan del Nord il 9 settembre del 2001, due giorni prima dell’assalto alle Torri Gemelle. L’anno successivo, tornato a Kabul, vidi il suo braccio destro e devoto “scudiero”, Kalili, che rimase ferito nell’attentato ma sopravvisse. E quasi piangendo Kalili mi raccontò che quell’ultima notte fecero le ore piccole discutendo di letteratura e poesia: e che il leone del Panshir dedicò le sue ultime parole a Victor Hugo e a Dante Alighieri.
Afghanistan
Quella tra Iran e Iraq è stata una guerra senza vincitori né vinti. L’Ayatollah Khomeini chiamava ‘Satana’ il Presidente iracheno Saddam Hussein. Lo scontro era quindi tra un leader religioso integralista e un laico che voleva la leadership del mondo arabo-mussulmano, fino ad allora nelle mani di Mubarak. Ero a Baghdad e poi a Bassora quando a fine settembre dell’ ’80 cominciarono le ostilità tra gli iracheni che ambivano al controllo sullo Shatt al Arab e sui pozzi petroliferi di Abadan e le migliaia di soldati iraniani schierati lungo la frontiera meridionale, pronti a morire per Allah fino all’ultimo uomo in difesa della loro terra. L’Operazione Ramadan da parte delle truppe di Khomeini che fecero un fulmineo blitz in territorio iracheno si estinse in un paio di settimane: ma fallí pure il tentativo di penetrazione degli iracheni che in un mese si spinsero per quasi 100 chilometri nel deserto iraniano fino a Khorramshar, da dove vennero respinti e costretti ad una catastrofica ritirata. A Bassora, la situazione era difficile, scomoda e non di rado rischiosa anche per noi giornalisti piovuti in quelle giornate da ogni parte del mondo: una caotica legione straniera ammassata in un solo albergo, che doveva fare i conti col coprifuoco, la difficoltà dei mezzi di comunicazione, i regolamenti e i divieti imposti dall’autorità militare che non aveva generalmente buoni rapporti con la stampa internazionale.
Iran/Iraq
Fu anzitutto una guerra rapida quella che infiammò il Golfo tra il 17 gennaio e il 28 febbraio del 1991. Quarantadue giorni, per l’esatezza. Ed eccezionalmente rapido fu anche il dispiegamento di forze realizzato dal Pentagono che in meno di 5 mesi portò in Arabia Saudita 500 mila uomini e 3 mila cari armati, scortati dall’alto da migliaia di caccia bombardieri. Obiettivo dell’operazione, chiamata “Desert Storm” (Tempesta nel deserto), era di liberare il minuscolo stato del Kuwait che nell’agosto del ‘90 era stato invaso dalle truppe di Saddam Hussein, il Presidente iracheno che ambiva alla leardership del mondo arabo fino ad allora nelle mani del suo acerrimo nemico e rivale, il Grande Satana, Rudolph Khomeini. Migliaia di giornalisti erano piovuti in quei giorni su Dhahran, grande città saudita del Nord non molto distante dalla frontiera con Kuwait: ma ci rendemmo subito conto che non era facile svolgere onestamente il proprio lavoro. Quello che ci offriva il Centro Informazioni del Paese erano pacchetti di notizie preconfezionate e documentari tv accuratamente selezionati. I nostri tentativi di mettere le mani sulla realtà erano sventati dalle autorità locali che ci tenevano sotto controllo seguendo ogni nostro spostamento con affabilissime guardie del corpo. E la sera, quand’ era il momento di chiamare il giornale o la tv per dare il resoconto della giornata eravamo a mani vuote. Le ricordo come le settimane più frustranti della mia vita da inviato. Il motivo di tanta ostilità e stretta vigilanza sulla stampa straniera era abbastanza evidente: si voleva evitare quanto era successo durante la guerra in Vietnam quando i reportage (veritieri) dei corrispondenti americani influenzarono l’opinione pubblica internazionale che condannò all’unisono l’intervento Usa. Solo qualche rara volta siamo riusciti a raggiungere (ma sempre scortati dalle guardie del corpo) Hafr Al Batin, località nel deserto vicino alla frontiera tra Arabia Saudita e Kuwait: né ci è stato concesso di attingere direttamente informazioni dal Comando alleato o di visitare un ospedale militare. Tutto top secret. Impossibile ottenere un’intervista con il Comandante Supremo, il generale Schwarzkopf, che aveva stilato un severo decalogo sul comportamento della stampa, che proibiva un sacco di cose e ordinava di “essere sempre accompagnati da una scorta militare”. Nessuna meraviglia che qualcuno l’avesse definito il Grande orso. Neanche Oriana Fallaci, che pure ha intervistato i più grandi della terra tra cui l’indomito Ayatollah Khomeini, è riuscita ad avvicinarlo. Che fare? Dhahran aveva ben poco da offrire come evasione a questo manipolo di stranieri che vivevano giorno e notte tra gli urli delle sirene e la deflagrazione degli Scud. Abbiamo comprato delle biciclette e al tramonto, quando il clima ingentiliva, facevamo lunghe sgroppate sulla strada deserta in riva al mare. Ma quella guerra nessuno di noi è riuscito a raccontarla.
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Iraq Guerra del Golfo
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Ma una buona fonte d’informazione sull’andamento di quella improvvisa e fulminea guerra la si trovava spesso nelle corsie degli ospedali dov’erano ricoverati i feriti di ambedue i fronti, iraniani ed iracheni: i pasdaran di Khomeini ammettevano candidamente di non aver mai fatto alcun addestramento. Ho raccolto la testimonianza di un ragazzo di quindici anni, Amir Josein Usefi, che mi ha detto, con un residuo di meraviglia infantile negli occhi: “I mullah ci esortavano al sacrificio estremo, che ci avrebbe assicurato il paradiso dei martiri. Prima di allora non avevo mai preso in mano un fucile in vita mia”. Tra questi minisoldati in erba qualcuno si atteggiava a Rambo: ma poi piangeva di nascosto sotto le lenzuola per non farsi vedere. Menzione d’onore per un giovane poliomelitico che si reggeva a malapena sulle gambe ed è finito in prima linea: e per la meglio gioventù che andava in guerra con le stampelle o su una sedia per invalidi.
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Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
AFGHANISTAN
Generalità Nome completo:
Repubblica Islamica dell’Afghanistan
Lingue principali:
Il pashto e il persiano (dari) sono le lingue ufficiali. C’è inoltre una grande varietà di lingue, la maggior parte di origine persiana o altaica: hazaragi, turcomanno, uzbeco, aimaq e altri
Capitale:
Kabul
Popolazione:
32.254.372
Area:
652.090 Kmq
Religioni:
Musulmana (99%) (74% sunnita, 15% sciita e 10% altro).
Moneta:
Nuovo Afghani
Principali esportazioni:
Smeraldi, uranio, altri minerali, oppio
PIL pro capite:
Us 1.310
ta e Stati Uniti. Nel 1996 i Taliban entrano a Kabul. Mohammed Omar Akhunzada - il Mullah Omar - è il loro capo, nominato “comandante dei credenti” (amir ol-momumin). Nel Nord tentano di resistere, creando nel 1997 il Fronte Islamico Nazionale Unito per la Salvezza dell’Afghanistan, conosciuto come Alleanza del Nord (An) o Fronte Unico. Lo formano Uzbechi, Hazari e Tagichi. I Taliban, intanto, cambiano il Paese: le donne spariscono dalla scena pubblica e dalle scuole. Musica, teatro, canto, tutto viene vietato. Nel 2001, l’11 settembre, c’è l’attacco alle Torri Gemelle, a New York e
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Cooperazione
Un aiuto concreto per formare personale medico. In Afghanistan notizie positive arrivano in campo medico, soprattutto nell’assistenza al parto. Voluto dal Governo, con l’aiuto di alcune organizzazioni internazionali, tra cui l’Unicef è stato avviato il programma di formazione CME (Community Midwifery Education), della durata di 18 mesi. Nel 2008 sono stati avviati 19 corsi, ciascuno con 20-25 apprendisti. In questo modo, il numero di ostetriche nel Paese è passato da 467 nel 2002 a 2.167 nel 2008. Il programma incoraggia le donne a presentare domanda di ammissione, con l’intesa che, una volta completato il corso, lavoreranno nei loro distretti. Così, è cresciuta la presenza di personale qualificato femminile nelle strutture sanitarie (medici, infermiere o ostetriche), dal 39% nel 2004 al 76% nel 2006. Inoltre, il numero di parti assistiti da personale qualificato è aumentato da circa il 6% nel 2003 al 19,9% nel 2006.
È la posizione geografica ad aver fatto dell’Afghanistan un Paese spesso in guerra. Terra di passaggio in Asia e di controllo delle grandi vie di comunicazione, è stato nelle mire dei grandi imperi da sempre, non ultimo quello inglese, che nel XIX secolo tentò, senza successo, di sottometterlo. Terra indipendente, quindi, che alla fine della seconda guerra mondiale deve cercare una strada per rimanere in equilibrio fra le due superpotenze: Stati Uniti e Unione Sovietica. Un equilibrismo che fallisce dinnanzi alle scelte internazionali. L’appoggio sempre più pieno degli Usa al vicino Pakistan, convince la dirigenza afghana ad avvicinarsi all’Urss, inviando sempre più afghani a studiare e a ricevere preparazione militare a Mosca. Una serie di golpe e contro golpe, negli anni ’60 e ’70, portano a spodestare il re Zahir - nel 1973 - e a creare una repubblica sempre più filosovietica. L’ennesimo colpo di stato, nel dicembre del 1979, porta all’invasione del Paese da parte dell’Armata Rossa di Mosca. Inizia una durissima guerra fra le truppe sovietiche e governative da un lato e mujaheddin - combattenti per la fede - dall’altro, appoggiati da musulmani fondamentalisti di tutto il mondo. Nel gennaio 1987 arriva un primo cessate il fuoco. Sei anni dopo la firma, a Ginevra, di un accordo afghano-pakistano, patrocinato da Stati Uniti e Unione Sovietica. Un altro documento, firmato da Afghanistan e Urss, decide il ritiro delle truppe sovietiche. Inizia un lungo periodo di scontro fra fazioni armate, fondamentalmente fra mujaheddin Tagiki, Uzbeki, Hazari, Pashtun. Nel 1995 nasce il gruppo armato dei Taliban (“studiosi del Corano”) nel Sud dell’Afghanistan, appoggiati da Pakistan, Arabia Saudi-
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Quadro generale
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Hamid Karzai
(Kandahar, 24 dicembre 1957)
al Pentagono. Gli Stati Uniti accusano subito al-Qaeda, organizzazione terroristica guidata dal saudita Osama Bin Laden, ex mujaheddin che vive in Afghanistan con i suoi uomini, protetto dai Taliban. Il Consiglio degli anziani, da Kabul chiede a Bin laden di andarsene volontariamente e annuncia, però, la Guerra Santa (jihad) in caso di attacco americano. Attacco che inizia il 7 ottobre 2001, con bombardamenti aerei. La campagna viene chiamata dal Presidente George W. Bush prima “Giustizia Infinita”, poi “Libertà Duratura”. Si forma una coalizione internazionale con Regno Unito, Australia e Canada, appoggiata dalla Unione Europea e della Nato (inclusa la Turchia), Cina, Russia, Israele, India, Arabia Saudita e Pakistan, ex alleato dei Taliban. L’azione dei bombardieri consente all’Alleanza del Nord di recuperare due terzi del Paese e di entrare a Kabul il 13 novembre 2001. Mentre i Taliban sono in rotta, a Bonn viene convocata la Conferenza Interafghana. Viene creata una amministrazione, con a capo il pashtun filomonarchico Hamid Karzai. Si formano una Loya Jirga (assemblea) d’Emergenza, una Autorità di transizione e una Loya Jirga Costituzionale, assistite da una Forza di sicurezza internazionale dell’ONU, il tutto per preparare - entro due anni e mezzo - le elezioni generali. Il 22 dicembre assume il potere Karzai. Gli scontri nel Paese continuano, con parte del territorio controllato da potenti signori della guerra sostenuti dagli Stati Uniti e la resistenza Taliban che non demorde. Nell’agosto del 2003 la Nato lancia una missione di pace. È la prima volta che l’Al-
leanza Atlantica varca i confini europei. Alla Nato viene affidata la programmazione, la supervisione, il comando e il controllo delle Forze di Sicurezza Internazionali in Afghanistan sotto gli auspici dell’ONU. Il 3 novembre 2004 Karzai vince con il 55% dei voti le prime elezioni presidenziali, ma i problemi continuano. Un rapporto del 2005 firmato dall’ONU denuncia che l’Afghanistan resta uno dei Paesi più poveri del mondo. Il rischio - scrive il documento - è che il sistema, troppo fragile, collassi, anche per la continua lotta armata fra fazioni rivali. Sul piano militare, mentre nelle città proseguono gli attentati, nel luglio del 2006 la Nato inizia una azione nel Sud del Paese, tradizionalmente controllato da talebani e narcotrafficanti. Il numero delle vittime di guerra è in continuo aumento.
I PROTAGONISTI
Dal 7 dicembre 2004 è il primo Presidente eletto in Afghanistan. Dal 2001 era stato capo dell’Amministrazione transitoria nata dalla Conferenza di Bonn. Parla correttamente pashtu, urdu, indi, francese e inglese. Sfuggito a molti attentati e criticato nel Paese perché troppo vicino agli Stati Uniti, nonostante la presenza delle truppe Nato nel Paese a sostegno del suo Governo, Karzai rimane ancora in larga parte il “sindaco di Kabul”. Intere parti del Paese sono in mano ai signori della guerra o ai talebani, mentre né gli eserciti stranieri né tantomeno la polizia e l’esercito afghano riescono a mantenere il controllo del territorio.
La situazione attuale e gli ultimi sviluppi
Le mine
Per la Ong Halo Trust, della Gran Bretagna, dall’invasione sovietica a oggi, cioè in trent’anni, sono almeno 640 mila le mine sparpagliate per l’Afghanistan. Sono sostanzialmente ordigni anti uomo e anticarro. A queste si sono aggiunti tutti gli ordigni, come le cluster bomb sganciate dagli Usa appena iniziata la guerra contro il regime Taliban: solo nel periodo 2001 - 2002 pare ne siano state sganciate 250 mila. Il risultato è che in trent’anni, 400 mila afgani - quasi tutti civili sono rimasti uccisi o mutilati dalle mine. Gli esperti dicono che per bonificare completamente il territorio afgano, ai ritmi attuali ci vorrebbero più di quattromila anni.
L’Afghanistan è considerato dal Presidente statunitense Obama il fronte operativo principale nella lotta al terrorismo, soprattutto in vista del disimpegno dall’Iraq. Il numero di soldati Usa è quindi destinato ad aumentare, così come quello delle forze armate alleate, tutte sotto bandiera Nato. La scelta strategica è di un’offensiva costante delle Forze Nato contro i talebani. I combattimenti sono quotidiani nelle province di Paktia,
Khost e Nangarhar, a Oriente, oltre a quelle di Ghazni, Zabul e Uruzgan. Si combatte anche nei distretti di Helmand, Kandahar, Farah ed Herat. È in questa Provincia che si trova il contingente italiano, formato da quattro corpi operativi delle forze speciali, che intervengono in battaglia a fianco delle truppe statunitensi e da una compagnia di fanteria, che opera nel pattugliamento a lungo raggio. Resta poi elevato l’allarme per i continui attacchi - suicidi e non - delle forze talebane nelle grandi città. Il 17 settembre del 2009 un violento attentato kamikaze a Kabul ha colpito il contingente italiano, coinvolgendo due blindati sui quali viaggiavano 10 parà della Folgore. Sei soldati sono morti e quattro sono rimasti feriti. La situazione in Afghanistan è dunque ancora lontana da una normalizzazione, nonostante il 20 agosto del 2009 il Paese si sia recato alle urne per eleggere il nuovo Presidente. Le pesanti accuse di brogli hanno rimesso in discussione il verdetto del voto, che in un primo momento ha consegnato la vittoria al Presidente Hamid Karzai. La Commissione elettorale indipendente dell’Afghanistan ha convocato un ballottaggio per le presidenziali il 7 novembre del 2009. Karzai ha salutato il ballottaggio come un passo avanti per la democrazia nel Paese.
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Gli insorti
A combattere il Governo del Presidente Karzai e la coalizione che lo sostiene è un arcipelago composito. Si tratta, nei fatti, di una alleanza formata da ex combattenti del Jihad antisovietico come lo Jamiat Jaishal Muslemeen (Jjm, guidato da Maulwi Muhamad Ishaq Manzoora o lo Hizb-e Islami di Gulbudin Hekmatyar. Ci sono poi i Taliban del Mullah Omar, diverse frazioni e gruppi che hanno come referenti al-Qaeda, ex comandanti mujihaidin autonomi come Sayyed Muhammad Akbar Agha da Kandahar.
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Le armi
In questi anni, l’’esercito afgano è stato armato e addestrato dagli Stati Uniti e da Paesi della Nato, Gran Bretagna in testa. Russia, India, Iran, Tajikistan e Uzbekistan cedono invece armi ai mujaheddin. Pakistan e Arabia Saudita vendono armi ai Taliban. Tutte le forze irregolari del Paese, soprattutto i Taliban, finanziano l’acquisto di armi con la vendita illegale di oppio.
L’attuale conflitto, che vede impegnate forze statunitensi e Nato in Afghanistan è iniziato per combattere al-Qaeda e il terrorismo islamico ospitato dai Taliban. Il Paese, però, è da sempre ambito dalle potenze militari, per la posizione chiave dal punto di vista geografico: chi controlla l’Afghanistan, controlla l’Asia. Il riferimento, oggi, è ai gasdotti che lo attraversano e alle vie commerciali - sottoforma di strade e ferrovie - che attraversandolo collegano tutta l’Asia Centrale al Pakistan e all’India. Detto questo, non mancano le risorse minerarie. Recentemente sono stati scoperti buoni giacimenti di uranio ed è da sempre una buona riserva di smeraldi. Da non dimenticare, poi, che l’Afghanistan è il maggior produttore mondiale di oppio.
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Per cosa si combatte
Le vittime
Si calcola che tra il 1979 e il 2001, la guerra prima fra l’esercito invasore sovietico e la resistenza, poi fra fazioni del Paese, abbia provocato 1,5 milioni di morti, di cui almeno un milione erano civili inermi. La prima fase della guerra - iniziata nel 2001 con l’intervento degli Usa - ha causato altri 14 mila morti fra gli afghani, 4 mila dei quali civili. Dal 2002 ad oggi i morti sarebbero circa 16 mila, fra civili, soldati della coalizione e afghani e Taliban. Il picco dei morti è stato nel 2006: in un solo anno morirono circa 6 mila persone.
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La zona dell’India indicata con questa colorazione indica la parte riconducibile alla Regione del Tibet a cui questa scheda è dedicata.
CINA TIBET
Generalità
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
La storia
Nella storia ci sono tracce chiare di un Impero tibetano, nato nel I secolo avanti Cristo e che ebbe il proprio apogeo tra il 7° e il 10° secolo, estendendosi in territorio cinese e conquistando la capitale Xian. Nel trattato di pace che ne derivò, c’era scritto: “Tutto l’oriente spetta alla grande Cina, mentre tutto l’occidente è di proprietà del grande Tibet”. Il declino fu tra il IX e il XIII secolo, quando in seguito all’uccisione del re Lhang Dharma, persecutore dei buddisti, scoppiò la guerra civile. Dal 1200 il Tibet è parte dell’impero mongolo di Gengis Khan, come la Cina. Tra il 1358 e il 1368, i due stati riuscirono a liberarsi dai mongoli ed è proprio da questo punto che l’attuale Repubblica popolare Cinese rivendica il territorio tibetano come parte della Cina, in quanto facenti parte entrambi dell’impero mongolo.
C’è un problema, che nessuno ormai ammette più, a rendere complessa la questione Tibet - Cina: nessun Paese occidentale ha mai riconosciuto il Tibet come uno Stato sovrano indipendente. Non uno dei tanti Governi europei o Nord americani che si sono succeduti in 59 anni di occupazione del territorio, dichiarando sempre quanto fosse giusta la fine della militarizzazione del Tibet da parte cinese, ha mai mosso un passo verso il riconoscimento della sovranità. Quindi, in punta di diritto internazionale, Pechino ha ragione nel definire la questione un “problema interno”. Era esattamente quello che pensavano le cancellerie di Stati Uniti e Europa la mattina del 7 ottobre 1950, quando 40 mila soldati dell’ Esercito Cinese attraversarono lo Yangtze e occuparono tutto il Tibet orientale e il Kham - che ora è parte di tre Provincie cinesi - uccidendo 8 mila soldati tibetani male armati. Solo sette giorni dopo l’attuale Dalai Lama, Tenzin Gyatso diventò sovrano del Tibet. I cinesi avevano pianificato tutto. Soprattutto avevano saputo cogliere il momento adatto. Il mondo guardava solo alla guerra in Corea, scoppiata all’alba di domenica 25 giugno 1950, con un attacco della Corea del Nord di Kim Il Sung alla Corea del Sud. Gli Stati Uniti intervennero militarmente, subito, chiedendo e ottenendo l’ombrello politico delle Nazioni Unite. In questo clima, l’attacco al Tibet, pianificato da tempo, passò in secondo piano. Formalmente il Tibet era in una posizione di stallo, nata dall’abbandono dell’India da parte della Gran Bretagna nel 1947. Storicamente, la Regione era stata a lungo indipendente, poi era caduta sotto l’influenza della Cina imperiale, prima di essere messa sotto tiro
Nome completo:
Repubblica Popolare Cinese
Lingue principali:
Cinese mandarino
Capitale:
Pechino
Popolazione:
1.330.503.000
Area:
9.596.960 Kmq
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Religioni:
Confuciana, taoista, buddista (95%), cristiana (3,5%), musulmana (1,5%)
Moneta:
Renminbi
Principali esportazioni:
Praticamente tutto nel manifatturiero, più frumento, riso, patate
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PIL pro capite:
Us 5.963
dalla Russia Zarista e dal Regno Unito, che intervenne militarmente nel 1904. Da sempre, però, cultura e autonomia politica erano rimaste salde, tanto da definire una identità nazionale, che aveva nel Dalai Lama il capo di Governo e spirituale. La Cina aveva annunciato l’attacco. Mao, al potere dal 1949, aveva più volte spiegato che voleva un Cina riunita in tutti i suoi territori e questo significava anche il Tibet. Il 1° gennaio 1950 Radio Pechino annunciò che presto il Tibet sarebbe stato liberato dal giogo straniero. Così, l’occupazione avvenne senza quasi proteste, messa ulteriormente in secondo piano dal fatto che i cinesi il 19 ottobre del 1950 intervennero pesantemente nella guerra di Corea appoggiando il Nord con
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Tenzin Gyatso
(Qinghai, 6 luglio 1935)
milioni di uomini e mettendo in grave difficoltà gli Stati Uniti. Il 23 maggio 1951 il Dalai Lama firmò il “Trattato di liberazione pacifica” e diventò Vice Presidente del comitato permanente dell’Assemblea Nazionale del Popolo. Il documento permise alla Cina di iniziare la colonizzazione del Tibet. Prima militarizzandolo, poi spingendo i cinesi ad andare nella nuova Regione. Il Tibet intanto rinunciava ad avere una politica estera autonoma, a batter moneta, a stampare francobolli. Le terre venivano ridistribuite, soprattutto nelle zone del Kham orientale e nell’Amdo, per non rompere i rapporti con l’aristocrazia. Da quel momento fu tutto un susseguirsi di ribellioni, avvicinamenti pacifici e rotture, spesso alimentate dall’esterno, da altri Paesi. Nel 1959 la prima grande rivolta. Il 10 marzo 1959 il movimento di resistenza tibetano guidò una protesta contro i cinesi. Per reprimerla, Pechino schierò 150 mila uomini e unità aeree. Morirono in migliaia nelle strade di Lhasa e in altre città. Il 17 marzo, il Dalai Lama abbandonò la capitale e chiese asilo politico in India, assieme ad almeno 80 mila profughi. I morti pare furono 65 mila. Nel 1965 il Tibet venne dichiarato Regione Autonoma, con una annessione di fatto alla Cina. Nel 1968 la Rivoluzione Culturale portò alla distruzione dei monasteri, almeno 6 mila e all’uccisione di molti monaci. La resistenza tibetana però non mollava. Nel 1977 e nel 1980 vi furono altre due sollevazioni, anche queste represse duramente da Pechino. Dal 1976, Pechino ha riavviato l’opera di colonizzazione, tanto che in Tibet sono arrivati 7 milioni di cinesi, contro i 6 milioni di tibetani che ci vivono. L’obiettivo
di Pechino, denuncia la resistenza, è cancellare la cultura e l’identità tibetane. Il Dalai Lama, con il suo Governo in esilio in India, ha nel frattempo tentato la via della mediazione, rinunciando a reclamare l’indipendenza, puntando all’autodeterminazione per salvare la cultura del Paese e salvaguardare i diritti umani. Un mediazione proposta nel 1987 tramite gli Stati Uniti è fallita. E come sempre, dopo ogni fallimento, sono ricominciati gli scontri.
I PROTAGONISTI
Dalai Lama è un titolo onorifico, tratto dalla combinazione della parola mongola Dalai, che significa oceano e Lama, equivalente tibetano della parola sanscrita guru, cioè maestro spirituale. Il primo ad averlo fu Sonam Gyatso, supremo capo della corrente tibetana buddista dei Gelupa, nel 1578, dal sovrano mongolo Altan Khan. Tenin Gyatso, l’attuale Dalai Lama, è il quattordicesimo. Nato a Taktser, nell’Amdo, vive nel Nord dell’India in esilio dal 1959. Nella stessa area si è stabilita anche l’amministrazione del Centro Tibetano, meglio noto come Governo Tibetano in Esilio. Tenzin Gyatso ha ricevuto il Premio Nobel per la pace nel 1989 per la resistenza non violenta contro la Cina. Tenin Gyatso rischia di essere l’ultimo rappresentante della secolare tradizione tibetana. Pechino ha infatti deciso di arrogarsi il diritto di nominare in futuro le nuove reincarnazioni di questa importante carica religiosa e politica, prerogativa che spetterebbe ai soli lama tibetani.
Fonti internazionali stimano in un numero impressionate i morti tibetani a partire dal 1950. Parlano di 1,2 milioni tibetani uccisi dopo l’occupazione cinese, deportati nei campi di concentramento, torturati, mutilati o imprigionati. La prima denuncia della strage è del 1960, della Commissione Internazionale che dichiarò la Cina colpevole di genocidio. Gli anni peggiori, però, furono quelli della Rivoluzione Culturale di Mao di fine anni ‘60. La maggiore carneficina avvenne tra il 1966 e il 1977 e nel 1979 fu valutata la distruzione di 6.254 fra templi e monasteri. Oggi, per effetto dei trasferimenti degli anni ‘80, in Tibet vivono circa 7,5 milioni coloni cinesi, considerati dal Governo di Pechino superiori ai 6 milioni di tibetani in fatto di diritti.
La situazione attuale e gli ultimi sviluppi
Le opinioni
L’occupazione cinese del Tibet ha scatenato opinioni e osservazioni, soprattutto nella Regione più interessata - il confine sino-indiano - per gli equilibri che è andata a modificare. Rama Manohar Lohar, leader comunista indiano morto nel 1967, dopo aver fortemente condannato la violazione, sostenne che “il Governo cinese invadendo il Tibet ha portato offesa non solo contro il senso morale internazionale, ma anche contro gli interessi dell’India: il Tibet rappresenta il palmo della mano ed ora la Cina vuole pure le dita, ovvero Nepal, Bhutan, Sikkim”. Per contro uno dei più grandi sinologi, Joseph Needham, inglese figlio di genitori scozzesi, ha elaborato uno dei paragoni più interessanti. Per lui i tibetani rispetto ai cinesi Han sono come i gallesi rispetto agli inglesi: come i gallesi non sono inglesi, ma sono certamente britannici, i tibetani non sono Han, ma certamente sono a tutti gli effetti cinesi.
La situazione in Tibet non cambia, se non per una maggiore rassegnazione proprio da parte dei tibetani, diventati anche minoranza in casa loro. I cinesi hanno fatto del Tibet un territorio loro, portando milioni di Han a vivere là. Non si sentono più minacciati e sembrano quindi più tolleranti verso alcune necessità dei tibetani. A Lhasa ci sono cartelli stradali e commerciali scritti nelle due lingue e la Cina permette anche una
maggiore libertà di culto su tutto il territorio. Questo non significa non vi siano manifestazioni contro l’occupazione, soprattutto da parte della fazione più integralista della resistenza tibetana, che accusa il Dalai Lama di avere un atteggiamento troppo morbido. L’ultima grande ondata di proteste c’è stata in occasione dell’apertura dei Giochi Olimpici a Pechino, nel 2008. Le manifestazioni scoppiate in Tibet sono state represse nel sangue davanti agli occhi del mondo, creando un forte imbarazzo nel Governo cinese, che intendeva sfruttare l’immagine positiva dei Giochi. Il dibattito internazionale, con Paesi che chiedevano di boicottare le Olimpiadi, si è esaurito in poche settimane.
La geografia
Il Tibet storico, quello in cui vivono popolazioni tibetane, ha una superficie quasi doppia a quella che oggi è considerata una Regione autonoma all’interno della Cina. La superficie è di 3.8 chilometri quadrati, più o meno come l’Europa Occidentale e più o meno equivalente ad un terzo del territorio cinese. Gli abitanti, però, sono solo 6 milioni, cioè meno dello 0.5% rispetto alla popolazione della Cina. Questo ha reso il Tibet sempre estremamente appetibile, sia per la posizione strategica fra India e Cina, sia per le riserve d’acqua che controlla, con lo Yangtze, il Fiume Giallo, l’Indo, il Mekong che nascono lì. Infine, vi sono buoni giacimenti di uranio e oro.
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I morti
In Tibet si combatte fondamentalmente perché la Cina da secoli rivendica come proprio quel territorio. L’interesse dei cinesi è strategico, grazie al Tibet si presidia meglio la frontiera con l’India ed economico, dalla Regione si controllano enormi riserve d’acqua che vengono dai tanti fiumi e vi sono buone risorse minerarie. Queste esigenze cinesi - simili a quelle che nei secoli hanno tentato di controllare l’area - si scontrano naturalmente con la voglia di indipendenza dei tibetani, che forti di una cultura politico-religiosa radicata e delle tradizioni rivendicano il loro diritto ad essere uno Stato libero e autonomo. La scelta del Dalai Lama di trovare una soluzione attraverso il dialogo non convince tutti i tibetani. L’ala più radicale del movimento indipendentista chiede all’opinione pubblica mondiale un intervento più duro nei confronti della Cina, da loro considerata Paese occupante. Idea, questa, che si scontra con la realtà politica internazionale: molti Paesi, al di là delle dichiarazioni di principio, non hanno mai riconosciuto il Tibet come Stato Sovrano e, quindi, continuano a considerare la vicenda come un problema interno alla Cina
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Per cosa si combatte
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Nelle Filippine il conflitto è sempre stato su due fronti: fra Governo e guerriglia comunista da un lato e sempre Governo ed indipendentisti islamici dall’altro. Ma quali sono i gruppi più noti? Il Nuovo Esercito del Popolo (Npa), è da sempre la bandiera di chi combatteva contro il Governo per ragioni sociali ed economiche. Nato il 29 marzo 1969, si è configurato come esercito rivoluzionario del Partito Comunista delle Filippine, di ispirazione maoista. È ancora attivo. Per quanto riguarda gli indipendentisti islamici, invece, vengono da Mindanao, l’isola più a sud del vasto arcipelago delle Filippine. Dal 1971 qui si combatte per l’indipendenza, prima con il Fronte nazionale di liberazione dei Moro (Bangsamoro, la terra dei Moro o musulmani, come gli islamici chiamano il Sud delle Filippine), che nel 1987 ha concluso un accordo per una autonomia. Una parte del movimento, però, ha rifiutato l’intesa, creando il Fronte islamico di liberazione dei Moro (Milf), che rivendica ancora l’indipendenza.
FILIPPINE
Generalità Nome completo:
Repubblica delle Filippine
Lingue principali:
Filippino, Inglese, Spagnolo, Arabo
Capitale:
Manila
Popolazione:
93.000.000
Area:
300.000 Kmq
Religioni:
Cristiana (91%), musulmana (5%), altre (4%)
Moneta:
Peso Filippino
Principali esportazioni:
Prodotti agricoli, abbigliamento e idraulica
PIL pro capite:
Us 4.923
zionale Moro, diventò governatore di Mindanao, Regione autonoma enorme. Fu una pace di breve durata. Già nel 2000 i musulmani chiedevano un referendum per l’autodeterminazione, mentre la maggioranza cattolica protestava contro l’accordo non accettandolo. Intanto una serie di scandali per tangenti e corruzione travolgeva la politica. Nell’aprile del 2002 a General Santos, nel Sud del Mindanao, venne dichiarato la stato d’allerta, per l’esplosione di parecchie bombe, con 14 morti, a opera del Milf, il Fronte Islamico di Liberazione Moro. È la ripresa della guerra. In giugno gli Usa accusarono i leader del gruppo Abu Sayyaf, legato ad al-Qaeda di aver rapito e ucciso due statunitensi. In ottobre, il gruppo mette a segno una serie di attentati contro grandi magazzini e una chiesa, con 8 morti e 170 feriti. L’obiettivo dichiarato è
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I gruppi
Colonia spagnola, poi statunitense, infine Paese indipendente guidato con mano dittatoriale da Marcos sino al 1986, le Filippine hanno storia travagliata, caratterizzata da una guerra permanente su due fronti interni: quello della guerriglia indipendentista nel Sud musulmano e quella della guerriglia marxista. La vita democratica del Paese iniziò nel 1986, con la deposizione del dittatore Marcos e l’elezione della Presidente Cory Aquino. L’arrivo della nuova Presidente portò ad un accordo con i movimenti separatisti musulmani di Mindanao, attivi nel Sud del Paese sin dagli anni ‘50. Venne concessa loro ampia autonomia amministrativa. Questo fermò il conflitto armato con i separatisti. Continuò invece la guerra con il Nuovo Esercito del Popolo: nel 1990, la guerriglia riprese, dopo la denuncia della scomparsa di attivisti politici e sindacali della sinistra. Il 26 novembre 1991 un altro pezzo del passato coloniale se ne andò: gli Usa si ritirarono dalla base di Clark - una delle due esistenti nelle Filippine, l’altra è Subic Bay - ritirando 6 mila effettivi americani. Nel maggio dell’anno dopo venne eletto alla presidenza Fidel Ramos, ex ministro della difesa. Venne lanciata una campagna contro il crimine che portò al licenziamento del 2% dei poliziotti e alla denuncia per associazione a delinquere di un altro 5%. Contemporaneamente, la guerriglia comunista del Npa perdeva forza a causa delle divisioni interne e di un’amnistia accordata ai suoi membri dal Governo. Nel 1996 parve risolto anche il problema con i separatisti islamici. Il 30 settembre venne firmato un accordo di pace e Nul Misauri, capo del Fronte di Liberazione Na-
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Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Corazon Aquino
(25 gennaio 1933 - 1 agosto 2009)
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creare uno stato musulmano. Lo scontro con i gruppi islamici divenne sempre più duro, ma restava alta la tensione anche nei gruppi guerriglieri di origine marxista. Nel gennaio 2003, il partito comunista si assunse la responsabilità dell’omicidio di un suo ex dirigente, Romulo Kintanar, attribuendolo al suo braccio armato, il Nuovo Esercito del Popolo (Npa). Nel 2003, Amnesty International denunciò l’uso della tortura su prigionieri politici, membri di gruppi armati e criminali comuni. Accusa che venne respinta dal Governo. Nel marzo del 2004, venne sventato un attentato simile a quello che aveva colpito Madrid l’11 marzo. Vennero arrestati quattro membri di Abu Sayyaf con 36 chili di esplosivo confiscati. Uno di loro si dichiarò responsabile dell’attentato che il 27 febbraio di quell’anno costò la vita a 100 persone sul SuperFerry 14. Gli arrestati svelarono di essere stati addestrati dalla rete terroristica Jemaah Islamiah, legata ad al-Qaeda, progettavano attentati contro
treni e negozi a Manila, città con dieci milioni di abitanti. Nel 2004, la Norvegia mediò un accordo fra Nuovo Esercito del Popolo e Governo. L’anno successivo, dopo negoziati di pace in Malaysia, indipendentisti musulmani e Governo annunciarono un accordo sulle terre ancestrali di cui i ribelli rivendicavano la proprietà da trent’anni. Tregue che non durarono. I combattimenti proseguono, con l’esercito appoggiato anche da truppe statunitensi. Si calcola che dal 1971 a oggi siano stati più di 150 mila i filippini morti tra Mindanao e l’arcipelago di Sulu, nello scontro per l’indipendenza e oltre 50 mila gli sfollati. Il conflitto con la guerriglia del Npa, invece, avrebbe procurato almeno 40 mila morti, a partire dal 1969.
I PROTAGONISTI
Corazon “Cory” Aquino è stata la prima donna ad assumere la presidenza di uno stato asiatico. È morta il 1 agosto del 2009, a 76 anni. Una vita difficile la sua. Era entrata in politica controvoglia e dopo l’assassinio del marito Benigno, grande oppositore del dittatore Marcos, ucciso il giorno del rientro in patria - nonostante le minacce di morte - dopo tre anni di esilio. Era il 21 agosto del 1983. Diventata a quel punto alfiere del bisogno di tornare alla democrazia e al rispetto dei diritti umani, era stata eletta Presidente il 25 febbraio del 1986, dopo una rivolta popolare scatenata dalla vittoria elettorale di Marcos, viziata da brogli. Appoggiata da una parte dell’esercito, aveva comunque dovuto resistere a sei tentativi di golpe militare, tutti falliti, e a numerosi disordini politici: soprattutto, non riuscì a trasformare la politica filippina, dominata da un’elite proveniente da poche famiglie potenti.
Per cosa si combatte
Non ci sono ragioni economiche, cioè di controllo di risorse, dietro al doppio conflitto - sociale e religioso - che colpisce le Filippine. Lo scontro fra le parti è determinato dalla pessima distribuzione della ricchezza, in termini sociali e territoriali. Il Nord e il Centro dell’Arcipelago, a maggioranza cristiana, sono decisamente più ricche del Sud, a prevalenza mussulmana. Proprio gli islamici - che sono il 5% della popolazione
complessiva - da sempre accusano la maggioranza cristiana di non aver fatto abbastanza per distribuire le risorse equamente. Lo stesso, ma in senso non religioso e con obiettivi differenti, fanno i gruppi di origine marxista. Una cattiva distribuzione che è ben rappresentata dalla diffusione della popolazione sul territorio: il 60% degli 85 milioni di Filippini, infatti, vive in una sola isola, Luzon, dove c’è la capitale.
Le armi
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Ad armare il Governo filippino sono Stati Uniti, Taiwan, Gran Bretagna e Israele. La guerriglia comunista si rifornisce invece sul mercato nero soprattutto armi leggere - mentre la islamica ha legami con al-Qaeda. Da ricordare che il Governo filippino ha un forte appoggio dall’amministrazione Usa. L’adesione immediata - nel settembre 2001 - al fronte internazionale contro il terrorismo voluto dal Presidente Usa, George Bush, portò nel 2002 all’invio di un contingente di 1.700 soldati americani nelle Filippine, con ruolo antiguerriglia. Contemporaneamente, le Filippine inviarono per breve tempo un piccolo contingente militare a schierarsi con la Forza Multinazionale in Iraq.
Le Filippine rivendicano da anni il possesso delle isole di Isole Spratly o Isole Nansha, gruppo insulare del Mar Cinese, situato a Nord-Ovest del Borneo. L’arcipelago è formato da circa 600 fra atolli corallini e isole, La maggiore è Itu Aba, di appena 0,36 chilometri quadrati di superficie. Nessuna delle isole è abitata in modo permanente. Nel sottosuolo, però, ci sono petrolio e gas naturale, in più l’arcipelago è giusto sulle rotte di navigazione più importanti dell’area. Per questo sei Paesi se lo stanno disputando. Tutti i contendenti, eccetto il Brunei, mantengono installazioni militari su alcune delle isole, che sono teatro di periodici scontri armati: nel 1988 quello tra Cina e Vietnam fece più di settanta vittime. La Cina ha finora rifiutato ogni intermediazione internazionale.
La situazione attuale e gli ultimi sviluppi
La situazione attuale è disastrosa, nonostante i tentativi di accordo. Nelle isole di Jolo e Basilan gli scontri fra esercito e guerriglieri di Abu Sayyaf è continuo. A Mindanao si confrontano invece sempre i soldati dell’esercito di Manila con i guerriglieri del Milf, che hanno ripreso le armi a dispetto degli accordi di pace. Nel Nord del Paese ci sono invece scontri con il Npa, con la guerriglia attiva anche nella capitale.
La situazione è compromessa anche politicamente. Nel novembre 2007 c’è stato un tentativo di colpo di stato militare contro la Presidente Gloria Macapagal Arroyo, accusata dagli ufficiali di finanziare lei stessa la guerriglia separatista islamica, pur di mantenere l’appoggio militare e politico degli Usa. Si calcola che, attualmente, l’esercito ribelle islamico arrivi a più di 8 mila unità. Negli ultimi mesi hanno annunciato di voler intensificare l’attività militare.
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Isole Spratly
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Le milizie dei Naxaliti possono contare anche sulla cosiddetta “Children division”, cioè un gruppo militare composto da soli bambini (anche femmine). Questi, quasi tutti Adivasi, vengono rapiti e costretti ad un addestramento forzato con armi ed esplosivi. Poi sono mandati in combattimento e utilizzati come scudi umani durante le operazioni contro il personale di sicurezza. Le stesse atrocità sono compiute dall’esercito Salea Judum, che recluta minori nella Special Police Offers (Spos). L’Asian Centre for Human Rights (Achr) ha visitato un campo di accoglienza per questi ragazzi strappati alle due formazioni ed ha intervistato nove bambine che hanno dichiarato di essere state addestrate ed utilizzate in operazioni riguardanti tattiche di guerra, inclusi combattimenti e spionaggio.
INDIA
Generalità
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
I bambini soldato nella guerra naxalita
Oltre allo storico conflitto con il Pakistan, l’India deve confrontarsi con due guerre interne ancora in corso, costate ad oggi migliaia di morti. Si tratta della guerra con i ribelli Naxaliti, in particolar modo nello Stato del Chhattisgarh, e di quella contro i movimenti indipendentisti attivi nei confini delle cosiddette “sette sorelle”, cioè sette Stati situati nel Nord Est del Paese (Arunachal Pradesh, Manipur, Meghalaya, Mizoram, Nagaland, Tripura, Assam). La guerra contro i Naxaliti ha inizio nel maggio del 1967. Nel villaggio di Naxalbari (che si trova nello Stato indiano del Bengala Occidentale) scoppia una rivolta di contadini molto poveri: obiettivo della sommossa sono i latifondisti locali. La rivolta non si arresta e si tramuta ben presto in un vero e proprio movimento rivoluzionario, alimentato dall’ideologia maoista, con particolare riferimento all’idea di rivoluzione rurale e alla “lunga marcia della campagne verso la capitale”. Il fondatore del movimento rivoluzionario è il leader comunista Charu Mazumdar (morto in un carcere in India nel 1972). I ribelli sono dai 10 mila ai 15 mila, uniti sotto il nome di People’s Liberation Guerrilla Army. Sono l’espressione militare del partito maoista, che ha come leader indiscusso Muppala Lakshman Rao (chiamato anche Ganapathi). Dopo essere stati cacciati da Calcutta agli inizi degli anni ’70 si sono rifugiati nelle campagne, riorganizzandosi e tornando a colpire con costanza a partire dagli anni ’90. Nel 2005, per contrastarne l’azione, il governo del Chhattisgarh ha lanciato una campagna anti-guerriglia. L’iniziativa ha portato alla nascita della “Salwa Judum”, un esercito che ora combatte contro i Na-
Nome completo:
Repubblica dell’India
Lingue principali:
Hindi, inglese e altre 21 lingue
Capitale:
Nuova Delhi
Popolazione:
1.147.995.904
Area:
3.287.594 Kmq
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Religioni:
Induista (80,45%), musulmana (13,43%), cristiana (2,34%), sikh (1,87%), buddista (0,77%)
Moneta:
Rupia
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Quadro generale
Principali esportazioni:
Tessuti, gioielli, prodotti dell’ingegneria e software
PIL pro capite:
Us 2.563[5]
xaliti. Le autorità hanno dichiarato che si tratta di “una rivolta spontanea della popolazione contro i ribelli”. In realtà, l’esercito indiano ha costretto con la forza le popolazioni locali ad armarsi lottando contro i Naxaliti e alimentando così una spaventosa guerra civile. Secondo gli osservatori internazionali, per creare questa forza anti guerriglia l’esercito sarebbe ricorso alla strategia del terrore, arruolando le milizie a forza e arrivando a esecuzioni gratuite, torture e stupri. Una situazione che aumenta la voglia di fuga in una Regione che conosce da tempo la piaga degli sfollati: sarebbero almeno 100 mila dall’inizio della guerra. La guerra nei territorio del Nord Est, in-
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Charu Majumdar vece, è di stampo etnico. Le popolazioni che vivono in questa Regione si trovano in una situazione di estrema povertà. Le prime tensioni si sono manifestate nel 1971, durante la guerra che portò al distacco dal Pakistan - con l’aiuto dell’India - del Pakistan Orientale, diventato l’indipendente Repubblica del Bangladesh. Le conseguenze del conflitto furono nella perdita d’identità culturale e dell’autonomia politica delle Regioni a ridosso dei confini. Gli abitanti non si sentono indiani e accusano il governo di New Delhi di sfruttare le risorse del territorio senza sostenere l’economia del luogo. Di fatto, le popolazioni delle Regioni non sono indù e non credono nell’induismo, non parlano l’hindi e mal sopportano il centralismo il Governo indiano. La situazione è poi peggiorata con l’arrivo dei tanti profughi provenienti dal Bangladesh. Queste le condizioni che hanno gettato le basi per la sanguinosa guerra, scoppiata nella seconda metà degli anni ‘70, che fino ad oggi ha causato 50 mila morti. I ribelli
sono suddivisi in circa 102 gruppi armati, tra i quali spiccano il Fronte Unito di liberazione (Ulfa), il Fronte Democratico Nazionale del Bodoland (Ndfb), il Consiglio Nazionale socialista del Nagaland (Nsnc), il Fronte Nazionale di Liberazione di Tripura (Nlft), il Fronte Nazionale Mizo (Mnf) e il Kamatapur Liberation Organisation (Klo). Molti di questi gruppi sono di matrice islamica e secondo gli osservatori alcune unità non sono originarie del posto, ma sono forze legate ad al Qaeda. Queste formazioni lottano non solo per avere l’indipendenza dall’India, ma anche per la costituzione di emirati islamici e per intrattenere stretti e solidi rapporti con il Pakistan. La guerriglia si concentra contro i civili indiani e contro le milizie governative. L’India si è detta sempre contraria a creare in queste Regioni delle “Province autonome”, ufficialmente per evitare che abbia il sopravvento la discriminazione razziale e per rilanciare una situazione socio - economica tra le peggiori dell’intero Paese.
I PROTAGONISTI
(Siliguri 1918 - Alipore Central jail 1972) Riconosciuto come il fondatore dei Naxaliti, figlio di un combattente per la libertà, nel 1946 si iscrive al Tebhaga Movement, un gruppo che come obiettivo si prefigge di ridurre ad un terzo del totale la parte del raccolto che i contadini dovevano versare ai latifondisti. Negli anni ’60, insieme a Kanu Sanyal, fonda il Communist Party of India. Nel 1962 viene imprigionato per la prima volta e poi rilasciato. La rivolta contadina del 1967, scoppiata nel villaggio di Naxalbari, viene alimentata proprio dal gruppo di MajumdarSanyal. I due però rompono il loro legame e Majumdar crea il All India Coordination Commitee of Communist Revolutionaries, il Communist Party riunito poi nel 1969 nel Communist Party of India che vede come segretario generale lo stesso Majumdar. Il 16 luglio del 1972, dopo anni di latitanza, viene catturato. Muore in carcere dodici giorni dopo.
Lo Stato del Chhattisgarh conta all’incirca 21 milioni di abitanti. La popolazione rurale vive nettamente sotto la soglia di povertà. La maggioranza appartiene alla comunità dei “dalits”, la casta inferiore della società indiana e per questo è soggetta a pressioni politiche, socio-economiche e culturali dalle caste superiori. Sono “Adivasi”, cioè appartenenti alle “tribù registrate”, quelle che il Governo indiano considera indigene o originarie. Essendo “dalits” sono considerati impuri ed intoccabili, soffrono la discriminazione della segregazione culturale e religiosa. Di conseguenza, vivono nelle periferie delle città. Proprio gli Adivasi sono al centro degli attacchi dei Naxaliti e sono così costretti a fuggire: negli ultimi anni gli sfollati sono stati circa 60 mila, sparsi nei campi d’accoglienza del Chhattisgarh (40 mila persone) e del vicino Andrha Pradesh (circa 20 mila).
La situazione attuale e gli ultimi sviluppi
Le “sette sorelle” indiane
Il più popolato dei sette Stati Nord orientali è l’Assam, con 26.638.407 abitanti (che si estende per 78.438 km2, ed ha come capitale Dispur). Seguono Tripura con 3.191.168 (10.492 km2, Agartala), Manipur con 2.388.634 (22.327 km2, Imphal), Meghalaya con 2.175.000 (22429 km2, Dshillong), Nagaland con 1.988.636 (16.579 km2, Kohima), Aruna Pradesh con 1.091.117 (83.743 km2, Itanagar) e Mizoram con 888.573 (21.081 km2, Aizawl).
Le forniture d’armi nelle due guerre interne
Il Governo indiano, nonostante ne produca autonomamente, riceve armi da molti Stati europei ed in particolar modo da Russia, Francia, Gran Bretagna, Germania, Olanda, Italia, Polonia e Slovacchia, senza dimenticare Israele e Sudafrica.
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Naxaliti con gli Adivasi nel mirino
L’obiettivo dei Naxaliti nella guerra al Governo centrale è la rivoluzione. Dopo il loro ultimo congresso clandestino, nel quale è stato nominato leader Muppala Lakshman Rao, hanno deciso di focalizzare l’attenzione e gli sforzi contro le Special Economic Zones (Sez), ovvero le aree nelle quali dal 2005 l’India concede vantaggi di vario genere, soprattutto fiscali, per favorire e promuovere la costruzione di nuovi impianti industriali. Gli indipendentisti del Nord Est, invece, vogliono l’autonomia delle varie Provincie dell’India, accusata di sfruttare le risorse minerarie della Regione (nella quale si trovano giacimenti di petrolio, gas e minerali pregiati) senza provvedere all’economia locale.
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Per cosa si combatte
Gli scontri con i Naxaliti continuano senza sosta e hanno conosciuto un’escalation proprio nel 2009, anno delle elezioni in India. In particolare nel mese di agosto le milizie maoiste hanno annunciato 48 ore di lotta senza sosta in cinque zone del Paese, in seguito all’arresto di uno dei loro leader. Nel giugno del 2009 il Governo indiano ha deciso ufficialmente di dichiarare fuorilegge il Partito Comunista Indiano Maoista. Per quanto riguarda la lotta per il controllo dei territori del Nord Est, ultimamente gli sconfinamenti dei ribelli del Klo nel vicino Buthan (attuati per sfuggire alle rappresaglie delle truppe indiane) hanno provocato scontri armati anche con l’esercito locale. Infatti il re del Buthan, Jigme Singye Wangchuk, non tollera la presenza delle milizie ribelli e negli ultimi mesi ha dato ordine al suo esercito di sferrare forti offensive contro le bande che si sono rifugiate nel suo Paese.
I Naxaliti utilizzano per lo più le armi che riescono a sottrarre durante gli attacchi alle caserme dell’esercito e della polizia. Invece, i gruppi ribelli attivi nel Nord Est ricevono finanziamenti dagli indiani espatriati in Malaysia ed in particolare quelli dell’Assam sono coinvolti anche nei traffici degli stessi armamenti e di droga. New Delhi, inoltre, accusa Bangladesh e Buthan di sostenere i guerriglieri indipendentisti della zona Nord orientale indiana.
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Mortalità infantile entro il primo anno di vita: 37 ogni mille nascite Mortalità infantile entro il 5° anno di vita: 46 ogni mille nati vivi Bambini registrati alla nascita: 95% Tasso netto di iscrizione alla scuola primaria: 81% femmine, 94% maschi Tasso di alfabetismo giovani (15-24 anni): 81% femmine, 89% maschi Speranza di vita alla nascita: 58 anni Prodotto nazionale lordo pro capite: 2.170 dollari USA Accesso all’acqua potabile: 81% delle popolazione (50% nelle aree rurali) Accesso ai servizi igienici adeguati: 79% della popolazione (48% nelle aree rurali)
IRAQ
Generalità Nome completo:
Repubblica Irachena
Lingue principali:
Arabo, curdo
Capitale:
Baghdad
Popolazione:
27.102.912
Area:
437.072 Kmq
Religioni:
Musulmana
Moneta:
Dinar iracheno
Principali esportazioni:
Petrolio
PIL pro capite:
Us 3.400
luglio del 1990 Saddam Hussein accusa il Kuwait di abbassare volutamente il prezzo del petrolio per indebolire ulteriormente l’economica irachena. Il 2 agosto 1990 l’Iraq invade il Kuwait e l’8 agosto ne dichiara l’annessione. Gli americani intervengono decretando un embargo commerciale che dura ancora oggi e sferrano un attacco militare con l’avallo dell’ONU il 17 gennaio 1991. Cinque settimane di bombardamenti aerei fino al cessate il fuoco firmato il 3 marzo 1991. Nonostante la fine del primo conflitto, le tensioni politiche tra l’Iraq di Saddam Hussein e gli Stati Uniti non sono mai sparite. Dopo l’attentato alle Torri gemelle del 2001 sono tornate, invece, ad esacerbarsi. Dopo l’attacco in Afghanistan, l’allora Presidente americano George Bush punta il dito contro Saddam Hussein, accusandolo di detenere illegalmente armi di distruzione di massa.
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Dati sull’infanzia forniti dall’UNICEF
L’Iraq è un Paese ricco di storia e di cultura millenaria ma è conosciuto soprattutto per le vicende legate alla prima e alla seconda guerra del Golfo, quest’ultima tuttora in corso. Dopo un lungo dominio ottomano, l’Iraq divenne, nel 1921, un regno formalmente indipendente ma sottoposto al mandato britannico. Al termine della prima guerra mondiale, la Gran Bretagna aveva infatti occupato il territorio corrispondente all’attuale Iraq e aveva ricevuto dalla Società delle Nazioni, nel 1920, il mandato ad amministrarlo. Con la fine della seconda guerra mondiale, l’Iraq aderisce alla Lega Araba il 22 maggio del 1945 ed entra a far parte delle Nazioni Unite il 26 giugno del 1945 ma il Paese è attraversato da forti tumulti interni anti monarchici. Il 17 luglio del 1968, un colpo di stato porta al potere il partito nazionalista Ba’ath che inizia ad attuare una graduale ma costante nazionalizzazione degli impianti petroliferi. È l’inizio della lunga carriera politica di Saddam Hussein. Nel 1979, nello stesso anno in cui Saddam Hussein diventa Presidente dell’Iraq, in Iran il potere dello Scià Reza Pahlavi viene rovesciato dalla rivoluzione islamica guidata dall’ayatollah Komeini. L’Occidente e soprattutto gli Stati Uniti perdono un alleato strategico nell’area e l’Iraq, guidato da un Governo di fede sunnita, teme il diffondersi della rivoluzione iraniana sciita. Nel 1980 Saddam Hussein decide di invadere l’Iran. La guerra dura otto anni e i Paesi occidentali, Stati Uniti in testa, si schierano a fianco dell’Iraq. Dopo il cessate il fuoco, decretato il 20 agosto 1988 l’Iraq si ritrova con una situazione economica interna disastrosa. Nel
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Quadro generale
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Saddam Hussein
(Tikrit, 28 aprile 1937, Baghdad, 30 dicembre 2006)
Gli ispettori dell’ONU non ne trovano alcuna traccia ma le armi diventano il ‘casus belli’ per un nuovo attacco americano. Il 20 marzo 2003 comincia l’operazione militare ‘Iraqi Freedom’. L’attacco è stato preceduto e seguito da furenti polemiche internazionali. Il Consiglio di Sicurezza non dà il beneplacito all’attacco e la guerra unilaterale spacca anche il fronte europeo. Francia e Germania si schierano contro l’intervento in Iraq e lo strappo politico con gli Stati Uniti si rimarginerà solo molto tempo dopo. A favore dell’intervento anche la Spagna di Aznar. Il braccio di ferro all’ONU è accompagnato anche da forti proteste pacifiste in tutto il mondo. A sostenere la Casa Bianca, con contingenti militari, appoggio logistico o anche solo politico, un gruppo di 49 Paesi che Washington chiama la “coalizione dei volenterosi” e di cui fa parte anche l’Italia. L’avanzata angloamericana sul territorio è rapidissima. Già nella serata del 20 marzo le forze angloamericane occupano il Sud del Psaese ed arrivano in prossimità di Bassora. Il 9 aprile, tre settimane dopo l’inizio dell’attacco, gli americani entrano a Baghdad. Il 1° maggio 2003 il Presidente Bush tiene un discorso sulla portaerei Abraham Lincoln dove campeggia uno striscione con la scritta ‘Missione Compiuta’. Nel discorso Bush proclama la fine delle operazioni militari e il 14 dicembre del 2003 viene catturato Saddam Hussein. Ma la guerra non era ancora finita. Da allora infatti, una guerriglia assai variegata si oppone con violenza alle forze militari di
occupazione. Si tratta di milizie composte da elementi tribali, in altri casi legati ad al-Qaeda; fedelissimi di Saddam Hussein in maggioranza sunnita e anche milizie sciite come l’Esercito del Mahdi, fondato dal leader politico sciita Muqtada al-Sadr per combattere le forze d’occupazione. Gli attentati sono continui, quotidiani e nonostante l’imponenza dell’apparato militare e il sostegno della coalizione, gli Stati Uniti non sono ancora riusciti a sedare quelli che definiscono ‘insurgents’ e che oltre agli attacchi mirati contro forze d’occupazione hanno rapito e a volte ucciso volontari di Ong, giornalisti e contractors. Il 15 dicembre 2005 gli iracheni si sono recati alle urne per eleggere un nuovo Parlamento, dominato dagli sciiti. Si forma il nuovo Governo guidato dallo sciita Nuri Kàmil al-Màliki.
I PROTAGONISTI
Saddam Hussein è stato per decenni il protagonista assoluto della storia politica dell’Iraq. Eletto Presidente dell’Iraq nel 1979 e fino al 2003, quando venne destituito in seguito all’invasione anglo-americana è stato catturato dall’esercito americano con l’aiuto dai peshmerga, i combattenti curdi, a Tikrit. Le immagini diffuse dagli americani, che lo ritraggono con la barba incolta mentre viene visitato, hanno fatto il giro del mondo. Nel 2005 viene sottoposto ad un processo con l’accusa di crimini di guerra. Viene condannato a morte e giustiziato per impiccagione il 30 dicembre del 2006. Le immagini vengono filmate con un telefonino e diffuse dai media di tutto il mondo sollevando numerose polemiche e condanne.
“La protezione delle risorse petrolifere è una delle ragioni per le quali le nostre truppe sono in Iraq”. È quanto ha dichiarato di recente il ministro della Difesa australiano, Brendan Nelson, ai microfoni della radio nazionale Abc. Accertata l’inesistenza di armi di distruzione di massa e il collegamento tra il Governo di Saddam Hussein e la rete terroristica di al-Qaeda, anche da una commissione ad hoc della CIA, la guerra scatenata contro l’Iraq appare sempre più chiaramente centrata su forti interessi economici e geopolitici dell’area. Il conflitto è però indubbiamente cresciuto, aggravandosi, anche a causa della forte instabilità interna del Paese che dopo la caduta di Saddam Hussein ha mostrato tutta la gravità delle proprie divisioni interne tra curdi, musulmani sciiti e mussulmani sunniti in lotta per conquistare un fetta di potere.
La situazione attuale e gli ultimi sviluppi
La guerriglia contro le forze militari d’occupazione si è enormemente intensificata negli ultimi anni. Gli attacchi degli insorti iracheni contro i contingenti militari hanno lasciato a terra centinaia di soldati e civili. Il contingente italiano ha pagato un prezzo
altissimo con la strage di Nassirya del 12 novembre 2003 quando morirono 19 militari italiani. Secondo un dossier del ministero iracheno dei diritti umani, sono almeno 85 mila (ed è un dato che tiene conto solo dei certificati di morte emessi dal ministero della Sanità) gli iracheni uccisi in episodi di violenza nel periodo compreso fra il 2004 e il 2008. Nel rapporto il ministero sottolinea che a creare “queste cifre terribili” sono stati “gruppi fuorilegge, attraverso attacchi terroristici come esplosioni, assassinii, sequestri, o spostamenti forzati di popolazione”. Dal 2006 è cominciato un progressivo ritiro o una riduzione di molti contingenti tra cui quello italiano, spagnolo e inglese e a gestire il territorio sono rimasti soprattutto l’esercito statunitense. Il 30 giugno 2009 i militari americani hanno abbandonato le principali città dell’Iraq, una giornata accolta con festeggiamenti dal popolo iracheno. Ma il ritiro definito è pianificato per il 2011, come ha ribadito nell’aprile del 2009 lo stesso Presidente Barack Obama durante un incontro con il primo ministro iracheno Nouri al Maliki. Intanto l’Iraq è chiamato ad una nuova sfida. Nel gennaio del 2010 si terranno nel Paese le elezioni legislative.
Abu Ghraib
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Il carcere di Abu Ghraib è tristemente noto per lo scandalo scoppiato nell’aprile del 2004 quando i giornali di tutto il mondo hanno cominciato a pubblicare notizie di torture e sevizie compiute sui detenuti iracheni da parte di soldati statunitensi e britannici. In particolare il rotocalco televisivo americano, 60 Minutes, ha diffuso per primo in un reportage la storia degli abusi e delle violenze ai danni dei detenuti. In breve sono iniziate a circolare le fotografie impietose che gli stessi militari avevano scattato mentre torturavano i detenuti iracheni. Secondo un rapporto della Croce Rossa Internazionale le autorità statunitensi erano al corrente dell’accaduto fin dalla primavera del 2003. L’amministrazione dell’ex presidnete Bush si è dovuta pubblicamente scusare per quanto accaduto. Il carcere di Abu Ghraib è stato chiuso nel 2006 e riaperto nel 2009 dopo una ristrutturazione e dopo essere stato ribattezzato Baghdad Central Prison.
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Per cosa si combatte
La battaglia di Fallujia
Nell’autunno del 2004 l’esercito americano ha tenuto d’assedio per dieci giorni la città di Fallujia. Una battaglia che aveva lo scopo di “rompere la spina dorsale” della guerriglia. Una inchiesta di Rainews 24 ha dimostrato che nella battaglia di Fallujah l’esercito americano ha utilizzato contro obiettivi umani il fosforo bianco. Le munizioni al fosforo bianco sono state usate negli attacchi soprannominati ‘shake and bake’, letteralmente ‘scuoti e cuoci’ visto che questo è l’effetto delle armi al fosforo bianco che, secondo le convenzioni internazionali, possono essere utilizzate solamente a scopo di illuminazione, per spaventare o per nascondere le proprie truppe. Quanto sostenuto nell’inchiesta è stato confermato dalla rivista ufficiale dell’artiglieria americana ‘Field artillery’,
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110 Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
A svolgere ruolo di mediatori tra India e Pakistan sono soprattutto gli Stati Uniti. A partire dal 1999, da quando cioè il Pakistan ha dichiarato di possedere la bomba atomica, non sono mai mancate le mediazioni statunitensi preoccupati che l’ordigno nucleare potesse cadere nelle mani dei fondamentalisti islamici e utilizzato contro l’Occidente. Proprio gli Stati Uniti avrebbero collaborato con il governo di Islamabad durante la breve guerra del 1999, fornendo immagini satellitari che mostravano lo schieramento dell’esercito indiano.
UNHCR/T. Irwin
KASHMIR
Generalità Nome completo:
Kashmir
Lingue principali:
Kashmiri, Dogri, Shina, Khowar, Punjabi, Gojri, Pahari, Hindi, Balti, Ladakhi, Urdu, Inglese
Capitale:
Jammu e Srinagar (rispettivamente capitali invernale ed estiva dello Jammu e Kashmere) Muzaffarabad (capitaledell’Azad Kashmir), Gilgit (capitale dei Territori del Nord)
Popolazione:
14.000.000
Area:
222.236 Kmq
Religioni:
Buddista, musulmana, induista, sikh
Moneta:
Rupia
Principali esportazioni:
Cashmere
PIL pro capite:
n.d.
che decisero di creare un confine provvisorio chiamato “linea di controllo”. Nello stesso anno l’Azad Kashmir si conferì una Costituzione e creò un Parlamento; al suo Governo, legato a quello Pakistano, venne affidata l’amministrazione di Gilgit, del Baltistan e dei Territori del Nord. Nel 1954 il Jammu e Kashmir vennero annessi all’India, ma i contrasti tra induisti e musulmani continuarono cruenti. Annessioni coatte e scontri religiosi portarono, nel 1965, allo scoppio di una nuova guerra con il Pakistan, terminata un anno dopo con un nulla di fatto, dato che
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Gli interessi degli Stati Uniti
Una posizione strategica che rende la Regione appetibile per troppi Paesi. Poi, scontri di tipo religioso e culturale fra gruppi differenti. Sono queste le ragioni che portano il Kashmir ad essere teatro di una sanguinosa guerra da decenni. Non a caso, il territorio è stato spartito negli anni dai tre grandi Paesi vicini: India, Pakistan e Cina. Di fatto si tratta di un’area amministrata da tre diversi Governi: l’India si è impossessata dei territori dello Jammu, della Vallata del Kashmir e del Ladakh (tutti e tre questi territori prendono l’unico nome di “Jammu e Kashmir” e hanno un’estensione pari a 81.954 kmq); il Pakistan dell’Azad Kashmir e dei Territori del Nord, cioè il Gilgit ed il Baltistan (97.547 kmq); la Cina dell’Aksai Chin e del Shaksgam (42.735 kmq). Si tratta di suddivisioni che non hanno mai ottenuto un riconoscimento ufficiale, elemento che aggrava ulteriormente la situazione e che alimenta la guerra per il controllo del Kashmir. A combatterla sono soprattutto India e Pakistan dato che rivendicano la sovranità sull’intera Regione mentre la Cina si “accontenta”solo della porzione che occupa attualmente. È nel 1947 che si gettarono le basi per lo scontro. Dopo la dissoluzione dell’India britannica, si scatenarono violenti scontri, soprattutto nello Jammu, che portarono al massacro di migliaia di musulmani. Nei distretto di Gilgit scoppiarono rivolte per ottenere l’annessione al Pakistan, alla quale però si oppose il maragià Hari Singh che, preoccupato dall’avanzare dei combattenti islamici, chiese la protezione dell’India, con cui firmò un trattato di adesione. L’intervento indiano portò al conflitto con il Pakistan. La guerra si concluse nel 1949, grazie alla mediazione delle Nazioni Unite,
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Quadro generale
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Maulana Masood Azhar
(Bahawalpur, 10 luglio 1968)
UNHCR/M. Pearson
i due eserciti si ritirarono verso le posizioni che occupavano prima dei combattimenti. Nel 1974 il Pakistan non riconobbe l’accordo con il quale il Jammu e Kashmir veniva inserito nell’Unione Indiana. La conseguenza fu che le tensioni tra la comunità induista e musulmana si impennarono. La componente islamica iniziò a rivendicare il diritto alla separazione, con durissimi scontri con l’esercito indiano. La situazione peg-
giorò ulteriormente nel 1999, quando l’India annunciò la ripresa degli esperimenti nucleari e il Pakistan rispose con i suoi primi test atomici. Il Pakistan invase i territori indiani, scatenando la breve ma intensa guerra del Kargil, terminata grazie alla mediazione degli Usa.
UNHCR/M. Pearson
I PROTAGONISTI
È il leader musulmano degli indipendentisti del Kashmir e fondatore nel 2000 del gruppo composto da mujaheeden Jaish-eMohammed, il più grande dell’Asia del Sud, attivo principalmente nella lotta al Kashmir indiano per conquistarlo e renderlo territorio del Pakistan. Amico di Osama Bin Laden è legato anche al movimento di al Qaeda presente in Somalia. Nel ‘94, ottiene in Portogallo un visto per l’ India dove viene arrestato. I suoi compagni nel 1995 rapiscono quattro turisti con la minaccia di ucciderli se non avessero liberato il loro leader. Il Governo indiano non accetta e gli ostaggi vengono uccisi. Nel 1999 viene liberato a seguito del dirottamento di un aereo per mano di un gruppo di talebani e arrestato nuovamente nel 2001 dalle autorità pakistane, ma mai accusato, per gli attentati al Parlamento indiano. Un anno dopo il rilascio il suo nome viene accostato anche agli attacchi del novembre 2008 a Mumbai.
La situazione attuale e gli ultimi sviluppi
moltiplicati, alimentati dai talebani in fuga dall’Afghanistan. Nell’ottobre del 2001 un gruppo di fondamentalisti ha portato a termine un clamoroso attacco nel Parlamento di Srinagar, unico Stato musulmano dell’India, uccidendo 38 persone e rischiando di compromettere ancora i già debolissimi legami che l’India ha con il Pakistan. In dicembre un commando separatista kashmiro ha ucciso 5 persone nel Parlamento di New Delhi. Il risultato di questi attentati reciproci è stato un riacutizzarsi della violenza nelle lotte per la conquista del Kashmir. In tempi più recenti ci sono stati dei segnali distensivi. Nell’aprile del 2005 è stato inaugurato un servizio di autobus che collega Muzaffarabad e Srinagar: per la prima volta, dopo 60 anni, la parte pakistana e quella indiana del Kashmir hanno un collegamento. In ottobre un devastante terremoto ha colpito la Regione causando circa 23 mila morti. Nel settembre del 2009, invece, oltre 1.500 corpi sono stati rinvenuti in diverse fosse comuni nel Kashmir indiano. Scoperte simili sono state fatte anche nel corso del 2008.
La crisi seguita dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre non ha risparmiato il Kashmir: infatti i separatisti kashmiri si sono
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
La popolazione
La popolazione dello Stato dello Jammu e del Kashmir è composta dal 75% di musulmani, dal 22,6% di indù, dal 2,2% di sikh e dal 2% di buddisti. La composizione religiosa cambia in ogni singolo territorio della Regione. Nella Vallata del Kashmir, dopo l’esodo di quasi 150 mila pandit (indù kashmiri autoctoni) vivono quasi esclusivamente musulmani. Il Ladakh è diviso simmetricamente in due parti:il distretto di Kargil è popolato per l’82% da musulmani sciiti, mentre il distretto di Leh è abitato per l’83% da buddisti. La situazione più complessa, invece, si presenta nello Jammu con il 66,3% di indù, il 29,6% di musulmani, il 4% di sikh, mentre il resto sono tutti gruppi minori.
Le cause della guerra tra Pakistan ed India sono nel controllo del Kashmir. Per il Pakistan la Regione è un elemento di unità nazionale, fondata sull’unione di tutti i musulmani del sub-continente: la sua perdita potrebbe generare una gravissima situazione di instabilità interna. Per l’India, che è sempre stata una nazione nella quale è presente una forte componente multi-religiosa (composta dalla maggioranza indù e da numerose minoranze islamiche, cristiane, sikh e buddiste), vale un ragionamento diverso: il Kashmir controlla l’accesso alle pianure indiane dalle catene montuose del Karakorum e dell’Himalaya e rendendo difficili le comunicazioni con il Tibet limita l’estro militare dell’esercito cinese. Questo è il punto strategico e delicato di tutta la questione che mette ben in evidenza il ruolo svolto dalla Cina nelle controversie legate al controllo di questo territorio. Infatti dalla prima metà degli anni ’60 il Governo cinese intrattiene stretti rapporti di collaborazione con il Pakistan, vendendo armi ed elargendo lauti aiuti economici e supporti tecnici ai programmi nucleari del Governo pakistano.
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Per cosa si combatte
La minaccia della bomba atomica
A partire dal 1999 la guerra del Kashmir ha assunto contorni decisamente più inquietanti, dato che India e Pakistan sono diventate potenze nucleari. La prima tra le due ad iniziare gli esperimenti è stata l’India, che il 18 maggio 1974 a Pokhran, con l’operazione “Sliming Buddha”, ha testato un ordigno dalla potenza di 12 chilotoni. Test ripetuto l’11 maggio del 1998 con “Pokhran-II”, una bomba più potente, da 45 chilotoni. E’ stato questo esperimento che, una volta ufficializzato dal Governo indiano, ha spinto il Pakistan ad accelerare i suoi test: il 28 maggio del 1998 ha fato esplodere il suo primo ordigno dalla potenza di 40 chilotoni. L’uso della bomba atomica nella guerra indo-pakistana è diventato da quel momento molto più di una semplice minaccia.
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114 Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
La linea di confine tra Pakistan e Afghanistan, la cosiddetta “linea Durand”, lunga 2640 km è stata disegnata nel 1893 e prende nome dal Segretario agli affari esteri dell’allora Impero britannico, Sir Mortimer Durand. Questa linea ha di fatto tagliato in due i territori abitati dall’etnia pashtun, il Pakistan occidentale e l’Afghanistan sudorientale, ma solo formalmente. La zona di confine è stata ribattezzata dagli USA “Afpak”, a sottolineare la necessità di una strategia che tenga in considerazione lo stretto collegamento tra i due Paesi ed è stata definita dal Presidente Barack Obama come il luogo più pericoloso del mondo.
PAKISTAN
Generalità Nome completo:
Repubblica Islamica del Pakistan
Lingue principali:
Inglese, urdu, punjabi, sindi, pashto, baluchi
Capitale:
Islamabad
Popolazione:
155.694.740
Area:
803.940 Kmq
Religioni:
Musulmana (95%), in maggioranza sunniti; cristiana (2%), indù (1,6%)
Moneta:
Rupia pakistana
Principali esportazioni:
Tessuti, cotone, pesce, frutta
PIL pro capite:
Us 2.653
al territorio pakistano. Il conflitto è iniziato già negli anni ’50 ma il picco più violento è stato nel 1973 con un’insurrezione delle tribù beluci più agguerrite, Marri e Bugtì. Gli scontri infuriarono per quattro anni e la rivolta fu soffocata nel sangue dall’esercito pakistano, anche grazie all’utilizzo di armi fornite dal confinante Iran. Negli anni ’80 e ’90 il Movimento Beluci, stremato dalla repressione pakistana ha interrotto la lotta armata per imboccare, senza risultati, la strada della lotta politica. Nel 2000 alcuni gruppi di beluci hanno dato vita all’Esercito di liberazione del Balucistan, e ripreso la guerriglia a cui il Governo pakistano ha risposto con l’utilizzo massiccio di esercito e aviazione. Una repressione divenuta ancora più vio-
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La linea Durand
È un vero e proprio terremoto politico e sociale quello che oggi attraversa il Pakistan, la “Terra dei puri”. Generalmente trascurato dalle cronache giornalistiche, questo Paese, alle prese con una profonda instabilità interna che ha radici molto antiche, è invece uno dei protagonisti assoluti del moderno scacchiere politico internazionale. Situato nel cuore dell’Asia meridionale, il Pakistan nasce ufficialmente il 14 agosto 1947. Fino ad allora aveva fatto parte dell’India britannica poi divisa in due diversi Stati: il Pakistan, a maggioranza musulmana, e l’India, a maggioranza indù. Dall’indipendenza, il Pakistan è sempre stato in conflitto con l’India per il controllo del territorio del Kashmir ma questa non è l’unica causa di destabilizzazione per il Paese. La sua stessa struttura di federazione, suddivisa in 4 Provincie, 2 Territori e 107 Distretti con una composizione etnica estremamente frastagliata, ne fanno un territorio di difficile gestione, dove convivono una parte meridionale organizzata in modo più moderno ed una settentrionale profondamente tribale e attraversata da antiche spinte indipendentiste. Epicentro della crisi interna che sta portando al collasso il Pakistan è il territorio di frontiera con l’Afghanistan e l’Iran, da Nord a Sud. L’area più instabile è quella della Provincia del Belucistan, nel Pakistan occidentale, abitata dai beluci, popolazioni tribali, dedite alla pastorizia e alla coltivazione della terra che vivono anche nell’Ovest dell’Iran e nell’estremo Sud dell’Afghanistan. Nel Belucistan dagli anni ‘70 imperversa la guerriglia indipendentista di gruppi ribelli che si battono per l’autonomia della Regione, ricchissima di risorse naturali e per questo annessa con la forza nel 1947
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Quadro generale
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Akbar Khan Bugti
(12 Luglio 1927 - 26 Agosto 2006)
lenta dopo gli attacchi alle torri gemelle del 2001. Con l’inizio della campagna militare nel vicino Afghanistan la guerra contro gli indipendentisti del Belucistan è finita col mescolarsi a quella contro i terroristi islamici di al-Qaeda nascosti nell’Afghanistan meridionale. Nel 2004 l’allora Presidente del Pakistan, il generale Musharraf diede il via libera alla formazione di un comitato parlamentare che avrebbe dovuto rappresentare le istanze dei beluci, ma il gesto fu soltanto formale e il conflitto fra esercito e guerriglieri non si interruppe. Tra il 2005 e il 2006 la repressione dell’esercito pakistano si è concentrata nei distretti di Dera Bugti e Kholu, considerati i più ribelli. I militari pakistani sono riusciti ad assestare un colpo durissimo alla guerriglia beluci uccidendo, nell’agosto 2006, il capo dei guerriglieri, l’ottantenne Nawab Akbar Bugti.
Un altro fronte interno di conflitto per il Pakistan è quello del distretto del Waziristan, una zona impervia e montuosa del Nord Ovest del Pakistan, divisa in 2 parti: Nord Waziristan e Sud Waziristan. Regione di frontiera a cavallo con il tumultuoso Afghanistan, il Waziristan è dal 2004 nel mirino dell’esercito pakistano - perché nascondiglio prediletto per i Taliban in fuga dall’Afghanistan - anche sulla spinta delle pressioni americane che chiedono a Islamabad un maggiore controllo della Regione. Il Pakistan ha inasprito ulteriormente la repressione contro i guerriglieri waziri che cercando di limitare l’antica autonomia di queste popolazioni dal Governo centrale. Dal 2004 sotto i bombardamenti dell’esercito pachistano e statunitense sono morti migliaia di waziri, sia guerriglieri che civili.
I PROTAGONISTI
Conosciuto anche come la “Tigre del Belucistan” Akbar Khan Bugti è morto nel 2006 a 79 anni in un raid dell’esercito pachistano a Kohlu. Il Presidente Pervez Musharraf lo ricercava come terrorista anche se per i beluci era un guerriero ed un martire della causa nazionalista. Istruito all’università di Oxford, Akbar Khan Bugti aveva ricoperto anche cariche istituzionali come ministro della Difesa e mirava al riconosimento dei diritti e dell’autonomia della popolazione beluci all’interno di un Pakistan federale e democratico. Ai suoi funerali allo stadio di Quetta erano presenti 10 mila persone.
Il Waziristan è considerato un vero e proprio bastione talebano. La Regione è diventata un crocevia per i guerriglieri fondamentalisti islamici legati alla resistenza talebana afgana e per i terroristi di al-Qaeda. Le forze armate americane e i servizi segreti pachistani sono convinti che tra le montagne del Waziristan si nascondano i vertici di al-Qaeda, Osama Bin Laden compreso. Habitat naturale per i talebani in fuga dal Sud dell’Afghanistan è anche il Belucistan dove convergono però anche forti interessi economici che contribuiscono innegabilmente alla destabilizzazione della Regione. Il valore economico e geopolitico di questa Provincia pachistana è enorme. Non solo per le ingenti risorse energetiche di gas naturale, petrolio e uranio di cui dispone, ma soprattutto perché proprio lì si trova il porto di Gwadar costruito dai cinesi, al quale in un prossimo futuro potrebbe collegarsi il ‘gasdotto della pace’, tra Iran e Pakistan.
I profughi
Altra zona calda del Pakistan è la Provincia della Frontiera del Nord Ovest (Pfno) con capitale Peshawar. Anch’essa area pashtun, la Pfno, la cui punta settentrionale confina con l’Afghanistan, è considerata un’altra roccaforte talebana in Pakistan. Nell’aprile del 2009 due milioni di persone sono state sfollate per permettere all’esercito pachistano un’imponente offensiva contro i guerriglieri talebani. In migliaia vivono ancora nei campi profughi.
Il porto di Gwadar
Finanziato dalla Cina il porto di Gwadar, nella punta sudoccidentale del Belucistan, è uno sbocco nevralgico sul Mare Arabico. È stato aperto nel 2007 alla presenza del Presidente Pervez Musharraf e continua senza sosta la sua espansione, tanto che il Governo cinese vi sta costruendo una raffineria. Il Governo di Pechino vorrebbe farne un corridoio energetico strategico che colleghi il Mar Rosso alla regione autonoma dello Xinjiang.
La situazione attuale e gli ultimi sviluppi
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Per cosa si combatte
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L’attuale situazione delle zone tribali del Pakistan è al limite dell’implosione. Nonostante un cessate il fuoco con i guerriglieri waziri nel 2006, gli scontri sono ripresi così come i bombardamenti statunitensi nella Regione e le incursioni dell’esercito pachistano che ha dispiegato migliaia di soldati. I guerriglieri attaccano caserme e uffici di polizia e gli attentati sono continui. Altrettanto grave resta la situazione nel Belucistan dove addirittura, dopo le violente alluvioni del 2007, l’allora Presidente Mu-
sharraf negò l’accesso persino alle strutture delle Nazioni Unite. Gli attentati nel Belucistan sono quasi quotidiani secondo i report statunitensi e il prolungarsi del conflitto ha spinto migliaia di profughi (si parla di 84 mila persone) a fuggire verso le aree di confine di Iran e Oman e verso il resto del territorio pachistano, nel Sindh e nel Punjab. Gli scontri etnici e di stampo indipendentista imperversano dunque in Pakistan. Il rischio è che il Paese, dotato di bomba atomica, finisca completamente fuori controllo.
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È stata una guerra durissima quella nello Sri Lanka. Durata più di due decenni, secondo le stime internazionali ha causato almeno 65 mila morti. Tante vittime, quindi, sia delle violenze fra esrecito e guerriglieri, sia per gli scontri feroci interni agli stessi gruppi ribelli. Non sono mancati gli abusi, gli eccessi denunciati dalle organizzazioni internazionali. Nel biennio ‘96 - ‘97 il culmine, con la denuncia dell’arresto da parte della polizia e della successiva scomparsa di 600 persone, 400 delle quali ritrovate in una fossa comune due anni più tardi nella città settentrionale di Chemmani. La guerra ha anche portato all’incapacità di agire nelle situazioni di emergenza, che sono state tante. Questo ha causato altre vittime. Come per il maremoto del dicembre 2004, che fece 30 mila vittime e più di 5.600 dispersi. La costa orientale, da Jaffna fino alle spiagge del Sud, fu devastata. I distretti di Muttur e Trincomalee vennero distrutti. Il cataclisma portò una tregua nei combattimenti, ma l’intervento dei soccorsi e della ricostruzione furono inevitabilmente rallentati dai problemi del Paese.
SRI LANKA
Generalità Nome completo:
Repubblica Democratica Socialista dello Sri Lanka
Lingue principali:
Singalese, Tamil, Inglese
Capitale:
Colombo
Popolazione:
21.077.000
Area:
65.610 Kmq
Religioni:
Buddista (70%), induista (15,4%), cristiana (7,3%), musulmana (7,2%)
Moneta:
Rupia di Sri Lanka
Principali esportazioni:
Thè, gomma, tessile e abbigliamento
PIL pro capite:
Us 4.384
Decisioni che peggiorarono i rapporti di forza interni e inasprirono il confronto con i Tamil. Soprattutto portarono a quella che viene considerata la data d’inizio della guerra, il luglio del 1983. Le forze di polizia e l’esercito cingalesi entrarono nei territori Tamil armi in pugno. Il risultato furono almeno 600 morti e circa 100 mila sfollati È il “luglio nero”. I ribelli Tamil si unirono nelle “Tigri per la liberazione della nazione Tamil” le (Ltte). Un esercito da subito formato anche da donne e bambini. Le donneTigre arrivarono ad essere almeno 3 mila e molti combattenti erano ragazzini di 12 o 13 anni, reclutati da ufficiali che li addestravano ad uccidere togliendoli alle famiglie. Una guerra dura e senza regole, quindi. Caratterizzata - apparirono qui la prima volta
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Morti
Colonia inglese fino al 1948, protagonista del movimento dei Paesi Non Allineati cioè non schierati con Usa o Urss - negli anni ‘50, lo Sri Lanka ha convissuto con una durissima guerra fra maggioranza Cingalese (80% della popolazione) e minoranza Tamil (20% tra Tamil originari dell’isola e quelli di origine indiana) a partire dagli anni ‘80, dopo aver sciolto ogni relazione con la Corona britannica ed aver proclamato - nel 1972 - la nascita della Repubblica dello Sri Lanka, abbandonando la vecchia dizione di Isola di Ceylon. Proprio il 1972 può essere considerata data fondamentale della crisi. Venne infatti varata una nuova Costituzione, con il buddismo come religione di Stato e e l’abolizione dell’articolo 29 della Costituzione precedente, che garantiva i diritti delle minoranze. Insomma, la maggioranza cingalese decideva di togliere voce ai Tamil, minoranza discendente dai dravidi dell’India meridionale. La reazione fu la nascita del Fronte Unito di Liberazione Tamil (Tulf), che unificava tre partiti Tamil: il Partito Federale, il Congresso tamil e il Congresso dei Lavoratori di Ceylon, filo-indiano, impegnato a portare avanti le richieste di maggiore autonomia del popolo Tamil. Intanto, il Governo virava verso una politica più liberista. Il progetto di trasformare lo Sri Lanka in un “centro di esportazione” sul modello di Hong Kong o Taiwan portò alla creazione di una zona franca a Latunayabe, nel 1978. Contemporaneamente, nonostante la formale permanenza fra i Paesi Non Allineati, agli inizi del 1982 venne data alla Marina degli Stati Uniti la facoltà di usare le stazioni di rifornimento a Trincomalee, sulle rotte verso il canale di Suez.
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Quadro generale
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Chandrika Kumaratunga
(Colombo, 29 giugno 1945)
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- dagli attentatori suicidi. Soprattutto tutti combatterono tutti. Le “Tigri” dal 1983 al 1987 combatterono contro il Governo. Poi dal 1987 al 1990 la lotta fu contro le truppe d’intervento indiane e contro altri partiti Tamil. L’India era intervenuta con una propria forza militare, la Indian Peace Keeping Force (Ipkf) in aiuto delle forze armate cingalesi e per garantire la sicurezza dei Tamil di origine indiana rimasti nello Sri Lanka: 500 mila di loro erano infatti tornati in India nel 1980. L’intervento militare terminò nel 1990, ma l’anno dopo il primo ministro indiano, Rajiv Gandhi, venne ucciso da un commando suicida delle Tigri durante un comizio elettorale in Tamil Nadu. La partenza dell’esercito indiano riscatenò la guerra con l’esercito statale. Nel settembre 2002 iniziarono negoziati di pace, con la mediazione della Norvegia. A Oslo venne deciso un cessate il fuoco, sempre fragile. Scontri fra fazioni e sparizioni (900 gli scomparsi durante la lunga guerra) non finirono. Nel 2004 lo tsunami provocò migliaia di morti. Governo e Tamil si incontrano a
Ginevra per ribadire la tregua e decidere come usare gli aiuti arrivati dall’estero. Ma la pace restò lontana. I due terzi dei cingalesi si opponevano ad accordi, sostenuti invece dal 90% dei Tamil, e il tentativo di pace venne allontanato anche per ragioni religiose. I cingalesi si sentono depositari del buddismo theravada e non possono pensare di essere assorbiti dal mondo indiano a cui sono legati i Tamil induisti. Nel 2006 - mentre a Oslo le delegazioni lavoravano al rinnovo del cessate il fuoco - le elezioni vennero vinte dall’Alleanza per la Libertà del Popolo Unito (Upfa) del Presidente Rajapakse, con la maggioranza in 222 centri su 266. Le cose precipitarono, con provocazioni e piccoli scontri. Poi, nella prima metà del 2008 la guerra riprese.
I PROTAGONISTI
Nata a Colombo nel 1945, Chandrika Kumaratunga, è stata la prima donna Presidente dello Sri Lanka, fra il 1994 e il 2005. Il padre, Solomon Bandaranaike, fu uno dei protagonisti dell’indipendenza del Paese, fondò lo Sri Lanka Freedom Party (Slfp; Partito della libertà) e fu primo ministro dal 1956 al 1959, anno in cui venne assassinato. La madre, Sirimivo Bandaranaike, è stata a sua volta primo ministro per tre mandati. Dopo gli studi di scienze politiche compiuti a Parigi, Kumaratunga aderì all’Slfp. Alla morte del marito, ucciso nel 1988, divenne però capo dello Sri Lanka Mahajana Party (Slmp). Nel 1994 assunse la guida del Governo, in novembre dello stesso anno fu eletta alla presidenza della Repubblica. Promotrice della liberalizzazione del mercato, ha fallito la ricomposizione del conflitto fra Cingalesi e Tamil. Nel dicembre 1999 sopravvisse ad un attentato da parte dei Tamil. Negli anni seguenti si oppose ai negoziati avviati dal primo ministro Ranil Wickremesinghe, arrivando nel 2003 a dichiarare lo stato d’emergenza e a sospendere il Parlamento.
È guerra fra popoli diversi, fra religioni differenti, fra culture, quella che ha devastato l’isola di Sri Lanka per decenni. Ovvio, si trattava di controllo del potere, in un Paese strategico per la posizione geografica. Ma la realtà è che la maggioranza Cingalese - buddista - non ha mai concepito o tollerato le richieste di indipendenza e autodeterminazione della minoranza Tamil, induista. Dopo l’indipendenza del 1948 e aver tagliato i ponti definitivamente dal Regno Unito nei primi anni’70, la maggioranza cingalese varò un costituzione - 1972 l’anno - che introduceva il buddismo come religione di Stato e aboliva l’articolo 29 della Costituzione precedente, che garantiva i diritti delle minoranze. Questo l’avvio della guerra, a cui si aggiunsero gli interessi indiani nel proteggere parte della popolazione Tamil di origine continentale e di mantenere un controllo territoriale sullo Sri Lanka. La stessa ragione ha spinto gli Stati Uniti ad intervenire, nel tentativo di garantirsi basi militari importanti in chiave anti cinese.
Gli attori
Il conflitto dello Sri Lanka ha avuto sempre anche attori esterni. Il principale, l’India, impegnata a difendere gli interessi dei Tamil di origine indiana, soprattutto per evitare sollevazioni e problemi sul proprio territorio. Tra il 1987 e il 1990, l’India ha inviato sull’isola, a Jaffna, un contingente di forze di pace, denominato Indian Peace Keeping Force (Ipkf), in aiuto delle forze armate cingalesi. Pare sia questa la ragione dell’attentato che, nel 1991, uccise Rajiv Gandhi durante un comizio elettorale in Tamil Nadu. Poi, gli Stati Uniti: ufficialmente hanno sempre dichiarato di essere contro la divisione dello Sri Lanka e il terrorismo. Contemporaneamente hanno accreditato l’Ltte, utilizzando ad esempio la Norvegia per mediare fra le parti.
Le mine
Pare siano almeno mezzo milione le mine antiuomo sul territorio dello Sri Lanka, risultato di 26 anni di guerra. A dichiararlo è stato il Governo, spiegando che le mine sparse nel Paese erano un milione, ma che la metà era stata già neutralizzata da esercito e Ong. Le zone dove si trovano gli ordigni sono il Nord e l’Est del Paese. A fornire le mine, negli anni del conflitto, sono stati Pakistan e Cina.
La situazione attuale e gli ultimi sviluppi
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Per cosa si combatte
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Il più che ventennale conflitto viene considerato militarmente concluso dal maggio 2009, quando il Presidente Mahinda Rajapaksa, dichiara ufficialmente sconfitta l’insurrezione dei Tamil e annuncia l’uccisione del leader Velupillai Prabhakaran e di gran parte dello stato maggiore Tamil. Lo scontro armato era riesploso nella prima metà del 2008. In dicembre dello stesso anno, l’offensiva dell’esercito portava alla
riconquista della parte settentrionale della penisola di Jaffna. I ribelli non riescono a tenere il fronte sul piano militare e si scindono su quello politico. Le parti non accettano richieste di tregua o cessate il fuoco, così gli scontri continuano, con bombardamenti, attentati e attacchi suicidi. Gli sfollati nei territori dell’Est sono migliaia. La fine arriva, appunto, il 17 maggio 2009, con la resa dei Tamil.
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122 Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
THAILANDIA
Generalità
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
La politica
Vale la pena ricordare come la Thailandia sia stata alla ribalta della cronaca internazionale per la lunga lotta politica interna, negli ultimi mesi, con grandi manifestazioni di massa, scontri e l’occupazione degli aeroporti. Tutto inizia con le elezioni di dicembre 2007 e il successo del Partito del Potere Popolare (Ppp), che si aggiudica 233 dei 480 seggi del Parlamento thailandese. Nel febbraio 2008 si insedia il nuovo Governo di coalizione guidato da Samak Sundaravej. Nel settembre 2008 Samak è costretto alle dimissioni con l’accusa di aver accettato un compenso in denaro per alcune apparizioni televisive; gli succede alla guida del Governo Somchai Wongsawat, ex ufficiale e cognato di Thaksin. Dal mese di agosto il Paese è preda di una grave crisi politica e sociale, con il partito d’opposizione, l’Alleanza del Popolo per la Democrazia (Pad), che chiede insistentemente le dimissioni del Governo Somchai. A novembre gli oppositori occupano gli aeroporti, per costringere il Governo ad andarsene. Poi, alla fine di novembre del 2008 la Corte Costituzionale riconosce l’esistenza di brogli nelle elezioni del dicembre 2007 e ordina lo scioglimento dei partiti di Governo e l’interdizione per cinque anni dei suoi leader dalla vita politica. La Thailandia può ricominciare.
Dal 2004 ad oggi si calcola i morti siano stati fra i 4 e i 5 mila, una cinquantina solo l’estate del 2009. È il bilancio della guerra oscura e sconosciuta che in Thailandia si sta combattendo da anni in tre Provincie meridionali a maggioranza musulmana:Yala, Narathiwat e Pattani, a poche centinaia di chilometri dalle più famose spiagge thailandesi. Dopo cinque anni di insurrezione, nelle Provincie meridionali al confine con la Malaysia la situazione è davvero drammatica. Nella Regione c’erano già trascorsi indipendentisti. La nuova fase di violenza è però cominciata nel gennaio del 2004, per opera di non meglio identificati gruppi indipendentisti radicali. Il picco della crisi è stato nel 2007 e di lì il livello dello scontro armato fra esercito e indipendentisti si è alzato. Narathiwat, Yala e Pattani sono Provincie abitate in maggioranza da musulmani di lingua malese. Corrispondono al territorio di un sultanato annesso all’inizio del secolo scorso all’allora regno del Siam, dopo un accordo con gli inglesi, veri padroni dell’area in quegli anni. C’è una storia differente, quindi, a giustificare le richieste di indipendenza. Le realtà, però, è che anche per gli osservatori stranieri si tratta di una guerriglia poco conosciuta. Il movimento ribelle si chiama “Combattenti per la liberazione di Pattani”, ma non ha né un simbolo né un leader riconosciuto. Totalmente ignoto anche l’obiettivo reale della guerra scatenata cinque anni fa: non è chiaro se vogliano solo una maggiore autonomia, l’indipendenza o una unione con la Malaysia. Nella Regione, la stragrande maggioranza degli abitanti sono musulmani, di etnia e lingua malay, da sempre i thailandesi la
Nome completo:
Regno di Thailandia
Lingue principali:
Thai
Capitale:
Bangkok o Krung Thep in thai
Popolazione:
64.200.000
Area:
514.000 Kmq
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Religioni:
Buddista (95%), musulmana (4.6%), cattolica (0.75%)
Moneta:
Baht Thailandese
Principali esportazioni:
Tapioca, riso, caucciù, ananas, stagno
46° Parallelo
Quadro generale
PIL pro capite:
Us 8.368
percepiscono come pericolosa. I pochi buddisti che ci vivono tendono a lavorare per conto del Governo, diventando dal 2004 facile obiettivo dei ribelli, che da sempre colpiscono soprattutto gli insegnanti, i “volti” del Governo di Bangkok, che rappresentano da soli l’11% delle vittime. Vanno a lavorare scortati dall’esercito e nemmeno questo ferma le imboscate. Una situazione che sembra diventata ingovernabile. L’esercito, protetto dallo stato di emergenza dichiarato nel 2005 dal Governo, ha scontri sporadici con i ribelli, ma tiene sotto pressione la popolazione della Regione, che reagisce radicalizzando lo scontro e appoggiando apertamente la ribellione e condividendo il risentimento verso Bangkok. Ad alimentare questo sentimento sono le
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Bhumibol Adulyadej Rama IX (Cambridge, 5 dicembre 1927)
ingiustizie create dallo stato di emergenza. In caso di violenza, esercito e autorità statali vengono assolte, nelle violenze non è mai chiaro chi sia il responsabile. Non sono solo imboscate e vendette reciproche tra musulmani e buddisti, o tra ribelli e “collaborazionisti”: attentati come quello della moschea di Narathiwat vengono attribuiti genericamente a paramilitari o teste calde all’interno delle forze armate. In realtà, anche le organizzazioni internazionali hanno denunciato le violenze, i soprusi. Un recente rapporto di Human Rights Watch ha spiegato che, per effetto delle leggi speciali thailandesi che prevedono la carcerazione preventiva senza mandato per 37 giorni, e di un regolamento del generale Viroj - comandante dell’area - che vieta visite dei familiari per i primi tre giorni di detenzione, migliaia di musulmani, maschi, di tutte le età sono stati arrestati e torturati dall’esercito. Secondo l’organizzazione, che ha sentito le testimonianze di molti medici e avvocati di ex detenuti, vengono torturati soprattutto nei primi giorni di detenzione nelle basi locali dell’esercito. Poi, sono trasferiti alla prigione militare di Ingkhayuthboriharn, nella Provincia di Pattani. I sistemi di tortura adottati sono: pestaggi con bastoni e spranghe, elettroshock, strangolamento, affogamento, soffocamento con buste di plastica, nudità forzata, esposizione a temperature estreme. È crisi dura, quindi. Per molti esperti, il movimento ribelle ha chiare origini locali, e per gli analisti internazionali, i rivoltosi - nel frattempo raccolti sono la sigla Fronte Rivoluzionario Nazionale (Brn) - sono da
collegare alla rete di al-Qaeda. È di questo parere la Cia statunitense, che da sempre collabora con l’esercito nel quadro della lotta al terrorismo internazionale. A rafforzare questa opinione è arrivato, nel giugno 2009, un rapporto dell’International Crisis Group, che ha denunciato l’uso della retorica della jihad mondiale nelle scuole delle tre Provincie, al fine di reclutare nuovi combattenti. Il primo ministro thailandese Abhisit, il cui Partito democratico è forte proprio nel Sud, ha reagito promettendo un piano di sviluppo e integrazione per la Regione, storicamente trascurata da Bangkok. Una decisione, questa, che non basta, dato che anche se raggiungesse l’effetto voluto, dovranno passare diversi anni. Intanto le violenze continuano.
I PROTAGONISTI
È conosciuto con il nome di Rama IX, in pubblico come appellativo ha Il Grande. Certamente è uno dei Capi di Stato più longevi, dato che governa dal 1946. In poche righe questo è il ritratto di Bhumibol Adulyadej Rama IX, re di Thailandia curiosamente nato negli Stati Uniti e cresciuto in Svizzera. È infatti Cambridge, negli Usa, il luogo dove è nato il 5 dicembre 1927. È tornato in Thailandia da bimbo, per poi andare in Svizzera, a Losanna, a studiare. Salito al trono nel 1946, nonostante la Thailandia sia una monarchia costituzionale, è sempre stato molto attivo nel governo del Paese, assumendo ruolo e affermandosi a livello internazionale. Soprattutto ha spesso mediato situazioni interne difficili. Ha anche usato il suo enorme patrimonio personale per finanziare progetti di aiuto e sviluppo nelle zone più povere del Paese. Per questa ragione i thailandesi lo vedono come un semidio, rendendolo oggetto di culto. Raccontano poi abbia molti talenti: tra questi sembra sia un buon musicista jazz e un abile velista.
Per cosa si combatte
Le ragioni della guerra sono, come spesso accade, nelle differenze e nella voglia di autonomia di una delle parti. I musulmani sono una minoranza relativamente piccola nel Paese, solo il 4,6% della popolazione, ma sono concentrati tutti nella stessa area e, soprattutto, hanno avuto una lunga storia di indipendenza dalla Thailandia. La situazione internazionale, poi, con lo scontro in atto fra mondo cosiddetto occidentale e terrorismo islamico, ha riacceso le speranze di indipendenza dei musulmani, portandole sotto la bandiera pan islamica.
Gli eredi
La Thailandia è una monarchia. Dal lontano 1946 il re è Bhumibol Adulyadej Rama IX, uno dei capi di stato più longevi del mondo. Come in ogni monarchia, interessante scoprire come funziona la linea di successione.
La Cambogia
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Il generale a riposo Ekkachai Srivilas, direttore dell’Ufficio per la Pace e la Governance dell’Istituto Re Prajadhipok, ha recentemente sottolineato il fallimento degli sforzi del Governo di conquistare l’appoggio della popolazione locale contro i ribelli. Sostiene, il generale, che serve un nuovo approccio alla crisi, evitando le spese e gli sforzi che si pagano per dispiegare 60 mila soldati nel Sud. Una ipotesi, questa, nemmeno lontanamente presa in considerazione dal Governo, che nell’estate 2009 ha ordinato ai 30 mila soldati schierati nel Sud, al comando del generale Viroj Buacharoon, di rastrellare tutti i villaggi della Regione per fare terra bruciata intorno ai Pejuang, i miliziani del Fronte Rivoluzionario Nazionale (Brn). Una scelta coerente con la decisione di attaccare i ribelli per distruggerli, senza cercare mediazioni. Non a caso, il 25 marzo dello stesso 2009 il Governo aveva conferito al comandante delle forze armate thailandesi, generale Anupong Phaochinda, i pieni poteri per schiacciare definitivamente la ribellione.
Si basa su una legge del 1924, promulgata durante il regno del re Vajiravudh per risolvere le controversie dinastiche esistenti all’epoca. Questa norma, per altro, era stata abbandonata negli anni ‘90. È stata riattivata dalla Costituzione del 2007. L’erede al trono thailandese è il principe Vajiralongkorn, figlio maggiore dell’attuale re. Questo oggi, ma la costituzione thailandese dal 1974 permette anche alle donne di ascendere al trono. Tuttavia ciò si può verificare solo in assenza di un erede maschio. Il re, se lo desidera, può nominare uno qualsiasi dei suoi figli come erede al trono.
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La situazione attuale e gli ultimi sviluppi
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
La Thailandia vive uno stato di tensione permanente con la vicina Cambogia. Nell’ottobre 2008 la guerra è stata davvero vicina. Una sparatoria di circa due ore è avvenuta tra i soldati dei due Paesi nella zona contesa del tempio di Preah Vihear, con accuse reciproche di aver iniziato per primi. Il bilancio è stato di due morti e sette feriti: due morti e due feriti da parte cambogiana, cinque feriti da quella thailandese. Dieci soldati cambogiani si sarebbero arresi ai thailandesi. La tensione è stata tanto alta da portare il ministro degli Esteri thailandese ad invitare i concittadini a lasciare la Cambogia al più presto. Tutto, fortunatamente, è per ora rientrato, ma la tensione fra i due Paesi è ancora alta.
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UNHCR/N. Ng
TIMOR EST
Generalità Nome completo:
Timor Est
Lingue principali:
Tetum, portoghese
Capitale:
Dili
Popolazione:
947.000
Area:
15.007 Kmq
Religioni:
Cattolica (90%), musulmana (5%), protestante (3%)
Moneta:
Dollaro statunitense e dollaro australiano
Principali esportazioni:
Legname, caffè, petrolio e gas
PIL pro capite:
Us 1.813
e le 60 mila. Dopo la fine della seconda guerra mondiale la parte orientale dell’isola tornò sotto il dominio portoghese mentre nel 1949 la parte occidentale, dopo il ritiro dell’Olanda, fu definitivamente annessa all’Indonesia. Un primo spiraglio verso l’indipendenza del Paese arrivò nel 1974 quando, in seguito alla ‘Rivoluzione dei Garofani’, il Portogallo cominciò ad allentare gradualmente il controllo sulle colonie in Asia e Africa, permettendo la formazione di partiti politici legalizzati a Timor Est. Nacque la “Frente Revolucionaria de TimorLeste Indipendente”, detto Fretilin, destinato a diventare il movimento simbolo della lotta per l’indipendenza di Timor Est. Nel 1975 si tennero le prime elezioni politiche. Il Fretilin vinse con il 55% dei voti e dichiarò unilateralmente l’indipendenza
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
La missione Unmit
Nell’agosto del 2006 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha deciso l’invio a Timor Est di una Missione Integrata dell’ONU, la UNIMIT (United Nations Integrated Mission in TimorLeste). Il contingente ha il compito di supportare la forza multinazionale già dispiegata sull’isola e ridotta nel 2004 al fine di consolidare la stabilità economica e politica dell’isola ed aiutare il Paese nella difficile transizione verso la piena riconciliazione e coesione nazionale.
Timor Est, è la nazione più giovane del pianeta. È composta dalla metà orientale dell’isola di Timor, dalle isole di Atauro e di Jaco e dalla provincia di Oecussi-Ambeno, una enclave situata nella parte occidentale dell’isola, Timor Ovest, che fa parte invece all’Indonesia. Timor ha subito centinaia di anni di colonizzazione europea, da parte dei portoghesi, che arrivarono sull’isola nel XVI secolo, e dagli olandesi. L’instabilità politica e sociale dell’isola di Timor comincia proprio a causa della convivenza forzata sul territorio delle due potenze coloniali, che causò anni di sanguinosi conflitti risolti soltanto nel 1859, con il Patto di Lisbona che sancì la suddivisione di Timor Est in due parti: quella orientale andò al Portogallo e quella occidentale all’Olanda. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, a causa della sua posizione strategica nel Sud Est asiatico, Timor venne occupata dalle forze australiane che temevano potesse diventare una base militare giapponese. Nel febbraio del 1942 il Giappone occupò effettivamente Timor, cancellando l’assetto territoriale stabilito dal Patto di Lisbona e trasformando l’intera isola in un’unica Regione sotto l’influenza politico-militare del Giappone. Alcune centinaia di militari australiani però non deposero le armi e scelsero di continuare a combattere contro i giapponesi, sostenuti anche dalla popolazione timorese, che per questo pagò un prezzo altissimo. Quando nel 1943, l’Australia decise il ritiro completo dall’isola di Timor, la rappresaglia dell’esercito giapponese contro la popolazione fu terribile. Si stima che le vittime delle violenze furono tra le 40 mila
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Quadro generale
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JOSÉ MANUEL RAMOS-HORTA (Dili, 26 dicembre 1949)
UNHCR/G. Loken
dell’isola dal Portogallo. Lungi dall’essere un nuovo inizio per il popolo timorese, la dichiarazione d’indipendenza diede il via ad uno dei capitoli più sanguinosi della difficile storia di Timor Est. Il 7 Dicembre 1975 l’esercito indonesiano del dittatore Suharto, invase Timor Est occupando subito la capitale Dili e tutte le principali città del Paese. Nel 1976 Jakarta fa di Timor Est la sua ventisettesima Provincia. Iniziano gli scontri tra il Fretilin e l’esercito indonesiano, nell’indifferenza della comunità internazionale, mentre Stati Uniti e Australia riconoscono ufficialmente e subito l’occupazione indonesiana di Timor Est. Per 24 anni l’esercito e le milizie filo indonesiane imperversarono sull’isola accanendosi contro la popolazione. Più di 250 mila timoresi furono uccisi, praticamente un terzo degli abitanti. Caduto il dittatore Suharto, il nuovo Presidente Habibie, decise nel 1998, di dare un segnale di distensione alla comunità internazionale rendendosi disponibile a concedere uno statuto speciale a Timor Est. L’ONU si occupò di organizzare un referendum per l’autodeterminazione dell’isola, indetto il 30 agosto del 1999. La partecipazione al voto fu massiccia, il 98,6% della popolazione si recò alle urne. Gli indipendentisti vinsero con il 78,5% dei consensi ma ancora prima che i risultati venissero resi pubblici, l’esercito indonesiano e le milizie paramilitari filo-indonesiane si scatenarono contro la popolazione. I timoresi venivano uccisi sommariamente, decapitati. In migliaia furono deportati a Timor Ovest, nella parte indonesiana dell’isola.
Il 20 settembre del 1999 L’ONU inviò a Timor Est una forza multinazionale di pace, la Interfet (International Force East Timor). Il 20 ottobre il parlamento indonesiano ratificò i risultati del referendum e decise il ritiro dell’esercito. Nell’aprile del 2002 i timoresi si recano di nuovo alle urne per eleggere il primo Presidente della storia di Timor Est: Xanana Gusmão, leader storico della guerra d’indipendenza. Nel mese di maggio del 2002 viene ufficialmente proclamata l’indipendenza della Repubblica democratica di Timor Est.
I PROTAGONISTI
José Manuel Ramos-Horta è un leader storico della lotta per l’indipendenza di Timor Est. Nel 1996 è stato insignito del Premio Nobel per la pace, insieme al vescovo di Timor Est, monsignor Carlos Felipe Ximenes Belo, per l’impegno continuo in favore di una soluzione pacifica e giusta del conflitto timorese. È stato eletto Presidente di Timor Est alle elezioni politiche del 2007. Prima, dal 3 giugno del 2005 al 25 giugno del 2006 ha ricoperto l’incarico di Ministro ad interim della Difesa e dal 2002 al 25 giugno del 2006 è stato Ministro degli Esteri. Prima di essere eletto Presidente è stato anche primo ministro di Timor Est. Nel 2008 è rimasto vittima di un attentato ordito da un gruppo di militari ribelli ed è miracolosamente sopravvissuto.
Scopo della lotta della popolazione timorese è sempre stato il raggiungimento dell’indipendenza e dell’autodeterminazione. Un’autonomia ostacolata dai forti interessi internazionali in un’area strategica per le rotte commerciali e resa difficile anche oggi dalle tensioni interne tra i diversi gruppi etnici che popolano Timor Est (78% timoresi, 20% indonesiani, 2% cinesi). Nonostante l’indipendenza formalmente conquistata nel 2002, Timor Est è ancora un Paese poverissimo, instabile e di fatto dipendente dal sostegno della comunità internazionale.
La situazione attuale e gli ultimi sviluppi
Nonostante l’ONU, nel maggio del 2004, abbia ridotto il contingente da 3 mila a 700 unità, la situazione a Timor Est è ancora molto tesa. Il Governo sembra ancora incapace di gestire i disordini causati non solo dalla estrema povertà (a Timor Est il tasso di disoccupazione è del 70%) ma an-
che dalla ribellione di una parte delle forze armate che nel 2006 ha deciso di imbracciare le armi contro il Governo. I soldati disertori, un terzo del totale, sono originari della parte indonesiana dell’isola ed hanno motivato la propria scelta denunciando discriminazioni su base etnica da parte dei propri superiori. L’11 febbraio del 2008 un gruppo di questi militari ribelli ha provato a compiere un colpo di stato, con un doppio attentato contro l’attuale Presidente Jose Ramos-Horta - che è rimasto gravemente ferito ma è sopravvissuto - e contro il premier Xanana Gusmão, rimasto invece illeso. La tensione sociale a Timor Est è alimentata anche dalla totale impunità per i crimini commessi negli anni dell’occupazione indonesiana e dopo il referendum del 1999 e nonostante il Paese si sia impegnato negli ultimi anni in un “dialogo nazionale” per la riconciliazione.
I profughi
Una delle tappe più dolorose del percorso verso la riconciliazione a Timor Est è quella legata alla sorte dei profughi. Migliaia di timoresi sono fuggiti verso la parte indonesiana di Timor a causa delle violenze che seguirono il referendum per l’indipendenza del 1999 ed ancora oggi hanno scelto di restare a Timor Ovest per paura di subire violenze o ritorsioni perché accusati di aver spalleggiato le milizie filo-indonesiane. Molti dei profughi timoresi sono stati deportati forzatamente dall’esercito indonesiano. Secondo dati, che mancano però di una conferma ufficiale, i rifugiati timoresi che vivono in campi profughi a Timor Overst sarebbero oltre 100 mila.
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Per cosa si combatte
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UNHCR/S. Martins
Il Massacro di Dili
A rompere bruscamente il silenzio internazionale sulle violenze e le atrocità subite dalla popolazione di Timor Est, fu la notizia del cosiddetto “massacro di Dili”. Il 12 novembre del 1991 durante il funerale di un rappresentante del movimento indipendentista timorese, un gruppo di circa 200 soldati indonesiani aprì il fuoco contro la folla che cercò inutilmente di fuggire rifugiandosi all’interno del cimitero della capitale. Almeno 250 timoresi furono uccisi. Due giornalisti statunitensi Amy Goodman e Allan Nairn presenti al massacro, filmarono tutto e le immagini furono trasmesse in tutto il mondo, provocando manifestazioni globali di protesta, la riprovazione delle Nazioni Unite e l’imbarazzo del Governo indonesiano.
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Ad Istanbul il giornalista turco Nedim Sener è accusato di aver scritto che gli errori dell’intelligence di Ankara hanno aperto la strada all’omicidio del reporter di origine armena Hrant Dink, avvenuto il 19 gennaio 2007. Sener, reporter del quotidiano laico Milliyet, rischia 28 anni di reclusione per tre diversi capi d’accusa tra cui quello di oltraggio allo Stato. Con il suo libro dal titolo “L’omicidio Dink e le bugie dei servizi segreti”, uscito nel gennaio scorso, il giornalista avrebbe anche pubblicato documenti riservati e messo a rischio l’incolumità dei pubblici ufficiali da lui accusati, tra cui il capo dell’ufficio dei servizi segreti di stato Ramazan Akyurek. Quello di Sener è solo l’ultimo di una serie di casi di giornalisti finiti alla sbarra in Turchia per le loro inchieste. “È un processo molto inquietante - denuncia l’Associazione dei giornalisti turchi -. Indagare sull’omicidio Dink è un diritto di chi fa informazione”. Il paradosso, aggiunge il quotidiano Milliyet, è che mentre per Sener sono stati chiesti 28 anni di carcere, per il presunto assassino di Dink, Ogun Somast, la Procura ne ha pretesi solo 20.
TURCHIA
Generalità Nome completo:
Repubblica di Turchia
Lingue principali:
Turco
Capitale:
Ankara
Popolazione:
75.586.100 abitanti
Area:
783.562 Kmq
Religioni:
Mussulmana sciita e sunnita, cristiana e altre fedi
Moneta:
Nuova lira turca
Principali esportazioni:
Tessile, alimentare, ferro e acciaio.
PIL pro capite:
13,920 dollari
poliziotti e “guardiani del villaggio” (questi ultimi sono i responsabili della sicurezza nei piccoli insediamenti dell’Anatolia Sud orientale). Le operazioni militari sono proseguite anche durante il 2009. Il 12 giugno 2009 partono manovre dell’esercito turco che si concluderanno il 3 luglio con la “neutralizzazione” di 16 membri del Partito dei Lavoratori del Kurdistan. Con “neutralizzazione” l’esercito turco intende l’eliminazione fisica o l’arresto dei presunti terroristi. La guerra al Pkk in Turchia non risparmia i minori d’età. A luglio 2009 l’ONU ha inviato al ministero della Giustizia di Ankara una richiesta di chiarimenti sugli arresti e i processi condotti nei confronti dei minori che finiscono in prigione con l’accusa di terrorismo anche solo per aver lanciato pietre contro la polizia o gridato slogan durante
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
La libertà di informazione
Il livello del conflitto politico, etnico e militare è alto nella zona a Sud Est della Turchia in corrispondenza dell’altopiano anatolico orientale dove sono localizzati il lago Van e l’alto bacino dei fiumi Tigri ed Eufrate, e dove si trova il confine di stato a Sud con la Siria e l’Iraq, e ad Est con l’Iran. L’area a Sud Est della Turchia è suddivisa in 12 Province e fa riferimento alla città di Diyarbakir. È la “terra dei Curdi”, o meglio, è solo una parte di quel “Kurdistan” storico che sopravvive nella cultura e nella memoria della popolazione locale senza essersi mai costituito in vero e proprio Stato, essendo, la “terra dei Curdi”, da sempre spartita tra Turchia, Iran, Siria e Iraq. I Curdi e i Turchi che risiedono nell’area del confine Sud Est della Turchia vivono in un contesto politico non pacificato. Da una parte i Governi della Repubblica, dall’altra il Pkk (Partito dei lavoratoti curdi). Dal 1984 il Pkk si batte con le armi per la costituzione di uno Stato indipendente curdo. Nell’aprile del 2002 il Pkk dichiara una tregua unilaterale, a tre anni di distanza dall’arresto del suo leader Abdhullah Ocalan. Il 15 novembre 2003 il movimento indipendentista curdo rinuncia al separatismo, ma per ragioni di auto-difesa non disarma. Il primo giugno 2004 il ricostituito Pkk annuncia la ripresa delle ostilità. Il Pkk continua ad essere considerato movimento terroristico dagli Usa, dall’Unione Europea, dalla Siria, dal Canada, dall’Iran e dall’Australia. Secondo dati ufficiali del Governo diffusi da Ansa Italia, il conflitto nel Kurdistan turco ha fatto registrare a fine 2008: 696 membri Pkk uccisi, 237 membri Pkk catturati, di cui 177 consegnatisi spontaneamente alle autorità, 171 turchi uccisi tra militari,
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Quadro generale
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Recep Tayyip Erdogan (Istanbul, 26 febbraio 1954)
manifestazioni pro Pkk. Il 10 giugno 2009 la Turchia e l’Iraq firmano un memorandum d’intesa per la cooperazione militare contro il Pkk che lancia attacchi contro le forze armate turche dalle loro basi in territorio iracheno. Mesi prima, il 24 marzo, il Presidente turco Abdullah Gul, è in visita ufficiale in Iraq. L’agenzia di stampa Aswat al Iraq riferisce dell’incontro avvenuto a Baghdad con il premier della regione autonoma del Kurdistan iracheno, Nechirvan Barzani. Il giorno prima, il Presidente iracheno Jalal Talabani, affermava che i guerriglieri indipendentisti del Pkk che hanno basi nel Nord dell’Iraq devono “deporre le armi o andarsene dal nostro territorio”. La visita del Presidente Gul è stato un evento storico: la prima visita ufficiale di un capo di Stato turco dal 1976 in Iraq. Il 10 giugno, l’agenzia di stampa turca Anadolu diffonde la notizia che saranno processati davanti a un’Alta Corte penale turca i 54 sindaci del partito filo-curdo per una Società Democratica (Dtp) che nel marzo 2007 avevano rilasciato una dichiarazione congiunta in cui denunciavano che il leader del Pkk, Abdullah Ocalan, veniva lentamente avvelenato nella prigione di Imrali, isola sul Mar Marmara, in cui è l’unico detenuto. I 54 sindaci devono rispondere dell’accusa di “apologia di un criminale e di reato”. Il sindaco di Diyarbakir, Osman Baydemir, portavoce dei 54, è accusato di essersi riferito al Pkk come alla ‘’opposizione curda’’ e di aver fatto propaganda per lo stesso Pkk, agendo in linea con i suoi scopi. Il 15 maggio 2009, l’agenzia turca Dogan
riferisce che cinque uomini - tre “guardiani di villaggio” e tre ribelli curdi del Pkk sono morti in scontri a fuoco avvenuti in una zona montuosa della Provincia di Siirt, nella Turchia Sud orientale. La conferma sostanziale del fatto d’armi viene anche da parte dell’agenzia Anadolu. La stessa Anadolu comunica che il 30 aprile dieci membri del Pkk sono stati uccisi nel corso dei raid aerei condotti dall’aviazione militare turca nell’Iraq del Nord. Il giorno prima, nove militari turchi erano morti a causa dell’esplosione di una mina, secondo la tv privata turca Ntv, avvenuta presso la località di Lice, nella regione di Diyarbakir.
I PROTAGONISTI
Recep Tayyip Erdogan è primo ministro della Repubblica Turca dal 2003. Dopo aver coniugato in gioventù la carriera di giocatore di calcio di buon livello con gli studi nella facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Marmara, ha intrapreso l’attività politica alla fine degli anni ‘70. Accusato e riconosciuto colpevole di incitamento all’odio religioso, è stato imprigionato nel 1998. Uscito dal carcere, ha fondato l’Akp, partito della Giustizia e dello Sviluppo. Nelle elezioni legislative del 2002 (le prime a cui abbia partecipato) l’Akp è diventato il primo partito del Paese. In seguito a questa vittoria elettorale, replicata nelle elezioni amministrative del 2004, Erdogan, escluso dal corpo elettorale fino alla fine del 2002, ha dapprima appoggiato l’elezione a primo ministro del suo compagno di partito Abdullah Gül e poi ha assunto egli stesso la carica di primo ministro. Continua a simpatizzare per l’impero ottomano.
L’attuale conflitto è motivato da ragioni in primo luogo politiche. I Curdi vogliono indipendenza nazionale. La politica dei Governi repubblicani turchi è invece sempre stata orientata a non riconoscere l’esistenza di una specifica nazione curda, prima ancora di uno Stato curdo. Dal punto di vista turco, i curdi del Pkk sono “terroristi” aderenti ad un gruppo fuorilegge. Dal punto di vista curdo, il “terrorismo” del Pkk è una lotta armata legittima, necessaria e conseguente alla repressione e oppressione civile, prima ancora che militare, avviata e perseguita dal Governo di Ankara. Per i curdi, la propria azione è una “difesa”. Nelle famiglie curde era vietato parlare curdo, ascoltare cassette in curdo, usare nomi curdi. L’accusa di “trasgressione” era sufficiente per essere torturato, mandato in esilio o essere condannato a morte. Questo fa parlare i curdi di “colonialismo” turco.
La situazione attuale e gli ultimi sviluppi
La “questione curda” sta avanzando verso una probabile pace. Il 1 settembre 2009,
organizzati dal Partito per una Società Democratica (Dtp), migliaia di curdi si sono radunati in una delle principali piazze di Diyarbakir per chiedere una “pace onorevole” al premier turco Tayyip Erdogan. A fine luglio 2009 il primo ministro turco aveva annunciato che il suo Governo stava lavorando ad un “piano curdo” per risolvere un conflitto che in vent’anni ha contato più di 40 mila vittime. Il 22 luglio, il quotidiano turco Zaman, riportava dichiarazioni comuni di rappresentati di diverse formazioni politiche curde: “L’unica via per assicurare un’effettiva e durevole pace nasce solo dal contributo che possono apportare i diversi gruppi e le diverse identità curde”. Molti curdi attendono una decisa presa di posizione da parte di Abdullah Ocalan, leader del Pkk, detenuto nell’isola di Imraly, nel mar di Marmara, che, secondo quanto riportato dal quotidiano Zaman, starebbe per enunciare i suoi piani per il processo di pace. Il Pkk ha dichiarato tregua unilaterale almeno fino a settembre 2009.
Le armi
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Finmeccanica Italia è presente in Turchia con gli uffici operativi e di rappresentanza di AgustaWestland e di Alenia Aeronautica e con SELEX Komunikasyon AS, aziende che operano principalmente nel settore militare. La società AgustaWestland ha tra gli ultimi fornito alla Turchia l’AW149, un elicottero biturbina, multiruolo da circa otto tonnellate, in grado di trasportare fino a 18 militari equipaggiati, può essere equipaggiato con una vasta gamma di armi. Alcune fonti sostengono che il Pkk sia stato aiutato ad armarsi fin dagli inizi da Siria, Grecia e Unione Sovietica, generalmente interessate a destabilizzare la Turchia. Ocalan ha parlato anche di forniture dall’Italia.
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Per cosa si combatte
Il Petrolio del Kurdistan iracheno
Stretto fra Siria, Turchia e Iran, il Kurdistan iracheno, circa 30 mila kmq a Nord Est con capitale Erbil, è passaggio obbligato di importanti vie di comunicazione. Noto come il “serbatoio dell’Iraq”, da cui si estrae la metà di tutto il petrolio del Paese. Roccaforte della resistenza anti-Saddam e teatro di feroci repressioni da parte dell’ex regime, il Kurdistan iracheno gode da quasi due decenni di ampi margini di autonomia rispetto al Governo centrale, con cui le autorità di Erbil hanno di recente ingaggiato un nuovo braccio di ferro. A scatenare le tensioni è stata l’approvazione della bozza della costituzione regionale, nella quale si rivendicano come curde le Provincie miste di Ninive, Diyala, Salahuddin, Wassit, ma soprattutto quella contesa di Kirkuk, seduta sulla sesta riserva mondiale di petrolio. La prova di forza fra Baghdad e il suo Kurdistan si gioca però anche sul terreno delle concessioni petrolifere. Il ministero del petrolio ha piu’ volte definito “nulli e illegali” i contratti firmati dalle compagnie con la regione autonoma. Inserite in una “lista nera”, le imprese che li hanno sottoscritti rischiano cosi’ di non poter piu’ lavorare nel resto dell’Iraq.
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ELENCO DEI PAESI IN CONFLITTO Israele/Palestina Libano Siria/Israele
MEDIO ORIENTE
Flavio Lotti
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
In Libano 40 anni di guerra
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L’ultima volta è accaduto nel 2006. Ed è stata devastante. In soli 34 giorni, dal 12 luglio al 14 agosto, la guerra tra Israele e gli Hezbollah è costata quasi 1200 vittime e 4 mila feriti, in gran parte civili, sul fronte libanese e 156 morti tra gli israeliani. La cronaca di quei giorni racconta di immense distruzioni subite dalle città e dalle infrastrutture civili, di quasi 800 mila sfollati, dell’ennesima tragedia umana consumata sotto gli occhi del mondo. Eppure questa guerra, studiata e pianificata a lungo diranno gli esperti, resterà impressa nella memoria di Israele come una pesante sconfitta. Avrebbe dovuto sradicare gli Hezbollah dal Sud del Libano e ha finito per rafforzarli trasformando il piccolo movimento di resistenza islamica sorto durante i 18 anni di occupazione israeliana in un eroe nazionale libanese e in un soggetto politico dominante. Avrebbe dovuto difendere l’integrità territoriale di Israele e ha finito per svelare al mondo la sua vulnerabilità dopo decenni di presunta invincibilità. Avrebbe dovuto infliggere un duro colpo al terrorismo internazionale e ha finito per alimentare le ambizioni. La guerra finisce spesso per accrescere i problemi che pretende di risolvere. Così oggi Israele, nonostante una straordinaria superiorità militare, nonostante decenni di guerra in Libano, si ritrova con il nemico sulla soglia di casa più temibile di prima. Ad attenuare il pericolo c’è la saggia ma non scontata decisione degli Hezbollah di partecipare e accettare i risultati delle elezioni politiche vinte nel giugno del 2009 dalla coalizione di Saad Hariri. E c’è l’ottimo lavoro svolto dal contingente dell’ONU, Unifil, disposto lungo la frontiera israelo-libanese dopo la guerra del 2006 a protezione di entrambi i popoli. Ma se questa importante presenza internazionale ha contribuito a ridurre decisamente le frizioni tra le due parti, non basterà ad impedire la prossima guerra. Il ritiro israeliano dal Sud del Libano sui confini del ’67 non è ancora stato completato. Le principali contese politiche restano irrisolte. La guerra di parole e di accuse continua su entrambi i fronti come la ricerca di armi sempre più potenti e sofisticate. Tutti sanno che il Libano resta una pentola in continua ebollizione, esposto al gioco di tutte le piccole e grandi potenze che hanno interessi nell’area. Tutti sanno che in assenza di sostanziali novità politiche, prima o poi, il mostro della guerra tornerà a farsi vivo. E nessuno vuole farsi trovare impreparato. La storia insegna. Lo scontro comincia tra il 1967 e il 1970, nonostante il Libano non sia direttamente coinvolto nella guerra dei sei
Israele e Libano: quattro decenni di guerra
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
giorni. La presenza di molti rifugiati palestinesi arrivati nella terra dei Cedri nel 1948 e poi nel ’67 finisce inevitabilmente per coinvolgere il Libano. Con il passare del tempo e, in particolare dopo il “settembre nero” dei palestinesi in Giordania, l’Olp si sposta in Libano da ove continua i suoi attacchi contro gli israeliani. Da allora è tutta una escalation di azioni armate, attentati, raid, omicidi e rappresaglia. Nell’ottobre del 1969 scoppia la prima seria crisi tra lo stato libanese e la resistenza palestinese. Israele preme sul Governo libanese affinché si liberi dei palestinesi, ma non accadrà come in Giordania. Il 13 settembre 1975 scoppia la guerra civile in Libano: una guerra che si protrarrà per ben 15 anni. Nel 1976, la Siria invia i suoi soldati per mettere fine agli scontri e ci rimarrà per trent’anni, fino all’aprile 2005. Quando nel 1982, Israele invade il Libano con l’operazione “Pace in Galilea” per eliminare l’Olp, il Paese è già politicamente distrutto. Ma è proprio il giorno dopo l’ingresso dei soldati israeliani a Beirut che avviene il massacro di 800 rifugiati palestinesi nei campi di Sabra e Chatila. Israele si ritirerà dal Libano solo nel maggio del 2000. Nel frattempo la resistenza nel Sud del Libano sarà cresciuta al punto da modificare la geografia politica e militare dell’intero Paese. Secondo il Presidente israeliano Shimon Peres, quella che gli europei chiamavano “la Svizzera del Medio Oriente” è diventata “l’Iran della regione”. Dopo quattro decenni di guerre combattute in prima persona in nome della sicurezza d’Israele, non è un gran risultato. Anche qui, la gente, stanca della guerra e i costruttori di pace attendono di conoscere la nuova politica per il Medio Oriente del Presidente degli Stati Uniti d’America, Barack Obama.
Il dramma israele palestinese
Due Stati per due popoli. Uno Stato per gli israeliani e uno Stato per i palestinesi. Con questa formula, semplice e affascinante, il mondo invoca da lungo tempo la pace per Gerusalemme e il Medio Oriente. Ma oggi sono in molti a non crederci più. Per fare uno Stato serve una terra e quella in cui, secondo le diplomazie di tutto il mondo, dovrebbe nascere lo Stato di Palestina è occupata dallo Stato d’Israele. La realtà in Medio Oriente è sempre provvisoria. Ma oggi i suoi contorni sono chiari. Nella Terra Santa, terra del latte e del miele, non c’è più spazio per costruire uno Stato che possa restituire dignità, libertà e giustizia al popolo palestinese. Al momento di Stati ce ne è uno solo: quello di Israele. Uno Stato particolare, forse unico al mondo, che non ha ancora bene definito i suoi confini, che contesta quelli assegnategli dall’ ONU e che cerca continuamente di espanderli verso Est. Ai palestinesi, in questo tempo storico, resta la Striscia di Gaza, separata geograficamente, politicamente e militarmente dalla Cisgiordania e dal resto del mondo, e alcune città e villaggi a Nord e Sud di Gerusalemme divisi tra loro da muri altissimi, strade riservate agli israeliani, posti di blocco e insediamenti in continua espansione. Gerusalemme, capitale di due Stati per due popoli secondo gli amanti della pace, è sempre più una città vietata ai palestinesi. A quelli che vorrebbero entrare anche solo per pregare e a quelli che ci sono nati ma si vogliono espellere. Senza
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terra non c’ è uno Stato. E senza uno Stato per i palestinesi non c’è e non ci sarà pace in Medio Oriente. Al posto della pace, continuerà ad esserci l’occupazione militare e la violenza di tutti i giorni. Più che di missili e di bombe, la guerra in Terra Santa è fatta di piccole e grandi violenze quotidiane, umiliazioni, sofferenze, ingiustizie, orrori, violazioni dei diritti umani, arresti arbitrari e tanta illegalità. Ma tutto questo non fa abbastanza rumore e dunque notizia. Fino al giorno in cui altre bombe torneranno ad esplodere, più potenti delle precedenti. Fino a che altro sangue tornerà a scorrere e altri funerali collettivi saranno celebrati. C’è chi dice che gli orrori della guerra del Libano (2006) e della guerra di Gaza (2009) sono solo un piccolo anticipo del futuro che ci aspetta. A questa tragica previsione si contrappongono, oggi, solo coloro che temono il peggio: la bomba atomica o anche solo la bomba sporca, una di quelle che si possono costruire semplicemente seguendo le istruzioni su internet e rifornendosi nel più rigoglioso mercato delle armi che sia mai esistito. Dalla loro parte hanno l’escalation militare che ha scandito la lunga storia delle guerre di Israele. Un Paese che nasce con una guerra, cresce e si sviluppa tra numerose guerre e si organizza per continuare a combatterle. La prima della lunga serie scoppia il 15 maggio 1948, quando il giorno dopo la proclamazione della nascita dello Stato d’Israele e il ritiro delle truppe inglesi, David Ben Gurion invade la Palestina. Il piano dell’ONU di spartizione della Palestina non aveva risolto i problemi e fu la guerra a dettare legge. I palestinesi ricordano ancora oggi quel giorno come “la Catastrofe” (Nakba). Alla fine della guerra centinaia di migliaia di palestinesi (520 mila secondo Israele, 750 mila secondo l’ONU e 810 mila secondo il Governo inglese) fuggiti dalle loro case, sono diventati profughi. Molti di loro vivono ancora oggi con i loro figli nei campi profughi creati a quel tempo dall’ONU. Con la guerra dei sei giorni (1967), Israele occupa anche la Cisgiordania, la Striscia di Gaza, la parte araba di Gerusalemme, le alture del Golan, il Sinai e rilancia la “politica dei fatti compiuti”.Il resto della storia che porta ai nostri giorni è un incredibile intreccio di guerre che si estendono al mondo arabo, di rivolte palestinesi (prima e seconda intifada), di stragi, di attentati e uccisioni, di finti negoziati, di retorici appelli, di promesse mancate, di speranze tradite, di progetti falliti e di accordi irrealizzati che hanno lasciato sul campo non solo molte vittime innocenti ma anche la speranza di porre fine a questa tragedia. I ragazzi palestinesi che nel settembre 1993 festeggiavano gli accordi di Oslo sventolando ramoscelli d’ulivo per le strade di Gerusalemme hanno perso il sorriso. Dopo la strage di Gaza (1.285 morti e 4.336 feriti, centinaia i bambini) tutti i responsabili della politica mondiale si sono impegnati a chiudere questo conflitto, ma poi se ne sono subito dimenticati. Chi non ha ancora ceduto al pessimismo confida oggi nel nuovo Presidente degli Stati Uniti d’America, Barack Obama, che nel celebre discorso del Cairo, il 4 giugno 2009, disse: “Per giungere alla pace in Medio Oriente, è ora che israeliani e palestinesi - e noi tutti con loro - ci assumiamo le nostre responsabilità.” Ma in Medio Oriente alle parole di pace non crede più nessuno. E Obama non è Herry Potter. Conviene anche all’Europa non lasciarlo solo. Il prezzo di un nuovo fallimento sarà molto alto.
Ettore Mo
Settembre 1982. Con altri giornalisti vado in visita al santuario dell’orrore dei campi profughi di Sabra e Chatila nella periferia meridionale di Beirut Ovest: un ammasso di case e catapecchie sfasciate e qualcosa come duemila cadaveri sparsi e abbandonati in mezzo ai ruderi. Lo sterminio è avvenuto durante l’operazione “Pace di Galilea” quando le truppe del generale Ariel Sharon invasero il minuscolo Paese per sgominare i guerriglieri palestinesi di Arafat che dal confine sparavano missili e katiusha sui villaggi settentrionali della terra di Gesù. Ma la strage non fu compiuta dai soldati israeliani, che si sono limitati a schierarsi attorno al perimetro dei due campi, e neanche dai paramilitari libanesi, in quei frangenti alleati d’Israele: alla fine sarebbe emerso che la responsabilità dell’aggressione andava addossata alle frange estremiste della popolazione del Libano meridionale, cui non è sfuggita l’opportunità di liberarsi - una volta per tutte, dei palestinesi insediatisi nel loro Paese e indicati come “la causa prima” di tutti i loro guai. Vittime dell’eccidio la gran massa di disperati in fuga dalla Cisgiordania e dalla striscia di Gaza che infine sono approdati in Libano, ritenendolo il rifugio più sicuro. Ma qualcuno ha presto scoperto che così non era: come Randa Amar, una bambina di dieci anni ricoverata in un ospedale di Tiro dopo reiterati tentativi di suicidio. “l’ho fatto - sussurra in un’agghiacciante testimonianza - perché la guerra non ci permette di vivere. L’ho fatto perché nella mia infanzia non ho visto altro che fucili e carri armati”. Altra storia angosciosa la deportazione, dietro ordine del primo ministro Yitzhak Rabin, di 415 militanti di Hamas - organizzazione nata nel ’76 per iniziativa di un gruppo di intellettuali palestinesi - esiliati in una tendopoli a mille metri al confine tra Israele e Libano, le tempia ghiacciate da un freddo siberiano. Vi sono arrivati sotto una grandine di insulti dopo un viaggio di 40 ore in autobus, gli occhi bendati, le mani legate dietro la schiena, le caviglie strette nei lacci. Una banda di sottosviluppati mentali tra cui figuravano docenti universitari, scienziati, ingegneri, medici, diplomatici, giornalisti, uomini d’affari, scrittori. Tutta gente che tiene in grande considerazione l’igiene personale: alla fine, non essendoci stata neanche una sosta lungo il percorso, puzzavano tutti come sacchi d’immondizia, pieni di urina e di feci. Ho trascorso due notti sotto la tenda numero 39. Mio vicino di pavimento il dottor Mahmud el Zahar, chirurgo e docente dell’Università islamica di Gaza. Come tanti altri non riusciva a prender sonno e s’era messo a piangere.
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Libano
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L’inferno di Sabra e Chatila
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ISRAELE PALESTINA
Generalità Nome completo:
Stato di Israele
Lingue principali:
Ebraico e Arabo
Capitale:
Tel Aviv
Popolazione:
7.240.000
Area:
22.072 Kmq
Religioni:
Ebraica (75,6%), musulmana (16,6%), cristiana (1,6%), drusa (1,6%), non classificati (3.9%)
Moneta:
Nuovo Shekel
Principali esportazioni:
Prodotti high tech, diamanti, prodotti agricoli
PIL pro capite:
Us 27.300
Uniti costringono Tel Aviv a ritirarsi (Guerra del Sinai). Nel maggio del 1967 Nasser, il Presidente egiziano, stringe un patto di difesa con la Giordania, che apparentemente mira ad un rafforzamento strategico, ma che getta le basi per un attacco allo Stato d’Israele. A Tel Aviv l’allarme è immediato: nel giugno del 1967 Israele attacca l’Egitto, poi la Giordania. È la ‘Guerra dei Sei giorni’, che segna la dura sconfitta del mondo arabo. Nei sei giorni di conflitto Israele occupa la Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme Est, le alture del Golan (tutt’oggi sotto il controllo israeliano) ed il Sinai (in seguito restituito all’Egitto) e non si ritirerà mai più nonostante le pressioni internazionali e le numerose risoluzioni dell’Onu. È proprio con l’occupazione dei territori sopra citati che la questione israelo-palestinese en-
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Gerusalemme
Il 7 giugno del 1967, durante la guerra dei Sei Giorni, le truppe israeliane occuparono la parte orientale di Gerusalemme. Gli ebrei pregheranno simbolicamente al Muro del Pianto. Spinti dalla forte emozione gli israeliani rimossero le barriere di separazione interposte tra le due parti della città dopo la prima guerra arabo israeliana in modo da creare di fatto un’unica Gerusalemme ebraica. La Knesset approvò una serie di leggi che estesero il diritto e l’amministrazione israeliani su Gerusalemme Est ampliando i confini municipali di Gerusalemme da 38 kmq a 108 kmq e portando la popolazione della città ad un totale di 263 mila persone: 197 mila ebrei, 55 mila mussulmani e 11 milacristiani. La risposta della comunità internazionale alle misure espansionistiche di Israele giunse con ben 5 risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (ris. 242, 252, 267, 465 e la 476) nelle quali si chiedeva ad Israele di “astenersi da atti suscettibili di alterare il carattere geografico, demografico e storico di Gerusalemme”.
Quello israelo-palestinese è un conflitto che dura da oltre mezzo secolo, ancora ben lontano dal trovare una soluzione nonostante le storiche intese e le speranze di pace. Causa principale del conflitto è la contesa della terra di Palestina da parte dei due popoli: quello israeliano e quello palestinese. Nel 1895 Teodoro Herzl, uno dei padri fondatori del “sionismo”, pubblicava l’opuscolo dal titolo “Lo Stato ebraico” nel quale illustrava un piano completo per la sua realizzazione in Palestina. Il 2 novembre 1917 Arthur Balfour, ministro degli esteri della Gran Bretagna, inviò una lettera al capo della Federazione sionista Lord Rothschild, nella quale Sua Maestà riconosceva ufficialmente il diritto di formare un “focolare nazionale del popolo ebraico in Palestina” (“Dichiarazione di Balfour”). Gia’ nel 1936 ci furono le prime rivolte palestinesi contro l’arrivo dei coloni. Undici anni dopo, il 29 novembre 1947 con una risoluzione dell’Onu il 73% del territorio della Palestina viene trasferito al popolo ebraico. La decisione della comunità internazionale è un risarcimento al popolo ebraico per la tragedia dell’Olocausto ma scatena la reazione dei Paese arabi. Egitto, Siria, Transgiordania, Libano e Iraq invadono Israele che però vince la guerra (Guerra di Indipendenza) ampliando il territorio sotto il suo controllo verso la Galilea a Nord e verso il Negev a Sud. Il 14 maggio 1948 nasce ufficialmente lo Stato d’Israele con la ‘Dichiarazione d’indipendenza’ firmata dal Primo Ministro David Ben-Gurion. Ma questa sarà solo la prima di una lunga serie di guerre nell’area. Nel 1956, dopo la nazionalizzazione da parte del Cairo dello stretto di Suez, Israele attacca l’Egitto conquistando Gaza e il Sinai, ma gli Stati
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Abu Mazen
(Safed, 26 marzo 1935)
trerà in una empasse tutt’oggi irrisolta. Ci saranno altre guerre con i paesi confinanti con Israele: nel 1973 la guerra dello Yom Kippur contro Egitto e Siria e nell’’83 con il Libano. Ma la ‘Guerra dei Sei giorni’ resta sicuramente il nodo centrale dello scontro tra le parti. Una volta occupate Cisgiordania e la Striscia di Gaza, infatti, Israele comincerà una lenta e costante campagna di colonizzazione del territorio che porterà alla definitiva separazione delle due regioni, note come “Territori palestinesi occupati”. Nel 1988, con la rinuncia di Re Hussein di Giordania a proteggere la Cisgiordania, l’organizzazione islamica di Hamas, lancia una campagna armata contro l’occupazione israeliana conosciuta come “Prima Intifada” (intervento, resistenza). La guerriglia si interrompe grazie agli Accordi di Oslo del 1993, con la stretta di mano tra il primo ministro israeliano Itzhak Rabin, e Yasser Arafat, storico Presidente dell’Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina). Quest’ultimo, a nome del popolo palestinese, riconosce lo Stato di Israele e a sua volta Tel Aviv riconosce l’Olp come rappresentante del popolo palestinese (ruolo che dal 1995 spetterà all’Anp, l’Autorità Nazionale Palestinese). Ma se da un lato Israele riconosce l’organizzazione palestinese, dall’altra isola definitivamente i Territori della Cisgiordania e della Striscia di Gaza mettendo in ginocchio un intero popolo (la futura costruzione del “Muro di sicurezza”, iniziato nel 2002, imprigionerà definitivamente i palestinesi della Cisgiordania all’interno della propria terra). Gli accordi di Oslo si riveleranno fallimentari e la tensione tornerà alta il 28 settembre del
2000 quando, l’allora capo dell’opposizione politica israeliana Ariel Sharon, fece una provocatoria passeggiata, con mille uomini armati, sulla Spianata delle Moschee di Gerusalemme. Un gesto simbolico in uno dei luoghi più sacri per i musulmani con cui si rivendicava la città santa di Gerusalemme come capitale di Israele. È l’inizio della “Seconda Intifada”. Dalla Striscia di Gaza, l’anno successivo, comincia il lancio dei razzi ‘Qassam’ contro Israele. Azione questa che nel corso degli anni porterà Israele ad intervenire più volte nella Striscia al fine di “indebolire la resistenza palestinese”, soprattutto dopo la vittoria dell’organizzazione islamica di Hamas alle elezioni palestinesi del 2006. Mentre dunque nei Territori palestinesi della Cisgiordania è al potere lo storico partito di al-Fatah guidato dal Presidente Abu Mazen, considerato un moderato dalla comunità internazionale, la Striscia di Gaza è dal 2006 il ‘regno’ di Hamas. La campagna israeliana contro l’organizzazione islamica culminerà nel gennaio del 2009 con la tristemente nota “Operazione Piombo fuso”. Il bilancio degli attacchi israeliani nella Striscia è di 1305 morti (417 bambini, 120 donne, 120 anziani, 14 soccorritori, 4 giornalisti e 5 stranieri) e 5.450 feriti.
I PROTAGONISTI
Mahmud Abbas, meglio noto come Abu Mazen, nasce nel 1935 a Safed, in una Palestina a quei tempi sotto il mandato britannico, oggi territorio israeliano. Nel 1948, dopo la nascita di Israele, si trasferisce a Damasco con la propria famiglia. Qui inizia i suoi studi per poi spostarsi al Cairo ed infine a Mosca. Sono gli anni 70 e Abu Mazen cerca il dialogo con la sinistra e il movimento pacifista israeliano. Una volontà che lo porterà ad essere uno dei promotori degli accordi di Oslo. Nel maggio del 1996 viene eletto segretario generale del CeOlp (Consiglio Esecutivo dell’Olp) diventando ufficialmente il braccio destro di Arafat. Le sue posizioni sono state spesso viste come troppo morbide confrontate con quelle del numero uno dell’Olp. Ma con la morte di quest’ultimo, nel novembre 2004, la Palestina si appresta ad entrare in una nuova fase politica e storica. A succedergli, alla presidenza dell’Autorita’ Nazionale Palestinese nel 2005, sarà proprio Abu Mazen. La politica moderata di un tempo continua ad essere ancora oggi ragione di critiche da parte di Hamas e di molti palestinesi della stessa al Fatah. E questo ha di fatto diviso ancora di più Gaza dalla Cisgiordania. Per fine gennaio 2010 Abu Mazen ha indetto elezioni in Palestina al fine, secondo i suoi avversari, di “aumentare le divisioni e appropriarsi della scena palestinese”. Il mandato di Abu Mazen, prorogato di un anno dall’Anp, scade fine 2009.
Due popoli e due Stati: questa la soluzione al conflitto israelo-palestinese. Questo l’impegno delle diplomazie internazionali. Dal fronte palestinese si richiede il ritiro delle truppe israeliane da quei territori occupati nella ‘Guerra dei Sei giorni’ ed il fermo alle costruzioni di colonie che continuano a mangiare giorno dopo giorno il territorio palestinese. A questa va aggiunta la richiesta di uno Stato della Palestina con capitale Gerusalemme Est. Dall’altra parte Israele, che dal 1948, non sembra aver cambiato le proprie finalità, ovvero la realizzazione in Palestina della Grande Israele.
La situazione attuale e gli ultimi sviluppi
Dopo l’operazione “Piombo fuso”, nell’ottobre del 2009 il Consiglio per i diritti umani dell’Onu ha adottato il rapporto “Goldstone”
riguardante l’invasione della Striscia di Gaza da parte delle truppe di Tel Aviv. Nel documento si accusano di crimini di guerra sia Hamas che Israele, e si chiede loro di indagare unitamente sui crimini dell’operazione, avvenuta tra il 27 dicembre 2008 e il 18 gennaio 2009. Se così non sarà, si chiederà di deferire la questione al Tribunale Internazionale penale. Sul fronte cisgiordano si lamenta una forte sfiducia nella politica internazionale incapace di opporsi all’avanzata delle colonie ebraiche che continuano ad essere costruite anche se Tel Aviv si era impegnata, dopo la richiesta ufficiale del presidente statunitense Barack Obama, a fermarle.
Scontro interno palestinese
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Con la morte di Yasser Arafat nel 2004, guida storica del popolo palestinese, il precario equilibrio tra le varie correnti interne palestinesi raggiunge il suo culmine di crisi. A succedergli alla guida del partito Al Fatah, nel 2005, è Abu Mazen il quale tenta una politica moderata e molte volte criticata dagli stessi palestinesi. Dall’altra parte, con roccaforte nella Striscia di Gaza, Hamas propende per la prosecuzione di una lotta di resistenza all’occupazione israeliana. La vittoria elettorale di quest’ultima nelle elezioni di Gaza separa definitivamente la Palestina in due blocchi: uno, la Cisgiordania, dove Al Fatah governa con non poche difficoltà; dall’altra parte Gaza, dove Hamas, benché vinte legittimamente le elezioni, non dialoga con Israele e la diplomazia internazionale. Un popolo dunque, quello palestinese, separato in casa sia geograficamente (visto che non vi è una continuità territoriale tra Gaza e Cisgiordania) che politicamente.
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Per cosa si combatte
Il muro
Con la motivazione di difendersi dagli attentati kamikaze palestinesi sul proprio territorio, Israele nel 2002 prende la decisione di costruire un muro in Cisgiordania che dovrebbe fungere come barriera di sicurezza. Il muro ingloba la maggior parte delle colonie israeliane e la quasi-totalità dei pozzi. La Corte Internazionale di Giustizia ha condannato la costruzione definendolo “muro dell’apartheid” ma Israele ha continuato la costruzione. Dalla sentenza della Corte di Giustizia, risalente a cinque anni fa, sono stati costruiti altri 200 km di muro arrivando ad un totale di 413 Km. Ma, secondo il progetto, il muro dovrà essere lungo almeno 700 km. A questo vanno aggiunti gli oltre 600 check point che impediscono la libertà di movimento ai palestinesi. Con questa operazione Israele continua a mangiare territori ai palestinesi privando quest’ultimi di terreni coltivabili e riserve idriche. Una politica che sfianca giorno dopo giorno la popolazione palestinese della Cisgiordania.
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C’è un bene che nel Vicino oriente, e non solo, è sicuramente più importante di qualunque altra cosa: l’acqua. Come ben sappiamo Israele controlla, le Alture del Golan dove si trova la sorgente del fiume Giordano. Una risorsa idrica che non basta ad Israele. Ecco allora che l’interesse si allarga anche al Libano (un interesse non degli ultimi anni, bensì prioritario sin dal 1940) e precisamente al fiume Litani. 580 milioni di metri cubi d’acqua all’anno, questa è la portata di un fiume che permette l’irrigazione di decine e decine di ettari di terreno libanese, nonchè la produzione del 35% dell’energia elettrica del paese dei cedri. Il Litani scorre nel suo tratto finale proprio sul confine con Israele, nello specifico l’area controllata dagli Hezbollah.
LIBANO
Generalità Nome completo:
Repubblica Libanese
Lingue principali:
Arabo, francese
Capitale:
Beirut
Popolazione:
4.000.000
Area:
10.452 Kmq
Religioni:
Musulmana (sunnita, sciita), cristiana
Moneta:
Lira libanese
Principali esportazioni:
Gioielli, apparecchiature elettriche, prodotti metallurgici, chimici, alimentari
PIL pro capite:
Us 6.681
la causa, secondo il Governo israeliano, dell’invasione del Libano. L’operazione militare “Pace in Galilea” parte il 6 giugno del 1982 ed è finalizzata a sradicare dal Sud del Libano la presenza armata palestinese. In realtà, quella che si può chiamare prima guerra israelo-libanese, arrivò fino a Beirut dove aveva sede l’Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina). Per impedire la prosecuzione di spargimento di sangue, intervenne la diplomazia internazionale che sgomberò la dirigenza dell’Olp (rifugiatasi a Tunisi) e riversò nei Paesi limitrofi molte unità armate palestinesi. Una situazione che lasciò la popolazione civile nei campi profughi priva di alcuna protezione. Questo porterà al drammatico massacro nei campi-profughi di
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Fiume Litani
Con la dissoluzione dell’Impero Ottomano, la Società delle Nazioni affidò alla Francia il controllo della Grande Siria, incluse le cinque Provincie che oggi formano il Libano. La Conferenza di Sanremo, dell’aprile del 1920, ne definirà i compiti ed i limiti. Benché la ratifica di questo passaggio di consegna avverrà solo tre anni dopo, già nel 1920 la Francia dichiarò lo Stato del Grande Libano indipendente. Uno Stato composto da vari enclavi etnici: uno in Siria con una grande comunità in maggioranza cristiano maronita e l’altro a maggioranza musulmana e drusa con capitale Beirut. Solo 6 anni dopo il Libano diventerà una Repubblica, definitivamente separata dalla Siria, anche se ancora sotto il comune mandato francese. Nel 1943 il Governo libanese abolirà il mandato francese dichiarando la propria indipendenza. Bisognerà aspettare la fine della seconda guerra mondiale per assistere al ritiro definitivo delle truppe francesi dal nuovo Stato indipendente. Gli anni successivi furono caratterizzati, con eccezione di sporadiche tensioni interne, da una prosperità economica dettata dal ruolo di spicco ricoperto da Beirut, quale centro finanziario e commerciale, nel Medioriente. Nel 1948, dopo la risoluzione dell’ONU 181 con la quale si “ripartiva” il territorio palestinese in seguito alla nascita dello Stato ebraico, anche il Libano aderì alla guerra della Lega Araba contro Israele non invadendo però mai il neonato Stato. Dopo la sconfitta araba, Israele e Libano stipularono un armistizio ma, a tutt’oggi, mai un trattato di pace. Conseguenza di questa guerra, furono 100 mila profughi palestinesi ai quali se ne aggiunsero altri dopo il conflitto arabo-israeliano del 1967. Profughi che decenni più tardi saranno
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Hassan Nasrallah
(Burj Hammoud, 30 August 1960)
Sabra e Shatila, da unità cristiane guidate da Elie Hobeika, lasciate agire dalle truppe israeliane, comandate da Ariel Sharon, di stanza nell’area coinvolta. Negli anni a seguire, il Libano dovrà affron-
tare i delicati equilibri interni tra le diverse etnie. Sicuramente una di queste realtà, gli Hezbollah, musulmani sciiti vicini a Damasco e Teheran, cambieranno, anni dopo, le sorti del Libano.
I PROTAGONISTI
Hassan Nasrallah, è un politico libanese, Segretario Generale del partito e movimento politico sciita libanese Hezbollah, il “Partito di Dio”. Nasrallah è stato accusato di avere avuto un ruolo chiave nell’omicidio dell’ex-primo ministro libanese, Rafiq al-Hariri, artefice di quella che è stata ribattezzata la Rivoluzione dei Cedri libanese, ovvero “Primavera dei Cedri”. Nel settembre 1997 suo figlio maggiore Muhammad Hadi è stato ucciso durante un conflitto a fuoco con le forze israeliane a Jabal al-Rafei, nel Sud del Libano. Nasrallah vive a Beirut con la moglie e tre figli. In un recente discorso alla tv locale ha dichiarato che gli Hezbollah “non riconosceranno mai Israele che deve cessare di esistere”.
La presenza di basi operative della resistenza palestinese ha fatto da sempre del Libano uno degli obiettivi di Israele. Le tensioni tra i due Paesi sono poi costantemente cresciute a causa della contrapposizione tra Israele e il movimento sciita degli Hezbollah, che ha stabilito nel Sud del Paese le sue basi operative. Secondo Israele è l’Iran, che non ha mai riconosciuto l’esistenza dello Stato israeliano, a sostenere economicamente il movimento degli Hezbollah fiancheggiato anche dal Governo siriano, in conflitto con Israele per la sovranità sulle Alture del Golan.
La situazione attuale e gli ultimi sviluppi
Il 12 luglio del 2006 i miliziani di Hezbollah attaccano una pattuglia dell’esercito israeliano nel Sud del Libano uccidendo tre soldati e rapendone due. Israele reagisce con la forza, avviando una massiccia offensiva contro il Libano per “neutralizzare l’apparato militare di Hezbollah”. In realtà i bombardamenti israeliani hanno distrutto tutto quel che il Libano aveva ricostruito negli anni dopo la prima guerra dell’82. Infrastrutture, ponti, l’aeroporto di Beirut, centrali elettriche e le principali vie di collegamento con la Siria vennero spazzate via in un mese. Naturalmente a pagarne le conseguenze furono
i civili. Interi palazzi, abitati esclusivamente da donne e bambini, sono stati rasi al suolo. Nell’offensiva Israele ha usato (come confermato da inchieste internazionali) bombe al fosforo. Alla massiccia offensiva aerea non corrisponderà quella di terra che porterà l’esercito israeliano, dopo un mese, ad un avanzamento di pochi chilometri all’interno del territorio libanese. La resistenza di Hezbollah, infatti, dimostrerà la propria efficacia, contrattaccando il territorio israeliano con lanci di migliaia di missili. L’11 agosto, un mese dopo, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite interverrà con una risoluzione (la 1701) che troverà il voto unanime dei Paesi membri. Tale risoluzione chiede l’immediata cessazione delle ostilità tra le parti, il ritiro di Israele dal Libano meridionale e l’interposizione delle truppe regolari libanesi e dell’Unifil (United Nations Interim Force in Lebanon) in una zona cuscinetto “libera – come si legge - da ogni personale armato che non sia quello delle Nazioni Unite e delle forze armate regolari libanesi”. Una pace, o meglio una tregua, viste le affermazioni di Israele all’accordo: “Riterremo responsabile il Governo libanese di qualsiasi azione offensiva perpetrata nei confronti di Israele”.
Hezbollah
Hezbollah (“Milizia di Dio”) sono al tempo stesso una milizia ed un gruppo politico. I militanti del partito, secondo fonti dell’intelligence statunitense, sono alcune centinaia mentre i sostenitori, viste anche le ultime elezioni, sono migliaia. Hezbollah nasce nel 1982 in seguito all’invasione del Libano da parte di Israele, con la finalità di proteggere l’etnia sciita, maggioranza nel Sud del Paese. Nel corso degli anni, l’incapacità del Governo centrale di Beirut di garantire la sicurezza e i beni primari, ha consentito a Hezbollah di costruire ospedali, scuole e servizi di prima necessità realizzando nel tempo un vero e proprio Stato nello Stato.
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Per cosa si combatte
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Unifil: United Nations Interim Force in Lebanon
La missione delle Nazioni Unite Unifil comincia alla fine degli anni ’70 con una risoluzione Onu a seguito dell’invasione del Libano da parte di Israele. Successive Risoluzioni hanno prorogato, con cadenza semestrale, la durata della missione. Dall’inizio del cessate il fuoco, l’esercito israeliano continua ad occupare vaste aree teoricamente sotto il controllo dell’Unifil mentre Hezbollah rimane nelle proprie roccaforti nel Sud del Libano.
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La partita siro-israeliana si gioca anche su Facebook. I residenti delle colline del Golan si sono trovati nell’imbarazzo di non sapere quale paese di residenza scegliere al momento di aprire il proprio profilo sul popolarissimo social network. Visto che dopo decenni di guerra questa domanda non ha ancora trovato risposta, gli ideatori di Facebook hanno deciso di permettere ai loro utenti di accedere a entrambe le opzioni, proprio per evitare una cyber-guerra. Recentemente un sito web filo-israeliano (honestreporting.com) ha promosso un gruppo chiamato “Golan residents live in Israel, not Syria”, che ha registrato 2.500 iscritti in meno di una settimana.
SIRIA ISRAELE
Generalità Nome completo:
Repubblica araba di Siria
Lingue principali:
Arabo, Curdo, Armeno, Aramaico e Francese
Capitale:
Damasco
Popolazione:
20.178.485 (più 40 mila persone residenti nella parte delle alture del Golan occupate da Israele)
Area:
185.180 Kmq
Religioni:
Islamica (90%, di cui 74% sunniti e 16% altre confessioni), cristiana (10%)
Moneta:
Lira siriana
Principali esportazioni:
Petrolio, prodotti petroliferi, minerali, frutta e verdura, cotone, tessili, carne e grano
PIL pro capite:
Us 5.000
UNHCR/A. Branthwaite
spartiacque nella storia mediorientale. La guerra dei “Sei Giorni” inzia con il massiccio attacco lanciato il 6 ottobre dalle truppe siriane che colgono di sorpresa l’esercito isriaeliano. Grazie al cessate il fuoco imposto dall’allora segretario di Stato americano Henry Kissinger, Israele recupera terreno fino a sfiorare il cuore del Paese, arrestando i suoi uomini ad appena quaranta chilometri da Damasco. All’armistizio del 25 ottobre segue una lunga guerra d’attrito che si protrae fino al 31 maggio 1974, quando entra
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E su Facebook scatta la Cyber-guerra
Un lembo di terra che nel corso degli ultimi trentotto anni è stato teatro di feroci battaglie combattute tra pendii e sassi. Un luogo che è stato strappato alla sua gente e dove tuttora si gioca il futuro dei rapporti siro-israeliani. Ricche di risorse idriche e situate in una posizione dall’alto valore strategico, le alture del Golan sono state più volte la posta più alta in gioco nella grande partita mediorientale e, nonostante il silenzio delle armi degli ultimi decenni, fili spinati, trincee, bunker e campi minati continuano a minacciare la pace tra i due popoli. Una contesa relativamente recente, ma che sembra ricalcare le orme del più antico passato, quando le autorità arabo-musulmane di Damasco guardavano alle alture come l’ultimo loro baluardo difensivo contro l’avanzata cristiana. In epoca moderna, nell’ambito degli accordi franco-britannici di spartizione delle Provincie dell’Impero ottomano, l’altopiano viene spezzato da una linea immaginaria tracciata nel 1920 dagli strateghi delle due potenze europee e corretta nel 1923. Il primo vero scontro tra Siria e Israele si verifica durante la guerra arabo-israeliana del 1948-49, quando la disfatta del male addestrato e male equipaggiato esercito siriano fu limitata proprio grazie alla barriera naturale rappresentata dall’altopiano. Dopo la firma dell’armistizio (siglato il 20 luglio 1949) e per i successivi vent’anni Damasco rimane comunque in posizione di superiorità rispetto alle nuove colonie israeliane costruite proprio al di sotto dei pendii occidentali delle alture e della riva orientale del lago. Tutto cambia nel giugno del 1967, una data che rappresenta uno vero e proprio
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Quadro generale
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo 46° Parallelo
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Bashar al-Assad
(Damasco, 11 settembre 1965)
UNHCR/A. Branthwaite
in vigore un nuovo cessate il fuoco sulla stessa linea del 1967. Israele mantiene le posizioni, mentre la Siria recupera un quarto del territorio occupato da Tel Aviv, più alcune zone simbolicamente importanti come la cittadina di Qunaytra. Tra i due belligeranti viene istituita una fascia di sicurezza affidata al pieno controllo dei caschi blu dell’ONU, presente con la missione Undof (United nations disengagement observe force). Cinque più tardi, il 14 dicembre 1981, la Knesset israeliana approva la legge con cui le alture del Golan da “zona militare di guerra” diventavano parte integrante dello Stato ebraico.
Per cosa si combatte Le alture del Golan (in arabo Hadbat alJawlan e in ebraico Ramat ha-Golan) rappresentano oggi un territorio ‘sospeso’ tra Israele, Siria e Libano. Contrafforte meridionale della catena montuosa dell’Antilibano, questo altopiano di formazione vulcanica e ricoperto di rocce basaltiche si estende per circa 1800 chilometri quadrati. Nonostante le sue ridotte dimensioni, topografia e posizione geografica gli conferiscono un alto valore strategico, partendo dalle vette del monte ash-Shaykh/Hermon (2814 m.), punto di osservazione privilegiato della Regione per controllare entrambi i versanti. I rilievi dell’altipiano dominano a NordOvest la valle della Hula (col corso superiore del fiume Giordano) e a Sud-Ovest la piana
del lago di Tiberiade, mentre a Est controllano la pianura che scende fino a Damasco, distante appena sessantachilometri. Ma l’importanza strategica del Golan non è data solo dalla sua posizione geografica e dalla sua conformazione naturale, ma soprattutto dalla presenza di falde acquifere e di piccoli e medi corsi d’acqua che dalla linea di cresta scendono verso ovest a bagnare la piana della Hula e a ingrossare il Giordano: i piccoli torrenti Gilbon, Zavitan, Yahudiyya, Daliyot, Mehushim, Samakh, e Roqad e i fiumi Dan (245 mmc/a), Baniyas (121 mmc/a) e Yarmuk (450 mmc/a). Questa ricchezza di risorse idriche fanno del Golan un vero e proprio serbatoio, i cui rubinetti sono oggi totalmente in mano a Israele. Damasco rivendica la propria sovranità sulla sorgente del fiume Baniyas, così come sul tratto finale dello Yarmuk (entrambi affluenti del Giordano) e sugli altri piccoli torrenti che attraversano l’altopiano da Est ad Ovest. La Siria ha inoltre espresso le sue velleità di controllo della riva orientale del lago di Tiberiade, che per Israele, assieme al Giordano, rappresenta oggi un terzo delle risorse idriche dell’intero Stato ebraico.
I PROTAGONISTI
Nato a Damasco l’11 settembre del 1965, Bashar al-Assad studiava oftalmologia a Londra quando gli fu comunicato che sarebbe diventato il nuovo Presidente della Siria. Suo padre Hafiz al-Assad, consapevole dello scarso interesse per la vita politica del figlio, aveva infatti designato come suo successore il fratello maggiore, Basil, che però muore improvvisamente in un incidente stradale nel 1994. Deceduto anche l’anziano genitore, nel 2000 Bashar eredita la presidenza, nonostante la legge prevedesse un’età minima di 35 anni per assumere la carica. Privo di esperienza politica e per anni lontano dal suo Paese, secondo alcuni osservatori internazionali il giovane Presidente sarebbe più che consigliato da alcuni membri della vecchia cerchia di collaboratori del padre. Il leader siriano, che ha sposato una donna di fede sunnita, Asma al-Akhras da cui ha avuto tre figli, è noto alle cronache per essere una persona piuttosto riservata rispetto alla sua vita privata.
Nel 1998 l’attuale primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, in occasione del suo primo mandato alla guida del paese, avrebbe detto ‘sì’ al ritiro dall’altopiano del Golan in cambio della pace con la Siria. La notizia è rimbalzata da una parte all’altra del globo lo scorso 10 settembre, dopo la diffusione di una lettera firmata dall’ex-ambasciatore Ronald Lauder, in quegli anni mediatore tra Gerusalemme e Damasco dell’allora Presidente americano Bill Clinton. “Israele si ritirerà dal territorio siriano occupato nel 1967, conformemente alle risoluzioni 242 e 338 del consiglio di Sicurezza dell’ONU che stabiliscono il diritto di tutti i paesi ad avere delle frontiere sicure”, si legge nella missiva riportata dal quotidiano israeliano ‘Yediot Aharonot’. Il ritiro, precisa Lauder nel testo, sarà realizzato su “una frontiera concordata tra le parti basata sulla linea del 4 giugno 1967”. Nonostante le conferme giunte dal vecchio capo del Mossad, Danny Yatom, ufficialmente Netanyahu ha sempre negato di aver accettato un “ritiro totale” dalle alture. Le due risoluzioni delle Nazioni Unite citate nel testo prevedono il ritiro israeliano dai territori occupati nella guerra del 1967.
la gestione delle risorse idriche e la presenza delle stazioni radar israeliane sul monte ash-Shaykh/Hermon. Il giovane ra’is siriano Bashar al-Assad sembra comunque aver abbandonato l’antica dottrina del defunto padre Hafiz e, almeno a parole, ha cercato di lasciare spazio a maggiori margini di trattative. Negli ultimi anni è stata la Turchia ad aver rivestito un ruolo chiave nell’ambito dei negoziati siro-isreliani e proprio il 22 luglio scorso premier Recep Tayyip Erdogan si è detto pronto a riprendere la mediazione tra i due contendenti, sospesa alla fine del 2008 quando è stata lanciata dallo Stato ebraico l’operazione “Piombo fuso” contro la Striscia di Gaza. Sta di fatto che rispetto all’isolamento vissuto durante l’era Bush, quando la Siria faceva parte del cosiddetto ‘asse del male’, gli equilibri internazionali sono oggi ruotati a favore di Damasco. Oggi il regime siriano può contare sulle aperture giunte da Barack Obama, che sembra puntare proprio sul riavvicinamento a Damasco per uscire dal pantano medioorientale. E Bashar alAssad ha più di un masso in mano: quello del conflitto israelo-palestinese, l’arma dei rifugiati iracheni, l’influenza sulla politica interna libanese e quella che potrebbe esercitare sul dossier nucleare iraniano.
UNHCR/J. Wreford
I Drusi
I Drusi sono una setta che nasce nel XI secolo da una scissione nell’Islam sciita. Professano una religione di carattere esoterico, basata sulla fede nella trasmigrazione delle anime che avviene al momento della morte verso un altro essere umano. Tutti i dogmi della fede sono riservati ai soli iniziati e, secondo il loro credo, la vita precedente influenza la successiva in base ai sette peccati capitali. Oggi, dopo anni di tensioni e divisioni, non rimane quasi più traccia dei cento quaranta villaggi siriani che per secoli e fino al 1967 hanno animato le alture del Golan. Nonostante gli scioperi della fame e le continue manifestazioni di protesta, le comunità druse rimaste su territorio israeliano non hanno ancora la libertà di ricongiungersi con le famiglie rimaste al di là dei nuovi confini.
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Quando Netanyahu disse ‘si’ al ritiro dal Golan
Attualmente nessun segnale ufficiale indica una ripresa delle trattative dirette tra Damasco e Tel Aviv, dopo gli incontri avvenuti nel gennaio del 2000 nella località di Shepherdstown. Poco si sa sui negoziati segreti avviati nell’autunno 2003 e conclusi nella primavera del 2004, in seguito - sembra - a una fuga di notizie sulla stampa internazionale. Da allora si sono registrate soltanto numerose, ma vaghe dichiarazioni d’intenti sia da parte israeliana che siriana, che nei fatti però restano ancorate sulle proprie posizioni, con Damasco che continua a denunciare l’illegalità dell’occupazione delle alture di fronte al diritto internazionale, nonché la sua successiva annessione. Da parte sua Israele considera la sua presenza sul Golan vitale per la propria sicurezza nazionale e postpone un eventuale ritiro in cambio di precise garanzie da parte siriana e internazionale, che vanno dalla completa smilitarizzazione del territorio compreso tra le alture e i sobborghi di Damasco alla riduzione su scala globale delle forze armate siriane, fino alla creazione di una forza d’interposizione internazionale dotata di reali poteri dissuasivi e di metodi di risposta concreti in caso di aggressione. In pratica, sul piatto delle trattative c’è sempre stata
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La situazione attuale e gli ultimi sviluppi
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ELENCO DEI PAESI IN CONFLITTO Cecenia Cipro Georgia Kosovo Paesi Baschi
EUROPA
Ettore Mo
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
L’Europa ha le sue guerre
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Stufo delle pretese del Presidente Djokhar Dudaev che da anni reclamava l’indipendenza della Cecenia, il collerico Boris Eltsin decise di mandare a Grosny un corpo di spedizione con 20 mila uomini, carri armati e copertura aerea per l’assalto finale alla capitale di quel minuscolo, riottoso Stato. Era il 31 dicembre 1994. Tentativo fallito, fiasco completo. Neanche un mese dopo, sul tetto del Palazzo presidenziale garriva al gelo la bandiera rossa. Quando vi misi piede per la prima volta, nel gennaio del ’95, Grozny era una città spettrale. Dalla torretta di un carro armato fuori uso penzolava un soldato russo, un manichino di antracite. Trascorsi un paio di notti nel bunker del Palazzo presidenziale dove - dicevano - stava rintanato lo stesso Dudaev col suo Stato maggiore. Fuori, Milena Gabanelli - l’indomita reporter di Mixer - filmava i cadaveri sparsi tra i ruderi prima che venissero ulteriormente straziati da branchi di cani famelici. Per vendicarsi dello smacco subito nella capitale, l’esercito d’occupazione sovietico ha intensificato le operazioni nelle campagne, su minuti villaggi come Shalì che venne bombardato in un giorno di mercato con la gente affaccendata attorno alla bancarelle. Sessantaquattro i morti. Dramma analogo nel minibazar di Cernorecje, alle porte di Gronsy dove le bacinelle di otto donne che stavano attingendo acqua si sono riempite di sangue. Una donna, sopravvissuta al massacro, urlava vendetta contro Eltsin e suggeriva d’infilzarlo in un tritacarne per farlo morire lentamente. Scomparso Dudaev in circostanze misteriose (ma pare che i russi, scoperta la località dove s’era nascosto, l’avessero colpito con un razzo), era emerso come nuovo capo del Movimento indipendentista ceceno il leggendario Shamil Basaev, irriducibile ad ogni compromesso con Mosca. Trentun anni e già un passato da eroe. Sulla sua pelle c’erano i rammendi di diciassette ferite, la più grave quella inflitta nella battaglia di Budionnovsk, vinta nonostante la grande superiorità numerica dei federali. “Noi stiamo combattendo contro i russi da trecento anni - mi disse quando lo raggiunsi in montagna, nel suo rifugio di Mehkety - e anche questa volta gliela faremo pagare benché abbiano in campo mezzo milione di soldati. Ma sono sempre ubriachi. In una mano hanno il mitra, nell’altra la siringa per infilarsela nel braccio. Lo stupro e il saccheggio sono le loro regole. Questa per noi è una jihad, una guerra santa”. Poi, inspiegabilmente, questo leader che qualcuno aveva già definito il Che Guevara del Caucaso assume un ruolo nuovo che cancella di colpo tutte le aspirazioni giovanili e si trasforma da guerrigliero puro in terrorista come dimostra la strage nella scuola di Beslan (Ossezia del Nord) dove erano rinchiusi 1200 ostaggi, tra cui 800 bambini. Ed è questa l’immagine che gli sopravvive quando viene ucciso nel luglio del 2006. Un’immagine che non ci consente di guardare con orgoglio la foto che mi riprende accanto a lui, disteso e sorridente, durante il nostro ultimo incontro a Mehkety.
Cecenia
Sarajevo deve morire di sete. Questo l’obbiettivo dei separatisti serbi che, dopo due anni e mezzo di lotta contro i croati, hanno messo duramente a rischio, nel 1995, il futuro dell’ex Jugoslavia. Bloccata la fabbrica idrica di Ildiza, che pompava 1350 litri d’acqua al secondo, gli abitanti della capitale (280 mila) si mettevano in coda davanti alle poche pompe cittadine ancora vive e gorgoglianti. Fu cosí che una mattina di primavera, 30 persone ammassate attorno a una fontana vennero falciate dai militari, accanto ai loro secchielli, che si riempirono solo di sangue. E questo in una città dove la gente si faceva la doccia anche cinque volte al giorno. Sui serbi, oltre alla distruzione di Sarajevo, ricadeva anche la responsabilità del massacro
Sarajevo
Alla fine dello scorso millennio il conflitto più lungo è stato quello dellle guerre balcaniche, che dal 1991 hanno laceraro la Jugoslavia: anche se il primato per il numero di vittime, oltre 1 milione di morti, spetta agli 8 anni (1980 - 1988) di accanita belligeranza tra IRAN e IRAQ. Le tre polveriere ad alto potenziale che hanno alimentato il conflitto balcanico erano le tre regioni jugoslave di Macedonia, Montenegro e Serbia meridionale; ma il motivo dello scontro era ancora una volta il Kosovo, dove nel 1999 sono arrivate le truppe della Kfar, la forza della Nato, internazionalizzando quest’ultima follia bellica, mentre nel maggio dello stesso anno il Presidente Slobodan Milosevic veniva accusato di “crimini di guerra e contro l’umanità” dal Tribunale internazionale dell’Aja. A fine marzo del ‘99 le prime bombe Nato colpiscono obiettivi in tutta la Jugoslavia e il mese successivo viene bombordato per la prima volta il centro di belgrado. Secondo l’ammisione del generale americano George Robertson, in undici settimane sarebbero cadute sul Paese ben 31 mila missili ripieni di uranio. Milosevic si trova sempre più solo, scomparsi tutti i suoi collaboratori, la gente è alla fame e sono sempre più numerosi coloro che muoiono di tumore a causa delle radiazioni. L’esercito clandestino kosovaro, sostenuto dagli USA che alla vigilia degli accordi di Dayton gli hanno conferito legittimità, combatte la sua guerra con l’obiettivo di liberare le enclave albanesi tenuto in ostaggio da Milosevic. La Nato ha effettuato 37 mila missioni aerei, mentre quelle di attacco sono state undicimila. Le perdite, fra i militari serbi, assommano a circa cinquemila e diecimila feriti. Cinquemila, secondo fonti Nato, i kosovari albanesi “giustiziati dai serbi”. oltre 500 è la cifra delle città e dei villaggi distrutti nella regione del kosovo, devastazione che va messa direttamente in rapporto col gran numero di sfollati e profughi (quasi 1 milione) che trovarono rifugio nei paesi europei. Sono stato in Jugoslavia più di una volta nei primini anni novanta. ricordo il reparto di ginecologia e maternità dell’ospedale di Osiek, capoluogo della Slovenia, che era stato trasferito nei sotteranei e scantinati dopo che l’esercito federale aveva cominciato a bombardare l’edificio. Un lazzaretto. qui i bambini nascevano al ritmo delle bombe. E resterà nella memoria per sempre un’esecuzione in località Gornii Vakuf, nel cuore della Bosnia centrale dov’era in corso una feroce contesa etnica tra croati e musulmani bosniaci: e dove un uomo si vantava di aver fatto fuori “un cane musulmano” di cui agitava la testa che grondava di sangue. Mentre un altro individuo teneva in ciascuna tasca dei pantaloni un orecchio mozzato spiegando con torvo sarcasmo che “è stato il modo più spiccio per impadronirsi degli orecchini d’oro della mia vicina di casa”.
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Guerre nei Balcani
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di Sutina e dell’assalto di Mostar, che in poche giornate vide precipitare nel fiume quattro dei suoi meravigliosi cinque ponti: ed è stato per me un’angoscioso privilegio passeggiare sull’unico rimasto in piedi, il Ponte Vecchio, che consentiva ancora un labile accostamento tra i mussulmani e la comunità cristiana. A Sarajevo l’industria delle pompe funebri lavorava a pieno ritmo. Nel ’95, la media era di 52 morti al giorno, che pure sfigurava rispetto a quella di tre anni prima quando le vittime del conflitto interno potevano anche raggiungere un massimo di 280. Secondo le statistiche ufficiali, dall’inizio delle ostilità piu’ di 11 mila cadaveri (di militari e civili) erano stati sotterrati nei camposanti della Bosnia Erzegovina. Al punto che non c’era più legno sufficiente per le bare: anche se si trattava di quattro assi senza coperchio e le sepolture erano rapide e quasi furtive, senza fiori e, spesso, senza pianti. Anche la stampa ha pagato un prezzo molto alto. Da un frettoloso resoconto listato a lutto del 1994 risulta che in due anni e mezzo di guerra almeno 60 giornalisti, fotografi, teleoperatori e imberbi raccontapalle della notizia che sognavano lo “scoop” hanno perso la vita. Primi a soccombere due fotografi austriaci, Nick Vogel e Norbert Werner, fulminati da una granata all’aereoporto di Brink, vicino a Lubiana, il ’28 giugno del ’91. Che la terra vi sia lieve. Amen.
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La zona della Russia indicata con questa colorazione indica la parte riconducibile alla Regione della Cecenia a cui questa scheda è dedicata.
È vero, la Cecenia è relativamente ricca sia di petrolio che di gas metano. Ma troppo spesso si tende a sovrastimare l’importanza che questi giacimenti avrebbero avuto nella genesi e poi nella dinamica del conflitto che ha opposto negli ultimi vent’anni Grozny a Mosca. Basti pensare a tal proposito che, dei 500 milioni di tonnellate di petrolio che la Federazione russa estrae ogni anno, solo 1,5 viene dal Caucaso del Nord. Il che vuol dire che la Cecenia ha un’importanza strategica risibile, da questo punto di vista, rispetto all’area del Mar Caspio oppure alla regione del Mar Artico. Non è dunque all’economia in sé ma alla geo-politica che bisogna guardare per poter decifrare i conflitti in corso. Più che al controllo delle risorse energetiche che si possono estrarre in loco il Cremlino è infatti interessato alla Cecenia (e a tutto il Caucaso) come regione strategica per il transito dell’oro nero che si estrae nell’area del Mar Caspio, in particolare in Kazakstan e Azerbaijan, Paesi che vanno affrancandosi sempre di più dalla secolare tutela russa. E non a caso sul tracciato dei gasdotti e degli oleodotti che andranno dal Mar Caspio al Mar Nero si gioca da anni un’accesa guerra “per procura” fra Stati Uniti e Russia.
CECENIA
Generalità Nome completo:
Repubblica Cecena
Lingue principali:
Russo, Ceceno
Capitale:
Groznyj
Popolazione:
1.103.686
Area:
15.500 Kmq
Religioni:
Musulmana sunnita
Moneta:
Rublo, nahar
Principali esportazioni:
Petrolio
PIL pro capite:
n.d.
del Governo nel 2000 e diventa Presidente della Cecenia nell’ottobre 2003, carica che occupa fino al maggio 2004, quando viene ucciso in un attentato allo stadio di Grozny. Al suo posto subentra il figlio Ramzan, famoso per i suoi metodi brutali, che viene confermato Presidente nel 2007 e regna tuttora, con pieni poteri. È la milizia dei Kadyrov che viene incaricata, negli ultimi anni, di fare la ‘guerra sporca’, in nome di una progressiva ‘cecenizzazione’ del conflitto, perseguita da Mosca con caparbietà: ne consegue un’alternanza di bastone e carota, con ripetute amnistie per i ribelli che scelgono di abbandonare la lotta armata e una spietata caccia all’uomo per stanare gli irriducibili. I risultati sono notevoli, se è vero che decine di capi-clan e signori della guerra vengono via via neutralizzati: a fine febbraio del 2008, secondo il vice-ministro degli interni russo, Arkady
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Oro nero
Con la fine del Regime Speciale Anti-terrorismo (Kto), proclamata in pompa magna dal Cremlino il 16 aprile 2009, si è ufficialmente chiusa l’ultima campagna militare russa in quella che, per storia, cultura e religione, è senza dubbio la più indomita e la più problematica - a livello di sicurezza - fra le repubbliche e le entità statali caucasiche. È vero però che l’assassinio a Grozny, appena tre mesi dopo, il 15 luglio, dell’attivista per i diritti umani Natalia Estemirova, figura di spicco della società civile cecena, vincitrice nel 2007 del Premio internazionale Raw in War dedicato ad Anna Politikovskaja, ha subito dimostrato che la situazione in Cecenia è lungi dall’essere pacificata, nonostante gli indubbi successi del programma di riconciliazione nazionale e di ricostruzione avviato dal Presidente filo-russo Ramzan Kadyrov dopo le due guerre combattute nel 1994-1996 e nel 1999-2000. Un’ulteriore conferma si è poi avuta il 10 agosto 2009, con il rapimento a Grozny e l’uccisione di due volontari della ONG cecena Save the Generation, Zarema Sadulayeva e Alik Dzhabrailov, ad opera di una delle tante bande paramilitari che seminano il terrore fra la Cecenia e il vicino Daghestan. La guerra dunque è finita, ma la sicurezza è lungi dall’essere acquisita. Resta il fatto che negli ultimi dieci anni un lungo processo, politico e militare, ha segnato la fine del sogno irredentista ceceno e la restaurazione di un ordine costituzionale filo-russo. Tutto ciò grazie soprattutto all’ascesa di un clan forte e prestigioso, che ha scelto di abbandonare la lotta armata e si è schierato dalla parte del Cremlino: il clan dei Kadyrov. Già gran mufti di Grozny, Akhmad Kadyrov viene eletto capo
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Quadro generale
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Ramzan Kadyrov
(Tsenteroi, 5 ottobre 1976)
Edelev, restavano in Cecenia meno di 500 ‘terroristi’ abbarbicati sulle montagne, fra cui una cinquantina di mercenari arabi; e chi raggiunge oggi le montagne per unirsi a loro, secondo diverse organizzazioni umanitarie, lo fa non più per motivi ideologici o religiosi, quanto per motivi personali, per vendicarsi cioè di un torto subito. È merito invece delle forze speciali russe e delle loro taglie ma non dei Kadyrovsty l’eliminazione di tutti i grandi leader della guerriglia cecena: nel marzo 2002 viene ucciso, probabilmente avvelenato, il comandante Ibn al Khattab, l’uomo di al-Qaeda in Cecenia; l’8 marzo 2005 viene ucciso il Presidente indipendentista Aslan Maskadov; il 10 luglio
2006 è il turno infine del comandante Shamil Bassaiev, sulla cui testa i russi avevano messo una taglia di 10 milioni di dollari. L’ascesa dei Kadyrov è andata comunque di pari passo con il graduale disimpegno dell’Armata Russa: dei 100 mila uomini impiegati in Cecenia all’epoca delle due guerre, ne restavano nel 2005 meno di 25 mila, schierati peraltro solo in appoggio alle forze cecene del Ministero degli Interni; il rimpiazzo è stato completato nel 2009, con la fine del Kto, ed oggi restano poche migliaia di soldati russi in Cecenia, acquartierati nelle loro caserme-fortezze di Gudermes, Kankalia e Kashali.
I PROTAGONISTI
Come ebbe a scrivere la giornalista russa Anna Politkovskaja, con la sua solita ironia, il fiore all’occhiello della nuova Cecenia “pacificata” è proprio lui, Ramzan Kadyrov, il suo giovanissimo Presidente. È stato lui, infatti, con le buone e con le cattive, a neutralizzare e costringere alla resa i più importanti gruppi di ribelli indipendentisti; ed è stato sempre lui a volere la completa ricostruzione di Grozny e della Cecenia, per cancellare ogni traccia delle ultime due sanguinose guerre che l’hanno devastata. Resta però da capire se l’innegabile consenso di cui oggi gode sia frutto dell’ammirazione dei suoi concittadini oppure della paura che suscitano i suoi sgherri. Da anni, sia Human Rigths Watch che altri organismi internazionali fra cui l’Alto Commissariato dell’ONU per i diritti umani denunciano l’uso sistematico della tortura da parte delle forze di sicurezza che fanno capo al Presidente ceceno. E più di recente, l’ONG russo-cecena Memorial ha accusato Kadyrov dell’assassinio eccellente di Natalia Estemirova, personaggio di spicco della società civile a Grozny. Per ora, comunque, Ramzan Kadyrov resta un intoccabile, grazie soprattutto alla protezione che gli ha sempre concesso Vladimir Putin, che nel 2004 l’ha anche decorato come Eroe della Russia.
La prima guerra cecena scoppia l’11 dicembre 1994 con l’offensiva a sorpresa ordinata da Boris Yeltsin in difesa della minoranza russa perseguitata nella nuova Repubblica islamica d’Iskeria, già repubblica autonomia di Cecenia e Inguscezia, dichiaratasi indipendente nel 1991. Questo blitzkrieg fu la più importante operazione militare condotta dall’Armata Rossa dai tempi della guerra in Afghanistan. Ma nonostante la sproporzione delle forze in campo, i russi non riescono a prevalere e sono costretti ad accettare un accordo di pace umiliante, firmato il 31 agosto 1996: con tale accordo la Cecenia mantiene la sua autonomia, suggellata dall’introduzione della sharia, la legge islamica, mentre i negoziati sull’indipendenza vengono rinviati sine die. Molto più breve fu la seconda guerra cecena, che scoppia il 1° ottobre 1999 e dura fino al 1° febbraio 2000, quando le truppe dell’Armata Rossa occupano Grozny. L’intervento russo venne ufficialmente scatenato da una serie di attentati organizzati dai ribelli ceceni in territorio russo, con una lunga scia di morti - 240 solo a Mosca, nel 1999 - ma secondo molti analisti la guerra fu una prova di forza voluta dal primo ministro Vladimir Putin per guadagnarsi una facile popolarità e preparare la propria ascesa al potere.
La situazione attuale e gli ultimi sviluppi
come fece con altri popoli caucasici; solo l’ascesa al potere di Krusciov permise ai ceceni di rientrare in patria, costretti però a convivere con i russi che ne avevano preso il posto e che rappresentavano ormai il 30% della popolazione. Non c’è dunque da stupirsi se il movimento irredentista ceceno abbia rialzato la testa sul finire degli anni ’80, quando l’URSS comincia ad implodere; e se poi nel 1991, prima ancora della dissoluzione dell’Urss, viene proclamata a Grozny prima una Repubblica di Cecenia separata dall’Inguscezia e qualche mese dopo la Repubblica islamica indipendente di Iskheria. È bastato questo per scatenare il risentimento russo, sfociato poi nelle due guerre del 1994-1996 e del 1999-2000.
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Le due Guerre Cecene
L’annessione di questa Regione allo spazio d’influenza russo non è mai stata accettata dai fieri popoli montanari che la abitano: non a caso, la prima guerra santa contro i russi è del 1839 e tutti i grandi condottieri ceceni dell’epoca - dallo sceicco Mansur all’imam Shamil - hanno costruito la loro leggenda e la loro popolarità sulla resistenza ad oltranza alle forze di occupazione inviate da Mosca, in nome dell’indipendenza. L’epoca sovietica aggiunse solo nuove ferite e nuova acrimonia: accusati di aver collaborato con i nazisti, i ceceni non godettero infatti di buona fama, ai tempi di Stalin, e già nel 1944 si rivoltarono; in seguito cercarono di opporsi alla collettivizzazione forzata delle loro terre, al punto che Stalin ne ordinò la deportazione di massa in Kazakhstan, così
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Per cosa si combatte
Le vittime
Non esistono dati certi sul numero di morti e feriti nelle due guerre cecene, che comunque, a detta di tutti gli osservatori, si sono caratterizzate per un tasso inaudito di violenza e per la sistematica violazione dei diritti dell’uomo. Secondo le stime sono 350 mila i ceceni rifugiatisi all’estero, in conseguenza della guerra. Di questi oltre 100 mila vivono in Europa.
Di recente, passi da gigante ha fatto anche il programma di ricostruzione varato dal Governo filo-russo. La città di Grozny, ridotta dopo le due guerre ad un cumulo di macerie, appare oggi in pieno boom: c’è un nuovo aeroporto, nuove autostrade e un centro sfavillante di negozi e attività economiche. È vero poi che secondo l’ONU il 60% della popolazione continua a vivere al di sotto della soglia di povertà, ma la situazione appare in netto miglioramento, grazie ai massicci investimenti che arrivano da Mosca. In cambio la popolazione cecena ha deciso, alme-
no apparentemente, di piegarsi al realismo :una nuova costituzione filo-russa è stata votata a larga maggioranza nel 2003; e con le elezioni parlamentari del 2005 è stata completata una complessa ma efficace divisione dei poteri fra Mosca e Grozny. Contro la speranza di una pace duratura gioca però in primis la Storia. Il conflitto che oppone infatti la Grande Russia - prima zarista, poi sovietica ed ora di Putin - alla piccola Repubblica caucasica della Cecenia dura più o meno da duecento anni, sia pure a fasi alterne, ed è assai probabile che si riproponga.
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Lo spionaggio
A tutt’oggi le basi militari di Akrotiri e Dhekelia rimangono sotto controllo inglese. Da qui gli anglo americani possono controllare il Medio Oriente e il confine meridionale della Russia. I principali capi dell’isola e il Monte Olimpo (m. 1951) hanno un uso militare di spionaggio e sono punteggiati di antenne.
CIPRO
Generalità Nome completo:
Repubblica di Cipro; Repubblica Turca di Cipro Nord
Lingue principali:
Greco, Turco
Capitale:
Nicosia
Popolazione:
792.604
Area:
9.250 Kmq (di cui 3.355 Kmq all’interno della Repubblica Turca di Cipro Nord)
Religioni:
Cristiana ortodossa, musulmana
Moneta:
Euro nella Repubblica di Cipro. Nuova lira turca, nella Repubblica Turca di Cipro Nord
Principali esportazioni:
Prodotti agricoli tipici come olive e limoni, tessuti e calzature
PIL pro capite:
Us 16.000 Repubblica di Cipro Us 5.600 Cipro del Nord
Cipro. Comminciarono scontri armati tra le due comunità che andarono avanti per una settimana. Vi furono fughe di civili da quei villaggi dove avevano vissuto fino ad allora in rapporti di buon vicinato sia greci che turchi. Il 4 marzo 1964, con la Risoluzione n. 186 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, veniva istituita la missione Unificyp (United Nations Peacekeeping Force in Cyprus). Dieci anni dopo, la precaria pace cadde. Nel 1974, sull’esempio del “colpo
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Unficyp
La componente militare di Unficyp è attualmente suddivisa in 3 settori: settore 1 (Ovest), di competenza del contingente argentino; settore 2 (Centrale) di responsabilità del contingente britannico; settore 4 (Est) di responsabilità del contingente sloveno/ungherese. Il pre-esistente settore 3, gestito dal Canada fino al 1993, è stato assorbito dai settori 2 e 4 nel momento in cui i Canadesi hanno ritirato il loro contributo. La missione comprende anche una componente di polizia (Unpol) forniti da Australia, Bosnia, Croazia, India, Irlanda, Olanda e Italia, organizzata in sette comandi di polizia ubicati in prossimità della zona cuscinetto con il compito di cooperare con la polizia locale e garantire il primo contatto tra la popolazione e la forza Unficyp.
Situata a 70 km dalla Turchia, Cipro è la terza isola per estensione del Mar Mediterraneo orientale. Si trova a soli 100 km dalla costa del Vicino Oriente ed a 500 km dall’Egitto. Dal punto di vista geografico, Cipro è situata nel continente dell’Asia. Fino al 1960 Cipro fu colonia britannica. Il 16 agosto di quell’anno, dopo decenni di lotta politica ed armata, venne fondata la “Repubblica di Cipro”, indipendente ma “protetta”, non soltanto più dalla Gran Bretagna, ma anche da Grecia e Turchia. Il nuovo stato divenne membro dell’ONU un mese più tardi. La Repubblica era retta da una Costituzione che bilanciava gli interessi delle due comunità etniche locali: quella greco-cipriota, che rappresenta ancora oggi la maggioranza della popolazione, e quella turco-cipriota. Se il Presidente era un esponente di origine greco-cipriota, con funzioni di capo di stato e di Governo, il vice-Presidente doveva essere un turco-cipriota con diritto di veto. Il Governo era composto da sette ministri greco-ciprioti e tre turco-ciprioti; il Parlamento da 35 membri greco-ciprioti e 15 turco-ciprioti. Per fare le leggi era necessario ottenere la maggioranza all’interno di entrambi i gruppi. La neo Repubblica di Cipro, così istituzionalizzata, non entrò mai veramente in funzione perché mai si arrivò ad un programma politico comune tra greci e turchi dell’isola. Gli uni guardavano ad Atene, gli altri ad Ankara. Il 30 novembre 1963 l’arcivescono Makarios III, nominato primo Presidente di Cipro, tentò di modificare la Costituzione. Il Governo di Ankara non glielo permise. Il 21 dicembre Makarios III ripudiò il trattato di Garanzia che legava Grecia, Turchia e Gran Bretagna nell’amministrazione di
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Dimitris Christofias (Dhikomo, 26 agosto 1946)
di stato dei colonnelli” in Grecia del 1967, anche a Cipro i fedeli ad Atene tentatono di annettere per via militare l’isola alla Grecia. La Turchia non rimase a guardare. Al fine di proteggere la minoranza turca inviò l’esercito che occupò il Nord dell’isola. L’ONU ottenne il “cessare il fuoco” il 16 agosto 1974. Da allora Cipro è di fatto divisa in due zone distinte e separate. Al Sud, i greci della Repubblica di Cipro, Paese riconosciuto dalle diplomazie mondiali e divenuto nel 2004 membro dell’Unione Europea. Al Nord, per un terzo del territorio dell’isola, si estende invece la “Repubblica Turca di Cipro Nord” che non fa parte della zona doganale e
fiscale europea, anche se i suoi cittadini vengono considerati a tutti gli effetti cittadini dell’UE, ed è riconosciuta come stato di diritto soltanto dalla Turchia.
I PROTAGONISTI
Dimitris Christofias è il Presidente della Repubblica di Cipro. Figlio di un uomo politico, già da giovanissimo Christofias frequentò gli ambienti dell’estrema sinistra cipriota iscrivendosi nel 1960 al Partito Progressista del Popolo Lavoratore (Akel), un movimento marxista-leninista. Studiò e visse molti anni in Russia. Nel 2008 decise di candidarsi alle elezioni presidenziali con il sostegno di Akel e dei Democratici Uniti. Venne eletto realizzando un’impresa elettorale che sembrava impossibile in Europa, a diciannove anni dalla caduta del muro di Berlino: portare un partito comunista a vincere le elezioni, senza alcun sostegno militare e rivoluzionario. Ha dichiarato di non voler cambiare l’economia di libero mercato a Cipro. Ha definito il crollo dell’URSS come un crimine contro l’umanità. Supporta la resistenza antiamericana di Cuba e si è dichiarato favorevole alla chiusura delle basi militari britanniche di Cipro.
La Repubblica di Cipro con una popolazione oggi di 800 mila abitanti che occupa il 57% del territorio dell’isola, è la parte economicamente più sviluppata con un reddito pro capite annuo di 27.047 dollari (stime 2008 del Fondo Monetario Internazionale). La favorevole situazione economica le ha consentito di entrare nella Unione Europea nel maggio del 2004, attraverso negoziati condotti a nome dell’intera isola, e di adottare l’euro a partire dal 1° gennaio 2008. Dal canto suo, la cosiddetta Repubblica Turca di Cipro del Nord - autoproclamatasi nel 1983 e riconosciuta dalla sola Turchia - amministra invece il 37% dell’isola. I suoi 256 mila abitanti (censimento 2006), tra turco-ciprioti (178 mila) e turchi (70 mila) trasferitisi a partire dal 1974, hanno un reddito pro capite di 8 mila dollari (2006). Oltre alla scarsezza di risorse naturali, l’economia del Nord dell’isola - totalmente dipendente dalla Turchia - sconta gli effetti dell’isolamento internazionale, principale ostacolo al suo sviluppo economico.
La situazione attuale e gli ultimi sviluppi
La linea verde
Gli uomini in forza all’Unficyp controllano una zona cuscinetto lunga 180 km e di un’ampiezza variabile dai 20 metri ai 7 km. Una “linea verde” che taglia in due la capitale Nicosia dove fino al marzo 2007 esisteva anche un vero e proprio muro divisorio tra la parte greca e la parte turca della città. Nella notte del 9 marzo 2007 è stato aperto dai greci, come segnale di andamento positivo dei negoziati di pace, un valico importante, quello della zona commerciale di Ledra Street, un valico che di fatto fa “cadere” il muro intero, anche se in alcuni tratti del suo percorso cittadino non è stato abbattuto.
Le vittime
La guerra del 1974 fece oltre 7 mila morti e quasi 2 mila dispersi da entrambe le parti. Circa 160 mila greco-ciprioti furono costretti a lasciare le loro case e a rifugiarsi nel Sud dell’isola, mentre 40 mila turco-ciprioti dovettero spostarsi al Nord. Nicosia, la capitale, venne tagliata in due da un muro.
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
L’economia
L’Isola subisce ancora oggi le conseguenze della guerra del 1974. I Turchi la “invasero”. Dal loro punto di vista, fu una “difesa” della minoranza turca. Ma la diplomazia internazionale non giustifica le ragioni dell’occupazione turca negando il riconoscimento alla Repubblica di Cipro Nord. Rimane sul tavolo, dunque, la questione politica della cosiddetta “énosis”: la riunificazione, l’unità. Il punto nevralgico in cui si concentrano le tensioni tra greci e turchi è rappresentato dagli accordi sull’architettura del futuro unico e unitario Stato di Cipro: come dividersi il potere?
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Da settembre 2008, sotto l’egida dell’ONU, il Presidente greco-cipriota, Dimitris Christofias, e il leader turco-cipriota, Mehmet Ali Talat, hanno avviato colloqui tesi alla riunificazione dell’isola. Ma nulla è dato per scontato. L’incidente diplomatico è sempre possibile, e a volte auspicato. Proprio il 2 settembre 2009, l’agenzia greco cirpriota Cna riferiva che i negoziati diretti alla riunificazione di Cipro “hanno subito una battuta d’arresto dopo che un pellegrinaggio di greco-ciprioti nella parte turca a Nord dell’isola è stato cancellato per cause non ancora ben chiarite”. Il giorno dopo, Ankara faceva sapere che “non intende aprire i propri porti e aeroporti alle navi e agli aerei greco-ciprioti finché i Paesi europei non stabiliranno rapporti commerciali con la Repubblica Turca di Cipro del Nord”. Il 25 giugno 2009, dalla radio statale greco-cirpiota CyBc, il Presidente della Commissione Europea Josè Manuel Barroso dichiarava: “C’è una storica possibilità per porre fine a questo conflitto una
volta per tutte. Il momento è questo. Non permettete che si crei una situazione in cui le giovani generazioni accetteranno semplicemente lo status quo”. Ma gli attriti non potevano essere nascosti. Il 10 giugno 2009, ancora dai microfoni della radio di Stato, il ministro dell’Industria greco-cipriota Antonis Paschalides aveva annunciato che il Governo di Nicosia andrà avanti con il proprio programma di sondaggi petroliferi offshore nel Mediterraneo, al largo di Israele, nonostante la Turchia abbia definito quelle attività una “provocazione” e abbia inviato in zona navi da guerra. “La Turchia non vuole che Cipro resti divisa e i negoziati in corso sono l’ultima possibilità di riunificarla, altrimenti occorrerà trovare un’alternativa”, questo è ciò che dichiara il 20 luglio 2009 alla Tv il ministro degli esteri turco, Ahmet Davutoglu, in occasione del 35° anniversario dell’intervento armato di Ankara sull’isola a difesa della minoranza etnica turca.
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Per cosa si combatte
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Fin dai tempi dell’impero zarista, il Caucaso rappresenta il tallone d’Achille dell’espansionismo russo. In questa regione vive infatti una miriade di popoli montanari che, per storia, cultura e religione sono spesso stati in guerra fra di loro e comunque refrattari alle dominazioni esterne, a cui si opposero con le armi. Inoltre, ai tempi dell’Unione Sovietica, in particolare negli anni 19371944, su ordine di Stalin molte di queste popolazioni vennero deportate in Siberia, con l’accusa di “collaborazionismo con il nemico”, e questo ha ulteriormente contribuito ad alimentare l’odio contro i russi. Delle sette Repubbliche che compongono oggi il Caucaso settentrionale e fanno parte della Federazione Russa ben 4 presentano gravi problemi di sicurezza interna, dovuti alla presenza di gruppi armati che si oppongono al potere centrale ed hanno legami diretti o indiretti con il terrorismo di matrice islamica: la Cecenia, il Daghestan, l’Inguscezia e l’Ossezia del Nord. Gravi tensioni inter-etniche attraversano anche il Caucaso meridionale, dove - oltre ai conflitti interni della Georgia - non va dimenticata l’annosa disputa fra Armenia e Azerbaijan sul Nagorno-Karaback, che comportò una sanguinosa guerra fra il 1992 e il 1994 e che non si è ancora risolta. Nessuna delle tante guerre del Caucaso si è d’altronde conclusa con una pace duratura e con il rientro dei profughi.
GEORGIA
Generalità Nome completo:
Georgia
Lingue principali:
Georgiano
Capitale:
Tbilisi
Popolazione:
4.989.000
Area:
69.510 Kmq
Religioni:
Ortodossa georgiana (76%), musulmana (9.9%), ortodossa russa (3%), armena apostolica (4.9%), cattolica (2%), altre (3.2%)
Moneta:
Lari georgiano
Principali esportazioni:
Metalli ferrosi e non, alcuni prodotti agricoli, vino
PIL pro capite:
Us 3.586
all’Occidente. È la cosiddetta rivoluzione “delle rose” - dal fiore che i manifestanti hanno scelto come simbolo della protesta ma in realtà dietro la piazza si muovono gli stessi spin doctors e le stesse fondazioni occidentali che hanno già operato in Iugoslavia durante le proteste del 2000 che portarono alla caduta del Presidente Milosevic, e che si ritroveranno poi dietro la rivoluzione “arancione” in Ucraina, nel novembre 2004. D’altra parte, sia l’Europa che gli Stati Uniti non fanno mistero delle loro simpatie per il nuovo leader georgiano, mentre la Russia di Putin ne prende sempre di più le distanze. Inizia così una lunghissima partita a scacchi, di cui la guerra-lampo dell’agosto 2008 è solo una delle tante mosse. Nel gennaio
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
La polveriera
La guerra-lampo fra Russia e Georgia, dal 7 al 16 agosto 2008, ha evidenziato ancora una volta quanto fragili siano gli spazi geopolitici che si sono aperti ai confini fra Europa e Asia dopo la disintegrazione dell’Unione Sovietica, nel 1991. E se l’intera Regione del Caucaso si è dimostrata negli ultimi anni una polveriera a cielo aperto, lo si deve da un lato al rinnovato protagonismo russo sullo scacchiere internazionale - inaugurato con la presidenza di Putin, dopo il lassismo dell’era Yeltsin - e dall’altro ai ripetuti tentativi occidentali di erodere, se non di annettersi questo tradizionale spazio d’influenza russa . La contesa con la Georgia risale al 19911992, quando le due Regioni georgiane dell’Ossezia del Sud e dell’Abkazia entrano in conflitto aperto con il Governo centrale di Tblisi - che si è reso indipendente da Mosca il 19 aprile 1991 - e dichiarano una subitanea secessione, sancita con un referendum popolare. Ne segue un sanguinoso conflitto, con l’Armata Rossa che accorre in aiuto delle milizie separatiste: il bilancio è di 3 mila morti in Ossezia, dove la guerra finisce nel luglio 1992, e di 7 mila morti in Abkhazia, dove gli scontri proseguono fino al dicembre 1993. Ancora più pesante è la pulizia etnica con cui viene ridisegnata la mappa della Regione: centinaia di migliaia di georgiani sono costretti ad abbandonare le due Regioni separatiste, mentre centinaia di migliaia di russi, osseti e abkhazi devono abbandonare la Georgia, per sfuggire alle rappresaglie. Una pace precaria, anche se costellata da continue provocazioni, da una parte e dall’altra, resiste fino al novembre 2003, quando in Georgia una rivolta di popolo costringe alla fuga il Presidente Eduard Shevardnadze e porta al potere un nuovo e giovane leader, Mickhail Saakashvili, assai più gradito
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Vladimir Vladimirovic Putin (Leningrado, 7 ottobre 1952)
2006, ad esempio, cioè in pieno inverno, Mosca chiude i rubinetti del gas che rifornisce Tblisi, e nell’aprile dello stesso anno blocca le importazioni di vino georgiano. In risposta, Bruxelles decide il 21 settembre 2006 di intensificare il dialogo che dovrebbe portare all’ingresso della Georgia nell’Alleanza Atlantica. Russia e Georgia si danno inoltre battaglia, apertamente, nella guerra dei gasdotti che infiamma ormai Europa ed Asia da anni: Tblisi è coinvolta infatti nel tracciato del gasdotto Nabucco, che porterà in Europa le risorse energetiche del mar Caspio senza passare dal territorio russo; Mosca risponde invece con due progetti di gasdotti alternativi, North e South Stream, che escludono dal loro tracciato, e non a caso, l’uno la Georgia e l’altro l’Ucraina. Al conflitto politico-diplomatico apertosi nel 2004 si aggiunge poi una recrudescenza delle provocazioni militari sia in Abkhazia che in Ossezia del Sud. Fino al 7 agosto 2008 gli incidenti e le scaramucce, che pure fanno diversi morti, hanno luogo però fra l’esercito georgiano e le milizie separatiste, senza che ci sia mai l’intervento dell’Armata Rossa, le cui truppe non oltrepassano mai il tunnel di Roki, che separa l’Ossezia del Nord (che appartiene alla Federazione Russa) dall’Ossezia del Sud. La situazione precipita nella notte fra il 7 e l’8 agosto 2008, quando le forze armate georgiane scatenano un massiccio attacco aereo e terrestre sulla capitale dell’Ossezia del Sud, Tskhinvali, riducendola ad un cumulo di macerie. Immediata è la reazione dell’Armata Rossa, accorsa in soccorso delle milizie ossete: le divisioni russe della 58ma Armata penetrano in profondità nel territorio georgiano, mentre i cacciabombardieri si
spingono a bombardare fino alla periferia di Tblisi. Nel giro di qualche ora è guerra aperta, una guerra che si estende subito anche all’Abkhazia. Ovviamente, entrambe le parti si rinfacciano le responsabilità di aver dato inizio al conflitto. Ma governi e grandi media occidentali fin da subito prendono le parti della “piccola” Georgia aggredita dall’Orso russo, ignorando le segnalazioni di diversi organismi internazionali che invece puntano il dito contro il Presidente georgiano Saakashvili e ne denunciano l’avventurismo. Servirà un rapporto dell’UE reso pubblico nel settembre 2009 per stabilire che “senza alcun dubbio” fu la Georgia a scatenare le ostilità, con un attacco “ingiustificato”. Lo stesso rapporto denuncia però la reazione “eccessiva” dei russi e le “atrocità” e la “pulizia etnica” perpetrate ai danni della popolazione georgiana da parte delle milizie ossete, che i russi “non hanno voluto o potuto impedire”. La fine delle ostilità viene decretata il 16 agosto, grazie alla mediazione della UE, attraverso il Presidente francese Sarkozy. Ma il bilancio è pesante, da entrambe le parti: più di 2 mila sono infatti i morti, almeno 5 mila i feriti, e 300 mila gli sfollati. Il 26 agosto la Russia firma comunque per decreto il riconoscimento delle due repubbliche separatiste, adducendo come pretesto l’indipendenza concessa dalla comunità internazionale al Kosovo. Il gesto viene invece condannato sia dall’Unione Europea che dagli Stati Uniti.
I PROTAGONISTI
Per la longevità del suo potere, ma soprattutto per il piglio autoritario con cui lo gestisce, è stato soprannominato l’ultimo zar. Eppure Vladimir Vladimirovic Putin è di gran lunga il Presidente più popolare della Russia postcomunista, quello che l’ha rilanciata sulla grande scena internazionale, rinverdendone agli occhi dei suoi concittadini i fasti del passato imperiale, zarista e sovietico. Eletto per la prima volta Presidente della Federazione Russa nel 2000, dopo essere stato primo ministro ai tempi di Boris Yeltsin, è stato poi riconfermato nel marzo 2004, con un voto plebiscitario. Impossibilitato dalla Costituzione ad un terzo mandato, ha quindi favorito la vittoria alle presidenziali del 2008 del suo delfino Dimitrij Medvedev, che l’ha nominato nuovamente primo ministro, il giorno stesso del suo insediamento. È molto probabile che si ricandiderà alle presidenziali del 2012. Aggressivo in politica estera, Putin ha legato il suo stile interno al concetto di democrazia guidata, un ossimoro di sua invenzione con cui giustificare il disprezzo in fatto di diritti civili e la repressione spietata delle forze di opposizione.
Fin dai tempi dell’impero zarista, il Caucaso rappresenta il tallone d’Achille dell’espansionismo russo. In questa Regione vive infatti una miriade di popoli montanari che, per storia, cultura e religione sono spesso stati in guerra fra di loro e comunque refrattari alle dominazioni esterne, a cui si opposero con le armi. Inoltre, ai tempi dell’Unione Sovietica, in particolare negli anni 1937-1944, su ordine di Stalin molte di queste popolazioni vennero deportate in Siberia, con l’accusa di “collaborazionismo con il nemico”, e questo ha ulteriormente contribuito ad alimentare l’odio contro i russi. Delle sette Repubbliche che compongono oggi il Caucaso settentrionale e fanno parte della Federazione Russa ben 4 pre-
sentano gravi problemi di sicurezza interna, dovuti alla presenza di gruppi armati che si oppongono al potere centrale ed hanno legami diretti o indiretti con il terrorismo di matrice islamica: la Cecenia, il Daghestan, l’Inguscezia e l’Ossezia del Nord. Gravi tensioni inter-etniche attraversano anche il Caucaso meridionale, dove - oltre ai conflitti interni della Georgia - non va dimenticata l’annosa disputa fra Armenia e Azerbaijan sul Nagorno-Karaback, che comportò una sanguinosa guerra fra il 1992 e il 1994 e che non si è ancora risolta. Nessuna delle tante guerre del Caucaso si è d’altronde conclusa con una pace duratura e con il rientro dei profughi.
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Per cosa si combatte
Gazprom
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È il colosso russo dell’energia, accreditata del controllo del 16% delle riserve mondiali di gas naturale, oltre che terzo produttore mondiale di petrolio. Ma Gazprom è soprattutto il maggior fornitore di gas per i Paesi dell’Europa: dalla chiusura o dall’apertura dei suoi rubinetti dipendono cioè il riscaldamento domestico e industriale di una ventina di Paesi, Italia compresa (25% del fabbisogno). Per tutte queste ragioni Gazprom è un micidiale grimaldello nelle mani del Cremino, una vera e propria arma in più da utilizzare in politica estera. Sia la guerra in Georgia che il contenzioso in atto con l’Ucraina e con i Paesi Baltici sono da inquadrare nella nuova fase di competizione per le risorse energetiche apertasi in Europa e in Asia negli ultimi anni, in cui la Russia e Gazprom giocano un ruolo di primissimo piano.
Anna Politkovskaja da “Cecenia. Il disonore russo”, Ed. Fandango)
“La guerra lascia la sua impronta in ogni città, ogni regione, ogni repubblica. Ha invaso tutto e tutti vi partecipano. In che epoca viviamo? Cos’è questa nuova guerra? Chi siamo noi, cittadini russi dell’inizio del XXI secolo? Noi? Noi siamo pronti a scannarci per ogni parola che non ci piace. Siamo intolleranti e intransigenti. Noi? Noi abbiamo riconosciuto che una pallottola in testa è il mezzo più semplice e più naturale per risolvere qualunque conflitto, per minimo che sia. Noi? Noi, inariditi dalla guerra, odiamo più spesso di quanto amiamo. L’odio è la nostra preghiera. E ancora una volta, invece di respirare l’aria a pieni polmoni, ci nutriamo del sangue dei nostri compatrioti senza battere ciglio. Non è forse guerra civile questa?”
La situazione attuale e gli ultimi sviluppi
Ad un anno di distanza dalla guerra, la situazione sul terreno resta ancora tesa. La Russia ha firmato infatti un Trattato di cooperazione militare con i Governi delle due Repubbliche separatiste, che la autorizza a mantenere sul loro territorio un ingente dispositivo militare, di quasi 7 mila uomini. Inoltre la Georgia reclama il completo ritiro
russo da una “zona-cuscinetto” attorno alle due Repubbliche, in territorio georgiano, dove dovrebbe dispiegarsi un contingente internazionale a guida EU e OCSE. Il risultato è che il Mar Nero vede oggi un concentramento di mezzi militari, sia della Federazione Russa che della Nato, che ricorda i momenti più bui della Guerra Fredda.
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Il Kosovo è sempre stato tra le province jugoslave più povere. Ha una prevalente economia agricola e di pastorizia. Possiede però giacimenti di piombo e zinco e miniere di argento, cromo, ferro e nickel. Secondo i dati della Banca Mondiale il 40% della popolazione vive sotto la soglia di povertà mentre il 15% sopravvive in condizioni di estrema povertà, con meno di un dollaro al giorno. La disoccupazione è elevata così come è elevato il tasso di crescita demografica. Il Kosovo ha una popolazione giovane: si valuta che il 45% dei kosovari abbia meno di 25 anni. Questa gioventù è però sfruttata dalla criminalità organizzata come manovalanza. Il Kosovo ha un territorio di 10.887 Km quadrati, prevalentemente montuoso, capitale Prisitina. È situato a sud della Serbia ed ha una popolazione di circa 2 milioni di abitanti appartenenti a diversi gruppi etnici di cui il più numeroso è quello Albanese. L’ultimo censimento della popolazione kosovara è del 1991. I Kosovari albanesi sono di religione mussulmana (90%) e cattolica (10%). I kosovari serbi sono di fede cristiana-ortodossa
KOSOVO
Generalità Nome completo:
Repubblica del Kosovo
Lingue principali:
Albanese, Serbo
Capitale:
Prishtina/Priština
Popolazione:
Stime recenti parlano di 2.130.000 abitanti
Area:
10.887 Kmq
Religioni:
Musulmana, ortodossa, cattolica
Moneta:
Euro (moneta parallela al dinaro serbo al Nord)
Principali esportazioni:
Minerali e metalli non lavorati, prodotti manifatturieri
PIL pro capite:
Us 1,612
diretto controllo della Serbia. I kosovari di etnia albanese si opposero a tale cambiamento. Già agli inizi degli anni ’80 il Kosovo fu teatro di continue rivolte interne miranti a boicottare il Governo centrale jugoslavo. A tali rivolte, lo stesso Governo rispose con dure repressioni di polizia. L’accordo di pace di Dayton del 21 novembre 1995, ponendo una fine alla guerra nella vicina Bosnia-Erzegovina, non affrontava la “questione kosovara”. La linea pacifista di Ibrahim Rugova, leader della Lega Democratica del Kosovo, viene abbandonata a favore della lotta armata. Prendeva spazio l’Esercito di Liberazione del Kosovo, Uck, una formazione paramilitare. Nel 1997 le istituzioni statali collassavano. Nessuna autorità poteva controllare
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
L’economia
La città dove scorre il fiume Ibar, Kosovska Mitrovica, è divisa in due parti: a Sud risiede la comunità albanese, a Nord la comunità serba. Le parti erano e sono ostinatamente contrapposte. Prima della secessione/indipendenza del Kosovo dalla Serbia, e fino ad oggi, nel distretto Nord con capoluogo Mitrovica le fazioni etniche albanesi e serbe hanno mantenuto sempre un medio-alto livello di conflitto con espressioni di reciproca violenza armata. Il 17 febbraio 2008 il Kosovo è dichiarato unilateralmente “uno stato indipendente, sovrano e democratico”. La Serbia non riconosce la dichiarazione di indipendenza. Il 19 febbraio 2008 due posti di controllo alla nuova frontiera Kosovo-Serbia vengono presi d’assalto da una folla di serbi contrari all’indipendenza/secessione. Arrivano le truppe della Kfor, la forza di pace della Nato in Kosovo, per riportare l’ordine. A seguito dell’Indipendenza la Nato ha riaffermato che Kfor resterà in Kosovo sulla base del mandato della risoluzione dell’ONU n. 1244. La risoluzione 1244 era stata emanata il 10 giugno 1999 dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a conclusione di una campagna militare di bombardamenti aerei della Nato durata 78 giorni. L’ONU autorizzava l’istituzione in Kosovo di due misioni, una civile (United Nations Interim in Kosovo - Unmik) e l’altra militare (Kosovo Force - Kfor). Il Kosovo doveva considerarsi ancora parte della Repubblica Federale della Jugoslavia ma sottoposta ad amministrazione civile e militare internazionale provvisoria. Dal 1912 al 1989 il Kosovo ha avuto una larga autonomia nell’ambito della Jugoslavia fino a che il leader serbo Slobodan Milosevic ne alterò lo status instaurando il
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Hashim Thaçi
(Skënderaj, 24 aprile 1968)
i valichi e i confini. Tra Albania e Kosovo viaggiavano indisturbati ingenti quantità di armi per l’Uck. Gruppi estremisti islamici arrivavano in Albania e in Kosovo. Gli Stati Uniti temevano fortemente ciò che accadeva in quegli anni in Kosovo. Con la Conferenza di Rambouillet del 6 febbraio 1999 i ministri degli Esteri di Italia, Francia, Russia, Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti d’America cercano di riportare la pace nel Kosovo, reinstaurare l’autogoverno della Provincia e garantire il diritto ad ognuno di ritornare alla propria terra. La Conferenza fallisce. Di lì a poco, partono i bombardammenti NATO dei “78 giorni” del 1999. Dopo nove travagliati anni di lotte, arriva l’indipendenza unilaterale del febbraio 2008. Il 14 marzo 2008 il parlamento di Pri-
stina adotta la Costituzione mentre a giugno 2008 ufficializza la scelta del suo inno nazionale. È proprio ai primi di giugno 2008 che si registra l’aumento del livello dello scontro politico-militare: viene sventato a Pristina un attacco alla residenza del primo ministro kosovaro Hashim Thaci, ex capo guerrigliero dell’Uck. Thaci non era in casa al momento dell’attacco. La costruzione del Kosovo come Stato indipendente non si ferma. Il 15 giugno entra il vigore la Costituzione già emanata a marzo e il 30 luglio 2008 il Governo presenta i primi passaporti con la bandiera del nuovo Stato. Circa un mese dopo, il 27 agosto, Pristina annuncia la nomina dei primi quattro ambasciatori all’estero: in Usa, Gran Bretagna, Francia e Unione Europea.
I PROTAGONISTI
Hashim Thaçi è un politico kosovaro, leader del Partito Democratico del Kosovo. Ex guida dei ribelli dell’Uck è diventato primo ministro del Paese il 9 gennaio 2008 ed ha dichiarato l’indipendenza del Kosovo dalla Serbia il 17 febbraio 2008. La polizia serba lo ha incriminato nel febbraio del 2008, con l’accusa di aver “organizzato la proclamazione di uno Stato fasullo in territorio serbo”.
La situazione attuale e gli ultimi sviluppi
Il giorno antecedente la dichiarazione di indipendenza, l’Unione Europea approvava la missione Eulex (European Union Rule of Law Mission in Kosovo) che avrebbe dovuto sostituire l’Unmik. Anche la presenza dell’UE sta incontrando ostilità: il 27 agosto 2009, le autorità kosovare hanno manifestato una chiara diffidenza verso qualsiasi mediazione degli europei per arrivare ad un protocollo d’intesa con la Serbia. Due giorni prima, a Pristina, militanti del Movimento Albanese per l’Autodeterminazione, contrari a ogni presenza internazionale nel Kosovo, avevano danneggiato 28 veicoli dell’Eulex. Già mesi prima, a dicembre 2008, a Pristina migliaia di persone erano scese in piazza per contestare il nuovo piano di dispiegamento della missione UE in Kosovo (Eulex) varato dal segretario generale dell’ONU, Ban Ki Moon. Per gli albanesi il piano in sei punti di Ban Ki Moon rappresen-
Il premio Nobel per la Pace
Il Premio Nobel per la Pace è stato assegnato il 10 ottobre 2008 al politico e diplomatico finlandese Martii Ahtisaari, 71 anni. Il comitato del Nobel lo ha premiato per il lavoro svolto a favore dell’indipendenza della Namibia nel ‘90, per la soluzione della crisi di Aceh in Indonesia nel 2005 fra Governo e separatisti e per gli oltre 15 anni di mediazioni nell’ex Jugoslavia. Ahtisaari ha seguito la crisi balcanica dall’inizio, nel ‘91, diventando anche rappresentante speciale dell’ONU per la Regione. Nel ‘99 convinse il Presidente serbo Slobodan Milosevic a cessare la guerra in Kosovo. Dal 2006 al 2007 provò inutilmente a mettere d’accordo serbi e albanesi del Kosovo. Scrisse un piano che prevedeva l’indipendenza sotto supervisione internazionale. Il Piano Athisaari è stato la base di fondazione dello Stato del Kosovo indipendente.
L’Uck
Durante la guerra l’Uck, secondo quanto indicato dal Washington Times, si finanziava prevalentemente attraverso il controllo di buona parte del traffico di eroina e cocaina verso l’Europa occidentale. Sebbene l’Uck sia stato ufficialmente sciolto alla fine del conflitto nel 1999, dalle sue ceneri venne fatto sorgere un corpo armato denominato “Kosovo Protection Force” (Kpf), essenzialmente composto da guerriglieri dell’Uck, mentre il cosiddetto “Partito Democratico del Kosovo” (Pdk) fu formato in gran parte riciclando alla sua testa la leadership politica dell’Uck. Il monopolio della forza ottenuto attraverso la trasformazione dell’Uck in Kpf fu immediatamente usato dal neonato Pdk per conquistare il controllo politico di quasi tutti i posti chiave di Governo a livello municipale in Kosovo e per minacciare il partito moderato e pacifista di Ibrahim Rugova.
Le vittime
tava un cedimento ai desideri di Belgrado. Intanto, il 29 giugno 2009 il Kosovo è diventato il 186° membro nel Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale e a luglio 2009 con il riconoscimento della Giordania sono saliti a 61 i Paesi che nel mondo hanno riconosciuto la sua indipendenza. La cronaca degli ultimi fatti non ha conosciuto mai una vera soluzione di continuità: 3 settembre 2009, incidenti fra serbi e albanesi e due esplosioni hanno scosso di notte il quartiere di Kodra e Minatoreve, l’enclave a maggioranza serba nella parte Nord di Mitrovica. Nessuna vittima. 25 agosto 2009, almeno sette persone rimangono ferite in incidenti fra serbi e albanesi avvenuti in un sobborgo di Mitrovica. Come riferito dal portavoce della polizia locale, gli scontri si sono registrati a Brdjani (Kroi i Vitakut in albanese) quando un centinaio di serbi hanno cominciato a protestare contro la ricostruzione delle case dei residenti albanesi. La ricostruzione della case degli albanesi a Brdjani aveva già causato scontri protrattisi per un paio di settimane nel maggio 2009, quando era stato deciso che ognuna delle due comunità poteva ricostruire un numero limitato di case.
Nel marzo 1999 parte una campagna di bombardamenti aerei Nato per 78 giorni. La Croce Rossa fa un drammatico bilancio: 5.206 persone “scomparse” in Kosovo. Nel 2007, 1.998 persone (kosovari albanesi, kosovari serbi e appartenenti ad altri gruppi) erano ancora ufficialmente “scomparse”. Ancora il 30 agosto 2009, la Commissione internazionale per le persone scomparse (Icpm), un organismo internazionale con sede a Sarajevo, diffonde il dato che delle 4 mila persone scomparse durante il conflitto del 1998-1999 in Kosovo, oggi non si sa ancora nulla del tragico destino di 1.889 persone, in maggioranza di etnia albanese. Il dato è stato confermato anche dal Comitato Internazionale della Croce Rossa durante una conferenza stampa a Belgrado il 28 agosto 2009.
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Al centro della “questione kosovara” c’è il mantenimento dell’indipendenza nazionale conquistata nel 2008. I serbi non vogliono riconoscere un’entità statuale agli albanesi del Kosovo. Gli albanesi del Kosovo non vogliono essere amministrati da Belgrado.
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Per cosa si combatte
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La zona della Spagna indicata con questa colorazione indica la parte riconducibile alla Regione dei Paesi Baschi a cui questa scheda è dedicata.
Batasuna nasce nell’aprile del 1978 con l’obiettivo di creare uno stato socialista indipendente da quello spagnolo. Dopo la messa al bando nel 2003, Batasuna ha cambiato più volte nome per cercare di aggirare i divieti imposti dalla magistratura spagnola. Nelle elezioni regionali del 2005 ha invitato i propri elettori a votare per il Partido Comunista de las Tierras Vascas (Ehac), dichiarato a sua volta illegale nel 2008, perché considerato vicino all’Eta. Per lo stesso motivo, nel 2009 il giudice Garzón ha dichiarato illegali numerose formazioni della sinistra ‘abertzale’ impedendone la partecipazione alle elezioni per il rinnovo del parlamento basco. Il risultato è stata la fine di trent’anni di Governo locale del Partito Nazionalista Basco che senza l’alleanza con le formazioni ‘abertzale’ ha perso la guida del parlamento. Il nuovo ‘lehendakari’ (capo del parlamento in basco’) è il socialista Patxi Lopez, appoggiato anche dai popolari e dichiarato dall’Eta ‘obiettivo prioritario’.
PAESI BASCHI
Generalità Nome completo:
Comunità autonoma dei Paesi Baschi
Lingue principali:
Euskara, spagnolo
Capitale:
Vitoria-Gasteiz
Popolazione:
2.157.112
Area:
7.234 Kmq
Religioni: Moneta:
Euro
Principali esportazioni:
n.d.
PIL pro capite:
Us 1.310
durante la guerra civile spagnola, l’aviazione falangista di Franco, supportata da aerei tedeschi della Legione Condor, bombardò e rase al suolo la città di Guernica, considerata storicamente dai Baschi come simbolo di libertà. Con la dittatura franchista l’insegnamento e l’uso dell’euskara furono viEtati e criminalizzati. I libri pubblicati in lingua basca bruciati, i nomi in basco furono banditi e quelli già in uso furono tradotti in spagnolo. Con la morte di Franco nel 1975 e la nascita della Costituzione spagnola del 1978 ai Paesi baschi viene assegnato lo status di Comunità Autonoma, con ampi margini di autonomia amministrativa ma non la totale indipendenza politica e il diritto all’autodeterminazione del popolo basco, che è invece, ancora oggi, lo scopo dichiarato della lotta armata dell’Eta e del programma politico del partito basco
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Batasuna
Quello tra il Governo spagnolo e l’organizzazione separatista basca Euskadi Ta Askatasuna (Terra Basca e Libertà), conosciuta con l’acronimo di Eta, è un conflitto che dura da decenni nonostante qualche tentativo di negoziato tra le parti. L’Eta viene fondata nel 1959 da un gruppo di giovani studenti nazionalisti con lo scopo di imbracciare le armi per l’indipendenza dei Paesi Baschi. L’organizzazione nasce dunque in piena dittatura franchista e in un contesto politico di forte repressione che aveva limitato fino ad annullarla l’azione del principale partito politico della Regione, il Partito nazionalista Basco (Pnv), fondato nel 1895 da Sabino Arana (il disegnatore della bandiera basca, la Ikurriña) per garantire ai baschi una rappresentanza politica nel parlamento di Madrid. Il nazionalismo e la repressione franchista sono i due elementi chiave per comprendere la nascita e l’evoluzione dell’Eta, il cui simbolo è un serpente che si avvolge attorno ad un’ascia, a rappresentare l’astuzia e la violenza e il suo motto è ‘BiEtan jarrai’, ‘perseguire entrambi’, dunque la lotta politica e quella armata. Le radici del nazionalismo e della spiccata tendenza indipendentista del popolo basco vanno ricercate nella storia peculiare di questo popolo antichissimo e della sua lingua l’euskara (parlato oggi da circa 700 mila persone) di cui sono ancora ignote le radici etimologiche ma che rappresenta ancora oggi per i baschi e molto più del territorio stesso, il fulcro della identità collettiva. Anche durante la dominazione di popoli stranieri, quella romana compresa, i baschi riuscirono sempre a mantenere una certa autonomia. Una autonomia che fu negata totalmente con la dittatura di Franco. Ancora prima dell’ insediamento del regime,
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Quadro generale
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Baltazar Garzón Real (Torres, 26 ottobre 1955)
Herri Batasuna, considerato il braccio politico dell’organizzazione. Batasuna viene dichiarato illegale in Spagna nel marzo del 2003 e considerato una vera e propria organizzazione terroristica negli Stati Uniti. L’Eta, viene inserita nella lista nera del terrorismo nel 2001, dopo una lunga scia di attentati cominciata nell’anno della sua fondazione. Il primo omicidio risale però al 1968 quando venne uccisa la guardia civile José Pardines. Nel 1973 l’organizzazione separatista uccide, con una bomba piazzata sotto l’automobile, l’ammiraglio Luis Carrero Blanco, che era stato designato dallo stesso Francisco Franco come suo successore. Da allora le vittime di attentati e omicidi mirati compiuti dall’Eta sono state 858, oltre 2000 i feriti. Nel mirino dell’organizzazione armata obiettivi militari e civili oltre a singoli rappresentanti politici - soprattutto locali ma non solo - sia del Pnv
che del Partito Popolare (Ppe) e del Partito Socialista (Psoe). Le modalità sempre le stesse: potenti ordigni fatti esplodere dopo una chiamata di avvertimento che però non ha evitato il sacrificio di civili. Ne muoiono 17 in un ristorante di Torrejon nel 1985, 21 in un centro commerciale di Barcellona nel 1987, 11 davanti alla sede della Guardia Civil di Saragozza nel 1991. Nel 1992 fallisce il primo tentativo di negoziato, ad Algeri, tra il Governo spagnolo e l’Eta. Un fallimento che porta ad arresti eccellenti da parte delle autorità spagnole e ad una nuova raffica di attentati e omicidi da parte dell’organizzazione separatista. Nel 1998 l’Eta dichiara la prima tregua della sua storia, sotto il Governo conservatore di Aznar, che regge fino al 2000. L’organizzazione armata riprende gli omicidi mirati mentre si fa più dura l’offensiva del Governo spagnolo e delle autorità di Madrid.
I PROTAGONISTI
Conosciuto in tutto il mondo per aver richiesto l’arresto dell’ex dittatore cileno Augusto Pinochet, il giudice della Audiencia Nacional, Baltazar Garzón è considerato il vero artefice dell’offensiva delle autorità spagnole contro l’Eta. Nel 2000, con l’Operazione Lupo Nero, riuscì a decapitare i vertici dell’organizzazione separatista commissionando una spettacolare retata con il supporto di trecento agenti delle forze di polizia spagnole che hanno arrestato venti membri dei vertici politici dell’Eta. Un colpo durissimo per l’organizzazione. In seguito Garzón dichiara illegale il partito basco Batasuna ne sequestra i beni e ne impedisce l’azione politica, limitando molto anche quella di tutte le formazioni della cosiddetta ‘sinistra abertzale’, l’insieme dei partiti e delle associazioni indipendentiste basche, che hanno subito numerosi arresti ordinati proprio da Garzón.
I detenuti
Nelle carceri spagnole e francesi ci sono più di 600 prigionieri politici baschi. Secondo l’Osservatorio basco per i diritti umani ‘Behatokia’ i detenuti subiscono regolarmente torture e maltrattamenti da parte delle forze di polizia. La documentazione e i libri pubblicati da ‘Behatokia’ si basano principalmente sulle denunce e sulle testimonianze di ex detenuti baschi. Numerose Organizzazioni Internazionali a Difesa dei Diritti Umani hanno giudicato credibili queste testimonianze. Le istituzioni spagnole negano però il ricorso a torture o maltrattamenti e giudicano le denunce come il frutto di una precisa strategia dell’organizzazione armata Eta per indebolire il Governo spagnolo. Di fatto i prigionieri baschi sono distribuiti su tutto il territorio francese e spagnolo, in 80 carceri di 6 stati. Questo costringe i familiari dei detenuti a estenuanti e pericolosi viaggi, anche di 1000 chilometri, che hanno spesso causato incidenti e vittime.
Il 23 marzo 2006, l’organizzazione dichiara una nuova tregua che apre la strada ad un tentativo di dialogo con il Governo socialista di Josè Luis Rodriguez Zapatero. Un nuovo fallimento. La tregua si interrompe ufficialmente con un nuovo attentato. Il 30 dicembre del 2006 un furgone-bomba esplode in un parcheggio dell’aeroporto Barajas di Madrid. L’attentato rivendicato dall’Eta fa due morti e 19 feriti. Lo sdegno del popolo spagnolo, ancora sconvolto dagli attacchi
del terrorismo di matrice islamica del 2004, è enorme. Zapatero annuncia la fine del dialogo con l’Eta e l’offensiva delle autorità di Madrid si fa più dura. Cresce anche la collaborazione con le autorità francesi, fino ad ora meno coinvolte nella ‘questione basca’ ma chiamate in causa dopo che la messa al bando di Batasuna e gli arresti della magistratura spagnola hanno spinto i membri dell’Eta a spostare i centri operativi dell’organizzazione al di là dei Pirenei. L’azione congiunta franco-spagnola porta a numerosi arresti eccellenti in territorio francese, tra cui alcuni dei ricercati considerati responsabili degli ultimi attentati dell’Eta in Spagna, quelli del luglio 2009 sull’isola di Maiorca, dove sono stati uccisi due agenti della Guardia Civil e alla caserma della Guardia Civile nella Spagna settentrionale a Burgos, il 29 luglio dove 65 persone sono rimaste ferite. Nonostante l’offensiva delle autorità franco-spagnole l’Eta ha diffuso un comunicato per annunciare che l’organizzazione “non rinuncerà alla lotta armata”.
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
La situazione attuale e gli ultimi sviluppi
“Euskal Herria è il Paese dei baschi. Noi, che lottiamo con tutte le armi di cui disponiamo per la libertà del nostro popolo, preferiamo dire che Euskal Herria è il Paese dell´euskara, la nostra lingua. La nostra lingua nella nostra terra. Libera”. Così l’organizzazione armata Eta ha spiegato in una lettera lo scopo della sua quarantennale lotta armata: l’indipendenza e l’autodeterminazione di Euskal Herria. Il termine Euskal Herria non si riferisce alle tre province che compongono la Comunità autonoma dei Paesi Baschi spagnoli ma, letteralmente, al “popolo che parla la lingua basca” e al territorio dove esso risiede. La Comunità autonoma dei Paesi Baschi è dunque solo una delle Regioni che compongono Euskal Herria. Ad esse va aggiunta un’altra Provincia autonoma della Spagna, la Navarra (Nafarroa in basco) e tre Provincie sotto amministrazione francese: Lapurdi, Nafarroa Beherea e Zuberoa. La parte spagnola dei Paesi Baschi è nota come Hegoalde (‘parte Sud’ in basco), quella francese come Iparralde (‘parte Nord’ in basco).
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Per cosa si combatte
Inoltre
Situazione al 30 ottobre 2009
Nel 1948 il Paese ottiene l’indipendenza dalla Gran Bretagna. Da allora in Birmania si è insediata una giunta militare armata fortemente repressiva di ogni tipo di libertà individuale e dei basilari diritti civili. Gli eventi più significativi legati alla violazione dei diritti umani della popolazione si registrano nell’estate del 1988 quando decine di migliaia di persone si riversarono nelle strade e nelle piazze per protestare contro la politica economica del Governo. Per sedare le rivolte l’esercito non ha esitato a sparare sulla folla. Una dura repressione che ha avvelenato il clima sociale nel Paese ma che non ha impedito allo stesso Governo di indire delle nuove elezioni. Fu in questa occasione che nacque un fronte di opposizione politica alla Giunta militare, che vede in Aung San Suu Kyi la sua esponente più nota e autorevole, è la Lega Nazionale per la Democrazia, movimento non violento che si batte per i diritti umani. Nel maggio del 1990 si tennero le prime elezioni in trent’anni. La Lega Nazionale per la Democrazia ottenne l’80% dei voti, ma il neoeletto Parlamento non riuscì mai a riunirsi. Lo Slorc (Consiglio di restaurazione della legge e dell’ordine di stato), forte dell’appoggio dell’esercito si rifiuta di cedere il potere. Aung San Suu Kyi, ed altri leader dell’Nld vengono arrestati. Da allora comincia per Aung San Suu Kyi è cominciata una vera e propria persecuzione. Viene rimessa in libertà nel 1995, viene nuovamente arrestata nel 2000, liberata nel 2002, e nuovamente arrestata nel 2003. Attualmente vive, a quasi venti anni di distanza, ancora agli arresti domiciliari. Nel mese di maggio del 2009, la condanna ai domiciliari sarebbe scaduta ma la Giunta militare l’ha nuovamente condannata dopo un processo sommario usando come pretesto l’intrusione nella casa dove la donna stava scontato la sua pena, di un mormone statunitense. Aung San Suu Kyi è stata nuovamente condannata, questa volta a tre anni di lavori forzati per violazione della normativa della sicurezza che sono stati commutati poi, dalla Giunta militare, in altri 18 mesi di arresti domiciliari. Pena che impedirà ad Aun San Suu Kyi di partecipare alle prossime elezioni del 2010. Risulta impossibile stabilire con certezza il numero di vittime causate dal lungo conflitto in corso in Birmania a causa del divieto di accesso nelle zone più calde del Paese. La “black area”, così è stata definita, è inviolabile ma si stima che siano almeno 30 mila i morti tra la sola popolazione Karen dall’inizio del conflitto. La popolazione Karen, l’etnia più diffusa in Myanmar, è in guerra con quella birmana dal 1949, per la costituzione di uno Stato
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Birmania/Myanmar
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Sotto la cenere covano le crisi
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
indipendente nel Nord Est del Paese. Solo negli ultimi anni più di 100 mila persone hanno dovuto lasciare il Myanmar e cercare rifugio nei campi profughi dell’Onu in Thailandia. Nell’agosto del 2007, nuove proteste infiammano il Paese. La popolazione scende in piazza per protestare contro la politica che ha condotto la Birmania verso una crisi economica senza precedenti. Si parla di rastrellamenti, sparizioni e torture. Il governo interrompe le comunicazioni via internet; mentre l’esercito dà ordine di distruggere immagini o video riguardanti la protesta e di punire con l’arresto chi possiede macchine fotografiche e cellulari. Durante i rastrellamenti non sono stati risparmiati nemmeno i monasteri. Amnesty International stima che nella sola ex capitale Yangon siano state arrestate un migliaio di persone, la maggior parte dei quali monaci.
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Il 28 giugno 2009 l’Honduras sale alla ribalta della scena politica internazionale a causa di un golpe militare che destituisce il Presidente in carica Manuel Zelaya, consegnando il Paese nelle mani di Roberto Micheletti, Presidente del Parlamento. E’ stato chiaro da subito che nel golpe era coinvolta anche la Corte Suprema di Tegucigalpa. Sono stati infatti gli stessi giudici a rendere noto di aver dato ai militari il via libera per bloccare il tentativo di Zelaya di violare la legge facendo votare al popolo un referendum di revisione costituzionale che avrebbe permesso al Presidente in carica di restare al potere per un altro mandato. Dopo l’arresto e l’allontamento dal Paese del Presidente Zelaya alcuni testimoni hanno riferito di aver visto sparare dei gas lacrimogeni contro 500 manifestanti davanti al Palazzo presidenziale. I sostenitori di Zelaya sono immediatamente scesi in piazza ed hanno manifestato per mesi chiedendone la liberazione e il ripristino della legalità. Tutti i Paesi dell’Organizzazione degli Stati Americani, Usa e Ue hanno auspicato il ritorno del Presidente in Honduras. Ad appena un mese dal colpo di Stato, Zelaya attraversa simbolicamente il confine tra Nicaragua e Honduras, rimanendo nel “suo Paese” per qualche minuto. I reati di cui viene accusato sono 18: dalla sottrazione di fondi alla Banca Centrale all’alto tradimento. L’Honduras è uno dei Paesi più poveri dell’America Centrale. La sua storia politica subisce una svolta significativa nel 1957 con l’elezione del Presidente liberale Ramòn Villeda Morales che attuò una politica di sostegno alla popolazione attraverso politiche rivolte all’educazione, all’istruzione e alla riforma agraria. Una visione politica osteggiata dai conservatori che portò questi ultimi ad appoggiare un colpo di stato nel 1963. Il potere passò nelle mani di Osvaldo Lòpez Arellano che trascinò il Paese nella “Guerra delle cento ore”, dichiarata dal Salvador a causa dell’incondizionata espulsione di salvadoregni dall’Honduras, accusati di incrementare il problema della disoccupazione interna. La guerra durò sei giorni ma causò oltre 6 mila morti. Il Paese passò successivamente da un colpo di stato ad un altro sino al 1980 quando vennero indette libere elezioni. Nel 1982 viene approvata la Costituzione. Negli anni ‘90, sotto la presidenza di Rafael Leonardo Callejas Romero, viene varato il “Plan de Ajuste”, pensato per una economia liberale mette in ginocchio il Paese: cresce il debito fiscale e commerciale mentre la classe politica media si impoverisce. Ancora oggi l’Honduras è uno dei Paesi più poveri e meno sviluppati dell’America Latina e la recente grave crisi politica non è ancora risolta. Nel mese di ottobre 2009 il Presidente destituito dell’Honduras Zelaya, ha respinto una proposta del rappresentante dei golpisti, Roberto Micheletti, su un punto cruciale delle trattative in corso per uscire dalla crisi politica del Paese e cioè che sia la Corte Suprema dell’Honduras a decidere su un possibile ritorno al potere del Presidente e non il Congresso, come richiesto da Zelaya.
Honduras
Andry Rajoelina. È il 35enne ex dj il nome nuovo della politica malgascia che dal dicembre 2007 al marzo 2009 è stato anche sindaco della capitale Antananarivo prima di deporre il Presidente Marc Ravalomanana a seguito di un colpo di stato militare. Alla base del golpe, avvenuto il 17 marzo 2009 non ci sarebbero solo motivazioni politiche. Sembra infatti che Rajoelina, che ebbe una relazione con la figlia di Ravalomanana, fu costretto ad abbandonarla a causa della contrarietà del Presidente al rapporto. Da quel momento il ragazzo promise anche una vendetta personale che è poi sfociata in guerriglia
Madagascar
Situazione al 30 ottobre 2009
Situazione al 30 ottobre 2009
Nell’agosto del 2009 le autorità etiopi sospendono le attività di 42 organizzazioni non governative che lavorano nel Sud del Paese perché accusate di ostacolare lo sviluppo dell’Etiopia. Queste associazioni, tra cui Medici Senza Frontiere, avevano denunciato le violazioni dei diritti umani che in quell’area del Paese sono diventate ormai all’ordine del giorno. La popolazione è costretta a vivere in condizioni disastrose soprattutto a causa dei conflitti che l’Etiopia combatte da ormai trent’anni. Il conflitto con l’Eritrea inizia nel 1952 quando l’Imperatore etiope Hailé Selassié la priva di ogni autonomia relegandola al ruolo di semplice Provincia. Comincia così a crescere un forte movimento di resistenza nazionale che avrebbe condotto nei successivi decenni ad una lotta armata per l’indipendenza degenerata nel 1997 a causa del rifiuto dell’Eritrea di adottare il birr, la moneta etiope, e a causa della lotta per una esigua striscia di terra. Il conflitto con la Somalia, invece, inizia negli anni ‘50 quando con un accordo anglo etiope la regione dell’Ogaden (di etnia somala situata nella parte orientale dell’Etiopia) passa interamente sotto la sovranità dell’ Etiopia, ma in seguito viene rivendicata da Siad Barre che si lancia nel progetto della Grande Somalia. Dopo continue guerriglie che provocano migliaia di vittime, nel 2007 gli scontri fanno registrare una nuova impennata di violenza con il Governo etiope deciso a spazzare via il Fronte di Liberazione Nazionale dell’Ogaden. Per tagliare ai ribelli i rifornimenti, l’esercito colpisce deliberatamente i civili, distruggendo villaggi e raccolti,
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Etiopia
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antigovernativa. Le vittime sono state centinaia e le tensioni sono state tanto forti da spingere il Governo alle dimissioni. Il giovane leader dell’opposizione inviò i suoi uomini ad occupare quattro palazzi ministeriali poi riconquistati dal Governo. Il mese successivo però Rajoelina si trasferisce definitivamente negli uffici presidenziali: otto ministri in carica rassegnano le dimissioni, seguiti anche dal Capo di Stato Ravalomanana. A nulla sono servite le mediazioni dell’ONU. Gli scontri nelle strade non cessano: se prima erano gli oppositori di Ravalomanana a protestare, ora sono i sostenitori dell’Ormai ex Capo del Governo a tenere alta la tensione in tutto il Paese. Nel frattempo dal Sudafrica dove si trova in esilio, Ravalomanana ha annunciato l’intenzione di voler tornare nel suo Paese per contribuire a organizzare nuove elezioni che mettano fine alla grave crisi che ha investito il Madagascar nell’ultimo periodo ed una data possibile per lo svolgimento delle elezioni potrebbe essere l’ottobre 2010. Ravalomanana è accusato da Rajoelina di essere la causa principale della crisi che grava sul Madagascar e che costringe la popolazione a vivere in situazioni di estrema povertà. Nell’occhio del ciclone la politica di privatizzazioni portata avanti da Ravalomanana che avrebbe svenduto alle multinazionali tutte le risorse del Paese. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la cessione in leasing per 99 anni di 1,3 milioni di ettari di terreni agricoli ad una multinazionale coreana. Tutti i proventi delle “grandi svendite” sembrano finiti nelle tasche dell’ex Presidente e di altri uomini del Governo. Il Madagascar non ha mai conosciuto una vera e propria stabilità politica, motivo principale della povertà del Paese. Lo stesso Marc Ravalomanana era salito al potere nel 2001 dopo una tornata elettorale, che lo vedeva contrapposto al Presidente in carica Didier Ratsiraka, sfociata in scontri armati. Ad uscirne vittorioso fu Ravalomanana e Ratsiraka venne esiliato. Quest’ultimo era succeduto a Philibert Tsiranana, divenuto primo Presidente della Repubblica del Madagascar proclamata nel 1958 dopo una rivolta indipendentista, iniziata nel 1947, contro le forze francesi. Rivolta che ha lasciato sul campo migliaia di morti: si stima una cifra compresa tra le 60 mila e le 100 mila vittime.
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uccidendo il bestiame ed eliminando chiunque sia sospettato di sostenere i ribelli, costringendo migliaia di persone ad emigrare in Somalia. Da sottolineare che la genesi di queste guerre è stata facilitata anche dall’instabile situazione politica che il Paese ha vissuto dopo la liberazione, per mano inglese, dal dominio italiano che ha permesso ad Hailé Selassié di prendere il potere che manterrà fino al settembre del 1974, quando una giunta militare lo depone creando un regime dittatoriale filosovietico con a capo Haile Mariam Menghistu. Menghistu viene costretto alla fuga nella primavera del 1991 quando i ribelli del Fronte Democratico entrano vittoriosamente nella capitale. Tre anni dopo viene eletta un’Assemblea Costituente. Nel 1995 con le prime elezioni politiche viene designato primo ministro Meles Zenawi, ancora oggi in carica. Gli scontri tra l’esercito governativo e il Fronte di Liberazione Nazionale dell’Ogaden vanno avanti da piu’ di venti anni con un inasprimento della violenza a partire dal 2007. Nell’ottobre del 2009, almeno 100 soldati dell’esercito etiope sono stati uccisi dai ribelli e gli scontri hanno provocato la fuga di oltre 200 mila persone, tuttora sfollati. Nonostante la sopravvivenza della popolazione dipenda dagli aiuti della comunità internazionale, i combattenti hanno imposto gravi restrizioni all’ingresso delle associazioni umanitarie nel Paese.
Quella del Kenya è una lunga storia di violenze interetniche. La popolazione del Kenya è suddivisa in più di settanta etnie, appartenenti a quattro famiglie linguistiche: i Bantu, i Nilotici, i Paranilotici e i Cusciti. Attualmente l’etnia più numerosa è rappresentata dal gruppo Bantu dei Kikuyu che rappresenta il 21% della popolazione. Le prime tensioni iniziano nel 1944 con la fondazione dell’organizzazione nazionalista Kenya African Union (Kau) che, sotto la guida di Jomo Kenyatta, avviò la lotta per la ridistribuzione della terra. Nel 1952 i Mau Mau, membri di un movimento nazionalista formato principalmente da Kikuyu, diedero inizio a una lunga e violenta rivolta che portò allo scioglimento del Kau, sospettato di collaborazione con i rivoltosi. Dopo una dura repressione costata più di 10 mila morti, le autorità britanniche concessero l’autogoverno. Nel 1963 Kenyatta, a capo del Kenya African National Union (Kanu), vinse le elezioni e in dicembre il Kenya divenne una Repubblica indipendente. Grazie a lui il turismo si espanse fino a diventare la fonte primaria di reddito nazionale. Dopo la sua morte, nel 1978, prese il potere Daniel Arap Moi che rimase in carica fino al 2002. Negli anni ‘90 il conflitto etnico in Kenya si intensificò, principalmente contro i Kikuyu, costretti a migliaia ad abbandonare i villaggi e a rifugiarsi in campi profughi. Il conflitto riesplose poi, più violentemente nel 1998 nella Rift Valley e causò centinaia di vittime tra la popolazione Kikuyu, maggiormente ostile al regime. La situazione del Paese rimase instabile, sia per il forte malcontento alimentato da conti-
Kenia
Situazione al 30 ottobre 2009
Il 6 luglio 2009, il Presidente della Repubblica Popolare Cinese, Hu Jintao, è costretto a lasciare il tavolo italiano del G8 a L’Aquila. Lo Xinjiang, Regione autonoma del Nord Est del Paese, è precipitato nel caos. La violenza e le tensioni sociali fra la minoranza musulmana Uiguri (83 milioni di persone) e i cinesi di etnia Han, in maggioranza in Cina e in minoranza nello Xinjiang, sono esplose sotto gli occhi della comunità internazionale. Gli Uiguri, etnia turcofona, con i cinesi Han, costituiscono nella Regione la maggioranza della popolazione. Sono 56 i gruppi etnici che compongono l’etnia, tutti ufficialmente riconosciuti dal Governo cinese. Il riconoscimento formale non ha però impedito violenze e discriminazione. Gli Uiguri denunciano una continua e feroce repressione da parte dei cinesi, cui si accompagnano azioni che violano i diritti umani e ogni forma di libertà di espressione dell’etnia turcofona. Gli scontri di piazza sono cruenti. Dopo appena quattro giorni di manifestazioni sono 600 (numeri ufficiali) le vittime degli scontri, 156 solo nella prima giornata. Intanto Pechino decreta la pena di morte per i responsabili delle violenze. Per le strade le forze paramilitari e di sicurezza si muovono in assetto anti sommossa, è il caos totale. L’area abitata viene divisa in due parti: in una gli Han, nell’altra gli Uiguri. Istituito sin da subito il coprifuoco dalle 21 alle 8. A dare inizio al conflitto i turcofoni che scendono in piazza con una manifestazione non autorizzata. Trecento giovani Uiguri protestano contro la morte di due operai, uccisi in una fabbrica di giocattoli a Canton, nel Sud della Cina, dopo essere stati accusati di aver violentato
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Cina-Xinjiang
Situazione al 30 ottobre 2009
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nui episodi di corruzione, sia per i conflitti etnici che continuarono a scoppiare nella valle del Rift e in altre regioni del Paese. Alle elezioni del 2002 il Kanu venne duramente sconfitto e alla presidenza del Paese venne eletto Mwai Kibaki, leader della Coalizione Nazionale Arcobaleno, che cercò, senza risultati, di porre fine agli scontri etnici e alla corruzione dilagante. Nel dicembre 2007 la vittoria di Kibaki su Raila Odinga, il candidato delle opposizioni raccolte nel Movimento Democratico Arancione, scatena una nuova ondata di proteste e di violenze. Gli scontri tra i sostenitori dei due uomini politici causano centinaia di morti, migliaia di feriti e più di 300 mila sfollati. Dopo una difficile trattativa, nell’aprile 2008 il Presidente Kibaki affida al suo avversario Raila Odinga la guida di un Governo di unità nazionale. Nonostante un’apparente stabilità politica il Kenya deve affrontare problemi molto seri. Il primo, ancora irrisolto, è quello della questione etnica, inoltre è in atto una gravissima crisi alimentare. La popolazione sta soffrendo la fame, e la malnutrizione colpisce un numero sempre più alto di bambini, il bestiame muore e la siccità è dilagante. Queste conseguenze sono frutto di un cambiamento climatico repentino dovuto alla devastazione ambientale. E non può essere dimenticato che l’innalzamento delle temperature sta facilitando la diffusione della “malaria degli altipiani”, una forma di malaria mai esistita prima.
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una donna. Il fatto risale al 26 giugno del 2009. Il Governo accusa, tra gli altri, Rebiya Kadeer, dissidente di etnia Uiguri, di aver armato la folla e generato violenza. Per lei prima la cattura, poi l’espulsione dal Paese. Attualmente si trova in esilio negli Usa. Presto la protesta abbandona i suoi confini originari per spostarsi nelle ambasciate cinesi di Olanda, Monaco e Germania, dove artisti filo-Uiguri ne colpiscono le facciate con sassi e pietre. Si tratta dei peggiori scontri etnici in Cina degli ultimi decenni. Già nel 1997 c’era stata una rivolta simile ma non della stessa portata. Ora, la polizia continua a rimanere per le strade. La protesta continua in diversi modi, in ultimo i presunti attacchi con siringhe ipodermiche da parte degli Uiguri contro gli Han. Un tribunale dello Xinjiang ha condannato tre persone con pene fino a 15 anni di detenzione. Secondo i media cinesi, da metà agosto 2009 si sarebbero registrati centinaia di casi di ferimenti che hanno contribuito a esasperare la tensione fra le due parti. Lontana ancora oggi la soluzione del problema.
Nel Chiapas, piccolo Stato del Messico, vivono circa un milione di indios discendenti delle popolazioni maya e appartenenti a differenti gruppi etnici: Tzeltales, Tzotziles, Tojolobales, Choles, Zoques, Momes. Nonostante l’estrema ricchezza del territorio, dove si trovano giacimenti di petrolio, gas naturale, uranio, oro, argento e altri minerali, le popolazioni del Chiapas vivono in una condizione di estrema povertà. Il disagio è particolarmente sentito dagli indios che fin dagli anni ‘70 hanno dovuto subire discriminazioni e violenze da parte delle autorità e della popolazione meticcia che vive nella Regione. L’80% delle abitazioni abitate dagli indios sono capanne con il pavimento di terra. Il 75% delle case non ha accesso all’acqua. Il Chiapas produce il 60% dell’energia elettrica di tutto il Messico ma il 34% delle comunità rurali non ha l’elettricità. Il tasso di analfabetismo tra la popolazione è altissimo. Nel Chiapas ci sono ancora 900 mila analfabeti dei quali 850 mila non sono mai andati a scuola. Le condizioni di vita delle comunità rurali si aggravano ulteriormente a causa della forte repressione da parte delle forze governative. All’inizio degli anni ‘90 i ribelli cominciano a radunarsi all’interno della Selva Lacandona intorno all’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (Ezln), gruppo di guerriglieri ribelli che si ispira ad Emiliano Zapata, il leader rivoluzionario messicano dei primi del ‘900. Il 1° gennaio del 1994, quando entra in vigore il Nafta (Trattato economico sottoscritto da Stati Uniti, Canada e Messico, l’impegno a ridurre dazi sulle reciproche importazioni; i maggiori beneficiari di questo accordo sono in Messico le grandi aziende e gli investitori stranieri) l’Ezln dà inizio alla rivolta armata. È il ‘levantamiento’ zapatista. In breve l’esercito Zapatista occupa sette comuni del Chiapas. In particolare a San Cristobal de las Casas, il leader dell’Esercito Zapatista il
Messico-Chiapas Situazione al 30 ottobre 2009
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Subcomandante Marcos, lesse la Prima Dichiarazione della Selva Lacandona con le le rivendicazioni dei diritti negati agli indios. Marcos fece conoscere al mondo intero le ragioni della battaglia degli indios, la rivendicazione della terra, delle proprie origini e tradizioni. Il Governo federale del Messico viene colto di sorpresa dal ‘levantamiento’ zapatista, ma reagisce immediatamente inviando numerose truppe. Gli scontri armati continuano per giorni. Dal ‘levantamiento’ vi furono altre tappe fondamentali nella lotta zapatista: la nascita delle Aguascalientes (amministrazioni territoriali indigene), che poi divennero Caracoles, e la “Marcia per la dignità dei popoli” nel 2001, alla quale parteciparono movimenti da ogni parte del mondo e che arrivò fino al Governo centrale del Messico, nella capitale. A distanza di molti anni dalla insurrezione zapatista, la condizione degli indigeni del Chiaps non è però migliorata. Le armi tacciono ma le discriminazioni e le violenze contro gli indigeni e in particolare contro le comunità zapatiste del Messico sono ancora all’ordine del giorno. In un recente intervento del settembre 2009, il Subcomandante Marcos, ancora oggi simbolo della lotta zapatista per di diritti ha dichiarato: “Ci hanno conosciuto in guerra. In guerra siamo rimasti questi 15 anni. In guerra andremo avanti fino a che questo angolo del mondo chiamato Messico faccia suo il proprio destino senza trappole, senza finzioni, senza simulazioni”.
Transnistria, lo Stato che non c’è
OSSERVATORIO BALCANI E CAUCASO
Michele Nardelli, lavora nella ricercaazione sui temi della mondialità, della cooperazione internazionale e della pace. Fra i fondatori di Osservatorio Balcani e Caucaso (www.osservatoriobalcani.org). È autore con Mauro Cereghini del libro “Darsi il tempo. Idee e pratiche per un’altra cooperazione internazionale” (EMI, 2008).
Può uno Stato esistere senza che questo sia riconosciuto dalla comunità internazionale e da nessun altro Paese al mondo? La risposta è sì, certamente. Non in qualche angolo sperduto del mondo, ma in Europa. Non da qualche mese, ma dal 2 settembre 1990, quando cioè fu proclamata unilateralmente la Repubblica Moldava di Transnistria, ufficialmente Republika Moldoveneasca Nistreana o “Pridnestrovskaja Moldovskaja Republika”, o più semplicemente “Pridnestrovie”, letteralmente “nei pressi del fiume Nistro”. La Repubblica di Transnistria venne ufficialmente ratificata il 25 agosto dell’anno successivo con la Dichiarazione d’indipendenza da parte del Soviet supremo di Tiraspol. Due giorni dopo il parlamento moldavo votò a sua volta l’indipendenza della Repubblica di Moldova che includeva anche il territorio della Transnistria: ne seguirono mesi di guerra, più di mille morti, ma la potente 14ª armata russa del generale Lebed, schierata a difesa dei secessionisti (e che in Transnistria aveva basi di importanza strategica), non si schiodò dalle rive orientali del fiume Dnestr (Nistro). Sono passati diciotto anni e la Transnistria è uno Stato a tutti gli effetti. Un territorio (3.567 kmq) e confini presidiati dalle milizie statali, l’armata di un potente esercito di un altro paese (ufficialmente in missione di peacekeeping) come angelo custode; istituzioni autonome (Repubblica presidenziale), un Governo ed un Presidente padre-padrone (Igor Smirnov), una moneta (il rublo della Transnistria), una capitale (Tiraspol, 160 mila abitanti su una popolazione complessiva di circa 550 mila), relazioni politiche e commerciali a tutto campo. Sul piano del diritto internazionale la Transnistria non è che una Regione della Moldova. Anche se, per la verità, qualche riconoscimento l’ha avuto: è quello della Abkhazia e dell’Ossezia del Sud, le due repubbliche secessioniste del Caucaso al centro della guerra del 2008 fra Russia e Georgia, alle quali è associata, attraverso un patto di mutuo aiuto che coinvolge anche il Nagorno Karabahk, anche la Transnistria, il tutto sotto lo sguardo interessato di Putin. Il contenzioso sullo status della Regione è dunque più che mai aperto e parte di uno scacchiere di grande complessità che investe l’Europa, la Russia e l’insieme della Regione caucasica. Geopolitica e stati fantasma Si potrebbe dire che il processo iniziato alla fine degli anni ‘80 di sgretolamento dell’impero russo-sovietico è tutt’altro che concluso. È come se la storia si facesse beffa del tempo, riprendendo il suo corso là dove la rivoluzione bolscevica l’aveva forzata. Ma il tempo non si cancella e così quella moltitudine di nazionalità che non hanno mai conosciuto il proprio risorgimento nazionale, si trovano oggi al centro di un ingorgo fatto di vecchi richiami identitari e di postmodernità. In questa cornice il nazionalismo diviene il paravento attraverso il quale bande di criminali assumono nelle proprie mani tutti i poteri. In ballo enormi interessi geopolitici, fatti di corridoi strategici, di gasdotti ed oleodotti, di basi navali sul Mar Nero e di egemonie militari (il ruolo della Nato nella regione), di commerci e traffici di ogni tipo. Ecco perché non possiamo considerare conclusa la guerra nel Caucaso. L’azzardo georgiano, sostenuto irresponsabilmente dalla vecchia amministrazione statunitense, nel riprendersi i territori contesi di Abkhazia e Ossezia del Sud, si è così scontrato con una complessità di interessi che vanno ben
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Michele Nardelli
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Uno Nazione fantasma nel cuore dell’Europa
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oltre la sovranità territoriale della Georgia e che ci fanno ben comprendere l’intensità e l’isteria della reazione russa. Ad esempio il fatto che la principale base militare russa sul Mar Nero sia nella città ucraina (seppure dotata di uno status speciale) di Sebastopoli, attraverso un contratto d’affitto che scadrà nel 2017 che l’Ucraina non intende affatto rinnovare, rende strategico il controllo dell’Abkhazia dove non a caso ci sono o sono in costruzione nuove basi militari di Mosca. Analogamente, il controllo della Transnistria non riguarda affatto il fondo genetico (russo, ucraino e siberiano) del popolo che abita quella striscia di terra, bensì l’espansione della Nato in Moldova. Tant’è vero che la proposta russa per trovare una soluzione negoziale della vicenda, il piano Kozak del 2003 che prevedeva la nascita di una Federazione includente i territori di Transnistria, della Gagauzia (Regione abitata da una minoranza turcofona di religione ortodossa) ed il resto della Moldova, con caratteristiche di piena autonomia e neutralità dalle grandi potenze, in un primo momento accolto positivamente dalle parti, venne respinto da Chisinau (la capitale moldava) su pressione occidentale (Nato e Osce in primo luogo) con una “piccola” ricompensa di 42 milioni di dollari. Una storia di confini, intrecci nazionali, interessi militari e geopolitici che però rappresenta solo una faccia della medaglia. Neofeudalesimo e affari L’altra faccia, non meno importante, è ben più prosaica e si iscrive al concetto di postmodernità. Dietro ai simboli di un tempo, alle statue di Lenin nelle piazze di Tiraspol, ai richiami nazionalistici, prosperano gli affari. Se c’è infatti un luogo che più di altri descrive con efficacia la moderna tendenza al costituirsi di stati “offshore”, questa è proprio la Transnistria. La Transnistria è infatti considerata da tempo uno snodo cruciale dei traffici internazionali di armi, esseri umani e droga, un stato nelle mani della mafia russa e di vecchi agenti del Kgb che usano questo territorio come un porto franco per le proprie operazioni criminali. Lo scenario è quello che abbiamo già incontrato nei dopoguerra balcanici, dove i signori della guerra hanno ben presto disinvoltamente smesso i panni militari per indossare quelli degli uomini d’affari. La natura dei traffici è quanto mai inquietante. Nella Transnistria non c’è solo l’avamposto della 14ª Armata Russa (che da sola - come ebbe a dire il generale Lebed - potrebbe arrivare in poche ore a Chisinau) ma anche numerose basi militari un tempo dell’Unione Sovietica: in una di queste, nel villaggio di Kolbasna, nei pressi della città di Rîbnita erano depositate (in quello che si ritiene il più grande deposito d’Europa) 42 mila tonnellate di armi convenzionali, chimiche, batteriologiche e - si sospetta - anche materiale nucleare (Plutonio, Cobalto e Cesio come è emerso dall’operazione denominata “Cobalt 2000” delle forze di sicurezza romene). Che avrebbero dovuto nel corso degli anni e secondo precisi accordi internazionali essere smantellate e messe sotto controllo, il che non è avvenuto. Ci fu anche un finanziamento Osce di 30 milioni di dollari USA a questo scopo ma i treni speciali destinati a riportare in Russia gli armamenti vennero bloccati e quel che venne stoccato fu solo materiale militare inutilizzabile. A questo si aggiunga l’attività di produzione e di commercio di armi convenzionali attraverso non meno di tredici complessi industriali che operano nel settore bellico o nella produzione di componenti d’arma che vengono poi assemblate in Russia. Intorno al traffico d’armi prosperano gli affari del regime e delle mafie, in primis quella che va sotto il nome di “Brigata Solncevo” (dal nome del quartiere moscovita Solncevskaja), la quale - secondo i rapporti dell’Interpol - intrattiene commerci criminali verso il Medio Oriente, il Caucaso, l’Afghanistan, i Balcani. E com’è ovvio i traffici ruotano a 360 gradi, a prescindere dalle appartenenze nazionali, etniche o religiose. Così partner possono essere il Clan di Zemun (città nei pressi di Belgrado) con a capo Milorad Lukovic (che faceva parte prima delle Tigri di Arkan e poi dei “Berretti Rossi”), controllato dagli uomini di Seselj (un
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tempo Presidente del Partito Radicale Serbo e fondatore delle “Aquile bianche”, corpo paramilitare che tanto sangue ha seminato nella guerra degli anni ‘90) e coinvolto nell’assassinio del premier Zoran Ðindic, e allo stesso tempo gli estremisti kosovari dell’Uçk. Il resto lo fa la famiglia Smirnov. Quasi tutto in Transnistria si chiama “Sheriff”, la società di famiglia di Igor Smirnov con un giro d’affari stimato in 4 miliardi di dollari. Originario di Petropavlovsk-Kamcatskij, ex agente del Kgb che per conto dell’Urss era a capo di diverse Aziende di Stato in quel territorio. Oltre all’apparato statale, gli Smirnov controllano istituti bancari (la Gazprombank), la compagnia telefonica, media, società che operano nel settore energetico (la Tiraspoltransgas) e petrolifero, centri commerciali, casinò, società di import-export (la Sheriff è stata per lungo tempo l’unica azienda autorizzata ad utilizzare valuta estera, particolare che assicurava il monopolio delle esportazioni) e perfino la squadra di calcio della capitale (con annesso il mega stadio riscaldato da 40 mila spettatori costato 200 milioni di dollari). Il figlio maggiore Vladimir è il titolare della Sheriff nonché Presidente delle dogane, l’altro figlio Oleg è a capo della filiale transnistriana della Gazprombank e cura da Mosca gli interessi finanziari della famiglia e le attività di riciclaggio del denaro. Oltre al traffico di armi, l’altro grande business è il traffico di esseri umani, giovani donne destinate al mercato della prostituzione. Agenzie di “collocamento” come la “Lady Tur” - con sede nelle vicinanze del palazzo del Governo - gestiscono il traffiking, ma basta andare su un qualsiasi motore di ricerca per trovarne riscontro. Un commercio difficile da monitorare visto che nel passaggio attraverso il confine fra Transnistria e Moldova (Paese che del traffico di esseri umani ha un triste record) non ci sono ostacoli al transito di donne con passaporto moldavo, se non attraverso le denunce delle stesse vittime. Per le armi, invece, il monitoraggio di Euban (l’agenzia promossa nel 2005 dall’Unione Europea per controllare i confini della Transnistria) non ha rilevato granché considerato che tale traffico passa per l’aeroporto militare di Tiraspol direttamente in Russia e poi per altre destinazioni. È, come dicevo, l’altra faccia della Transnistria, forse il più grande porto franco d’Europa, che colloca questo Paese fantasma al centro dei moderni processi di finanziarizzazione dell’economia. Tendenza, quella a costituirsi come stati offshore, che si regge sotto il profilo del consenso politico grazie a regimi mafiosi e paternalistici, nei quali i richiami nazionalistici (in questo caso alla grande Russia) e all’unità contro l’aggressione esterna, funzionano da anestetico di massa. Così vecchi personaggi dell’apparato burocratico, già avvezzi alla corruzione, non hanno avuto difficoltà nel riciclarsi al nuovo contesto. Mentre nei casermoni del vecchio regime le condizioni di vita della popolazione sono pessime, lo stato sociale completamente saltato, aumenta la disoccupazione e peggiorano gli indici relativi alle esportazioni, i fuoristrada lussuosi sfrecciano attraverso i confini come altrettanti simboli dello status dei nuovi ricchi, le cui ricchezze vengono riciclate in ogni dove, Italia compresa.
Le missioni ONU
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Qui sotto una Cartina che fotografa lo stato delle Missioni ONU sparse nel nostro pianeta.
In queste pagine sono riassunti i dati delle missioni che le Nazioni Unite hanno varato per garantire, stabilire o vagliare la pace in alcuni punti del pianeta. A decidere l’invio di truppe - sempre assemblate sulla base delle disponibilità di singole nazioni o di organizzazioni e alleanze transnazionali, come la Nato o l’Unione Europea per intenderci - è il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che si riunisce regolarmente e che valuta le aree di crisi. L’Assemblea ratifica queste scelte. I dati sotto riportati sono relativi alle missioni in corso al 30 giugno 2009, ultimo censimento effettuato. Troverete il nome delle varie missioni con la loro posizione geografica. Inoltre, potrete sapere quanto personale militare o civile vi è impegnato e quali sono i costi. Già, i costi. Scoprirete che tentare di mantenere la pace, di garantire la sicurezza, ha costi enormi, maggiori che fare la guerra. Questi soldi l’ONU dovrebbe averli dagli Stati che formano l’Assemblea: non è così. O almeno non è sempre così. Molti Paesi pagano in ritardo o non pagano mai, creando situazioni di “ricatto politico” difficili da gestire. Non sempre, poi, le missioni di pace dei Caschi Blu dell’ONU funzionano. Negli anni, vi sono state violente polemiche sul ruolo e sul comportamento dei soldati mandati a garantire sicurezza. Vi sono stati episodi di violenza brutale, di soprusi, uniti a momenti in cui le “regole di ingaggio” - cioè l’insieme di norme che le Nazioni Unite varano per regolamentare il comportamento dei militari in caso di conflitto - hanno impedito interventi efficaci per impedire eccidi. La vita non è facile per le missioni di pace, spesso strette fra critiche feroci e scarsa operatività. Tant’è. Ci sono. Una ultima cosa: in una tabella sono riassunte tutte le missioni dell’ONU dal lontano 1948. Sono davvero tante, se pensiamo che da allora tutti noi ci consideriamo in pace.
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Piccolo riassunto di come si tenta di far cessare la guerra
Le missioni ONU
Breve cronostoria delle missioni
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
1948 Supervisione della tregua tra Paesi arabi e il nuovo Stato di Israele tramite osservatori militari dell’United Nations Truce Supervision Organization (UNTSO).
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1949 Supervisione della tregua tra India e Pakistan tramite osservatori dell’United Nations Observer Military Group in India and Pakistan (UNMOGIP). 1964 Controllo della linea di demarcazione tra la zona greca e quella turca di Cipro tramite i Caschi Blu dell’United Nations Peace-Keeping Force in Cyprus (UNFICYP). 1974 Controllo della zona smilitarizzata tra Israele e Siria tramite i Caschi Blu dell’United Nations Disengagement Observer Force (UNDOF). 1978 Supervisione del ritiro delle forze israeliane dal Libano meridionale tramite i Caschi Blu dell’United Nations Interim Force in Lebanon (UNIFIL). Rafforzata dopo la crisi dell’estate 2006. 1989-1997 Supervisione della tregua tra le forze governative angolane e l’UNITA tramite i Caschi Blu dell’United Nations Angola Verification Mission (UNAVEM I, II, III). 1991-2003 Controllo della zona smilitarizzata tra il Kuwait e l’Iraq tramite osservatori militari dell’United Nations Iraq-Kuwait Observation Mission (UNIKOM). 1991-1995 Supervisione del processo di pace dopo la guerra civile nel Salvador tramite gli Observadores de las Naciones Unidas en El Salvador (ONUSAL). 1991 Supervisione del cessate il fuoco tra l’esercito marocchino e il Fronte Polisario tramite
osservatori e Caschi Blu della Misión de las Naciones Unidas para el Referendum en el Sáhara Occidental (MINURSO). 1992-1993 Assistenza per il ripristino della pace e per la riorganizzazione politica e statale della Cambogia tramite i Caschi Blu e le forze ausiliarie dell’United Nations Transitional Authority in Cambodia (UNTAC). 1992-1995 Protezione della popolazione civile nella Bosnia-Erzegovina tramite i Caschi Blu dell’United Nations Protection Force (UNPROFOR). 1992-1995 Supervisione della tregua e protezione per gli aiuti umanitari in Somalia tramite i Caschi Blu dell’United Nations Operations in Somalia (UNOSOM I e II). 1992-1994 Supervisione del processo di pace tra le truppe governative e la RENAMO dopo la guerra civile in Mozambico tramite i Caschi Blu dell’United Nations Operations in Mozambique (UNOMOZ). 1993 Supervisione del cessate il fuoco tra le truppe governative e i nazionalisti dell’Abhasia tramite osservatori e Caschi Blu dell’United Nations Observer Mission in Georgia (UNOMIG). 1994 Controllo del ritiro delle strutture amministrative e delle truppe libiche dalla Striscia di Aouzou, territorio della Repubblica del Ciad, nel rispetto della delibera della Corte internazionale di giustizia, tramite i Caschi Blu dell’United Nations Aouzou Strip Observer Group (UNASOG). 1994-2000 Supervisione della tregua tra Governo e opposizione armata in Tagikistan tramite osservatori dell’United Nations Mission of Observer in Tajikistan (UNMOT).
1999-2005 Supervisione della tregua tra le truppe governative e quelle del Fronte Rivoluzionario Unito (Fru) tramite i Caschi Blu dell’United Nation Mission in Sierra Leone (UNAMSIL).
1995-2002 Supervisione del processo di pace in Bosnia-Erzegovina tramite osservatori e Caschi Blu dell’United Nations Missions in Bosnia and Herzegovina (UNMIBH). 1997-1999 Supervisione del processo di pace e della smilitarizzazione delle truppe dell’UNITA tramite i Caschi Blu dell’United Nations Mission in Angola (MONUA). 1997-2000 Assistenza al Governo haitiano per l’addestramento delle forze di polizia tramite istruttori dell’United Nations Civilian Mission in Haiti (MIPONUH). 1998 Assistenza alle forze di polizia croate per il reinsediamento dei profughi nella regione del Danubio e per il rispetto degli accordi di pace di Dayton tramite i Caschi Blu della Croazia-United Nations Civilian Police Support Group, che sostituisce la missione dell’United Nations Transitional Administration for Eastern Slavonia, Baranja and Western Sirmium (UNTAES; 1996-98). 1999 Gestione dell’amministrazione civile, politica e militare e assistenza nella ricostruzione e nel ristabilimento di condizioni di pace e di dialogo tramite i Caschi Blu dell’United Interim Administration Mission in Kosovo (UNMIK).
2000 Supervisione della tregua stabilita in giugno tra Etiopia ed Eritrea dopo due anni di combattimento tramite l’United Nations Mission in Ethiopia and Eritrea (UNMEE). 2003 Supervisione del cessate il fuoco e della riorganizzazione civile e politica, addestramento della polizia nazionale, assistenza umanitaria e promozione dei diritti umani tramite l’United Nations Mission in Liberia (UNMIL). 2004-2006 Sostegno al processo di pace e di riconciliazione tramite l’United Nations Operation in Burundi (ONUB). 2004 Supervisione della tregua sottoscritta nel gennaio 2003 tramite l’United Nations Operation in Côte d’Ivoire (UNOCI). 2005 Supervisione degli accordi di pace sottoscritti nel gennaio 2005 tra il Governo del Sudan e l’Esercito Popolare di Liberazione sudanese, assistenza umanitaria e promozione dei diritti umani tramite l’United Nations Mission in Sudan (UNMIS). 2007 Supervisione degli accordi di pace sottoscritti nel maggio 2006 tra il Governo del Sudan e il Movimento di liberazione del Sudan, assistenza umanitaria e promozione dei diritti umani tramite l’African Union/ United Nations Hybrid Operations in Darfur (UNAMID).
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1995-1999 Sorveglianza dei confini tra la Repubblica di Macedonia, la Repubblica federale di Iugoslavia e l’Albania tramite osservatori e Caschi Blu dell’United Nations Preventive Deployment Force (UNPREDEP).
1999-2002 Supervisione della riorganizzazione civile e politica e gestione straordinaria dell’intero territorio di Timor Est tramite l’United Nations Transitional Administration in East Timor (UNTAET).
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
1999 Supervisione della tregua tra forze governative e ribelli e protezione degli aiuti umanitari tramite i Caschi Blu dell’United Nations Mission in the Democratic Republic of the Congo (MONUC).
Le missioni
Atlante delle guerre e dei conflitti nel mondo
ONU 1 UNTSO United Nations Truce Supervision Organization (Organizzazione delle Nazioni Untie per la Supervisione della Tregua)
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2 UNMOGIP United Nations Military Observer Group in India and Pakistan (Gruppo di Osservatori Militari delle Nazioni Unite in India e Pakistan)
3 UNFICYP United Nations Peacekeeping Force in Cyprus (Forza delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace a Cipro)
5 UNIFIL nited Nations Interim Force in Lebanon (Forza temopranea delle Nazioni Unite in Libano)
6 MINURSO United Nations Mission for the Referendum in Western Sahara (Missione delle Nazioni Unite per il referendum nel Sahara Occidentale)
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4 UNDOF United Nations Disengagement Observer Force (Osservatori delle Nazioni Unite per il ritiro)
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7 UNMIK United Nations Interim Administration Mission in Kosovo (Missione delle Nazioni Unite per l’amministrazione temporanea del Kosovo
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8 MONUC United Nations Organization Mission in the Dem. Rep. of the Congo (Missione delle Nazioni Unite nella Repubblica Democratica del Congo)
9 UNMIL United Nations Mission in Liberia (Missione delle Nazioni Unite in Liberia)
11 MINUSTAH United Nations Stabilization Mission in Haiti (Missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite ad Haiti)
12 UNMIS United Nations Mission in the Sudan (Missione delle Nazioni Unite in Sudan)
Atlante delle guerre e dei conflitti nel mondo
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10 UNOCI United Nations Operation in Côte d’Ivoire (Operazione delle Nazioni Unite in Costa d’Avorio)
Atlante delle guerre e dei conflitti nel mondo
13 UNMIT United Nations Mission Integrated Mission in Timor-Leste (Missione Integrata delle Nazioni Unite a Timor-Est)
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14 UNAMID African Union and United Nations Hybrid Operation in Darfur (Operazione Ibrida dell’Unione Africana e delle Nazioni Unite in Darfur)
15 MINURCAT United Nations Mission in the Central African Republic and Chad (Missione delle Nazioni Unite nella Repubblica Centrafricana e in Ciad)
Operazioni di pace delle Nazioni Unite Missione
Data inizio
Truppe
Osservatori militari
Polizia
Civili internazionali
UNTSO
maggio 1948
0
151
0
97
UNMOGIP
gennaio 1949
0
43
0
25
UNFICYP
marzo 1964
842
0
67
39
UNDOF
giugno 1974
1045
0
0
37
UNIFIL
marzo 1978
12425
0
0
321
MINURSO
aprile 1991
20
205
6
96
UNMIK
giugno 1999
0
9
8
196
MONUC
novembre 1999
16826
692
1088
1006
UNMIL
settembre 2003
10033
131
1355
476
UNOCI
aprile 2004
7026
192
1184
407
MINUSTAH
giugno 2004
7051
0
2066
492
UNMIS
marzo 2005
8793
486
682
797
UNMIT
agosto 2006
0
33
1557
364
UNAMID
luglio 2007
14638
196
3941
999
19315**
240**
6432**
1579**
Settembre 2007
2675
17
248
398
Totale:
81374
2155
12202
5750
Civili locali
Volontari ONU
Personale totale
Vittime
Bilancio (US$)
UNTSO
126
0
374
49
66,217,000 (2008-9)
UNMOGIP
46
0
114
11
16,957,100 (2008-9)
UNFICYP
112
0
1060
179
54,412,700
UNDOF
105
0
1187
43
45,029,700
197
UNIFIL
653
0
13399
281
589,799,200
MINURSO
156
20
503
15
53,527,600
UNMIK
120
27
360
54
46,809,000
MONUC
2539
615
22766
149
1,346, 584,600
46° Parallelo
MINURCAT
Missione
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Operazioni di pace in corso
UNMIL
975
225
13195
140
560,978,700
UNOCI
426
298
9533
62
491,774,100
MINUSTAH
1221
210
11040
45
611,751,200
UNMIS
2395
271
13424
48
958,350,200
UNMIT
880
196
3030
5
205,939,400
UNAMID
2258
372
22404
46
1,598,942,200
3455**
548**
-
302
120
3760
1
690,753,100
12314
2354
116149
1,128
circa $ 7.75 miliardi*
MINURCAT Totale:
Missione conclusa nel 2009: UNOMIG United Nations Observer Mission in Georgia (Missione degli Osservatori delle Nazioni Unite in Georgia) (agosto 1993 – giugno 2009) * I bilanci includono le specifiche per il conto di sostegno per le operazioni di pace e per la Base Logistica ONU a Brindisi (Italia). (http://www.un.org/News/ Press/docs/2009/ga10841.doc.htm) ** Personale autorizzato NOTA: UNTSO e UNMOGIP sono finanziate dal bilancio biennale regolare delle Nazioni Unite. I costi per le Nazioni Unite delle altre operazioni in corso sono finanziati dai loro rispettivi bilanci sulla base di valutazioni legalmente vincolanti per tutti gli stati membri. Per queste missioni i dati di bilancio si riferiscono solitamente al periodo di un anno (07/09—06/10), salvo indicazione diversa. Per informazioni sulle missioni politiche vedi documento DPI/2166/Rev.74 consultabile su internet: http://www.un.org/Depts/dpko/dpko/ppbm.pdf. Documento preparato dalla sezione Pace e Sicurezza del Dipartimento d’Informazione Pubblica delle Nazioni Unite, in collaborazione con il Dipartimento per le Operazioni di Peacekeeping, la Divisione Finanziaria per il Peacekeeping dell’Ufficio di Pianificazione del Programma, di Bilancio e Contabilità, e del Dipartimento per gli Affari Politici – DPI/1634/Rev.99 – ottobre 2009
Asilo: la concessione da parte di uno Stato di protezione sul suo territorio a persone che arrivano da un altro Paese e che stanno fuggendo da persecuzioni e grave pericolo. Sfollati interni: un individuo che è stato forzato a fuggire dalla sua casa o dal luogo della sua abituale residenza come risultato degli effetti di un conflitto armato, di violenze, violazione dei diritti umani o disastri naturali e che non ha attraversato un confine di Stato internazionalmente riconosciuto. Rifugiato: un rifugiato è un individuo che ha fondato motivo di temere persecuzioni a causa della sua razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un particolare gruppo sociale, opinione politica; si trova al di fuori del suo Paese d’origine e non può o non vuole avvalersi della protezione di quel Paese, o ritornarvi, per timore di essere perseguitato. (Convenzione di Ginevra del 1951)
Nel 2008 un numero impressionante di persone è stato costretto a muoversi, dentro o fuori i confini del proprio Paese di origine, per fuggire dalla guerra, dalla violenza o dalle calamità naturali. I dati contenuti nel Rapporto 2008 dell’Al to Commissariato per i Rifugiati (Unhcr), parlano di un aumento esponenziale del numero di rifugiati e di sfollati in tutto il mondo, registrato negli ultimi tre anni. Un aumento dovuto principalmente all’aggravarsi dei conflitti in Somalia e in Iraq. Alla fine del 2008 il numero totale di rifugiati nel mondo, censito dall’Unhcr, era di oltre 16 milioni. Il numero degli sfollati costretti a causa dei conflitti ad abbandonare le proprie case, restando però nei confini del Paese di origine, è arrivato a 26 milioni in tutto il mondo. Si tratta di cifre impressionanti, che non devono lasciare indifferenti e che probabilmente andrebbero riviste al rialzo, considerando la enorme difficoltà di quantificare esattamente il numero di persone in fuga in molti Paesi attraversati da violenze e violazioni dei diritti umani. Nel mondo sono in corso conflitti in quasi tutti i continenti. Nonostante ciascuna guerra abbia le proprie caratteristiche specifiche e un percorso storico unico, molto spesso si tratta di crisi che finiscono con l’intrecciarsi a causa della vicinanza geografica dei Paesi. In questo modo i conflitti si aggravano e si diffondono ulteriormente, mettendo seriamente a rischio la pace e la sicurezza globali. Sono proprio questi conflitti a causare, secondo l’Unhcr, almeno i due terzi del numero totale dei rifugiati nel mondo. L’Afghanistan ne è un tipico esempio. Le continue violenze, gli attentati quasi quotidiani e un Governo ancora troppo debole e incapace di proteggere la popolazione, obbliga ancora oggi 3 milioni di afgani in un esilio forzato oltre confine. La maggior parte di questi è fuggita nel vicino Pakistan - dove le condizioni di sicurezza non sono comunque garantite e le condizioni di vita spesso ugualmente inaccettabili - e nella Repubblica islamica dell’Iran. Solo nel 2008, 300 mila sfollati si sono stabiliti in Pakistan, nella Provincia del Nord Est e nelle aree tribali di confine con l’Afghansitan. Zone dove l’Unchr non ha accesso o solo in modo assai limitato e considerate tra i luoghi più pericolosi al mondo. Stessi drammatici dati anche per l’Iraq, dove sono stati censiti, alla fine del 2008, circa 2 milioni di rifugiati accolti dai Paesi vicini: Giordania e Siria. In più vanno considerati altrettanti sfollati che hanno abbandonato le proprie case, ma che sono rimasti entro i confini del Paese, magari accolti nei campi profughi delle Nazioni Unite. Nella martoriata Regione sudanese del Darfur sono più di 2 milioni i profughi che hanno trovato rifugio nei campi dell’ONU, mentre circa 250 mila sudanesi si trovano costretti in esilio forzato nel vicino Ciad, che a fatica riesce a gestire l’onda di persone in fuga dai conflitti che affliggono la Regione. La Somalia è secondo le Nazioni Unite, la peggiore crisi umanitaria in corso nel mondo. Peggiore anche di quella del Darfur. Sono più di 1 milione i somali che dipendono totalmente dagli aiuti umanitari della comunità internazionale. Gli sfollati, costretti a fuggire dai propri luoghi di origine a causa di guerra e violenze sono oltre 1,3 milioni. Secondo il Rapporto 2008 dell’Unchr, ci sono poi altri conflitti che come quelli in Iraq, Afghanistan e Darfur si sono anch’essi aggravati nell’ultimo anno, ma nella sostanziale
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Federica Ramacci
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo
Rifugiati, milioni di persone in fuga da conflitti e violenze
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indifferenza dei media internazionali. Nella Repubblica Centrafricana 100 mila persone sono state costrette a lasciare il Paese e a rifugiarsi in Ciad o in Camerun e più di 200 mila persone sono sfollate all’interno dei confini del Paese e costrette a vivere condizioni di totale privazione, senza accesso all’assistenza sanitaria o all’acqua potabile. Dall’Africa al Sud Est asiatico la situazione non cambia. Nello Sri Lanka, nel 2008, si sono registrati almeno 150 mila civili in fuga, poi rimasti intrappolati in piccole aree di territorio irraggiungibili o quasi per gli aiuti umanitari e in attesta di poter tornare alle proprie case o di trovare una soluzione di vita più dignitosa. Ancora nel Sud Est asiatico in 17.000 sono fuggiti dalla Thailandia per sfuggire alle violenze e in cerca di rifugio in Paesi limitrofi. L’emergenza rifugiati non risparmia certo l’Europa e si concentra nelle aree dei Balcani, in generale nell’Europa dell’Est. I numeri dell’Unhcr parlano di oltre 1,4 milioni di rifugiati. Infine l’America Latina dove solo in Colombia si registrano 570 mila sfollati all’interno dei confini del Paese. Ma nel 2008 è cresciuto in maniera esponenziale anche il numero di persone che tenta in ogni modo di attraversare il deserto del Sahara, spesso sottoponendosi a viaggi estenuanti, con lo scopo di raggiungere il Nord Africa e poi imbarcarsi per attraversare il Mediterraneo in cerca di una opportunità di vita migliore nell’Unione Europea. Arrivano a Malta, sulle coste della Sicilia, alle Isole Canarie. Arrivano su barche di fortuna e sono particolarmente vulnerabili, non solo perché fuggono da ogni tipo di violenza e di violazione dei diritti umani nei loro Paesi di origine, ma perché ne subiscono ancora da chi, senza scrupoli, li imbarca facendosi pagare, li sfrutta, li abbandona in mare. Quando riescono ad arrivare in Europa, inutile negarlo, subiscono altre discriminazioni, spesso detenzioni ai limiti della legalità come dimostra più di una inchiesta giornalistica. Spesso li definiamo ‘disperati’, ma un ‘disperato’, lo dice il vocabolario, è chi una speranza non ce l’ha più. Chi invece si imbarca per un viaggio simile, accetta con coraggio un rischio simile, magari portando con sé i figli appena nati, una speranza che lo muove ce l’ha eccome. Cerca un’opportunità. Non va dimenticato.
Dichiarazione di Cartagena: è una dichiarazione adottata da un comitato di esperti provenienti dalle Americhe nel novembre del 1984. La Dichiarazione allarga la Convenzione del 1951 e amplia la definizione di rifugiato includendo “le persone che sono fuggite dai propri Paesi perché le proprie vite, la propria sicurezza o la propria libertà sono state minacciate da una situazione di violenza generalizzata, aggressione da parte straniera, conflitti interni, violazioni massicce dei diritti umani o altre circostanze che disturbano seriamente l’ordine pubblico”.
Convenzione OUA sui rifugiati (Addis Abeba, 1969) È la Convenzione che disciplina determinati aspetti del problema dei rifugiati in Africa adottata nel 1969 dall’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA) che, riconoscendo la Convenzione ONU del 1951 come “lo strumento fondamentale e universale relativo allo status dei rifugiati” e facendone propria la definizione di rifugiato, amplia la definizione stessa e racchiude altre disposizioni non esplicitamente contenute nella Convenzione di Ginevra riguardanti: il divieto di respingimento alla frontiera, l’asilo, l’ubicazione degli insediamenti di rifugiati, il divieto per i rifugiati di svolgere attività sovversive, il rimpatrio volontario.
Natura e Arte, oscure vittime della guerra
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“La degradazione o la sparizione di un bene del patrimonio culturale e naturale è un impoverimento nefasto del patrimonio di tutti i popoli del mondo”. E’ una delle premesse alla base del trattato internazionale - conosciuto come Convenzione sulla protezione del patrimonio mondiale, culturale e naturale - adottato nel 1972 durante la Conferenza Generale dell’Unesco, l’Agenzia delle Nazioni Unite nata con lo scopo di “contribuire alla pace e alla sicurezza promuovendo la collaborazione tra le nazioni attraverso l’educazione, la scienza e la cultura”. L’Unesco ha finora riconosciuto un totale di 878 siti considerati patrimonio dell’umanità (679 beni culturali, 174 naturali e 25 misti) presenti in 145 Paesi del mondo. Alcuni di questi sono stati inseriti in una speciale ‘Lista Rossa’ di beni a rischio perché situati in aree di crisi. L’esigenza di tutelare, attraverso accordi internazionali, il patrimonio archeologico, culturale e naturale in caso di conflitto, diventa evidente di fronte alla distruzione causata dalla seconda guerra mondiale. A questo scopo, nel 1954 è stata stipulata la Convenzione dell’Aja del 14 maggio 1954 per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato e il relativo Protocollo aggiuntivo firmato il 26 marzo 1999. Di tutela dei beni culturali in zone di conflitto si occupano, oltre all’Unesco, diversi istituti di ricerca, università, Ong e organizzazioni come l’italiano ‘Osservatorio per la Protezione dei Beni Culturali ed Ambientali in Area di Crisi’, istituito dall’Istituto per lo Sviluppo, la Formazione e la Ricerca nel Mediterraneo (I.S.FO.R.M.). Con identiche finalità, a partire dal 2001, è stata avviata anche la procedura costitutiva del Comitato nazionale italiano dello ‘Scudo Blu’. Nonostante i molti sforzi e tutti gli accordi sottoscritti però, i conflitti non hanno affatto risparmiato il patrimonio culturale. I criteri stabiliti nei Trattati non sono stati rispettati dagli eserciti e il patrimonio artistico è stato spesso distrutto intenzionalmente per cancellare la memoria dei popoli. Ma quanti sono i beni culturali a rischio di distruzione? Secondo un recente rapporto della Banca Mondiale l’elenco sarebbe di 2.742 siti archeologici e oltre 50 mila strutture monumentali. Solo in Palestina, dove imperversa da decenni un conflitto durissimo, sono a rischio grave la città di Gerico, Betlemme, con le vestigia cristiane, le piscine di Salomone, il palazzo dell’Herodion e i monasteri del deserto di Giuda; Hebron, con le tombe dei patriarchi, e Sebastia e Nablus, le città dei samaritani. Lo Stato di Israele ha ratificato la Convenzione de L’Aja del 1954, ma non è tenuto a rispettarne le norme dal momento che la Palestina, non essendo riconosciuta come Stato, non ha ratificato la Convenzione stessa. Le organizzazioni internazionali hanno più volte invitato l’esercito israeliano a tutelare il patrimonio palestinese dagli effetti del conflitto ma i danni provocati sono ancora oggi incalcolabili. Nella lista dei beni culturali e naturali a rischio dell’Unesco figurano i resti archeologici della valle di Bamiyan, in Afghanistan. Luogo tristemente noto per essere stato attaccato nel 2001 dai talebani che hanno intenzionalmente distrutto i Buddha giganti della valle. Nell’Iraq martoriato da sei anni di guerra e bombardamenti, l’Unesco ha sottoscritto un memorandum d’intesa con il Governo locale per impostare con urgenza un progetto di
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A rischio l’identità dei popoli
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ricostruzione del santuario al-Askari nella città di Samarra, noto come la Moschea d’Oro, uno dei luoghi più sacri dell’islam sciita. La moschea è stata devastata da due attentati terroristici, uno nel 2006 che distrusse la sua famosa cupola d’oro ed un altro nel 2007 che danneggiò gravemente i due minareti. La ricostruzione della Moschea, hanno spiegato le autorità locali e i rappresentanti dell’Unesco, potrà cominciare solo quando ci saranno le condizioni di sicurezza necessarie all’intervento. Ancora in Iraq è stato parzialmente restituito all’umanità, seppur solo in forma virtuale il Museo Nazionale. Il progetto, d’iniziativa del Ministero degli Esteri italiano e del Cnr ha richiesto due anni di lavoro e l’opera di oltre cento specialisti (archeologi, islamisti, informatici, tecnici del suono per curare la colonna sonora ispirata alle musiche popolari irachene). Ovviamente è solo l’inizio di un percorso che dovrebbe far risorgere questo prezioso museo che nel 2003, con la caduta di Saddam Hussein, è stato abbandonato dal personale in fuga dai bombardamenti angloamericani e lasciato in balia di predatori senza scrupoli che hanno letteralmente saccheggiato i reperti di inestimabile valore storico e artistico. Reperti ancora oggi introvabili come spesso accade ai beni trafugati nelle aree di crisi e poi fatti sparire dai trafficanti. Lontano dagli occhi dei media internazionali, in Somalia, secondo l’Unesco gli oltre 25 anni di conflitto hanno devastato la maggior parte del patrimonio culturale e archeologico del Paese, dove è ancora molto difficile, a causa dell’instabilità e dell’insicurezza, intervenire con dei progetti ad hoc. Ma nel continente africano fortemente a rischio è anche il patrimonio naturalistico. Nella Repubblica Democratica del Congo la biodiversità della più grande foresta tropicale del mondo, dove vivono alcune specie a rischio di estinzione come i gorilla, è stata inserita dall’Unesco nella ‘Lista rossa’, a causa della decennale guerra civile che insanguina il Paese. La Repubblica Democratica del Congo è stato uno dei primi Paesi al mondo ad aver ratificato la Convenzione per la Protezione del patrimonio culturale e naturale ma l’intervento internazionale per la tutela di questi luoghi è ancora fortemente limitato dalla situazione di crisi politica e sociale. A rischio di distruzione sono i parchi nazionali di Garamba, Salonga e Virunga, la riserva di Okapi e gli animali che vi abitano. Nonostante le difficoltà degli interventi la comunità internazionale è riuscita a compiere negli ultimi anni qualche miracolo, riconsegnando all’umanità capolavori quasi distrutti dalla mano dell’uomo. L’antica città di Dubrovnik, in Croazia, definita la ‘Perla dell’Adriatico’ per le sue pregiate chiese gotiche, barocche e rinascimentali era stata pesantemente danneggiata dal conflitto degli anni ‘90. L’artiglieria pesante non aveva risparmiato i suoi capolavori ma oggi la città è stata eliminata dalla lista dei siti a rischio grazie all’intervento dell’Unesco e di diversi Paesi che hanno contribuito alla sua ricostruzione. Nonostante il successo di alcune delle iniziative dell’Unesco e l’impegno internazionale, ci sono ancora Paesi come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti che non hanno sottoscritto né tantomeno ratificato il protocollo aggiuntivo alla Convenzione di Ginevra. Paesi che tra l’altro hanno partecipato attivamente alle più recenti guerre in aree, come quella mediorientale, ricchissime di testimonianze storiche e artistiche. L’Italia ha ratificato il Protocollo solo nel settembre del 2009, grazie ad una campagna di sensibilizzazione dell’Unesco. Ancora molto c’è da fare dunque considerando che i conflitti armati sono ancora oggi la principale causa della dispersione del patrimonio culturale mondiale. I bombardamenti indiscriminati e l’uso di particolari tipologie di armamenti in dotazione ai moderni eserciti, provocano effetti disastrosi sull’ambiente e sui beni culturali, distruggendo la vera identità di un popolo, la sua cultura.
Le fotografia dell’Atlante sono Frame tratti dall’archivio del Premio Ilaria Alpi tranne quelle fornite dall’archivio UNHCR per i Paesi Timor Est, Kashmir, Siria e Repubblica Centrafricana (di cui viene riportato anche il nome del fotografo accanto alla foto). Per le Filippine le foto sono state gentilmente fornite dal fotografo Aldo Bernardi. Le foto dell’articolo sulla Transnistria sono di Giorgio Comai dell’Osservatorio dei Balcani. Per i personaggi abbiamo usato fotografie trovate su internet.
Cartografia Per la cartografia abbiamo fatto riferimento a quella ufficiale dell’ONU: sia per le mappe delle Missioni ONU, sia per le mappe dei singoli Paesi. Dal sito dell’Università del Texas abbiamo usato invece le mappe dei seguenti Paesi: Colombia, Cecenia, Kosovo, Paesi Baschi, Cina, Turchia, Libano, India, Filippine e Algeria.
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Fonti Organismi internazionali e istituzioni Unesco Unicef Alto Commissariato per i Rifugiati (UNHCR) Africa-Union Nazioni Unite Ministero degli Esteri Ministero della Difesa Central Intelligence Agency Banca Mondiale Informazione, giornali e istituti di ricerca Pagine della Difesa Africa News Misna Nigrizia Reuters Osservatorio Iraq Osservatorio dei Balcani Wikipedia
Corriere della Sera La Repubblica La Stampa Peacerporter Ansa Ap Com Agimondo Famiglia Cristiana Limes Guerre & Pace Global Geografia Peace Link Organizzazioni non governative Amnesty International Emergency Medici Senza Frontiere Reporters Sans Fronteres Unimondo Amani
Ringraziamenti Ci sono molte persone da ringraziare. Questo progetto ha avuto una lunga gestazione e senza il contributo dei tanti che si sono entusiasmati, non sarebbe mai nato. Quindi voglio ringraziare Ettore Mo, che ha voluto scrivere per noi e ha nobilitato questo lavoro. Poi, Flavio Lotti, fondamentale nei suggerimenti e che ha voluto esserci con gli scritti sul Medio Oriente. Luciano Scalettari ha aiutato a capire quali fossero davvero guerre e conflitti in corso e si è sobbarcato buona parte del lavoro sull’Africa. Il contributo dell’Associazione Ilaria Alpi è stato determinante, ci ha permesso di affrontare il problema delle fotografie e delle immagini garantendo una grande qualità. Lo stesso vale per i fotografi che hanno messo le loro foto a disposizione. Poi, ci sono personaggi più nell’ombra. Carlo Basani, della Provincia Autonoma di Trento, è stato una figura chiave per la riuscita. L’assessore provinciale Lia Beltrami ha dato strumenti ed entusiasmo. Lo staff delle Librerie Coop ci ha dato fiducia, accettando subito - quasi a scatola chiusa - di distribuirci. Infine, la redazione, tutta, quella che trovate nella gerenza. Tutti professionisti che hanno lavorato senza chiedere nulla, facendo spesso le ore piccole per completare il lavoro nel tempo libero e pagandosi le trasferte per riunioni ovunque, in Italia. Sono stati generosi e grandi. L’Atlante è davvero merito loro. Raffaele Crocco
Finito di stampare novembre 2009 tipografia