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Lo stato penale globale Alessandro Dal Lago Lo stato penale globale. Premessa

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Nota ai testi Loïc Wacquant La disciplina produttiva: fisionomia essenziale dello stato neoliberale John L. Campbell Stato penale e stato debitore: l’irripetibile esemplarità del neoliberalismo americano Frances Fox Piven Neoliberalismo e neofunzionalismo: la logica opaca del capitale Mariana Valverde La profondità è in superficie: per una tregua politico-metodologica Jamie Peck Il neoliberalismo zombie e lo stato ambidestro Bernard E. Harcourt La penalità neoliberale: una breve genealogia

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Massimo Gelardi Dominio dei corpi, stato penale e biologia della cittadinanza. Riflessioni sul dibattito

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INTERVENTI Ferdinando G. Menga Unitarietà del potere ed eccedenza della pluralità. Hannah Arendt 158 alla prova della decostruzione 185 Edoardo Greblo Vite senza contratto


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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti redazione: Paulo Barone, Graziella Berto, Giovanna Bettini, Laura Boella, Deborah Borca (editing, deborahborca@libero.it), Silvana Borutti, Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Rocco De Biasi, Maurizio Ferraris, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Anna Maria Morazzoni (coordinamento, tel. 02 70102683), Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Rosella Prezzo, Pier Aldo Rovatti, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoletto direzione: via Melzo 9, 20129 Milano collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, G. Dorfles, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, M. Serres, G.C. Spivak, M. Trevi, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek per proposte di pubblicazione: redazioneautaut@gmail.com Si fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testi di ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).

il Saggiatore S.p.A. Via Melzo 9, 20129 Milano www.saggiatore.it ufficio stampa: autaut@saggiatore.it abbonamento 2010: Italia € 60,00, estero € 76,00 L’Editore ha affidato a Picomax s.r.l. la gestione degli abbonamenti della rivista “aut aut”. L’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e la possibilità di richiedere gratuitamente la rettifica o la cancellazione scrivendo a: Picomax s.r.l. responsabile dati, Via Borghetto 1, 20122 Milano (ai sensi della L. 675/96). servizio abbonamenti e fascicoli arretrati: Picomax s.r.l., Via Borghetto 1, 20122 Milano telefono: 02 77428040 fax: 02 76340836 e-mail: abbonamenti@picomax.it www.picomax.it Registrazione del Tribunale di Milano n. 2232 in data 13.1.1951 Proprietà: Francesca Romana Paci Stampa: Lego S.p.A., Lavis (TN) Spedizione in abbonamento postale 45% art. 1, comma 1, decreto legge 353/03 convertito in legge 46/04 – Filiale di Milano. Finito di stampare nel giugno 2010


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Lo stato penale globale. Premessa ALESSANDRO DAL LAGO

materiali raccolti da Massimo Gelardi per questo numero di “aut aut” documentano un vivace dibattito (in questo caso americano ma anche europeo) sulle politiche penali e carcerarie neoliberali o, come si dice piuttosto in Italia, liberiste. Come spiega Loïc Wacquant nel saggio che apre il fascicolo,1 la crisi del welfare state tradizionale, su cui si erano fondati lo sviluppo economico e l’equilibrio sociale nel secondo dopoguerra, ha visto un ritorno spettacolare della “penalità” in tutti i campi: carcerazione di massa negli Stati Uniti, politiche penali sempre più rigide in Europa, una diffusa cultura della sicurezza che, a partire dalla negazione di qualsiasi microconflittualità urbana, si estende alla repressione delle devianze giovanili e dei “reati senza vittime”, all’ossessione per il consumo di droghe leggere e all’indurimento della disciplina scolastica. Se si dà un’occhiata alla storia del nostro paese, dall’inizio degli anni novanta a oggi, si comprende come l’ondata penale abbia investito anche l’Italia, che anzi in questo campo può essere considerato uno dei paesi all’“avanguardia”. Wacquant ricorda come per Bourdieu, che nell’analisi degli

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1. Si veda anche L. Wacquant, Les prisons de la misère, Raison d’agir Éditions, Paris 1999; trad. Parola d’ordine: tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale, Feltrinelli, Milano 2000. Sulla situazione del carcere nel nostro paese, cfr. anche Associazione Antigone, Oltre il tollerabile. Sesto rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia, l’Harmattan Italia, Torino 2009.

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effetti penali del liberismo va considerato un riferimento capitale, lo “stato” (nel senso di “governo politico-amministrativo di una società”) non possa essere visto come un monolite, ma come un campo burocratico in cui si combinano le azioni di agenzie diverse, istituzionali, economiche, sociali e mediali. Non diversamente, il concetto foucaultiano di “governamentalità”, elaborato nel corso degli anni settanta, permette di analizzare l’azione complessa e solidale dei poteri punitivi in una prospettiva che va al di là della funzione delle istituzioni repressive (e in particolare dello stato nazionale). In questo senso, la “penalizzazione” delle società occidentali è un’onda ampia e composita, che non esclude l’adozione di pratiche innovative e “scientifiche” apparentemente neutrali: dall’ossessione per la previsione e la misurazione statistica dei comportamenti devianti e criminali2 all’invadenza delle pratiche di analisi psicologica e psichiatrica delle devianze: chiunque abbia qualche idea del funzionamento della giustizia penale sa bene come assistenti sociali, consulenti, psicologi e simili figure lavorino spalla a spalla con i magistrati nella costruzione del profilo degli accusati.3 In questa prospettiva, le classiche analisi della “crisi fiscale dello stato”, della regolazione economica e sociale dei “poveri” e così via, se vincolate a una ristretta prospettiva economico-sociologica, mostrano inevitabilmente la corda. Nessuna politica penale, nei termini in cui viene analizzata qui, potrebbe essere messa in opera senza l’invadenza di una cultura politica e mediale della “sicurezza”. La massima “se il cittadino si sente insicuro, allora il problema esiste e va risolto” è quanto di più consensuale esista di qua e di là della Manica e dell’Atlantico – al punto che, dovunque, la semplice evocazione dell’insicurezza scatena una competizione che si risolve nelle strategie e negli slogan “sicuritari” più truculenti. 2. Si veda, per esempio, B. Harcourt, Against Prediction: Profiling, Policing, and Punishing in an Actuarial Age, University of Chicago Press, Chicago 2007. 3. In generale, sulla diffusione della cultura psicologica, cfr. F. Furedi, Therapy Culture, Routledge, London 2003; trad. Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana, Feltrinelli, Milano 20082.

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La conseguenza è un’ossessione, pratica e simbolica, che corona, in modo squisitamente bipartisan, le campagne elettorali negli Usa e in Europa. Ovviamente, nessuno è in grado di misurare un fenomeno volatile, soggettivo e indefinibile come il senso di insicurezza – e tanto meno i cosiddetti scienziati sociali che hanno contribuito a legittimarlo e a diffonderlo.4 È così che ormai la “percezione”, quanto di più aleatorio esista quando si parla di fenomeni sociali, collettivi o di massa, è diventata criterio decisivo nelle politiche penali contemporanee. Parole come “percezione” o “simbolico” non dovrebbero essere prese alla leggera. È chiaro che l’ossessione punitiva non è estranea a interessi economici o corporativi di agenzie pubbliche o private (basterebbe pensare alla privatizzazione delle carceri, soprattutto negli Usa o all’azione sindacale di poliziotti, agenti penitenziari e così via in Europa). Ma se la violenza istituzionale dilagante – suicidi dei carcerati, “contenimento” spesso mortale di arrestati o sospetti, impunità di poliziotti ecc. – è relegata nell’indifferenza, e persino giustificata dall’opinione pubblica, è proprio perché la cultura punitiva è divenuta normativa. E questo significa che un certo “discorso” (preventivo o giudiziario che sia) è assunto in via trascendentale, consapevolmente o no, come l’unico legittimo quando si parla di criminalità. Nell’ultimo programma quadro dell’Unione europea in tema di ricerca applicata, l’individuazione dei comportamenti “socialmente abnormi”, mediante scanning elettronico o di altro tipo, è la linea di finanziamento privilegiata e quella che assorbe più risorse.5 Naturalmente, la spettacolare trasformazione dell’economia capitalistica degli ultimi trent’anni è decisiva nella produzione e nell’espansione della cultura penale. Per riprendere un’intuizione di Gramsci, si potrebbe dire che il carattere brutalmente av4. Si veda, su questo punto, A. Dal Lago, Ma quando mai? Nota sulla sociologia “embedded” in Italia, “Etnografia e ricerca qualitativa”, 1, 2010. 5. Si veda l’introduzione a A. Dal Lago e S. Palidda (a cura di), The “Civilisation” of War: Armed Conflicts, Security, and the Reshaping of Contemporary Societies, Routledge, London 2010.

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venturoso della vita quotidiana, ovvero la precarizzazione del lavoro (e quindi dell’esistenza materiale in tutti gli aspetti), si traduce, per contrappeso, nell’ossessione della legalità e della sicurezza,6 che i poteri, pubblici e privati, sfruttano ormai da un ventennio. Ma c’è molto di più: la “penalizzazione” della società funziona come una sorta di filtro regolatore di un mercato del lavoro virtualmente privo di garanzie di sicurezza, ipercompetitivo, soprattutto nelle fasce basse, in cui i soggetti precari – giovani, autonomi, anziani, espulsi dal ciclo produttivo – sono esposti in tempi sempre più veloci alla marginalità. Non si tratta dunque soltanto di una versione contemporanea del classico regulating the poor,7 strutturalmente caratteristico della società americana, ma di un vero e proprio profiling pratico, incessante e quotidiano, dei lavoratori marginali, che oggi, e soprattutto in un paese come l’Italia, dove l’economia sommersa ha un ruolo preponderante, sono una quota rilevante, se non maggioritaria, della forza lavoro. È sempre nella prospettiva di una “penalizzazione” allargata e strategica che dobbiamo interpretare le “riforme” scolastiche degli ultimi anni – orientate alla pre-definizione del destino formativo degli studenti, alla rigida distinzione tra scuola d’élite e scuola professionale, nonché all’irrigidimento disciplinare. L’adozione della “buona condotta” scolastica come criterio valutativo decisivo, l’ossessione mediale del bullismo e della diffusione delle droghe, la proibizione strisciante di piercing, ombelichi scoperti, abbigliamenti “sconvenienti” ecc. hanno il senso evidente di un disciplinamento preventivo, della trasmissione di un codice orientato all’accettazione a priori dell’autorità. Si preparano così i futuri signori e i servi – non più in base al classico crinale di classe, ma secondo quello mol6. A dire il vero, Gramsci analizzava la fortuna del romanzo d’appendice all’epoca del fordismo, e cioè la passione popolare della punizione del crimine come fenomeno di evasione di massa. Cfr. A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Einaudi, Torino 20073, edizione critica a cura di V. Gerratana, vol. III, p. 2113 sgg. 7. Il riferimento è al classico F. Fox Piven, R.A. Cloward, Regulating the Poor: The Functions of Public Welfare, Vintage Books, New York 1993 (l’edizione originale è del 1971).

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to più fluido, e quindi al tempo stesso generico e angoscioso, della legittimità e dell’illegittimità dei comportamenti privati e pubblici, della legalità e dell’illegalità, dell’inclusione e dell’esclusione. I saggi qui raccolti costituiscono dunque un’introduzione approfondita a un dibattito che non può essere ristretto solo alle scienze sociali, ma dovrebbe includere, in primo luogo, anche la teoria politica e la filosofia. Mi sembra indiscutibile che la svolta penale qui discussa implichi una radicale ridefinizione della giustizia: tramontata qualsiasi idea di equità nella distribuzione del reddito, e cioè della tradizionale social security, ecco l’ascesa del mito della safety (la sicurezza come incolumità personale a ogni costo), ciò che riattualizza, ma in senso restrittivo e dispotico, l’idea hobbesiana di una delega, fondata sulla paura, dell’autonomia politica dei cittadini a favore di Leviatano, o magari delle sue caricature locali. Non altrimenti si spiegherebbe – penso all’Italia, ma il modello è facilmente esportabile – l’adesione di una quota consistente di lavoratori, magari garantiti ma impoveriti, al programma politico di una destra insieme liberista e cesaristica, localista e poliziesca, federalista e autoritaria, garantista con le illegalità dei potenti, ma implacabile con quelle di marginali e stranieri. Dove il declino apparentemente irreversibile di un’idea universalistica di giustizia civile e politica appare più clamoroso è indubbiamente nel caso degli stranieri. Qui la situazione europea è per certi versi difforme da quella americana. La timida politica di Obama a favore di una gestione federale includente delle migrazioni si scontra – è notizia di questi giorni – con la richiesta di alcuni stati del sud-ovest (in questo caso l’Arizona) di controllare ed espellere on the spot i clandestini. In Europa, si direbbe invece che l’esclusione virtuale di tutti i migranti sia opinione comune e politicamente vincente.8 Naturalmente, si tratta di un’esclusione che svolge la stessa funzione regolativa che la 8. In questo senso, si può parlare di un razzismo del tutto compatibile con le forme di una società democratica. Cfr. S. Palidda (a cura di), Razzismo democratico. La persecuzione degli stranieri in Europa, Agenzia X, Milano 2009.

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penalità gioca nei confronti dei marginali dotati di cittadinanza. Un migrante irregolare, oppure regolarizzato ma esposto all’irregolarità, è un lavoratore inevitabilmente sottomesso. I fatti di Rosarno dell’inizio del 2010 dimostrano a sufficienza che il razzismo può essere anche un modo sbrigativo e violento di risolvere il problema del costo del lavoro: la schiavitù occasionale è spesso la forma che il lavoro dei migranti assume sui bordi estremi di un mercato delle braccia ampiamente sommerso. Comunque sia, e al di là delle differenze tra Europa e America, una discussione sulla deriva penale di quello che genericamente si definiva welfare state non riguarda solo poveri e carcerati, marginali e stranieri: è anche una prospettiva sul modello di società oggi dominante e sulla possibilità di immaginarne altri, fondati su un’idea non punitiva di giustizia. Si tratta dunque di un dibattito che suona come un avvertimento per le nostre scienze sociali – penso in particolare a quelle italiane – sempre più sprofondate nella sonnolenza dell’empirismo e di un’impossibile imparzialità.

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Nota ai testi

Vengono qui proposti la più recente riflessione teorica di Loïc Wacquant – ossia il capitolo inedito che ha arricchito la recente edizione angloamericana di una delle opere più significative del sociologo franco-americano (Punishing the Poor: The Neoliberal Government of Social Insecurity, Duke University Press, Durham, N.C., 2009; ed. orig. Punir les pauvres: le nouveau gouvernement de l’insécurité sociale, Agone, Marseille 2004; trad. Punire i poveri: il nuovo governo dell’insicurezza sociale, DeriveApprodi, Roma 2006) – e il dibattito da essa suscitato attorno alle politiche economiche e penali che stanno ridisegnando la struttura materiale e le strategie di rappresentazione delle società occidentali. Attraverso una critica delle tesi di Garland sulla cultura del controllo, di Harvey e Giddens sulla ragione neoliberale, di Peck sui regimi di workfare, di Piven sulle dinamiche del welfare e di Foucault sulle politiche punitive tardomoderne, Wacquant chiarisce e compendia i fondamenti teorici di quel modello del new government of social insecurity (assunto quale logica di ristrutturazione antiassistenzialista, poliziesca e di classe dell’assetto sociale) che egli aveva proposto quale cornice analitico-interpretativa dell’evoluzione neoliberale del capitale, e che di seguito alcuni tra i più importanti studiosi della società contemporanea prendono in esame muovendo da differenti profili disciplinari, integrandolo lungo distinte e talora antagoniste articolazioni teoriche, inscrivendolo in diversi contesti simbolico-materiali. aut aut, 346, 2010, 9-11

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Loïc Wacquant è Professor of Sociology e Research Associate presso l’Institute for Legal Research della Boalt Law School, University of California (Berkeley) nonché ricercatore presso il Centre de sociologie européenne (Paris). Nato e cresciuto in Francia, ha ottenuto il Ph.D. in Sociology a Chicago, dove ha preso avvio la sua carriera accademica. La sua ricerca, situata all’incrocio disciplinare tra teoria sociale, criminologia ed etnografia, si concentra sulla marginalità urbana, la stratificazione sociale, le politiche penali, l’antropologia del corpo, la race theory e l’epistemologia delle scienze sociali. Autore di numerosi articoli e volumi, tra le edizioni italiane delle sue opere vanno ricordate: Punire i poveri: il nuovo governo dell’insicurezza sociale (2004), DeriveApprodi, Roma 2006; Simbiosi mortale: neoliberalismo e politica penale, ombre corte, Verona 2002; Anima e corpo: la fabbrica dei pugili nel ghetto nero americano (2000), DeriveApprodi, Roma 2002; Parola d’ordine: tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale (1999), Feltrinelli, Milano 2000; Risposte: per un’antropologia riflessiva (1992, con Pierre Bourdieu), Bollati Boringhieri, Torino 1992. Wacquant è stato inoltre curatore di due volumi, entrambi tradotti in italiano: L’astuzia del potere: Pierre Bourdieu e la politica democratica (2005), ombre corte, Verona 2005 e, con Nancy Scheper-Hughes, Corpi in vendita: interi e a pezzi (2002), ombre corte, Verona 2004. John L. Campbell è Professor of Sociology presso il Dartmouth College (Hanover, N.H.) e Professor of Political Economy presso la Copenhagen Business School. È tra l’altro autore di Institutional Change and Globalization (Princeton University Press, Princeton, N.J., 2004) e coeditor (con Ove K. Pedersen) di The Rise of Neoliberalism and Institutional Analysis (Princeton University Press, Princeton, N.J., 2001). Frances Fox Piven è Professor of Political Science and Sociology presso il Graduate Center della City University of New York. Ha pubblicato tra l’altro Challenging Authority: How Ordinary 10


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People Change America (Rowman & Littlefield, Lanham, Mar., 2006) e, con Richard Cloward, Regulating the Poor: The Functions of Public Welfare (Pantheon, New York 1971) e The Breaking of the American Social Compact (New Press, New York 1997). Mariana Valverde è Director of the Centre of Criminology e membro dell’Advisory Committee del Centre for Forensic Science & Medicine presso la University of Toronto. È tra l’altro autrice di Law and Order: Signs, Meanings, Myths (Rutgers University Press, New Brunswick, N.J., 2006) e coeditor (con Markus Dubber) di Police and the Liberal State (Stanford Law Books, Stanford, Cal., 2008). Jamie Peck è Professor of Geography e Canada Research Chair in Urban and Regional Political Economy presso la University of British Columbia (Vancouver) e Senior Research Associate presso il Center for Urban Economic Development della University of Illinois (Urbana). Tra i suoi volumi vanno segnalati Constructions of Neoliberal Reason (Oxford University Press, Oxford 2010) e Workfare States (Guilford, New York 2001). Bernard E. Harcourt è Professor of Law and Criminology, Faculty Director of Academic Affairs e Director of the Center for Studies in Criminal Justice presso la University of Chicago Law School (Chicago). Tra le sue opere vanno ricordate Against Prediction: Profiling, Policing, and Punishing in an Actuarial Age (University of Chicago Press, Chicago 2007) e Illusion of Order: The False Promise of Broken Windows Policing (Harvard University Press, Cambridge, Mass., 2001).

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La disciplina produttiva: fisionomia essenziale dello stato neoliberale LOÏC WACQUANT

re strappi analitici sollecitano una diagnosi del nuovo modello di regolazione dell’insicurezza sociale disegnato attorno a quell’inedito connubio tra un rigido workfare e un aggressivo prisonfare che negli ultimi decenni del XX secolo ha impresso una svolta punitiva alle politiche sociali degli Stati Uniti nonché delle altre democrazie avanzate che ne hanno ricalcato le strategie di deregulation economica e riduzione del welfare.1 La prima rottura consiste nella recisione del giogo che tradizionalmente indirizza i dibattiti teorici e istituzionali sulle politiche di carcerazione, vale a dire quel binomio crimine-pena a noi così familiare e tuttavia ormai apertamente dissolto. La crescita incontrollata e la fervente glorificazione dell’apparato penale registratesi in America dopo il 1975 – e l’analoga, sebbene più contenuta, espansione che ebbe luogo nell’Europa occiden-

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L. Wacquant, Theoretical Coda: A Sketch of the Neoliberal State, postfazione a Punishing the Poor: The Neoliberal Government of Social Insecurity, Duke University Press, Durham (N.C.) 2009 (ed. orig. Punir les pauvres: le nouveau gouvernement de l’insécurité sociale, Agone, Marseille 2004; trad. Punire i poveri: il nuovo governo dell’insicurezza sociale, DeriveApprodi, Roma 2006). 1. Per workfare si intende l’insieme dei programmi assistenziali che condizionano l’erogazione delle prestazioni allo svolgimento di un’attività di lavoro. Con prisonfare si designa il complesso delle politiche pubbliche che affrontano le questioni sociali ricorrendo in modo esclusivo o predominante all’apparato poliziesco, giudiziario e penitenziario (con quest’ultimo intendendosi la totalità dei dispositivi e meccanismi di restrizione della libertà, tra i quali le varie modalità di sorveglianza extracarceraria e le diverse procedure di controllo, profiling e archiviazione dati). [N.d.C.]

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tale due decenni più tardi in un allarmante clima di riabilitazione politica – sono inspiegabili se continuiamo a interpretarle come gli effetti dell’incidenza e della natura dei reati commessi. Perché il dispiegarsi dello stato penale negli Stati Uniti all’indomani del massimo sviluppo raggiunto dal Movimento per i diritti civili risponde non all’aumento dell’insicurezza di fronte al crimine, ma all’ondata di insicurezza sociale che ha travolto il livello più basso della struttura di classe a causa della frammentazione salariale e della destabilizzazione delle gerarchie etnorazziali o etnonazionali (determinata negli Stati Uniti dall’implosione del ghetto nero e in Europa dall’insediamento dei migranti postcoloniali). In realtà l’ossessiva attenzione per il crimine, sostenuta dal senso comune che informa tanto il discorso ordinario quanto il dibattito teorico, è servita a distogliere lo sguardo da quella nuova politica della povertà che è stata un elemento cruciale nell’edificazione dello stato neoliberale.2 La seconda frattura nasce dall’esigenza di riconnettere le politiche di welfare e le politiche penali, poiché questi due differenti versanti dell’azione del governo nei confronti dei poveri si ispirano all’identica filosofia behaviorista incentrata sui concetti di deterrenza, sorveglianza, stigma, sanzioni calibrate ai fini della modificazione della condotta. Il welfare ridisegnato quale sistema di lavoro coattivo e detenzione, e spogliato di qualunque pretesa riabilitativa, forma ora una singola rete organizzativa gettata per catturare la stessa clientela, che faticosamente si dibatte dentro le paludi e le crepe delle odierne metropoli polarizzate. La sua azione coordinata rende invisibili gli strati problematici della popolazione – allontanandoli dai registri dell’assistenza pubblica, da un lato, e tenendoli sotto chiave, dall’altro – e finisce per ricacciarli verso le periferie del prospero settore 2. Per esempio, l’eccellente volume The Crime Drop in America, a cura di A. Blumstein e J. Wallman (Oxford University Press, New York 2000), che raccoglie i migliori criminologi in circolazione per indagare le cause dell’inatteso declino del numero dei reati ma non dedica nemmeno un paragrafo ai mutamenti di rotta che hanno riguardato l’edilizia pubblica, i fondi per il welfare, l’assistenza ai minori, l’assistenza sanitaria e tutte le politiche statali correlate che congiuntamente definiscono le opzioni di vita dei gruppi più esposti ai crimini di strada (in qualità di rei o di vittime).

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secondario del mercato del lavoro. Riprendendo la missione che avevano svolto all’alba del capitalismo, l’assistenza ai poveri e la reclusione penale cooperano nel normalizzare, sorvegliare e/o neutralizzare le frazioni indigenti e moleste del proletariato postindustriale unificato dal nuovo regime economico contrassegnato dalla ipermobilità del capitale e dal deterioramento delle condizioni di lavoro. Il terzo strappo si realizza nel superamento dell’abituale contrapposizione tra approccio materialista e approccio simbolico, che trae origine nelle figure emblematiche di Karl Marx ed Émile Durkheim e si estingue nella ricomposizione delle funzioni strumentali e simboliche dell’apparato penale. Intrecciando questioni quali l’attenzione per il controllo e la comunicazione, il disciplinamento delle classi diseredate e il moltiplicarsi delle frontiere sociali abbiamo potuto accantonare le analisi sviluppate nel circoscritto lessico della repressione tipico delle scienze penalistiche per chiarire in quale modo l’espansione e il ridispiegamento del carcere e dei suoi tentacoli istituzionali (libertà condizionata, libertà sulla parola, registrazione dei condannati in appositi database, la costellazione dei discorsi intorno al crimine e la virulenta cultura della pubblica denigrazione degli autori dei reati) hanno rimodellato il paesaggio sociosimbolico e hanno ristrutturato lo stato stesso. Una ricostruzione congiunta degli effetti materiali e simbolici della pena rivela che lo stato penale è divenuto una potente e autonoma macchina culturale, che produce categorie, classificazioni, immagini destinate a essere importate e utilizzate in ampi settori dell’attività di governo e della vita civica. Per raffinare i contorni analitici e chiarire le implicazioni teoriche di questa indagine attorno alla svolta punitiva che ha orientato le politiche pubbliche sulla povertà nelle società avanzate all’alba del secolo, sarà utile confrontarla e intrecciarla con gli studi di Pierre Bourdieu sullo stato, di Frances Fox Piven e Richard Cloward sul welfare, di Michel Foucault e David Garland sulla pena, di David Harvey sul neoliberalismo: l’integrazione della prospettiva sociologica servirà a rappresentare in 14


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maniera più esaustiva quel confuso e inquietante modello normativo che normalmente viene caratterizzato in termini esclusivamente economici. L’alleanza di “workfare” e “prisonfare”: conseguenze teoriche In La misère du monde e in altri saggi Pierre Bourdieu ha sostenuto che dovremmo rappresentare lo stato non come un complesso coordinato e monolitico, ma come un “campo burocratico”, ossia uno spazio frammentato e percorso da forze che concorrono per la definizione e la distribuzione dei beni pubblici.3 La costituzione di questo spazio è l’esito di un processo di concentrazione delle diverse forme di capitale operanti in una data formazione sociale e in particolare del “capitale giuridico, modalità oggettivata e codificata del capitale simbolico” attraverso la quale lo stato consegue la capacità di monopolizzare la definizione ufficiale delle identità e l’amministrazione della giustizia.4 Nella società contemporanea il campo burocratico è attraversato da due conflitti interni. Il primo vede contrapporsi l’“alta nobiltà” dei policy makers impegnati a promuovere riforme favorevoli al sistema di mercato e la “bassa nobiltà” dei funzionari esecutivi devoti ai compiti tradizionali del governo. Il secondo conflitto divide quelle che Bourdieu definisce la “Sinistra” e la “Destra” dello stato. La Sinistra, il lato femminile del Leviatano, è incarnata dai ministeri “spendaccioni” responsabili di quelle “funzioni sociali” (pubblica istruzione, salute, edilizia pubblica, welfare, legislazione del lavoro) che offrono protezione e soccorso alle categorie sociali che dispongono di esiguo capitale economico e culturale. La Destra, il lato maschile, ha il compito di realizzare la nuova disciplina economica attraverso tagli di bilancio, incentivi fiscali, politiche di deregulation. 3. P. Bourdieu, The abdication of the State, in Id. et al., The Weight of the World: Social Suffering in Contemporary Society, Polity Press, Cambridge 1999, pp. 181-188 (ed. orig. La misère du monde, Seuil, Paris 1993); Id., Rethinking the State: On the Genesis and Structure of the Bureaucratic Field, “Sociological Theory”, 1, 1994, pp. 1-19. 4. Id., Rethinking the State, cit., pp. 4, 9.

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Questa prospettiva, sollecitandoci a catturare in un quadro concettuale unitario i vari settori dello stato che amministrano le condizioni e le opportunità di vita delle classi svantaggiate in un’intricata cooperazione antagonistica la cui posta in gioco è la supremazia nel campo burocratico, ci ha consentito di rilevare il passaggio in corso dal trattamento sociale al trattamento penale della marginalità urbana.5 Punire i poveri 6 colma una lacuna nel modello di Bourdieu, introducendo tra le componenti centrali della “Destra” dello stato – accanto ai ministeri dell’economia e del bilancio – l’apparato poliziesco, il sistema giudiziario e la struttura penitenziaria. Il lavoro intende suggerire che dobbiamo portare le politiche penali dalla periferia al centro della nostra indagine attorno alla riconfigurazione dei programmi di governo volti ad affrontare la povertà e le ineguaglianze generate dalla dismissione del patto sociale fordista-keynesiano. Il nuovo governo dell’insicurezza sociale messo a punto negli Stati Uniti e indicato come modello agli altri paesi avanzati implica tanto uno slittamento dal settore sociale al settore penale dello stato (ravvisabile nella riallocazione dei bilanci pubblici e del personale, e nel riordinamento retorico-discorsivo delle priorità) quanto la colonizzazione del welfare da parte della logica panottica e punitiva tipica della burocrazia penale che si è lasciata alle spalle ogni intento riabilitativo. La progressiva diversione delle attività statali dal settore sociale al braccio penale nonché il tendenziale assoggettamento del welfare alla disciplina penale partecipano, a loro volta, a quella rimaschilizzazione dello stato che avversa i profondi e diversi mutamenti politici determinati dall’azione dei movimenti femminili e dalla istituzionalizzazione dei diritti sociali emergenti in senso antinomico ai processi storici di mercificazione. La nuova priorità riconosciuta ai doveri piuttosto che ai diritti e alle sanzioni piuttosto che al sostegno, 5. Cfr. il numero di “Actes de la recherche en sciences sociales” dedicato alla transizione De l’État social à l’État pénal (124, 1998), con contributi di David Garland; Bruce Western, Katherine Beckett e David Harding; Richard B. Freeman; Dario Melossi; Loïc Wacquant. 6. L. Wacquant, Punire i poveri, cit.

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la rigida retorica degli “obblighi della cittadinanza”, e la marziale riaffermazione della capacità dello stato di costringere i poveri molesti (beneficiari del welfare e criminali) in una “relazione subordinata di dipendenza e obbedienza” nei confronti dei manager statali rappresentati come virili protettori della società contro i suoi membri ribelli:7 tutti questi elementi affermano e promuovono la transizione dal premuroso “stato balia” dell’era fordista-keynesiana al severo “stato paterno” del modello neoliberale. Nel loro classico Regulating the Poor,8 Frances Fox Piven e Richard Cloward elaborarono un modello embrionale di gestione della povertà nell’era del capitalismo industriale. Secondo questo modello, lo stato espande o contrae ciclicamente i propri programmi di assistenza assecondando l’andamento dell’economia, conformandosi al corrispondente allargamento o restringimento del mercato del lavoro, rispondendo alle agitazioni sociali accese dall’aumento della disoccupazione e della miseria all’interno delle classi meno abbienti. Le fasi di espansione del welfare hanno la funzione di sopire “i disordini urbani” che minacciano le gerarchie consolidate, mentre le fasi di contrazione hanno lo scopo di far rispettare la disciplina del lavoro riassoggettandovi i beneficiari delle prestazioni assistenziali.9 In Punire i poveri, tuttavia, sostengo che mentre questo modello era valido per l’era fordista-keynesiana, e consente di spiegare le due più importanti fasi di espansione del welfare (il periodo della Grande depressione e gli affluenti ma turbolenti anni sessanta), esso è stato reso obsoleto dalla ristrutturazione neoliberale del7. I.M. Young, The logic of masculinist protection: Reflections on the current security state, in M. Friedman (a cura di), Women and Citizenship, Oxford University Press, New York 2005, p. 16. La tesi di Young a proposito della trasformazione degli Stati Uniti in “stato di sicurezza” sul fronte internazionale all’indomani dell’11 settembre 2001 può essere trasposta e applicata alla trasformazione che lo stato americano ha conosciuto sul fronte interno in ragione della duplice “guerra” da esso ingaggiata contro la povertà e i crimini di strada. 8. F. Fox Piven, R.A. Cloward, Regulating the Poor: The Functions of Public Welfare, Vintage Books, New York 1993, nuova edizione (ed. orig. Pantheon Books, New York 1971). 9. Ivi, p. XVI e passim.

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lo stato cui abbiamo assistito nell’ultimo quarto di secolo. Nell’era del lavoro frammentato, della ipermobilità del capitale, dell’acuirsi delle ineguaglianze e delle incertezze sociali, “il ruolo centrale svolto dall’assistenza statale nella regolazione del lavoro marginale e nel mantenimento dell’ordine sociale”10 viene soppiantato ovvero integrato dal vigoroso spiegamento dell’apparato poliziesco, del sistema giudiziario e della struttura penitenziaria nelle regioni subalterne dello spazio sociale. Al singolo sistema di controllo esercitato sui poveri dalla Sinistra dello stato succede ora il doppio meccanismo di regolazione della povertà consistente nell’azione congiunta esercitata dal welfare evolutosi in sistema di lavoro e disciplina e da una burocrazia penale diligente e belligerante. Il ciclico alternarsi di espansione-contrazione dell’assistenza pubblica ha lasciato il passo alla costante contrazione del welfare e all’incontrollata espansione del sistema di reclusione penale. Questa unione della Sinistra e della Destra dello stato sotto l’egida dell’identica filosofia disciplinare di stampo behaviorista e moralista costituisce un’innovazione istituzionale senza precedenti, che rovescia le più accreditate categorie della teoria sociale, della ricerca empirica e delle politiche pubbliche (a partire dalla salda separazione tra quanti si occupano di “welfare” e quanti si occupano di “crimine”). Ciò può essere compreso in primo luogo tenendo presenti le comuni origini storiche dei programmi di assistenza ai poveri e delle pratiche di reclusione penale, gli uni e le altre risalenti al tempo del caotico passaggio dal feudalesimo al capitalismo. Entrambe le politiche vennero concepite nel XVI secolo allo scopo di “assorbire e regolare le masse di malcontenti sradicate da questa transizione epocale”.11 Allo stesso modo, entrambe queste politiche subirono una profonda revisione negli ultimi due decenni del XX secolo in risposta 10. Ivi, p. XVIII. 11. Ivi, p. 21. Piven e Cloward riconoscono di passaggio che il XVI secolo registrò significativi fenomeni di espansione penale e attivismo sociale: “Il sistema di assistenza non era certo l’unica soluzione adottata. Quella fu anche un’era di brutale repressione. E in nessun’altra questione di politica interna il Parlamento fu attivo come nell’elaborazione del codice penale” (ivi, p. 20, nota 32).

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alle ridislocazioni economiche provocate dal regime neoliberale: nei soli anni ottanta, assieme alla riduzione dei programmi di assistenza pubblica, la California votò circa un migliaio di leggi miranti a estendere il ricorso alla carcerazione; al livello federale la riforma del 1996 che “pose fine al welfare come noi lo conoscevamo”12 trovava la propria integrazione nell’Omnibus Crime Bill del 1993 e un prezioso sostegno nel No Frills Prison Act del 1995.13 L’accoppiamento istituzionale di assistenza pubblica e reclusione quali strumenti per controllare i poveri indisciplinati può essere pienamente compreso prestando attenzione alle analogie strutturali, funzionali e culturali tra workfare e prisonfare quali “istituzioni di trattamento degli individui” che si occupano di 12. La frase fu pronunciata da Bill Clinton, che nell’agosto 1996 appose la propria firma sul Personal Responsibility and Work Opportunity Reconciliation Act (PRWORA): la riforma, minando e ridisegnando la stessa nozione di bisogno sottesa alla tradizionale concezione del welfare, restrinse l’estensione, la durata, la natura e la clientela delle prestazioni assistenziali, vincolando inoltre la continuità dei benefici alla corresponsione di prestazioni di lavoro. Sulla filosofia e gli effetti della svolta impressa alle politiche economiche e sociali negli Stati Uniti dell’ultimo trentennio, cfr. F. Fox Piven, R.A. Cloward, The Breaking of the American Social Compact, New Press, New York 1997; W. Difazio, Ordinary Poverty: A Little Food and Cold Storage, Temple University Press, Philadelphia 2006; R. Kuttner, The Squandering of America: How the Failure of Our Politics Undermines Our Prosperity, Knopf, New York 2007; G. Anrig, The Conservatives Have No Clothes: Why Right-Wing Ideas Keep Failing, Wiley, Hoboken (N.J.) 2007. [N.d.C.] 13. Il Violent Crime Control and Law Enforcement Act (VCCLEA), denominato Omnibus Crime Bill quando venne discusso e approvato dal Congresso americano (il 3 novembre 1993 alla House of Representatives, il successivo 19 novembre al Senato) e divenuto legge con la firma di Bill Clinton il 13 settembre 1994, è la più importante normativa sul crimine nella storia degli Stati Uniti. Particolarmente attenta a reprimere i crimini di strada, la legge estese l’elenco dei reati soggetti a giurisdizione federale (tra i nuovi cinquanta comparve la mera appartenenza a una gang) e, tra questi, di quelli punibili con la pena di morte (tra essi il traffico di droga, ma anche i conflitti a fuoco tra auto o i “dirottamenti” di auto [carjacking] che sfocino in omicidi). Stanziò inoltre circa 16 miliardi di dollari per costruire nuove prigioni e avviare programmi di prevenzione messi a punto da funzionari di polizia, e ne distribuì altri 10 a stati e governi locali affinché rafforzassero i loro programmi penali; finanziò l’assunzione di 200.000 poliziotti; progettò e stimolò l’allestimento di campi educativi a disciplina militare (boot camps) ove smistare i minorenni colpevoli di reati minori; soppresse i finanziamenti destinati a giovani reclusi desiderosi di conseguire l’istituzione postsecondaria. Cfr. <http://hdl.loc.gov/loc.uscongress/legislation.103hr3355>. Il No Frills Prison Act, approvato il 24 gennaio 1995, si propose di mantenere i detenuti nella condizione di vita che sarebbe presumibilmente loro toccata qualora non avessero commesso reati. Ipotizzando dunque le risorse e le opportunità di un “prigioniero medio”, la legge, intesa a evitare “sistemazioni troppo confortevoli” (no frills: senza fronzoli), negò ai

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segmenti di popolazione affini.14 Ciò è stato agevolato dalla trasformazione del welfare in senso punitivo e dall’attivarsi del sistema penale nei confronti della tradizionale clientela dei programmi di assistenza per gli indigenti: alla ristrutturazione penale del welfare è corrisposta una degradata “welfarizzazione” del carcere. Negli ultimi trent’anni la concomitanza delle rispettive riforme ha determinato una convergenza organizzativa consolidatasi anche a dispetto dell’adesione a principî contrapposti. La graduale erosione dell’assistenza pubblica e la sua riorganizzazione in workfare nel 1996 ha comportato la restrizione degli ingressi nel sistema, l’abbreviazione dei periodi di permanenza nei programmi e la velocizzazione delle fuoriuscite, dando esito a una gigantesca riduzione dello stock dei beneficiari (precipitato dai circa cinque milioni di famiglie del 1992 ai quasi due milioni di un decennio dopo). Le tendenze nelle politiche penali hanno seguito un percorso esattamente opposto: l’accesso alle prigioni è stato enormemente agevolato, i soggiorni dietro le sbarre prolungati e le scarcerazioni limitate, dando esito a una straordinaria lievitazione della popolazione sotto chiave (impennatasi di oltre un milione negli anni novanta). Dopo il 1988, e in particolare dopo l’abolizione dell’AFDC nel 1996,15 lo scopo del welfare è mutato, consistendo non più in un passivo trattamento degli individui, bensì nella loro attiva trasformazione; la prigione si è mossa invece nella direzione opposta, puntando non più alla trasformazione dei detenuti (secondo la filosofia della riabilitazione dominante dagli anni venti alla metà degli anni settanta del secolo scorso), bensì al loro puro e semplice stipamento (mentre la funzione della pena veniva declassata a reclusi la televisione e la macchina per il caffè in cella, la visione di materiale pornografico e di film per adulti, lo svolgimento di attività fisica e l’utilizzo individuale di strumenti elettronici e musicali, cibo e prodotti per l’igiene. Cfr. <http://bulk.resource.org/gpo.gov/bills/ 104/h663ih.txt.pdf>. [N.d.C.] 14. Y. Hasenfeld, People Processing Organizations: An Exchange Approach, “American Sociological Review”, 3, 1972, pp. 256-263. 15. La sostituzione dell’Aid to Families with Dependent Children (AFDC, istituito dal Social Security Act del 1935) con il ben più restrittivo e selettivo Temporary Assistance for Needy Families (TANF, entrato in vigore nel 1997) fu una delle disposizioni centrali del PRWORA. Cfr. supra, nota 12. [N.d.C.]

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mera retribuzione e neutralizzazione). L’improvviso svuotamento delle liste del welfare è stato reclamizzato come la dimostrazione del successo delle nuove politiche sociali, mentre la grottesca inflazione della presenza carceraria è stata salutata come la prova che la nuova politica penale funziona. La povertà non è regredita, ma la visibilità sociale e lo status civile dei poveri meno disciplinati sono stati drasticamente ridotti. La comune genealogia, l’isomorfismo organizzativo e la convergenza operativa del polo assistenziale e del polo penale del campo burocratico negli Stati Uniti rafforzano inoltre i propri effetti in ragione del fatto che i profili sociali dei rispettivi fruitori sono virtualmente identici. Una larga parte degli utenti dei programmi dell’AFDC e dei detenuti vivono attorno o al di sotto del 50 per cento del livello di reddito indicato dalle stime federali come la linea della povertà (più precisamente, la metà dei primi e i due terzi dei secondi); in entrambi i gruppi, neri e ispanici sono sovrarappresentati (37 e 18 per cento contro 41 e 19 per cento); una frazione considerevole di entrambi i gruppi non ha ultimato le scuole superiori e soffre di serie disabilità mentali e fisiche che ostacolano la loro partecipazione alla forza-lavoro (il 44 per cento delle madri incluse nei programmi dell’AFDC e il 37 per cento dei detenuti). I due gruppi sono inoltre reciprocamente legati da relazioni di parentela allargata (rapporti sociali e di coppia), risiedono prevalentemente negli stessi quartieri emarginati e depressi, vanno entrambi incontro a quel desolato orizzonte che spegne di norma le traiettorie di vita degli individui situati sul fondo della struttura di classe ed etnica. Punire i poveri afferma non solo che gli Stati Uniti sono passati da un singolo (welfare) a un duplice (sociale e penale) meccanismo di controllo delle classi povere, ma anche che esiste una stretta relazione causale e funzionale tra “il risicato sviluppo delle politiche sociali americane” sviscerato da Piven e Cloward16 e l’ipertrofia e iperattività senza eguali della politica penale americana. Nell’America del volgere del secolo la miseria del welfare 16. F. Fox Piven, R.A. Cloward, Regulating the Poor, cit., p. 409.

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e l’imponenza del prisonfare sono le due facce della stessa medaglia politica. La munificenza del secondo è direttamente proporzionale alla taccagneria del primo, e tale relazione tende a rafforzarsi in ragione del fatto che entrambe le politiche si ispirano al behaviorismo morale. Gli stessi aspetti strutturali dello stato americano che hanno favorito l’atrofia organizzata del welfare in risposta alla crisi razziale degli anni sessanta e ai tumulti economici degli anni settanta hanno favorito la crescita incontrollata del sistema penale che si rivolgeva alla stessa popolazione precaria. Inoltre “il tormentato impatto della schiavitù e del razzismo istituzionalizzato sulla costruzione dello stato americano” è stato avvertito non solo sul “sottosviluppo” della pubblica assistenza e sul frammentato e decentrato sistema governativo e partitico che la distribuisce a un segmento selezionato delle classi più povere,17 ma anche sul sovrasviluppo e sulla formidabile severità del suo braccio penale. La potenza sociale di quella dissimulata forma di appartenenza etnica denominata razza e l’attivazione dello stigma della blackness sono due chiavi utili per spiegare da una parte l’iniziale deperimento e l’impetuosa decadenza dello stato sociale americano nella post-civil rights era, dall’altra la sbalorditiva facilità e rapidità con le quali lo stato penale si è eretto su quelle rovine.18 Per comprendere il destino dei poveri nella polarizzata struttura di classe del capitalismo neoliberale, dunque, non basterà integrare la tradizionale analisi del welfare con lo studio del workfare. Perché il processo di residualizzazione della concezione pubblico-assistenziale quale scudo protettivo contro le sanzioni del mercato del lavoro deregolamentato ha trovato la propria estensione nella crescita pantagruelica del prisonfare, l’uno 17. Ivi, pp. 424-425. 18. La funzione catalizzatrice della divisione etnorazziale nella ricostruzione dello stato all’indomani del disfarsi del patto sociale fordista-keynesiano e del collasso del ghetto nero è l’argomento di un ulteriore studio che integra l’analisi del nesso tra riassetto di classe e ristrutturazione dello stato contenuta in Punire i poveri. Cfr. L. Wacquant, Deadly Symbiosis: When Ghetto and Prison Meet and Mesh, “Punishment & Society”, 1, 2001 pp. 95133; trad. Simbiosi mortale. Quando ghetto e prigione si incontrano e si intrecciano, in Simbiosi mortale: neoliberalismo e politica penale, ombre corte, Verona 2002, pp. 47-105.

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e l’altra accomunati dal compito di confinare nei più profondi recessi dello spazio urbano gli effetti della normalizzazione dell’insicurezza sociale. In Workfare States, la sua provocatoria analisi dello sviluppo del workfare quale “reattiva strategia riformatrice che prepara la successione al welfare state”, Jamie Peck traccia un’analogia tra il workfare disegnato con mansioni di sorveglianza e il sistema di giustizia penale, dei quali mette in rilievo la comune funzione simbolica di paradigmatica rappresentazione morale e la corrispondente capacità di esercitare effetti disciplinari ben al di là della loro clientela ufficiale: Esattamente come le prigioni e le case di lavoro, i regimi di workfare sono concepiti per gettare sulla società un’ombra lunga, tesa a modellare valori, norme e comportamenti della comunità più ampia e così mantenere un ordine determinato. Proseguendo nell’analogia con il sistema penale, ciò che conta in questi contesti non sono tanto le attività e la sorte immediata dei reclusi, né le peculiarità dell’architettura carceraria, ma i più ampi effetti sociali, politici ed economici del sistema di giustizia penale.19 La tesi di Peck è acuta, ma sottovaluta ampiamente le connessioni operative tra questi due settori del campo burocratico e le sovrapposizioni pratiche tra le loro rispettive attività. Perché tra workfare e prisonfare non sussiste una mera analogia, ma piuttosto una relazione di omologia organizzativa e di complementarità funzionale. Essi non operano in maniera simile, ma congiunta, applicando alla stessa popolazione gli identici principî di deterrenza, diversione, sorveglianza individuale e sanzionamento conformi a quella divisione del lavoro per generi che realizza l’assoggettamento ai dettami del lavoro flessibile quale norma di 19. J. Peck, Workfare States, Guilford Press, New York 2001, p. 23. Più avanti Peck approfondisce: “Il workfare contribuisce a mantenere l’ordine in una maniera analoga a quella in cui le prigioni contribuiscono al mantenimento dell’ordine sociale: sotto il profilo simbolico, la disciplina che l’uno e le altre somministrano agli individui è il prezzo che questi devono pagare per aver infranto le regole” (ivi, p. 349, corsivo mio).

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cittadinanza operante de facto al livello più basso della struttura di classe. Peck sottovaluta il fatto che, esattamente come il workfare è “il complemento logico fornito dalle politiche sociali al regime economico incentrato sul lavoro flessibile”,20 un espansivo e aggressivo prisonfare è il complemento logico fornito dalle politiche penali tanto al workfare quanto alla politica di normalizzazione dei lavori temporanei. Allo stesso modo Sharon Hays, nel suo volume Flat Broke With Children, mostra di fraintendere la natura dell’intreccio attivo tra il trattamento sociale e il trattamento penale della povertà laddove mette in guardia dagli effetti negativi che, qualora il workfare non venisse sottoposto a revisione, emergeranno in futuro dall’interazione tra l’assistenza pubblica del nuovo corso, il sistema di giustizia criminale e il complesso delle altre istituzioni cui viene affidata la custodia degli emarginati.21 Hays non comprende che questi due elementi delle politiche sulla povertà stanno già lavorando in tandem, e che il welfare malthusiano e il keynesismo penale, lungi dall’essere in disaccordo, sono le componenti complementari di un funzionale duo istituzionale. Sovvertendo la storica biforcazione tra questione del lavoro e questione del crimine che era stata compiutamente raggiunta alla fine del XIX secolo, il contenimento punitivo quale tecnica governativa di controllo della crescente marginalità urbana ha efficacemente ricongiunto le politiche sociali e le politiche penali alla fine del XX secolo. Essa drena la diffusa ansia sociale serpeggiante nelle regioni centrali e inferiori dello spazio sociale quale conseguenza dello sgretolamento dei salari e del riaccendersi dell’ineguaglianza, e la converte in ostilità popolare nei confronti degli utenti dei programmi di welfare e dei criminali di strada, rappresentati come la coppia di categorie antisociali 20. Ivi, p. 342. 21. “Se la riforma del welfare non sarà a sua volta riformata, entro la fine del primo decennio del XXI secolo potremo iniziare a misurarne l’impatto sulla popolazione carceraria, sugli istituti che ospitano i disabili mentali e le vittime della violenza domestica, sui servizi a protezione dell’infanzia, sul sistema di affido dei minori” (S. Hays, Flat Broke With Children: Women in the Age of Welfare Reform, Oxford University Press, New York 2003, p. 229).

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che minano l’ordine collettivo con la loro dissoluta moralità e il loro comportamento dissipato e vanno perciò posti sotto severa tutela.22 Il nuovo governo della povertà inventato dagli Stati Uniti per conseguire la normalizzazione dell’insicurezza sociale conferisce quindi un significato del tutto nuovo alla nozione di “aiuto ai poveri”: il contenimento punitivo offre aiuto non ai poveri, ma dai poveri, facendo scomparire i più molesti tra essi dai sempre più rarefatti registri del welfare e nelle sempre più rigonfie segrete del castello carcerario. Con lo slittamento delle politiche per la povertà da una modalità operativa singola e maternalista a una bipolare e paternalista, la luccicante linea che separa i poveri meritevoli da quelli non meritevoli, e le sane “famiglie lavoratrici” dal corrotto e inquietante “sottoproletariato”, viene tracciata di concerto da workfare e prisonfare. E le pratiche di carcerazione conquistano un posto centrale nello spettro dei programmi statali sperimentati sulle frazioni precarie del postproletariato industriale. Michel Foucault ha proposto l’analisi più influente dell’ascesa e del ruolo della prigione nel capitalismo moderno, ed è utile mettere le mie tesi a confronto con il ricco affresco di ricerche che egli ha dispiegato e stimolato. Come ho già accennato, io concordo con l’autore di Sorvegliare e punire sul fatto che l’irrogazione della pena è una fertile forza proteiforme cui qualunque studio del potere contemporaneo deve riconoscere un rilievo cruciale.23 E 22. Questa ostilità viene notata con soddisfazione dagli ideologi dello stato paternalista: “La base politica che sostiene le politiche di restaurazione dell’ordine è più larga oggi di un secolo fa. Allora i più importanti sostenitori del controllo sociale erano perlopiù notabili locali offesi dall’immoralità della vita urbana, spesso correlata a prostituzione e alcol. Essi volevano ripulire le città mettendo fuorilegge il vizio e i saloon, ma la gente era più tollerante. Oggi, tuttavia, il crimine e le droghe dominano alcune aree urbane. Rispetto all’era delle riforme sociali sono molto più comuni tra gli strati sociali bisognosi le famiglie prive del membro adulto maschile che godono dei servizi del welfare, mentre sono molto più rari gli impieghi stabili. A rischio è ora non solo la morale, ma l’ordine fondamentale della società. Di conseguenza riscuotono forte sostegno le politiche penali, educative e assistenziali ispirate a maggior durezza, ciò che contribuisce a spiegare la forza attrattiva del paternalismo” (L.M. Mead, The rise of paternalism, in Id., a cura di, The New Paternalism: Supervisory Approaches to Poverty, The Brookings Institution, Washington, D.C., 1997, pp. 15-17). 23. M. Foucault, Surveiller et punir. Naissance de la prison, Gallimard, Paris 1975; trad. Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1976. Una convincente elabo-

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sebbene il mezzo originario della pena consista nelle tecniche di coercizione legale volte a far osservare le severe condizioni dell’ordine sociomorale, essa va osservata non attraverso l’angusto prisma della repressione – come continua a fare la maggior parte dei critici dell’odierna svolta punitiva su entrambe le sponde dell’Atlantico – ma facendo ricorso alla nozione di produzione. In Punire i poveri mostro come il deciso dispiegamento dello stato penale ha generato negli spazi del welfare e del sistema di giustizia nuovi discorsi e categorie, nuovi organismi amministrativi e politiche di governo, nuovi tipi sociali e forme di conoscenza. In breve, il trattamento penale della povertà si è dimostrato un prolifico vettore di costruzione della realtà sociale nonché di riprogettazione dello stato piegatosi nell’era del capitalismo deregolamentato alla funzione di controllo dell’insicurezza sociale. Da qui in poi, però, la mia tesi diverge nettamente dalla diagnosi foucaultiana dell’affermazione e del funzionamento della società punitiva, e ciò in almeno quattro punti.24 In primo luogo, Foucault ha sbagliato nel ravvisare il declino della “forma-prigione”. Metodi e tecniche disciplinari possono aver conosciuto evoluzioni e metastasi, e aver esteso nello spazio sociale le proprie vigorose reti di controllo, ma non per questo la prigione ha deflesso dal corso della storia o ha “perduto la sua ragion d’essere”.25 Al contrario, proprio dopo che Foucault e i suoi seguaci ne annunciarono l’estinzione, la reclusione penale razione di questa prospettiva è D. Garland, Punishment and Modern Society, University of Chicago Press, Chicago 1990; trad. Pena e società moderna, il Saggiatore, Milano 1999. 24. Non è possibile intraprendere qui l’articolata discussione che l’analisi foucaultiana della pena meriterebbe. Sarà sufficiente notare che ci sono almeno due Foucault che dialogano sull’argomento. Il primo ritrae il castigo penale come “una funzione generalizzata, coestensiva al corpo sociale” (M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 98) che esemplifica un’inedita forma pastorale di “potere/sapere” rivolta alla produzione di soggettività distintive della nuova era. Il secondo insiste sulla redditività politica ed economica della sanzione penale, sul suo ruolo nella riproduzione dell’“opposizione di classe” e sul legame tra la ristrutturazione dell’“economia dell’illegalismo” e le esigenze della produzione capitalista (ivi, p. 95). 25. Ivi, p. 338. “Una rete carceraria, sottile, digradante, con istituzioni compatte ma anche con procedimenti parcellari e diffusi, ha preso di nuovo in carico il rinchiudere arbitrario, massiccio, mal integrato dell’età classica [...] l’arcipelago carcerario trasporta questa tecnica dell’istituzione penale nell’intero corpo sociale” (ivi, pp. 328-330).

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ha conosciuto un’eccezionale ripresa riaffermandosi tra le missioni centrali del Leviatano. Dopo il boom del Seicento e il consolidamento dell’Ottocento, la svolta di questo secolo va annoverata come la “terza era della carcerazione” prevista dal criminologo Thomas Mathiesen intorno al 1990.26 In secondo luogo, qualsiasi uso ne sia stato fatto nel XVIII secolo, le tecnologie disciplinari sono rimaste estranee all’ipertrofico e vorace sistema carcerario della nostra fin de siècle. Le classificazioni gerarchiche, l’elaborata organizzazione del tempo, l’eliminazione dell’inattività, l’attenta irreggimentazione dei corpi: queste tecniche di “normalizzazione” penale sono state rese impraticabili dal caos demografico generato dalla sovrapopolazione, dalla rigidità burocratica, dall’esaurimento delle risorse e dalla deliberata indifferenza, se non dalla ostilità, delle autorità penali nei confronti della riabilitazione. In luogo del dressage postulato da Foucault, vale a dire l’addestramento teso a modellare “corpi docili e produttivi”, la prigione contemporanea, per noncurante inadempienza se non per un consapevole progetto, ripiega verso la bruta neutralizzazione, la punizione di routine, la pura e semplice accumulazione dei corpi. Se nella rete dei poteri disciplinari oggi in funzione esistono “ingegneri della coscienza” o “ortopedici dell’individualità”, di sicuro non sono impiegati dagli apparati correzionali.27 In terzo luogo, i “dispositivi di normalizzazione” più tipicamente scolpiti nell’istituzione carceraria non si sono diffusi nella società come fossero vasi capillari che irrigano il corpo sociale nella sua interezza. Al contrario, l’allargarsi della rete penale sotto il regime neoliberale ha proceduto in maniera decisamente discriminatoria, colpendo gli abitanti delle regioni inferiori 26. T. Mathiesen, Prison on Trial: A Critical Assessment, Sage, London 1990, p. 14 (ed. orig. Kan fengsel forsvarses?, Pax, Oslo 1987); trad. Perché il carcere?, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996 (congiunzione selettiva delle edizioni norvegese e inglese), p. 50. 27. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 325 (traduzione modificata). Cfr. la meticolosa critica di C.F. Alford, What Would It Matter if Everything Foucault Said About Prison Were Wrong? Discipline and Punish After 20 Years, “Theory and Society”, 1, 2000, pp. 125146, basata su un’osservazione sul campo su larga scala condotta in un penitenziario del Maryland.

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dello spazio sociale e fisico a dispetto della contestuale esplosione dei reati societari (esemplificata dallo scandalo Savings and Loan dei tardi anni ottanta e dal fallimento di Enron un decennio dopo).28 In realtà, il fatto che la selettività sociale ed etnorazziale della prigione sia stata conservata, anzi largamente rafforzata, dimostra che la diffusione del modello penale non è una logica superiore e onnicomprensiva che attraversa ciecamente l’intero ordine sociale assoggettando e avvinghiando tutte le sue componenti. Al contrario: si tratta di una tecnica asimmetrica, che agisce lungo ripidi gradienti di classe, etnia e topografici, e che opera dividendo e differenziando gruppi e categorie sociali secondo consolidate concezioni del valore morale (come dimostrato per absurdum dal trattamento isterico e dalla scomunica sociale riservati ai colpevoli di reati sessuali).29 All’alba del XXI secolo il (sotto)proletariato urbano americano vive in una “società punitiva”, ma le classi medie e superiori di sicuro no. Allo stesso modo, i tentativi di importare in Europa gli slogan e i metodi della politica giudiziaria statunitense – filosofia della tolleranza zero, minimo obbligatorio dell’entità della pena,30 28. Le Savings & Loan associations sono istituti finanziari specializzati nell’apertura di depositi di risparmio (sui quali hanno la facoltà di concedere tassi di interesse più elevati rispetto alle banche commerciali) e nel dirottamento dei relativi patrimoni sulla concessione di mutui per l’acquisto di proprietà immobiliari. Tra il 1986 e il 1989, per via di una quantità di fattori – dal progressivo allentamento dei vincoli sulla clientela e sull’ammontare degli investimenti alla diversificazione delle attività creditizie con conseguente moltiplicazione delle opportunità speculative e dei connessi rischi, dagli slittamenti strutturali del mercato monetario e immobiliare alla mirata o indolente inadempienza delle autorità federali di controllo – la Federal Savings and Loan Insurance Corporation (FSLIC), agenzia federale deputata alla copertura assicurativa dei depositi delle S&L (subito dopo chiusa a sua volta per insolvenza), dichiarò il fallimento o la chiusura di 296 di queste società. La Enron Corp. è la multinazionale statunitense operante nel campo dell’energia che dichiarò bancarotta nel 2001 a seguito dell’improvviso crollo del valore delle proprie azioni, scoperchiando così una gestione efficacemente consolidatasi attorno a un sistema di espedienti contabili, una rete di speculazioni e una aggressiva opera di lobbying. [N.d.C.] 29. In Europa occidentale l’appartenenza di classe e l’origine etnonazionale sono stati i criteri selettivi che hanno ispirato le recenti e inflattive politiche di carcerazione. Cfr. L. Wacquant, Penalization, depoliticization, and racialization: On the overincarceration of immigrants in the European Union, in S. Armstrong e L. McAra (a cura di), Perspectives on Punishment: The Contours of Control, Clarendon Press, Oxford 2006, pp. 83-100. 30. La disposizione, tendente a restringere la discrezionalità degli organi giudicanti in regime di common law, non ha naturalmente rilevanza nei regimi di civil law, dove il minimo e il massimo della pena (pene edittali) sono normalmente prescritti dalla legge. [N.d.C.]

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campi di disciplina per minori – sono stati condotti sui condannati appartenenti alle classi inferiori e ai gruppi immigrati, confinati in quei quartieri di cattiva reputazione attorno ai quali nell’ultimo decennio la rinnovata e minacciosa retorica essenzialista della ghettizzazione ha agitato un’ondata di panico sociale. Per finire, la cristallizzazione della pornografia law and order, vale a dire la dilagante tendenza a concepire, rappresentare, eseguire i procedimenti penali in una forma ritualizzata idonea a essere esibita dalle autorità (il cui paradigma può essere individuato nella semiabortita reintroduzione della pratica dell’incatenamento reciproco dei forzati in uniforme a strisce), fa ritenere che la tesi della scomparsa dello “spettacolo della punizione” sia stata formulata prematuramente. La “redistribuzione” dell’“intera economia del castigo”31 in epoca postfordista ha comportato non la sparizione del supplizio dal pubblico sguardo (come suggeriva Foucault), ma la sua ridislocazione istituzionale, rielaborazione simbolica e proliferazione sociale occorse secondo modalità inimmaginabili al momento della pubblicazione di Sorvegliare e punire. Nell’ultimo quarto di secolo è sorta e si è diffusa un’intera galassia di nuove forme culturali e sociali, o piuttosto un’autentica industria che commercia in rappresentazioni di criminali e in modelli polizieschi. La teatralizzazione della giustizia penale ha migrato dal terreno dello stato allo spazio dei media commerciali e al campo politico nella sua totalità, e si è estesa dal rito finale della punizione all’intera catena del procedimento penale, con un occhio di riguardo riservato alle operazioni di polizia eseguite in quartieri abitati dalle classi meno abbienti e alle contese processuali che coinvolgono gli avvocati delle celebrità. La famigerata Place de Grève, dove venne squartato il regicida Damiens,32 è stata quindi sostituita non dal Panopticon ma da Court TV33 e dall’inondazione televi31. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., pp. 9-10 (traduzione modificata). 32. L’autore richiama qui le prime pagine di Sorvegliare e punire, dedicate alla lenta e minuziosa morte inflitta il 28 marzo 1757 a Parigi a Robert François Damiens, che il 5 gennaio precedente aveva tentato di uccidere il re Luigi XV. [N.d.C.] 33. Court TV (dal 2008 truTV) è un canale statunitense via cavo fondato nel 1991, la cui programmazione orbita interamente attorno alla cronaca giudiziaria e legale (com-

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siva di reality show dedicati alla ricostruzione di crimini (Cops, 911, America’s Most Wanted, American Detective, Bounty Hunters, Inside Cell Block F ecc.), per non parlare dell’uso della giustizia penale quale materia prima per la cronaca e le serie tv drammatiche.34 Tanto da poter dire che il carcere, piuttosto che “essersi sostituito” al “gioco sociale dei segni di punizione e alla loquace festa che li faceva circolare”,35 ne rappresenta oggi la volta istituzionale. Si potrebbe perfino sostenere che il mutamento della pena verificatosi al volgere del nuovo secolo ha significato l’inversione dello schema storico che Foucault considerava caratteristico della società occidentale: “Il diritto di punire” non “è stato spostato dalla vendetta del sovrano alla difesa della società”.36 Al contrario, la pena si profila nuovamente tanto come rivalsa contro i crimini sociali che offrono un punto di approdo alle rimosse ansie collettive, quanto come reazione del sovrano indebolito dalle pubbliche dichiarazioni di impotenza dei manager statali sul fronte sociale ed economico. Il tratto guignol delle politiche law and order è divenuto ovunque un elemento centrale di quella drammaturgia civica allestita da funzionari impettiti che mettono in scena il repertorio delle norme morali professandosi in grado di esercitare un’azione decisiva, così riaffermando la rilevanza politica del Leviatano esattamente nel momento in cui ne organizzano l’impotenza al cospetto del mercato. prendendo notiziari, dirette dai processi, programmi di commento e approfondimento, documentari, reality). [N.d.C.] 34. Negli Stati Uniti le serie poliziesche sono “la forma più popolare di intrattenimento”, a tal punto che “in una settimana il tipico telespettatore di prima serata si imbatte in 30 poliziotti, 7 avvocati e 3 giudici, ma solo uno scienziato o ingegnere e un ristretto numero di operai” (K. Beckett, T. Sassoon, a cura di, The Politics of Injustice, Pine Forge Press, Thousand Oaks, Cal., 2000, p. 104). Negli scorsi anni novanta i reality show a sfondo criminale si sono moltiplicati anche nelle altre società avanzate (per esempio, Crimewatch UK in Gran Bretagna, Aktenzeichen XY... Ungelöst in Germania, Témoin Numéro Un in Francia, Oposporing Verzocht nei Paesi Bassi), che perdipiù sono state invase dai programmi statunitensi. In realtà il rinnovato immaginario law and order americano si è fatto globale attraverso la diffusione planetaria di serie televisive come CSI, Law and Order, Miami Vice, NYPD Blue e Prison Break. 35. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 144. 36. Ivi, p. 98.

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Ciò ci conduce direttamente alla questione dei proventi politici delle politiche penali, tema centrale nel volume di David Garland La cultura del controllo,37 la più completa e stimolante illustrazione del nesso tra crimine e ordine sociale dopo l’opera di Foucault. Secondo Garland, “le condizioni sociali, politiche e culturali che contraddistinguono la tarda modernità” hanno plasmato “una nuova esperienza collettiva del crimine e della paura” alla quale le autorità hanno fornito una risposta reazionaria e ambivalente, che concilia l’adattamento pratico perseguito attraverso “strategie di partnership preventiva” e l’isterico diniego manifestato attraverso “strategie di segregazione punitiva”.38 La risultante riconfigurazione delle politiche di controllo del crimine rivela l’incapacità dei governanti di disciplinare gli individui e di normalizzare la società contemporanea, la cui stessa disarticolazione ha reso evidenti a tutti “i limiti dello stato sovrano”.39 Per Garland, la cultura del controllo compattatasi attorno alla “nuova situazione criminologica”, contrassegnata da alti tassi di criminalità e conclamati limiti della giustizia penale, segnala e al contempo occulta un fallimento politico. Al contrario, Punire i poveri sostiene che il contenimento punitivo si è rivelato una strategia politica molto efficace: lungi dall’“erodere uno dei miti fondamentali della società moderna”, secondo il quale “lo stato sovrano è capace di garantire legge e ordine”,40 esso lo ha rivitalizzato. Elevando la sicurezza (safety, sécurité, Sicherheit ecc.) al rango di priorità del governo, le autorità dello stato hanno conden37. D. Garland, The Culture of Control: Crime and Social Order in Contemporary Society, University of Chicago Press, Chicago 2001; trad. La cultura del controllo: crimine e ordine sociale nel mondo contemporaneo, il Saggiatore, Milano 2004. 38. Ivi, pp. 244-254 e passim. 39. “I dinieghi e le soluzioni espressive che hanno di recente contraddistinto le politiche penali non possono nascondere che lo stato ha una capacità decisamente limitata di garantire la sicurezza ai cittadini e fornire un accettabile livello di controllo sociale. [...] Nel mondo complesso e differenziato della tarda modernità, un governo legittimo ed efficace deve devolvere il potere e condividere la funzione del controllo sociale con organizzazioni e comunità radicate a livello locale” (ivi, pp. 328-329, traduzione modificata). 40. Ivi, p. 204. Per una precedente, più compatta esposizione di questa tesi, cfr. D. Garland, The Limits of the Sovereign State: Strategies of Crime Control in Contemporary Society, “The British Journal of Criminology”, 4, 1997, pp. 445-471.

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sato la diffusa ansia di classe e il montante risentimento etnico generati dal disfacimento del patto sociale fordista-keynesiano e li hanno convogliati nella criminalità (non bianca) di strada, dipinta, assieme alla dissoluta clientela del welfare, come la principale responsabile del disordine sociale e morale propagatosi nelle città. Il dispiegamento dello stato penale, e la sua associazione con il workfare, ha fornito all’aristocrazia statale uno strumento efficace tanto nell’alimentare la deregolamentazione del mercato del lavoro quanto nel contenere i disordini originati dalla deregulation economica ai livelli più bassi della gerarchia sociospaziale. Ancora più importante, questo modello ha permesso ai politici di riparare al deficit di legittimità che li minaccia ogni qual volta essi riducono il sostegno economico e la protezione sociale tradizionalmente garantiti dal Leviatano. Contra Garland, allora, io ritengo che il disciplinamento penale della povertà urbana ha funzionato come un veicolo per la rituale riaffermazione della sovranità dello stato all’interno del ristretto, drammatizzato dominio dell’applicazione della legge cui proprio a questo scopo lo stato ha assegnato assoluta priorità, ammettendo allo stesso tempo la sua incapacità di controllare i flussi di capitali, corpi e segni attraverso i propri confini. Il divergere delle nostre diagnosi conduce a sua volta a tre importanti elementi che differenziano le nostre analisi della spinta punitiva nei paesi del Primo Mondo. Il primo è che la rapida e inarrestabile tendenza alla “penalizzazione della società” osservata a fine secolo non è una risposta all’insicurezza di fronte al crimine bensì all’insicurezza sociale.41 Più precisamente, le diffuse inquietudini che turbano i paesi avanzati sono radicate nella obiettiva insicurezza sociale che percorre la classe operaia postindustriale – le cui condizioni materiali si sono deteriorate con la diffusione di impieghi instabili, sottopagati e spogliati dei “benefits” sociali tradizionalmente loro connessi – e nell’insicurezza soggettiva che attraversa le classi 41. Una utile discussione dei meriti e dei limiti delle teorie del mutamento sociale che si soffermano sul dislocarsi dell’angoscia collettiva è A. Hunt, Anxiety and Social Explanation: Some Anxieties About Anxiety, “Journal of Social History”, 3, 1999, pp. 509-528.

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medie, le cui prospettive di agevole riproduzione o di mobilità verso l’alto si sono affievolite nel momento in cui la competizione per le più ambite posizioni sociali si è fatta più aspra e lo stato ha tagliato la distribuzione dei beni pubblici. L’idea di Garland che gli “alti tassi di criminalità [sono] diventati un normale fatto sociale – comune ingrediente della coscienza moderna, rischio costante che va valutato e gestito” dalla “collettività nel suo insieme”,42 e specialmente dalla classe media – è smentita tanto dalle statistiche ufficiali sul crimine quanto dagli studi sulla vittimizzazione. Dopo la metà degli anni settanta le infrazioni della legge negli Stati Uniti sono declinate o ristagnate per vent’anni prima di crollare negli anni novanta, mentre l’esposizione ai reati violenti variava notevolmente a seconda del contesto sociale e fisico.43 Inoltre i paesi europei esibiscono tassi di criminalità simili o più elevati rispetto a quelli statunitensi (eccezion fatta per le due specifiche categorie di reato dell’aggressione e dell’omicidio, le cui ricorrenze rappresentano tuttavia una minuscola frazione dei reati complessivi), eppure hanno risposto all’attività criminale in maniera considerevolmente diversa, con tassi di carcerazione che, tenendo conto anche delle loro fasi di crescita, si sono attestati su una percentuale che varia da un quinto a un decimo rispetto a quelli statunitensi. In ogni caso, l’analisi dell’andamento dei reati non contribuisce in alcun modo a risolvere l’enigma della trasformazione conosciuta nell’ultimo quarto di secolo dagli Stati Uniti, divenuti una società cinque volte più punitiva a fronte di tassi di criminalità costanti. 42. D. Garland, La cultura del controllo, cit., p. 254 (traduzione modificata). 43. Tra il 1975 e il 1995 i tassi di omicidi tra i bianchi rimasero costantemente bloccati a un sesto di quelli tra i neri (5 su 100.000 contro 28-39 su 100.000). Nel 1995 la percentuale delle rapine nei quartieri suburbani era di circa un terzo rispetto a quelle commesse in città; la percentuale di arresti tra le donne bianche dei quartieri suburbani era del 2 per 1000, mentre tra gli uomini neri dei centri urbani raggiungeva il 24,6 per 1000 (US Department of Justice, Sourcebook of Criminal Justice Statistics 2000, Government Printing Office, Washington, D.C., 2001). Gli studi sulla vittimizzazione condotti negli Stati Uniti e in Europa occidentale convergono nel confutare l’idea che “le classi medie [sono divenute] esse stesse vittime abituali di reati” (D. Garland, La cultura del controllo, cit., p. 262).

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Qui giungiamo alla seconda differenza: per Garland, la reazione dello stato alla combinazione di alti tassi di criminalità e bassa efficienza della giustizia è stata sconnessa e perfino schizofrenica, mentre io ne ho messo in rilievo la complessiva coerenza. Ma questa coerenza diviene visibile solo nel momento in cui la lente analitica si estende al di là del recinto crimine-pena per affacciarsi sul più vasto terreno della politica, da una parte mettendo in relazione le tendenze del sistema penale con la ristrutturazione socioeconomica dell’ordine urbano, dall’altra registrando la congiunzione tra workfare e prisonfare. Quella che Garland descrive come “ambivalenza strutturale della risposta dello stato”44 è piuttosto una prevedibile divisione del lavoro nelle politiche di trattamento dei poveri meno disciplinati. Qui ci viene in aiuto la teoria dello stato di Bourdieu, la quale ci permette di comprendere che le “strategie adattive” – le quali, riconoscendo la limitata capacità dello stato di arginare il crimine, sottolineano la necessità della prevenzione e della delega – vengono perseguite nel settore penale del campo burocratico, mentre quelle che Garland definisce “strategie non-adattive” di “diniego e messa in scena”45 – che puntano a riaffermare quella stessa capacità – operano nel campo politico, in particolare nella sua relazione con il campo giornalistico.46 Queste linee strategiche – l’“adattamento” al livello amministrativo e la “messa in scena” al livello politico – sono due elementi complementari della stessa politica statuale di “penalizzazione” che ha sconfitto le alternative orientate all’assistenza sociale e sanitaria e si è rivelata perfettamente adatta a governare la nuova insicurezza sociale. Garland riporta alcune analogie nella recente evoluzione e nella definizione degli scopi delle politiche sociali e penali. Ma – allo stesso modo di Joel Handler e Jamie Peck, le cui ricerche 44. D. Garland, La cultura del controllo, cit., p. 206. 45. Ivi, p. 233 (traduzione modificata) e passim. 46. Sul processo di differenziazione storica e analitica del campo burocratico da quello politico, e sulle rispettive collocazioni all’interno del campo del potere, cfr. L. Wacquant (a cura di), The Mystery of Ministry: Pierre Bourdieu and Democratic Politics, Polity Press, Cambridge 2005, in particolare pp. 6-7, 14-17, 142-146; trad. L’astuzia del potere: Pierre Bourdieu e la politica democratica, ombre corte, Verona 2005, pp. 12-14, 21-25, 151-156.

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muovono entrambe dal versante del welfare state – egli riduce questi mutamenti a semplici analogie o conseguenze parallele di più ampi fattori esterni.47 Così, anche quando mette correttamente in relazione il controllo del crimine con un vasto insieme di forze sociali e sentimenti culturali, egli continua a isolare la sua analisi da quella dello spettro dei programmi statali che fissano i parametri e le opportunità di vita del (sotto)proletariato, mentre Punire i poveri insiste sulla necessità di trattare le politiche sulla povertà e le politiche della giustizia all’interno di una singola cornice analitica. L’idea di Garland che i mutamenti nella filosofia e nella politica penale siano di natura principalmente culturale discende precisamente dalla sua sottovalutazione delle connessioni strutturali e funzionali tra la parsimonia del welfare e la prodigalità del prisonfare, risultanti in un nuovo apparato disciplinare che sorveglia i poveri più molesti e li assoggetta alle norme del lavoro salariato deregolamentato. Secondo lui, “l’apparato correzionalista associato all’assistenzialismo penale rimane quasi del tutto intatto”. È stato enormemente ampliato; ha perduto la sua autonomia professionale; è stato integrato da un “terzo settore” costituito dalle partnership pubblico-privato. Eppure i mutamenti morfologici impallidiscono al cospetto dei mutamenti registrati “negli assunti cognitivi, negli impegni normativi, nelle sensibilità emotive” che danno vita alla paralizzante cultura del controllo.48 Al contrario, io sostengo che la crescita bulimica dello stato penale americano ne ha de facto alterato architettura e scopi minandone dall’interno il pro47. “I cambiamenti istituzionali e culturali nel campo del controllo sono analoghi a quelli che si sono verificati, più in generale, nel welfare state” (La cultura del controllo, cit., p. 288, corsivo mio). Cfr. inoltre le pagine conclusive del volume: “I temi dominanti all’interno della sfera della politica penale [...] informano ora anche la ‘politica della povertà’. I medesimi presupposti e obiettivi che hanno trasformato la giustizia penale sono riscontrabili anche nei programmi di ‘riforma del welfare’ intrapresi” negli Stati Uniti come in Gran Bretagna, tanto che “è impossibile non tracciare un parallelo con il nuovo campo del controllo della criminalità” (ivi, pp. 316 e 317, corsivo mio, traduzione modificata). Ma Garland dedica due sole pagine all’analisi di questo parallelo, mentre il workfare meriterebbe di esser considerato l’epicentro delle politiche che esprimono la sua “cultura del controllo”. 48. Ivi, pp. 282 e 289 (traduzione modificata); più estesamente pp. 280-289 e 289-305.

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getto “correzionale”, e che questo mutamento è stato determinato non tanto all’esterno del campo burocratico dal “coinvolgimento delle comunità e del settore commerciale”,49 quanto al suo interno, dalla riorganizzazione in senso restrittivo del welfare in workfare sotto l’egida della comune filosofia morale paternalista-behaviorista. In terzo luogo – allo stesso modo di altri importanti studiosi dei sistemi penali contemporanei come Jock Young, Franklin Zimring e Michael Tonry – Garland interpreta la svolta punitiva come il frutto reazionario dell’operato di alcuni politici di destra.50 Punire i poveri, però, ha dimostrato da una parte che la “penalizzazione” della povertà rappresenta un’autentica innovazione istituzionale piuttosto che un ritorno al passato, e dall’altra parte che essa non è affatto una creatura esclusiva delle politiche neoconservatrici. Se è vero che la formula in questione è stata inventata dai politici di destra, essa è stata però impiegata e raffinata anche dai loro avversari di centro e perfino di sinistra. In realtà, il presidente responsabile del più consistente incremento delle dimensioni del sistema carcerario nella storia degli Stati Uniti – tanto nella popolazione reclusa (in termini assoluti come nel tasso di crescita) quanto nel bilancio e nel numero degli addetti – non è stato Ronald Reagan, ma William Jefferson Clinton. Al di là dell’Atlantico, a intraprendere lo slittamento verso un più massiccio disciplinamento penale è stata la sinistra di Blair in Gran Bretagna, di Schröder in Germania, di Jospin in Francia, di D’Alema in Italia e di Gonzalez in Spagna, e non i loro predecessori conservatori. Questo perché la svolta punitiva non è un prodotto della tarda modernità bensì del neoliberalismo, vale a dire di un progetto che può essere abbracciato indifferentemente dalla sinistra e dalla destra. I numerosi ed eterogenei processi sociali ammucchiati da Gar49. Ivi, p. 287. 50. J. Young, The Exclusive Society: Social Exclusion, Crime and Difference in Late Modernity, Sage, London 1999; F. Zimring, G. Hawkins, S. Kamin, Punishment and Democracy: Three Strikes and You’re Out in California, Oxford University Press, New York 2001; M. Tonry, Thinking about Crime: Sense and Sensibility in American Penal Culture, Oxford University Press, New York 2004.

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land a comporre l’ospitale categoria della tarda modernità – la dinamica modernizzatrice della produzione capitalistica e degli scambi di mercato, i mutamenti nella struttura familiare e nei legami parentali, le trasformazioni nell’ecologia urbana e nella composizione demografica, gli effetti di “disincanto” generati dai media elettronici,51 la “democratizzazione della vita sociale e culturale” (che comporta l’individualismo sfrenato e la proliferazione delle identità plurali e delle “comunità fondate sulla scelta” anziché sul destino) – non sono solo troppo vaghi e insufficientemente correlati. Essi non sono nemmeno peculiari degli Stati Uniti o degli ultimi decenni del XX secolo, e perdipiù appaiono nella loro più compiuta espressione proprio nei paesi nordeuropei, i quali non hanno conosciuto la travolgente ondata internazionale della “penalizzazione”.52 Inoltre, l’affermarsi della tarda modernità ha avuto un andamento graduale e progressivo, mentre le recenti trasformazioni delle politiche penali hanno avuto un impatto brusco e rivoluzionario. Punire i poveri sostiene che non sono stati i generici rischi della “aperta, porosa, mobile società di estranei che è la tardomodernità”53 ad aver alimentato la ritorsione contro le classi inferiori percepite come immeritevoli e contro i tipi devianti visti come irrecuperabili, bensì la specifica insicurezza sociale generata dalla frammentazione del lavoro salariato, dall’inasprimento delle divisioni di classe e dall’erosione della gerarchia etno51. Com’è noto, nell’accezione weberiana qui evocata dall’autore, disincanto è il processo di razionalizzazione che scandì il declino della tradizionale metafisica religiosa o magico-misterica e innescò la prima modernizzazione dell’Occidente. Nella prospettiva di Garland, come riconcettualizzata da Wacquant, il disincanto tardomoderno consiste nel percorso di (parziale) astrazione dalle originarie identità etniche, di classe e/o territoriali favorito negli individui dall’utilizzo dei media elettronici. [N.d.C.] 52. D. Garland, La cultura del controllo, cit., pp. 160-177. Stando alla maggior parte dei criteri e degli indicatori normalmente utilizzati i paesi scandinavi sono le nazioni più “tardomoderne”, eppure hanno resistito felicemente alla spinta verso il contenimento punitivo della marginalità urbana. Nel 2004 il tasso di carcerazione in Norvegia era di 65 detenuti su 100.000 residenti, in Finlandia del 66, in Danimarca del 70 e in Svezia dell’85, a dispetto di tassi di criminalità molto simili a quelli registrati negli Stati Uniti (se si eccettuano i reati di morte violenta). La somma dei detenuti di questi quattro paesi (17.715) era inferiore al numero dei detenuti della sola città di Los Angeles (18.512). 53. Ivi, p. 277 (traduzione modificata).

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razziale consolidata che garantiva ai bianchi degli Stati Uniti (e ai cittadini dell’Unione europea) un efficace monopolio sui privilegi collettivi. L’improvvisa espansione e la diffusa esaltazione dello stato penale registratesi dopo la metà degli anni settanta non sono state una lettura culturalmente reazionaria della “tarda modernità”, ma una risposta della classe dominante volta a ridefinire il perimetro e i compiti del Leviatano in maniera da instaurare un nuovo regime economico fondato sulla ipermobilità del capitale e sulla flessibilità del lavoro, e allo stesso tempo contenere l’agitazione sociale determinata negli strati inferiori dell’ordine urbano dalle politiche pubbliche di deregolamentazione del mercato e riduzione del welfare sulle quali si erige l’edificio neoliberale. Una lettura sociologica del neoliberalismo L’invenzione del doppio dispositivo di regolazione dei segmenti insicuri del proletariato postindustriale, vale a dire la coniugazione delle politiche sociali e penali mirata alla normazione degli strati inferiori della struttura di classe polarizzata, è una importante innovazione strutturale che deve farci ritenere superato il modello imperniato sul nesso welfare-povertà che Piven e Cloward elaborarono proprio mentre il regime fordista-keynesiano andava scollandosi. Ma a catturare la nascita di questo congegno istituzionale non valgono né la visione foucaultiana della “società disciplinare” né la nozione di “cultura del controllo” formulata da David Garland, entrambe incapaci di rendere conto dei sorprendenti tempi di realizzazione, della selettività socioetnica e della peculiare traiettoria organizzativa della strategia di controllo che ha invertito la tendenza delle politiche penali negli ultimi decenni del secolo. Perché il contenimento punitivo della marginalità urbana – perseguito ritirando le reti della sicurezza sociale e gettando ancora più lontano quelle dell’apparato polizia-prigione, a intessere così una nuova trama carcerario-assistenziale – non è il frutto di più vaste tendenze sociali, che si tratti dell’ascesa del “biopotere” o dell’avvento della “tarda modernità”, ma un progetto di ristrutturazione dello 38


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stato. Esso partecipa alla correlata riorganizzazione del perimetro, degli scopi e delle prerogative dell’autorità pubblica sui fronti dell’economia, del welfare e del sistema penale. Questa riorganizzazione è stata eccezionalmente rapida, vasta e profonda negli Stati Uniti, ma è tuttora in corso – o in discussione – in tutte le società avanzate rigorosamente impegnate a conformarsi al modello americano. Eppure Foucault aveva ragione nel suggerire di “considerare le pratiche penali non come la conseguenza di teorie giuridiche ma piuttosto come un capitolo di anatomia politica”.54 Perciò Punire i poveri è stato inteso non come una variazione sul collaudato tema dell’economia politica della carcerazione, ma piuttosto come un contributo alla sociologia politica della trasformazione del campo del potere nell’era del liberalismo trionfante. Perché rinvenire le radici e le modalità del prodigioso viaggio dell’America verso l’ipercarcerazione significa imboccare la più breve tra le strade che conducono al santuario del Leviatano neoliberale. Ciò ci porta ad articolare due importanti assunti teorici. Il primo è che l’apparato penale è un organo cruciale dello stato: esso ne esprime la sovranità e concorre in misura decisiva a formulare sistemi categoriali, a sorreggere divisioni materiali e simboliche e a forgiare relazioni e comportamenti attraverso la penetrazione selettiva dello spazio sociale e fisico. La polizia, i tribunali e la prigione non sono mere appendici tecniche piegate alla realizzazione dell’ordine normativo, ma veicoli di produzione politica della realtà e di controllo delle categorie sociali disagiate e delle riserve in cui vivono: analizzare la politica americana, la stratificazione, la povertà, la razza e la cultura civica senza riconoscere la funzione centrale dell’apparato penale significa pagare immensi costi teorici e politici. La seconda tesi è che la “rivoluzione dall’alto” realizzata dal capitalismo e comunemente chiamata neoliberalismo comporta l’espansione e il rafforzamento del settore penale del campo burocratico, tali da consentire allo stato di tenere sotto controllo gli effetti provocati 54. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 32 (traduzione modificata).

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dall’insicurezza sociale negli strati inferiori della gerarchia di classe ed etnica nonché di contenere il malcontento popolare generato dall’abbandono dei suoi tradizionali doveri economici e sociali. Il neoliberalismo risolve prontamente quello che per la “cultura del controllo” di Garland rimane un enigmatico paradosso, vale a dire il fatto che “il tema del controllo torna a dominare ogni area della vita sociale con la singolare e sorprendente eccezione della sfera economica, dai cui meccanismi di deregulation giunge la gran parte dei rischi quotidiani”.55 La ristrutturazione neoliberale dello stato spiega anche l’intenso pregiudizio di classe, etnorazziale e spaziale che caratterizza il simultaneo ritrarsi del suo cuore sociale ed espandersi del suo pugno penale: i gruppi più direttamente e sfavorevolmente colpiti dalla convergente riorganizzazione del mercato del lavoro e dell’assistenza pubblica si trasformano per altro verso nei privilegiati “beneficiari” della generosità penale delle autorità. Infine, il neoliberalismo esibisce una stretta relazione con la diffusione internazionale delle politiche punitive nei sistemi di welfare e di giustizia penale. Non è un caso che i paesi che hanno importato prima le misure di workfare concepite per rinforzare la disciplina del lavoro salariato spogliato dei suoi sostegni sociali, e poi (con qualche variante) le misure di giustizia penale in stile americano, siano proprio le nazioni del Commonwealth che hanno perseguito anche le aggressive politiche di deregulation economica suggerite dalle ricette del “libero mercato” di provenienza americana, mentre i paesi rimasti fedeli all’idea di stato regolativo impegnato a limitare l’insicurezza sociale hanno efficacemente resistito alle sirene delle politiche della tolleranza zero e del “lavoro coatto”. Allo stesso modo, se società del Secondo Mondo come Brasile, Sudafrica e Turchia adottarono negli anni novanta piattaforme penali iperpunitive ispirate alle riforme statunitensi (e poi assistettero all’impennata della popolazione carceraria), non 55. D. Garland, La cultura del controllo, cit., p. 314 (traduzione modificata), corsivo mio.

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lo fecero perché avevano infine raggiunto lo stadio della “tarda modernità”, ma perché avevano intrapreso la strada della deregolamentazione del mercato e della riduzione della sfera statale.56 Ma per comprendere queste molteplici connessioni tra l’ascesa del Leviatano punitivo e la diffusione del neoliberalismo è necessario sviluppare una più ampia e più dettagliata descrizione di quest’ultimo: anziché accantonarlo in quanto tratto “troppo specifico” per spiegare un fenomeno come l’escalation penale (come fa Garland),57 il neoliberalismo va semmai indagato a più ampio raggio, muovendo dalla sua tradizionale caratterizzazione esclusivamente economica per conseguirne una più pienamente sociologica. La nozione di neoliberalismo è elusiva e controversa, un termine ibrido sospeso in modo incerto tra il linguaggio profano del dibattito politico e la terminologia tecnica delle scienze sociali che perdipiù viene spesso invocato in assenza di un chiaro referente. Secondo alcuni, esso designa una robusta realtà (peraltro spesso assimilata a quella indicata dal termine “globalizzazione”) con cui si può solo venire a patti, mentre secondo altri il termine definisce una dottrina ancora di là da realizzarsi e cui si può ancora resistere. Il liberalismo viene alternativamente dipinto come un rigido, immutabile e monolitico complesso 56. L. Wacquant, Les prisons de la misère, Raisons d’agir Éditions, Paris 1999; trad. Parola d’ordine: tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale, Feltrinelli, Milano 2000; e Id., Una dittatura sui poveri. Note sulla penalizzazione della povertà in Brasile, in Simbiosi mortale, cit., pp. 118-125 (ed. ingl. Towards a Dictatorship over the Poor? Notes on the Penalization of Poverty in Brazil, “Punishment & Society”, 2, 2003, pp. 197-205). Gli eventi britannici forniscono una limpida illustrazione di questo processo di travaso dalle politiche economiche a quelle sul welfare a quelle penali. Come racconta D.P. Dolowitz in Learning from America: Policy Transfer and the Development of the British Workfare State (Sussex Academic Press, Eastbourne 1998), i governi Thatcher e Major prima deregolamentarono il mercato del lavoro, poi introdussero le misure welfare-to-work già sperimentate negli Stati Uniti. Successivamente Anthony Blair espanse il workfare e lo integrò attraverso una revisione del sistema di giustizia penale servilmente conformata ai criteri fissati dagli Stati Uniti, con il risultato che l’Inghilterra è ora, tra tutte le nazioni europee, quella con i più alti tassi di carcerazione, le prigioni più affollate, i più severi standard di condanna, la più iperbolica retorica contro il crimine, le più profonde disparità razziali” (M.H. Tonry, Punishment and Politics: Evidence and Emulation in the Making of English Crime Control Policy, Willan, London 2004, p. 168). 57. D. Garland, La cultura del controllo, cit., p. 160.

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di principî e di programmi destinati a rendere omogenee le società, e come una flessibile, mutevole e malleabile costellazione di concetti e di istituzioni adattabile a differenti componenti del capitalismo. Che si intenda come unidimensionale o polimorfo, che se ne colga l’andamento progressivo e graduale ovvero l’imporsi traumatico e rivoluzionario, la connotazione prevalente del neoliberalismo è essenzialmente economica: essa mette a fuoco un vasto insieme di politiche favorevoli al libero mercato, come la deregolamentazione del mercato del lavoro, la spinta alla mobilità del capitale, la moltiplicazione dei progetti di privatizzazione, l’elaborazione di un’agenda monetarista organizzata attorno agli obiettivi della deflazione e dell’autonomia dei mercati finanziari, la liberalizzazione del commercio, i provvedimenti a sostegno della concorrenza, la tendenziale riduzione delle tasse e della spesa pubblica.58 Tuttavia questa descrizione è scarna e incompleta, nonché troppo debitrice della retorica predicatoria dei sostenitori del liberalismo. Noi dobbiamo superare questo nucleo economico ed elaborare una nozione più densa,59 capace di identificare l’apparato istituzio58. All’interno di una vasta (e ineguale) letteratura transdisciplinare, si vedano le acute analisi di N. Fligstein, The Architecture of Markets, Princeton University Press, Princeton (N.J.) 2001; J. Campbell, O. Pedersen (a cura di), The Rise of Neoliberalism and Institutional Analysis, Princeton University Press, Princeton (N.J.) 2001; J. Comaroff, J.L. Comaroff, Millennial Capitalism and the Culture of Neoliberalism, Duke University Press, Durham (N.C.)-London 2001; N. Brenner, N. Theodore (a cura di), Spaces of Neoliberalism: Urban Restructuring in North America and Western Europe, Wiley/Blackwell, New York 2002; G. Duménil, D. Lévy, Capital Resurgent: Roots of the Neoliberal Revolution, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2004. 59. L’autore evoca qui la nota – oltre che incerta sotto il profilo teorico-metodologico – dicotomia thin/thick description che l’antropologo Clifford Geertz elaborò riprendendo le osservazioni del filosofo Gilbert Ryle (e dispiegandola lungo ascendenze analitiche di matrice weberiana). La descrizione densa (thick, contrapposta a quella scarna, thin) si propone di ricostruire l’intelligibilità di un’azione trascendendo le prospettive esplicite degli attori e delucidando la sintassi comunicativa soggiacente all’interazione osservata. Il celebre esempio proposto da Geertz è quello della differenza tra twitch, contrazione involontaria della palpebra priva di connotazioni contestuali, e wink, ammiccamento intenzionale che affonda in una grammatica e rimanda a un universo di significati condivisi. Cfr. C. Geertz, The Interpretation of Cultures, Basic Books, New York 1973, pp. 3-30; trad. Interpretazione di culture, il Mulino, Bologna 1987, pp. 39-71; G. Ryle, Thinking and reflecting e The thinking of thoughts, in Collected Papers, vol. II: Collected Essays 1929-1968, Routledge, New York 2009 (ed. orig. Hutchinson, London 1971). [N.d.C.]

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nale e i frames simbolici attraverso i quali i principî del capitalismo trovano concreta attuazione. Una caratterizzazione sociologica minimale può qui tratteggiarsi come segue. Il neoliberalismo è un progetto politico transnazionale che mira a ristrutturare dall’alto le relazioni tra stato, mercato e cittadinanza e che è sostenuto da una nuova classe dirigente globale in via di formazione, composta da dirigenti ai vertici delle imprese transnazionali, alte cariche politiche, manager statali, funzionari delle organizzazioni internazionali (OECD, WTO, IMF, World Bank, Unione europea),60 tecnici e consulenti culturali nella loro qualità di prestatori d’opera specializzata (tra essi in particolare economisti, giuristi e professionisti della comunicazione con esperienze e abilità rispondenti a caratteristiche ed esigenze dei differenti paesi).61 Ciò comporta non solo la riaffermazione delle prerogative del capitale e del sistema di mercato, ma anche l’articolazione di quattro logiche istituzionali: 60. La Organisation for Economic Co-operation and Development (OECD, in Italia normalmente menzionata come OCSE), costituita nel 1961 sulle ceneri della Organisation for European Economic Co-operation (1948), ha sede a Parigi e riunisce 30 paesi sviluppati e “impegnati a promuovere l’economia di mercato” (cfr. <http://www.oecd.org>) allo scopo di favorirne l’integrazione politico-istituzionale e la collaborazione economica. La World Trade Organization (WTO), istituita nel 1995 in sostituzione del General Agreement on Tariffs and Trade (1947), è un organismo cui aderiscono 153 paesi, che ha sede a Parigi e che si prefigge “la liberalizzazione del commercio” (cfr. <http://www.wto.org>), fungendo da sede di amministrazione degli accordi commerciali multilaterali e di risoluzione delle dispute internazionali sul commercio. L’International Monetary Fund (IMF, nato nel 1945, in Italia più noto come FMI) e la World Bank (1944) sono organizzazioni sorte dalla conferenza di Bretton Woods (1944) che hanno sede a Washington, D.C., e alle quali sono affiliati 186 paesi: il primo promuovendo la cooperazione monetaria internazionale e agendo per la stabilità dei cambi, la seconda perlopiù offrendo assistenza tecnico-finanziaria ai paesi in via di sviluppo, entrambi promettono di “promuovere la crescita sostenibile e [...] ridurre la povertà” e orientano le politiche economiche dei paesi membri fornendo loro competenze, conoscenze e risorse vincolate all’attuazione di indirizzi politico-economici liberisti (cfr. <http://www.imf.org> e <http://www.worldbank.org>). [N.d.C.] 61. Sull’ascesa di una classe dirigente priva di legami nazionali o locali, cfr. L. Sklair, The Transnational Capitalist Class, Basil Blackwell, Oxford 2001. Il tradizionale orientamento cosmopolita dell’alta borghesia è messo in evidenza da Michel Pinçon, Monique Pinçon-Charlot, Sociologie de la bourgeoisie, La Découverte, Paris 2000. Il ruolo di economisti e giuristi nell’incubazione, elaborazione e diffusione transnazionale del progetto neoliberale viene indagato da S.L. Babb, Managing Mexico: Economists from Nationalism to Neoliberalism, Princeton University Press, Princeton (N.J.) 2001 e Y. Dezalay, B.G. Garth, The Internationalization of Palace Wars: Lawyers, Economists, and the Contest to Transform Latin American States, University of Illinois Press, Chicago 2002.

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1) deregulation economica, o meglio: ri-regolamentazione diretta alla promozione del “mercato” (o di meccanismi affini) quale strumento ottimale non solo per orientare le strategie delle imprese e le transazioni economiche (secondo la concezione della partecipazione al valore dell’impresa da parte degli azionisti), ma per organizzare l’intera gamma delle attività umane, giungendo all’erogazione privata di beni pubblici cruciali sulla base di supposti criteri di efficienza (e di un implicito e deliberato disprezzo per le istanze di natura distributiva connesse ai principî di giustizia e di eguaglianza); 2) devoluzione, contrazione e ricomposizione del welfare allo scopo di agevolare e sostenere l’espansione e l’intensificazione dei processi di mercificazione, nonché di assoggettare gli individui riluttanti alla nuova disciplina del lavoro salariato (spogliata delle consuete protezioni sociali) attraverso varianti di workfare che istituiscono una relazione quasi-contrattuale tra lo stato e i beneficiari delle classi inferiori trattati ora non come cittadini ma come clienti o sudditi (laddove la continuazione delle prestazioni assistenziali viene condizionata all’osservanza di precise norme comportamentali); 3) il tropo culturale della responsabilità individuale, che invade tutte le sfere della vita sociale per fornire un vocabolario di motivi (come lo definirebbe Charles Wright Mills)62 che converga sulla costruzione di un sé modellato sulla figura dell’imprenditore, sulla spinta alla diffusione dei mercati e sulla legittima62. “Le motivazioni degli uomini, e il grado in cui i diversi tipi umani ne sono tipicamente consapevoli, devono essere compresi nei termini dei ‘vocabolari dei motivi’ che predominano in una società nonché dei mutamenti e delle combinazioni sociali tra i vari vocabolari”, C. Wright Mills, The Sociological Imagination, Oxford University Press, New York 2000, nuova edizione con postfazione di T. Gitlin, p. 162 (ed. orig. 1959); trad. L’immaginazione sociologica, il Saggiatore, Milano 1995, p. 171 (traduzione modificata, ed. orig. 1962). In una prospettiva wittgensteiniana e depsicologizzata dell’attività cognitivo-categoriale, ossia “contro la concezione diffusa dei motivi come ‘molle’ soggettive dell’azione, va detto che i motivi possono essere considerati come tipici vocabolari aventi funzioni accertabili in situazioni sociali delimitate. Gli attori umani danno espressione verbale ai motivi e li imputano a se stessi e agli altri [...]. Piuttosto che elementi fissi ‘in’ un individuo, i motivi sono i termini con i quali procede l’interpretazione della condotta da parte degli attori sociali” (Id., Situated Actions and Vocabularies of Motive, “American Sociological Review”, 6, 1940, p. 904). [N.d.C.]

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zione della competizione, a cui corrisponde la fuga dalle responsabilità da parte delle imprese e la proclamazione dell’irresponsabilità (o della dimezzata responsabilità) dello stato nelle questioni sociali ed economiche; 4) un apparato penale in espansione, intrusivo e aggressivo che penetra le regioni inferiori dello spazio sociale e fisico per contenere i disordini generati dalla sempre più diffusa insicurezza sociale e dalle crescenti ineguaglianze, per estendere la sorveglianza disciplinare sulle frazioni precarie del proletariato postindustriale e per riaffermare l’autorità del Leviatano puntellando la diradata legittimazione dei rappresentanti del popolo. Un principio ideologico centrale del neoliberalismo è l’adozione del “governo leggero”, risultante dalla riduzione del welfare state keynesiano accusato di mollezza e ipertrofia e dalla sua trasformazione nello snello e agile workfare che “investe” in capitale umano e “convoglia” energie collettive e appetiti individuali nel lavoro e nella partecipazione civica attraverso “partnership” che puntano sull’autonomia, sulla spinta per il lavoro retribuito e sulle capacità manageriali. Punire i poveri dimostra però che lo stato neoliberale si rivela di fatto molto differente: mentre in alto abbraccia la politica del laissez-faire allentando le limitazioni sulla circolazione del capitale ed espandendo le opportunità dei maggiori possessori di capitale economico e culturale, in basso troviamo tutto tranne che laissez-faire. In realtà, quando si tratta di gestire le turbolenze sociali innescate dalla deregulation economica e di inculcare la disciplina del lavoro precario, il nuovo Leviatano si mostra decisamente interventista, autoritario e costoso. Il lieve tocco libertario che carezza le classi più elevate cede il passo alla ruvida pressione che sorveglia le classi inferiori, delle quali si prefigge di dirigere, anzi di dettare, la condotta. Il “governo leggero” nella sfera economica genera dunque il “governo pesante” sul doppio fronte workfare-giustizia penale. Dal grande esperimento americano teso a creare la prima società a insicurezza avanzata nella storia si può dunque trarre la conclusione che uno stato penale invasivo, dilatato e dispendioso non è 45


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un tratto estraneo al neoliberalismo ma piuttosto un suo ingrediente costitutivo. È interessante notare che questo aspetto è stato offuscato o trascurato tanto dagli apologeti quanto dai detrattori del neoliberalismo. Il migliore esempio è la celebrata riformulazione degli imperativi neoliberali che Anthony Giddens ha realizzato per la piattaforma del New Labour. Nel suo manifesto per La terza via, Giddens ravvisa negli alti tassi di criminalità espressi dai degradati quartieri operai un segno di “declino civico”, incolpandone curiosamente il welfare state keynesiano (anziché la deindustrializzazione e la riduzione delle garanzie e delle protezioni sociali): “L’egualitarismo della vecchia sinistra era di nobili intenti, ma, come dicono i suoi critici di destra, a volte ha portato a conseguenze perverse, visibili per esempio in quell’ingegneria sociale che ci ha lasciato come eredità complessi di case popolari degradati e flagellati dal crimine”. Egli individua nella “prevenzione del crimine” e nella “riduzione della paura” – obiettivi da realizzarsi attraverso la collaborazione tra stato e comunità locali – un elemento cruciale della “rigenerazione della collettività”, e abbraccia poi la mitologia law and order delle “finestre rotte”:63 “Una delle più significative innovazioni nella recente 63. Secondo la broken windows theory – che trovò la sua prima formulazione nell’articolo di J.Q. Wilson, G.L. Kelling, Broken Windows: The Police and Neighborhood Safety, “The Atlantic Monthly”, 3, 1982, pp. 29-38, e venne poi pienamente codificata nel volume di G.L. Kelling, C.M. Coles, Fixing Broken Windows: Restoring Order and Reducing Crime in Our Communities, Free Press, New York 1996 – una efficace strategia di prevenzione del crimine consisterebbe nella repressione di infrazioni minori quali vagabondaggio, accattonaggio, consumo di alcolici in luogo pubblico, minzione in luogo pubblico, iscrizione di graffiti, salto dei tornelli nelle stazioni della metropolitana, atti di vandalismo ecc., che a dispetto della loro ridotta pericolosità favorirebbero il diffondersi di reati più seri in ragione di un quasi naturale o meccanico spirito emulativo e del conseguente e cumulativo degrado dell’ambiente da esse provocato. Questo assunto ispirò inizialmente l’appena eletto sindaco di New York Rudolph Giuliani (nonché la rigida strategia law and order concordata con William J. Bratton, che nel luglio 1994 egli aveva nominato capo della polizia della città, e che più tardi avrebbe definito Kelling il proprio “mentore intellettuale”), e successivamente una gran quantità di politiche di ordine pubblico negli Stati Uniti e in Europa. A dispetto del suo successo, tuttavia, non esiste ancora alcuna prova che la broken windows theory possieda qualche fondatezza; essa sembra piuttosto essersi risolta nell’attivazione di un sistema supplementare di castighi. Sull’argomento, cfr. B.E. Harcourt, Neoliberal Penality: Politics and Practices of Punishment in the USA. Interview by Massimo Gelar-

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criminologia è stata la scoperta [sic] che la decadenza delle buone maniere nel quotidiano è direttamente connessa con la criminalità. [...] I comportamenti turbolenti che eludono il pubblico controllo segnalano ai cittadini che la zona non è sicura”.64 Ma Giddens omette deliberatamente dall’equazione il lato del castigo penale: La terza via non menziona nemmeno una volta la prigione e sorvola sull’inasprimento penale e sul boom carcerario che hanno regolarmente accompagnato il sistema di deregulation economica e di devoluzione del welfare che esso promuove. Questa omissione è particolarmente sorprendente nel caso della Gran Bretagna, poiché il tasso di carcerazione di Inghilterra e Galles è balzato dagli 88 detenuti su 100.000 residenti del 1992 ai 142 su 100.000 del 2004 (a dispetto del tasso di criminalità in diminuzione), con Anthony Blair a presiedere il più vasto incremento della popolazione detenuta nella storia del paese (facendo il paio con l’impresa di Clinton, suo co-sponsor della “Terza via” dall’altra parte dell’Atlantico). Una simile sottovalutazione della centralità dell’istituzione penale nel nuovo modello di governo dell’insicurezza sociale si trova nelle opere di eminenti critici del neoliberalismo. Un caso esemplare è l’estesa rappresentazione dello stato neoliberale fornita da David Harvey nella sua Brief History of Neoliberalism, che illumina adeguatamente gli insuperabili limiti della tradizionale economia politica della pena. Secondo Harvey, il neoliberalismo mira a massimizzare la portata delle transazioni di mercato attraverso “la deregolamentazione, la privatizzazione e il ritiro dello stato da molte aree di intervento sociale”. Come di, “Cosmopolis”, 2, 2008, pp. 99-101; e Id., Illusion of Order: The False Promise of Broken Windows Policing, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2001. [N.d.C.] 64. A. Giddens, The Third Way: The Renewal of Social Democracy, Polity Press, Cambridge 1999, pp. 16 e 86; trad. La terza via: manifesto per la rifondazione della socialdemocrazia, il Saggiatore, Milano 1999, pp. 31-32 e 89 (traduzione modificata). A sostegno delle politiche di mantenimento dell’ordine Giddens cita ripetutamente il volume di George Kelling e Catherine Coles Fixing Broken Windows, il “manuale per la riduzione del crimine” sponsorizzato dal Manhattan Institute che, come testimoniato dalla fervente approvazione di John DiIulio (apostolo della carcerazione di massa e fondatore e direttore del White House Office of Faith-Based and Community Initiatives sotto George W. Bush), dimostra che “la tesi delle finestre rotte è corretta al 100 per cento”.

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avvenne durante precedenti ere del capitalismo, il compito del Leviatano è “garantire le condizioni ottimali per una redditizia accumulazione di capitale da parte degli investitori nazionali e stranieri”, ma ciò si traduce ora in una espansione dello stato penale: Lo stato neoliberale ricorre a leggi coercitive e a tattiche poliziesche (per esempio, norme contro i picchettaggi) per disperdere o reprimere le forme collettive di opposizione alle grandi aziende. Le forme di sorveglianza e di controllo poliziesco si moltiplicano: negli Stati Uniti la carcerazione è divenuta una strategia cruciale dello stato per affrontare i problemi che sorgono tra i lavoratori licenziati e i gruppi emarginati. Le capacità coercitive dello stato vengono rafforzate per proteggere gli interessi delle grandi aziende e, se necessario, reprimere il dissenso. Nulla di tutto ciò sembra coerente con la teoria neoliberale.65 Dedicando appena qualche menzione alla prigione e nemmeno una riga al workfare, Harvey ricostruisce l’ascesa del neoliberalismo in maniera deplorevolmente incompleta. La sua concezione del neoliberalismo si rivela sorprendentemente ristretta, in primo luogo perché egli rimane legato a una nozione repressiva di potere e non prende in esame la dimensione plurale e produttiva della pena. L’interpretazione delle istituzioni penali quali strutture meramente coercitive porta Harvey a ignorare la funzione espressiva nonché le ramificate implicazioni materiali del diritto e della sua applicazione (quali la produzione di immagini e categorie pubbliche deputate al controllo, la stimolazione delle emozioni collettive, l’accentuazione delle frontiere sociali e l’attivazione delle burocrazie statali) che contribuiscono in maniera decisiva al rimodellamento delle relazioni e delle strategie

65. D. Harvey, A Brief History of Neoliberalism, Oxford University Press, New York 2005, pp. 3, 7 e 77 (corsivo mio); trad. Breve storia del neoliberismo, il Saggiatore, Milano 2007, pp. 11, 17 e 92-93 (traduzione modificata).

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sociali. In secondo luogo, Harvey individua l’oggetto della funzione repressiva dello stato negli avversari politici delle grandi corporation e nei movimenti dissidenti che sfidano l’egemonia della proprietà privata e del profitto, mentre Punire i poveri mostra che gli obiettivi principali della “penalizzazione” nell’era postfordista sono stati i segmenti precari del proletariato concentrati nei quartieri degradati ed emarginati delle metropoli polarizzate, i quali, schiacciati dalle pressanti esigenze della sopravvivenza quotidiana, non sono né capaci né desiderosi di contestare il dominio socioeconomico delle grandi aziende.66 In terzo luogo, secondo l’autore di Social Justice and the City67 lo stato interviene attraverso la coercizione solo nelle fasi di collasso dell’ordine neoliberale, ossia per ripristinare le transazioni economiche, respingere le sfide lanciate al capitale e risolvere le crisi sociali. Al contrario, Punire i poveri sostiene che l’attuale attivismo penale dello stato – che si traduce in bulimia carceraria negli Stati Uniti e in parossismo poliziesco nell’Europa Occidentale – è un tratto ordinario e costante del neoliberalismo. In realtà, a richiedere l’aggressivo dispiegamento dei mezzi polizieschi, giudiziari e carcerari nelle regioni inferiori dello spazio sociale e fisico non sono le sconfitte del sistema economico, ma i suoi successi. E le repentine svolte law and order sono un indice della riaffermazione della sovranità stata-

66. Harvey elenca quali obiettivi principali della repressione statale l’Islam radicale e la Cina sul fronte esterno e i “movimenti dissidenti” all’interno, citando tra questi ultimi i Branch Davidians di Waco, i partecipanti ai disordini di Los Angeles dell’aprile 1991 (scatenati dall’assoluzione dei poliziotti coinvolti nel pestaggio dell’automobilista Rodney King) e gli attivisti anti-globalizzazione che scossero il G8 di Seattle del 1999 (ivi, p. 98). Ma si tratta di isolati episodi di repressione e di fiacca mobilitazione contro il potere delle grandi aziende e l’ingiustizia dello stato (che difatti non hanno certo reso necessaria la reclusione dietro le sbarre di milioni di individui). [Nel 1993, a Waco in Texas, il FBI fece irruzione nella proprietà del movimento protestante Branch Davidian Seventh Day Adventists al termine di un assedio iniziato cinquantuno giorni prima, a fronte della resistenza armata che i residenti opposero all’esecuzione di un mandato di perquisizione: nel corso dell’operazione 71 dei seguaci, tra i quali 17 bambini e il capo David Koresh, vennero uccisi a colpi di arma da fuoco o furono arsi dal rogo appiccato con ogni probabilità dai federali, N.d.C.] 67. D. Harvey, Social Justice and the City, University of Georgia Press, Athens 2009, nuova edizione (ed. orig. Johns Hopkins University Press, Baltimore, Mar., 1973). [N.d.C.]

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le, non della sua debolezza. Harvey nota che “lo stato espone strati sempre più vasti della popolazione all’impoverimento” e che “la rete della protezione sociale viene ridotta al minimo in favore di un sistema che dà grande rilievo alla responsabilità individuale. L’insuccesso individuale viene generalmente attribuito a incapacità personali, e fin troppo spesso è la vittima a essere biasimata”.68 Ma egli non comprende che sono proprio questi normali disordini, provocati dalla deregulation economica e dalla riduzione del welfare, a essere governati dall’azione congiunta del dilatato apparato penale e del workfare nelle sue funzioni di sorveglianza. Al contrario, Harvey chiama in causa l’uomo nero del “complesso dell’industria carceraria” suggerendo che la carcerazione è un importante elemento del modo capitalista di accumulazione e ricerca del profitto, quando si tratta invece di uno strumento disciplinare dal quale deriva un enorme salasso nei forzieri pubblici e uno straordinario freno all’economia.69 Infine, Harvey intende la spinta neoconservatrice alla coercizione e al ripristino dell’ordine come una soluzione alla cronica instabilità e agli insuccessi funzionali del neoliberalismo, mentre io descrivo il moralismo autoritario, e più precisamente la sua attenzione per gli strati più bassi della struttura di classe polarizzata, come un elemento costitutivo dello stato neoliberale. Così come Garland, Harvey – a causa della sua definizione angustamente economica di neoliberalismo, che ne conserva l’ideologia ma ne tronca la sociologia – può spiegare il controllo autoritario dei poveri da parte dello stato solo distinguendo in una dicotomia artificiale “neoliberalismo” e 68. D. Harvey, Breve storia del neoliberismo, cit., p. 91 (traduzione modificata). 69. “La crescita delle attività di sorveglianza e di controllo poliziesco e, nel caso degli Stati Uniti, l’incarcerazione delle componenti recalcitranti della popolazione, indicano una svolta preoccupante verso un controllo sociale più rigido. Il complesso dell’industria carceraria è un settore fiorente (insieme ai servizi di sicurezza personale) dell’economia statunitense” (ivi, p. 188). In Punire i poveri vediamo che la crescita dell’industria privata della carcerazione si arrestò completamente con il crack del mercato azionario del 2000 (che è un fenomeno determinato dall’espansione dello stato penale) e che il peso del sistema correzionale nell’economia nazionale è in ogni caso trascurabile.

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“neoconservatorismo”.70 Per chiarire la svolta paternalista delle pratiche penali al volgere del secolo, dunque, noi dobbiamo evadere dal recinto crimine-pena, ma anche esorcizzare una volta per tutte il fantasma di Althusser, la cui concezione strumentale del Leviatano e la cui rappresentazione crudamente dualista degli apparati ideologici e repressivi hanno seriamente danneggiato l’antropologia storica dello stato nell’era neoliberale. Seguendo la lezione di Bourdieu, è attraverso l’attento studio della complessità interna e della ricomposizione dinamica del campo burocratico da una parte, e del potere costitutivo delle strutture simboliche delle pratiche penali dall’altra, che potremo tracciare l’intricato reticolo di mercato e disciplina morale che percorre i dominî dell’economia, del welfare e del sistema penale.71 Infatti, la diffusione della deregulation economica e il dietrofront nelle politiche sociali osservati in quasi tutte le democrazie avanzate – che hanno dismesso il tradizionale sistema di diritti diffusi e benefici automatici in favore di un approccio selettivo che promuove l’ingresso di operatori privati, l’utilizzo di incentivi contrattuali e l’imposizione di determinati stili di comportamento quale condizione dell’erogazione delle prestazioni assistenziali (in maniera da contenere le possibilità di defezione dal mercato del lavoro) – sono stati accompagnati ovunque dall’ampliamento e dal rafforzamento delle strutture, dell’attività e del70. Secondo Harvey, il neoconservatorismo è una formazione politica rivale, che “si allontana dai principî del neoliberalismo puro” nella sua “preoccupazione per l’ordine quale risposta al caos degli interessi individuali” e “per una morale esasperata”: esso potrebbe sostituire lo stato neoliberale perché questo è “intrinsecamente instabile” (ivi, p. 97, traduzione modificata). Garland adotta una simile linea argomentativa per risolvere la contraddizione empirica tra l’ethos libertario della tarda modernità e le tendenze autoritarie del neoliberalismo: “Mentre l’agenda neoliberale favorevole alla privatizzazione, alla competizione del mercato e alla riduzione della spesa pubblica ispirava gran parte delle riforme delle agenzie che dietro le quinte amministrano la giustizia penale, è stata la ben differente agenda neoconservatrice a disegnare il volto pubblico della politica penale” (D. Garland, La cultura del controllo, cit., pp. 233-234, traduzione modificata). 71. P. Bourdieu, Rethinking the State, cit., pp. 15-16; L. Wacquant, Symbolic power and the rule of the “State nobility”, in Id. (a cura di), The Mystery of Ministry, cit., pp. 133-150; trad. Il potere simbolico nel governo della “nobiltà di Stato”, in Id. (a cura di), L’astuzia del potere, cit., pp. 143-159.

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l’estensione delle burocrazie penali orientate verso l’estremo inferiore dello spettro di classe, etnico e spaziale. Il cosiddetto enabling state,72 che all’alba del secolo73 domina su entrambe le sponde dell’Atlantico le politiche pubbliche, favorendo ed espandendo l’azione delle classi superiori, si trasforma per le classi inferiori, ossia quelle colpite negativamente dalla ristrutturazione dell’economia e dello stato, in un disabling state, in quanto agisce nei loro confronti recidendone sistematicamente opportunità sociali e legami sociali – per richiamare le due componenti delle “chance di vita” secondo la categorizzazione di Ralph Dahrendorf.74 Nel suo meticoloso raffronto tra le misure eugeniche degli anni venti, i campi di lavoro obbligatorio degli anni trenta e i sistemi di workfare degli anni novanta in Inghilterra e in America, Desmond King ha mostrato che “le politiche sociali illiberali” che cercano di indirizzare coercitivamente la condotta dei cittadini sono “intrinseche alle politiche democratico-liberali” e “ne riflettono le contraddizioni interne”.75 Anche quando trasgrediscono gli standard di eguaglianza e libertà personale, questi programmi vengono perseguiti perché idealmente preziosi per sottolineare e rafforzare i confini di appartenenza in tempi di disordine sociale: essi sono infatti i più agili veicoli della nuova determinazione mostrata dalle élite statali nell’affrontare le penose condizioni delle categorie devianti o reiette e nel mitigare al contempo il risentimento popolare nei loro confronti, e servono 72. Nozione chiave nelle concezioni post- o antiassistenziali della funzione statuale e della cittadinanza, l’espressione enabling state (to enable: rendere capace, mettere in condizione di) designa lo stato che tendenzialmente si prefigge di non prestare soccorso o aiuto agli individui, ma piuttosto di accrescerne, potenziarne, espanderne le capacità allo scopo di incrementare la loro autonomia e moltiplicare le loro opportunità. [N.d.C.] 73. N. Gilbert, Transformation of the Welfare State: The Silent Surrender of Public Responsibility, Oxford University Press, New York 2002; F. Merrien, R. Parchet, A. Kernen, L’État social. Une perspective internationale, Armand Colin, Paris 2004; J. Handler, Social Citizenship and Workfare in the United States and Western Europe: The Paradox of Inclusion, Cambridge University Press, New York 2004. 74. R. Dahrendorf, Life Chances: Approaches to Social and Political Theory, University of Chicago Press, Chicago 1981. 75. D. King, In the Name of Liberalism: Illiberal Social Policy in the United States and Britain, Oxford University Press, New York 1999, p. 26.

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inoltre a diffondere concezioni dell’alterità che conferiscono consistenza materiale all’opposizione simbolica consolidando così l’ordine sociale. Tuttavia, con l’avvento del regime neoliberale che governa l’insicurezza sociale coniugando un rigido workfare con un aggressivo prisonfare, non sono semplicemente le politiche dello stato a essere illiberali, ma la sua stessa architettura. L’esame dell’ascesa e del funzionamento delle politiche punitive sulla povertà nell’America dopo la dissoluzione dell’ordine fordista-keynesiano e l’implosione del ghetto nero rivela che il neoliberalismo non esige la contrazione del governo, ma l’erezione di uno stato centauro, liberale in alto e paternalista in basso, che presenta sembianze radicalmente diverse ai due estremi della gerarchia sociale: un viso gentile e generoso a blandire le classi medio-alte, e un cipiglio arcigno e inquietante a scrutare la classe inferiore. È importante qui sottolineare che la costruzione del Leviatano-Giano liberal-paternalista non ha seguito un piano architettato da governanti onniscienti: l’efficacia complessiva delle strategie di contenimento punitivo nelle politiche di regolazione della marginalità urbana all’alba del secolo è una funzionalità post hoc nata da una combinazione di scopo politico, aggiustamento burocratico e inseguimento del consenso elettorale che si è incrociata con il punto di confluenza di tre traiettorie relativamente autonome di politiche pubbliche concernenti il mercato del lavoro dequalificato, l’assistenza pubblica e la giustizia penale. La complementarità e l’interdipendenza dei programmi statali in queste tre sfere sono in parte l’esito di un progetto e in parte proprietà emergenti, e vengono alimentate dalla necessità pratica di affrontare routinariamente problemi sociali intimamente correlati per via del comune assoggettamento alla filosofia del behaviorismo morale e all’ordine del pregiudizio etnorazziale – con i (sotto)proletari neri dell’iperghetto situati nel punto di massimo impatto, laddove si incontrano deregulation del mercato, riduzione del welfare e potenza di penetrazione del sistema penale. Il risultante sistema di governo dell’insicurezza sociale non è né un preordinato svi53


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luppo storico sollecitato da una irresistibile logica sistemica, né una costellazione organizzativa scevra di contraddizioni, incongruenze o lacune. In realtà, il connubio tra workfare e penitenziario non fa che raddoppiare l’irrazionalità, le insufficienze e gli squilibri che lacerano oggi entrambe le istituzioni.76 Il rigetto del funzionalismo nella sua espressione più maldestra è al contempo il rifiuto di un consolidato modello cospirativo del dominio di classe e la rinuncia a quel fallace strutturalismo iperdeterminista che tramuta i risultati storicamente condizionati delle lotte sociali ingaggiate nel campo burocratico (tesi a forgiarne perimetro, capacità e scopi) in un fatto necessario e ineluttabile. Quali che siano state le modalità delle loro rispettive affermazioni, è indiscutibile che la connessione tra la spilorceria del welfare e la prodigalità del sistema penale, congiuntesi sotto la guida del moralismo, ha alterato l’aspetto del campo burocratico in maniere profondamente offensive per gli ideali democratici.77 Poiché i loro sguardi convergono sugli stessi gruppi e territori emarginati, il potere deterrente del workfare e la capacità di neutralizzazione della prigione favoriscono l’emergere di profili ed esperienze di cittadinanza del tutto peculiari dentro lo spettro etnico e di classe. Essi non solo determinano una violazione del principio di eguale trattamento da parte dello stato e limitano regolarmente le libertà individuali dei diseredati, ma minano anche il consenso dei governati attraverso l’aggressivo dispiegamento di programmi obbligatori che istituiscono responsabilità individuali proprio mentre lo stato divelle i pilastri istituzionali necessari per adempiervi (con ciò sottraendosi ai propri obblighi economici e sociali); workfare e sistema carcerario incidono così sulle frazioni precarie del proletariato – dal quale proven-

76. Queste pecche e contraddizioni sono minuziosamente scandagliate da J. Peck, Workfare States, cit., e da M. Tonry, Thinking about Crime, cit. 77. Per una delucidazione delle concezioni repubblicane e liberali della democrazia qui in gioco, cfr. D. Held, Models of Democracy, Stanford University Press, Stanford (Cal.) 2006 (ed. orig. Polity Press, Cambridge 1987); trad. Modelli di democrazia, il Mulino, Bologna 1989.

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gono tanto i beneficiari delle prestazioni assistenziali quanto i detenuti – il marchio indelebile dell’indegnità. In breve, la “penalizzazione” della povertà frantuma la cittadinanza secondo linee di classe, indebolisce lo spirito civico tra le classi inferiori e porta a termine il deterioramento dei principî repubblicani. In conclusione, l’instaurazione del nuovo governo dell’insicurezza sociale rivela che corrodere la democrazia è nella natura del neoliberalismo. Nel 1831 Alexis de Tocqueville e il suo amico Gustave de Beaumont vennero inviati negli Stati Uniti dal re Luigi Filippo per raccogliere elementi sul sistema penitenziario americano ed esprimere un giudizio a proposito della sua eventuale riproduzione in Francia. Proprio come sarebbe accaduto con le politiche di tolleranza zero negli anni novanta del XX secolo, il sistema carcerario americano aveva catturato l’immaginazione dei politici dell’Europa occidentale, i quali desideravano trarne indicazioni utili per arginare i disordini legati all’ammassarsi dell’emergente proletariato nelle città in via di industrializzazione. Fu nel corso di questo viaggio di esplorazione penale che Tocqueville raccolse i materiali per il suo celebrato volume sulla Democrazia in America. Qui il principale teorico del liberalismo esprimeva sorpresa di fronte alla mobilità e alla vitalità di una società caratterizzata dalla “prevalenza della classe borghese”, che – spinta dall’amore per il commercio, l’industria e il consumo – illuminava il futuro della modernità nello scintillio dell’ottimismo capitalista. In un passo meno frequentato di quel diario di viaggio Tocqueville esaltava anche la prigione americana come una variante efficiente e benevola del dispotismo, capace, attraverso la semplice pressione che l’isolamento sociale e l’angoscia esercitano sui reclusi, di sradicare le inclinazioni criminali tra le frange insubordinate delle classi povere e al contempo inculcare in esse le sane abitudini al lavoro, alla modestia e al rispetto delle convenzioni morali. Egli rimase positivamente colpito dal fatto che “mentre la società statunitense offre l’esempio della più ampia libertà, le sue prigioni esibiscono lo 55


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spettacolo del più assoluto dispotismo”.78 Circa centosettanta anni dopo, la ricaduta in quella che Tocqueville aveva ribattezzato “monomania del penitenziario” si è combinata con l’adozione del workfare punitivo, estendendo così la formula del controllo dispotico dalla prigione alla regolazione neoliberale dell’insicurezza sociale. Traduzione dall’inglese di Massimo Gelardi

78. G. de Beaumont, A. de Tocqueville, On the Penitentiary System in the United States and its Application in France, University of South Illinois Press, Carbondale 1964, p. 47 (ed. orig. Carey, Lea & Blanchard, Philadelphia 1833). Una convincente lettura della discussione del sistema penale all’interno della sociologia politica di Tocqueville è R. Boesche, The Prison: Tocqueville’s Model for Despotism, “The Western Political Quarterly”, 4, 1980, pp. 550-563.

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Stato penale e stato debitore: l’irripetibile esemplarità del neoliberalismo americano JOHN L. CAMPBELL

Lo stato neoliberale secondo Wacquant È molto diffusa, ed è condivisa dallo stesso Wacquant, la convinzione che il declino del modello fordista-keynesiano coincida con l’ascesa del neoliberalismo. A metà degli anni settanta la competizione economica internazionale si allargò, e i prezzi e i mercati divennero più instabili. Le aziende reagirono perseguendo una nuova flessibilità attraverso piani di ridimensionamento e un ricorso più regolare al lavoro temporaneo, part-time o sottopagato da procacciarsi perlopiù attraverso programmi di esternalizzazione della produzione in paesi meno avanzati. Posti sotto pressione, gli stati puntarono a favorire la competitività delle imprese attraverso politiche di riduzione fiscale e provvedimenti normativi tesi ad attenuare i vincoli sulle attività economico-finanziarie. Questa strategia venne accompagnata da un attacco al welfare state, cui si imputava di essere così perversamente munifico da neutralizzare il timore della disoccupazione ed estinguere il potenziale produttivo dei lavoratori. Wacquant sostiene che tali mutamenti provocarono diverse conseguenze. La prima fu lo sviluppo del workfare neoliberale, che inasprì i requisiti di accesso ai programmi per l’impiego e restrinse volume e durata dei benefici del welfare; ciò negli Stati Titolo originale: Neoliberalism’s Penal and Debtor States: A Rejoinder to Loïc Wacquant. Ringrazio Marc Dixon, John A. Hall, Deborah King per i loro preziosi commenti a una precedente stesura di questo saggio.

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Uniti trovò compiuta espressione nella riforma del welfare varata dall’amministrazione Clinton nel 1996.1 La seconda conseguenza fu la rigenerazione dello stato penale, chiamato a contenere gli imprevisti effetti delle nuove politiche sociali: l’inaridimento delle opportunità di lavoro e la contrazione degli aiuti del welfare fecero infatti della condotta criminale un’alternativa più attraente, contribuendo così a elevare il tasso di carcerazione e a stimolare l’espansione dello stato penale (nonché a rafforzare il legame tra welfare sociale e politiche penali). Naturalmente l’obiettivo di queste nuove politiche era la classe inferiore, che dovette sopportare l’urto della nuova mobilità del lavoro, della disoccupazione, della sottoccupazione, della riduzione del welfare e, di qui, dell’accresciuto coinvolgimento in attività illegali, reso spesso necessario dall’esigenza di sbarcare il lunario. La terza conseguenza si registra al livello culturale, ed è lo sviluppo di una pornografia law and order: con ciò deve intendersi, secondo Wacquant, l’intensificata rappresentazione del funzionamento del sistema penale nell’industria cinematografica e televisiva a scopi di rammemorazione ritualizzata delle sanzioni connesse alle condotte illegali. La lezione è che puoi anche trarre profitto dalle attività criminali, ma prima o poi la lunga mano della legge ti trascinerà al cospetto della giustizia. In conclusione, abbiamo assistito a un processo di duplice assoggettamento normativo della classe inferiore, realizzato attraverso l’attivazione di un connubio tra politiche penali e sociali al fondo della struttura di classe sempre più polarizzata: si è trattato di una importante innovazione strutturale, particolarmente rapida ed evidente negli Stati Uniti, ma sviluppatasi anche in tutte le società avanzate che si sono piegate a quella che Wacquant descrive come la pressante spinta a conformarsi al modello americano. Di qui egli sostiene che dobbiamo estendere la definizione di stato neoliberale in maniera che essa comprenda quattro elementi: 1) deregulation economica; 2) dismissione, contrazione e ri1. Cfr. L. Wacquant, La disciplina produttiva: fisionomia essenziale dello stato neoliberale (2009), in questo fascicolo, nota 12. [N.d.C.]

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composizione del welfare; 3) affermazione di un apparato penale espansivo, intrusivo e aggressivo; 4) sviluppo del tropo culturale della responsabilità individuale, secondo il quale il corso della tua vita dipende da te, non dallo stato. Dunque, secondo Wacquant, e contrariamente a quanto sostenuto dalla retorica neoliberale, noi abbiamo uno stato centauro, liberale in alto (nei confronti delle classi superiori e delle classi medie) e paternalista in basso (nei confronti delle classi inferiori).2 Cosa dire in proposito? La classe inferiore e lo stato penale In primo luogo, la natura dello stato penale è più complessa di quanto Wacquant riconosca. In termini funzionali, lo stato penale è qualcosa di più di un meccanismo di controllo concepito per mantenere la pace sociale nelle strade. Esso può anche essere visto come una forma emergente di politica occupazionale diretta all’assorbimento della forza lavoro che altrimenti rimarrebbe inutilizzata. Dopo tutto, la gran parte delle persone che popolano oggi le prigioni statunitensi sono uomini giovani, scarsamente istruiti, appartenenti alle classi inferiori, spesso non bianchi, che se non fossero in carcere ingrosserebbero probabilmente le schiere dei disoccupati. In effetti, se questi uomini non fossero stati incarcerati, il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti negli anni novanta sarebbe stato di due punti percentuali più alto di quanto ufficialmente registrato.3 Ciò non significa che si sia pianificato lo sviluppo dello stato penale per ridurre il tasso di disoccupazione. Ma questo è stato uno degli effetti. Inoltre, lo stato penale riflette la struttura del neoliberalismo in due modi egualmente importanti. Da una parte, il sistema carcerario è stato sempre più privatizzato nella misura in cui ha derogato a parte delle proprie responsabilità affidando un numero crescente di prigionieri al settore della giustizia privata (talora quale 2. Nell’illustrare gli effetti delle politiche neoliberali sui gruppi sociali più poveri Wacquant sembra definire la classe in termini di reddito. Io, dunque, farò lo stesso. 3. B. Western, K. Beckett, How Unregulated Is the U.S. Labor Market? The Penal System as a Labor Market Institution, “American Journal of Sociology”, 4, 1999, pp. 1030-1060.

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deliberata strategia di rivitalizzazione economica).4 Per esempio, la Corrections Corporation of America (CCA), fondata nel 1983, oggi possiede e gestisce sul suolo statunitense sessantasei prigioni che ospitano 75.000 detenuti e impiegano 17.000 addetti.5 Questo è diventato un affare molto lucroso. Il valore delle azioni della CCA, l’azienda leader, si è impennato dagli otto dollari del 1992 ai circa trenta del 2000. Un’altra compagnia che si occupa di gestione delle prigioni, la Wackenhut Corrections Corporation, ha goduto alla fine degli anni novanta di un tasso medio di profitto sugli investimenti del 128 per cento ed è stata classificata dalla rivista “Forbes” tra le prime duecento piccole imprese degli Stati Uniti. Nel 1990 negli Stati Uniti c’erano solo cinque prigioni private, nelle quali erano reclusi circa 2000 detenuti. Nel 2000 circa venti aziende private gestivano più di cento prigioni con circa 62.000 detenuti.6 Tra il 2000 e il 2005 il numero delle carceri private aumentò a quattrocentoquindici, e tale incremento rappresentò pressoché l’intero volume di crescita delle strutture correzionali nel corso del quinquennio. È vero che il numero delle strutture pubbliche (1406 nel 2005)7 rimane di gran lunga superiore a quello delle strutture private. Tuttavia la tendenza alla privatizzazione è evidente. In questo senso il sistema carcerario esemplifica perfettamente lo stato centauro di Wacquant: da una parte, esso sanziona la classe inferiore, che popola le prigioni; dall’altra, arricchisce la classe superiore, che le possiede, e dà lavoro alla classe media, che le gestisce. Il sistema carcerario riflette anche la tendenza all’outsourcing tipica del neoliberalismo. In primo luogo, si registra un alto tasso di outsourcing di prigionieri tra gli stati. Nel 2007 il Texas Department of Criminal Justice inviò fuori dei propri confini 11.720 4. T. Huling, Building a prison economy in rural America, in M. Mauer, M. Cheney-Lind (a cura di), Invisible Punishment: The Collateral Consequences of Mass Imprisonment, New Press, New York 2002, pp. 191-213. 5. Cfr. il sito della CCA, <http://www.correctionscorp.com>. 6. K. Silverstein, America’s Private Gulag, <http://www.corpwatch.org/article.php?id= 867>, sito web di Corpwatch, 2009. 7. U.S. Department of Justice, Census of State and Federal Correctional Facilities 2005, <http://www.ojp.usdoj.gov/bjs/pub/ascii/csfcf05.txt>, Washington (D.C.) 2008.

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tra detenuti e soggetti a libertà condizionata, ricevendone 6326 da altri stati.8 Le prigioni stanno inoltre lentamente diventando una fonte di manodopera a basso reddito per le aziende che decidono di avvalersi dell’opportunità di appaltare lavoro ai detenuti.9 Fu nel 1979 che il Congresso approvò il Justice System Improvement Act, in virtù del quale le aziende private furono libere di assumere i detenuti mentre questi scontavano ancora la loro pena. In realtà i sindacati contestarono questo provvedimento e riuscirono a imporre delle condizioni sulle norme attuative, come l’allineamento delle retribuzioni dei detenuti ai salari medi locali (nonché il riconoscimento dei privilegi ordinariamente connessi alla mansione svolta) e la garanzia scritta che le aziende non avrebbero utilizzato i reclusi per rimpiazzare gli altri lavoratori: e il risultato è che finora solo un ristretto numero di detenuti è stato assunto da aziende private. Tuttavia, anche in questo caso, la tendenza è stata avviata.10 Eppure, dietro queste osservazioni preliminari si celano tre più importanti questioni che chiamano in causa la nozione di stato penale disegnata da Wacquant. In primo luogo, l’analisi di Wacquant è pesantemente strutturalista. Sembra quasi che il sistema penale abbia costituito una necessaria risposta istituzional-funzionale all’ascesa del neoliberalismo. Ciò però non si concilia con il fatto, rilevato dallo stesso Wacquant, che i tassi di carcerazione degli altri paesi avanzati sono molto più bassi, il che – almeno se assumiamo che anche quei paesi hanno ceduto alle pressioni neoliberali evolvendo in workfare states – suggerisce che per comprendere il neoliberalismo dobbiamo andare al di là dell’individuazione dei suoi imperativi strutturali. In realtà il problema è che la teoria di Wacquant difetta di analisi politica. Negli Stati Uniti è fin dagli anni sessanta che la questione criminale viene deliberatamente utilizzata per mobi8. Texas Department of Criminal Justice, Success Through Supervision, “Annual Review”, 2007, <http://www.tdcj.state.tx.us/mediasvc/annualreview2007.pdf>, Austin (Tex.) 2008. 9. R. Weiss, “Repatriating” Low-Wage Work: The Political Economy of Prison Labor Reprivatization in the Postindustrial U.S., “Criminology”, 2, 2001, pp. 253-292. 10. R.D. Atkinson, Prison Labor: It’s More Than Breaking Rocks, “Policy Report”, Progressive Policy Institute, <http://www.nicic.org/Library/018316>, Washington (D.C.) 2002.

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litare gli elettori. Tale strategia fu inaugurata dalla destra degli stati del Sud, raffinata negli anni di Nixon, ma poi rapidamente adottata anche da molti politici di sinistra; le piattaforme law and order, quindi, divennero parte integrante della maggior parte delle campagne elettorali molto prima dell’affermarsi del neoliberalismo.11 Per esempio, furono ragioni di politica elettorale a spingere nel 1973 il governatore dello stato di New York Nelson Rockefeller a emanare le cosiddette Rockefeller Drug Laws, che inasprivano le condanne per possesso o vendita di stupefacenti: tale mossa suscitò l’interesse nazionale e contribuì in misura decisiva al successivo insediamento di Rockefeller alla vicepresidenza degli Stati Uniti (nonché a un considerevole incremento della popolazione carceraria dello stato di New York).12 Il punto è che l’evoluzione dello stato penale ha obbedito alla logica elettorale almeno quanto alle esigenze strutturali del neoliberalismo. Va inoltre ricordato che lo sviluppo dello stato penale fu episodicamente contrastato da una decisa opposizione politica che ha riportato qualche importante successo. Tra il 2005 e il 2007 circa il 24 per cento del totale dei detenuti nelle prigioni federali e statali (e oltre la metà dei detenuti delle prigioni federali) scontava condanne per reati connessi all’uso di stupefacenti,13 e tra essi circa il 20 per cento era stato condannato per reati connessi al possesso e alla vendita di marijuana (e non di droghe pesanti come eroina e cocaina).14 Il dissenso nei confronti di tali politiche ha scatenato un movimento nazionale di depenalizzazione della marijuana per usi ricreativi e medici. A partire dal 1973 dodici stati e numerose città hanno attenuato le sanzioni per il possesso o l’uso di marijuana; particolarmente significative furono le decisioni 11. T.B. Edsall, M.D. Edsall, Chain Reaction: The Impact of Race, Rights, and Taxes on American Politics, W.W. Norton, New York 1991. 12. A. Wilson, Rockefeller Drug Laws Information Sheet, Partnership for Responsible Drug Information, <http://www.prdi.org/rocklawfact.html>, New York 2000. 13. W. Sabol, H. West, Prisoners in 2007, in U.S. Department of Justice, Bureau of Justice Statistics, Washington (D.C.) 2008, pp. 21-22. 14. U.S. Department of Justice, Sourcebook of Criminal Justice Statistics, Washington (D.C.) 2003, p. 444.

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del parlamento dello stato di New York di escludere la marijuana dall’elenco delle droghe cui l’avevano destinata le Rockefeller Drug Laws (1977) e, poco più tardi, di modificare l’intero provvedimento in senso meno restrittivo (1979). Più recentemente, gli elettori del Massachusetts hanno approvato per via referendaria la depenalizzazione del possesso di un’oncia (o meno)15 di marijuana o di droghe affini come l’hashish o l’olio di cannabis: sebbene il dibattito sulla depenalizzazione sia acceso e difficile, si è trattato di un’importante vittoria, conseguita da un movimento forte e organizzato. I suoi aderenti sostengono che la depenalizzazione da un lato garantirebbe il risparmio dei miliardi di dollari necessari per fare osservare le leggi che proibiscono il possesso della marijuana, e dall’altro ridurrebbe più o meno del 7 per cento la popolazione carceraria.16 Non è sorprendente che lo sviluppo dello stato penale abbia incontrato significative resistenze. Dopo tutto, è il neoliberalismo stesso che si trova a essere contestato. Per esempio, le sommosse francesi dell’estate del 2006 indussero il governo a ritirare le politiche neoliberali del lavoro relative alla categoria dei neoassunti (e miranti a facilitare il datore di lavoro nelle procedure di assunzione e di licenziamento dei nuovi lavoratori). Anche altrove vennero bloccati o respinti tentativi di imporre il welfare neoliberale e le riforme del mercato del lavoro, tanto che il neoliberalismo è riuscito a imporsi solo in un esiguo numero di paesi del mondo17 (su questo punto torneremo in seguito). E perfino negli Stati Uniti l’elezione di Barack Obama viene vista in molti ambienti come un ripudio politico della visione neoliberale. In altre parole, il neoliberalismo non ha nulla di ineluttabile: non esistono imperativi funzionali che ne sollecitino l’ascesa 15. Un’oncia equivale a poco meno di trenta grammi. [N.d.C.] 16. J. Austin, Rethinking the Consequences of Decriminalizing Marijuana, The National Organization for the Reform of Marijuana Laws, <http://norml.org/index.cfm?Group_ ID=6695>, Washington (D.C.) 2005. 17. J.L. Campbell, States, politics and globalization: Why institutions still matter, in T.V. Paul, G.J. Ikenberry, J.A. Hall (a cura di), The Nation State in Question, Princeton University Press, Princeton (N.J.) 2003, pp. 234-259; Id., Institutional Change and Globalization, Princeton University Press, Princeton (N.J.) 2004.

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o ne favoriscano il vigore, e non c’è alcun motivo per cui dovremmo considerare irreversibile la tendenza verso lo stato penale emersa in alcuni paesi. La seconda questione che intendo affrontare è l’analisi culturale elaborata da Wacquant a sostegno delle sue argomentazioni. Egli sostiene che il diffondersi della pornografia law and order sia una strategia culturale volta a rammentare agli individui che, se infrangeranno la legge, prima o poi verranno condotti di fronte alla giustizia. A provarlo sarebbe la proliferazione di serie tv e film ad ambientazione poliziesco-criminale. Ma qual è la causa di tale proliferazione, ammesso che davvero di ciò si tratti? Innanzitutto va rilevato che l’esposizione degli spettatori cinematografici e televisivi a esplicite rappresentazioni di condanna del crimine ha avuto inizio alcuni decenni prima dell’avvento del neoliberalismo. Ricordo i vecchi film di gangster degli anni trenta e quaranta con James Cagney e Edward G. Robinson. E serie televisive degli anni cinquanta, sessanta e primi settanta (come Dragnet, Mannix, Gli Intoccabili e Hawai Squadra Cinque Zero) piene di messaggi morali tesi a rammentarci che i trasgressori della legge sono canaglie destinate a essere catturate e punite. E i film western dello stesso periodo, nei quali rapinatori di banche, assassini, ladri di bestiame e di cavalli erano quasi sempre arrestati o uccisi dai tutori dell’ordine. Qual è dunque la novità? Ma anche ammettendo di trovarci di fronte all’imponente sviluppo di una sorta di cultura mediatica law and order, dovremmo per questo scorgervi i contorni di una strategia neoliberale che ammonisce la classe inferiore a comportarsi rettamente? O dovremmo piuttosto limitarci a registrare il moltiplicarsi delle opzioni produttive presenti sul mercato mediale? A partire dalla fine degli anni settanta abbiamo assistito all’affermarsi della tv via cavo e satellitare (e alla conseguente esplosione del numero di canali in cerca di programmi per i propri palinsesti). Negli anni cinquanta e sessanta gli americani potevano scegliere fra tre network e (forse) qualche emittente locale. Nel 1995 circa due terzi delle famiglie avevano sottoscritto un abbonamento alla tv via cavo 64


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comprendente fra i trenta e i cinquanta canali.18 Inoltre abbiamo assistito alla diffusione dei video VHS prima e dei DVD poi, così come alla produzione di un numero crescente di blockbuster movies. E quando l’Europa e altri mercati internazionali hanno allargato la propria apertura ai prodotti televisivi e cinematografici americani, Hollywood ha intensificato le risorse investite sui film d’azione convenzionali (compresi i polizieschi), che di norma non impiegano dialoghi troppo sofisticati e dunque non rischiano di andare incontro a problemi di traduzione sui mercati stranieri.19 Si potrebbe quindi sostenere che la proliferazione della pornografia law and order risponda alla domanda del mercato piuttosto che all’esigenza di controllare la condotta della classe inferiore. Inoltre, Wacquant non fornisce alcuna informazione sull’effettiva identità dei consumatori di questo genere di programmi. Il mio sospetto è che a guardare la pornografia law and order non sia soltanto la classe inferiore. E anche se l’intento di questi programmi fosse quello di mettere in guardia gli individui dai rischi connessi alle attività criminali, non sono certo che tale messaggio abbia buon esito. Da una parte la linea che separa i buoni dai cattivi, così limpida nei film e nelle serie tv degli anni cinquanta e primi sessanta, si è fatta da tempo meno netta, e ciò ha reso più ambigui i messaggi morali: il Dirty Harry di Clint Eastwood, per esempio, era un ispettore di polizia che infrangeva la legge.20 Dall’altra parte, alcune forme culturali odierne esaltano il crimine. Prendiamo il

18. S. Strover, United States: Cable Television, The Museum of Broadcast Communications, <http://www.museum.tv/archives/etv/U/htmlU/unitedstatesc/unitedstatesc.htm>, 2009. 19. M.P. Allen, A.E. Lincoln, Critical Discourse and the Cultural Consecration of American Films, “Social Forces”, 3, 2004, pp. 871-894. 20. Com’è noto, Dirty Harry (in italiano Ispettore Callaghan, il caso Scorpio è tuo), diretto da Don Siegel nel 1971, è il primo dei cinque film (disseminati lungo quasi due decenni) nei quali Clint Eastwood ha interpretato il ruolo dello sbrigativo ispettore della polizia di San Francisco Harry Callahan (senza la “g” inserita dalla traduzione italiana). Sarebbero seguiti Magnum Force (diretto da Ted Post nel 1973, in italiano Una 44 Magnum per l’ispettore Callaghan), The Enforcer (James Fargo, 1976, Cielo di piombo, ispettore Callaghan), Sudden Impact (lo stesso Eastwood, 1983, Coraggio... fatti ammazzare), The Dead Pool (Buddy Van Horn, 1988, Scommessa con la morte). [N.d.C.]

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genere culturale gangsta, e la popolarità di talune sue espressioni (la rap music, i videogiochi ecc.). Esso emerse nei primi anni ottanta causando profondo sconcerto nella classe media (tanto di destra quanto di sinistra), che lo accusava di magnificare la violenza, gli stupri, le gang di strada, le sparatorie in automobile, l’utilizzo di droghe: cioè proprio i comportamenti che la pornografia law and order si incaricherebbe di avversare. Insomma, mentre la pornografia law and order si presta a molteplici interpretazioni, oggi esiste un genere anti-law and order che spinge nella direzione opposta. La terza questione che suscita in me un particolare interesse ha a che fare con l’apparato militare. Se noi vogliamo studiare il sistema penale quale appendice dello stato neoliberale, allora dovremmo includere nella nostra analisi anche le forze armate, in quanto esse concorrono a governare gli effetti del diradarsi delle opportunità lavorative.21 Gli Stati Uniti sono passati a un sistema di arruolamento su base esclusivamente volontaria poco dopo la fine della guerra del Vietnam, vale a dire nello stesso periodo in cui il regime neoliberale iniziò ad affermarsi, e il mercato del lavoro a restringersi. Dalla fine della leva obbligatoria le forze armate hanno investito con decisione nei programmi di reclutamento rivolti agli individui appartenenti alle classi inferiori, ai quali promettono finanziamenti per il college (di cui godere alla fine del servizio prestato) e corsi di addestramento professionale diretti ad accrescere le opportunità di impiego nel momento in cui essi faranno ritorno al mercato del lavoro civile. Diverse ricerche indicano che questi incentivi hanno avuto un effetto positivo sui trend di reclutamento.22 21. È possibile tracciare un parallelo sociologico tra le prigioni e le strutture militari. Entrambe appartengono al novero di quelle “istituzioni totali” – secondo la definizione di E. Goffman, Asylums: Essays on the Social Situation of Mental Patients and Other Inmates, Penguin, New York 1961; trad. Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, Einaudi, Torino 2003 (ed. orig. 1968) – che esercitano un controllo radicale sui propri ospiti, sottoponendoli spesso a severi programmi di risocializzazione miranti a reindirizzarne la condotta secondo modalità socialmente più accettabili. 22. J.M. Polich, R. Fernandez, B. Orvis, Enlistment Effects of Military Educational Benefits: Rand Note, N-1783-MRAL, Rand Corporation, Santa Monica (Cal.) 1982.

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Tuttavia, ciò che è particolarmente interessante è che la qualità delle reclute è migliorata quando le politiche neoliberali hanno proceduto in maniera più spedita. Le forze armate definiscono reclute “scelte” coloro che possiedono un diploma di scuola superiore secondaria (o equivalente) e che si classificano nella metà superiore delle graduatorie dell’Armed Forces Qualification Test. Tra il 1976 e il 1992 le reclute “scelte” sono sensibilmente aumentate in ogni branca delle forze armate (nell’esercito, per esempio, sono passate da circa il 20 per cento a circa il 75 per cento). Secondo il Dipartimento della difesa i più sensibili tassi di incremento nel numero di reclute “scelte” si registrano in corrispondenza dei periodi di aumento della disoccupazione giovanile.23 Ciò suggerisce che quando diminuisce la domanda di lavoro relativamente dequalificato e a basso reddito, cresce il numero degli individui che si rivolgono all’apparato militare. In altre parole, non solo il sistema penale ma anche le forze armate assolvono una funzione sempre più importante nel controllo del lavoro eccedente generato dall’ascesa del neoliberalismo. In questo senso il sistema penale e il sistema militare sono le due facce della stessa medaglia. Con questo io non sostengo che l’apparato militare sia stato intenzionalmente (ri)progettato per far fronte alle conseguenze sociali delle politiche neoliberali, né che esso sia una componente funzionalmente necessaria del programma neoliberale. Allo stesso modo dello stato penale, il sistema militare svolge un ruolo essenziale tanto nel contenimento dei rischi della disoccupazione quanto nel disciplinamento della classe inferiore, ma non per questo dovremmo sostenere che esso è animato da una necessità strutturale o da un piano cospirativo. La classe media e lo stato debitore Wacquant limita la propria analisi dello stato neoliberale agli effetti che esso produce sulla classe inferiore. Ma che dire della classe media? Commetteremmo un errore se dessimo per scontato che 23. U.S. Department of Defense, Active Component Enlisted Applicants and Accessions, Office of the Undersecretary of Defense, <http://www.defenselink.mil/prhome/poprep 2004/enlisted_accessions/education.html>, Washington (D.C.) 2009, figura 2.8.

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la classe media tragga beneficio dalle politiche neoliberali (come la classe più elevata), ovvero se sottovalutassimo il fatto che alcuni importanti mutamenti nella struttura dello stato sono stati determinati dall’intento di controllare la condotta dei membri della classe media. Com’è noto, la stagnazione dei redditi in corso dagli anni settanta colpisce tanto la classe inferiore quanto la classe media. Dal 1947 al 1973 il tasso di crescita medio annuale del reddito mediano delle famiglie statunitensi, tenuto conto dell’inflazione, è stato del 2,8 per cento.24 In seguito, però, esso ha subìto un notevole rallentamento. Dal 1973 al 1979 è stato dell’1 per cento; dal 1979 al 1989 dello 0,6 per cento; e dal 1989 al 2000 dello 0,9 per cento (sebbene dal 1995 al 2000 sia stato del 2,3 per cento). Ma dal 2000 al 2003 il reddito mediano è diminuito a un tasso medio annuale dello 0,9 per cento.25 Questa lunga congiuntura ha reso sempre più ardua la difesa del tenore di vita di cui aveva goduto la generazione precedente, e ha provocato l’aumento del numero medio di lavoratori all’interno di una famiglia. La percentuale delle famiglie bigenitoriali di classe media con più di un percettore di reddito si è quindi impennata: in particolare, se nel 1949 esse comprendevano una moglie lavoratrice nel 20 per cento dei casi, questa percentuale ha raggiunto il 68 per cento nel 1996.26 E dal 1979 al 2000 l’insieme delle ore di lavoro di mariti e mogli del quintile mediano nella struttura di distribuzione del reddito è aumentato di oltre il 18 per cento.27 Negli anni novanta il reddito di molti nuclei familiari della classe media sarebbe cresciuto molto più lentamente se non fosse stato sorretto dall’accresciuto contributo del24. Il reddito mediano è la soglia reddituale che divide in due segmenti eguali (metà superiore e metà inferiore) una determinata struttura distributiva di reddito (individuata in ragione di variabili differenti: classi di soggetti, regioni spaziali, archi temporali ecc.). L’attendibilità del reddito mediano rispetto ad altri indicatori (quali, per esempio, il reddito medio) dipende dalla natura centripeta della sua composizione, ossia dalla sua attitudine a contenere l’incidenza dei dati statisticamente più anomali (verso l’alto o verso il basso). [N.d.C.] 25. L. Mishel, J. Bernstein, S. Allegretto, The State of Working America, 2004/2005, Cornell University Press, Ithaca (N.Y.) 2005, p. 42. 26. F. Levy, The New Dollars and Dreams: American Incomes and Economic Change, Russell Sage Foundation, New York 1998, cap. 2. 27. L. Mishel, J. Bernstein, S. Allegretto, The State of Working America, cit., p. 102.

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le mogli lavoratrici, e in non pochi casi esso sarebbe diminuito. Tutto ciò ha contribuito all’aumento dell’ineguaglianza dei redditi che si registra negli Stati Uniti a partire dagli anni settanta.28 Le ragioni di questi mutamenti nella crescita del reddito, nella partecipazione alla forza lavoro e nell’ineguaglianza dei redditi sono complesse e non devono interessarci in questa sede.29 Ciò che conta è il modo in cui le famiglie della classe media hanno provato a gestire questa situazione, e cioè indebitandosi. L’esposizione debitoria dei nuclei familiari è salita dall’80 per cento del reddito disponibile nel 1986 al 140 per cento nel 2007. Questo incremento è stato determinato in gran parte dall’aumento dei mutui ipotecari, ma anche i prestiti finalizzati ad altri scopi hanno inciso in maniera significativa: nel complesso, secondo gli osservatori, la crescita del debito è stata provocata dalla necessità di compensare la diminuzione media dei redditi reali. A ciò ha fatto riscontro, non sorprendentemente, un decremento nei risparmi delle famiglie: la percentuale dei risparmi netti delle famiglie sul reddito nazionale lordo è diminuita dall’11 per cento del 1974 all’1 per cento del 2003.30 Fin qui abbiamo fatto riferimento a cifre aggregate, relative all’insieme di tutte le classi. Ma il peso di questi rivolgimenti economici è gravato in misura sproporzionata sulla classe media. Per esempio, tra il 1992 e il 2001 le famiglie con reddito tra 40.000 e 90.000 dollari hanno pagato il servizio del debito più alto31 (in termini percentuali rispetto al reddito familiare) e caratterizzato dalla crescita più rapida. È ovvio che furono le famiglie con reddito inferiore a dover ricorrere in maggior misura a pagamenti dilazionati, e che nel loro caso – un servizio del debito che 28. L. Keister, Getting Rich: America’s New Rich and How They Got That Way, Cambridge University Press, New York 2005, p. 17; L. Mishel, J. Bernstein, S. Allegretto, The State of Working America, 1998/1999, Cornell University Press, Ithaca (N.Y.) 1999, tavola 1.6. 29. Sull’argomento, cfr. S. Danziger, P. Gottschalk, America Unequal, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1995; F. Levy, The New Dollars and Dreams, cit. 30. The Economist, When Fortune Frowned: A Special Report on the World Economy, 11 ottobre 2008; K.T. Leicht, S.T. Fitzgerald, Postindustrial Peasants: The Illusion of MiddleClass Prosperity, Worth, New York 2007. 31. Il servizio del debito è l’ammontare dei pagamenti dovuti per interessi, provvigioni e quote di restituzione del capitale in conformità a un contratto di finanziamento. [N.d.C.]

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ammonta al 40 per cento o più del reddito familiare – l’esposizione debitoria determina un’esistenza di durissime privazioni. Ma nemmeno le famiglie della classe media furono al riparo dalle nuove avversità.32 Ma come poterono le famiglie americane prendere in prestito tanto denaro, se – alla luce dell’incertezza dei loro introiti e del dissolversi dei loro risparmi – la loro capacità di rifondere quel debito sembrava destinata in partenza ad affievolirsi ulteriormente? La risposta sta nell’inedita opportunità di accedere a crediti a buon mercato, effetto congiunto di cinque differenti politiche governative. La prima di queste fu la deregolamentazione del settore bancario che ebbe inizio nei primi anni ottanta: alle banche che avevano sede in uno stato fu permesso di aprire nuove filiali in altri stati senza richiedere l’esplicita autorizzazione delle autorità locali. Ciò diede alle banche l’opportunità di trasferirsi negli stati che consentivano di applicare tassi di interesse più elevati, e scatenò una competizione tra gli stati stessi, i quali pur di attrarre o di non farsi sfuggire rilevanti flussi di capitali giunsero ad allentare le loro leggi sull’usura. La concessione di prestiti divenne un’attività più redditizia e le banche offrirono sempre più credito, spesso secondo nuove e più rischiose modalità (per esempio il rilascio di carte di credito agli studenti dei college).33 La seconda delle politiche governative che favorirono l’accesso al credito fu la modifica della disciplina obbligazionaria, che ebbe come conseguenza l’apertura di nuovi mercati del credito. Nel corso degli anni novanta, promosso dalle norme emanate nel decennio precedente dalla U.S. Securities and Exchange Commission (SEC),34 si sviluppò il mercato delle asset-backed securities 32. L. Mishel, J. Bernstein, S. Allegretto, The State of Working America, 2004/2005, cit., pp. 301-307. 33. K.T. Leicht, S.T. Fitzgerald, Postindustrial Peasants, cit., cap. 4. 34. Istituita nel 1934 in seguito al Wall Street Crash di cinque anni prima, la SEC è l’agenzia governativa statunitense che regolamenta il mercato azionario e obbligazionario e ha il potere di perseguire in sede civile i responsabili (individui o compagnie) di infrazioni delle normative vigenti. È composta da cinque commissari di nomina presidenziale (soggetta a ratifica del Senato), equilibrata in senso bipartisan (non più di tre membri possono apparte-

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(ABS). Le ABS consistono nell’impacchettamento, sottoscrizione e cessione di prestiti (mutui, debiti associati a carte di credito, debiti contratti per motivi di studio o per l’acquisto di beni mobili come le auto ecc.) e altri crediti in forma di obbligazioni. Circa il 70 per cento di questo mercato, che nel 2002 era costituito da titoli del valore complessivo di 6600 miliardi di dollari, comprende titoli ipotecari emessi principalmente da società garantite dallo stato, tra le quali in primo luogo Fannie Mae e Freddie Mac (prima che esse venissero rilevate dal governo nel 2008). Della parte restante, una frazione cospicua riguarda debiti associati a carte di credito, la cui cartolarizzazione attraverso le ABS fu inaugurata a metà anni ottanta dalla Banc One Corporation e gettò le fondamenta per quello che è oggi un mercato dal volume di 400 miliardi di dollari. Lo sviluppo dei mercati delle ABS contribuì in maniera diretta all’esplosione del debito al consumo registratasi negli Stati Uniti. Nel momento in cui gli operatori finanziari ebbero la possibilità di acquistare e vendere pacchetti di obbligazioni a condizioni particolarmente redditizie, la concessione di mutui e prestiti divenne un’attività più allettante: le società finanziarie presero così a offrire ai propri clienti più credito di quanto questi ne richiedevano – e, soprattutto, più di quanto essi erano capaci di sostenerne – e poi a negoziarne con ogni mezzo il rinnovo (per esempio, offrendo bassi tassi di interesse per il primo o i primi due anni di contratto, esca alla quale i consumatori abboccavano intravedendo nei prestiti un puntello per i loro incerti guadagni e i loro vacillanti risparmi). Tra il 1989 e il 2001 il debito da carte di credito raddoppiò da 4000 a 8000 dollari per famiglia.35 In terzo luogo, una volta che il mercato delle ABS iniziò a fiorire, il governo decise di non regolamentarlo. Le ABS sono derivati finanziari, ossia strumenti finanziari il cui valore deriva dal valore di qualcos’altro. Il valore dei derivati, per esempio un pacchetto di mutui, è derivato dal valore presunto del gruppo di obbligazioni che lo costituiscono. La crescente complessità di utilizzo di nere allo stesso partito) e modificata annualmente per un quinto (il 5 giugno di ogni anno scade il mandato di uno dei cinque commissari). [N.d.C.] 35. K.T. Leicht, S.T. Fitzgerald, Postindustrial Peasants, cit., cap. 5.

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questi strumenti fece progressivamente comprendere il rischio a essi connesso, ma al tempo stesso ne rese difficile la valutazione: fu per questo che nel 2003 il finanziere multimiliardario Warren Buffett definì i derivati “armi finanziarie di distruzione di massa”, e fu per questo che qualcuno invocò una più rigida regolamentazione del mercato delle ABS. Alla fine degli anni novanta il presidente della Commodities Futures Trading Commission36 propose di esigere dalle banche che emettevano ABS l’accantonamento di riserve di liquidi che coprissero le perdite derivanti da un eventuale moltiplicarsi di inadempimenti dei mutui da esse impacchettati, acquistati e venduti. Ciò avrebbe smorzato l’entusiasta disponibilità delle finanziarie a concedere crediti, perché esse sarebbero state costrette in molti casi a ingenti ricapitalizzazioni. La proposta finì però nel nulla a causa della decisa opposizione del presidente del Federal Reserve Board37 Alan Greenspan, del presidente della SEC Arthur Leavitt e del ministro del Tesoro Robert Rubin, ognuno di essi preoccupato che un’eccessiva regolamentazione avrebbe compromesso l’efficienza che essi credevano di riconoscere in questi nuovi, eccitanti e sempre più lucrosi mercati.38 Alla fine, al crepuscolo dell’amministrazione Clinton, il Congresso approvò il Commodity Futures Modernization Act, che sottrasse ufficialmente i derivati alla vigilanza del governo ed esclu36. Istituita nel 1972, la CFTC è l’agenzia governativa statunitense che regolamenta il mercato dei futures (contratti standardizzati a termine con i quali le parti si impegnano a scambiarsi alla scadenza prestabilita determinate merci e/o attività finanziarie ovvero – nel caso dei futures su indici – a liquidarsi delle somme di denaro calcolate sulla base della differenza tra il valore che l’indice concordato possiede in sede di stipula del contratto e il valore da esso assunto alla scadenza) e ha il potere di perseguire in sede civile i responsabili (individui o compagnie) di infrazioni delle normative vigenti. Le modalità della sua composizione e la cadenza del suo ricambio sono identiche a quelle della SEC (cfr. supra, nota 34). [N.d.C.] 37. Il Federal Reserve Board è il consiglio direttivo del Federal Reserve System (comunemente Federal Reserve e di qui Fed), ossia la banca centrale degli Stati Uniti (istituita nel 1913), che stabilisce la politica monetaria nazionale e vigila sulla stabilità del sistema bancario e finanziario. Il Board è composto da sette membri di nomina presidenziale (soggetta a ratifica del Senato) dei quali non più di due possono provenire dallo stesso Federal Reserve District (dei dodici a estensione macroregionale di cui si compone la struttura della Fed), e il cui mandato può raggiungere i quattordici anni (con scadenza comunque fissata il 31 gennaio di un anno pari); il suo attuale presidente (nominato nel 2006 e confermato lo scorso anno da Obama fino al 2014) è Ben Bernanke. [N.d.C.] 38. R. Wade, Financial Regime Change?, “New Left Review”, 53, 2008, p. 14.

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se dai poteri di regolamentazione della SEC alcuni tipi di credit default swaps,39 ossia obbligazioni del mercato ABS che proteggono i mutuanti dall’eventualità di inadempimento dei mutuatari. Se i potenziali acquirenti di ABS non avessero potuto contare sulla facoltà di esigere onerose protezioni assicurative, ben difficilmente se ne sarebbero sobbarcati il rischio, cosicché la decisione di non disciplinare i credit default swaps ebbe l’effetto di stimolarne l’emissione da parte delle società e dunque di contribuire all’ulteriore crescita del mercato delle ABS. Il concorso di questi fattori ha determinato il costante aumento della disponibilità di flussi di credito per la classe media. Il quarto indirizzo di politica economica che facilitò l’accesso al credito fu la compressione dei tassi di interesse da parte del Federal Reserve Board all’indomani del crollo sul mercato azionario delle società dot-com (2001) e della successiva recessione: per via di tale strategia – realizzata attraverso il contenimento all’1 per cento del tasso di interesse sui fondi federali,40 difeso per un anno, prima di un timidissimo ripensamento – i consumatori desiderosi di mantenere il proprio tenore di vita ebbero l’opportunità di acquistare credito a un costo sensibilmente basso. Ciò fu particolarmente evidente sul mercato immobiliare, che iniziò a offrire mutui a bassissimi tassi di interesse. Se si considera la combinazione con mutui anomali come i subprime mortgages – così definiti perché il tasso di interesse (variabile) che essi proponevano per i primi anni era spesso prossimo allo zero41 – si può dire che il governo incoraggiò di fatto le famiglie a contrarre più debiti. 39. Nella categoria degli swaps – derivati finanziari consistenti in contratti di scambio tra flussi finanziari (per esempio interessi su capitali di riferimento, pagamenti in valute eterogenee predeterminate, pagamenti indicizzati al valore di una commodity fissata, ecc.) da versarsi a cadenza periodica o a scadenza prestabilita – i credit default swaps sono contratti di assicurazione che prevedono il versamento di un premio periodico in cambio di un pagamento da riscuotere nel caso di fallimento di un’azienda di riferimento. [N.d.C.] 40. Il federal funds rate è il tasso di interesse che il Federal Reserve Board applica sui prestiti interbancari (salvo successive transazioni tra gli istituti interessati) cui le banche devono ricorrere nel momento in cui le proprie riserve presso il Federal Reserve System decrescono al di sotto della soglia imposta dalla legge e dunque necessitano di integrazione. [N.d.C.] 41. I subprime mortgages devono la loro definizione al fatto di essere mutui ipotecari “secondari” (subprime), ossia di qualità inferiore o imperfetta (il termine tuttavia è proprio del-

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Infine, il quinto fattore che provocò il dilagare del credito fu il proliferare dei subprime mortgages registratosi dopo il 2004 quale effetto dell’accresciuta attività su questo mercato dei due giganti del settore, Fannie Mae e Freddie Mac (società garantite dallo stato). La strategia di investimento di Fannie e Freddie – conseguenza della pressione politica di Washington, che intendeva espandere il finanziamento del segmento di mercato immobiliare accessibile alla classe media – incentivò a sua volta il volume dei prestiti, in quanto le finanziarie compresero di aver trovato compratori sempre disposti ad accollarsi i titoli dei quali esse avessero eventualmente voluto disfarsi. Tutto ciò, combinandosi con la politica dei bassi tassi di interesse perseguita dalla Fed, contribuì prima al boom del mercato immobiliare, poi all’aumento del valore degli la categoria generale dei prestiti [subprime loans], ivi inclusi i finanziamenti associati al rilascio di carte di credito o all’acquisto di beni di consumo). Essi si rivolgono agli individui che si vedono sbarrato l’accesso al canale convenzionale dei prime mortgages perché hanno alle spalle un incerto curriculum creditizio (bancarotte, insolvenze, morosità) e/o percepiscono un reddito troppo basso (normalmente non viene erogato un prestito la cui rata di rimborso gravi per oltre il 45 per cento sul reddito di riferimento) e/o forniscono garanzie troppo esigue a sostegno della loro liquidità: essi raggiungono insomma un punteggio di credito (score credit: in una scala da 300 a 850 la soglia minima alla quale si associa una probabile solvibilità è 620 circa) che li qualifica come incapaci in via presuntiva di soddisfare le condizioni standard del mercato primario dei mutui (la dicotomia prime/subprime distingue dunque tanto le strutture dei sistemi creditizi quanto i profili creditizi dei rispettivi mutuatari standard). Il mercato dei subprime mortgages (non a caso definiti anche second-chance mortgages) comporta più sfavorevoli condizioni di ammortamento, volte appunto a compensare il rischio accettato dal mutuante nel concedere un credito a un mutuatario non pienamente affidabile: esse consistono normalmente in alti oneri accessori, cospicue penalità nel caso di morosità o di superamento dei limiti di spesa fissati dai contratti relativi all’utilizzo di carte di credito, e soprattutto tassi di interesse decisamente superiori a quello di mercato. La categoria di mutui disastrosamente affermatasi alla fine degli anni novanta (denominata “2-28”, con varianti dipendenti dalla durata del contratto) concedeva un tasso di interesse fisso e molto basso nei primi due anni di rimborsi ma ne imponeva uno variabile (normalmente agganciato a indici predeterminati) ed elevato negli anni successivi, tale cioè da ripristinare in capo al mutuante un consistente margine di rientro sulle spese sostenute e di remunerazione dell’alea intrapresa, e in capo al mutuatario il persistente incombere del reiterato inadempimento e dunque del pignoramento dell’abitazione (o dell’immobile ipotecato). Com’è noto, all’origine del collasso economico del 2008 fu proprio la crisi dei subprime, causata dall’azione incrociata del rialzo dei tassi di interesse, che provocò l’insolvenza di troppi mutuatari, e della implosione del mercato immobiliare, che depotenziò o neutralizzò le garanzie da essi presentate a sostegno della loro esposizione debitoria (e detenute in gran parte da società quotate in Borsa, i cui titoli crollarono destabilizzando il mercato azionario e di qui destrutturando l’ordine fiduciario degli investimenti e generando una contrazione diffusa e circolare delle transazioni). [N.d.C.]

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immobili e infine allo scoppio della bolla nel 2008, quando la Fed cominciò a rialzare i tassi di interesse per controllare l’inflazione e in tal modo provocò l’impennarsi dei tassi di interesse dei mutui ipotecari a tasso variabile, al punto che i debitori non poterono più permettersi di adempiere ai pagamenti in scadenza e finirono per subire il pignoramento delle proprie abitazioni.42 Questi eventi, com’è noto, innescarono la crisi finanziaria mondiale del settembre 2008. Quale lezione dovremmo trarre da tutto ciò? Di sicuro possiamo ridefinire lo stato neoliberale quale dispositivo regolativo rivolto non solo alla classe inferiore, come proposto da Wacquant, ma anche alla classe media. Se parliamo di sviluppo dello stato penale neoliberale, allora dobbiamo parlare anche dello sviluppo di quello che chiameremo stato debitore neoliberale. Entrambi sono il risultato delle politiche neoliberali, ed entrambi hanno prodotto effetti perversi sui rispettivi obiettivi: l’aumento dei tassi di carcerazione nella classe inferiore e l’aumento dei tassi di indebitamento – e, più recentemente, di pignoramento immobiliare – nella classe media. In altri termini, dalla metà degli anni settanta la responsabilità dell’impulso all’economia passò dalla spesa pubblica di tipo keynesiano alla spesa al consumo finanziata dal debito, secondo un mutamento alimentato dalla decisa espansione dei mercati del credito privato con l’incoraggiamento di diverse politiche governative. Naturalmente si tratta di un’evoluzione coerente con i principî del neoliberalismo, giacché segna la riduzione del ruolo dello stato nell’economia in favore delle forze del mercato. Vale la pena di notare brevemente che la disponibilità di capitale proveniente dalle riserve di paesi stranieri, quali per esempio la Cina, contribuì alla compressione dei tassi di interesse e all’espansione delle opportunità di credito a buon mercato negli Stati Uniti. A questo riguardo furono significativi tanto il ruolo giocato dalle politiche governative nell’agevolare il flusso dei capitali transnazionali, quanto l’egemonica posizione finanziaria degli 42. The Economist, When Fortune Frowned, cit., pp. 10-20.

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Stati Uniti, e in particolare la consolidata forza del dollaro (valuta delle riserve mondiali dalla fine della Seconda guerra mondiale) che rese possibile il ricorso a ingenti prestiti sui mercati internazionali di capitale. La classe superiore e lo stato neoliberale Wacquant sostiene correttamente che in epoca neoliberale abbiamo assistito allo sviluppo di uno stato centauro: liberale in alto, nei confronti della classe superiore e della classe media, e paternalista in basso, nei confronti della classe inferiore. Ma quel liberalismo non è stato egualmente al servizio della classe superiore e della classe media. A questo proposito sarà utile formulare due rapide osservazioni. In primo luogo, dal momento del suo affermarsi negli Stati Uniti, il neoliberalismo ha distribuito in maniera sproporzionata i propri vantaggi al 20 per cento più ricco della società, non certo alla classe media. Questo dato si riflette non solo nell’aumento dell’indebitamento della classe media, ma anche nella crescita dell’ineguaglianza. Nel 1971 il quintile superiore delle famiglie percepiva circa il 43 per cento del reddito totale, ma nel 2001 questa percentuale è cresciuta al 50 per cento. Nello stesso arco di tempo la percentuale di reddito del quintile mediano è scesa dal 17 per cento al 14 per cento. In realtà, dagli anni settanta è andata declinando la percentuale di reddito di tutti e quattro i quintili inferiori della distribuzione del reddito.43 In secondo luogo, ciò è dovuto almeno in parte alle politiche governative, e non al mero funzionamento di un mercato finalmente libero e sregolato. In particolare, la classe superiore ha beneficiato di numerosi tagli fiscali che, alla maniera di un occulto welfare state,44 hanno contribuito alla redistribuzione del reddito verso l’alto. Più precisamente, i tagli dell’amministrazione Bush del 2003 sono stati attentamente disegnati per favo-

43. K.T. Leicht, S.T. Fitzgerald, Postindustrial Peasants, cit., p. 53. 44. C. Howard, The Hidden Welfare State: Tax Expenditures and Social Policy in the United States, Princeton University Press, Princeton (N.J.) 1997.

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rire il 20 per cento più ricco delle famiglie, e ancora più massicciamente l’1 per cento superiore. Ma questo non sorprende: la disciplina fiscale è disseminata di scappatoie ed eccezioni che recepiscono le istanze dei più potenti gruppi lobbystico-finanziari, a riprova del fatto che per esercitare una significativa influenza sulla politica economica di Washington si deve disporre di un genere di risorse accessibile pressoché esclusivamente alla classe superiore.45 La sovrageneralizzazione dello stato neoliberale I miei rilievi finali riguardano la tendenza di Wacquant a trarre conclusioni di natura troppo generale a proposito dello stato neoliberale. In particolare, credo che si debba stare attenti a non sopravvalutare l’espansione internazionale del neoliberalismo (nonché ciò che essa implicherebbe, vale a dire l’ascesa dello stato penale, la diffusione della pornografia law and order, e così via). Esistono sostanziali differenze nei modi in cui le diverse nazioni hanno adottato e gestito le politiche neoliberali.46 Wacquant descrive ripetutamente il neoliberalismo come un sistema politico-istituzionale emerso da una forma di produzione postfordista/postkeynesiana, e rinuncia a prendere in considerazione le varianti 45. D. Clawson, A. Neustadtl, M. Weller, Dollars and Votes: How Business Campaign Contributions Subvert Democracy, Temple University Press, Philadelphia 1998. 46. J.L. Campbell, Institutional Change and Globalization, cit., cap. 5; P.A. Hall, D. Soskice (a cura di), Varieties of Capitalism: The Institutional Foundations of Comparative Advantage, Oxford University Press, New York 2001; B. Hancké, M. Rhodes, M. Thatcher (a cura di), Beyond Varieties of Capitalism: Conflict, Contradictions, and Complementarities in the European Economy, Oxford University Press, New York 2007. Lo stesso però deve dirsi a proposito delle singole nazioni. Alcune parti dello stato americano sono molto meno neoliberali di altre (J.L. Campbell, J. Rogers Hollingsworth, L.N. Lindberg, a cura di, Governance of the American Economy, Cambridge University Press, New York 1991). Il Dipartimento della difesa, per esempio, dai primi anni ottanta ha speso miliardi di dollari in ricerca e sostegno allo sviluppo (cfr. Defense Advanced Research Projects Agency, <http://www.darpa.mil/index.html>); il governo federale ha erogato ingenti sussidi per l’agricoltura; e i governi statali intraprendono spesso progetti di politica industriale (J.C. Jenkins, K. Leicht, H. Wendt, Class Forces, Political Institutions, and State Intervention: Subnational Economic Development Policy in the United States, 1971-1990, “American Journal of Sociology”, 4, 2006, pp. 1122-1180; J. Whitford, The New Old Economy: Networks, Institutions, and the Organizational Transformation of American Manufacturing, Oxford University Press, New York 2005). È legittimo ritenere che la filosofia neoliberale sia profondamente avversa a ognuna di queste politiche statali.

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nazionali. È vero che egli riconosce le differenze esistenti tra i tassi di carcerazione dei diversi paesi (affermando che essi si sono impennati negli stati piegatisi al modello neoliberale americano), ma in generale le sue argomentazioni tengono scarsamente conto degli elementi di difformità tra le politiche economiche e sociali delle diverse nazioni. Questo è un problema perché nemmeno i governi conservatori più vicini al neoliberalismo hanno sistematicamente adottato le riforme neoliberali. Per esempio, un partito che si proclama neoliberale è stato il membro più importante della coalizione bipartitica che ha governato la Danimarca negli ultimi otto anni: esso però si è contentato di armeggiare ai margini del fiorente welfare state ricevuto in eredità, senza trasformarlo nel workfare state descritto da Wacquant e senza sviluppare alcunché di simile al dilatato stato penale degli Stati Uniti.47 Ciò che appare interessante, infatti, è che gli Stati Uniti sono sempre stati più neoliberali della gran parte degli altri paesi avanzati, e che sono stati soprattutto i paesi anglosassoni ad aver abbracciato il neoliberalismo e ad aver perduto diversi tratti socialdemocratici; al contrario, i paesi continentali come Germania, Italia e Spagna rimangono cristiano-democratici, i paesi scandinavi rimangono socialdemocratici e i paesi dell’Est asiatico come Giappone e Corea del Sud conservano un forte orientamento statuale.48 Nel ritrarre la diffusione mondiale del neoliberalismo dobbiamo quindi avere cura di non procedere per pennellate troppo ampie e approssimative. Il problema della sovrageneralizzazione si è mostrato con particolare evidenza nei modelli teorici maggiormente sensibili alle tendenze strutturali del capitalismo. Il funzionalismo strutturale, la teoria della modernizzazione, le riflessioni neomarxiste, alcune recenti versioni della teoria della 47. J.L. Campbell, O.K. Pedersen, The Varieties of Capitalism and Hybrid Success: Denmark in the Global Economy, “Comparative Political Studies”, 2, 2007, pp. 307-332. 48. B. Hancké, M. Rhodes, M. Thatcher (a cura di), Beyond Varieties of Capitalism, cit.; P.J. Katzenstein, Between Power and Plenty: Foreign Economic Policies of Advanced Industrial States, University of Wisconsin Press, Madison 1979.

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globalizzazione: ognuno di questi filoni analitici descrive un complesso di forze strutturali che più o meno ineluttabilmente sospingono i paesi verso un repertorio condiviso di istituzioni politico-economiche.49 È la stessa trappola in cui cade Wacquant, attiratovi dalla sua concezione strutturalista (sorretta peraltro da un’analisi piuttosto astratta del crollo del modo di produzione fordista-keynesiano e dell’affermarsi di quello neoliberale). In altre parole, lo sviluppo dello stato penale quale appendice essenziale di un più esteso e articolato stato neoliberale potrebbe essere un fenomeno più peculiarmente statunitense di quanto la cornice teorica utilizzata da Wacquant permetta di scorgere. Non solo: in America lo stato neoliberale potrebbe star già ripiegando. Dopo tutto, l’ultraneoliberale amministrazione Bush e la nuova amministrazione Obama, con il loro complessivo piano di spesa di 1400 miliardi di dollari stanziati dal settembre 2008 a oggi per salvare il sistema finanziario e rilanciare l’economia, hanno già riportato pienamente in vita lo stato keynesiano (di qui il popolare gioco di parole secondo il quale Bush è entrato in carica come conservatore sociale e ne è uscito come socialista conservatore). È possibile quindi che perfino in America, per gli effetti imprevisti delle politiche economiche all’origine dello stato debitore e della crisi finanziaria, l’era neoliberale si stia già spegnendo. Conclusione Per concludere, gli argomenti di Wacquant sono interessanti e provocatori. La sua analisi contiene diversi elementi che dovrebbero essere presi più seriamente dagli scienziati sociali, e mi ha spinto a prendere in considerazione l’ipotesi che non solo la classe inferiore, ma anche la classe media subisce gli effetti dei mutamenti innescati dalle politiche dello stato neoliberale. Sospetto però che Wacquant attribuisca una portata troppo generale a una tesi il cui livello teorico è eccessivamente astratto per rendere conto delle varianti politiche e istituzionali che differenziano i tanti paesi ca49. J.L. Campbell, Institutional Change and Globalization, cit.

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talogati sotto l’accogliente e generica etichetta del postfordismopostkeynesismo: la sua pertinenza sembra in realtà circoscritta all’eccezionale percorso evolutivo del sistema politico-istituzionale statunitense.

Traduzione dall’inglese di Massimo Gelardi

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Neoliberalismo e neofunzionalismo: la logica opaca del capitale FRANCES FOX PIVEN

noi accademici piace coniare nuovi termini. “Neoliberalismo” è oggi uno tra quelli che godono di maggiore simpatia, soprattutto a sinistra. Esso designa una nuova specie di capitalismo, alimentata da una logica del tutto inedita. Mentre in regime fordista lo stato regolava i mercati, in quello neoliberale i soggetti che operano sui mercati hanno colonizzato lo stato convertendo la sua autorità al progetto dell’espansione degli scambi e dell’incremento dei profitti a spese dei gruppi subalterni. In altre parole, neoliberalismo significa che lo stato svolge un ruolo più attivo nel tradizionale progetto capitalista di dominio di classe mettendo a punto politiche rivolte allo smantellamento delle modalità fordiste di regolamentazione dell’economia privata (ossia orientate alla modifica delle discipline di protezione del lavoro, alla privatizzazione di larghi settori dell’attività statale, allo slittamento degli oneri fiscali dal settore delle imprese a quello pubblico e all’impiego delle forze militari imperiali nei paesi dell’emisfero sud del mondo al triplice scopo di sfruttarne le risorse naturali, i mercati e la forza lavoro). In conclusione, il neoliberalismo è un nuovo progetto politico volto ad accrescere il potere e la ricchezza del capitalismo. Molti di noi concordano con questa descrizione dell’attuale fase dello sviluppo capitalistico, così come sulla natura degli eventi

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Titolo originale: Response to Wacquant.

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economici e politici che l’hanno innescata. Normalmente si rileva l’emergere di due fonti di tensione o di crisi all’indomani della Seconda guerra mondiale. La prima è l’accresciuta competizione tra sistemi capitalistici nazionali, determinata dall’espansione produttiva di Giappone ed Europa occidentale che ha rimesso in gioco la porzione di mercato tradizionalmente controllata dalle imprese americane. La seconda è la crescita del potere della classe lavoratrice (nonché di altri gruppi subalterni), che ebbe inizio con l’affermarsi dei movimenti di protesta durante la Grande depressione e proseguì per tutti gli anni sessanta contribuendo in maniera decisiva allo sviluppo della spesa sociale, al miglioramento dei salari e all’irrigidimento dei vincoli sulle attività delle imprese, tutti ingredienti costitutivi del patto sociale che ha conferito stabilità all’Occidente nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale. Questi successi provocarono l’aumento del costo del lavoro, dei costi di produzione e del prelievo fiscale, e finirono per generare una compressione dei margini di profitto. Il duplice fenomeno dell’intensificarsi della concorrenza internazionale e della compressione dei margini di profitto imposta dallo stato fordista giunse a parallela saturazione nei primi anni settanta, quando i movimenti che avevano sostenuto il potere della forza lavoro avevano ormai ripiegato. Era il momento giusto per una mobilitazione politica del capitale che puntellasse i profitti attraverso la neutralizzazione dei costi derivanti dall’interventismo legislativo, dalla spesa sociale e dagli incrementi dei salari. Sembra tutto molto chiaro. Ma fino a che punto una logica così generale è capace di dare conto dell’adozione di particolari misure politico-economiche? In Punire i poveri Wacquant descrive il neoliberalismo come un progetto transnazionale sostenuto da una classe dirigente emergente che opera su scala globale.1 Egli, tuttavia, è interessato a spiegare non tanto il neoliberalismo quale sistema politico-economico, ma piuttosto quelle che considera le nuove forme di controllo sociale dei poveri attivate dallo stato 1. L. Wacquant, La disciplina produttiva: fisionomia essenziale dello stato neoliberale (2009), in questo fascicolo.

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in ossequio alla logica predatoria del neoliberalismo. Sebbene non sia sempre chiaro in proposito,2 Wacquant fa riferimento principalmente agli Stati Uniti, dove perlopiù conduce la sua ricerca da ormai due decenni. E tra i diversi processi di trasformazione del sistema politico-sociale statunitense egli seleziona lo slittamento dal welfare (e dalle politiche di sostegno rivolte alle classi inferiori di reddito) al workfare e l’enorme espansione del sistema penale, che giudica strettamente imparentati e che rappresenterebbero una “innovazione istituzionale senza precedenti” sollecitata dai nuovi imperativi generati dal neoliberalismo.3 Più specificamente, Wacquant sostiene che la logica del neoliberalismo esige nuove politiche destinate ad affrontare i disordini che la deregolamentazione del mercato produce all’interno delle sfere sociali meno privilegiate: esprimendoci in un linguaggio appena diverso, potremmo dire che le nuove politiche sono funzionali al regime neoliberale. Se rimaniamo su un livello analitico generale, non dissento da Wacquant. L’affermarsi del workfare e l’espansione del sistema penale hanno trasformato in maniera significativa le politiche statali, e sono fenomeni associati a quell’insieme di mutamenti che – ristrutturando in primo luogo il mercato del lavoro – hanno fatto dell’economia politica capitalista contemporanea ciò che definiamo neoliberalismo. Eppure, a dispetto della nostra generale convergenza di vedute, credo che l’analisi di Wacquant non sia del tutto soddisfacente, e ciò per due ragioni. La prima è che, poiché ritengo che esistano considerevoli elementi di continuità tra il capitalismo fordista e quello neoliberale, ritengo anche che esistano considerevoli elementi di continuità tra le politiche generate dai rispettivi regimi, e sono convinta che Wacquant sottovaluti tali elementi. La seconda e più importante ragione è che mentre appare fondato sostenere che il workfare possieda un’attitudine “funzionale” in quanto consolida 2. Wacquant utilizza dati empirici che si riferiscono in gran parte agli Stati Uniti, ma al tempo stesso sottolinea che quella statunitense è una politica pionieristica assunta altrove come modello. Cfr. per esempio L. Wacquant, Ordering Insecurity: Social Polarization and the Punitive Upsurge, “Radical Philosophy Review”, 1, 2008, pp. 9-27. 3. Id., La disciplina produttiva, cit.

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il mercato del lavoro insicuro e sottopagato, mi sembra arduo rinvenire nel congestionato sistema penale statunitense – denominato da Wacquant “santuario del Leviatano neoliberale” e “organo cruciale dello stato”4 – una qualche funzionalità. In generale, è la tendenza a trattare le innovazioni politico-istituzionali come funzionali a un determinato regime a essere insidiosa, perché essa finisce per occultare il potenziale di opposizione e resistenza che quelle politiche sono in grado di generare. Innanzitutto, quanto è nuovo il “workfare” americano? Wacquant si rifà alla distinzione formulata da Bourdieu tra la sinistra e la destra dello stato, l’una titolare delle politiche materne o di cura (che si articolano nel welfare state) e l’altra responsabile delle funzioni di coercizione e di controllo poliziesco.5 Ma, se il suo modello sono gli Stati Uniti, è necessario notare che le politiche materne o di cura rivolte ai poveri dal governo americano sono sempre state scarsamente sviluppate. È vero che la riorganizzazione del welfare americano ha assegnato nel corso degli anni novanta un ruolo importante al lavoro obbligatorio. Ma questo è sempre stato l’orientamento centrale dei programmi di welfare, perseguito attraverso l’erogazione di sussidi miserabili (di entità variabile su base locale, ma ovunque inferiore al salario dei lavoratori meno qualificati), la statuizione di criteri di eleggibilità particolarmente restrittivi e infine la formalizzazione di trattamenti umilianti da riservarsi a coloro che, riuscendo a superare le erte barriere amministrative, divenivano beneficiari delle prestazioni assistenziali. È vero che i programmi di sostegno del reddito vennero ampliati e accresciuti sotto la pressione dei movimenti di protesta degli anni sessanta, ma si trattò di una breve parentesi: all’inizio degli anni settanta la protesta si spense e il valore reale dei sussidi conobbe un rapido declino. Nel 1996, quando il welfare venne riformato in nome dei principî del lavoro e della responsabilità individuale, il sussidio medio ammontava a meno di 400 dollari al mese per famiglia. Wacquant scrive che la riforma ha da una parte 4. Ibidem. [N.d.C.] 5. P. Bourdieu, Contre-feux, Raisons d’agir Éditions, Paris 1998; trad. Controfuochi: argomenti per resistere all’invasione neo-liberista, Reset, Roma 1999.

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sostituito il diritto dei bambini indigenti all’assistenza statale con l’obbligo per i loro genitori di trovare lavoro entro un periodo di due anni, e dall’altra ha assoggettato i beneficiari dei programmi di welfare a pratiche intrusive di rigido controllo della condotta.6 Ma in questo, contrariamente a quanto egli sostiene, non c’è nulla di nuovo. Non c’è mai stato un diritto dei bambini indigenti al sostegno statale, i loro genitori hanno sempre dovuto esibire la loro appartenenza attiva alla forza lavoro, e all’erogazione delle prestazioni assistenziali è sempre stato associato il controllo della condotta dei beneficiari. Ed è stato nel 1967, dunque quando l’espansione delle prestazioni assistenziali in risposta ai tumulti dei ghetti urbani era già avanzata, che il parlamento ha cominciato a pretendere dalle madri a carico del welfare che esse lavorassero o frequentassero corsi di avviamento professionale.7 Ciò che è nuovo nella riforma del 1996 non è l’induzione al lavoro ma il rinnovato vigore amministrativo conferito a tale obiettivo a causa dell’accresciuta partecipazione delle donne alla forza lavoro. Gran parte della legge era rivolta alla struttura degli incentivi dei programmi ed ebbe l’effetto di spingere i governi statali e gli amministratori locali a sanzionare più liberamente gli assistiti e a esigere più energicamente l’esecuzione di prestazioni lavorative (anche non retribuite). Ciò significò l’abbattimento della protezione politico-culturale che la distinzione dei ruoli in base al genere aveva fin lì assicurato alle donne con figli. A dire il vero, le donne appartenenti alle classi meno agiate, e in particolare le donne afroamericane, avevano sempre lavorato. Ora però è del tutto screditata l’idea che alle donne con figli vadano riconosciuti taluni esigui privilegi assistenziali in ragione dei differenti obblighi che esse sono costrette ad affrontare.8 6. L. Wacquant, The place of the prison in the new government of poverty, in M.L. Frampton, I. Haney Lopez, J. Simon (a cura di), After the War on Crime: Race, Democracy, and a New Reconstruction, New York University Press, New York 2008, p. 28. 7. F. Fox Piven, R.A. Cloward, Regulating the Poor: The Functions of Public Welfare, Pantheon Books, New York 1971, p. 344 (nuova edizione: Vintage Books, New York 1993). 8. Sull’argomento, e in particolare sul ruolo della seconda ondata femminista nella giustificazione di tale mutamento, cfr. N. Fraser, Feminism, Capitalism, and the Cunning of History, “New Left Review”, 56, 2009, pp. 97-118.

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Nella teoria della ristrutturazione della forma statuale quale risposta agli imperativi neoliberali Wacquant assegna alla tesi dello sviluppo del sistema penale (parallelo al diffondersi del workfare) una funzione più importante. Egli scrive: “L’inadeguatezza dello stato sociale a fronte degli effetti delle politiche di deregulation sollecita e rende necessaria la magnificenza dello stato penale”.9 L’espansione del sistema penale che ebbe luogo a partire dagli anni settanta fu davvero massiccia e spaventosa, e non solo perché da allora milioni di giovani uomini (perlopiù appartenenti a minoranze) sono stati incarcerati, ma anche perché, una volta etichettati, i criminali sono stati stigmatizzati per sempre e consegnati all’economia di strada. Wacquant afferma che la prigione è uno spazio analogo al ghetto in quanto l’una e l’altro rinchiudono ed emarginano interi gruppi sociali, e ritiene che il rafforzamento del sistema carcerario sia sostenuto dalla logica politica del neoliberalismo, vale a dire dalla “costruzione di uno stato postkeynesiano e liberal-paternalista idoneo a istituire una forma desocializzata di lavoro salariato e a diffondere la rinnovata etica del lavoro e della responsabilità individuale che sorregge e giustifica tale obiettivo”.10 Gran parte di ciò che dice Wacquant sul sistema penale è vero. È di dimensioni spropositate e processa diversi milioni di individui, in grande maggioranza poveri appartenenti a minoranze.11 È costoso e assorbe quote sempre più cospicue dei bilanci pubblici. E la sua espansione è stata brusca e rapida. Tuttavia mi chiedo: esiste davvero una logica politica unitaria che alimenta lo sviluppo del sistema penale? E quella logica riflette davvero gli imperativi del neoliberalismo? E, in termini sistemici, esiste una qualunque logica nell’incarcerazione di massa? 9. L. Wacquant, Ordering Insecurity, cit., p. 27. 10. Id., The place of the prison in the new government of poverty, cit., p. 31. 11. Alla fine del XX secolo il tasso di carcerazione è cresciuto tra tutti i gruppi demografici, ma si è impennato tra le minoranze. Timothy Black riporta che nel 2003 sono stati incarcerati 717 uomini bianchi su 100.000 contro 4919 uomini neri su 100.000 e 1717 uomini ispanici su 100.000, nonché 81 donne bianche su 100.000 contro 359 donne nere su 100.000. Cfr. T. Black, When a Heart Turns Rock Solid: The Lives of Three Puerto Rican Brothers On and Off the Streets, Pantheon Books, New York 2009, pp. 218-219.

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Io credo che l’espansione carceraria promossa nell’ultimo quarto del XX secolo sia stata alimentata da logiche diverse. Un forte impulso alla costruzione di nuove prigioni, all’adozione del minimo obbligatorio dell’entità della pena e all’approvazione di leggi che inasprissero le pene per i reati correlati all’uso di stupefacenti è stato fornito dalla politica elettorale, e in particolare dalla cosiddetta “strategia sudista” repubblicana della demonizzazione degli afroamericani, intesa a strappare i votanti bianchi al Partito democratico (al quale i neri vengono tradizionalmente associati). Ciò si notò in primo luogo nella politica nazionale, come dimostrano le iniziative law and order intraprese già dall’amministrazione Nixon. Ed ebbe ripercussioni anche sui democratici, che si trovarono in serie difficoltà quando dovettero elaborare strategie elettorali idonee a respingere l’assalto repubblicano. Dopo tutto fu Bill Clinton a utilizzare il suo discorso sullo stato dell’Unione del 1994 per comunicare il suo sostegno alle leggi “Three strikes and you’re out”12 che condannavano le persone al carcere a vita, e a 12. Mutuata dal linguaggio del baseball (strike è l’infrazione commessa dal battitore che manca la palla scagliata dal lanciatore avversario ovvero la colpisce o indirizza scorrettamente: tre strikes comportano la sua eliminazione), l’espressione “three strikes and you’re out” designa le leggi che negli Stati Uniti infliggono lunghe pene detentive (e precludono riduzioni o privilegi) a coloro che in passato siano stati già condannati per almeno due reati. A inaugurare il nuovo corso legislativo fu la legge AB971 dello stato della California, promulgata il 7 marzo 1994 (e confermata l’11 novembre successivo dalla consultazione popolare che approvò con una maggioranza del 72 per cento la Proposition 184 che ne riprendeva il dettato): essa condannava a una pena variabile da venticinque anni all’ergastolo, con esclusione della libertà condizionata, il responsabile di un qualunque reato che in passato fosse stato giudicato colpevole di crimini “violenti” o “seri”, gli uni e gli altri tassativamente formulati (tra i primi l’omicidio, la rapina a mano armata, lo stupro; tra i secondi il furto in appartamento o l’aggressione a scopo di rapina o di stupro). La conseguenza fu, per esempio, che Leandro Andrade venne condannato a cinquant’anni di prigione per aver rubato nove videocassette dopo essere stato condannato in passato due volte per furto in appartamento: fu uno dei due casi che sollecitarono la pronuncia della Corte suprema, la quale – interpellata dallo stato della California dopo che la U.S. Court of Appeals for the Ninth Circuit aveva annullato la precedente sentenza di condanna (Andrade v. Attorney General of State of California, 270 F.3d 743, 9th Cir., 2001) – sancì che le pene previste dalle three strikes laws non integrano il “trattamento crudele e inusuale” proibito dall’Ottavo emendamento della Costituzione (Lockyer v. Andrade, 538 U.S. 63, 2003; in termini analoghi, seppure su differente base procedurale, la Corte si pronunciò lo stesso giorno sul caso di Gary Ewing, condannato a venticinque anni di prigione con esclusione della libertà condizionata per aver rubato tre mazze da golf dopo aver commesso in passato tre furti in appartamento: cfr. Ewing v. California, 538 U.S. 11, 2003). Nel giro di qualche anno l’indirizzo tracciato dalla Ca-

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far avvertire poi il suo supporto al Violent Crime Control and Law Enforcement Act.13 Ma gli usi elettorali del crimine e della pena non rimasero circoscritti alla politica nazionale. Il numero delle prigioni statali aumentò molto più rapidamente nel momento in cui i candidati alle elezioni per governatore decisero di trarre vantaggio dalla politica di reazione al crimine che dominava le campagne elettorali nazionali. Difficilmente il tasso di carcerazione sarebbe cresciuto così vertiginosamente senza la spinta delle numerose competizioni elettorali che hanno scandito, assecondato e amplificato il rinnovato clima politico-culturale. Ma non si trattò solo delle sfide elettorali. Seguendo la stessa dinamica che mosse a suo tempo il complesso militare-indulifornia venne seguito da un cospicuo numero di assemblee statali nonché dal governo federale (che incluse la propria three strikes law nel Violent Crime Control and Law Enforcement Act del 1994: cfr. L. Wacquant, La disciplina produttiva, cit., nota 13), sebbene le prime e l’ultimo segnando un’importante differenza: anche il terzo reato doveva far parte dei crimini tassativamente indicati come “seri” o “violenti” (non mancarono tuttavia significative differenze nella costruzione di tali tipologie di reato, nonché nelle pene previste); fece eccezione la Georgia, che giunse a dotarsi di una two strikes law. Attualmente sono ventisei gli stati che contemplano three strikes laws nella propria legislazione (va qui precisato che il reale pioniere di questo percorso normativo, peraltro debitore a sua volta del tradizionale ed eterogeneo sistema delle misure speciali per gli habitual offenders, fu lo stato di Washington, D.C., la cui three strikes law del 1993 aveva però destato scarso interesse perché il suo ambito di applicazione era circoscritto a un esiguo numero di reati particolarmente gravi). A prescindere da ovvie considerazioni sulla giustezza della pena (la cronaca giudiziaria nazionale riferisce anche di condanne a venticinque anni di carcere inflitte per il furto di una fetta di pizza al salame o per la sottrazione di due batterie da 2,69 dollari, ovvero per il consumo di alcolici non pagati all’interno di un emporio), le three strikes laws hanno fin qui esibito un’efficacia molto dubbia (fatta eccezione per California e Georgia, la gran parte degli stati le ha applicate in maniera estremamente sporadica, con ciò fallendo lo scopo dichiarato di proteggere la sicurezza pubblica), allargano esponenzialmente la portata discrezionale dell’accusa (fisiologicamente operante tanto nell’individuazione delle fattispecie di reato quanto nel loro computo numerico), vengono applicate in maniera sovraproporzionale ai membri di minoranze, incrementano paradossalmente la pericolosità e la violenza dei reati (se la terza violazione determinerà comunque una pesante sanzione, chi la commette sarà meno incline a contenerne violenza, durata, estensione). Cfr. F.E. Zimring, S. Kamin, G. Hawkins, Punishment and Democracy: Three Strikes and You’re Out in California, Oxford University Press, New York 2003; J. Domanick, Cruel Justice: Three Strikes and the Politics of Crime in America’s Golden State, University of California Press, Berkeley 2004; D.W. Kieso, Unjust Sentencing and the California Three Strikes Law, LFB Scholarly Publishing, El Paso (Tex.) 2005; R. Iyengar, I’d Rather Be Hanged for a Sheep than a Lamb: The Unintended Consequences of “Three-Strikes” Laws, National Bureau Economic Research Working Paper No. 13784, febbraio 2008. [N.d.C.] 13. Cfr. T. Black, When a Heart Turns Rock Solid, cit., p. 217.

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striale, l’espansione del sistema penitenziario generò a sua volta molteplici interessi, e tali interessi influenzarono sempre più decisamente le politiche statali. Le comunità locali individuarono nel complesso carcerario una fonte di sviluppo occupazionale e commerciale. Le associazioni dei funzionari dell’apparato carcerario, interessate a una crescita indefinita delle strutture penitenziarie, svolsero un’efficace attività lobbistica. E l’affidamento della costruzione e della gestione delle prigioni a imprese private esterne innescò un’ulteriore catena di stimoli produttivi. Dovremmo poi chiederci quale sia il ruolo degli individui sottoposti alla sorveglianza penale: sono ottusi oggetti delle procedure di controllo sociale o piuttosto attori a pieno titolo nella rappresentazione? L’opinione di Wacquant sull’argomento non sembra netta. Da una parte egli individua nello sviluppo del sistema penale una reazione alle attività del movimento per i diritti civili e alle rivolte nei ghetti neri che si erano andate intrecciando a metà degli anni sessanta. Con ciò intende dire che i poveri appartenenti alle minoranze erano soggetti politici attivi? Non ne sono sicura, poiché egli attribuisce l’affermarsi del movimento e il succedersi delle rivolte al collasso dell’apparato istituzionale che aveva “consolidato la gerarchia etnorazziale nell’era fordista”.14 In altre parole, al collasso di un sistema di controllo sociale. Non solo: dovremmo riflettere sulla possibilità che non solo i movimenti politici e le rivolte, ma anche i crimini di strada e l’uso di droghe siano opera di esseri umani raziocinanti. Wacquant ha affermato che non esiste un nesso tra il tasso di crescita dei reati e l’espansione del sistema penale negli Stati Uniti, ma è stato di diverso avviso a proposito del Brasile: qui “il ramificarsi della violenza criminale (alimentata dalle profonde diseguaglianze e dalla povertà di massa), la discriminazione di classe e di razza nella conduzione dei processi penali, la brutalità poliziesca fuori controllo e la condizione catastrofica nonché il caotico funzionamento 14. L. Wacquant, Racial stigma in the making of America’s punitive state, in G. Loury et al., Race, Incarceration, and American Values, MIT Press, Cambridge (Mass.) 2008.

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del sistema carcerario” sono stati ingredienti decisivi nello sviluppo dello stato penale.15 Meno convincente è per me l’idea che la carcerazione di massa sia sollecitata dalla logica del neoliberalismo, anzi sia un elemento costitutivo del regime neoliberale. Nella descrizione di Wacquant il sistema penale agisce esattamente come il workfare nel “ricacciare la sua clientela nei segmenti periferici del mercato del lavoro dequalificato [...] (ri)generando così continuamente un’ampia massa di lavoratori marginali disponibili all’ipersfruttamento”.16 La carcerazione “ha a che fare anzitutto con una logica e un progetto politico, vale a dire la costruzione di uno stato post-keynesiano e liberal-paternalista idoneo a istituire una forma desocializzata di lavoro salariato e a diffondere la rinnovata etica del lavoro e della responsabilità individuale che sorregge e giustifica tale obiettivo”.17 Ma una simile spiegazione è sostenuta dai dati disponibili sulle reali conseguenze della carcerazione? Al di là delle enormi somme di denaro pubblico utilizzate per allargare il sistema penale e che avrebbero potuto essere destinate a ben più produttivi programmi di avviamento professionale, davvero lo spreco di individui e di lavoro che deriva dalla carcerazione di massa è funzionale ai mercati del lavoro neoliberali? In realtà è molto improbabile che la prigione fornisca ai detenuti le risorse richieste dal sistema professionale. Un terzo degli individui rilasciati viene nuovamente incarcerato nel giro di sei mesi, e circa la metà nel giro di un anno.18 La maggior parte di essi finisce per strada, a condurre una vita come quella descritta da Douglas Glasgow: Senza un centesimo, imbrogliando, oziando, rubacchiando, spassandosela, litigando. Qualche volta una rissa, qualche volta un arresto. Senza lavoro, perduto il lavoro, con un lavoro ma senza paga. Una donna, un bambino, qualche responsabilità. 15. Cfr. L. Wacquant, The Militarization of Urban Marginality: Lessons from the Brazilian Metropolis, “International Political Sociology”, 1, 2008, p. 56. 16. Id., The place of the prison in the new government of poverty, cit., pp. 25-26. 17. Ivi, p. 31. 18. T. Black, When a Heart Turns Rock Solid, cit., p. 268.

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Un po’ di vino, un tocco d’erba, una pasticca. Senza più appigli, senza più orgoglio, ti lasci andare, vai a fondo, ora sai che non ce la farai. Io ci ho provato, io sono quasi morto, e ora sono pronto di nuovo, ora sono pronto a tutto.19 Le conseguenze della reclusione carceraria sono difficili da arginare, e gravano non solo sugli individui che le subiscono direttamente ma anche sulle nuove generazioni allevate da famiglie disastrate e sulle comunità disastrate che attraverso queste famiglie si riproducono. Di conseguenza, non solo trovo arduo ravvisare una logica sistemica o funzionale nella carcerazione di massa,20 ma sono convinta che sarebbe facile scorgere la profonda irrazionalità di molti altri assetti e dispositivi istituzionali progettati nell’era neoliberale. L’unica domanda che dobbiamo porci è se siamo pronti ad afferrare le nuove opportunità politiche che sorgono dalla confusa situazione che stiamo attraversando.

Traduzione dall’inglese di Massimo Gelardi

19. D. Glasgow, The Black Underclass: Poverty, Unemployment, and Entrapment of Ghetto Life, Josey-Bass, San Francisco 1980, p. 104. 20. È giusto precisare che Wacquant respinge vigorosamente quello che egli chiama “iperdeterminismo strutturale” in favore di “una funzionalità post hoc nata da una combinazione di scopo politico, aggiustamento burocratico e inseguimento del consenso elettorale che si è incrociata con il punto di confluenza di tre traiettorie relativamente autonome di politiche pubbliche concernenti il mercato del lavoro dequalificato, l’assistenza pubblica e la giustizia penale” (L. Wacquant, La disciplina produttiva, cit.).

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La profondità è in superficie: per una tregua politico-metodologica MARIANA VALVERDE

e ricerche di Loïc Wacquant sulla povertà urbana e sulla criminalizzazione hanno esercitato una profonda influenza negli ambienti di sinistra, e sono state studiate in misura eguale dagli attivisti e dagli accademici. Personalmente sono lieta di constatare che il pubblico che dimostra interesse per un’analisi di sinistra non sia così esiguo come vorrebbero farci credere i guru che appaiono sui più importanti mezzi di comunicazione. E non è escluso che, alla luce della rinnovata popolarità conosciuta dal keynesismo dopo il subprime crash, il pubblico di Wacquant sia destinato ad accrescersi. Avendo trascorso i miei anni formativi nella sinistra socialista e femminista della seconda metà degli anni settanta, ed essendo rimasta alla sinistra di tutte le soluzioni socialdemocratiche e neolaburiste affacciatesi negli ultimi due decenni, sono felice del largo consenso riscosso dall’analisi di Wacquant. Tuttavia, mentre Wacquant e io siamo accomunati dalle simpatie politiche, i nostri approcci teorico-metodologici sono notevolmente distanti, e le differenze che li separano rimandano a questioni di interesse generale. Il modo migliore di iniziare un dibattito amichevole è chiarire che una delle differenze cruciali tra l’approccio di Wacquant e il mio è che io – a differenza di Althusser, della seconda ondata femminista e di Bourdieu – non credo più che le differenze teoriche

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Titolo originale: Comment on Loïc Wacquant’s “Theoretical Coda” to Punishing the Poor.

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segnalino differenze politiche. Una cosa che ho appreso da Nietzsche e dai dibattiti di fine anni ottanta sull’“epistemologia femminista” è che i progetti politici efficaci sono solitamente coalizioni pragmatiche di individui che desiderano le stesse cose ma che non necessariamente possiedono la stessa visione o – nel caso degli scienziati sociali – la stessa metodologia. Questo dibattito rappresenta dunque un’ottima opportunità per indagare differenze filosofiche fondamentali che, contrariamente alla concezione della “prassi” dominante negli anni settanta, hanno scarse o nulle ripercussioni politiche. La proposta centrale di Wacquant consiste nel “reintegrare” la criminologia e lo studio delle politiche sociali e del welfare sociale. Io concordo pienamente sul fatto che le politiche penali non costituiscono di norma un campo separato dell’attività del governo (come invece pretende la criminologia dominante). Dopo tutto, i politici che approvano leggi law and order sono quelli che adottano provvedimenti più severi nel campo dell’assistenza sociale. E, fatto ancora più significativo (sottolineato da Katherine Beckett e da altri studiosi statunitensi),1 gli stati americani che dispongono dei migliori sistemi di welfare sono quelli che esibiscono i più bassi tassi di carcerazione (e viceversa), il che suggerisce che esiste una relazione tra politiche law and order e politiche neoliberali antiwelfare. Tuttavia, mentre Wacquant utilizza i dati sulla relazione tra l’incremento del tasso di carcerazione e il decremento del volume delle prestazioni assistenziali per sostenere che esiste una strategia da parte dello stato, o di quello che egli chiama “il Leviatano neoliberale”, io trovo problematica proprio l’idea di richiamare in vita il Leviatano. Le correlazioni messe in evidenza da Wacquant di1. K. Beckett, Making Crime Pay: Law and Order in Contemporary American Politics, Oxford University Press, New York 1999; K. Beckett, T. Sassoon, The Politics of Injustice: Crime and Punishment in America, Sage Publications, Newbury Park (Cal.) 20032; M. Gottschalk, The Prison and the Gallows: The Politics of Mass Incarceration in America, Cambridge University Press, New York 2006; D. Layton MacKenzie, What Works in Corrections: Reducing the Criminal Activities of Offenders and Delinquents, Cambridge University Press, New York 2006; L. Miller, The Perils of Federalism: Race, Poverty, and the Politics of Crime Control, Oxford University Press, New York 2008. [N.d.C.]

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mostrano effettivamente l’esistenza di alcuni nessi logici, anche di natura strutturale, ma non provano necessariamente che esista una strategia unitaria, né che sia all’opera uno stratega o un singolo attore collettivo. Ora, Wacquant potrebbe rispondere che egli non sta postulando alcun attore collettivo, giacché, seguendo la linea di indagine tracciata da Bourdieu, egli concentra la sua attenzione non sullo “stato” come tale ma su alcuni suoi “campi”: per esempio, il campo burocratico, oppure le interazioni tra capitale politico ed economico. Certamente la prospettiva dei “campi” illustra il processo di formazione dello stato in maniera più dinamica di quanto facciano i modelli unitari sviluppati da Althusser e dagli scienziati della politica marxisti, così come le concezioni di Bourdieu a proposito dell’esistenza di specifiche forme di capitale culturale consentono un’analisi più dinamica e più attentamente situata dei processi di formazione di classe rispetto a quella fornita dal marxismo tradizionale. Tuttavia, da una prospettiva nietzschiana/foucaultiana si potrebbe dire che postulando l’esistenza di campi (in particolare se configurati in maniera amorfa e imperfettamente definita come il “campo burocratico”) finiamo comunque per privilegiare i parametri strutturali. La conseguenza è che le specifiche attività e le particolari tecnologie di governo assumono un ruolo secondario, presentandosi nella forma di modificazioni superficiali e locali che solo di rado interessano l’assetto strutturale. Quali siano le determinate leggi che generano la crescita della popolazione carceraria, cosa realmente accada all’interno delle prigioni, se i giudici stiano perdendo la loro indipendenza, in che modo il “rischio” criminalità viene misurato e gestito, sono tutte domande che in una simile prospettiva teorico-metodologica vengono ignorate o emarginate. Un’analisi di matrice bourdieuana delle modalità di governance del rischio criminalità condurrà piuttosto a discussioni sulla sinistra e la destra dello stato, o sulle relazioni generali tra politiche di welfare e politiche penali, e così via: solleverà cioè unicamente le domande formulate da Wacquant nel testo qui in discussione. 94


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Ma sono solo queste le domande teoricamente interessanti? Quanti di noi sono influenzati più da Nietzsche che dalla sociologia direbbero che quello che i marxisti definiscono “stato” esiste solo quale prodotto della mutevole, instabile e concretamente situata attività del governo. L’adozione di uno “stile di pensiero” nietzschiano (che si ispiri a Deleuze come a Foucault) condurrebbe a una rilettura dello “stato” nonché del “campo burocratico” quali effetti – e non fonti – di governance, e più precisamente quali particolari effetti di pratiche che vanno descritte nella loro specificità. Da questa prospettiva, per esempio, sarebbe molto importante comprendere se i detenuti delle prigioni statunitensi sono sottoposti al regime religioso che era tipico dei penitenziari del XIX secolo o se invece sono semplicemente stipati nelle carceri: il modo di assoggettamento dei prigionieri è infatti più rilevante della loro consistenza numerica. Allo stesso modo, per una teoria che aspira a essere situata sarà rilevante scoprire se la maggiore severità delle pene sia l’esito politico della battaglia perduta dal potere giudiziario contro quello legislativo o piuttosto il transitorio rispecchiamento della coscienza collettiva. In una prospettiva genealogica ciò che va studiato – ossia ciò che esiste – sono le pratiche di cui consiste l’attività di governo, mentre non ha senso indagare lo “stato” (o, peggio ancora, il “neoliberalismo”) perché non lo troveremmo da nessuna parte. E se è vero che gli studi stimolati dalla nozione bourdieuana di campo non sono incompatibili con l’analisi degli assemblaggi ad hoc di pratiche di governo di eterogenea provenienza, sono però gli “stili di pensiero” bourdieuano e foucaultiano a risultare inconciliabili. Wacquant critica la tesi di Garland della presenza di razionalità contraddittorie negli stati contemporanei e perfino nelle loro singole sfere pratico-simboliche (nel nostro caso la giustizia penale); per Wacquant, come per il suo mentore Bourdieu, in qualunque follia messa in scena da un governo c’è un metodo da catturare. Io ritengo che ogni essere umano capace di pensiero astratto potrebbe sostenere che un’astrazione come capitale globale o neoliberalismo è “alla base di tutto”; e sono dell’avviso che una simile asserzione non sarebbe scorretta. Essa però sopprimerebbe 95


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le importanti differenze che separano una battaglia da un’altra, uno stato americano da un altro, un livello di governo da un altro, una congiuntura politica da un’altra. In generale mi sembra che sia stato più facile disfarsi del riduzionismo di classe – e far posto non solo a variabili come genere e razza ma anche a fattori come il “capitale culturale” – che mettere in discussione la logica metodologica fondamentale del marxismo, lo “stile di pensiero” marxista. Consentitemi di illustrare quest’ultimo. Tra l’inizio degli anni settanta e la fine degli anni ottanta io e molte delle mie amiche femministe sprecammo un’incalcolabile quantità di tempo per dibattere se la relazione tra patriarcato e capitalismo avesse la forma di una doppia elica, come il DNA, o piuttosto di una torta a strati (mi piacerebbe poter dire che sto scherzando, ma non è così). Nella ristretta nicchia di strutturalisti di sinistra cui appartenevo, la doppia elica era popolare da un pezzo. Ma poi scoprimmo la razza. Per alcuni ciò significava che dovevamo aggiungere un terzo elemento all’elica. Per altri, invece, il superamento della tradizionale struttura bipartita (articolata in un duplice fattore o campo) condusse a una ridiscussione dell’intera concezione strutturalista, quella che faceva sembrare teoricamente interessanti le domande sulla relazione tra il patriarcato in generale e il capitalismo in generale. Alla sinistra degli anni settanta non difettava la teoria – a quei tempi ogni cosa era soggetta a iperteorizzazione astratta – ma piuttosto il rispetto per le analisi concrete delle situazioni concrete. Abbastanza ironicamente, “analisi concreta di una situazione concreta” è una frase di Lenin, come ben sapranno quelli della mia generazione. E analisi concrete furono proprio ciò che (astrattamente) invocavamo noi post-leninisti. Ciò che non comprendevamo – e che non abbiamo ancora compreso – è che, una volta rigettato il contenuto del marxismo (il privilegiamento dei rapporti di produzione), noi avremmo dovuto mettere in questione anche la forma, la struttura logica, del pensiero marxista. Ricercare la verità “sottostante” agli eventi, che essa risieda nelle strutture o nei campi, è una maniera di affrontare il compito della teorizzazione. Ma alcuni di noi hanno deciso di rigettare non solo il con96


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tenuto del marxismo e del femminismo strutturalista della seconda ondata, ma anche il loro stile di pensiero. Alcuni di noi preferiscono far proprie le parole impiegate da Deleuze per descrivere il metodo di Foucault: “Le plus profond, c’est la peau”.2 Per tornare alla giustizia penale: osservando la proliferazione di politiche così simili l’una all’altra potremmo essere attratti dalla formulazione di una teoria di tipo bourdieuano (e marxiano), ma potremmo anche considerare che ogni situazione consiste di una particolare costellazione di eventi attivata da cause non ripetibili, e di conseguenza esige analisi storicamente determinate. Ovviamente esistono analogie, influenze, appropriazioni: ma esse devono essere rivelate dall’indagine empirica, e non assunte preliminarmente per far progredire il lavorio tutto interiore di entità astratte come il “neoliberalismo” (qualunque sia la maniera in cui “esso” viene definito). L’altro giorno ho fatto un sogno a occhi aperti. Ho immaginato un giorno di sole in cui nietzschiani ed empiristi, caduto il velo che aveva fin lì offuscato la loro vista, scoprono di avere un nemico comune e si coalizzano contro la massa dei teorici. L’obiettivo di questo attacco congiunto non è la morte delle teorie, ma piuttosto un cessate il fuoco che le sospenda fino a quando non avremo compreso ciò che realmente sta accadendo nei diversi contesti sociali e locali. Durante la tregua tutti noi saremo costretti a svolgere il nostro compito intellettuale facendo a meno delle seguenti armi: “neoliberalismo”, “stato”, “nuda vita”, “stato di eccezione”, “disciplina”, “governamentalità”, “globalizzazione”. E, naturalmente, “Leviatano” (stavo per aggiungere “capitalismo”, ma questo termine è oggi talmente sottoutilizzato che non c’è ragione di bandirlo). Se Wacquant intenda aderire alla mia proposta è questione che dipende dalla sua concezione di lavoro e impegno intellettuale, ed è difficile avanzare previsioni. Traduzione dall’inglese di Massimo Gelardi 2. La frase (“Il più profondo è la pelle”) è di Paul Valéry, citata in G. Deleuze, Pourparlers, Minuit, Paris 1990, p. 119; trad. Pourparler, Quodlibet, Macerata 2000, p. 117.

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Il neoliberalismo zombie e lo stato ambidestro JAMIE PECK

ra le interviste raccolte per la monumentale indagine di Pierre Bourdieu sul disagio sociale nella Francia in fase di deindustrializzazione degli anni ottanta, una delle più memorabili fu quella realizzata con il preside di una scuola superiore situata in un quartiere che era stato teatro di rivolte urbane e che è stato recentemente ristrutturato quale “area ad alta priorità educativa”.1 Preda della tensione, ormai vinto, derubato della sua “vocazione”, questo preside in stato d’assedio lamentava che le scuole dei degradati quartieri urbani venivano ormai “trattate come stazioni di polizia”, mentre il suo ruolo era stato distorto e declassato a quello di soprintendente, “custode dell’ordine costretto a adottare le maniere forti”.2 Quotidianamente a contatto con le ricadute sociali della nuova insicurezza economica e del progressivo ritrarsi del welfare state, questi lavoratori di frontiera avevano ragione secondo Bourdieu di “sentirsi abbandonati, se non addirittura contrastati, nel loro costante sforzo di affrontare il disagio materiale e morale che è la sola conseguen-

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Titolo originale: Zombie Neoliberalism and the Ambidextrous State. 1. Le Zones d’éducation prioritaire, istituite nel 1982 dal ministero dell’Istruzione francese, sono aree i cui istituti scolastici godono di risorse economiche e educative supplementari in ragione delle loro condizioni svantaggiate. [N.d.C.] 2. G. Balazs, A. Sayad, La violence de l’institution, “Actes de la Recherche en Sciences Sociales”, 90, 1991, pp. 53-63; Iid., Institutional violence, in P. Bourdieu et al., The Weight of the World: Social Suffering in Contemporary Society, Polity Press, Cambridge 1999, pp. 492506 (ed. orig. La misère du monde, Seuil, Paris 1993).

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za certa di questa Realpolitik legittimata dalle ragioni dell’economia”:3 la neoliberalizzazione fu la traduzione di un’austera visione utopica in un programma politico guidato e sorretto da una logica meccanico-mercantile della quale gli operatori sociali, gli insegnanti scolastici e i lavoratori di strada del “braccio sinistro” dello stato furono gli ingranaggi più indocili. In realtà, Bourdieu giunse a ipotizzare che la classe inferiore dei funzionari dello stato sociale poteva essere spinta all’insurrezione contro la classe superiore dei nuovi mandarini della razionalità del mercato (e dei loro fidi tecnocrati), poiché “la mano sinistra dello stato sente che la mano destra non sa più o, peggio ancora, non vuole più sapere ciò che fa la sinistra”.4 Nel provocatorio testo qui in discussione, Loïc Wacquant estende e rafforza l’analisi di Bourdieu, situandola nel contesto della attuale congiuntura “tardo-neoliberale”. Egli individua una fase evolutiva che segna il superamento dell’assetto socio-economico consolidatosi negli anni ottanta (e così vividamente catturato da Bourdieu e dai suoi colleghi, tra i quali lo stesso Wacquant)5 e che si apre quando lotte intestine all’interno dello stesso apparato statale assumono la forma di una competizione asimmetrica tra i “ministeri della spesa” appartenenti al braccio sinistro (traccia lasciata nel cuore dello stato dalle passate lotte sociali) e gli agenti dell’austerità, della privatizzazione, della deregolamentazione e della mercatizzazione appartenenti al braccio destro. Quella che Wacquant, nella sua interpretazione dell’attuale configurazione socioeconomica, descrive come “un’innovazione istituzionale senza precedenti”6 implica quattro tendenze correlate. In primo luogo, il sovraccarico complesso carcerario ha assunto un ruolo decisivo nell’insieme delle funzioni “economiche” dello stato, delle quali è divenuto il sempre più muscolare e mascolinizzato braccio destro; il 3. P. Bourdieu, The abdication of the state, in Id. et al., The Weight of the World, cit., p. 183. 4. Id., Contre-feux, Raisons d’agir Éditions, Paris 1998; trad. Controfuochi: argomenti per resistere all’invasione neo-liberista, Reset, Roma 1999, p. 16 (traduzione modificata). 5. P. Bourdieu et al., The Weight of the World, cit. 6. L. Wacquant, La disciplina produttiva: fisionomia essenziale dello stato neoliberale (2009), in questo fascicolo.

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sistema penitenziario è dunque oggi l’autentica ala autoritaria del regime neoliberale. In secondo luogo, le funzioni residuali del braccio sinistro (lo stato sociale) sono state profondamente trasformate dalla logica workfarista della modificazione della condotta e della subordinazione al mercato. La terza tendenza è la forma ambidestra della relazione tra il braccio autoritario e il braccio assistenziale dello stato, i quali esercitano una presa congiunta e sempre più stretta sui problemi di regolamentazione peculiarmente postindustriali sollevati dalla flessibilizzazione del mercato del lavoro e dalla estesa marginalità sociale. Infine, questo connubio storicamente inedito, da intendersi in termini di simbiosi piuttosto che di unità ideologico-istituzionale, non agisce solo al chiuso delle più alte sfere dello stato, ma si articola nella logica e nella dinamica delle procedure di regolamentazione operanti alla base dell’architettura sociale, in particolare nei centri urbani degradati. Il braccio destro dello stato, dunque, non è più ignaro o incurante di ciò che fa il braccio sinistro, come suggeriva la metafora corporale di fonte biblica proposta da Bourdieu (“Quando fai l’elemosina non sappia la tua mano sinistra ciò che fa la tua destra”).7 Oggi, sottolinea Wacquant, la mano sinistra e la mano destra dello stato lavorano secondo modalità funzionali e organizzative complementari per ridisegnare lo stato attorno a un modello di sostegno punitivo calibrato su quell’ordine contraddittorio che è il “capitalismo deregolamentato”. Inoltre, questo è un progetto non genericamente (neo)conservatore, ma specificamente neoliberale, idoneo a essere sostenuto da politici tanto di (centro)sinistra quanto di destra. In realtà, questa dinamica di trasformazione nella gestione della marginalità sociale può progredire ancora più velocemente con i governi della “terza via”, in quanto essi sono apparentemente meno vincolati da forme dottrinarie di antistatalismo. Ronald Reagan ci avrà anche portato il taglio dei sussidi e la metafora velenosa della “regina del welfare”,8 ma è stato Bill Clinton a prometterci “la fine del welfare come noi lo conosce7. Vangelo secondo Matteo, 6, 3. 8. Negli Stati Uniti l’espressione welfare queen (regina del welfare) indica le donne a carico del sistema assistenziale che abusano, in maniera legale o fraudolenta, dell’erogazione

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vamo”;9 e Norman Tebbitt, agguerrito ministro del Lavoro di Margaret Thatcher, può anche aver esortato i disoccupati a “montare in bici” e andare a cercare lavoro, ma sono state le politiche di workfare di Tony Blair, e non qualche bicicletta metaforica, a espellerci dal welfare.10 Imputando alle esigenze del regime neoliberale il mutamento delle politiche sulla povertà11 – affidate prima all’assistenza sociale e ora al controllo penale, con la conseguente ascesa del complesso carcerario-assistenziale – Wacquant richiama correttamente l’attenzione sul carattere evolutivo dei processi di neoliberalizzazione (anche se qualcuno trasalirà di fronte all’idea della funzionalità de facto, ancorché “post hoc”, del risultante complesso regolativo). Naturalmente i principî fondamentali del neoliberalismo non sono comandamenti scolpiti in tavole di pietra e tramandati da Mont Pelerin;12 lo stesso Hayek sottolineò ripetutamente che il liberalismo deve essere una dottrina flessibile.13 Lungo il tortuoso sentiero attraversato negli ultimi tre decenni – dalla iniziale (ri)articolazione quale progetto ideale-ideologico agli incontri ravvicinati (nonché alle molteplici occasioni di coinvolgimento) con diverse forme di potere statale ed extrastatale – il dei sussidi. In uso fin dai primi anni sessanta, essa acquistò larga diffusione nel 1976, quando Ronald Reagan la utilizzò nel corso della sua campagna presidenziale a proposito di una probabilmente o parzialmente fantomatica abitante del South Side di Chicago (titolare di diversi alias, che adduceva qualche marito morto di troppo) per illuminare le inevitabili disfunzioni della macchina assistenziale. Alle strutturali connotazioni razziali della definizione (nella percezione dominante l’utente del welfare USA è tradizionalmente, tipicamente e circolarmente sovraidentificato come afroamericano, ossia pigro e parassita) si combinano normalmente pregiudizi di genere (l’incontrollata sessualità femminile che si traduce in comportamenti inappropriati destinati a gravare sulle risorse collettive), talora con innovativi esiti stereotipici (la donna nera che genera figli allo scopo di cumularne i connessi sussidi). [N.d.C.] 9. Cfr. L. Wacquant, La disciplina produttiva, cit., nota 12. 10. J. Peck, Workfare States, Guilford Press, New York 2001. 11. Cfr. L. Wacquant, La disciplina produttiva, cit. 12. Il 10 aprile 1947 nella cittadina svizzera di Mont Pelerin, nel corso di una conferenza organizzata da Friedrich von Hayek, venne fondata la Mont Pelerin Society, influente associazione impegnata (e tutt’oggi attiva) nel promuovere il liberalismo politico e il liberismo economico. [N.d.C.] 13. F.A. von Hayek, The Road to Serfdom, University of Chicago Press, Chicago 2007 (ed. orig. 1944); trad. La via della schiavitù, Rusconi, Milano 1995 (ed. orig. 1976); J. Peck, Remaking Laissez-faire, “Progress in Human Geography”, 1, 2008, pp. 3-43.

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neoliberalismo ha mostrato notevoli capacità di trasformazione. La sua “logica” distruttivamente creativa può essere stata inizialmente animata dalla guerra multifronte contro lo stato sociale, i diritti sociali e le collettività sociali (in quella che può essere considerata la fase “reattiva” del neoliberalismo),14 ma il progetto è apparso sempre più logorato dalla necessità di affrontare i costi e le contraddizioni derivanti dalle precedenti ondate di neoliberalizzazioni. In questo senso il neoliberalismo non è ciò che era solito essere (e non potrà mai essere ciò che era solito essere). Dalla deregolamentazione dogmatica alla ri-regolamentazione piegata al mercato, dall’aggiustamento strutturale alla buona governance, dai tagli di spesa ai vincoli di bilancio, dalla riduzione del welfare alle politiche sociali attive, dalle privatizzazioni alle partnership pubblico-privato, dalle virtù dell’avidità alla moralità dei mercati... il volto variegato del neoliberalismo esprime il dominio del mercato che deve il proprio consolidato vigore all’immanenza della sua crisi. Magari, in un modo o nell’altro, esso è ancora guidato dalla vecchia bussola di Hayek, orientata sull’irraggiungibile (e desolata) utopia della società del libero mercato, ma l’impeto avanguardista della “rivoluzione dall’alto”, rappresentato per esempio dalla fase thatcheriana dello scontro senza indulgenze e della “politica della convinzione”, ha da tempo aperto la strada alle ricerche opportunistiche della Neue Mitte (la “Terza via”), ai progressi attraverso i disastri, alla governance per tentativi ed errori, alla sperimentazione diffusa e alla pragmatica adesione a tutto “ciò che funziona”. Normalmente il nuovo neoliberalismo apprende (e si evolve) sbagliando, irrimediabilmente impantanato nelle proprie contraddizioni nonché nelle conseguenze sociali ed economiche provocate dalle passate strategie di deregolamentazione e dai precedenti fallimenti. A dispetto della purezza ideologica della retorica del libero mercato, e a dispetto della logica meccanica dell’economia neoclassica, la pratica della costruzione dello stato neoliberale è ineludibil14. J. Peck, A. Tickell, Neoliberalizing Space, “Antipode”, 3, 2002, pp. 380-404.

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mente e profondamente segnata da compromessi, calcoli e contraddizioni. Non c’è un piano. Non c’è nemmeno una mappa. E le stesse crisi non pregiudicano affatto questo mutevole e ibrido modello di governance, perché in qualche misura il neoliberalismo è sempre stato una creatura della crisi. Ma una cosa è sfruttare selettivamente le crisi dei sistemi keynesiani-welfaristi, o orientati allo sviluppo della spesa, o socialisti; un’altra è rispondere alle crisi che è il neoliberalismo stesso a generare. Eppure sempre più spesso è questo il compito indecente delle sue forme metastatizzate, che ciò accada all’indomani della crisi finanziaria asiatica o dell’uragano Katrina o del disfacimento dei mercati finanziari. Ognuno di questi eventi è stato tipicamente accompagnato da frenetici tentativi di riavviare (e talvolta rivitalizzare) il fragile predominio del mercato, ma ognuno di essi è al tempo stesso – visceralmente e strategicamente – un evento politico, i cui esiti non sono prevedibili.15 È possibile che un qualche neoliberalismo 3.016 neutralizzi, rimuova o ridislochi alcune delle crisi latenti, ma queste non potranno mai essere risolte in maniera permanente. Ogni nuova generazione di software per il libero mercato, in qualunque modo essa venga confezionata, è destinata a presentare nuovi bugs e vecchi difetti. Ciò significa che quella che passa per “governance neoliberale” mostra oggi invariabilmente una dinamica oscillante se non irritante, ed è egualmente (ri)animata dalla forza delle contraddizioni e delle convinzioni. In questo contesto, Wacquant dedica produttivamente la sua attenzione alle attuali crisi del mercato del lavoro flessibile e della marginalità sociale, che esibiscono la forma storicamente peculiare (sebbene in evoluzione) della governance neoliberale. In realtà negli ultimi tre decenni – un tratto di tempo caratterizzato dal fallimento delle politiche sociali nonché da ripetute innovazioni istituzionali e incessanti ri-regolamentazioni – sono state profondamente ristrutturate quelle che Claus Offe definì “le istituzioni in15. H. Leitner, J.Peck, E. Sheppard (a cura di), Contesting Neoliberalism: Urban Frontiers, Guilford Press, New York 2006. 16. “3.0” è l’espressione utilizzata per indicare il più avanzato stadio evolutivo (nonché i molteplici e aperti utilizzi a esso connessi) delle tecnologie Web. [N.d.C.]

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clusive” del mercato del lavoro a basso reddito.17 Le successive, e per qualche verso cumulative, ondate di riforma – nel regime di welfare/workfare, nelle politiche di carcerazione, nei servizi pubblici per l’assistenza e per l’edilizia, nella legislazione sull’immigrazione, e così via – hanno ulteriormente modificato le condizioni dei mercati del lavoro temporaneo. In questo processo sono stati forgiati i nuovi contorni sociali dell’inclusione e dell’esclusione e le nuove norme sull’occupazione (nonché sulla disoccupazione e sulla sottoccupazione). Da una parte questi mercati del lavoro sono stati davvero assoggettati per certi versi alla logica mercantile. Il processo di mercificazione del lavoro è sempre più avanzato, e le forme prevalenti di competizione diventano col tempo sempre più darwiniane. Ma, fatto altrettanto importante, i mercati del lavoro hanno conosciuto una nuova stratificazione istituzionale e razziale: essi non solo sono raggiunti dalle lunghe ombre del sistema penitenziario e dei regimi di workfare, ma subiscono l’influenza dei “nuovi intermediari” (come le predatrici agenzie a tempo) che plasmano attivamente le regole del gioco.18 Fra le tendenze più diffuse vanno registrate, da una parte, la riduzione al minimo dei diritti sociali e degli strumenti di tutela nei confronti del mercato del lavoro, e dall’altra, gli incessanti (e talora riusciti) tentativi delle nuove istituzioni inclusive di smistare la propria “clientela” attraverso test di idoneità per l’occupazione. A dispetto delle loro peculiari funzioni sociali e dinamiche istituzionali, è questo che fanno le agenzie per il lavoro interinale, è questo che fanno i programmi di workfare, è questo che fanno anche le prigioni. Essi non solo rispecchiano i mercati del lavoro (temporaneo), ma contribuiscono a trasformarli. Di conseguenza l’interesse di Wacquant per le connessioni transistituzionali, per 17. C. Offe, Disorganized Capitalism: Contemporary Transformations of Work and Politics, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1985. 18. J. Peck, N. Theodore, Work First: Workfare and the Regulation of Contingent Labour Markets, “Cambridge Journal of Economics”, 1, 2000, pp. 119-138; Iid., Contingent Chicago: Restructuring the Spaces of Temporary Labor, “International Journal of Urban and Regional Research”, 3, 2001, pp. 471-496; Iid., Carceral Chicago: Making the Ex-offender Employability Crisis, “International Journal of Urban and Regional Research”, 2, 2008, pp. 251281.

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le relazioni omologiche e per le strutture metalogiche è prezioso per diagnosticare gli aspetti critici di questa congiuntura normativa tardo-neoliberale e per individuare i luoghi delle sue più importanti contraddizioni. Tra le procedure di controllo delle forme (sempre più normalizzate) di insicurezza economica e marginalità sociale Wacquant assegna correttamente un ruolo preminente ai programmi di workfare e alla reclusione penale. Ma la mia sensazione è che la questione dell’integrazione istituzionale dei differenti processi sia tutt’altro che chiusa: è vero che la mano sinistra e la mano destra dello stato neoliberale esercitano una stretta sempre più decisa sui problemi di regolamentazione connessi al lavoro flessibile e alla marginalità sociale, ma nulla assicura che si tratti di una presa efficace. Sull’argomento Wacquant è giustamente cauto. Mentre sostiene in maniera decisa che le logiche funzionali di workfare e prigione sono intrecciate (anzi, complementari) in ragione delle loro relazioni coevolutive con la storia del mercato del lavoro flessibile, egli si guarda bene dall’affermare che sia in vista una qualche forma emergente di equilibrio regolativo. Tanto separatamente quanto congiuntamente, questi dominî normativi continuano a essere lacerati da “irrazionalità, insufficienze e squilibri”.19 Cos’è allora che sostiene questa forma perversa di coordinata inefficacia strategica a dispetto di così profonde contraddizioni e di episodiche ondate di resistenza e contestazione? Se questi sviluppi sono stati un “prodotto del neoliberalismo”,20 dovremmo riconoscere immutata potenza ideologica, politica e istituzionale alla degradata, consunta e profondamente screditata carcassa del tardo neoliberalismo, i cui ultimi riti sono stati recentemente descritti da Naomi Klein, Eric Hobsbawm e altri?21 Dopo (?) la crisi finanziaria, possiamo pensare l’egemonia neoliberale al passato remoto? 19. L. Wacquant, La disciplina produttiva, cit. 20. Ibidem. 21. Cfr. N. Klein, The Shock Doctrine: The Rise of Disaster Capitalism, Metropolitan Books, New York 2007; trad. Shock economy: l’ascesa del capitalismo dei disastri, Rizzoli, Milano 2007; E. Hobsbawm, On Empire: America, War, and Global Supremacy, Pantheon Books, New York 2008. [N.d.C.]

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A questo stadio è impossibile raggiungere una conclusione definitiva, ma se – eventualità alquanto improbabile – l’edificio normativo del neoliberalismo collassasse in toto, come un castello di carte, ciò proverebbe semplicemente che il neoliberalismo non è mai stato una struttura monolitica. Per una volta ci potrebbe venire risparmiata l’arroganza dei zeloti del libero mercato, ma i rivolgimenti in corso potrebbero anche rafforzare le mani (che pure ci hanno detto “sicure”) dei pragmatici e dei tecnocrati, gli autentici eredi del neoliberalismo realizzato. La generica protesta di George W. Bush – “io rimango favorevole al mercato” – alla vigilia del G20 sulla crisi finanziaria globale può essere vista come la perfetta metafora della bancarotta del neoliberalismo ancora incapace di riflettere sulla propria ristrutturazione.22 Ma se si ritiene che, fin dalla sua nascita quale progetto ideologico transnazionale (sessant’anni fa a Parigi, al Colloque Lippmann),23 ciò cui si è realmente dedicato il neoliberalismo sia stato lo sviluppo progressivo di forme attive di dispositivi statuali neoliberali,24 allora la catastrofe finanziaria che ha avuto inizio nel 2008 potrebbe portare a ulteriori tornate di lacunosa ri-regolamentazione a favore del mercato così come a una implosione sistemica simile alla caduta del muro di Berlino. E i tecnocrati, lo sappiamo, hanno la tendenza a lavorare silenziosamente. Di sicuro il linguaggio politico che accompagnerà questa fase sarà improntato alla feroce determinazione e al cauto pragmatismo, in contrasto con il crescen22. Cfr. President Bush Discusses Financial Markets and World Economy, “White House Press Release”, Federal Information and News Dispatch, 13 novembre 2008. 23. Il Colloque Walter Lippmann è l’incontro di economisti e intellettuali organizzato dal 26 al 30 agosto 1938 a Parigi dal filosofo francese Louis Rougier allo scopo di rilanciare la declinante ideologia liberale. Dedicato al giornalista Walter Lippmann (1889-1974, scrittore e giornalista statunitense, autore del libro The Good Society, 1937; trad. La giusta società, Einaudi, Torino 1945, testo ispiratore della dottrina neoliberale del quale era appena apparsa la traduzione francese), l’evento rimase senza seguito a causa dello scoppio della Seconda guerra mondiale, ma influenzò Friedrich von Hayek e la fondazione della Mont Pelerin Society (vedi supra, nota 12). [N.d.C.] 24. M. Foucault, Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France 1978-1979, Gallimard-Seuil, Paris 2004; trad. Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli, Milano 2005; J. Peck, Remaking Laissez-faire, cit.; P. Mirowski, D. Plehwe (a cura di), The Road from Mont Pelerin: The Making of the Neoliberal Thought Collective, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2009.

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do trionfalista che ha scandito l’affermarsi della logica del mercato negli ultimi due decenni. Teniamoci pronti alla Quarta Via! Senza dubbio ha ragione Neil Smith quando, articolando la critica habermasiana della modernità, descrive il neoliberalismo come “morto ma egemone”.25 È vero che gli interessi sociali che il progetto neoliberale doveva in qualche modo comporre – grande capitale, élite finanziarie, azionariato, investitori transnazionali – sono stati infine scoperchiati, eppure essi continuano a imporre i loro privilegi con sorprendente spregiudicatezza. Nelle politiche di salvataggio finanziario intraprese dal governo statunitense, per esempio, gli interventi più urgenti hanno riguardato le banche e le imprese a rischio di fallimento, e la strategia complessiva è stata quella di assecondare la compromessa “fiducia” dei mercati. Tuttavia – sostengono Hobsbawm, Klein e molti altri – in queste stesse politiche alligna un rovinoso, se non fatale, atto di accusa rivolto alla governance neoliberale. Forse la corrente è cambiata. Ma non dobbiamo dimenticare che, se questo maldestro ricorso al potere dello stato (accompagnato da volgari manifestazioni di ipocrisia e dissonanza cognitiva) può aver creato qualche momento di imbarazzo nei più dogmatici seguaci del verbo del libero mercato, l’(ab)uso del potere statale è del tutto coerente con il manuale del neoliberalismo. In realtà i gruppi di interesse e le istituzioni che hanno usufruito delle politiche di salvataggio non hanno mai giocato secondo le regole del libero mercato.26 Dovremmo allora chiederci in quale direzione si stia realmente muovendo la corrente, dal momento che il rischio finanziario è stato socializzato in misura quasi inverosimile, e che le logiche di Wall Street e Washington hanno conosciuto una reciproca e inedita armonizzazione. D’altra parte, non è certo per disattenzione che i problemi endemici alla base della dilagante insicurezza socioeconomica – diffusasi dagli strati più poveri alla classe operaia e infine al ceto me25. N. Smith, Neoliberalism is Dead, Dominant, Defeatable – Then What?, “Human Geography”, 2, 2008, pp. 1-3; Id., Neoliberalism: Dead but Dominant, “Focaal”, 1, 2008, pp. 155157. 26. N. Chomsky, Profit over People: Neoliberalism and Global Order, Seven Stories, New York 1998; trad. Sulla nostra pelle, Marco Tropea, Milano 1999; D. Henwood, Wall Street: How It Works and for Whom, Verso, London 1997.

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dio – vengono insistentemente ignorati. Le esigenze macroeconomiche, ci viene detto, suggeriscono che “non è il momento” per un’assicurazione sanitaria universale, per una legislazione che combatta più incisivamente la segregazione residenziale, per una riforma fiscale di tipo redistributivo, per progetti sistematici volti a combattere la povertà. Al contrario, gli sforzi attuali sembrano volti unicamente a rattoppare il settore dell’economia trickle-up27 allo scopo di isolare il regime finanziario da nuovi, futuri contraccolpi (provenienti in particolare “dal basso”). Il tentativo di ri-regolamentazione appare sensibile soprattutto alle questioni del rischio finanziario e dell’isteria “dei mercati”, mentre abbandona a se stessi coloro su cui grava il rischio sociale. Che però devono continuare a fare acquisti. A ogni costo. Ricordiamo che lo sfruttamento delle crisi è stato un segno distintivo della governance neoliberale, anche se l’attuale decorso degli eventi sembra sempre più dissimile da quello che caratterizza le “crisi normali”. Eppure un progetto così logoro e screditato minaccia di ondeggiare senza meta (e finanche di trascinarsi più avanti) se un’opposizione politica organizzata non ne bloccherà il cammino, e un’alternativa sociopolitica non riempirà il vuoto che lo accoglie. “Morto ma egemone”, il neoliberalismo potrebbe essere entrato nella sua fase zombie. Il cervello sembra avere da tempo smesso di funzionare, ma gli arti continuano a muoversi, e anche i riflessi difensivi sembrano ancora attivi. I morti viventi della rivoluzione del libero mercato vagano ancora tra noi, ma a ogni resurrezione la loro andatura si fa più incerta ed esitante.

Traduzione dall’inglese di Massimo Gelardi

27. Contrapposto al trickle down effect (secondo il quale, in virtù del fisiologico funzionamento degli investimenti di capitale e degli scambi commerciali, la ricchezza delle classi affluenti “sgocciolerebbe” [trickle down] sulle classi inferiori in forma di rigenerazione, espansione e redistribuzione del volume di produzione), il trickle up effect consiste nell’impulso all’accumulazione e alla capacità produttiva che emanerebbe sui più rilevanti soggetti dell’economia di mercato da politiche di sostegno al reddito e al consumo capaci di mettere a frutto le attitudini alla spesa delle classi medie. [N.d.C.]

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La penalità neoliberale: una breve genealogia BERNARD E. HARCOURT

La principale funzione del diritto penale in una società capitalistica è quella di indurre gli individui a servirsi del sistema di scambio volontario e retribuito – il “mercato”, nelle sue forme esplicite e implicite – quando questo, in virtù dei bassi costi delle transazioni, rappresenta un sistema di allocazione delle risorse più efficiente dello scambio coattivo [...]. Quando i costi delle transazioni sono bassi, il mercato è per definizione il metodo più efficiente di allocazione delle risorse. I tentativi di scavalcarlo saranno quindi scoraggiati da un sistema legale impegnato a promuovere il principio dell’efficienza.1 Il mercato è il miglior sistema mai inventato per allocare le risorse in maniera efficiente e per massimizzare la produzione [...]. Penso inoltre che ci sia un legame tra la libertà di mercato e la libertà nella sua accezione più ampia.2

ll’inizio del XXI secolo si sono registrati importanti mutamenti nel sistema penale degli Stati Uniti e delle altre importanti nazioni occidentali industrializzate. L’incarcerazione di massa – ossia la crescita esponenziale (in termini assoluti e percentuali) del numero dei detenuti dei penitenziari federali e statali e delle prigioni di contea – è stata la tendenza più chiara e impressionante, almeno negli Stati Uniti. Nel 1973, dopo cinquant’anni di relativa stabilità, il tasso di carcerazione negli Stati Uniti ha iniziato a crescere: oggi un adulto su cento è dietro le sbarre. Tendenze analoghe, sebbene meno decise, sono state osservate a cavallo tra il XX e il XXI secolo in Italia, Francia, Gran Bretagna e altri paesi europei.

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Titolo originale: Neoliberal Penality: A Brief Genealogy. 1. R. Posner, An Economic Theory of the Criminal Law, “Columbia Law Review”, 6, 1985, pp. 1195-1196. 2. Barack Obama, citato in D. Leonhardt, Obamanomics, “New York Times Magazine”, 24 agosto 2008, p. 32.

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Un altro importante mutamento rilevato recentemente negli Stati Uniti è la diffusione dell’utilizzo dei metodi e degli strumenti attuariali, ossia il crescente impiego di dispositivi empirico-concettuali di valutazione del rischio nella previsione delle risposte dei detenuti alla loro eventuale liberazione condizionale, nella stima del potenziale di pericolosità degli individui, nell’identificazione dei colpevoli di reati sessuali violenti. La sperimentazione degli strumenti attuariali è stata avviata anche in Canada, così come la logica della predizione attuariale (sebbene non l’utilizzo dei suoi strumenti) si è allargata a paesi europei come la Francia, che nel 2007 ha abbracciato con convinzione la formula della detenzione preventiva (rétention de sûreté). Gli Stati Uniti, il Canada e i paesi europei hanno conosciuto anche – in momenti e in misure differenti – l’intensificarsi e il moltiplicarsi delle strategie repressive (come la tolleranza zero e la politica delle broken windows);3 un più aspro trattamento della criminalità minorile; un accresciuto impiego delle tecniche di videosorveglianza, delle procedure di raccolta dei dati biometrici e degli strumenti di catalogazione di informazioni attraverso iniziative come il Total Awareness Program4 negli Stati Uniti, la videosorveglianza a circuito chiuso nel Regno Unito e la costituzione di 3. Sulla broken windows theory, cfr. L. Wacquant, La disciplina produttiva: fisionomia essenziale dello stato neoliberale (2009), in questo fascicolo, nota 63. [N.d.C.] 4. Varato nel febbraio 2003 dalla Defense Advanced Research Projects Agency (DARPA) quale parte della strategia di reazione all’offensiva terroristica globale, il Total Information Awareness Program (ribattezzato nel maggio dello stesso anno Terrorism Information Awareness Program) si prefiggeva lo sviluppo integrato e sistematico delle diverse dotazioni tecnologiche e dei differenti indirizzi metodologico-operativi in uso nel settore della sicurezza, dell’informazione e della comunicazione al fine della raccolta della totalità delle informazioni reputate tatticamente rilevanti in un ambiente fisico e lungo un orizzonte temporale tendenzialmente illimitati (secondo modalità che andavano dall’investimento nei sistemi comunicativi dei mezzi militari all’espansione della ricerca biologica, dall’elaborazione di tecniche predittive delle dinamiche di crisi alla massiccia immissione di analisi comportamentali e tecniche di profiling – perlopiù etnicamente orientate – nelle previsioni di intervento investigativo e giudiziario, dalla costituzione di database comprendenti le tracce più profonde e sensibili delle transazioni materiali, telefoniche e informatiche a programmi di identificazione corporea a distanza su base biometrica). Nell’ottobre del 2003 il programma si vide sospendere l’erogazione dei fondi dal Department of Defense Appropriations Act, che recepì la crescente inquietudine generata dal profilarsi di un regime di sorveglianza di massa; tuttavia, buona parte dei suoi progetti rimane in vita, alimentata da fonti di finanziamento diversamente rubricate nei capitoli di spesa della National Security Agency. [N.d.C.]

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archivi del DNA in Inghilterra e in Francia; l’adozione di standard più severi nell’irrogazione delle pene (tramite misure quali l’introduzione del minimo obbligatorio dell’entità della pena, l’approvazione delle three strikes laws,5 l’irrigidimento delle norme sull’uso di droghe e armi, la condivisione di linee guida tendenti a fissare termini di pena più lunghi). Nella maggior parte degli sviluppi sopra elencati gli Stati Uniti hanno ricoperto il ruolo di esportatori di idee e tecnologie (per esempio nella politica delle broken windows e nell’introduzione del minimo di pena obbligatorio). Ma non in tutti. Il Regno Unito è stato il leader nell’utilizzo della videosorveglianza a circuito chiuso e nelle tecniche di raccolta del DNA; la Francia è stata una innovatrice nei sistemi di dispiegamento di forze di sicurezza paramilitari antisommossa; e l’Italia è stata all’avanguardia nello svolgimento di procedimenti giudiziari bunker-style. Il principale strumento attuariale oggi utilizzato negli Stati Uniti – il Level of Services Inventory-Revised (LSI-R) – è stato ideato e sviluppato da ricercatori canadesi, e lo stesso vale per lo Hare Psychopathy Checklist-Revised (PCL-R).6 1. Spesso si cerca di vedere in tutto ciò l’incontrovertibile segno di qualcosa di inedito emerso a metà degli anni settanta: una nuo5. Sulle three strikes laws, cfr. F. Fox Piven, Neoliberalismo e neofunzionalismo: la logica opaca del capitale, in questo fascicolo, nota 12. [N.d.C.] 6. Il LSI-R e il PCL-R, utilizzati soprattutto nei paesi anglosassoni, sono strumenti di valutazione delle probabilità di recidiva dei criminali nel raggio di dodici mesi ai quali gli organi giurisdizionali ricorrono per formulare perlopiù decisioni riguardanti la concessione della liberazione condizionale: si tratta nel primo caso di un’intervista non strutturata tesa a catturare biografia, stile di vita e attitudini sociali del soggetto (articolata in otto categorie: carriera criminale, atteggiamenti antisociali, convinzioni antisociali, ambiente familiare, ambiente lavorativo/scolastico, attività di svago, utilizzo di sostanze psicotrope, frequentazioni criminali), e nel secondo caso di un questionario semistrutturato che misura l’indice psicopatico di un soggetto – ovvero, inversamente, la sua disposizione a provare sentimenti empatici o di socievolezza – sulla base delle sue risposte a venti items volti a rilevarne biografia, stile di vita, attitudini sociali e tratti psicologici altamente specifici (organizzati come sintomi della biforcazione categoriale tra personalità narcisistica potenzialmente non-deviante, segnalata per esempio da una esorbitante autostima o da una patologica tendenza a mentire, e personalità propriamente antisociale o criminale, che si manifesterebbe per esempio in una scarsa capacità di autocontrollo o in un comportamento sessuale “promiscuo”). [N.d.C.]

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va cultura del controllo, una nuova scienza penale, le nuove forme di biopotere. L’impressionante diagramma che rappresenta l’andamento del tasso di carcerazione negli Stati Uniti – ossia la sua crescita esponenziale iniziata nel 1973 – è scolpito nel nostro immaginario collettivo e, associato al simultaneo collasso del modello riabilitativo della reclusione penale nonché alla coincidente affermazione e diffusione delle misure law and order, compone una cornice interpretativa capace di inquadrare taluni mutamenti sociali succedutisi dagli inizi alla metà degli anni settanta. In realtà, però, sarebbe un errore attribuire eccessiva enfasi a quel periodo cruciale. Dopo tutto, il mantenimento dell’ordine è una pratica disciplinare che risale almeno al XIX secolo.7 Gli strumenti attuariali vennero adoperati negli Stati Uniti per prevedere la devianza già subito dopo il 1930, e anch’essi risalgono alla criminologia positivista e al movimento per la défense sociale del tardo XIX secolo europeo.8 Della raccolta dei dati biometrici – condotta parallelamente allo sviluppo di programmi di sterilizzazione forzata, alla messa a punto di tecniche eugenetiche, allo sviluppo delle teorie frenologiche – esistono tragici precedenti all’inizio del XX secolo, tanto in Europa quanto in Nord America.9 E anche la reclusione di massa non è certo un fenomeno inedito: di fatto, negli anni trenta, quaranta e cinquanta del secolo scorso il tasso di istituzionalizzazione dei malati mentali negli Stati Uniti era molto vicino all’odierno tasso di carcerazione.10 Le tendenze rilevate sono egualmente impressionanti:

7. M. Foucault, Sécurité, territoire, population. Cours au Collège de France, 1977-1978, Seuil-Gallimard, Paris 2004, p. 47; trad. Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), Feltrinelli, Milano 2005, pp. 21-22; B. Harcourt, Illusion of Order: The False Promise of Broken Windows Policing, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2001, p. 160. 8. F. Tulkens, Introduction, in A. Prins, La défense sociale et les transformations du droit pénal, Éditions Médecine et Hygiène, Genève 1986. 9. D. King, In the Name of Liberalism: Illiberal Social Policy in the United States and Britain, Oxford University Press, New York 1999. 10. B. Harcourt, From the Asylum to the Prison: Rethinking the Incarceration Revolution, “Texas Law Review”, 7, 2006, pp. 1751-1786; Id., From the Asylum to the Prison: Rethinking the Incarceration Revolution – Part II: State Level Analysis, “University of Chicago Law & Economics”, Olin Working Paper No. 335, 2007.

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Tassi di istituzionalizzazione (per 100.000 adulti) relativi a strutture psichiatriche, prigioni statali e federali, totale di strutture psichiatriche e prigioni negli Stati Uniti.

Dal 1935 al 1963 il tasso complessivo di istituzionalizzazione negli Stati Uniti (relativo all’insieme delle strutture psichiatriche e delle prigioni) è stato superiore a 700 per 100.000 adulti, con punte di 778 nel 1939 e 786 nel 1955. A metà del secolo si registrò una proliferazione di strutture psichiatriche, tra le quali si annoveravano non solo gli ospedali pubblici statali e di contea, ma istituti pubblici e privati per “handicappati mentali ed epilettici”, istituti pubblici e privati per “ritardati mentali”, sezioni psichiatriche negli ospedali per veterani, ospedali per “psicopatici”, strutture private per malati mentali. Il tasso complessivo di internamento fu almeno pari a quello attuale.11 È importante allora fare qualche passo indietro e indagare le pratiche penali lungo un arco di tempo più esteso, mettere cioè in 11. Le cifre riportate nel diagramma non includono gli individui reclusi nelle strutture destinate alla custodia cautelare (jails) in quanto i dati relativi non solo non sono catalogati in maniera sistematica, ma fino al 1970 sono stati raccolti secondo criteri poco affidabili. Tuttavia, quando essi vengono inclusi nelle statistiche nazionali complessive, la tendenza rimane identica; è solo con la rivoluzionaria carcerazione di massa degli anni ottanta e novanta che i dati aggregati dei processi di istituzionalizzazione si riavvicinano a quelli degli anni quaranta e cinquanta (B. Harcourt, From the Asylum to the Prison, Rethinking the Incarceration Revolution – Part II: State Level Analysis, cit.).

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relazione la recente carcerazione di massa con le pratiche di reclusione simili o affini sviluppatesi all’inizio del XX secolo, e situare l’una e le altre dentro una più ampia cornice storica, che si estenda non per qualche decennio ma lungo diversi secoli. Ciò che viene rivelato da una tale, più ampia, prospettiva è che il modello della reclusione e del controllo del secolo scorso è stato facilitato dall’emergere e dal graduale imporsi della “penalità neoliberale”. Con tale espressione io intendo una forma di razionalità che opera sospingendo la sfera penale fuori dall’economia politica e assegnandole una funzione di confine: la sanzione penale viene così separata dalla logica dominante dell’economia classica e costruita come l’unico spazio dentro il quale l’ordine viene legittimamente imposto dallo stato. In questa prospettiva, la parte più consistente dell’interazione umana – ossia il complesso delle attività economiche – viene vista come volontaria, giustamente retribuita, ordinata e tendente al bene comune; la sfera penale è invece il confine esterno, lungo il quale – e solo lungo il quale – il governo può legittimamente interferire. La struttura discorsiva della penalità neoliberale – nata nel XVIII secolo, sviluppatasi nel XIX secolo e oggi di larga diffusione – favorisce la crescita della sfera carceraria: essa rende più agevole tanto l’opposizione all’intervento del governo nel territorio del mercato, quanto la criminalizzazione di qualunque deviazione dal mercato stesso; essa, inoltre, facilita l’approvazione di nuove leggi in materia di giustizia e conferisce alla sanzione penale una veste più liberale perché isola la regione contrassegnata dall’esercizio dell’attività regolativa, ossia lo spazio in cui lo stato può legittimamente agire e appropriatamente svolgere la funzione di governo. Marginalizzando e spingendo la pena verso la periferia del mercato, la penalità neoliberale sguinzaglia lo stato all’interno della sfera carceraria. Questa visione di un mercato ordinato nonché delimitato dalla sanzione penale domina l’immaginario pubblico contemporaneo e ha condotto a una demarcazione cruciale tra l’efficienza naturale del regime di scambio e la difettività del dominio penale, che rende necessario e decisivo l’intervento del governo. Oggi la 114


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sanzione penale tende a essere considerata come una risorsa volta a calibrare le deliberazioni degli attori razionali, ma da attivarsi in via esclusiva ed eccezionale agli estremi confini di un mercato altrimenti capace di conseguire il proprio ordine senza ricorrere a strumenti di regolazione esterna. È questa precisa combinazione – ordine nel mercato e governo ai confini – che contribuisce a modellare la moderna visione neoliberale della pena. È proprio questa concezione che troviamo rappresentata negli scritti di Richard Posner, e formulata in maniera eloquente nella semplice e schietta epigrafe citata in apertura: è l’idea che la principale funzione della sanzione penale in una società capitalista consista nell’impedire l’aggiramento del mercato.12 In questo passaggio l’idea dell’efficienza del mercato rimanda a una teoria penale che individua nella pena l’unico legittimo spazio di intervento del governo. Altrove tale teoria semplicemente ignora gli scambi volontari e retribuiti, come se in qualche senso lo spazio del mercato esistesse indipendentemente dalla formulazione di specifiche politiche, come se i due dominî fossero distinti. Le idee della naturale efficienza del mercato e dell’eccezione penale risalgono al pensiero liberale delle origini. La prima va direttamente ricondotta alla nascita, all’emergere e al trionfo dell’idea di ordine naturale in economia, dunque alla dottrina fisiocratica di Quesnay, Dupont de Nemours, Le Mercier de La Rivière, il Marquis de Mirabeau e altri economisti francesi del periodo 1756-1767. Le loro opere esercitarono una profonda influenza in Francia e all’estero, ed è proprio la metamorfosi della loro idea di ordine naturale che ha dato luogo a quella moderna nozione economica di efficienza del mercato che è al cuore del pensiero neoliberale. Negli scritti dei fisiocratici la nascita dell’ordine naturale conduce direttamente all’espansione della sfera penale quale unico spazio legittimamente aperto all’amministrazione e all’intervento del governo. L’idea di ordine raggiunse il proprio sviluppo in una teoria politica che combinava il disimpegno dalle questioni com12. R. Posner, An Economic Theory of the Criminal Law, cit., p. 1195.

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merciali con l’emanazione di politiche autoritarie e centralizzate nelle restanti sfere della vita associata: era ciò che i fisiocratici definivano la dottrina del “dispotismo legale”, espressione con la quale Quesnay e Le Mercier de La Rivière designavano l’ideale politico dell’assoluta inerzia dello stato nella costruzione dell’ordine sociale, indicando l’intervento nelle questioni penali quale unica eccezione a tale principio. Giacché le leggi naturali governavano il commercio, gli économistes non vedevano alcuno spazio per l’azione legislativa, eccetto quello di incriminare e punire quanti deviassero dall’ordine naturale. L’ordine naturale dell’universo implicava il dispotismo legale nelle questioni umane. Tale dottrina fu abbracciata dai fisiocratici nel 1767, anno della pubblicazione del saggio di Quesnay Despotisme de la Chine, e del libro di Le Mercier L’ordre naturel et essentiel des sociétés politiques.13 Dai loro studi economici essi pervennero alla conclusione sillogistica che l’ordine naturale che governa la sfera dell’economia esige tanto l’assenza di intervento umano – dunque di leggi positive – nel dominio economico, quanto l’imposizione di leggi positive che puniscano la devianza dalla legge naturale: in altre parole, l’ordine naturale esige che le leggi positive si limitino a punire il furto e la violenza. La logica procedeva così: 1) La sfera dell’economia – agricola e commerciale – è governata da leggi naturali intrinsecamente tendenti alla realizzazione dei più elevati interessi del genere umano. 2) Le leggi positive, disegnate dagli uomini, possono al più rispecchiare l’ordine naturale fungendo da istanze concrete della legge naturale. 3) Di conseguenza, il diritto positivo non deve estendersi al dominio delle leggi naturali: nelle parole di Quesnay, “la legislazione positiva non deve raggiungere il dominio delle leggi fisiche”.14 13. F. Quesnay, Despotisme de la Chine, in Œuvres économiques complètes et autres textes, Institut National d’Études Démographiques, Paris 2005, vol. II, pp. 1005-1114; P.-P. Le Mercier de La Rivière, L’ordre naturel et essentiel des sociétés politiques, Éditions Geuthner, Paris 1910 (ed. orig. Nourse & Desaint, Londres-Paris 1767). 14. F. Quesnay, Despotisme de la Chine, cit., p. 1017.

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È per questa ragione che non c’è bisogno di una legislazione separata. Ogni potere legislativo deve essere centralizzato in un potere esecutivo unitario – un despota legale – che apprenda e renda effettive le leggi di natura. 4) Ci sono tuttavia alcuni uomini che per via delle loro passioni disordinate – passioni “déréglées”, come scrive Quesnay15 – non riescono ad apprezzare e a osservare le fondamentali leggi della natura. 5) L’unico oggetto legittimo della legiferazione umana, dunque, sono le passioni disordinate degli uomini, che vanno punite severamente allo scopo di proteggere la società dai ladri e dai reietti che ne sono animati. In questo argomento logico l’intero lavoro è svolto dalla nozione di ordine naturale, la quale conduce inesorabilmente a una sfera penale che da una parte viene sospinta ai margini della geografia sociale, e dall’altra ottiene la libertà di espandersi senza limitazioni. Giacché le passioni di alcuni uomini sono disordinate, e tali uomini mostrano di non saper apprezzare l’ordine naturale, il despota legale detiene il potere discrezionale – pieno e illimitato – di reprimere e punire. Il diritto positivo adempie soltanto a una legittima funzione: punire coloro che violano l’ordine naturale, che sono disordinati, che non rispettano le leggi naturali. La nozione di ordine naturale si è consolidata di pari passo con il concetto di “dispotismo legale” proprio della dottrina fisiocratica del XVIII secolo, esattamente come oggi il criterio dell’efficienza del mercato si sviluppa di pari passo con il discorso della penalità neoliberale. 2. Nell’importante saggio contenuto in questo fascicolo, Loïc Wacquant fornisce un significativo contributo teorico instaurando una relazione tra i più recenti sviluppi del settore penale e le più ampie questioni connesse al neoliberalismo e alle modalità di regolazione delle classi povere. Egli costruisce il suo intervento articolando un confronto con i penetranti scritti di Frances Fox Piven 15. Ibidem.

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e di David Harvey e (almeno in parte) delineando una critica della nozione di disciplina formulata da Michel Foucault. Tuttavia, io non sarei altrettanto sbrigativo nel disfarmi di Foucault. Se vogliamo cercare una guida nella sua opera, il posto giusto non è nel suo magistrale Sorvegliare e punire e nella nozione di disciplina ivi sviluppata, ma piuttosto nelle lezioni che egli tenne al Collège de France, riprodotte in Sicurezza, territorio, popolazione e in Nascita della biopolitica.16 In queste lezioni Foucault ha esplorato i fenomeni penali dei tardi anni settanta del secolo scorso – vale a dire il controllo di estese popolazioni carcerarie – attraverso un paradigma diverso da quello di disciplina, e cioè all’interno di quello spazio concettuale che egli aveva definito sécurité e che poi rinominò gouvernementalité.17 Foucault iniziò a esplorare la nozione di sécurité nel tentativo di comprendere il passaggio delle nostre pratiche penali dalla logica del trattamento e della riforma dell’individuo a quella del controllo di sempre più vaste popolazioni carcerarie. Non del tutto sorprendentemente, quelle lezioni su sécurité e biopolitica sarebbero diventate in realtà lezioni sul neoliberalismo.18 In questo saggio utilizzerò il termine “neoliberalismo” in maniera da abbracciare un arco di teoria politica e sociale che copra diversi secoli. Lo stesso vocabolo (come del resto la maggior parte dei vocaboli) è aspramente contestato, anche tra coloro che con più attenzione studiano il concetto cui esso si riferisce.19 Io qui lo userò per catturare almeno tre specifiche e distinte dimensioni. La prima è quella cronologica e distingue teorici del XX secolo come Friedrich von Hayek, Milton Friedman e George Stigler dai primi pensatori liberali, come Adam Smith e François Quesnay. La seconda dimensione è più “ideologica”. I primi pensatori liberali 16. M. Foucault, Surveiller et punir. Naissance de la prison, Gallimard, Paris 1975; trad. Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1976; Id., Sicurezza, territorio, popolazione, cit.; Id., Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France, 1978-1979, SeuilGallimard, Paris 2004; trad. Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli, Milano 2005. 17. Id., Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 88. 18. Id., Nascita della biopolitica, cit., pp. 32-34. 19. J.L. Campbell, O.K. Pedersen (a cura di), The Rise of Neoliberalism and Institutional Analysis, Princeton University Press, Princeton (N.J.) 2001, p. 270.

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condividevano un insieme di idee che non furono mai messe alla prova; in un certo senso, essi erano piuttosto utopisti o idealisti. I neoliberali contemporanei hanno alle spalle una lunga sperimentazione e un bel po’ di storia (la Grande depressione, il New Deal, il collasso finanziario del 2008). In questo senso, il neoliberalismo contemporaneo possiede un tratto ideologico più pronunciato, in quanto tende normalmente a minimizzare il fallimento storico del sistema di mercato. La terza dimensione ha a che fare con la convinzione o con la fede: da questa angolatura il neoliberalismo è inteso come il convincimento che negli Stati Uniti stiamo davvero vivendo in un sistema di libero mercato, e che tale sistema ha conseguito il suo trionfo: è la credenza che i mercati europei del XVIII secolo erano completamente ed eccessivamente regolamentati, mentre quelli degli Stati Uniti odierni sono liberi. Dopo tutto, utilizzerò il termine “neoliberale” in un’accezione appena più ampia di quella impiegata nelle opere più critiche sul neoliberalismo, le quali tendono a concentrarsi sul periodo successivo al 1970 (riferendosi a quello precedente come al periodo dell’embedded liberalism)20 e in particolare sull’ascesa di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, sull’ondata di privatizzazioni che ne derivò e sul “Washington Consensus”21 degli anni 20. La locuzione embedded liberalism fu coniata dallo scienziato della politica statunitense John Gerard Ruggie per designare il sistema economico-sociale (frutto di un compromesso tra capitale e lavoro inteso a disegnare un modello di sviluppo iperproduttivo) che ha governato il mondo avanzato dalla fine della Seconda guerra mondiale al 1970 circa: essa richiama naturalmente il concetto polanyano di embeddedness, che lo studioso austro-ungherese introdusse per sottolineare il naturale incassamento degli scambi economici nella struttura delle relazioni sociali, ossia la loro necessaria appartenenza e afferenza a una trama di regolamentazioni e restrizioni sociali e politiche che li limitano, orientano, rafforzano (cfr. K. Polanyi, The Great Transformation. The Political and Economic Origins of Our Time, Beacon Press, Boston, Mass., 1944; trad. La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Einaudi, Torino 1974). [N.d.C.] 21. L’espressione “Washington Consensus”, coniata nel 1989 dall’economista John Williamson, indica le dieci direttive di stampo liberista (obiettivo del pareggio di bilancio, liberalizzazione dei commerci, riduzione della spesa pubblica, privatizzazione delle aziende statali, ristrutturazione delle politiche fiscali, tributarie e monetarie ecc.), che l’International Monetary Fund e la World Bank (entrambi con sede a Washington: cfr. L. Wacquant, La disciplina produttiva, cit., nota 60) impongono ai paesi bisognosi di aiuto economico; col passare del tempo ha finito per denotare più genericamente le versioni più ortodosse dell’ideologia del libero mercato. [N.d.C.]

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novanta.22 Cercherò anche di distinguere il neoliberalismo dalla globalizzazione – con la quale troppo spesso viene confuso23 – e dai transnazionalismi liberali.24 Inquadrato in questa più ampia prospettiva, il neoliberalismo consiste oggi di un insieme di assunti che svolgono un’azione discorsiva di default in favore di mercati non regolamentati. Esso non rispecchia le posizioni più libertarie in tema di libero mercato che si associano comunemente alla prima Chicago School,25 ma abbraccia piuttosto una concezione più moderata, secondo la quale l’intervento del governo nel settore economico tende a essere inefficiente e dovrebbe perciò essere evitato. Ciò che caratterizza questa concezione più moderata è un insieme di meno radicali assunzioni a priori che si riflettono in special modo nella retorica del dibattito economico. In contrasto con la retorica più estrema della prima Chicago School – per esempio, con la tesi che il libero mercato è il sistema economico più efficiente in qualsiasi circostanza – i teorici neoliberali del mercato suggeriscono che l’intervento del governo tende a essere meno efficiente; questo significa in primo luogo che i meccanismi del mercato funzionano generalmente meglio, in parte perché le transazioni comportano costi inferiori, ma anche perché i soggetti che agiscono nel mercato accumulano informazioni in maniera più efficace e tendono a investire di più nell’esito finale; significa inoltre che le agenzie governative devono affrontare i più impegnativi principal-agent pro22. D. Harvey, A Brief History of Neoliberalism, Oxford University Press, New York 2005; trad. Breve storia del neoliberismo, il Saggiatore, Milano 2007, pp. 20-22, 18 e 23; G. Duménil, D. Lévy, Capital Resurgent: Roots of the Neoliberal Revolution, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2004, pp. 1, 205-206 e 211; J. Peck, A. Tickell, Neoliberalizing space, in N. Brenner, N. Theodore (a cura di), Spaces of Neoliberalism: Urban Restructuring in North America and Western Europe, Blackwell, Oxford-Malden (Mass.) 2002, pp. 33 e 37. 23. J. Peck, A. Tickell, Neoliberalizing space, cit., p. 35. 24. J. Peck, Geography and Public Policy: Constructions of Neoliberalism, “Progress in Human Geography”, 3, 2004, p. 394. 25. La Chicago School è l’orientamento economico di impronta neoclassica, monetarista e liberista che si impose nel Department of Economics della University of Chicago nel corso degli anni cinquanta e a cui si ispirarono le politiche economiche di Augusto Pinochet, Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Tra i suoi esponenti più influenti vanno segnalati Friedrich von Hayek, Milton Friedman, George Stigler, Robert Fogel, Gary Becker, Richard Posner. [N.d.C.]

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blems,26 sono meno versatili e dunque meno abili ad adattarsi alle mutevoli condizioni dei mercati, e tendono a un radicamento contestuale che li rende vulnerabili agli interessi di gruppo. Questi argomenti sono ormai familiari e tendono a promuovere una meno rigida posizione di default che favorisca i meccanismi di mercato rispetto alle politiche “regolatrici”, agiscono cioè imprimendo una inclinazione predefinita nella direzione del “libero mercato”. Per molti versi, è ciò che Jean Comaroff e John Comaroff hanno descritto come l’“impulso a sostituire la sovranità della politica con la sovranità ‘del mercato’, come se quest’ultimo fosse dotato di mente e moralità proprie”.27 La logica della penalità neoliberale agevola le pratiche penali contemporanee incoraggiando la credenza che lo spazio del legittimo intervento del governo sia quello – e solo quello – della sfera penale. Se cerchiamo la chiave per comprendere le nostre pratiche penali contemporanee, dunque, dobbiamo rivolgere la nostra attenzione all’idea di ordine naturale che emerse nel XVIII secolo, e alla sua metamorfosi nel concetto di efficienza di mercato che ebbe luogo nel XX secolo. È l’idea di ordine naturale a rendere possibile e coerente la credenza nell’autoadattamento e nell’autofondazione dei mercati. L’idea di flussi interni autostabili che funzionano meglio se lasciati a se stessi – la concettualizzazione della regolarità naturale, dell’equilibrio spontaneo, della naturale armonia che governerebbe il regno economico – è ciò che permise ai pensatori del XVIII secolo di reimmaginare la realtà sociale, di separare l’economia dalla società, di dislocare ed espandere la sfera penale. 3. Ma non fu sempre così. Ci fu un’epoca in cui le attività di organizzazione, amministrazione e controllo pubblico dei mercati 26. Nella scienza economica e nella scienza politica l’espressione principal-agent problem indica l’ineluttabile margine di inefficienza inerente a qualunque relazione di genere mandante-mandatario in ragione della divergenza di interessi o del diverso investimento emotivo o della mera asimmetria informativa che separano il secondo dal primo (il lavoratore dal proprio datore di lavoro, il management di un’impresa dalla proprietà, un organismo con compiti burocratico-esecutivi dal proprio committente) e che perciò minerebbero in radice l’adempimento di compiti di natura delegata. [N.d.C.] 27. J. Comaroff, J.L. Comaroff (a cura di), Millennial Capitalism and the Culture of Neoliberalism, Duke University Press, Durham (N.C.) 2001, p. 43.

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costituivano parte integrante dell’economia pubblica. Il giovane Adam Smith lo aveva ben compreso, e infatti utilizzò il campo discorsivo delle funzioni di polizia per dissertare sull’economia pubblica, sulla regolazione dei mercati, sui monopoli, sul denaro, sul commercio: insomma, sulle strategie da impiegare per accrescere la ricchezza di una nazione. Nelle Lectures on Jurisprudence, che Smith tenne alla Glasgow University tra il 1762 e il 1764 (dopo la pubblicazione di The Theory of Moral Sentiments, che risale al 1759, ma prima della pubblicazione di The Wealth of Nations, che giunse nel 1776),28 il tema dell’economia pubblica fu esclusivamente derubricato in termini di polizia. Di più: Smith sostenne che il principale compito delle politiche di polizia fosse il perseguimento dell’obiettivo del bon marché. Una volta garantita la sicurezza interna di una nazione e il godimento della proprietà privata da parte dei singoli individui – sostenne Smith nelle lezioni tenute tra il 1762 e il 1763 – l’attenzione dello stato dovrebbe rivolgersi alla promozione della ricchezza della nazione. “Ciò dà luogo a quello che noi chiamiamo polizia”, disse Smith. “Qualunque disposizione venga approvata in materia di commercio, di agricoltura, di industria del paese, deve considerarsi parte delle politiche di polizia.”29 Smith fece risalire la nozione di polizia allo stato francese, citando la credenza popolare secondo la quale il re pretendeva dal suo lieutenant général de police il conseguimento di tre obiettivi: la pulizia e la sicurezza della nazione, e l’abbondanza di beni a buon mercato. Smith si riferiva in particolare al marchese d’Argenson, capo della polizia di Parigi dal 1697 al 1718, il quale – secondo la leggenda – al momento stesso di assumere il proprio incarico venne a sapere che il re gli avrebbe richiesto tre cose: “La prima era la pulizia o neteté; la seconda era la aisance o si28. A. Smith, Lectures on Jurisprudence, Clarendon Press, Oxford 1978; Id., The Theory of Moral Sentiments, Cambridge University Press, Cambridge 2002 (ed. orig. Millar-Kincaid & Bell, London-Edinburgh 1759); trad. Teoria dei sentimenti morali, Rizzoli, Milano 1995; Id., The Wealth of Nations: An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, Modern Library, New York 1937 (ed. orig. Strahan & Cadell, London 1776); trad. La ricchezza delle nazioni, Newton Compton, Roma 2008. 29. A. Smith, Lectures on Jurisprudence, cit., p. 5.

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curezza; la terza era il bon marché, o la vendita di beni a buon mercato”.30 Quindi, affermò Smith nelle lezioni del 1763-1764, alla voce polizia noi “registreremo l’opulenza di uno stato”, cioè, più specificamente, “l’obiettivo dell’abbondanza di beni a basso prezzo, ovvero – e si tratta della stessa cosa – l’individuazione del modo più appropriato di conseguire ricchezza e abbondanza”.31 Per i primi economisti pubblici, “polizia” era ciò che assicurava un’abbondante fornitura di cibo e merci. Come notarono Michel Foucault, Pasquale Pasquino, Mariana Valverde e altri studiosi, questa originaria nozione di “polizia” recava con sé numerosi significati, e non si limitava a quella funzione esecutivo-poliziesca associata al lieutenant général de police che per certi versi si avvicina alla nostra attuale concezione della legge (e che rimanda all’immagine delle uniformi blu che vigilano sulla sua applicazione).32 L’espressione “polizia”, nella sua più ampia accezione, catturava anche quella che oggi chiameremmo “amministrazione”, sebbene allora si riferisse esclusivamente ai comparti particolari e locali dell’apparato e delle attività statali; al contrario, il termine gouvernement designava l’amministrazione dell’État.33 Ma i differenti significati erano intrecciati: l’amministrazione delle condotte economiche che garantivano la sussistenza e l’amministrazione delle operazioni dei mercati cadevano entrambe sotto la giurisdizione delle funzioni di polizia, e venivano percepite come attività organizzate attorno a logiche di sorveglianza. Come dimostrano le 30. Ibidem. 31. Ivi, pp. 398 e 487. 32. F. Olivier-Martin, La police économique de l’Ancien Régime, Éditions Loysel, Paris 1988 (ristampa di Cours d’histoire du droit public rédigé d’après les notes et avec l’autorisation de M. Olivier-Martin, Professeur à la Faculté de Droit de Paris, Diplôme d’études supérieures, Droit Public 1944-1945, Les Cours de Droit, Paris 1945), pp. 13-22; S.L. Kaplan, Bread, Politics and Political Economy in the Reign of Louis XV, Martinus Nijhoff, The Hague 1976, vol. I, pp. 11-14; M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., pp. 225-226; P. Pasquino, Theatrum politicum. La genealogia del capitale – la “polizia” e lo stato di prosperità, “aut aut”, 167-168, 1978, pp. 47-61; P. Napoli, Naissance de la police moderne: Pouvoir, normes, société, Éditions La Découverte, Paris 2003, p. 8; M.D. Dubber, M. Valverde, The New Police Science: The Police Power in Domestic and International Governance, Stanford University Press, Stanford (Cal.) 2006. 33. F. Olivier-Martin, La police économique de l’Ancien Régime, cit., p. 13.

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prime lezioni di Smith, tra l’economia pubblica e la “polizia” sussisteva una relazione di perfetta continuità. Bastava un piccolo passo per estendere tale logica al campo della pena. Ed è ciò che avrebbe fatto il giovane aristocratico milanese Beccaria nel suo breve ma influente trattato Dei delitti e delle pene, pubblicato nel 1764.34 Il nuovo campo dell’economia pubblica, vantava Beccaria, aveva addomesticato e civilizzato le nazioni attraverso il commercio. “Si sono conosciute le vere relazioni fra il sovrano e i sudditi,” dichiarò Beccaria, “[...] e si è accesa fralle nazioni una tacita guerra d’industria la più umana e la più degna di uomini ragionevoli.”35 Seguendo gli stessi insegnamenti, riteneva Beccaria, si sarebbero potute addomesticare e civilizzare anche le pratiche penali e, col tempo, si sarebbero eliminati i brutali eccessi propri del sistema penale del XVII secolo. Sotto l’influenza di Beccaria, il campo dell’economia pubblica avrebbe colonizzato il dominio penale e imposto la stessa logica delle risposte calibrate e proporzionate al problema della naturale tendenza umana alla devianza. Nella sfera penale – esattamente come in quella economica – la soluzione proposta da Beccaria fu quella di amministrare correttamente un repertorio di tariffe e di prezzi. Per Beccaria la “polizia” era parte integrante dell’economia pubblica. Le lezioni di economia pubblica che egli tenne nel 1769 a Milano (e che vennero pubblicate postume) coprivano cinque aree: agricoltura, manifattura, commercio, finanza, polizia. La “polizia” era parte integrante dello studio dell’economia pubblica – occupava, infatti, un’intera sezione accanto a quelle sul commercio e sulla finanza – perché condivideva la medesima razionalità, vale a dire quella della pubblica amministrazione.36 Ad accomunare il giovane Smith e Beccaria è la continuità tra 34. C. Beccaria, Dei delitti e delle pene: con una raccolta di lettere e documenti relativi alla nascita dell’opera e alla sua fortuna nell’Europa del Settecento, Einaudi, Torino 1994, p. 10 (ed. orig. Coltellini, Livorno 1764). 35. Ivi, p. 8. 36. C. Beccaria, Edizione nazionale delle opere di Cesare Beccaria, a cura di L. Firpo, Mediobanca, Milano 1984-1990, 7 voll.; P. Pasquino, Theatrum politicum. La genealogia del capitale, cit.

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l’economia e la dimensione di controllo e di polizia delle funzioni amministrative. Entrambi rilevavano una piena sovrapposizione tra le due sfere. Per Smith la categoria ombrello era quella di “polizia”, che sussume la discussione sull’economia pubblica e sulla ricchezza di una nazione. Per Beccaria – e per altri cameralisti 37 della sua epoca – la categoria generale è quella dell’economia pubblica, al cui interno la “polizia” occupa un’importante sezione accanto a quelle del commercio e della finanza. Entrambi, tuttavia, intendono i due dominî stretti in una relazione di continuità se non di coincidenza. 4. È precisamente questa idea di continuità tra l’economia pubblica e le funzioni di “polizia” che nella seconda metà del XVIII secolo apre la strada a un ideale molto differente. Se il bon marché, ossia l’abbondanza di beni a buon mercato, era l’obiettivo dell’economia pubblica e della police des grains alla metà del secolo,38 difficilmente le cose sarebbero potute essere più diverse appena un decennio dopo. Il contrasto è stridente, e può esser catturato nel nuovo dogma di François Quesnay: 37. Sorto in Germania alla fine del XVII secolo (“camere” erano gli organi di pianificazione e di controllo burocratico che contribuivano a delineare le politiche del principe) e poi diffusosi in buona parte dell’Europa, il cameralismo era una dottrina economica (e in seguito un autentico sapere disciplinare che trovò ospitalità in numerosi sedi universitarie) che mirava a formulare una teoria articolata e tendenzialmente onnicomprensiva del buon governo: affine al mercantilismo per la triplice, condivisa tesi centrale – secondo la quale la ricchezza di una nazione dipende da una elevata circolazione dei metalli preziosi, dalla regolamentazione della vita economica da parte dello stato e dalla consistenza numerica della popolazione – se ne discostava per l’attenzione dedicata a metodi ed esigenze dell’amministrazione anziché all’andamento della bilancia commerciale. [N.d.C.] 38. Rappresentativo tanto della congiuntura politica quanto della prospettiva teorica che la innervava può essere considerato l’influente Essai sur la police générale des grains, sur leurs prix et sur les effets de l’agriculture di Claude Jacques Herbert (Londres 1753), che sosteneva la necessità che la Francia elaborasse una decisa politica agricola, capace di garantire un abbondante approvvigionamento cerealicolo (unica stabile e affidabile fonte di ricchezza per una nazione), e imprimesse nuovo sviluppo agli scambi commerciali assoggettandoli al contempo a rigidi vincoli legislativi. La contaminazione politico-semantica segnalata da Harcourt emerge anche nelle versioni italiane del testo, tradotto inizialmente Riflessioni sull’economia generale de’ grani tradotte dal francese, con un discorso preliminare del signor abbate Genovesi catedratico di commercio (Giovanni Gravier, Napoli 1765) e in seguito Saggio sulla polizia generale de’ grani, di Claudio J. Herbert, economista francese. Prima versione italiana, con note del cav. Borghi (Paolo Emilio Giusti, Milano 1816). [N.d.C.]

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Abondance et non-valeur n’est pas richesse. Disette et cherté est misère. Abondance et cherté est opulence.39 In altre parole, la ricchezza di una nazione non consiste nell’abbondanza di beni di scarso valore. Scarsità e prezzi alti, naturalmente, corrispondono a miseria. Ed è l’abbondanza coniugata ai prezzi elevati a produrre opulenza. Questo mutamento trasformò radicalmente il significato, la connotazione e il ruolo delle funzioni di polizia, e si manifestò originariamente negli scritti dei primi économistes. Fu proprio Quesnay, dalla sua prima pubblicazione nel campo dell’economia pubblica – la voce “Fermiers” nel tomo VI della Encyclopédie (1756)40 – ai suoi ultimi contributi nelle discipline economiche, raccolti e pubblicati nella Physiocratie di Dupont de Nemours del 1768,41 a riorientare drasticamente la relazione tra economia pubblica e “polizia”: l’intervento del governo sul mercato diventava ora oppressivo, e interferiva con l’autonomo funzionamento di un sistema economico governato dalle leggi di natura e dall’ordine naturale. Nel 1776, l’anno in cui venne pubblicato The Wealth of Nations, Adam Smith non avrebbe più utilizzato la nozione di “polizia” per discutere di economia pubblica (di fatto, il vocabolo sarebbe apparso molto raramente nel testo). Quesnay presentò la sua idea di economia quale sistema autonomo governato dall’ordine naturale nel suo Tableau économique, pubblicato originariamente nel 1760 in un’edizione accresciuta dell’Ami des hommes del Marquis de Mirabeau.42 Il Tableau era una descrizione grafica dei flussi di denaro e di merci fra le tre principali classi sociali: agricoltori, proprietari terrieri e artigiani. Per mezzo di un semplice grafico e del suo andamento a zig-zag, Quesnay cercò di visualizzare le sue tesi principali, in particolare 39. F. Quesnay, Œuvres économiques complètes et autres textes, cit., p. 570. 40. Id., “Fermiers”, in Œuvres économiques complètes et autres textes, cit., vol. I, pp. 127161. 41. P.S. Dupont de Nemours, Physiocratie, ou constitution naturelle du gouvernement le plus avantageux au genre humain, Merlin, Paris 1767-1768, 3 voll. 42. M. de Mirabeau, L’ami des hommes, Chez Chrétien Herold, Hambourg 1760.

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quella secondo cui la produzione agricola è l’unica fonte di ricchezza di una società, e che la ricchezza può essere prodotta solo per mezzo di un sistema di scambio autonomo, cosicché lo stato deve smettere di interferire attraverso l’imposizione di tariffe, la limitazione dei flussi commerciali e la codificazione di altre norme restrittive. Il Tableau économique di Quesnay suscitò molta attenzione perché tentò di rappresentare graficamente e sistematicamente quello che Dumont definì come un “tutto coerente”.43 Ma ciò che si rivelò ancora più importante e più influente sul futuro pensiero liberale non fu semplicemente la nozione di sistema economico, quanto piuttosto la soggiacente idea di ordine naturale. I sistemi possono funzionare perfettamente attraverso interventi e calibrazioni esterne: un motore funzionerà come un coerente meccanismo unitario fino a quando verrà rifornito di benzina. Al contrario, il tratto davvero notevole del Tableau di Quesnay era che il sistema ivi descritto veniva governato dall’ordine naturale, ed era completamente indipendente da stimoli esterni. L’autentico contributo di Quesnay non fu il semplice concetto di sistema, ma l’idea di una regolarità naturale che governerebbe il mondo (e che avrebbe trovato la sua più elaborata articolazione nel libro del 1767 di Le Mercier de La Rivière, L’ordre naturel et essentiel des sociétés politiques).44 La nascita – o, più correttamente, l’emergere e il maturare45 – 43. L. Dumont, Homo aequalis: genèse et épanouissement de l’idéologie économique, Gallimard, Paris 1977, p. 41; trad. Homo aequalis: genesi e trionfo dell’ideologia economica, Adelphi, Milano 1984, p. 67. È proprio questo che Marx trovò particolarmente brillante. Nelle sue Teorie sul plusvalore egli scrisse del Tableau di Quesnay che “questo tentativo di rappresentare l’intero processo di produzione del capitale [...] in un Tableau che in fact è costituito esclusivamente da cinque linee che collegano tra loro sei punti di partenza o di ritorno – [e ciò] nel secondo [nel manoscritto: ‘primo’] terzo del secolo XVIII, nel periodo in cui l’economia politica si trova ancora nel suo stadio infantile – fu in realtà un’idea estremamente geniale, indiscutibilmente la più geniale di cui si sia fin qui resa responsabile l’economia politica” (K. Marx, Theorien über den Mehrwert, Dietz Verlag, Berlin 1905; trad. Teorie sul plusvalore, I, in K. Marx, F. Engels, Opere, Editori Riuniti, Roma 1979, vol. XXXIV, p. 363). 44. P.-P. Le Mercier de La Rivière, L’ordre naturel et essentiel des sociétés politiques, cit. 45. Ovviamente l’idea di ordine naturale non era del tutto nuova. Simone Meyssonnier, nella sua storia delle origini del pensiero liberale francese del XVIII secolo (La balance et l’horloge: la genèse de la pensée libérale en France au XVIIIe siècle, Les Éditions de la Passion, Mon-

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dell’idea di ordine naturale contribuì a modellare una visione della sfera economica quale sistema autonomo, autoadattivo, autoregolato e capace tanto di raggiungere un equilibrio spontaneo e naturale quanto di produrre ricchezza. Questa stessa nozione si riaffaccia nelle opere più tarde di Adam Smith e di Jeremy Bentham e, oggi, in quelle di pensatori neoliberali come Richard Posner e Richard Epstein. L’idea di ordine naturale si è ora trasformata nel concetto di efficienza del mercato. Perché è proprio l’idea di ordine naturale a far sì che Posner creda che “quando i costi delle transazioni sono bassi, il mercato è per definizione il metodo più efficiente di allocazione delle risorse”.46 In realtà, il concetto di efficienza naturale è così cruciale nel pensiero di Posner che egli definisce la stessa condotta criminale in termini di efficienza. Egli spiega: “Io sostengo che ciò che è oggetto di proibizione è una classe di atti inefficienti”.47 La definizione di crimine è dunque debitrice della nozione di efficienza naturale. Esattamente allo stesso modo, i fisiocratici avrebbero definito la criminalità come disordine e devianza dalle leggi naturali. Il pensiero neoliberale contemporaneo trae origine da tale disgiunzione tra “polizia” ed economia pubblica.

treuil 1989), la fa risalire a Pierre Le Pesant de Boisguilbert, la cui opera si colloca quasi cento anni prima (tra il 1695 e il 1707), e Joseph Schumpeter la riconnette alla dottrina degli Scolastici, teologi attivi tra il XIV e il XV secolo (J.A. Schumpeter, History of Economic Analysis, Oxford University Press, New York 1968, p. 97 [ed. orig. Allen & Unwyn, London 1954]; trad. Storia dell’analisi economica, Boringhieri, Torino 1972, ed. ridotta, p. 65 [ed. integrale Einaudi, Torino 1959-1960, 3 voll.]). E lo stesso Dupont de Nemours – il principale divulgatore e il più grande ammiratore e discepolo di Quesnay – ricondusse la dottrina fisiocratica al Marquis d’Argenson (tra gli altri), al quale viene attribuita la massima “pas trop gouverner” (citato in A.R.J. Turgot, Sur les économistes, in Œuvres de Mr. Turgot, Ministre d’État, précédées et accompagnées de Mémoires et de Notes sur sa vie, son administration et ses ouvrages, Imprimerie de Delance, Paris 1808, vol. III, p. 309). Ma per esercitare una qualche influenza culturale non è necessaria un’autentica originalità. L’ossessione di Quesnay per l’ordine naturale veniva percepita come nuova, e questa è spesso la cosa più importante. Percepita come nuova e radicale: molti credettero che quella ossessione aveva inaugurato, nelle parole di Dupont de Nemours, “una nuova scienza in Europa” (E. Rothschild, Global Commerce and the Question of Sovereignty in the Eighteenth-Century Provinces, “Modern Intellectual History”, 1, 2004, p. 4) e molti salutarono Quesnay come il padre fondatore di quella nuova scienza. 46. R. Posner, An Economic Theory of the Criminal Law, cit., pp. 1195-1196. 47. Ivi, p. 1195.

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5. La domanda successiva è: a quale prezzo abbiamo finito per credere che l’economia è il regno dell’ordine naturale e che la legittima sfera del controllo poliziesco – ossia dell’amministrazione e del governo – si trova altrove? Innanzitutto, al prezzo della distorsione e dell’espansione senza limiti della sfera penale; e, in secondo luogo, al prezzo della naturalizzazione e dell’occultamento dei meccanismi regolativi che agiscono negli odierni mercati, e dunque della dissimulazione degli enormi flussi di distribuzione di ricchezza che quotidianamente li attraversano. In primo luogo, dunque, la distorsione della sfera penale. Il nuovo paradigma penale influenzò il pensiero liberale del XIX secolo e il moderno pensiero neoliberale: ciò è particolarmente evidente nell’opera di Jeremy Bentham, il quale – sebbene, come Adam Smith, respingesse la dottrina fisiocratica (principalmente per via del cieco affidarsi di Quesnay all’agricoltura quale unico mezzo di creazione di ricchezza per una nazione) – abbracciò e sviluppò nei suoi scritti economici una nozione di ordine naturale e, attraverso una curiosa congiunzione tra la teoria economica liberale e la teoria penale di Beccaria, riprodusse la relazione fisiocratica tra mercati e pena: ordine naturale nella sfera economica, ma intervento del governo nella sfera penale. Sul versante dell’economia pubblica, come egli stesso sottolineò nel suo Manual of Political Economy del 1794, Bentham abbracciò il liberalismo di Adam Smith.48 Sul versante della pena, tuttavia, Bentham aderì per intero alla posizione di Beccaria, condividendone pienamente la nozione di polizia e di amministrazione (nonché l’idea di una sfera dell’attività umana che deve essere lasciata all’intervento del governo). Di fatto, il codice penale era per Bentham un “grande tariffario” per mezzo del quale il governo fissava il prezzo della devianza, una lista di prezzi prefissati nelle cui voci si realizzava la piena opposizione al laissez-faire. L’influenza di Beccaria sugli scritti penali di Bentham fu decisiva.49 48. J. Bentham, Manual of political economy, in Jeremy Bentham’s Economic Writings, The Blackfriars Press Limited, Leicester 1952, 3 voll.; trad. Manuale di economia politica, in AA.VV., Biblioteca dell’economista, Pomba, Torino 1854. 49. H.L.A. Hart, Bentham and Beccaria, in Essays on Bentham: Jurisprudence and Political Theory, Oxford University Press, New York 1982, pp. 40-52.

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Oggi questa visione di un mercato ordinato e delimitato dalla sanzione penale domina l’immaginario collettivo, e le moderne pratiche penali si mostrano coerenti con tale rappresentazione. Dimensioni e costi della sfera penale neoliberale negli Stati Uniti superano di gran lunga quelli del passato.50 Uno studio del PEW Center pubblicato nel marzo 2008 rivela che il costo delle prigioni negli Stati Uniti ha superato ogni altro paragonabile bilancio di spesa eccetto quello di Medicaid. “A livello sia statale che federale la spesa per il trattamento dei criminali sta superando gli stanziamenti di bilancio nell’istruzione, nei trasporti e nell’assistenza pubblica. Solo la spesa di Medicaid è cresciuta più rapidamente di quella destinata agli istituti correzionali statali, che si è quadruplicata nel corso degli ultimi due decenni.”51 Secondo il rapporto del PEW, nel 2008 gli istituti di pena sono costati agli stati la sbalorditiva cifra di 47 miliardi di dollari, in gran parte assorbiti dagli elevatissimi tassi di carcerazione: “Nel 2008 7,3 milioni di americani, cioè 1 adulto su 31, sono in prigione o in regime di parole o di probation, per un costo gravante sugli stati di 47 miliardi di dollari”.52 Nel 2001 la cifra totale stanziata dagli stati per gli isti50. La mia argomentazione intende mettere a fuoco la trasformazione di una certa, originaria razionalità penale nella penalità neoliberale. È dunque importante mettere a confronto le moderne pratiche penali neoliberali con la situazione degli stessi paesi neoliberali in epoche precedenti, che essi siano gli Stati Uniti, la Gran Bretagna o la Francia. Spesso prevale la tentazione di mettere a confronto il moderno neoliberalismo con altri discorsi contemporanei – come le forme di razionalità socialiste, o comuniste, o fondamentaliste, o autoritarie – e suggerire che il neoliberalismo è, o non è, peggiore di esse, che esso produce una più vasta sfera penale oppure no, pene maggiori oppure no, maggiore incarcerazione oppure no. Per sviluppare tali comparazioni molti muovono dal fatto che gli Stati Uniti sono i primi al mondo non solo nel tasso di individui dietro le sbarre, ma anche nel numero assoluto di persone imprigionate, aggiudicandosi con ciò la medaglia d’oro anche rispetto a un paese come la Cina che conta una popolazione circa tre volte e mezzo più numerosa. Tuttavia, ad animare il mio progetto non sono i confronti tra il neoliberalismo e altri discorsi esistenti. La mia argomentazione rappresenta, in senso ampio, una critica interna della direzione assunta dal nostro discorso: essa consiste cioè nel suggerire che tale discorso ha assunto una direzione che favorisce la crescita della sfera penale ma avrebbe potuto assumere una direzione molto diversa. Di nuovo: essa non rappresenta una critica esterna, in quanto non mette a confronto il neoliberalismo con altri discorsi contemporanei e non giudica se il primo sia “migliore” o “peggiore” dal punto di vista degli effetti prodotti sulla sfera penale. 51. S. Moore, Prison Spending Outpaces All but Medicaid, “New York Times”, 3 marzo 2009. 52. Ibidem. [Nel sistema penale statunitense la parole è il rilascio anticipato di un condannato, al quale viene concesso di scontare la parte restante della pena fuori di prigione a

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tuti correzionali era stata di 38 miliardi di dollari (sempre al netto delle spese di costruzione delle strutture detentive).53 Nel 2007 la spesa della California per gli istituti di pena ha sfiorato i 10 miliardi di dollari, una cifra circa due volte superiore a quella del 2001.54 Molti stati stanziano annualmente più fondi per le prigioni che per i college.55 Le cifre sono sconcertanti. Con circa l’1 per cento della popolazione adulta statunitense dietro le sbarre, dimensioni e costi della nostra sfera penale sono di gran lunga più elevati di quanto fossero nelle epoche preliberali. In secondo luogo, la retorica del neoliberalismo determina la naturalizzazione del mercato, dissimulando in tal modo la massiccia distribuzione delle risorse che prende forma al suo interno. Essa nasconde il ruolo dello stato, i legami tra stato e attori e associazioni non statali, e la vasta struttura normativo-legale che conferisce identità e articolazione a quelle entità; inoltre, distrae il nostro sguardo dalla condizione di libertà che caratterizzava in passato le nostre società. In altre parole, la retorica neoliberale occulta da una parte il grado di libertà di cui si godeva all’inizio del XVIII secolo e dall’altra il grado di regolamentazione cui siamo soggetti oggi. Nei mercati dei sistemi economici contemporanei c’è, e c’è sempre stata, una dimensione “costrittiva” ben più profonda di quanto siamo capaci di riconoscere. La verità è che ogni atto di broker, compratori, venditori, banche di investimento, società di brokerage, compagnie del mercato azionario (e non solo) determinate condizioni restrittive (astinenza da droghe e alcol, ricerca di un impiego, assenza di rapporti con altri individui condannati, regolarità di rapporti con il parole officer ecc.) e sotto la supervisione di un’autorità appositamente costituita (parole officer); la probation è la condanna, in sede di pronuncia della sentenza, a scontare una pena (o parte di essa) fuori di prigione a determinate condizioni restrittive (astinenza da droghe e alcol, ricerca di un impiego, assenza di rapporti con altri individui condannati, regolarità di rapporti con il probation officer ecc.) e sotto la supervisione di una autorità appositamente costituita (probation officer), N.d.C.] 53. Bureau of Justice Statistics (BJS), Special Report: State Prison Expenditures, 2001, <http://www.ojp.usdoj.gov/bjs/pub/pdf/spe01.pdf>, 2004. 54. California Department of Corrections and Rehabilitation (CDCR), 2007-08 Budget Overview, <http://www.cdcr.ca.gov/BudgetRegs/budgetOverview0708.html>, 2007. 55. Massachusetts Taxpayers Foundation (MTF), Bulletin: State Spending More on Prisons than Higher Education, <http://www.masstaxpayers.org/data/pdf/bulletins/11-2403%20Corrections%20Bulletin.PDF>, 24 novembre 2003.

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è soggetto a rigide valutazioni e regolamentazioni. Abbondano le norme, i comitati di controllo, le advisory letters,56 le azioni legali. La lista di prescrizioni e proscrizioni è lunga. Per esempio, le società della Borsa di New York possono concordare una commissione fissa sulle transazioni azionarie di volume inferiore a 500.000 dollari – ossia fissare il prezzo di questa porzione delle compravendite azionarie – ma negoziare liberamente le commissioni sulle transazioni azionarie di volume superiore.57 Le società di brokerage possono stilare e combinare blacklists per impedire che piccoli compratori di titoli azionari di recente emissione tramite offerta pubblica li rivendano prima di un periodo di tempo prefissato (variabile dai trenta ai novanta giorni); ma le stesse società possono consentire a istituzioni più grandi di svendere i loro titoli in qualunque istante del dopomercato borsistico.58 Le norme vigenti lungo i confini dei moderni mercati sono intricate e spesso arcane, e smentiscono la semplicistica convinzione che i nostri mercati siano “liberi”. La realtà è molto più complessa. 6. Una genealogia della penalità neoliberale – progetto del quale il presente saggio costituisce solo un abbozzo – deve proporsi di indagare fino a qual punto sia giunto il processo di naturalizzazione di questa razionalità dominante, quanto diffusa e profonda sia oggi la credenza in questa forma di ragionamento, quanto ovvio sia divenuto l’aderire a questa logica, e a quale prezzo. In questo senso, un simile progetto si colloca nel solco di quella consolidata tradizione nominalista che – dipartendosi dal metodo del francescano William of Ockham, attraversando i saggi di Michel de Montaigne, giungendo infine alla forza polemica di Friedrich Nietzsche – ha segnato la riflessione filosofica medievale, rinascimentale e moderna. Questo progetto inizia rappresentando la 56. Le advisory letters sono pubblicazioni di consulenza finanziaria (perlopiù emesse da società appositamente registrate presso l’agenzia governativa Securities and Exchange Commission, o SEC), dirette ai sottoscrittori o al pubblico più ampio e contenenti informazioni e commenti sull’andamento dei mercati nonché più o meno mirate raccomandazioni di investimento. [N.d.C.] 57. Gordon v. New York Stock Exchange, 422 U.S. 659 (1975). 58. Friedman v. Salomon/Smith Barney Inc., 313 F.3d 796 (2d Cir. 2002).

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forma universale (in senso ockhamiano) dei concetti di “ordine naturale” e di “efficienza del mercato”, illustra quale lavoro essi compiano e sfida così la stessa esistenza di quelle categorie universali allo scopo di catturare la funzione delle procedure di designazione e disvelare il loro compito di occultamento dei tratti più radicalmente singolari delle entità individuali: in questo caso, le forme individuali dell’organizzazione sociale ed economica. La risposta che io fornisco in queste pagine riflette questa influenza nominalista: noi abbiamo sviluppato queste categorie o universali per conferire senso a quelli che in realtà sono fenomeni irriducibilmente individuali, per situare pratiche discrete e divergenti dentro un coerente apparato concettuale, per disporre di stereotipi o di più maneggevoli strumenti euristici, capaci di semplificare le nostre attività di valutazione e i nostri metodi di giudizio. Per svolgere questo lavoro abbiamo creato delle apposite strutture di significato: ma abbiamo pagato un prezzo esorbitante. Lo storico Paul Veyne, nel suo recente Foucault: il pensiero e l’uomo,59 rintraccia una simile influenza nominalista nell’opera di Foucault, richiamando in particolare l’attenzione sul passo di apertura delle lezioni del 1979, poi raccolte nel volume Nascita della biopolitica.60 Il metodo di Foucault consisteva nell’esaminare criticamente le nostre concezioni teoriche per giungere a comprendere qualcosa di noi stessi.61 In una prospettiva simile, questa breve genealogia chiede in sostanza: supponiamo che l’“ordine naturale” o l’“efficienza del mercato” non esistano. Quali conclusioni dovremmo trarre a proposito del lavoro svolto da questi concetti? 59. P. Veyne, Foucault. Sa pensée, sa personne, Albin Michel, Paris 2008; trad. Foucault: il pensiero e l’uomo, Garzanti, Milano 2010. 60. M. Foucault, Nascita della biopolitica, cit.; B. Harcourt, Cesare Beccaria et son traité “Des délits et des peines”, in J.-L. Halperin, O. Cayla (a cura di), Les grandes œuvres juridiques, Éditions Dalloz, Paris 2008; P. Veyne, Foucault, cit., p. 48. 61. M. Foucault, L’éthique du souci de soi comme pratique de la liberté, in Dits et écrits, Gallimard, Paris 1994, vol. IV, p. 726; trad. L’etica della cura di sé come pratica della libertà, in Archivio Foucault 3: Estetica dell’esistenza, etica, politica, 1978-1985, Feltrinelli, Milano 1998, p. 290.

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Il mio discorso muove dalla convinzione che noi non abbiamo modo di sapere se le nostre attuali pratiche sociali siano più o meno regolamentate, più o meno libere, più o meno coercitive. Oggi le nostre esistenze vengono amministrate in maniera ben più rigida di quanto appaia o di quanto noi siamo disposti a riconoscere. Che tale controllo sia più o meno ampio di quello esercitato sulla vita sociale nel XVIII secolo è impossibile dirlo, perché è impossibile pervenire a una esatta quantificazione. Il fatto è, però, che noi descriviamo le nostre attuali pratiche sociali come più libere di quelle del passato:62 e il problema è proprio questo. Per giudicare positivamente le pratiche della nostra società noi ricorriamo alle categorie di libertà e di costrizione; ma in questo modo perdiamo di vista i processi di distribuzione che tali pratiche – ossia le norme in vigore nel libero mercato – attivano e rinforzano. Come notano – correttamente, io ritengo – John Campbell e Ove Pedersen, “il neoliberalismo non ha a che fare tanto con la deregolamentazione quanto con la ri-regolamentazione dell’attività economica”.63 Il problema è che esso nasconde tutta la ri-regolamentazione sotto la facciata della deregolamentazione. Conclusione Sorprende che la seconda epigrafe non sia stata vergata da Friedrich von Hayek o da Milton Friedman – sebbene di Friedman essa riecheggi l’idea che “la libertà economica è anche un indispensabile mezzo per la realizzazione della libertà politica”.64 No, quelle parole appartengono a Barack Obama, e vennero pro62. Il mio lavoro mostra qui una somiglianza di famiglia con la ricerca di Marion Fourcade e Kieran Healy e in particolare con il contenuto del loro articolo Moral Views of Market Society (“Annual Review of Sociology”, 1, 2007, p. 286), nel quale essi, allargando l’analisi di Albert Hirschman, tratteggiano le numerose rappresentazioni odierne del mercato (inteso e vissuto quale fattore di civilizzazione, strumento ormai fiacco, elemento distruttivo, sistema sempre più moralizzato e moralizzante). 63. J.L. Campbell, O.K. Pedersen (a cura di), The Rise of Neoliberalism and Institutional Analysis, cit., p. 3. 64. M. Friedman, Capitalism and Freedom, University of Chicago Press, Chicago 1962, p. 8; trad. Capitalismo e libertà, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1987, p. 17 (ed. orig. Efficienza economica e libertà, Vallecchi, Firenze 1967).

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nunciate nell’estate del 2008, dopo il collasso di Bear Stearns65 e del mercato dei mutui ipotecari, quando il crollo finanziario incombeva su di noi. E anche dopo che il sistema bancario statunitense ebbe toccato il fondo – dopo il fallimento di Lehman Brothers, i salvataggi di Fannie Mae, Freddie Mac e AIG,66 e l’approvazione governativa di un programma di stanziamento di 700 miliardi di dollari a vantaggio dell’industria finanziaria in crisi (TARP, Troubled Assets Relief Program) – Timothy Geithner, segretario del Tesoro del presidente Obama, avrebbe comunque dichiarato: “Noi abbiamo un sistema finanziario che è sostenuto dagli azionisti privati ed è guidato da istituzioni private, e faremo il possibile per proteggerlo così com’è”.67 Non dimentichiamo che la collettività americana, in seguito all’operazione da 350 miliardi di dollari che diede luogo alla prima parziale nazionalizzazione delle più importanti banche statunitensi, era in quel momento la più grande azionista di Citibank (detenendo il 7,8 per 65. La Bear Stearns Companies, fino al 2007 tra le più importanti banche di investimento e di affari degli Stati Uniti, venne travolta dalla crisi dei mutui ipotecari, nel cui settore si era andata esponendo in maniera crescente: la sua svendita al colosso dei servizi finanziari JP Morgan Chase, giunta nel marzo 2008 dopo il fallito tentativo di salvataggio della Federal Reserve Bank of New York (che aveva concesso un prestito straordinario), annunciava l’imminente collasso del sistema finanziario. [N.d.C.] 66. Il 15 settembre 2008 la Lehman Brothers Holdings, istituto bancario e finanziario globale fondato a metà dell’Ottocento (e tra i più attivi sul mercato dei titoli obbligazionari dello US Department of Treasury), richiese l’apertura della procedura fallimentare che avrebbe condotto alla più imponente bancarotta della storia degli Stati Uniti (nonché all’acquisto delle spoglie da parte della holding finanziaria britannica Barclays) e messo fine a una lunga agonia scandita dal ricorso a pratiche illecite nella gestione dei bilanci, dall’emergere e consolidarsi di una insolvenza strutturale, dall’erosione della fiducia degli investitori e dal crollo dei titoli azionari della società; le sue sorti, drammaticamente e incancellabilmente messe in scena da dipendenti e manager colti nel raccogliere i propri effetti personali e nell’abbandonare il posto di lavoro, hanno dominato la rappresentazione collettiva della crisi finanziaria del 2008. L’American International Group (AIG) è la società di assicurazioni che nel settembre 2008 entrò in crisi di liquidità a causa del declassamento del suo credit rating (e del conseguente obbligo di presentazione di garanzie a sostegno della propria solvibilità) e che godette di un credito agevolato da parte della Federal Reserve Bank of New York per un ammontare di 85 miliardi di dollari; in questo caso il piano funzionò, risolvendosi nel più importante salvataggio governativo di una società privata nella storia statunitense. Su Fannie Mae e Freddie Mac, cfr. J.L. Campbell, Stato penale e stato debitore: l’irripetibile esemplarità del neoliberalismo americano, in questo fascicolo. [N.d.C.] 67. P. Krugman, Bailout for Bunglers, “New York Times”, 1° febbraio 2009, <http:// www.nytimes.com/2009/02/02/opinion/02krugman.html?scp=4&sq=krugman%20&st =cse>.

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cento del suo capitale netto) e la titolare della fetta più grossa del capitale azionario della Bank of America (possedendo il 6 per cento del totale delle sue quote). La resistenza della retorica dell’efficienza del mercato ha insomma qualcosa di davvero notevole. La sopravvivenza della fede nei liberi mercati, nonché della dicotomia che ne sorregge la struttura concettuale (libero versus soggetto a restrizioni, privato versus controllato dal governo), è semplicemente sbalorditiva, e ha comportato un costo significativo anche all’interno della sfera penale: ricacciando la funzione penale alla periferia del mercato, infatti, la razionalità neoliberale finisce di fatto per rafforzare il dominio carcerario. Il problema è che le categorie fondative di “ordine naturale”, “efficienza di mercato” e “libero mercato” da una parte, e di “eccessiva regolamentazione”, “inefficienza governativa” e “disciplina” dall’altra parte, sono illusorie e fuorvianti, e non riescono a catturare i fenomeni irriducibilmente individuali delle differenti forme di organizzazione di mercato. Lo stato è presente in tutti i mercati. Ovviamente è presente quando fissa il prezzo di una merce, come il grano o il pane. Ma è presente anche quando concede sussidi per la coltivazione del grano, quando riconosce lo statuto costitutivo del Chicago Board of Trade,68 quando permette il commercio di uno strumento come i futures, quando protegge gli interessi proprietari dei grossisti del grano, quando criminalizza il coordinamento dei prezzi, quando permette la fusione di società produttrici di grano, quando impone restrizioni sul calendario dei commerci ecc. Tutti i mercati sono altamente regolamentati. Al tempo stesso, in tutti i mercati c’è libertà. Anche in un’economia controllata, in regime di prezzi amministrati, i beni ven68. Il Chicago Board of Trade è la più antica e la più grande Borsa agricola del mondo, la prima ove fu possibile scambiare stabilmente futures (contratti standardizzati a termine con le quali le parti si impegnano a scambiarsi alla scadenza prestabilita determinate merci e/o attività finanziarie ovvero – nel caso dei futures su indici – a liquidarsi delle somme di denaro calcolate sulla base della differenza tra il valore che l’indice concordato possiede in sede di stipula del contratto e il valore da esso assunto alla scadenza). Sorto nel 1848 come organizzazione volontaria, il CBOT ottenne nel 1859 formale riconoscimento da parte del parlamento dell’Illinois, che così gli conferì dimensione pubblica e autoritativa. [N.d.C.]

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duti presentano delle variazioni nella qualità e in numerosi altri aspetti, e ciò determina la differenziazione dei prodotti, facendo sì che in alcuni negozi si formino code di acquirenti e in altri no. Nella sfera economica c’è libertà e ci sono restrizioni. Ciò che possiamo vedere è il riflesso su noi stessi, non sul mercato. L’importante è ricordare che le categorie che utilizziamo per organizzare, comprendere, discutere, categorizzare, comparare i differenti principî organizzativi, non sono altro che questo: etichette. Esse non catturano l’autentica individualità degli oggetti descritti. E il loro sfortunato effetto è quello di oscurare anziché illuminare. Esse svolgono una funzione di oscuramento nel momento in cui fanno apparire naturale e necessario un determinato insieme di oggetti, e naturalmente non necessario un altro insieme di oggetti. Questo saggio è solo una introduzione, un indispensabile primo passo nella direzione di una più esatta valutazione delle moderne forme di organizzazione sociale ed economica. È indispensabile per via della dominante e assordante forza discorsiva dei concetti di ordine naturale e di efficienza del mercato. Il semplice fatto che noi usiamo il termine “libero” per descrivere il nostro attuale sistema di mercato – sistema che è regolamentato da cima a fondo – vale da testamento per il lavoro che ci attende. Potrebbe essere corretto dire che il neoliberalismo ha così profondamente e radicalmente distorto la nostra capacità di rappresentazione dei sistemi economici che servirà un lungo lavoro per riuscire a valutare esattamente le alternative praticabili nel campo dell’amministrazione dei mercati e del sistema penale, e smantellare lungo il tragitto la nostra penalità neoliberale.

Traduzione dall’inglese di Massimo Gelardi

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Dominio dei corpi, stato penale e biologia della cittadinanza. Riflessioni sul dibattito MASSIMO GELARDI

[Dalla metà degli anni ottanta] il lavoratore non è più costruito come creatura sociale che cerca di soddisfare i suoi bisogni di sicurezza, solidarietà e welfare, ma come un individuo che cerca attivamente di modellare e controllare la sua vita per massimizzare i suoi utili in termini di successo e di raggiungimento dei fini prefissati: [...] l’“autonoma” soggettività dell’individuo produttivo è una risorsa economica centrale, non un ostacolo da controllare e disciplinare. N. Rose, P. Miller1

l dibattito presentato in questo fascicolo fornisce una ricognizione della logica del neo liberalismo intrapresa lungo un duplice e congiunto piano argomentativo: da una parte un dispositivo diagnostico (la più recente riflessione teorica di Loïc Wacquant)2 che lucida, ricompatta e isola l’epicentro discorsivo intorno al quale hanno fin qui gravitato le più significative e influenti discussioni sulla natura, gli effetti e il destino del regime neoliberale; dall’altra parte la sua plurivoca disamina critica, che ne condivide l’ordito analitico e dunque con più proficua acribia si presta a spianarne le pieghe e a rimuoverne i brandelli. L’importanza del saggio di Wacquant è tutta nel suo nitore teo-

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Massimo Gelardi si occupa di filosofia politica e teoria sociale, discipline antropologiche e cognitive, filosofia delle scienze sociali; ha scritto numerosi articoli sulla questione razziale americana e sulle politiche penali statunitensi ed è autore di una biografia politica di Malcolm X di prossima uscita (Diabasis, Reggio Emilia 2010). 1. N. Rose, P. Miller, Governing the Present: Administering Economic, Social and Personal Life, Polity Press, Cambridge 2008, pp. 48-50. 2. L. Wacquant, Theoretical Coda: A Sketch of the Neoliberal State, postfazione a Punishing the Poor: The Neoliberal Government of Social Insecurity, Duke University Press, Durham (N.C.) 2009 (ed. orig. Punir les pauvres: le nouveau gouvernement de l’insécurité sociale, Agone, Marseille 2004; trad. Punire i poveri: il nuovo governo dell’insicurezza sociale, DeriveApprodi, Roma 2006); trad. La disciplina produttiva: fisionomia essenziale dello stato neoliberale, in questo fascicolo.

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rico, nella corposa essenzialità della sua tesi. A circa un quarto di secolo dal lento irrompere dell’ordine neoliberale in Occidente, Wacquant ne ricapitola la struttura funzionale riducendo la fisionomia alla meccanica e la fisiologia all’eziologia: la ristrutturazione del modo di produzione capitalista all’estinguersi del fordismo si è dispiegata quale riarticolazione antropologica del lavoro produttivo, assoggettato a un processo binario di rarefazione ed espansione da governarsi in termini di irreggimentazione selettiva delle biografie professionali, rimozione o erosione degli strumenti di sostegno (anche indiretto) al reddito, reclusione delle eccedenze attive. La precarizzazione di massa (irradiatasi dalla sfera del lavoro alle più periferiche e interiori regioni della vita) genera circolarmente, sostiene Wacquant, quell’universo insicuro – di breve avvenire, dall’architettura sfibrata e vacillante, dai confini angusti e sfocati – che ci tocca abitare. 1. Nota sul metodo La proposta di Wacquant solleva, in ragione della propria ambiziosa densità, questioni di ordine differente, sulle quali è utile soffermarsi qui brevemente, introducendo e integrando i termini del dibattito. La questione centrale è di carattere solo apparentemente metodologico. Con un piglio che nelle scienze sociali va ormai diradandosi, Wacquant si propone di spiegare il più significativo passaggio evolutivo della società occidentale a cavallo dei due secoli stringendo in un nodo sistemico-nomologico una visione dello sviluppo economico, i fondamenti di una sociologia del lavoro e una prospettiva macrocriminologica. Tuttavia è a quest’ultima che egli assegna la funzione logico-argomentativa cruciale e dominante nell’economia dell’analisi, e ciò al solo scopo di rilevare la natura epifenomenica o derivata delle politiche penali nella forma organizzativa delle società avanzate. L’effetto è quello di un’asimmetria metodologica che appare sintomatica di un irrisolto svolgimento teorico. Da una parte, infatti, l’inserzione della criminalità nella complessa cornice delle dinamiche sociali induce opportunamente 139


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Wacquant a impiegare un approccio policentrico. L’attitudine culturalista che sottolinea il crescente sostegno pubblico al retributivismo law and order nelle strategie penologiche; l’indirizzo costruzionista che segnala il profilo retorico-mediologico dell’insicurezza epidemica connessa alla criminalità predatoria; infine l’ingrediente di realismo criminologico di cui parzialmente consiste ogni denuncia delle conseguenze cui è esposto un sottoproletariato che sperimenta la scarsità dell’occupazione e l’aggressione al welfare: queste tre eterogenee prospettive si succedono e si alternano saldandosi in un fascio esplicativo capace di rendere conto delle multiformi e multisituate pratiche di governo della devianza. Dall’altra parte, però, tale vocazione transmetodologica si rivela fittizia. Se allarghiamo lo sguardo, infatti, ci scopriamo prigionieri di una esile eppure rigida intelaiatura struttural-funzionalista, che – sebbene (o forse perché) lasciata sullo sfondo e mai esplicitamente tematizzata – esibisce una intima quanto efficace inaggirabilità. Perché sebbene Wacquant respinga preventivamente l’accusa di “iperdeterminismo strutturale” e chiarisca che la sua costruzione teorica si ispira piuttosto a un funzionalismo post hoc,3 la nozione di neoliberalismo che egli disegna allo scopo di enucleare i correlati socioculturali della dominante accezione economicistica non sembra prestarsi a equivoci. Non solo il neoliberalismo – come Wacquant specifica nella sua più compiuta definizione – “comporta” l’affermazione di quattro logiche istituzionali (deregulation economica, contrazione del welfare, tropo della responsabilità individuale, espansione dell’apparato penale), tra l’uno e ognuna delle altre sussistendo dunque in tal senso una relazione di implicazione/composizione (il primo consta dell’insieme delle seconde);4 ma l’equilibrio delineato dalla loro omogenea e uniforme distribuzione topologica, che in apparenza ne se3. L. Wacquant, La disciplina produttiva, cit. 4. Ibidem. Altrove Wacquant è stato anche più esplicito: “L’inadeguatezza dello stato sociale a fronte degli effetti delle politiche di deregulation sollecita e rende necessaria la magnificenza dello stato penale” (Id., Ordering Insecurity: Social Polarization and the Punitive Upsurge, “Radical Philosophy Review”, 1, 2008, p. 27, corsivo mio).

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gnala un’eguale rilevanza sistemica, è di fatto infranto nell’intero testo dalla funzione motrice (in senso tanto linguistico quanto logico-operazionale) che Wacquant assegna al più recente assetto evolutivo del capitale nel quadro dei processi di mutamento delle contemporanee società avanzate. In realtà, dunque, la poliedrica decodificazione dei fenomeni criminologici si dissolve e si rapprende lungo una più ampia ed elementare armatura teorica, che – distanziandosi dai più accoglienti funzionalismi pluricausali a pressoché nulla capacità predittiva5 – consegna gli esiti della riflessione di Wacquant a un’ipotesi esplicativa monologica e in quanto tale vulnerabile non solo ai rilievi di ordine sintattico-concettuale, naturalmente meno maneggevoli per qualunque impresa epistemica, ma anche a quelli di genere fattuale.6 La conseguenza è che le tipiche obiezioni a sfondo empirico-comparatista che vengono regolarmente suscitate da un impianto metodologico di siffatta, unidimensionale matrice (nel nostro caso l’occorrenza di ampie o significative eccezioni alla dilatazione dell’apparato penale nelle società occidentali, ovvero le correlazioni incerte o negative registrate in diverse macroregioni tra taluni fattori/tendenze la cui covarianza viene invece assunta da Wacquant quale tratto costitutivo della logica neoliberale) e che di norma non paiono decisive in quanto problematiche solo per un funzionalismo primitivo ad aspirazione universalista, finiscono invece per incrinare il modello del neoliberalismo penale qui tratteggiato. 5. Una componente funzionalista (sia pure implicita) è inerente a qualunque analisi sociale che aspiri a una qualche intelligibilità. L’autentica alternativa consiste nel renderla irrilevante frammentandola o diluendola in una rete di relazioni altrimenti significative (in tal caso l’idea è che la riproduzione di un sistema, o la realizzazione di taluni suoi scopi, si conseguono attraverso una pluralità di funzioni equipossibili o variamente fungibili: l’accettazione di tale indeterminatezza presiede alla costruzione di una teoria dal potere previsionale nullo o non rigorosamente fondato); ovvero nell’edificarvi attorno un esplicito congegno predittivo, incardinato attorno a meccanismi plurilineari ma dalle sequenze finite (che restituiscono una rappresentazione finanche controfattuale e tuttavia cristallizzata del fenomeno osservato), oppure disponibile a una serie aperta di procedure di adattamento alle eccezioni (e perciò intrinsecamente esposto a tensioni che di fatto ne sfumano, rimodulano e infine snaturano le asserite proprietà euristiche). 6. Cfr. i contributi di Piven, Campbell, Peck e – con linguaggio, premesse e intenti differenti – Valverde nel presente fascicolo.

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Tuttavia, è proprio la rigidità dell’apparato teorico, l’ordinata dirompenza concessa da Wacquant al suo rudimentale cuore operativo, a squadernare la questione cruciale, e cioè l’individuazione della struttura delle imputazioni causali (in altre parole, l’identità di un sistema). E dunque di qui può dipartirsi una nuova fase del dibattito sulla natura del neoliberalismo: se del contributo di Wacquant va discussa e soppesata l’attitudine tacitamente onnivora, il suo profilo complesso e sistematico sposta tuttavia per sempre in avanti una discussione da troppo tempo avvizzitasi attorno alle sue istanze più sprovvedute e di più facile consumo, che siano i variegati ma egualmente disarticolati ed esausti inni alla decrescita, oppure gli statici e angusti modelli indigenisti affezionati più alla rivendicazione di una metafisica e rassicurante prossimità alla Natura e/o alla Storia che all’incrinamento dei rapporti di dominio. È allora lungo tre direttrici capaci di tenere salda la rotta disegnata da Wacquant (anche solo per rettificarne o integrarne o, forse prima ancora, rovesciarne le coordinate) – vale a dire la funzione della pena, la questione dell’autonomia, lo spazio della biologia – che si può immaginare l’ormai urgente progetto di riordino dell’indagine sulla società postfordista. 2. La funzione della pena nella società neoliberale L’impossibilità empirico-concettuale di rinvenire una logica unitaria (nonché pienamente plausibile) nell’espansione dello stato penale7 non deve certo indurre a ritenere tale fenomeno estraneo o eccentrico rispetto al consolidarsi dell’egemonia delle istituzioni neoliberali. Si tratta piuttosto di abbassare la soglia delle aspettative riposte nel modello, ossia di accantonare la connessione de7. Cfr. gli interventi di Piven, Campbell e Peck – formulati da diverse prospettive – nel presente fascicolo, e – per una dettagliata rassegna teorico-empirica sullo sviluppo carcerario nelle società occidentali – L. Re, Carcere e globalizzazione: il boom penitenziario negli Stati Uniti e in Europa, Laterza, Roma-Bari 2006. Va precisato che Wacquant è perfettamente consapevole della presenza di importanti elementi di irrazionalità nello stato penale neoliberale da lui rappresentato: tuttavia è facile vedere che, sebbene di un sistema (o di un agente) non sia possibile fissare astrattamente la soglia di razionalità, un nucleo compatto e coerente (al riparo da tratti antagonisti) è la condizione della sua stessa identificabilità.

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terministica che innerva la configurazione nomologico-deduttiva ipotizzata da Wacquant in favore di un vincolo tendenziale, tipico degli schemi probabilistico-induttivi che sanno accogliere controesempi perché illustrano la prevalenza di una fenomenologia senza blindarla dentro rappresentazioni legiformi. La centralità dell’apparato penale – o meglio, del suo (talvolta abnorme) sviluppo – all’interno delle società avanzate verrà preservata, ma ricalibrata in termini contestuali riprodotti secondo procedimenti genealogici. La dilatazione del dominio penale in Italia, per esempio, ha a che fare con il governo dei flussi migratori almeno quanto ha a che vedere con le (postulate) esigenze delle politiche neoliberiste: in altre parole, sarebbe impossibile comprendere il rafforzamento delle politiche reclusive italiane sradicandolo da quel plesso semiotico-normativo che ha articolato dentro una procedura di assoggettamento una narrazione pubblica scandita secondo gli stilemi del distanziamento e della dissimmetria; l’esperienza dell’insicurezza allestita in una tonalità paranoide; e una irregolare ma coerente costellazione di provvedimenti giuridici discriminatori. Il risultato è quello di una ristrutturazione di razza del campo sociale prima che di una tecnica provvisoria di immagazzinamento di corpi.8 Com’è evidente, il problema è quello dello statuto e del contenuto funzionale della penalità nella società contemporanea. Individuando nel rafforzamento strategico dell’apparato penale l’ele8. È evidente che dentro un soggetto convivono differenti appartenenze, e che non sempre è facile discernere quali siano i punti di presa delle tecniche di controllo: tuttavia è impossibile ignorare che l’intenzionalità e la morfologia delle più decisive politiche penali italiane dell’ultimo ventennio (congiuntamente emergenti nella etnicizzazione sia del tasso di incremento delle misure restrittive e soprattutto detentive, sia dell’indirizzo operativo delle pratiche investigative e giuridiche) siano andate progressivamente attagliandosi all’agente catturato nel suo differenziale simbolico (qui etnico-culturale) piuttosto che nella sua ordinaria (im)produttività marginale. Che in qualche misura le distinte affiliazioni si sovrappongano, e che la relativa intersezione non abbia nulla di contingente (in un soggetto collettivo lo status etnico interagisce con la posizione relativa occupata nella stratificazione materiale) e anzi talvolta esprima una relazione logica frutto di una discendenza genetica (la condizione del migrante è non di rado istituita dalle macrodinamiche del mercato globale nonché dalle microdinamiche dei mercati locali, sebbene mai nei termini idraulici di un ordine di flussi attrazione-spinta, e nemmeno in quelli altrettanto elementari di una propulsione nudamente economica), è una questione di rilevanza indubbia ma qui secondaria.

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mento centrale di un modello di governance contenitivo-selettiva della popolazione, Wacquant incide nel sistema una discontinuità inattendibile sotto un duplice, interconnesso profilo. Egli infatti – postulando l’attivazione di una logica di disciplinamento esclusiva, vigente cioè all’interno di una singola, delimitata e identificabile ancorché generica regione socio-occupazionale (la classe povera) – rimanda a una doppia incongrua cesura, consistente in una compresenza di codici regolativi a giurisdizione parallela e settoriale che presuppone a sua volta una società compartimentata lungo faglie quasi ontologiche.9 In realtà, entrambe le circostanze sembrano scarsamente persuasive. Perché, se presa sul serio, l’idea che la rete penale raccatti gli individui espulsi dal processo produttivo e dalla protezione dello stato (e dunque che l’ipertrofia carceraria eserciti una funzione di controllo preventivo indipendente dal tasso di incidenza dei reati, i quali infatti negli ultimi due decenni sono andati ristagnando o declinando nell’intero Occidente)10 sembra incerta tanto sul piano teorico quanto su quello empirico: da una parte, infatti, la tendenziale relazione di covarianza che si può approssimativamente registrare tra il tasso (combinato o aggregato) di esclusione dal sistema occupazionale/assistenziale e il tasso di carcerazione è di carattere statistico e non significativo, giacché rilevazioni indirette ma attendibili segnalano che una cospicua frazione dei nuovi reclusi appartiene a segmenti sociali in qualche misura integrati e protetti, ossia titolari di reddito e/o sostegno da welfare (e, inversamente, una parte consistente degli individui espropriati delle loro risorse reddituali/assistenziali non viene sottoposta a procedimenti di internamento o di restrizione: in altre parole, non è su quest’ultima categoria sociale che pare concentrarsi l’azione penale); e, dall’altra 9. L’estrema verticalizzazione del corpo sociale rappresentato da Wacquant si riflette fedelmente nell’ingiustificata disattenzione che egli mostra per la situazione della classe media, la quale in realtà, in taluni non residuali suoi segmenti, condivide in qualche (mutevole) misura condizioni e prospettive della classe inferiore, e comunque non è per intero assimilabile alla classe superiore. Sull’argomento, cfr. J.L. Campbell, Stato penale e stato debitore: l’irripetibile esemplarità del neoliberalismo americano, in questo fascicolo. 10. La formulazione è succinta e grossolana, ma coglie con sufficiente accuratezza la più recente tendenza del crimine nelle società occidentali.

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parte, una gestione così accortamente strumentale e consequenzialista della macchina penale dovrebbe riposare su una dinamica strutturale ferreamente e irrealisticamente meccanicista (misteriosamente emergente dalla natura fluida e porosa dei sottosistemi sociali) nonché su una capacità di controllo inverosimilmente capillare e dispendiosa. 3. Mutazioni ortonomiche È allora forse il caso di percorrere in senso inverso la strada tracciata da Wacquant. Più precisamente, anziché intendere l’espansione del sistema penale-carcerario come una (dubbia) necessità funzionale che si dispiega progressivamente sull’intera società modellandola in senso repressivo-punitivo, dovremmo considerarla come una delle molteplici e interrelate istanze di una razionalità governamentale che si realizza secondo modalità locali ancorché omologiche. Nello specifico, sono preziose le osservazioni dello stesso Wacquant. L’autore indica infatti tra i caratteri fondamentali del neoliberalismo lo sviluppo del “tropo culturale della responsabilità individuale, che invade tutte le sfere della vita sociale”.11 Ebbene, mentre l’idea di un soverchiante e dilagante affermarsi dell’istituzione carcerario-contenitiva nella società spinge esattamente nella direzione opposta – l’irresponsabilizzante reclusione, compressione, inaridimento e accantonamento delle competenze e opportunità individuali, sia attuali che potenziali – fino a costituire un focolaio di insostenibile contraddizione nell’illustrazione della dottrina pratica del neoliberalismo, è piuttosto nella diversione e ridescrizione del campo simbolico-materiale dell’autonomia – condizione di possibilità (ancorché aporetica e intimamente corrotta) della responsabilità individuale – che dobbiamo rinvenire la cifra e l’ossatura della società postfordista. L’imporsi del “tropo culturale della responsabilità individuale”, osserva appropriatamente Wacquant, consiste nella “costruzione di un sé modellato sulla figura dell’imprenditore, sulla spin11. L. Wacquant, La disciplina produttiva, cit.

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ta alla diffusione dei mercati e sulla legittimazione della competizione, a cui corrisponde la fuga dalle responsabilità da parte delle imprese e la proclamazione dell’irresponsabilità (o della dimezzata responsabilità) dello stato nelle questioni sociali ed economiche”.12 Ma, posto in questi termini, il processo cui egli allude sarebbe incomprensibile, o più semplicemente impossibile, manifestandosi quale sezione evolutiva eccezionale e autoconsistente, transizione isolata e avulsa dalla topografia complessiva delle relazioni sociali. In realtà, invece, la sub-responsabilizzazione dello stato (e delle imprese) corrisponde alla iperresponsabilizzazione individuale nella misura in cui questa affonda in un’emergente geometria sistemica di deresponsabilizzazione interindividuale, la coltivazione delle traiettorie microsoggettive implicando la recisione o l’allentamento dei legami orizzontali e l’elisione della responsabilità collettiva. Premessa, progetto, infine sostanza delle politiche neoliberiste è insomma la ristrutturazione poietico-concettuale dei tracciati della ortonomia13 nei termini di una proiezione singolare 12. Ibidem. 13. Propria del côté pratico della filosofia morale, la nozione di ortonomia (ossia di un agire governato da criteri di giustezza o correttezza) cattura quella concezione epistemiconormativa di responsabilità che promana da un equilibrio raziocinativo-riflessivo lungo il quale credenze fattuali, giudizi valutativi e desideri di ordine plurimo si connettono e corroborano circolarmente all’insegna di una “imparzialità che consente di assumere le istanze altrui, nonché quelle del proprio self futuro, tanto come potenti sorgenti generatrici di desiderio quanto come immediate e significative controparti” (P. Pettit, M. Smith, Unpractical Reason, “Mind”, 405, 1993, p. 75). L’ortonomia non solo implica l’autonomia (di fatto riconosciamo autonomia agli agenti soltanto nella misura in cui individuiamo la loro capacità di agire correttamente: cfr. M. Smith, The structure of orthonomy, in J. Hyman, H. Steward, a cura di, Agency and Action, Cambridge University Press, Cambridge 2004, p. 167), ma rappresenta la più esatta opposizione all’eteronomia di risonanza kantiana (esattamente come al concetto di eterodossia fa da contraltare quello di ortodossia), laddove questa va intesa quale modo dell’agire non secondo norme esterne a sé, ma secondo regole inappropriate in quanto estranee ai desideri fondamentali che ci distinguono (P. Pettit, M. Smith, Background Desire, “Philosophical Review”, 4, 1990, p. 588): “Di una persona autonoma diciamo che possiede i propri desideri anziché farsi possedere da essi” (J. Elster, Explaining Technical Change, Cambridge University Press, Cambridge 1998, p. 87). Va da sé che il genere di razionalità presupposto da tale concezione dell’azione è pienamente compatibile tanto con quella infondata consistenza del self che pare limpidamente segnare la condizione umana, quanto con un’accezione di desiderio originaria e parzialmente cieca alla coscienza, quanto infine con l’ideale obbligato di un infinito lavoro sulla propria capacità di interlocuzione morale (non si può mai attingere alla pienezza delle condizioni di emergenza del self): se “è proprio in virtù dell’o-

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smisurata e verticale dentro la quale si disperda la stessa condizione logico-materiale della prossimità e della condivisione, ossia i tratti logicamente più antagonisti nell’universo pieno di diversità e privo di conflitti postulato e perseguito dal neoliberalismo. Lungo un divenire senza scosse, che muove dal primo riflusso della società occidentale al chiudersi delle lotte degli anni sessanta-settanta, trae alimento dal crollo del Muro e si calcifica nel sospettoso ritrarsi che fa seguito all’11 settembre, è l’ethos narcisista14 che conosce la sua mutazione facendosi istituzione: il ritiro dal sociale non si manifesta ora come privata defezione ma come organizzazione dell’individualizzazione, le tattiche di defilamento divengono pratiche informali di partecipazione che disegnano una cartografia attivamente ed erosivamente solipsista, il desiderio di una lunga deriva si erge rovesciato nella difesa di approdi isolati ma esemplari. In altre parole, il tradizionale progetto collettivo dell’autonomia sopravvive mettendo ora in forma la propria implosione, edificando il proprio recesso: la recente curvatura familiare, microcosmica e agonistica della moderna idea di un comune adempimento e potenziamento dei desideri soggettivi ha assunto ora la forma frattale e la consistenza assertiva di un tratto di proliferazione; l’esodo non è più un rifugio interiore ma una pubblica drammaturgia morfogenetica. È pacità verso di sé che il soggetto si espone e accetta alcuni dei più importanti vincoli etici” (J. Butler, Giving an Account of Oneself, Fordham University Press, New York 2005; trad. Critica della violenza etica, Feltrinelli, Milano 2006, p. 32), e se al tempo stesso la forza del desiderio rimane parzialmente in-narrativizzabile e straniera senza per questo cessare di costituirci – di (concorrere a) fare di noi ciò che siamo, ossia ciò su cui possiamo esercitare la nostra tecnica trasformatrice (cfr. ivi, p. 178) – è allora nella possente stretta ipernormativa della figura ortonomica che è legittimo rinvenire una determinata anatomia immaginata della foucaultiana estetica del sé. 14. C. Lasch, Culture of Narcissism: American Life in an Age of Diminishing Expectations, W.W. Norton, New York 1991, nuova edizione (ed. orig. 1976); trad. La cultura del narcisismo: l’individuo in fuga dal sociale in un’età di disillusioni collettive, Bompiani, Milano 1992 (ed. orig. 1981). Non tragga in inganno il comune involucro egotistico. Il distinto allestimento delle fenomenologie in oggetto ne trasfigura diversamente esperienza e progettualità (cfr. pp. 10-11), e se il narcisista (talora grottesco) di Lasch esplora il mondo come uno specchio dal quale attingere vitali certezze attorno al proprio “io grandioso” (p. 22), il secondo ripiega circospetto, scrutando un ambiente minaccioso dentro il quale sopravvivere facendo ferocemente tesoro delle proprie risorse, piegando e condividendo la pubblica opinione al riparo delle più tradizionali e calde certezze.

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la riconversione deflattiva e performativa degli affetti che si riproduce in termini di egemonia.15 Essenziale correlato regolativo di tale criterio di ristrutturazione normativa dell’assetto sociale è la dissoluzione di quello spazio di visibilità dei soggetti che istituisce la comunità quale soggetto politico e che si è progressivamente contratto nella “semplice interazione tra meccanismi statali e combinazioni di energie e interessi sociali”, ossia in quella “identificazione tra meccanismi istituzionali e modalità di ripartizione delle risorse che determina la scomparsa del soggetto e dello specifico agire democratico [in una] coincidenza senza residui tra le forme dello stato e lo stato delle relazioni sociali”.16 È il paradosso della postdemocrazia, vale a di15. Giacché il termine va normalmente incontro ad abusive semplificazioni, è utile precisare che per egemonia intendiamo qui il compimento di una sineddoche, la terapia che rimedia all’opacità di ogni significante (all’indisponibilità di un significato che ne discenda direttamente, compiutamente e definitivamente, cioè indipendentemente dalle effettive istanze del significante) con una suturazione contingente, il movimento di una singolarità che tuttavia si istituisce come equivalenza rispetto a una catena di ulteriori singolarità. Da una parte, dunque, ogni soggetto è costitutivamente particolare per il fatto che emerge quale assenza di una soggettività assoluta e autotrasparente (sottratta a ogni determinazione contingente), e ogni comunità è intrinsecamente divisa perché ogni consenso comporta esclusione: in questo senso, il fuori è la condizione di possibilità della comunità e al tempo stesso la ragione dell’impossibilità della sua piena realizzazione. Dall’altra parte, la totalità irrappresentabile si risolve tuttavia in un orizzonte di significato, nella dislocazione di un particolare contingente che dissimula l’esclusione che lo costituisce sovradeterminandosi come soggetto generale, come istanza comune a tutti, come condizione universale (articolazione è appunto l’assieme delle operazioni che fissano transitoriamente le identità, arrestando la proliferazione dei significati implicita in ogni significante). Cfr. E. Laclau, C. Mouffe, Hegemony and Socialist Strategy: Towards a Radical Democratic Politics, Verso, London-New York 20012. 16. La questione può essere vista da tutt’altra prospettiva. Ulrich Beck, per esempio, intento perlopiù a illustrare stimoli e opportunità di quella nuova “democrazia riflessiva” che sarebbe andata ispirandosi a un antidogmatico disorientamento – rapidamente consunto, ove sia mai occorso – compendia il mutamento in oggetto ricorrendo al concetto di subpolitica, la quale “si distingue dalla politica per il fatto che a) anche attori esterni al sistema politico o industriale (le categorie professionali e occupazionali, l’intellighenzia tecnica nelle imprese, le istituzioni e il management della ricerca, i lavoratori specializzati, le iniziative dei cittadini, la sfera pubblica ecc.) sono autorizzati ad affacciarsi sulla scena della progettazione sociale, e b) non solo gli attori sociali e collettivi, ma anche i singoli individui competono per conquistare il potere di conferire forma alla politica” (U. Beck, The Reinvention of Politics: Rethinking Modernity in the Global Social Order, Polity Press, Cambridge 1997, p. 103). Sull’argomento, cfr. anche la critica di C. Mouffe, On the Political, Routledge, New York 2005; trad. Sul politico: democrazia e rappresentazione dei conflitti, Bruno Mondadori, Milano 2007, ancorché curiosamente minata da un’incerta distinzione tra piano normativo e piano descrittivo.

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re la “pratica consensuale di rimozione delle forme dell’azione democratica. [...] Una democrazia dopo il demos”.17 4. Il dominio dei corpi: estetica e fisica dell’assoggettamento “La democrazia non è un regime di vita o uno stile sociale dell’esistenza. È l’istituzione della politica stessa, è il sistema delle forme di soggettivazione attraverso il quale un ordine di distribuzione dei corpi – assegnati secondo le funzioni corrispondenti alla loro ‘natura’, e situati nelle posizioni corrispondenti alle loro funzioni – viene revocato in questione, reintegrato nella sua contingenza.”18 La dialettica parallela instauratasi tra la progressiva atrofia delle istanze assertivo-emancipative e la corrente versione del consolidato collasso della rappresentanza affonda di fatto nella nuova biologia della cittadinanza, intarsio mobile di impalcature simboliche, codici materiali, tecnologie normative, stratificazioni di capacità la cui spina dorsale è legittimo rintracciare in quella presa esattamente bipolare sui corpi costituita, da una parte, da un mutilato ipervitalismo dell’agency individuale19 (indefinitamente espansivo dentro percorsi di realizzazione vincolati) e, dall’altra parte, dalla più sistematica compressione, reclusione, rimozione (dentro spazi di invisibilità e di negazione che al contempo erigono e ratificano l’intangibilità del modello socioculturale in vigore) di ogni elemento di alterità capace di insidiare quelle accresciute e indivisibili aspettative dalle quali emanano più profon17. J. Rancière, La mésentente. Politique et philosophie, Galilée, Paris 1995; trad. Il disaccordo, Meltemi, Roma 2007, p. 115 (traduzione modificata). L’agibilità fisico-simbolica del conflitto politico è la premessa funzionale della democrazia perché esso, distinguendosi “da ogni altro conflitto di interesse che sorga tra particolari soggetti all’interno di una popolazione, [...] è un conflitto sui soggetti stessi. Non è una discussione tra consociati ma una interlocuzione che mette in questione il quadro stesso dell’interlocuzione” (ivi, p. 113, traduzione modificata). 18. Ivi, p. 114 (traduzione modificata). 19. Per agency si intende “la proprietà di quegli enti 1) che hanno un certo grado di controllo sulle loro azioni, 2) le cui azioni hanno un effetto su altri enti (e a volte su se stessi) e 3) le cui azioni sono oggetto di valutazione (per esempio, in termini di valutazione della responsabilità in ordine a un certo evento)”, A. Duranti, Agency and language, in Id. (a cura di), A Companion to Linguistic Anthropology, Blackwell, Malden (Mass.) 2004, p. 453.

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de e inafferrabili paure, che a loro volta invocano più drastici interventi difensivi. A un estremo del continuum troviamo dunque il sicuro incedere di una onnivora filosofia dell’autoproduzione. Introdotta dalla modernità nella sfera del possibile, l’idea della trasformazione personale assurge nell’era contemporanea a ideale normativo, investendo l’intero repertorio degli strumenti, delle tecniche e delle figure dell’identità lungo una galassia di microprassi monadiche e deritualizzate. L’idea stessa del divenire è stata piegata, frantumata e imprigionata in una griglia di cubicoli esistenziali che hanno eretto la crescita competitiva cellulare sul progresso transindividuale in un movimento che implica disimpegno comunitario, competizione sociopatica e pratiche di dominio. È il corpo l’epicentro attorno al quale assume forma e rilievo tale metamorfosi del modo teleonomico di autopercezione e autorappresentazione sociale, è sopra, dentro, attorno ai corpi che si ingaggiano le odierne battaglie per l’autonomia e per il riconoscimento che necessariamente animano ogni progetto di libertà. In un presente illimitato che promette di assottigliare le sedimentazioni del tempo e di ingoiare le incertezze del futuro,20 è il corredo somatico – ossia il corpus delle estensioni e afferenze di cui esso consta, nonché l’insieme e l’esito delle operazioni che esso permette e abilita – che diviene principale terreno, misura, motore, risorsa, codice delle relazioni intersoggettive. Lungo un rapido, continuo smottamento le opportunità professionali, gli scambi commerciali, la rappresentanza politica, le transazioni private, i destini ideali hanno conosciuto un inedito convergere in una estetica di assoggettamento costitutivamente seriale e atomistica che ha ridefinito gli stili del conflitto e della cooperazione.21 20. Per un riassetto critico della filosofia della storia nel postmoderno, cfr. A. Liu, Local Transcendence: Essays on Postmodern Historicism and the Database, University of Chicago Press, Chicago 2008. 21. Wacquant ravvisa nel proliferare delle crime series (e della netta morale western che in esse dovremmo intravedere) il sintomo culturale della vincente società penale (L. Wacquant, La disciplina produttiva, cit.). Tuttavia, mentre tale fenomeno può essere facilmente sottoposto a una diversa chiave di lettura (il dilagare della fiction law and order si può agevolmente associare alla moltiplicazione dei media visivi che ha determinato l’impennata del-

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All’altro capo delle fiorenti strategie di coltivazione e modellamento della nostra materia antropologica – a queste avvinghiata in una relazione di rovesciamento formale e di contiguità funzionale – agisce una infoltita schiera di tattiche di contenimento e cancellazione dei corpi. Intima piega della declinazione solipsistica e polemica dell’autonomia individuale è infatti l’innalzamento e il blindamento dei confini di quella sfera soggettiva che dalla sua riconfigurazione parossisticamente proprietaria, esclusiva e antagonistica, nonché dal rinnovato, accresciuto e solitario investimento su se stessa, ha logicamente derivato un’inedita vulnerabilità, una strutturale precarietà, una naturale insicurezza. Ed è a questo sentimento paranoico che con timbro oscillante percorre l’intero tessuto sociale – alla “irragionevole paura che qualcuno voglia arrecarci un danno”22 – che si rivolgono le molteplici politiche sicuritarie corresponsabili della corrente destrutturazione dell’idea stessa del vivere associato.23 In un paesaggio frammentario e discontinuo, sensibile alle diverse politiche narrative e ai differenziati regimi di enunciazione e di fruizione – com’è evidente, è qui in discussione non una patologia psichiatrica ma un ondivago atteggiamento pubblico, un (deficitario) modulo proiettivo che si fa pulsione ordinaria e infine elemento di milieu – le politiche sicuritarie agiscono in maniera diseguale e contingente intrecciandosi con i frastagliati processi di corrosione del legame sociale. La loro condizione di possibilità è però sempre quella “perl’offerta di un genere tradizionale e di gran lunga antecedente al neoliberalismo penale, così come è tutt’altro che univoca, e la sua fruizione comunque dipendente dai distinti frames percettivi, la precettistica morale che intesse i prodotti in questione: su entrambi i punti, cfr. J.L. Campbell, Stato penale e stato debitore, cit.), appare ben più rivoluzionaria e significativa la nascita e l’immediata esplosione dei programmi tv – reality show, ma non solo – che prescrivono, organizzano, realizzano la trasformazione di un qualche tratto dell’identità individuale. Look, abitazioni, bar e alberghi, famiglie, talenti, capacità culinarie, animali domestici, carriere professionali, competenze conviviali, fattezze, consuetudini sessuali: ogni componente dell’esperienza va esplorata, valutata, ripensata, rettificata per essere rilanciata quale atout di autorealizzazione nelle più ampie arene sociali. 22. D. Freeman, J. Freeman, Paranoia: The 21st Century Fear, Oxford University Press, New York 2009, p. 27. 23. E ciò, si badi, senza nemmeno dover essere realizzate. Foriera di ben più profondi effetti è la pura potenza discorsiva delle politiche sicuritarie, la loro mera possibilità, il semplice adombrarsi e circolare di un concetto che deve la propria seduttività alla sua intensione eminentemente operazionale.

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cezione dell’esistenza [che] giustifica con la forza dell’autoevidenza la vestizione di una corazza rigidamente difensiva e l’isolamento dalla realtà, [con ciò] negando ogni spazio alle chiavi dell’intimità sociale – ossia la fiducia, la collaborazione, il mutuo aiuto”,24 e puntando piuttosto a “conoscere ogni cosa in anticipo per ripararsi da ogni sorpresa, a mostrare con ricchezza di faticosi argomenti come tutto si tiene, tutto significa la stessa cosa. La paranoia estende il territorio del prevedibile, gettando il suo sguardo ipervigile sull’intero mondo, disponendo ogni luogo e ogni evento nello stesso spaventoso ordine”.25 5. Il dominio dei corpi: elementi di fisiologia politica Le attitudini riflessivo-produttive e le strategie repressivo-detentive che dispiegano e costringono i corpi26 sono i due bracci del 24. G. Alper, The Paranoia of Everyday Life: Escaping the Enemy Within, Prometheus Books, Amherst (N.Y.) 2005, p. 14. Per un’analisi embodied e posthegeliana delle relazioni dialettiche tra i percorsi di autotrasformazione individuale, i fenomeni di dissonanza psichica e la matrice individualista delle odierne politiche sociali ed economiche, cfr. J. Russon, Human Experience: Philosophy, Neurosis, and the Elements of Everyday Life, State University of New York Press, New York 2003. 25. J.K. Gibson-Graham, A Postcapitalist Politics, University of Minnesota Press, Minneapolis 2006, p. 4. 26. L’ipotesi fin qui vagamente accennata è deliberatamente generica e inconsistente, tale cioè da ospitare deviazioni, contraddizioni, confutazioni, elusioni (ossia ciò cui dovrebbe mirare qualunque tesi di carattere generale e astratto che aspiri a una qualche credibilità). Le politiche sociali e penali ordinano territori locali, affrontano crisi regionali, sono elaborate da soggetti particolari, sono situate in aree determinate, incluse in tratti temporali irripetibili, acquistano senso e vigore all’intersezione cumulativa di ognuna delle variabili appena elencate. Qui si indica una tendenza, una serie di eventi che hanno disegnato una più estesa fisionomia in formazione, una trama esilmente, confusamente e difettivamente sovrapposta ad altre possibili, le cui reali sezioni di aderenza possono però essere catturate unicamente da circoscritte verifiche esperienziali e concettuali. È il tentativo di una istantanea tra i cui elementi individuare prossimità, parentele, influenze, omologie, contorni, rinunciando a identificare la sorgente dello scatto. Perché non esiste il neoliberalismo, né il mercato, né lo stato penale, né lo stato, ma solo il succedersi di pratiche di soggettivazione (gesti di identificazione connessi a un esercizio disciplinare associato alla disponibilità di risorse materiali e simboliche) che evolvono in fasci di forze e poi si consolidano in entità sovraempiriche contro le quali i movimenti antagonisti o più modeste ambizioni di riforma sono destinati a girare a vuoto. E del resto non è forse vero che c’è qualcosa di paranoico negli “accademici che chiamano in causa oscure, sebbene elevate, spiegazioni causali (società, discorso, conoscenza/potere, campi di forza, imperi, capitalismo), [...] qualcosa che nella struttura della spiegazione da essi regolarmente invocata li accomuna agli individui ossessionati dall’idea che un branco di biechi e loschi figuri irrompa dal buio”? (B. Latour, Why Has Critique Run Out of Steam? From Matters of Fact to Matters of Concern, “Critical Inquiry”, 4, 2004, p. 229).

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compasso che segna e racchiude l’accidentato e divorante territorio del biopotere. Qui gli inventari organici degli animali umani (nei loro tratti attuali e potenziali) e le risultanti relazioni pratico-simboliche di reciproco riconoscimento si compongono in una fisiologia politica, vale a dire in un regime di elementi che si connettono, si rinforzano e si eludono secondo relazioni genealogicamente, logicamente e asimmetricamente determinate, gli uni e le altre da una parte mutevoli lungo un decorso evolutivo contrassegnato da istanze di regolarità ovvero di impredicibilità, dall’altra inscritti e vigenti dentro una topografia riconoscibile nello spazio.27 Non solo è dunque legittimo rilevare la tensione antinomica e coniugativa che allaccia in un orizzonte egemonico le strategie collettive di investimento nei corpi con le politiche penali che li disabilitano o li inibiscono; è altresì necessario investigare tale piano di conflazione quale occorrenza storicamente determinata di una grammatica normativa, tracciare cioè le relazioni nomiche e funzionali che presiedono al suo radicamento ontologico. Nei termini di un materialismo politico che individua premesse e struttura di ogni ragione governamentale nel confluire continuo di costituenti organici, patterns pratico-sensibili e tipizzazioni semiotiche, la congiunzione bipolare tra le tecniche di riprogettazione dei corpi e le loro simmetriche procedure di contenzione disegna infatti una decisiva linea di suturazione contingente tra le molteplici (potenziali e conflittuali) forme di soggettivazione. 27. Diviene opportuno, se non urgente, saggiare le possibilità di un’articolazione sostantiva dell’indagine biopolitica, scandagliare cioè le prospettive di una specificazione ed espansione in senso funzionale di un campo di ricerca fin qui dissodato eppure mai messo intensivamente a frutto: più precisamente, guadagnato alla riflessione un nuovo terreno fertile – la nozione di biopotere quale capacità di diretto controllo dei processi vitali degli individui da parte delle istituzioni a carattere variamente normativo-autoritativo – il necessario passo ulteriore è quello di vagliarne più sistematicamente e minuziosamente la consistenza e la produttività, dunque di intraprendere l’enucleazione e descrizione di quei processi e di quelle modalità di controllo per evitare che la prospettiva biopolitica si inaridisca nella pura e semplice individuazione del concetto di bios quale nuovo punto di presa del potere statuale sugli agenti, tuttavia inafferrabile e finanche inintelligibile (salvo quale indice indeterminato di una indistinta condizione di eterogeneità rispetto al regno non-animale) laddove non venga saldato con i concreti processi biologici nei quali esso si realizza.

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In tale prospettiva l’espansione dello stato penale neoliberale deve assumersi come una tra le transitorie figure di arresto discorsivo che percorrono i versanti incrociati lungo i quali le dotazioni biologiche innervano (venendone di converso orientate) le procedure interindividuali di ascrizione epistemica, ossia di ordinamento del mondo, conferimento pubblico di identità e normazione dell’agire collettivo: una più ferrea e duratura stretta sui corpi – nel caso in questione: tolleranza zero e policies affini, inasprimento delle pene, subculture sicuritarie – è dunque l’emergere di un dispositivo semiotico-materiale che può essere meglio compreso tramite un procedimento di riduzione anatomica. In altre parole, le proprietà e gli effetti degli indirizzi politico-penali di un sistema legislativo o giudiziario sono destinati a rimanere almeno parzialmente astratti laddove non se ne rilevino e decifrino le concrete connessioni con le risorse somatiche degli individui; intenderne la natura (e ciò valga per qualunque atto istituzionale-normativo) significa cioè considerare il genere di azione che essi esercitano sui corpi, dunque tenere presenti: – le precise conseguenze prodotte dalle strategie detentivo-punitive in vigore, ossia l’esperienza fisiologico-percettiva e simbolica, nonché le concrete ricadute sociali, di quelle determinate pene rivolte a infliggere determinati tipi di privazione e/o dolore; – le specifiche premesse dalle quali quelle strategie muovono, ossia le precise capacità corporee e simboliche soggette a limitazione e repressione, le concrete tecniche e procedure utilizzate, dunque la ratio che induce a ricercare quei determinati effetti punitivi sui corpi, e di qui gli scopi che si intendono raggiungere; – l’identità concreta che accomuna gli individui cui quelle strategie sono rivolte, ossia le categorie fisiche e sociali (necessariamente intrecciate in una esperienza corporea vissuta come unitaria) degli individui che verranno colpiti.29 28

28. Per un’interpretazione diversa e continuista dei tassi tendenziali di carcerazione nelle società occidentali contemporanee, cfr. tuttavia l’importante prospettiva di B. Harcourt, La penalità neoliberale: una breve genealogia, in questo fascicolo. 29. A ulteriore chiarificazione della prospettiva sopra suggerita può essere utile annota-

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Tali elementi andrebbero rintracciati in quel dominio dell’esperienza antropologica incarnata che può essere sezionato secondo la seguente approssimativa quadripartizione: a) Le operazioni di discriminazione categoriale realizzate dal sistema neurale. b) I presupposti, le facoltà e le funzioni organiche delle produzioni semiotiche (elaborazioni linguistiche e gesti sensomotori). c) Le dimensioni, i contenuti e le caratteristiche della mente estesa (ossia dell’attività cognitiva catturata nella sua costituzione tecnologica e architettura pluri-individuale). d) La stratificazione del potere che discende dalla ineguale disponibilità di risorse cognitivo-materiali (discorsive, incarnate, protesiche) in capo agli agenti.30 re che mentre le osservazioni di Wacquant sulla dilatazione del sistema penale occidentale sembrano destinate a cogliere imperfettamente (ossia solo indirettamente) la pur decisiva connotazione razziale dell’apparato punitivo statunitense (cfr. S.S. Wolin, Democracy Incorporated: Managed Democracy and the Specter of Inverted Totalitarism, Princeton University Press, Princeton, N.J., 2010, nuova edizione, p. 58 [ed. orig. 2008]; sul contenuto razziale dell’intero progetto neoliberale, cfr. D.T. Goldberg, The Threat of Race: Reflections on Racial Neoliberalism, Wiley-Blackwell, Hoboken, N.J., 2008, pp. 327-376), una ricognizione penologica condotta attraverso il criterio della presa sui corpi attiverà uno sguardo più perspicuo perché consentirà di illuminare in una logica unitaria le peculiari tecniche utilizzate dalle politiche penali statunitensi (metodi di racial profiling; introduzione di fattispecie di reato tipicamente non-bianche quali appartenenza a gang o conflitti armati tra auto; irrogazione di pene più elevate per il consumo di cocaina in forma di crack, tipicamente diffuso nelle comunità non-bianche ecc.), la peculiare efficacia di tali politiche (nella popolazione carceraria o soggetta a condizioni restrittive i non-bianchi sono rappresentati in misura sensibilmente sovraproporzionale) e i loro peculiari effetti di segregazione e razzializzazione (la dinamica circolare di stratificazione fisico-sociale connessa alle convergenti rappresentazioni del crimine e delle identità non-bianche). Analoghe considerazioni andrebbero avanzate a proposito dell’identità bioculturale di gender. 30. Se non può essere questa la sede per una più dettagliata trattazione della prospettiva teorica sopra richiamata, è opportuno accennare che la versione di embedded subject che la sorregge si situa all’incrocio di differenti contributi e orientamenti metodologico-disciplinari (la filosofia dei sistemi dinamici non lineari, la biologia dei sistemi autopoietici e della developmental systems theory, l’antropologia sociale della actor network theory, la prospettiva neurologica della teoria selettiva dei gruppi neuronali, una concezione inferenzialista e olistico-normativa del linguaggio, una nozione di embodied/enacted mind che incorpora una filosofia agentiva della percezione), segnalando l’interazione tra processi cognitivi, attività sensomotorie ed elementi spaziali, e di qui il radicamento ambientale delle risorse linguistico-concettuali, delle strutture grammaticali e delle rappresentazioni mentali. Da una parte tale idea mette a profitto il concetto (peraltro non privo di difficoltà e ambiguità) di mente estesa, che aspira a riformulare l’idea stessa di attività mentale rilevando la costitutiva esteriorizzazione dei processi cerebrali ed estendendo in tal modo i confini della sfe-

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Tale cornice teorica,31 naturalmente esposta su ogni quadrante ad articolazioni e specificazioni contestuali, sembra adeguata non solo ad afferrare senza residui le espressioni, i mutamenti di stato, le modalità di produzione, i flussi di intensità, le dera cognitiva (se non dell’io): la razionalità dell’agire umano viene così imputata alla capacità della mente rinforzata (scaffolded mind, vale a dire situata nel suo contesto fisico-simbolico) di strutturare attivamente il suo mondo attraverso strumenti materiali, iscrizioni, tracce sensibili utilizzati quali arnesi di progettazione dentro un ambiente plastico. Acquista così rilievo la dimensione intersoggettiva dell’attività neurocognitiva: istituzioni e organizzazioni sono intese quali agenti e costrutti cognitivi articolati in forma di cooperazione decentrata e intelligenza distribuita, ciò che connota il pensiero non più quale semplice processo mentale o “naturale” (puramente fisiologico) ma quale azione da compiere, soggetta ad apprendimento e concertata socialmente. Dall’altra parte, l’idea di embedded subject presuppone un procedimento di ridislocazione e di riponderazione delle componenti dell’habitat umano che vale a rendere opachi e frammentari i confini dell’antroposfera (struttura morfofunzionale e realizzazioni storiche dell’umano) fino a mostrare che essa non è definibile se non in relazione coniugativa con un’alterità tecnologica che da sempre ne scandisce le possibilità: nei termini di una epistemologia della tecnologia di marca antidualista, i processi tecnosferici non sono riducibili a condizioni di incremento cognitivo-operativo, ma vanno piuttosto letti quali contesti di riconfigurazione e di slittamento performativo dentro i quali lo stesso partner tecnologico detiene potere di indirizzo e di negoziazione (disseminando, espandendo, contraendo, ricalibrando l’esperienza umana secondo figure e direzioni inaccessibili al controllo degli agenti coinvolti). Appare sorprendente che di una ristrutturazione così profondamente “sociale” del progetto cognitivo non si sia fin qui indagata la dimensione politica, che cioè, ricondotta l’umana produzione di senso alla disponibilità delle risorse materiali e simboliche, non si proceda a un’accurata analisi delle dissimmetrie economiche (proprietà e opportunità) quali indici e ragioni delle differenti capacità di ordinamento del mondo associate agli agenti individuali e collettivi: sul punto, cfr. J. Protevi, Political Affect: Connecting the Social and the Somatic, University of Minnesota Press, Minneapolis 2009, p. 28 sgg. Notevolissima eccezione, sebbene relativa non alla stratificazione sociale delle risorse ambientali ma alle implicazioni politiche delle caratteristiche funzionali della conformazione neurale dell’animale umano, è la ricerca di George Lakoff: cfr. in particolare The Political Mind, Viking Penguin, New York 2008; trad. Pensiero politico e scienza della mente, Bruno Mondadori, Milano 2009. 31. Per un sintetico inquadramento del concetto di extended mind, cfr. A. Clark, Supersizing the Mind: Embodiment, Action, and Cognitive Extension, Oxford University Press, New York 2008; A. Noë, Out of Our Heads: Why You Are Not Your Brain, and Other Lessons from the Biology of Consciousness, Hill and Wang, New York 2009; D. Melser, The Act of Thinking, MIT Press, Cambridge (Mass.) 2004; J.T. Cacioppo, P.S. Visser, C.L. Pickett (a cura di), Social Neuroscience: People Thinking about Thinking People, MIT Press, Cambridge (Mass.) 2006. Sulla consonante, e per molti versi connessa, refutazione ontologico-epistemologica dell’idea di alterità tecnologica, cfr. J. Bennett, Vibrant Matter: A Political Ecology of Things, Duke University Press, Durham (N.C.) 2010; T. May, Our Practices, Our Selves: Or, What It Means To Be Human, Pennsylvania State University Press, University Park 2001; M. Michael, Reconnecting Culture, Technology and Nature: From Society to Heterogeneity, Routledge, New York 2000. Per distanti eppure affini concezioni socio-ontologiche, cfr. S. Fuchs, Against Essentialism: A Theory of Culture and Society, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2001.

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terminazioni del divenire sociale,32 ma a conseguirne quella ricapitolazione fenomenologica che sola può fornire una stratigrafia dell’ordine politico (e attendere ai presupposti della sua sovversione).33

32. Cfr. J. Protevi, Political Affect, cit.; J.R. Mensch, Embodiments: From the Body to the Body Politic, Northwestern University Press, Evanston (Ill.) 2009; B. Massumi, Parables for the Virtual: Movement, Affect, Sensation, Duke University Press, Durham (N.C.) 2002, in particolare pp. 68-88. Per una più sistematica filosofia politica incarnata, cfr. la prospettiva integrata di W.E. Connolly, Neuropolitics: Thinking, Culture, Speed, University of Minnesota Press, Minneapolis 2002 e Id., Identity/Difference: Democratic Negotiations of Political Paradox, University of Minnesota Press, Minneapolis 2002 (ed. ampliata). Il dibattito sul neoliberalismo dovrebbe importare una analoga ridiscussione della nozione di mercato. Sulla natura liminale e metalogica della sua sfera pratico-concettuale, cfr. B. Levinson, Market and Thought: Meditations on the Political and Biopolitical, Fordham University Press, New York 2004; una storia recente delle sue modalità (economico-culturali) di riproduzione è contenuta in G.F. Davis, Managed by the Markets: How Finance Re-Shaped America, Oxford University Press, New York 2009; uno sguardo sulla sua dimensione ideologico-fantasmatica è J. Dean, Democracy and Other Neoliberal Fantasies: Communicative Capitalism and Left Politics, Duke University Press, Durham (N.C.) 2009. Sulla consistenza materiale e culturale (tecnologica, incorporata, simbolica) dei soggetti che lo abitano e costituiscono, cfr. i recenti contributi degli science and technology studies alla sociologia dei mercati (in particolare finanziari): per tutti valga D. MacKenzie, Material Markets: How Economic Agents Are Constructed, Oxford University Press, New York 2009. Una radicale critica politico-epistemologica del sistema di mercato e del modello di cittadinanza segmentata che esso promuove è M.R. Somers, Genealogies of Citizenship: Markets, Statelessness and the Right to Have Rights, Cambridge University Press, Cambridge 2008. 33. Giacché il solco sopra individuato pare essere di promettente chiarezza, si può qui aggiungere che la condizione afroamericana pare prestarsi esemplarmente a una interpretazione di matrice fisiologica. L’imposizione di una linea di discontinuità tra le identità bianca e afroamericana – inaugurata e continuata sulla base di una disparità materiale semioticamente organizzata (la statuizione dei criteri logici di ascrizione razziale sorregge la riproduzione giuridicamente regolata del divario genetico di potere e di risorse tra i gruppi) – si è dispiegata infatti in una separazione fisica pressoché onnicomprensiva (carceraria, residenziale, lavorativa, educativa, affettiva), cumulativa (senza interferenze significative la struttura istituita conosce effetti di incremento ed espansione), rispettosa della forma normativa originaria (una relazione di distanza gerarchica logicamente trincerata) e retroattiva (che corrobora e consolida la struttura categoriale-concettuale vigente); nella perdurante segregazione dei corpi va ravvisata la condizione (nonché l’esito) della riproduzione delle ineguali capacità di accesso alle risorse cognitive istituzionali e materiali che fungono da strumento di affermazione della soggettività (individuale e/o collettiva) e di ordinamento del mondo (e degli altri soggetti).

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Interventi Unitarietà del potere ed eccedenza della pluralità. Hannah Arendt alla prova della decostruzione FERDINANDO G. MENGA

A Francesco Turi, nel segno di quella silenziosa decostruzione che è l’amicizia Immagina uno slogan detto da una voce sola è debole, ridicolo, è un uccello che non vola ma lascia che si uniscano le voci di una folla e allora avrai l’effetto di un aereo che decolla. Daniele Silvestri, Voglia di gridare

1. Hannah Arendt e lo spazio della democrazia radicale Sebbene nei testi di Hannah Arendt non sia mai reperibile una tematizzazione specifica della questione della “democrazia”, il primato che il suo discorso attribuisce a una costituzione radicalmente democratica dello spazio politico si evince coerentemente da quella che potremmo chiamare la traiettoria genuinamente moderna della sua riflessione. Infatti, se con “modernità” connotiamo primariamente non l’epoca dominata dalla pulsione al fondazionalismo razionalistico, come vorrebbe Heidegger,1 bensì, con Lefort,2 la tradizione inaugurata dalla messa in scacco della supremazia di un principio trascendente a governo e legittimazione di ogni compagine del mondo, allora, non risulta difficile comprendere come l’esito che ne consegue sia lo stesso di quello pro1. Cfr. M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri interrotti (1950), trad. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1994. 2. Cfr. C. Lefort, Saggi sul politico. XIX e XX secolo (1986), trad. di B. Magni, Il Ponte, Bologna 2007, pp. 27 sgg., 269 sgg. Sulla questione del doppio versante della modernità si vedano B. Waldenfels, Estraniazione della modernità. Percorsi fenomenologici di confine (2001), a cura di F.G. Menga, Città Aperta, Troina (EN) 2005, pp. 23-26; F. Ciaramelli, L’immaginario giuridico della democrazia, Giappichelli, Torino 2008, pp. 1-16; C. Galli, Contingenza e necessità nella ragione politica moderna, Laterza, Roma-Bari 2009, pp. V-VIII.

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posto da Arendt. Questa, in effetti, criticando ogni impianto di totalità ontologicamente fondato, propende per una visione del mondo come spazio di apparizione storico e contingente costituito unicamente sulla base del potere che emana dalla stessa interazione collettiva che lo abita.3 Come si intuisce, allora, proprio sulla base dell’eredità moderna che raccoglie, il carattere di democraticità, che si innesta nell’articolazione della compartecipazione sociale, lungi dal poter essere ridotto – come già Marx avverte – alla mera accezione di “forma di governo della maggioranza”,4 implica piuttosto qualcosa di più profondo e radicale, ovvero il fatto che ogni collettività, procedendo dall’impossibilità di assurgere a una fonte inconcussa che la prefiguri e diriga, si vede costretta a costituirsi e a costituire il suo mondo esclusivamente in virtù del proprio potere di autoistituzione e di autodeterminazione. “Democrazia significa, nel suo nucleo, autogoverno del popolo e autodeterminazione delle proprie faccende”: tale è la semplice e pregnante definizione fornita da Ernst-Wolfgang Böckenförde,5 a cui fa riscontro, in termini arendtiani, l’idea del potere di una pluralità che istituisce se stessa e il suo mondo a partire dalla compartecipazione di tutti gli individui che la costituiscono. Naturalmente, che una siffatta azione istituente debba comprendere la partecipazione generalizzata degli individui si evince dal motivo di contingenza e storicità appena rilevato, cioè dal fatto che il potere della collettività, non traendo la sua legittimazione da nessuna istanza a essa trascendente, sulla base della quale poter giustificare strategie di esclusione, non può che risiedere nella pluralità stessa, e ciò nella forma di una partecipazione di carattere squisitamente inclusivo. 3. Cfr. H. Arendt, La vita della mente (1978), a cura di A. Dal Lago, il Mulino, Bologna 1987, pp. 102 sgg., 341 sgg.; Id., Che cos’è la politica? (1993), a cura di U. Ludz, Einaudi, Torino 2006, p. 40. 4. K. Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico (1843), in K. Marx, F. Engels, Opere complete, vol. III, a cura di N. Merker, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 88. 5. E.-W. Böckenförde, “Demokratie und Repräsentation. Zur Kritik der heutigen Demokratiediskussion”, in Staat, Verfassung, Demokratie. Studien zur Verfassungstheorie und zum Verfassungsrecht, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1991, p. 379.

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Con queste puntualizzazioni, possediamo tutti gli elementi fondamentali utili a comprendere nel suo complesso il concetto arendtiano di spazio politico come mondo-in-comune. Questo concetto, per un verso, fa perno sull’elemento della pluralità intesa nei termini di sfera di partecipazione degli uguali e dei diversi6 e, per l’altro, sulla nozione di potere istituente come potere di interazione che emerge ed è effettivo solo fintantoché si esprime nella e come coesione unitaria della pluralità medesima.7 Considerando il primo aspetto, non è difficile capire come sia proprio “il duplice carattere dell’uguaglianza e della distinzione” inerente alla “pluralità umana”8 a portare con sé un’irriducibile connotazione democratica dello spazio politico. L’uguaglianza degli individui garantisce, infatti, il carattere di comunanza della sfera comune, facendo segno verso una originaria e indiscutibile parità di opportunità di intervento e inserimento dei medesimi entro lo spazio plurale di interazione; mentre la distinzione, lungi dal mettere in discussione l’uguaglianza, offre invece il motivo stesso a che si verifichi la necessità della loro partecipazione. Se non ci fosse distinzione fra esseri uguali, in effetti, verrebbe a mancare la spinta all’interazione entro la pluralità, poiché il quadro di riferimento, che si disegnerebbe, sarebbe quello di un assetto globale della collettività già stabilito, in cui le singolarità troverebbero piena collocazione e totale identificazione. Insomma, in un mondo pienamente omogeneo di esseri uguali, in cui dominasse indisturbata la connessione e, quindi, la legge della ripetizione dell’identico, non ci sarebbe affatto bisogno di interventi e immissioni di alcunché di nuovo; anzi, ogni intervento, con la sua per quanto minima carica di innovazione, non avrebbe alcun senso, poiché gli verrebbero a mancare sia la ragione propulsiva, sia il terreno su cui innestarsi, per non parlare poi della possibilità di essere percepito e accolto come tale. Invece, come sappiamo da Arendt, lo spazio politico degli uguali, lungi dal rivelare la sua democraticità nell’auspicio di 6. H. Arendt, Vita activa. La condizione umana (1958), trad. di S. Finzi, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 127-128. 7. Cfr. ivi, pp. 147-148. 8. Ivi, p. 127.

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una tale omogeneità totale (la quale sarebbe inevitabilmente votata alla quiete stabilita – o da stabilirsi – in forza di una conciliazione di carattere dialettico-speculativo),9 in quanto storico e contingente, si radica segnatamente attorno al primato della distinzione degli uguali. In altri termini, si innesta in quell’evento della natalità che, refrattario a ogni generalizzazione, porta con sé l’indelebile segno della disuguaglianza dei singoli e, con ciò, la mai satura esigenza di interazione entro la pluralità e l’incessante carattere germinale di iniziativa e innovazione.10 Se, perciò, lo spazio politico arendtiano, quale mondo-in-comune, da un lato si contraddistingue per la sua originaria isonomia che può darsi solo fra esseri uguali, dall’altro mostra un’inevitabile dinamicità entro questa uguaglianza; dinamicità provocata dal fatto che tale uguaglianza, lungi dall’essere stabilita una volta per tutte sulla base di un dato originario e universale, si caratterizza soltanto come condizione minimale per l’intervento dei diversi e, perciò, come elemento di equilibrio instabile da riattivare nonché da riprogettare esplicitamente nella dinamica di accomunamento, in cui la pluralità viene in rapporto con se stessa nella sua molteplicità. È questa instabilità a tenere in piedi la storicità e a non dare mai quiete alla contingenza delle compagini politiche. Ricorrendo a una certa terminologia lévinassiana, si potrebbe tradurre questo carattere di uguaglianza e distinzione della pluralità nei termini di quella “comparazione degli incomparabili”,11 che, sebbene si mostri come unica possibilità di apparizione degli incomparabili stessi, non riesce comunque ad affermarsi definitivamente in virtù del fatto che interviene entro un rapporto di incomparabilità originaria, ovvero a partire da una singolarità, da un’asimmetria, da un’estraneità che, essendo costitutive, non possono essere eliminate una volta per tutte. 9. Cfr. Id., Tra passato e futuro (1968), trad. di T. Gargiulo, introduzione di A. Dal Lago, Garzanti, Milano 1991, in particolare p. 123; Id., La vita della mente, cit., pp. 354-368. 10. Cfr. Id., Vita activa, cit., p. 129; Id., La vita della mente, cit., p. 546. Su questo cfr. anche S. Benhabib, The Reluctant Modernism of Hannah Arendt, Sage Publications, Thousand Oaks-London-New Delhi 1996, pp. 109-110; F. Ciaramelli, Lo spazio simbolico della democrazia, Città Aperta, Troina (EN) 2003, p. 119 sgg. 11. E. Lévinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza (1974), trad. di S. Petrosino e M.T. Aiello, Jaca Book, Milano 1983, p. 197.

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Passando all’esame del secondo aspetto costitutivo dello spazio politico, quello del potere istituente che si dà entro questa pluralità, se ne evince una conferma della visione radicalmente democratica che permea il discorso arendtiano. E questo dal momento che il carattere indubbiamente democratico affiora già dalla definizione di potere. Infatti, per Arendt, potere in senso vero e proprio si dà solo ed esclusivamente come espressione di comunanza, coesione e accordo entro la pluralità collettiva; e ciò nel doppio senso per cui il potere, da un lato, è ciò che si costituisce solamente a partire dall’agire insieme e, dall’altro, è ciò che mantiene contemporaneamente in vita e operativo questo stare e agire insieme degli individui entro la collettività. Scrive, a proposito, l’autrice: “Il potere umano corrisponde in primo luogo alla condizione della pluralità”;12 vale a dire: “Il potere scaturisce fra gli uomini quando agiscono assieme, e svanisce appena si disperdono. […] Il solo fattore materiale indispensabile alla generazione di potere è il venire insieme delle persone. […] Ciò che tiene unite le persone dopo che il momento fuggevole dell’azione è trascorso […] e ciò che, nello stesso tempo, le persone mantengono in vita stando insieme, è il potere”.13 E ancora: “Potere corrisponde alla capacità, non solo di agire ma di agire in concerto. Il potere non è mai proprietà di un individuo; appartiene a un gruppo e continua a esistere finché il gruppo rimane unito”.14 Pertanto, si può affermare che quanto definisce il potere, secondo Arendt, è esattamente il suo carattere democratico assunto in senso radicale, cioè il suo essere espressione esplicita della collettività in quanto potenzialità collettiva. Ne discende una conseguenza fondamentale: il potere è sempre e soltanto potere della comunità nella sua articolazione di comunanza, mai potere di qualcuno o di alcuni nella comunità. A ben vedere, quest’ultima forma di potere, per Arendt, sottraendosi al carattere di comunanza e compartecipazione, si è congedata dall’ambito precipuo e originario del potere, per entrare nel territorio degenere e, al contem12. H. Arendt, Vita activa, cit., p. 148. 13. Ivi, p. 147. 14. Id., Sulla violenza (1970), trad. di S. D’Amico, Guanda, Parma 1996, p. 47.

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po, derivato della violenza. Infatti, ciò che distingue il primo dalla seconda è primariamente la trasgressione della coesione collettiva, la quale trasforma il potere comune in costrizione “che un uomo può esercitare da solo contro i suoi simili, e di cui uno o più uomini possono ottenere il monopolio”.15 2. Armonia del potere e frammentazione della pluralità: l’incipit decostruttivo Procedendo da quanto rilevato, il potere arendtianamente inteso, in quanto potere della collettività tutta, o anche di tutti nella collettività, assume una connotazione esclusivamente intransitiva, nel senso che non può essere interpretato come passaggio da un soggetto all’altro, come nel caso, per esempio, della dinamica di transizione intersoggettiva di comando e obbedienza, bensì unicamente come capacità diffusa, trasversale, comune; insomma solo come “potenziale di una comunità”16 o “potenziale di una volontà comune”.17 Come scrivono Speth e Buchstein, la forma arendtiana del “potere può essere definita intransitiva, in quanto esso è potere di tutti, cioè di quanti agiscono insieme, creando così un che di comune”.18 Opposta a questa visione è la concezione transitiva del potere sostenuta emblematicamente da Max Weber, secondo cui il potere, lungi dall’essere capacità diffusa radicata nel legame comunitario, si caratterizza come esercizio di affermazione o imposizione da parte dei soggetti nella comunità. Weber scrive: “Potere designa qualsiasi possibilità di imporre entro una relazione sociale, anche di fronte a un’opposizione, la propria volontà, quale che sia la base di questa possibilità”.19 15. Id., Vita activa, cit., p. 148. 16. Cfr. G. Göhler, Der Zusammenhang von Institution, Macht und Repräsentation, in Id. et al. (a cura di), Institution – Macht – Repräsentation. Wofür politische Institutionen stehen und wie sie wirken, Nomos, Baden-Baden 1997, p. 39. 17. J. Habermas, Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia (1992), a cura di L. Ceppa, Guerini, Milano 1996, p. 176. 18. R. Speth, H. Buchstein, Hannah Arendts Theorie intransitiver Macht, in G. Göhler et al. (a cura di), Institution – Macht – Repräsentation, cit., p. 236. 19. M. Weber, Economia e società (1922), trad. di T. Bagiotti, F. Casabianca, P. Rossi, Edizioni di Comunità, Torino 1995, vol. I, § 16, p. 51 (traduzione modificata).

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Se qui ci riferiamo alla definizione weberiana di potere è perché questa non rappresenta semplicemente un’innocua alternativa alla visione arendtiana, bensì vi si oppone radicalmente, in quanto occupa esattamente l’ambito semantico che quest’ultima, invece, assegna al fenomeno della violenza.20 Sulla base di questa opposizione sembra, perciò, disegnarsi lo spazio di una irriducibile alternativa, la quale procede da una determinata interpretazione del potere e si ripercuote su una conseguente interpretazione dello spazio politico stesso. Sul versante del potere, l’alternativa consiste in questo: da una parte si colloca la visione arendtiana, che assume il fenomeno del potere in termini intransitivi, prediligendo perciò il suo aspetto compartecipato e collettivo e la sua netta distinzione dalla violenza; dall’altra si colloca invece la posizione di Weber, che connota il potere in quei termini transitivi che, dando rilievo all’esercizio del singolo e alla dinamica di imposizione che ne deriva, non concedono più un margine di netta distinzione con il fenomeno della violenza. Dando seguito a questa alternativa, non è difficile registrare le ripercussioni sulle configurazioni dello spazio politico che ne derivano: da un lato, la visione arendtiana, tutta tesa a sottolineare l’articolazione originariamente compartecipata del potere, pare affermare una conformazione radicalmente democratica dello spazio politico; dall’altro, invece, l’impostazione weberiana, evidenziando il primato del singolo, pare attestarsi su una strutturazione antidemocratica del medesimo spazio. Posti così i termini dell’alternativa, l’opzione arendtiana ne esce vittoriosa e consolidata, in quanto è la sola a esprimere in tutto il suo vigore, a dispetto della posizione weberiana, la radicale democraticità insita all’interno dello spazio collettivo. Tuttavia, le cose non stanno in modo così semplice. A un’osservazione più attenta, infatti, la visione transitiva del potere sostenuta da Weber non rinnega affatto la matrice democratica dello spazio politico, a cui si ispira con forza la proposta arendtiana, bensì si muove in conformità a un aspetto altrettanto democrati20. Cfr. R. Speth, H. Buchstein, Hannah Arendts Theorie intransitiver Macht, cit., p. 234.

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co, il quale, sebbene venga riconosciuto senza riserve dalla stessa Arendt, non riesce però a trovare coerente articolazione nella sua nozione intransitiva di potere. L’aspetto che abbiamo qui sott’occhio è precisamente quello della “singolarità”. A tutta prima, può certamente sorprendere che l’aspetto della singolarità faccia attrito con la configurazione del potere teorizzata da Arendt, dato che sappiamo bene quanta rilevanza esso rivesta all’interno della nozione di pluralità.21 Tuttavia, la sorpresa rientra non appena si coglie come la problematicità della posizione arendtiana consista proprio in una certa incoerenza fra la strutturazione della pluralità e quella del potere; ovvero nel fatto che Arendt, per quanto tenga fortemente in considerazione il ruolo della singolarità nella costituzione della pluralità, non gli dà però conseguente sviluppo all’interno della correlata dimensione del potere. Pertanto, nel discorso arendtiano, si innesta una contraddizione, insomma una sorta di dinamica autodecostruttiva, che si articola in una nozione di potere non all’altezza di corrispondere a quell’articolazione che l’autrice stessa prevede nella pluralità, allorché in seno a questa assegna un ruolo costitutivo alla partecipazione del singolo. Detto in modo più incisivo: nell’ambito di una visione ossessionata dall’esigenza di salvaguardare a tutti i costi l’idea di un potere, come direbbe Habermas, quale “potere comunicativo”22 della collettività, non riesce a trovare spazio genuino un potere che si ricolleghi all’intervento del singolo, come accade invece in Weber.23 Perciò, l’opposizione fra visione intransitiva e transitiva del potere non deve essere tradotta immediatamente in una irriducibile alternativa fra opzione democratica e antidemocratica dello spazio politico, ma va riformulata nei termini di un’accentuazione di due tratti contemporaneamente presenti nella conformazione de21. Come è noto, peraltro, Arendt, su questa irriducibile capacità di iniziare attribuita al singolo fa ruotare la sua centrale nozione di “libertà” (cfr. H. Arendt, Tra passato e futuro, cit., pp. 193-227; Id., La vita della mente, cit., in particolare p. 546). 22. J. Habermas, Hannah Arendts Begriff der Macht, in A. Reif (a cura di), Hannah Arendt. Materialien zu ihrem Werk, Europaverlag, Wien-München-Zürich 1979, p. 292. 23. Cfr. B. Waldenfels, Schattenrisse der Moral, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2006, pp. 144-148.

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mocratica, i quali seguono dal costitutivo carattere di storicità e contingenza di quest’ultima: da una parte, la versione intransitiva del potere esprime l’originario motivo della compartecipazione collettiva della pluralità, la quale dà seguito al fatto che il mondo umano, non procedendo da nessun fondamento trascendente, si costituisce solo nella misura in cui è istituito come ed entro un mondo comune; dall’altra parte, la versione transitiva del potere esprime l’immancabile necessità che, a partire da questo spazio collettivo mai prefigurato sullo sfondo di un fondamento universale e inconcusso, sia sempre lasciata all’intervento dei singoli la possibilità di immettere significati nuovi nel mondo. Si capisce, allora, il motivo per cui se, da un lato, non può essere l’opzione intransitiva arendtiana del potere a esprimere nel suo insieme l’articolazione democratica dello spazio politico, visto lo svilimento della singolarità che essa attua, dall’altro, non può essere nemmeno una visione esclusivamente transitiva del potere a rappresentare la soluzione. Anche in questo secondo caso, infatti, il potere, essendo sempre e soltanto ricondotto all’intervento del singolo, rischia di soffocare l’elemento democratico, mortificando l’effettiva significatività della compartecipazione collettiva. Allora, se ce n’è una, qual è la via di uscita? O meglio: esiste una terza opzione, la quale, rimanendo nei termini originari di una costituzione democratica dello spazio politico, riesca a dare seguito sia all’esigenza lecitamente insita nella visione collettiva e intransitiva del potere, sia a quella altrettanto giustificata, presente nella visione transitiva del potere? A nostro avviso, questa opzione terza esiste ed è da ricercarsi non tanto al di fuori dell’impostazione arendtiana tout court, bensì entro lo spazio di quella differenza che, nel discorso arendtiano, si spalanca fra la nozione di pluralità e quella di potere. Detto a mo’ di assunto: nella misura in cui si dà seguito alla configurazione intransitiva del potere, sostenuta da Arendt, si rimane troppo sbilanciati sul versante dell’elemento collettivo; mentre, se si segue la traccia presente nella strutturazione, sempre arendtiana, della pluralità, si trova quel bilanciamento fra l’elemento individuale e collettivo, che esprime pienamente il carattere democratico dello spazio politico. 166


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Sennonché, come ci si può subito rendere conto, perseguire il progetto di approfondimento della logica della pluralità significa, in fondo, non seguire le orme di Arendt, bensì pensare attraverso Arendt contro Arendt, in quanto il suo progetto di configurazione democratica segue – questa è la nostra tesi – esplicitamente e coerentemente i dettami che le provengono dalla propria nozione di potere, ma non altrettanto coerentemente quelli che le derivano dalla nozione di pluralità. 3. Democrazia: fra immediatezza e mediazione A questo punto, possiamo prendere posizione all’interno dello spazio di suddetta differenza fra concezione del potere e concezione della pluralità, chiedendoci cosa sia specificamente in gioco. Poniamoci, perciò, una domanda a doppio registro: che tipo di configurazione di democrazia si evince dall’esplicita impostazione arendtiana, allorché essa dà seguito alla nozione di potere? E che tipo di configurazione le si pone in contrasto, invece, nel caso si desse voce alla nozione di pluralità? Nostra intenzione è mostrare qui come tale differenza non faccia segno a scenari inusitati o inediti, ma esattamente alla tradizionale contrapposizione che si apre fra una concezione di democrazia di tipo diretto e immediato e un’altra di forma immancabilmente indiretta o rappresentativa. Non è difficile arrivare a capire come dallo sviluppo dell’articolazione intransitiva del potere, sostenuta da Arendt, si giunga a una configurazione dello spazio politico negli inevitabili termini di una democrazia diretta. Infatti, alla preoccupazione di affermare e preservare l’incidenza dell’elemento collettivo non può che far riscontro una predilezione per il momento di espressione e deliberazione diretto e immediato da parte della collettività, al quale segue l’opposizione nei confronti di ogni forma di rappresentanza e intermediazione da parte dei singoli individui o di gruppi di individui. Non a caso, come scrive a proposito Carlo Galli, la categoria di “rappresentanza politica” resta “costante obiettivo polemico della Arendt”.24 24. C. Galli, Hannah Arendt e le categorie politiche della modernità, in R. Esposito (a cura di), La pluralità irrappresentabile. Il pensiero politico di Hannah Arendt, QuattroVenti, Ur-

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Difatti, nelle pagine conclusive del saggio Sulla rivoluzione, in cui a tema è proprio il concetto di rappresentanza,25 l’analisi sembra concentrarsi preminentemente sul pericolo in essa congenito, il quale consiste nel fatto che, con la rappresentanza politica, il potere della collettività, l’unico che nell’esprimere partecipazione diffusa contenga il carattere veramente democratico, si trasforma in potere di pochi, perdendo così la stessa caratterizzazione democratica. Leggiamo a proposito: Che il governo rappresentativo sia di fatto diventato un governo oligarchico è purtroppo vero, anche se non nel senso classico di governo di pochi nell’interesse di quei pochi; ciò che oggi chiamiamo democrazia è una forma di governo in cui i pochi comandano, o almeno lo si suppone, nell’interesse dei molti. Questo governo è democratico in quanto i suoi scopi principali sono il benessere popolare e la felicità privata; ma può essere chiamato oligarchico nel senso che la felicità pubblica e la libertà pubblica diventano ancora una volta privilegio dei pochi.26 Come si può ben notare, in questo brano Arendt fa risalire al carattere rappresentativo la responsabilità della degenerazione della democrazia in oligarchia. Dal che non è difficile intuire come il recupero o la riattivazione della vera e propria configurazione democratica debba passare attraverso la revoca di suddetto carattere di intermediazione, come pure attraverso la conseguente riabilitazione di un’articolazione democratica il più possibile conforme alla compartecipazione diretta della collettività. Ovviamente, ci riferiamo qui a un’aspirazione e non a un’attuazione completa della democrazia diretta, poiché Arendt, al pari di altri autori, è ben consapevole del dramma che attanaglia ogni compagine democratica, e che si palesa nell’irrealizzabilità totale della sua forbino 1987, p. 21. Sulla questione della critica arendtiana al concetto di rappresentanza, cfr. anche R. Esposito, Hannah Arendt tra “volontà” e “rappresentazione”: per una critica del decisionismo, in Id. (a cura di), La pluralità irrapresentabile, cit., p. 59 sgg. 25. Cfr. H. Arendt, Sulla rivoluzione (1963), trad. di M. Magrini, Edizioni di Comunità, Torino 1999, p. 272 sgg. 26. Ivi, p. 312.

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ma diretta, a causa di fattori impossibilitanti come l’estensione geografica e l’elevato numero dei partecipanti alla collettività e, dunque, nell’inevitabile ricorso alla rappresentanza, come forma in cui “i cittadini ced[ono] il loro potere ai loro rappresentanti”.27 Tuttavia, questa ammissione di inevitabilità della rappresentanza, da parte di Arendt, non deve innescare il dubbio di una ricercata conciliazione con essa. Al contrario, non costituisce altro che l’ulteriore conferma del rifiuto nei confronti della mediazione rappresentativa, in quanto si inscrive a pieno titolo all’interno di quella forma consueta di valutazione della democrazia secondo cui, come rileva acutamente e con intenzione polemica Böckenförde, la vera “essenza della democrazia”,28 ovvero la sua forma più “autentica e piena”,29 viene a combaciare con “la democrazia diretta e immediata”30 e, “a partire da questo concetto di democrazia, la democrazia mediata, rappresentativa, ottiene la propria giustificazione solo a partire da datità tecnico-fattuali”.31 Ne consegue, simultaneamente, un doppio ordine di implicazioni che, per l’assetto democratico basato sulla mediazione, si rivelano fatali: innanzitutto il fatto che, di fronte a un’idea autentica di democrazia, che si radica nel suo carattere diretto e immediato, la rappresentanza appare inevitabilmente “come forma inferiore, come ‘seconda via’, la quale non può nascondere il suo deficit di autenticità democratica”;32 in secondo luogo, che la democrazia diretta viene a fungere da paradigma di perfettibilità per quel male necessario con cui, alla fine, si identifica la forma mediata di democrazia. In quest’ultimo senso, prosegue sempre Böckenförde, “ogni elemento di democrazia immediata, che viene introdotto all’interno [della democrazia rappresentativa], detiene un maggior grado di legittimità e rappresenta un ‘più di democrazia’”.33 Pertanto, se si vuole realizzare una forma di demo27. Ivi, p. 286. 28. E.-W. Böckenförde, “Demokratie und Repräsentation”, cit., p. 381. 29. Ivi, p. 379. 30. Ivi, p. 380. 31. Ivi, p. 381. 32. Ibidem. 33. Ibidem.

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crazia vera e propria, la tendenza complessiva a cui ci si deve conformare, e a cui si conforma anche il discorso arendtiano, “deve andare nella direzione secondo cui gli elementi della rappresentazione e della mediatezza, per quanto ineliminabili, devono essere tuttavia combattuti e ridotti”.34 Nel discorso di Arendt, il predominio del valore paradigmatico della democrazia diretta trova riscontro negli indubbi tentativi di divincolarsi dalla necessità rappresentativa e, coerentemente, di caricare di significato tutte quelle articolazioni in cui a emergere è il carattere di espressione diretta della collettività. In tal senso, come già anticipato, bisogna non lasciarsi fuorviare dalla profondità con cui Arendt coglie il “dilemma” della rappresentazione politica35 e, soprattutto, non farsi depistare dalle sue affermazioni secondo cui la rappresentanza è il luogo in cui ne va della “dignità stessa della sfera politica”.36 In effetti, se si caricano troppo di significato queste considerazioni, si può giungere all’impressione, anch’essa fuorviante, che il discorso di Arendt voglia restare nella forma rappresentativa e auspicarne una soluzione dall’interno.37 Invece, le cose non stanno in questi termini, dato che, nonostante le acute analisi da lei dedicate alla questione della rappresentanza, la soluzione prospettata tende costantemente a eccedere tale opzione e a ispirarsi chiaramente ai momenti dell’immediatezza. Più che mai, quindi, ci sembra necessario fugare ogni dubbio, attraverso una più accurata tematizzazione del doppio passaggio appena citato: descrivendo, cioè, il modo in cui Arendt, nonostante colga, in prima battuta, il nodo problematico della democrazia rappresentativa, non approfondisca affatto tale problematicità cercandone una soluzione all’interno, bensì la ricerchi espres34. Ibidem. Dello stesso avviso è H. Hofmann, Repräsentation, Mehrheitsprinzip und Minderheitenschutz, in Verfassungsrechtliche Perspektiven. Aufsätze aus den Jahren 1980-1994, Mohr (Paul Siebeck), Tübingen 1995, in particolare pp. 163-173. 35. Cfr. G. Duso, La rappresentanza politica. Genesi e crisi del concetto, Angeli, Milano 2003, p. 20. 36. H. Arendt, Sulla rivoluzione, cit., p. 273. 37. Questo, per esempio, è il tentativo compiuto da Anne-Marie Roviello, Freiheit, Gleichheit und Repräsentation, in D. Ganzfried, S. Hefti (a cura di), Hannah Arendt. Nach dem Totalitarismus, Europäische Verlagsanstalt, Hamburg 1997, pp. 121-123.

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samente nella tendenza a esaltare una visione diretta e immediata della democrazia. Nello specifico, è nello spazio delle pagine citate dal saggio Sulla rivoluzione che Arendt esibisce questo suo doppio movimento di assunzione e rigetto della rappresentanza. A un primo livello, infatti, la sua analisi si concentra sulla difficoltà da cui sono colti i padri fondatori della Costituzione americana in ordine alla questione della rappresentanza; difficoltà che si palesa nell’alternativa fra un sostegno al mandato vincolato e quello al mandato libero. Quest’alternativa, radicata nel cuore della rappresentanza, contiene un’elevata problematicità: da una parte, l’adesione a una visione della delega vincolata alle istruzioni e volontà degli elettori porta con sé l’immancabile rischio di destituire, fin dal principio, di significato politico la rappresentanza stessa; dall’altra, invece, la difesa di una visione del mandato rappresentativo nei termini di indipendenza dei rappresentanti porta con sé il pericolo di ricostituire quell’oligarchia dei governanti sui governati, la quale, lungi dal dare seguito alle intenzioni rivoluzionarie (nonché democratiche) di fondazione della libertà, ristabilisce la situazione che ogni rivoluzione si prefigge di abolire.38 38. Scrive Arendt, in una densa pagina che vale la pena riportare: “L’intera questione della rappresentanza, uno dei problemi cruciali e spinosi della politica moderna sin dalle rivoluzioni, implica in realtà nientemeno che una decisione sulla dignità stessa della sfera politica. L’alternativa tradizionale fra la rappresentanza come semplice sostituto dell’azione diretta del popolo e la rappresentanza come governo, controllato dal popolo, dei rappresentanti dei cittadini sul popolo stesso costituisce uno di quei dilemmi che non consentono soluzione. Se i rappresentanti eletti sono legati dalle istruzioni ricevute al punto da riunirsi solo per tradurre in atto la volontà dei loro elettori, possono ancora scegliere se considerarsi fattorini in abiti da cerimonia o esperti pagati come specialisti per rappresentare, al pari degli avvocati, gli interessi dei loro clienti. Ma in entrambi i casi si presume, naturalmente, che gli interessi dell’elettorato siano più impellenti e importanti di quelli dei suoi rappresentanti: i quali sono gli agenti pagati di persone che, per qualsiasi ragione, non possono o non vogliono occuparsi degli affari pubblici. Se al contrario si intende che i rappresentanti abbiano, per un periodo limitato, il compito di governare coloro che li hanno eletti […] la rappresentanza significa che gli elettori rinunciano al loro potere, anche se volontariamente, e che il vecchio adagio ‘Tutto il potere risiede nel popolo’ è vero solo per il giorno delle elezioni. Nel primo caso il governo degenera in semplice amministrazione, lo spazio pubblico scompare: non v’è più spazio né per vedere ed essere visto in azione […] né per discutere e decidere […]: gli affari politici sono quelli destinati per necessità a essere decisi da esperti, ma non sono aperti alle opinioni e a una vera scelta: perciò non c’è alcun bisogno di quel ‘corpo scelto di cittadini’ […] il quale dovrebbe filtrare e decantare le opinioni in opinioni pubbliche. Nel

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Tenendo presente la traiettoria di una tale analisi, ben si intuisce come Arendt registri indubbiamente la possibile deriva sempre latente in seno alla rappresentanza, la quale consiste nel pericolo di completa alienazione del potere della collettività in direzione dei suoi rappresentanti. Tuttavia, questa intercettazione non conduce direttamente all’auspicio di un oltrepassamento del registro della rappresentanza, tant’è che Arendt non manca di manifestare quanto sia problematica l’adesione a una versione della rappresentanza come mero sostituto o copia dell’azione diretta del popolo. Pertanto, restando a quest’altezza della meditazione, pare si possa non abbandonare l’ambito della rappresentanza, a patto di ricercare una soluzione alla sua degenerazione mediante appositi correttivi portati sullo sganciamento del potere dalla collettività.39 Per quanto pertinente, però, questa considerazione non è quella a cui, a ben guardare, Arendt aderisce. Infatti, in ultima analisi, lungi dal ricercare una soluzione alla carenza di partecipazione democratica entro la rappresentanza, l’autrice giunge a una conclusione diametralmente opposta, secondo cui tale deficit partecipativo è destinato a restare sempre “uno di quei dilemmi che non consentono soluzione”,40 fintantoché non si arriva a comprendere che ad alimentarlo è esattamente l’istanza medesima della rappresentanza. È questo, in fondo, l’esito a cui si giunge, non appena si approfondisce la riflessione arendtiana in direzione del rimprovero rivolto ai padri fondatori in merito al fatto che essi, non tanto non avrebbero saputo trovare la vera soluzione alla deriva della rappresentanza, quanto piuttosto, seppure avessero voluto, non avrebbero potuto trovarla per principio, dato che la permanenza della loro ricerca all’interno della compagine rappresentativa impediva loro di rintracciare in quest’ultima la vera causa di alienazione del potere dalla collettività. secondo caso, che è molto più vicino alla realtà, si riafferma invece la vecchia distinzione fra governante e governati che la rivoluzione aveva cercato di abolire […]: ancora una volta i cittadini non sono ammessi sulla scena pubblica, ancora una volta gli affari di governo sono divenuti privilegio di pochi” (H. Arendt, Sulla rivoluzione, cit., pp. 273-274). 39. In tal senso, cfr. A.-M. Roviello, Freiheit, Gleichheit und Repräsentation, cit., p. 122 sgg. 40. H. Arendt, Sulla rivoluzione, cit., pp. 273-274.

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Proprio in tal senso, l’argomentazione arendtiana è chiara e incalzante, in quanto non disapprova affatto l’assetto costituzionale progettato dai founding fathers in ordine alla sua capacità di ovviare alla piena deriva antidemocratica; tant’è che, a questo livello, non si lascia attendere l’ammissione secondo cui fu “dovuto esclusivamente alla ‘scienza politica’ dei fondatori [l’istituzione di] un governo in cui la divisione dei poteri attraverso verifiche e giochi di equilibrio poté imporre il proprio controllo”.41 Invece, quello che Arendt critica aspramente è l’esplicito riflesso del primato rappresentativo sulla Costituzione stessa, il quale si traduce nel semplice e inequivocabile fatto che quest’ultima, nel suo corpo testuale, attribuendo “uno spazio pubblico solo ai rappresentanti e non ai cittadini stessi”,42 non è in grado di offrire coerente riconoscimento al piano originario e radicalmente democratico dell’auto-organizzazione sociale. L’immancabile risvolto che perciò segue da questa corruzione rappresentativa è che a non trovare riscontro effettivo nell’assetto costituzionale non è un elemento fra altri, bensì niente meno che la sua fonte o provenienza rivoluzionaria, ovvero: la collettività nella sua originaria partecipazione al potere.43 Per questo, di fronte a tale omissione, Arendt non può che parlare di una “fatale carenza della Costituzione, che aveva mancato di incorporare e debitamente costituire, o di fondare di nuovo, le fonti originali del […] potere e della […] felicità pubblica”,44 le quali risiedono nella dimensione della coesione collettiva. Si capisce, allora, come la polemica di Arendt non si possa scagliare se non contro il primato della rappresentanza, quale devianza originaria, tale da impedire ai padri fondatori di corredare la Costituzione di un coerente spazio per il suo fondamento e motore, ossia per quel potere insito esclusivamente nell’agire insieme della collettività. O meglio, detto con le stesse parole di Arendt: in seno alla Costituzione, non si può non notare una certa para41. Ivi, p. 276. 42. Ibidem. 43. Cfr. A.-M. Roviello, Freiheit, Gleichheit und Repräsentation, cit., p. 121. 44. H. Arendt, Sulla rivoluzione, cit., p. 276.

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dossalità, se si considera il fatto che “fu proprio la Costituzione [quale] più grande conquista del popolo americano, che infine”, in forza della fatale contaminazione del principio rappresentativo, “lo privò del suo più superbo possesso”.45 Eppure, è cosa tutt’altro che assodata come da questo tratto polemico contro l’alienazione del potere collettivo provocata dalla rappresentanza si possa desumere immediatamente e indubitabilmente una predilezione arendtiana per la soluzione democratica diretta. Per esempio, studiosi come Roberto Esposito rifiutano espressamente questo tipo di interpretazione.46 Ma, a nostro avviso, non a ragione, perché la critica arendtiana all’appena citata carenza costituzionale americana trae chiara ispirazione da una configurazione immediata della democrazia. Infatti, qualora ci chiedessimo in cosa si concretizzi effettivamente suddetta omissione e, conseguentemente, quali tratti assuma contestualmente la controproposta capace di colmare questa lacuna, la risposta sarebbe pressoché univoca: per Arendt, si tratta sempre di evidenziare il momento originariamente democratico e rivoluzionario della compartecipazione diretta della collettività, il quale si compone esclusivamente in quelle situazioni in cui il potere si mostra unicamente e radicalmente come potere comune. In effetti, da quale altra fonte ispiratrice, se non dal paradigma della democrazia diretta, sarebbe mossa Arendt allorquando rimprovera ai padri fondatori la loro “incapacità di incorporare” nel testo costituzionale “le townships e le assemblee dei cittadini, fonti originarie di ogni attività politica nel paese”?47 E, sulla stessa scia, non sarebbe parimenti riconducibile alla medesima ispirazione la controproposta generale che, non limitandosi al solo contesto della rivoluzione americana, resta tutto teso – come ravvisa peraltro lo stesso Esposito – a un’“appassionata difesa di tutte le esperienze di autogoverno – la Comune francese, le townships americane, i soviet russi, le Räte ungheresi – nate ad ogni scoppio rivoluzionario”?48 45. Ibidem. 46. R. Esposito, Hannah Arendt tra “volontà” e “rappresentazione”, cit., in particolare p. 60. 47. H. Arendt, Sulla rivoluzione, cit., p. 276. 48. R. Esposito, Hannah Arendt tra “volontà” e “rappresentazione”, cit., in particolare p. 60.

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Ma non solo. Ulteriore e fondamentale elemento che contrassegna queste esperienze di autogoverno come forme innegabilmente ispirate al modello della democrazia diretta è, a nostro avviso, l’esplicito riferimento al loro carattere spontaneo.49 Infatti, a cos’altro può corrispondere la spontaneità del comporsi di una coesione della e nella collettività se non a un’espressione di immediatezza della collettività stessa? E se poi si collegano queste spontaneità e immediatezza al quadro di riferimento classico (e diciamolo pure: romantico e dialettico-speculativo), che ravvisa nella spontaneità la più alta espressione di purezza, genuinità e perciò autenticità, l’esito a cui si va incontro è facile da immaginare: la forma democratica diretta, in forza di tale spontaneità prorompente dalla coesione collettiva, sovrasta con apodittica evidenza la forma mediata, immancabilmente contagiata dal virus del sempre possibile tradimento della collettività da parte “dell’accentramento rappresentativo”.50 Sulla scorta di queste considerazioni, ci pare per nulla ininfluente il fatto che Arendt, ogniqualvolta si riferisce al sorgere di suddette situazioni di autodeterminazione collettiva, contrapponga tale presunta spontaneità alla dinamica rappresentativa. Leggiamo a proposito: “Ogni volta che comparvero” simili fermenti di autogoverno “scaturirono come organi spontanei del popolo, non solo al di fuori di tutti i partiti rivoluzionari, ma completamente inaspettati da parte dei partiti e dei loro capi”.51 In definitiva, quindi, l’assetto del discorso politico arendtiano ci sembra sostenersi su questa dicotomia: da una parte, il potere originario e genuino negli esclusivi e irriducibili termini democratici di coesione della collettività, sino al punto che siffatta coesione, non ammettendo interferenze da parte di intermediari, finisce per tradursi immancabilmente in una configurazione democratica di tipo diretto; dall’altra, la democrazia mediata che, dovendo necessariamente ricorrere alla deviazione rappresentativa, cova in sé il rischio perenne di far degenerare la democrazia in oligarchia.

49. Sul riferimento alla spontaneità, cfr. H. Arendt, Sulla rivoluzione, cit., pp. 284, 288. 50. R. Esposito, Categorie dell’impolitico, il Mulino, Bologna 19992, p. 101. 51. H. Arendt, Sulla rivoluzione, cit., p. 288.

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4. Un confronto con la lettura di Roberto Esposito A questo punto, se ci interroghiamo su come l’opzione interpretativa di Roberto Esposito possa giungere a definire in termini di “una pura impressione” la tendenza arendtiana all’“immediatezza contro la mediazione”,52 possiamo rinvenirne la spiegazione nel fatto che egli, affidandosi preminentemente al tratto disgiuntivo della pluralità, nella sua analisi non attribuisce il giusto peso a tre questioni fondamentali e simultaneamente correlate: in primo luogo, omette il ricorso all’altro tratto della pluralità, ovvero quello congiuntivo (o di uguaglianza); in secondo luogo, non tematizza la nozione di potere, che poggia sul predominio di quest’ultimo tratto; infine, e per conseguenza, manca di registrare la contraddittorietà che si insinua nel rapporto fra la nozione di pluralità e quella di potere. Tenendo presente queste premesse, si capisce bene come, per Esposito, non risulti affatto difficile, a partire dalla sola dimensione della pluralità, ovvero dalla carica di distinzione e alterazione che quest’ultima contiene, scongiurare un’eventuale adesione arendtiana alla democrazia diretta e, parimenti, all’auspicio di una unitarietà collettiva a essa collegata. Infatti, uno dei punti fondamentali che Esposito tiene a dimostrare è che in forza della nozione di pluralità, il discorso arendtiano non può essere confuso con l’opzione rousseauiana della democrazia diretta, congiuntamente al suo necessario risvolto o presupposto di una union sacrée del popolo, né con la nozione di Identität schmittiana, quale deposito originario e unitario in cui si esprime la volontà del popolo.53 Tuttavia, aver rilevato questa differenza interpretativa non chiude i nostri conti con Esposito, giacché il suo ricorso esclusivo al tratto disgiuntivo della pluralità contro le derive dell’immediatezza, lungi dal condurlo a problematizzare dall’interno l’opposizione arendtiana alla mediazione rappresentativa, si rivela essere simultaneamente elemento che lo porta coerentemente a condividerne anche l’esito anti-rappresentativo. E, a dire il vero, non 52. R. Esposito, Hannah Arendt tra “volontà” e “rappresentazione”, cit., p. 60. 53. Cfr. ivi, p. 61 sgg.

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sorprende affatto che Esposito, dopo aver diretto la pluralità contro l’immediatezza, riesca a farla giocare anche contro la mediazione. Difatti, l’apparente vantaggio che l’esclusiva sottolineatura dell’aspetto disgiuntivo (molteplice o prospettico) della pluralità possiede è che esso la dota di una resistenza a qualsiasi tentativo di accentramento e riduzione unitari. Vale a dire, la forza disgiuntiva della pluralità può essere fatta reagire tanto contro una pretesa di unitarietà immediata e totale (democrazia diretta), quanto contro una unificazione parziale procurata, d’altro canto, da una mediazione rappresentativa. Sotto tale prospettiva, ci pare totalmente coerente la fedele adeguazione di Esposito all’intenzione arendtiana e altrettanto ineccepibile il suo ribadire che è segnatamente l’“essenza plurale ad essere del tutto impronunciabile al linguaggio rappresentativo. E impronunciabile per un doppio aspetto: perché quest’ultimo unifica ciò che è plurale e divide ciò che è coincidente. O meglio unifica i soggetti rappresentati appunto separandoli dal loro rappresentante”.54 Tuttavia, quello che di altamente problematico scorgiamo nell’interpretazione di Esposito è il fatto che l’esclusivo primato conferito al carattere di molteplicità plurale e alla conseguente impossibilità di unificazione risulta un vantaggio soltanto apparente: una pluralità unicamente disgiuntiva, infatti, per essere tale deve, in ultima analisi, poter esibire un luogo, seppur segreto, in cui effettivamente possa manifestarsi in quanto se stessa. Ma è qui che il discorso di Esposito si scompagina e il vantaggio diventa perdita. Siffatto luogo, ammesso che esista, non corrisponderebbe ad altro che all’istanza specularmente opposta a quella di una totalità completamente conciliata e, dunque, immodificata nella medesima pretesa di assolutezza. Insomma, una tale accezione di pluralità allergica a ogni piega di mediazione e unificazione potrebbe, in definitiva, essere equiparata, per ricorrere al lessico nietzschiano, a un totale dionisiaco, che si oppone a un totale apollineo, conservandone nondimeno la medesima presunzione. 54. Ivi, p. 60.

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Eppure, se si guarda con attenzione alla struttura dell’articolazione della pluralità, non si trova riscontro né di un’assoluta consonanza, né di una lacerante dissonanza entro la collettività. Pertanto, quel che, tutto sommato, possiamo ritenere operi nell’interpretazione di Esposito, in modo più o meno consapevole, è la sottolineatura di una delle due derive possibili, contenute nel discorso arendtiano della pluralità, non appena se ne assolutizza uno dei caratteri. E ciò con l’ulteriore avvertimento che la direzione in cui l’assolutizzazione di Esposito si muove è opposta a quella che, alla fine, prevale nel discorso di Arendt. In altri termini, tendendo a esaltare il tratto disgiuntivo della pluralità, Esposito non riesce a registrare, di Arendt, né la struttura intransitiva del potere, immancabilmente votata a sottolineare il carattere congiuntivo della pluralità quale (per dirla con Habermas) “intatta intersoggettività”,55 né dunque la sua naturale propensione a prediligere una configurazione diretta della democrazia. Sennonché, per quanto sia rimarcata l’opposizione fra queste due esasperazioni della pluralità, vale la pena registrare che esse, in quanto assolutizzazioni univoche, condividono un tratto comune: entrambe, infatti, una per eccesso l’altra per difetto, mancano di corrispondere propriamente al carattere contingente e costitutivo della pluralità dalla quale emergono. La radicale disgiunzione degli individui entro la collettività conduce a una visione della pluralità lacerata da un’assoluta contingenza e dissonanza, la quale, per principio, si identifica con la possibilità di un prendere la parola di tutti e di un parlare tutti insieme, dove alla fine, data l’incomponibile frammentazione dei parlanti e l’inarrestabile immissione di nuove prospettive, nessuno parla su niente e con nessuno. Viceversa, la radicale congiunzione degli individui in seno alla collettività conduce a una configurazione della pluralità in cui, sullo sfondo del dominio assoluto di consonanza e armonia, la contingenza non ha più posto. Tutto ciò che è da dire sarebbe stato 55. J. Habermas, Fatti e norme, cit., p. 177 (l’espressione è ripresa proprio dalle pagine in cui l’autore analizza il pensiero di Arendt).

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già detto; ogni nuova possibilità di significato sarebbe, per principio, esclusa; e, con ciò, altrettanto inutile risulterebbe l’atto stesso del prendere la parola da parte di qualcuno (infatti, per dire cosa di nuovo?). Ora, se andiamo a sondare come la mediazione rappresentativa si collochi in tale contesto dicotomico, ci accorgiamo che, nel primo caso, essa risulta impossibile, visto che ciascuno potrebbe essere sempre e soltanto rappresentante di se stesso; nel secondo caso, si rivela invece inutile, ovvero mera operazione di maquillage, visto che ciascuno potrebbe essere rappresentante di tutti. Ovviamente, non è nostra intenzione attribuire tale visione semplificata ed estremizzata tanto all’impostazione arendtiana, incline alla congiunzione intransitiva del potere collettivo, quanto alla lettura di Esposito, tendente alla disgiunzione della pluralità. Quello che, invece, corrisponde più puntualmente al nostro proposito è sottolineare come entrambe le visioni – e quella arentiana votata all’esaltazione della partecipazione diretta, e quella di Esposito che, del discorso arendtiano, evidenzia il tratto disgiuntivo della pluralità allergico a qualsiasi mediazione – non permettano di cogliere il fatto che una configurazione dello spazio politico nei termini di democrazia, tale da conformarsi effettivamente al suo carattere di originaria contingenza e storicità, non deve opporsi alla mediazione rappresentativa, bensì considerarla una necessità costitutiva,56 poiché soltanto essa riesce a dispiegare e a contemperare pienamente il tratto disgiuntivo e congiuntivo della pluralità. 5. Il carattere costitutivo della rappresentanza democratica La rappresentanza si radica nel carattere contingente e democratico dello spazio politico. Essa, difatti, inserendosi nel contesto di una non precostituita configurazione del mondo a partire da un 56. Per lo sviluppo di questa visione ci sono sembrati fondamentali approfondimenti e suggestioni provenienti da ambiti diversi. Oltre ai già citati E.-W. Böckenförde, G. Duso e H. Hoffmann, in particolar modo: P. Bourdieu, Language and Symbolic Power, Polity Press, Cambridge 1992 e M.W. Schnell, Phänomenologie des Politischen, Fink, München 1995.

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fondamento universale sulla cui base la totalità dei significati potrebbe essere ritenuta possesso sicuro e stabile della pluralità collettiva, rinvia al fatto che i significati affiorano al mondo solo nella misura in cui vengono portati ad apparizione dalla collettività. Il che, però, vuol dire esattamente: emergono solo se è qualcuno a prendere la parola in seno alla pluralità e, prendendo la parola, parla non solo per se stesso, bensì per altri, facendosene inevitabilmente rappresentante. È proprio qui che inizia a manifestarsi il carattere rappresentativo della comparizione dei significati, il quale non si riduce alla visione di Arendt né a quella di Esposito. Certamente, come essi affermano, il fenomeno della rappresentanza non può evitare la riduzione della pluralità dei rappresentati all’unità del rappresentante; tuttavia, non per questo mortifica la forza prorompente, alterante e disgiuntiva delle singolarità nella pluralità, visto che ne è proprio piena e diretta espressione. A tale livello, dunque, l’aspetto di unificazione della rappresentanza è indubitabilmente secondario rispetto a quello della disgiunzione, se non altro perché ogni unificazione riuscita è sempre genealogicamente il prodotto di un’irruzione singolare. Ma questo è solo un primo aspetto della rappresentanza, a cui va connesso immediatamente un secondo: quello cioè che, di contro al tratto di singolarità e irruzione, si manifesta nell’aspetto della congiunzione, quale costitutivo rinvio della singolarità alla partecipazione della collettività. E questo sotto due profili: innanzitutto, nel senso che colui che parla come rappresentante, lo fa sempre a partire da un deposito di significati condivisi e già collettivamente a disposizione; in secondo luogo, nel senso che l’azione del singolo rinvia costitutivamente alla risposta collettiva. In riferimento al primo profilo, l’emersione del nuovo significato grazie al singolo, ovvero grazie a colui che funge da rappresentante, non è mai una creazione dal nulla, bensì prende le mosse da un inevitabile collegamento alla comunanza. Se così non fosse, mancherebbe sia la base di partenza per il rappresentante, il quale non avrebbe nessun materiale da formare o alterare, sia la base di arrivo per la collettività, la quale non riuscirebbe nemmeno a percepire il significato che il rappresentante porta a comparizione. In 180


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riferimento al secondo profilo, invece, va considerato il fatto che a stabilire il successo del tentativo di rappresentanza da parte del rappresentante, dunque a decidere se un qualche significato risulta effettivamente rappresentativo, è l’istanza di riconoscimento da parte della collettività stessa. Sennonché, è proprio a questo livello, in cui nella rappresentanza, per un verso, si manifesta l’iniziativa del rappresentante e, per l’altro, il necessario riconoscimento da parte dei rappresentati, che bisogna introdurre l’avvertimento fondamentale della presenza di una paradossale logica della supplementarietà originaria, in cui ciò che viene prima si manifesta soltanto attraverso ciò che viene dopo.57 Infatti, se si incappa nell’errore di interpretare questo doppio movimento nei meri termini di un’antecedenza e di una conseguenza, il fenomeno genuino della rappresentanza corre il rischio di dissolversi alternativamente in due sensi: il primo caso è quello in cui si dà troppo peso all’anteriorità e, dunque, alla preminenza dell’azione del rappresentante, con la conseguenza che è il ruolo del riconoscimento da parte dei rappresentati a divenire secondario. In questo contesto, vista l’accessorietà del riconoscimento, cioè della corrispondenza di ciò che è rappresentato alle esigenze dei rappresentati, il fenomeno della rappresentanza si snatura in dinamica di imposizione. Il secondo caso, invece, è quello in cui è la posteriorità del riconoscimento da parte della collettività ad assumere ruolo determinante e, quindi, a diventare anteriore all’azione del rappresentante. Come si capisce, anche qui la rappresentanza si dissolve, poiché la collettività, già disponendo di ciò che il rappresentante dovrebbe rappresentare, non ha affatto bisogno di quest’ultimo. Se, invece, come appena accennato, si sottopone il fenomeno 57. Su questo si veda J. Derrida, La voce e il fenomeno. Introduzione al problema del segno nella fenomenologia di Husserl (1967), trad. di G. Dalmasso, Jaca Book, Milano 19972, p. 128; Id., La scrittura e la differenza (1967), trad. di G. Pozzi, Einaudi, Torino 1990, p. 361. Ancor più nello specifico, Derrida, per comunicare questa logica paradossale, in un breve ma denso saggio dedicato all’analisi della Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America, definisce la dinamica costitutiva di ogni fondazione di ordine e la relativa concatenazione rappresentativa proprio nei termini di un peculiare “futuro anteriore” o anche di una “favolosa retroattività” (Id., Otobiographies. L’insegnamento di Nietzsche e la politica del nome proprio, 1984, trad. di R. Panattoni, Il Poligrafo, Padova 1993, p. 27).

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della rappresentanza alla logica supplementare suggeritaci da Derrida e, in particolar modo, a quella sua versione feconda che Merleau-Ponty ci ha mostrato attraverso la nozione di “espressione creatrice”,58 si giunge a una giusta collocazione nei termini in cui è solo mediante l’azione del rappresentante che si crea quel significato per la collettività, la quale, una volta avvenuta l’emersione del significato stesso, lo assume come se l’avesse già sempre posseduto in sé.59 Pertanto, la rappresentanza, da un lato, si mostra quale espressione, in quanto il significato che il rappresentante porta a comparizione è un qualcosa che la collettività afferma di possedere fin dall’inizio, tant’è che essa, alla fine, vi si riconosce; dall’altro lato, invece, si mostra essere creazione originaria, visto che questo stesso significato appare per la prima volta alla collettività medesima solo ed esclusivamente attraverso l’azione del rappresentante.60 Ma non solo, a ben guardare, il fenomeno della rappresentanza ha carattere di creazione anche in un secondo senso, giacché esso non crea soltanto i significati per la collettività, ma anche la collettività stessa, in quanto solo esso innesca il processo di riconoscimento, attorno a cui la collettività si raccoglie e, raccogliendosi, si configura per la prima volta.61 E questo, simultaneamente, vuol dire che dalla paradossale logica dell’espressione creatrice non si esce certamente con l’escamotage che assegna all’azione di rappresentazione il solo compito di esplicitazione o di esteriorizzazione di un’implicitezza o interiorità già sempre contenuta nella collettività stessa.62 Infat58. Cfr. M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione (1945), trad. di A. Bonomi, Bompiani, Milano 2003, p. 502. Sulla portata politica dell’espressione creatrice si vedano almeno: B. Waldenfels, “Das Paradox des Ausdrucks”, in Deutsch-Französische Gedankengänge, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1995, pp. 105-123 e M. Vanni, L’adresse du politique. Essai d’approche responsive, Les éditions du Cerf, Paris 2009, pp. 33-48. Ci permettiamo di rinviare anche a F.G. Menga, Potere costituente e rappresentanza democratica. Per una fenomenologia dello spazio istituzionale, Editoriale Scientifica, Napoli 2010, in particolare capp. 11 e 12. 59. Cfr. M. Merleau-Ponty, Le avventure della dialettica (1955), in Umanismo e terrore e Le avventure della dialettica, trad. di F. Madonna e A. Bonomi, Sugar, Milano 1965, pp. 258259. 60. Cfr. M.W. Schnell, Phänomenologie des Politischen, cit., pp. 141-145. 61. Cfr. P. Bourdieu, Language and Symbolic Power, cit., p. 204. 62. È questo escamotage a essere presente, per esempio, tanto nella teoria della rappresentanza di Carl Schmitt (cfr. Dottrina della costituzione, 1928, a cura di A. Caracciolo, Giuf-

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ti, allo stadio dell’implicitezza non esiste ancora alcuna collettività. Detto altrimenti, e in senso pienamente arendtiano, la collettività non possiede nessuna interiorità, bensì è il luogo stesso dell’esteriorità, dell’apparenza e della luce pubblica. Per cui, la presunta esplicitazione dell’azione di rappresentanza, lungi dall’innestarsi entro una collettività, che sarebbe già costituita prima e resterebbe identica dopo la sua azione, è proprio l’unica istanza capace tanto di costituirla quanto di modificarla. 6. Conclusioni Sulla scorta di questa riflessione giungiamo alle considerazioni conclusive. In particolare possiamo domandare ad Arendt in che termini pensa di accordare la sua propensione per la democrazia diretta con alcuni elementi che lei stessa tende a esaltare in seno alla fondazione della Costituzione americana, come il ruolo svolto dai founding fathers e la centralità dell’evento medesimo di fondazione.63 Contrariamente a quanto l’opzione della democrazia diretta riesca a contenere a livello esplicativo, non sarebbe più opportuno parlare qui dei padri fondatori nei termini di supremi rappresentanti e della loro azione nei termini di un’espressione creatrice?64 Essi sono rappresentanti poiché parlano per il popolo; ovvero, lo sostituiscono nel mentre lo fondano. Al contempo, svolgono un’azione di creazione, in quanto solo il loro intervento lascia emergere quella configurazione di significati fondamentali che, precipitando nel testo costituzionale, istituisce per la prima volta ciò che esso rappresenta: in questo caso, il popolo americano. E nondimeno, si tratta anche di un’azione espressiva, poiché questa prima volta (secondo quanto esplicitato poc’anzi sulla base della logica supplementare) è in realtà una seconda volta; ed è tale, giacfrè, Milano 1984, in particolare pp. 270-284), quanto in quella di Gerhard Leibholz (cfr. La rappresentazione nella democrazia, 1929, a cura di S. Forti, Giuffrè, Milano 1989, in particolare pp. 93-95). Su questo cfr. F.G. Menga, Potere costituente e rappresentanza democratica, cit., capp. 8 e 9. 63. Cfr. H. Arendt, Sulla rivoluzione, cit., p. 234. 64. Oltre a una certa impostazione di matrice merleau-pontyiana, un ulteriore percorso che insiste in particolar modo sul carattere radicalmente creativo della rappresentanza è quello di F.R. Ankersmit, Aesthetic Politics. Political Philosophy Beyond Fact and Value, Stanford University Press, Stanford (Cal.) 1996.

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ché l’azione di fondazione da parte dei rappresentanti, a ben guardare, sprofonderebbe nel vuoto senza una qualche forma di riferimento previo – e, quindi, di appiglio – a un qualcosa da rappresentare effettivamente (appunto, il popolo americano stesso). Ecco, dunque, il modo in cui la logica tutta espressiva e paradossale, che si instaura nel cuore dell’evento di fondazione quale evento di rappresentanza, colpisce in pieno anche il discorso arendtiano: prima dell’evento di rappresentazione non esiste affatto ciò che è rappresentato; dopo l’evento di rappresentazione ciò che è rappresentato si ritiene debba presupporsi alla rappresentazione medesima, ché altrimenti l’evento stesso, che la fa scaturire, sarebbe già sprofondato nel nulla. Ma a questa originarietà strutturale della rappresentanza la riflessione di Arendt non ha saputo giungere. E siffatta omissione probabilmente non è priva di conseguenze. Infatti, se è lecito pensare – come si è cercato di mostrare – che è attorno alla mediazione singolare che si compone e preserva il carattere di contingenza dello spazio politico, la contrapposta adesione arendtiana alla democrazia diretta potrebbe ben nascondere, seppur inconsapevolmente, una certa seduzione assolutistica, e ciò nei termini, per esempio, di quel pericoloso anelito a una collettività orientata a unitaria coesione e diffusa organicità, da cui, in diversi modi, Lefort, Derrida e anche Ankersmit ci hanno messo in guardia.65 Pertanto, pur sottolineando l’innegabile fecondità del pensiero di Arendt, un certo percorso decostruttivo attorno al suo discorso può fornirci, in definitiva, più di un qualche utile motivo per trattenerci dall’imboccare troppo in fretta quella che – ricorrendo a un proverbiale adagio – potremmo chiamare una strada lastricata di propositi buoni, ma altrettanto sospetti.

65. Cfr. C. Lefort, Scritti sul politico, cit., in particolare pp. 21 sgg., 279 sgg.; J. Derrida, Stati canaglia. Due saggi sulla ragione (2003), a cura di L. Odello, Raffaello Cortina, Milano 2003, pp. 30-34; F.R. Ankersmit, Political Representation, Stanford University Press, Stanford (Cal.) 2002, p. 163 sgg.

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Vite senza contratto EDOARDO GREBLO

1. È un consolidato luogo comune dell’osservazione sociologica, una considerazione divenuta così evidente da sfiorare la banalità, che il passaggio dalla società tradizionale alla società moderna ha distrutto le forme spontanee e tradizionali dell’integrazione sociale. La dissoluzione delle forme circoscritte e particolaristiche di solidarietà locale (“l’etica del buon vicinato” di cui parlava Weber) – basate su quei sentimenti reciprocamente obbliganti che potevano concretizzarsi unicamente in società di “piccolo formato”, in ambiti di vicinanza ristretti, in contesti di prossimità e familiarità posti sullo sfondo di un comune mondo di vita – ha disperso le norme ad personam di aiuto reciproco nel mare dell’anonimato, dissolvendo sia i legami orizzontali di solidarietà sia i vincoli verticali della lealtà. Le moderne società complesse, la cui tenuta non può più fare affidamento su inclinazioni come il sentimento o la simpatia, che dipendono da relazioni intime e speciali favorite dalla semplice contiguità, dalla prossimità e dalla vicinanza, devono così integrarsi su un piano più generale, collegato a “virtù” morali sempre più astratte e artificiali. Nelle società complesse, che si possono tenere normativamente insieme soltanto grazie alla solidarietà astratta e giuridicamente mediata fra cittadini dello stato, l’affidamento reciproco tra gli individui non dipende più dalle relazioni faccia-a-faccia, ma dall’essere clienti di anonime agenzie burocratiche che erogano assistenza ai propri utenti. Tra cittadini che, in un quadro di progressiva anonimia dell’interazione sociale, non possono più conoscersi personalmente, le aut aut, 346, 2010, 185-199

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aspettative che gli uni possono legittimamente aspettarsi dagli altri sono continuamente indebolite sia da processi di mercato in apparenza anonimi e senza regole, sia dalla composizione etnicamente sempre più eterogenea delle nostre società, nelle quali non è difficile immaginarsi cosa possa voler dire essere estraneo tra estranei, un altro per gli altri. Ora, quanto più le reti di interazione divengono astratte, tanto più si rendono evanescenti i rapporti di reciprocità che mettono gli individui in condizioni di collegare più o meno immediatamente le prestazioni alle ricompense. Quando il senso di obbligo morale si estende ad aspettative che gli individui si rivendicano l’un l’altro non solo in quanto appartenenti, ma anche in quanto estranei, esso non viene percepito come soggettivamente “razionale” nella stessa misura e con la stessa intensità del legame che si ha con i membri del gruppo di appartenenza, fondato magari sulla base di consapevoli legami di consanguineità, e sulla cui cooperazione è sempre possibile contare. È vero che nulla impedisce di concepire la genealogia dei doveri morali come un processo nel corso del quale la lealtà tipica dei gruppi primari si rende disponibile a un allargamento di orizzonte che si estende progressivamente a gruppi sempre più ampi. Quando però un concreto legame di benevolenza entra in conflitto con un astratto imperativo di giustizia, quando cioè ciò che è “buono” per alcuni non coincide con ciò che è “giusto” per tutti, i concetti moderni di “persona giuridica” e di “comunità giuridica” richiedono che gli appartenenti al gruppo si rendano disponibili, anche coattivamente se necessario, a modificare in senso universalistico la propria lealtà nei confronti del gruppo di affiliazione e a trasferirla sul piano più astratto della solidale responsabilità verso chiunque. Tuttavia, “affetti” e “sentimenti” non rappresentano una base sufficiente per fondare l’eguale rispetto nei confronti degli altri, in particolare se si pensa a quanto della loro alterità non è empaticamente afferrabile. Ciò spiega perché nelle moderne società complesse il fabbisogno di coordinamento tra i piani d’azione – che i cittadini continuano a sperimentare nei concreti rapporti di riconoscimento “faccia a faccia”, ma che non può più attingere alle forze di integra186


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zione sociale tipiche delle comunità solidaristiche, familiari e di vicinato – venga cercato nel contratto. Il contrattualismo infatti esclude l’aspetto della solidarietà sin dall’inizio, dal momento che risolve i problemi di coordinamento che si presentano tra esseri che dipendono dall’interazione sociale affidandosi a una razionalità rispetto-allo-scopo che fa leva sugli interessi dei singoli individui. La forma-contratto, che serve a garantire ambiti d’azione tutelati per legge entro i quali gli individui sono liberi di perseguire i propri interessi, è infatti la procedura più adatta a legittimare una strategia di fondazione teorica che individua la forza motivazionale che spinge le persone a interagire in un orientamento egocentricamente interessato mosso unicamente da ragioni pragmatiche. Un determinato ordinamento sociale è giusto, oltre che buono in senso morale, se soddisfa in misura eguale gli interessi dei suoi membri, che traggono origine dalla disparità oggettiva delle situazioni di vita e non dalla trama ordinaria dei sentimenti morali soggettivamente percepiti. Lo scambio sociale dipende da un’idea post-tradizionale della pari considerazione degli interessi che è basata su un’antropologia più o meno utilitarista: gli individui socializzati sono fondamentalmente considerati come attori razionali e intenzionali, i cui interessi particolari possono essere ascritti in maniera “adeguata”, piuttosto che soggetti identificabili contraddistinti da pretese normative e corrispondenti vulnerabilità. 2. Anche nella sua versione attualmente più diffusa e influente, quella di Rawls, il contrattualismo concepisce la convergenza delle ragioni morali in termini di motivazione razionale e riconduce i giudizi morali alla scelta razionale. Il contratto è una procedura che permette di soddisfare l’illuminato autointeresse dei partecipanti. I contraenti dovrebbero limitarsi unicamente a valutare quale possa essere il corso d’azione che è più utile o razionale adottare nella prospettiva delle loro preferenze e dei loro desideri. In ciò si riflette la tendenza largamente maggioritaria nella cultura politica “liberale”, che consiste nel suo riferirsi a principi universalistici nei quali si afferma una pretesa di astrazione particolarmente drastica: il punto di vista morale che serve a decidere quale re187


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gola della convivenza sia in egual misura buona per tutti chiede alle persone di sacrificare le relazioni speciali a quelle impersonali. Le relazioni che contano e pesano maggiormente nella nostra vita, ossia le relazioni personali più intime, che sono anche (e talvolta prevalentemente) relazioni di dipendenza, appartenenza e prossimità, vanno escluse dalla scena pubblica poiché rappresentano forme difettose di relazione, dal momento che non sono basate sulla scelta e la reciprocità, sulla simmetria e la reversibilità. Non è un caso che la principale teoria della giustizia cui ci si riferisce per tracciare le responsabilità associate al concretizzarsi della vita morale sia una teoria che concepisce gli accordi come il risultato di un contratto sottoscritto per un vantaggio reciproco. Infatti, la tradizione del contratto sociale non prevede che le strutture di relazione che danno origine a obblighi e responsabilità specifiche dipendano da particolari sentimenti di benevolenza, appartenenza o intimità. D’altronde, non è neppure casuale che le parti contraenti siano rappresentative di coloro la cui esistenza è destinata a essere regolata dai principi scelti. Poiché il principio morale posto alla base di questo modello è riconducibile all’idea di mutuo vantaggio in condizioni di reciprocità, viene preventivamente esclusa l’eventualità di prendere in considerazione le persone con le quali vi è un rapporto asimmetrico (di cura o di dipendenza) o dalle quali non si prevede alcuna contropartita. La presa in considerazione di strutture relazionali improntate a dipendenza o vulnerabilità viene spostata a un momento successivo alla cosiddetta “posizione originaria”. I soggetti primari della giustizia sono degli egoisti razionali, i quali aderiscono a un modello volontaristico e contrattuale di cooperazione improntato alla reciprocità e intendono distribuire equamente solo quei beni primari che risultano adatti allo sviluppo delle facoltà morali e alla realizzazione dei piani di vita dei cittadini in quanto persone libere ed eguali. In realtà, l’eguaglianza più o meno approssimativa di potere e capacità tra decisori razionali interessati a prendere decisioni ragionevoli, e quindi morali, potrebbe anche assumere un profilo diverso. Certo, è necessario che il concetto centrale di persona, sul 188


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quale si regge l’intera teoria, sia tanto neutrale da poter essere accolto anche nella prospettiva di visioni del mondo alternative. Ciò non impedisce, tuttavia, di ipotizzare che per le parti contraenti i rapporti di dipendenza possano essere sia costitutivi e non accidentali, sia condivisi da tutti – dal momento che la vita di chiunque passa da uno stato iniziale a uno finale di dipendenza. Di fatto, nella tradizione del contratto sociale le parti vengono però costantemente raffigurate quali attori razionalmente competenti, simili a quegli individui “liberi, eguali e indipendenti” che vivono nello stato di natura immaginato da Locke. Si tratta di un’ipotesi che ritorna anche nel contrattualismo contemporaneo: se i decisori razionali che in Rawls si candidano a definire gli orientamenti di valore generalizzabili possono nutrire la fondata convinzione che il loro campo visivo non è condizionato o pregiudicato da alcuna forma significativa di asimmetria o dipendenza, per Gauthier le persone con bisogni inusuali o menomazioni non sono semplicemente “parte del rapporto morale basato sulla teoria contrattualista”.1 Il fatto che le persone abbiano titolo a essere considerate membri collaborativi o partner sociali affidabili solo quando sono soggetti e destinatari di diritti e doveri improntati a una logica di simmetria e reciprocità è qualcosa di profondamente connaturato alla struttura del discorso contrattualista. L’idea infatti è che il contratto possa rappresentare l’unico medium che nelle società complesse garantisca una qualche forma di “solidarietà tra estranei” (Habermas) in quanto le persone, sottoposte alla riorganizzazione normativa delle relazioni giuridiche sviluppata sotto la pressione delle relazioni di mercato, saranno disposte a osservare le regole che hanno scelto solo quando ritengono che la cooperazione sia di mutuo beneficio. L’inclusione nella situazione iniziale di soggetti (singolari o collettivi) dai quali ci sia verosimilmente poco da aspettarsi in termini di vantaggi o di utilità sarebbe estranea alla logica di stabilizzazione delle aspettative comportamentali che domina i modelli di tipo contrattualistico. Se le persone instaurano 1. D. Gauthier, Moral by Agreements, Oxford University Press, New York 1986, p. 18.

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rapporti di cooperazione per scambiarsi beni e prestazioni in condizioni di reciprocità, è verosimile che il loro “lealismo” vada a coloro da cui si aspettano di ricavare dei benefici e non a coloro che addosserebbero alla cooperazione sociale oneri (magari anche giustificati ma) distribuiti in maniera asimmetrica. Non sorprende dunque scoprire che le norme che meritano di riscuotere approvazione in queste condizioni non vadano affatto nella direzione di una morale della pari responsabilità solidale verso chiunque, poiché le sole ragioni che possono convincere un attore a risolversi per una vita morale sono quelle conciliabili con la riserva mentale di chi vorrebbe poter sempre verificare se questa prassi è remunerativa nella prospettiva del suo particolare piano di vita. Se è vero che i deteriorati rapporti di solidarietà non possono essere rigenerati limitandosi a tutelare i diritti alle prestazioni burocratico-assistenziali legittimamente pretesi da singoli utenti isolati oppure fornendo sostegno alla promozione di determinate politiche previdenziali, è meglio affidarsi alle qualità pragmatiche della giustizia contrattuale: solo su questa base le scelte individuali possono per un verso evidenziare l’orientamento a una simmetrica ed eguale considerazione degli interessi, e per l’altro non spezzare il legame sociale di tutti quelli che sin dall’inizio vogliono (e possono) orientarsi all’intesa. Nel contesto di questa impostazione, l’eguaglianza tra le parti assume un ruolo decisivo, poiché rende ragione delle motivazioni che inducono degli egoisti razionali a impegnarsi performativamente nell’interazione: la simmetria e reciprocità degli interessi tra eguali può superare le distanze altrimenti incolmabili tra estranei perché trasforma l’affidamento personale in un “affidamento di sistema”.2 È quindi importante comprendere come tale assunzione di eguaglianza imponga di lasciare da parte alcune importanti questioni di giustizia, in particolare la giustizia nei confronti di persone gravate da dipendenze e vulnerabilità. Si può capire perché i pensatori del contratto sociale classico abbiano lasciato in sospeso questi problemi, dal momen2. A. Baier, Moral Prejudices, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1994, p. 184 sgg.

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to che la lotta per la “libertà dei moderni” contro i vincoli sociali di tipo cetuale che caratterizzavano le società protomoderne spiega la scelta di focalizzare l’attenzione sugli esseri umani approssimativamente eguali per poteri e risorse, individui che non sono dominati da nessun altro individuo, né sono asimmetricamente dipendenti da altri.3 3. Questa restrizione del campo visivo è però attualmente impossibile da giustificare. Per cominciare, si potrebbe osservare che la scelta di assimilare le questioni morali ai modelli procedurali di una razionalità rispetto-allo-scopo crea non poche difficoltà a una strategia di fondazione che intenda impedire esclusione e trattamento diseguale, cioè da un lato l’esclusione selettiva o ingiustificata di certe persone, per esempio quelle dalle quali non ci si possa aspettare controprestazioni, dall’altro favorire il privilegiamento di determinati interessi, per esempio quelli che si rivelano funzionalmente necessari a incrementare il saldo positivo di benessere prodotto dal sistema di commercio degli individui privati. Se è razionale accollarsi degli obblighi solo quando vi è la ragionevole aspettativa che il patto sociale preveda un guadagno o implichi una contropartita, è difficile che i limiti della ragione strumentale possano essere trascesi nella direzione di un orientamento morale volto alla solidale responsabilità verso chiunque. E si potrebbe inoltre osservare come la figura del “free rider”, cioè di chi si impegna nella prassi comune solo con la riserva mentale di infrangere gli accordi alla prima occasione per lui favorevole, dimostri come un mero accordo d’interessi non sia mai in grado, di per sé, di fondare obbligazioni. Per esempio, non è in grado di spiegare 3. Le parti contraenti di Rawls sono ovunque immaginate come adulti razionali, approssimativamente simili nei bisogni, e capaci di un livello “normale” di cooperazione sociale e di produttività. In Liberalismo politico come in Una teoria della giustizia, Rawls stabilisce che le parti nella posizione originaria sanno che le loro “doti innate come la forza e l’intelligenza” rientrano “nei limiti della normalità” (cfr. J. Rawls, Liberalismo politico, 1993, Edizioni di Comunità, Milano 1994, p. 39). In Liberalismo politico, inoltre, le parti rappresentano cittadini che sono descritti come “membri pienamente cooperativi della società per tutta la vita” o “come membri normali e pienamente cooperativi della società per tutta la vita” (pp. 35, 36, 162 e altrove). La “questione fondamentale della filosofia politica”, nella sua teoria, è “quella di concepire gli equi termini di cooperazione fra persone così concepite” (ivi, p. 162).

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quel carattere vincolante degli obblighi morali che va al di là di prescrizioni semplicemente prudenziali né sembra in grado di produrre (retrospettivamente) sentimenti di disapprovazione interiorizzata.4 È precisamente a difficoltà di questo genere che ha inteso reagire l’etica della vulnerabilità proposta da Butler. Se ci si pone nella prospettiva “di una comune vulnerabilità, di una comune fisicità e di un comune rischio – anche quando ‘comune’, come suggerisce Lévinas, non equivale a ‘simmetrico’”,5 le persone cessano di essere oggetto di considerazione morale solo in quanto espressione di interessi, e il legame sociale che nasce dal riconoscimento reciproco non si esaurisce nelle nozioni di contratto, scelta razionale e massimizzazione del profitto, del vantaggio o dell’interesse. Se applicato a livello sociologico, il contrattualismo viene a mancare di una controparte nei confronti delle pretese e delle vulnerabilità individuali, che per chi vive una “vita diseguale” rappresentano la base della prospettiva di valore a cui ispirarsi per giudicare i “vincoli” morali alla base dell’interazione sociale. La vulnerabilità, intesa come “condizione generalizzata dell’intera comunità umana”,6 impone di ripensare la morale sulla base di una universalizzazione della relazione asimmetrica, in cui l’asimmetria si rivela come un rapporto universale e universalmente reciproco. Nella vulnerabilità si incarna una potenza intersoggettiva che precede e fonda la soggettività degli interlocutori e che non è fondata sulla reciproca assunzione altrui da parte di tutti i partecipanti. Se a unire le persone non è necessariamente un’interazione diretta, ma invece una comune esposizione e vulnerabilità dell’altro, che costituisce “una prima rivendicazione etica” e rappresenta il presupposto della “nostra condizione politica”, che dobbiamo “imparare a gestire – e onorare – al meglio”,7 diventa difficile esclu4. J. Habermas, “Una considerazione genealogica sul contenuto cognitivo della morale”, in L’inclusione dell’altro (1996), Feltrinelli, Milano 1998, pp. 28-29. 5. J. Butler, Critica della violenza etica (2005), Feltrinelli, Milano 2006, pp. 135-136. 6. Ivi, p. 115. 7. Ivi, p. 46.

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dere dalla comunità inclusoria degli aventi pari diritti tutti coloro che, per un lungo periodo, o per l’intera loro vita, sono marcatamente ineguali per quanto riguarda il loro contributo produttivo o che vivono in condizioni asimmetriche di dipendenza. Nelle teorie a orientamento contrattualista, tali individui sono assenti dal gruppo contraente e i loro bisogni non hanno peso alcuno riguardo alla scelta dei principi politici fondamentali compiuta dalle parti. E neppure – se si concepiscono le parti che negoziano per il vantaggio reciproco con coloro che, in quanto “membri normali e pienamente cooperativi della società per tutta la vita”,8 si trovano al loro stesso livello – sulla loro concezione dei beni primari della vita umana. In questo modo, questioni di importanza cruciale per una società decente, come la ripartizione delle cure e i costi sociali necessari a promuovere la piena inclusione dei cittadini disabili, vengono esclusi sin dall’inizio dal campo visivo oppure rinviati a decisioni successive, quasi si trattasse di altrettante “cambiali in bianco” da onorarsi in futuro. L’individuo che si pensa autonomo entra in relazioni che sono tipiche di agenti autonomi, che accettano più o meno esplicitamente il presupposto di una simmetrica ed eguale considerazione degli interessi. “Ma che dire delle relazioni che si hanno con coloro che non sono ancora capaci, non sono più capaci o non saranno mai capaci di reciprocità?”9 Anche bambini, portatori di handicap, adulti con menomazioni mentali sono cittadini la cui particolare vulnerabilità crea aspettative e diritti che equivalgono ad altrettante pretese morali, dotate di un carattere specificamente obbligante che va al di là di prescrizioni dettate da semplice opportunità nonostante manchi a tali soggetti la possibilità di offrire controprestazioni o anche solo, talvolta, di cooperare. In effetti, non è plausibile trattare la menomazione temporanea come un caso isolato, rispetto al quale il reddito e la ricchezza sono alternative inadeguate al benessere. Come sottolineato anche da Sen, le differenze e le asimmetrie nelle necessità fisiche non sono sem8. J. Rawls, Liberalismo politico, cit., pp. 20, 21, 183 e altrove. 9. C. Bagnoli, L’autorità della morale, Feltrinelli, Milano 2007, p. 53.

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plicemente casi isolati o evenienze sfortunate, ma un fatto che pervade la vita umana. Ora, se l’esposizione, l’espropriazione o la vulnerabilità non implicano lo smarrimento di un fondamento soggettivo dell’etica, ma al contrario “la condizione specifica dell’indagine morale, la condizione per cui la moralità stessa emerge”,10 la piena inclusione di persone con menomazioni comporta la disponibilità non solo a rinunciare al proprio vantaggio, ma anche a quello aggregato di tutti i singoli aderenti, poiché significa cooperare con persone con le quali sarebbe possibile e (forse persino) vantaggioso non cooperare affatto. Ma se si volesse davvero prendere sul serio l’inclusione di individui la cui capacità di interazione varia non solo in relazione a gradi diversificati di intimità, ma anche a certe asimmetrie, dipendenze e fragilità, ciò significherebbe tracciare un contorno della razionalità pratica così lontano dall’idea del contratto per il vantaggio reciproco da rendere superflua la metafora del contratto sociale. Sostenere, con Butler, l’idea che la morale consiste in un dispositivo specifico di tutela contro la vulnerabilità specifica delle persone, che non ammette livelli di comparazione rispetto a un qualche parametro presuntivamente “oggettivo”, significa introdurre un’idea di legame sociale che taglia i ponti con le illusioni di controllo e padronanza che, nel paradigma contrattualista, portano un individuo razionale a decidere, secondo le proprie preferenze, se dispone di un motivo razionale per aderire alla comunità morale. Porre la vulnerabilità al cuore del legame sociale significa invece ricordare che il genere di reciprocità in cui gli individui sono coinvolti può essere certo definito alla luce di attese normative di comportamento improntate alla simmetria e persino alla felice concordanza degli interessi, ma anche, e necessariamente, alla luce di momenti – talvolta solo transitori, talvolta persistenti – in cui i problemi di coordinamento tra esseri che dipendono dall’interazione sociale risultano segnati da relazioni caratterizzate da un’asimmetria più o meno acuta – e che questo è un aspetto della vita che dovrebbe essere ricompreso nella situazione in cui as10. J. Butler, Critica della violenza etica, cit., p. 17.

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sumiamo il ruolo delle parti contraenti incaricate di progettare istituzioni giuste.11 Laddove l’assunzione contrattualistica di fondo consiste nell’idea che i corsi d’azione passibili di regolazione normativa possano essere modellati, in definitiva, solo nella prospettiva della prima persona dell’individuo che agisce, il discorso di Butler parla invece a favore di un’etica dell’essere in relazione, originariamente vulnerabile e dipendente, non solo perché il ciclo consueto della vita umana comprende periodi di estrema dipendenza, durante i quali la nostra funzionalità è molto simile a quella che sperimentano per tutta la propria vita le persone con disabilità mentali o fisiche, ma perché ciascuno di noi è sin da sempre, cioè sin dai legami primari, vincolato a norme e aspettative che devono la loro direzione specifica e il loro orientamento al genere stabilito di integrazione sociale. 4. Il discorso di Butler non si limita così a ricordarci come sia necessario che il tipo di socialità che è pienamente umano debba includere anche le relazioni che presentano un’asimmetria più o meno estrema. Ma esprime piuttosto l’intuizione secondo cui è proprio a partire dalle relazioni non simmetriche che è possibile affermare i presupposti di “una prima rivendicazione etica”.12 La valenza morale che si esprime nella vulnerabilità non si esaurisce, come può accadere per la nozione di benessere individuale, nell’idea di ciò che è razionale desiderare da parte di un individuo, e neppure su una relazione con altri affidata a un rapporto di complementarità, quasi che l’autorità che abbiamo su noi stessi dovesse dipendere dall’autorità che riconosciamo agli altri. L’esposizione e la vulnerabilità dell’altro convocano ciascuno a un imperativo di responsabilità che precede l’effettivo ascolto del biso11. Una considerazione del genere porta E.F. Kittay, in Love’s Labor. Essays in Women, Equality, and Dependency, Routledge, New York 1999, p. 77, a sostenere che “la condizione di dipendenza deve essere presa in considerazione sin dall’inizio in ogni progetto di teoria egualitaria che ponga tra i suoi obiettivi l’aspirazione a essere inclusiva nei confronti di tutte le persone”. Tuttavia, come osserva M. Nussbaum in Giustizia sociale e dignità umana (il Mulino, Bologna 2002, p. 118) “questo potrebbe comportare il fatto che la teoria non può essere affatto di tipo contrattualista”. 12. J. Butler, Critica della violenza etica, cit., p. 46.

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gno: non si tratta più di porsi la domanda astratta, che si chiede “che cosa è nell’eguale interesse di tutti”, né la domanda contestualmente concreta, che si chiede “che cosa è meglio per noi”, ma di mostrare che la dipendenza, appartenenza e relazionalità della nostra identità pratica, che derivano dal nostro status di esseri che si formano in una relazione di dipendenza, possono spingerci in direzione di una struttura della relazionalità fondata non più sul contratto, come nel paradigma politico moderno, ma su vincoli prepolitici che questo paradigma esclude intenzionalmente: dipendenza, passività, relazionalità. Per rendere giustizia alla fenomenologia dell’obbligazione normativa, è necessario che la condizione di vulnerabilità e dipendenza, che impronta i rapporti primari ed è tipica di comunità solidaristiche piccole o si estende ad ambiti di vicinanza ristretti, venga estesa e generalizzata alle questioni pubbliche e alle scelte politiche. Ciò significa, per esempio, aprirsi all’amore come categoria politica, se è vero che “essere trascinati dall’amore significa non sapere perché si ama nel modo in cui si ama, farsi trascinare e costringere dalla nostra stessa opacità, dalle zone d’ombra e di nonconoscenza”.13 Come ha sostenuto Iris Murdoch, lo sguardo amoroso nasce dal riconoscimento dell’altro come altro, a prescindere dai desideri e dalle aspettative che possiamo nutrire nei suoi confronti.14 Se la relazione morale è personale, è una forma di attenzione che rende conto in modo distintivo delle relazioni speciali, intime e solidali generate dalla prossimità. Il fatto, come dice Kittay, che tutti noi siamo “figli di una qualche madre” e viviamo all’interno di una rete di relazioni di dipendenza, sembra perciò dover rappresentare il concetto guida del pensiero politico.15 Ma l’essere “figli di una qualche madre” è una metafora adeguata per rappresentare il cittadino in una società giusta? Affetti e sentimenti sono in grado di suscitare solidarietà una volta che si siano superati i confini della propria comunità morale? 13. Ivi, p. 139. 14. I. Murdoch, Esistenzialisti e mistici (1999), il Saggiatore, Milano 2006. 15. E.F. Kittay, Love’s Labor, cit., cap. I, parte III, sulle strategie politiche dal titolo Some Mother’s Child.

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Certo: i sentimenti morali giocano un ruolo essenziale nella genesi e nella costituzione dei fenomeni morali. Vi sono disposizioni all’agire le quali generano conflitti nel comportamento che non verrebbero neppure avvertiti come questioni suscettibili di rilievo morale se non avessimo la percezione che la vulnerabilità di una persona viene lesa o minacciata. I sentimenti, inoltre, ci forniscono una bussola in grado di orientarci sul singolo caso moralmente rilevante, spostando la nostra attenzione dall’“altro generalizzato” all’“altro concreto”.16 Infine, oltre che nell’applicazione delle norme morali, i sentimenti giocano un ruolo importante anche nella loro fondazione. L’empatia, la capacità di immedesimarsi con individui socializzati in una forma di vita estranea o dissonante, è come minimo il presupposto emozionale per un’assunzione di ruolo ideale che richiede a chiunque di accettare la prospettiva di tutti gli altri. Si tratta di una disposizione cognitiva che ci rende sensibili alla “differenza”, cioè alla singolarità e alla particolarità dell’altro che rimane aggrappato alla sua alterità. In Butler, tuttavia, il sentimento capace di fondarsi sull’esperienza di una prossimità che supera la distanza da un altro riconosciuto nella sua differenza, in un intreccio di autonomia e dedizione che demanda le prestazioni di solidarietà a proiezioni che sembrano tratte dalla struttura familiare, chiede che anche le esigenze funzionali delle società moderne possano essere soddisfatte secondo il principio della ripetizione del modello. L’idea che a dare origine a pretese morali incondizionate via sia il legame strutturale tra dipendenza e vulnerabilità17 sembra così plausibile solo a condizione di operare delle generalizzazioni basate sui sentimenti intrinseci ai rapporti di cura tipici delle relazioni familiari e resi necessari dall’asimmetria madre (o figura di accudimento)-bambino. 16. Cfr. S. Benhabib, The generalized and the concrete other: The Kohlberg-Gilligan controversy and feminist theory, in S. Benhabib e D. Cornell (a cura di), Feminism as Critique, University of Minnesota Press, Minneapolis 1987, p. 87: “Trattandoti in armonia con le regole dell’amicizia, dell’amore e della cura, io confermo non solo la tua umanità, ma anche la tua individualità umana”. 17. Secondo Butler, Critica della violenza etica, cit., pp. 135 e 134, solo l’esperienza “di una vulnerabilità e di una dipendenza di cui non possiamo sbarazzarci” può costituire “la base di un senso di responsabilità”.

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Il fatto è che nella modernità i rapporti di parentela non rappresentano più le strutture portanti delle relazioni intersoggettive. Quando si trasferisce l’asimmetria del modello genitori-bambino alla simmetria delle relazioni tra controparti in un comune mondo sociale, la distinzione tra cura paternalistica e cura responsabile può allora diventare evanescente e trasformare l’altro in un mero “oggetto” di cura. Finché la vulnerabilità resta associata alla dipendenza, il “prendersi cura” prevede l’esercizio di poteri discrezionali che possono sempre scadere in forme di relazione viziate dall’abuso della fiducia. Non solo la reciprocità non è in contrasto con l’intimità di certe relazioni ma anzi, al contrario, ci mette sull’avviso nei confronti di certi “vizi dell’intimità” come il paternalismo, la prevaricazione e tutta una gamma di atteggiamenti deresponsabilizzanti. Si potrebbe forse ipotizzare, rovesciando la prospettiva di Butler, che non siano la prossimità, la dipendenza e la vulnerabilità a essere fonti di obblighi speciali capaci di disconnettere le prestazioni dalle ricompense: la validità dei giudizi morali andrebbe misurata piuttosto sulla natura inclusiva di un accordo raggiunto tra individui disponibili a ridefinire il concetto politico di persona in base a un processo di graduale inclusione di quelle aree della vulnerabilità all’origine di forme di socialità che non rientrano nelle relazioni di tipo simmetrico previste dal modello contrattualista dominante. Può darsi che aggiungere il bisogno di cura di chi è particolarmente vulnerabile alla lista rawlsiana dei beni primari, concependo la cura come parte dei bisogni fondamentali dei cittadini,18 non sia sufficiente e forse neppure possibile, poiché l’inclusione nella situazione iniziale di persone incapaci di fornire adeguate contropartite andrebbe in senso contrario alla logica di una relazione di tipo contrattualistico. Oppure che possa invece essere sufficiente incorporare, nella concezione politica della persona, il riconoscimento del fatto che razionalità e socialità sono capacità transito18. Come propone per esempio E.F. Kittay, Love’s Labor, cit., pp. 102-103. Per le obiezioni a questa proposta, cfr. M.C. Nussbaum, Le nuove frontiere della giustizia (2006), il Mulino, Bologna 2007, p. 159 sgg.

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rie intervallate da periodi più o meno lunghi di dipendenza. O che la dottrina del contratto spieghi una parte sola della moralità, per cui sarebbe necessaria una teoria diversa o complementare per affrontare le situazioni di dipendenza estrema e di più acuta vulnerabilità. Oppure infine che sia più opportuno concepire gli atteggiamenti di cura e amore come una forma separata di riconoscimento sociale, che consiste nella cura amorosa per il benessere dell’altro alla luce di bisogni individuali e che coesiste con il rispetto di sé basato sui diritti giuridici e con l’autostima radicata nell’apprezzamento sociale circa il valore del proprio lavoro. Ogni contestazione moralmente significativa potrebbe perciò essere rapportata singolarmente a ciascuna di queste tre componenti.19 Resta il fatto, difficile da contestare, che il problema della distribuzione della cura nei confronti di vite diseguali soggette a vulnerabilità e dipendenza è anch’esso una questione di giustizia – ed è per questo che l’etica della vulnerabilità non dovrebbe contestare alla morale della giustizia il suo rango, e neppure funzionare da elemento scenico per riempire i vuoti della teoria contrattualista. Dovrebbe piuttosto renderle un servizio critico, anche per far svanire le reciproche prevenzioni di teorie basate sulla rigidità degli interessi precostituiti da un lato o, dall’altro, sulla indeterminatezza di una prospettiva per la quale il superamento dell’egoismo trova un’eco nella costituzione ontologica dell’uomo. La forza conciliante della solidarietà con chi patisce, con la sofferenza di creature vulnerabili e abbandonate, accesa e alimentata da sentimenti morali nei quali è insito il senso di giustizia, non può pregiudicare l’eguale rispetto per ognuno. Ma dovrebbe, piuttosto, motivare il passaggio dall’amor proprio alla dedizione per il prossimo e mediare l’eguale rispetto per ciascuno con la solidarietà di ciascuno verso tutti senza che vadano perduti i vincoli profondi tra solidarietà e giustizia.

19. A. Honneth, Lotta per il riconoscimento (1992), il Saggiatore, Milano 2002, e Id., Redistribuzione come riconoscimento, in A. Honneth, N. Fraser, Redistribuzione o riconoscimento? Una controversia politico-filosofica (2003), Meltemi, Roma 2007.

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