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381 marzo 2019

Sartre/Merleau-Ponty. Un dissidio produttivo a cura di Enrica Lisciani-Petrini e Raoul Kirchmayr Premessa [R.K.]

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MATERIALI Le “lettere della rottura” fra Sartre e Merleau-Ponty [E.L.P.] Sartre a Merleau-Ponty, 1 Merleau-Ponty a Sartre Riassunto della conferenza [“Filosofia e politica oggi”] Sartre a Merleau-Ponty, 2 Bibliografia Enrica Lisciani-Petrini Merleau-Ponty/Sartre: una insanabile divergenza filosofico-politica Raoul Kirchmayr Alle radici di un equivoco. Filosofia e politica in Sartre e Merleau-Ponty Florence Caeymaex, Grégory Cormann Sartre/ Merleau-Ponty, andate e ritorni Luca Basso Sartre, Marx e il marxismo. A partire da Questioni di metodo

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INTERVENTI Davide Sparti Dialettica del tango. Desiderio e riconoscimento nel tango argentino

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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Mauro Bertani, Graziella Berto, Beatrice Bonato, Deborah Borca (editing, deborah.borca@gmail.com), Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Alessandro Di Grazia, Pierangelo Di Vittorio, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Andrea Muni, Massimiliano Nicoli, Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Stefano Tieri, Carla Troilo, Davide Zoletto direzione: c/o il Saggiatore, via Melzo 9, 20129 Milano sito web: autaut.ilsaggiatore.com ISSN: 0005-0601 collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, S. Borutti, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, R. De Biasi, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, R. Prezzo, M. Serres, G.C. Spivak, G. Vattimo, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek per proposte di pubblicazione: autaut@ilsaggiatore.com Si fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testi di ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).

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Premessa

C

he cos’ha da dirci ancora una discussione tra due filosofi occorsa più di sessant’anni fa, durante un periodo storico in cui, tra la guerra di Corea, da un lato, e l’avvio della destalinizzazione con il XX Congresso del PCUS, dall’altro, gli accordi di Yalta avevano lasciato il passo alla Guerra fredda e alla competizione mondiale tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica? Che senso ha ritornare ancora su pagine che paiono, a tutta prima, prodotto di eventi contingenti all’interno del comitato di redazione di una rivista come “Les Temps Modernes” quali contraccolpi dovuti alle differenti valutazioni di quello scenario? Che senso ha quando il quadro storico complessivo è così tanto cambiato – forse già da prima della data simbolo del 1989, della successiva fine dell’URSS e, con essa, del socialismo reale quale modello alternativo di organizzazione socio-politica ed economica – sì da far trascolorare le discussioni dell’epoca e le argomentazioni che Sartre e Merleau-Ponty impiegarono, l’uno contro l’altro, per motivare le loro scelte rispettive? Non c’è dubbio che ci sarebbero delle ottime ragioni per derubricare quella che è stata definita con enfasi la “rottura” tra i due filosofi a un brusco chiarimento in cui presero forma idiosincrasie e insofferenze personali, e così consegnarla come episodio marginale ai biografi. Se non fosse stato per i nomi dei protagonisti, non ci sarebbe granché da approfondire né tanto da aggiungere quanto a una disputa tra vecchi amici che, pur prossimi per lungo tempo, si ritrovano distanti. Un’eaut aut, 381, 2019, 3-7

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poca storica allora stava acquisendo la sua fisionomia, ed è tramontata. Fatta dunque la tara del piacere che offrirebbe un certo gusto per l’aneddoto erudito, c’è effettivamente da chiedersi perché tornare a leggere quei documenti non pensati né scritti per la pubblicazione, se non fosse che c’è qualcosa, in essi e relativamente a essi, che spicca come un oscuro punto di attrazione e di interesse, come se vi fosse una sorta di densità problematica che tuttora resiste non tanto alla ricostruzione degli eventi accaduti, noti anche nel dettaglio, quanto al senso che può emergere da quello scambio di lettere, in ciò che lo ha preceduto e in ciò che ne è seguito. Da un certo punto di vista, per esempio quello di una storia della filosofia in grado di aprirsi alla sociologia della cultura, ci sarebbe molto da riconsiderare: la ricostruzione del ruolo svolto da “Les Temps Modernes” nella Francia della prima metà degli anni cinquanta, la linea editoriale seguita, il modo in cui Sartre e Merleau-Ponty hanno guidato una comune impresa in anni difficili e, non da ultimo, gli effetti che il dibattito avvenuto nella rivista ha prodotto sui loro percorsi filosofici e su quelli, non meno importanti, di diversi altri componenti della redazione. In questo modo si potrebbe indagare come si costituisce il nesso tra quella pratica discorsiva che è la filosofia e la cornice che la rende possibile con l’insieme delle sue “regole del gioco”, posto che una rivista funziona come una macchina istituzionale complessa, dotata di sue interazioni specifiche (la casa editrice, il pubblico dei lettori, le altre istituzioni della cultura). Da un altro punto di vista, se si vuole più specificamente filosofico e politico, quell’acceso confronto può essere visto come un evento di pensiero in grado di mostrarci una dialettica che si costituisce attraverso un dialogo conflittuale, certo, ma anche e soprattutto grazie a uno choc en retour che avviene con il ritardo del senso, con l’equivoco, nell’assenza-presenza dell’altro e nell’elaborazione del lutto, cioè nell’attraversamento di una dimensione di opacità del vissuto che diventa insieme oggetto di riflessione e spinta al pensiero. Questa dimensione di opacità che 4


emerge anzitutto agli occhi degli stessi protagonisti può rappresentare la posta in gioco filosofico-politica delle loro divergenze, ed è ciò che ancora ci può interrogare. In altre parole, l’elemento politico non consisterebbe soltanto nell’esame della problematica collocazione dell’intellettuale europeo che – uscito dall’esperienza della lotta contro il nazi-fascismo – si trova chiamato, in un paese che si vuole e si definisce libero, a una presa di posizione filo-occidentale o filo-sovietica, posto che dal 1948 in Europa tertium non datur. Ciò è oggetto di un’analisi storica, storico-politica e storico-filosofica, che possa condurre alla comprensione di scelte diverse, frutto di valutazioni diverse della situazione e dello spazio che essa lascia (o non lascia) all’intellettuale. Piuttosto, ciò che resta ancora da fare è muovere in direzione di un esame più accurato, sul filo dell’analisi testuale, dell’elemento politico consistente nell’intreccio dei discorsi filosofici che i due si sono rivolti, più o meno dichiaratamente e più o meno obliquamente, e che non hanno smesso di indirizzarsi nonostante il disaccordo. Questo elemento politico eccede il riconoscimento e le sue dialettiche, perché riguarda in profondità quella contingenza che entrambi hanno assunto come fatto incancellabile da cui occorre partire affinché le nostre esistenze singolari possano acquisire un senso. Il presente fascicolo di “aut aut” ripropone dunque al lettore le “lettere della rottura” con l’intento di disporsi su una linea di faglia con la quale si vuole far emergere il contesto politico-culturale dell’epoca e, assieme, scandagliare la posta in gioco di una “politica dell’amicizia” che si delinea tanto attraverso il trauma della separazione quanto attraverso un dialogo che permane nella separazione (e, paradossalmente, mediante essa). In verità, sarebbe stato opportuno introdurre un ulteriore livello di indagine – che qui indichiamo per così dire “a vuoto” – legato all’immagine dell’intellettuale che la vicenda dell’amicizia/inimicizia filosofica tra Sartre e Merleau-Ponty ci restituisce e al desiderio che dunque ci muove verso di essa perché in una certa misura tipica. Tale livello riguarda dunque più il contesto culturalmente frantumato e politicamente “liquido” in cui ver5


sano le società occidentali tardo-moderne, nelle quali il declino dell’intellettuale “classico”, dell’umanista, non è neppure più oggetto di discussione, talmente esso è conclamato. Riconoscere il ruolo egemone che esercitano di fatto nelle nostre società quelli che Sartre aveva chiamato “tecnici del sapere pratico”, esecutori di processi anonimi necessari per il funzionamento delle tecnostrutture, non è né una consolazione né una cinica presa di coscienza, dal momento che esso rilancia – e non archivia – il problema del senso dell’attività di analisi critica dell’esistente e delle sue logiche. Così, ciò che Sartre e Merleau-Ponty individuano come la questione della “politica cartesiana”, consistente nella perdita della presa concreta con il processo della storia e in un approccio intellettualistico e astratto ai problemi, non smette oggigiorno di porsi, seppure in altre forme e con altre asperità. In questo senso, il dialogo tra Sartre e Merleau-Ponty continua a fornirci una risorsa culturale in termini di forza di descrizione, capacità di analisi e di polemica, di desiderio di confronto con una storia viva in cui ci si riconosce immersi e non solamente spettatori, di una necessità del reperimento del senso nel suo stesso farsi storico, proprio perché una buona metà dei sessant’anni che ci separano da questi documenti, preziosa testimonianza di un “coraggio della filosofia”, hanno comportato una progressiva smagliatura del discorso critico. Lontani da noi, quei discorsi, quei toni, quella forza argomentativa e polemica, riflettono più la nostra povertà presente che la ricchezza di un’epoca passata. Così, tornare a quelle pagine non corrisponde tanto a un sentimento nostalgico dovuto alla perdita di un mondo dai contorni solo apparentemente più netti per il nostro sguardo, o alla mancanza di voci in grado di farsi udire nel frastuono degli accadimenti, o al tramonto di una figura di intellettuale capace di inventare un linguaggio così da rendere meno opache porzioni di esperienza e di mondo, quanto alla percezione acuta di uno scarto che durante la nostra epoca si è vieppiù accresciuto tra la portata degli eventi e la nostra capacità di denominarli, rendendoci sempre più gravoso il compito di riconoscervi un’intima razio6


nalità. In breve, le pagine delle lettere di Sartre e Merleau-Ponty ci mostrerebbero quanto mai è ancora necessaria – pur nell’equivoco e nel conflitto, o anche grazie a essi – una veglia filosofica su noi stessi e sulle nostre esperienze, sul linguaggio con cui denominiamo (o abbiamo smesso di denominare) le cose, e sul nostro modo di essere al mondo, mentre ciò che condividiamo anzitutto e dolorosamente sono le nostre comuni solitudini, un linguaggio che si scopre incapace di dire e l’inospitalità di un mondo in bilico tra uno spettacolo senza fine e la voragine del non senso. [R.K.]

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Materiali


Le “lettere della rottura” fra Sartre e Merleau-Ponty

A

partire dall’inverno del 1953, e nel breve giro di alcuni mesi culminanti nel luglio di quell’anno, fra Merleau-Ponty e Sartre scoppiò un contrasto durissimo. Al di là dei fatti specifici che ne furono la causa occasionale, e che tra poco ripercorreremo, esso costituì il detonatore di un confronto aperto, che spinse – Merleau-Ponty soprattutto – a un chiarimento radicale delle rispettive posizioni teoriche e politiche nelle loro profonde differenze. Sartre, dal canto suo, nel celebre testo scritto anni dopo in onore dell’amico ormai scomparso, Merleau-Ponty vivant, tentò di declassarlo a mera brouille, a “futile” e “idiota” litigio1 – pur senza nascondere a se stesso le differenze di fondo che c’erano e che fin dall’origine avevano caratterizzato, e forse minato, il loro pur quasi quarantennale rapporto. Un confronto, dunque, che trovò il suo primo terreno in un’accesa disputa personale, di cui sono viva testimonianza tre lettere – i cui contenuti trascorrono dal piano più privato a quello pubblico, filosofico e politico – risalenti appunto al luglio 1953, apparse solo nell’aprile 1994 sulla 1. Si tratta dell’articolo Merleau Ponty vivant, che Sartre scrisse, come fecero altre personalità del mondo intellettuale francese, per il fascicolo di “Les Temps Modernes” (184185, ottobre 1961) da lui voluto in omaggio all’amico scomparso (Merleau-Ponty era morto il 3 maggio di quell’anno). Per la citazione: J.-P. Sartre, Merleau-Ponty, Raffaello Cortina, Milano 1999, p. 75 (d’ora in poi MP). Sul “pathos” autobiografico che trascorre in questo testo, cfr. la bella postfazione del curatore della traduzione italiana, R. Kirchmayr, “Sartre e la parola del lutto” (ivi, pp. 151-184).

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rivista “Magazine Littéraire” a cura di François Ewald2 e ora qui riproposte al lettore italiano.3 Ma per poter capire quali furono gli episodi concreti che determinarono la disputa – portando allo scoperto una divergenza ben più sostanziale, oggetto reale e causa vera della rottura – occorre innanzitutto ripercorrere e rimettere in ordine alcuni fatti salienti che hanno costellato quei primi anni cinquanta e insieme creato progressive fratture nel rapporto fra Merleau-Ponty e Sartre. Fatti che, non a caso, sono citati in più occasioni nel corso delle lettere, costituendo all’epoca momenti cruciali, di grande tensione e “passione”, ma di cui, data ormai la notevole distanza temporale, si è per lo più perduta memoria. Di qui la necessità di metterli a fuoco, riservando alle note la funzione di fornire – in una sorta di indispensabile sottotesto – i molteplici dettagli di contorno. Anche perché, mai come nel caso di questi pochi, ma cruciali anni, occorre fare la massima attenzione alla cronologia degli eventi, per permettere ai lettori, oltre che di orientarsi nei riferimenti, anche di cogliere l’intensa partecipazione degli intellettuali di allora e di rivivere l’accesa atmosfera politico-culturale del periodo. Tanto più tumultuosa non solo perché si era appena usciti da una devastante Seconda guerra mondiale, ma anche perché gli eventi successivi creavano un’atmosfera di imminenza di un terzo conflitto mondiale, 4 per di più sotto l’incubo del 2. La pubblicazione tardiva si spiega anche con la delicatezza degli argomenti, diversi dei quali relativi al piano privato, come si vedrà. Le lettere sono ora raccolte in M. Merleau-Ponty, Parcours deux. 1951-1961, a cura di J. Prunair, Verdier, Paris 2000, pp. 134-169. 3. Le tre lettere sono state già tradotte e pubblicate in Italia, dalla rivista “Micromega”, a mia cura, nel 1997. Vengono riproposte in questa sede per gentile concessione del direttore della rivista, Paolo Flores D’Arcais. La presente versione è stata rivista e corredata da un nuovo e ricco apparato di note, che evidenziano, oltre agli intrecci storico-politici, diversi elementi privati. 4. Questa eventualità, nel clima di Guerra fredda creatosi subito dopo la fine del conflitto mondiale, all’epoca era esplicitamente discussa. Cfr. il dibattitto fra Sartre e Merleau-Ponty, radiotrasmesso alla “Tribune des Temps Modernes” nel 1947, ora in M. Merleau-Ponty, Entretiens avec Georges Charbonnier et autres dialogues, 1946-1959, Verdier, Paris 2016, pp. 41-43. Ma ancora nel 1954, secondo quanto dice Merleau-Ponty al Forum dell’“Express” (cfr. ivi, p. 82).

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Sartre a Merleau-Ponty, 1

Fino al 18 luglio [1953] Albergo Nazionale, Piazza Montecitorio Roma Mio caro Merleau, ho aspettato a lungo prima di risponderti: in effetti ho esitato molto. Ne ho voluto parlare anche con il Castoro,1 che è partita prima di me. Adesso sono sicuro della mia risposta: non posso accettare la tua soluzione. Provo a dirti perché in tutta amicizia. Non ti arrabbiare e ascoltami. Tu hai criticato la mia posizione direttamente e indirettamente, conversando con me e pubblicamente. Io, da parte mia, mi sono limitato a difendermi. Come se la tua posizione fosse giusta, e io dovessi giustificarmi di non tutelarla. Perché l’ho fatto? Perché sono così: fosse anche per difendermi, detesto mettere sotto accusa le persone che amo. Ma a questo bisogna arrivare. La risposta vera da darti, infatti, è: non approvo la tua posizione e la biasimo. Oh, capiscimi: che tu ti ritiri dalla politica (nel senso di ciò che noi, intellettuali, chiamiamo politica), che tu preferisca dedicarti completamente alle tue ricerche filosofiche, è un atto al tempo stesso legittimo e ingiustificabile. Voglio dire: leLe lettere sono state pubblicate per la prima volta in “Magazine Littéraire” nel 1994, a cura di François Ewald, e successivamente pubblicate in versione italiana da “MicroMega” nel 1997. La presente edizione è stata condotta in parte sulla versione uscita da Verdier nel 2000: M. Merleau-Ponty, Parcours deux. 1951-1961, a cura di J. Prunair. Le note, se ricavate da quelle redatte dal curatore francese (Jacques Prunair), sono indicate con la sigla [N.d.C.f.]; tutte le altre sono di Enrica Lisciani-Petrini. 1. Com’è noto, è il soprannome col quale Sartre chiamava Simone de Beauvoir in quanto lavoratrice infaticabile – peraltro in inglese “castoro” si dice beaver e dunque ha una certa assonanza con Beauvoir.

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Merleau-Ponty a Sartre

Parigi, 8 luglio [1953] Caro Sartre, il tema della conferenza (“Filosofia e politica oggi”), di cui la tua lettera mi parla per tre volte, era fissato da mesi, come dimostrano i programmi stampati dal Collège philosophique.1 Ho tenuto la conferenza il 29 maggio, ti ho rivisto due giorni dopo alla riunione di “Temps Modernes”, e in quell’occasione te ne avrei parlato più a lungo se tu l’avessi desiderato. Prima di tenerla, e quando te l’ho preannunciata al Procope,2 non ho pensato di esporti punto per punto ciò che avrei detto: le cose sono venute dopo, conversando fra noi. Per di più, tu e io eravamo d’accordo in quel momento che io preparassi un articolo di politica per la rivista e dunque non potevi trovare scorretto il fatto che io usassi in una conferenza alcuni frammenti di ciò che in seguito sarebbe apparso su “Temps Modernes”. Perché di frammenti si tratta. Parlando poco più di un’ora, ho parlato della tua posizione politica solo nell’ultimo quarto d’ora. E, delle 14 pagine di note che avevo preparato e ho sotto gli occhi, due sono su di te e due pagine conclusive riguardano i miei punti di vista sull’engagement. Troverai qui allegato un riassunto della conferenza (dove in realtà ai due ultimi paragrafi dò più spazio di quanto non ne abbiano relativamente avuto). Ti sfido a trovarvi alcunché di scioccante. A Lione, alla Sorbona, al Collège philosophique, all’estero, ho sempre discusso pubblicamente le tue tesi (e 1. Cfr. la prima lettera di Sartre, nota 4. 2. Ivi, nota 13.

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Riassunto della conferenza [“Filosofia e politica oggi”]

1) Concezione “classica” dei rapporti tra filosofia e politica. La filosofia, come possesso dell’universale, ingloba la politica. 2) Hegel. Il filosofo non fa, in linea di principio, che racchiudere in una sintesi totale il movimento del mondo e la sua autocomprensione. In realtà è lui a decidere che tale stato del mondo rappresenti la “maturità della realtà” e che tutto quanto verrà dopo è solo “storia stazionaria”. Di fatto la storia qui è un travestimento della filosofia, Hegel resta sornionamente classico e non mette in questione il potere totalizzante della filosofia. Engels, in Feuerbach,1 dimostra che l’idea dello “Stato perfetto” annulla il movimento rivoluzionario della dialettica. Superato questo, la filosofia dopo Hegel diventa un’esperienza portata a chiarezza: la filosofia “testa del proletariato” in Marx, il filosofo “cavia dell’esistenza” (Kierkegaard). 3) Marx. Per rinnovare la filosofia, Hegel vedeva il mondo come compiuto e decadente. Marx assume il mondo allo stato iniziale Questo testo – preannunciato, e allegato, da Merleau-Ponty nella sua risposta a Sartre – contiene il riassunto (in realtà una sorta di “scaletta” dettagliata) della conferenza da lui tenuta il 29 maggio 1953 al Collège philosophique e della quale parla criticamente Sartre nella propria lettera. Tutte le note e alcuni minimi interventi, nel testo fra parentesi quadre, sono di Enrica Lisciani Petrini. 1. F. Engels, Ludwig Feuerbach und der Ausgang der klassichen deutschen Philosophie (in “Die Neue Zeit”, 4-5, 1886); trad. di G. Sgrò, Ludwig Feuerbach e l’approdo della filosofia classica tedesca, La Città del Sole, Napoli 2009.

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Sartre a Merleau-Ponty, 2

[29 luglio 1953, dal timbro postale] Caro Merleau, la tua lettera richiede sicuramente una risposta punto per punto. Ma, secondo me, è meglio che io lo faccia a viva voce. Per quanto mi riguarda, questo scambio di critiche scritte ha avuto l’effetto benefico di “vuotare il sacco” come si dice, o di cominciare a vuotarlo. Era necessario mettere per iscritto certe cose, da una parte e dall’altra, per far prendere loro una forma più meditata. Ma alla lunga il beneficio si tramuterebbe in inconveniente, perché, scrivendo, quel che si pensa viene sempre indurito. Non era certo nelle mie intenzioni fare una requisitoria, così come non rientrava neppure nelle tue, ne sono sicuro. Se ci vediamo, il solo fatto di vederci e ascoltarci basterà a smussare gli angoli e togliere la durezza delle “accuse” reciproche. Dunque, rientro il 18 [agosto] mattina e, se mi lasci un messaggio o mi telefoni il giorno stesso, sarò a tua disposizione per qualsiasi pomeriggio. Solo una cosa voglio dirti, perché preparerà il nostro incontro: per carità, non interpretare più le mie intonazioni o le mie fisionomie come fai tu, cioè di traverso e in modo passionale. Non so se il tono fosse “glaciale” quando ti ho parlato del tuo corso al Collège de France, ma quel che so è che avevo apprezzato molto la tua lezione e con molta simpatia (Michelle1 può confermartelo). Se sono emerse delle riserve, è stato dopo la lettura dell’opu1. Si tratta di Michelle Léglise, poetessa francese, assidua frequentatrice delle caves notturne della Saint-Germain esistenzialista, e moglie fino al 1952 di Boris Vian; in seguito

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Bibliografia

Opere di Jean-Paul Sartre La transcendance de l’Ego. Esquisse d’une description phénoménologique, “Recherches philosophiques”, 6, 1936-37, pp. 85-123; ora in La transcendance de l’Ego et autres textes phénoménologiques, a cura di V. de Coorebyter, Vrin, Paris 2003; trad. a cura di R. Ronchi, La trascendenza dell’Ego. Una descrizione fenomenologica, Marinotti, Milano 2010. L’imagination, PUF, Paris 1936; trad. di A. Bonomi, L’immaginazione, a cura di N. Pirillo, Bompiani, Milano 2005. L’imaginaire. Psychologie phénoménologique de l’imagination, Gallimard, Paris 1940; L’immaginario. Psicologia fenomenologica dell’immaginazione, a cura di R. Kirchmayr, Einaudi, Torino 2002. L’être et le néant, Gallimard, Paris 1943; trad. di G. del Bo rivista da F. Fergnani e M. Lazzari, L’essere e il nulla, il Saggiatore, Milano 2014. Matérialisme et révolution, “Les Temps modernes”, 9, 1946, pp. 1537-1563 e 10, 1946, pp. 1-32; ripreso in Situations III. Lendemains de guerre, Gallimard, Paris 1949, pp. 135-225; trad. di F. Fergnani e P.A. Rovatti, Materialismo e rivoluzione, il Saggiatore, Milano 1977. L’existentialisme est un humanisme, Gallimard, Paris 1946; trad. di P. Caruso, L’esistenzialismo è un umanismo, Mursia, Milano 2010. Qu’est-ce que la littérature?, “Les Temps modernes”, 187-22, 1947; ripreso in Situations II. Littérature et engagement (1948), 57


Merleau-Ponty/Sartre: una insanabile divergenza filosofico-politica ENRICA LISCIANI-PETRINI

Il

“carteggio della rottura” fra Sartre e Merleau-Ponty è un documento di grande interesse. Non solo perché ci permette di ricostruire la fine del sodalizio trentennale fra i due filosofi, ma soprattutto ci consente di penetrare a fondo le ragioni della loro disputa e di vedere così in piena luce il contrasto fra due posizioni filosofiche – e perciò stesso politiche – diametralmente opposte, ricorrenti nella storia. L’una sorretta dal dualismo fra una dimensione soggettiva (trascendente) e una oggettiva (immanente), foriero di non poche aporie e insidie sul piano politico; l’altra volta a reperire un’interrelazione originaria fra l’uomo e il mondo, il cui risvolto politico è la prefigurazione di un’idea di “comunità” capace di superare gli steccati di soggettivismi identitari. Occorre dunque sondare questo più generale e profondo piano del discorso, andare ai fondamenti ultimi ed effettivi dei pensieri dei due filosofi. Senza quest’analisi qualsiasi lettura del loro rapporto resta o superficiale, o travisante; e non si comprende appieno l’importanza del carteggio e, soprattutto, il senso della loro rottura. 1. Sartre, ovvero di un volontarismo soggettivistico Già nei “capi d’accusa”, mossi da Sartre a Merleau-Ponty nella prima lettera, non è difficile riconoscere, in filigrana, le convinzioni basilari che connotano l’universo teorico sartriano, rendendolo del tutto differente da quello merleau-pontiano. Fin dall’inizio. Da quando i due filosofi avviano il loro percorso di pensiero, dando aut aut, 381, 2019, 61-90

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una diversa torsione interpretativa innanzitutto alla fenomenologia husserliana, dalla quale entrambi erano partiti, ma non solo. Sia per Sartre che per Merleau-Ponty, l’incontro con la fenomenologia di Husserl è decisivo. Essa appare subito ai loro occhi come l’unica prospettiva in grado di rispondere a quell’esigenza di un “ritorno al concreto” che permeava gli ambienti intellettuali e filosofici dei primi decenni del Novecento, in reazione alle prospettive unilaterali e contrapposte dell’idealismo soggettivistico spiritualista, per un verso, e del realismo obiettivistico positivista, per un altro. Essa infatti dischiudeva la possibilità di retrocedere a un terreno originario “precategoriale” al cui livello quella perdurante dicotomia e le sue aporie sono decisamente superate, dimostrando che soggetto e oggetto, coscienza e mondo nascono insieme, in un’interrelazione primordiale per la quale l’uno non può esistere senza l’altro e dalla quale – poi – si attiva l’intenzionalità della coscienza. Solo che Sartre imprime fin dall’inizio a questa impostazione tutt’altro accento, tanto da condizionare la sua intera formazione filosofica. Come racconta Simone de Beauvoir, è Aron che lo introduce alla fenomenologia husserliana convincendolo che essa “rispondeva esattamente alle sue preoccupazioni: superare l’opposizione tra idealismo e realismo, al contempo affermare la sovranità della coscienza e la presenza del mondo quale si dà a noi”.1 Di conseguenza, il pensiero husserliano è subito inquadrato nell’ambito di una “filosofia del soggetto”2 che non tarderà ad acquisire un timbro “idealistico”. Infatti il fulcro attorno al quale da questo momento ruota il pensiero sartriano non è l’inter-relazione inscindibile io-mondo, bensì la dottrina dell’intenzionalità,3 ovvero della coscienza in quanto costitutiva dei fenomeni esterni nei quali essa concretamente si realizza attraverso gli atti tetici – di cui l’immaginazione, con la sua volontà “costituente” e insieme 1. S. de Beauvoir, L’età forte (1960), trad. di B. Fonzi, Einaudi, Torino 1961, p. 122 (corsivo mio). 2. A. Renaut, Sartre, le dernier philosophe, Grasset, Paris 1993, p. 129. 3. Cfr. J.-P. Sartre, Une idée fondamentale de la phénoménologie de Husserl: l’intentionnalité, “Nouvelle Revue Française”, 304, 1939, pp. 129-131.

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“annullante”, perché capace di “trascendere” la realtà esterna, è la funzione più rappresentativa.4 Certo, va riconosciuto che questa impostazione spinge Sartre a insistere sulla visione della coscienza come un “Campo trascendentale” originario, nel quale ogni “Ego” empirico (ogni “Me”) con la sua “interiorità” viene superato in vista di una “spontaneità impersonale” a-sostanziale, “una sorgente assoluta di esistenza” in un “rapporto di interdipendenza” estatica con il mondo.5 Prospettiva che tanto piacque, e non senza ragione, a Deleuze, perché sembra mettere capo a un realismo virtuale “alla Bergson”.6 Se non fosse che nelle pieghe di questo discorso appare un inevitabile risvolto idealistico, pur criticato da Sartre stesso, giacché questo Campo trascendentale è in realtà “un nulla”, sullo sfondo del quale gli oggetti appaiono solo in quanto prodotti dalla coscienza istituente. La quale, pertanto, “si determina all’esistenza in ogni istante, senza che si possa concepire niente prima di essa. Così, ogni istante della nostra vita cosciente ci rivela una creazione ex nihilo”.7 Comincia a delinearsi così un impianto che si confermerà, radicalizzandosi, nelle opere successive. Di cui gli architravi categoriali sono: 1) la separazione della coscienza dalla realtà esterna oggettiva, la quale si presenta come una materia impenetrabile, un vuoto essere fattuale che non può non dare la “nausea”8 4. Id., L’immaginario. Psicologia fenomenologica dell’immaginazione (1940), trad. a cura di R. Kirchmayr, Einaudi, Torino 2002, p. 283. 5. Cfr. Id., La trascendenza dell’Ego. Una descrizione fenomenologica (1936-37), trad. a cura di R. Ronchi, Egea, Milano 1992, pp. 63-73. 6. Cfr. G. Deleuze, “‘È stato il mio maestro!’” (1964), in L’isola deserta e altri scritti, trad. di D. Borca, Einaudi, Torino 2007, pp. 95-99; ma cfr. anche “L’immanenza: una vita…” (1995), trad. di F. Polidori, in Due regimi di folli e altri scritti, Einaudi, Torino 2010, pp. 320-324. La vicinanza fra Sartre e Bergson è sostenuta da R. Ronchi, nell’introduzione a La trascendenza dell’Ego: “Il bergsonismo di Sartre” (ivi, pp. 1-16); così come da B.H. Lévy in Il secolo di Sartre (2000), trad. di R. Salvadori, il Saggiatore, Milano 2004, pp. 114-124 e passim; e da F. Caeymaex in Sartre, Merleau-Ponty, Bergson. Les phénoménologies existentialistes et leur héritage bergsonien, Olms, Hildesheim-Zürich-New York 2005. Ma, secondo me, le prospettive metafisiche di fondo restano incommensurabili. 7. J.-P. Sartre, La trascendenza dell’Ego, cit., pp. 63, 67. 8. Ovviamente, il riferimento è al romanzo La nausée scritto proprio in quegli anni (Gallimard, Paris 1938).

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Alle radici di un equivoco. Filosofia e politica in Sartre e Merleau-Ponty RAOUL KIRCHMAYR

1. La responsabilità dell’equivoco Che cosa significa comprendersi, in filosofia? E che cosa significa comprendersi in generale, posto che la filosofia possa dire qualcosa circa quell’atto che chiama in causa lo spazio del dialogo, il movimento della dialettica e un ideale di comunicazione trasparente che innerva quanto meno l’orizzonte dell’ermeneutica contemporanea, della semiotica e della teoria dell’agire comunicativo, senza menzionare tutte quelle discipline che si sono prese in carico lo studio e l’analisi di questo fenomeno e che al discorso filosofico possono contribuire? Quando possiamo dire di comprenderci, in filosofia, e dunque di comprendere le ragioni dell’altro e di farle nostre, in modo tale che un accordo possa essere raggiunto tra gli interlocutori? L’intera storia della filosofia potrebbe essere inscritta in uno scenario canonico – quello del dialogo e della dialettica come metodo di ricerca – le cui regole fondamentali risalgono al razionalismo socratico e platonico. Oppure, per metodo, si può anche dichiarare di non collocarsi anzi tutto in un modello di comunicazione trasparente, se non altro perché ciò che il discorso filosofico intende (o non intende) fare di sé, e intende (o non intende) fare in generale non può non misurarsi con la dimensione dell’ambiguità e dell’opacità del linguaggio. Così, quando parliamo di comprensione in filosofia e ci chiediamo se e in quali termini ci siamo capiti, l’uno con l’altro, vicendevolmente, siamo chiamati a non trascurare l’incomprensione prodotta dal linguaggio medesimo, ferma restando la buona volontà di comunicare degli interlocutori, ed escludendo così l’intenzione di ingannare o di aut aut, 381, 2019, 91-119

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sviare l’altro, con un uso più o meno consapevole, più o meno voluto, della menzogna. La cornice in cui intendiamo collocarci per tornare a considerare il dialogo singolare che ha avuto luogo tra Sartre e MerleauPonty è quello nel quale l’equivoco, il malinteso, il dissidio, non sono né possono essere ricondotti all’errore e neppure a un impiego cosciente della falsità, ma si collocano sullo sfondo dell’incomprensione come ciò da cui la comprensione può emergere per differenza e per contrasto grazie a una discorsività in cui il conflitto non è abolito ma concorre piuttosto a collocare in-situazione gli interlocutori. Non si tratta, dunque, di pensare l’incomprensione come ciò che può essere comunque tolto come quota di negativo che accompagna un discorso di per sé trasparente a sé, ma di affermarla in quanto coessenziale all’emergere del senso in un confronto che avviene nell’equivoco, nel conflitto, nel malinteso e nel dissidio. Il rischiararsi del discorso si configura pertanto come un processo che può come non può avere luogo, che può come non può innervare il dialogo tra gli interlocutori. In questo senso, la responsabilità che gli interlocutori sono chiamati ad assumere, quando accolgono nel loro stesso discorso l’opacità del linguaggio, chiede di pensare un’etica che non ometta, ma piuttosto accolga fin dal principio, la possibilità dell’equivoco. Non scegliamo la parola “equivoco” tra le altre. Infatti, vi riconosciamo quell’interazione linguistica nella quale “uno degli interlocutori intende e in pari tempo non intende ciò che l’altro dice”.1 Si tratta di un disaccordo tra due interlocutori che sul medesimo oggetto e nel medesimo rispetto, pur impiegando gli stessi significanti, non vi attribuiscono lo stesso significato. L’equivoco dev’essere così distinto dal mancato riconoscimento di ciò che l’altro afferma (quell’incomprensione che in francese suona méconnaissance) e così anche dal malinteso (malentendu), che presuppone la possibilità di intendere bene, di intendere correttamente il “voler dire” dell’altro, cioè la sua intenzione comunicativa. Il malinteso può essere superato nella direzione dell’accordo, 1. J. Rancière, La Mésentente. Politique et philosophie, Galilée, Paris 1995, p. 8.

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sempre possibile come emendazione dell’errore di comprensione. Il malinteso, per questa ragione, si colloca di per sé nell’orizzonte della comunicazione trasparente, al contrario dell’equivoco che nell’atto di parola sussume l’oscurità e l’opacità del linguaggio. D’altronde, l’equivoco non è qui visto come un semplice inciampo linguistico che, come una battuta a vuoto o fuori tempo, richiede una correzione nell’ordine del senso del discorso, di modo che la volontà comunicativa sia riconosciuta e salvaguardata nel dialogo. Al contrario, pensiamo l’equivoco come una condizione strutturale del linguaggio e come sua stessa apertura al senso. Molte situazioni di parola in cui la ragione è all’opera possono essere pensate in una struttura specifica d’equivoco, che non è né d’incomprensione [méconnaissance], poiché richiede un supplemento di sapere, né di malinteso [malentendu], in quanto richiede una rarefazione delle parole. I casi d’equivoco sono quelli in cui la disputa su ciò che vuol dire parlare costituisce la razionalità stessa della situazione di parola.2 Si può rammentare che, sulla scorta di una lettura analitica dell’ontologia heideggeriana, lo stesso Merleau-Ponty aveva riconosciuto nell’equivoco una risorsa del linguaggio e, con ciò, anche una risorsa di relazione tra i locutori. Infatti, in un passo del corso al Collège de France del 1958-59, che si colloca dunque già nell’avviata riflessione che lo stava conducendo verso l’approdo a una “nuova ontologia”, egli riprende un passo di Che cosa significa “pensare”? in cui Heidegger pone il tema del “gioco del linguaggio”, quel “gioco” con cui ci avvediamo che il linguaggio procede obliquamente, con una densità e un’oscurità del senso che risulta eccedente il nostro sapere. Tale eccedenza segna anche il limite del padroneggiamento del linguaggio e, con ciò, della comunicazione. Alla frase di Heidegger citata, secondo la quale das Wesen der Sprache spielt mit uns, Merleau-Ponty aggiunge allora il seguente corollario: “Il suo gioco consiste nel far sì, ‘alle nostre spalle’, che 2. Ivi, p. 13.

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Sartre/Merleau-Ponty, andate e ritorni FLORENCE CAEYMAEX GRÉGORY CORMANN

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ato nel 1908, Merleau-Ponty è di tre anni più giovane di Sartre. Il loro primo incontro avviene all’École normale supérieure. Sartre supera il concorso di agrégation nel 1929 (lo stesso anno di de Beauvoir, Nizan e Hyppolite, un anno dopo Aron), Merleau-Ponty nel 1930. Appartengono dunque a quella che potrebbe essere designata come una generazione.1 Per quanto ricca di individualità, essa si distingue come generazione in virtù del suo affrancamento dalle tradizioni filosofiche nazionali e dalle figure dominanti dell’epoca, tra le quali spiccano quelle di Brunschvicg e di Bergson. Nonostante tutto ciò che le separa, esse incarnano lo “spiritualismo” coltivato dalla filosofia francese2 e la parentela che ancora unisce la filosofia alle scienze psicologiche. La nuova generazione accoglie invece la fenomenologia teFlorence Caeymaex e Grégory Cormann sono ricercatori in Filosofia presso l’Université de Liège e membri dell’“équipe Sartre” dell’Institut des textes et manuscrits modernes dell’École normale di Parigi. Questo saggio è una versione ampiamente rimaneggiata di un testo, intitolato “Sartre e Merleau-Ponty”, che apparirà nel volume Sartrean Mind, la cui uscita è prevista presso la casa editrice Routledge (London-New York), nel 2019. 1. J.-F. Sirinelli, Génération intellectuelle. Khâgneux et Normaliens dans l’entre-deuxguerres, Fayard, Paris 1988. 2. F. Worms, La philosophie en France au XXe siècle, Gallimard, Paris 2009.

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desca, nella quale prevalgono i termini di “coscienza” e di “esistenza”, come una proposta sovversiva e radicale che sposta il centro di gravità del discorso filosofico e chiarisce i suoi rapporti con la psicologia empirica. Cerchiamo di ricollocare la rottura del 1953 a partire dall’appartenenza di Sartre e di Merleau-Ponty a quella generazione e al suo destino filosofico, dagli anni trenta fino agli anni sessanta. In effetti, in termini generali l’ossessione per questa rottura, testimoniata dalla continua ripubblicazione delle lettere di Sartre e di Merleau-Ponty da venticinque anni a questa parte,3 cui si potrebbe aggiungere anche il presente numero monografico, spesso implica una presa di congedo verso il maggiore esperimento filosofico e intellettuale del pensiero francese contemporaneo, quello di Sartre, considerato nella sua fase fenomenologico-esistenzialista. Al contempo mostra anche, in modo più circoscritto e reciprocamente, un impoverimento della nostra capacità di comprendere tanto il pensiero di Sartre, la cui filosofia appare ad alcuni intrappolata nella sua epoca, quanto quello di Merleau-Ponty che, al contrario, avrebbe avuto quasi magicamente la possibilità di sfuggire a essa. Di fronte al rischio di questo impoverimento, proporremo perciò alcune “andate-e-ritorni” tra i due filosofi, esaminati unitamente dal punto di vista filosofico, politico e biografico-personale. 1. Gli anni trenta: Sartre, Merleau-Ponty e la fenomenologia La presa di congedo dallo “spiritualismo” francese, sia che si tratti della sua versione idealista (Brunschvicg) o realista (Bergson e gli psicologi), sia in Sartre sia in Merleau-Ponty trae essenzialmente la sua legittimità dalla teoria husserliana dell’intenzionalità. Avviati al suo studio dal libro di Emmanuel Levinas, La teoria 3. Sartre, Merleau-Ponty: Les lettres d’une rupture, “Magazine Littéraire”, 322, aprile 1994, pp. 67-86, con una presentazione di François Ewald; poi ripreso in M. MerleauPonty, Parcours deux, 1951-1961, Verdier, Paris 2000, pp. 129-169; e in M. Merleau-Ponty, Œuvres, a cura di C. Lefort, Gallimard, Paris 2008, pp. 625-651.

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dell’intuizione nella fenomenologia di Husserl,4 poi lettori delle Idee e delle Meditazioni cartesiane, Sartre e Merleau-Ponty condividono l’idea per cui il fenomeno, lungi dall’essere la semplice apparenza di una realtà in sé, designa al contrario la donazione per così dire “in persona” di qualcosa alla coscienza o, in una prospettiva inversa, che ogni atto di coscienza è l’apparizione, singolare e modalizzata, di qualcosa “in carne e ossa”. Una simile proposta filosofica designa un compito che è al tempo stesso descrittivo ed eidetico (dovendo la descrizione dei fenomeni compiersi in un inventario dei diversi modi di donazione, che Husserl assimila a un processo di senso, a delle intenzioni di significazione), oltre a un ambito proprio d’indagine, distinto da quello della psicologia empirica. Ma entrambi, Sartre e MerleauPonty, presteranno attenzione al fatto che la radicalità di questa proposta si mostra solo a condizione che sia eseguita un’operazione specifica che ha valore di metodo, ciò che Husserl chiama “riduzione fenomenologica”: la sospensione dell’atteggiamento naturale, cioè la neutralizzazione e l’esplicitazione comprensiva del suo realismo spontaneo.5 Se in Husserl questo gesto sospensivo autorizza una ricerca di tipo trascendentale e la messa all’opera di una fenomenologia della Ragione che conserva, al cuore dell’intenzionalità, il privilegio della theoria, i giovani Sartre e Merleau-Ponty ne traggono altre implicazioni: quel gesto libera il fatto della coscienza, il “vissuto”, dall’essere assegnato a un ambito della realtà (psichica o fisica) e congeda al contempo il vecchio problema della rappresentazione, cioè del rapporto che lo spirito dovrebbe istituire con la realtà, l’oggetto, la natura o, anche, del rapporto tra un’interiorità e un’esteriorità: “La coscienza, dirà Sartre, non ha ‘interiorità’”;6 “non c’è uo4. E. Levinas, La teoria dell’intuizione nella fenomenologia di Husserl (1930), trad. di V. Perego, Jaca Book, Milano 2002. 5. J. Bourgault, La distance et l’amitié. Sartre, Merleau-Ponty et la question de la réduction phénoménologique, “Cahiers philosophiques”, 81, 1999, pp. 93-143. 6. J.-P. Sartre, “Un’idea fondamentale della fenomenologia di Husserl: l’intenzionalità” (1939), in Materialismo e rivoluzione, a cura di F. Fergnani e P.A. Rovatti, il Saggiatore, Milano 1977, p. 139.

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Sartre, Marx e il marxismo. A partire da Questioni di metodo LUCA BASSO

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ome lo stesso Sartre ricorda nelle Questioni di metodo, già negli anni venti aveva iniziato a leggere con passione opere marxiane, dall’Ideologia tedesca al Capitale, ma non v’è dubbio che un interesse più forte sorse a partire dalla guerra e dalla Resistenza. In tal senso, per quanto siano presenti tracce di Marx anche in precedenza, e in particolare nell’Essere e il nulla, è soprattutto nel dopoguerra che Sartre attua una vera e propria Auseinandersetzung con il pensatore tedesco. Metterò anche in luce la rilevanza dell’interazione, tra filosofia e politica, con Merleau-Ponty, nella sua irriducibilità all’idea di un’incomponibile distanza reciproca, essendo piuttosto dotata di aspetti ambivalenti o comunque non lineari. Nel saggio esaminerò la questione del rapporto sartriano con Marx e il marxismo nella sua complessità, mettendone in luce sia punti di continuità sia punti di discontinuità. Per quanto concerne i secondi, peraltro connessi anche alla profonda differenza dell’orizzonte storico e teorico in cui i filosofi in questione si trovavano a operare, occorre sottolineare la necessità di interpretarli in modo articolato, in rapporto all’itinerario sartriano e al suo posizionamento politico, di volta in volta, di fronte ad avvenimenti del tempo. Un limite, in alcune trattazioni (si pensi, per esempio, in Italia, a quella di Pietro

Luca Basso insegna Filosofia politica all’Università di Padova.

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Chiodi1), consiste nell’irrigidire, da un lato, l’approccio marxista, peraltro delineando uno scenario troppo unitario di tale richiamo, e dall’altro, la trattazione sartriana. Assumendo una posizione come quella di Chiodi, non si può che sostenere l’incompatibilità (al di là dell’interesse di un continuo confronto) delle visioni indicate, interpretando tale elemento in riferimento a Sartre, o in modo critico, come concezione astratta, antimaterialistica, o al contrario, come una produttiva lontananza rispetto al marxismo e ai suoi limiti. La presente trattazione è volta a evitare un’impostazione di questo tipo, cercando di leggere in termini dinamici la problematica richiamata. Nel titolo ho operato una differenziazione fra Marx e il marxismo, per far emergere un aspetto a mio avviso molto significativo del discorso: Sartre riprende l’approccio di Marx, intendendo la propria riflessione, per molti versi, in continuità con esso. Invece, nei confronti del marxismo l’atteggiamento sartriano si presenta più ambivalente, nel senso che, per un verso, lo valorizza a tal punto da considerarlo, in modo anche dogmatico, come l’unica “filosofia del nostro tempo”, per l’altro, però, ritiene necessario allontanarsi da alcuni suoi filoni. Così va distinta l’adesione alla riflessione marxiana (non nel senso di un’assoluta identificazione) da un ragionamento molto più complesso in merito al marxismo, di critica di alcuni suoi aspetti e di suo “rilancio” a partire da nuove basi. Non risulta semplice affrontare il tema indicato, in merito a cui esiste una letteratura corposa.2 Mi soffermerò in particolare su Questioni di metodo, 1. Cfr. P. Chiodi, Sartre e il marxismo, Feltrinelli, Milano 1965, 19732, in cui, seppur con alcune considerazioni interessanti, vengono letti in modo statico sia la prospettiva sartriana sia l’approccio marxista, cosicché non può che derivarne una piena inconciliabilità fra i due orizzonti. Al riguardo sono del tutto condivisibili le osservazioni critiche di F. Fergnani, La cosa umana. Esistenza e dialettica nella filosofia di Sartre, Feltrinelli, Milano 1978, in particolare pp. 11-12. Per una rassegna complessiva del dibattito italiano, cfr. anche F. Valentini, Sartre e il marxismo, “aut aut”, 51, 1959, pp. 189-194. 2. Sul rapporto Sartre-marxismo, fra gli altri, secondo differenti interpretazioni: A. Gorz, Le socialisme difficile, Seuil, Paris 1967, trad. di L. Foa, Il socialismo difficile, Laterza, Roma-Bari 1968, pp. 257-293; W. Desan, The Marxism of Jean-Paul Sartre, Anchor Books, New York 1965; K. Hartmann, Sartre Sozialphilosophie, de Gruyter, Berlin 1966; F. Jameson, Marxism and Form, Princeton University Press, Princeton 1971, trad. di R. Piovesan

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testo molto rilevante per comprendere i segni distintivi del problema, e il peso specifico che viene ad assumere il nesso fra antropologia e marxismo, e quindi per mettere a fuoco alcuni dei presupposti della Critica della ragione dialettica. 1. L’antropologia La tematica indicata non può venir esaminata astrattamente, ma deve essere calata nelle vicende storiche e politiche del dopoguerra, e nell’engagement di Sartre nelle varie congiunture in cui si è trovato a operare. Ciò non significa che non si possa individuare un “filo rosso” della trattazione sartriana: basti pensare, in riferimento alle Questioni di metodo, alla connessione attivata fra esistenzialismo e marxismo. In ogni caso, subito all’indomani della guerra, in Materialismo e rivoluzione (1946) è presente un confronto critico serrato con il marxismo del tempo, e con il suo presunto dualismo fra l’elemento “pratico” dell’azione rivoluzionaria e l’elemento “teorico” del materialismo, inteso però in modo piuttosto generico e non dotato di solide basi. Sostanzialmente sembra di trovarsi di fronte a una condanna senza appello, nel senso che il marxismo del tempo viene ritenuto, in termini peraltro semplicistici, incapace di dare vita a una struttura rigorosa e complessa del discorso. La riflessione sartriana si muove anche in direzione di una problematizzazione del materialismo, allo scopo di comprendere se e in che misura esso risulti filosoficamente adeguato e convincente, e non solo funzionale all’azione politica. Nei primi anni cinquanta è presente un ulteriore approfondimento della problematica, da esaminare in connessione con gli eventi storici e politici, in riferimento sia alla situazione francese sia a dinamiche internazionali (si pensi, innanzitutto, all’Indoe M. Zorino, Marxismo e forma, Liguori, Napoli 1975; M. Poster, Existential Marxism in Postwar France: From Sartre to Althusser, Princeton University Press, Princeton (N.J.) 1975, pp. 264-305; T. Schwarz, J.-P. Sartre et le marxisme, L’Age d’homme, Lausanne 1976; M. Jay, Marxism and Totality. The Adventures of a Concept from Lukács to Habermas, University of California Press, Berkeley 1984, pp. 331-360; A. Dobson, Jean-Paul Sartre and the Politics of Reason, Cambridge University Press, Cambridge 1993, in particolare pp. 180-188; R. Aronson, Sartre and Marxism, “Sartre Studies International”, 1, 1995, pp. 3444; S. Coombes, The Early Sartre and Marxism, Peter Lang, Bern 2008.

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Dialettica del tango. Desiderio e riconoscimento nel tango argentino DAVIDE SPARTI

Premessa Data la distanza (apparente) fra il tango e la filosofia, si potrebbe pensare che, senza alcuno scrupolo, quasi abusivamente, io voglia uscire dai riferimenti consueti per affrontare un campo dell’esperienza del tutto estraneo alla ricerca filosofica. Come spero di mostrare, il tango sembra una pratica senza pensiero, una banale amenità per masse più o meno colte. Il modo in cui il tango implica e interroga chi lo balla non solo mobilita il suo piacere nel regime di una vicenda privata; sollecita la riflessività, ossia obbliga chi lo pratica a riflettere sulla condizione stessa dell’esercizio dell’agentività in cui è coinvolto. Praticare il tango – ballo di coppia, e ballo improvvisato, una collaborazione che è anche una co-elaborazione – significa comprendere le cause che co-determinano il nostro agire. Attraverso la presa di coscienza dell’alterità (la persona con cui ballo) faccio esperienza della mobilità o inerzia di cui sono portatore. Di più, ho accesso a diversi aspetti connessi alla mia identità e alla mia condotta: le fantasie e i desideri taciti (di riuscita, di riconoscimento), le mie attrazioni e repulsioni, l’immagine che ho di me stesso. La filosofia è a sua volta un’attività riflessiva, che nasce dal bisogno di esplicitare i presupposti e di cogliere le evidenze non chiarificate. Perciò ho avvertito presto l’esigenza di riconnettere il tango ballato di notte (con incursioni nelle milonghe, i luoghi dove la musica Davide Sparti insegna Sociologia dei processi culturali ed Epistemologia delle scienze sociali presso l’Università di Siena.

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genera il desiderio impellente di muoversi e di connettersi) con la mia vita di pensiero diurna, come se vi fosse una sotterranea solidarietà fra l’appello che muove i corpi di notte e il movimento del pensiero di giorno.1 La danza rappresenta un episodio periferico e anomalo all’interno della filosofia. Un pregiudizio culturale ci spinge ad assegnare la sfera del ballo popolare e di coppia – considerato, talvolta con disprezzo, arte minore o della domenica, scollata dalla testualità – ai piani bassi dell’espressione estetica, rimarcandone la marginalità in quella rete di rimandi alle altre forme artistiche che è il sistema delle belle arti. Hegel scrive di scultura, Schopenhauer di musica, Heidegger di poesia, Merleau-Ponty di pittura, Deleuze di cinema. Ma la danza? A parte i riferimenti poetici di Nietzsche e, più recentemente, Susanne K. Langer (nonché, ancora più recentemente, Badiou e Nancy), sembra essere il bandito dalla filosofia. Non è dunque un caso se il tango non sia stato luogo di teorizzazione, se manchi un pensiero sul tango, al di là dell’aneddotica, dell’elenco degli stili, dell’idolatria verso questo o quel cantante, o verso i ballerini più grandi (secondo graduatorie basate su valutazioni comparative). E al di là dell’adesione della ricerca sul tango alla didattica della danza. La letteratura sul tango argentino è in larga misura un insieme di how-to books, manuali che contengono suggerimenti pratici, ricette ed esercizi al fine di estrapolare lezioni per migliorare il proprio tango. Rispetto a tali testi il mio contributo batte una strada diversa, facendo del tango un oggetto del sapere; e non solo del sapere medico o pedagogico.2 Non dispenso algoritmi per agevolare le prestazioni di chi balla, prescrivendo un tango tascabile a uso dei praticanti. Tanto meno esercito mi1. Inebriati o affranti dalla sensazione che qualcuno o qualcosa ha aperto in noi, chi balla il tango esce spesso da una milonga ancora intriso dall’esperienza fatta, accompagnato da un pungolo, un fastidio, uno stupore che risuona in noi ed esige di essere analizzato. 2. Ci sono ovviamente delle eccezioni, per esempio gli studi socio-antropologici sul tango di Remi Hess (R. Hess, Le moment tango, Anthropos, Paris 1997) e di Marta Savigliano (M. Savigliano, Tango and the Political Economy of Passion, Westview Press, Boulder, Col., 1995).

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litanza ideologica a favore o contro questo o quello stile di ballo, ritenuto più vero e autentico. I manuali e le storie del tango non sono libri che hanno sbagliato clamorosamente obiettivo. Pongono questioni del tutto legittime. Semplicemente, non sono quelle esplorate in questa sede. Prendendo le mosse da tali premesse pedagogiche o storico-politiche non si possono porre domande sul tipo di trasformazione del soggetto indotta dal tango. O sul genere di sapere mobilitato da chi balla. O, ancora, sul potere di attrazione esercitato dalla milonga. Qui di seguito intendo non solo inserire il tango in un quadro più vasto di sollecitazioni e condizionamenti ma affrontarlo con gli strumenti della filosofia. Affrontare il tango senza rinunciare alla vocazione teorica e concettuale della filosofia, sottolineando il potenziale filosofico che lo contraddistingue, significa comprendere fino a che punto il tango sollevi questioni di più ampio rilievo rispetto al momento dell’insegnamento o del divertimento; e serve pure a tenere vivo il senso del proprio lavoro, a evitare che i problemi filosofici su cui ci si misura vivano di vita propria, isolandosi da ciò che motiva la loro rilevanza. Il tango mobilita corpi sessuati e pare anzi uno dei pochi luoghi dove la coppia (eterosessuale) resista accanitamente. Chi balla il tango fa scorrere di fronte a noi immagini di felicità e di passione. L’impatto scenico e retorico del tango deriva anche dall’enfasi che viene posta sugli aspetti emozionali (coinvolgimento, abbandono, godimento) e fusionali (rapporto fisicamente intenso), rendendoci testimoni di una vicenda, quella del desiderio uomo/donna, che già da più di un secolo stiamo interrogando e criticando, e a cui nondimeno il tango sembra dare ancora un soffio di appagante vitalità. Ma si tratta di immagini giustificate? O non piuttosto di una mitificazione che è pure una mistificazione? Ossia di quello che Foucault chiamerebbe un effetto di superficie. Proprio perché il tango occulta e dissimula la propria natura, celebrando una visione idilliaca ed erotica della reciprocità, occorre operare una decostruzione della maniera consueta in cui viene rappresentato. Simulacro della relazione amorosa, il tango è certamente co177


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