383 settembre 2019
Niklas Luhmann. Istruzioni per l’uso a cura di Giovanni Leghissa
Premessa [G.L.]
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MATERIALI Niklas Luhmann Decostruzione come osservazione di secondo ordine
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Alberto Giustiniano La macchina del senso. Luhmann e la chiusura operativa della metafisica 37 Cary Wolfe Luhmann e l’antica disputa tra poesia e filosofia 56 Maria Cristina Iuli Osservare il post-umanesimo: la teoria dei sistemi sociali di Niklas Luhmann 71 Edoardo Greblo Luhmann, modernità e diritti umani 87 Alberto Andronico La fortezza di Niklas Luhmann. Con un sogno a margine 111 Gianluca Cuozzo Niklas Luhmann e Nicola Cusano. La selezione del sistema tra differenza e identità 132 Giovanni Leghissa Osservare, conoscere, fondare. La teoria dei sistemi e la questione del trascendentale 155
CONTRIBUTI Emanuela Magno Dialettica della vacuità
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Premessa
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a ricezione di Luhmann in Italia conobbe, tra gli anni settanta e ottanta del secolo scorso, un’intensità particolare. Luhmann amava venire in Italia, e non pochi, in Italia, erano disposti a discutere il suo pensiero – non solo tra i giuristi e i filosofi. Va qui ricordata almeno Elena Esposito, non perché appartiene alla cerchia di coloro che furono più vicini a Luhmann, ma perché oggi continua, nel suo lavoro di ricerca, a mostrare quanto possa essere fecondo comprendere i fenomeni della contemporaneità alla luce del paradigma sistemico. Ma, a parte tale significativa eccezione, da molto tempo si registra un silenzio imbarazzante nei confronti del pensiero di questo autore. I sociologi sono alle prese con questioni legate alle pratiche, i teorici del diritto e della politica o hanno già assorbito lessico e temi di provenienza analitica (o, più in generale, anglosassone), oppure sono intenti a difendere quel poco che resta di una tradizione che è sì “continentale”, ma che a sua volta pare poco disposta a dialogare con il pensiero sistemico. I filosofi, dal canto loro, non hanno nessuna voglia di confrontarsi con una forma di costruttivismo che sembra del tutto in opposizione con la vague realista oggi imperante. In questo quadro, bisogna chiedersi che senso può avere il desiderio, espresso variamente in questo fascicolo, di dialogare ancora con l’opera di Luhmann. Per fugare ogni dubbio, va preliminarmente detto che qui non si è voluto tentare un’operazione monumentalizzante-storiciz3
zante – del tipo: ciò che è vivo e ciò che è morto della teoria di Luhmann. Più modestamente, si sono volute indicare alcune piste di ricerca che mostrino a cosa può servire, oggi, la teoria dei sistemi se usata in un certo modo (da qui il titolo del fascicolo). Si tratta di uno strumento strano: idiosincratico da una parte, duttile dall’altro. Idiosincratico perché è nota la difficoltà che la lettura dei testi luhmanniani presenta. Il lessico di questo autore ha un grado di astrattezza disarmante, e anche se sta parlando di fenomeni della vita quotidiana (dopotutto era un sociologo) spesso si ha l’impressione, leggendolo, di venir immersi in una costruzione teorica fine a se stessa. Duttile perché non vi è fenomeno della vita di un collettivo che non possa venir trattato in termini sistemici. E infatti Luhmann applicò la propria griglia interpretativa al diritto, alla politica, all’economia, all’arte, alla religione, ai mezzi di comunicazione, all’amore, ai problemi connessi alla crisi ecologica. E non poteva non farlo, del resto: siccome quel sistema che chiamiamo modernità non può venir osservato da un osservatore che possa porsi al di fuori della modernità stessa, essa può osservarsi solo scegliendo di volta in volta, al proprio interno, un punto di osservazione specifico, che guarda gli altri sottosistemi dal proprio punto di vista. Dei paradossi dell’osservazione, e della loro ineliminabilità, si dà ben conto in un intervento che apre il fascicolo, e che ha un carattere in qualche modo introduttivo (mi riferisco a quello di Alberto Giustiniano). Il punto è infatti cruciale, dal momento che tutta la teoria di Luhmann parte proprio da lì: un sistema non si osserva dal di fuori, non può vedere ciò che fa in relazione all’ambiente che gli sta “fuori”, esso è costituito dalle proprie operazioni, in virtù delle quali viene deciso in che modo muoversi o programmare corsi di azione. Solo un altro sistema, che funge da osservatore di secondo ordine, può vedere ciò che un sistema fa quando distingue se stesso dal proprio ambiente – e il sociologo, per esempio, altro non è che un osservatore di secondo ordine tra altri. Sia la questione dei paradossi dell’auto-osservazione, sia quella dell’osservazione di secondo ordine assumono un rilievo cen4
Materiali
Nel 1993, cinque anni prima della morte, Luhmann pubblica in una rivista americana (che fa riferimento alla Johns Hopkins University) un saggio sulla decostruzione derridiana (il saggio verrà pubblicato in tedesco solo dopo la morte di Luhmann). Allora la decostruzione era ampiamente presente nei dibattiti culturali e filosofici d’oltreoceano, mentre in molti ambienti accademici europei, sia in Germania che nella stessa Francia, veniva ancora ostracizzata. L’obiettivo è quello di mostrare come vi sia una stretta relazione tra gli intenti perseguiti dalla decostruzione e quelli perseguiti dalla teoria dei sistemi luhmanniana. La cosa può apparire sorprendente, vista la distanza tematica e stilistica che separa i due autori. In realtà, a Luhmann preme mostrare come decostruire non sia altro che mettere in atto quell’osservazione di secondo ordine, che costituisce la principale risorsa strategica della teoria dei sistemi.
Decostruzione come osservazione di secondo ordine NIKLAS LUHMANN
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urante il mio lavoro per preparare questo contributo mi è capitato di vedere una trasmissione televisiva sull’ammissione degli omosessuali nell’esercito. Ciò che vidi (e posso certo aver visto cose che non sono state mostrate) può ben servire da introduzione ai temi della decostruzione e dell’osservazione di second’ordine – temi piuttosto difficili e, se posso dir così, postconcettuali. L’inchiesta mostrava alcune discussioni del Senato degli Stati Uniti e interviste con soldati semplici e ufficiali dell’esercito. Emergevano in primo piano un mucchio di distinzioni. Le questioni principali erano al tempo stesso semplici e difficili, ovvero se l’ammissione degli omosessuali avrebbe indebolito la forza dell’esercito e quanto forti sarebbero state la resistenza e le obiezioni da parte dell’esercito a una simile iniziativa. Il problema venne introdotto durante la campagna elettorale di Clinton per ragioni politiche ma poi sembrò sfuggire di mano. Di tanto in tanto saltavano fuori delle distinzioni giuridiche, per esempio se la prassi in vigore fosse o meno conforme al dettato costituzionale (se fosse cioè costituzionale o incostituzionale), e se la legge sarebbe stata in grado di controllare o meno comportamenti illegaVersione originale: Deconstruction as Second-Order Observing, “New Literary History”, 4, 1993, pp. 763-782; poi questo testo è apparso in tedesco in: N. Luhmann, Aufsätze und Reden, Reclam, Stuttgart 2001, pp. 262-296.
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li, come per esempio le molestie sessuali o violenze nei confronti degli omosessuali nell’esercito (una questione legata all’efficacia o inefficacia della legge), ma dietro tutto ciò c’era la distinzione, mai messa in questione, tra eterosessuali e omosessuali. Una simile situazione ci dà l’opportunità di aprire la cassetta degli attrezzi della decostruzione e di vedere cosa succederebbe se applicassimo i suoi strumenti. Dovremmo decostruire la distinzione omosessuale/eterosessuale. Ciò, ovviamente, distruggerebbe il presupposto su cui si fonda una “opposizione gerarchica” nel senso di un primato costitutivo o “naturale” dell’eterosessualità. Potremmo almeno vedere, se non proprio distruggere, ciò che Louis Dumont ha chiamato l’englobement du contraire1 – cioè l’inclusione di opposizioni in una struttura gerarchica di stili di vita scelti come preferibili. Ma questo può essere detto anche nei termini di una critica dei pregiudizi, senza mettere in atto l’operazione ambiziosa e transconcettuale della decostruzione. Del resto, Derrida stesso ci mette in guardia esplicitamente contro gli usi strategici e politici della decostruzione.2 I suoi obiettivi sono più ambiziosi – e meno specifici. La decostruzione porta la nostra attenzione sul fatto che le differenze sono solo distinzioni e cambiano il loro valore d’uso quando le usiamo in tempi diversi e in contesti diversi. La differenza tra eterosessuali e omosessuali non è sempre la stessa: è soggetta alla differénce. Sin qui, niente da obiettare. Ma se invece ponessimo la domanda seguente: chi (cioè: quale sistema) sta usando la distinzione quale cornice (o schema) di osservazione? Oppure: chi è l’osservatore? Che cosa investe tale osservatore nel fare tale distinzione e che cosa è in gioco per lui quando si attiene a essa? Allora si renderebbe immediatamente visibile una varietà di sistemi che osservano: il sistema politico, l’interazione nel corso di 1. Cfr. L. Dumont, Homo Hierarchicus. Il sistema delle caste e le sue applicazioni (1966), trad. di D. Frigessi, Adelphi, Milano 1991, pp. 525-535; Id., Saggio sull’individualismo (1983), trad. di M. Acquati, Adelphi, Milano 1993, p. 139 sgg. e passim. 2. Cfr. J. Derrida, Posizioni (1972), trad. di M. Chiappini e G. Sertoli, a cura di G. Sertoli, ombre corte, Verona 1999, p. 50 sgg.
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una seduta del Senato degli Stati Uniti, l’esercito, soldati semplici e ufficiali, omosessuali che sono stati respinti, uomini e donne, e noi stessi davanti al nostro televisore. L’illusione che si tratta di decostruire è che tutti questi sistemi designino lo stesso oggetto quando usano la distinzione eterosessuale/omosessuale. Il carattere stereotipo della distinzione induce ad assumere che tutti questi sistemi osservino la stessa cosa, mentre osservando questi osservatori ci si accorge che non è così. Ciascuno di essi opera entro la propria cornice, ciascuno ha un passato differente e un futuro differente. Mentre la distinzione suggerisce un accoppiamento stretto tra osservazione e realtà, e implica che ci sia soltanto un osservatore che osserva “la stessa cosa” e produce enunciati veri o falsi, un osservatore di secondo ordine che osservi tali osservatori vedrebbe soltanto un accoppiamento assai debole e la totale mancanza di una qualche integrazione. Ma la storia non finisce qui. Abbiamo dimenticato l’osservatore più importante – almeno relativamente a questo caso – ovvero il corpo. Anch’esso fa le sue distinzioni e decide se provare o no attrazione sessuale. Osservare tale osservatore ci porta a chiederci se esso segua doverosamente o meno gli imperativi culturali,3 oppure se negli umani e nei sistemi sociali non vi sia un’inevitabile akrasia (mancanza di autocontrollo),4 come avrebbero detto i greci, una mancanza di potestas in se ipsum. Se diamo per scontata tale akrasia, un soldato sa forse come il suo corpo osserverebbe una situazione in cui sono presenti omosessuali senza la protezione della privacy – per esempio sotto la doccia o nelle camerate, o in un mucchio di situazioni simili? Anche se la società e l’esercito preferiscono l’eterosessualità, e anche se la mente di un individuo accetta questa definizione per sé e per il proprio corpo, un uomo o una donna possono mai essere del tutto sicuri che il proprio corpo starà sempre a questo gioco? 3. L’influenza socio-culturale sulle inclinazioni sessuali dei corpi è, ovviamente, un fatto ben noto. Cfr. H. Schelsky, Soziologie der Sexualität: über die Beziehungen zwischen Geschlecht, Moral und Gesellschaft, Rowohlt, Reinbeck bei Hamburg 1955. 4. Circa il dibattito recente sul tema, cfr. A.O. Rorty, Self-Deception, Akrasia and Irrationality, “Social Science Information”, 19, 1980, pp. 905-922.
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La macchina del senso. Luhmann e la chiusura operativa della metafisica ALBERTO GIUSTINIANO
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a teoria dei sistemi sociali di Niklas Luhmann è interamente costruita sulla nozione di distinzione concepita come l’operazione caratteristica di tutti i sistemi, compresi i processi di cognizione. Ciò significa che, contrariamente a quanto possa suggerire una lettura superficiale, alla base dell’intera architettura concettuale non sono posti elementi concepibili come sostanze o atomi stabili e indivisibili ma relazioni dinamiche, ovvero connessioni di relazioni.1 Il concetto di sistema, che di tali connessioni è il risultato, viene così direttamente problematizzato dalla teoria poiché trattato a partire dalle condizioni della sua apertura all’ambiente. In principio non vi è un’identità ma una differenza, nello specifico una differenza tra identità e differenza. Il sistema, in quanto unità, per conservarsi deve mantenere proprio questa differenza tra sé e altro, e dunque rappresenta solo un lato della distinzione presa in considerazione dalla teoria.2 Queste precisazioni consentono di descrivere il funzionamento del paradigma sistemico evitando fraintendimenti e considerandolo un momento del più generale sviluppo della disputa tra Alberto Giustiniano è caporedattore della rivista di filosofia contemporanea “Philosophy Kitchen” dell’Università di Torino e docente di filosofia e storia nei licei. 1. N. Luhmann, Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale (1984), trad. di A. Febbrajo e R. Schmidt, il Mulino, Bologna 1990, pp. 86-97 e 445-453. 2. Ivi, pp. 67-74. Su questo aspetto cruciale della teoria dei sistemi, soprattutto in relazione alla nozione di autopoiesi, cfr. E. Esposito, L’operazione di osservazione, Franco Angeli, Milano 1992.
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sistemi chiusi e sistemi aperti che ha impegnato differenti discipline in un appassionante dibattito che ha attraversato il Novecento. Ripercorrerlo brevemente può aiutarci a comprendere che le ragioni della sua estensione all’ambito sociologico da parte di Luhmann nascondono in verità un più ampio progetto di critica alla modernità. La teoria dei sistemi sembra suggerire un itinerario alternativo alle attuali tendenze del dibattito filosofico, diviso tra il tentativo di tenere viva la vocazione critica del pensiero illuminista e l’impegno a divincolarsi dalle sabbie mobili della circolarità della fondazione attraverso la ricerca di antichi punti d’appoggio un tempo ritenuti affidabili. Più che ad avvalorare un corno dell’alternativa il paradigma sistemico si interessa all’alternativa stessa: per quali ragioni essa si dà, per noi ora, nella forma del paradosso? La genesi della teoria dei sistemi, sebbene non ne sia ritracciabile una versione univoca ma risulti ancora espressione di una pluralità di ambiti disciplinari convergenti su alcuni temi generali, può essere fatta risalire ai modelli teorici operanti intorno al XVII secolo in ambito politico orientati alla metafora dell’equilibrio.3 In quel contesto il problema del bilanciamento di alleanze tra nazioni ha portato, soprattutto in ambito europeo, a due strategie risolutive. La prima poneva l’accento sulla stabilità, considerando in generale i sistemi abitualmente in una situazione di equilibrio fino all’insorgere di una perturbazione esterna che ne avrebbe alterato lo stato. Per ovviare a tali episodi si sarebbero dovuti avviare meccanismi di regolazione indirizzati a ristabilirne la condizione iniziale. Questa soluzione si rivelò tuttavia discutibile poiché ci si accorse rapidamente dell’estrema facilità con cui era possibile alterare la condizione di equilibrio in un sistema invece del contrario. Si affiancò così alla prima interpretazione una seconda strategia che prendeva avvio dalla constatazione dell’alta improbabilità 3. N. Luhmann, Introduzione alla teoria dei sistemi (2011), a cura di S. Magnolo, Pensa Multimedia, Lecce 2018, p. 44 sgg. Per una panoramica generale cfr. F.E. Emery (a cura di), La teoria dei sistemi. Presupposti, caratteristiche e sviluppi del pensiero sistemico (1969), trad. di P. Morganti, Franco Angeli, Milano 1974.
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della stabilità (si fa qui riferimento all’immagine della bilancia a due piatti), iniziando così a considerare l’idea di equilibrio come contenente una teoria in grado di misurare la sensibilità del sistema ai disturbi. Secondo Luhmann si può già intravedere la nascita di un interesse a comprendere, da un lato, fino a quanto un sistema potesse effettivamente conservare la sua condizione di stabilità in un contesto nel quale sarebbe stato sempre sottoposto a perturbazioni di vario tipo e, dall’altro, se il disequilibrio non potesse divenire esso stesso un fattore stabilizzante.4 Oltre a questo filone altri tre importanti modelli, che saranno messi in relazione tra loro solo a partire dagli anni cinquanta del XX secolo, hanno contribuito a formare la struttura concettuale della teoria dei sistemi. Il primo si riferisce ai problemi in ambito fisico e biologico connessi al secondo principio della termodinamica: se tutti i sistemi fisici tendono inesorabilmente a dissipare la loro energia interna, con il conseguente aumento di entropia e il dissolvimento di tutte le distinzioni interne, come è possibile il fenomeno di differenziazione e d’incremento d’ordine (neghentropia) nel contesto biologico e sociale? Matura così la convinzione che il modello entropico possa avere una validità rappresentativa generale del mondo inteso complessivamente come sistema chiuso ad apporti esterni, ma che tale modello non sia adeguato per fornire una spiegazione a tutte le relazioni interne a esso. Per tale ragione in biologia e sociologia si sviluppa una teoria dei sistemi aperti finalizzata a dare conto del mancato insorgere dell’entropia e del complementare fenomeno della costruzione dell’ordine. La condizione di apertura assume dunque il significato di intrinseca possibilità di scambio con l’ambiente da parte di un sistema che è sempre indirizzato al continuo rifornimento di energia o informazioni per resistere alla tendenza entropica.5 L’impulso ambientale può essere così considerato capace di operare modificazioni strutturali nel sistema mettendo in relazio4. N. Luhmann, Introduzione alla teoria dei sistemi, cit., p. 45. 5. Cfr. L. von Bertalanffy, Teoria generale dei sistemi. Fondamenti, sviluppo, applicazioni (1968), trad. di E. Bellone, Mondadori, Milano 2004.
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Luhmann e l’antica disputa tra poesia e filosofia CARY WOLFE
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a cosiddetta disputa tra poesia e filosofia e tra le diverse relazioni che entrambe intrattengono con la conoscenza è ovviamente questione antica, visto che risale a Platone. Dati i limiti di spazio non posso, in questa sede, rispolverarne la storia, quindi inizio con una declinazione recente di questa relazione – o, più propriamente, di questa differenza –, cioè quella formulata dal precursore di Luhmann nella teoria dei sistemi, Gregory Bateson, perché ci indica (seppur sinteticamente) quanto significato e conoscenza siano connessi ad ambiti che vanno ben oltre a ciò che è esclusivamente linguistico e logico, e quanto, proprio per questa ragione, essi non pertengano a un problema di rappresentazione. Nella discussione esposta in “Epistemologia ed ecologia”, Bateson ci ricorda il “Paradosso del mentitore”, che conosciamo dal confronto della tradizione filosofica con il problema del paradosso dell’autoreferenza. “Se Epimenide aveva ragione nel dire che i Cretesi mentono sempre”, scrive Bateson, “e se lui era Cretese, mentiva o non mentiva? Se mentiva, allora non mentiva. Se non mentiva, allora non era vero che i Cretesi mentissero sempre, e così via. Ebbene”, continua, consideriamo l’“allora” di quel paradosso. Se sì, allora no. Se no, allora sì. Se “allora” è logico, si ha un paradosso, ma se “allora” Cary Wolfe insegna Letteratura americana e Teoria critica alla Rice University.
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è causale e temporale, la contraddizione scompare. La sequenza è simile a quella del campanello elettrico della porta di casa. Se il circuito è chiuso, allora il magnete viene attivato e interrompe il circuito. Se il circuito è interrotto, allora il magnete non viene attivato e il circuito è ripristinato. Se il circuito è ripristinato, allora il magnete viene attivato e il circuito viene interrotto; e così via. Si ottiene quindi un’oscillazione e il paradosso “se sì allora no; se no allora sì” contiene in sé un vero “allora” temporale.1 Questo, mi pare, è già un passo enorme. Ciò che Bateson descrive, qui, è la “ricorsività” costitutiva dei sistemi in “oscillazione” che usano i loro risultati (output) come nuovi elementi (input); tali sistemi comprendono (ma non sono limitati ai) sistemi biologici, computazionali e mentali. E la temporalizzazione dell’“allora” significa che, in tali sistemi, lo stesso elemento può avere significati differenti, addirittura opposti, in momenti diversi nel tempo e a seconda dello stato dinamico del sistema nella sua totalità. Sistemi simili non operano con, e non sono costituiti da, sostanze dotate di significati fissi e permanenti, e questa è una delle ragioni, scrive Bateson, che spiegano perché “la logica è un modello molto carente del mondo dei processi mentali. Spesso si sente chiedere se i calcolatori possano simulare tutti i passi concepibili della logica, ma questa domanda si rivela del tutto sbagliata. In verità è la logica che non può simulare tutti i passi dei sistemi causali operanti nel tempo”.2 Per ora vorrei solo amplificare due punti: anzitutto, la spiegazione di Bateson ci consegna una modalità vigorosamente naturalistica di comprendere che la poesia può assumere ed esplorare problemi filosofici che la filosofia in quanto logica non può risolvere perché non è sufficientemente complessa – e non è sufficientemente complessa perché il tempo non è uno dei suoi elementi costitutivi. Per dirla in modo più diretto, dunque, le strategie poetiche per affrontare problemi filosofici che hanno tormentato 1. G. Bateson, Una sacra unità. Altri passi verso un’ecologia della mente (1991), a cura di R.E. Donaldson, trad. di G. Longo, Adelphi, Milano 1991, p. 287. 2. Ivi, p. 321.
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l’epistemologia e la fenomenologia potrebbero essere meno “logiche” ma, proprio per questa ragione, più “efficaci”, nella misura in cui sono, potremmo dire, più ecologiche. O, come dirà Luhmann, non hanno senso ma producono significato. In secondo luogo, se è vero che i sistemi che producono significato e i sistemi biologici sono non-rappresentazionali nel primo senso appena discusso, allora è anche vero, come scrive Bateson, che “la mente opera sempre a una certa distanza dalla materia, sempre alla distanza di una derivata (<dx/dt) dal mondo ‘esterno’. I dati primari dell’esperienza sono differenze. Da questi dati costruiamo le nostre ipotetiche (sempre ipotetiche) idee e immagini del mondo ‘esterno’”.3 Non si tratta di un’osservazione eminentemente filosofica o epistemologica – non riguarda certo ciò che viene talvolta definito “correlazionismo”; al contrario, è un’osservazione di carattere evolutivo e adattativo. Come nota Bateson, infatti, “i nostri organi di senso sono fatti apposta per tenere fuori il mondo”, non per rappresentarlo,4 ma “sembra che pochissimi si rendano conto dell’enorme ‘potenza’ teorica di questa distinzione tra ciò che io ‘vedo’ e ciò che sta all’esterno. Quasi tutti, in effetti, presumono di vedere ciò che guardano, e questo perché i processi percettivi sono del tutto inconsci. […] La mia macchina mentale non mi fornisce notizie dei suoi processi, bensì notizie dei suoi prodotti. In realtà, un mondo costruito affinché gli organismi non siano disturbati dalle notizie dei processi, ma ne ricevano soltanto i prodotti, è piuttosto sensato. Ma in effetti i processi di costruzione delle immagini sono molto complessi e si possono studiare in via sperimentale”, come, per esempio, nel famoso esperimento di falsa parallassi di Adelbert Ames che Bateson descrive.5 Curiosamente, nel saggio “La creatura e le sue creazioni”, Bateson indica il poema di Wallace Stevens L’uomo dalla chitarra azzurra quale meditazione proprio su questo processo: “Il poeta si 3. Ivi, p. 298. 4. Ivi, p. 288. 5. Ivi, p. 322 sgg.
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Osservare il post-umanesimo: la teoria dei sistemi sociali di Niklas Luhmann MARIA CRISTINA IULI
Si sa quanto oggi “il soggetto” sia messo in pericolo dagli aerosol francesi e dal buco d’ozono della decostruzione. Ma cosa ci sarebbe mai da salvare? La nostalgia per i concetti “soggetto” e “azione” esprime forse qualcosa di più di un attaccamento emotivo alle loro rispettive tradizioni?1 Non è partendo dalla filosofia del soggetto e dalle sue declinazioni post-metafisiche che si può cogliere la piena portata epistemologica della teoria dei sistemi sociali di Niklas Luhmann, il radicale anti-umanesimo che la contraddistingue e il suo significato per un post-umanesimo non di facciata, che si configuri come riassetto degli schemi che giustificano e regolano le tassonomie alla base delle nostre pretese conoscitive. Si tratta, piuttosto, di compiere un radicale spostamento prospettico, di allontanarsi da quel costrutto epistemologicamente ingombrante che ha dominato “il discorso filosofico della modernità” per seguire l’architettura di una teoria generale che risponda all’esigenza di descrivere con rigore non le sfumature di coscienza ed esperienza, ma le operazioni di una società che, nella sua forma moderna, è diventata iper-complessa e priva di punti di osservazione esterni da cui Maria Cristina Iuli insegna Letterature angloamericane all’Università del Piemonte Orientale. 1. N. Luhmann, “Instead of a preface to the English edition: On the concepts ‘subject’ and ‘action’”, pre-prefazione all’edizione inglese di Social Systems, trad. di E. Knodt, Stanford University Press, Stanford (Cal.) 1995, p. XXVIII.
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analizzare la totalità delle proprie operazioni, e che, dunque, non può più fondare la propria conoscenza sulle premesse teoriche della filosofia idealista, della dialettica hegeliana, o della fenomenologia trascendentale.2 La tesi che questo saggio espone sinteticamente è che, nel prendere le distanze dall’idealismo e dal razionalismo europeo, e nel riconsiderarne concetti e terminologia in funzione della descrizione della società, Luhmann non si sia limitato a decostruire dall’interno del suo ambito disciplinare l’impianto umanista del sapere sociologico, ma abbia prodotto uno strumentario concettuale e una metodologia nella cui esecuzione prende forma un cambio di paradigma indirizzato ai presupposti antropocentrici e umanisti della sociologia e della filosofia europee. Lo ha fatto partecipando a quel dibattito sulle spoglie dell’Illuminismo che ha dominato la riflessione filosofica e politica della seconda metà del Novecento, mettendo in atto una strategia intellettuale che gli ha consentito, nel corso di una lunga e prolifica carriera, non solo di sconfinare nell’epistemologia e, paradossalmente, nell’ontologia, come rileva William Rasch,3 ma anche di affrontare, refutare, e in un certo senso liquidare, le posizioni principali di quel dibattito, sviluppando una teoria della società e un metodo di analisi che sempre più chiaramente appaiono come risposta definitiva, come superamento di quella stessa tradizione, ovvero come particolare declinazione postilluminista di una sociologia all’altezza delle proprie ambizioni
2. Riferendosi alla decostruzione che Luhmann ha fatto della Fenomenologia dello Spirito, Hans-Georg Moeller ha parlato di “carnevalizzazione” del sistema hegeliano. Cfr. H.G. Moeller, The Radical Luhmann, Columbia University Press, New York 2012, p. 36. 3. W. Rasch, “Luhmann’s ontology,” in A. La Cour e A. Philippopoulos-Mihalopoulos (a cura di), Luhmann Observed, Palgrave MacMillan, London 2013, pp. 38-59. Nella pre-prefazione alla traduzione inglese di Sistemi sociali, Luhmann anticipa, per così dire, l’osservazione di Rasch, liquidando causticamente non solo il soggetto trascendentale, ma la distinzione stessa empirico/trascendentale come fondazione di una teoria della conoscenza, e ribadisce, sulla scia di Husserl, che sebbene non debba essere abbandonata, la questione sulla possibilità e sulla forma della conoscenza non può essere adeguatamente affrontata a partire dal concetto di “soggetto” (N. Luhmann, “Instead of a preface”, cit., p. XLI).
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scientifiche.4 Non a caso Luhmann ha intitolato la raccolta in sei volumi di tutti i suoi saggi, Soziologische Aufklärung.5 1. Dal soggetto alla società Non è possibile evidenziare la rilevanza della teoria dei sistemi sociali di Luhmann per una epistemologia post-umanista senza richiamare almeno alcuni dei suoi concetti portanti, ed è necessario partire dalla società moderna, un’organizzazione che si è evoluta coordinando le proprie funzioni attraverso una serie di sistemi autonomi e specializzati, le cui operazioni definiscono nel tempo i limiti e gli elementi della società stessa. Processo senza referente oggettivo, la società moderna descritta da Luhmann6 è una pluralità di sistemi funzionali interdipendenti, auto-organizzati e autoreferenziali che consistono di comunicazioni e che nella comunicazione istituiscono ed elaborano la propria differenza rispetto a un “ambiente”. Il punto di partenza della società non è dunque la “realtà” e non sono gli individui, ma è la differenza tra sistema e ambiente: per mezzo di questa differenza la società si istituisce e si distingue in modo autoreferenziale
4. Su questo punto si rimanda all’illuminante lettura della teoria di secondo ordine dei sistemi sociali come “la ricostruzione della decostruzione” di Cary Wolfe, in What is Posthumanism?, Minnesota University Press, Minneapolis-London 2010, p. 8. 5. Hanno brillantemente discusso questo punto Michael King e Chris Thornhill in Niklas Luhmann’s Theory of Politics and Law, Palgrave MacMillan, London 2003, soprattutto alle pp. 129-181. 6. Non è qui possibile soffermarsi sulla descrizione dell’evoluzione della società da gerarchicamente strutturata a funzionalmente differenziata che, secondo Luhmann, caratterizza il passaggio dall’epoca premoderna a quella moderna ed è il punto di partenza empirico della sua teoria dei sistemi sociali. Luhmann sviluppa nei dettagli questo passaggio epocale in tutte le sue pubblicazioni, ma per una trattazione approfondita di questo aspetto si rimanda alle due opere di sistematizzazione definitiva della teoria dei sistemi sociali di Niklas Luhmann, rispettivamente Sistemi sociali, Fondamenti di una teoria generale, trad. di A. Febbrajo e R. Schmidt, il Mulino, Bologna 1990, e Id., Die Gesellschaft der Gesellschaft, 2 voll., Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1997 (trad. parziale a cura di R. De Giorgi, Teoria della società, Franco Angeli, Milano 1992. Il volume in italiano, uscito prima dell’edizione Suhrkamp, non contiene tutti i capitoli della pubblicazione definitiva in tedesco. Le citazioni in questo saggio sono state tradotte dall’autrice dall’edizione in inglese, Theory of Society, 2 voll., trad. di R. Barrett, Stanford University Press, Stanford [Cal.] 2013).
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Luhmann, modernità e diritti umani EDOARDO GREBLO
1.
La critica al carattere individualistico dei diritti umani ha una lunga storia ed è tipica degli autori che considerano sbagliata o improduttiva ogni proposta politica basata sui diritti.1 La controversia verte soprattutto sull’individualismo metodologico, che fa da presupposto alla dottrina dei diritti dell’uomo e della sua evoluzione storica.2 È sin dagli albori della Prima età moderna che un’antropologia di tipo individualistico ha promosso, certo solo in Europa, un quadro giuridico che porta in primo piano, attraverso i concetti di diritto soggettivo e di persona giuridica, la possibilità per il singolo cittadino di conquistarsi un ambito sostanziale di autonomia privata. La dissoluzione dei vincoli di integrazione sociale cristallizzati nelle appartenenze ascritte che 1. La matrice di queste critiche può essere trovata nel giovane Marx, il quale, facendo riferimento alle Dichiarazioni americane e francesi, scrive che “nessuno dei cosiddetti diritti dell’uomo va […] al di là dell’uomo egoistico, dell’uomo in quanto membro della società borghese, ossia chiuso in sé, nel proprio interesse privato e nel proprio privato arbitrio, separato dalla comunità” (K. Marx, “Il problema ebraico”, in Scritti politici giovanili, a cura di L. Firpo, Einaudi, Torino 1975, p. 379). Va sottolineato che la critica giovanile ai diritti come espressione di una concezione individualista della libertà che culmina nel diritto (borghese) alla proprietà privata ritorna, in età matura, nella critica alle “robinsonate” della teoria economica e politica, e al processo di circolazione delle merci, considerato come “un vero Eden dei diritti innati dell’uomo”, in cui “regnano soltanto Libertà Eguaglianza, Proprietà e Bentham”, Id., Il capitale. Critica dell’economia politica (1867), trad. di D. Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 208. Per una riproposizione aggiornata di questa prospettiva, cfr. T. Evans (a cura di), Human Rights Fifty Years On: A Reappraisal, Manchester University Press, Manchester 1998. 2. N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 19922, pp. IX e 58 sgg.
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caratterizzavano la società cetuale ha reso possibile quella “libertà dei moderni” che si concretizza inizialmente nella sola libertà privata dei membri della società e successivamente anche nella libertà politica dei membri dello Stato. Ai doveri imposti dall’appartenenza associativa di carattere ascrittivo, così come ai diritti fatti calare paternalisticamente dall’alto sulle teste dei sudditi, subentrano i diritti che i cittadini si riconoscono l’un l’altro e che, nel passaggio dalla sovranità principesca alla sovranità popolare, si trasformano nei diritti civici liberali e politici, ossia nei diritti dell’uomo e del cittadino.3 È stato Hobbes – che giustamente Leo Strauss considera il fondatore del liberalism, ossia della dottrina politica per la quale i diritti dell’uomo, in quanto distinti dai doveri, rappresentano i presupposti pre-istituzionali che il potere politico ha il compito di riconoscere, proteggere e salvaguardare4 – il primo ad avere ricavato da questi processi epocali l’idea che le aspettative o le pretese individuali debbano essere tutelate nella forma del “diritto soggettivo”. In un passo famoso del Leviatano, Hobbes definisce il diritto soggettivo (right, jus) in opposizione al diritto oggettivo (law, lex), cioè al comando del sovrano: law e lex indicano un obbligo, right e jus una libertà, “per modo che lex e jus sono tanto differenti quanto obbligazione e libertà”.5 La priorità morale dei doveri, rispetto ai diritti che derivano dai doveri altrui, si dissolve a favore di una priorità dei diritti che assicurano, tramite il diritto soggettivo, una sfera privata d’arbitrio. Dopo una lunga e sotterranea gestazione, si compie così quella “rivoluzione copernicana” che distrugge l’idea olistica di una società anteriore agli individui, la tradizione di una legge naturale che si appella a un ordine trascendente per far valere una strutturazione gerarchica delle relazioni sociali, e si afferma al suo posto la prospettiva che vede 3. J. Habermas, L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica (1996), trad. di L. Ceppa, Feltrinelli, Milano 1998, p. 126. 4. L. Strauss, Diritto naturale e storia (1953), trad. di N. Pierri, Il Melangolo, Genova 1990, p. 196. 5. T. Hobbes Leviatano (1651), trad. di G. Micheli, La Nuova Italia, Firenze 1976, p. 284.
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nell’individuo quale soggetto separato e autonomo l’unità fondamentale dell’ordine mondano. Ora, secondo Habermas, “una stessa linea di pensiero collega Hobbes a Luhmann: la strategia con cui la ragion pratica venne inizialmente negata dall’autoaffermazione naturalistica degli individui sfocia ora nell’autopoiesi dei sistemi autoreferenziali”.6 Nella prospettiva elaborata dalla sociologia giuridica di Luhmann la matrice dei diritti umani non risiede infatti in una teleologia della natura umana, ma in una teleologia dell’evoluzione sociale, per cui una società fondamentalmente composta da eguali sembra essere il capolinea del lungo processo che ha minato la legittimità delle affiliazioni tradizionali, particolaristiche e ascrittive, rappresentate da religione, appartenenza etnica, regione o località, status o posizione ereditaria nella stratificazione sociale. Nella prospettiva di disincantamento sociologico suggerita dalla teoria dei sistemi, i diritti umani si sono sviluppati per differenziazione da quell’ethos sociale complessivo in cui diritto tradizionale ed etica convenzionale si intrecciavano ancora tra loro. Il sistema dei diritti si è sviluppato per differenziazione in un vero e proprio ordinamento costituzionale quando i fondamenti sacrali di questo tessuto – composto da diritto, morale ed eticità – hanno finito per apparire insostenibili o ingiustificabili. In altre parole, è stato l’aumento della differenziazione e della complessità sociale, ossia l’avvento della modernità, a porre le premesse della rivendicazione dei diritti umani e ad alimentarne tuttora l’esigenza, per cui modernità e diritti umani rappresentano, per così dire, due facce di una stessa moneta. In questo senso, rifiutare i diritti umani perché ritenuti in contrasto con culture e civiltà che, invece di diritti soggettivi a priori, conoscerebbero soltanto diritti conferiti a posteriori agli individui, oppure perché l’ampia varietà di specificità nazionali e regionali prevede forme di regolazione sociale differenti dal diritto, come la religione o i rituali, oppure costruisce reti di legalità o paradigmi normati6. J. Habermas, Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia (1992), trad. di L. Ceppa, Laterza, Roma-Bari 2013, p. 10.
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La fortezza di Niklas Luhmann. Con un sogno a margine ALBERTO ANDRONICO
L’unico modo di sfuggire alla condizione di prigioniero è capire come è fatta la prigione. I. Calvino, Il conte di Montecristo
0. Perché Luhmann Finora i filosofi hanno voluto soltanto trasformare la società, ora si tratta di comprenderne il funzionamento. Basta capovolgere la celebre undicesima tesi su Feuerbach di Marx per ritrovarsi subito catapultati all’interno del mondo di Niklas Luhmann. Un mondo che ricorda molto da vicino quella fortezza senza punti privilegiati, che “ripete nello spazio e nel tempo sempre la stessa combinazione di figure”, dalla quale cerca disperatamente di evadere l’abate Faria di Italo Calvino, sbucando ogni volta “in una cella ancora più interna di quella da cui era partito”.1 Un mondo privo di centro e di gerarchie, dove l’alto si confonde con il basso, dove tutto è interno a tutto, innanzitutto la distinzione tra interno ed esterno, dove soggetti, oggetti, essenze e sostanze diventano sistemi, ambienti, relazioni, funzioni, differenze, selezioni e selezioni di selezioni. E dove, appunto, non ha più senso chiedersi come sia possibile migliorare la società per la semplice ragione che non ha più senso pensare di poterla governare, meno che mai che possano farlo gli uomini. Detto questo, leggere Luhmann non è facile, si sa, e per molti è persino noioso. Ma è necessario. Oggi più che mai, verrebbe voglia di aggiungere. Per una serie di ragioni che hanno tutte a che fare con quanto scritto da Hans-Georg Moeller in apertura Alberto Andronico insegna Filosofia del diritto all’Università di Catania. 1. I. Calvino, “Il conte di Montecristo”, in Ti con zero, Mondadori, Milano 1995, pp. 140 e 136.
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di uno dei primi testi da consigliare a chiunque voglia cominciare a confrontarsi con il lavoro di questo singolare sociologo tedesco: “È impressionante notare come la teoria dei sistemi sociali di Niklas Luhmann (1927-1998) fornisca spesso i più avanzati, adeguati e applicabili modelli per comprendere come funziona la società contemporanea”. 2 È proprio così, infatti, c’è poco da fare. Che ci piaccia o meno, leggere Luhmann è necessario se si vuole comprendere il nostro presente. O almeno per fare i conti con quella che sembra essere la sua narrazione dominante. Del resto, a tacer d’altro, nessuno meglio di Luhmann è riuscito a mettere in forma quella curiosa incoerenza del nostro attuale sistema di credenze stigmatizzata da Zygmunt Bauman: quella per cui, da buoni occidentali, riteniamo ormai di aver vinto la battaglia per la libertà, ma tendiamo anche a credere “con uguale fermezza” che la nostra azione, individuale o collettiva che sia, possa fare poco o nulla per cambiare (e magari migliorare) il mondo in cui ci troviamo a vivere.3 Ecco, leggere Luhmann consente di capire come ciò sia possibile e perché. Lo si potrebbe riassumere così: perché, contrariamente a quanto sostenuto da una lunga tradizione di pensiero, la società non è composta da uomini, ma da comunicazioni, e i sistemi psichici e quelli sociali sono sistemi originariamente differenti e non ordinati gerarchicamente, come differenti e non ordinati gerarchicamente sono anche i vari sottosistemi che sorgono al loro interno. Motivo per cui, peraltro, non solo non ha senso pensare che gli uomini possano governare la società, ma non ha neanche senso pensare che esista un sistema o un sottosistema dominante rispetto agli altri. Nel mondo di Luhmann, infatti, la differenziazione funzionale ha preso il posto di quella stratificata. Con la conseguenza, appunto, di destituire di qualunque pertinenza la classica distinzione tra struttura e sovrastruttura. 2. H.-G. Moeller, Per comprendere Luhmann. Una necessità per le classi dirigenti (2011), trad. di L. Martinoli e L. Martinoli, IPOC, Milano 2016, p. 11. 3. Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale (1999), trad. di G. Bettini, Feltrinelli, Milano 2000, p. 9.
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1. L’edificazione della fortezza Ora, quando si comincia a leggere Luhmann è bene tenere presente almeno un paio di cose. La prima è questa: il punto di partenza del suo lavoro è una differenza, quella tra sistema e ambiente, non ulteriormente tematizzabile. I sistemi esistono, per Luhmann, perché c’è un ambiente da cui differiscono e non c’è altro modo di definirli se non in opposizione a un ambiente che costituisce tutto ciò che non è a essi riducibile.4 Detto altrimenti: i sistemi nascono nel momento in cui prende vita un punto di osservazione che reagisce agli stimoli provenienti dall’ambiente trasformandoli secondo una logica interna. Ed ecco la seconda: il suo è un lavoro di innesto. Almeno da un certo momento in poi, infatti, la teoria dei sistemi di Luhmann si contraddistingue per un singolare incontro della biologia con la logica matematica e la cibernetica, poi slittato nel campo delle scienze sociali. In prima approssimazione, l’idea è semplice: sia la biologia che la cibernetica si occupano di sistemi, siano viventi o meccanici non importa, il cui problema è quello di selezionare informazioni provenienti da un ambiente incerto, dunque, in definitiva, di eseguire operazioni funzionali al mantenimento del loro equilibrio. Si tratta così “semplicemente” di capire come tali sistemi funzionino, quali siano le loro condizioni di stabilità interna e di comunicazione con l’esterno. Nulla più di questo. A proposito di biologia, è proprio dal lavoro di due biologi come Maturana e Varela che Luhmann trae un concetto centrale nell’economia del suo discorso: l’autopoiesi.5 Qualsiasi operazione del sistema produce nello stesso tempo le condizioni del mantenimento di quell’unità del sistema che costituisce condi4. “Ritengo che vi sia oggi un consenso unanime fra gli studiosi sul fatto che si debba assumere come punto di partenza di ogni analisi compiuta nell’ambito della teoria sistemica la differenza fra sistema e ambiente” (N. Luhmann, Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale [1984], trad. di A. Febbrajo e R. Schmidt, il Mulino, Bologna 1990, p. 86). E ancora: “Il paradigma centrale della rinnovata teoria sistemica è compreso nel binomio ‘sistema e ambiente’. […] Il punto di partenza di tutte le ulteriori indagini sistemiche non è dunque un’identità, bensì una differenza” (ivi, pp. 305-306). 5. Così illustrato da Humberto Maturana e Francisco Varela, in un passo introduttivo all’analisi delle cosiddette “macchine viventi”: “Una macchina autopoietica è una macchina organizzata (definita come una unità) come una rete di processi di produzione
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Niklas Luhmann e Nicola Cusano. La selezione del sistema tra differenza e identità GIANLUCA CUOZZO
1. Il sistema come ambito relazionale: le sue origini teologiche Parlare della presenza di Cusano in Luhmann significa, in primo luogo, fare i conti con il pensiero della complessità. Perché è in quel contesto che i riferimenti al pensatore del Quattrocento si fanno fitti e significativi, ovvero “nel luogo decisivo della sua teoria del sistema (Systemtheorie)”.1 Basta andare alla voce enciclopedica “Complessità” curata dall’autore per rendersene conto. Il concetto di complessità designa la possibilità di descrivere l’unità (di un sistema, di un ambiente, del mondo ecc.) ricorrendo alla distinzione fra gli elementi e le relazioni di cui essa si compone. Questa possibilità è stata tuttavia utilizzata in modo assai diverso e ha assunto sfumature molto varie nel corso di una lunga storia. Nella cosmologia medievale il concetto di complessità indicava tutto ciò che poteva essere pensato come composto. Una tale definizione del concetto presuppone il concetto antitetico del semplice, che poteva essere designato anche con termini quali “elemento” (atomo) o “individuo”. Lo schema complesso/semplice aveva il vantaggio di prestarsi a molteplici impieghi e occupava conseguentemente una poGianluca Cuozzo insegna Filosofia teoretica all’Università di Torino. È il fondatore e l’attuale presidente della Società cusaniana italiana. 1. A. Nickel-Schwäbisch, G. Nickel, “Ein Porträt des Nikolaus Cusanus im Spiegel der Systemtheorie Niklas Luhmann”, in I. Bocken, H. Schwaetzer (a cura di), Spiegel und Porträt. Zur Bedeutung zweier zentralen Bilder im Denken des Nicolaus Cusanus, Uitgeverij Shaker Publishing, Maastricht 2005, p. 324.
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sizione centrale nella cosmologia. Dio era concepito entro tale schema come entità semplice, e il problema dell’unità di ciò che è complesso veniva affrontato come problema della sua origine (principium) sempre attuale (così, per esempio, nel De coniecturis di Nicola Cusano) […]. Solitamente ciò avviene mediante la distinzione elemento/relazione: un’unità è ritenuta più o meno complessa, nella misura in cui i suoi elementi vengono collegati fra loro da relazioni.2 I primi elementi da prendere in considerazione sono quelli di individualità (o semplicità differenziata), relazione (nesso tra i singoli elementi) e totalità (o sistema composito come unità articolata). Questi tre concetti, alla base dei sistemi sociali complessi (vale a dire, costituiti da elementi altamente individualizzati e differenziati, a loro volta organizzati “in strati o sottosistemi funzionali”3), sono ciò che interrompe la neutralità di un “mondo costituito anonimamente, che vale per tutti”,4 prima che i processi di comunicazione permettano a più partners di compiere, “ciascuno per la sua parte, proprie prestazioni selettive”.5 Questo elemento mediale, che si avvale delle strutture del simbolico, si basa su una condizione iniziale di impedimento o attrito – per cui ogni processo comunicativo (linguistico) ha come obiettivo il superamento di uno stato precostituito di resistenza che è effetto di determinate azioni contingenti e opzionali, cui spetta “l’onere della selezione e della decisione”.6 Tutti i mezzi di comunicazione presuppongono resistenza di situazioni sociali che offrano ad ambedue i partners determinate possibilità di scelta, di situazioni, quindi, che sono carat2. <treccani.it/enciclopedia/complessita-sociale_%28Enciclopedia-delle-scienze-sociali%29/>. 3. N. Luhmann, Potere e complessità sociale (1975), trad. di R. Schmidt e D. Zolo, il Saggiatore, Milano 1979, p. 1. 4. Id., Amore come passione (1982), trad. di M. Sinatra, Bruno Mondadori, Milano 2006, p. 6. 5. Id., Potere e complessità sociale, cit., p. 5. 6. Ivi, p. 7.
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terizzate da una selettività doppiamente contingente. Proprio in questo risiede la funzione dei mezzi di comunicazione: e cioè di regolare i processi che trasmettono selezioni nella loro selettività da Alter a Ego.7 Ora, nel pensiero cusaniano, questi principi strutturali (individualità, relazione e totalità) sono garantiti dalla struttura trinitaria del principio, che è allo stesso tempo – quale absoluta Trinitas – trino e uno: un’autorelazione assoluta, che, quale principio ontologicognoseologico, si riflette nel mondo scandendo la struttura armoniosa del reale, composita e contingente, secondo molteplicità (precedute infinitamente dall’unitas), alterità (anteceduta dall’aequalitas) e divisione (come immagine depotenziata del divino nexus): “Ante omnem divisionem nexum constitui […] sicut enim divisio procedit a pluralitate et inaequalitate, sic amorosus nexus ab unitate et aequalitate”.8 Il sistema del mondo, riflettendo il principio, dovrà così essere uno e trino come Dio, sebbene non in modo assoluto: vale a dire, i suoi elementi, per quanto collegati gli uni agli altri da una certa analogia strutturale che è traccia dell’Unitas absoluta nel finito, non potranno mai coincidere, essendo calati nel mondo vario della contrazione. Come scrive Cusano, tra finito e infinito nulla proportio est:9 più che di immagine del principio, dunque, dovremmo dire con Giordano Bruno che si tratta di mera umbra, riflesso caliginoso di una perfetta identitas di fatto inconoscibile. Quest’ultima, scrive Cusano, così com’è in sé, può essere conosciuta solo da se stessa. Nella costituzione autoidentitaria del divino, infatti, è inclusa la conoscenza perfetta di sé (sui ipsius cognitio): absolutus conceptus, conceptus de conceptu, conceptus sui et universi – questi sono tutti nomi che restituiscono un “sapere (scientia) che si sa da se stesso”10 nell’identità del suo Verbo 7. Ivi, pp. 5-6. 8. N. Cusano, De venatione sapientiae 39: h XII, n. 71, lin. 7-8. 9. Id., Sermo VII (Remittuntur ei peccata multa, Confluentiae 1431), h XVI, n. 32, lin. 11. 10. W. Beierwaltes, “Visio absoluta. Riflessione assoluta in Cusano”, in Identità e differenza (1980), a cura di A. Bausola, trad. di S. Saini, Vita e Pensiero, Milano 1989, p. 181.
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Osservare, conoscere, fondare. La teoria dei sistemi e la questione del trascendentale GIOVANNI LEGHISSA
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el Libro di Giobbe al protagonista ne succedono di tutti i colori e lui, tutt’altro che paziente, si lamenta vigorosamente. Ma che ho fatto? Si chiede. Avrai pur fatto qualcosa, gli suggeriscono gli amici, con aria saccente. Poi, stufo di tante lamentele, l’Altissimo stesso si presenta sulla scena e invita Giobbe a riflettere sul fatto che porre in questione le decisioni prese da un dio non ha nessun senso. Dov’era, lui, Giobbe, al momento della creazione? Come osa interrogare i piani divini – compreso quello che riguarda le prove a cui ora viene sottoposto, concordate peraltro con l’angelo ribelle all’insaputa di Giobbe stesso –, dal momento che la sua limitata intelligenza umana non può neanche lontanamente paragonarsi a quella del suo dio? Alla fine di tutta questa eloquente dimostrazione della potenza divina, Giobbe smette di lamentarsi. Gli vengono restituiti i beni perduti, con tutti gli interessi, e la storia ha un lieto fine – anche se a Giobbe non verrà mai detto il motivo per cui ha dovuto sopportare tutte quelle prove della sua fedeltà, rimasta peraltro indefettibile fino alla fine, nei confronti della giustizia divina. Non nomino qui la storia biblica di Giobbe per aggiungere l’ennesimo commento a questo testo che tanto ha affascinato i cultori della teodicea. Piuttosto mi interessa isolare un unico aspetto, quello cioè relativo al sapere di cui dispone Giobbe. Questi non sa niente, né all’inizio né alla fine della storia, dei piani divini. Ma saperne qualcosa non gli gioverebbe affatto: il punaut aut, 383, 2019, 155-172
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to che gli interessa, semmai, sarebbe conoscere qualcosa di più sul suo eventuale concorso di colpa – chiamiamolo così – in relazione alle pene che subisce. Non a caso, gli amici saccenti insistono col dire che qualcosa deve pur aver combinato. La morale che vorrei trarre dalla situazione esposta nel testo biblico è la seguente: conoscere gli stati del mondo, se a essere in questione è la correttezza del proprio comportamento al fine di sapere se esso giustifichi o meno una punizione, non è pertinente. Avremmo qui insomma una confusione di livelli, o di universi del discorso. Nel primo vale la domanda: che cosa c’è? Nel secondo ne vale un’altra: è giusto o sbagliato quello che ho fatto? Si tratta di universi che possono benissimo coesistere uno accanto all’altro, senza incontrarsi – come non si incontrano, di fatto, i punti di vista di Giobbe e quello del suo dio. E il discorso può essere esteso anche alla relazione che intercorre tra altri universi di discorso. La domanda su che cosa c’è può benissimo essere posta anche senza dover per forza chiedersi: e come faccio a sapere con certezza che ci sono questa e quest’altra cosa? La riflessione sull’esperienza immediata comporta, infatti, l’introduzione di procedure che mettono in questione l’immediatezza dello sguardo rivolto al mondo. La domanda che chiede come si faccia ad avere certezze di qualche tipo sposta non di poco la prospettiva, in quanto tutto dipende dalla posizione occupata dall’osservatore che interroga le procedure impiegate per stabilire che cosa c’è. Per esempio: un conto è essere un dio, e dire: “Io so esattamente come stanno le cose perché ero presente al momento della creazione di quel mondo che io stesso ho appunto creato”; tutt’altro conto è costruire modelli plausibili degli stati del mondo pregressi a partire da segni, tracce e simili, al fine di ricostruire per via congetturale l’origine dell’universo, come fanno gli attuali astrofisici, che non possono certo dar credito alla storia biblica della creazione. Insomma, è bene aver presente il fatto che sussistono nette distinzioni tra ambiti del discorso, ciascuno dei quali gode di una autonomia che lo rende potenzialmente impermeabile a quelli con i quali confina, e che mescolarli non porta di solito a buoni 156
risultati. Ma non solo: per vedere la distinzione tra questi ambiti, ci vuole un osservatore che osservi le osservazioni compiute in ciascuno di essi. Tradizionalmente, a ricoprire il ruolo di quest’ultimo osservatore è stata la filosofia. Il soggetto trascendentale si guardava bene dal mettere il naso in faccende che non lo riguardavano, e lasciava che a dire la verità su come stanno le cose fossero quei saperi che si erano assunti il compito di spiegare o di descrivere (a volte ipotizzando che descrivere fosse un modo per spiegare) la natura dei processi che portano cose, eventi o situazioni in cui sono coinvolti anche agenti umani a essere ciò che sono – a diventare, più precisamente, oggetti di osservazione. Tale soggetto trascendentale si limitava a gestire il traffico all’interno dell’enciclopedia. Un compito rischioso, però, che spesso sfociava in pretese non fondate. Il soggetto trascendentale husserliano, come rileva Blumenberg, sembra infatti avere molti tratti che lo accomunano al dio dei teologi.1 È sì un soggetto che riconosce di essere uguale agli altri, 2 che riconosce cioè che la sua funzione di ordinatore del sapere non può garantirgli alcun privilegio, ma è anche un soggetto che cancella le tracce empiriche che ha lasciato dietro di sé nel percorso che ha compiuto dalla sfera intersoggettiva da cui è sorto (in fondo la filosofia è una pratica discorsiva tra altre) a quella sfera finzionale che viene isolata dalla nozione di trascendentale. Se fosse coerente con i presupposti che ha deciso, preliminarmente, di assumere allo scopo di definire il proprio ruolo, il soggetto trascendentale dovrebbe lasciarsi naturalizzare, dovrebbe farsi inglobare senza esitazioni da quell’orizzonte più vasto che serve a comprendere concettualmente la genesi di tutti i 1. Cfr. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, a cura di M. Sommer, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2006, pp. 9-469. 2. Per Husserl è chiaro che vi è una “differenza tra la soggettività empirica e la soggettività trascendentale”; ma è altrettanto vero, seppur di difficile comprensione (unverständlich), che tra le due vi è identità: “Io, in quanto io trascendentale, ‘costituisco’ il mondo e, d’altra parte, in quanto anima, resto un io umano nel mondo. […] L’io di Fichte, che pone se stesso, può essere un io diverso da quello di Fichte?” (E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la filosofia trascendentale [1936], trad. di E. Filippini, il Saggiatore, Milano 1983, p. 226).
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Contributi
Dialettica della vacuità EMANUELA MAGNO
Di una cosa, in verità, non dovrebbe dirsi che è vuota, non vuota, vuota e non vuota, né vuota né non vuota… Nāgārjuna Mūlamadhyamakakārikā, XXIII, 11
Premessa Al nome di Nāgārjuna è indissolubilmente legato l’insegnamento della “vacuità” (śūnyatā), insegnamento che, inscrivendosi nel solco della parola originaria del Buddha, ribadisce e radicalizza, come si vedrà, l’affermazione dell’insostanzialità intrinseca delle cose del mondo e dell’“io” stesso che se le rappresenta e se ne “appropria”. Non si tratta di una visione nichilista o scettica, ma di una prospettiva che, per via critica e abolitiva, riconsegna alle leggi dell’interdipendenza, della relazionalità e del divenire tutto quanto il pensiero reificante pretende di definire nella forma dell’“essere”. Grande è stata l’influenza che l’opera nāgārjuniana1 ha avuto nella definizione degli argomenti teorici precipui del buddhismo Mahāyāna,2 nonché sul dibattito speculativo indiano intra ed extra-buddhista dei primi secoli della nostra era. Altrettanto granEmanuela Magno è assegnista di ricerca presso l’Università di Padova, dove collabora con le cattedre di Estetica e di Sanscrito. 1. I due fondamentali testi dialettici di Nāgārjuna, Mūlamadhyamakakārikā e Vigrahavyāvartanī , saranno d’ora in poi abbreviati rispettivamente in MK e VV; Nāgārjuna, Mū lamadhyamakakā rikā , in J.W. De Jong, C. Lindtner (a cura di), Nā gā rjuna’s Mūlamadhyamakakārikā Prajñā Nāma, Adyar Library and Research Centre, Chennai 2004; Nāgārjuna, Vigrahavyāvartanī , in K. Bhattacharya, E.H. Johnston, A. Kunst (a cura di), The Dialectical Method of Nāgārjuna, Motilal Banarsidass, Delhi 1978. Per una bibliografia critica esaustiva sull’autore rimando a E. Magno, Nāgārjuna. Logica, dialettica e soteriologia, Mimesis, Milano-Udine 2012. 2. L’opera nāgā rjuniana fornisce all’impianto teorico del nascente buddhismo Mahāyāna una struttura solida e imponente che, da una parte, ricongiunge la nuova prospettiva del Grande Veicolo alla matrice degli insegnamenti, al buddhavacana (la parola del Buddha), dall’altra, riformula la dottrina del “non sé” in una visione tanto originale quanto radicale e paradossale.
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de, se non enorme, l’influenza che la scuola di cui fu ispiratore, il Madhyamaka, ebbe sugli sviluppi del buddhismo in Tibet, in Cina e in Giappone. I testi di questo dottore buddhista sono infine approdati presso i lidi occidentali a partire dai primi decenni del Novecento, raccogliendo un interesse sempre maggiore, e non solo all’interno del milieu buddhologico. Gli studiosi del pensiero nāgārjuniano si sono infatti imbattuti in un’opera quanto mai complessa, articolata, teoreticamente raffinata la cui ermeneutica ha dovuto misurarsi con implicazioni filosofiche poderose, inedite e spaesanti. Da una parte, considerata nel suo contesto d’origine, si tratta di un’opera polemica che mette radicalmente in discussione la dogmatica buddhista di matrice scolastica e che riformula gli assunti dottrinali del Dharma3 attraverso un’inusitata prospettiva decostruttiva; dall’altra, esaminata nell’attualità del suo portato investigativo e critico, l’opera di Nāgārjuna continua a sfidare, oggi, ogni riflessione che si misuri con i postulati e i corollari implicati da qualsivoglia ontologia e, conseguentemente, con l’impresa della definizione del rapporto tra il pensiero, il linguaggio e la realtà. Il metodo nāgārjuniano è stato definito “dialettico”, dialettica è stata chiamata la procedura argomentativa utilizzata per “disintegrare” specifiche tesi di scuola. Ma di cosa si tratta? Quali le ragioni di uno svolgimento critico tanto radicale e oppositivo? E in che senso possiamo definirlo “dialettico”? La questione evidentemente non può che complicarsi attraverso ulteriori interrogativi, che si pongono a monte del tema che ci si accinge ad affrontare: quante “dialettiche” attraversano la storia della filosofia occidentale? Con quanti e quali significati specifici? A quale “dialettica” ci riferiamo, e quanto “legittimamente”, nell’impiegare questo macro-concetto per l’opera di un pensatore indiano vissuto quasi due millenni fa? Sono proprio queste ultime domande a imporsi come sfondo preliminare del nostro percorso. Tuttavia, la loro soluzione non 3. Termine che definisce propriamente l’insegnamento del Buddha (buddhadharma), tradotto con Legge, Dottrina o Insegnamento.
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intende esserne la destinazione. Si tratta di domande che definiscono una cornice, che delimitano un orizzonte di “appartenenza”, ma che già indicano, nel darsi, la possibilità di un altrove, di uno spostamento e uno spaesamento, vale a dire la possibilità di ripensare l’orizzonte di senso del dialettico attraverso un attrito, una frizione, un’“alter-azione” in grado di produrre, appunto, una dislocazione concettuale, un dis-orientamento delle ordinarie categorie rappresentative e descrittive. Quanto tenterò di mostrare qui, dunque, è come il metodo critico-decostruttivo nāgārjuniano, nell’aderire e nel simultaneo sottrarsi ai principali significati della dialettica consegnatici dalla tradizione occidentale, ci costringa a riaprire le sue definizioni, a rimetterle in gioco. La cornice “dialettica” Nella storia della filosofia occidentale la costellazione semantica sollecitata dal “dialettico” è stata tendenzialmente declinata nelle tre principali sfere del discorso, del pensiero e del reale.4 La ricognizione dei luoghi più rappresentativi della definizione, dell’azione e della funzione della dialettica,5 infatti, ci ricorda che essa nasce e si sviluppa, innanzitutto, come arte dialogica, come complesso delle regole dell’argomentazione e, insieme, come metodo della discussione. Ma dialettica è anche, con Platone, la regola e il metodo del filosofare, del procedere del pensiero verso la verità; dialettica sarà inoltre, inversamente, la kantiana “logica dell’apparenza”, l’avanzare della ragione oltre l’uso legittimo dell’intelletto, verso la parvenza della verità; con Hegel la dialettica diventa legge strutturale del pensare e dell’essere, dialettica “oggettiva”, dispiegamento logico e reale dell’Assoluto. Dialettica la realtà sociale di Marx, luogo di antagonismi e rovesciamenti storici, e dialettico il pensiero critico 4. Seguiamo lo schema proposto da M. Sacchetto, Dialettica, La Nuova Italia, Firenze 1998. 5. Per una panoramica articolata sulla questione, cfr. A. Burgio (a cura di), Dialettica. Tradizioni, problemi, sviluppi, Quodlibet, Macerata 2007; di indubbia utilità per la ricostruzione storico-filosofica del tema resta il volume di L. Sichirollo, Dialettica, Editori Riuniti, Roma 20033. Si veda anche E. Berti, Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni, L’Epos, Palermo 1987; e Id., Analitica e dialettica nel pensiero antico, Esi, Napoli 1989.
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