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382 giugno 2019

Sade, Masoch. Due etiche dell’immanenza a cura di Federico Leoni

Premessa 3 Tommaso Tuppini I due vortici. Sade con Bataille 6 Giovanni Bottiroli Sade e il desiderio di essere 23 Felice Cimatti Etica? Immanenza? 39 Gianluca Solla Carmelo Bene o dell’immanenza dei corpi 55 Federico Leoni Singolarità, perversione, immanenza 70 Silvia Vizzardelli Erotismo della morte o ciclo di isteresi. La perversione tra Barthes e Deleuze 91 Carmelo Colangelo Masochismo plurale. Il servo, l’oggetto, la voce 106 Riccardo Panattoni Disconoscimento sur place 124 Andrea Muni Masoch oltre Nietzsche. Seduzione, autoaggressione e ordalia del filosofo critico 138

DISCUSSIONI Antonello Sciacchitano Il soggetto supposto intelligente Sergio Benvenuto Il mistero della passe

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Premessa

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a posta in gioco di questo fascicolo di “aut aut” potrebbe essere formulata con una domanda piuttosto semplice. Perché mai una stagione tanto rilevante del pensiero francese novecentesco ha trovato in Sade e Masoch due stelle polari? Mi riferisco alla stagione dei Bataille, dei Klossowski, dei Lacan, dei Deleuze, dei Foucault, dei Derrida, dei Barthes, dei Sollers. Perché mai rivolgersi a due figure tanto eccentriche al canone della filosofia, e tanto eccentriche anche rispetto al canone dell’antropologia occidentale, chiamiamolo così, che la psichiatria e la psicoanalisi le hanno ritenute degne di dare il loro nome a un quadro psicopatologico specifico? Perché, in senso ancora più generale, la perversione e l’insieme delle perversioni, al plurale, si è, a un certo punto, imposto alla filosofia come una questione ineludibile, forse come l’unica questione? Una prima precisazione. Tutti gli autori francesi citati si imbattono in Sade e in Masoch ogni volta che riflettono sull’etica, sulla struttura del soggetto, sul modo in cui un soggetto si soggettiva, sul mondo in cui quel soggetto si soggettiva. Ma Sade e Masoch non sono ciò a cui essi si oppongono. Non valgono come un antimodello. Al contrario, Sade e Masoch indicano sempre la dimensione in cui muoversi. È nel solco di Sade che alcuni di loro pensano. O nel solco di Masoch, nel caso di altri. Seconda precisazione. Il binomio Sade/Masoch, utile a ricostruire una costellazione, a rintracciare una sorta di canone, reg3


ge però fino a un certo punto. Regge fino al punto in cui ci si arrende all’evidenza che Bataille o Deleuze o Lacan non hanno semplicemente riflettuto sulla perversione o sul sadomasochismo. Hanno esercitato un’opzione ben precisa. Hanno individuato il loro oggetto, forse la loro stella, in Sade oppure in Masoch, mai in entrambi, mai in un elemento eventualmente comune. Su tutti, Lacan e Deleuze hanno insistito nel disfare quel nodo altrimenti tanto stretto. Terza precisazione. Tra Bataille e Lacan, tra Klossowski e Deleuze, per fare solo qualche esempio, si tratta probabilmente di due pensieri dell’immanenza non del tutto sovrapponibili, di due immanenze di segno piuttosto differente. Per questo le simpatie si polarizzano, ora verso Sade, ora verso Masoch. Si dovrebbe parlare di una linea sadiana e di una linea masochiana, di una linea dell’immanenza sadiana come quella di Bataille, per esempio, e di una linea dell’immanenza masochiana, come quella di Deleuze. È quanto mostreranno in modo dettagliato i testi qui raccolti, che proprio per questo motivo dovevano affrontare la questione da tanti punti di vista, moltiplicando i distinguo, soffermandosi su svariate sfaccettature. Limitiamoci per ora a dire che la via di Sade suppone che l’immanenza sia qualcosa. Sembra una sentenza abbastanza oscura, ma basta pensare a ciò che Sade mette in scena costantemente, ed ecco che la questione viene in chiaro. Per Sade quel qualcosa è la natura, la sua materia sorda, l’insieme delle sue leggi implacabili, la sua logica ferrea incessantemente convocata in estenuanti dimostrazioni. Il che è quanto dire: Sade è a distanza. La natura è una meta, va raggiunta. La materia è sempre a venire. Ostacoli di ogni genere vanno rimossi dal cammino. La distruzione dei corpi e delle anime è necessaria a travolgere quelle forme che impediscono all’informe di manifestarsi senza mezze misure. Ma la natura è l’informe? La materia è necessariamente materia macellata? L’immanenza è l’orizzonte, per Sade, ma un orizzonte lontano. Viceversa, Masoch è un cultore dell’artificio, un appassionato legiferatore, un instancabile bricoleur di forme di vita. Non tan4


to nel senso che gioca l’artificio contro la natura, ma nel senso che vede bene che anche la natura è un artificio tra altri artifici. Dunque la sua etica sarebbe l’etica di un’invenzione dell’immanenza piuttosto che di un’attuazione dell’immanenza, la sua etica consisterebbe nell’inventare immanenze molteplici nella misura in cui l’immanenza non è che le sue costruzioni, le sue congetture. L’immanenza non è qualcosa, per Masoch. Non va raggiunta. Ci siamo già, e ci siamo nel modo dell’invenzione, della creazione. È un’invenzione, una creazione che si serve brevemente degli strumenti che trova sul terreno, dà vita ad accordi che non mirano a fare sistema, si affida a negoziazioni che non smettono di lasciarsi attraversare dalle forze che sembrano imbrigliare. L’eroe di Masoch procede per piccole differenze, non progetta ma organizza, non comanda ma governa, non seduce ma si concede, non afferma ma suggerisce. Piega, inflette, accompagna, mai da fuori ma sempre da dentro. L’immanenza non è un orizzonte, per lui, ma una superficie. Una superficie assoluta, senza confine, senza alterità, senza rovescio. [F.L.]

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I due vortici. Sade con Bataille TOMMASO TUPPINI

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l confronto di Bataille con Sade è delimitato grossomodo da due saggi: Le valeur d’usage de D.A.F. de Sade – scritto nel 1932, forse 1933, pubblicato postumo1 – e Il segreto di Sade pubblicato nel 1947 su “Critique”, poi nel 1957 tra gli interventi di La letteratura e il male.2 L’occasione del primo saggio è l’aspra polemica che contrappose Bataille ai Surrealisti (sono gli anni della sua militanza nei gruppi francesi della sinistra extraparlamentare, che durò fino al 1935). Bataille mette qui a punto per la prima volta la nozione di “eterologia”, la scienza del “tutt’altro”. L’altro saggio viene scritto durante e dopo il secondo conflitto mondiale, quando Bataille sembrerebbe allontanarsi dall’impegno politico e fare di Sade una questione estetica.3 Nel Valeur d’usage Bataille se la prende con Breton e i suoi seguaci. Per loro “la vita e l’opera di D.A.F. de Sade non avrebbero dunque altro valore d’uso che il valore d’uso plebeo degli escrementi, nei quali il più delle volte si ama soltanto il piacere rapido

Tommaso Tuppini insegna Filosofia teoretica all’Università di Verona. 1. G. Bataille, “Le valeur d’usage de D.A.F. de Sade”, in Œuvres completes, Gallimard, Paris 1970, vol. II, pp. 54-69. 2. Id., “Sade”, in Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1979, vol. IX, pp. 239-258. 3. Cfr. J.-M. Heimonet, Recoil in Order to Leap Forward: Two Values of Sade in Bataille’s Text, “Yale French Studies – On Bataille”, 78, 1990, pp. 227-228. Questa è la ricostruzione standard che gli studiosi hanno fatto del confronto di Bataille con Sade: dall’uso politico degli anni trenta all’interesse prevalentemente letterario del dopoguerra.

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(e violento) di evacuarli per non vederli più”.4 I Surrealisti guardano a Sade come i popoli primitivi al loro re, “che adorano esecrandolo e che coprono di onori paralizzandolo strettamente”.5 Evacuare Sade e metterlo su un piedistallo poetico sono la stessa cosa. I Surrealisti sono “i letterati”6 convinti che “il valore folgorante e soffocante che [Sade] ha voluto dare all’esistenza umana è inconcepibile fuori della finzione”.7 I Surrealisti mostrano di non conoscere l’enigma di Sade, che Bataille propone in questi termini: com’è possibile che egli – come dice in una lettera – abbia pianto “lacrime di sangue” per la perdita del manoscritto delle Centoventi giornate di Sodoma e nel testamento, invece, si sia augurato la distruzione della propria sepoltura, l’oblio per sé e la sua opera? Il ricordo e il libro da una parte, la solitudine e l’autodistruzione dall’altra: tra le due scelte “c’è la stessa distanza che separa la freccia dal bersaglio”.8 I Surrealisti superano la contraddizione di Sade con una sintesi letteraria, adorano ed esecrano con lo stesso gesto. Invece la contraddizione va mantenuta. Sade è la combinazione di atteggiamenti inconciliabili: la commozione fatta di rosse lacrime e la virginale indifferenza che tiene il mondo in gran dispitto, Juliette e Justine. La rivoluzione e il volumen. La società omogenea La “società omogenea”9 dentro cui viviamo è fatta della sintesi del bisogno e dell’oggetto che lo soddisfa. La società omogenea – “istituzioni politiche, giuridiche e commerciali”10 – è una strategia di adaequatio tra l’uomo e le circostanze, tra i gruppi umani e l’ambiente: le scuole e le fabbriche soddisfano i bisogni feriali, l’arte e la letteratura quelli domenicali. Bataille chiama “appropriazione” questa sintesi, ovvero l’“equilibrio statico” tra “l’autore dell’appro4. G. Bataille, “Le valeur d’usage de D.A.F. de Sade”, cit., p. 56. 5. Ibidem. 6. Ibidem. 7. Ivi, p. 57. 8. G. Bataille, “Sade”, cit., p. 244. 9. Id., “La structure psychologique du fascisme”, in Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1970, vol. I, pp. 339-341. 10. Id., “Le valeur d’usage de D.A.F. de Sade”, cit., p. 58.

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priazione e gli oggetti”,11 una “omogeneità generale, come quella che l’architetto stabilisce fra la città e i suoi abitanti”.12 Due persone si danno appuntamento e chiacchierano. Il botta e risposta, le attese, il consenso, il dissenso, gli attestati di stima: tutto contribuisce al carattere omogeneo dell’incontro e al suo buon funzionamento. Stringere le mani, annuire, visitare o farsi visitare, inseguire o farsi inseguire, indebitarsi o riscuotere, ascoltare, giustificarsi, aspettare, darsi ragione, darsi torto: “Il rispetto che gli uomini si scambiano li immette in un circuito di servitù in cui si danno soltanto momenti subordinati”.13 Il bambino – poco pratico della vita – si chiede a che servono questi gesti concitati. Quando, diventato adulto, lo capisce – sono i rituali del riconoscimento reciproco e servono alla conservazione di una società –, sente tutta “la noia senile e l’inconcepibile vuoto dentro il quale sappiamo di parlare”.14 Gli adulti cominciano ad angosciarsi e a chiedersi se c’è una via d’uscita. Sade è una specie di solvente della società omogenea e delle sue istituzioni. Egli sloga l’articolazione della società. Sospende la sintesi appropriativa del bisogno. Fa esperienza del “ganz Anderes”,15 il “tutt’altro” dalla società omogenea: il passato che essa sembra aver dimenticato ma che in realtà torna a farsi valere nei momenti di crisi e di trasformazione. Escrezione Se nella società omogenea c’è appropriazione, allora c’è anche il déchet, lo “scarto”.16 Lo scarto è ciò che rimane quando la società omogena si è spartita l’esistenza. Lo scarto è ciò che non si lascia né assimilare né evacuare. Lo scarto è lì a mostrare che “l’essere è qualcosa di più della semplice presenza”.17 I libri di Sade ci 11. Ivi, pp. 59-60. 12. Ivi, p. 60. 13. G. Bataille, “Histoire de l’erotisme”, in Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1976, vol. VIII, p. 153. 14. Id., “Cet enoncé étant terminé…”, in Œuvres complètes, cit., vol. II, p. 81. 15. Id., “Le valeur d’usage de D.A.F. de Sade”, cit., p. 58. 16. Ivi, p. 61. 17. G. Bataille, “L’Homme suverain de Sade”, in Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1987, vol. X, p. 172.

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Sade e il desiderio di essere GIOVANNI BOTTIROLI

1. Bergson avec Sade. Le tesi dell’energetismo Il sadismo, nella sua accezione filosofica, così come viene formulato negli scritti di Sade, è una versione dell’energetismo. Con questo termine vorrei indicare una posizione, una possibilità, che non ha un solo rappresentante ma che trova probabilmente in Bergson, e nella linea Bergson-Deleuze, la sua espressione più coerente. Tuttavia, mettere in rilievo un’affinità non marginale tra l’energetismo perverso di Sade e quello metafisico di Bergson non giustifica un’equivalenza affrettata: non si dovrebbero sminuire i punti di divergenza. Non è mia intenzione, dunque, affermare la perversione come l’orizzonte che ospita e racchiude per intero l’energetismo. In prima istanza, vorrei piuttosto prendere le distanze dalla solidarietà che Lacan ha creduto di scorgere tra Sade e Kant, e proporre un punto di vista che ritengo più fecondo; e anche più fondato, benché non sia possibile in questa sede riesaminare le somiglianze sottilmente valorizzate da Lacan. Per giustificare il mio punto di vista, è indispensabile tentare una definizione di quelle che sembrano essere le tesi fondamentali dell’energetismo: 1. L’energetismo è una filosofia dell ’Uno, dell’assoluto, o dell’irrelato. Afferma la potenza della vita, forse la sua onnipotenza. E la vita è dinamismo, movimento, slancio, energia. La vita, come vedremo meglio in seguito, è l’anti-separativo.

Giovanni Bottiroli insegna Teoria della letteratura ed Estetica all’Università di Bergamo.

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2. L’Uno è l’indiviso, il necessariamente indiviso. Più semplice di tutto ciò che è semplice, più “uno” di qualsiasi unità. Pertanto, l’energetismo tenderà a svalutare ogni tipo di relazione, a eccezione di quelle che si autodissolvono, paragonabili ai tagli inferti da un coltello sulla superficie dell’acqua. E se ogni relazione implica un “non” in quanto distingue tra termini ciascuno dei quali non è l’altro, e se il “non” è negazione, per l’energetismo non esiste negazione che possa dividere l’indiviso. 3. Ciò significa che l’energetismo nega la relazione tra l’Uno e i molti, in nome di una compattezza che sarebbe anche irreversibile staticità? No, esso afferma la relazione con i molti, ma la pensa come una “non-relazione”. In una prospettiva di radicale immanenza, l’Uno si moltiplica senza mai uscire da se stesso: non si aliena, non si separa da sé e non si moltiplica né si fraziona assumendo la maniera d’essere del separativo (quell’esteriorità mereologica, che Bergson chiama partes extra partes). 4. La forma logica dell’energetismo è la coincidentia oppositorum, cioè l’unità immediata tra l’Uno e i molti (e tra tutte le coppie oppositive che ne costituiscono una variazione). Non si insisterà mai abbastanza sulla nozione di “immediatezza”, se si vuole comprendere questa posizione filosofica. Cerchiamo di chiarirne meglio lo statuto. La coincidentia oppositorum non afferma la sintesi tra tutti gli opposti (e non viola, né supera, il principio di non contraddizione): più precisamente, indica una sintesi tra contrari, e però radicalmente diversa da quella hegeliana, che infatti non è immediata. In ogni concezione dialettica l’Uno non è mai abbastanza Uno, in quanto deriva dal superamento di una negazione – superamento che è Aufhebung, e che dunque conserva il negativo: di qui il dissenso degli energetisti, e la loro incessante battaglia contro la dialettica. L’immediatezza redime dalla negazione, in tutte le coppie oppositive affermate dall’energetismo. 5. Il postulato etico dell’energetismo suona così: tutto è bene. Si potrebbe obiettare che, in base al principio di coincidenza dei contrari, questa tesi è immediatamente solidale con quella opposta: “Tutto è male”. A un esame più attento, però, il male non risulterà essere un opposto del bene – se non dal punto di vista 24


empirico, limitato. Il principio di coincidentia oppositorum esclude la parità del metafisico e dell’empirico. L’empirico è sottomesso al metafisico: ma per comprenderlo occorre assumere il punto di vista della metafisica. Questa disparità, o differenza, verrà interpretata esplicitamente come sottomissione nell’universo sadiano: ma, riconosciuta o meno che sia, governa tutte le concezioni energetiste. Il rapporto è sottomesso al senza-rapporto, la negazione all’assenza di negazione, e così via. 6. La prospettiva modale dell’energetismo è quella della necessità. Il che porta a valorizzare inesorabilità e concentrazione (tutte le differenze, tutti gli atti possono venire concentrati in un punto di pienezza, o di estasi). Può darsi che questa presentazione venga giudicata incompleta dai rappresentanti dell’energetismo. Per quanto mi riguarda, tuttavia, a non essere stati portati in piena evidenza non sono i principi di una filosofia dell’indiviso, bensì i suoi dogmi impliciti: (a) La tipologia degli opposti contempla soltanto due relazioni fondamentali, i contraddittori e i contrari. La coincidentia oppositorum si riferisce agli opposti nella realtà, e non a contraddizioni logiche. Dunque, per l’energetismo gli opposti (intesi come i contrari, come la relazione oppositiva eminente) sono sempre sintetizzabili; (b) Il “non” (la negazione, comunque venga intesa) indica sempre una mancanza. Vale la pena di precisare sin d’ora che l’energetismo ignora il “non” della non-coincidenza di un ente con se stesso: una possibilità logica e ontologica che trova la sua autentica dimensione soltanto nei correlativi, e grazie a essi. I correlativi sono opposti non-sintetizzabili. Non ci si lasci ingannare da quella che è in effetti una somiglianza, e cioè dal carattere anti-separativo di questa relazione, che sembra avvicinarla alla coincidentia oppositorum. A ben vedere queste due posizioni sono radicalmente in contrasto, l’una afferma una sintesi immediata (la più sintetica delle sintesi), l’altra la non-sintesi (e la fecondità degli antagonismi). I correlativi si ispirano al principio di non-coincidenza. 25


Immanenza? Etica? FELICE CIMATTI

Alla fin fine, etologia è un anagramma di teologia.1

P

rovare a immaginare un’etica dell’immanenza sembra porre una sfida, prima ancora che filosofica, logica. In effetti qualunque etica implica un principio o una norma, e qualcuno che esplicitamente e volontariamente prenda posizione rispetto a quella norma: l’etica, scrive Moore, riguarda “what is good”.2 Più specificamente, “Ethics is undoubtedly concerned with the question what good conduct is”.3 Una condotta può essere buona solo se avrebbe potuto anche essere cattiva. Quindi non c’è etica senza qualcuno – tipicamente, un soggetto – in grado di scegliere. Il soggetto è, per definizione, qualcuno libero di scegliere. Tuttavia il mondo fisico non è retto dalla libertà, bensì da connessioni causali. Il soggetto, allora, può essere un soggetto solo a patto di non essere – in quanto soggetto – un’entità come le altre entità fisiche del mondo. Non c’è etica senza questo dualismo. Al contrario, immanenza significa che non c’è nessun dualismo, che l’ontologia è piatta, in particolare non ci sono né soggetti né norme. Il soggetto, infatti, è un soggetto solo a condizione di essere qualcos’altro rispetto al mondo. Il soggetto, qualunque sia la Felice Cimatti insegna Filosofia del linguaggio e Filosofia italiana contemporanea all’Università della Calabria. 1. A. de Swaan, Reparto assassini. La mentalità dell’omicidio di massa (2014), trad. di P. Arlorio, Einaudi, Torino 2015 p. 75. 2. G. Moore, Principia ethica, Cambridge University Press, Cambridge 1903, p. 2. 3. Ibidem.

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sua caratterizzazione, è trascendente rispetto al mondo. Ma allora, questo è il nocciolo del problema, un’etica dell’immanenza è impossibile per definizione. Sembrerebbe che o c’è l’etica, e quindi soggetto e norma, oppure c’è l’immanenza, senza soggetto e norme. Etica implica trascendenza. Cos’è allora un’etica dell’immanenza? Tuttavia, come proveremo ad argomentare, “immanenza” non è propriamente un sinonimo di “mondo”. In realtà “immanenza” significa piuttosto il collasso del dualismo fra soggetto e mondo. Ma perché il soggetto, in qualunque accezione, “sporge”, e non può non sporgere, rispetto al piano del mondo? La formulazione più chiara, e conseguente, di questo radicale dualismo la si trova, probabilmente, nella Critica della ragion pratica. Il punto di partenza, evidente ma anche indimostrabile, è il Factum dell’“autonomia del principio fondamentale della moralità, per mezzo del quale essa determina la volontà dell’azione”.4 Ci può essere moralità, solo se questa radicale e assiomatica “autonomia […] determina la volontà dell’azione”. Qui “azione” va intesa come termine tecnico: un comportamento è un’azione se alla sua base c’è questa fondamentale “autonomia”. Questa non è una descrizione di che cosa è un’azione morale: è la sua definizione. Non si tratta di capire se qualcosa del genere esista realmente nel mondo; il punto è che senza azione in questo senso preciso, non può esserci moralità.5 Vediamo in che consiste, per Kant, questo “principio fondamentale della moralità”: Tale fatto è inscindibilmente connesso con la coscienza della libertà della volontà, anzi fa tutt’uno con essa; e per ciò la volontà di un essere razionale che, in quanto fa parte del mondo 4. I. Kant, Critica della ragion pratica (1797), in Critica della ragion pratica e altri scritti morali, a cura di P. Chiodi, UTET, Torino 1995, p. 180. 5. Da questo punto di vista tutto il gran discutere di “naturalizzazione” dell’etica non cambia i termini della questione posta da Kant; cfr. F. de Waal, Good Natured: The Origins of Right and Wrong in Humans and Other Animals, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1996; M. Hauser, Moral Minds: How Nature Designed Our Universal Sense of Right and Wrong, Little, Brown, New York 2006. O la morale umana a un certo punto si emancipa dalle sue basi biologiche, oppure non si può parlare di morale umana.

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sensibile, si riconosce, al pari delle altre cause efficienti, sottoposto alle leggi della causalità, ha nel pratico, nello stesso tempo ma da un altro lato, cioè come essere in sé, coscienza della sua esistenza come tale da poter essere determinata da un ordine intelligibile delle cose, non, in verità, mediante un’intuizione particolare di sé stessa, ma secondo leggi dinamiche che ne possono determinare la causalità nel mondo sensibile; […] la libertà, se ci è attribuita, ci trasporta in un ordine intelligibile delle cose.6 La “libertà” non è una constatazione empirica; al contrario, la libertà è il fatto della moralità, ossia l’assioma (per definizione indimostrabile) della moralità. Ma se c’è la libertà ne segue che l’agente morale, qualunque sia la sua realizzazione materiale, si colloca al di fuori del mondo sensibile, cioè del mondo delle cause, ossia del mondo senza morale. La morale non è, quanto ai suoi presupposti, cosa naturale: “Al contrario, la legge morale, benché non ne dia alcuna veduta, ci pone di fronte a un fatto assolutamente inspiegabile mediante i dati del mondo sensibile e l’intero ambito dell’uso teoretico della nostra ragione, un fatto che annuncia un mondo dell’intelletto puro, anzi lo determina anche positivamente e ce ne fa conoscere qualcosa, cioè una legge”.7 Il fatto della morale è “assolutamente inspiegabile”, tuttavia non cessa di essere un fatto, cioè un assioma. La morale, in fondo, non è altro che questo assioma, tutto il resto ne segue. Accettare questo fatto comporta, e così arriviamo all’insormontabile problema del dualismo, che il mondo morale è radicalmente diverso dal mondo naturale. In questo senso l’etica è radicalmente innaturale: Questa legge deve dare al mondo dei sensi in quanto natura sensibile (per quanto concerne gli esseri razionali) la forma di un mondo dell’intelletto, cioè di una natura soprasensibile, senza tuttavia sconvolgerne il meccanismo. Ora la natura nel 6. I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 180. 7. Ivi, p. 181.

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Carmelo Bene o dell’immanenza dei corpi GIANLUCA SOLLA

1.

Che cos’è realmente perverso? Pierre Klossowski dedica le battute iniziali di Le philosophe scélérat alla scrittura in Sade. In particolare le dedica all’antinomia tra il linguaggio, il cui valore è sempre universale – è sempre una “generalità” –, e la singolarità della scrittura con cui di volta in volta, scrivendo, Sade prova a stabilire una “contro-generalità”.1 La scrittura non può pertanto che essere attraversata da questa tensione tra l’assoluta singolarità del suo momento e l’universalità del suo linguaggio con cui si trova comunque a operare, ma che continuamente non può che essere ribaltato e sovvertito nelle sue intenzioni. Questo vale anche per quella particolare scrittura delle vite che sono le pratiche. Rispetto al condizionamento normativo implicito nella valenza universale del linguaggio “logicamente strutturato della tradizione classica”,2 la sola forma di emancipazione per la specie umana si può realizzare valorizzando “la specificità delle perversioni”. Non è tanto l’idea della perversione – ed eventualmente la sua pratica – a costituire un contro-bilanciamento o un’alternativa. Questa va cercata piuttosto nella “specificità” che con risolutezza tanto Sade quanto Klossowski rivendicano. A essere dirompente è “il caso singolare delle perversioni”, Gianluca Solla insegna Filosofia teoretica all’Università di Verona. 1. Pierre Klossowski, Sade mon prochain, preceduto da Le philosophe scélérat, Seuil, Paris 1967, p. 19. 2. Ivi, p. 18.

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che rispetto alla generalità normativa del linguaggio si definisce “per una assenza di struttura logica”. Essere perversi vuol dire sovvertire la logica, ma sovvertire la logica vuol dire potenziare e sfruttare la singolarità dei casi contro la generalità della norma. Il singolare sarebbe, da questo punto di vista, sempre eccessivo. La mostruosità sadiana, potremmo dire, non ha altro contenuto che questa assoluta specificità in cui, caso per caso, volta per volta, corpo per corpo, qualcosa della perversione può aver luogo. In quanto irriducibile all’universalismo che fa del linguaggio una norma cogente, la perversione consiste in questo gusto – in questa attrazione vertiginosa e irresistibile – per la singolarità. In quanto tale, essa esclude le definizioni preconcette e l’anticipazione prescrittiva – moralizzante e giudicatrice – che fanno sempre ricorso alla generalità di una norma. Qui non è in discussione il contenuto delle norme, quanto la struttura normativa stessa, che prevede una fittizia universalità il cui correlato principale è il riferimento alla “specie umana”, qualsiasi cosa essa sia. Non è però in discussione neppure il contenuto delle perversioni, bensì unicamente l’assoluta singolarità con cui viene fatto valere, di volta in volta, ciò per cui la norma non vale, il buco cieco di ogni regola, precetto o legge. Si potrebbe proseguire interrogandosi su quanto questa “contro-generalità” non sia in fondo interna alla stessa generalità normativa e normalizzante che intende interrompere. La domanda verterebbe, in questo caso, su quanto di dialettico ci sia in questo procedimento (tanto in Sade, quanto in Klossowski). In fondo, come Sade sa e come Klossowski annota, è già l’ateismo del razionalismo a produrre un rovesciamento, estraendo dal fondo della generalità imperante una contro-generalità. La traccia che mi sembra più feconda da seguire è però un’altra: se l’universalismo è auto-contradditorio, cosa ne è di quello che Klossowski chiama “il caso singolare delle perversioni”? Come si articola una perversione il cui contenuto non è una determinata predilezione, per esempio per una pratica erotica, né tantomeno fa riferimento a un desiderio inconfessabile? Come pensare quanto ha il suo tratto propriamente perverso nella sua assoluta singolarità? Cosa ne 56


è della potenza di questa singolarità? E cosa ne è della sua possibilità di staccarsi dalla subordinazione a funzioni abituali e generali, quindi implicitamente o esplicitamente normative, che ne garantiscono, se non la vita, almeno la sopravvivenza? 2. Se la singolarità – anche quella della scrittura – è di per sé perversa, è perché è portatrice di un eccesso del corpo rispetto alla presa normativa delle istituzioni. Tuttavia tale eccesso può essere pensato in molti modi. Due di questi sono presenti in un aneddoto in cui Carmelo Bene racconta di un incontro con l’amico Klossowski. A questo aneddoto è affidata una precisazione decisiva: Una sera a cena proposi a Klossowski questa definizione del porno: “Il porno è ciò che eccede il desiderio”. Si entusiasmò: “Très beau, Carmelo”, ma suggerì una variante: “Il porno è al di là del desiderio”. Non mi piacque. Glielo dissi. C’era qualcosa di metafisico e cattolico in quella definizione. L’eccesso dell’eros è quanto si cadaverizza, quanto è disponibile a rendersi mero oggetto. Nel porno a subire sono solo due oggetti che si annullano reciprocamente. Hai presente due pietre che copulano? Rende l’idea. Si amano in quanto si disattendono (ne ho frequentate alcune, rare, nei miei letti). Nulla a che fare con la recita complice di Masoch. Nel porno non c’è complicità, non c’è partner, non c’è desiderio e non c’è vagito. Non c’è intimità né il mito della condivisione trova qui ospitalità. Non c’è altra prossimità se non quella inquietante con l’oggetto-porno del sedicente soggetto (in realtà oggetto anche lui, suo malgrado). C’è il congelamento della specie. L’ottusità del giardino d’infanzia è l’ideale del porno. Basta mantenersi recidivi. Derive patologiche come la necrofilia sono la fungaia putrescente della vita che si decompone a vista. Tutto ciò che è patologico è l’uomo. Se non lo è, chissà cos’è. (Detto altrimenti: che sarebbe di noi se non fossimo mancati? Che sarebbe di Dio se esistesse?)3 3. C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, Bompiani, Milano 1998, p. 35.

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Singolarità, perversione, immanenza FEDERICO LEONI

Il dio feticcio La perversione è obliqua, sinuosa, tortuosa. Non nega qualcosa, non afferma qualcosa. Piuttosto svia, devia, piega. Che cosa svia, che cosa piega? La sua non è una posizione ma un’operazione o un insieme di operazioni. Ma che tipo di operazioni? Se stiamo alla psicoanalisi, nevrosi e psicosi sono anzitutto posizioni, posizionamenti soggettivi. Scrive per esempio Lacan: “Il nevrotico, isterico o ossessivo, o più radicalmente paranoico, è colui che identifica la mancanza dell’altro con la sua stessa domanda”;1 viceversa: “Nella follia, quale che ne sia la natura, ci tocca riconoscere […] la libertà negativa di una parola che ha rinunciato a farsi riconoscere”.2 In altri termini, la nevrosi sta davanti a qualcosa, la psicosi non arriva a star davanti a quel qualcosa, che Lacan chiama legge, o altrove mancanza, o castrazione simbolica, o parola dell’altro. Lo stare è però decisivo in entrambi i casi, anche quando lo è nel senso dell’impossibilità di stare. L’uno la assume, quella cosa, vi sottomette la propria vita soggettiva, o piuttosto diventa un soggetto assumendola, sottomettendovisi, facendola propria. L’altro la costeggia senza incontrarla, o la incontra come un geroglifico indecifrabile, inutilizzabile. Se la nevrosi e la psicosi sono posizioni, modi di stare di fronFederico Leoni insegna Antropologia filosofica all’Università di Verona. 1. J. Lacan, “Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio” (1966), in Scritti, trad. di G. Contri, Einaudi, Torino 1976, vol. II, p. 827. 2. Id., “Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi” (1966), in Scritti, cit., vol. I, p. 273.

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te a quella mancanza, a quella legge, quelle della perversione non sono posizioni ma operazioni. La perversione si industria senza sosta, maneggia e rimaneggia i suoi materiali, fabbrica e rammenda continuamente quel qualcosa che la nevrosi incontra e assume, e la psicosi non incontra e non assume. Se per la nevrosi e per la psicosi la legge o la mancanza sono un dato, anche nel senso che sono qualcosa che è stato dato, che perciò proviene da altro o da altrove, per la perversione sono invece un fatto, anche nel senso che sono qualcosa di fabbricato, qualcosa che anzi va continuamente costruito, congegnato, architettato. O forse si dovrebbe dire: creato. Per questo la perversione è complessivamente illuminata dal feticismo, che per tanti aspetti non è che una sua provincia. Non si comprende la perversione se non si comprende la sua dimensione fabbrile. La prima interpretazione che la psicoanalisi ha avanzato intorno alla perversione è in ogni senso esemplare.3 Freud mette in scena un bambino che si imbatte nella madre nuda e non ne sopporta la visione, perché quella visione gli rivela una mancanza minacciosa. La donna è priva di pene. Potrebbe un giorno esserne privato a sua volta? Il piccolo feticista distoglie lo sguardo, lo lascia vagare lungo il corpo della madre, si ferma dove trova qualcosa che gli dà sostegno. “Come sostituto del pene che manca alla donna, si è creato un feticcio”,4 commenta Freud. Poco importa che l’insopportabile mancanza intravista nell’altro riguardi il pene, come nella prima ipotesi freudiana, o un qualsiasi altro significante fallico. L’essere non è dato, l’essere esige creazione per poter essere, è questa l’esperienza fondamentale del feticista. In fondo l’operazione della perversione è perversa soprattutto perché fabbrica ciò da cui dovrebbe provenire ogni fabbricazione, perché costruisce l’ambito stesso nel quale dovrebbe muoversi ogni creazione. Crea il presupposto. Lo fa essere après coup. 3. S. Freud, “Feticismo” (1927), in Opere, a cura di C. Musatti, Boringhieri, Torino 1967-1980, vol. X, p. 494. Per uno straordinario approfondimento dei modi in cui l’operazione feticista innerva le altre operazioni, via via più lontane, della perversione, cfr. H. Rey-Flaud, Le démenti pervers. Le refoulé et l’oublié, Aubier, Paris 2002. 4. Ibidem.

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È in questo disordine del tempo, che si annida tutta la hybris della perversione. Non solo la psicoanalisi, anche l’antropologia si sofferma da sempre sullo stravolgimento ontologico che il feticismo porta con sé. È noto che i commercianti portoghesi sbarcati nel Cinquecento sulle cose africane avevano reagito con sconcerto al culto che le popolazioni locali tributavano alle piccole, malcerte divinità che esse ricavavano dall’assemblaggio di pezzi di legno e lembi di stoffa, perline e conchiglie. “Dei facticii”, li avevano prontamente ribattezzati. Da cui il termine divenuto classico, feticci. Come potete credere, chiedevano gli europei agli africani, alla potenza di questi dei che avete appena finito di fabbricare con le vostre mani? La risposta degli africani avrebbe potuto rovesciare facilmente l’argomento europeo: come potremmo credere ai poteri di un dio che non abbiamo fabbricato con le nostre mani, come potremmo confidare in un dio già fatto?5 Il dio cadavere “Dio è morto.”6 Da Nietzsche in poi questa frase risuona senza sosta insieme all’altra constatazione nietzschiana: d’ora in poi si tratterà di fare i conti col “cadavere di Dio”.7 Un cadavere di cui il meno che si possa dire è che è ingombrante. Da un certo punto di vista, del resto, la filosofia non si è sempre collocata in quel punto in cui Dio è morto, in quel punto in cui al posto di Dio c’è piuttosto un archivio, un corpo di idee e tradizioni, una serie di materiali che bisognerà riorganizzare in un’altra verità, ricomporre in un’altra forma di esperienza? Senza dubbio è nella scia di questa eredità nietzschiana che si collocano tutti i pensatori che questo fascicolo raduna in una strana costellazione. Bataille, Klossowski, Foucault, Deleuze, Blanchot, tutti loro capiscono che davanti all’annuncio della mor5. Riformulo, a dire il vero con qualche libertà, la risposta che Bruno Latour dice gli sarebbe piaciuto sentire uscire dalla bocca degli africani in quel frangente: B. Latour, Il culto moderno dei fatticci (1996), trad. di C. Pacciolla, Meltemi, Roma 2005, pp. 46-47. 6. F. Nietzsche, La gaia scienza (1887), trad. di F. Masini, Adelphi, Milano 1997, aforisma 125. 7. Ibidem.

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Erotismo della morte o ciclo di isteresi. La perversione tra Barthes e Deleuze SILVIA VIZZARDELLI

1. Premessa: descrizioni e forme Si può vivere con Sade, si può vivere con Masoch. A cosa dobbiamo il gusto di intrattenerci con loro, di assaporarne gli universi immaginari? Non certo alla volontà di attuare nella nostra vita i dettagliati programmi sadici e orgiastici contenuti nei loro libri, frutto di una bizzarra e satanica grandeur. Per alcuni versi, neanche allo sfinente lavoro interpretativo cui filosofi, pensatori e psicoanalisti, più frequentemente di area francese, si sono dedicati, allestendo scenari speculativi di sofisticatissima officina, fatti di vertiginosi scambi di posto e ontologici capovolgimenti. Una fatica del pensiero che talvolta sembra allontanarci dall’oggetto di godimento e dalla desiderabilità di quelle volute teoriche, pur donandoci infine, per restare nel nostro tema, un piacere altro. Del resto fu proprio Jean Paulhan, autore della prefazione alla prima versione di Justine (Les infortunes de la vertu), a sottolineare che questo libro poneva una domanda tanto ardua che un secolo intero non sarebbe stato sufficiente per darvi una risposta.1 Un esempio su tutti: Kant con Sade2 di Lacan. Lo leggiamo, lo studiamo, a ogni giro di frase ci pare di capire, ma poi non riusciamo a tollerare lo sforzo di tenere insieme una lettura azzardata della seconda critica kantiana con lo stravolgimento della massima sadica riscritta a Silvia Vizzardelli insegna Estetica e Filosofia della musica all’Università della Calabria. 1. D.A.F. de Sade, Les infortunes de la vertu (1787), introduzione di J. Paulhan, Éd. du Point du Jour, Paris 1946. 2. J. Lacan, “Kant con Sade”, in Scritti (1966), vol. II, a cura di G. Contri, Einaudi, Torino 2002.

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proprio uso e consumo. Non voglio essere fraintesa: ho sofferto e tanto imparato da questo testo, come, in modi diversi, da quelli di Bataille, di Klossowski. Tutti sono decisivi, e di tutti terrò conto in queste mie brevi considerazioni, non fosse altro che per mettere a frutto il brusio, con l’annesso godimento perverso, che sento ancora ronzare nella testa. Si può vivere con Sade e Masoch a patto di sposare una prospettiva al contempo descrittiva e formale. Dopotutto, ci muoviamo in un campo tra psicoanalisi e filosofia, che è stato sempre reso instabile dalla doppia necessità di tenere insieme lo studio e l’analisi del caso, nella sua evidenza fenomenologica, con la ricerca delle componenti strutturali, “trascendentali”, la forma appunto, capace di mostrarci la possibilità di ciò che viene trattato, contro ogni nominalismo. Il rischio di descrivere comportamenti, occorrenze, figure materiali e morali della perversione, di fatto rincorrendo affannosamente nomi, è sempre alle porte. Così come è sempre dietro l’angolo il pericolo opposto, quello di un affanno formale, che rende troppo distante il riferimento all’esperienza. Occorre quindi tenere insieme il più possibile questi due versanti. Purtroppo non ci sono esempi significativi, nella storia delle interpretazioni, di questa sintesi feconda, per cui mi limiterò a individuare i maestri dei due modelli, quello descrittivo e quello formale, rimandando magari ad altro contesto, la proposta di ibridazione. Dunque, da una parte Barthes, dall’altra Deleuze. Barthes lo assumo come la via maestra di una “fenomenologia” della perversione attraverso la delibazione della letteratura sadica, col suo gusto dei dettagli materiali, e la capacità di far balenare, lungo la linea dell’invisibile, la struttura a venire; Deleuze come esempio di un antinominalismo strutturale esplicito, che mantiene sullo sfondo i casi, le evenienze, le occorrenze. Insomma, se dovessi fare un esperimento mentale, direi che la trattazione migliore della perversione, ammesso che si voglia il testo unico e non ci si accontenti di aprire e chiudere due libri entrambi imprescindibili, sarebbe quella che disvela l’implicito dei due autori. 92


2. Barthes: il viaggio senza viaggio, il vestire senza vestire, il mangiare senza mangiare Un ingresso morbido nell’edificio della perversione ce lo offrono i due saggi che Barthes dedica a Sade in Sade, Fourier, Loyola (1971). La perversione viene presentata come un “canto discontinuo di amabilità”, una pluralità di incanti “in cui nondimeno leggiamo la morte con più certezza che nell’epopea di un destino”.3 E allora si affaccia subito il tema del viaggio. Viaggiano molto i personaggi di Sade, in Europa, tra Francia e Italia, o fino in Siberia, ma è un viaggio privato della sua anima, un viaggio senza iniziazione, senza apprendistato. Le geografie delle città, delle campagne, dei giardini, anziché rappresentare luoghi di avventura, sono mappe funzionali dove nulla è da scoprire, nulla da imparare. “Le città non sono che procacciatrici, le campagne ritiri, i giardini scenari e i climi operatori di lussuria.”4 Si attraversano continenti, ma il luogo è sempre uno solo, quello chiuso, isolato, autarchico della ripetizione, dell’insistenza, dell’accanimento. Luoghi allestiti, come scene teatrali, da una sapiente e dettagliata regia che fa del quotidiano la vera utopia. “Orari, programmi di nutrizione, progetti di abbigliamento, installazioni mobiliari, precetti di conversazione o di comunicazione, tutto questo è in Sade.”5 Dunque c’è il viaggio, ma sul lato del sembiante. Occorre abituarsi a questa sfasatura dello sguardo per simpatizzare con i libertini di Sade. Lo stesso accade per l’alimentazione. Sappiamo tutto di quello che si mangia a Silling dall’alba al tramonto, entrando in un dettaglio gastronomico che fa invidia a un buon ricettario, eppure il cibo è semplicemente un segno che rinvia a un fatto di casta. Dunque anche il cibo è preso dal lato del sembiante. Come il vestire, del resto: spogliato della sua componente erotica, l’abbigliamento acquista un valore asetticamente funzionale. “L’abito o segnala, mediante artifici precisi (colori, nastri, ghirlande) le classi di soggetti: classi di età […], classi d’iniziazione (i soggetti ver3. R. Barthes, Sade, Fourier, Loyola (1971), trad. di L. Lonzi e R. Guidieri, Einaudi, Torino 2001, p. XXVI. 4. Ivi, p. 5. 5. Ivi, p. 7.

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Masochismo plurale. Il servo, l’oggetto, la voce CARMELO COLANGELO

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ungo tutto il secolo scorso, in particolare a partire dagli anni quaranta, i temi del sadismo e del masochismo – e con essi gli scritti di Sade e Masoch – sono stati indagati con regolarità dal discorso filosofico, soprattutto di area francese, ma non solo. Grazie a un confronto sovente assai serrato con le prospettive della psicoanalisi, della fenomenologia, della critica letteraria, la riflessione filosofica, a cominciare da quella pratico-morale, si è impegnata in una disamina attenta dei due fenomeni che più apertamente manifestano la presenza, nella vita psichica, di un rapporto specifico tra desiderio e sofferenza, inferta o patita. Di primo acchito può colpire questa circostanza: mentre generalmente il sadismo è stato illustrato ricorrendo a un numero tutto sommato piuttosto ristretto di predicati (nevrotico, perverso, criminale, sociale), l’aggettivazione che modula il termine masochismo è molto più cospicua. Per limitarci alle espressioni più frequenti, si è parlato non solo, con Freud, di masochismo primario (originario) e secondario, perverso e nevrotico, erogeno, “femmineo” e morale, ma anche di masochismo ideale, fondamentale, formale, sociale, dimostrativo, estetico, ordinario. La lista è lungi dall’essere completa. Il masochismo, sembrerebbe, si dice in molti modi: il suo “problema economico” ha assunto figura e densi-

Carmelo Colangelo insegna Filosofia morale all’Università di Salerno.

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tà grazie alla declinazione delle sue modulazioni e all’analisi della sua varietà, delle sue fasi, del suo “movimento”.1 Solo nel 1924 Freud, è noto, si è risolto a parlare apertamente di “enigmaticità” della tendenza masochista e del “grande pericolo” da essa rappresentato (ben maggiore di quello legato al sadismo).2 Egli lo ha fatto chiedendosi se il dolore e il dispiacere, nella misura in cui si trovino a essere subiti e cercati come finalità, non pongano in questione il dominio del principio di piacere nei processi psichici. Più precisamente, Freud si domanda se nel masochismo il dolore non rappresenti il momento di una vera e propria “paralisi” – o di una “narcosi” – di quello che egli non ha mai smesso di considerare il “guardiano della nostra vita psichica”, anzi della vita umana tout court, il Lustprinzip, appunto.3 Questione determinante, che il fondatore della psicoanalisi affronta con circospezione, non senza moltiplicare le ipotesi esplicative, da un lato interrogandosi sui rapporti che il “guardiano” intrattiene con le pulsioni di morte e le pulsioni erotiche, dall’altro isolando con attenzione forme, dinamiche, proprietà essenziali della tendenza masochista, sottolineandone ormai una consistente indipendenza rispetto a quella sadica. Nel successivo moltiplicarsi delle qualificazioni del fenomeno si può cogliere il segnale di una considerazione della sua natura intesa ad assumerlo in chiave per così dire transclinica: esso, cioè, oltre e più che essere indagato in termini di “anormalità” e per1. Cfr. M. de M’Uzan, De l’art à la mort, Gallimard, Paris 1977, pp. 132-133: “Al termine masochismo sarei portato a preferire quello di movimento masochista”. 2. S. Freud, Das ökonomische Problem des Masochismus (1924), in Gesammelte Werke, Fischer, Frankfurt a.M. 1976, vol. XIII, p. 371; trad. di R. Colorni, Il problema economico del masochismo, Boringhieri, Torino 1975, vol. X, p. 5: “Il masochismo ci appare dunque nella veste di un grande pericolo, mentre ciò non vale affatto per il suo corrispettivo opposto, il sadismo”. Dove ritenuto necessario o opportuno le traduzioni citate sono state modificate. 3. Ibidem: “Se il principio di piacere domina i processi psichici in maniera tale che il loro primo scopo è quello di evitare dispiacere e ottenere piacere, il masochismo è incomprensibile. Se invece il dolore e il dispiacere non sono meri avvertimenti, ma possono essi stessi rappresentare dei fini [Ziele], il principio di piacere ne risulta paralizzato [lahmgelegt] e in un certo senso narcotizzato [gleichsam narkotisiert] il guardiano [Wächter] della nostra vita psichica. […] Siamo tentati di affermare che il principio di piacere non è solo il guardiano della nostra vita psichica, ma della nostra vita in genere”.

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versione, è colto come un elemento basilare della configurazione del sintomo stesso in quanto tale, e al limite anzi come “possibilità” esistenziale che è sempre possibile veder affiorare nei destini soggettivi, nel rapporto che gli uomini intrattengono con se stessi e con l’altro. Nel campo filosofico il masochismo è stato discusso verificando i modi in cui si manifesta nell’ambito delle forme vigenti di organizzazione della vita, della cultura, della società, e al contempo tentando di ricavarne una prospettiva aggiornata sulle dinamiche del desiderio. Nello stesso torno di tempo in cui si è ragionato sull’“uomo moderno” in quanto “animale masochista”,4 il tema è stato affrontato ponendolo in rapporto con altri nuclei fortemente problematici del pensiero contemporaneo. Si potrebbe dire che, in modo implicito o esplicito, due questioni in particolare abbiano accompagnato e persino guidato l’interesse teorico nei confronti della tendenza masochista. Anzitutto il problema del rapporto tra padrone e servo, nella sua struttura, nelle sue possibilità di sclerosi e nelle sue mutazioni; in secondo luogo la questione della tenuta, nella vita individuale come in quella collettiva, delle forme simboliche dell’autorità e della Legge, questione discussa in relazione all’eclissi della funzione paterna e della sua capacità di regolare il campo del desiderio. Incrociandosi con questi cospicui plessi problematici, l’enigmaticità del desiderio masochista si è rivelata suscettibile di rilanciare la comprensione di temi determinanti della riflessione etica, offrendo possibilità interpretative capaci di presentarli in nuova luce. Si ricorderà che il sogno che apre Venus im Pelz è rudemente interrotto dai rimproveri che colpiscono il dormiente sottraendolo alle delizie del suo incontro onirico. A scuotere il narratore è la “voce rauca” del suo servo cosacco, che lo apostrofa con severità 4. T. Reik, Masochism in Modern Man, Farrar & Rinehart, New York-Toronto 1941; trad. di L. Volpatti, Il masochismo nell’uomo moderno, Sugar, Milano 1963, p. 8. Al termine dell’introduzione al suo volume Reik precisava: “Mi sono interessato maggiormente al problema di un tipico comportamento nei riguardi della vita, piuttosto che di quello tragicamente anormale. Questo è un problema che compromette sempre più la nostra intera cultura. Voglio far notare questo aspetto della odierna situazione umana” (ivi, p. 12).

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Disconoscimento sur place RICCARDO PANATTONI

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n Il freddo e il crudele1 Gilles Deleuze afferma che il concetto di disconoscimento, almeno a un primo sguardo, può apparire come un movimento molto più superficiale della negazione, 2 eppure l’atto del disconoscere ha una sua specifica modalità di messa in crisi del principio di attualizzazione, tale per cui ci si rivolge a quest’ultimo senza accettarne la validità. È un tipo di operatività in potenza che si mantiene sul punto iniziale, sorgivo, della sua modalità e tende a contestare il giusto diritto di ciò che inequivocabilmente sembra, in ogni modo, destinato a doversi affermare. Introduce cioè una forma di sospensione sostanziale, una neutralizzazione in grado di aprire, al di là di ciò che comunque appare come dato, un non dato che non mira più ad alcuna realizzazione a venire. Non si tratta quindi di contrapporre a un’apparente evidenza un criterio capace di mostrarne un’altra altrettanto possibile, ma di sottrarre all’accadimento in atto ogni principio di pura evidenza, senza per questo negarne la fatticità. In questo senso la figura del masochista – almeno per come viene evidenziata da Deleuze Riccardo Panattoni insegna Etica e psicoanalisi all’Università di Verona. 1. G. Deleuze, Il freddo e il crudele (1967), trad. di G. De Col, SE, Milano 1991. 2. S. Freud, La negazione (1925), in Opere, a cura di C.L. Musatti, vol. X, Boringhieri, Torino 1978. Cfr. anche S. Benvenuto, La psicoanalisi e il reale. “La negazione” di Freud, Orthotes, Napoli 2015 e P. Virno, Saggio sulla negazione. Per una antropologia linguistica, Bollati Boringhieri, Torino 2013.

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attraverso l’opera di Leopold von Sacher-Masoch – è quella più adatta a esplicare questa modalità del disconoscimento, mostrandone simultaneamente tre differenti processi. Il primo è quello di riconoscere alla donna la presenza del fallo, attribuendole così la capacità di poterlo far rinascere ogni volta per via partenogenetica, perché in realtà alla vita non si nasce mai una sola volta, ma innumerevoli volte: nascere è un’invenzione e non è detto che ci si riesca sempre. Il secondo è quello di escludere completamente il padre da ogni ruolo relativo a questa seconda nascita, evitando così di introdurre ogni principio trascendente. Il terzo, infine, consiste nel liberare il piacere da ogni finalità strettamente genitale e procreativa. La simultaneità di questi tre processi incentrati sul principio del disconoscimento, si sorregge inoltre sulla costellazione di altri quattro riferimenti essenziali: la sospensione, l’attesa, il feticismo e il fantasma. All’interno della teoria freudiana il feticcio è l’immagine sostitutiva di un fallo femminile che si incarna in un oggetto determinato, l’ultimo che il bambino ha visto prima di rendersi conto di quell’assenza inaccettabile e su cui lo sguardo ritorna attraverso una forma di disconoscimento in atto. Si determina così, per esempio, un feticismo rivolto verso la scarpa per uno sguardo che ridiscende verso il piede. Non si tratta quindi tanto di un oggetto in quanto tale, di un distoglimento dello sguardo dal corpo della madre per dirigerlo verso qualcosa d’altro presente alla vista, ma di un ritorno su una parte del corpo che non viene contestata, bensì sovradeterminata e associata a un’oggetto che la copre mettendola in evidenza. La scarpa è infatti l’oggetto del piede. Per questo il feticcio sottostà alla legge della collezione, perché ogni scarpa, pur nella specificità del suo riferimento singolare, rimarrà comunque l’ideale del piede mancante, vero oggetto del desiderio sostitutivo. Dunque l’immagine sostitutiva del fallo femminile è il piede assente, ideale, della scarpa che rimane invece un oggetto reale da ricercare e, una volta trovato, da rendere sempre sostituibile con un altro dello stesso tipo, ricercabile sempre di nuovo. Di conseguenza non è tanto l’oggetto scarpa che permette di mante125


nere il diritto all’esistenza dell’oggetto contestato, quanto il piede mancante che l’oggetto scarpa reclama. Per questo immagine e immaginario stanno decisamente insieme: l’immagine scarpa è l’immaginario del piede, così come l’immaginario feticistico della scarpa è la stessa immagine assente del piede. La pulsione feticistica non corrisponde dunque tanto a un atto di simbolizzazione sostitutiva, quanto a una focalizzazione rispetto a una messa in scena teatrale, che viene fissata e congelata nella sua scenografia; un’immagine perfettamente arrestata in se stessa, una vera e propria fotografia alla quale è sempre possibile ritornare, attraverso la ricerca dell’oggetto desiderato, al fine di evitare le conseguenze inaccettabili di un movimento che si concatenerebbe in una inevitabile sequenza rivelativa. È riconoscere all’esplorazione il criterio veritativo del dato di fatto, è lasciare che tale esplorazione si perda nei meandri aleatori di quell’incastro non realizzabile tra il piede e la scarpa, che rimane da ricercare senza soluzione possibile. Ecco perché rispetto all’evidenza del visto non subentra alcun rimosso, si tratta piuttosto dell’intromissione di un’opacità che si illumina sull’oggetto feticcio assente, la scarpa, capace di avvolgere il piede come parte sostitutiva della mancanza del pene: solo così il piede è il luogo pulsionale sostitutivo del sesso femminile, ripreso come assente nell’oggetto scarpa. È la ripresa e la dilatazione sospensiva dell’ultimo istante in cui è ancora possibile credere al perfetto trasporto riflettente sul corpo dell’altro. In questo modo la scoperta, l’imposizione del principio di realtà, viene sconfessata dalla potenza in un reale immerso nei criteri di un puro immaginario, senza che subentri alcuna necessità di un dispiegamento immaginativo: la scarpa rimarrà comunque il solo condensato del piede. Il feticcio non ha di conseguenza nulla della mera illusione sostitutiva, ma esprime piuttosto uno stadio di intensificazione di un’esperienza singolare, che non si rassegna a una verità oggettiva che deve valere per tutti. In questo senso il feticismo è innanzitutto un disconoscimento, in quanto sostenere che la donna non manchi del pene non deriva da una semplice nega126


Masoch oltre Nietzsche. Seduzione, autoaggressione e ordalia del filosofo critico ANDREA MUNI

Premessa La resistenza psicologica e culturale che tutti proviamo di fronte a una qualsiasi (pur minima, simbolica, teatrale) idea di autoaggressione o sottomissione volontaria si riflette in innumerevoli espressioni del linguaggio comune. Eppure il masochismo, termine che racchiude troppi significati differenti per un’unica denotazione, non cessa di esercitare su molti di noi un fascino misterioso. Da parte mia credo che in questo fascino, antico e attualissimo nello stesso tempo, si nasconda un significato filosofico e politico che siamo ancora lontani dall’avere ancora soltanto accarezzato. Nella dinamica masochista, di cui Masoch è stato senz’altro un grande attore, ma non certo il primo, si nasconde infatti un segreto che meriterebbe di essere approfondito attraverso un’inedita genealogia. Invece di indagare il “masochismo” da un punto di visto politico, filosofico o psicoanalitico, mi piacerebbe piuttosto rovesciare il piano e provare a ripensare alcune forme di seduzione politica, psicoanalitica e filosofica a partire dalla peculiare dinamica seduttiva, e dal particolare rapporto di potere, in gioco nella strategia masochista. Nel fascio di problemi cui ci introduce il masochismo, inteso come strategia e come modalità di produzione della verità, si declina infatti in maniera del tutto singolare l’antichissimo tema della trasformazione di sé: il ferirsi, l’autointaccarsi, il farsi violenza. Lo sdoppiamento e la divisione del soggetto – concepiti anche in chiave politica come modalità di seduzione e di trasformazione dell’altro – sono infatti il nocciolo del masochismo che, ancora 138

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oggi, ci interessa e merita di essere approfondito. Le storie di Masoch ci raccontano, in ultima istanza, proprio di come sia necessario farsi del male per trasformarsi, per provare a se stessi una verità, e di come tutto questo non si possa fare senza “un altro”; ma ci raccontano anche di come “gli altri” non possano essere il supporto delle nostre trasformazioni senza esserne, per questo, a loro volta intaccati. La seduzione masochista e il rapporto che essa articola tra il soggetto, l’altro, il godimento e la verità, ci riportano infatti a una dimensione del discorso e del rapporto intersoggettivo che nella nostra cultura rimane a tutt’oggi velata, sincopata, misconosciuta: quella ordalico-sofistica, in cui la verità non è fatta per essere conosciuta, ma giocata, inflitta e subita, come un evento che si scrive sui corpi. L’orrore di Nietzsche A eccezione del fatto che sono entrambi morti folli, che erano ammiratori di Schopenhauer e che scrivevano in tedesco, tutto sembra dividere Nietzsche e Masoch. In primo luogo la formazione cattolica e mistico-barocca dello scrittore galiziano, radicalmente opposta a quella protestante di Nietzsche. In secondo luogo, la storia familiare: da un lato Nietzsche, figlio di un pastore protestante teneramente amato e prematuramente scomparso, dall’altra Masoch, figlio di un questore cordialmente detestato. In terzo luogo a dividerli troviamo le convinzioni politiche: da un lato Masoch, per metà slavo e affascinato del panslavismo, vicino agli ambienti anarchici bakuniniani e proudhoniani, simpatizzante delle rivolte dei contadini piccolo-russi contro la nobiltà polacca e strenuo difensore dell’impero transnazionale asburgico. Dall’altro lato Nietzsche: prussiano, acerrimo nemico di qualunque forma di socialismo, gioiosamente ateo e, a suo modo, nazionalista tedesco. Eppure, forse proprio a causa di questa siderale e paradossale prossimità, mi è parso di poter rintracciare un’affascinante complementarità in un punto decisivo del loro pensiero che mi sembra perfetta per inoltrarci nel “masochismo” che (ancora oggi) ci interessa. Nietzsche nella Genealogia ci racconta una specie di mito, una fiaba grottesca. La storia di come i poveri, gli umiliati, gli ultimi, 139


i malriusciti, i giudeo-cristiani (per chiamarli col loro nome) sono stati capaci di sedurre i “migliori” alla loro nuova, mostruosa e inquietante verità per mezzo di quel “dio”, e di quella inedita “autoaggressività”, di cui gli antichi signori non avrebbero letteralmente saputo che farsene. Nietzsche si ferma qui, dicendoci a chiare lettere che se si addentrasse ulteriormente tra i vapori malsani di questo ripugnante segreto rischierebbe di restarne contagiato come da una malattia. Dopo aver osato scoperchiare con grande coraggio un simile vaso di Pandora, egli sembra infatti proibirsi misteriosamente nella Genealogia tutte le domande (e le risposte) decisive. Come hanno fatto gli schiavi, a livello pratico, a sedurre i propri padroni? A ben vedere infatti – Nietzsche ce lo lascia intuire, gli schiavi non hanno trasformato i valori per mezzo della violenza ma, piuttosto, per mezzo della seduzione. E dove avrebbero trovato, gli schiavi, la volontà di potenza necessaria per compiere un così seducente e inaudito rovesciamento di valori? Risposta (ancora velata) di Nietzsche: nella cattiva coscienza e nel ressentiment covati per secoli nei confronti di quei “signori” che li dominavano, che erano davvero più forti – e quindi più “veri” – di loro. Ma come hanno fatto gli “schiavi” a dimostrare l’esistenza del loro dio, della loro nuova verità? La risposta, spaesante e vertiginosa (che prendo a prestito da una celebre sentenza di Lacan) è: amandolo, agendo come se quel dio e quella verità fossero reali. Gli schiavi della Genealogia hanno dimostrato ai propri signori l’esistenza e la superiore potenza del loro dio (della loro verità e, quindi, del loro “io”) soffrendo e morendo da martiri per questi nuovi valori, in loro nome. Nietzsche si accorge nitidamente che la volontà di verità, la morale degli schiavi, si è imposta nella storia dell’Occidente attraverso un’inedita e spaventosa forma di seduzione “masochista” che ha contagiato i primi “buoni” (i “signori”), inducendoli a riconoscersi a un certo punto della storia come i nuovi “malvagi”. La volontà di verità – la volontà che esista una separazione vero/falso che raddoppia quella morale (e cristiana) di bene/ male – si è instaurata storicamente nella psiche dell’uomo occidentale a partire da questa sfida, da questa seduzione ordalico140


Discussioni


Il soggetto supposto intelligente ANTONELLO SCIACCHITANO Tutti i modelli sono falsi, ma alcuni sono utili. Uno statistico bayesiano Probabiliter conjicio corpus existere. Cartesio, Sesta Meditazione

Se l’intelligenza è artificiale, la stupidità è naturale? “Intelligenza” è un termine più psicologico che filosofico; non ricorre, per esempio, nel Dizionario di filosofia di Abbagnano. Da Cartesio a Nietzsche il filosofo ha problemi a trattare nozioni teleologiche. Infatti molte definizioni correnti di intelligenza presuppongono il finalismo. Si va dal problem solving – nell’ipotesi che ogni problema o sia risolvibile o si dimostri che è impossibile risolverlo, con tutti i gradi intermedi di difficoltà – alla capacità di raggiungere un fine in situazioni complesse.1 La stupidità sarebbe antiparallela all’intelligenza, estesa in diverse forme dall’inadeguatezza rispetto allo scopo fino all’ostacolo attivo al suo raggiungimento.2 A ciò si aggiunga che la nozione di intelligenza non si autofonda. A giudicare l’adeguamento dell’intelligenza ai suoi compiti – dell’intelletto alla cosa – c’è sempre un’istanza esterna, “il terzo uomo” aristotelico, un arbitro metaintelligente, non necessariamente intelligente nel senso della definizione data. Alla fine si riconosce intelligente la prestazione utile al potere. La meccanica quantistica è in questo senso intelligente perché supporta più della metà del mercato informatico, pur su basi incerte (ma dà risul1. “L’intelligenza è la capacità di realizzare fini complessi”, M. Tegmark, Vita 3.0. Essere umani nell’era dell’intelligenza artificiale (2017), trad. di V.B. Sala, Raffaello Cortina, Milano 2018, p. 61. 2. Esemplare a questo proposito è la prima commedia di Molière, L’étourdit ou les contre-temps (1658), dove Lelio intralcia sistematicamente l’operato del fedele Mascarillo, che traffica per procurargli l’amata.

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tati certi). Insomma, l’intelligenza sarebbe un attrezzo per fini di economia politica. Spunta il sospetto che l’intelligenza sia una facoltà psichica artificiale o artificiosa, almeno tanto quanto la psiche stessa. Al confronto la stupidità sembra più naturale, più “umana”. Certo, non siamo più a tempi del Fedone. La città ha messo a morte Socrate e con lui la dimostrazione di esistenza e immortalità dell’anima. Oggi esiste qualcosa di meno dell’anima, ma forse più utile. Esiste la psiche o, freudianamente parlando, l’apparato psichico. Che è ancora un attrezzo: serve a conversare con altri apparati psichici, quindi a comandare e farsi comandare. (Si pensi al Super-io freudiano.) Da qui la possibile autoreferenzialità della nozione di intelligenza come ciò che serve all’intelligenza. Allora il discorso filosofico si riapre. Per esempio, si può cominciare a riconoscere che l’intelligenza scientifica è tutt’altro dall’intelligenza psicologica. Non è né astuzia né adeguatezza; è l’abilità a operare con il falso su congetture di lavoro, prima formulandole, poi riducendone la falsità. Inoltre tale intelligenza è collettiva prima che individuale; è somatica prima che psichica; appartiene al corpo collettivo, cioè al falso. Lì, nel falso, l’intelligenza ha il proprio terreno di coltura. Ogni civiltà ha il proprio falso, la propria menzogna civile collettiva, la propria Culturlüge, come nella Nascita della tragedia dallo spirito della musica la chiama Nietzsche e la scrive proprio con la C all’italiana. Si pensi alle fake news e ai miti nazional-populisti che alimentano le pericolanti politiche europee. In parallelo ogni cultura ha la propria forma di intelligenza sia per mascherare sia per smascherare il falso di cui vive. Non esiste, forse, l’intelligenza naturale.3 Il mondo è complesso L’ultima affermazione è in buona sostanza falsa. Il falso sembra ineliminabile dal discorso sull’intelligenza. Il falso sembra parte integrante e intrigante, al fondo la molla, dell’intelligenza. La 3. L’intelligenza per ingannare l’altro, tipica dell’isteria, è affatto innaturale.

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probabile ragione è che il mondo (inteso come stato epistemico o modello del reale inconoscibile) è il luogo della complessità, dove l’intelligenza non può far altro che formulare congetture false (leggi: da falsificare) su sistemi caotici. Probabilmente c’è un gradiente dall’intelligenza naturale all’artificiale, dall’intelligenza del lombrico a quella dell’uomo. Sarebbe uno sviluppo parallelo a quello che prese le mosse dagli istinti sociali degli animali e arrivò ai sentimenti morali dell’uomo, come vide Darwin. È molto probabile che l’intelligenza naturale esista; sarebbe prodotta dall’evoluzione delle specie che promuove la più adatta a riprodursi in certe condizioni ambientali. Siccome tali condizioni variano, non c’è alcuna direzione evolutiva predeterminata, a priori più di altre intelligente. Darwin fu non poco astuto a localizzare l’intelligenza della natura nella selezione naturale. Fu abile a smarcarsi dal finalismo e dal determinismo globale, vigente ai suoi tempi, pur ammettendo come Newton il determinismo a livello locale nel passare da una generazione all’altra. Ma con una differenza sostanziale: oggi, il determinismo non determina più l’evento, come pensava l’antico, ma la sua probabilità.4 La selezione naturale opera nella contingenza, non nella teleologia. Genera un ventaglio di possibilità e premia la migliore al momento, in una sorta di campionato della vita, senza perseguire un progetto prestabilito. Variabilità e casualità sono gli ingredienti dell’intelligenza naturale che ha prodotto il nostro mondo complesso. In biologia si chiama biodiversità. Dove c’è più diversità, lì c’è più bio. Questa è la premessa scientifica non sempre gradita al potere, che tende a omogeneizzare l’ambito su cui si impone. I migranti e i barbari restino fuori, dicono i barbari di dentro. L’isolazionismo e il protezionismo degli odierni movimenti sovranisti e populisti sono il portato di una controintelligenza sul breve periodo intelligente. Non a caso quei movimenti sono sempre go4. È stato recentemente tradotto il saggio del 1932 di Alexandre Kojève, L’idea di determinismo nella fisica classica e nella fisica moderna (trad. di S. Moreno, Adelphi, Milano 2018), che sviluppa il tema dell’Intelligenza del “demone” di Laplace. Traggo da Kojève la distinzione tra determinismo globale e locale.

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Il mistero della passe SERGIO BENVENUTO

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on discuterò qui il dispositivo inventato da Jacques Lacan, e adottato da molte istituzioni lacaniane, detto passe. Mi soffermerò piuttosto su quel che ne dice il filosofo Alain Badiou nei suoi seminari su Lacan,1 cosa che mi permetterà di prendere le distanze da una visione non solo della psicoanalisi, ma del rapporto tra sapere e vita, di cui Badiou è importante esponente. 1. La passe era un modo per sfuggire a un inghippo fondamentale a cui vanno incontro la maggior parte delle istituzioni psicoanalitiche a cominciare dall’IPA (International Psychoanalytic Association) quando si tratta di cooptare qualcuno come psicoanalista. Per essere accettato come analista, occorre che un candidato faccia un numero minimo di ore di analisi didattica, fatta cioè con un analista al vertice della carriera detto analista didatta, training analyst. C’è un’ambiguità profonda nella nozione di analisi didattica, dato che essa da una parte sarebbe un’analisi come le altre, ma dall’altra anche una sorta di esame, di test, attraverso cui l’analizzante deve dimostrare di aver superato gran parte dei suoi problemi e di essere pronto a esercitare come analista. Insomma, l’analista didatta è da 1. A. Badiou, Lacan. Il Seminario. L’antifilosofia 1994-1995 (2013), trad. a cura di L.F. Clemente, Orthotes, Napoli-Salerno 2016. In particolare il Seminario III del 21 dicembre 1994.

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una parte l’analista, dall’altra il giudice, del candidato.2 Questo cozza con il principio fondamentale della psicoanalisi clinica: il carattere incondizionato dell’analisi, il non dover essere connessa ad alcuna altra richiesta se non quella dell’analisi. Di solito poi l’analista didatta considera il trainee, il suo candidato in didattica, come un suo diretto allievo; viene insomma a crearsi un rapporto clientelare tra analista didatta e analista cooptato. Lacan, con la sua proposta della passe, tendeva a rovesciare completamente la questione. La domanda a cui rispondere non doveva essere più “come formare al meglio degli analisti che riconosceremo come nostri pari?”, ma piuttosto “chi possiamo accettare come analista nella nostra École freudienne de Paris?”. Almeno ufficialmente, l’École lacaniana non si preoccupa di come formare analisti, ciascuno si forma come può e con chi vuole. L’importante è che chi voglia essere Analyste de l’École (AE) testimoni del fatto che abbia davvero svolto un’analisi, che insomma ci sia stato atto analitico. Perché l’idea di fondo di Lacan è che se un’analisi è stata veramente fatta, l’analizzante è in grado di essere anche analista: diventare analista è il vero risultato di ogni analisi compiuta. Il punto quindi non è tanto mostrare che si funziona bene da analista, ma mostrare che si è fatta una vera analisi. Chi vuole essere accolto come AE, il passant, si rivolge almeno a due passeurs, che gli vengono attribuiti con un tiraggio a sorte. I passeurs sono analizzanti in fine di analisi; i loro nomi vengono proposti dagli AE. Il passant parla della sua analisi a questi passeurs, i quali a loro volta diranno quel che hanno inteso di questa analisi davanti a una giuria di AE, e questo in assenza del passant. È sulla base di quel che i passeurs avranno detto dell’esperienza del passant che la giuria deciderà se il candidato può essere accolto come analista della scuola. 2. Tra le critiche a questo assetto cooptativo, cfr. E. Fachinelli, Sull’impossibile formazione degli psicoanalisti. Conversazione con Sergio Benvenuto (1987), “European Journal of Psychoanalysis”, <journal-psychoanalysis.eu/sullimpossibile-formazione-degli-analisticonversazione-di-sergio-benvenuto-con-elvio-fachinelli1>.

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2. Nel seminario del 21 dicembre 1994 Badiou evoca la passe per illustrare in che senso Lacan debba essere considerato un antifilosofo. Tutto il seminario di quell’anno è dedicato a Lacan, presentato appunto come antifilosofo. Badiou annovera sei antifilosofi, tre nell’età classica (Pascal, Rousseau, Kierkegaard), tre moderni (Nietzsche, Wittgenstein, Lacan). Egli dice che infatti questi pensatori non si rivolgono ai filosofi (anche Wittgenstein? C’è da dubitarne; a meno di non separare i logici dai filosofi), ma ad altre figure. Per esempio, Pascal si rivolge essenzialmente al libertino, Rousseau “al contadino che beve latte”, Kierkegaard alla donna… Quanto a Lacan, egli si rivolge agli analisti, anche se spesso li deride, soprattutto perché non leggono filosofia. “Voi analisti – dice in sostanza – dovreste leggere seriamente la filosofia proprio per liberarvi dai cattivi filosofemi che ostacolano la vostra pratica.” Ora, secondo Badiou, la passe è un meccanismo che dovrebbe servire proprio a bloccare il filosofico nell’analisi: la filosofia è ciò che non passa. Ovvero, il filosofico è la scoria dell’analitico. Scrive: Mostratemi un giorno la pattumiera di una passe – penso che sarebbe piena di filosofia! È ciò che non passa! E perché è ciò che non passa, il filosofico di una cura? Perché è tutto ciò che si è trovato di ermeneutico, di piatto interpretativo, delle più svariate parlantine, di nefasta totalizzazione, di coscienza di sé in un cogito centrato, di falso sapere assoluto, dell’istanza trionfale del padrone che non rinuncia mai a sé, ecc. Che cos’è tutto questo? Ovvio, è la filosofia! (p. 83) Da notare che Badiou non si include nella serie antifilosofica. Certo esalta gli antifilosofi, tra cui Lacan, ma lui stesso non pare abiurare la posizione di filosofo. Dobbiamo considerare quindi la sua come una filosofia che si è riconosciuta come scarto, pattumiera, una filosofia che ha accettato di mancare l’atto. Perché è questo che accomuna tutti gli antifilosofi: contro le astrattezze del filosofo che pretende di dire la verità, loro indicano ciò che dà davvero senso, qualcosa dell’ordine dell’atto. Contro il pri180


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