385 marzo 2020
Agostino Pirella. Il sapere di uno psichiatra a cura di Massimo Bucciantini e Mario Colucci
Premessa [M.B., M.C.]
Massimo Bucciantini La voce di uno psichiatra. I taccuini di Agostino Pirella MATERIALI Agostino Pirella Taccuini goriziani (1967) Agostino Pirella Il giovane Basaglia e la critica della scienza (1980) Agostino Pirella L’inesauribile estensione e la linea “forte” (1986) Cronologia, a cura di Lucilla Gigli e Marica Setaro
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Mario Colucci Gli ultimi figli di Pirella Pierangelo Di Vittorio Psichiatria italiana e pulsione di sapere. Le tensioni di Pirella Marica Setaro Diario teorico di uno psichiatra. Un profilo di Agostino Pirella
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PIRELLA LECTURE Vittorio Lingiardi Ritrovare il senso della diagnosi
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INTERVENTI Marco Russo La condizione eccentrica. Una costellazione copernicana Paolo Fabbri Identità: l’enunciazione collettiva
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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Mauro Bertani, Graziella Berto, Beatrice Bonato, Deborah Borca (editing, deborah.borca@gmail.com), Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Alessandro Di Grazia, Pierangelo Di Vittorio, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Andrea Muni, Massimiliano Nicoli, Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Stefano Tieri, Carla Troilo, Davide Zoletto direzione: c/o il Saggiatore, via Melzo 9, 20129 Milano sito web: autaut.ilsaggiatore.com ISSN: 0005-0601 collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, L. Boella, S. Borutti, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, R. De Biasi, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, R. Prezzo, G.C. Spivak, G. Vattimo, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek per proposte di pubblicazione: autaut@ilsaggiatore.com Si fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testi di ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).
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Premessa
I
l focus su Agostino Pirella che questo numero di “aut aut” ospita prende spunto dalla prima Lezione Pirella tenuta ad Arezzo da Vittorio Lingiardi il 16 maggio 2019. Le Lezioni, con cadenza annuale, sono nate per valorizzare la figura di Pirella e hanno lo scopo di approfondire l’universo della psichicità nella sua dimensione storica e culturale. Accanto al saggio di Lingiardi, i contributi di Massimo Bucciantini, Mario Colucci, Pierangelo Di Vittorio e Marica Setaro tracciano un profilo finora poco noto dello psichiatra emiliano. Indagare sulla sua formazione ed esaminare le connessioni con la stagione e le persone che lo videro, con Basaglia e altri, protagonista serve ad aggiungere un ulteriore tassello alla scrittura della storia postmanicomiale. Infine ci è parso utile inserire una sezione di alcuni suoi materiali inediti o scritti poco noti e fornire una cronologia biografica di Pirella, curata da Lucilla Gigli e Marica Setaro. Buona lettura. [M.B., M.C.]
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La voce di uno psichiatra. I taccuini di Agostino Pirella MASSIMO BUCCIANTINI
1.
Personalmente non ho mai conosciuto Agostino Pirella. Anche se il suo nome, fin da quando ho iniziato il mio insegnamento ad Arezzo, mi è subito divenuto familiare. E non poteva essere altrimenti, visto che il Dipartimento è situato nei locali dell’ex ospedale psichiatrico. Ciononostante, fino a qualche anno fa, non mi sono mai occupato di questioni che avessero a che fare con la malattia mentale, la psichiatria, le pratiche di esclusione e di emarginazione sociale. Ho cominciato a interessarmene dopo aver incrociato Franco Basaglia in un mio lavoro su Primo Levi, in cui ho affrontato la questione della “fortuna” e la circolazione di Se questo è un uomo negli ambienti non letterari italiani.1 E da allora è stato un tema che non ho mai smesso di coltivare. Quando Martino, il figlio di Agostino, accettò la proposta di donare le carte e la biblioteca del padre al Dipartimento di Arezzo, tutti noi accogliemmo la notizia con entusiasmo. E la prima cosa che subito mi colpì curiosando tra i materiali del suo archivio furono le centinaia e centinaia di block notes, agende, rubriche, taccuini di ogni forma e specie che spuntavano fuori ogni volta che aprivamo un faldone.2 La seconda fu la sua scrittura: niMassimo Bucciantini insegna Storia della scienza all’Università di Siena. 1. Cfr. M. Bucciantini, Esperimento Auschwitz, Einaudi, Torino 2011 (Lezioni Primo Levi), pp. 53-98. 2. Questo materiale è stato provvisoriamente inventariato nell’Archivio Agostino Pirella (AAP) sotto la serie Agende, quaderni, rubriche, taccuini, scatole 1-6.
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tidissima, come lo è il tratto nei disegni a china o a matita che soprattutto negli anni cinquanta si trovano sparsi tra le sue carte. Una passione che aveva in comune con il fratello Emanuele. Disegni a volte ironici, quasi delle vignette, a volte pieni di angoscia. Che si intrecciano a versi poetici, di cui sono disseminati i suoi quaderni di appunti. Pirella ne cominciava uno ogni qualvolta iniziava un viaggio o la lettura di un libro o quando partecipava a convegni e riunioni, oppure semplicemente, quando in maniera del tutto estemporanea, decideva di “fermare” i suoi pensieri. E poi, spesso dopo poche pagine, li abbandonava, per iniziarne subito dopo un altro. L’archivio ne conserva circa cinquecento e contengono una miniera di spunti e considerazioni di ogni tipo, dalla politica alla letteratura, dalla musica alla filosofia, dal teatro al cinema all’epistemologia, ma soprattutto sono riflessioni sul suo lavoro di psichiatra, su quello che lui chiamava il problema psichiatrico. Uno zibaldone di pensieri, in certi casi espressi in forma aforistica, polemici e pungenti, intramezzati da continue scalette di interventi e di progetti, e che vengono ad aggiungersi alla parte più propriamente scientifica del suo lascito. Ed è appunto dei suoi taccuini che qui vorrei brevemente parlare, provando a dare un’idea, per quanto parzialissima, del loro significato all’interno del rapporto vita-forme in Pirella. 2. Come ha osservato Merleau-Ponty, “è certo che la vita non spiega l’opera, ma è altrettanto certo che esse comunicano”.3 Quei taccuini rappresentano il ponte che lega la vita all’opera di Agostino Pirella. Un ponte in cui ci sono tante uscite e diramazioni, linee di forza abbozzate e bruscamente spezzate, che hanno il merito di restituirci, pur nella loro incompiutezza, la multiforme stratificazione del suo pensiero e la molteplicità dei suoi interessi culturali. Pirella era un divoratore di libri, di ogni genere di libri che a prima vista non ti aspetti. A cominciare dalla quantità di libri, in 3. M. Merleau-Ponty, “Il dubbio di Cezanne” (1945), in Senso e non senso, introduzione di E. Paci, il Saggiatore, Milano 1962, p. 39.
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Materiali
La bibliografia di Agostino Pirella, lungo tutta la sua carriera, testimonia di un lavoro di scrittura prevalentemente collettivo. Si tratta di contributi, interventi, progetti editoriali, articoli, capitoli di libri, spesso scritti a più mani o dibattuti a convegni e seminari, che sono la cifra specifica dei metodi di elaborazione di un’esperienza passata alla storia come un’utopia possibile e realizzabile: quella della chiusura definitiva dei manicomi e dell’“invenzione” di una nuova salute mentale in Italia. La riflessione di Pirella, mai separata dalla storicizzazione del paradigma psichiatrico e del suo rovesciamento, ha declinato le sue esperienze di de-istituzionalizzazione compiute a Gorizia, Arezzo e Torino con la necessità di ridiscutere lo statuto epistemologico della psichiatria. In questo senso, aver scelto di pubblicare il lungo articolo dedicato a Basaglia nel 1980, dopo la sua prematura scomparsa, non è solo indice di un sodalizio affettivo e intellettuale, ma è anche la messa a fuoco di questioni teoriche cruciali che rimanevano tutte da affrontare nel rapporto critico con la scienza. Sei anni più tardi, Pirella interveniva alle giornate di studio organizzate 10
in Campania da Psichiatria democratica e tracciava un bilancio di quanto era avvenuto in quegli anni difficili. Denunciava con forza le spinte conservatrici contro l’applicazione della legge 180 e i pericoli di deriva politico-sociale presenti nel paese, non nascondendo i rischi di erosione e di tenuta di un movimento costretto a esercitare una “inesauribile” resistenza. Ma non dimentica Pirella, con una sottile analisi critica, che la priorità rimaneva un’immensa riflessione e costruzione teorica. Come Adorno concepiva come possibile, dopo il nazismo, solo una filosofia che fosse in grado di “pensare in modo che Auschwitz non si ripeta”, così – continua Pirella – “noi dobbiamo estendere questo impegno che, notiamolo, non è nell’agire, ma nel pensare al manicomio”. Vengono inoltre pubblicati qui, per la prima volta, alcuni taccuini manoscritti relativi al periodo goriziano. Dopo aver lasciato, nel 1965, la direzione del manicomio di Mantova per raggiungere Basaglia a Gorizia, Pirella diviene, nel 1967, primario del reparto C, uno degli ultimi reparti a essere aperto, frontiera reietta della malattia istituzionale prodotta dall’internamento manicomiale. Si tratta di annotazioni giornaliere, descrizioni e racconti relativi alla vita di reparto, ma anche riflessioni sulla fatica e sul rischio di fallimento sempre incombente. Sono pagine intense, con le quali l’“osservatore” Pirella fa toccare con mano i meccanismi incistati di dominio e autoritarismo presenti in un reparto di internamento per cosiddetti “cronici”. Leggendole, ci sentiamo improvvisamente calati dentro a quelle mura. La sofferenza e le tensioni sono tangibili, e con esse 11
a emergere con forza è la necessità di ripensare i modi di costruire da zero le relazioni e i ruoli di infermieri, medici e degenti. L’esercizio della libertà e dell’autonomia dimenticate o mai agite mostra qui tutte le sue contraddizioni. Il contesto non tace rotture, conflitti, violenze che spesso ricadono sull’ultimo anello della catena umana del reparto, per il quale Pirella usa un termine che richiama un immaginario inumano. Gli ultimi fra gli ultimi del reparto C, quelli che più di tutti avevano subìto gli effetti violenti dell’istituzione totale manicomiale, finivano per avere come aguzzini gli stessi compagni di sventura, così come i “musulmani” – così li chiama Pirella – raggiungevano l’ultimo stadio nei campi di sterminio di leviana memoria. La pratica quotidiana della discussione e della decisione comune, pur vivendo di arretramenti e passi in avanti, di incertezze e conflittualità, guadagna piano piano il suo spazio di libertà. Il 14 luglio 1967 diventa così la Bastiglia del reparto C, la piccola rivoluzione di un reparto finalmente aperto per ricominciare a diventare uomini e cittadini. [M.S.]
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Taccuini goriziani (1967) AGOSTINO PIRELLA
7 marzo 1967 Il reparto è organizzato in un modo estremamente rigido, su base autoritario-coercitiva, non paternalistica. Al mio ingresso mi sono trovato di fronte a una prima questione che ha dato uno “spaccato” della vita istituzionale di notevole interesse. Un paziente, Manfredi, aveva percosso con una scodella, un altro paziente. Richiesta di chiarimenti: gli infermieri non dicono nulla (e poi se ne saprà il perché), Slavich dice: “Manfredi è un re”. Un ras, dico io. Il giorno dopo Manfredi colpisce ancora. Poco di più si viene a sapere: Manfredi si oppone a coloro che entrano in refettorio e “disturbano”, ad esempio afferrano (o hanno solo l’intenzione, secondo Manfredi, di afferrare?) il pane o altri cibi. Nuova indulgenza degli infermieri. Alla riunione di reparto Manfredi svolge una dura requisitoria contro a) i pazienti che si introducono nel refettorio approfittando delle porte aperte; b) contro l’infermiere Andrian, reo di aver “deciso” l’apertura delle porte del refettorio. L’infermiere Costa, presente alla riunione, non dice nulla. Di fronte a questi fatti, propongo (e naturalmente si decide) che si discuterà la cosa alla riunione degli infermieri. Costa però, dopo, alla fine della riunione di reparto, si lamenta Trascrizione da taccuini manoscritti del periodo goriziano, Archivio Agostino Pirella, busta 159, fasc. 1 (dicitura “Testi miei”), a cura di Marica Setaro, con la revisione di Lucilla Gigli. I lavori di inventariazione dell’Archivio Pirella sono attualmente in corso; le segnature delle buste sono dunque provvisorie. Lucilla Gigli e Beatrice Biagioli, archiviste, si occupano del riordino e dell’inventariazione.
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perché la decisione di aprire le porte del refettorio era stata presa in sua assenza, e si dimostra implicitamente contrario. Giovedì si discute, ma non si ottiene nulla. Costa e Pinceti si oppongono a un’apertura totale (che anche io però non ho per ora motivo di caldeggiare) fattisi forti dell’opposizione “concreta” di Manfredi. Andrian tenta di argomentare, ma non riesce a convincere, soprattutto non riesce a presentare un’alternativa ai pugni di Manfredi. La situazione sembra cioè tale per cui un’iniziativa apparentemente innocente come questa non può essere realizzata perché c’è una volontà precisa di opposizione, e i fautori non sanno su cosa (o su chi) contare per risolvere il nuovo inconveniente. C’è in questa “impasse” un primo insegnamento fondamentale. In un reparto chiuso a clima fortemente autoritario e coercitivo chi paga di più sono i pazienti regrediti (specie gli schizo) e ogni tentativo unilaterale e non coordinato di invertire il segno della coercizione fa scattare meccanismi (di difesa-offesa) che mentre tendono a perpetuare lo stato rigido preesistente, scaricano di nuovo sui regrediti le tensioni e le aggressività. Più semplicemente: l’apertura delle porte del refettorio voleva offrire a tutti i pazienti un’opportunità di libertà di movimento. Questo fatto avrebbe limitato il privilegio di Manfredi (e in parte di altri) e forse messo in crisi alcuni infermieri “dominanti”. Il meccanismo di repressione ha nuovamente scaricato sui regrediti l’aggressività derivante da frustrazione. Sembra cioè che qualunque iniziativa venga presa nel reparto, tendente a sollevare il peso della oppressione torni a scaricarsi sui deboli. A questo punto il problema è di preparare il personale a modificare profondamente il proprio atteggiamento verso i pazienti. A proposito di ciò, ho notato che il paziente Ivano trascinava l’arto inferiore destro, come fosse paretico. Ho detto ciò all’infermiere di turno, il quale mi ha detto che si trattava di una simulazione. A comprova di ciò ha invitato il paziente a saltare, iterativamente, sempre più forte, promettendogli una Coca Cola. Era incredibile vedere questo paziente ridotto a marionetta rotta nelle mani dell’uomo deputato dalla società a “custodirlo” e a “curarlo”. 14
Il giovane Basaglia e la critica della scienza (1980) AGOSTINO PIRELLA
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mprovvisamente, mentre cerco di dare ordine a questo scritto, scopro quanto è difficile scrivere su Franco Basaglia. Per me, almeno, poiché sono ancora dentro a emozioni e vissuti legati alla vicenda biografica del grande amico, mentre complesse e non risolte restano le questioni dell’oggi, anche teoriche e di linea. Poi c’è questo impegno sulla gestione pratica e organizzativa delle nuove norme che decretano la fine dell’assistenza manicomiale, così poco valutate dai conservatori e così ancora poco capite da certi altri ambienti da aprire pericolosi varchi alla restaurazione dell’antica violenza e alla sfacciata disapplicazione della legge. In questi varchi si affacciano le risorse abili di nuovi eserciti o di tecnici vari, che ripetono all’infinito i gesti noti del mercato diffuso della cura. La crisi si esprime anche in questo, che per sopravvivere la riforma ha bisogno di non avere troppi nemici, ma d’altra parte, se cerca alleati nei nuovi tecnocrati, si consegna a una ripetizione di ipotesi già fallite altrove. E basti pensare alla Francia, piena di orgoglio analitico, farmacologico, behaviouristico, e così via, ma tanto psichiatrizzante e repressiva (120.000 internati psichiatrici, numero crescente di bambini in trattamento, tasso di invalidazione psichiatrica in aumento) da consigliare il nuovo ministro della Sanità, Ralite, di insediare una commissione per la revisione Il testo è apparso inizialmente sulla rivista “Sapere”, 851, 1982, pp. 4-9. Abbiamo inserito tra parentesi quadre i riferimenti bibliografici aggiornati.
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dell’esistente. Poco prima della sua scomparsa, già a Roma, Basaglia era consapevole di tutta questa pesante complessità, e a certe mie posizioni depressive rispondeva con la decisa scelta di immergersi, di scavare, di lavorare con tenacia per il lungo periodo. Allora da qui bisogna partire, e mi viene in mente un’immagine del periodo immediatamente precedente la riforma, l’immagine della nave che affonda e delle palafitte.1 Franco, nel dibattito di quegli anni, in cui si preparava un bilancio dei dieci anni della Istituzione negata (1968-78) evocava la complessità della situazione con l’immagine del “mare tumultuoso in cui noi dobbiamo affrontare la vita, non la malattia o la salute”. “Il problema attuale – continua – è che ci troviamo nella stessa situazione di Cortez dopo aver bruciato le navi; non abbiamo alcun ponte alle spalle per riprendere a veleggiare sicuri nel mare.” Un pur attento interlocutore (Taverna) fraintendeva: “Allora la nave va alla deriva” chiedeva. E Basaglia: “Non c’è più la nave, è affondata. Questo è il problema”. Bisogna ricostruirla? Basaglia: “No. Naturalmente il problema è: cosa facciamo? Dopo dieci anni abbiamo affondato la nave ma adesso ci sono tante altre navi che veleggiano per l’oceano piene di pazzi o di emarginati o di dissidenti. Tentando di fondare una cultura diversa abbiamo creato una situazione in cui queste navi sono impazzite ancora di più. Ora noi siamo in acqua e cerchiamo di costruire qualcosa di nuovo”. Taverna: “Forse una piccola barca?”. Pirella: “Diciamo che è il momento delle palafitte, che sono le prime abitazioni dell’uomo, insieme alle caverne”. E Basaglia: “Siamo in una situazione abbastanza singolare, perché mentre noi cerchiamo di costruire le palafitte, che non tengono perché ce le buttano giù continuamente, gli altri cominciano a fabbricare altre navi molto più efficienti. È 1. “Il manicomio è un aspetto parziale, distaccato, cristallizzato, nel quale puoi anche fare un certo discorso, puoi al limite svuotarlo e immettere la popolazione nel territorio, senza che questo incida in modo rilevante nella problematica della violenza, dell’anormalità in generale […]. In una metropoli […] le contraddizioni si verificano in modo tanto difficilmente controllabile che non ha senso parlare, come ad Arezzo o Trieste, di psichiatria perché è un altro il problema da affrontare di cui quello del manicomio è parte” (F. Basaglia, F. Ongaro Basaglia, A. Pirella, S. Taverna, La nave che affonda, Savelli, Roma 1978, p. 89 [ried. Raffaello Cortina, Milano 2008, pp. 80-81]).
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L’inesauribile estensione e la linea “forte” (1986) AGOSTINO PIRELLA
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onfesso di non essere responsabile del titolo che gli organizzatori hanno dato a questa relazione conclusiva, anche se il suo carattere un po’ ironico e spero provocatorio mi è piaciuto; credo che si possa dire che funziona, agisce ed evoca. Nella storia, breve, di Psichiatria democratica – che noi sentiamo tuttavia pesante e difficile – la nota dell’inesauribile e dell’estensione l’abbiamo avvertita, anzi giocata spesso con puntigliosità e rigore, distinguendo, precisando, contrapponendo, rischiando anche di essere fraintesi e falsati.1 Per esempio, se io dovessi qui, a fronte di questo importante lavoro organizzativo dei compagni del Comitato regionale campano (e vorrei ricordare, oltre a Sergio Piro, Tonino Oddati e Vito D’Anza e tutti gli altri a cui indirizzo un caloroso applauso) a conclusione di queste giornate in cui decine di interventi, di proposte, di studio (come giustamente le abbiamo chiamate); insomma se dovessi elencare le disinformazioni, le volute distorsioni, le disinvolte affermazioni di chi – lontano da noi – non si è documentato, di chi non ha ritenuto di leggere, dico Pubblicato inizialmente in V. D’Anza, A. Oddati (a cura di), Scienza operatività didattica. Atti delle giornate nazionali di studio di Psichiatria democratica, Eboli 21-23 marzo 1986, Edizioni 10/17, Salerno 1988, pp. 183-202. Sono stati aggiornati, tra parentesi quadre, i riferimenti bibliografici. 1. Basti per tutti il lungo e incredibile fraintendimento da parte di Giovanni Jervis, il cui ultimo contributo è apparso su “Mondo Operaio”, maggio 1986, L’antipsichiatria fra innovazione e settarismo, già presentato al convegno “Psichiatria a confronto”, Roma, giugno 1985.
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leggere letteralmente per esempio ciò che ha lasciato scritto Franco Basaglia, non basterebbe il tempo, e francamente me ne manca la voglia. Basti citare i recenti scritti di Jones e Poletti sul “British Journal of Psychiatry”, che rendono bene il clima di voluta ostilità che certa psichiatria ufficiale inglese dimostra verso il nostro lavoro (e di cui ha parlato ieri Shula Ramon),2 o la ancora più recente distorsione indecente della verità sull’esperienza della riforma a Trieste, operata dalla trasmissione televisiva di Valerio Riva, per avvertire quanto inesauribile deve essere la nostra pazienza e la nostra capacità di fronteggiare le contraddizioni, che appunto non sono solo quelle portate dai pazienti o dalla concreta, dura realtà del servizio. Ma allora “inesauribile” significa forse instancabile capacità di difesa e di risposta? Non è solo così. Si tratta di un’estensione inesauribile nel senso che copre aree attive e propositive, capacità di fare domande e di costruire proposte, e non solo risposte alle altrui contestazioni. Ma così è anche per questioni ormai “storiche”, su cui si esercitano periodicamente tutti coloro che intendono prendere le distanze dal movimento che, unico al mondo, è riuscito a ottenere che più nessun paziente sia ricoverato in manicomio e che, per converso, siano programmati servizi per le risposte territoriali. E, badate, questa presa di distanza significa soprattutto voglia di voltare pagina, di mettere la sordina o addirittura di denigrare, tutto quanto è stato non solo realizzato, ma elaborato, pensato, prodotto in questi ultimi vent’anni. Come se fosse possibile agire con cinica disinvoltura e pretendere di restare dentro un’ipotesi di trasformazione e di riforma, non dico di radicale liberazione e di rivolta contro ogni ingiustizia, contro ogni forma di oppressione e di discriminazione di ceto, di censo, di classe, di sesso, di razza. Perché io credo che, al di là delle differenze, è questo che ci ha sempre caratterizzato. Certamente, le forme che ha assunto la nostra iniziativa sono state as2. K. Jones, A. Poletti, Understanding the Italian Experience, “British Journal of Psychiatry”, 146, 1985; S. Ramon, Understanding the Italian Experience, “British Journal of Psychiatry”, 147, 1985; K. Jones, A. Poletti, The Italian Experience Reconsidered, “British Journal of Psychiatry”, 148, 1986.
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Cronologia a cura di LUCILLA GIGLI e MARICA SETARO
1930: Agostino Pirella nasce a Reggio Emilia il 21 settembre da Demetrio e Maria Masini. In casa e fra gli amici più stretti è conosciuto con il nomignolo di Orio (diminutivo di Gregorio, nome del nonno materno, a cui era molto legato). È primogenito di tre figli, Giuseppina (Giuse) ed Emanuele (Nele), quest’ultimo nato nel 1940 e diventato presto un famoso pubblicitario. 1948: si iscrive alla Facoltà di medicina e chirurgia dell’Università di Parma. 1954: si laurea discutendo la tesi Psicoterapia di gruppo con il professor Fabio Visintini, direttore della Clinica di malattie nervose e mentali. Nello stesso anno e nella stessa clinica universitaria, si iscrive alla scuola di specializzazione. 1955: conosce Franco Basaglia, in occasione di una riunione della Società italiana di psichiatria, sezione veneto-emiliana. Il 1° agosto 1955 viene assunto come medico supplente presso l’ospedale neuropsichiatrico di Mantova. Sempre nello stesso anno fonda la rivista “Criteri. Rivista bimestrale di cultura” (pubblicata dal 1955 al 1960) di cui è direttore. Della redazione fanno parte Alessandro Badiali, Mario Baroni, Gianna Bigi, Massimo Pauri e Domenico Righetti. Il 1° agosto inizia anche il lavoro come medico supplente presso l’ospedale neuropsichiatrico di Mantova. 60
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1956: sposa Gianna Bigi, insegnante di Lettere, militante prima nel PSIUP, poi consigliera comunale del PCI al Comune di Gorizia (1975-1985). Pirella pubblica i primi lavori per la rivista scientifica “Neurone”, tra cui Contributo alla psicopatologia della comunicazione umana. Collabora con la rivista culturale “Il Verri”, recensendo Hommage à Eugène Minkowski in “L’évolution psychiatrique”. Partecipa e vince il concorso come medico assistente di ruolo all’ospedale neuropsichiatrico di Mantova. 1957: consegue il diploma di specializzazione. Con Franco Basaglia, Bruno Callieri, Sergio Piro, Francesco Corrao e altri tentano a Parma di istituire una Società di psicopatologia, ma pressioni accademiche li fanno desistere dall’iniziativa. 1959: partecipa al XXVII Congresso nazionale della Società italiana di psichiatria a Genova con due comunicazioni, Nozioni di simbolo in psicopatologia e Possibilità pratiche e teoriche della tecnica di “Discussione di gruppo” in ospedale psichiatrico. 1961: diventa primario dell’istituto psichiatrico mantovano e in questo periodo inizia la pratica psicoterapeutica frequentando il Centro di psicoterapia di Milano diretto da Pier Francesco Galli. Invitato da Elio Vittorini, partecipa al numero del “Menabò” su Industria e letteratura pubblicando l’articolo Comunicazione letteraria e organizzazione industriale. Esce inoltre per la rivista “Rendiconti” il saggio Fenomenologia e scienza. Husserl, MerleauPonty, Paci. 1962: a novembre nasce il figlio Martino. 1963: è relatore, con Gillo Dorfles, al convegno fiorentino su Arte e comunicazione organizzato dal Gruppo 70. Tema della sua relazione è la psicopatologia dell’espressione e della comunicazione. 1965: si trasferisce a Gorizia presso l’ospedale psichiatrico diretto da Franco Basaglia e diviene medico primario del reparto osser61
Gli ultimi figli di Pirella MARIO COLUCCI
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enezia, 1977, casa di Franco e Franca Basaglia: pochi mesi prima del Réseau internazionale di Trieste,1 Salvatore Taverna, un giornalista che ha attraversato l’esperienza del disagio, sperimentando di persona le durezze e le contraddizioni della psichiatria, intervista la celebre coppia. L’altro interlocutore è Agostino Pirella. Ne viene fuori un documento2 di grande interesse sulle trasformazioni in corso, un anno prima dell’approvazione della legge 180. L’incipit è illuminante: i Basaglia e Pirella ci tengono a puntualizzare subito che con quest’intervista non intendono riproporre nessun ruolo legato alla loro professionalità.3 “Io credo”, dice Pirella, “che siamo intervistati più per le nostre esperienze che per il fatto che siamo specialisti in psichiatria”; 4 ma, aggiunge, abbiamo percorso un itinerario “in cui abbiamo sostanzialmente demolito il mito dello psichiatra come decifratore del senso.”5 In altri termini, sente da subito il bisogno di scrollarsi di dosso quell’immagine ingombrante dell’esperto che vuole 1. Il Réseau internazionale di alternativa alla psichiatria nasce a Bruxelles nel 1975, promosso da operatori psichiatrici e non, provenienti da vari paesi, che lavorano per una critica all’ideologia e alle istituzioni psichiatriche, per un’alternativa alla politica del settore e per un’aggregazione e coordinamento degli utenti. L’anno dopo il Réseau si tiene a Parigi, quindi a Trieste, e in seguito negli Stati Uniti e in Messico. 2. F. Basaglia, F. Ongaro Basaglia, A. Pirella, S. Taverna, La nave che affonda, Raffaello Cortina, Milano 20082. 3. Ivi, p. 17. 4. Ibidem. 5. Ibidem.
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sciogliere l’enigma della follia, immagine già descritta da Michel Foucault e che risale a Pinel, il quale voleva fare del manicomio il luogo di rivelazione della verità del folle. “E forse noi siamo stati gli ultimi figli di questa ipotesi affascinante…”, conclude Pirella.6 Gli ultimi figli. “Perché gli ultimi figli? Dopo che verrà?”, incalza Taverna. Non si sa bene, risponde Pirella, comunque noi psichiatri “non siamo più gli esperti della follia”.7 Pirella e i Basaglia sentono di dover rinunciare all’eredità di una tradizione di pensiero e di ricerca, iniziata con un’apparente liberazione (Pinel in Francia, Tuke e Conolly in Gran Bretagna), ma ambiguamente sospesa tra scienza positiva e filantropia8 e oggi “costretta dentro una griglia istituzionale e legislativa di custodia, di controllo e normalizzazione”.9 Se agli inizi del loro impegno, sull’onda della passione fenomenologica, avevano immaginato di poter “portare alle ultime conseguenze la comprensione della follia”,10 successivamente, l’impatto con la realtà del manicomio aveva vanificato le loro illusioni: avevano dovuto mettere tra parentesi la malattia, più che interpretarla, e avvicinarsi agli internati, uno per uno. Non saranno loro gli ultimi figli di Pinel. Altri, negli anni che seguiranno fino ai giorni nostri, armati di velleità scientifiche più spregiudicate, verranno ad accreditarsi come tali. In altri termini, viene ribadita l’irreversibilità di una scelta rispetto alla quale non si può più tornare indietro: scelta dolorosa, addirittura “schiacciante”,11 perché non si tratta solo di mette6. Ibidem. 7. Ivi, p. 18. 8. Scrive Pirella: “Secondo Michel Foucault, tra i due avvenimenti: 1657 (creazione dell’ospedale generale e ‘grande internamento’ dei poveri) e 1794 (‘scena primaria’ della liberazione dalle catene dei ricoverati di Bicêtre) passa qualcosa di ambiguo che non si risolve con le verità positive della scienza e della filantropia”. A. Pirella, “Michel Foucault in Italia, o la critica della psichiatria”, in Il problema psichiatrico, Centro di Documentazione, Pistoia 1999, p. 116. 9. Id., “Dentro la crisi della psichiatria”, in Il problema psichiatrico, cit., p. 42. 10. F. Basaglia et al., La nave che affonda, cit., p. 18. 11. Si rimanda all’espressione che Marica Setaro nel suo intervento pubblicato in questo fascicolo riprende da un manoscritto dell’Archivio Pirella, a proposito della contraddizione inerente all’elaborazione intellettuale, sia sforzo per sopportare il lavoro quotidiano di psichiatra manicomiale, sia velo nell’azione di trasformazione dell’esistente. Cfr. M. Setaro, Diario teorico di uno psichiatra, infra.
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Psichiatria italiana e pulsione di sapere. Le tensioni di Pirella PIERANGELO DI VITTORIO
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a cornice problematica all’interno della quale situerò Agostino Pirella, e il mio incontro con lui, è il rapporto tra teoria e prassi. La formula è molto schematica: tale rapporto può, infatti, declinarsi in modi diversi e abbracciare un campo ampio e articolato. In tal senso, esso designa piuttosto una “costellazione” di coppie e di nessi: sapere e potere, epistemologia e militantismo, ricerca e pratiche ecc. In secondo luogo, si tratta di una formula “datata”, enunciata cioè negli stessi termini in cui avrebbero potuto esprimersi persone come Pirella o Franco Basaglia. Questo significa che il rapporto tra teoria e prassi sarà qui considerato sotto una particolare angolatura: da un lato, il momento storico in cui fu percepito come un “problema” incandescente e trasversale; dall’altro, la specifica realtà delle esperienze di trasformazione della psichiatria in Italia. Mi riferisco al periodo che va dall’arrivo di Basaglia all’ospedale psichiatrico di Gorizia, nel 1961, alla legge 180 del 1978. All’incirca un ventennio, durante il quale si è prodotta una sospensione abissale delle evidenze che strutturavano lo spazio scientifico, giuridico e istituzionale della psichiatria. Per i protagonisti di quella stagione di cambiamenti radicali, il problema del rapporto tra teoria e prassi si è presentato all’interno di un’esperienza così vertiginosa, intensa e totalizzante, da autorizzarci a definirla “traumatica”. Il gioco delle ricezioni La prima data da ricordare è il 2001, anno di pubblicazione della 82
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monografia su Franco Basaglia.1 Nonostante appartenessimo a una generazione che non aveva conosciuto Basaglia, né la fase immediatamente successiva alla legge 180, il nostro lavoro fu accolto con grande favore, talvolta persino in maniera entusiastica, soprattutto dagli esponenti della vecchia guardia di Gorizia (al punto da meritarsi l’etichetta di libro “goriziano”). Perché? La mia sensazione è che il nostro libro – prima ricostruzione organica dell’esperienza di Basaglia – li abbia in qualche modo “risarciti” di qualcosa. E questo evidentemente presuppone che essi dovessero sentirsi in qualche modo “defraudati” di qualcosa. Bisogna dire che la nostra ricerca insiste molto sulla matrice “filosofica” di Basaglia, provando in particolare a mostrare come la sua impostazione fenomenologica, piuttosto che dissolversi, si trasformi durante l’esperienza di Gorizia, aprendosi a un’inedita dimensione pratica e politica. Ora, l’ipotesi è che questa dimensione “intellettuale”, per una serie di ragioni sulle quali non possiamo qui soffermarci,2 si sia progressivamente eclissata, a favore dell’affermarsi di un’identità di tipo pratico-militante. Dopo la legge 180, nessuno dei protagonisti delle lotte contro il manicomio degli anni sessanta e settanta si sarebbe sognato di mettere in discussione, o anche solo di relativizzare, tale dimensione engagée. Il problema è che, assolutizzandosi, l’identità praticomilitante ha finito per semplificare un “profilo culturale” che era molto più articolato, dinamico, problematico, contraddittorio, intimamente lacerato. Si ha quasi l’impressione che spesso i protagonisti della stagione trasformatrice si siano defraudati da soli, attraverso una sorta di “automutilazione” o di “autocensura”, che li ha condotti a vivere le loro originarie (e inesauste) pulsioni di sapere con un po’ di senso di colpa, per non dire di vergogna. Basaglia non era certo l’unico ad avere questo profilo culturale, nato dall’innesto di un impegno pratico-politico su una precoce curiosità intellettuale e un’accesa libido sciendi. Basti pensare a 1. M. Colucci, P. Di Vittorio, Franco Basaglia, Bruno Mondadori, Milano 2001 (nuova edizione: alpha beta, Merano 2020, in corso di stampa). 2. A questo proposito, cfr. P. Di Vittorio, B. Cavagnero (a cura di), Dopo la legge 180. Testimoni ed esperienze della salute mentale in Italia, Franco Angeli, Milano 2019.
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Diario teorico di uno psichiatra. Un profilo di Agostino Pirella MARICA SETARO
Non temere mai di dire cose insensate! Ma ascoltale bene quando le dici. L. Wittgenstein, 1947
1. Un intellettuale prestato alla psichiatria: la formazione È il 16 gennaio 1996 quando Diego Giachetti incontra Agostino Pirella a Torino per un’intervista che esordisce così: “Vorrei cominciare chiedendoti come hai incontrato la psichiatria nel corso della tua formazione umana e scolastica”. Schivo, poco incline a raccontare di sé e degli aspetti più intimi della sua vita, nella risposta Pirella cede al ricordo, evocando un perturbamento familiare come stimolo necessario alle prime scelte di lettura: La mia era una famiglia di grandi affetti, ma anche di grandi contrasti, mio padre era calabrese, mia madre emiliana con venature femministe ante litteram che non sempre si conciliavano con la mentalità paterna, tipica dell’immaginario maschile di inizio secolo. Io ero il primogenito di tre figli e, all’interno dei contrasti familiari, assumevo a volte il ruolo di capro espiatorio, Marica Setaro è assegnista di ricerca all’Università di Siena. “Diario teorico di uno psichiatra”: così riporta il frontespizio di un quaderno ritrovato nell’archivio di Agostino Pirella. Tra parentesi l’autore aggiunge: “Titolo possibile di un libro”. Agende, taccuini, quaderni, notes e rubriche compongono una parte considerevole del materiale sciolto della documentazione Pirella, dagli anni cinquanta fino ai primi anni duemila. La serie annovera circa 500 unità, suddivisa in 6 scatole. Si tratta di annotazioni bibliografiche, commenti a libri, appunti di viaggio, interventi a convegni, pensieri intimi, citazioni da letture, considerazioni sparse, in un arco temporale non sempre chiaramente o esplicitamente indicato: Archivio Agostino Pirella (d’ora in poi AAP), scatole 1-6, Agende, quaderni, rubriche, taccuini. Ringrazio Lucilla Gigli e Beatrice Biagioli, responsabili del lavoro di riordino e di inventariazione delle carte Pirella presso la Biblioteca Umanistica di Arezzo (Università di Siena), per avermi supportato costantemente nella consultazione del materiale.
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ma mi ponevo anche dal punto di vista dell’osservatore che guarda al conflitto per capire cosa si possa fare per risolverlo. […] Questa esperienza personale si è poi nutrita di tutti quegli stimoli culturali che stavano diffondendosi […]. Mi riferisco alla pubblicazione dei libri di Freud, Jung, che letteralmente divoravo, dedicandomi, anche, allo studio della produzione culturale del cosiddetto “Circolo di Vienna”, Wittgenstein, la relativa “svolta linguistica” della filosofia.1 La ritrosia, se non l’ostilità, verso l’autobiografismo2 è una nota ricorrente che emerge già nello studente iscritto a Medicina, nei primi anni cinquanta, a Parma. Un aspetto caratteriale non privo di inquietudine per chi, appena diciottenne, assume severamente il compito della conoscenza come strumento critico di impegno civile e collettivo, all’indomani della guerra. Accanto alla precoce convinzione di diventare uno psichiatra, maturata negli anni del liceo dopo la “grande impressione” ricevuta dalla lettura di “Freud e di altri analisti”,3 Orio4 si nutre di interessi onnivori che spaziano dalla politica al teatro, dalla letteratura all’arte, passando per la filosofia, la poesia, il disegno. Che non si tratti di divagazioni 1. La bozza dattiloscritta dell’intervista rinvenuta in archivio non reca titolo e rimase non pubblicata. Ringrazio lo storico Diego Giachetti che, contattato, me ne ha ricostruito il contesto. Il testo è conservato in AAP, busta 206, fasc. 5. 2. In un’intervista resa a Erica Gianone, sua allieva all’Università di Torino, dichiara: “Sono sempre un po’ restio a parlare di autobiografia… sarà perché non ho fatto un’analisi personale… La mia storia infatti ha per soggetto il noi: è la storia dei malati di mente, del problema della malattia mentale, dei manicomi insomma”, in AAP, busta 216, fasc. 4 “Arezzo”, dattiloscritto del 16 novembre 1998. 3. “Inoltre ho letto molto precocemente Freud e gli altri analisti, nei testi disponibili subito dopo la guerra, prima ancora di iscrivermi alla Facoltà di medicina. Mi hanno fatto una grande impressione, e mi hanno aiutato a leggere i testi della clinica neurologica e psichiatrica con volontà di verifica”: manoscritto s.d. recante il titolo “Risposte alle domande di Prassi e Teoria”. La rivista, edita a Pisa tra il 1974 e il 1981, aveva sottoposto a Pirella un’intervista con ventitré domande. Il manoscritto rende conto delle risposte alle prime tre domande. Da una verifica degli indici della rivista, si desume che l’intervista non venne mai pubblicata; cfr. AAP, busta 216, fasc. 3. 4. È il nomignolo con cui veniva chiamato in famiglia; si tratta del diminutivo del nome “Gregorio”, suo nonno materno. Orio compare anche come pseudonimo insieme a Piragos, Amidella con cui sigla i disegni, le vignette, i bozzetti, molto presenti fra i taccuini e gli album di questo periodo. Un talento particolare che condivide con il fratello Emanuele, pubblicista di fama internazionale.
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Pirella Lecture Ritrovare il senso della diagnosi VITTORIO LINGIARDI
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un onore tenere la prima Lezione Agostino Pirella, un onore toccato dalla memoria. Pensare Pirella muove ricordi lontani che prendono forma viva in un’eredità assimilata nella pratica clinica quotidiana: l’ascolto della soggettività del paziente e il riconoscimento della sua storia come ingredienti principali della psichiatria e della psicoterapia. Alzo gli occhi verso gli scaffali più alti della mia libreria e guardo i dorsi di alcuni volumi. Sono i libri-radici che hanno alimentato la mia scelta di studiare medicina per dedicarmi alla psichiatria. Tra questi, un volume curato da Franco Basaglia nel 1968. Lo lessi, diciottenne, dieci anni dopo la sua pubblicazione, nell’anno cruciale 1978, imbattendomi per la prima volta nella scrittura nitida e colta di Pirella. Altri dieci anni e, nel 1988, conclusa la specializzazione, mi sentivo figlio di una psichiatria che, grazie alle idee e alle azioni di questi uomini e del movimento che attorno a loro si era raccolto, era stata bonificata da retaggi autoritari e violenti. Tanto che oggi, nella locandina che annuncia la nostra giornata dedicata a Pirella, possiamo leggere queste sue parole: “Questo era il reparto agitati del manicomio di Arezzo. Adesso è pieno di giovani studenti. Nessuno poteVittorio Lingiardi, psichiatra e psicoanalista, insegna Psicologia dinamica all’Università La Sapienza di Roma. La lezione, tenuta ad Arezzo il 16 maggio 2019, ha inaugurato il ciclo dedicato ad Agostino Pirella. Alcune parti di questo contributo sono rielaborate a partire da Lingiardi (2013) e Lingiardi (2018).
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va immaginare all’epoca che un posto di dolore e di violenza un giorno sarebbe diventato un luogo di cultura e di pace. Noi ci abbiamo creduto e ci siamo riusciti”. La mia formazione è avvenuta a valle di queste conquiste. Fantasma e tormento Per la mia lezione ho scelto un tema controverso e poco amato dal movimento “antipsichiatrico” (doverose le virgolette). Vi parlerò infatti della diagnosi, della sua costruzione e del suo impiego in psichiatria e in psicoanalisi. Un tema che per molti aspetti differenzia la mia esperienza da quella di chi mi ha preceduto e sancisce il cambiamento dei contesti clinici e culturali. In estrema sintesi si potrebbe dire che, con una parte della mia generazione, ho provato a restituire senso e sensibilità alla diagnosi e ai sistemi diagnostici, al tempo radicalmente e necessariamente messi in discussione. “Le diagnosi psichiatriche”, scriveva Basaglia, “hanno assunto un valore ormai categoriale, nel senso che corrispondono a un etichettamento, oltre il quale non c’è più possibilità d’azione o di sbocco. Nel momento in cui lo psichiatra si trova faccia a faccia con il suo interlocutore (il ‘malato mentale’) sa di poter contare su un bagaglio di conoscenze tecniche con le quali – partendo dai sintomi – sarà in grado di ricostruire il fantasma di una malattia; avendo, tuttavia, la netta percezione che – non appena ne avrà formulata la diagnosi – l’uomo sfuggirà ai suoi occhi, perché definitivamente codificato in un ruolo che ne sancisce soprattutto un nuovo status sociale” (1967a, p. 381, corsivo mio). Come molti psichiatri della mia età (sono del 1960), sono cresciuto in bilico tra l’attrazione per un antidiagnosticismo idiosincratico e tinto d’ideologia e l’illusione d’efficacia di una diagnostica elencativa e pragmatica. Entrambe le posizioni sono nocive al paziente. Ho dedicato buona parte della mia attività accademica a cercare una terza posizione che fosse basata sulla diagnosi etimologicamente intesa come conoscenza. E, lo vedremo tra poco, come tormento per il clinico. L’occasione di questa lezione mi ha spinto a rileggere alcuni interventi di Pirella. Sempre attento ai linguaggi parlati del pote133
Interventi
La condizione eccentrica. Una costellazione copernicana MARCO RUSSO
Talvolta si è tanto diversi da sé stessi quanto dagli altri. La Rochefoucauld
1. Un mondo di mondi Ci sono diversi modi per descrivere la condizione umana. Alcuni risultano particolarmente efficaci perché colgono dei tratti antropologici o almeno quelli di un’epoca, riuscendo a collegare aspetti diversi, sintomi caratteristici, stati visibili o latenti. Il plesso metaforico-concettuale legato all’idea di “centro”, o meglio alla sua perdita,1 potrebbe essere uno di questi modi. Cosa dunque intendiamo per eccentricità? La condizione eccentrica è quella di un uomo, al contempo, sempre al centro e sempre alla periferia di sé stesso, perfino quando il centro è quello primario della propria corporeità. Un uomo con molti centri di riferimento, che sono periferie di qualcos’altro, in un universo di interazioni variabili. Una condizione certo non facile: i rovesciamenti posizionali e prospettici possono essere dissestanti e fatali; la disgregazione mentale e fisica costituisce un’incombente minaccia. Per questo l’eccentricità ha una pericolosa carica conflittuale. Tuttavia tale condizione offre anche un forte potenziale cognitivo ed esistenziale, che apre a incontri e scoperte inaspettate. La condizione eccentrica è dunque una situazione di confine tra piani differenti, che genera spesso Marco Russo insegna Filosofia teoretica all’Università di Salerno. 1. Allusione al titolo celebre ed eloquente di H. Sedlmayr, Perdita del centro. Le arti figurative dei secoli XIX e XX come sintomo e simbolo di un’epoca (1948), Borla, Roma 1983. Sempre dall’ambito figurativo viene un notevole studio che cerca di spiegare la forza psicologica e percettiva dell’idea di centro, cfr. R. Arnheim, Il potere del centro. Psicologia della composizione nelle arti visive (1982), Einaudi, Torino 1984.
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due tipologie di reazione difensiva: la semplificazione drastica, che riduce le differenze a dualismo, a distinzioni bipolari; oppure un pluralismo diffuso, dove le differenze si adattano e attutiscono reciprocamente, secondo ricombinazioni continue. La prima reazione può generare uno scontro frontale, anche distruttivo. La seconda, un relativismo indifferente e volubile, con una sorta di malessere a bassa intensità ma dalle imprevedibili evoluzioni. Sono due forme di riduzione estrema della complessità generata dalla condizione eccentrica, che ne accrescono i lati minacciosi e distruttivi. Il compito sarebbe dunque di attenuare questi rischi, cominciando a capirne gli elementi strutturali. Da queste preliminari considerazioni si comprende quindi come l’eccentricità sia un modello antropologico particolarmente adatto a descrivere l’età moderna: quell’era copernicana che, mentre il tradizionale sfondo teologico e metafisico tramontava, vide l’uomo stagliarsi nella sua solitudine, costringendolo a fare i conti con sé stesso come mai prima era accaduto. Dopo quello della circolarità, era cominciato il tempo dell’eccentricità.2 Posto nel mezzo di un mondo di mondi,3 il centro cosmico e soggettivo si tramutò in un incrocio, un punto di transizione tra innumerevoli strade possibili provenienti da una indefinita quantità di punti. Un centro immaginario, sempre spostato. Se sostituiamo al termine centro il termine fondamento, possiamo dire che, come alla prospettiva centrica è subentrata quella eccentrica, co2. Per secoli il cerchio è stato emblema di perfezione, grazie alla sua attitudine a unire successione e contemporaneità, eterno e tempo. Molti eventi essenziali della storia spirituale moderna si possono comprendere come “atti di depotenziamento della metafisica del cerchio”, H. Blumenberg, Paradigmi per una metaforologia (1960), Raffaello Cortina, Milano 2009, p. 154. L’eccentricità è un parametro geometrico che determina le trasformazioni del rapporto che c’è tra centro e circonferenza intesa come luogo dei punti equidistanti dal centro: maggiore è l’eccentricità, minore è la somiglianza della figura a una circonferenza. Tali trasformazioni, studiate nella teoria delle coniche fin dall’antichità, generano le tre principali figure di ellisse, parabola e iperbole. Quando Keplero nel 1609 stabilì che i pianeti hanno orbite ellittiche interruppe la millenaria concezione della perfezione ciclica, fornendo ulteriori spinte per quella riflessione sul “decentramento” che sarebbe stata uno dei più influenti aspetti della svolta copernicana e di cui la stessa eccentricità antropologica è una variante. 3. È la mirabile formula di sapore bruniano usata da Kant nella sua Storia universale della natura e teoria del cielo (1755), Bulzoni, Roma 2009, p. 72.
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Identità: l’enunciazione collettiva PAOLO FABBRI
Pour qu’une identité s’affirme il faut qu’elle ait surmonté l’épreuve de la durée et l’affrontement de l’autre. J. Starobinski, Personne, masque, visage, 1976
1.
La riflessione sull’identità, di cui si sottolinea oggi l’indecisione e la crisi, si è concentrata prevalentemente sull’Io, sull’istanza individuale dell’enunciazione e le sue diverse figure o maschere (Descombes). Una singolarità personale: l’Io nominativo e il Me accusativo; il Medesimo, cioè l’identità con sé stessi nel corso del tempo, e lo Stesso, che si differenzia dalle identità altrui (Ricœur). Il singolo ha dovuto sempre confrontarsi con alter Ego, cioè con l’appartenenza1 e la partecipazione a raggruppamenti più ampi e di diversa entità, a cui un individuo, durevolmente situato all’incrocio delle classificazioni in cui è iscritto, può connettersi o sottoporsi, oppure sciogliersi o liberarsi.2 È la vita sociale, intesa non come Paolo Fabbri dirige il Centro internazionale di scienze semiotiche dell’Università di Urbino. 1. Per distinguere identità e appartenenza Michel Serres definisce l’identità nei diversi campi: “Logico per il principio e la sua tautologia, l’invarianza temporale per contraddizioni; sociopolitico, nella critica del razzismo e il processo d’esclusione; biologico per il sistema immunitario e la sua fluttuante eccezione uterina; psicologico, poiché definisce una libido dell’appartenenza; medita sullo spazio e sul tempo e identifica infine l’io in tre stati: una plasticità vergine, un paesaggio complicato, delle trasformazioni vibranti tra una fase e l’altra”. 2. Per un’eloquente valutazione contemporanea dell’identità, cfr. Bauman: “Delle due l’una: o l’identità viene imposta da una posizione sociale che offre scarsa o nessuna possibilità di scelta e dunque somiglia a una gabbia da cui si sogna di evadere […] o l’identità è qualcosa da cercare, valutare, scegliere liberamente e possedere e dunque nel nostro universo dedito alla decostruzione dell’immortalità viene resa fragile e sfiduciata: la fragilità […] nega ai suoi possessori il minimo momento di requie e li spinge invece a oscillare
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generica interazione, ma come un campo relazionale e un potenziale dinamico di esplorazione creativa dei rapporti tra organismi che diventano in questo modo persone; l’Io si interdefinisce con il Tu, il quale si fonda sul Noi del mondo sociale coesistente e compresente (Schütz).3 Erving Goffman ha studiato i segni sociali della stigmatizzazione e tracciato l’esemplare analisi micro-sociologica della Forma di vita negatrice dell’identità, attraverso le carriere morali e le strategie di occultazione o copertura, di accreditamento e di discredito sociale di minorati, devianti o emarginati.4 Le identità collettive si enunciano alla prima persona del plurale: una molteplicità internamente articolata nel senso e nel valore che va dal dispositivo acentrico (le “mute” di Deleuze e Guattari), fino alle gerarchie più rigide e complesse (le Caste di Dumont) passando per l’articolata diversità equi-statutaria delle forme di vita all’interno della semiosfera (Fontanille). I nomadi, per esempio, si muovono attraverso lo spazio-tempo, costruendo identità momentanee (Giddens). Goffman ha studiato con acribia le situazioni, più o meno grammaticalizzate, a cui le diverse identità vengono appese, come indumenti a un portaabiti! Con cui si uniformano in divise collettive o tenute individuali di moda oppure si mascherano, in pace o in guerra, nel corso o di riti festosi – parate o carnevali – o di sagaci strategie di camouflage (Fabbri). nevroticamente tra atteggiamenti aggressivi o depressivi. […] La vita è trasformata in una caccia interminabile e mai probabilmente appagante. […] Le persone tendono a vivere tutti gli scontri interpersonali e di gruppo come ‘conflitti di legittimazione personale’ […] lottano per quello che sono piuttosto che per quel che vogliono”. 3. È l’esperienza antipredicativa che Alfred Schütz, il fenomenologo studioso di segni, definisce “atteggiamento verso il Tu”. Concetto limite (Husserl), il Tu è vissuto come il coesistere di una immediata datità. Quanto al Noi, si tratta di un’esperienza dell’Io fondata sul mondo ambiente in quanto parte del mondo sociale che ci è contemporaneo: “La fondamentale relazione del Noi mi è data col mio esser nato all’interno del mondo sociale ambiente”. Il mondo del Tu e quello correlato dell’Io si origina da quello del Noi, come esemplifica “la posizione e interpretazione di segni ai fini della comunicazione”. Per la psicologia, la percezione di un Io indipendente dal Noi è possibile soltanto nell’allucinazione e nel sogno (Sacks). 4. Goffman ha ricostruito una politica connotativa dell’identità di cui ha individuato sommariamente i segni – occasionali, come punti, lapsus, o permanenti, come i “simboli di stigma” ecc., sottoposti a regimi pubblici di visibilità o intrusione. Ha proposto una tipologia transitiva – identità sociale, identità personale – o riflessiva – identità dell’Io o del sentito. Costrutti interattivi virtuali, socialmente significanti da realizzare attraverso tattiche comunicative di allineamento o di passaggio.
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