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384 dicembre 2019

PENSARE LA VIOLENZA Premessa [Sanja M. Bojanić , Damiano Cantone] Judith Butler Interpretare la non violenza Sergia Adamo Violenza, non violenza, vulnerabilità Sanja M. Bojanić Retorica dell’emancipazione vs. retorica della misoginia Adriana Zaharijević Vedere la violenza: immagini e critica Massimo Palma Violenza ascetica. Note sul lavoro in Weber Petar Bojanić, Gazela Pudar Draško Che cos’è la polizia? L’istituzione della violenza universale e la violenza dell’universale Başak Ertür Note sulla difficoltà di scrivere a proposito della violenza di Stato Peter Fenves Il diritto e la violenza: da Kant a Benjamin NUOVE FORME DI SORVEGLIANZA Premessa [Alessandro Dal Lago, Matteo F.N. Giglioli] Alvaro Bedoya, Cindy Cohn “Non ho nulla da nascondere” è un altro modo di dire “Sono privilegiato” Cory Doctorow Il culmine del negazionismo Mark Andrejevic L’automazione della sorveglianza Matteo F.N. Giglioli Diffidenza generalizzata e diffidenza specifica nell’epoca della sorveglianza informatica

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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Mauro Bertani, Graziella Berto, Beatrice Bonato, Deborah Borca (editing, deborah.borca@gmail.com), Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Alessandro Di Grazia, Pierangelo Di Vittorio, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Andrea Muni, Massimiliano Nicoli, Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Stefano Tieri, Carla Troilo, Davide Zoletto direzione: c/o il Saggiatore, via Melzo 9, 20129 Milano sito web: autaut.ilsaggiatore.com ISSN: 0005-0601 collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, S. Borutti, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, R. De Biasi, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, R. Prezzo, G.C. Spivak, G. Vattimo, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek per proposte di pubblicazione: autaut@ilsaggiatore.com Si fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testi di ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).

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Pensare la violenza

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uali dovrebbero essere oggi gli obiettivi di una critica della violenza? A quasi cento anni dalla stesura del celebre saggio di Walter Benjamin che analizzava i rapporti tra violenza e giustizia, la domanda è quanto mai attuale. La violenza politica, verbale, identitaria che pervade i linguaggi e le azioni delle istituzioni, anche quelle destinate a evitarla, impone di ricominciare a riflettere sugli strumenti critici che vogliamo mettere in campo per affrontarla. Un approccio filosofico a tale questione non può evitare di misurarsi con – e dunque anche di tentare di definire quali sono – le forme della violenza contemporanea e in che cosa si distinguano dalle sue forme storiche. E inoltre: sono possibili delle azioni efficaci contro l’uso della violenza, e in che termini? A partire da questa premessa, è stata organizzata la summer school internazionale di Rijeka (Fiume) intitolata Critique of Violence Now: From Thinking to Acting against Violence, che ha visto come momento più importante la lectio magistralis di Judith Bulter dedicata al tema della non violenza e pubblicata qui per la prima volta. Nell’impostazione data al problema da parte della pensatrice americana, la violenza appare strettamente correlata a una pratica e a un’etica della non violenza. A partire dall’analisi del mito fondatore della teoria politica moderna, quello dello stato di natura che sta alla base del contrattualismo, Butler propone una serie di osservazioni critiche che mettono in luce il carataut aut, 384, 2019, 3-8

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tere violento e al tempo stesso irriflesso dei presupposti del discorso politico stesso. Il più importante, in relazione agli effetti di senso che comporta, è quello che riguarda l’esistenza di individui separati gli uni dagli altri, i cui rapporti dovrebbero essere regolati dal diritto. Il saggio ci spinge invece a pensare, nei termini dei processi di individuazione, la condizione reale delle nostre esistenze che sono costantemente correlate alle esistenze degli altri e in costante scambio con l’ambiente sociale, culturale e politico nel quale si svolgono – nel corso della vita – le nostre esperienze. Dunque, una politica della non violenza deve partire da un’affermazione radicale dell’uguaglianza di tutte le vite, una rivendicazione della stessa dignità e valore: “Una vita deve essere degna di lutto, cioè la sua perdita deve essere considerata una perdita, affinché un’ingiunzione contro la violenza e la distruzione possa interessare quella vita che deve essere protetta contro la violenza. Se seguiamo la concezione per cui la perdita di alcune vite è più dolorosa della perdita di altre vite, la condizione di uguaglianza non potrà mai essere raggiunta”.1 Il saggio di Sergia Adamo riprende le riflessioni di Butler concentrandosi in particolare sul concetto di vulnerabilità. Se si vuole evitare che questa parola perda il suo significato e la sua forza, venendo consegnata al vocabolario insipido della political correctness, bisogna ripensarla proprio nel suo rapporto con la violenza. La semplice contrapposizione di questi due termini non esaurisce affatto la ricchezza della loro articolazione: c’è anzi una possibile violenza della vulnerabilità, iscritta in essa come sua possibilità più autentica, quando viene rivendicata per giudicare politiche di difesa e resistenza all’altro. Soltanto una politica della vulnerabilità – ovvero la consapevolezza che tale termine acquista valenze diverse a seconda di chi lo adotta e in quale contesto – permette dunque un uso della vulnerabilità in un’ottica di critica della violenza, ovvero di un atteggiamento “che tenga sempre presente il nesso tra vulnerabilità e aggressi1. J. Butler, Interpretare la non violenza, in questo fascicolo.

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vità, il fatto che, sì, siamo tutti/e sempre vulnerabili, ma la misura del privilegio consiste proprio nelle difese che si possono avere rispetto agli impedimenti originati dalla vulnerabilità stessa”.2 Sempre sulla linea di Butler, Sanja Bojanić analizza il percorso storico dell’emancipazione femminile e di quella che potremmo definire la sua ombra, ovvero la persistente misoginia latente al fondo dei discorsi del potere. Nel corso della storia, la voce femminile ha decisamente faticato a farsi sentire all’interno dei discorsi – sempre maschili – che la riguardavano. Anche a partire dalla Rivoluzione francese, nel momento in cui l’idea dei diritti universali dell’uomo cominciò a trovare una sua traduzione politica, il femminile rimase in una posizione ambigua a metà tra l’inclusione e l’esclusione. Ogni passo fatto in direzione della sua uguaglianza in termini di diritti e opportunità sociali ha provocato un movimento analogo e contrario in direzione della sua esclusione dal discorso pubblico e questo – conclude amaramente Sanja Bojanić – sembra accadere ancora oggi. Il tema della violenza delle immagini e del loro impatto sullo spettatore della nostra società ipermediale è il tema della riflessione di Adriana Zaharijević, che ci conduce in un interessante itinerario filosofico attraverso le considerazioni di due grandi scrittrici contemporanee, Virginia Woolf e Susan Sontag. La domanda di partenza è se le immagini disturbanti e potenti degli orrori della guerra e della violenza abbiano ancora la capacità di destare la coscienza critica degli spettatori – come sosteneva Woolf nel 1937 – oppure se, in un’epoca iper-mediatizzata come la nostra, la fotografia scioccante non sia di alcuna utilità per comprendere i fenomeni da cui è tratta, ma anzi – come ritiene Sontag – essa ci “perseguiti come uno spettro”, laddove invece ci sarebbe bisogno di integrarla in una narrazione più complessa. Sebbene la fotografia non sia più in grado da sola di parlare universalmente a tutti allo stesso modo, generando in ciascuno le reazioni morali che potrebbero portare alla “fine di tutte le guerre”, sarebbe cinico e sbagliato considerarla come una sem2. S. Adamo, Violenza, non violenza, vulnerabilità, in questo fascicolo.

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plice finzione, una rappresentazione costruita di una realtà che non ci riguarda. Il confronto con il pensiero di Weber guida il saggio di Massimo Palma. L’autore sottopone l’opera del pensatore tedesco a una doppia reazione: da una parte, lo fa reagire con la sua analisi psicologica, caratterizzata dalla propensione per il freddo del masochismo, quella freddezza che costituisce il cuore dell’azione burocratica cui è sottoposto il lavoratore salariato; e, dall’altra, con la produzione di Andy Wahrol e la sua estetizzazione dell’alienazione e della serialità, che costituisce la cifra del lavoro e delle forme di espressione – anche artistiche – della nostra epoca. Ne emerge un’analisi della forma del potere burocratico e della violenza a esso collegata: una volenza anonima, legale, livellatrice o, per usare le parole dell’autore, “l’elemento della coazione e il suo necessario incarnarsi in un’‘istituzione coattiva universalistica’ che neghi la legittimità di ogni formazione coattiva particolaristica”.3 L’analisi di Petar Bojanić e Gazela Pudar Draško è invece dedicata al problema della violenza legittima, che nelle società moderne pertiene solo allo Stato attraverso l’istituzione della polizia. Gli autori si interrogano sulla genesi del significato moderno del termine polizia, che in origine non era legato semplicemente al tema dell’ordine pubblico. Oggi infatti essa è esperita come una sorta di “ordine esterno” che regola la vita dei cittadini, ma ci si dovrebbe ricordare che la polizia appartiene fondamentalmente alla società civile, non allo Stato. Ripercorrendo la lettura del tema che Hegel – in contrapposizione a Fichte – offre nelle sue lezioni di filosofia del diritto, Bojanić e Pudar Draško chiariscono come la polizia stia dalla parte della polis, sia la forza civile del popolo e non quella repressiva dello Stato. Soprattutto ne vengono invocati due limiti: quello della “Torre di Babele”, lo sforzo della costruzione dell’universale senza istituzione e dunque destinato a fallire – la condizione dell’assenza della polizia – e lo ius provocationis all’interno del diritto roma3. M. Palma, Violenza ascetica. Note sul lavoro in Weber, in questo fascicolo.

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no. Si tratta della possibilità che era offerta al cittadino romano di “chiamare la polizia”, ovvero di contestare una decisione a lui sfavorevole, di rivolgersi al popolo per opporsi a una decisione di un magistrato o di un giudice – dunque anche a quello che oggi definiremmo ordine pubblico. Accogliendo l’invito di Hegel a ripensare il rapporto tra polizia e vita in comune, gli autori concludono che “solo una tale consapevolezza comune di tutti gli individui e della loro attività individuale e comune, il cui scopo è la vita comune, può ridurre e distruggere i vari protocolli violenti sempre e per sempre”.4 Il lavoro di Başak Ertür prende in esame il concetto di “violenza di Stato”, ovvero il fatto che l’uso legittimo della violenza da parte dello Stato comporti sempre degli elementi di oscurità, un’impenetrabilità dell’azione di polizia al diritto che ne rende complessa e ambigua la definizione. In pratica, nello scrivere sulla violenza di Stato, ci si trova sempre alle prese con il paradosso di tentare di razionalizzare un nucleo di potere che è in se stesso irrazionale. Per mostrarne il funzionamento, l’autrice ripercorre alcuni aspetti del processo Ergenekon, istruito in Turchia a seguito del fallito tentativo di golpe ai danni del premier Erdogan. Il processo si è concluso il 1° luglio 2019 (e quindi dopo la stesura dell’articolo) con l’assoluzione di tutti gli imputati. Il caso è esemplare, poiché si è dimostrato come l’intero impianto accusatorio dello Stato sia nato solo dal sospetto, dalla paranoia e dalla delazione, alimentato dal clima di caccia alle streghe successivo al fallito colpo di Stato. E ci permette di “sperimentare momenti in cui ci si riesce a librare al di sopra del proprio oggetto di riflessione per raggiungere livelli da cui è possibile avere il controllo e che consentono una chiara comprensione del meccanismo stesso della violenza di Stato e del suo intricato operare (il ‘sistema’)”.5 Seguendo la traccia di un saggio di Christoph Menke, Recht 4. P. Bojanić, G. Pudar Draško, Che cos’è la polizia? L’istituzione della violenza universale e la violenza dell’universale, in questo fascicolo. 5. B. Ertür, Note sulla difficoltà di scrivere a proposito della violenza di Stato, in questo fascicolo.

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und Gewalt, Peter Fenves costruisce un dialogo fra le teorie della violenza di Kant e le riflessioni di Benjamin. La posta in gioco è come vada specificamente intesa la parola tedesca Gewalt, che Kant legge ora nel suo significato latino di potestas ora in quello di violentia. Non si tratta semplicemente di un’ambiguità lessicale, ma del paradosso del “concetto di una forza giuridica che emerge, come per magia, dalla sua controparte fisica nell’atto della riflessione”.6 Per Benjamin, che da tale riflessione prende le mosse, si tratta di ammettere che è impossibile una concezione “pura” della violenza, ovvero di una violenza che prescinda dalle proprie caratteristiche empiriche ed esperienziali. Cosa potrebbe essere dunque un concetto puro di Gewalt? Quello di una forza o di un “bene” che si sottrae nel momento stesso della propria manifestazione empirica. [Sanja M. Bojanić, Damiano Cantone]

6. P. Fenves, Il diritto e la violenza: da Kant a Benjamin, in questo fascicolo.

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Interpretare la non violenza JUDITH BUTLER

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e la non violenza ha un senso in termini etici e politici, essa non può semplicemente consistere nel reprimere l’aggressività o eliminarne l’esistenza; piuttosto, la non violenza dovrebbe emergere nella sua pienezza di significato proprio laddove la distruzione è più probabile o addirittura appare certa. Propongo come primo punto di concepire un’etica della non violenza che presuppone forme di dipendenza e interdipendenza ingestibili o fonti di conflitto e aggressività. In secondo luogo, che la nostra concezione dell’uguaglianza si colleghi all’etica e alla politica della non violenza. Affinché tale connessione abbia senso, dovremmo ammettere, nella nostra idea di uguaglianza politica, l’uguaglianza delle vite. Solo una presa di distanza da un individualismo dato per scontato ci farà comprendere la possibilità di una non violenza aggressiva, che emerge nel mezzo del conflitto, che si impone nel campo di forza della violenza stessa. Un approccio completamente egualitario alla conservazione della vita inserisce la questione etica sul modo migliore di praticare la non violenza in una prospettiva di democrazia radicale. Non c’è differenza tra vite degne di essere preservate e vite degne di lutto, il che significa che la capacità di provocare dolore determina la gestione delle creature viventi e si dimostra parte integrante della biopolitica, del modo di pensare l’uguaglianza tra i viventi. Questa argomentazione a favore dell’uguaglianaut aut, 384, 2019, 9-32

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za riguarda direttamente l’etica e la politica della non violenza. Una pratica non violenta può certamente includere un divieto di uccidere, ma non può essere riducibile a tale divieto. La vita istituzionale della violenza non sarà abbattuta da un divieto, ma solo da un ethos e una pratica contro-istituzionali. Voglio ringraziare tutti voi riuniti qui questa sera. Allo stesso tempo, sarebbe saggio, credo, non dare per scontato che ci sia un “noi” unificato che si è riunito qui questa sera. E se ipotizzassi che il “noi” che si è riunito qui, quello a cui e di cui sto parlando, presuppone la divisione, il multilinguismo, forse il conflitto, fin dall’inizio? Noi che ci riuniamo qui, chiunque siamo, iniziamo col chiederci se ci capiremo l’un l’altro, se qualcosa sarà comunicato. Ci guardiamo intorno, e forse siamo venuti qui volontariamente, ma questo non significa che sappiamo chi siamo. Noi che ci incontriamo qui non siamo identificabili con una città, una regione, una nazione, uno Stato, eppure, in qualche modo, tutte queste entità dipendono da noi. Anche il potere autoritario, ci dice Arendt, funziona solo presupponendo che il popolo possa essere controllato, o che la volontà popolare possa essere creata e, in caso contrario, negata o sconfitta. Quindi, chiunque siamo, siamo per così dire in conflitto e perseguiamo obiettivi contrastanti. Non possiamo presumere un’unità – anche se siete gentilmente venuti a incontrarvi qui –, questo incontro è un’unità provvisoria e internamente articolata, minacciata da quelli che mancano o se ne sono andati, ma forse anche potenziale, il primo di una serie di incontri a venire. Alcuni esponenti della storia del pensiero politico liberale vorrebbero farci credere che entriamo in questo mondo sociale e politico a partire da uno stato di natura. E in quello stato di natura siamo già, per qualche motivo, individui, e siamo in conflitto l’uno con l’altro. Non ci viene spiegato come siamo stati individuati, né ci viene detto precisamente perché il conflitto è il primo dei nostri rapporti di base, piuttosto che la dipendenza o l’attaccamento. Hobbes, che è stato il più influente nel plasmare la nostra comprensione del contrattualismo politico, ci 10


dice che un individuo vuole ciò che un altro ha, o che entrambi gli individui rivendicano lo stesso territorio, e che combattono l’uno contro l’altro per perseguire i propri scopi egoistici e stabilire il loro diritto personale alla proprietà, al dominio della natura e della società. Ovviamente, lo stato di natura si è sempre rivelato una finzione, come ammetteva apertamente Rousseau, ma è stata una finzione potente. Ci ha dato una condizione controfattuale per valutare la nostra situazione presente; offriva un punto di vista, come fa la fantascienza, che permetteva di vedere la specificità e la contingenza dell’organizzazione dello spazio e del tempo nel presente. Riferendosi a Rousseau, Jean Starobinski ha detto che l’unica ragione per cui nello stato di natura può essere ipotizzata l’uguaglianza assoluta è perché è una scena priva di individui. In effetti, dove non c’è nessuno si può affermare un’uguaglianza assoluta; ma una volta che gli esseri umani entrano in scena, il problema dell’uguaglianza diventa più intricato. Perché è così? Marx ha contestato proprio la parte dell’ipotesi dello stato di natura che pone l’individuo come primario. Nei manoscritti del 1844, con grande ironia, ridicolizzò l’idea che all’inizio gli umani fossero, come Robinson Crusoe, soli su un’isola, autonomi per quanto riguarda il loro sostentamento, capaci di vivere senza dipendere dagli altri, senza sistemi di lavoro e senza alcuna organizzazione comune della vita politica ed economica. Marx scrive: “Un essere si considera indipendente soltanto quando è padrone di sé, ed è padrone di sé soltanto quando è debitore a se stesso della propria esistenza. Un uomo, che vive della grazia altrui, si considera come un essere dipendente”.1 Marx pensava di poter eliminare la finzione a vantaggio del fatto concreto, ma ciò non gli impedì di usare quelle finzioni per sviluppare la sua critica dell’economia politica. Non rappresentano la realtà, ma se sappiamo come interpretarle producono una riflessione sulla realtà concreta che altrimenti non saremmo in grado di 1. K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844 (1844), trad. di N. Bobbio, Einaudi, Torino 1968, p. 123.

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Violenza, non violenza, vulnerabilità SERGIA ADAMO

3 marzo 1991: Rodney King viene arrestato a Los Angeles e picchiato dalla polizia. Poco più di un anno più tardi, durante il processo ai poliziotti incriminati per la violenza commessa su di lui, viene mostrato un video da cui risulta chiaro che King è stato, come ha scritto Judith Butler, “brutalmente e ripetutamente picchiato senza opporre evidente resistenza”.1 Eppure questo video venne usato, ha notato ancora Butler qualche anno dopo, come prova del fatto che il corpo di King era fonte di violenza, minaccia di pericolo nei confronti dei poliziotti (armati), che quel corpo con la sua stessa esistenza e presenza in quel contesto portava con sé l’intenzione di ferire, di vulnerare. Ciò che l’inquadratura del video mostrava venne incorniciato e reinquadrato nella situazione processuale ma anche nella messa in onda televisiva di quello stesso video per fare di King, letteralmente, un agente di violenza. La capacità di agire violentemente di King, nel momento della sua massima vulnerabilità, poté essere costruita come implicazione, come antecedente dato per scontato rispetto alle cornici che definivano lo spettro del visibile. Da qui, da questa costruzione di “intellegibilità narrativa”,2 sarebbe derivata la tesi della legittima difesa da parte dei poliziotti che lo avevano picchiato e la loro conseguente assoluzione. Cosa che, a sua volta, avrebbe dato seguito tra l’aprile e il maggio 1992 1. J. Butler, Tra razzismo e paranoia bianca: il pericolo di chi mette in pericolo (1993), trad. di S. Adamo, “Multiverso”, 7, 2007, pp. 15-22. 2. Ibidem.

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ai riots di Los Angeles, il cosiddetto Rodney King Uprising, forse la prima esplosione di rivolta post-1989 in cui la violenza occupò la scena metropolitana. Sono lontani nel tempo quei giorni; ma le costruzioni di intelligibilità narrativa che l’analisi di Butler aveva allora messo in luce sembrano più presenti e vicine che mai. Penso a immagini di corpi vulnerabili e vulnerati, resi incapaci di agire qualunque tipo di violenza per il fatto di trovarsi in una condizione di estrema vulnerabilità, narrati e resi intellegibili attraverso la definizione di una cornice in cui quegli stessi corpi presuppongono il pericolo della violenza, costituiscono una minaccia, diventano pronti a esercitare la violenza che subiscono. Sono le immagini che in alcune occasioni raggiungono le pagine dei mezzi di informazione in Italia, nell’estate del 2019, mentre vaghe percezioni di numeri (sempre nell’ordine delle centinaia) vengono fatte passare al grande pubblico: si tratta delle persone morte nel Mediterraneo, cadaveri, corpi in condizioni di vulnerabilità totale, di assoluta impossibilità di vulnerare. Difficile descriverli più intensamente di quanto ha fatto Alessandro Leogrande, nel suo La frontiera, raccontando un recupero di corpi al largo di Lampedusa: Ora i corpi sono raccolti sulla sabbia accanto al relitto. Giacciono in fila, mentre gli uomini della Guardia costiera ne aggiungono altri e altri ancora. Sono decine, centinaia. Compongono una fila lunghissima. Ci sono quelli con la faccia riversa, quelli con gli occhi sgranati, quelli con le braccia alzate, quelli con le mani raccolte sotto il capo, come se dormissero. Quelli che giacciono vicini, quasi abbracciati. Quelli che indossano ancora i giubbotti, i pantaloni, i maglioni. Quelli che hanno provato a liberarsi dei vestiti. Quelli con le scarpe e quelli scalzi. Quelli impassibili e quelli stropicciati da uno strano sorriso. Sono tutti neri, tutti giovani.3 Di nuovo, corpi; come quello di Rodney King. Corpi che portano i segni di una violenza che nelle sue articolazioni ha molteplici 3. A. Leogrande, La frontiera, Feltrinelli, Milano 2015, p. 5.

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forme, cause, origini. E che però vengono narrati come portatori di minacce, di un pericolo. Leogrande stesso aveva preso nota di quanto era accaduto il 30 giugno del 2016, in occasione del recupero dei corpi delle vittime di un naufragio avvenuto a poche miglia dalle coste della Libia (700 i corpi dispersi, 700…): l’opinione pubblica italiana si era scatenata, soprattutto alla radio, producendo un profluvio di dichiarazioni violente contro quei corpi sentendosi offesa per le spese che lo Stato italiano aveva deciso di sostenere per il loro recupero.4 Lo schema si ripete: il corpo vulnerabile, razzializzato e marginalizzato nella condizione di minorità (economica, prima di tutto, di classe), diventa la dimensione in cui la violenza si sente in pericolo e allo stesso tempo, come dice Butler, “colpisce” tramutandosi nello “spettro della sua stessa rabbia”.5 Una violenza che si dissocia da se stessa per legittimare la sua azione brutalizzante nei confronti di questo spettro. Una forma di paranoia, “che proietta l’intenzione di offendere che essa stessa mette in atto”,6 una paranoia di difficile lettura, di difficile individuazione, ma di grande impatto nel momento in cui si legittima iterativamente nel discorso pubblico e nel senso comune, finché non arriva a infiltrare l’auto-rappresentazione delle istituzioni. Mi pare che ciò che queste considerazioni continuano a dirci sia proprio che opporsi alla violenza, resistere alla violenza, significa anche impegnarsi a osservare e descrivere le modalità, variegate, complesse e non scontate, attraverso cui essa funziona. E tra queste modalità il fantasma della paranoia che evoca razzismo, preoccupazioni demografiche e supposte costruzioni di vulnerabilità è quello che spesso legittima la violenza di Stato proprio nei confronti di chi è già più esposto/a a essa. Certo, si tratta solo di uno dei dispositivi che costruiscono i discorsi della violenza e le cornici che poi contribuiscono a renderla reale, sia fisicamente, sia verbalmente e a livello delle rappresenta4. Id., Tutta la città straparla, “minima et moralia”, 7 agosto 2016, <minimaetmoralia. it/wp/tutta-la-citta-straparla> (consultato il 20 luglio 2019). 5. J. Butler, Tra razzismo e paranoia bianca, cit. 6. Ibid.

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Retorica dell’emancipazione vs. retorica della misoginia SANJA M. BOJANIĆ

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l titolo del mio articolo indica un particolare tipo di opposizione binaria (versus, come nei processi), tipico della filosofia, che andrebbe analizzato scrupolosamente. Innanzitutto, il tipo di relazione tra i termini in questione è inusuale: la nozione di emancipazione difficilmente può essere paragonata, resa complementare o opposta alla misoginia. Nello specifico del XX secolo, il concetto di emancipazione è stato particolarmente apprezzato, diventando un termine che viene di solito associato ad altre parole positive che descrivono un vasto ambito di diritti umani, egualitarismo, solidarietà, parità ecc. Ha avuto un ruolo – e continua ad averlo – nelle teorie sui fenomeni sociali, o nelle riflessioni su molti movimenti sociali collegati all’indipendenza dal dominio coloniale, alla liberazione delle donne dal dominio maschile e alla liberazione delle classi lavoratrici dallo sfruttamento capitalista. Sposando la tesi che la libertà sia strettamente connessa alla libertà dall’oppressione, i sostenitori della tradizione emancipatoria si distinguono dai liberali, che tendono a concepire la libertà come assenza da interferenze esterne. Non esistono tuttavia strutture concettuali privilegiate che non debbano venire analizzate, criticate e decostruite. Iniziamo dalle parole e dal linguaggio per tentare di mappare ed enumeSanja M. Bojanić insegna all’Accademia delle arti applicate e dirige il Centro di studi avanzati dell’Europa sud-orientale dell’Università di Rijeka (Fiume).

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rare ciò che funziona e ciò che non funziona nell’espressione di atteggiamenti e pensieri e per mettere in luce la retorica con la quale affrontiamo le questioni importanti. Ognuna delle nostre vite è stata contrassegnata da una forte influenza di affetti ed emozioni, che sono però troppo individuali e differenti gli uni dalle altre. Nella teoria e nella filosofia, al contrario, i paradigmi raramente cambiano e c’è sempre una forte tendenza a proclamare universali valori che sono validi per la maggioranza delle persone. Quindi è impossibile descrivere l’emancipazione delle donne o la misoginia in quanto tali, isolatamente; devono essere intese, innanzitutto, come fenomeni reciprocamente interdipendenti. La mia strategia è quella di rifiutarmi di riconoscerle come ideologie pienamente formate, ognuna con i suoi corpora di significati già stabiliti. Piuttosto, le considero come strutture funzionali che avviano politiche e forme di gestione tra loro differenti. Le politiche e le forme di gestione in questione, tuttavia, non sono necessariamente agli antipodi dello spettro politico e tendono a scadere in schemi noti e piuttosto apolitici. Per dimostrare la mia argomentazione, farò riferimento a quattro elementi: parlerò di (in)capacità linguistica, ponendo l’accento sui modi di articolare i problemi rispetto ai temi dell’emancipazione e della misoginia delle donne, così come sui modi di comunicare pubblicamente questi fenomeni, spesso scottanti e con un forte impatto emotivo. La mia intenzione è di presentare alcune pratiche opposte di emancipazione e – per alcune di esse – la loro inestirpabile misoginia. Comincio con il linguaggio, ma passo rapidamente alla voce. Il diritto dell’opinione pubblica di esprimere atteggiamenti, pensieri e sentimenti è un primo argomento ricorrente nei testi e nei dibattiti sulla tematizzazione dell’emancipazione delle donne. Seguono alcuni dettagli tecnici per giustificare il mio approccio, dal momento che ho bisogno di esplicitare i motivi per cui determinati mezzi e tipi di discorso (posizione, dichiarazione, annuncio) diventano strumenti politici e ideologici. La domanda con cui affronto l’intera questione è se sia possibile pensare separatamente l’emancipazione delle donne e la miso44


ginia e, in caso affermativo, a quali condizioni? È possibile pensare all’emancipazione al di fuori della cornice data di questa opposizione manichea? 1. Entimemi Seguendo Barbara Cassin1 e le sue osservazioni sulla differenza tra la retorica del topos (luogo, posizione) e la retorica del kairos (tempistica), “la buona retorica deve ancora essere inventata”. Cassin commenta il Gorgia di Platone, e poi il Fedro (261b; 266b), scrivendo che la retorica dovrebbe mirare non a persuadere ma a elevare l’anima, e per farlo deve diventare “dialettica”. Idealmente, la retorica dovrebbe essere “l’arte di dividere e riunire”. Un’elaborazione di “buona retorica” consiste nel rifiutare o addirittura nel vietare un certo tipo di retorica a favore di un’altra. Molto spesso “priva di arte e ragione (alogon pragma)”, la retorica da rifiutare si occupa del discorso “affrettato” ex tempore, di un’improvvisazione con argomenti invertiti. Questa retorica manipolatrice del kairos che non attinge al contenuto dell’argomento, ma rappresenta solo il “momento opportuno”, introduce l’affetto nel discorso, sconvolgendo l’ordine oggettivo delle cose. La buona retorica, al contrario, dovrebbe privilegiare la stabilità del significato rispetto agli effetti dirompenti del significante o del gioco di parole. Cosa distingue il “momento opportuno”, questo privilegio del tempo (che quindi introduce contingenza) dal topos? Cos’è il topos? Aristotele ci assicura che la persuasione deve basarsi su un metodo: dobbiamo sapere perché alcune cose sono persuasive e altre no. Sono possibili solo tre mezzi tecnici di persuasione. Il primo risiede nel carattere e nella credibilità del relatore, il secondo nello stato emotivo/affettivo dell’ascoltatore. Il successo degli sforzi persuasivi dipende dalla disposizione emotiva e affettiva del pubblico. Il terzo modo è nell’argomento (logoi, cioè il ragionamento) stesso. Il topos è uno stoicheion: un elemento degli entimemi. E un entimema è ciò che ha la funzione 1. B. Cassin, L’effetto sofistico. Per un’altra storia della filosofia, Jaca Book Milano 2002, p. 181.

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Vedere la violenza: immagini e critica ADRIANA ZAHARIJEVIĆ

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uesto mio testo deve molto alla lettura di Davanti al dolore degli altri di Susan Sontag.1 Il trafiletto che si trova nel frontespizio dell’edizione inglese del libro – “un’analisi acuta della nostra insensibilità di fronte alle immagini dell’orrore” – e ha quasi la funzione di un sottotitolo mi ha spinto a iniziare a pensare a che cosa significhi diventare insensibili di fronte a un’immagine, essere criticamente inebetiti e inebetite, perderne il senso o farsi paralizzare da essa. Naturalmente, il piccolo libro di Sontag non rappresenta l’unica possibilità di accesso al mondo delle immagini. L’ambito della fotografia è stato ampiamente discusso fin dalla prima introduzione dei fotogrammi nella nostra realtà ottica e discorsiva. Lo stesso vale per l’altra dimensione cui il testo fa riferimento, la violenza, altro tema infinitamente dibattuto. Tuttavia, Davanti al dolore degli altri pone due domande significative per una riflessione che unisce le immagini con la critica e fornisce risposte precise, per quanto discutibili. La prima domanda è: a partire da quali posizioni reagiamo alle immagini della violenza? La seconda, articolata in maniera leggermente manichea, è: che cosa fanno le immagini? Ci perseguitano o hanno la capacità di farci comprendere qualcosa e forse di produrre una risposta critica? Adriana Zaharijević è ricercatrice all’Istituto di filosofia e teoria sociale dell’Università di Belgrado. 1. S. Sontag, Davanti al dolore degli altri (2003), trad. di P. Dilonardo, Mondadori, Milano 2003.

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Per questo, il fulcro del mio interesse qui punta su ciò che le immagini dell’orrore possono produrre. Che cosa succede alla ragione nel confronto con l’immagine di qualcosa che supera i poteri di una spiegazione o di una riconciliazione razionale con ciò che viene visto? Supponendo che i fotogrammi dell’orrore – che in modi diversi presentano e rappresentano la violenza – esercitino ugualmente su di noi una certa forma di violenza, mi chiedo proprio in quale parte di noi questa violenza abbia luogo. Ma che cosa succede se vogliamo utilizzare, come in effetti molti e molte hanno voluto fare, proprio queste immagini come strumento per una critica o, a volerci spingere oltre, per lo sviluppo di una posizione etico-politica forte? È possibile essere insensibili e allo stesso tempo critici? Che cos’è la critica e quali sono le nostre capacità critiche quando esse vengono filtrate attraverso immagini violente – immagini di violenza e immagini che esercitano la violenza? Quale ruolo giocano gli affetti nel nostro essere “catturate/i” e che cosa c’è – se davvero qualcosa c’è – che ci spinge ad agire violentemente e, pur essendo esposte ed esposti a essa, contro la violenza? Messaggi grezzi per gli occhi Cominciamo, seguendo i passi di Sontag, con la lunghissima risposta di Virginia Woolf alla domanda: “Secondo voi, come si può impedire la guerra?”. Scritta tra il 1936 e il 1937, nel pieno della Guerra civile spagnola, la lettera di Woolf inizia con qualche esitazione – esitazione forse in qualche modo appropriata per una rappresentante della classe delle “figlie di uomini istruiti”, una classe che prende forma all’inizio di Le tre ghinee (il testo in questione) per introdurre innumerevoli differenze all’interno di un “noi” ampiamente enfatizzato. La differenza deve essere sottolineata, dal momento che “in tutto il corso della storia si contano sulle dita di una mano gli esseri umani uccisi dal fucile di una donna”;2 e questo ha poi un impatto sul modo in cui “noi” possiamo ragionare sulla guerra. Ma se si passa dal ragionare sulla guerra al vedere la guerra, allora forse la differenza potrebbe essere 2. V. Woolf, Le tre ghinee (1936), trad. di A. Bottini, Feltrinelli, Milano 1992, p. 25.

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annullata? “Vediamo dunque”, dice Woolf, “se guardando le stesse fotografie proviamo gli stessi sentimenti.”3 Non sono piacevoli da guardare; per la maggior parte sono fotografie di cadaveri. Tra quelle arrivate stamani ce n’è una in cui si vede il corpo di un uomo, o forse di una donna, non si capisce bene; è così mutilato che potrebbe benissimo essere anche il corpo di un maiale. Ma non c’è dubbio che quelli laggiù sono corpi di bambini morti, e quella là è la sezione di una casa spaccata a metà da una bomba; in quello che doveva essere il suo salotto sta ancora appesa la gabbia degli uccelli…4 Una tale immagine non costituisce un’argomentazione, ma un messaggio grezzo che si rivolge agli occhi, dice Woolf. Nella sua crudezza è così potente che chiunque lo riceva – chiunque sia, a qualunque classe o sesso appartenga – ha la stessa reazione. Ciò che si pensava di sapere e ciò che si sente ora si fondono insieme, e in questa coalescenza del passato e del presente rimane solo un sentire uguale per tutti e tutte, ugualmente potente. Una prima conclusione potrebbe essere: se fossimo collettivamente esposte ed esposti alle immagini dei fatti, a cadaveri di bambini, bambine o maiali incastrati tra gabbie per uccelli e rovine di un soggiorno, potremmo essere in grado di prevenire la guerra. Non questa o quella guerra, ma la guerra in generale. Tale ipotesi può basarsi sul fatto che le immagini che vediamo semplificano, vale a dire che dissolvono indefinitamente la complessità (la storicità, la socialità) di ciò che viene visto. Un corpo mutilato non è altro che una testimonianza di ciò che una volta era vivo, di una persona che non è più, di cui non sappiamo e di cui non abbiamo bisogno di sapere più nulla, che svanisce davanti ai nostri occhi come qualcosa che è privo di durata al di fuori dell’inquadratura in cui è stato catturato. In una serie infinita di immagini simili le une alle altre, si perde la singolarità 3. Corsivo mio. 4. Ivi, p. 30.

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Violenza ascetica. Note sul lavoro in Weber MASSIMO PALMA

Lei ha ragione, non si può gridare, in un’aula del genere, la parola “ascesi”. Max Weber a Theodor Heuss

1. Weber o Masoch? È possibile una lettura masochistica del lavoro in Weber? È plausibile sostenere che il concetto di ascesi, centrale nei suoi studi di sociologia delle religioni, ma anche nella sua dottrina “professionale” della scienza e riflesso nelle vesti ufficiali del burocrate, presenti sfumature masochistiche? Certo, Weber aveva sei anni quando Leopold von Sacher-Masoch pubblicò la sua Venere in pelliccia nel 1870. E non è nemmeno il caso di evincere conclusioni frettolose da aspetti della biografia personale di Weber nel torrenziale epilogo della sua esistenza, che sono stati recentemente discussi anche nella pubblicistica meno avvertita (alludendo alla relazione intrecciata con Mina Tobler e alle pratiche masochistiche sperimentate con Else Jaffè, la donna emancipata a lungo concupita, poi abbandonata e infine riamata intensamente in quegli ultimi mesi di vita, denominata, oltre che Goldene Else – un rinvio alla Siegessäule berlinese –, Herrin anche in questa chiave).1 Così come si può solo alludere alla nevrosi che ha portato Weber all’erudizione massima e all’inarrivabile produttività scientifica: una terapia di lavoro e ancora lavoro. È più opportuno cercare di verificare in alMassimo Palma è ricercatore di Filosofia politica e morale all’Università Suor Orsola di Napoli. 1. Cfr. J. Kaube, Max Weber. Ein Leben zwischen den Epochen, Rowohlt, Berlin 2014, pp. 398-405. Per un quadro equilibrato, con prelievi dai biografi di Weber e dai recensori dei volumi del tardo epistolario weberiano cfr. V. Cotesta, Modernità e capitalismo. Saggio su Max Weber e la Cina, Armando, Roma 2015, pp. 100-109.

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cuni tratti caratteristici del tipo burocrate-scienziato una qualità masochistica generale. La sua insistenza sulla freddezza della burocrazia, che ha contraddistinto analisi che precedono di decenni le derive burocratiche delle violenze dei totalitarismi novecenteschi, è un indizio dell’approfondimento socio-psicologico di un tipo di dominio che in Weber procede di pari passo con un’autoanalisi che radica nell’ascetismo professionale la condotta di vita di chi, come lui, si ritiene “scienziato”. Ed è un indizio, unito al ruolo del fattore temporale – l’ingiunzione dell’attesa, la sospensione di cui vive tanto il consociato in attesa dell’atto amministrativo quanto lo scienziato prima della falsificazione della propria tesi –, dai tratti masochistici. L’insistenza sul freddo nel tipo masochista è stata lungamente discussa da Deleuze nel suo studio dedicato a Sacher-Masoch. 2 Ed è un tratto prezioso, che va salvato allorché si cerchi di individuare l’elemento violento in un tipo di Herrschaft che prende il nome di burocrazia, ma ancor più nel generale concetto weberiano di “ascesi”, che è il modo in cui Weber definisce l’attitudine del suo stesso mestiere, la condotta di vita della classe sociale di cui si sente membro e in generale il modo di porsi all’interno del secolo di chiunque costruisca un’etica a partire dai precetti pratici del proprio credo. 2. Work come Warhol Cent’anni dopo la nascita di Weber, un artista ebreo newyorkese di nome Lou Reed riprese il libro di Masoch per farne un brano eponimo dove a farla da padrone era la viola del suo sodale, il polistrumentista John Cale, allievo del musicista d’avanguardia La Monte Young. A breve i due formarono un nuovo gruppo, i Velvet Underground, e pochi mesi dopo Andy Warhol li scelse come lato

2. G. Deleuze, Il freddo e il crudele (1967), trad. di G. De Col, SE, Milano 1996. Sull’elemento di freddezza che idealizza la sentimentalità contro la sensualità, cfr. soprattutto ivi, pp. 51-63.

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musicale del suo progetto artistico e ne divenne il produttore. Uno dei suoi brani preferiti era Venus in Furs. In quegli anni l’oggettività della cinepresa di Warhol toccava vertici di freddezza burocratica. La camera fissa che nei primi film (Eat, Sleep) riprendeva gli oggetti umani vivere le loro funzioni vitali, non appena conosce la sceneggiatura e il montaggio (come in Chelsea Girls) li inquadra perlopiù in atti vari di nevrosi sadica e masochistica (litigi, frustate, sessualità repressa, assunzione di droghe, recite di sottomissione). Non solo, il gelido burocrate di un’arte che inquadrava la vita mentre si infligge lesioni era un asceta che lavorava ovunque, sempre, producendo valore. Parlando del clima che si respirava alla Factory di Andy Warhol negli anni sessanta, proprio Lou Reed affermò che “una delle cose che si possono imparare stando alla Factory è che, qualsiasi cosa uno voglia fare, deve lavorare moltissimo. […] Andy lavora più di qualsiasi altra persona che conosca”.3 Di fronte all’immagine tràdita di lascive superstar nullafacenti riprese notte e giorno da Warhol e dai suoi collaboratori, questa convinta asserzione di un principio lavoristico nella prassi quotidiana della Factory potrebbe sorprendere. Eppure, proprio nel libro provocatoriamente chiamato la sua “filosofia”, Andy Warhol dedica al lavoro un capitolo molto importante. L’enunciato fondamentale della sezione è l’onnipresenza del lavoro come carattere ontologico dell’esistente: “Già essere vivi è lavorare duro su qualcosa che non vuoi sempre fare. Nascere è come esser rapiti. E poi venduti in schiavitù. Le persone lavorano ogni minuto. Anche quando dormono”.4 Se lo sfondo ontologico dell’umano sembra irrimediabilmente consegnato al lavoro, Warhol – a detta di tutti – da questo principio teorico ha costruito una precisa condotta etica con risvolti economici rilevanti. Sono ancora Lou Reed e John Cale a svolgere il nesso tra etica e lavoro in un pezzo dell’album Songs for 3. V. Bockris, G. Malanga, Velvet. I Velvet Underground e la New York di Andy Warhol (1983), trad. di D. Caroli, Giunti, Firenze 1996, p. 99. 4. A. Warhol, The Philosophy of Andy Warhol, Penguin, New York 1975, p. 96.

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Che cos’è la polizia? L’istituzione della violenza universale e la violenza dell’universale PETAR BOJANIĆ GAZELA PUDAR DRAŠKO

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el suo celebre testo del 1921, Per la critica della violenza, parlando dell’istituzione della polizia all’interno di una complessa rassegna delle varie classificazioni della violenza (Gewalt), Walter Benjamin definisce due caratteristiche molto importanti della violenza della polizia.1 La prima di queste, quella fondamentale, è che la polizia è sempre connessa alla violenza, ma il suo ruolo nello Stato è difficile da individuare, visto che la polizia è “un’istituzione dello Stato moderno”. La nostra intenzione nelle pagine che seguono è quella di mostrare che la violenza della polizia è una conseguenza della deformazione dell’istituzione della polizia stessa o della deformazione della violenza. Vale a dire che la polizia non pertiene propriamente alla sfera dello Stato, ma piuttosto a quella della società civile. Poiché la polizia comprende diversi tipi di violenza (la violenza che minaccia, la violenza che pone e la violenza che conserva il diritto), ne consegue che essa è “una mescolanza in certo qual modo spettrale” (gespenstischen Vermischung). Quindi, la violenza della polizia è “informe come la sua apparizione è spettrale” (seine Petar Bojanić è direttore dell’Istituto di filosofia e teoria sociale dell’Università di Belgrado e lavora al Centro di studi avanzati dell’Europa sud-orientale dell’Università di Rijeka (Fiume). Gazela Pudar Draško è ricercatrice dell’Istituto di filosofia e teoria sociale dell’Università di Belgrado. 1. W. Benjamin, “Per la critica della violenza” (1921), trad. di R. Solmi, in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995, pp. 15-16.

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Gewalt ist gestaltlos; gespenstische Erscheinung), e le considerazioni che si possono fare sullo “spirito” della polizia (Benjamin usa proprio il termine Geist) non consistono assolutamente “in nulla di sostanziale”.2 La seconda affermazione di Benjamin sulla polizia e la sua violenza si riferisce a momenti specifici; egli sottolinea in particolare il fatto che la democrazia implica “la massima degenerazione concepibile della violenza” (die denkbar größte Entartung der Gewalt bezeugt). Queste circostanze si verificano effettivamente quando la polizia diverge dal diritto (cioè, lo Stato, dal momento che Benjamin equipara il diritto e lo Stato), creando il “diritto” della polizia (das “Recht” der Polizei), ovvero il fatto che “la polizia interviene ‘per ragioni di sicurezza’, in innumerevoli casi in cui non sussiste una chiara situazione giuridica”.3 Secondo Benjamin, la debolezza dello Stato consente alla polizia, ovvero a un’entità completamente a sé stante, che è al di là del controllo dei cittadini e degli Stati, di esercitare una forma di terrore basato sul “diritto” della polizia sui cittadini stessi. Com’è possibile che accada questo? Più specificamente, qual è la natura dell’autorità della polizia? Chi o che cosa autorizza la polizia ad agire? Chi usa la polizia per monopolizzare la coercizione o la violenza? Quando la polizia sorveglia, spia o picchia i suoi cittadini, qual è il momento in cui oltrepassa la sua stessa autorità? Un tentativo di fornire un quadro generale della degenerazione o della deformazione di questa istituzione, che è essenzialmente civile, potrebbe iniziare immaginando il momento in cui il presidente o il sovrano di uno Stato fa un uso brutale della polizia contro i cittadini che protestano per la corruzione o, per esempio, l’aumento delle tasse sul carburante. La nostra tesi è che uno scarso impegno sociale da parte dei cittadini, un’organizzazione cooperativa debole, la mancanza di occasioni di lavoro in comune e un’insufficiente produzione di azioni sociali comportino neces2. Ivi, p. 16. 3. Ibidem.

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sariamente l’esistenza di un’istanza di professionalizzazione della polizia fondata sulla capacità di proteggere lo spazio pubblico, di compiere atti coercitivi (il termine usato da Hans Kelsen a questo proposito è Zwangakte) o di imporre l’ordine con la forza. Se i cittadini non si controllano e non si correggono a vicenda, non proteggono e non si prendono cura dello spazio e del tempo in cui vivono, se non regolano la comunicazione e la circolazione di relazioni, connessioni, denaro e oggetti tra di loro – vale a dire se i cittadini non agiscono come cittadini, non si prendono cura delle “azioni di polizia” civili generali – allora, prevedibilmente, si costituisce una qualche istanza che punta alla coalescenza e alla sussistenza di un monopolio dell’uso professionalizzato della violenza. Il sovrano quindi, in certe circostanze, userà questa istanza (che è entrata così in quella che potremmo chiamare la fase dello “Stato”): nel momento in cui ferma le proteste, difende le strade e le piazze, difende l’universale, il sovrano sta davvero difendendo il proprio status. Qual è la connessione tra impegno e azione collettiva dei cittadini da una parte e polizia dall’altra? In che misura un protocollo di polizia fa parte di un’azione collettiva che considera il bene generale o l’interesse di tutti? Com’è possibile che il controllo e la riduzione della libertà individuale, che è la caratteristica fondamentale della polizia, protegga necessariamente il bene comune? Solo venticinque anni separano due modi di pensare la polizia da parte di due dei più grandi istituzionalisti dell’inizio del XIX secolo, Saint-Just e Hegel. Il primo spiega dettagliatamente perché la polizia è fondata su falsi principi (di cui uno è che il suo lavoro sia di fatto quello di spiare), perché è violenta e corrotta, perché opera contro il popolo e lo spirito generale (l’esprit public), spesso anche a favore del nemico. Quando dice che “‘spirito’ non è la parola giusta” da usare in questo caso (l’esprit n’est pas le mot), poiché lo spirito generale sta solo nelle nostre teste, che non sono tutte ugualmente dotate di intelligenza e chiarezza, Saint-Just è comunque irremovibile: “Il faut s’attacher à former une conscience publique; voilà la meilleure police!” (“Abbia96


Note sulla difficoltà di scrivere a proposito della violenza di Stato BAŞAK ERTÜR

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n che cosa consiste, oggi, il compito di scrivere e teorizzare in relazione alla violenza di Stato? Come possiamo studiare le articolazioni contemporanee tra violenza giuridica, extra-giuridica e amministrativa senza normalizzarle e senza contribuire al loro radicamento, se la scrittura ha davvero degli effetti sul suo stesso oggetto? Come possiamo calibrare il nostro pensiero sulle attuali costellazioni della violenza di Stato in modi che tendano al disinvestimento, all’alienazione e alla riparazione, vale a dire in modi che resistano all’attenzione carica di attrazione e al fascino che la violenza e i discorsi violenti cercano di suscitare? Sono questioni che potrebbe valere la pena ripensare alla luce del momento attuale, in cui, da un lato, la violenza di Stato nelle democrazie liberali assume sempre più forme legalizzate e amministrativamente ammesse, mentre, da un altro lato, riecheggia ampiamente il fascino di ciò che non è legalizzato, come promessa di una possibilità di agire trasgressiva e associata al potere sovrano, in modi che sembrano contribuire all’ascesa del populismo di destra e del neofascismo. Mi avvicino a queste domande dopo aver cercato di dare un senso alla violenza di Stato extra-giuridica nel contesto turco con il suo cosiddetto “Stato profondo” (deep State); cosa che mi ha imposto di confrontarmi non solo con le solite questioni relative alla modalità, allo stile e alla voce che emergono Başak Ertür insegna Legge al Birkbeck College, Università di Londra.

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ogni volta che ci si accinge alla scrittura, ma anche con una messa in questione del ruolo della mia immaginazione e dei miei investimenti. Potrei formulare in questi termini ciò in cui consiste la sfida fondamentale del pensare alla violenza di Stato: si tratta, alquanto drasticamente, di mettere in campo il rischio di diventare complici di essa, nella misura in cui “tentare di pensare lo Stato significa correre il rischio di ripensare (o di essere oggetto di ripensamento da parte di) un pensiero dello Stato”.1 Nelle pagine che seguono, proverò a ragionare ulteriormente su questo rischio e a pensare attraverso le sfide che esso pone in relazione al compito di fare ricerca e di scrivere sulla violenza di Stato. La difficoltà di scrivere sulla violenza viene spesso formulata nei termini di una sfida che consiste nel rendere ragionevole ciò che non è ragionevole. La violenza viene intesa come qualcosa che possiede la “qualità dell’eccesso”, cosa che le conferisce la facoltà di “sopraffare il significato”;2 una tendenza a mistificare chi la osserva sino al punto da renderne impossibile il pensiero.3 La spettacolarità degli atti violenti mette immediatamente in crisi il pensiero, in quanto crea una tensione nel modo in cui la mente cerca di ruotare attorno a una forma o una particolare intensità della violenza che minaccia di distruggerla dall’interno. È questa tensione che contribuisce alla tendenza a reificare la violenza “come un’entità, un agente autonomo che sconvolge l’ordine e si oppone alla società, una forza asociale al di là di ciò che è normale e normativo”.4 Per questo coloro che studiano criticamente la violenza allenano il loro sguardo a concentrarsi sulle continuità piuttosto che sulle sue caratteristiche di rottura, mettendo in luce così il rapporto tra violenza indiretta e diretta, tra violenza strutturale e personale, tra violenza oggettiva e soggetti1. P. Bourdieu, Rethinking the State: Genesis and Structure of the Bureaucratic Field, “Sociological Theory”, 12, 1994, p. 1. 2. F. Coronil, J. Skurski, “Introduction: States of violence and the violence of States”, in F. Coronil, J. Skurski (a cura di), States of Violence, University of Michigan Press, Ann Arbor 2006, p. 1. 3. S. Žižek, Violence: Six Sideways Reflections, Profile, London 2009, p. 4. 4. F. Coronil, J. Skurski, “Introduction: States of violence and the violence of States”, cit., p. 2.

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va, oppure le continuità tra le violenze dell’ordine civile e quelle delle sue violazioni. Per quanto sia vero che scrivere sulla “violenza di Stato” costituisce un modo per riflettere sul senso di tali continuità, esiste però una diversa gamma di difficoltà legate a questo compito, una delle quali – ed è questo un punto chiave – consiste nel mantenere una certa chiarezza analitica nei limiti di ciò che la nozione consente. Questo non dipende solo dai limiti che la nozione stessa di “Stato” ha nell’afferrare le forze che ordinano e governano le nostre vite, ma anche dal fatto che l’espressione “violenza di Stato” non riesce sempre a dare conto dei modi in cui tale categoria quasi sempre esula dai propri confini. E questo perché le sue fonti, i suoi agenti, i suoi effetti e la sua temporalità non possono mai essere circoscritti solo all’interno dello Stato in quanto tale. Per riprendere il suggerimento di Philip Abrams secondo cui il fatto stesso di studiare lo Stato contribuisce alla sua reificazione,5 possiamo proporre la seguente ipotesi: che lo studio della violenza di Stato rischi di contribuire alla reificazione dello Stato stesso attraverso la violenza a esso attribuita. In realtà, la critica, alquanto circoscritta, che Abrams fa delle limitazioni analitiche della nozione di “Stato” è stata ripresa in modi che gettano luce sul problema degli eccessi categorici inerenti alla stessa “violenza di Stato”. Abrams parla da una posizione interna alla teoria marxista dello Stato e in risposta al dibattito tra Ralph Miliband e Nicos Poulantzas; la proposta principale che egli fa nelle sue Notes on the Difficulty of Studying the State è che lo “Stato” non è uno strumento concettuale efficace (rispetto, per esempio, alla nozione di “modo di produzione”) e più lo usiamo in quanto tale, più contribuiamo a reificare lo Stato stesso come una sorta di oscura cosa pubblica, letteralmente come una res publica, che per Abrams è “una rappresentazione collettiva distorta”.6 L’articolo cui faccio riferimento rappresenta un in5. P. Abrams, Notes on the Difficulty of Studying the State, “Journal of Historical Sociology”, 1, 1988, pp. 58-89. 6. Ibidem.

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Il diritto e la violenza: da Kant a Benjamin PETER FENVES

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l centro di Recht und Gewalt Christoph Menke riflette sulla possibilità di implementare la legge in modo che la sua supremazia sia limitata: “Quanto indietro bisogna andare per accedere a un modo alternativo di implementazione della costruzione concettuale della legge? L’unica risposta possibile è: al principio della legge [der Anfang des Rechts]”.1 Questo breve dialogo costituisce il nodo dell’indagine di Menke sulla relazione tra il diritto e la forza o violenza perché la scoperta di un modo alternativo di implementare il diritto porta alla “liberazione dalla dominazione violenta della legge su ciò che è al di fuori di essa – o non giuridico”.2 Il mio saggio prende le mosse da questo passaggio cruciale in quanto, in linea di massima, concorda con l’idea di Menke che solo un’indagine sul principio del diritto nella sua costruzione concettuale garantisce l’accesso a una riconcettualizzazione della relazione tra il diritto e la violenza. Ma si discosta dal trattato di Menke poiché, a differenza di Recht und Gewalt, non identifica questo momento iniziale con “l’idea della tragedia [greca]”.3 Al di là del fatto che “tragedia greca” è un termine alquanto ampio, che si riferisce anche a centinaia di lavori andati perduti, nessuna delle tragedie che ci sono pervenute per intero Peter Fenves insegna Letterature comparate alla Northwestern University (Illinois). 1. C. Menke, Rech und Gewalt, August Verlag, Berlin 2011, p. 33. 2. Ivi, p. 34. 3. Ibidem.

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può essere, a mio avviso, descritta come “il principio della legge nella sua costruzione concettuale”, neppure l’Orestea. È più efficace, come propongo qui, cominciare dove lo stesso Recht und Gewalt comincia e cioè con l’inizio della costruzione della legge in Kant, più precisamente con i paragrafi iniziali del trattato di Kant del 1797 Metaphysische Anfangsgründe der Rechtslehre che da questo momento in poi chiamerò La dottrina del diritto. Questo è uno dei tre trattati dottrinali che Kant produsse come corrispettivi delle prime due Critiche. Non sarà qui presa in considerazione l’ultima di queste opere, Metaphysische Anfangsgründe der Tugendlehre (La dottrina delle virtù). Sono invece d’obbligo alcune premesse sul controverso trattato Metaphysische Anfangsgründe der Naturwissenschaft (Primi principi metafisici della scienza della natura) che Kant pubblicò undici anni prima, poiché le due “dottrine” sono collegate da un concetto affine: il concetto di forza nel trattato del 1786 corrisponde a quello di coercizione nell’opera del 1797. I Primi principi metafisici della scienza della natura costruiscono le leggi di natura come un sistema dinamico; La dottrina del diritto costruisce la legge naturale come un sistema coercitivo. Subito dopo aver apparentemente completato La dottrina del diritto – sarà presto chiaro perché dico “apparentemente” – Kant annunciò di aver scoperto nel sistema critico una “lacuna” (Lücke) che gli impediva di passare dai Primi principi metafisici della scienza della natura alla “fisica pura”.4 Anche La dottrina del diritto presenta notevoli lacune; alcune di esse sono indicate dallo stesso Kant nel testo pubblicato, mentre altre, specialmente quelle che costellano i paragrafi iniziali, sono così evidenti da non richiedere nessuna menzione. Paragonato al colossale sforzo in cui Kant si prodigò nel cercare di scoprire il principio della legge nella sua costruzione concettuale – sforzo le cui tracce sono visibili in tutto il volume 23 dell’edizione Akademie – costruire la fine della legge, invece, fu 4. Cfr. I. Kant, Gesammelte Schriften, vol. 12, de Gruyter, Berlin 2010, p. 257. Tra gli studiosi contemporanei il locus classicus per la discussione di questa “lacuna” sono le pagine di Eckart Föster, Final Synthesis: An Essay on the “Opus postumum”, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2000, pp. 48-74.

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per lui un gioco da ragazzi. Parecchi anni prima della pubblicazione della Dottrina del diritto, Kant produsse un trattato in cui proponeva la “pace eterna” tra gli Stati in analogia con la dinamica di un “moto perpetuo”. Zum ewigen Frieden (Per la pace perpetua) culmina nel “diritto cosmopolitico”, che corrisponde perfettamente al carattere sferico della terra: ciascuno ha il diritto di viaggiare ovunque sulla superficie del globo. Per quanto riguarda la costruzione del principio della legge, si tratta di una questione completamente diversa: alla fine della legge si può dimostrare che ciascuno può viaggiare ovunque ma al principio della legge si deve dimostrare che ciascuno può trascendere la propria sfera legittima originale, che coincide approssimativamente con l’estensione del proprio corpo. Riflettendo sulle condizioni del proprio corpo, Kant attribuì la sua incapacità di colmare la “lacuna” nel sistema critico a un fenomeno paragonato a un “crampo cerebrale” (Gehirnkrampf). La tesi iniziale di questo saggio è che tale crampo sia responsabile delle lacune presenti all’inizio della Dottrina del diritto – e che questa interruzione delle sue capacità cognitive, favorita da un’onestà iperbolica, dovrebbe essere considerata uno dei suoi risultati più straordinari.5 Dal principio del diritto nella sua costruzione concettuale… L’inizio della Dottrina del diritto è, ribadisco, pieno di lacune. Non è semplicemente la mia opinione. Recentemente alcuni curatori se ne sono accorti ma, sfortunatamente, hanno scelto di nasconderle al pubblico dei lettori. Bernd Ludwig spiega la logica di questo intervento ricostruttivo dicendo che “i filosofi hanno solo interpretato La dottrina del diritto di Kant in vari modi; lo scopo è di cambiarla”.6 Schopenhauer è più onesto, credo, quan5. Nei capitoli finali di due libri precedenti ho delineato aspetti della tesi sviluppata in questo saggio: cfr. P. Fenves, Late Kant: Toward the Another Law of the Earth, Routledge, New York 2003, pp. 136-161; e Id., The Messianic Reduction: Walter Benjamin and the Shape of Time, Stanford University Press, Stanford (Cal.) 2011, pp. 187-225. 6. B. Ludwig, Kants Rechtslehre, Meiner, Hamburg 1988, p. 7. L’edizione Meiner della Rechtslehre preparata da Ludwig naturalmente corrisponde alla sua ricostruzione del testo.

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Nuove forme di sorveglianza Il nostro obiettivo è toccare quota mille [telecamere] nell’arco di poco tempo e sarà un altro traguardo importante per la città. Siamo di gran lunga la città con la più alta concentrazione di telecamere per abitante. In città c’è una rete di videosorveglianza che può essere utilizzata sia dalla Polizia municipale che dalle forze dell’ordine attraverso il sistema di collegamento tra le centrali operative, che consente ai cittadini di sentirsi più tranquilli e alle forze dell’ordine e alla Polizia municipale di intervenire tempestivamente qualora fosse necessario. D. Nardella, sindaco di Firenze, 14 agosto 20191

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n effetti, se teniamo conto delle innumerevoli telecamere di sorveglianza di cui sono dotati condomini, uffici pubblici e privati, banche e così via, non è esagerato affermare che Firenze è la città più sorvegliata d’Italia, forse alla pari di veri e propri laboratori della sorveglianza in Europa come Londra. Che cosa spiega l’onnipresenza di questo sguardo pubblico e privato su strade e piazze gigliate? È vero che si tratta di un obiettivo turistico tra i primi al mondo, e quindi è necessario proteggere turisti e viaggiatori dalle lunghe dita dei borseggiatori. Ma ogni dato sulla numerosità dei reati contraddice la sfrenata passione per le videocamere che ha infiammato Nardella e tanti colleghi sindaci. Nel 2019, per esempio, stupri e rapine sono diminuiti rispettivamente del 32 e del 20% rispetto all’anno precedente.2 Se teniamo conto inoltre che in Italia il numero annuo di omicidi è passato dai 1300 del 1992 ai 352 del 2019, possiamo affermare che l’Italia è oggi uno dei paesi più sicuri in Europa e nel mondo e che Firenze non fa eccezione. Qual è allora la ragione della diffusione della sorveglianza urbana? 1. <comune.fi.it/comunicati-stampa/attivate-63-nuove-telecamere-di-videosorveglianza-oltre-800-totale-presenti-citta?language_content_entity=it>, consultato il 25 agosto 2019. 2. <stampa.it/cronaca/2019/05/05/news/in-calo-reati-nel-2019-32-stupri-e-20-rapine-il-pd-attacca-da-salvini-propaganda-sulla-paura-1.33699701>, consultato il 25 agosto 2019.

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Una prima risposta deve chiamare in causa proprio un passo dell’affermazione di Nardella: i cittadini devono “sentirsi tranquilli”. Il che fa esattamente il paio con la celebre equazione “percezione dell’insicurezza uguale insicurezza” a suo tempo stabilita dall’ex ministro degli interni Marco Minniti. “La sicurezza non è statistica ma percezione”, ha affermato, con sommo disprezzo verso tabelle e percentuali, il ministro, il quale ha rivendicato il carattere bi-partisan delle sue iniziative in materia: “Orgoglioso di piacere ai giornali di destra. Significa che stiamo lavorando bene. Tutela della gente e immigrazione sono temi della sinistra, toccano i ceti deboli”.3 Un pesante ammiccamento all’elettorato moderato e soprattutto “popolare” che non ha impedito il tracollo del Pd, nelle elezioni del 4 marzo 2018, a favore dei partiti che hanno sempre fatto della lotta all’insicurezza il loro cavallo di battaglia. Resta comunque che l’equazione citata sopra rappresenta una sorta di dogma della cultura politica contemporanea. Essere percepiti come coloro che operano per far sentire tranquilli i cittadini è oggi una risorsa simbolica e politica strategica. A prima vista, la diffusione delle telecamere sembrerebbe rimandare al modello panottico di Bentham, descritto da Foucault in Sorvegliare e punire, ma la sorveglianza tranquillizzante si colloca in un regime totalmente diverso. E non solo perché allo sguardo del sorvegliante posto al centro di un osservatorio a 360 gradi si sostituisce quello di migliaia di occhi artificiali. Soprattutto perché i cittadini, oggetto della sorveglianza oggi, sono per lo più disinteressati alla faccenda. Anzi, sembra che accettino gioiosamente lo scambio sorveglianza/(percezione della) tranquillità, come indica il successo delle forze politiche che battono sul tasto dell’insicurezza. Il che dimostra il declino della nobile cultura dei diritti civili e politici, tra cui quello fondamentale all’anonimato e alla riservatezza. 3. A. Cangini, La sicurezza non è statistica ma percezione, “Quotodiano.net”, 12 aprile 2017. Cfr. <quotidiano.net/politica/minniti-ministro-interno-1.3034834>, consultato il 28 agosto 2019.

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Un declino assai pericoloso. Trattandosi di videocamere digitali, le riprese vengono archiviate in rete e rese disponibili all’uso, potenzialmente per sempre. “La rete non dimentica”, ha proclamato una volta Beppe Grillo, con sinistra soddisfazione. E questo significa che la vostra faccia, ripresa mentre voi passeggiate in piazza della Signoria, può ricomparire tra due o dieci anni in un video sull’attività di un gruppo terrorista nel centro di Firenze. Una possibilità remota, anzi nulla, potreste ribattere voi a chi segnala quanto l’uso di telecamere di sorveglianza si presti ad abusi. Ma la probabilità aumenta se siete attivisti di qualche movimento inviso ai governi. Che la vulnerabilità di questi soggetti non interessi alla grandissima maggioranza della popolazione indica, appunto, la marginalità della cultura dei diritti civili e politici nelle nostre società. La sorveglianza visiva, tuttavia, è solo un esempio della possibilità che qualcuno vi tenga d’occhio. In realtà, l’ambiente privilegiato per il controllo delle nostre attività è la rete, e questo sotto diversi punti di vista. In primo luogo, qualsiasi webmaster può rintracciare il vostro indirizzo IP, in parole semplici la vostra posizione, ovvero il computer che state usando. Questo significa che è in grado di conoscere i siti visitati, ricostruire i percorsi della vostra navigazione in rete e comunicarli a soggetti pubblici e privati interessati. In secondo luogo la digitalizzazione universale delle comunicazioni consente a qualcuno di inserirsi nella vostra posta elettronica, di ascoltare le vostre telefonate e di conoscere il posto esatto in cui vi trovate. Per esempio, le recenti indagini sul traffico di influenze praticato nel Consiglio superiore della magistratura sono state rese possibili dall’inserimento di un virus trojan nel cellulare di alcuni magistrati. In terzo luogo, la diffusione dei social fa sì che i vostri dati siano letteralmente scambiati – comprati e venduti – tra i colossi della rete, Facebook, Amazon, Google ecc., e che quindi voi possiate essere “profilati” come possibili utenti di un servizio, elettori, consumatori e così via. Questo è forse il terreno in cui la sorveglianza è oggi più produttiva e ha ricadute pratiche sensazionali. La società di ricerche Cambridge Analytica è riuscita ad acquisire i dati di 50 milioni 143


di utenti di Facebook e a utilizzarli per una campagna strategica nelle ultime elezioni presidenziali Usa a favore di Donald Trump. Questo esempio mette in luce un altro aspetto, decisivo, del panorama della sorveglianza contemporanea. Gli attori e il flusso di dati sono quasi sempre transnazionali, mentre i tentativi di regolamentazione pubblica confliggono fra giurisdizioni, e la cooperazione internazionale in materia stenta a decollare, spesso anche per differenze valoriali di fondo (si pensi ai diversissimi approcci alla privacy e all’intelligence di Stati Uniti, Unione europea e Cina, per citare solo i tre casi più importanti). La non-deperibilità dei dati accumulati dalla sorveglianza in rete, combinata con la confusione giurisdizionale e normativa, pone un serio problema di sicurezza persino per i sorveglianti. In altre parole, anche semplicemente garantire che i dati verranno usati solo per gli scopi originari che si era prefissato chi sorvegliava può rivelarsi alla lunga estremamente difficile. Gli apparati governativi sono colpiti da fughe di notizie, le aziende private possono essere acquisite da terzi o fallire, gli hacker – spalleggiati o meno da Stati esteri – sono sempre una minaccia incombente. L’archivio informatico, più che risorsa di potere, dovrebbe essere considerato alla stregua di un rifiuto tossico, difficilmente smaltibile.4 Ciò è tanto più vero per il fatto che la costruzione di archivi e l’utilizzo di tecnologie della sorveglianza si va democratizzando e diffondendo nella società civile. Fenomeno emblematico è il cosiddetto spousebusting, ossia l’uso della tecnologia di rete per rilevare le infedeltà coniugali, uno tra i principali vettori della diffusione della sorveglianza informatica fra privati.5 Naturalmente, non tutti gli usi di questi nuovi strumenti sono vessatori. Come sempre, il cambiamento tecnologico induce scompensi e perturbazioni che possono anche aprire nuovi terreni di contestazione di assetti di potere consolidati. Così, nelle re4. Si veda il blog di Maciej Cegołwski, <idlewords.com/talks/haunted_by_data.htm>, consultato il 5 settembre 2019. 5. Come discusso da Melissa Gregg, Spousebusting: Intimacy, Adultery, and Surveillance Technology, “Surveillance & Society”, 3, 2013, pp. 301-310.

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centi proteste a Hong Kong, l’uso di software di riconoscimento facciale è diventato materia di scontro privilegiata fra manifestanti e polizia, ma non a senso unico: non erano cioè solo le autorità a schedare chi partecipava alle proteste, ma anche organizzazioni della società civile che usavano i medesimi strumenti per identificare i poliziotti responsabili di eccessi e brutalità.6 Un ambito di interesse politico e sociale tanto vasto provoca naturalmente un fermento di analisi e di studi. In questo numero di “aut aut” proponiamo quattro riflessioni critiche sul fenomeno. Il dialogo fra Cindy Cohn e Alvaro Bedoya esplora le ramificazioni e le ricadute legali e costituzionali della sorveglianza, ponendo l’accento sulle dinamiche discriminatorie insite nei progetti di monitoraggio di massa delle popolazioni. Il testo di Doctorow illustra le ragioni dell’attivismo sociale in materia di controllo sulla sorveglianza, evocando paragoni con la mobilitazione ambientalista. Andrejevic sviluppa una riflessione più propriamente teorica sulla trasformazione della natura della sorveglianza a partire dall’automazione della funzione del giudizio, e quindi dall’esautoramento del “fattore umano”. Giglioli analizza l’aspetto più generalmente politico della questione, mettendo in relazione progetti di sorveglianza, crisi di credibilità nella sfera pubblica e crescita di consensi dei partiti populisti. [Alessandro Dal Lago, Matteo F.N. Giglioli]

6. <nytimes.com/2019/07/26/technology/hong-kong-protests-facial-recognition-surveillance.html>, consultato il 5 settembre 2019.

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“Non ho nulla da nascondere” è un altro modo di dire “Sono privilegiato” ALVARO BEDOYA CINDY COHN

U

no degli ambiti spesso trascurati in cui possiamo intravedere il tramonto della fiducia sociale è il trattamento che lo Stato riserva ai propri cittadini. Negli ultimi diciotto anni circa, il governo degli Stati Uniti ha in gran parte abbandonato l’idea che i suoi cittadini possano riunirsi, comunicare o persino mostrare i loro volti in pubblico senza che il governo ne sia informato. Invece, a livello locale e nazionale, vediamo una serie di tattiche di governo – riconoscimento facciale, scanner di targhe di automobili, accesso alla dorsale1 di Rete, ricerche negli enormi database dei giganti informatici, accesso in tempo reale a filmati di telecamere di sicurezza private – che sottopongono le nostre vite alla sorveglianza statale in molti campi e in gran parte indiscriminatamente. Quando queste tecniche vengono discusse dal Congresso o in un più ampio dibattito pubblico, si tende a fare riferimento a 1984 o ad altri classici, in cui tutti sono ugualmente sorvegliati. Tuttavia, la realtà di fatto è che gli effetti di queste tecniche non sono subìti allo stesso modo da tutta la società. La sorveglianza, persino la sorveglianza di massa, è stata e continua a essere sproPubblicato originariamente su “McSweeney’s”, 54 (The End of Trust), 2018, pp. 181-191. Alvaro Bedoya dirige il Center on Privacy & Technology della Law School di Georgetown University. Cindy Cohn è un’avvocata e la direttrice esecutiva dell’Electronic Frontier Foundation. 1. Vedi <it.wikipedia.org/wiki/Dorsale_(informatica)>. [N.d.T.]

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porzionatamente rivolta alle persone di colore, agli immigrati e ad altri emarginati. Inoltre, ha un impatto sproporzionato su coloro che sono impegnati in politica o nel sociale, che sono spesso le stesse persone. Ho parlato con Alvaro Bedoya, direttore esecutivo del Center on Privacy & Technology della Law School di Georgetown, di questo impatto differenziato e di come qualsiasi conversazione sulla privacy sia incompleta se non riconosce questa realtà. Abbiamo anche parlato di alcuni modi di uscire dall’impasse seguendo la Costituzione – nonché del fatto che Harriet Tubman era praticamente inarrestabile.2 Cindy Cohn. Parliamo dell’impatto differenziato che i programmi di sorveglianza di massa hanno sulle persone di colore – programmi quali intercettare la dorsale di Internet, raccogliere registri telefonici, rastrellare targhe di automobili e utilizzare software di riconoscimento facciale. Data la tua esperienza in materia, puoi aiutarci a orientare la nostra riflessione. Alvaro Bedoya. Dunque, permettimi di cominciare parlando di mia nonna, la mia abuelita Evita. Mia nonna proveniva da una città dell’altopiano peruviano chiamata Cajamarca. Era nata nel 1914, era cresciuta in una vecchia casa con un cortile alla spagnola, circondata da centenari. In realtà, da persone che vivevano fino a novantanove anni: non cento, non novantotto, proprio novantanove. Ha vissuto novantanove anni, sua madre ha vissuto novantanove anni e anche sua zia. Evita fu insegnante e poi preside di una scuola elementare. Avendo insegnato per quaranta o cinquant’anni, quando è arrivata alla pensione aveva formato praticamente metà del paese. Aveva un pollo a tenerle compagnia e non si fidava delle banche. Ricordo di essere andato a casa sua 2. Harriet Tubman (1822-1913), nata schiava nel Maryland, dopo la fuga dai suoi padroni divenne una famosa attivista antischiavista e un membro della “ferrovia sotterranea”, l’organizzazione clandestina che aiutava gli schiavi fuggiaschi a raggiungere gli Stati del Nord e il Canada. In seguito collaborò come esploratrice dell’esercito unionista contro i sudisti e verso la fine della vita militò nel movimento per il suffragio femminile. [N.d.T.]

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Il culmine del negazionismo CORY DOCTOROW

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l 22 aprile 1990 ero una delle decine di migliaia di persone che si assieparono in piazza Nathan Phillips, a Toronto, davanti alla sede del comune, per festeggiare la Giornata della Terra, la prima volta in vent’anni. Avevo diciott’anni e, per quanto potessi ricordare, avevo sempre avuto la vaga sensazione che ci fosse una crisi ambientale in vista – dall’inquinamento dell’acqua al buco nell’ozono. Ma nel corso di quel giorno, mentre gli oratori si alternavano sul palco e la folla vociava e si ingrossava, mi resi conto che la cosa era seria. Non importava quanto grande o senza speranza fosse la causa; il fragile ecosistema dell’unico pianeta nell’universo che sapessimo capace di sostenere la vita umana rischiava un collasso permanente e irreversibile. Fu allora che divenni un rompiscatole ambientalista. Per anni, cercai di convincere chi mi stava intorno che stavamo piombando in una crisi che avrebbe danneggiato loro e tutti i loro cari: il livello degli oceani in aumento, uragani devastanti, ondate di malattie, crisi idriche e migratorie incombevano sul nostro futuro e, quando tutto ciò fosse diventato così evidente da essere innegabile, sarebbe forse stato già troppo tardi. Fallii. Fallimmo tutti. Quando mettemmo insieme sufficienti pressioni politiche da produrre sforzi internazionali, questi si affievolirono: parlo dei protocolli di Kyoto, Copenhagen, Parigi. TutPubblicato originariamente su “McSweeney’s”, 54 (The End of Trust), 2018, pp. 43-47. Cory Doctorow, attivista per il diritto alla privacy e associato all’Mit Media Lab, è uno scrittore di fantascienza e un saggista.

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ti poco ambiziosi, non vincolanti, insufficienti e, naturalmente, non rispettati da quasi nessuno dei firmatari. Ma capitò una cosa strana sulla strada verso l’apocalisse climatica: cambiò l’obiettivo. Ventotto anni fa la maggior parte delle persone con le quali tenni la “Conversazione sul clima” ritenevano che stessi esagerando i pericoli. Ora, la maggior parte delle persone con cui parlo concordano sui pericoli, ma semplicemente pensano che non possiamo farci niente. Le cose stanno così perché da qualche parte lungo il tragitto abbiamo sorpassato il “culmine del negazionismo” – il momento in cui il numero di persone che non pensa che il cambiamento climatico sia poi così importante ha cominciato inevitabilmente a declinare. Una qualche combinazione di divulgazione scientifica (film come Una scomoda verità) e conseguenze innegabili (inondazioni, uragani, siccità, tempeste di neve e altri eventi metereologici estremi) hanno convinto una massa critica di persone che il problema è urgente. Le conseguenze non fanno che diventare sempre più incontrovertibili. Con analisi sempre più precise, l’alfabetizzazione scientifica si estende e i comunicatori affinano le proprie spiegazioni. È difficile immaginare che il numero di persone che accetta la verità sul cambiamento climatico possa mai significativamente diminuire. D’ora in poi, il numero di persone convertite da un’esperienza diretta non può che crescere. Ciò presenta una nuova sfida tattica per gli attivisti. Non è più tanto importante convincere la gente che il cambiamento climatico sta davvero accadendo: ora dobbiamo convincerli che possiamo e dobbiamo fare qualcosa. Piuttosto che dibattere problemi, stiamo dibattendo soluzioni e in particolare il fatto stesso che esistano. Se prima si trattava di una lotta fra verità e negazione, ora si tratta di una lotta fra speranza e nichilismo. Non si tratta solo di cambiamento climatico. Molti di noi ebbero lo stesso tipo di esperienza con le sigarette: la razionalizzazione di un’abitudine pericolosa e antisociale, servendoci dei dubbi costosamente diffusi dalle aziende che producono tabacco. Dopotutto, il tabacco, come i gas serra, non manifesta subito le sue conseguenze – il rapporto di causa-effetto è oscurato dai decenni che in159


L’automazione della sorveglianza MARK ANDREJEVIC

Il mondo diviene Alexa La prognosi per il nostro ambiente dell’informazione è chiara: per molti scopi, l’interattività diverrà funzionalmente sinonimo di sorveglianza. Tale equazione è già entrata nelle discussioni non specialistiche dell’economia online come un’“economia di sorveglianza” – anche da parte del decisamente compassato “Wall Street Journal” (Angwin 2012). La disponibilità di strumenti sempre più pratici coincide con una raccolta di dati sempre più potente e onnicomprensiva. In nessun periodo della storia umana così tanta informazione su così tanti individui è mai stata raccolta, immagazzinata e classificata. Grazie al rapido sviluppo delle piattaforme digitali connesse in rete, è lecito dire che nel prevedibile futuro ciò sarà vero per ogni successiva generazione. Ci stiamo rapidamente avviando verso un mondo in cui ogni aspetto della nostra vita diverrà sempre più dipendente dai media digitali, i quali, a loro volta, svilupperanno registrazioni sempre più accurate delle nostre attività, comunicazioni, acquisti e – nella misura in cui questi possono essere resi in forma digitale – pensieri, speranze e sogni. Il monitoraggio a questo livello necessita lo sviluppo di infrastrutture e piattaforme digitali su scala sempre più vasta; ma, soprattutto, richiede automazione: non esiste altro modo per ammassare, comprendere e usare così grandi quantità di dati. Anche gli spazi in cui ci muoviamo sono circondati da infrastrutPubblicato originariamente in “Surveillance & Society”, 1-2, 2019, pp. 7-13. Mark Andrejevic insegna Media Studies presso il Pomona College (California).

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ture di acquisizione automatica dei dati. Un esempio è il progetto di Google di trasformare un quartiere di Toronto in “smart city” (Alexa), ciò che i critici hanno denunciato come “una città sorvegliata” (Kofman 2018). Come ha osservato un commentatore, “una cosa è installare volontariamente Alexa in casa propria… Un’altra, quando infrastrutture appartenenti alla collettività – strade, ponti, parchi e piazze – sono, per così dire, essi stessi Alexa” (Kofman 2018). Le infrastrutture private di monitoraggio sono già pienamente incorporate nella vita quotidiana di molti individui, sotto forma di cellulari smart e altri congegni portatili collegati in rete, smart speaker, smart fotocamere e telecamere e una crescente gamma di sistemi che combinano le promesse della comodità e dell’efficienza con forme sempre più onnicomprensive di acquisizione dei dati. La raccolta di dati su questa scala innesca una logica dell’automazione a cascata. L’acquisizione di dati mediante sensori automatizzati genera una così grande quantità di informazioni che queste possono essere gestite solo mediante elaborazioni dei dati automatizzate che, a loro volta, generano sempre più risposte automatizzate. Anche se è vero che non tutte le forme di raccolta di informazioni possono essere considerate “sorveglianza”, lo sviluppo di queste infrastrutture basate sui sensori permette a nuove logiche di sorveglianza di vedere la luce e affermarsi. Questo articolo esplora tre aspetti caratteristici della sorveglianza automatizzata, sulla base della premessa che i profondi mutamenti nei processi di raccolta dei dati giustificano il tentativo di riconsiderare il modo in cui pensiamo e comprendiamo le implicazioni del monitoraggio di massa, applicato a un gran numero di dispositivi. La sorveglianza automatizzata è “operazionale” nel senso che favorisce l’intervento invece del potere simbolico dell’apparato di monitoraggio; è “ambientale” per quanto riguarda il modo in cui è governata; ed è senza limiti per ciò che concerne la sua portata. Questi tre aspetti dell’automazione concorrono non solo a cambiare le capacità e le applicazioni della sorveglianza, ma, al limite, anche a sostituire il giudizio umano e quindi a limitare lo spazio simbolico della politica. Data la dipendenza della sorveglian164


za digitale dalle tecnologie dei media, questi sviluppi vanno di pari passo con le più vaste utilizzabilità tecnologiche dei media automatizzati nel contesto di ciò che Zuboff (2015) ha descritto come “capitalismo di sorveglianza”. Come Zuboff ha affermato nel 2019 in un’intervista, “non è più sufficiente automatizzare il flusso di informazione su di noi; adesso lo scopo è automatizzare proprio noi” (Naughton 2019). Poiché gli argomenti che svilupperò prendono le mosse da alcune ben note teorie della sorveglianza, vale la pena chiarire il modo in cui il concetto di sorveglianza è affrontato in questo articolo. Quando parliamo di sorveglianza, è diffusa la tendenza ad associare il termine allo spettro del Grande Fratello e a forme oppressive di controllo statale – la polizia segreta e i suoi vari accessori: microspie, telecamere a circuito chiuso e microfoni nascosti. Ma la convergenza delle tecnologie commerciali e statali ha reso facile offuscare qualsiasi possibile distinzione tra monitoraggio e sorveglianza. Come ha rivelato il caso Snowden, i servizi di intelligence di Stato sfruttano dati raccolti per scopi commerciali (Greenwald 2014). Inoltre, la sorveglianza di Stato si basa, tra gli altri sistemi, su piattaforme commerciali che utilizziamo sempre più frequentemente per svago, scopi commerciali e lavoro. Infine, in molti casi, la sorveglianza di Stato modella le sue raccolte di dati e pratiche di elaborazione su sistemi messi a punto nel settore privato. L’ex Chief Technical Officer della Cia, per esempio, citava come ispirazione per il suo metodo “raccogli tutto e conservalo per sempre” il “Google Framework” (Ingram 2013). La tendenza dominante del “capitalismo di sorveglianza” (Zuboff 2015) come modello economico per le piattaforme e i servizi online offusca il confine tra monitoraggio e sorveglianza – anche perché il monitoraggio di mercato sfuma sempre più spesso nella manipolazione e nello sfruttamento. Si consideri per esempio il messaggio di Facebook ai suoi inserzionisti secondo cui è possibile profilare gli adolescenti per capire quando si sentono “insicuri”, “ansiosi” e in cerca di “una spinta ad avere fiducia in se stessi” (Levin 2017). Rilevare le paure e le ansietà degli adolescenti per usarle come leva per influenzare il loro comportamento è un’attività 165


Diffidenza generalizzata e diffidenza specifica nell’epoca della sorveglianza informatica MATTEO F.N. GIGLIOLI

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on c’è quasi nessuno, oggi, che rifiuti di preoccuparsi della sorveglianza elettronica e delle sue potenziali ricadute sulla politica e la società contemporanea. I modi in cui sono formulati questi timori distopici, tuttavia, sono per molti versi anacronistici e mal posti. Ciò che si intende in genere per sorveglianza è strutturato nell’immaginario collettivo essenzialmente da due riferimenti fissi: nelle scienze sociali, dalle teorie panottiche di Jeremy Bentham e dalla relativa analisi archeologica di Michel Foucault;1 nella narrativa, dal mondo di controllo pervasivo raccontato da George Orwell in 1984. Seppure si sostenga da più parti che viviamo in una società della sorveglianza, 2 nessuna delle caratteristiche fondamentali di questi modi di concepirla ha un riscontro empirico. La sorveglianza informatica contemporanea non è monopolio di un solo attore, pubblico o privato; non è principalmente indirizzata a fini di disciplinamento, tendendo anzi alla più completa discrezione, in modo da non disturbare i comportamenti dei sorvegliati; infine, non incontra strenue resistenze da parte della popolazione, che al contrario sembra complessivaMatteo F.N. Giglioli insegna presso il Dipartimento di scienze politiche e sociali dell’Università di Bologna. Il suo libro I labirinti della sorveglianza informatica: cittadinanza e impegno politico nell’era della trasparenza universale sta per uscire presso il Mulino. 1. Il riferimento classico è Surveiller et punir. Naissance de la prison (1975). 2. Si veda in merito per esempio Zuboff (2018), o Dobson e Fischer (2007).

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mente soddisfatta di scambiare i propri dati personali in cambio di servizi gratuiti di largo uso. Questo non significa che i nuovi sviluppi tecnologici nel campo della sorveglianza non pongano sfide difficili alla politica e alla società. In questo articolo si cercherà di tratteggiare i contorni di un diverso modo di concettualizzare i problemi inerenti a queste dinamiche. La novità della prospettiva proposta è il suo concentrarsi sul legame che intercorre fra sorveglianza e disinformazione, tramite la consapevolezza pubblica che di questi fenomeni si ha grazie alle fughe di notizie e ai whistleblowers, cioè le persone che denunciano pubblicamente gli illeciti compiuti dagli enti o dalle aziende in cui operano; le conseguenze per l’opinione, e specificamente per la forma mentis che meglio si adatta a tale nuovo ecosistema dell’informazione, sono il principale corollario della mia analisi. Le visioni tradizionali della sorveglianza si servono della metafora del panopticon (un meccanismo che obbliga i soggetti a mutare il proprio comportamento sotto la minaccia di un monitoraggio costante); l’obiettivo tipico della sorveglianza informatica contemporanea – quella dei giganti del web quali Facebook, Google, Amazon ecc. – è invece, come si è detto, esattamente l’opposto: incoraggiare per quanto possibile il pubblico a continuare ad agire come se non fosse sotto sorveglianza. Si è parlato in questo contesto di paradigmi post-panottici della sorveglianza contemporanea3 e di rinuncia al disciplinamento come caratteristica di un mondo neoliberale. Questa estrema discrezione nella sorveglianza si rende necessaria perché le finalità economiche per le quali è messa in opera e il suo modello imprenditoriale richiedono una certa collaborazione, sia pur implicita e passiva, degli utenti. Se si radicasse la convinzione che i dati raccolti da questo tipo di sorveglianza fossero senza dubbio usati in maniera fortemente pregiudiziale per gli individui ai quali si riferiscono, non è difficile immaginare che l’utilizzo di questi sistemi si contrarrebbe drasticamente; parimenti, la qualità (nel senso 3. Si consulti Lyon et al. (a cura di, 2012), sezione 1.1.b e parte II.

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della veridicità) delle informazioni raccolte si degraderebbe, vittima di comportamenti strategici diffusi. Preservare una certa opacità riguardo all’importanza e ai fini della sorveglianza è quindi un obiettivo primario del settore privato, dei gestori delle piattaforme informatiche che dominano il traffico nella rete, ma non solo. Anche le autorità pubbliche hanno un interesse a mantenere gli usi della sorveglianza all’interno di limiti ben precisi. Il motivo principale è che immagazzinare dati prodotti dalla sorveglianza in archivi riservati induce a un azzardo morale, l’incentivo a manipolare tali dati per i propri fini quando vengono utilizzati in pubblico.4 La consapevolezza diffusa che tale azzardo morale è presente rischierebbe di causare una perdita di credibilità generalizzata. Una crisi di fiducia è deleteria per un governo democratico quanto per un’azienda privata – basti pensare alle possibili catastrofi in caso di emergenze di salute pubblica quali epidemie o contagi. E per quanto concerne i paesi non democratici, uno dei loro principali svantaggi competitivi è precisamente la mancanza di credibilità delle informazioni circolanti nella sfera pubblica (e all’interno della struttura burocratica stessa), poiché esse si trovano tutte nel cono d’ombra del timore di una repressione governativa.5 Infine, oltre alle autorità pubbliche e alle aziende private vi sono attori della società civile – per esempio la stampa – che sono interessati per definizione alla preservazione di una verità pubblica, perlomeno come ideale regolativo. Il fatto che gli interessi di questi attori differenti sono effettivamente allineati in tal modo a sua volta implica che vi sono dei limiti all’uso che può essere accettabilmente fatto delle informazioni prodotte dalla sorveglianza, per lo meno in maniera aperta e in relazione al pubblico nel suo complesso (anziché rispetto a gruppi di individui stigmatizzati ecc.). In altre parole, esistono le basi materiali per un accordo collusivo fra governi, elementi della società civile come i media e aziende private del settore che forniscono l’infrastruttura mate4. Come rilevato prescientemente da Bruce Schneier (2016). 5. Una discussione storica classica in materia è Figes (2007).

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