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Mostri e altri animali

Premessa Massimo Filippi Tra un fasmide e un axolotl. La moltiplicazione dei mostri pallidi e la guerra sulla vita informe Alessandro Dal Lago Attrazioni letali. Le passioni reciproche di mostri e umani Tommaso Braccini Appunti su Lamia: per il ritratto di un mostro Benedetta Piazzesi “Dans des voies insolites.” Il mostro zootecnico nella prima metà dell’Ottocento Serena Giordano Etologia dell’arte. Artisti e altri animali Marcello Faletra Mostri in cornice. Arte e teratologia Federica Timeto Donna Haraway e la teratotropìa degli altri in/appropriati Marco Reggio A quattro zampe. Note su animalizzazione, disabilità e colonialismo Enrico Monacelli La risurrezione della carne. L’orrore e la gioia della morte vivente

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CONTRIBUTI Diana Napoli La perdita dell’Eldorado: V.S. Naipaul Laura Sanò Guerra e società. Tra Marx e Vernant

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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Mauro Bertani, Graziella Berto, Beatrice Bonato, Deborah Borca (editing, deborah.borca@gmail.com), Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Alessandro Di Grazia, Pierangelo Di Vittorio, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Andrea Muni, Massimiliano Nicoli, Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Stefano Tieri, Carla Troilo, Davide Zoletto direzione: c/o il Saggiatore, via Melzo 9, 20129 Milano sito web: autaut.ilsaggiatore.com ISSN: 0005-0601 collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, S. Borutti, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, R. De Biasi, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, R. Prezzo, M. Serres, G.C. Spivak, G. Vattimo, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek per proposte di pubblicazione: autaut@ilsaggiatore.com Si fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testi di ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).

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Premessa

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n quella che è considerata da molti una delle massime espressioni del razionalismo novecentesco, la filosofia scientista di sir Karl Popper, gli oggetti del discorso filosofico sono distinti in tre mondi: la natura o mondo fisico (Uno), la psiche o soggettività (Due), i prodotti dello spirito o cultura (Tre).1 Rispetto alla classica tripartizione metafisica (Dio, uomo e mondo),2 uomo e mondo sono rimasti, mentre Dio è uscito di scena, sostituito dai prodotti dell’ingegno umano, quali il linguaggio, il sapere scientifico, le religioni ecc. L’esempio preferito da Popper e dai suoi seguaci per chiarire la differenza tra questi tre mondi è, inevitabilmente, un libro. Questo, infatti, è al contempo un oggetto fisico, un prodotto del pensiero, ovvero della soggettività umana, e un medium di contenuti trasmissibili attraverso il linguaggio. La teoria dei tre mondi, elaborata dall’ultimo Popper, ha sempre deliziato i razionalisti, convinti – in fondo – che il sapere consista nel descrivere il mondo esterno, a partire dalle nobili funzioni della ragione, e nel comunicare analisi e descrizioni al resto dell’umanità, magari nella forma di un saggio o, meglio ancora, di un articolo scientifico, scritto preferibilmente in inglese 1. K. Popper, I tre mondi, Corpi, opinioni e oggetti del pensiero (1978), il Mulino, Bologna 2012. 2. Su questo rimandiamo al classico K. Löwith, Dio, uomo e mondo nella metafisica da Cartesio a Nietzsche (1967), Donzelli, Roma 2018.

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e pubblicato da una rivista che applichi rigorosamente il sistema della peer review. Tutto ciò è semplice e convincente (simplex sigillum veri!). Tuttavia, si ha spesso la sensazione che qualcosa (o qualcuno) sia sfuggito all’analisi di sir Karl Popper. Per cominciare, il mondo Uno (quello fisico o naturale) non è solo oggetto della scienza, che lo conosce nelle sue unità elementari – a partire dalla sfera statistica dei quanti e dalle particelle subatomiche e atomiche per “risalire” a molecole, cellule, organi, organismi, specie ecc. –, ma anche la sede di una sorta di soggettività, intenzionale o meno che sia. Tormentati troppo a lungo dal calore eccessivo prodotto dall’umanità – soprattutto quella occidentale –, i ghiacciai si sciolgono: il livello dei mari si innalza, le barriere coralline scompaiono, le foreste scendono a valle, i fiumi esondano, travolgendo i malcapitati abitanti rivieraschi (umani e non umani)… Insomma, la natura pare vendicarsi delle offese subite, inducendoci a pensare che sia dotata non solo di mente, come pensava Bateson, ma anche di una sorta di moralità risentita, come suggeriscono, tra gli altri, Danowski e Viveiros de Castro.3 E che dire poi dei viventi che la popolano? Sono semplici oggetti della ricerca o, come si comincia sempre più a ritenere, abitanti a tutti gli effetti della Terra che, come noi, sentono, soffrono e pensano?4 Questo è sempre stato perfettamente chiaro ad alcuni sparuti anticipatori, da Plutarco a Piero Martinetti, che hanno scritto pagine memorabili sulla coscienza degli animali.5 3. E. Danowski, E. Viveiros de Castro, Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine (2014), Nottetempo, Roma 2017. 4. Al riguardo, cfr. C. Safina, Al di là delle parole (2015), Adelphi, Milano 2018. Ma si consideri anche la serie di domande, che ricapitolano l’intera storia della metafisica occidentale, provocatoriamente elencate da Jacques Derrida in L’animale che dunque sono (Jaca Book, Milano 2006, p. 105): “‘L’animale sogna?’ […] ‘l’animale pensa?’, ‘l’animale ha delle rappresentazioni?’, un ‘io’, un’immaginazione, un rapporto all’avvenire in quanto tale? L’animale possiede solo dei segni o un linguaggio, e quale? L’animale muore? Ride? Piange? Sente il lutto? Si annoia? Mente? Perdona? Canta? Inventa? Inventa musica? Suona musica? Gioca? Offre ospitalità? Offre? Dona? Possiede le mani? Occhi, ecc.? Il pudore? Dei vestiti? Lo specchio?...”. 5. P. Martinetti, “La psiche degli animali”, in Pietà verso gli animali, Il Nuovo Melangolo, Genova 1999. Ma si leggano anche le pagine di Plutarco in L’intelligenza degli animali, Il Nuovo Melangolo, Genova 2011.

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Ed è divenuto certezza indubitabile in quelle tendenze della ricerca biologica in cui non si pretende di applicare ai mondi animali la nostra razionalità (con i suoi metodi straordinari, certo, ma anche con i suoi pregiudizi ancestrali e la sua inesorabile carica di violenza epistemica e materiale), e si tenta, invece, di immaginare e poi di conoscere altre forme di ragione, di consapevolezza e di psiche – diciamo sia dei nostri amati cani e gatti, sia di esseri che non frequentiamo con analoga assiduità, quali elefanti, lupi e orche, ma anche scarafaggi, blatte, zecche… Che la soggettività umana non possa essere ristretta, cartesianamente, alle sue funzioni cognitive è fin troppo ovvio, a cent’anni e più dalla fondazione della psicoanalisi – e a centocinquanta, ormai, dalle peregrinazioni filosofiche di Nietzsche. Ma dove la teoria popperiana dei tre mondi sembra francamente esile, troppo esile, è nell’analisi del mondo Tre. Si ha spesso l’impressione che, al di là dei meravigliosi prodotti dello spirito nei suoi momenti più fulgidi (scienza, filosofia, letteratura ecc.), Popper considerasse la cultura come una sorta di ingombro, una dimensione che, sì, esiste, ma che è in sostanza la somma finale di un numero incalcolabile di errori, deviazioni, illusioni, fantasticherie, e persino perversioni. Quando, poco prima di morire, condusse la sua inane battaglia contro la televisione, perché corrompeva la mente infantile, probabilmente non aveva compreso la natura di quella componente essenziale del mondo Tre che è il sistema mediale che, oggi più che mai, insieme a quello economico-poltico, domina i mondi Uno e Due.6 Noi esseri umani, imperfetti, irrazionali e divagatori abitiamo i tre mondi e molti altri, transitando da uno all’altro senza soluzione di continuità. Quelli che Popper riteneva errori del pensiero sono, in realtà, parti essenziali della nostra immaginazione. Newton, fino all’avvento di Einstein supremo regolatore del moto degli astri, credeva fermamente nella ricerca della pietra filosofale – il che significa che non gli bastava conoscere il mondo, ma voleva trasformarne la natura più intima. Meno di due secoli 6. K. Popper, Cattiva maestra televisione (1994), Marsilio, Padova 2002.

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prima, Ambroise Paré, padre della moderna chirurgia, scrisse un trattato sui mostri come risultato di pratiche sataniche. Due secoli dopo, Freud combinò, in buona fede, pasticci scientifici con la cocaina. E che dire di tutti gli scienziati che hanno preso solenni cantonate, non solo in campo politico (dove è abbastanza facile), ma anche nei loro specifici settori di indagine? Una storia degli errori scientifici è persino più affascinante della storia istituzionale della scienza, perché ci mostra che, al di là di metodi, linguaggi e simboli scientifici – ormai impenetrabili per i profani –, il sapere si alimenta alle stesse sorgenti a cui ci abbeveriamo anche noi, donne e uomini qualunque, soggetti a errori e illusioni. Tra gli aspetti che Popper non ha preso in considerazione, i fantasmi occupano una posizione di privilegio. Non stiamo parlando dei fantasmi freudiani, che hanno a che fare con l’inconscio – che è sempre un linguaggio, almeno stando a quanto asserisce Lacan –, e nemmeno di quelle creazioni letterarie con cui Maupassant, Mérimée, E.T.A. Hoffman, Henry James e, in seguito, Lovecraft e tanti altri dopo di lui hanno fatto rabbrividire i lettori, deliziandoli. Stiamo parlando, invece, di fantasmi concreti, reali e ingombranti, fantasmi noti con il nome di mostri. Con questo termine, con cui gli antichi designavano i portenti e le epifanie del divino, da un certo punto in poi si sono etichettate tutte quelle forme di vita, reali e immaginarie, che si ponevano all’intersezione di mondi naturali e mondi culturali: centauri, idre, draghi, orchi, cefalopodi giganti, abominevoli uomini delle nevi, ma anche androgini, gemelli indivisi, uomini-elefanti, donne-gallina, Veneri della savana7 e tutti quegli altri e innumerevoli “scherzi di natura” che erano posti davanti all’alternativa tra essere sfruttati, messi a morte e annientati o essere esibiti in circhi, fiere e baracconi. Se i mostri mitologici sono, in senso stretto, contraffazioni culturali più o meno innocenti, i mostri uma7. Ci riferiamo qui allo straordinario film di A. Kechiche, Venere nera, in cui razzismo, scientismo e società dello spettacolo si alleano nella messa in scena e nello sfruttamento – in vita e dopo la morte – di una donna-mostro.

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ni rappresentano l’oscura pulsione collettiva alla celebrazione di ciò che si teme e perciò si odia. Nemici immaginari, e nondimeno concreti, gli “scherzi di natura” d’antan assillano oggi il nostro orizzonte nella forma del Nemico pubblico e nelle sue proteiformi astrazioni (quanto mai) reali: lo Straniero, l’Invasore, l’Islamico, la Bestia che raspa alla porta… Ma l’insostenibile leggerezza della proposta classificatoria popperiana non si ferma qui, poiché è la stessa divisione del mondo in soli tre mondi che ormai sembra davvero poco credibile. Se è certo, infatti, che noi umani, come già detto, abitiamo almeno tutti e tre i mondi di Popper, altrettanto certo è che anche gli animali, volenti o nolenti, non smettono di attraversarli da parte a parte. Volenti perché, innegabilmente, hanno un corpo (Uno), ma sono anche dotati – che ci piaccia o meno – di psiche e soggettività (Due) e, quindi, sono in grado di produrre culture (Tre). Perché, come insegnano Deleuze e Guattari, disfacendo la loro stessa classificazione – e, ovviamente, anche quella di Popper –, tutti gli animali, perfino quelli “edipici” e quelli “di Stato”, sono “demoniaci”, sorta di sciamani “che formano mute e provano affetti, che creano molteplicità, divenire, popolazione, racconto...”.8 Nolenti perché ridotti a mera natura – a ben pensarci, anche gli animali, come molti appartenenti alla specie Homo sapiens, sono incessantemente sottoposti a pratiche di animalizzazione – e perché le loro soggettività psichiche e le loro culture sono negate, rese invisibili o ridicolizzate. Perché, infine, la combinazione tra questa reificazione e questa negazione – che si sostengono a vicenda, moltiplicandosi a dismisura – li hanno resi prodotti mostruosi del “nostro” spirito e della “nostra” cultura. A quale mondo appartengono, per esempio, gli ibridi mutanti dell’ingegneria genetica o i corpi violati e deformi dei non umani degli allevamenti intensivi? Al mondo Uno, non vi è dubbio. Ma anche al mondo Due, se la psiche e la soggettività di così tanti umani è sempre più assillata dalle loro non-vite e dalla lo8. G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani. Capitalismo e schizofrenia (1980), Castelvecchi, Roma 2003, pp. 342-343.

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ro messa a morte industriale. E, senza alcun dubbio, al mondo Tre. Tanto che oggi, ci pare, l’oncotopo o il broiler hanno assunto il ruolo che Popper assegnava al libro. Georges Canguilhem e Michel Foucault, più e meglio di altri, hanno descritto l’evoluzione dei mostri da “scherzi di natura” a oggetti di indagine, classificazione e quindi uccisione, non più rituale, ma scientifica, fredda, imparziale. E sempre loro, forse senza averne piena consapevolezza o senza portare alle estreme conseguenze il loro discorso, hanno mostrato quanto la storia dei mostri e quella degli animali (non umani e umani animalizzati) siano andate progressivamente convergendo fino a rendersi in qualche modo indistinguibili. E, come si è accennato in precedenza, quello che è successo dopo Canguilhem e Foucault è stata la moltiplicazione del mostruoso nella vita di ogni giorno: da una parte l’inflazione immaginaria di mostri nel linguaggio quotidiano, giornalistico e mediale – l’etichettamento animalizzante di qualsiasi essere imprevedibile o sconosciuto – e dall’altra l’inflazione materiale di mostri animali prodotti dall’“allevamento su una scala demografica che non ha eguali nel passato” dalla “sperimentazione genetica”, dall’“industrializzazione di ciò che si può chiamare la produzione alimentare della carne animale” e da “tutte le altre finalizzazioni intese al servizio […] di un supposto benessere umano dell’uomo”.9 Fino all’incrocio, per metà grottesco e per metà terribile, di queste due inflazioni parallele: ormai basta che un povero pesce dotato di denti aguzzi sia pescato al largo delle coste americane perché si evochino mostri degli abissi. Basta che alcuni smanettatori ingegnosi montino un video con un ragno che si arrampica sulla facciata di un condominio per scatenare la paranoia nelle periferie di Milano, Los Angeles, Singapore o Nairobi. La difficoltà, nel mondo globalizzato, di definire chi sono i profittatori e gli sfruttatori, di conoscere le loro facce e, soprattutto, i loro profitti, induce gli stessi sfruttati, insieme a frustrati di ogni genere, uomini della strada e frequentatori di social net9. J. Derrida, L’animale che dunque sono, cit., p. 64.

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work a immaginare complotti mostruosi orditi alle loro spalle, avvelenamenti di pozzi, vaccini letali, pandemie microbiche, orge sataniche nei piani alti delle multinazionali… I mostri sono tra noi. In un modo o nell’altro, nel bene o nel male, siamo diventati tutti mostri. E animali, se vogliamo dar credito alla narrazione scientifica – una storia che, come tutte le storie degne di questo nome, è popolata da mostri incantevoli (quelli delle Galápagos) e inquietanti (quelli degli allevamenti dell’Impero britannico) – che ci ha raccontato sir Charles Darwin. Alle fondamentali, ma ignorate, esclusioni di animali reali e immaginari dai mondi Uno, Due e Tre è dedicato questo numero di “aut aut”. I testi che seguono cercano di analizzare, da diverse prospettive e ricorrendo a differenti strumenti, la convergenza di animalità e mostruosità che abbiamo richiamato in queste pagine. Alessandro Dal Lago e Massimo Filippi riflettono sull’idea di mostruosità, indicando come la supposta differenza tra reale e irreale, materiale e immaginario venga a cadere: al pari della “natura”, la storia e la società producono incessantemente mostri, in quanto nutrono le ossessioni dell’umanità, la sua tendenza, già ricordata, a creare e ricreare ciò che la turba. Una creazione che si disperde in classificazioni, suddivisioni, incorniciamenti, in cui si rende manifesta la volontà disperata di dominare ciò che si crea. Tommaso Braccini rintraccia le origini di un mostro femminile, un essere insieme affascinante e pericoloso, nella mitologia greca. Benedetta Piazzesi individua nella biologia e nella medicina del primo Ottocento l’inclinazione della scienza moderna per lo sfruttamento zootecnico della teratologia. Serena Giordano riflette sull’uso spesso inconsapevole, se non ottusamente utilitaristico, dell’animalità nell’arte contemporanea. Marcello Faletra analizza, sulla scorta della riflessione estetica, la trasformazione della mostruosità nell’arte moderna, dalla pittura di Velàzquez alle installazioni di alcuni artisti odierni. Federica Timeto sottolinea come la mostruosità attraversi, mettendole in crisi, categorie tradizionali, come quelle di specie e di genere, su cui la nostra cultura ha edificato la rassicurante percezione di sé. Marco Reggio discute, prendendo in esame un caso letterario, la mostruo9


sità come intersezione problematica tra animalità e umanità. Infine, Enrico Monacelli, partendo questa volta da un film, riflette sull’analogia che accomuna non-morti e neri, sull’esclusione radicale dell’Altro su cui si fondano sia il razzismo che lo specismo. In questo modo il cerchio sociale in cui si muovono animali e mostri si chiude con lo stesso gesto con cui un cacciatore uccide la sua preda in un bosco e un poliziotto fredda il suo “nemico” nelle strade di una qualunque cittadina americana. Con questo numero, “aut aut” affronta alcuni aspetti decisivi, e al tempo stesso tenuti saldamente ai margini, della filosofia del vivente nei suoi rapporti con i saperi, l’esercizio del potere, la storia e la società. Ci auguriamo che le riflessioni qui contenute stimolino ulteriori contributi. [A.D.L., M.F.]

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Tra un fasmide e un axolotl. La moltiplicazione dei mostri pallidi e la guerra sulla vita informe MASSIMO FILIPPI L’animale mi apre una profondità che mi attira e che mi è familiare. Questa profondità, in un certo senso, io la conosco: è la mia. È anche ciò che mi è sottratto dalla più remota lontananza, ciò che merita questo nome di profondità che significa precisamente ciò che mi sfugge. G. Bataille, Teoria della religione 1

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Didi-Huberman apre il suo tributo alla potenza conoscitiva delle “minute cose apparenti”2 con un saggio intitolato Il paradosso del fasmide, in cui racconta cosa ha provato nel corso di una visita al Jardin des plantes di Parigi. Di fronte alle vetrine espositive del vivario, dove il mimetismo degli animali si coniuga con la scenografia naturalistica degli allestitori per produrre un’invisibilità più o meno parziale, lo spettatore si trova impegnato in un’attività ben poco praticata nella vita quotidiana: “Il gioco consiste [...] nello scovare il prigioniero, nel distinguere l’animale”.3 Questo gioco – ma è davvero possibile giocare con un prigioniero? – ha quasi sempre un esito scontato: riconosciamo questo o quell’esemplare di questa o di quella specie,4 aiutati anche dai “cartelli [che] servono [...] a tranquillizzarci”.5 Sì, a tranquillizzarci, perché quando gli animali agiscono la loro invisibilità, eludendo l’invisibilizzazione dello sguardo addomesticaMassimo Filippi, professore ordinario di Neurologia presso l’Università “Vita e Salute” di Milano, è autore di diversi volumi sulla questione animale affrontata da un punto di vista filosofico e politico. 1. G. Bataille, Teoria della religione (1973), SE, Milano 2002, p. 24. 2. G. Didi-Huberman, La conoscenza accidentale. Apparizione e sparizione delle immagini (1998), Bollati Boringhieri, Torino 2011, p. 13. 3. Ivi, p. 20. 4. Per questo ha ragione Berger ad affermare che “in uno zoo la visione è sempre difettosa. Come una fotografia non a fuoco” (J. Berger, “Perché guardare gli animali?”, in Sul guardare [1980], Bruno Mondadori, Milano 2003, p. 25). 5. G. Didi-Huberman, La conoscenza accidentale, cit., p. 20.

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to dalla norma antropocentrica, scatenano “il terrore più squisito, il terrore del dissimile”.6 È proprio questo terrore indissociabile dalla fascinazione che investe Didi-Huberman di fronte alle teche in cui sono rinchiusi i fasmidi, insetti che non si limitano “a riprodurre una caratteristica particolare” dell’ambiente in cui vivono, ma che hanno fatto del loro corpo “lo scenario in cui nascondersi”.7 “Il fasmide”, prosegue Didi-Huberman, “è ciò in cui [...] abita”, “è ramo, talea, frasca, cespuglio”, “la corteccia e l’albero”, “la spina, lo stelo e il rizoma”.8 Il fasmide suscita orrore perché “appartiene a un ordine biologico di cui rifiuta ogni forma”, perché, privo di capo, di coda e, soprattutto, di volto, “infrange la gerarchia che qualsiasi imitazione esige”, perché, annullando una delle più resistenti dicotomie (più che) biologiche – quella tra individuo e ambiente, tra dentro e fuori – e facendosi riconoscere come “animale”,9 “evoca il lato nascosto [...] del mondo visibile”,10 dislocando la nostra prospettiva unidirezionale di sguardo e rendendoci in tal modo incapaci di continuare a credere nella favola dell’“animale in sé”.11 Seguendo Derrida, in esperienze di questo tipo – che possono realizzarsi anche nell’incontro con un gatto o una gatta –, la parola “l’animale” si mostra per quello che è: un “singolare collettivo” carico di violenza epistemica e materiale. In queste esperienze gli animali, almeno per un momento, accedono alla sfera della visibilità e si riprendono la capacità di “rispondere”, facendo così “vacillare i limiti sulla linea di frontiera tra bios e zoe, biologico, zoologico e antropologico, come tra vita e morte, tra vita e tecnica, vita e storia”.12 “L’animale è lì prima di me, è lì presso di me, lì davanti a me – che lo seguo/sono dopo di lui. E dunque, essendo prima di me, eccolo dietro di me. Mi circonda.”13 6. Ivi, p. 19. 7. Ivi, pp. 22-23. 8. Ivi, p. 23. 9. Ibidem. 10. Ivi, p. 19. 11. Ivi, p. 23. 12. J. Derrida, L’animale che dunque sono (2006), Jaca Book, Milano 2006, p. 62. 13. Ivi, p. 47.

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Il fasmide – ma questo, a ben guardare, vale per tutti gli animali – è un mostro. Di più: è un mostro composto da altri mostri perché si situa a metà strada tra un A Bao A Qu invertito, un borametz capovolto e un hidebehind.14 E, come tutti i mostri degni di questo nome, con la sua inusitata capacità di apparire scomparendo e di scomparire apparendo, è pronto a divorare la comfort zone delle categorie umaniste che proliferano nelle serre, sui globi e dentro le cupole del “continente dell’uomo”.15 2. Anche una breve scorsa ai bestiari di tutti i tempi – da quelli antichi e medievali a quelli contemporanei dell’ingegneria genetica – permette di individuare, al di là dei differenti periodi storici e delle differenti congiunture culturali, le tipologie secondo cui l’animalità mostruosa è stata declinata. Se la più frequente (che, pertanto, definiremo classica) mescola parti di animali appartenenti a due o più specie, almeno altre sei forme di ibridazione si affiancano a questa: i) la radicale, che combina mondo animale e mondo vegetale; ii) la teologica, che conferisce caratteristiche animali alle manifestazioni corporee del divino; iii) l’ambientale, che sposta gli animali, senza modificarne il fenotipo, in ecologie aliene; iv) la moderata, che si limita a moltiplicare o a sottrarre parti del corpo (per esempio, la testa, gli occhi, le chiostre dentarie o gli arti), a ingrandire o a miniaturizzare gli organismi (per il resto “normali”), a modificare le proporzioni relative dei vari organi o a cambiarne un solo aspetto (per esempio, sostituendo le pinne con gli arti); v) la macchinica, che va dagli automi cartesiani a Dolly, passando per le creature di Bosch, Bruegel e Arcimboldi, e gli animali della zootecnia; e vi) l’estrema, che si risolve nell’indistinzione 14. Questi animali sono alcuni dei protagonisti del Manuale di zoologia fantastica (1957) di J.L. Borges e M. Guerrero, Einaudi, Torino 1979. L’A Bao A Qu “vive in stato letargico” e “fruisce di vita cosciente” (p. 16) quando entra in rapporto con gli umani (in questo senso il fasmide è il suo inverso, conferendo vita cosciente agli umani con cui si relaziona). Il borametz (p. 45) “è una pianta che ha forma d’agnello”, a differenza del fasmide che è un insetto che ha forma di albero, ma che comunque combina anch’esso “il regno animale e il vegetale”. L’hidebehind è un animale che “per quanti giri un uomo faccia, [...] gli sta sempre alle spalle” (p. 72), sottraendosi così al presunto rigore scientifico della visibilità frontale, che anche il fasmide revoca in questione. 15. W. Benjamin, “Franz Kafka”, in Angelus Novus (1955), Einaudi, Torino 1981, p. 286.

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Attrazioni letali. Le passioni reciproche di mostri e umani ALESSANDRO DAL LAGO Un terrificante mostro del passato che scatena le sue passioni represse… ogni uomo è il suo mortale nemico… e la bellezza femminile la sua preda! Dal trailer originale del film Creature from the Black Lagoon, 1954

Il fascino dei mostri Si sa che in natura i mostri per lo più non esistono o comunque sono solo variazioni marginali di fenotipi. Secondo S.J. Gould, “l’evoluzione si manifesta nelle imperfezioni”.1 È lo scarto di un essere, reale o fantastico che sia, da una norma culturale, e quindi dalle abitudini percettive e cognitive che ne discendono, a farci definire “mostri”, “scherzi di natura”, “esseri abnormi” ecc. forme viventi insolite o sconosciute. Mentre la scienza antica, da Aristotele a Varrone, considerava mostri gli esseri contro natura, cioè difformi da chi li aveva generati,2 Agostino contesta l’idea di mostro, attribuendola all’incapacità umana di comprendere i fini ultimi della creazione. Proprio questo accade agli uomini meno colti, che per la loro mente debole non sono capaci di comprendere e considerare l’ordine e l’armonia dell’universo. Se qualcosa li urta, perché è troppo grande per la loro intelligenza, pensano che nelle cose sia presente una grande perversione.3 Tante creature singolari vivrebbero la loro esistenza non problematica, negli abissi marini o nei retrobottega della nostra imma1. Cfr. S.J. Gould, Quando i cavalli avevano le dita. Misteri e stranezze della natura, Feltrinelli, Milano 1989, p. 261. 2. Così Aristotele, De generatione animalium, IV 4. 3. Agostino, De ordine, I 1 2. La pensa allo stesso modo Isidoro di Siviglia: “Un portento, dunque, si dà non contro natura, ma contro la natura conosciuta” (Isidori hispalensis episcopi Etymologiarum sive Originum libri XX, libro XI, 2, Oxford 1911; trad. a cura di A. Valastro Canale, Etimologie o origini, UTET, Torino 2004, vol. I, p. 923).

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ginazione, se le culture umane non manifestassero una tendenza universale a farne degli idoli all’incontrario, trasformandole in mostri o incubi. Come dice Canguilhem, “la vita è povera di mostri, mentre il fantastico ne è pieno”.4 Moby Dick, se andiamo al di là delle interpretazioni metaforiche del romanzo di Melville, per lo più centrate sul mito americano dell’oceano come frontiera e della contesa dell’uomo con le sue ossessioni, è solo un cetaceo che cerca di difendere il suo habitat e, forse, la sua prole dai feroci predatori umani. Allo stesso modo le orche (Orcinus orca), che film dozzinali ci presentano nelle vesti di assassini feroci, sono esseri socievoli e intelligentissimi che soffrono orribilmente in cattività, come tutti gli animali costretti a esibirsi davanti all’uomo. Il fatto che si cibino di altri esseri viventi, mammiferi e non (megattere, capodogli, salmoni ecc.), è abituale in natura e non ne fa certo delle eccezioni, ma delle creature che occupano il loro posto nell’ecologia marina (tra l’altro, contrariamente alle leggende, non si conoscono casi di aggressioni di orche all’uomo).5 Nella produzione culturale della mostruosità, le diverse specie, reali e immaginarie, si collocano in una serie continua. Se i mostri, marini e terrestri, sono umanizzati in quanto assassini, minacce, incarnazioni della malvagità assoluta (come la tigre Shere Kahn, in Il libro della giunga di Kipling) – e hanno ovviamente come antagonisti gli animali buoni, miti, materni e paterni, insomma uguali a noi –,6 gli esseri umani fuori norma sono animalizzati. Moby Dick è un mostro perché le sue dimensioni eccedono quelle delle balene comuni, e poi perché è insolitamente bianca, oltre che implacabile. D’altra parte, i vampiri e i 4. G. Canguilhem, “La mostruosità e il portentoso”, in La conoscenza della vita, il Mulino, Bologna 1976, p. 242 (trad. modificata). 5. Su questi e altri esseri viventi dotati di un pensiero originale, cfr. C. Safina, Al di là delle parole, Adelphi, Milano 2018. Questo libro è fondamentale perché, al di là delle ricche analisi del comportamento di altri viventi, mette in discussione la pretesa umana di comprendere, in base alle proprie categorie, il pensiero animale. Ma cfr. anche le incursioni di Oliver Sacks nell’etologia comparata: O. Sacks., Il fiume della coscienza, Adelphi, Milano 2018. 6. Nella categoria degli animali come noi o degli uomini-scimmia rientrano anche i casi di anacronismo letterario. Cfr. per esempio R. Lewis, Il più grande uomo scimmia del Pleistocene, Adelphi, Milano 2001.

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lupi mannari sono umani ridotti a bestie o semi-bestie (nell’ambigua forma di uomini-pipistrelli o uomini-lupi) perché vittime di maledizioni ancestrali, subordinazioni sataniche o colpe ereditate dai progenitori. In ogni caso, mostri marini o terrestri e mostri semi-umani sono gli estremi di una serie che vanta un gran numero di figure intermedie e anche diramazioni e sottogruppi più o meno innocenti. Nel catalogo di zoologia fantastica compilato da Jorge Luis Borges e Margarita Guerrero compaiono infatti, accanto al minotauro o al kraken, un mostro nordico degli abissi, anche l’ippogrifo, la lepre lunare e così via.7 Ciò che conta, comunque, è che caratteristica principale dei mostri è di essere largamente proiettivi, dei predicati culturali. Poiché di fatto non esistono in natura, dovremo cercare il loro significato nelle pratiche, complesse e spesso prive di un senso dichiarato o preciso, grazie alle quali vengono creati, portati alla luce e riprodotti all’infinito, acquistando con ciò un ruolo in quello che gli antropologi del XX secolo avrebbero chiamato “immaginario collettivo” – e che oggi sarebbe meglio definire “repertorio simbolico e linguistico” di un’umanità globalizzata. Tanto per intendersi, gli orchi contemporanei, che fanno la parte dei cattivi nel cinema fantasy (come nella saga di Il signore degli anelli) non sono quelli di Perrault, né tantomeno di Basile, anche se le loro versioni più diffuse si rifanno consapevolmente o no a una tradizione folclorica rielaborata dai favolisti tra XVII e XIX secolo.8 Per avere un’idea di questi processi di costruzione ed evoluzione storico-culturale dei mostri si deve tornare proprio al 7. J.L. Borges, M. Guerrero, Manuale di zoologia fantastica, Einaudi, Torino 20154. Una fonte di questo testo è il manuale altomedioevale Liber Monstrorum de diversis generibus (IX secolo), compilato in latino in ambiente anglosassone. L’elenco degli esseri mostruosi (etiopi, donne barbute, divoratori di uomini, arpie, minotauri, mangiatori di carne cruda ecc.) ha senz’altro entusiasmato Borges e, immaginiamo, Michel Foucault. Si veda Liber monstrorum, a cura di F. Porsia, Liguori, Napoli 2012. Per un panorama aggiornato dei mostri medievali, della loro origine ecc. cfr. R. Simek, Monster im Mittelalter. Die phantastische Welt der Wundervölker und Fabelwesen, Böhlau Verlag, Wien-Köln-Weimar 2015. Sulla derivazione orientale dell’iconologia dei mostri cfr. J. Baltrusaitis, Medioevo fantastico. Antichità ed esotismi nell’arte gotica, Adelphi, Milano 19932. 8. Sulle metamorfosi degli orchi, si veda T. Braccini, Indagine sull’orco. Miti e storie del divoratore di bambini, il Mulino, Bologna 2013.

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Appunti su Lamia: per il ritratto di un mostro TOMMASO BRACCINI

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n oscuro mitografo vissuto probabilmente nel II secolo d.C., Antonino Liberale, nelle sue Metamorfosi (cap. 8) ricorda la storia di un mostro (lo chiama più precisamente therion mega kai hyperphyes, “belva smisuratamente grande”) che avrebbe infestato la località di Cirfi, sulle pendici del Parnaso.1 Quest’essere, noto come Lamia o Sibari, terrorizzò l’intera regione divorando uomini e animali, finché su consiglio dell’oracolo di Delfi si decise di offrirgli in sacrificio un ragazzo del luogo. Fu estratto a sorte un certo Alcioneo, ma proprio mentre veniva condotto alla caverna del mostro la processione si imbatté in un giovane coraggioso di nome Euribato. Quest’ultimo, invaghitosi all’istante del bell’Alcioneo, si sostituì a lui e, entrato nella caverna della Lamia, l’afferrò e la gettò giù per le balze del Parnaso. Il mostro morì e nel luogo in cui si era sfracellato scaturì una sorgente.2 Sarebbe interessante sapere qualcosa di più sull’aspetto e sulTommaso Braccini insegna Lingua e Letteratura neogreca presso l’Università di Torino. È autore di diversi saggi e libri sulla genealogia di orchi, vampiri e altre figure del folklore. 1. Non è possibile, in questa sede, fornire una bibliografia esaustiva su Lamia e le lamie: si può rimandare, per un primo approccio, a O. Imperio, La donna diavolo nella Grecia antica: Lamia, Circe, Empusa e le stagioni della vita umana, “Synthesis”, 22, 2015, disponibile all’indirizzo <synthesis.fahce.unlp.edu.ar>; T. Braccini, Lupus in fabula: fiabe, leggende e barzellette in Grecia e a Roma, Carocci, Roma 2018, pp. 61-62 e 161-180, e soprattutto all’ampia trattazione di M. Patera, Figures grecques de l’épouvante de l’antiquité au présent: peurs enfantines et adultes, Brill, Leiden-Boston 2015, pp. 1-105. 2. Cfr. A. Liberale, Le metamorfosi, a cura di T. Braccini e S. Macrì, Adelphi, Milano 2018, pp. 44-45 e 162-167.

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le peculiarità di quest’essere, ma Antonino, peraltro sempre molto stringato nella sua esposizione, non fornisce alcun dettaglio. Molto più loquace in materia è un altro autore vissuto tra I e II secolo d.C., il celebre retore Dione di Prusa, detto Cristostomo (“Bocca d’oro”, per la soavità del suo eloquio). Nella sua Orazione V descrive le lamie, simbolo dei piaceri sregolati, come una vera e propria “razza mostruosa” che infestava i deserti della Libia e che, in cerca di prede, si era spinta fino alla cosiddetta Sirte. Si trattava di un tratto di costa ricco di secche, estremamente pericoloso per i naviganti. Infatti il cibo preferito delle lamie (che peraltro non disdegnavano nemmeno pecore, cervi, asini selvatici, addirittura leoni e pantere) erano proprio gli esseri umani. A rischio erano soprattutto i naufraghi, che quando iniziavano a vagare per il lido desolato cercando aiuto finivano per imbattersi in bellissime donne, dallo sguardo ammaliante e dal magnifico seno nudo. Gli uomini, irresistibilmente attratti, si avvicinavano sempre più alle seduttrici, che rimanevano ferme e mute e volgevano lo sguardo a terra, come per pudore… ma quando i malcapitati era giunti abbastanza vicino, i mostri li afferravano con le zampe munite di artigli, nascoste fino a quel momento; come ultimo orrore, le lamie svelavano anche la metà inferiore del loro corpo, coperta di squame e culminante nella testa di un serpente velenoso. Secondo Dione c’erano stati vari tentativi di estirparle, tra cui uno da parte di Eracle, ma nessuno aveva avuto completamente successo: si raccontava infatti che, più di recente, una comitiva di greci, diretta al celebre oracolo di Zeus Ammone, mentre attraversava il deserto libico si fosse imbattuta in un esemplare particolarmente seducente. Due giovani del gruppo ne furono irretiti e corsero verso di lei: il primo a raggiungerla fu trascinato sotto la sabbia e divorato seduta stante, l’altro venne morso dall’estremità serpentina del mostro, che poi fuggì. Le guide locali impedirono ai compagni del giovane agonizzante di prestargli aiuto: se l’avessero anche solo toccato, sarebbero morti pure loro. Nell’interpretazione moraleggiante di Dione di Prusa, le lamie sono femmine mostruose che irretiscono gli uomini con la 52


loro ingannevole avvenenza per poi ucciderli e divorarli. Storie non troppo differenti circolano anche nel folklore della Grecia moderna e non solo (come lamja, infatti, compare anche in Bulgaria3). Le lamie in genere sono descritte come donne molto belle, alte, dalle forme avvenenti. Spesso stanno in agguato vicino a ruscelli o fontane, pettinandosi in maniera civettuola i lunghi capelli biondi. Solo avvicinandosi si può scoprire che presentano un difetto inquietante: i loro piedi non sono umani. In alcuni casi presentano estremità di bronzo, in altri hanno zampe di animale, per esempio di bue, di asino, di capra. Questo è un tratto forse ereditato dall’Empusa, altro spauracchio dell’antica Grecia;4 ma non bisogna dimenticare che belle donne dalle zampe asinine, sempre pronte a sedurre e uccidere malcapitati viandanti, sono attestate anche nel folklore orientale fin dal Medioevo, e a esse allude già Luciano nella Storie vere (2.46).5 Nella Grecia moderna alle lamie vengono imputate varie malefatte, per esempio quella di succhiare il sangue delle bestie che si vanno ad abbeverare, ma la loro maggiore nefandezza naturalmente è quella di uccidere gli uomini, soprattutto quelli che attingono acqua alle “loro” fonti nelle ore “demoniache” di mezzogiorno o mezzanotte.6 In queste varie attestazioni, come si è visto, Lamia aggredisce giovani uomini e adulti. Su di essa, tuttavia, circolavano anche altre tradizioni. Un punto di partenza è costituito da uno scolio, un antico commento a un verso della Pace di Aristofane (v. 758): Si dice che la Lamia fosse figlia di Belo e di Libia. Dicono che Zeus se ne fosse innamorato... A Era non sfuggì che Zeus si era unito a lei, e allora la dea, in preda alla gelosia, di volta in volta uccideva i figli che nascevano alla rivale. Questa, afflitta dalla 3. Cfr. I. Georgieva, Bulgarian Mythology, Svyat, Sofia 1985, pp. 62-63. 4. Cfr. M. Patera, Figures grecques, cit., pp. 249-290. 5. Cfr. T. Braccini, Luciano e il diavolo nella sala da ballo: una nota a “Storie vere” 2,46, “Quaderni urbinati di cultura classica”, NS 119.2, 2018, pp. 127-138; Id., Lupus in fabula, cit., pp. 108-110. 6. Cfr. Id., La fata dai piedi di mula: licantropi, streghe e vampiri nell’Oriente greco, Encyclomedia, Milano 2012, pp. 59-61 e 121-122; M. Patera, Figures grecques, cit., pp. 76-84.

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“Dans des voies insolites.” Il mostro zootecnico nella prima metà dell’Ottocento BENEDETTA PIAZZESI

1. Mostri rurali “Spesso accade che i pulcini nascano deformi, in difetto o in eccesso nel numero di membra, zampe, ali e creste, non potendo l’artificio imitare sempre perfettamente la Natura.”1 All’inizio del XVII secolo, uno dei più importanti agronomi del continente europeo osserva che nei serragli e nelle scuderie, nelle stalle e nei covili, nascono animali mostruosi. Se si utilizzano le tecniche di incubazione artificiale questa eventualità diviene addirittura frequente. Olivier de Serres fa queste osservazioni in un’epoca la cui concezione della mostruosità è sancita e resa nota dalle parole di Ambroise Paré: “I mostri sono cose che si manifestano oltre il corso della natura”.2 Dall’antichità fino almeno al XVII secolo, il mostro è l’emblema di una duplice infrazione: infrazione alle leggi naturali e in particolare a quell’universale principio della vita secondo il quale “il simile genera il simile”; e infrazione alle leggi divine e morali, secondo una forma di hybris, che ancora oggi lascia traccia nella lettera del termine “ibrido”. Nel momento stesso in cui confermava la sanzione del suo tempo che faceva del mostro una cosa contro natura, de Serres lo introduceva in un campo di osservazione e di causalità nuove. Benedetta Piazzesi svolge attività di ricerca sulle forme di governamentalità animale presso la Scuola normale superiore di Pisa. 1. O. de Serres, Le théâtre d’agriculture et mesnage des champs (1600), de l’imprimerie de Madame Huzard, Paris 1804-1805, vol. II, p. 16. (Laddove non ulteriormente specificato, questa e le altre traduzioni dal francese sono mie.) 2. A. Paré, Des monstres et prodiges (1573), Librairie Droz, Genève 1971, p. 3.

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Se l’agronomo contrappone infatti mostro e natura è per tramite del concetto di artificio, il quale valica i confini del “naturale” nel senso della mancanza piuttosto che dell’eccesso, nella forma dello scarto piuttosto che del prodigio. Benché contro-natura, i piccoli mostri rurali di de Serres sono un fenomeno perfettamente “mondano” e nelle parole che li evocano non si avverte né timore divino né riprovazione morale. Le chimere, che lasciavano presagire avvenimenti funesti e che testimoniavano un’incursione divina nelle leggi della natura, lasciano il posto a qualche pulcino nato con poche o troppe membra: animali la cui domesticità rende familiare persino la mostruosità.3 Alla contrapposizione naturale/sovrannaturale si sostituisce quella natura/artificio quale punto d’innesto del fenomeno mostruoso. Tale slittamento diviene rilevante se lo si colloca nella congiuntura storico-epistemologica di quello stesso inizio secolo: il metodo sperimentale, attorno a cui la rivoluzione scientifica avrebbe riorganizzato lo studio della natura, conferiva infatti alle procedure di artificializzazione del fenomeno osservato un nuovo potere euristico. Olivier de Serres, pur senza essere scienziato ma tecnico e allevatore esperto, osserva che il mostro è dopo tutto un tentativo (benché malriuscito) di riproduzione della natura e, più letteralmente, un esperimento di riproduzione animale. È anche a partire da qui che il mostro, da figura del contro-naturale per eccellenza, acquisirà nel XIX secolo una sua funzione nello studio della natura stessa, e in particolare di quelle leggi che regolano la riproduzione dei viventi.

3. Si consideri inoltre questo passo: “Si vedono a volte dei saltimbanchi, o altri ciarlatani, condurre dei galli cornuti che esibiscono come mostruosità della Natura, e se ne trova persino la raffigurazione in certe opere sui mostri; ma è per mezzo di un gioco di prestigio molto semplice che si può produrre questo effetto, che non è altro che un innesto animale” (ivi, p. 155). Mostri per l’ingenuità popolare, abilmente manipolata da ciarlatani interessati, o per la curiosità di qualche trattatista, questi “innesti animali” sono del tutto demistificati dalle mani e dagli occhi esperti dell’allevatore. L’immagine del mostro come “innesto animale” è meritevole di considerazione: pur restando fedele al classico immaginario di ciò che è “misto”, lo declina nel campo semantico familiare dell’agricoltura. L’antica tecnica dell’innesto aveva da lungi fornito frutti dalle dimensioni e protuberanze abnormi, così come strani ma ormai noti ibridi vegetali.

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2. Mostri scientifici Anche il fenomeno mostruoso prenderà parte a quella sistematizzazione disciplinare in corso nelle scienze della vita nella prima metà del XIX secolo, di cui la creazione del termine “biologia” nel 1802 segnala il corso. Étienne e Isidore Geoffroy Saint-Hilaire sono, com’è noto, i due naturalisti responsabili dell’inclusione del fenomeno mostruoso nel consesso delle scienze naturali: in quella che ha i toni di una missione sociale oltre che scientifica, i due naturalisti si propongono di liberare la nascita deforme dalle sue implicazioni morali e sovrannaturali, inscrivendola a pieno regime tra i fenomeni naturali e fondando un nuovo ambito di ricerca scientifica che il giovane Isidore denominerà tératologie.4 Étienne Geoffroy Saint-Hilaire, personaggio di grande importanza nella propulsione istituzionale delle scienze naturali all’inizio dell’Ottocento e protagonista dello storico dibattito sul fissismo con Georges Cuvier,5 aveva deciso di dedicare già nel 1822 il secondo volume della sua Philosophie anatomique alla questione della mostruosità,6 come caso limite di quel rapporto tra varietà di forme e “unità di composizione” anatomica che ricercava nella sua idea di zoologia comparata. Sulle orme del padre, Isidore Geoffroy Saint-Hilaire dedicherà, dieci anni più tardi, un’opera sistematica in quattro volumi allo stesso tema, l’Histoire générale et particulière des anomalies de l’organisation chez l’homme et les animaux, ou Traité de tératologie.7 Qui la casistica teratologica è organizzata secondo rapporti di simmetria anatomica 4. Cfr. in generale M. Mazzocut-Mis, Mostro. L’anomalia e il deforme nella natura e nell’arte, Guerini, Milano 1992 (ristampa riveduta e corretta 2013); O. Roux, Monstres. Une histoire générale de la tératologie des origines à nos jours, CNRS Éditions, Paris 2008; e più in particolare B. Nouailles, Le monstre, la vie, l’écart. La tératologie d’Étienne et d’Isidore Geoffroy Saint-Hilaire, Garnier, Paris 2017. 5. Cfr. T.A. Appel, The Cuvier-Geoffrey Debate: French Biology in the Decades before Darwin, Oxford University Press, New York-Oxford 1987. Sull’interessante personalità e vicenda biografica, oltre che teorica, di Geoffroy Saint-Hilaire cfr. l’opera dedicatagli dal figlio I. Geoffroy Saint-Hilaire, Vie, travaux et doctrine scientifique d’Étienne Geoffroy Saint-Hilaire, P. Bertrand, Paris 1847. Cfr. anche H. Le Guyader, Geoffroy Saint-Hilaire 1772-1844. Un naturaliste visionnaire, Belin, Paris 1998. 6. É. Geoffroy Saint-Hilaire, Philosophie anatomique, vol. II: Des monstruosités humaines, Paris 1822. 7. I. Geoffroy Saint-Hilaire, Histoire générale et particulière des anomalies de l’organisation chez l’homme et les animaux, ouvrage comprenant des recherches sur les caractères, la

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Etologia dell’arte. Artisti e altri animali SERENA GIORDANO Dire che l’animale è un essere, che ha comuni con noi la natura e il destino, non è ancora un volerne aprire a noi l’anima; essa ci apparirà anzi, dopo quanto si è detto, qualche cosa di ignoto e di misterioso assai più di prima. Del resto anche gli uomini sono esseri simili a noi e con essi ci collega un’infinità di rapporti: ma possiamo veramente dire che li conosciamo? Piero Martinetti, Pietà verso gli animali

Noi e loro Nel 1974, a New York, per tre lunghi giorni, un coyote è costretto a convivere, in uno spazio circoscritto della René Block Gallery, con un uomo alto, con una coperta sulla testa, che si agita scompostamente brandendo un bastone. L’uomo è un artista, Joseph Beuys. Del coyote non si conosce il nome anche se, forse, era doveroso citarlo, attribuendogli almeno un cinquanta per cento del successo della performance. L’artista, per spiegare il significato dell’azione, dichiara di aver scelto il coyote perché demonizzato dai coloni americani come bestia feroce. Per Beuys, l’animale è una social sculpture, simbolo di un’America scomparsa. Quando ho creato l’action con il coyote, non ero interessato a dare una lezione di zoologia o altro. Provavo a mostrare alle persone che c’è un regno che esiste al di sotto del regno umano [corsivo mio] che è una sorta di precursore dell’evoluzione umana, un regno animale autonomo. Ho tirato fuori una creatura dal proprio regno e l’ho messa in contatto con gli esseri umani.1 Beuys ha più volte definito la performance come una riconciliazione, attraverso l’arte, dell’uomo con la natura. Ma a dispetto di queste dichiarazioni, ciò che mi ha sempre colpito di questa Serena Giordano, illustratrice e videoartista, ha pubblicato diversi volumi di teoria e comunicazione dell’arte. Insegna Didattica dell’arte all’Accademia di belle arti di Palermo. 1. J. Beuys, Joseph Beuys, “Flash art”, 306, 2012.

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celeberrima performance è l’assoluto disinteresse dell’artista nei confronti del suo co-protagonista, messo in scena solamente come materializzazione di un’idea, di un simbolo. Il video I like America and America likes me mostra il coyote che tenta di togliere la coperta che copre l’uomo, dalla testa ai piedi, per smascherarlo e capire chi l’ha coinvolto in quella situazione imbarazzante [fig. 1].

Fig. 1 Joseph Beuys, I like America and America likes me.

L’artista, invece, corre da un angolo all’altro dello spazio chiuso, avvolto nel suo manto di feltro da cui spunta un bastone uncinato.2 Naturalmente, non ha senso giudicare i comportamenti dei due attori in scena con lo stesso criterio, ovvero con il semplice buon senso. Ed è altrettanto evidente che, in base a quest’ultimo, il coyote ne uscirebbe decisamente meglio, in termini di ragionevolezza e razionalità. Ma si sa che i comportamenti dei coyote 2. Il video è consultabile all’indirizzo: <vimeo.com/5904032> (ultima consultazione 16 agosto 2018).

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sono affare degli etologi e quelli umani degli antropologi, anche se i saperi dell’etologia e dell’antropologia muovono spesso da un preconcetto che li accomuna:3 Parliamo di “esseri umani e animali”, come se tutti i viventi ricadessero in due sole categorie: noi e tutti gli altri. Eppure abbiamo addestrato gli elefanti a trascinare tronchi d’albero fuori dalla foresta; nei laboratori abbiamo fatto percorrere labirinti ai ratti, per studiare l’apprendimento; e i piccioni ci hanno insegnato i rudimenti della psicologia beccando i bersagli che gli mostravamo. Studiamo i moscerini per imparare come funziona il nostro DNA, e infettiamo le scimmie per mettere a punto cure da usare negli esseri umani […]. A dispetto di tutta questa intimità, conserviamo una tentennante insistenza sul fatto che gli “animali” non sono come noi – benché noi stessi siamo animali. Potrebbe mai una relazione basarsi su un fraintendimento più profondo?4 L’occhio che vede siamo ovviamente “noi”. Ma quali noi? Gli antropologi che osservano le altre società o la civiltà occidentale di cui essi fanno parte o qualche altra comunità di ordine intermedio? Un’antropologia che non può relegarsi soltanto nello studio degli altri, sottraendo a “noi” questi altri e dunque alla stessa prospettiva antropologica, ha da chiarire, in primo luogo, la natura del “noi”.5 Dunque, ci sarebbero un “noi” (esseri umani) e un “loro”, ovvero tutto il resto delle creature viventi. Come ci sarebbe una 3. Sui coyote sono stati condotti numerosi studi etologici. I loro comportamenti, le loro abitudini e relazioni all’interno delle comunità sono complesse e variegate e dimostrano un’intensa attività di comunicazione interpersonale tra gli individui di quella specie. Su questo tema, cfr. M. Beckoff, C. Wells, Behavioural Budgeting by Wild Coyotes: The Influence of Food Resources and Social Organization, “Animal Behavior”, 3, 1981, pp. 794-801. 4. C. Safina, Al di là delle parole, Adelphi, Milano 2018, pp. 42-43. 5. F. Remotti, Noi, primitivi. Lo specchio dell’antropologia, Bollati Boringhieri, Torino 1990, p. 216.

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Mostri in cornice. Arte e teratologia MARCELLO FALETRA

Le disavventure della rappresentazione Un’installazione del 1986 dell’artista sudafricana Jane Alexander (Butcher Boys) è composta da tre corpi umani le cui teste sono realizzate con vari elementi: corna di arieti, muso di felini, mascelle e zigomi pronunciati, nasi schiacciati e parti di altre creature inclassificabili [fig. 1]. Seduti in pose simili, osservano il mondo circostante. I loro dettagli realistici compongono un’opera iperrealista. Sembrano turisti che osservano con un misto di curiosità e di indifferenza ciò che li circonda. Allegoria, metafora, parodia: i tre mostri sono efficacemente rappresentati nella loro estraneità sociale. In nessun caso esprimono un pensiero, giacché la loro posa è il riflesso di un universo sconosciuto, altro, ma funzionale alla lunga storia dell’immaginario del mostro. Se un tempo la bestialità del mostro rientrava in un simbolismo sociale1 (sacrificale, bellico, mitologico), le figure ibride di Alexander non hanno alcuna pretesa mitologica. Sono celibi, cioè senza l’altro: l’uomo. Ripugnanti e seducenti allo stesso tempo, i tre ibridi non si lasciano “contemplare – nota Anthony Julius – perché coinvolgono lo spettatore e, allo stesso tempo, provocano in lui la frustrazione di non riuscire a risolvere l’esercizio di classificazione: in quale categoria [rientrano], quella umana o animale?”.2 Marcello Faletra, artista, ha pubblicato lavori di teoria e fenomenologia dell’arte. Insegna Fenomenologia dell’immagine ed Estetica dei New Media all’Accademia di belle arti di Palermo. 1. Cfr. J.-P. Vernant, Figure, idoli, maschere, il Saggiatore, Milano 2001. 2. A. Julius, Trasgressioni, Bruno Mondadori, Milano 2003, pp. 158-159.

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Fig. 1 G. Alexander, Butcher Boys, 1985-1986.

I mostri della contemporaneità ereditano da King Kong – gigantesca figura sottratta alla giungla – la vocazione alla spettacolarità. Nati come messaggeri di potenze soprannaturali prima, diventati poi guardiani del caos,3 i mostri, oggi, mettono in scena la loro “vocazione alla rappresentazione”. Secondo José Gil,4 questo primato della vocazione alla rappresentazione si può far risalire a Velázquez, quando, in Las Meninas, mette in primo piano una nana [fig. 2]. Ha la stessa altezza dell’infanta e compare dietro un cane, quasi a suggerire la familiarità con il mondo animale; inoltre, vista in prospettiva, benché in primo piano, la donna è molto più piccola del pittore. In tal modo, secondo Gil, la sua presenza “decentra” l’intera percezione del quadro. La nana, an3. Cfr. E. Gombrich, Il senso dell’ordine, Leonardo, Milano 2003, soprattutto il capitolo “Il margine del caos”. 4. J. Gil, Mostri, Besa editrice, Nardò (Le) 2002.

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Fig. 2 D. Velázquez, Particolare di Las Meninas, 1656 e J.P. Witkin, Las Meninas, 1987.

che se posta a lato, entra a far parte della scena costituendo un’anomalia. È l’eccesso messo in bella mostra. La nana fa da contrappunto alle leggi della rappresentazione e, come osserva Foucault a proposito della stessa opera, è “una rappresentazione di una rappresentazione” o “una rappresentazione che offre se stessa come spettacolo”.5 Commentando il testo di Foucault, Gil nota inoltre che la presenza in primo piano della nana ha anche la funzione di provocare un confronto tra la realtà e la sua rappresentazione inserendo anche ciò che la nega. Per essere vera, la rappresentazione – assillo di Velázquez – deve essere “conforme alla sua veridicità”, quest’ultima garantita dalle leggi della prospettiva, che regolano le dimensioni dei corpi, e dall’uso sapiente del doppio generato dallo specchio. La presenza del mostro in tale contesto avrebbe la funzione di sottolineare, con la sua difformità, l’estraneità a queste leggi: la funzione simbolica della prospettiva – secondo l’espressione di Panofsky – e la rappresentazione come strumento di conoscenza a cui si è aggiunto lo specchio. Il mostro sfugge a questa logica. Il suo eccedere le leggi naturali e conoscitive ne fa una presenza da cui non giunge alcuna informazione. Sia la nana di Velázquez, dai tratti vagamente maschili, sia i mostri di Alexander sfuggono alla codificazione sessuale e ani5. M. Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1978, p. 30.

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Donna Haraway e la teratotropìa degli altri in/appropriati FEDERICA TIMETO

Il monstrous turn : “Come mostri, possiamo dimostrare un altro ordine di significazione?”1 Cosa promettono i mostri? Per capirlo, scrive Donna Haraway, non dobbiamo temere di affrontare un “giro mostruoso” (monstrous turn)2 dentro il ventre del mostro, dimenticando da dove veniamo, attraversando frontiere, deviando dalle strade segnate, accudendo strane creature, ma soprattutto non avendo paura di restare aggrovigliati in mezzo ai nodi che i mostri disseminano ovunque in modi in/appropriati. Sul senso di questo giro è opportuno soffermarsi. La parola turn, infatti, è usata di solito per indicare una fase di svolta in cui un insieme di studi che convergono su alcuni concetti chiave si afferma rispetto a un corpus precedente, da cui il nuovo si differenzia dimostrandone l’inadeguatezza o l’obsolescenza (un esempio noto: il linguistic turn della filosofia analitica). Tuttavia, quando Haraway in “The promises of monsters” parla di giro mostruoso, trattandosi di un turn che esclude qualsiasi idea di progressione e “pellegrinaggio” verso la salvazione, sembra opportuno interpretare questo termine più letteralmente come una deviazione, l’uscita da un percorso in avanti che piega la direzioFederica Timeto si occupa di estetica femminista, culture visuali e sociologia dei nuovi media. Insegna Sociologia dei nuovi media all’Accademia di belle arti di Palermo. 1. D. Haraway, “Introduction”, in Simians, Cyborgs and Women. The Reinvention of Nature, Routledge, New York 1991, p. 4. 2. Id., “The promises of monsters. A regenerative politics for inappropriate/d others”, in L. Grossberg, C. Nelson, P.A. Treichler (a cura di), Cultural Studies, Routledge, New York 1992, p. 304.

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ne del movimento e lo avvita in una serie di “tornanti” (infernali?): un trópos che interferisce con il topos. Trópos, etimologicamente, è ciò che gira, la dislocazione, la figurazione che fa scivolare altrove ogni collocazione stabile e sicura. L’unione material-semiotica di topos e trópos, convergenza e divergenza dal locus communis, posizionamento – così importante per l’epistemologia situata di Haraway – e spostamento – altrettanto fondamentale per la sua metodologia della diffrazione3 –, indica che nessun luogo è mai del tutto chiuso, e non ne esiste rappresentazione completamente trasparente: l’uno e l’altra emergono sempre da un processo di traduzione parziale e incompleto. Quando la religione, la filosofia, l’arte e la scienza hanno cercato di catturare “logicamente” il topos del mostro, dietro l’avvertimento da decifrare o l’immagine da svelare, come sintomo o sublimazione, per esorcismo o catechismo, hanno sempre finito, invece, per seguire4 il trópos del mostro. Nonostante la teratologia abbia tentato di naturalizzarne il senso “proprio”, il suo senso “meta-forico” ha continuato imperterrito a proliferare. Il mostro come aberrazione è sempre stato prima di tutto un’aberrazione del concetto, segno del deterioramento dell’epistemologia rappresentazionale e dei suoi strumenti (la dialettica), insomma la “rovina della dimostrazione filosofica in generale”5 e dell’autosufficienza di un sistema che non può mai esaurirsi su se stesso. Il mostro lascia tracce, non può essere presente. È sempre altrove rispetto al suo topos: se ne possono avere frammenti, impronte, ossa, brandelli, apparizioni, ombre, ma non lo si può mai cogliere nella sua totalità. Dunque l’invocazione del monstrous turn ha per Haraway una funzione soprattutto epistemologica, finalizzata a un’articolazione, un détournement dell’approc3. Per entrambi gli aspetti rimando al mio Diffractive Technospaces, Routledge, New York-London 2016. 4. Il trópos peraltro non può essere raggiunto, ma giunge da sé, come l’“arrivante” in J. Derrida, Aporie (1993), Bompiani, Milano 2004, richiamato anche da K. Barad in Diffracting Diffraction. Cutting Together-Apart, “Parallax”, 3, 2014, p. 178, testo in cui discute la temporalità della diffrazione ricollegandosi esplicitamente sia a Haraway che a Minh-Ha. 5. D. Gunkel, Scary Monsters. Hegel and the Nature of the Monstrous, “International Studies in Philosophy”, 2, 1997, p. 44.

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cio rappresentazionale, necessario per comprendere ciò che intendiamo per Natura e per elaborare una politica della relazione, ovvero della socializzazione della Natura stessa. Per Haraway, infatti, la natura è un “cosmo artefattuale di mostri”, mai lisci e platonicamente sferici, ma insettoidi e vermiformi, ricoperti di “peli sensibili, evaginazioni, invaginazioni e rientranze”.6 Articolare la natura è lasciare arrivare, divenire-con, questi “mostri”. In “The promises of monsters”, i mostri sono gli altri in/appropriati, espressione che Haraway riprende da Trinh T. Minh-Ha7 e approfondisce in un altro saggio dello stesso anno,8 nel quale gli in/appropriati sono le “figure trickster”9 di Gesù e Sojourner Truth. Gesù, che dovrebbe significare l’immagine sacra dell’Uno, è invece “un verme potente nella psicoanalisi edipica della rappresentazione”,10 che continuamente evade la narrazione patriarcale. E così è anche Sojourner Truth, il cui famoso discorso contro la schiavitù delle donne nere del 1851, che il titolo del saggio di Haraway riprende, è una tra le tante trascrizioni esistenti,11 nessuna delle quali rappresenta pienamente la truth di Truth. Il tentativo di parlare di Gesù e Truth secondo un linguaggio “proprio” non fa i conti con il fatto che la differenza non può essere ridotta a una diversa autenticità, ma è sempre senza e fuori dall’Io, di cui differisce “all’infinito gli strati”.12 La differenza è dunque mostruosa non solo perché non ancora appropriata, ma anche e soprattutto perché mai interamente appropriabile. Molteplice e intersezionale, come insegna il pensiero femminista,13 la differenza mostruosa non ha nell’identità 6. D. Haraway, “The promises of monsters”, cit., p. 324. 7. T.T. Minh-Ha, Woman, Native, Other: Writing Postcoloniality and Feminism, Indiana University Press, Bloomington 1989. 8. D. Haraway, “Ecce Homo, ain’t (ar’n’t) I a woman and inappropriate/d others: The human in a posthuman landscape”, in J. Butler, J.W. Scott (a cura di), Feminists Theorize the Political, Routledge, New York-London 1992. 9. Ivi, p. 98. 10. Ivi, p. 90. 11. Redatta da un abolizionista bianco in un idioletto del tutto inventato. 12. T.T. Min-Ha, Woman, Native, Other, cit., p. 99. 13. Cfr. R. Braidotti, “La differenza che abbiamo attraversato”, in Nuovi Soggetti Nomadi, Luca Sossella, Roma 2002.

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A quattro zampe. Note su animalizzazione, disabilità e colonialismo MARCO REGGIO

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el romanzo Animal’s People, Indra Sinha racconta la storia di un ragazzo che, per colpa di una malattia causata dai veleni della tragedia di Bhopal, ha perso la capacità di reggersi su due gambe: dall’età di sei-sette anni cammina a quattro zampe.1 Persa la statura eretta – uno dei marchi distintivi della nostra specie –, egli rivendica apertamente la propria non umanità. La parola che utilizza per segnare questa presa di distanza dalla specie che ha causato tanta sofferenza a lui e ai suoi concittadini è “Animal”, il nome con cui desidera essere chiamato. È il nome scelto dai suoi coetanei, anni addietro, per prenderlo in giro mentre emergeva la sua difformità, la schiena si piegava su se stessa e il corpo assumeva un aspetto mostruoso. Il gesto di riappropriazione e risignificazione dell’insulto richiama quello della comunità queer che, come è noto, ha fatto del termine “frocio” un ombrello sotto cui raccogliere orgogliosamente tutti quei posizionamenti di genere dissidenti, non conformi, invisibilizzati che minacciano costantemente la tenuta dell’ordine eterocentrato delle relazioni affettive e di potere. Un’assunzione così esplicita dell’animalità è certamente rara: pressoché ogni gruppo di Marco Reggio, attivista antispecista, è curatore di due monografie e una raccolta di saggi su Judith Butler e gli animali. 1. I. Sinha, Animal (2007), trad. di V. Mingiardi, Neri Pozza, Vicenza 2009. Le citazioni seguenti sono tratte dall’edizione italiana, anche se utilizzo il titolo inglese, Animal’s People, in quanto mantiene una significativa contrapposizione fra le parole “animale” e “gente”.

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oppressi ha lottato contro l’animalizzazione, proprio perché essa costituisce uno dei più efficaci meccanismi di oppressione.2 D’altra parte, è difficile trovare dei casi in cui sia stata la stessa mostruosità a essere assunta con fierezza. Una di queste eccezioni è quella di Susan Stryker, attivista e pensatrice transgender: Voglio rivendicare il potere oscuro della mia identità mostruosa senza usarlo come arma contro altr* o esserne io stessa ferita. Lo dirò senza mezzi termini, come ne sono capace: io sono una transessuale e, quindi, un mostro. Esattamente come gli epiteti “lesbica”, “frocio”, “queer”, “troia” e “puttana” sono stati rivendicati rispettivamente da lesbiche e omosessuali maschi, dalle minoranze sessuali antiassimilazioniste, dalle donne che ricercano il proprio piacere erotico e da coloro che lavorano nell’industria del sesso, parole come “creatura”, “mostro” e “innaturale” devono essere rivendicate dalle persone transgender [...]. Non mi vergogno [...] di riconoscere il mio rapporto egualitario con l’Essere materiale non umano; tutto emerge dalla stessa matrice di possibilità.3 Il protagonista di Animal’s People pone una serie di interrogativi che, pur non trovando una risposta univoca e definitiva, permettono di fare luce sul modo in cui l’identità di specie,4 analogamente a quella di genere, è frutto di una performance. È infatti possibile, 2. Cfr., ad esempio, Manuela Rossini, “Io non sono un animale! Io sono un essere umano! Io... sono... un uomo!” L’Animale sta all’Umano come la Femmina sta al Maschio?, “Liberazioni”, 25, 2016, pp. 7-22. Una trattazione più ampia di un ambito in cui l’emancipazione passa per la rivendicazione della piena appartenenza al consesso umano, quello dell’antischiavismo, si trova in Marjorie Spiegel, The Dreaded Comparison: Human and Animal Slavery, Mirror Books, New York 1996. 3. S. Stryker, Ciò che dissi a Victor Frankenstein sopra il villaggio di Chamonix: un’interpretazione della rabbia transgender, trad. di feminoska, “Liberazioni”, 21, 2015, pp. 58-77 (la citazione è a pp. 62-63). 4. Utilizzo la locuzione “identità di specie” seguendo la proposta di Carmen Dell’Aversano (The Love Whose Name Cannot be Spoken: Queering the Human-Animal Bond, “Journal for Critical Animal Studies”, 1/2, 2010, pp. 73-125): “Proprio come la ‘produzione del sesso in quanto pre-discorsivo dovrebbe essere intesa come effetto di quell’apparato di costruzione culturale designato dal termine genere’ (J. Butler, Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, trad. di S. Adamo, Laterza, Roma-Bari 2013, p. 13),

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secondo diversi studiosi, utilizzare le categorie butleriane di performatività di genere, drag e parodia per analizzare la costruzione sociale del soggetto umano in quanto nettamente distinto dagli altri animali, ma anche per rivelare la natura performativa (e violenta) della soggettivazione/assoggettamento di questi ultimi.5 Ed è possibile, di conseguenza, allentare la rigidità del confine umano/animale, un’opera intrapresa da Animal, che oscilla per tutto il romanzo fra diverse identità. La sua vicenda, commentata nella letteratura critica soprattutto da punti di vista attenti ai temi del colonialismo e della disabilità,6 è stata scarsamente esplorata in relazione alle domande che vorrei formulare in questo contributo: che tipo di animalità viene messa in scena da Animal, il cui nome – un nome del tutto umano, in fondo – non rimanda a una particolare specie? In che modo si relaziona agli altri personaggi non umani? La sua performance è in grado di destabilizzare la barriera fra umano e non umano? Naturalmente, gli altri temi centrali non scompaiono, poiché quello di Animal è un corpo povero, colonizzato e dila produzione della specie biologica come prediscorsiva dovrebbe essere intesa come un maggiore, e pernicioso, effetto della costruzione culturale che abbiamo scelto di designare come identità di specie” (p. 89). 5. Oltre al già citato C. Dell’Aversano, The Love Whose Name Cannot be Spoken, cit., cfr.: R. Iveson, “Scene domestiche e questione di specie. Judith Butler e gli altri animali”, in M. Filippi e M. Reggio (a cura di), Corpi che non contano. Judith Butler e gli animali, Mimesis, Milano-Udine 2015, pp. 53-73; L. Birke, M. Bryld e N. Lykke, Animal Performance: An Exploration of Intersections between Feminist Science Studies and Human/Animal Relationships, “Feminist Theory”, 2, 2004, pp. 167-183; M. Filippi, L’invenzione della specie. Sovvertire la norma, divenire mostri, ombre corte, Verona 2016; R.R. Simonsen, Manifesto queer vegan, trad. a cura di M. Filippi e M. Reggio, Ortica, Aprilia 2014; F. Zappino, Non è questione di gusti. Intervista di Marco Reggio e Massimo Filippi, “Liberazioni”, 21, 2015, pp. 108-122. 6. Per una prima rassegna dei contributi sul romanzo di Sinha, cfr.: Andrew Mahlstedt, Animal’s Eyes: Spectacular Invisibility and the Terms of Recognition in Indra Sinha’s “Animal’s People”, “Mosaic: a Journal for the Interdisciplinary Study of Literature”, 3, 2013, pp. 59-74; J. Rickel, “The Poor Remain”: A Posthumanist Rethinking of Literary Humanitarianism in Indra Sinha’s “Animal’s People”, “Ariel: a Review of International English Literature”, 1, 2012, pp. 87-108; S. Chattopadhyaya, A. Nayakb, Performing the Stare in Indra Sinha’s “Animal’s People”, “Disability and the Global South”, 1, 2014, pp. 29-43; H.C. Baker, Bodies Unbroken: Disability in Indra Sinha’s Animal’s People and Katherine Dunn’s Geek Love, Honors Theses, The University of Southern Mississippi, Hattiesburg 2016. I lavori che affrontano in modo più esplicito il tema dell’animalità nel romanzo verranno citati nella successiva discussione.

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La risurrezione della carne. L’orrore e la gioia della morte vivente ENRICO MONACELLI Nell’esperienza dell’impossibile non predomina il raccoglimento immobile dell’unico, ma l’infinito capovolgimento della dispersione […] ci accorgiamo che il pericolo dell’impossibile non sta solo nel carattere negativo dell’esperienza, ma nell’“eccesso di affermazione” (nell’elemento irriducibile al potere di affermare che è presente in tale eccesso). M. Blanchot1

…undead, undead undead Ben, uomo afro-americano ed eroico protagonista del capolavoro di George Romero La notte dei morti viventi, viene svegliato da un’alba gelida e dal rumore degli spari. Il sole che brilla dalla finestra splende su ciò che resta del mondo dopo la sua fine, ma l’apocalisse sembra essere giunta al termine; soltanto alcuni non-morti continuano a calpestare la terra dei vivi e, da quanto può sentire dal suo rifugio, stanno venendo abbattuti uno a uno dai colpi della polizia che, come l’operato preciso e salvifico del braccio armato del katechon, riporta la pace fra gli uomini. Ben decide di uscire allo scoperto. Sale le scale, si affaccia alla finestra e incrocia lo sguardo dello sceriffo McLelland e di un altro membro della pattuglia di salvataggio. Dopo pochi secondi viene colpito da un proiettile in mezzo agli occhi e nell’aria risuona un sinistro: “Good shot, another one for the fire”. Il suo cadavere verrà subito smaltito come un rifiuto tossico su una piramide infuocata di carne mostruosa. A questo punto, Romero abbandona lo spettatore, lasciandolo senza spiegazioni e mollandogli in grembo un crudele rompicapo, un indovinello che suona un po’ come una delle tante barzellette razziste che paragonano le persone nere a materiali inanimati o disgustosi: che cosa hanno in comune un nero e un non-morto? Enrico Monacelli è studioso di filosofia. I suoi interessi di ricerca sono il realismo speculativo, il pragmatismo di C.S. Peirce e le politiche del postumano. 1. M. Blanchot, La conversazione infinita (1969), Einaudi, Torino 2015, pp. 56-57.

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Di primo acchito la risposta potrebbe sembrare facile: l’equivoco mortale nasce da un tanto banale quanto letale errore e da uno stato d’allarme generale. Scambiare uno sconosciuto per uno zombie, mentre si sta tentando di arginare una legione di morti viventi non pare poi un fatto così inverosimile. Eppure, prima di mostrarci l’esplosione del colpo di fucile, Romero fa in modo che la telecamera si soffermi per qualche secondo sullo sguardo dei poliziotti, mostrandoci in maniera inequivocabile che i due comprendono perfettamente la situazione. Lo sguardo che scambiano con Ben, affacciato alla finestra, è di freddo riconoscimento. Ovviamente, il riconoscimento di cui stiamo parlando non è un riconoscimento nel senso honnethiano,2 ricœuriano 3 o habermasiano4 del termine: lo sceriffo e il poliziotto riconoscono che Ben non è un morto vivente – comprendono, per così dire, la sua natura di uomo nero biologicamente vivo ma, nondimeno, non lo riconoscono come un loro simile, come un altro comparabile a se stessi. Ai loro occhi Ben non è un morto vivente in senso stretto, ma resta, in ogni caso, un mostro e una preda della loro battuta di caccia all’inferno. Ben non rientra nella dialettica che, secondo gli autori nominati precedentemente, struttura la società civile. La logica attraverso la quale il Sé si rispecchia nell’Altro che gli si para davanti non prevede l’esistenza di Ben. In altre parole, un po’ come gli homines sacri descritti da Giorgio Agamben5 e, seppur in maniera immensamente meno tragica, come i rock ’n’ roll niggers di Patti Smith, agli occhi della Legge, Ben sembra esistere al di fuori della società, del mondo e dell’umanità. Com’è possibile? La ragione impura della schiavitù Per risolvere il crudele indovinello potremmo utilizzare il concetto di morte sociale, sviluppato dallo storico Orlando Patter2. Cfr. A. Honneth, La lotta per il riconoscimento (1979), il Saggiatore, Milano 2002. 3. Cfr. P. Ricœur, Percorsi del riconoscimento (2004), Raffaello Cortina, Milano 2005. 4. Cfr. J. Habermas, “Lotta di riconoscimento nello stato democratico di diritto” (1996), in J. Habermas, C. Taylor, Multiculturalismo, Feltrinelli, Milano 1998. 5. Cfr. G. Agamben, Homo sacer, Einaudi, Torino 1995.

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son6 e divenuto, nel recente passato, il cuore pulsante del movimento afropessimista. Il concetto di morte sociale venne coniato nel 1982 per riconcettualizzare lo stato di cattività e schiavitù a cui molte persone nere sono state sottoposte, evitando ogni forma di riduzionismo economicista e cercando di comprendere in maniera sistematica ed estesa la vera natura di questo fenomeno. Dopotutto, quando si parla di schiavitù, la si riduce spesso alla sua immagine manifesta, al suo aspetto immediato e meramente pratico. Per molti, lo stato di cattività a cui furono sottoposte le persone nere può essere semplicemente descritto come una forma di lavoro forzato e non retribuito, privo di altre implicazioni degne di nota e contrapposto al lavoro volontario e salariato proprio del libero mercato. Per Patterson, questa visione occulta la ragione impura del dispositivo schiavistico, il quale estende i suoi tentacoli non solo nell’ambito meramente pratico ed economico, ma anche in quello simbolico, informando e modellando tutta la vita della società civile. La cattività, in poche parole, ha effetti devastanti ed è temibile non solo sui corpi degli schiavi ma su tutti i corpi che camminano nel mondo dei vivi. Come funziona, allora, il dispositivo schiavistico? Un ottimo riassunto delle principali caratteristiche individuate da Patterson ci viene fornito da Aarons: Patterson sostenne all’inizio degli anni ottanta, contrariamente a quanto credevano i marxisti, che ciò che definisce la schiavitù non è il fenomeno del lavoro forzato. Per quanto possa essere una caratteristica frequentemente presente, il lavoro forzato è una peculiarità contingente o incidentale, che non si riscontra ovunque ci siano degli schiavi. La relazione schiavistica, sostenne Patterson, è definita da una struttura tripartita: a) disonore generalizzato (o morte sociale), b) alienazione natale (per esempio, la rottura sistematica di ogni continuità familiare e genealogica), c) violenza illimitata o gratuita. Questa combinazione triadica genera un essere esperienzialmente e socialmente 6. Cfr. O. Patterson, Slavery and Social Death, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1982.

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Contributi


La perdita dell’Eldorado: V.S. Naipaul DIANA NAPOLI

1. Zona disagio. Un punto di vista L’isola di Trinidad ha fatto la sua comparsa nell’immaginario europeo moderno in seguito alle “scoperte” di Colombo, come base per la ricerca del mitico regno dell’Eldorado (vagamente localizzato alle foci del fiume Orinoco). Contesa sin dal XVI secolo tra spagnoli e inglesi, venne definitivamente assegnata nel 1802, con il trattato di Amiens, alla Gran Bretagna che l’aveva occupata nel 1797 nel corso delle vicissitudini rivoluzionarie e delle guerre contro la Francia e i suoi alleati che dal continente europeo si erano sviluppate fin nell’area caraibica.1 Lo scrittore V.S. Naipaul, recentemente scomparso e premio Nobel nel 2001, era nato a Trinidad nel 1932. La sua famiglia apparteneva alla comunità indiana che vi era arrivata (proprio come quella cinese) nel secolo precedente in virtù di una tipologia di contratti piuttosto frequenti nell’ampio circuito commerciale inglese in base a cui, in cambio di un periodo di lavoro come braccianti, veniva offerto il viaggio verso le zone bisognose di manodopera. Il ricorso agli indiani (e non solo) era divenuto massiccio dopo l’abolizione della schiavitù, dato che gli ex schiavi si rifiutavano di lavorare per i vecchi padroni; si calcola che tra il 1838 e il 1917 furono circa in mezzo milione a emigrare dal subcontinente indiano verso i Caraibi.2 1. Si rimanda al classico C.L.R. James, The Black Jacobins, 1938; trad. di R. Petrillo, I giacobini neri: la prima rivolta contro l’uomo bianco, DeriveApprodi, Roma 2006. 2. Cfr. A. Valero, Entre zombis y caníbales: ensayos sobre literatura del Caribe, Fondo Editorial Fundarte, Caracas 2015, p. 19.

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Le vicende particolari della sua famiglia (suo padre era un giornalista autodidatta, novellista mancato, nato molto povero ma destinato a diventare pandit, cosa che non accadrà mai data la sua distanza dalla religiosità induista) lo avevano portato a frequentare le scuole coloniali inglesi in un percorso che lo avrebbe condotto prima a Oxford con una borsa di studio per studiare Letteratura e poi a stabilirsi definitivamente in Inghilterra e a diventare uno scrittore. Come egli stesso racconta, l’ambizione di “scrivere libri e nello specifico romanzi” che da sempre il padre, le cui aspirazioni erano state frustrate, gli aveva presentato come la “forma più alta di letteratura”,3 era nata in lui molto presto. Suo padre scriveva racconti e, dopo averli dati alle stampe, “chissà come, senza che a quanto ricordi, ne avessimo mai parlato – riporta Naipaul – nella mia testa e in quella di mio padre fu stabilito che avrei fatto lo scrittore”.4 Tra gli autori di origine caraibica Naipaul è stato forse quello al centro delle polemiche più virulente, considerato dai suoi detrattori un “mandarino postcoloniale”,5 e sicuramente tra i suoi critici più taglienti e autorevoli non possiamo non ricordare un intellettuale del calibro di Edward Said per il quale Naipaul, in sostanza, era l’unico che poteva permettersi di scrivere in modo esplicitamente razzista senza poter essere accusato di razzismo, criticando coloro che non erano bianchi proprio per il fatto di non esserlo.6 Nemmeno nello spazio caraibico Naipaul ha trovato una grande accoglienza. Derek Walcott, tra tutti, gli ha rinfacciato che per assicurarsi un posto come scrittore incorrotto del

3. V.S. Naipaul, The Writer and the World: Essays, 2002; trad. di V. Gattei, Lo scrittore e il mondo, Adelphi, Milano 2018, p. 514. 4. Id., Finding the Centre: Two Narratives, 1984; trad. di F. Cavagnoli, I coccodrilli di Yamoussoukro, Adelphi, Milano 2004, p. 46. 5. La letteratura critica su Naipaul è molto vasta; sicuramente il testo di R. Nixon, London Calling: V.S. Naipaul, Postcolonial Mandarin, Oxford University Press, Oxford 1992, riassume tutte le perplessità espresse sulla sua opera. 6. Cfr. C. Connor O’Brien, E. Said, J. Lukacs, The Intellectual in the Post-Colonial World: Response and Discussion, “Salmagundi”, 70-71, 1986, pp. 65-81 e E. Said, Representations of the Intellectual: The 1993 Reith Lectures, Vintage, London 1994, pp. 36-37.

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Terzo mondo7 era stato disposto a pagare il prezzo del disprezzo per i neri e per la sua isola natale. Tuttavia, in contrasto con le posizioni appena evocate, esiste un filone di letteratura critica per cui la descrizione della desolazione delle ex colonie così lucidamente riportata nei libri di Naipaul veicola una profonda e impietosa critica di quello che è stato l’imperialismo.8 Nei suoi testi (benché, soprattutto nei primi, sia importante l’elemento comico e il distanziamento ironico) il vuoto culturale causato dalla colonizzazione non è cancellato da una visione carnevalesca o esotica del disordine, o da un’esaltazione del métissage. Anzi, gli aspetti dolorosi di questo passato sono mostrati in tutta la loro durezza. Ossessionata da cosa organizza il mondo e dal senso della distruzione, l’opera di Naipaul può essere letta come un rito funebre o, appunto, come una “storia naturale della distruzione”,9 pervasa da un pessimismo del tutto privo di compiacenza nostalgica. A innervare il suo percorso di scrittore è proprio un senso della storia inteso come un senso della perdita senza il quale si rimane imprigionati nel passato.10 Come non smette di sottolineare in molti dei suoi scritti, il vero nemico per Naipaul è l’assenza di consapevolezza storica, il passato con il suo retaggio di impoverimento e abbandono che, se non viene perso (e forse persino “ucciso”11) porta a vedere il presente come un naufragio inspiegabile. E anche se un sottile velo di pessimismo cala su tutte le sue 7. Cfr. A. Valero, Entre zombis y caníbales, cit.; per una sintesi della ricezione dell’opera di Naipaul nei Caraibi, cfr. K. Gyssels, “V.S. Naipaul dans l’archipel caribbéen”, in F. Labaune-Demeule (a cura di), V.S. Naipaul: écriture de l’altérité, altérité de l’écriture, Houdiard, Paris 2010, pp. 153-176. 8. Tra coloro che maggiormente hanno valutato in questa direzione l’opera di Naipaul ricordiamo John Thieme, Stefano Harney, Gordon Rohlehr, Sara Suleri, Michael Gorra e Ian Baucom. 9. Storia naturale della distruzione (Adelphi, Milano 2004) è la traduzione (di A. Vigliani) di W.G. Sebald, Luftkrieg und Literatur (2001); sulle tematiche comuni ai due autori cfr. L. Loh, The Postcolonial Country in Contemporary Literature, Palgrave Macmillan, New York 2013, capp. 1 e 2. 10. Cfr. B. Brereton, Naipaul’s of Sense of History, “Anthurium. A Caribberan Studies Journal”, 5, 2, 2004 e M. Neill Guerrillas and Gangs: Frantz Fanon and V.S. Naipaul, “ARIEL: A Review of International English Literature”, 13, 4, 1982, pp. 21-62. 11. V.S. Naipaul citato da M. Neill, Guerrillas and Gangs, cit., p. 50.

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Guerra e società. Tra Marx e Vernant LAURA SANÒ

C

he cosa lega il colonnello Berthier, comandante della regione del Sud-ovest nelle forze francesi dell’interno durante gli anni della Resistenza, al raffinato studioso del mondo antico Jean-Pierre Vernant? Cosa potranno avere in comune un militare di carriera, illustratosi per le sue gesta nella guerra di liberazione contro l’occupazione nazista, e l’autore di opere sofisticate e innovative, quali sono Le origini del pensiero greco1 e Mito e pensiero presso i Greci?2 In apparenza, nulla. Fra la partecipazione attiva, con ruoli impegnativi di conduzione bellica, alle attività dei partigiani francesi, e il meticoloso lavoro di riscoperta della cultura greca arcaica non sembra possa sussistere alcuna connessione. Ma non è così. La prima sorprendente scoperta, emergente dalla pubblicazione di un libro recentemente tradotto in italiano,3 consiste nel documentare accuratamente una non occasionale convergenza fra due figure per altri aspetti diverse e lontane, evidenziando che Berthier e Vernant sono la stessa persona, essendo quello del colonnello lo pseudonimo (o, alla lettera, il nome di battaglia) assunto dallo studioso antichista fra il 1942 e il 1945. Al punto da poter affermare, riprendendo la suggestio1. J.-P. Vernant, Le origini del pensiero greco (1962), Editori Riuniti, Roma 1976. 2. Id., Mito e pensiero presso i Greci (1966), Einaudi, Torino 1970. 3. J.-P. Vernant (a cura di), La guerra nella Grecia antica (1968), edizione italiana a cura di U. Curi, Raffaello Cortina, Milano 2018.

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ne nietzschiana, che assumendo il nome di Berthier, Vernant “è diventato ciò che è”. In termini inevitabilmente schematici, e comunque fortemente abbreviati, è questa la tesi che Umberto Curi sviluppa nel denso saggio introduttivo proposto come prefazione all’edizione italiana. Che cosa fosse la guerra, e quali fossero i rapporti fra la guerra e la società, la politica e l’economia, Vernant non lo aveva imparato solo sui libri. Il ruolo attivo svolto durante gli anni della Resistenza aveva favorito un approccio non meramente emotivo al tema della guerra, anche dal punto di vista della riflessione filosofica e dell’indagine storico-antropologica. In particolare, gli studi riguardanti la “fonction guerrière” nella Grecia antica sono certamente il frutto del laboratorio di idee e di competenze promosso e coordinato da Vernant nella sua qualità di direttore del centro di ricerche comparate sulle società antiche già all’inizio degli anni sessanta del Novecento. Ma essi recano inconfondibile l’impronta di un autore ben consapevole dell’inesorabilità della guerra, e comunque lontano da ogni pregiudiziale esorcismo antibellicista. Al contrario, come Curi dimostra in modo convincente, le ricerche di Vernant sulla funzione guerriera testimoniano quanto ancora condizionante sia l’esperienza compiuta nelle vesti del colonnello Berthier, anche per quanto riguarda il riferimento al pensiero di Marx, frequentemente ricorrente già nell’impostazione della ricerca. Si coglie qui un tema certamente delicato e complesso, a lungo trascurato o rimosso nel dibattito teorico-politico della sinistra, e di quella italiana in maniera particolare, riguardante l’atteggiamento assunto da Marx nei confronti della guerra. Come risulta dai numerosi articoli che Marx pubblica sulla “New York Daily Tribune” nei primi anni del soggiorno londinese, quando a lui si chiede soprattutto di seguire e commentare gli avvenimenti della “Indian war”.4 E come ancor più nitidamente emerge dalle 4. Come ricorda U. Curi (Pensare la guerra, Dedalo, Bari 1999), negli stessi anni, l’editore della “Tribune” Charles Dana affida a Marx anche la stesura delle voci “militaria” per la New American Cyclopedia.

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