366 aprile giugno 2015
Ernesto De Martino. Un’etnopsichiatria della crisi e del riscatto a cura di Roberto Beneduce e Simona Taliani
Ernesto De Martino. Un’etnopsichiatria della crisi e del riscatto 3 Giordana Charuty “Occorre ridiscendere agli inferi.” Follia e storia tra De Martino e Foucault 15 Marcello Massenzio Senso della storia e domesticità del mondo 39 Tatiana Silla L’antropologia politica di Ernesto De Martino 61 Pietro Angelini Sogno e civiltà. Notizie sull’ultimo lavoro di De Martino 79 Dorothy Louise Zinn Tradurre Ernesto De Martino, dal travaglio al trascendimento 105 Piccolo archivio fotografico della crisi e del riscatto 114 Roberto Beneduce Angoscia e volontà di storia 149 Gino Satta “Fra una raffica e l’altra.” Il regno della miseria e la vita culturale degli oppressi 185 Simona Taliani Immagini del caos. La vita psichica dei subalterni 197
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Ernesto De Martino. Un’etnopsichiatria della crisi e del riscatto
Dal mondo magico alla scrittura del disastro A cinquant’anni dalla sua morte, l’opera di Ernesto De Martino continua a suscitare reazioni, interpretazioni divergenti, nuovi sentieri di riflessione. La traduzione francese di La fine del mondo e quella inglese di Sud e magia, previste nei prossimi mesi presso prestigiose case editrici,1 segnala il costante richiamo che la sua opera esercita al di là dei confini italiani. L’interesse attuale per gli scritti di De Martino segnala però anche la densità di un pensiero che resiste a ogni facile classificazione accademica, scardina gli steccati disciplinari e introduce in modo pionieristico nel campo delle scienze sociali la consapevolezza che per studiare certi fenomeni l’antropologo ha bisogno di intrecciare modelli e saperi diversi (la storia, la filosofia, la psichiatria, in primo luogo), pena il ridursi a esporre meri elenchi di fatti o pure speculazioni.2 Interrogando luoghi e ambiti teorici differenti attraverso un prisma di concetti diventati poi celebri (la “crisi della presenza”, l’esperienza della “storia non decisa”, il “cattivo passato che ritorna”, la “destorificazione istituzionale”, la “potenza del negativo”, lo “scandalo dell’incontro etnografico”), il suo metodo 1. La traduzione francese di La fine del mondo è a cura di G. Charuty, D. Fabre, M. Massenzio (EHESS, Paris), quella inglese di Sud e magia è di D.L. Zinn (Magic. A Theory from the South, University of Chicago Press, Chicago 2015, per la versione cartacea, e HAU Books, Chicago 2015, per quella digitale). 2. Cfr. E. De Martino, Lineamenti di etnometapsichica, “Problemi di metapsichica”, 1, 1942, p. 113. aut aut, 366, 2015, 3-14
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storico-comparativo non ha esitato a confrontare sul tema delle “patrie esistenziali” l’aborigeno achilpa (il quale si lascia morire quando privo del palo rituale che riscattava il camminare e orientava il suo peregrinare)3 con l’anziano calabrese che, in un altro continente, in un’altra relazione con gli uomini e il tempo, precipita in un “incubo intollerabile” quando perde di vista il riferimento che fa suo il suo mondo (il profilo di un campanile), il solo che conosca e al quale sente di appartenere. Nello stesso orizzonte di considerazioni, il delirio di fine del mondo di un giovane contadino di Berna diventa per noi materia bonne-à-penser la relazione fra apocalisse collettiva (la guerra) e apocalisse privata. Descritto dagli psichiatri Storch e Kulenkampff come un uomo che sino al momento del ricovero era stato “sempre tranquillo, solitario e un po’ primitivo”, il suo sintomo si fa scrittura del disastro, assumendosi il compito di ricordare quel caos di morti e rovine inghiottito dall’oblio. Ed è la storia stessa, gli eventi di quel tempo di lutti e di caos, a passare ormai nel delirio: “La malattia […] ebbe inizio quando un aereo militare precipitò […] e si ritenne responsabile dell’abbattimento. Non poté più dormire, andava vagando, in preda a crescente angoscia. Specialmente si angosciava della prossima fine del mondo”.4 È in virtù di questo stesso metodo che nell’opera pubblicata qualche anno prima, La terra del rimorso, il corpo della tarantata metteva in scena ferite e desideri analoghi a quelli dei protagonisti del vudu, del bori o dello zar, diventando il teatro vivente di memorie, traumi o conflitti indicibili. Una tale insaziabile curiosità e passione per il confronto fra 3. “Piantare il palo […] significa iterare il centro del mondo […]. Con ciò il luogo ‘nuovo’ è sottratto alla sua angosciante storicità, alla sua rischiosa caoticità” (Id., Il mondo magico, Bollati Boringhieri, Torino 1973, p. 270). 4. “Alla domanda che cosa pensa con la parola ‘crollo’ (Untergang), il malato risponde: Quando gli uomini non sono al loro giusto posto […]. Il mondo di prima non c’è più […]. La gente non è più al giusto posto, e così pure le cose, le case, le strade” (si tratta delle parole di Storch e Kulenkampff, accuratamente riportate da De Martino nelle diverse stesure di queste note; E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di C. Gallini, Einaudi, Torino 1977, p. 194 sgg.).
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“istituti culturali” così diversi, sebbene nata da un differente taglio metodologico, la troviamo forse solo in Aby Warburg, quando confronta il rituale del serpente e le danze degli indiani pueblo (Nuovo Messico) con le figure del mito greco o il testo medievale in cui san Paolo appare invulnerabile al morso della vipera.5 Figure di morte, di crisi e di riscatto, di dolore e di cura, si incontrano così all’ombra di una “destorificazione” capace di trasformare persino i sintomi in “valori”, 6 e di una cultura il cui senso sembra stare soprattutto nella sua capacità di lottare contro “i momenti critici dell’esistenza”: quando la presenza è chiamata a scegliere e a decidere.7 L’attenzione alla storicità e ai linguaggi del soffrire è l’antidoto che De Martino userà contro la presunzione delle categorie diagnostiche della psichiatria o la pretesa della Daseinsanalyse di prescindere, “sia pure temporaneamente, dai giudizi relativi alla sanità e alla malattia”.8 Lo stesso antidoto servirà a misurare valore e limiti delle “tecniche culturali di difesa”. Le considerazioni sull’alternativa ermeneutica tra dolore sincero e rischio psicopatologico nel pianto funebre lucano, o quelle sull’ambivalenza come espressione di “conflitti storici non risolti”,9 annunciano già per intero le promesse di un’etnopsichiatria il cui interesse sta anche nel modo ostinato con cui l’esperienza della sofferenza e le strategie per governarla sono ricondotte all’ordito della storia, ai suoi strappi, ai suoi fili assenti. Ma con un intento ulteriore: costruire un discorso sulla memoria, su quella traumatica in particolare (“il cattivo passato che non vuole passare”, “la storia non decisa”), nel quale due grammatiche distinte, due autonome temporalità, troveranno 5. A. Warburg, Il rituale del serpente (1988), trad. di G. Carchia e F. Cuniberto, Adelphi, Milano 1998, pp. 58-59. 6. E. De Martino, Storia e metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro, introduzione e cura di M. Massenzio, Argo, Lecce 2005, p. 125. 7. Non è privo di interesse che l’autore includa fra questi momenti anche lo stare dello schiavo davanti al padrone… 8. Id., La fine del mondo, cit., p. 169. 9. “La risoluzione non presa, la storia non decisa ritorna sotto forma di comportamento ambivalente […]. L’ambivalenza precede dalla repressione, la repressione dal rischio di non esserci nella storia” (Id., Storia e metastoria, cit., p. 115).
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“Occorre ridiscendere agli inferi” Follia e storia in De Martino e Foucault GIORDANA CHARUTY
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e Martino ha appena ultimato la scrittura della Terra del rimorso e già apre il nuovo cantiere che ci è giunto incompiuto e in un’edizione postuma, poco più di dieci anni dopo la sua morte, con il titolo La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali (1977). Quali inquietudini concettuali, quali esitazioni percorrono gli anni che separano le ricerche sui relitti di una specificità religiosa dell’Italia meridionale dall’indagine su quegli immaginari apocalittici che non sembrano avere alcun rapporto con un’alterità propria della società italiana, e schiudono orizzonti completamente diversi? Molti dei paradigmi utilizzati in Occidente per elaborare un sapere delle differenze sono stati convocati in un’opera costruita in buona parte negli interstizi delle discipline dominanti. Le prime ricerche del militante politico hanno rapporto con una scienza del governo che gli ha permesso di riconoscere la distinzione tra il sociale e il culturale.1 Al contrario, il comparativismo che organizza tanto Morte e pianto rituale quanto La terra del rimorso è in parte sorretto da quel paradigma degli ultimi operante in 1. G. Charuty, Ernesto De Martino: Les vies antérieures d’un anthropologue, Éditions Parenthèses, Marseille-Aix-en-Provence 2009, pp. 263-344; trad. di A. Talamonti, Ernesto De Martino: le precedenti vite di un antropologo, Franco Angeli, Milano 2010; Id., Le moment néoréaliste de l’anthropologie démartinienne, “L’Homme”, 195-196, 2010, pp. 247282.
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quello che è stato definito come il “lutto etnografico”.2 Ciò nonostante nessuno dei libri che De Martino pubblica fra il 1958 e il 1961 è costruito come una monografia. Ogni ricerca si dà la profondità storica e lo spazio di una comparazione necessari e messi al servizio di un’idea dominante: si avrà la nozione di “presenza” e di “crisi della presenza” in Morte e pianto rituale (1958), quella di “formazione di compromesso” in Sud e magia (1959), quella infine di “simbolismo mitico-rituale” nella Terra del rimorso (1961). Allo stesso modo gli strumenti concettuali, forgiati passo dopo passo per descrivere ciò che chiameremmo oggi l’attività “semiotica”, gli permettono di riconoscere la storicità del rapporto con se stessi e con gli altri, così come la dimensione politica che presiede alle costruzioni della soggettività. Più in particolare, La terra del rimorso porta a compimento un’analisi dinamica della “tessitura simbolica” che fonda il rito in azione, di cui non rende giustizia l’espressione oggi datata di “simbolismo mitico-rituale”. Tradotta in termini contemporanei, si tratta di un regime di senso che associa la parte linguistica dell’espressione (il mito) a una parte emotiva (il rito), alla quale sono riconosciute tre proprietà essenziali: la dimensione fittizia di ciò che “causa” il reale (necessità antropologica e non espressione di irrazionalità) e conferisce all’azione rituale il suo carattere allucinatorio; la dimensione essenzialmente metaforica, se si designa con questo termine lo spostamento del senso attraverso una pluralità di supporti; infine, l’apertura verso un’altra temporalità. Come caratterizzare allora il progetto di una “etnologia riformata” perseguito in La fine del mondo, dove sono messe in risalto maniere diverse di costruire il tempo e di essere nel mondo? A partire da un ritorno ai dossier conservati negli archivi, l’edizione francese in corso di pubblicazione intende proporre una versione parziale ma, speriamo, più coerente con un’ambizione an2. Le nozioni di “sapere delle differenze” e di “paradigma degli ultimi” sono state proposte e analizzate da D. Fabre, D’une ethnologie romantique, in D. Fabre, J.M. Privat (a cura di), Savoirs romantiques. Une naissance de l’ethnologie, Presses universitaires de Nancy, Nancy 2010, pp. 5-75. L’espressione “lutto etnografico” è di Claude Reichler.
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tropologica che ci sembra più che mai attuale, e che l’edizione attualmente disponibile rende difficile riconoscere.3 Il primo problema è certo quello riguardante la costruzione del testo. In una fase iniziale del progetto, solo la rilettura del caso ormai famoso del “contadino di Berna” doveva aprire un primo capitolo, Mundus, centrato sulle società antiche e sui loro modi di costruzione simbolica del “mondo”: come potevano affiorare, nell’esperienza delirante di crollo del mondo di un giovane contadino svizzero durante la Seconda guerra mondiale, i frammenti sconnessi di quelle configurazioni caratteristiche delle antiche società agricole?4 Una domanda che sembra coerente con l’ipotesi storicista sull’esistenza di forme di follia tipiche non tanto di una cultura particolare quanto di grandi raggruppamenti di civiltà e di momenti di rottura storica, come nel caso della decolonizzazione africana. Tuttavia, se si prende come guida Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche, articolo pubblicato poco prima della sua morte,5 bisogna modificare la struttura complessiva – formalmente conservata dalla curatrice – per aprire l’indagine con un dossier attualmente relegato come “epilogo”, ossia l’esperienza contemporanea della fine di un mondo storico che De Martino decifra, da clinico della cultura, tanto nella creazione artistica quanto nella parola dei pazienti degli ospedali psichiatrici, dalla fine del XIX secolo: un’omologia che permette di comprendere il termine “apocalisse” utilizzato per qualificare sia le opere di creazione letteraria o plastica sia il loro contrario, le produzioni deliranti. Fra il primo progetto e l’ultimo assetto del libro immaginato che sarebbe stato poi pubblicato postumo, De Martino ha di 3. Per una prima presentazione di questo lavoro di traduzione, cfr. G. Charuty, D. Fabre, M. Massenzio, Un livre fantôme à reconstruire en le traduisant, “La ricerca folklorica”, 67-68, 2014, pp. 151-159. 4. E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di C. Gallini, Einaudi, Torino 1977, pp. 194-211. Il caso è ripreso da V. Crapanzano, Orizzonti dell’immaginario. Per un’antropologia filosofica e letteraria, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 248-292. 5. E. De Martino, Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche, “Nuovi Argomenti”, 69-71, 1964, pp. 105-141.
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Senso della storia e domesticità del mondo MARCELLO MASSENZIO
1. La fine del mondo: un laboratorio di ricerca La pubblicazione postuma dell’opera incompiuta di Ernesto De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali,1 non ha finora ottenuto in Italia tutta l’attenzione che meritava soprattutto da parte degli etnologi, degli storici delle religioni e degli antropologi. Si tratta più che di un testo inteso in senso classico, di un affascinante laboratorio di ricerca, straordinariamente ricco di fermenti e di stimoli intellettuali, portatore di novità di ordine epistemologico e metodologico, i cui segnali premonitori sono disseminati in tutto l’arco dell’attività scientifica dell’autore. Nella ricezione critica ha finito per prevalere la tendenza a considerare La fine del mondo come una sorta di corpo estraneo rispetto alla produzione demartiniana più nota e ritenuta più “rappresentativa”, identificata con la cosiddetta “trilogia meridionalista” composta da Morte e pianto rituale, Sud e magia e La terra del rimorso.2 Secondo l’opinione più accreditata, De Martino, abbandonate le ricerche di taglio compiutamente storico concernenti le culture subalterne del Mezzogiorno d’Italia, avrebbe impresso una direzione del tutto diversa al-
1. E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di C. Gallini, Einaudi, Torino 1977. 2. Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Einaudi, Torino 1958; Sud e magia, Feltrinelli, Milano 1959; La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, il Saggiatore, Milano 1961.
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la propria ricerca, dedicandosi all’analisi dei fondamenti ontologici della cultura, al di fuori di ogni determinazione storica.3 Questo tipo di valutazione ha contribuito a provocare la lunga eclisse dell’opera postuma: esaurita la prima edizione, La fine del mondo è divenuto un “libro fantasma”, introvabile in libreria; solo venticinque anni più tardi, nel 2002, l’editore Einaudi si è persuaso della necessità di pubblicare una seconda edizione, a seguito di un’ampia fase di ripensamento critico dell’opera di De Martino e, in particolare, grazie alla riscoperta dell’importanza del suo pensiero filosofico e storico-religioso, profondamente radicato nella moderna cultura europea.4 L’edizione francese di La fine del mondo, patrocinata dall’École des hautes études en sciences sociales, curata da Daniel Fabre, da Giordana Charuty e da me, comporta la traduzione e la revisione critica del testo: la pubblicazione, prevista per l’autunno 2015, può rappresentare una tappa significativa del processo di rivalutazione del testo demartiniano incompiuto, ancora oggi in grado di prospettare nuovi orizzonti di ricerca e di stimolare la riflessione critica sul nostro presente. 2. Fine di mondi e fine del mondo Oggi ci appare chiaro che La fine del mondo, pur segnando un punto di svolta nella ricerca dello studioso napoletano, non è scindibile dal complesso delle opere precedenti, anche da quelle che apparentemente sembrano essere le più distanti. Il primo fattore di continuità che ci preme rilevare risiede nell’interesse costante per il tema della fine, della disintegrazione di un universo culturale, inteso come sistema di valori socialmente condiviso, posto a fondamento dell’agire collettivo: tema declinato in vari modi e analizzato da differenti punti di vista. Si consideri, in questa prospettiva, La terra del rimorso, uno dei 3. Cfr. V. Lanternari, Fra storicismo e ontologismo. A proposito de “La fine del mondo”, “Studi storici”, 1, 1978, pp. 187-200. 4. Da segnalare in questa prospettiva: C. Gallini, M. Massenzio (a cura di), Ernesto De Martino nella cultura europea, Liguori, Napoli 1997; M. Massenzio (a cura di), Storia e metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro, Argo, Lecce 1995; G. Sasso, Ernesto De Martino fra religione e filosofia, Bibliopolis, Napoli 2001.
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vertici della produzione storico-religiosa ed etnologica in ambito europeo, suscettibile di molteplici livelli di lettura. Com’è noto, l’opera è il frutto di una ricerca etnografica incentrata sul fenomeno del tarantismo localizzato in Puglia; detto in estrema sintesi, si tratta di un complesso rituale a sfondo magico, volto a plasmare culturalmente la crisi della “presenza umana nel mondo”, scatenata da concrete cause socio-economiche sulle quali siamo costretti a sorvolare in questa sede: la crisi si configura come possessione da parte di un’entità sovrumana, che potrà essere espulsa grazie al ricorso all’orizzonte mitico-rituale. Il livello di analisi che in questa sede ci preme sottolineare riguarda la dissoluzione della valenza culturale del fenomeno: De Martino ha avuto modo di assistere, in “presa diretta”, sul terreno, al tarantismo in statu moriendi, alla sua disgregrazione in atto, dietro la quale si cela la fine di un mondo, quello della cultura contadina d’impronta magica dell’Italia del Sud, “altra” rispetto ai canoni del cattolicesimo ufficiale. Le scene che testimoniano di questo crepuscolo, la cui analisi richiede l’apporto congiunto della storia delle religioni e della psichiatria, sono evocate con straordinario vigore: Nella cappella si venivano via via adunando i tarantati salentini, in grande maggioranza donne, facendo insorgere contemporaneamente le loro crisi nell’angusto spazio della cappella […]. Le scene che vedevamo dall’alto della nostra tribuna ad audiendum Sacrum ci davano l’impressione delle pietruzze colorate di un caleidoscopio in frantumi, già atte a comporre figure geometriche ma ora non più: inerti abbandoni al suolo, agitazioni psicomotorie incontrollate, atteggiamenti di depressione ansiosa, scatti di furore aggressivo, e ancora archi isterici, lenti spostamenti strisciando sul dorso, abbozzi di passi di danza, tentativi di preghiera, di canti, conati di vomito. […] Dominava questa disperata agitazione il grido stilizzato dei tarantati, il “grido della crisi”, un ahiiì variamente modulato, e che meglio si sarebbe detto un guaito che non un grido umano.5 5. E. De Martino, La terra del rimorso, cit., p. 111.
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L’antropologia politica di Ernesto De Martino TATIANA SILLA
1. L’intellettuale in prima linea. L’antropologia “pubblica” di Ernesto De Martino Senz’altro uno dei grossi meriti di De Martino è di aver legato, fin da subito, la sua riflessione teorica a un forte impegno politico e civile. Come sottolinea Annamaria Rivera, citando alcuni passi tratti dalle Note lucane, questo suo impegno civile “diviene nel corso del tempo una delle condizioni e delle modalità della sua stessa etnografia, la quale, per non rimanere ‘inerte’ storiograficamente, deve farsi attraversare dalle ‘umane, dimenticate istorie’ di coloro ‘che erano considerati zulu e beduini’”.1 Il suo primo incontro con le “plebi rustiche” del Sud avviene negli anni della sua militanza politica in qualità di segretario della Federazione socialista a Bari nel 1947 e come commissario in quella di Lecce nel 1950, anno in cui aderirà al Partito comunista. Sebbene quell’incontro non fosse avvenuto “sul piano della ricerca storica, ma su quello della lotta politica” fu grazie a quel bisogno “di trasformare il presente in una realtà migliore”2 che iniziò a delinearsi la volontà di conoscere meglio il presente per poterlo trasformare. In tale prospettiva “la stessa ricerca etnologica cominciò a configurarsi in una dimensione nuova”.3 Non c’era dunque bisogno di andare in un altro continente per occuparsi 1. A. Rivera, L’antropologia pubblica di De Martino, “Quaderni di storia, antropologia e scienze del linguaggio”, 17, 2013, p. 84. 2. E. De Martino, “Promesse e minacce dell’etnologia” (1953), in Furore Simbolo Valore, Feltrinelli, Milano 2002, p. 88. 3. Ivi, p. 89.
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di “formazioni culturali nate dall’esperienza di una radicale precarietà esistenziale e maturate nella lotta contro l’angoscia di mantenersi come persone davanti all’insorgere dei momenti critici dell’esistenza storica”.4 Come vedremo nel secondo paragrafo, durante la stesura del libro sul mondo magico, quando si era occupato di varie popolazioni cosiddette primitive, De Martino aveva già operato un profondo confronto con le alterità culturali. Tuttavia, “bastava un viaggio di dieci ore, parte in treno e parte in auto, sino a raggiungere una terra che si stende a quattrocento chilometri da Roma”5 per confrontarsi con la tragicità di un’umanità dimidiata, per toccare con mano la situazione di quei braccianti e contadini pugliesi e lucani che diventeranno l’oggetto della sua ricerca, “un oggetto che non è tale poiché fin dalle prime ricerche la relazione che egli istituisce con loro è guidata da simpatia, compassione e solidarietà”.6 Questi sentimenti, che durante l’incontro etnografico investono sia lo studioso che l’uomo, saranno spesso accompagnati da “una tensione drammatica fra interesse scientifico e interesse etico-politico, fra storia da contemplare e storia da vivere e da fare”, da “una serie di brucianti umiliazioni” nel dover abbassare i suoi connazionali “a oggetti di ricerca scientifici, e quasi di esperimento”.7 L’incontro con la Rabata a Tricarico è l’occasione per De Martino di mettere in discussione le certezze del mondo borghese di provenienza. Come in ogni incontro con l’alterità che si rispetti, nel momento in cui l’immagine della Rabata si riflette nello specchio dell’antropologo, quest’ultimo rimirandosi vede a sua volta un’immagine di sé diversa che gli permette di comprendere se stesso e il suo compito istituzionale e disciplinare. Dopo il mio incontro con gli uomini della Rabata, ho riflettuto che non c’era soltanto un problema loro, il problema della loro 4. Id., “Note di viaggio” (1953), in L’opera a cui lavoro. Apparato critico e documentario alla spedizione etnologica in Lucania, a cura di C. Gallini, Argo, Lecce 1996, p. 96. 5. Ibidem. 6. A. Rivera, L’antropologia pubblica di De Martino, cit., p. 85. 7. E. De Martino, “Note di viaggio”, cit., pp. 119 e 117.
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emancipazione, ma c’era anche il problema mio, il problema dell’intellettuale piccolo-borghese del Mezzogiorno, con una certa tradizione culturale e una certa “civiltà” assorbita nella scuola, e che si incontrava con questi uomini ed era costretto per ciò stesso a un esame di coscienza, a diventare per così dire l’etnologo di se stesso. […] Rendo grazie al quartiere rabatano e ai suoi uomini per avermi aiutato a capire meglio me stesso e il mio compito.8 Incontrandosi con la miseria estrema dei contadini della Rabata, con “esseri mantenuti a livello delle bestie malgrado la loro aspirazione a essere uomini”, De Martino si sente pervaso da un profondo senso di colpa: la colpa di essere un privilegiato, un “intellettuale piccolo-borghese del Mezzogiorno” che si trova infinitamente distante da tanta miseria e tanto degrado. Ma tale senso di colpa si trasforma subito in collera: una collera “storica”, “solennemente dispiegantesi dal fondo più autentico del proprio essere”.9 Ed è tale collera che permette di fondere entro un unico orizzonte la lotta condotta dall’intellettuale e la lotta dei contadini del Sud per la propria emancipazione. Sebbene De Martino, come molti altri intellettuali, subì una fascinazione per l’Unione Sovietica, come luogo mitologico dal quale si sarebbe poi dipanato il filo rosso della rivoluzione e della giustizia sociale, il suo rapporto con il marxismo, sia dal punto di vista teorico che politico, non fu sempre facile – un aspetto, questo, su cui torneremo alla fine. Un atteggiamento di presa di distanza dal marxismo è già presente in alcuni suoi scritti antecedenti il 1956, anno in cui deciderà di non rinnovare più la tessera del Pci. Del resto, un pensatore del suo calibro che era riuscito a rielaborare in maniera critica e fruttuosa lo storicismo, allargandone la prospettiva storica al fine di includere al suo interno i cosiddetti popoli primitivi, non avrebbe potuto accettare supinamente la teoria marxista né tantomeno il diktat di un parti8. Id., “Note lucane” (1950), in Furore Simbolo Valore, cit., p. 132 sgg. 9. Ibidem.
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Sogno e civiltà. Notizie sull’ultimo lavoro di De Martino PIETRO ANGELINI
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ell’autunno del 1966 comparve nelle librerie un volume con un titolo abbastanza insolito per gli studiosi italiani del tempo: Il sogno e le civiltà umane. L’editore era Laterza, la collana l’autorevole “Biblioteca di cultura moderna”, che in quegli anni attraversava un’interessante fase di rilancio; ma la sovrabbondanza di autori, addirittura tredici, e l’assenza in copertina del nome di un curatore, lasciava intendere che non si trattava né di una monografia né di un’antologia, bensì della tradizionale quanto doverosa raccolta degli atti di un convegno – una formula che anche allora suscitava più sospetti che appetiti. Fu questo sicuramente uno dei motivi per cui il titolo, malgrado l’evidente novità che apportava al ventaglio delle scienze sociali, passò pressoché inosservato. Ma se il potenziale acquirente avesse letto con attenzione il risvolto di copertina, una frase, una scintilla lo avrebbe forse scosso: “La cura del volume”, diceva l’editore, “è forse l’ultimo lavoro di Ernesto De Martino, che aveva già compiuto la scelta e la revisione dei testi, quando inattesa sopraggiunse la malattia e la sua dolorosa scomparsa”. Sfuggiva in questo modo, al potenziale lettore, l’occasione di guardare al sogno – un oggetto di studio monopolizzato dalla psicoanalisi e dalla critica letteraria – in una prospettiva finalmente non etnocentrica; e di allargare e ispessire il concetto stesso di sogno, non più inteso come un’esperienza privata da aut aut, 366, 2015, 79-103
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condividere soltanto con un medico o un soggetto compiacente, ma come un istituto in grado di condizionare scelte culturali e destini collettivi: un fenomeno multiforme, dall’ampio alone semantico, che comprende oltre ai sogni comunemente intesi anche esperienze oniroidi come i viaggi estatici e le apparizioni, e che proprio quando viene colto nella sua dimensione collettiva si svela come una lingua che varia da cultura a cultura. Era del resto questo l’intento del convegno tenutosi quattro anni prima della pubblicazione di questi atti nella prestigiosa sede dell’abbazia di Royaumont: un convegno ad altissimo livello, che chiamava a raccolta un fitto stuolo di esperti di diverse aree e discipline con il dichiarato obiettivo di strappare l’oggetto-sogno dall’isolamento delle ricerche specialistiche. De Martino, che aveva già interpretato, fin dagli anni quaranta, il sogno come un “istituto magico” che procedeva da un concetto non occidentale di realtà (da cui il conflitto con Croce), aveva continuato in vari modi a riflettere sul problema, in particolare soffermandosi sul nesso mito/sogno, sulla specificità dei sogni paranormali, e negli ultimi tempi, nell’ambito delle ricerche per La fine del mondo, allo scopo di stabilire una distinzione tra delirio psicopatologico e sogno profetico.1 Nessuno come lui, in Italia, si presentava nelle vesti di “diretto interessato” a un’operazione che tendeva, per la prima volta in modo sistematico, alla de-naturalizzazione di un fenomeno che rischiava allo stesso tempo, con le applicazioni della psicoanalisi, di perdere ogni contatto con il terreno della storia. Come è che, allora, il nome di De Martino compariva nella pubblicazione solo di straforo? È a questa prima legittima domanda che dobbiamo, innanzitutto, trovare una risposta. 1. Il sogno come istituto magico (12 pp. dattiloscritte di De Martino) si trova nel faldone 3 (cartella 59) dell’Archivio: appunti sul nesso sogno/mito si trovano invece nel faldone 4 (cartella 15). Il faldone 24 comprende gli scritti inediti relativi alla parapsicologia. Tutti e tre i faldoni sono consultabili online sul sito dell’Associazione internazionale Ernesto De Martino. Gli appunti sui deliri di crollo del mondo e sulle apocalissi dei movimenti profetici si trovano nel I e nel III capitolo della Fine del mondo curata da C. Gallini (Einaudi, Torino 1977, nuova edizione 2002).
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Risposta che ci viene, almeno in parte, dalle carte conservate nell’Archivio.2 Partiamo dal convegno. Anzitutto, le carte ci forniscono un’informazione che il libro stranamente non ci dà (l’edizione italiana, lo diciamo una volta per tutte, lascia parecchio a desiderare): il promotore dell’iniziativa fu Marcel Leibovici, che seguì tutti i lavori nella fase preparatoria. Solo col passare dei mesi il testimone passerà, come vedremo, a Gustav Von Grunebaum. Leibovici aveva pubblicato nel 1959 un importante volume uscito nella prestigiosa collezione “Sources Orientales” delle Éditions de Seuil: Les songes et leur interprétation. Si trattava di una vasta panoramica delle onirologie orientali, costruita su monografie redatte da esperti delle diverse aree – dall’Egitto antico al Giappone moderno – secondo un disegno tracciato da Anne-Marie Esnoul e dallo stesso Leibovici. L’intento di questo illustre esperto di divinazioni babilonesi3 era abbastanza evidente: compiere un passo ulteriore, allargando il quadro all’Occidente e alle “civiltà primitive”, e soprattutto 2. Nel faldone 26 (non ancora consultabile online) dell’Archivio si trova una cartella – che da qui in avanti chiameremo 26.3 – contenente una parte dei carteggi intercorsi prima e dopo il convegno, un intervento di De Martino per una delle riunioni preliminari, e qualche appunto sparso – sempre di pugno di De Martino per l’ordinamento dei contributi in vista della pubblicazione in volume. Più dettagliatamente la cartella contiene i seguenti documenti: trentanove lettere ricevute da De Martino (sei di Leibovici, diciannove di Grunebaum, tre di Servadio, due di Musatti, una di Garrett, due di Paci, tre di Dillon, una del Saggiatore, una di Laterza, due di Molinari); sette veline di lettere spedite da De Martino (una a Leibovici, cinque a Grunebaum, una a Paci); una copia di lettera spedita da Servadio a Grunebaum, una copia di lettera spedita da Vito Laterza a Grunebaum; due bozze di lettere (una a Grunebaum e una a Leibovici); sei pagine dattiloscritte (da attribuire a De Martino) contenenti due ordini del giorno e quattro elenchi di interventi; undici pagine scritte in parte a macchina e in parte a mano con le relazioni di De Martino, di Leibovici e di Grunebaum presentate nel corso della riunione preliminare; un ritaglio di giornale (è la recensione del libro Man and Time di J.B. Priestley comparsa sull’“Observer” nel 1964); un estratto di Servadio (Sogno normale e sogno paranormale, “Annali di Neuropsichiatria e Psicoanalisi”, 1, 1961); due circolari del Near Eastern Center; una cartella con il depliant del programma definitivo del convegno e i papers degli interventi di Caillois, Bremer, Dement, Servadio, Cahen, Marjasch, Ebon, Zambrano, Bastide, La Barre, Eggan, Hallowell, Brelich, Eliade, Oppenheim, Fahd, Lecerf, Corbin, Rahman, Maier, Millàn e Paci. 3. Nato nel 1913, docente presso la Facoltà di teologia e storia dell’Università di Montreal, Leibovici pubblicherà nel 1968 il fondamentale La divination in 2 voll., Puf, Paris, in collaborazione con A. Coquot. Un suo contributo sulla religione babilonese compare in AA.VV., Geni, angeli, demoni, Edizioni Mediterranee, Roma 1994.
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Tradurre Ernesto De Martino, dal travaglio al trascendimento DOROTHY LOUISE ZINN
“M
i dispiace, ma qualcuno qui […], qualcuno a cui devo assolutamente prestare ascolto, mi ha detto che è troppo lungo e troppo vecchio.” Così è stata liquidata a sorpresa, a dieci giorni promessi dalla firma di un contratto, la possibilità di pubblicare l’edizione inglese della Terra del rimorso presso una nota casa editrice anglofona specializzata in opere antropologiche. Questo dopo aver investito non poco tempo nel cercare delle risposte a un elenco esteso di quesiti da parte della casa editrice, passo necessario per spianare la strada a un accordo di pubblicazione. Ho replicato alla sentenza dell’editore con una e-mail in cui ho espresso rammarico per una decisione basata su dei criteri che, se negli anni settanta fossero stati ugualmente applicati, avrebbe ostacolato la pubblicazione in inglese dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, opera che si sarebbe potuta ben definire “troppo lunga e troppo vecchia”. Altro che De Martino! Eppure Gramsci ha cambiato la faccia dell’antropologia anglofona, così come ha influenzato tante altre discipline affini. Si trattava del secondo di tre tentativi nell’arco di quasi un decennio, tutti andati male all’ultimo momento, prima di riuscire a trovare una collocazione presso la Free Association Books1 di Lon1. E. De Martino, The Land of Remorse. A Study of Southern Italian Tarantism, trad. e note scientifiche a cura di D.L. Zinn, Free Association Books, London 2005 (ed. orig. La terra del rimorso, il Saggiatore, Milano 1961).
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dra, grazie al sostegno dell’antropologo-psicoanalista Anthony Molino. Un paio di anni prima avevo intrapreso il primo contatto presso una casa editrice americana, munita dell’endorsement di George Marcus per una collana con cui aveva avuto a che fare. A dispetto dell’entusiasmo mostrato dalla senior editor, la negoziazione era andata avanti un po’ lentamente nel corso di parecchi mesi; aveva subìto poi un’improvvisa e fattiva accelerazione quando avevo incontrato di persona la senior editor della collana in uno dei miei ritorni a casa. In quell’occasione avevamo preso degli accordi, e subito dopo avevo ricevuto una prima bozza del contratto da presentare agli eredi De Martino. Dopo qualche settimana, però, era arrivato un messaggio annunciando che la collana era terminata, e quindi non avrebbero potuto più accogliere il libro, e che la stessa editor serbava delle insicurezze rispetto al proprio posto di lavoro. Fra questo tentativo e il secondo, ho dovuto prendere parecchio tempo per metabolizzare la delusione. Altrettanto tempo è passato prima di intavolare una trattativa con una terza casa editrice, ma avrei dovuto tener conto del vecchio detto “Non c’è due senza tre”. Dopo un accordo sui preliminari, e con il contratto in dirittura d’arrivo, la terza casa editrice ha ritirato il suo interesse per la pubblicazione senza ulteriori spiegazioni. Dovevo a malincuore ammettere a me stessa che l’impresa di pubblicare la traduzione di De Martino sembrava vittima proprio di un classico colpo di jettatura, e mi chiedevo cosa ne avrebbe detto il nostro studioso in merito. Sapevo dall’inizio che le case editrici anglofone sono generalmente un po’ restie a pubblicare delle traduzioni, ma credevo fortemente nel progetto e nella necessità di portare De Martino all’attenzione del mondo antropologico, come solo una traduzione in inglese avrebbe potuto fare. Avrebbe permesso la circolazione di De Martino tra i colleghi della tradizione anglo-americana, ma avrebbe anche aperto un accesso all’opera di De Martino in quelle realtà nazionali in cui si parlano lingue meno conosciute e nelle quali si guarda all’inglese come lingua franca. Aveva ben osservato Maria Minicuci2 che l’ignoranza rispet2. M. Minicuci, Antropologi e Mezzogiorno, “Meridiana”, 47-48, 2003, pp. 139-174.
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to a De Martino nel mondo antropologico anglofono rientrava in un contesto più ampio di mancato dialogo tra le due tradizioni scientifiche, durato fino a tempi recenti, e che nello specifico investiva la ricerca antropologica condotta nel Mezzogiorno d’Italia, al punto che De Martino pareva totalmente sconosciuto persino tra gli anglofoni che conoscevano la lingua italiana. L’idea di tradurre La terra del rimorso mi era venuta dopo aver letto alcune sue opere e verso la fine del mio percorso di dottorato. Le conversazioni in antropologia correnti ai tempi dei miei studi negli Stati Uniti parlavano molto della riflessività, della pratica, di performance, della riscoperta della storia. E di egemonia gramsciana. Tutti questi temi, e altri ancora, li ho ritrovati già presenti in De Martino, uno scrittore che era scomparso trent’anni prima. A parte la questione del linguaggio, sulla quale mi soffermerò più innanzi, non si è trattato per me di una lettura facile, in quanto mi mancava la formazione classica di una buona parte dei colleghi italiani, soprattutto della generazione a cui apparteneva De Martino. Sono rimasta, ciononostante, profondamente colpita dalla profondità del suo lavoro e dalla bellezza della sua scrittura. George Saunders aveva scritto su De Martino diversi importanti saggi,3 ma non era riuscito a stimolare l’interesse oltre a un certo punto iniziale. Credo che questo esito sia stato alquanto inevitabile, perché ai colleghi anglofoni non poteva bastare un riassunto, la descrizione di un’opera o di un concetto demartiniano da parte di Saunders: avrebbero voluto poter leggere qualche lavoro scritto direttamente da De Martino, qualche cosa di più ampio, e solo così si sarebbero potuti avvicinare al suo pensiero. Ero pure in contatto con George, il quale mi disse che alcuni colleghi italiani lo avevano 3. G.R. Saunders, Contemporary Italian Cultural Anthropology, “Annual Review of Anthropology”, 13, 1984, pp. 447-466; Id., “Critical Ethnocentrism” and the Ethnology of Ernesto De Martino, “American Anthropologist”, 4, 1993, pp. 875-893; Id., The Crisis of Presence in Italian Pentecostal Conversion, “American Ethnologist”, 2, 1995, pp. 324-340; Id., The Magic of the South: Popular Religion and Elite Catholicism in Italian Ethnology, in J. Schneider (a cura di), Italy’s “Southern Question”: Orientalism in One Country, Berg, Oxford 1998, pp. 177-202.
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Piccolo archivio fotografico della crisi e del riscatto
Archivio 1950-1960
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1. Spedizioni scientifiche in Lucania San Costantino Albanese: immagine molto significativa che esemplifica il lavoro della spedizione documentaria condotta dal 15 maggio al 4 giugno 1957 in Lucania da Ernesto De Martino e la sua équipe, poi descritta nel libro Sud e magia. La maciara racconta la sua esperienza e gli studiosi prendono nota, chi registra e chi scrive, secondo il proprio interesse scientifico (medico, psicologico, antropologico). Fotografia di Ando Gilardi #andogilardi, fotografo dell’équipe. Lucania, 1957 (Fototeca Gilardi). “È da qualche tempo che sto organizzando in Lucania spedizioni scientifiche per lo studio della vita dei contadini lucani e del loro mondo culturale […]. Abbiamo il nostro programma, i nostri itinerari, i nostri questionari. Incideremo i canti popolari e sorprenderemo nell’obiettivo fotografico ambienti, situazioni e persone […]. E di ritorno in città comunicheremo a tutti ciò che abbiamo visto e ascoltato: in una serie di conferenze sceneggiate, di articoli per quotidiani e periodici, in opuscoli a carattere divulgativo e in un’opera a carattere scientifico renderemo pubblico questo dimenticato regno degli stracci, faremo conoscere a tutti le storie che si consumano senza orizzonte di memoria storica nel segreto dei focolari domestici […]. Io penso che intorno a queste spedizioni organizzate dovrebbero raccogliersi gli intellettuali italiani, a qualunque categoria essi appartengono, narratori, pittori, soggettisti, registi, folcloristi, storici, medici, maestri ecc. Il nuovo realismo, il nuovo umanesimo, manca, per quel che mi sembra, di questa esperienza in profondità, e spedizioni di questo genere costituiscono un’occasione unica per formarsela, e per colmare quella distanza tra popolo e intellettuali che Gramsci segnalava come uno dei caratteri salienti della nostra cultura nazionale” (E. De Martino, Una spedizione etnologica studierà scientificamente la vita delle popolazioni contadine del Mezzogiorno. Importanti sviluppi della iniziativa Zavattini, “Il Rinnovamento d’Italia”, 1 settembre 1952; ora in Id., L’opera a cui lavoro. Apparato critico e documentario alla spedizione etnologica in Lucania, a cura di C. Gallini, Argo, Lecce 1996).
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Vogliamo ringraziare, per l’autorizzazione a riprodurre le fotografie qui riportate, Carmela Biscaglia, direttrice del Centro di documentazione “Rocco Scotellaro e la Basilicata del secondo dopoguerra” (Tricarico, Matera), Vera De Martino e Valentino Avvisati per le fotografie tratte da La terra del rimorso, la Fototeca Gilardi (Milano), la redazione di “Noi Donne”, e Ciro Quaranta, che ha partecipato a tutte le fasi della ricerca. Un ringraziamento va anche a coloro che si sono resi disponibili a incontrarci e scambiare con noi esperienze, lotte, informazioni: Antonella Cazzato, Antonio Gagliardi, Ilir Taga (Cgil), Ivan Sagnet (Flai), il team di Emergency (Nardò, Lecce), Tony Laggetta e gli altri membri dell’associazione Calvario di Gesù Crocifisso. Un grazie particolare a Giovanna Stifani (Santa Maria al Bagno, Lecce). Vogliamo esprimere la nostra riconoscenza anche a Sergio Tundo (Santa Maria al Bagno), e a Enza Leone, Enzo Pica, Enzo Gagliano, Filomena Leone, Antonia Mellone, Vincenzina Leone, Maria Grazia Rosselli, Teresa Bartolomeo, Maria Gagliardi (Gorgoglione, Matera), intervistati nell’ambito della ricerca sulle memorie del tarantismo, l’affascino, la fattura e la medicina popolare, che hanno voluto condividere con noi materiali e ricordi sui quali stiamo ancora lavorando. [R.B., S.T.]
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Angoscia e volontà di storia ROBERTO BENEDUCE
1. La redenzione del presente e “il filo che manca” “Lo stupore perché le cose che viviamo sono ‘ancora’ possibili nel ventesimo secolo è tutt’altro che filosofico. Non è l’inizio di nessuna conoscenza, se non di quella che l’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi.”1 Benjamin faceva riferimento in questo passaggio all’urgenza di lottare contro le minacce di quegli anni (il fascismo in primo luogo), ma le considerazioni espresse nelle Tesi di una filosofia della storia sembrano dialogare con molte delle preoccupazioni che accompagnano le riflessioni di De Martino sulle apocalissi culturali e psicopatologiche. La necessità di strappare il “patrimonio culturale” al destino di essere “strumento della classe dominante”, l’idea secondo cui lo “stato di emergenza” è per gli oppressi la regola e occorre un concetto di Storia che “corrisponda a questo fatto”, riecheggiano in molte pagine demartiniane (il vissuto di minaccia e di pericolo che sempre incombe sui subalterni, o il motivo della redenzione del passato, per esempio), suggerendo spunti preziosi per un’etnopsichiatria della “crisi” e del “riscatto” che faccia della vita psichica della storia il suo centro d’azione. Nel riprendere il dossier demartiniano,2 i problemi con i quali egli si misurava non hanno cessato in questi anni di interro1. W. Benjamin, Angelus novus. Saggi e frammenti (1955), trad. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1962, p. 79. 2. Le ricerche, realizzate con Simona Taliani e Ciro Quaranta, hanno preso avvio nell’estate del 2013 e comprendono una vasta area (Carmiano, Magliano, Santa Maria al Bagno e i campi di lavoro di Nardò nella provincia di Lecce; Gorgoglione, in provincia di Matera;
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garmi, testimoni di un metodo originale e di intuizioni quanto mai attuali per leggere le apocalissi del presente, le inquietudini di chi spesso è definito “vulnerabile” anziché, semplicemente, “subalterno”, e le minacce che incombono oggi con la stessa forza con cui “l’oscura angoscia teogonica” incombeva oltre cinquant’anni fa negli sguardi dei contadini pugliesi. 3 È con il suo sguardo, le sue parole in testa, che ho deciso di tornare in quella “terra di Puglia e del Salento spaccata dal sole”, su quelle crete corrose oggi da altre inquietudini: sapendo di contrarre debiti che non saranno mai estinti nei confronti di chi mi ha raccontato il suo dolore e la sua speranza. E se De Martino considerava i “vissuti psicopatologici”4 alla stregua di materiali etnografici, oggi il suo gesto mi sembra ancora più necessario per cogliere il brusio di un sottosuolo 5 che chiede di essere ascoltato. Ma torniamo alle piste demartiniane. Nell’orizzonte dove andavano confluendo i poteri magici, le urla del pianto funebre, i mali della miseria, sta ora l’“ammalarsi psichico”, l’espressione più oscura del rischio di non esserci, e tale perché la separazione dal mondo culturale che deve nominarlo e curarlo sembra irrevocabile. Il progetto che in La fine del mondo lo spingerà ad avviare un confronto con altre apocalissi disegna un campo di ricerca quanto mai ampio, fra i cui obiettivi evoco Grottaglie, in provincia di Taranto). I primi dati sono stati presentati al convegno “Archivi del futuro: il postcoloniale, l’Italia e il tempo a venire”, Padova, 18-20 febbraio 2015. Numerose le persone che mi hanno offerto il loro tempo e la loro disponibilità. Ma è a Ciro Urselli e Nora de Geronimo che ora penso e voglio ringraziare: i loro racconti e l’amicizia di sempre mi hanno permesso di ritrovare il filo di comuni ricordi e il senso di questa stessa ricerca. 3. E. De Martino, Intorno a una storia del mondo popolare subalterno, “Società”, V, 1949, p. 435. Penso qui, in particolare, a quegli immigrati che “non sanno più che cosa sono diventati” (A. Sayad, Naturels et naturalisés, “Actes de la recherche en sciences sociales”, 99, 1993, p. 32), e che pur avendo ottenuto i loro feticci di carta, i loro permessi di soggiorno, continuano a sospettare di essere avvelenati dai propri connazionali o a sentirsi divorati da forze mistiche. 4. Cfr. anche E. De Martino, Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche, “Nuovi Argomenti”, 69-71, 1964, pp. 105-141. 5. Sull’uso di questo concetto, rinvio a R. Beneduce, Archeologie del trauma. Un’antropologia del sottosuolo, Laterza, Roma-Bari 2010; Id., Il rumore sordo del sottosuolo. Per un’antropologia postcoloniale, “aut aut”, 364, 2014, pp. 183-193.
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solo quello più direttamente connesso a queste considerazioni: il valore che egli assegna alla cultura nella lotta “contro l’ammalarsi della mente”, contro il rischio di non essere in “nessuna storia umana”. Per De Martino, “ogni civiltà magico-religiosa è […] al tempo stesso una terapia e una profilassi esistenziale (o culturale o storica) del rischio di non esserci nel mondo in quei momenti critici dell’esistere nei quali quella civiltà avverte che la storia sporge”.6 Si tratta di un pensiero non molto lontano dal giudizio che Eric de Rosny avrebbe espresso sulle tecniche dei guaritori africani (“l’esercizio stesso della cultura in una delle sue funzioni principali: la guarigione”).7 La malattia diventa così la porta d’ingresso per comprendere una cultura, le sue inquietudini e i suoi “istituti”, e misurare ciò che definisce il “sano”. È un obiettivo ambizioso, al cui interno lo studio del sintomo assume un profilo propriamente epistemologico: “In questa prospettiva acquista un valore euristico notevole la utilizzazione dei vissuti psicopatologici”.8 Conosciamo la strategia che dagli anni di Naturalismo e storicismo nell’etnologia De Martino non cessa di seguire, e le letture che vanno accumulandosi sul suo tavolo. Conosciamo i luoghi della ricerca, gli anni febbrili che lo vedono impegnato nel sindacato e nel promuovere le “spedizioni” in Lucania prima, in Salento poi, e le domande che avanzano in direzioni ogni volta nuove trovandolo però sempre ostile all’idea di ricondurre a una prospettiva economicistica l’analisi del mondo subalterno. D’altronde, la “cultura” per De Martino non è mai garanzia in sé: ne ha già scrutato il ripiegarsi verso orizzonti oscuri e inefficaci. La nozione di “folklore progressivo” è rivelatrice dei modi in cui egli si misura con il problema della “cultura popolare” e il va6. E. De Martino, Storia e metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro, introduzione e cura di M. Massenzio, Argo, Lecce 2005, p. 111. 7. E. de Rosny, Les yeux de ma chèvre, Plon, Paris 1981, p. 23. 8. E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di C. Gallini, Einaudi, Torino 2002, p. 18. Il valore metodologico dell’analisi della malattia è già annunciato in Perdita della presenza e crisi del cordoglio (“Nuovi Argomenti”, 30, 1958, pp. 49-92). Impossibile non pensare alle tesi formulate in quegli anni da Georges Canguilhem.
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“Fra una raffica e l’altra” Il regno della miseria e la vita culturale degli oppressi GINO SATTA
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rnesto De Martino ha più volte sentito l’esigenza di presentare la propria attività di studioso nella forma compiuta di un percorso dove ogni episodio rappresenta un avanzamento lungo un’unica linea di sviluppo che, se non progettata fin dal principio, è però intelligibile a posteriori nella sua unitarietà e coerenza. Riccardo Di Donato ci ha ripetutamente messi in guardia sul “depistaggio” operato nei confronti dei “demartinologi” da questi frammenti autobiografici, con i quali “negando e rinnegando persone, posizioni e tendenze frequentate e seguite nei precedenti tratti del percorso, De Martino ha contribuito alla edificazione di una propria biografia intellettuale, sostanzialmente falsa o comunque, se si preferisce una eufemistica litote, non pienamente vera, la cui progressiva demolizione ha occupato decenni di lavoro critico”.1 Il pluriennale lavoro condotto sugli archivi ha, in parte, operato la “demolizione”, permettendo di colmare lacune, risistemare cronologie, rimediare a omissioni, ricostruire più complesse genealogie, penetrare nel laboratorio dello studioso, riesaminandone da vicino il lavoro tanto nei suoi aspetti teorico-meto1. R. Di Donato, Etnografia del tarantismo pugliese. Una lettura critica, in E. Imbriani (a cura di), Sud e nazione. Folklore e tradizione musicale nel Mezzogiorno d’Italia, Università del Salento, Lecce 2013, p. 411. Considerazioni simili erano già in R. Di Donato, I greci selvaggi. Antropologia storica di Ernesto De Martino, manifestolibri, Roma 1999.
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dologici quanto in quelli pratici e procedurali.2 La complessità – innegabile – dell’opera è stata così raddoppiata da quella di un apparato critico che ha prodotto una molteplicità di rifrazioni diverse del grande studioso, che sembrano andare anche oltre la duplicità o pluralità che lui stesso si attribuiva.3 Ma i frammenti di autobiografia intellettuale che De Martino ha disseminato nei suoi scritti possono ritenere un valore ulteriore rispetto a quello filologico. Contribuiscono, infatti, a illuminare percorsi di senso e scelte culturali così come dovevano apparire (o, almeno, come voleva che apparissero) ai contemporanei, offrendo un punto di accesso privilegiato a questioni che – viste dall’oggi – rischiano di caricarsi di impropri significati “presentisti”.4 Partirò dunque proprio da uno di questi frammenti per tentare di mettere a fuoco un tema, non certo inesplorato, ma sul quale – proprio grazie al lavoro già compiuto da altri – mi sembra oggi possibile proporre qualche ulteriore riflessione: il rapporto tra impegno politico ed etnografia, nella fase del lavoro di De Martino caratterizzata dal primo “incontro” con il mondo contadino meridionale, che Charuty ha definito “neorealista”.5 2. Non è qui possibile, in una nota, dare conto della mole di contributi che hanno ampliato la nostra conoscenza della figura e dell’opera di Ernesto De Martino. Mi limiterò pertanto a fare riferimento solo ai testi che, in modo più o meno diretto, sono pertinenti rispetto agli argomenti trattati. 3. “Io sono due o più, non uno in rischio di essere nessuno in lotta per essere qualcuno” è la frase in epigrafe a G. Charuty, Ernesto De Martino. Le precedenti vite di un antropologo (2009), trad. di A. Talamonti, Franco Angeli, Milano 2010. Al De Martino “meridionalista”, cui Clara Gallini lamentava fosse stata indebitamente ridotta la memoria dello studioso nel decennio successivo alla scomparsa, si sono nel corso del tempo affiancati diversi altri De Martino settoriali. Cfr. C. Gallini, “Introduzione”, in E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di C. Gallini, Einaudi, Torino 1977, pp. IX-XCIII. 4. Mi riferisco in particolare al tema del De Martino “precursore”, vuoi del postmodernismo in antropologia, vuoi della critica postcoloniale, vuoi di altre tendenze attuali degli studi. Vedi T. Hauschild, Il programma “postmoderno” e lo spirito demartiniano, in C. Gallini, M. Massenzio (a cura di), Ernesto De Martino nella cultura europea, Liguori, Napoli 1997, pp. 75-80; E.G. Berrocal, The Post-colonialism of Ernesto De Martino: The Principle of Critical Ethnocentrism as a Failed Attempt to Reconstruct Ethnographic Authority, “History and Anthropology”, 2, 2009, pp. 123-138. 5. G. Charuty, Le moment néoréaliste de l’anthropologie démartinienne, “L’Homme”, 195-196, 2010, pp. 247-281. Il termine “incontro” ricorre continuamente negli scritti del periodo “meridionalista”, fino ad arrivare alle teorizzazioni sull’“incontro etnografico” nella Fine del mondo.
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Il testo in questione è quello di una conferenza tenuta a Firenze in un Giovedì del Vieusseux – nella primavera del 1951 – cui lo stesso autore intende dare “un andamento quasi autobiografico” per non smarrire “quella drammatica tensione fra pensiero e vita a cui la mia generazione si è trovata esposta”.6 Il racconto si apre con l’evocazione delle “cospirazioni di tipo mazziniano” e delle visite al “vecchio Croce” presso villa Laterza a Bari che, mentre Levi “scopre Cristo fermo a Eboli”, impegnano i giovani della piccola borghesia meridionale; narra il “lungo e avventuroso cammino” intrapreso dall’autore per prendere coscienza dei limiti della diagnosi sulla crisi della nostra civiltà che era proposta in quei circoli intellettuali; si chiude con l’annuncio – aggiunto a mano nel dattiloscritto – dell’intenzione di “organizzare spedizioni in équipe” per raccogliere “materiale documentario per un’opera sull’angoscia della storia”.7 Molti sarebbero gli spunti meritevoli di essere raccolti, ma noi ci limiteremo a uno: è la partecipazione al “processo di emancipazione reale [del] mondo contadino meridionale” – sostiene De Martino – a far “reagire” le tematiche dei lavori etnologici con l’esperienza, in modo che non poteva “restare senza effetto profondo sulla mia opera di studioso”; per innescare la reazione sembra però anche essere necessaria la mediazione di un testo, il Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, che permetta di riconoscere un’identità, quella tra “il mondo storico dei contadini” e quello dei “popoli primitivi delle civiltà etnologiche”, tutt’altro che evidente.8 6. E. De Martino, L’opera a cui lavoro, a cura di C. Gallini, Argo, Lecce 1996, p. 11. Il testo è quello che apre e dà il titolo alla raccolta di documenti relativi alla “spedizione etnologica in Lucania” del 1952. Gallini ipotizza in un primo momento che la conferenza sia collocabile intorno al 1950 (C. Gallini, La ricerca, la scrittura, in E. De Martino, Note di campo, a cura di C. Gallini, Argo, Lecce 1995, p. 34), e in seguito – nella nota che accompagna il testo – che sia tenuta “presumibilmente nell’inverno-primavera 1952” (E. De Martino, L’opera a cui lavoro, cit., p. 10). Il sito Internet del Gabinetto scientifico letterario G.P. Vieusseux riferisce, invece, di una serie di conferenze tenute nel marzo-aprile 1951, L’opera a cui lavoro e i suoi rapporti con la vita d’oggi, cui avrebbe partecipato anche Ernesto De Martino <http://goo.gl/JWsIGx> (consultato il 16 novembre 2014). 7. E. De Martino, L’opera a cui lavoro, cit., p. 18. 8. Ivi, p. 16. Per un commento più esteso si rimanda a C. Gallini, La ricerca, la scrittura, cit. Sul riconoscimento del debito verso Levi per la scoperta del “mondo magico” dei
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Immagini del caos. La vita psichica dei subalterni1 SIMONA TALIANI Tutto il patrimonio culturale che [il materialista storico] abbraccia con lo sguardo ha immancabilmente un’origine a cui non può pensare senza orrore. Esso deve la propria esistenza non solo alla fatica dei grandi geni che lo hanno creato, ma anche alla schiavitù senza nome dei loro contemporanei. Non è mai documento di cultura senza essere, nello stesso tempo, documento di barbarie. […] Il materialista storico […] considera come suo compito passare a contrappelo la storia.1
1. Transumanze “È da qualche tempo che sto organizzando in Lucania spedizioni scientifiche per lo studio della vita dei contadini lucani e del loro mondo culturale […]. E di ritorno in città comunicheremo a tutti ciò che abbiamo visto e ascoltato.”2 De Martino tornerà da queste prime spedizioni scientifiche con impressa nella memoria l’immagine del caos, quella che Belardinelli gli restituisce traducendo su tela “il senso di maligna provvisorietà, di tenebre fermentanti” della Ràbata di Tricarico.3 Terra lucana, scriverà De Martino, dove vivevano alcune migliaia di contadini, ma meglio si direbbe che contendevano “al caos le più elementari distinzioni dell’essere”.4 Suo intento era quello di raccogliere intellettuali e professionisti intorno a questa umaQuesto lavoro nasce dalla ricerca etnografica condotta nei mesi di giugno, luglio e agosto 2014, insieme a Roberto Beneduce, all’interno del progetto “Il rovescio della migrazione. Un’analisi comparativa su tutela e diritto alla salute” (FEI 2013 PROG 105189), cofinanziato dall’Unione europea e dal ministero degli Interni. Ringrazio Ciro Quaranta per la sua presenza sul campo, al nostro fianco, e Yvan Sagnet, Ilir Taga, Antonella Cazzato, Antonio Gagliardi della Cgil di Lecce. Questo articolo è dedicato a Eleonora De Geronimi e Ciro Urselli (ci sono cose che non avrei immaginato senza di loro) 1. W. Benjamin, Angelus novus. Saggi e frammenti (1955), trad. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1981, p. 79. 2. E. De Martino, Una spedizione etnologica studierà scientificamente la vita delle popolazioni contadine del Mezzogiorno – Importanti sviluppi della iniziativa Zavattini, “Il Rinnovamento d’Italia”, 1, 1952; ora in Id., L’opera a cui lavoro. Apparato critico e documentario alla spedizione etnologica in Lucania, a cura di C. Gallini, Argo, Lecce 1996. Sul termine “spedizione” Carpitella e De Martino ritorneranno nel documentario audiofonico La spedizione in Lucania di Ernesto De Martino. 3. E. De Martino, Furore Simbolo Valore (1962), Feltrinelli, Milano 2002, p. 119. 4. Ibidem.
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nità declassata, per fondare, dall’incontro tra la povera gente e la classe egemonica dirigente, un nuovo realismo, il nuovo umanesimo. L’uomo nuovo. Non ho l’esperienza necessaria per dire quanto queste spedizioni scientifiche abbiano trasformato intimamente il suo modo di fare ricerca e penso che solo chi lo ha visto lavorare sul campo possa aiutarci a comprendere le inquietudini di un uomo attraversato da un così angoscioso senso di colpa (storico, come ha lui stesso tenuto a precisare), che non ha cessato di interrogare nei suoi scritti. Provo però a immaginare quanto queste inchieste sulla miseria abbiano potuto contribuire a incrementare i suoi debiti viaggio dopo viaggio, incontro dopo incontro. È Eugenio Imbriani che torna a riflettere sull’immenso debito contratto da De Martino nei confronti della plebe rustica del Mezzogiorno, di quella gente povera che condivideva con lui non soltanto i frammenti di una vita intera – ricordi di un’ingiustizia subita e dolori di esperienze defunte –, ma l’intera loro quotidianità, fatta di un “passato trascinato per una lunghezza infinita e in avanti” 5 fin dentro le pieghe del presente. Ciò di cui parlavano, lui e loro, era insomma di un futuro che non arrivava mai.6 Quella che De Martino incontra è infatti la catastrofe del presente, che si estende e dilata sotto i suoi occhi. Questo per lui inedito rapporto di ricerca con i subalterni “finì con l’apparir[gli] non solo come inizio e stimolo della ricerca, ma addirittura come condizione fondamentale per la sua stessa possibilità”.7 Ma è proprio questo incontro violento con la storia – questo rapporto con la povera gente per fare una storia del presente eticamente fondata – a costituire ciò che per il ricercatore fa debito, un debito a volte altrettanto avvelenato 5. F. Rosenzweig, La stella della redenzione (1921), trad. di G. Bonola, Vita e pensiero, Milano 2008, pp. 235-236. 6. C. Piot, Nostalgia for the Future. West Africa after the Cold War, University of Chicago Press, Chicago-London 2010. 7. E. De Martino, Etnologia e cultura nazionale negli ultimi dieci anni, in R. Brienza (a cura di), Mondo popolare e magia in Lucania, Basilicata Editrice, Roma-Matera 1975, p. 59.
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quanto solo certi doni possono esserlo. Il suo e il nostro senso di colpa nasce (credo) da una lucida consapevolezza: il ricercatore sa che dal “campo” torna prima o poi a casa. È asimmetrica, strutturalmente asimmetrica la situazione da cui origina l’incontro etnografico, che si fa sempre più scandaloso quanto più il ricercatore è padrone di andare e venire dal campo quando vuole, quante volte vuole; non così i suoi interlocutori. Non ignari della disparità del posto occupato nel mondo, alcuni di questi informatori privilegiati scrivono (o oggi telefonano) a casa del ricercatore. Queste “chiamate” sono impregnate dell’ambivalenza che connota l’esperienza di chi del “campo” si vuole presto o tardi liberare. Sono “chiamate” che vincolano il rapporto, che non concedono tempo né all’oblio né alla commemorazione: impediscono che la relazione impallidisca, richiamano al dovere dell’essere presenti. Quando l’équipe fece ritorno a Roma, ci raggiunse dopo pochi giorni un telegramma che ci fece sentire tutta la responsabilità della nostra indagine, ricordandoci nel modo più brutale che i tarantati erano non soltanto documenti di un’altra età, ma persone vive verso le quali avevamo dei doveri attuali. Nel telegramma si leggeva: “Carmela balla. Venite”.8 Non so dire se De Martino o qualcuno della sua équipe rispose al richiamo dei familiari di Carmela. I debiti si accumulano anche declinando gli inviti, lasciando inevasi quegli imperativi insistenti che a volte finiamo per avvertire quasi fastidiosi. “Venite” non è affatto una richiesta gentile, ma l’eco di un obbligo che può tradursi in rabbia ed esprimersi come insulto e recriminazione quando il silenzio del ricercatore è stato per l’appellante eloquente. È proprio Imbriani che ricorda l’accusa lanciata al professore e al suo gruppo da Assuntina, alias Maria di Nardò, nel corso di una trasmissione televisiva registrata a 8. E. De Martino, La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, il Saggiatore, Milano 1996, p. 93.
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distanza di vent’anni dal loro primo incontro (“quelli erano tutti infami, per me”).9 Non conosco le ragioni di queste acredini e dei profondi risentimenti che non sono sopiti nemmeno oggi, ma riconosco che al ricercatore rimane uno spazio angusto nel quale muoversi, prendere decisioni, agire nella storia. Sbaglia, si ritrae, non risponde, non si fa più sentire; gli altri, nel mentre, continuano a vivere un presente trascinato in avanti come catastrofe annunciata. A partire da queste premesse intendo ritornare in quella terra del rimorso che è il Salento, con l’opera di De Martino sotto il braccio, per reinterrogare l’etnopsichiatria critica della migrazione dalla prospettiva di coloro che sentono il fuoco, e non la noia, all’origine dei loro malesseri e dentro le pieghe dei loro peggiori incubi. Contraggo dunque nuovi debiti, provo a portarne il peso senza alcuna garanzia né di estinzione né di risarcimento; chiedendomi, però, al contempo quale redenzione sia possibile oggi, in quelle terre di Puglia spaccate dal sole e dalla solitudine, dove l’uomo cammina sui lentischi e sulla creta, dove scricchiola e si corrode ogni pietra da secoli. Che ne è oggi degli uomini e delle donne che continuano a respingere la sofferenza e a contendere al caos una forma seppur elementare di esistenza? Quali speranze prendono corpo dentro i casolari ormai in rovina ma dalle pietre sempre ben squadrate; nei ruderi riadattati alla bell’e meglio come ricoveri di fortuna nei mesi estivi della raccolta? Chi abita nelle tende, tra le lamiere, in mezzo a stracci e materassi, sotto gli ulivi maestosi di Puglia? Grovigli di bivacchi, rifugi, caravanserragli moderni, nuove immagini di caos. Chi si mantiene umano in questi scenari che sembrano “la negazione della storia”10 e dove invece vivono alcune centinaia di persone “storiche” e “intere”? Braccianti agricoli stagionali, immigrati. 9. E. Imbriani, Persone intere. Su alcuni materiali dell’archivio di Ernesto De Martino, Coordinamento Siba, Editoria scientifica elettronica, Università del Salento, Lecce 2013, p. 419. 10. E. De Martino, Furore Simbolo Valore, cit., p. 119.
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