Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXIX 04 gennaio 2016
Azione 01 ping M shop ne 21-23 i alle pag
Società e Territorio Alle Medie di Breganzona si sperimenta l’interattività
Ambiente e Benessere Citroën ripropone la mitica «spiaggina», in auge negli anni Settanta e Ottanta, con una crossover cabrio tutta ecologica, in commercio dalla prossima primavera
Politica e Economia L’album del 2015 fra tante ombre e qualche luce accesa
Cultura e Spettacoli Guardare leggere in un’incantevole mostra a Rancate
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Ti-Press
Mobilità sostenibile tramite App
di Loris Fedele pagina 7
Tempo di responsabilità di Peter Schiesser Ammettiamolo: non ce lo saremmo aspettato così, il 2015. Non presentivamo l’attacco a Charlie Hebdo in gennaio a Parigi, e neppure, ancora a Parigi in novembre, immaginavamo che potessero venir mitragliati senza pietà decine di giovani in uscita libera la sera. Non ci aspettavamo che centinaia di migliaia di persone si mettessero in marcia per cercare rifugio, speranza, un futuro in Europa, abbandonando il Medio Oriente in fiamme e l’Africa in miseria. Né in Svizzera prevedevamo che la perniciosa crisi dell’euro spingesse la Banca Nazionale ad abbandonare il tasso di cambio minimo del franco con la valuta europea, rallentando l’economia intera e danneggiando l’industria votata all’esportazione, il turismo, il settore del commercio. E siamo in fondo stupiti che il tempo faccia le bizze e non ci regali né pioggia né neve da mesi... Fermiamoci qui: quanto ricordato basta per evocare lo smarrimento che ci ha colto in varie forme nell’anno appena trascorso. Un annus horribilis, si direbbe. E da questo 2016, che dobbiamo attenderci? Forse la cosa migliore sarebbe di evitare pronostici, di farci facili illusioni. La peggiore, di
credere che tutto possa tornare come era prima, crogiolandoci nel ricordo di una mitica età dell’oro. La convinzione che in (un certo) passato tutto andasse meglio e si vivesse più armoniosamente è insito nella storia personale di ognuno, l’evoluzione che compiamo crescendo l’ha impressa nella nostra psiche, e condiziona anche la storia delle società. In realtà, non è mai stato vero: scegliamo di crederlo, nella nostra ricerca di una coerenza e stabilità, come individuo e come cittadino. E a volte stride parecchio, come quando si sente dire che le generazioni del secolo scorso erano più sagge di quelle odierne, rimuovendo come d’incanto che quei tempi furono funestati da due guerre mondiali senza eguali nella storia dell’umanità. Ma tant’è: si vede che abbiamo bisogno di situare in un tempo lontano (quindi poco verificabile) un sentimento di sicurezza senza il quale la nostra esistenza risulterebbe in balia degli eventi. Invece questa fase della modernità che chiamiamo l’età della globalizzazione ci schiaffa in faccia proprio questa verità: stabilità e sicurezza sono concetti relativi in un tempo in cui si fa largo il caos; esistono e non esistono. Dipende. Da persona a persona, da contesto a contesto, da momento a momento.
È motivo per disperarsi? No. È ragione per assumersi responsabilità. Come individuo e come collettività. È il momento in cui possono, devono essere affermati valori fondamentali, quei valori che in tutte le fasi della Storia hanno fatto crescere l’umanità, rafforzandone la comunità. La risposta al caos non è il nichilismo – questa è la scelta compiuta da chi si estremizza. E la risposta da dare al vuoto – di valori, nell’individuo e nella società – non è una nuova ideologia. Al contrario, la risposta è la riscoperta di ciò che ci lega come individui e, viste le sfide che ci attendono in campo ambientale, nel nostro rapporto con il pianeta. Ed ecco che, se guardiamo anche a questo anno appena trascorso, possiamo vedere che, accanto allo sconcerto che ci hanno provocato gli eventi ricordati all’inizio, c’è motivo di sperare che l’umanità possa trovare delle vie d’uscita dai mille problemi che l’attanagliano (Alfredo Venturi ce le ricorda a pagina 13). Ma non sono solo le grandi istituzioni e i governi a doversi riscoprire più saggi ed umani, anche noi, nel nostro piccolo abbiamo delle responsabilità che non possiamo delegare ad altri. Nei rapporti con il prossimo, ma anche con noi stessi, oltre che con il pianeta Terra. L’augurio per il 2016 è che ce ne ricordiamo giorno dopo giorno.
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Attualità Migros
M Un passo verso la normalità Solidarietà Il Soccorso d’inverno, una delle associazioni scelte da Migros
per la sua azione di raccolta fondi natalizia, viene in aiuto a genitori e bambini sfavoriti fornendo, ad esempio, materiale scolastico di prima necessità
Commercio Equo Migros offre
pannocchiette di mais col marchio Fairtrade
Beat Matter* Durante il mese di novembre, la località di Kriens, nel canton Lucerna, diventa particolarmente rumorosa: la tradizione vuole che grandi e piccini facciano schioccare le fruste per «risvegliare» San Nicolao. Davanti a casa sua, anche Brandon (10 anni) partecipa con entusiasmo all’esercizio. I suoi genitori, Sani (35 anni) e Anita (29), l’osservano dal balcone, fieri del loro figlioletto. Ma questa apparente normalità inganna: i Marinkovic hanno vissuto un’autentica traversata del deserto, un periodo doloroso che non hanno ancora superato del tutto. E a recuperare un po’ di serenità e un senso di normalità ha contribuito la consegna di zaini scolastici e astucci pieni di accessori offerti dal Soccorso svizzero d’inverno. Questo progetto è un esempio del modo in cui il Soccorso d’inverno sostiene le famiglie a reddito modesto, in particolare nelle necessità dei loro figli. Opera già da diversi anni nei cantoni di Zurigo, Basilea Città e Basilea Campagna e di Berna. «L’anno scorso abbiamo fornito più di 400 cartelle e zaini», precisa Esther Güdel, portavoce dell’associazione. L’anno prossimo questa cifra sarà sensibilmente più elevata, dal momento che il Soccorso d’inverno ha deciso di estendere l’iniziativa a tutta la Svizzera – il che non sarebbe stato possibile senza l’aiuto di Migros e della sua raccolta fondi di Natale. Il progetto è frutto di una lunga tradizione: fin dagli anni 30, il Soccorso d’inverno sostiene attivamente le persone bisognose. «Spesso forniamo loro beni specifici – letti, indumenti o materiale scolastico, spiega Esther
Coltivazioni di mais premiate
Michael West*
Un momento di serenità dopo un periodo difficile, anche grazie al nuovo materiale scolastico per i bambini. (Mirko Ries)
Güdel. Ma può anche trattarsi di un contributo finanziario». Secondo la portavoce, il numero di richieste è in continuo aumento: l’anno scorso, 9000 nuclei familiari si sono rivolti all’associazione. «Non ho parole per esprimere la mia riconoscenza», confida Anita, la
mamma. Oggi i Marinkovic, dopo un difficile periodo caratterizzato da numerose difficoltà, hanno ripreso fiducia in se stessi. Hanno un nuovo tetto, e Anita segue dei corsi in una scuola di commercio per poter avere dalla sua tutte le possibilità di ritrovare un lavo-
I piccoli contadini nello Stato federale del Karnataka, nell’India meridionale, hanno una vita dura. Qui, nel villaggio di Chennapatna, 90 di loro si sono uniti formando una cooperativa, associazione che intrattiene ora un partenariato con la Migros e ha ottenuto il marchio Max Havelaar, il che apre loro nuove possibilità di sviluppo. Sul terreno di molte piccole particelle di campo crescono quelle tenere pannocchiette di mais che da noi costituiscono soprattutto un contorno quasi irrinunciabile per la raclette. In realtà qui la popolazione vive soprattutto grazie all’economia lattiera; le baby graminacee servivano quindi quasi esclusivamente da foraggio. Ora però le pannocchiette vengono raccolte come prodotto accessorio, trasformate da un’azienda indiana e vendute alla Migros in vasetti di vetro sotto la marca Condy. L’intera catena di produzione è certificata
ro. Nuovi obiettivi? «Sì» confida Sani «speriamo di poter fare un giorno una donazione all’associazione per ringraziarla del suo aiuto». * Redattore di Migros Magazin
Padrini che donano tempo e felicità Solidarietà Nell’ambito del programma «Con me» della Caritas, alcuni volontari
allietano la vita di bambini svantaggiati Beat Matter* Benché il tempo sia minaccioso, oggi Gisele è di buon umore. Il fatto è che la ragazzina di 9 anni non sta nella pelle all’idea di poter passeggiare a cavallo di un pony nei dintorni di Scherzingen (TG). Per questa attività tutta particolare sarà accompagnata da Robert e Barbara Keller, di 64 e 61 anni, e dall’adorabile Helios. Di primo acchito si potrebbe pensare che si tratti di nonni desiderosi di passare un bel pomeriggio con la nipotina. I Keller però non sono la famiglia di Gisele ma i suoi padrini: da un anno i coniugi partecipano al programma «Con me» della Caritas, che propone a volontari di offrire un po’ di tempo e di attenzione a bambini che ne hanno bisogno. «I padrini volontari organizzano varie attività per i bambini e vengono così in aiuto ai genitori di famiglie in difficoltà. È una prima tappa per spezzare il circolo vizioso della povertà» afferma Hugo Fasel, direttore di Caritas Svizzera: Caritas è una delle associazione scelte da Migros come destinataria per l’azione natalizia di raccolta fondi.
Azione Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Dai Keller, una coppia senza figli, è Robert che ha preso l’iniziativa del padrinato. Dopo essere andato in pensione anticipatamente, aveva voglia di dedicare un po’ del suo nuovo tempo
libero a dei bambini. Si è quindi rivolto ha diverse istituzioni prima di decidersi per il progetto della Caritas. «Sono stato conquistato dalla possibilità di impegnarmi per un bambino e di aiu-
Robert e Barbara Keller a spasso con Gisele e il pony Helios. (Daniel Ammann) Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
tare così la sua famiglia». Barbara lo ha seguito nella sua idea, e poco più di un anno fa hanno deciso di iscriversi. I responsabili di Caritas esaminano le motivazioni dei padrini potenziali secondo severi criteri: i candidati devono spiegare le loro ragioni, presentare un estratto del loro casellario giudiziale e indicare delle referenze. Affinché il progetto sfoci in un padrinato stabile, occorre anche che le diverse tappe (colloquio, primo incontro col bambino, periodo di prova di vari mesi) diano piena soddisfazione a tutte le parti. E anche a quel punto la Caritas s’incarica di seguire il progetto durante tre anni attraverso bilanci regolari e attività in comune. I Keller sono subito andati d’accordo con Gisele e sua madre Mira: «Abbiamo simpatizzato immediatamente», ricorda Barbara. Un anno dopo, formano una squadra unita: le due famiglie di vedono regolarmente e si aiutano reciprocamente. «Questo incontro è un colpo di fortuna, per noi padrini come per i nostri figliocci», sottolinea Robert.
Le pannocchie sono coltivate nell’India meridionale. (Michèle Müller)
Max Havelaar. Ciò significa che i piccoli contadini ricevono un prezzo di vendita equo, che viene ulteriormente rimpolpato da un premio Fairtrade del 15 per cento. Migros è il primo dettagliante al mondo che ha in assortimento le pannocchiette di mais certificate Max Havelaar. Il premio Fairtrade ottenuto con il lavoro della cooperativa servirà per realizzare un’infermeria mobile e servizi igienici per la scuola del villaggio. Per quella comunità contadina, che vive in condizioni modeste, queste misure saranno molto più della proverbiale goccia nel mare. Nell’ambito dell’iniziativa «Generazione M» Migros si è impegnata ad ampliare del 75 per cento la sua offerta di prodotti Max Havelaar.
* Redattore di Migros Magazin
* Redattore di Migros Magazin
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Società e Territorio Una scuola più interattiva Progetto sperimentale alla Scuola media di Breganzona: con OpenCampus nasce una piattaforma informatica, con tanto di lavagne interattive pagina 4
Le spoglie dei Re Magi Secondo la leggenda, vennero rinvenute a Costantinopoli, poi portate a Milano, dove rimasero per mille anni, quindi finirono a Colonia, ma qualche reliquia tornò a Milano pagina 5
Nicolaus Germanus, Mappa del mondo basata sulla descrizione del geografo Claudio Tolomeo (II secolo d.C.), 1467. (Wikimedia)
Quando la Terra divenne più piccola Teorie evolutive Le civiltà delle due sponde dell’Atlantico s’incontrarono prima di Colombo? Lorenzo De Carli Homo sapiens è una specie nata una sola volta in un solo luogo. Avrebbe potuto benissimo non nascere affatto. Qui per caso, siamo migrati per tutto il pianeta. Dal punto di vista evolutivo, la nostra origine è «cespugliosa», avendo convissuto con altri ominidi, talvolta anche fino a quattro o cinque diversi da noi. Dal punto di vista culturale le nostre certezze oscillano: in certi momenti abbiamo pensato che popolazioni geograficamente lontane abbiano compiuto lo stesso sviluppo culturale verso una sempre maggior complessità sociale; in altri momenti abbiamo pensato che molte invenzioni abbiano avuto luogo in una sola regione e che si siano diffuse nella misura permessa dagli ostacoli geografici, dal clima o dalle risorse disponibili. Determinismo contro diffusionismo. Sono state conservate statuette, affreschi e mosaici di epoca romana che raffigurano degli ananas. Com’è possibile, se il frutto ci è giunto dal continente americano? Sono maldestre rappresentazioni di frutti irriconoscibili? Nel Sumario de la natural historias de las Indias, nel 1526 Gonzalo Fernandez de Oviedo si compiace di veder ripro-
dursi così bene le galline spagnole in territorio americano ma si sorprende anche di veder girare per il paese galline nere, selvatiche, grandi come tacchini che nulla hanno a che fare con quelle spagnole. Com’è possibile, se le galline sono state domesticate una sola volta in Asia. Questi fatti sono indizi di contatti, in epoca precolombiana, tra le popolazioni della Mesomerica con il continente asiatico, o con quello europeo? I genetisti hanno osservato che al corredo genetico degli attuali discendenti dei Maya hanno contribuito in maniera significativa antenati di un gruppo etnico di origine etrusca e antenati Bantu. Si può presumere che si tratta di incroci avvenuti in epoca coloniale. Ma perché queste tracce genetiche non sono presenti nel corredo degli Aztechi? Gli Spagnoli avevano un predilezione sessuale per le donne Maya? Bisogna essere estremamente cauti nel dar risposte a queste domande perché, allo stato attuale delle ricerche, non ci sono dati che documentano con certezza contatti precolombiani tra le due sponde dell’Atlantico, sebbene sia sempre stata molto sottovalutata la «scoperta dell’America» fatta dai Vichinghi verso l’anno 1000; tanto più sottovalutata, in quanto non solo
c’è un filo conduttore (fatto di saperi e pratiche trasmesse tra gente di mare) che lega le scoperte vichinghe ai viaggi dell’epoca delle grandi scoperte geografiche, ma anche in quanto si è a lungo sottovalutato la capacità di navigazione degli antichi. In realtà, stando alla documentazione che è possibile acquisire dai geografi greci dell’antichità, ci si rende conto che nell’Europa latina del Medioevo la nautica era scesa ad un livello particolarmente basso, così come la conoscenza geografica, e ciò soprattutto a causa di un errore di Tolomeo, all’origine anche degli errori di calcolo di Cristoforo Colombo, che sottostimò le dimensioni della Terra, nonché della perdita delle metodologie scientifiche della geografia matematica e della cartografia. Sullo specifico errore di Tolomeo e su come, ad un certo punto – subito dopo la distruzione di Cartagine e di tutta la sua cultura marittima e geografica da parte dei romani nella terza guerra romano-punica (dal 149 a.C. al 146 a.C.) – si persero le conoscenze matematico-geografiche degli antichi (in particolare quelle di Eratostene), producendo l’effetto di rendere più piccola la Terra, scambiando – sotto il comune nome di Isole Fortunate – le Canarie
con le Piccole Antille, ha compiuto ricerche molto interessanti lo storico della scienza Lucio Russo, sintetizzandole nel volume intitolato L’America dimenticata. Russo è docente universitario di Calcolo delle probabilità e filologo classico interessato soprattutto alla matematica, e nella recente ristampa del libro l’autore risponde punto dopo punto alle critiche mossegli dagli studiosi. Incrociando le fonti di Tolomeo, nel quadro di un drammatico collasso culturale avvenuto nel II sec a.C. causato dall’espansione romana, ha ricostruito l’origine di due errori nella Geografia di Tolomeo, che hanno avuto grandi effetti sulla civiltà europea. A causa di questi errori, il mondo conosciuto si trovò notevolmente rimpicciolito, al punto che i resoconti di antichi viaggi e traversate apparvero come fantasiose leggende. I due errori compiuti da Tolomeo sono questi: le longitudini associate alle 6345 località riportate nel suo Geografia sono affette da una dilatazione sistematica, inoltre Tolomeo assegna ad un grado di meridiano la lunghezza di 500 stadi invece dei 700 assegnati da Eratostene. Secondo Russo, geografi greci come Eratostene e Ipparco avevano una compiuta conoscenza delle dimensioni del nostro pianeta, mentre Fenici pri-
ma e Cartaginesi dopo di loro avevano conoscenze nautiche più che sufficienti per attraversare regolarmente l’Atlantico. Su quali documenti si basa? Non abbiamo testi Maya perché gli spagnoli li distrussero tutti. Poche ed enigmatiche sono le conoscenze che abbiamo dei Fenici, così come quelle dei Cartaginesi. La biblioteca di Alessandria – di cui Eratostene era stato direttore – conobbe il rogo. Russo deve basarsi solo su fonti indirette. Egli, però, sostiene che «nelle scienze esatte, se si introduce un’ipotesi semplice, coerente con le teorie già accolte, non contraddetta da alcun fenomeno, che riesce a spiegare, anche quantitativamente, molti fatti altrimenti misteriosi e privi di relazione reciproca, non vi è dubbio che l’ipotesi divenga il fondamento di una teoria accettata». Se assumiamo questa prospettiva, allora dobbiamo riconsiderare l’ipotesi dell’esistenza di rapporti tra Vecchio e Nuovo Mondo e con essa l’ipotesi di scambi tra le civiltà del nostro pianeta che ridanno vigore all’idea del diffusionismo – oggi, in epoca di reti globalizzanti, a tal segno famigliare, da indurci a ritenere che il contagio delle idee è il modo stesso in cui si diffonde la conoscenza.
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Società e Territorio
Vasto, aperto campo del sapere Insegnamento Progetto sperimentale alla Scuola Media di Breganzona: con OpenCampus
nasce una piattaforma informatica, con l’uso di lavagne interattive, che permette a docenti e allievi una maggiore condivisione di informazioni Stefania Hubmann È la piattaforma OpenCampus il cuore del progetto sperimentale di utilizzo delle risorse digitali nell’insegnamento che coinvolge quest’anno tutta la Scuola Media di Breganzona. Circa 300 allievi e quasi 40 docenti partecipano a più livelli alla prima iniziativa di questo genere nella scuola dell’obbligo. Ciò avviene in una sede scolastica sempre stata all’avanguardia per quanto riguarda l’informatica. Manuela Gerber, insegnante di matematica, ha maturato un’esperienza di oltre trent’anni quale responsabile del settore, promuovendo con entusiasmo gli strumenti che le nuove tecnologie hanno di volta in volta messo a disposizione degli insegnanti. Un’evoluzione veloce, ulteriormente accelerata dall’avvento di internet, da seguire superando barriere psicologiche e problemi tecnici. Difficoltà cui devono far fronte docenti ed esperti del settore, mentre gli allievi sviluppano con piacere un approccio attivo e personalizzato all’apprendimento grazie a risorse della loro stessa generazione. La prima lavagna interattiva è stata appesa nella Scuola Media di Breganzona una decina di anni fa per iniziativa della professoressa Gerber che ancora oggi la considera un grande atout, a maggior ragione in relazione all’uso della piattaforma. Se fino a pochi anni fa l’introduzione dei dispositivi digitali era piuttosto mirata, finalizzata a una precisa utilizzazione, oggi è diventata parte integrante dell’insegnamento. Questa realtà, già diffusa a livello universitario, è presente sul territorio cantonale con programmi sperimentali avviati dapprima in alcune scuole superiori. L’esperienza in corso a Breganzona è quindi destinata a rivestire un ruolo pionieristico per le altre sedi di scuola media. Il Dipartimento dell’Educazione, della Cultura e dello Sport ha affidato il compito di sostenere e coordinare questi progetti al Centro di risorse didattiche e digitali (ex Centro didattico cantonale). Progetti che rientrano pure nelle modalità della grande proposta di riforma «La scuola che verrà», come sottolineano Manuela Gerber, capoprogetto in sede, e Remigio Tartini, esperto di matematica e informatica per la scuola media. Il ruolo del Cantone è di fondamentale importanza anche quale garante di un accesso sicuro alla rete. Remigio Tartini precisa che «la piattaforma OpenCampus è stata sviluppata
I docenti potranno condividere materiale didattico e conservare sulla lavagna interattiva le lezioni passate. (Manuela Gerber)
dalla Scuola Specializzata Superiore di Economia (Sezione di informatica di gestione) partendo da quella destinata alle scuole superiori con particolare attenzione alla fascia d’età degli allievi di scuola media. Durante questa fase sperimentale siamo in costante contatto con la Scuola di Bellinzona che adatta e migliora i dispositivi della piattaforma sulla base delle nostre segnalazioni». L’impegno di Manuela Gerber si concentra sul supporto ai docenti. Dopo un corso di formazione organizzato lo scorso agosto, li segue da vicino per risolvere velocemente ogni problema in modo da evitare scoraggiamenti e abbandoni. «In questi anni ho sempre invitato le colleghe e i colleghi a provare i dispositivi digitali disponibili in sede. La piattaforma è stata introdotta nel 2014/2015 in forma limitata coinvolgendo solo le tre classi di terza e due quarte. All’attuale progetto globale il corpo insegnante è quindi giunto per gradi. Il sostegno costante è indispensabile, perché i cambiamenti sono numerosi e sostanziali. In pratica è necessario ripensare la didattica e impostare le lezioni in modo diverso. Ho però notato che per alcuni insegnanti l’innovazione è molto stimolante. Certo ci vuole flessibilità e creatività». La Scuola Media di Breganzona è oggi dotata di quattro lavagne e un beamer interattivi. Due aule sono attrezzate con i computer e da quest’anno scolastico sono stati introdotti anche i tablet,
per cui esiste una sorta di «aula mobile» (composta da un carrello con 24 tavolette) utilizzabile nelle varie sale. Già nell’anno scolastico 2014/2015 la responsabile del progetto si è accertata che tutti gli allievi coinvolti avessero a disposizione dispositivi per accedere alla piattaforma dal domicilio evitando disparità. I genitori sono stati informati e la scuola è stata oggetto di alcuni interventi per potenziare la rete wi-fi oggi estesa all’intero edificio. Pure coinvolta la classe di scuola speciale che si trova nella sede. Come si svolge allora in concreto una lezione all’epoca della e-education? Risponde Manuela Gerber: «La piattaforma è l’essenza del progetto con lavagna interattiva e computer o tablet nel ruolo di strumenti di comunicazione e accesso. La lavagna interattiva ha il grande vantaggio di conservare la storia delle lezioni, come un computer. Il docente può ad esempio riprendere in aula una scheda teorica che si trova sulla piattaforma, svilupparla con gli allievi e caricare il nuovo materiale al termine della lezione. Possono inoltre essere messi a disposizione, in tempi diversi, serie di esercizi e relative soluzioni. Comunque, quando lavorano in classe con computer o tablet, i ragazzi interagiscono tra loro e con il docente in modo tradizionale, passando con naturalezza dalla carta allo schermo e viceversa». Alla piattaforma digitale spetta
una funzione centrale proprio perché offre molteplici possibilità di impiego, suddivise in due tipologie di strumenti: risorse e attività. Manuela Gerber fornisce ulteriori esempi. «Gli allievi apprezzano molto la possibilità di redigere e consegnare in forma elettronica testi e ricerche. Opencampus facilita inoltre lo scambio d’informazioni e opinioni fra i compagni (forum) come pure le possibilità di approfondimento attraverso link mirati. Ha inoltre una funzione pratica, perché l’allievo può controllare a distanza l’albo assenze, l’orario e le scadenze settimanali». Gli studenti, oltre a una grande concentrazione in classe, dimostrano maggiore coinvolgimento, responsabilità e capacità di organizzare il proprio lavoro. L’esperienza sta arricchendo l’apprendimento e l’insegnamento, oltre a rappresentare una vera e propria educazione digitale. Manuela Gerber e Remigio Tartini evidenziano infatti come la formazione e la prevenzione legata a un uso consapevole e corretto della rete siano indispensabili, poiché gli adolescenti peccano per natura di troppa fiducia. I monitoraggi rilevano un forte interesse per quanto attiene l’uso di OpenCampus da casa e un senso si responsabilità nel ricorrere alla chat. Altro riscontro da parte degli studenti è l’aumento dell’intensità della lezione con la riduzione dei tempi morti. L’introduzione di questi strumenti
di bonobo orfani diventati adulti, irrompe al centro un gruppo di soldati ribelli che massacra tutti gli uomini e le donne rimasti in servizio. Sophie riesce a nascondersi e da lì inizia la sua disperata fuga, accompagnata da un gruppo di bonobo – con cui giorno dopo giorno impara a convivere e a condividere le possibilità di salvezza – e soprattutto da Otto, un bonobo da lei salvato qualche tempo prima, con il quale ha stabilito una relazione profonda e intensa. Eliot Schrefer, l’autore, conosce bene la realtà di cui scrive, l’ha vissuta in prima persona, e ci offre una storia che non è solo un romanzo mozzafiato, o un reportage vividissimo sui primati, ma è anche un racconto etico e politico: è morale preoccuparsi della sofferenza non umana in un paese in cui è in atto una così grave crisi umanitaria?, si chiede la protagonista. Sì, ovviamente, perché la modalità di sfruttamento e sopraffazione in cui «trattiamo l’ambiente è
inestricabilmente legata a quella in cui trattiamo gli altri esseri umani».
offre a docenti e allievi la possibilità di ampliare e migliorare le fonti del sapere. Come resistere alla tentazione di sfogliare virtualmente un antico libro altrimenti inaccessibile? O di sfruttare le immagini nello studio della geometria grazie al software geogebra? Queste risorse favoriscono un’attitudine analitica e critica anche rispetto alle immagini. Attraverso la piattaforma digitale i docenti possono condividere materiale didattico, intensificare gli scambi reciproci e disporre di maggiori possibilità di approfondimento, ciò che permetterà in futuro di promuovere una maggiore equità fra le diverse sedi di scuola media. Gli altri istituti manifestano ovviamente grande interesse per il progetto sperimentale. Manuela Gerber ha già ricevuto richieste di formazione da parte di diverse scuole medie. L’intento è di preparare alcuni docenti al ruolo di figure di supporto per i colleghi della propria sede. L’utilizzo regolare ed efficace della piattaforma OpenCampus e degli strumenti del web 2.0, rilevano in conclusione Manuela Gerber e Remigio Tartini, favoriscono la comunicazione, la condivisione della conoscenza e la cooperazione tra docenti, tra studenti e studenti-docenti. Da rilevare, infine, l’immediatezza e la semplicità di utilizzo di questi mezzi destinati a diventare parte integrante della scuola che verrà.
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Eliot Schrefer, In pericolo, Il Castoro. Da 13 anni Con il ritmo teso di un’avventura di sopravvivenza, questo romanzo ci porta nella giungla del Congo Kinshasa, un paese ferito dalla violenza e dalla corruzione, dominato da fazioni anarchiche che terrorizzano la popolazione: «la Repubblica Democratica del Congo: il paese in cui anche i buchi di proiettile hanno buchi di proiettile», come annota fin dalla prima pagina Sophie, la giovane protagonista, nata in Congo da madre congolese e padre americano, e poi trasferitasi in America col padre dopo il divorzio dei genitori. Questo territorio, attraversato dal fiume omonimo (il Congo è il secondo fiume al mondo), è anche l’habitat dei Bonobo, scimmie antropomorfe simili fisicamente agli scimpanzè ma molto diverse per comportamento: nella società dei Bonobo non c’è sopraffazione, le relazioni si improntano ad un sostanziale
pacifismo e sono le femmine a governare. I Bonobo, che condividono con noi più del 98% del patrimonio genetico, sono una specie protetta, ma il governo congolese fatica a controllare l’incessante minaccia dei cacciatori di frodo e dei trafficanti. Per questo è coraggiosa l’attività di chi, come la madre di Sophie, gestisce i centri di salvaguardia per questi animali. E proprio in uno di questi centri, dove Sophie è giunta per trascorrere l’estate, ha inizio l’avventura. Mentre sua madre si è temporaneamente trasferita in una zona più interna per reinserire nell’ambiente un gruppo
Sergio Ruzzier, Una lettera per Leo, Topipittori. Da 4 anni Le parole sono poche, giustamente, perché le immagini, e soprattutto il dettaglio delle espressioni degli occhi di Leo, furetto-postino, raccontano tutto, in ogni sfumatura di emozioni. Leo porta ogni giorno la posta ad ognuno: lettere, cartoline, pacchi e pacchetti. E quando ha tempo si ferma volentieri per due chiacchiere, o uno spuntino, o una partitella a bocce. Leo è contento di ciò che ha e di ciò che vive, l’unico dispiacere è che a lui una lettera non l’ha mai scritta nessuno. Un giorno però nella bucalettere trova... non una lettera ma un uccellino, troppo piccolo per seguire il suo stormo e rifugiatosi lì ai primi freddi. Sa dire solo cip, Leo lo chiama Cip e lo accoglie in casa. Un nome e un’accoglienza. Riconoscimento e
affetto quotidiano. Sono una famigliola, Leo e Cip, tenera e improbabile, e insieme trascorrono l’inverno, poi la primavera e poi tutto l’anno. Finché è di nuovo autunno, Cip ormai è grande, ed è «pronto per partire». È tempo di dirsi addio, è un tempo triste ma l’amore è anche questo. Tuttavia forse è solo un arrivederci: infatti un giorno anche per Leo arriva una lettera. Una lettera che prelude a un ritorno ma che dice solo cip, perché ci sono dei momenti preziosi e intensi – come quelli che racchiude questo delicatissimo libro – in cui tante parole non servono.
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Società e Territorio
Le reliquie sparse dei Re Magi
Tutto per la vostra salute.
Leggende religiose Da Betlemme
Erste Hilfe bei Verletzungen und Erkrankungen
a Costantinopoli, poi a Milano, quindi a Colonia: il cammino delle presunte spoglie dei tre Re Laura Patocchi-Zweifel Le impronte più profonde che ci riconducono ai Magi risalgono a un’epoca ben lontana dalla nascita di Cristo. Sebbene il cammino dei «magusàioi» venuti da Oriente seguendo la stella di Betlemme è brevemente accennato nel Vangelo di Matteo (II, 1-12), il loro misterioso intervento trova un’interpretazione storico-leggendaria compiuta solo molto più tardi nel periodo medievale, grazie a una vasta produzione letterario-religiosa e iconografica. Una versione della tradizione bassomedievale narra che i tre sovrani ritornano da Betlemme in Oriente, in India, dove dopo essere stati ordinati vescovi dall’apostolo Tommaso si sarebbero dedicati alla predicazione e a opere caritatevoli morendo molto anziani e martiri.
Fu il vescovo Eustorgio a traslare le reliquie dei Re Magi da Costantinopoli a Milano nel IV secolo, dove rimasero per 1000 anni Dando credito a ricostruzioni leggendarie i resti dei Magi furono trovati da Elena, madre dell’imperatore Costantino, durante un suo pellegrinaggio a Gerusalemme e in seguito traslati a Costantinopoli nella chiesa di Santa Sofia. Nel IV secolo su iniziativa del vescovo Eustorgio le reliquie dei Re vennero trasportate a Milano dove il prelato aveva ricevuto l’incarico di governatore. Le spoglie partirono da Bisanzio con un carro trainato da due vacche guidato dallo stesso Eustorgio. Durante il tragitto vennero attaccati da un lupo feroce che sbranò una delle mucche. Non potendo continuare il viaggio il vescovo convinse la belva ad aggiogarsi e quando giunse all’ingresso della città, l’attuale Porta Ticinese, nei pressi del fonte detto di san Barnaba, sacro per i battesimi dei primi cristiani, il sarcofago contenente i corpi dei Magi si appesantì a tal punto da far sprofondare il carro nel fango immobilizzandolo. Eustorgio interpretò il fatto come un segno divino e decise di erigere in quel luogo la basilica con le reliquie dei Re d’Oriente ancora oggi a lui dedicata. Secondo una tradizione, allo scorcio del IV secolo, il vescovo Ambrogio regalò alla devota sorella Marcellina tre falangi dei Re che vennero custodite nel monastero da lei fondato a Brugherio
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fino alla loro traslazione nel 1613 nella parrocchiale di San Bartolomeo, dove sono tuttora contenute in un prezioso reliquiario d’argento. Se finora la storia si tinge di leggenda e non fornisce conferme sull’arrivo a Milano delle salme dei re Magi, ecco che le cronache del XII e XIII secolo riportano la reale vicenda del trasferimento dei loro resti a Colonia per volere dell’imperatore Federico Barbarossa. Correva l’anno 1164 e Milano era stata sconfitta, distrutta e saccheggiata due anni prima dalle truppe del sovrano germanico per avere rifiutato le direttive imperiali. Il bottino di guerra di Federico comprendeva le sacre reliquie dei Re Magi, tesoro simbolico che non poteva essere custodito e onorato in una città che si era macchiata di tradimento al suo signore. Simbolo di una sacra regalità quelle spoglie ricalcavano l’ideale di potere imperiale e divino. Il cancelliere del Barbarossa e arcivescovo di Colonia Rainaldo di Dassel, fautore del concetto di un nuovo culto cattolico-imperiale basato sulla monarchia sacra, fece trasferire i corpi nella città renana. Il viaggio delle reliquie fu dettagliatamente descritto dal carmelitano Giovanni di Hildesheim che nel 1364 riportò le 42 tappe effettuate dall’arcivescovo Rainaldo per il trasporto a Colonia, dove sono ancora custodite nell’Arca dei tre Re Magi del Duomo in un enorme sarcofago realizzato in argento dorato. La città di Milano venne così privata delle sue preziose reliquie. Il grande sarcofago di marmo grezzo portato dal vescovo Eustorgio, con l’iscrizione «Sepulcrum Trium Magorum» e con una stella cometa rimase vuoto. Nel corso dei secoli successivi Milano tentò invano di farsi restituire le spoglie dei Re. Solo nel 1903, il cardinal ambrosiano Ambrogio Ferroni, allora Arcivescovo di Milano, dopo una lunga ed estenuante trattativa riuscì a riportare alcuni frammenti ossei delle spoglie dei Re Magi (due fibule, una tibia e una vertebra), per concessione dell’Arcivescovo di Colonia Fischer, e il giorno dell’Epifania del 1904 li fece solennemente ricollocare in Sant’Eustorgio in un’urna di bronzo accanto all’antico sarcofago. Il 6 gennaio, Milano ricorda i Magi, facendo sfilare un corteo che da piazza Duomo arriva a Sant’Eustorgio. Questa manifestazione è attestata almeno dal Medioevo ed è uno degli eventi più amati dai milanesi, che vi assistono disponendosi lungo tutto il percorso.
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Società e Territorio Rubriche
L’altropologo di Cesare Poppi I giorni non battezzati Chiamano così nei paesi slavi i giorni che vanno dal Natale all’Epifania, i Dodici Giorni ovvero a cavallo fra il Natale e l’Epifania, con il Capodanno a fare da spartiacque fra una fase «ascendente» ed una «discendente» della sequenza. «Giorni non battezzati», che li pensano come pericolosi proprio perché Gesù, non essendo ancora «cristiano» per non essere stato circonciso – ovvero non essendogli ancora stato attribuito un nome – non era ancor in grado di contrastare quegli spiriti, o anime dei morti o demoni che dir si voglia che, secondo credenze diffuse in tutta Europa, salivano dagli Inferi a distribuire premi e punizioni ai vivi nel periodo liminale che segna il confine fra il Vecchio ed il Nuovo Anno. Da qui l’usanza tedesca di chiamare i Dodici Giorni «i giorni sporchi». Era questo un periodo fortemente connotato da valenze simboliche anche nell’antichità precristiana. I Padri della Chiesa – da Tertulliano ad Origene – a partire dai primissimi tempi dell’evangelizzazione, si sono scagliati contro le
usanze legate alle Kalende Januarii, e nella fattispecie contro le mascherate che, in tutta Europa, si susseguivano durante l’intero periodo. Fra tutte le maschere le più menzionate erano quelle del cervulus e della vetula. Nel cervulus è possibile identificare le tante maschere di animali cornuti che popolano ancor oggi i Carnevali tradizionali in molte parti d’Europa, prima fra tutte quella capra che guida i cortei mascherati in quasi tutta l’Europa Orientale, a volte soppiantata da un cammello od altro animale esotico. Occorre notare che nell’Europa Orientale, e tanto più in quella meridionale, dove le politiche culturali ecclesiastiche hanno fatto meno breccia nella cultura popolare, la Mascherata della Capra comporta molto spesso una pantomima nella quale la capra si ammala e muore (oppure viene uccisa) e viene compianta con lamentazioni funebri di carattere rituale, per poi resuscitare fra la gioia di tutti i presenti. In Greco antico, la trago(i)dia era verosimilmente un rito di carattere
padre degli Dei olimpici. La Befana di area italica ha a sua volta traghettato fino ai nostri giorni la figura di una Madre Terra con l’aiuto, per così dire, dell’antica religione germanica da un lato e con quello della nuova religione cristiana dall’altro. Secondo una tesi accreditata presso molti studiosi «Befana» sarebbe infatti composta da Berchta (Perchta) e da «Epifania»: «La Berchta dell’Epifania». Nel sistema simbolico germanico arcaico, infatti, Berchta era una divinità della luce (e dunque della rinascita del sole dopo il solstizio invernale), ma anche eroina culturale che aveva insegnato alle donne le arti femminili (viene per questo spesso rappresentata con un fuso in mano, da cui l’espressione italiana «ai tempi in cui Berta filava» per dire «in tempi antichissimi»). Si credeva dunque che la vigilia dell’Epifania Berchta si ponesse a capo della compagine degli spiriti infernali e passasse di casa in casa per assicurarsi che le donne avessero finito di filare tutto il lino e la canapa del raccolto precedente. Alle seguaci
laboriose veniva corrisposto un premio, mentre le pigre e inadempienti venivano punite. La Dodicesima Notte, ovvero la vigilia dell’Epifania, è considerata una notte magica in tutta Europa. Si credeva infatti che in quella notte gli animali parlassero raccontandosi un consuntivo dell’annata appena finita. Guai al contadino che tentasse di carpirne i segreti: molti furono trovati trasformati in pietre o ciocchi di legno mentre origliavano. Esattamente lo stesso motivo per cui, in tutte le Alpi ma soprattutto in quel trovarobe della cultura tradizionale europea che è il Tirolo, la vigilia dell’Epifania i pauern marcano le porte dei masi con le sigle dei Re Magi: M+K+B – altra misteriosa processione che ha preso il posto della nostra antica Dea della luce. Gran traffico dunque la notte fra il 5 ed il 6 gennaio: spettri, demoni, Berchte, Befane, Re Magi, Capre espiatorie e quant’altro. Facciano dunque attenzione i lettori dell’Altropologo che dovessero mettersi in strada: a tutti, ad ogni modo, un buon 2016.
fatto che questo episodio si inserisce, a suo dire, in una lunga storia di insuccessi. Freud chiama i fallimenti a catena «nevrosi del destino» e avanza il sospetto, per usare la sua metafora, che il treno deragli ancor prima di prendere velocità , non per sfortuna, ma perché è stato scelto appositamente a tale scopo. In altri termini, può darsi che, inconsciamente, lei si metta con la persona sbagliata proprio per assicurarsi che la relazione andrà a monte. Fin dall’inizio una serie di condizioni avverse le impedirebbero di contrarre un impegno matrimoniale che, in fin dei conti, non vuole assumere. Spesso, dietro a ripetuti fallimenti sentimentali si cela un trauma infantile: un conflitto familiare perturbante, una separazione dei genitori non elaborata e compresa, minacce materne quali «non sei fatta per il matrimonio!», «Non troverai mai quello giusto!». Emozioni
negative che fanno temere un’unione, che pur si desidera. In un caso clinico, che ho seguito alcuni anni fa, l’ostacolo era costituito, non dai genitori, ma dalla nonna materna, morta il giorno delle nozze della figlia. La nipote non l’aveva mai conosciuta e nessuno aveva più avuto il coraggio di rievocare quella tragedia. Ma il «non detto» si era inconsapevolmente tradotto in un blocco per la nipote che, per sottrarsi all’angosciosa minaccia che sua madre morisse come la nonna, preferiva trovare mille pretesti per interrompere il fidanzamento. Ora sappiamo che l’anamnesi psicologica, nel rievocare il passato del paziente, non deve fermarsi ai genitori, ma indagare anche sui nonni e persino sui bisnonni, perché certi traumi irrisolti scendono lungo i rami dell’albero genealogico senza che nessuno se ne accorga. Come vede, cara Claudia, non è la sola ad affrontare insuccessi predetermi-
nati. L’importante è diventare consapevoli che la nostra vita non inizia al momento della nascita ma che vi è una lunga storia che ci precede e che incide, volenti o nolenti, sulle nostre scelte. L’esortazione a scrivere la propria biografia non è soltanto consolatoria ma serve anche a sciogliere nodi che ci appaiono soltanto nel momento in cui si srotola il filo rosso del racconto. Il passato non è mai passato del tutto, il presente lo contiene ma, se ne siamo consapevoli, possiamo liberarci dai suoi vincoli e procedere oltre. Le auguro, cara Claudia, un anno che sia veramente «nuovo».
biare abitudini. A cominciare da quelle visive. Come è avvenuto, a ritmi sempre più accelerati, nell’era industriale, che è stata anche quella dello sviluppo della stampa: cambiava l’aspetto delle città e, in pari tempo, la critica e la satira trovavano nuovi canali d’espressione, giornali umoristici che, però, facevano opinione. A Londra il «Punch» prende di mira il padiglione inglese, dell’Expo 1851, tutto a vetri, e lo chiama «Crystal Palace»: definizione intenzionalmente scherzosa («un palazzo di cristallo: che roba è mai?») ma che poi diventa poi storica. A sua volta, nell’89, la Tour Eiffel si guadagna, sulle pagine del «Charivari», epiteti del tipo «torre vertiginosa e ridicola» e «odiosa colonna imbullonata». È, insomma, un’assurdità offensiva di cui si auspicava la demolizione. Citando questi episodi di ostilità nei confronti di costruzioni, considerate intrusi nella propria quotidianità e minacce per i valori tradizionali, si è soltanto agli inizi di un fenomeno sempre più ampio e non privo di ambiguità.
Sotto l’urto del consumismo, anche culturale, della sanità, della socialità, dell’istruzione popolare, del turismo e via enumerando sono cresciute nuove esigenze a cui rispondere. Soprattutto nell’ultimo dopoguerra, si sono moltiplicati i supermercati, gli stadi, i musei, i centri fitness, gli aeroporti, affidati alle capacità di una categoria professionale di notorietà internazionale. Sono le cosiddette «archi-star»: una definizione che, se sottintende fama e successo, implica anche il rischio della sovraesposizione mediatica, della critica a priori, di un’immagine caricaturale. S’intitola proprio «Caricature archtettoniche» (edizioni Quodlibet) il divertente volume in cui l’autore, Gabriele Neri, ricercatore presso l’Accademia di Mendrisio, racconta e documenta il tormentato itinerario di opere importanti, fraintese e infine vincenti. È stato il caso di Gropius e i compagni del Bauhaus, interpreti del rigore razionalista, e costretti, negli anni 30, ad abbandonare la Germania nazista. Ma anche, a New York, nel ’56,
estatico in onore di Dioniso, divinità di origine Trace (nell’odierna Bulgaria) che comportava lo sparagmos – lo smembramento rituale di una vittima sacrificale (capra, pecora o vacca, ma a volte anche un essere umano) da parte delle Menadi – le seguaci del dio da questi possedute. Il termine deriva da tragos (capra, animale cornuto) e idia (cantare): «il canto della capra». Questo ha fatto supporre che alla radice della tragedia della Grecia classica vi siano in realtà antichissimi riti propiziatori del passaggio dall’inverno alla p rimavera che comportavano la morte e la resurrezione di una vittima sacrificale (simbolo della morte dell’anno passato e della nascita dell’anno entrante) così come è ancora possibile leggere nelle mascherate della capra. Nella maschera della Vetula, invece, sarebbe possibile intravedere ancora, per quanto ormai in filigrana, una figura altrettanto antica di Gaia, o Gea, L’antica Madre Terra del pantheon ellenico preolimpico, moglie di Urano (il Cielo) e madre di Kronos – lo sfortunato
La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi La storia che ci precede Cara Silvia, che brutto periodo sto passando! E non che i precedenti fossero meglio. Solo ultimamente la mia vita stava imboccando il binario giusto. Ma, come mi è sempre accaduto in precedenza, il treno ha improvvisamente deragliato ed eccomi ancora una volta a piedi e, per giunta, lungo un binario morto. Se ha pazienza di ascoltarmi, cara Silvia, le racconto che cosa mi è capitato ultimamente. Premetto che ho 42 anni, single, un buon impiego, sana e vivace, dopo molte storie sbagliate ho (o meglio avevo) incontrato la persona giusta: dirigente nel ramo assicurativo, 48 anni, in procinto di separarsi, senza figli per sterilità conclamata della moglie. Sembrava la volta buona per metter su famiglia, come vuole la mia mamma. In tanti momenti d’intimità avevamo immaginato i due figli (un maschio e una femmina) che avremmo avuto insieme. Invece pochi giorni fa mi annuncia che la moglie è improvvisa-
mente rimasta incinta: la gravidanza è a rischio e d’ora in poi si dovrà occupare solo di lei. E chi s’è visto si è visto! Le sembra giusto? Perché solo io incontro sempre relazioni impossibili? / Claudia Cara Claudia, io la pazienza di ascoltarla l’ho avuta e, credo, anche i nostri lettori. Ora sta a lei riflettere su quanto scrive. Ma come può chiamare «binario giusto» mettersi con un uomo sposato e progettare di avere figli con lui quando non le ha dato alcuna prova di volersi separare, se non vaghe promesse, fumosi propositi? A 42 anni non è più una ragazzina e dovrebbe sapere che tutti gli uomini che tradiscono la moglie esibiscono le stesse, false credenziali: «tra noi non c’è più niente, non provo nulla nei suoi confronti, di noi manco si accorge, da anni non abbiamo rapporti, ecc. ecc.». Ma quello che più mi preoccupa è il
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di Luciana Caglio Archi-star nel mirino della satira
CdT - Scolari
Atteso, auspicato, temuto, controverso, il LAC continua a far discutere. Anzi, adesso che è cosa fatta, divide più che mai. E, mentre le autorità l’hanno adottato ufficialmente, esibendolo come simbolo dell’efficienza cittadina, il pubblico, invece, stenta ad accettarlo. A tanti, quello spuntone verde, che ne de-
finisce la fisionomia, proprio non va giù. Per non parlare, poi, delle incongruenze, vere o presunte, denunciate dai frequentatori della sala, che ospita concerti e spettacoli: accesso macchinoso, gradini pericolosi, sedili stipati e, persino acustica carente. Tanto da giustificare il rimpianto per il vecchio Palacongressi che, per molti anni, aveva a sua volta provocato lamentele, oggi dimenticate. Tutto ciò per dire che il nuovo disorienta sempre. In particolare quando concerne un’opera architettonica che, per la sua stessa fisicità, trasforma i luoghi, appartiene a tutti e si espone inevitabilmente ai malumori popolari. Si metta, quindi, il cuore in pace il nostro bravo Ivano Gianola che, del resto, si trova in buona compagnia. È la sorte, infatti, che spetta proprio agli autori di edifici che hanno lasciato un segno incisivo, persino rivoluzionario, nell’ambiente di vita privato e collettivo: determinando quel passaggio da un «prima» e un «dopo», che sconcerta un’opinione pubblica costretta a cam-
il Guggenheim di F.L.Wright fu male accolto. «Wrong or Wright?» (sbagliato o giusto?) s’interrogava il «New York Times». Nello stesso anno, fece polemica, per non dire scandalo, il progetto per il Teatro dell’opera di Sydney, firmato dal danese Jorn Utzon, che invece sarebbe diventato un’icona nazionale. E la satira non ha risparmiato neppure Frank Gehry, l’autore del Guggenheim di Bilbao, e finito nella serie animata dei «Simpson». Mentre, in un fascicolo di Topolino figura l’architetto «Enzo Pianoterra» e su un canale italiano Crozza fa l’imitazione dell’architetto Fucksas, che diventa Fuffa. C’è, indubbiamente, un aspetto amabilmente ridicolo nelle «archi-star» che, con la caricatura e la barzelletta, pagano il prezzo della fama. Con ciò, questa satira, a volte, copre dell’altro: la paura provocata dal nuovo che irrompe nel quieto vivere. Per non parlare, infine, dell’uso politico che un edificio innovativo subisce suo malgrado. E qui la satira non diverte più, insospettisce.
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Ambiente e Benessere Oro, incenso e mirra Come i preziosi doni dei Re Magi, anche l’albero dell’Epifania offre i suoi
Arriva «spiaggina» elettrica La Citroën dà una sterzata alla mitica Mehari orientando il nuovo modello al futuro grazie alla collaborazione con il Gruppo Bolloré
Come ieri, anche oggi Una ricetta del più grande cuoco ticinese di tutti i tempi, Martino de Rubeis, del XV secolo
Meglio una tartarughina… Come soddisfare la curiosità e l’esigenza di contatto con gli animali dei bambini?
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Il logo del progetto di ricerca per migliorare la mobilità. (GoEco)
GoEco, uno stimolo a cambiare Sostenibilità Ticino e Zurigo abbinati in una ricerca universitaria a favore della mobilità Loris Fedele È in corso il reclutamento di volontari per partecipare alla ricerca «GoEco!» che coinvolge tre istituti della Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana e uno del Politecnico di Zurigo. GoEco è un’applicazione per smartphone, i telefonini intelligenti, che mira ad aiutare chi lo volesse a cambiare la sua mobilità facendo scelte giudicate più sostenibili. L’idea di questa App vinse un anno fa il primo premio in un concorso promosso da SvizzeraEnergia. L’esperimento di GoEco è una ricerca che dovrebbe partire ufficialmente il prossimo mese di marzo. A tale scopo si stanno cercando 400 persone in Ticino e 400 a Zurigo disposte a diventare protagonisti della ricerca. Cosa si chiede loro? Prima di tutto devono avere un’automobile e uno smartphone. Inoltre devono essere motivati, devono voler provare a cambiare le loro abitudini di spostamento perché insoddisfatti del traffico e dell’inquinamento o di quanto spendono con la loro auto. A quelli che hanno già tanta motivazione e vanno in bicicletta, usano il treno e i mezzi pubblici e adoperano poco l’auto, l’applicazione GoEco non serve. La ricerca non tocca nemmeno l’automobilista incallito che per scelta o
per vera necessità non lascia mai l’auto. Il progetto GoEco si rivolge a chi sta in una posizione intermedia a queste due categorie. Si vuole capire se l’applicazione GoEco funziona e quali siano gli ostacoli effettivi che potrebbero impedirne la riuscita. Come opera? L’applicazione usa il GPS che c’è negli smartphone per localizzare l’utente. Tutti gli itinerari e i punti toccati nella giornata dalla persona vengono tracciati e registrati e vanno al server dove sono tenuti in custodia. Un algoritmo cerca di riconoscere il tipo di spostamento fatto dalla persona seguita, vedendo il tempo che ha impiegato, i chilometri che ha fatto, se si è mosso in treno o in auto e così via. Alla fine della giornata invia i dati registrati all’utente per una verifica. Li invia sotto forma di icone che mostrano un treno, una bicicletta o altro. Se il «beta tester» verifica che è tutto giusto, conferma, altrimenti segnala l’errore dicendo, per esempio, che quel tratto lo ha fatto in bicicletta e non in autobus. L’errore dell’App è possibile, soprattutto quando ci sono sovrapposizioni di percorsi stradali, come per auto e autobus. Tuttavia l’algoritmo è in grado di imparare e quindi dopo un po’ capisce le abitudini di spostamento dell’utente e corregge la sua interpretazione dello spostamento. In capo a un mese la App
troverà le abitudini di mobilità attuali di ogni singola persona e le fornirà all’utente. Seguirà una fase nella quale GoEco darà al partecipante dei suggerimenti sulle effettive e sensate possibilità di cambiare abitudini. Fornirà una lista che comprende: emissioni di CO2, consumi energetici spesi, percentuale di chilometri fatti in auto o col mezzo pubblico, insomma una serie di parametri di riferimento vedendo i quali l’utente sarà chiamato a scegliere e definire il suo obiettivo per un cambiamento personalizzato. Solo allora partirà la ricerca vera e propria nella quale, giorno per giorno, la App darà all’utente un riscontro di come sta andando rispetto all’obiettivo prefissato. Se è stato bravo e lo ha raggiunto subito, gli darà uno stimolo a porsi un obiettivo più complesso, se non riuscirà lo inciterà a provarci ancora, oppure abbasserà le aspettative. Questo succederà se l’App avrà verificato ostacoli o problemi oggettivi che hanno impedito all’utente di arrivare al livello di cambiamento voluto inizialmente. GoEco può fornire alternative: se vede che certi spostamenti fatti in auto possono essere sostituiti da scelte più ecologiche, con la stessa efficacia, gliele suggerisce. Tutto questo a posteriori, perché non si può interrogare il sistema
in tempo reale, prima di fare la scelta. Qual è l’impegno per l’utente? Deve scaricare l’App e rimanere con gli sperimentatori per un anno circa. Inizialmente un mese di monitoraggio, poi a tre mesi di distanza un altro monitoraggio di un mese. Quindi deve tenere accesa la App, se possibile, per cinque mesi e interagire con le funzioni che la stessa App gli offre. Durante i monitoraggi dedicherà tre minuti ogni sera per dare riscontro all’App dei propri spostamenti. In merito al possibile dubbio di sentirsi spiati da questo sistema, Francesca Cellina, una dei responsabili della ricerca, attiva nell’istituto ISAAC della SUPSI, spiega che «questo è un problema di fondo. Indipendentemente che sia un anno oppure un giorno il concetto è che l’App segue gli spostamenti della persona: però ne dà conto solo a lei e non ad altri. È chiaro che si tratta di un progetto di ricerca nel quale noi facciamo un accordo di confidenzialità con le persone. Non si porterà mai fuori il dato relativo al singolo, le analisi che faremo saranno sempre di tipo aggregato». La scelta di coinvolgere Zurigo e il Ticino nella ricerca è dettata dalla volontà di confrontare due contesti diversi. Una grande città, con infrastrutture per la mobilità e mentalità conseguen-
te, e una regione con grandi distanze, meno infrastrutture di trasporto pubblico, una orografia (rilievi del terreno) difficile per cui anche la bicicletta non sempre può funzionare e una mentalità da sempre auto-dipendente. Mettere a confronto campi così diversi, permette di trarre conclusioni utili. L’idea finale è anche quella di capire quali sono le barriere che ostacolano o impediscono il cambiamento al di là dell’applicazione GoEco. A questo scopo si prevede di fare anche dei Focus group e delle interviste con i partecipanti più motivati. Per quanto riguarda le candidature per il Ticino non c’è limitazione di area geografica, ma i partecipanti che si stanno iscrivendo vengono dalle zone urbane. Chi abita nelle valli e in contesti isolati probabilmente non ha nessuno stimolo al cambiamento e quindi a partecipare. Tra Zurigo e Ticino si punta ad avere entro febbraio 800 partecipanti, ma anche se fossero 600 si partirà ugualmente. In ogni caso il numero iniziale deve essere significativo per dare validità a tutta l’operazione e perché ci si aspetta un certo numero di abbandoni cammin facendo. Per partecipare è sufficiente compilare il formulario di adesione online sul sito www.goeco-project.ch. Nel sito si trovano anche il telefono e l’e-mail per ottenere informazioni e chiarimenti.
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Ambiente e Benessere
L’albero dell’Epifania Mondoverde Come i Re Magi, in questi giorni, anche Hamamelis mollis offre i suoi preziosi doni Anita Negretti Nei primi giorni dell’anno, quando solitamente il freddo si fa più pungente, Hamamelis mollis, un bell’arbusto alto fino a cinque metri, riempie di fiori gialli e vistosi i suoi rami spogli. Viene chiamato anche «albero dell’Epifania» perché proprio in questo periodo ci offre i suoi preziosi doni, come fanno i Re Magi: l’oro dei fiori, formati da petali lunghi, stretti, ondulati e un po’ arricciati, in grado di piegarsi su loro stessi se il termometro scende sotto i –5°C, tornando in posizione normale al risalire delle temperature. L’incenso è dato dal profumo lieve e delicato delle corolle, mentre la mirra è rappresentata dalla corteccia, le cui proprietà erano già ampiamente conosciute sin dai tempi degli indiani d’America che ne utilizzavano l’estratto della parte interna (della varietà Hamamelis virginiana) per curare ferite e infiammazioni agli occhi. Ancora oggi viene utilizzato puro o miscelato con altri ingredienti per offrire un’azione decongestionante specie per chi ha problemi oculari. Di facile coltivazione, è consigliabile piantarlo in prossimità della propria casa, per poterlo apprezzare da vicino, visto che il profumo lieve e delicato dei fiori è percettibile solo standogli accanto. Le corolle si schiudono tra fine dicembre e il mese di aprile, lasciando poi spazio alle foglie, che si presentano in H. mollis grandi, color verde lucido, tondeggianti, lunghe fino a quindici
Esemplare di Hamamelis mollis nel giardino botanico di Lipsia, Germania. (Tubifex)
centimetri e larghe fino a dieci centimetri. In pratica sono molto simili a quelle del nocciolo. Amante di posizioni a mezz’ombra, al riparo dai venti, si adatta a vari tipi di terreno, prediligendo quelli ricchi, ben drenati e leggermente acidi.
Molto rustici, affrontano il gelo invernale decorandosi ancor di più: sono infatti sconsigliati come arbusti da piantare in zone prettamente mediterranee, perché necessitano estati fresche e inverni freddi per poter produrre un fogliame interessante e una bella e ab-
bondante fioritura. Da settembre, infatti, le foglie assumono un colore giallo o rosso-arancio, divenendo molto appariscenti in giardino. In commercio vi sono molte varietà di H. mollis, specie originaria dell’Hubei, una provincia centrale della
Cina, dove cresce allo stato spontaneo nei boschi fino a 2500 metri di altitudine e dove venne raccolta per la prima volta nel 1879 dal cacciatore di piante Charles Maries. Appartenenti alla famiglia delle Hamamelidaceae, il genere Hamamelis si compone da otto specie, di cui solo quattro finiscono nei giardini, essendo le più decorative e facili da coltivare, a cui si aggiungono una vasta serie di ibridi e varietà. Un’ibridazione particolarmente ben riuscita tra H. mollis e H. japonica, ha dato origine a Hamamelis X intermedia, con tutta una serie di varietà selezionate presso vari arboreti sparsi per il mondo. Ad esempio «Diane», che prende il nome dalla figlia dei due ibridatori inglesi di questa varietà; presenta magnifici e numerosi fiori rossi, così come «Jelena», anch’essa a fiore rosso, il cui nome fu attribuito dal vivaista Robert De Belder, in onore della moglie. Se non disponete di un giardino, ma non volete rinunciare a ospitare questo bell’arbusto, potete coltivarlo anche in vaso, dal momento che sviluppa un apparato radicale molto contenuto e una crescita lenta. Fornitegli un contenitore di medie dimensioni, riempito di terriccio universale mischiato a uno acido e a un fertilizzante a lenta cessione. Non necessitano di potature, ma ricordatevi di bagnarli spesso, senza lasciare che il terriccio si asciughi troppo tra un’annaffiatura e l’altra. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Torna di moda la «spiaggina» Motori Presentata la nuova versione della mitica crossover cabrio, ma questa volta ecologica
Mario Alberto Cucchi Quando è nata, alla fine degli anni Sessanta, la chiamavano «spiaggina». Realizzata in abs (ndr: materiale plastico) era piccola comoda e leggera: ideale per il tempo libero. Stiamo parlando della mitica Citroen Méhari costruita dal 1968 al 1987.
La nuova vettura, ribattezzata E-Mehari, è una «ITcar» da 50 kW: la variante elettrica del modello del 1968 Nata con il pianale e la meccanica della famosa 2CV, ovvero la Due cavalli, di Méhari ne furono costruite 144’953 esemplari di cui 1213 a trazione integrale. In questi giorni il marchio francese ha presentato l’erede della «spiaggina». Si tratta di una vettura crossover cabrio che può ospitare 4 persone e che potrebbe arrivare in commercio già nella primavera del 2016. Un’automobile cento per cento green, ovvero ecologica. La propulsione è cento per cento elettrica e il motore è alimentato da batterie LMP (Lythium Metal Polymer) in grado di garantire una velocità massima di 110 chilometri orari e un’autonomia di 200 chilometri durante il ciclo urbano. E per caricare le batterie? Il pieno
si fa in otto ore a 16A collegando la Mehari ai sistemi compatibili (postazioni domestiche o pubbliche tipo Autolib) o in tredici ore utilizzando prese domestiche a 10A. Insomma, ecco il ritorno della mitica Mehari che Citroën orienta decisamente al futuro grazie alla collaborazione con il Gruppo Bolloré. La nuova vettura, ribattezzata E-Mehari, è una «ITcar» da 50 kW che andrà ad attrarre chi cerca di distinguersi con ottimismo e attenzione a trend e ambiente. Come la Mehari del 1968, la variante elettrica attuale ha i sedili posteriori ribaltabili, il tetto rialzato e una carrozzeria termoformata. Prodotta a Rennes, sarà lanciata a primavera. È conclusa da pochi giorni la Conferenza parigina Cop21 che si è posta l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura globale del pianeta sotto i due gradi, con target ultimo di +1,5 gradi. Ecco allora Toyota affermare subito di essere già più avanti rispetto ai nuovi limiti suggeriti dal Sumit. Infatti i giapponesi avevano anticipato i temi di Cop21 già due mesi fa annunciando gli importanti obiettivi ambientali da soddisfare nei prossimi 35 anni. In primis attraverso la riduzione della media globale delle emissioni di CO2 del 90 per cento entro il 2050 (rispetto alla media 2010). Per raggiungere il target, Toyota punta a vendite annuali mondiali dal 2020 di almeno 30mila vetture equipaggiate con celle a combustibile, a
Dal passato al presente.
consegne annuali di 1,5 milioni di ibride per arrivare a 15 milioni entro il 2020 e a ridurre di oltre il 22 per cento la media CO2 sui nuovi modelli. Intanto la Tesla Model S sta per raggiungere il traguardo delle 100mila unità immatricolate a livello globale dal lancio ufficiale, avvenuto tre anni e sei mesi fa. Meglio di lei, nel settore delle elettriche e delle plug-in, ha fatto soltanto la Nissan Leaf che ha supera-
to tale soglia in tre anni, mentre per la Chevrolet Volt c’è voluto più tempo. La pietra miliare sarà soddisfatta in questi giorni, considerando che a tutto novembre 2015 le vendite sono arrivate a 99’650 unità. Il mercato principale rimane quello americano che ha già assorbito oltre 60mila esemplari della Model S, seguito a debita distanza da Norvegia, Cina, Olanda, Canada e Germania. Infine
va detto che il marchio Volkswagen sarà presente al Consumer Electronics Show di Las Vegas, aperto al pubblico dal 6 al 9 gennaio, con una nuova concept elettrica. Il prototipo sarà svelato alla vigilia del CES dal responsabile del brand, Herbert Diess. La vettura anticiperà tutti i temi relativi all’elettrificazione che Volkswagen ha in serbo per i prossimi anni, con focus sull’incremento dell’autonomia. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 04 gennaio 2016 ¶ N. 01
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Ambiente e Benessere
Cipro e il vino dei Crociati Bacco giramondo Dopo la conquista dell’isola da parte
di Riccardo Cuor di Leone, nel 1191, la viticoltura si sviluppò fortemente grazie all’Ordine dei Cavalieri di San Giovanni Davide Comoli Per lungo tempo crocevia della navigazione nel Mediterraneo, Cipro coltiva il vino da più di 4000 anni. Euripide, poeta tragico greco (480-406 a.C.) nelle sue opere parla dei suoi viaggi. Uno di questi lo porta sull’isola dove degusta un vino chiamato: Chypro Nama. Dioniso, dio del vino e della vigna, è più volte rappresentato su mosaici con scene di vendemmie e libagioni rinvenuti a Paphos sulla costa sud-ovest dell’isola. Il vigneto cipriota conobbe momenti eclatanti durante l’epoca delle crociate. Dopo la conquista dell’isola da parte di Riccardo Cuor di Leone, nel 1191, la viticoltura si sviluppò grazie all’Ordine dei Cavalieri di San Giovanni, che comprendeva delle «commanderie» con molti terreni adibiti a vigneti. La viticoltura sull’isola subì però un arresto con la dominazione turca, durata dalla metà del XVI alla fine del XIX secolo, fino a quando nel 1878 l’esercito inglese non riconquistò Cipro. Il vigneto cipriota odierno s’estende per circa 22mila ettari (circa il 10 per cento del territorio agricolo). L’industria vitivinicola rappresenta un grosso indotto per l’economia del paese, tanto da dar lavoro direttamente o indirettamente a circa il 25 per cento della popolazione.
I vigneti sono concentrati soprattutto lungo i pendii montuosi dei monti Trödos, tra i 250 m sino ai 1200 m d’altitudine. I terreni dell’isola sono prevalentemente calcari, il clima mediterraneo con estati lunghe calde e secche; le piogge, molto attese dai vignaioli, cadono solo durante l’inverno, che qui è molto dolce, trasformando l’isola in un oceano di verdure. Tra la fioritura della vite e la piena maturazione dei grappoli, difficilmente cade qualche goccia d’acqua: il sole scalda per circa 320 giorni all’anno. Il periodo della vendemmia può durare anche due mesi e mezzo: la raccolta inizia già a partire dalla terza settimana d’agosto e termina in genere, sui pendii più alti, nella prima settimana di novembre. La maggior parte dei vitigni coltivati è «autoctona», come lo sono il Mavro e gli eccellenti Maratheftiko e l’Ophthalmo, entrambi rossi, e il Xynisteri, bianco. Questi antichi ceppi di vite sono a «piede franco», vuol dire che non sono stati innestati su «piede americano» come la prevalenza dei vitigni nel mondo. L’isola di Cipro è stata, infatti, risparmiata dalla «filossera» che causò la più grande calamità per il vigneto mondiale tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Dopo l’invasione turca nel 1974 e la spartizione con la Grecia sono stati
introdotti anche i vitigni internazionali rossi come: il Cabernet Sauvignon, il Syrah, il Carignan, il Mourvèdre e il Grenache. Nel 1980 il governo greco-cipriota, incoraggiò la creazione di piccoli vigneti indipendenti da parte degli abitanti dei villaggi di montagna. Dieci anni più tardi un vero cataclisma piovve tra capo e collo sui circa 6000 coltivatori indipendenti e sulle 30 aziende che producevano il vino: scomparvero i due mercati più importanti per l’isola. Da una parte la caduta del Muro e quindi la perdita del mercato sovietico e dall’altra i celebri vini ciprioti largamente commercializzati sotto l’improprio nome di Sherry o Xérès, plagiando così la produzione spagnola, passarono di moda e il mercato con la Gran Bretagna fallì. Oggi le grandi cantine dell’isola sono tutte raggruppate nella regione di Limassol, situata vicino alle zone di produzione e dotata di un moderno porto. La viticoltura si sta lentamente riprendendo dopo ben 14 anni di clima molto secco che hanno ridotto di molto il raccolto annuo. Il 95 per cento delle uve è trasformato in vino dalle quattro aziende più importanti sull’isola: la Etko, la più vecchia cantina cipriota, fondata nel 1844, la Loel specializzata nei Chardonnay e nei Cabernet Sauvignon, la Sodap che dal 2004 sta vinifi-
Incisione del 1878 che raffigura giare del vino dei vigneti del castello di Sant’Ilario, un castello medievale del X secolo. Si trova sulla catena montuosa di Kyrenia, nei pressi dell’omonima città, a Cipro.
cando nella sua cantina ultramoderna a Kamanterena, riunendo piccoli produttori di 144 villaggi, la Maratheftiko Heritage, conosciuta soprattutto per il suo vino Commandaria. Altri buoni produttori sono: Fikardos Winery, Marios Kolios, Linos Tsiakkas, Aes Ambelis. Cipro può vantare un grande e storico vino, il Commandaria. Ci si domanda se realmente è il più antico vino del mondo, prodotto con uva appassita, di vere origini cipriote. C’è qualcosa di misterioso e nello stesso tempo meraviglioso nell’assaggiare un vino che è rimasto lo stesso durante i secoli, e si può solo avere la speranza che la moda del gusto internazionale non faccia diventare troppo moderno il suo gusto rischiando di far scomparire questa antica rarità dell’enologia. Già il poeta greco Esiodo (VIII-VII sec. a.C.) nelle sue «Opere» descrive il «Chyprus Nama» antenato del Commandaria lodando la sua dolcezza e soavità. Fu apprezzato da Riccardo Cuor di Leone quando soggiornò sull’isola e si dice che il sultano
Sulayman volle conquistare l’isola per questo vino che amava in modo particolare. Oggi il celebre Commandaria è prodotto alla stessa maniera e negli stessi villaggi come ai tempi dei Crociati sotto il comando di Guy de Lusignan. Le uve Mavro (rosse) e Xynisteri (bianche) sono fatte appassire distese al sole per dieci giorni. Prima di essere torchiata, l’uva deve avere un tasso minimo di zucchero compreso tra i 330 g e i 450 g al litro. Dopo la torchiatura, la fermentazione che s’arresta da sola, dura dai due ai tre mesi e si ottiene un vino di circa 15 gradi alcolici, aggiungendo dell’acquavite. Dopo essere invecchiato in botti di rovere, dov’è stato lasciato un po’ di vino più vecchio per almeno due anni, il vino viene assemblato con vini (stesse uve) provenienti da zone diverse e imbottigliato. Dopo qualche anno diventerà uno dei vini liquorosi migliori al mondo, dolce come il primo bacio. Cipro non è forse il luogo natale di Venere? Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Una ricetta ticinese del Quattrocento Gastronomia Come arrostire pollame, capponi, capretti o qualunque altra carne che meriti di essere arrostita
Allan Bay Inauguriamo l’anno con una ricetta del più grande cuoco ticinese di tutti i tempi, Martino de Rubeis, quattrocentesco gigante della cucina. Eccola.
Una ricetta per arrosti: in chiave antica, come la descrisse Martino de Rubeis, e in chiave moderna, come la propone il nostro gastronomo di fiducia «Per fare bello arrosto de pollastri, de capponi, de capretti, o de qualunche altra carne che meriti esser arrosta: prima, se fosse carne grossa, fagli trare un boglio, excepto se fosse de vitello giovine, et poi lardala, come se fanno li arrosti; se fosse cappone, fasano, pollastro, capretto, o qualunch’altra carne, che meriti arrosto, fa’ che sia ben netta et polita, poi mettila in aqua bollente, et subito cavala fore, et ponila in aqua freda, et questo se fa aziò che sia più bella, et meglio se possa conciare; poi lardala, zioè con lardo bactuto, et altre chose convenienti odorifere onta bene, secondo el gusto del tuo Signore; et drento se te piace gli poni de bone herbe con prune secche, marasche, et viscioli o, in tempo, de l’agresto, et altre chose simile; poi mittila ordinatamente nel speto, et ponila al foco, et daglilo nel principio ad ascio ad ascio, perché sia bello et bono arrosto se deve cocere pian piano; et quando ti pare che sia presso che cotto, piglia un pane bianco, et grattugialo menuto, et con esso pane mescola tanto sale quanto te pare necessario per lo arrosto; poi gitta questa mescolanza de pane et de sale sopra lo arrosto in modo che ne vadi in ogni loco; poi dalli una bona calda de foco, facendolo voltar presto; et in questo modo haverai el tuo arrosto bello et colorito. De
poi mandalo a tabula; quanto più presto, è meglio». Essendo buono d’animo, ve la traduco, adattandola ai tempi di oggi. Per 6-8 persone. Procuratevi un bel pollo ruspante di 1,8 kg e 150 g di petto di pollo. Disossatelo e riempitene i vuoti sotto la pelle con il petto di pollo tagliato a pezzetti, quindi insaporitene l’interno con 1 bustina di zafferano, 1 cucchiaino di sale e 1 abbondante macinata di pepe. A questo punto sbucciate, private dei torsoli e tagliate a bastoncini 3 mele renette, mettendole per il momento da parte. Subito dopo, in un mortaio di marmo, pestate 15 bacche di ginepro e, in un padellino antiaderente, tostate leggermente 40 g di pinoli. Fate anche rinvenire, tenendola immersa per 30 minuti in una ciotola piena a metà di vino bianco secco, 300 g di frutta secca (un misto di uvetta sultanina, fichi secchi, prugne secche e albicocche secche), quindi scolatela, asciugatela e tritatela grossolanamente. A questo punto unite le mele tagliate a bastoncini, il ginepro pestato e la frutta secca in un’unica ciotola e cospargetevi sopra mezzo cucchiaino di sale, 1 pizzico di cannella e di zenzero in polvere, una grattugiata non eccessiva di noce moscata e una spolveratina di pepe. Amalgamate quindi con cura il composto e farcitene il pollo. Avvolgetelo infine in un foglio di carta da forno, legatelo con uno spago da cucina e mettetelo in pentola, piena a metà di brodo anche di dado, a bollire per circa 30’. Infine scolatelo, estraetelo dalla carta da forno, ricopritelo accuratamente con sottili strati di pancetta (in tutto, circa 100 g) e infornatelo, a una temperatura di 230°. Dopo 30’, abbassate la temperatura a 170° e fate proseguire la cottura per circa 15’. Ricordatevi, durante la cottura in forno, di irrorare di tanto in tanto il pollo con qualche cucchiaiata del suo brodo, affinché non secchi troppo. Accompagnate con una salsa agrodolce a vostro piacimento.
Brian Teutsch
e in questo caso anche farcita
CSF (come si fa)
Vediamo come si fanno due bevande di sempre. Sono facili anche se richiedono un po’ di pazienza dato che ci mettono un paio di mesi a maturare… Ma poi le godrete al massimo, fidatevi! L’idromele. È una bevanda alcolica di origini antichissime. Per cominciare, versate in un vaso di vetro provvisto di chiusura ermetica 350 dl di alcol a 95° e immergetevi 1 stecca di cannella,
0,5 g di chiodi di garofano e 1 scorzetta di limone privata della parte bianca. Lasciate in infusione per 10 giorni. Trascorso tale periodo mettete in una pentola 450 g di ottimo miele e 1 litro di acqua, portate a ebollizione e fate sobbollire a fiamma molto bassa fino a quando la soluzione non sarà dimezzata di volume. Una volta raffreddato, versate quindi lo sciroppo di miele così ottenuto nell’infusione alcolica precedentemente preparata. Mescolate accuratamente, imbottigliate mediante un imbuto internamente rivestito di una garza, tappate bene e, prima di gustarlo, lasciate che il vostro idromele «maturi» per un paio di mesi in un ambiente abbastanza fresco. È una bevanda piacevole e corroborante. Il rosolio. Questo antico e delicato liquore trae il suo nome dal latino ros
solis, poeticamente traducibile in italiano in «rugiada di sole». Potete prepararlo tranquillamente in casa mettendo per 5 giorni in infusione, in un recipiente di vetro contenente 1 litro di alcol a 90°, 100 g di buccia di limone, mi raccomando: solo la parte gialla!, 2 g di cannella, 4 g di fiori d’arancio, 2 g di rosmarino, 2 g di chiodi di garofano, 1 g di zafferano e una piccola punta di noce moscata grattugiata. Trascorsi i 5 giorni preparate uno sciroppo sciogliendo 300 g di zucchero meglio se bianco di canna in 5 dl di acqua. Unite quindi lo sciroppo, raffreddato, all’infusione alcolica; mescolate accuratamente, filtrate e imbottigliate. Prima di gustarlo, fate «invecchiare» il vostro delizioso rosolio per 2 mesi in ambiente asciutto e fresco.
Ballando coi gusti Oggi due preparazioni buone da mangiare, belle da vedere e che possono essere preparate con calma prima, per essere alla fine passate semplicemente in forno. Cannelloni con ricotta e verdure
Raviolini al gratin
Ingredienti per 4 persone: 12 rettangoli di pasta all’uovo · 300 g di ricotta · 700 g di verdure di stagione · 400 g di polpa di pomodoro · 1 cipolla · 1 spicchio di aglio · 1 rametto di rosmarino · noce moscata · prezzemolo · 1 dl di vino bianco secco · olio di oliva · sale e pepe.
Ingredienti per 4 persone: 400 g di raviolini · 150 g di prosciutto cotto in una sola
Mondate e tagliate a dadi le verdure e tritate la cipolla. Fate appassire in poco olio la cipolla tritata e l’aglio schiacciato, unite il rosmarino e le verdure. Mescolate, cuocete a fuoco alto, sfumate con il vino e cuocete per qualche minuto. Spegnete, fate intiepidire, eliminate l’aglio e il rosmarino. Passate il composto al mixer e amalgamatelo con la ricotta sbriciolata, sale, pepe e una grattata di noce moscata. Scaldate la salsa, salate, pepate e cuocete per pochi minuti, profumate con prezzemolo. Al centro di ogni rettangolo di pasta disponete un cilindro di farcia; arrotolate i cannelloni e adagiateli in una pirofila, irrorate con la salsa di pomodoro, coprite con alluminio per alimenti. Subito o poi (nel secondo caso conservate in frigorifero) cuocete in forno già caldo a 180° per 15’. Togliete l’alluminio e cuocete per altri 15-20’.
fetta · 50 g di fontina a fettine · 1 scatola di piselli fini · 1 piccolo barattolo di pomodori pelati · 1 cipolla · grana grattugiato · burro · sale e pepe. Fate soffriggere la cipolla affettata finemente, poi unite il prosciutto tagliato a dadini e fate rosolare finché il grasso non sarà diventato trasparente. Unite i piselli sgocciolati e fateli insaporire. Salate, pepate e aggiungete i pomodori spezzettati. Mescolate bene e lasciate cuocere per 10’. Cuocete i raviolini in abbondante acqua salata. Scolateli al dente, disponetene uno strato in una pirofila imburrata e ricopriteli con una parte della fontina. Distribuitevi uniformemente una parte del sugo e spolverate con abbondante grana. Formate un altro strato di ravioli, poi di fontina e di sugo. Cospargete la superficie con altro grana e qualche fiocchetto di burro.
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Ambiente e Benessere
Un binomio (quasi) perfetto Mondoanimale Non siamo obbligati ad adottare un animale domestico al quale, dobbiamo però essere in grado
di offrirgli una vita dignitosa
Il fatto che il Porcellino d’India appaia ai nostri occhi come un animale socievole e mansueto non è condizione sufficiente per fare di questo piccolo roditore un animale adatto a convivere con dei bambini, sebbene il luogo comune lo indichi idoneo. «Se ragioniamo dal punto di vista del benessere del bambino che sta con questo animale, probabilmente la cosa è vera», esordisce la veterinaria comportamentalista Petra Santini, la quale si cala però nei panni del roditore in questione: «Il Porcellino d’India è un animale molto predato in natura; dunque, quando le mani dei bambini si calano dall’alto per prenderlo, la sua sensazione è quella di una situazione analoga alla morte per predazione». Ecco spiegato perché esso si immobilizza, mentre noi umani pensiamo a questa sua paralisi come a una manifestazione di mansuetudine e socievolezza: «Invece il povero roditore non scappa e rimane immobile perché sta morendo di panico; ecco perché penso sia in realtà poco adatto alla convivenza con bambini, mentre necessita di un accudimento dolce e modi tranquilli che non lo mettano in ansia». Di fatto, la scelta di un animale domestico dovrebbe essere molto ponderata e comportare un’accurata ricerca di informazioni circa la natura dell’animale desiderato: «Considerazioni che, a maggior ragione quando l’animale viene accolto in una casa con bambini, vanno adeguate alla situazione famigliare senza però assolutamente trascurare il benessere dell’animale prescelto». Per l’animale non è cosa ovvia amalgamarsi alla sua convivenza con i piccoli umani che crescono, mentre è innegabile che i bimbi trarranno un grande beneficio dal contatto con il piccolo amico a quattro zampe. «Nella sua scelta dob-
US Fish and Wildlifre Service
Maria Grazia Buletti
biamo considerare un ampio ventaglio di esigenze legate alla natura dell’animale, come l’habitat di cui necessita, gli spazi, l’alimentazione e le cure che gli dobbiamo assicurare per tutta la sua vita; per ciascuno andranno poi studiati e rispettati gli specifici bisogni, differenti da animale ad animale: un coniglio, ad esempio, richiede tanto spazio, altri di meno, ma più strutture per arrampicarsi, e così via». Grazie alle considerazioni dell’esperta interlocutrice, scopriamo che pure la scelta di un gatto o di un cane da affiancare ai bambini va prima ponderata e poi gestita in maniera oculata: «Per rapporto al Porcellino d’India, il gatto ha maggiori possibilità di ritirarsi quando si sente importunato da un bambino, sempre che questi gli dia la possibilità di una via di
fuga, altrimenti sa come difendersi e potrebbe graffiare, ad esempio». In un certo senso, questo pericolo obbliga i genitori e il bambino stesso a prendere misure che rispettino l’animale e la sua stessa natura. Il cane è un animale più impegnativo del gatto, cosa che non va mai dimenticata: si illudono i genitori che pensano di poter regalare un cane al proprio figlio, perché la realtà è che egli non avrà mai la possibilità di occuparsene pienamente: «Sia il bambino che il cane vivono in una “fase educativa”; questo è il motivo per il quale il primo non è adatto a ricevere il compito e l’incombenza di educare il cane, cosa che viene demandata alla persona adulta». È dunque un grave errore lasciare un cane nelle mani di un bimbo senza un adeguato accom-
pagnamento, anche se «è vero che, con un cane consapevolmente scelto e seguiti in modo adeguato da una persona adulta (in questo caso i genitori e gli istruttori), cane e bambino possono formare una formidabile coppia di amici per la pelle, nella quale il piccolo umano potrà trovare un fidato confidente e un compagno con cui instaurare davvero un’intensa intesa». Ma, soprattutto durante i primi tempi, essi devono essere guidati e seguiti dagli adulti che devono assumersene la completa responsabilità, affinché nulla di spiacevole possa accadere né all’uno né all’altro: «Tanto più il bambino è piccolo, quanto maggiore dovrà essere la presenza dell’adulto che non dovrà mai concedere momenti vuoti: pensiamo al viso di un bimbo di tre o quattro anni e a quanto sia facile che
possa essere morsicato, a causa magari dell’aver importunato troppo l’animale o per un malinteso tra i due». La dottoressa Santini ci permette di riflettere sul fatto che, poi, questi siano momenti brutti sia per il bambino sia per il cane («sul quale spesso ricadono drastiche misure, anche se la responsabilità dovrebbe essere assunta dall’adulto che non ha sorvegliato a dovere bimbo e animale»). Per soddisfare la curiosità dei bambini e la loro esigenza di contatto con gli animali esistono alcune interessanti alternative: «Ci sono una serie di animali che potrebbero esistere all’interno delle nostre case o nei nostri giardini, che però non entrano troppo in relazione con noi e non sarebbero così impegnativi, pur appagando appieno lo spirito di curiosità e contatto dei ragazzi». Santini si riferisce, ad esempio, a un gruppetto di tartarughe per le quali i bambini possono interessarsi all’alimentazione, al loro habitat e alla loro osservazione, e che per contro non richiedono costante controllo e presenza fisica da parte nostra, né dei nostri figli: «Meno vengono disturbate e meglio è, non sentono la nostra assenza, ma si lasciano accarezzare e interagiscono tanto quanto basta coi bambini». Quindi non esiste l’animale «da coccole»: «Quello è il peluche, perché anche il gatto più tollerante giunge a un momento in cui dice chiaramente: “Ora basta!”». Molte le regole da insegnare ai bambini, strada facendo: «Regole di comportamento verso l’animale, segnali da imparare per capire quando deve essere lasciato in pace, approccio, cure e quant’altro». L’esigenza fondamentale della convivenza animale e bambini: «Il piacere non deve essere solo dell’essere umano, adulto o bimbo che sia, ma pure e soprattutto dell’animale al quale va sempre riservata una dignitosa qualità di vita».
Giochi Cruciverba «Sono un graduato, la gente mi agita! Ma poi mi prende sotto braccio!» Scopri di chi stiamo parlando, leggendo a soluzione ultimata nelle caselle evidenziate. (Frase: 3, 10)
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ORIZZONTALI 1. Manca di autorevolezza 6. Tessuto epiteliale 10. La Grandi cantante 11. Compose il «Bolero» 12. Iniziano al tramontar del sole 13. Ha un «carattere» esplosivo 14. Operetta poetica 15. Con me 16. Le iniziali del regista Spielberg 17. C’era una volta nelle fiabe 18. Sono di bell’aspetto 19. Sottile lamiera ricoperta di stagno 20. Furente 22. Sotto gli occhi di tutti 23. Congiunzione 24. Sottratto con l’inganno VERTICALI 1. Confusione 2. Un vivo... successo 3. Un vizio deleterio 4. Un quinto di five 5. Le iniziali del noto Elkann 6. Leggere imbarcazioni 7. Passa... in cucina 8. Pronome personale 9. Campi mitologici dell’oltretomba 11. L’attore Scamarcio 13. Carne inglese 15. Personaggio leggendario 16. Sono a coppie nei cassetti 18. Cortile delle case spagnole 19. Ultimo ad Howard 21. Nobili etiopi 23. Le iniziali di Torricelli
Sudoku Livello facile Scopo del gioco
Completare lo schema classico (81 caselle, 9 blocchi, 9 righe per 9 colonne) in modo che ogni colonna, ogni riga e ogni blocco contengano tutti i numeri da 1 a 9, nessuno escluso e senza ripetizioni.
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Soluzione della settimana precedente
IL PROVERBIO AUGURALE – Risultante: ANCHE LE UMILI DIMORE SON CASTELLI SE VI È AMORE.
T C A C E L O D P R P O A C A L V O I R M O O
D L A M E L I G C H R E R O E A I A M P A S E R I A L A V A N
V N I I A E V E O U T R I O M R D O I O S S I S A I R M E T A R E
A L M A G B E S E N O N E R E N N A N O T R T E I D È E C O L A S
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Politica e Economia La Gran Bretagna valuta se uscire dall’Ue Fra Londra e Bruxelles sono in corso negoziati per discutere le rivendicazioni del governo Cameron per la permanenza del Regno Unito in Europa. Le parti prevedono un accordo di sintesi nel prossimo vertice di febbraio prima del referendum in cui il popolo dovrà esprimersi su Brexit
Lotta al terrorismo L’Arabia Saudita si è messa alla guida di una nuova coalizione anti-Isis accanto a quella già esistente con a capo gli Stati Uniti. Segno che da una parte Riyad non si fida degli americani e che dall’altra vuole riaffermare il proprio potere sunnita in chiave anti-Iran pagina 15
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Un mondo più pulito. Anche più sicuro? L’album del 2015 Il bilancio del 12 mesi
Alfredo Venturi Fra le tragiche ombre del 2015 alcuni spiragli di luce proiettano su questo 2016 qualche ragione di moderato ottimismo. Per esempio l’anno che si aprì con la prima delle due stragi di Parigi si è concluso, sempre nella capitale francese, con una bozza di accordo sul controllo del clima. Non è certo il cessato allarme, ma almeno si è finalmente fatta strada nella comunità internazionale una nuova consapevolezza della questione climatica. I limiti concordati per le emissioni di gas nell’atmosfera, ammesso che le ratifiche li rendano operativi, non bloccheranno gli eventi meteorologici estremi che ormai fanno parte della nostra quotidianità, ma ne impediranno il catastrofico peggioramento, altrimenti inevitabile. Inoltre per la prima volta prende il via, sempre che l’intesa di Parigi entri effettivamente in vigore, un programma di massiccio trasferimento di risorse verso i paesi meno sviluppati, per indurli ad alimentare la loro crescita con energie provenienti da fonti non inquinanti. In via transitoria il metano dovrebbe gradualmente soppiantare, con buona pace della lobby petrolifera, gli altri combustibili fossili. Dunque la prospettiva è quella di un mondo tendenzialmente più pulito, o almeno più attento al rischio ambientale. Anche di un mondo più sicuro? Su questo piano le prospettive sono incerte e inquietanti. La pressione migratoria sembra destinata non solo a durare ma anche a crescere d’intensità, con tutto il suo carico destabilizzante. Tende ad approfittarne il terrorismo jihadista che purtroppo, è praticamen-
te certo, colpirà ancora. Non soltanto nel Medio Oriente, dove è sempre più intricato il nodo delle contrapposizioni storiche fra Israele e i vicini arabi, fra l’Islam sunnita e gli sciiti, ma anche in Europa. A parte quello che potrà accadere, è ormai routine il succedersi di allarmi, non solo da parte dei servizi d’intelligence ma anche di gente sconsiderata, che con un colpo di telefono può far sgomberare una scuola, o costringere un aereo all’atterraggio, poiché con i tempi che corrono è difficile ignorare simili segnalazioni. Eppure anche su questo terreno si registra qualche novità incoraggiante, che del resto potrebbe provocare per reazione una rinnovata attività terroristica. L’anno si è chiuso con alcuni sviluppi promettenti. Il primo: l’intesa promossa dall’Arabia Saudita cui partecipano trentatré altri paesi musulmani, per contrastare con tutti i mezzi la minaccia dello Stato islamico. È vero che la politica di molti fra quei paesi è intessuta di ambiguità e segrete connivenze con il nemico dichiarato, ma che l’iniziativa saudita sia efficace lo dimostra la dichiarazione con cui il califfo al-Baghdadi ha interrotto un lungo silenzio, ponendo la mossa di Riyad al centro della polemica e attaccando con durezza quei musulmani che invece di combattere Israele e i «crociati» prendono di mira i guerrieri di Allah. Altri sviluppi positivi sono l’intesa nucleare con l’Iran, nonostante la contrarietà del governo israeliano, e la conquista di Ramadi da parte delle forze irachene precedute dalle incursioni aeree della coalizione: anche perché l’esercito di Baghdad ha avuto l’appoggio di milizie sunnite, finora
Keystone
passati non è solo negativo. Qualche luce fra le mille ombre c’è stata
molto sensibili alle sirene jihadiste. Ora l’offensiva anti-Daesh punta alla riconquista di Falluja e soprattutto di Mossul, chiave strategica e simbolica dello Stato islamico. Altra crisi in evoluzione quella della Libia, dove la diplomazia è riuscita a far sedere allo stesso tavolo i governi di Tripoli e Tobruk, uniti dal timore del califfato. Lo sfondo psicologico sembra propizio: molti indizi rivelano che nel mondo arabo e più in generale islamico cresce l’avversione al terrorismo. La cosa non sorprende, visto che i miliziani di al-Baghdadi stanno compromettendo molte economie locali colpendo per esempio, in paesi come la Tunisia o l’Egitto, la fondamentale risorsa del turismo. Se da una parte seduce le frange musulmane mediorientali ed europee per varie ragioni sensibili alla radicalizzazione,
il jihadismo provoca anche una reazione di rifiuto, sempre più evidente anche se frenata dal timore dei terroristi neri. Il fenomeno riguarda anche la galassia al-Qaeda: significativo l’episodio registrato in Kenya, dove i passeggeri musulmani di un autobus assalito dai miliziani al-Shabaab hanno fatto barriera per difendere i cristiani presi di mira. Anche dall’altra parte dell’Atlantico si registrano fra mille problemi elementi positivi. Gli Stati Uniti condividono con il resto del mondo, nel tradizionale ruolo trainante, una congiuntura economica che pare avviata, sia pure a velocità ancora contenuta, sulla strada della ripresa. Il disgelo con Cuba può chiudere mezzo secolo di ostilità reciproca. La conferma e il rafforzamento di questa tendenza dipenderà in buona misura dall’esito delle
elezioni presidenziali in programma a novembre: il voto che chiuderà l’era Obama e che potrebbe offrire agli americani la possibilità di mandare alla Casa Bianca, dopo il primo presidente nero, la prima presidente donna, la ex first lady Hillary Clinton. Chiunque vinca la battaglia del voto avrà a che fare, a parte i grandi temi della politica mondiale e dell’economia, con due piaghe nazionali: una criminalità pazzoide e spesso stragista favorita dalla facilità di procurarsi armi da fuoco e l’interminabile serie di afroamericani vittime di poliziotti dal grilletto facile. Ma anche su questo punto si registra un piccolo segnale confortante: quella bandiera sudista, simbolo dell’odio razziale, che hanno finalmente ammainato davanti allo State Capitol di Columbia, South Carolina (nella foto).
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Politica e Economia
Brexit, Londra ci (ri)pensa Vertice europeo L’isolamento economico, la debolezza degli euroscettici, la minaccia terroristica e lo spettro
del nazionalismo sono alcuni dei motivi che spingono Cameron a non voler abbandonare l’Unione europea
Marzio Rigonalli Restare nell’Unione europea o partire? Scongiurare il «Brexit» o favorirlo? È la domanda che sta caratterizzando la vita politica britannica e che sarà al centro di un referendum popolare, che il primo ministro David Cameron ha promesso di indire forse già nel 2016, al più tardi nel 2017. Lo stesso Cameron non ha esitato a parlare di una decisione importante, forse la più importante che il popolo britannico prenderà in questa prima parte del ventunesimo secolo.
Un altro passo importante prima del referendum sarà il vertice di febbraio in cui si dovrà trovare un accordo definitivo con l’Ue La questione è esplosa nel 2013. Attaccato pesantemente dalla destra euroscettica del suo partito e dall’UKIP, il Partito per l’Indipendenza del Regno Unito, Cameron si è visto minacciato nel suo ruolo di primo ministro ed ha reagito promettendo di sottoporre al popolo la decisione sulla permanenza della Gran Bretagna nell’Ue. L’avrebbe fatto dopo aver chiesto e ottenuto dagli altri paesi membri una profonda riforma della Comunità europea. È stata una mossa politica che ha avuto un primo successo interno nella primavera del 2015 quando, alle elezioni legislative, i conservatori, smentendo i pronostici della vigilia, riuscirono ad ottenere la maggioranza assoluta ed a rimanere al potere senza dover contare sull’appoggio di altri partiti. Forte di questo successo e dopo non pochi tentennamenti, nello scorso mese di novembre, Cameron ha presentato a Bruxelles la sua wishlist, l’elenco delle rivendicazioni britanniche, destinato, secondo Londra, a modificare l’Unione europea ed a migliorarne il ruolo e l’azione. In sintesi, le richieste britanniche si lasciano riunire in quattro capitoli. Londra chiede all’Unione europea di essere: a) più competitiva, attraverso l’estensione del mercato unico, la riduzione della burocrazia e della regolamentazione, nonché l’aumento degli accordi commerciali con gli altri paesi; b) più democratica e rispettosa della sovranità nazionale, annullando per la Gran Bretagna la clausola contenuta nel preambolo del trattato di Roma, secondo la quale è previsto di costruire un’unione sempre più stretta, nonché di concedere ad un numero di parlamenti nazionali la possibilità di bloccare le decisioni prese dall’Ue; c) più rispettosa degli Stati che non fan-
Il premier inglese David Cameron con Angela Merkel. (AFP)
no parte dell’eurozona, per impedire che i paesi che hanno adottato l’euro possano prendere decisioni suscettibili di nuocere agli interessi della City e della sterlina; d) più libera nella gestione dell’immigrazione interna all’Ue, consentendo a Londra di frenare l’afflusso di immigrati dell’Europa dell’Est, con il blocco di alcune prestazioni sociali durante i primi quattro anni di permanenza sul territorio britannico. Sullo sfondo di queste rivendicazioni si delinea il tradizionale atteggiamento della Gran Bretagna nei confronti dell’Unione europea. Sin dall’inizio del processo d’integrazione europeo e, con ancora maggiore forza, dopo il suo ingresso in Europa nel 1973, Londra ha frenato i tentativi di maggiore integrazione intrapresi a veri livelli e si è sempre schierata per un’Europa minimalista, fondata essenzialmente sul mercato unico. Il continente vien visto regolarmente come un grande mercato, un’area propizia per concludere affari commerciali e finanziari e non per dar vita a progetti concreti, coinvolgenti più paesi, che possono spaziare dalla moneta alla fiscalità dal sociale alla cultura, dalla politica al militare. I progetti concreti vanno frenati e, se necessario, bisogna garantirsi le misure necessarie per attenuarne gli effetti. Londra auspica un’Europa scarna, composta di stati sovrani, con i quali è possibile concludere alleanze temporanee favorevoli, e non un’unione forte capace di
gareggiare con le altre potenze mondiali. È una visione che poco si discosta da quella che vigeva quando l’impero britannico dominava su più continenti. Non appena le richieste britanniche sono giunte a Bruxelles, la diplomazia si è messa al lavoro. Una prima importante verifica si è avuta durante lo scorso vertice europeo, lo scorso 17 dicembre. I 27 paesi dell’Unione hanno dato prova di una certa comprensione nei confronti della Gran Bretagna, dimostrando una certa disponibilità ad accogliere, almeno in parte, i primi tre capitoli delle rivendicazioni. Un po’ perché sono domande condivise anche da altri governi, come per esempio il desiderio di una maggiore competitività; un po’ perché un’eventuale loro accettazione equivarrebbe in molti casi alla proclamazione di principi, senza nessuna conseguenza pratica sulla vita e la prassi comunitaria. Si è intravista, però, una forte resistenza al desiderio di Cameron di impedire agli immigrati dell’Unione in Gran Bretagna di poter percepire alcune importanti prestazioni sociali, per almeno quattro anni. Si ritiene che una simile misura costituirebbe una violazione di due principi basilari dell’Unione, quello della libera circolazione delle persone e quello della non discriminazione. Dalle dichiarazioni rilasciate alla fine del vertice è emersa una comune preoccupazione, quella di evitare il «Brexit». Gli europei sanno che un simile passo costituirebbe uno smacco
per l’Unione, del quale è difficile oggi valutare le conseguenze negative. L’Ue perderebbe una parte del suo capitale negoziale internazionale e molte sue forze politiche interne si sentirebbero più forti e più libere di rivendicare altri «exit». Lo spettro del ritorno ad un passato nazionalistico aleggerebbe nelle cancellerie diplomatiche. Dal canto suo, anche Cameron guarda con una certa preoccupazione al «Brexit». L’uscita dall’Ue ridarebbe alla Gran Bretagna quella piccola parte di sovranità nazionale che ha ceduto a Bruxelles negli ultimi decenni, ma creerebbe anche nuovi problemi di non facile soluzione. Siccome il 45% delle esportazioni britanniche arriva sul continente, Londra si troverebbe costretta a rinegoziare il suo accesso al mercato unico e non è sicuro che ritroverebbe una soluzione vantaggiosa, analoga a quella attuale. Per di più, potrebbe correre il rischio di perdere la Scozia, che è favorevole all’Ue e che ne approfitterebbe per porre sul tavolo la questione dell’ indipendenza. La maggioranza degli scozzesi non vuole vivere in un Regno Unito che non è più membro dell’Unione europea. Infine, il «Brexit» creerebbe una nuova barriera doganale ed economica con l’Irlanda, un paese membro dell’Ue, che ha adottato l’euro e che ha sempre mantenuto con la Gran Bretagna forti rapporti storici ed economici. Il negoziato in corso potrebbe sbocciare in un accordo da sottoporre
al prossimo vertice europeo, previsto il 18-19 febbraio. È la soluzione più ottimista. Consentirebbe a Cameron di organizzare il referendum prima dell’estate. Il negoziato potrebbe però richiedere anche tempi più lunghi, sia perché non è facile trovare un’intesa comune tra 28 governi, sia perché alcuni governi sono infastiditi dal fatto che la Gran Bretagna, pur disponendo già di non pochi privilegi ed «opt-outs» in seno all’Unione europea, continui a chiederne altri. Londra non fa parte dell’accordo di Schengen, non ha adottato l’euro, non deve rispettare le norme comunitarie sui bilanci economici e si riprende una parte del suo contributo al bilancio dell’Ue. La conclusione di un accordo, però, non costituirà ancora la fine della pista ad ostacoli che Cameron ha deciso d’intraprendere. Il primo ministro britannico dovrà superare un ultimo grosso ostacolo: dovrà convincere i britannici a restare nell’Ue. Non potrà intraprendere nulla nei confronti degli euroscettici più schierati: la loro scelta è già fatta. Potrà, invece, incidere su quella parte della popolazione che è ancora indecisa. Molto dipenderà dal contenuto dell’accordo e dalle sue conseguenze pratiche su una soluzione o l’altra in termini di vantaggi e di costi. In questo caso, il portafoglio dei britannici conterà più del loro cuore. Gli ultimi sondaggi lasciano intravedere ancora un ampio margine d’incertezza. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
L’ambiguità di Riyad Terrorismo L’Arabia Saudita lancia una coalizione anti-Isis puntando
a riaffermare il suo ruolo nel mondo sunnita, annebbiato dal protagonismo russo e dal pantano yemenita, e minacciato dall’Iran Marcella Emiliani Il 15 dicembre scorso Mohammed bin Salman, ministro della Difesa, secondo principe della Corona, nonché figlio del re dell’Arabia Saudita, ha annunciato ufficialmente la creazione di una megacoalizione islamica per combattere il terrorismo, di matrice islamica e non. L’evento è stato doppiamente epocale perché mai l’Arabia Saudita si è messa a capo di una tale compagine glocal (cioè internazionale e locale), alla luce del sole, senza nascondersi dietro la Lega araba, il Consiglio di cooperazione del Golfo o l’Opec, qualora si parlasse di petrolio. In secondo luogo a dare l’annuncio è stato addirittura il figlio del re, di per sé poco propenso alle conferenze stampa. La coalizione, dunque, si propone di coordinare tutti gli sforzi per combattere il terrorismo in Iraq, Siria, Libia, Egitto e Afghanistan in stretta collaborazione con le maggiori potenze e organizzazioni internazionali. Sede e centro del coordinamento sarà Riyad, la capitale saudita. Della neonata alleanza fanno parte 34 paesi di Medio Oriente, Africa e Asia. Nell’ordine: Arabia Saudita, Autorità nazionale palestinese, Bahrein, Bangladesh, Benin, Ciad, Comore, Costa d’Avorio, Egitto, Emirati arabi uniti, Gabon, Gibuti, Guinea, Giordania, Kuwait, Libano, Libia, Malesia, Maldive, Mali, Marocco, Mauritania, Niger, Nigeria, Pakistan, Qatar, Senegal, Sierra Leone, Somalia, Sudan, Togo, Tunisia, Turchia, Yemen. L’elenco è lungo e noioso, ma – come succede sempre in questi casi – a fare la differenza non sono le presenze, bensì le assenze. E a saltare all’occhio per prime sono quelle di Siria, Iraq e Afghanistan, coinvolti nella peggior ondata di terrorismo della loro storia. Manca l’Oman che nella penisola arabica è forse l’unico sultanato indipendente dal pesante condizionamento saudita. Manca il più grande paese musulmano del mondo, l’Indonesia, che da lontano
ha notificato solo il suo appoggio all’iniziativa. Manca l’Algeria, gigante del Maghreb cioè dell’Africa settentrionale. Manca l’Eritrea, paese piccolo ma importante perché colluso con Al-Shabaab, l’organizzazione terroristica islamica della defunta Somalia, che fa capo ad al-Qaeda. Ma soprattutto è clamorosamente assente il «convitato di pietra» dei giochi mediorientali, ovvero l’Iran, l’unico paese che combatte sul terreno l’Isis con le proprie milizie, con le milizie sciite irachene che addestra e finanzia, con l’appoggio che garantisce all’esercito di Bashar al-Assad e con il braccio armato degli Hezbollah libanesi che ugualmente addestra e finanzia. Chi, dunque, meglio dell’Iran potrebbe fornire (e già fornisce) un valido aiuto per sradicare la malapianta del sedicente Califfato islamico o di quanto rimane delle metastasi di al-Qaeda? E perché manca? Se c’è una cosa che abbiamo imparato da questa strombazzata guerra all’Isis ormai diventata planetaria è che rappresenta solo la punta dell’iceberg di un intreccio di conflitti in cui tutti gli attori coinvolti perseguono innanzitutto i propri fini, poi si preoccupano delle sorti del Daesh. Bashar al-Assad giustifica la propria sanguinaria permanenza al potere presentandosi come diga contro il terrorismo islamico, sostenuto dalla Russia di Putin, dal suddetto Iran e dagli Hezbollah libanesi. Dal canto suo la Russia, interessata in primo luogo ad evitare il crollo del regime di Bashar, oltre a Raqqa si preoccupa di bombardare le postazioni delle opposizioni per così dire «laiche» ad Assad, armate e finanziate dall’Arabia Saudita e dal Qatar. Erdoğan, il presidente turco, dietro la lotta all’Isis nasconde a fatica l’intento di indebolire se non sconfiggere definitivamente i curdi siriani, iracheni e soprattutto quelli di casa propria che contestano apertamente la deriva autoritaria del suo regime e le sue aspirazioni sultanesche. Dietro gli aiuti forniti al
Califfato (tra cui lo smistamento del petrolio contrabbandato dall’Isis, di cui la Russia ha fornito le prove non più tardi del 27 dicembre scorso), Erdoğan anzi contava proprio sul fatto che il lavoro sporco contro i curdi lo facessero prima l’arci-nemico Bashar al-Assad poi i fanatici di al-Baghdadi. Ma come si è visto nella battaglia di Kobane in Siria, i curdi locali sono un osso duro da sconfiggere, tanto più se coadiuvati dai raid aerei della coalizione guidata dagli Stati Uniti, alleato di primo piano della stessa Turchia. E siamo al paradosso che la Turchia, membro della Nato, finisce per combattere contro quelli che sul terreno contrastano davvero l’Isis, ovvero i curdi. Ma uno dei ruoli più ambigui in tutta questa storia poco chiara è proprio quello dell’Arabia Saudita. Innanzitutto che bisogno aveva di dar vita a una propria coalizione per la lotta al terrorismo quando già partecipa a quella di 60 paesi creata dagli Stati Uniti con la stessa finalità? In altre parole, se la coalizione saudita non deciderà a breve di inviare truppe di terra nei paesi in cui dice di voler combattere il terrorismo, alias Iraq, Siria, Libia, Egitto e Afghanistan, non si capisce cosa potrebbe fare in più rispetto alla coalizione americana che notoriamente è restia a inviare uomini sul terreno, ma per quanto riguarda tutti i parafernalia tecnologici e militari è molto meglio attrezzata. Di nuovo non è il fine dichiarato quello che a cui dobbiamo guardare, ma alle priorità interne del regno. Il principe Mohammed bin Salman è stato estremamente vago sulle modalità operative della coalizione saudita e altrettanto vago sulle tattiche militari e securitarie che dovrebbe mettere in pratica. Soprattutto non ha ben approfondito cosa intenda la casa Saud per terrorismo. Certo presupponeva gli attentati, con o senza kamikaze, ma secondo la legislazione saudita viene accusato di essere una minaccia per lo Stato dunque un terrorista anche chi pacificamente
Il principe saudita Mohammed bin Salman . (AFP)
contesta l’operato dei governanti sia per strada (per quanto poco succeda) sia via internet. Vedi caso l’annuncio della creazione della coalizione è arrivato esattamente il giorno prima del conferimento del premio Sakarov, un premio del Parlamento europeo alla libertà di pensiero e d’espressione, al blogger saudita Raif Badawi condannato nel 2014 a 10 anni di prigione e a 1000 frustate per aver criticato le autorità religiose del regno. Quanto basta per accusarlo di «offesa all’Islam». Con incriminazioni e pene come queste l’Arabia Saudita fa davvero fatica a difendersi dalle accuse che si moltiplicano in Occidente sulla sua intolleranza, sul suo totale disprezzo dei diritti umani, sulla sospetta somiglianza tra l’intransigenza wahhabita del regno e quella neo-salafita del Califfato di al-Baghdadi. Sotto questo profilo la coalizione messa in piedi a Riyad dovrebbe rappresentare al tempo stesso una presa di distanza ufficiale dall’Isis e da al-Qaeda e dovrebbe anche rassicurare chi ancora dubita che il regno abbia smesso di finanziare le organizzazioni terroristiche islamiche come fece per l’al-Qaeda degli esordi in Pakistan. Peccato che oggi gli aiuti economici agli estremisti arrivino soprattutto da privati attraverso l’intricatissima rete delle charities islamiche, cui il principe Mohammed bin Salman non ha fatto minimamente cenno. E non a caso, perché attraverso le opere pie islamiche l’Arabia Saudita, per canali pubblici e privati, comunque espande e rafforza la comunità sunnita nel mondo. E proprio con questo si arriva al cuore delle preoccupazioni saudite che si chia-
ma Iran. Riyad infatti teme sopra ogni altra cosa l’espansione dell’Islam sciita e la coalizione è prima di tutto un messaggio di compattamento del mondo sunnita attorno all’Arabia Saudita contro Teheran. Allo stato attuale è l’Iran sciita che combatte davvero sul terreno il terrorismo del Califfato, lo stesso Iran che raggiungendo un accordo sul nucleare con gli Stati Uniti ha fatto vacillare un’alleanza di ferro tra il regno e gli Usa che datava dal 1945, ancora l’Iran che ora ha come «padrino internazionale indiretto» anche la Russia scesa in campo a fianco dell’alleato storico del regime degli ayatollah, la Siria. Nello sforzo dell’Arabia Saudita di diventare pienamente credibile nella lotta al terrorismo alcuni effetti positivi almeno ci sono stati: per l’opinione pubblica interna – che nutre simpatie per l’Islam militante dell’Isis –, dopo la creazione della coalizione il Califfato non potrà più vantarsi di essere «l’unico vero difensore del mondo sunnita», specie se sul terreno sta cominciando a inanellare sconfitte (è del 27 dicembre la perdita della città di Ramadi in Iraq riconquistata dall’esercito iracheno). In secondo luogo sembra rasserenarsi anche il fronte della guerra in Yemen. Sempre il 15 dicembre, e di nuovo non a caso, si è raggiunto l’accordo per una tregua di 7 giorni tra i ribelli Houti sciiti sostenuti dall’Iran e il governo del presidente Abd Rabbu Mansour Hadi, sunnita e protégé di casa Saud, tregua che ha poi permesso l’avvio di negoziati di pace in Svizzera. Purtroppo sono segnali ancora deboli, ma è comunque un inizio, si spera.
Il tesserato eccellente numero 1622 Figurine d’Italia La recente morte di Licio Gelli torna a far parlare della vera mente della P2 Umberto Ortolani
Alfio Caruso La morte di Licio Gelli ha riportato l’attenzione sulla P2, la loggia massonica segreta Propaganda 2 al centro per un ventennio di fitti misteri, non solo italiani. Una loggia di magliari, di carrieristi, di opportunisti, però in grado d’inquinare diverse intraprese della zoppicante repubblica italiana fra il 1960 e il 1980. Sempre che la nefasta influenza della P2 non sia proseguita fino ai nostri giorni come potrebbe suggerire la vertiginosa ascesa di tanti suoi adepti dal sommo Berlusconi (tessera 1816) all’intramontabile in-
Umberto Ortolani.
trattenitore televisivo Costanzo (tessera 1819), dal politico buono per tutte le stagioni Cicchitto (tessera 2232) al presunto suggeritore di potenti baciato da recente fama libraria Bisignani (tessera 1689). E Gelli (tessera 1711) esprimeva al peggio i tanti vizi dei famelici compagni di viaggio scelti sulla base di ricatti, di condizionamenti, di compromissioni. Ma lui era soltanto lo zotico braccio armato di un potere bene attento a rimanere dietro le quinte e che spesso assumeva la forbita discrezione dell’avvocato Umberto Ortolani (tessera 1622), impeccabile nei gessati fumo di Londra e negli stiratissimi completi di lino bianco. Niente da spartire con la dozzinale eleganza di Gelli, i cui abiti sapevano di svendite dei grandi magazzini anche quando aveva preso a servirsi di costosi sarti. Nato a Roma nel 1913, Ortolani è l’espressione di una piccola borghesia rampante capace di ogni accordo, pur di soddisfare le fameliche ambizioni. Nell’Italia afflitta fin dal 1946 da una guerra più calda che fredda, terreno di scontro fra il partito americano e il partito sovietico, nessun traguardo appare vietato a chi possegga fiuto e spregiudicatezza. Ortolani s’inserisce da subito fra gli esponenti dell’oltranzismo atlantico, ma attento a intessere una rete di rapporti trasversali. La sua sponda pre-
ferita è la chiesa attraverso le entrature fornite dal cardinale di Bologna Lercaro. Ortolani l’ha conosciuto da amministratore delegato della Ducati, la cui sede è nella periferia bolognese. Lercaro viene conquistato da questo quarantenne precocemente imbiancato, lo nomina persino gentiluomo della curia. Lontano dal proscenio Ortolani è inarrestabile: s’intrufola nei consigli d’amministrazione di aziende pubbliche e private; s’avvicina all’Eni di Mattei, cui vende con ottimo profitto l’agenzia giornalistica Italia; si lancia nell’editoria internazionale; accumula cariche, consulenze, riconoscimenti. Acquista in tal modo una spessa credibilità agli occhi della lobby statunitense capace di segnare in Italia il bello e il cattivo tempo. La ratifica del ruolo avviene alla vigilia del conclave, che nel 1963 deve nominare il successore di Giovanni XXIII. Nella sua villa di Grottaferrata riunisce le eminenze straniere per annunciare la volontà degli Stati Uniti di favorire la nomina del cardinale Montini, agente dell’Oss durante la Seconda guerra mondiale, nome in codice Verde. Così viene eletto Paolo VI, che ricambia nominando Ortolani «Gentiluomo di Sua Santità». Le porte del Vaticano si spalancano per la massoneria di stampo cattolico: accanto all’incidenza di Ortolani cresce quella
di Sindona (tessera 1612), anch’egli sospinto dalla lobby a stelle e strisce. Assieme favoriranno l’ascesa nello Ior di monsignor Marcinkus. La diffusione di testate giornalistiche rivolte agli italiani nel mondo e la nomina a rappresentante in Italia del Banco Argentino conducono Ortolani a Buenos Aires. La protezione del Vaticano e di quella dei compari americani gli consentono d’intrecciare rapporti privilegiati con i vertici militari ed economici al punto da diventare il principale azionista del Banco Financiero Sudamericano (Bafisud). Del quale cede nominalmente una quota al Banco Ambrosiano di Calvi nel 1975 per pagare gli 800 milioni richiesti dai rapitori del suo primogenito Amedeo. Un sequestro anomalo: secondo un reduce della banda della Magliana fu orchestrato per certificare la lontananza di Ortolani dal clan dei marsigliesi, guidati da Albert Bergamelli e Jacques Berenguer, autori nella Roma degli anni Settanta di altri clamorosi rapimenti. Alla vigilia del proprio assassinio, il magistrato che li indagava, Occorsio, disse che la cifra complessiva dei riscatti incassati era identica a quella pagata da Gelli a Montecarlo per acquisire la sede di una loggia internazionale. In ogni caso la Voxson, guidata da Ortolani jr, trae un insolito beneficio dalla disav-
ventura del suo presidente: sulle soglie dell’insolvenza riceve un considerevole finanziamento pubblico, che ne consente il risanamento. In quel periodo entrano nell’orbita della P2 la casa editrice Rizzoli, che significa il controllo del «Corriere della Sera», e l’Ambrosiano spolpato dell’equivalente di 2 miliardi e mezzo di euro. Nell’81 la casuale scoperta del registro degli appartenenti alla P2 blocca gli affari e cancella la patina di rispettabilità dell’ormai attempato burattinaio. Fra gl’iscritti figura persino la mente del sanguinario regime militare argentino, l’ammiraglio Emilio Massera (tessera 1755): grazie ai buoni uffici di Ortolani è stato ricevuto nel 1977 da Paolo VI. Un magistrale colpo propagandistico per i macellai di Buenos Aires, che hanno ucciso tanti cattolici e diversi sacerdoti: secondo un comunicato della giunta, il Pontefice ne ha elogiato gli atti. Ortolani si rifugia in Brasile, che per anni ne nega l’estradizione. Si consegna lui stesso nell’89, ma se la cava con una settimana di carcere dietro pagamento della cauzione di 600 milioni. Quando nel ’97 diviene definitiva la condanna a 12 anni per il crack dell’Ambrosiano, la generosità della giustizia italiana gli consente di non tornare in galera per le sue condizioni di salute.
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi In Europa di nuovo la Cenerentola L’anno economico si apre con previsioni di crescita molto prudenti. Per quel che riguarda la Svizzera gli istituti di previsione ci dicono che il tasso di crescita del prodotto interno lordo per il 2016 potrebbe variare tra l’1 e l’1,5%. Siamo distanti dalle previsioni ottimistiche, con tassi di crescita superiori al 2%, che si facevano ancora a metà estate. Ma siamo anche distanti dalla recessione marcata che qualcuno aveva preannunciato in gennaio del 2015, dopo la decisione della Banca nazionale di abbandonare il cambio minimo con l’euro. Quasi tutti gli istituti anticipano, per il 2016, un tasso di crescita superiore di circa un 0,7-0,8% a quello del 2015. Per gli addetti ai lavori questa unanimità di opinioni non è necessariamente un fatto confortante. In effetti essa è probabilmente dovuta al fatto che chi fa le previsioni pensa che, in termini di crescita, il 2016 dovrebbe essere migliore del 2015 senza però essere in grado di identificare, per il momento, in modo esatto, le cause di questo miglioramento. C’è comunque un dato
che dovrebbe rassicurarci: l’economia degli Stati Uniti e quelle della zona euro cresceranno a un tasso superiore a quello dell’economia svizzera. Anche l’economia italiana conoscerà un tasso di crescita leggermente superiore a quello della Svizzera. Per le aziende svizzere del settore di esportazione queste sono buone notizie anche se, purtroppo, la loro posizione concorrenziale è pregiudicata dal franco forte. La ripresa delle economie della zona dell’euro significa anche però che l’economia svizzera, nel 2016, ritornerà ad essere, in materia di crescita, la Cenerentola delle economie europee. Con un tasso di crescita intorno all’1%, la disoccupazione tornerà a salire e questo potrebbe far aumentare la spesa degli enti pubblici, in particolare quella dei Cantoni e dei comuni. È facile anticipare che il 2016 sarà quindi, in Svizzera, un anno di disavanzi pubblici importanti. Con la sola eccezione, forse, di quelle regioni nelle quali le banche sono forti contribuenti. La notizia farà piacere ai responsabili delle finanze
del Cantone e della città di Lugano. È però difficile dire, attualmente, in che misura l’aumento atteso nei contributi fiscali delle banche potrebbe contenere i disavanzi previsti nei preventivi per il 2016. Gli investimenti privati e pubblici, invece, cresceranno a un tasso inferiore a quello del 2015. Anche per i consumi gli ultimi dati disponibili – si tratta di inchieste – sembrano indicare l’avvio di una tendenza negativa. Di conseguenza, anche nel 2016, la crescita a livello nazionale sarà sostenuta, nonostante il franco forte, dalle esportazioni e dai famosi fattori non ancora identificati di cui si è detto qui sopra. Se dalle stime nazionali passiamo a considerare la possibile evoluzione della congiuntura ticinese dobbiamo osservare che, per la stessa, le previsioni interessanti sono quelle che riguardano l’andamento dei singoli rami. Il turismo alberghiero dovrebbe riprendere nel 2016 anche se il tasso di aumento dei pernottamenti non dovrebbe superare il 2%. È necessario poi precisare che queste
previsioni potrebbero rivelarsi troppo ottimistiche se la stagione invernale continua a svilupparsi come ha fatto sinora. Un inverno senza neve potrebbe ridurre anche della metà le previsioni di crescita dei pernottamenti formulate in autunno. Ricordiamo però che il turismo ticinese nel 2016 sarà favorito da un evento straordinario: l’apertura al traffico della NEAT. Ossserviamo tuttavia che molti dei turisti supplementari, generati da questo grande evento, non si fermerannno in Ticino per la notte ma rientreranno lo stesso giorno della visita a casa loro. L’attività del settore delle costruzioni ristagnerà anche nel 2016 per il calo parallelo degli investimenti privati e di quelli pubblici. L’industria e il commercio al dettaglio ticinesi continueranno a soffrire nel 2016 le conseguenze dell’abbandono del cambio minimo con l’euro e non realizzeranno quindi tassi di crescita importanti. È probabile in sintesi che, come nel 2015, la crescita dell’economia ticinese sia, nell’anno appena iniziato, inferiore a quella media
nazionale. Poco male, la congiuntura modesta frenerà lo sviluppo del flusso di frontalieri. E questo basterà per far contenti molti! Le incognite maggiori verranno, a breve termine, dall’evoluzione del mercato del petrolio. Il prezzo del barile di greggio è attualmente molto basso Dopo dieci anni nei quali, in termini di crescita, l’economia del nostro paese guidava il plotone delle economie europee, nel 2016, la Svizzera tornerà ad essere il fanalino di coda, o se volete la Cenerentola. La ragione di questo colpo di freno è nota: il franco svizzero continua ad essere troppo forte nei confronti dell’euro e del dollaro. Gli esperti credono che il recente lieve rialzo del tasso di interesse negli Stati Uniti non basterà per rafforzare in modo significativo la divisa americana. Per quel che riguarda l’euro, la politica monetaria della Banca europea non dà segni di voler cambiare e quindi è probabile che il tasso di cambio con il franco resti sui valori che conosce attualmente.
bero le elezioni anticipate. Il Pp avrebbe la possibilità di riassorbire parte dei voti di Ciudadanos, il Psoe rischia di cedere altro terreno a Iglesias, che a Valencia, a Barcellona, in Galizia si è alleato con forze locali autonomiste. Questo lascia credere che la formazione di Albert Rivera e quella di Pedro Sanchez saranno le più interessate a far sì che il nuovo governo nasca davvero. La situazione è davvero complessa, le formule sono molte. Questo implica tempo. Ma l’Europa preme. E la Spagna ha interesse ad avere un governo. Se non altro per fare una nuova legge elettorale. E la riforma costituzionale, che richiede i due terzi dei voti delle Cortes e il via libera del Senato, dove il Pp ha la maggioranza assoluta e quindi diritto di veto. Come ha predetto Felipe Gonzalez: «Avremo un Parlamento all’italiana, purtroppo senza italiani per gestirlo». Non a caso Iglesias invoca un «compromesso storico». Il leader di Podemos resta il personaggio
più interessante. Dovendo presentare un programma da candidato premier, è passato da Chávez alla socialdemocrazia. Un’evoluzione parallela a quella del suo vero riferimento, che non è Grillo ma Tsipras. Il nuovo Iglesias non parla più di uscire dalla Nato, di nazionalizzare «le imprese strategiche», di ristrutturare – cioè non pagare – il debito pubblico, di riportare la pensione a sessant’anni. Non dice più che Felipe VI «ha l’unico merito di essere il figlio di un monarca scelto da un dittatore»; rimbrotta il sindaco di Barcellona Ada Colau che vuol togliere i ritratti del nuovo re. Fa dire ai suoi che non saranno toccate né le basi militari, né l’ora di religione. Elogia l’esercito baluardo della nazione, e i poliziotti ansiosi «di arrestare i banchieri ladri». La spregiudicatezza con cui passa da toni anarcoidi ad invettive populiste è impressionante; ma è tutta dentro un tempo segnato dalla rivolta contro le istituzioni, i partiti, i sindacati, le élites anzi le caste, in Spagna
particolarmente predatrici e corrotte a livelli pressoché italiani. Iglesias non è antipatico, anzi. È un seduttore. Riconosce tutti i suoi interlocutori, o almeno è abilissimo a farlo credere: «Certo che mi ricordo di te…». Si veste al discount e fa in modo che si sappia. Talora scioglie in pubblico i lunghi capelli per poi legarli nel codone, El Coleta. Ha una percezione esagerata di se stesso. Discetta di strategia, evoca Machiavelli e Sun Tsu. Dice di ispirarsi a Gramsci. È amico di Luca Casarini. Cita Toni Negri e Mario Tronti: «Ribellarsi è giusto; ma bisogna farlo bene, saperlo fare bene, imparare a saperlo fare bene, e questo è il compito di una vita». Lo accusano di aver fondato, più che un partito, una setta, dedita al culto di una personalità: la sua. Non Podemos; Pablemos. Alle Europee il simbolo del partito era la sua foto. E dopo le politiche ha fatto cantare alla piazza El pueblo unido jamas serà vencido. Come un rivoluzionario sudamericano.
sfuggenti, imprendibili e spesso impenetrabili. A sprigionare la prima scintilla di questa mia tesi era stato il geografo francese Yves Lacoste. Presentando sulla rivista «Limes» il suo Dictionnaire de géopolitique (Flammarion), in modo assai perspicace, considerando che si era nel 2009, Lacoste sollevava il dubbio che in certi paesi, soprattutto nel mondo islamico, ma anche in Europa occidentale, ad esempio nell’ex-Jugoslavia, lo Stato nazionale «non è più la sola rappresentazione geopolitica e si trova in concorrenza con rappresentazioni molto più vaste e più vaghe o al contrario più ristrette e più precise, anch’esse però cariche di valori». Oggi, seguendo Lacoste, non solo si incontra l’avallo di Bauman, ma è possibile ravvisare altre entità politiche che stanno subendo, o combattendo contro, questa mutazione. Un primo collegamentolo offrono le già citate conquiste del fondamentalismo armato islamico che, sempre supportate
da un iniziale vuoto di potere è giunto a rivoluzionare una serie di conflitti interni o guerre civili. Un potenziale secondo «Stato liquido» è configurabile e in crescita nell’Europa dell’est, area teatro di sempre più aspri conflitti ideologici ed etnici. Già Lacoste rilevava che «se la scomparsa dell’Urss non ha provocato finora grosse perdite umane, salvo che nei conflitti caucasici o in Tagikistan, i rischi di frammentazione della Repubblica federativa di Russia a causa delle rivendicazioni di diversi popoli appartenenti alle repubbliche autonome e soprattutto il destino dei 25 milioni di russi che vivono fuori della Russia, pongono problemi geopolitici tanto più gravi in quanto cominciano a essere sfruttati da alcuni leader politici». Il pericolo di questa evoluzione è riscontrabile anche nei mutati atteggiamenti e rapporti fra l’Occidente, cioè Europa e Stati Uniti, e la Russia di Putin, sia in relazione al problema delle ondate di profughi, sia nelle strategie militari che
riguardano a questo punto una vastissima regione che si estende dal Baltico e dall’Artico sino al Golfo Persico. Ma a dominare le mie congetture c’è un altro potenziale «Stato liquido», anche questo già presagito da Lacoste nel suo saggio: «In Europa occidentale, nell’ambito di alcuni vecchi Stati nazionali, l’idea stessa di nazione tende a stemperarsi. I valori che vi erano associati sembrano oggi sorpassati. Ora, l’oblio (…) ha indebolito l’idea di nazione, o almeno la rende molto meno esclusiva di un tempo. Di conseguenza cresce il peso di altre rappresentazioni geopolitiche, come quella di «Europa» e soprattutto quella di regione, a causa delle politiche di decentramento condotte dalla maggior parte dei governi». Aggiungete il crescente fardello dell’indipendentismo, dei vari movimenti populisti e di quelli che cavalcano la protesta, ed ecco che anche l’Unione europa «liquida» non è più solo immaginazione o uno scenario da fantapolitica.
In&outlet di Aldo Cazzullo Il dilemma di Rajoy La situazione spagnola è molto interessante. Ma anche molto confusa. I socialisti devono scegliere fra tre linee: consentire con l’astensione la nascita di un governo del Partido Popular, guidato da Rajoy o preferibilmente da un altro; tener duro all’opposizione con il rischio di provocare nuove elezioni; tentare di costruire un’alleanza di sinistra con Podemos e i baschi e l’astensione dei catalani, cui concedere il referendum sull’indipendenza. Ipotesi cui gli andalusi sono contrarissimi; e un quarto dei 90 deputati socialisti sono andalusi. In questi giorni Rajoy tenta di tessere la tela del nuovo governo, con l’aiuto di re Felipe VI – e della Merkel – ma senza quello dell’ex premier Aznar, che chiedendo «un congresso aperto» ha di fatto sfiduciato il suo successore alla guida del partito. Le Cortes – l’ala del Parlamento che vota la fiducia al premier, cosa che il Senato non fa – sono convocate il 13 gennaio. Come prima cosa devono eleggere il presidente (e già non sarà facile). Il
nuovo presidente indica al re le persone che può e deve consultare per proporre un candidato alla guida del governo. La Costituzione (articolo 99) non impone tempi fissi; la prassi è di undici giorni. Felipe potrebbe accelerare. Verso la fine di gennaio si tiene la prima votazione, per la quale è richiesta la maggioranza assoluta: 176 seggi. Se Berlino e Bruxelles non avranno nel frattempo convinto i socialisti a fare la grande coalizione (ipotesi improbabile e comunque non in tempi così brevi), la prima votazione andrà a vuoto. La seconda votazione si tiene 48 ore dopo, ed è richiesta la maggioranza semplice: basta che i sì siano più dei no. Se anche questa è inutile, si continua a votare. Il re e i partiti possono anche accordarsi per cambiare il candidato presidente. Ma se entro due mesi dalla prima votazione, quindi verso fine marzo, nessun governo ha avuto la fiducia, le Cortes vengono sciolte. Ed entro 54 giorni, verso la metà di maggio, si terreb-
Zig-Zag di Ovidio Biffi Tutto liquido, anche gli Stati Lo scorso mese il generale italiano Fabio Mini in un intervento sul «Corriere della Sera» ha affermato che lo Stato Islamico non ha i presupposti per essere considerato un’entita statuale. Sotto il titolo «Lo Stato Islamico non ha alcuna caratteristica dello Stato: al massimo è una banda armata» il generale Mini sosteneva che a impedire il riconoscimento come Stato c’è il fatto che l’Isis è incompatibile con gli Stati moderni, dal momento che presenta una totale mancanza di ideali e di ideologie (non ha territori precisi, un governo riconosciuto, leggi che non siano quelle punitive o distruttive e un popolo «suo», cioè non sottomesso) ed è privo di idee costruttive, anche di quelle islamiche, perché non rispetta alcun principio dell’Islam. Questa affermazione mi ha riportato indietro di quasi un anno, cioè al febbraio scorso quando Mendrisio e la sua Accademia di architettura hanno ospitato una conferenza di Zygmunt Bauman, il filosofo polacco che, sul
finire del secolo scorso, ha proposto la «liquidità» come emblema della società postmoderna in cui «il carattere liquido della vita e quello della società si alimentano e si rafforzano a vicenda». Da un ventennio Bauman, in saggi e conferenze, riesce ad analizzare tutti gli aspetti della condizione umana e a collocarli in quella che lui definisce «società liquida». Lo studioso polacco si serve della sua metafora della «Vita liquida» e della «Modernità liquida» per descrivere e commentare con geniale chiarezza la precarietà e l’instabilità della società contemporanea, meritandosi l’appellativo di futurologo con la capacità di fissare in una frase o in un’idea, la realtà di un’intera epoca. L’estate scorsa un libro-intervista, curato da Ezio Mauro, ha poi rafforzato la mia ipotesi: il carattere liquido della nostra società è convalidato anche dai più importanti mutamenti geopolitici «in fieri». Ne deriva che ormai anche gli Stati possono essere «liquidi», cioè
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Cultura e Spettacoli Quando Marinetti andò a Berlino Per il futurista italiano Filippo Tommaso Marinetti Berlino rappresentò una vera e propria scoperta culturale e urbana; il suo entusiasmo per la metropoli tedesca fu però contraccambiato solo inizialmente
Si è chiuso un altro anno di musica Cose buone e cose meno buone hanno contraddistinto il 2015 della musica – fra le novità anche Seal con il settimo album e uno strabiliante Jacopo Incani pagina 19
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Dipinti da leggere Mostre La Pinacoteca Züst racconta
la lettura nell’arte dell’Ottocento
Alessia Brughera Una vera e propria rivoluzione. Ma di quelle senza fragori, silenziosa e inesorabile. Una rivoluzione che ha permesso l’emancipazione, la conoscenza, l’evasione. È la lettura. Una lenta conquista che prende avvio nell’Ottocento con lo sviluppo dell’alfabetizzazione delle classi popolari e che pian piano passa dall’essere un privilegio di pochi a una consuetudine che scandisce il vivere quotidiano di tutti i ceti sociali. La mostra allestita alla Pinacoteca Züst di Rancate ci parla di questo affascinante gesto che racchiude la fatica dell’imparare, il desiderio di scoprire, la ricerca del diletto, che ama la condivisione così come la più completa solitudine, e che si accompagna a emozioni sempre diverse. Sono circa ottanta le opere esposte, spaccati di vita ottocentesca in cui la lettura è protagonista assoluta – quella di un libro di preghiere, dell’epistola di una persona cara, di un giornale, di un biglietto d’amore o delle pagine di un romanzo – diventando ora uno strumento di riscatto attraverso cui uscire dall’emarginazione, ora un piacevole momento di svago per riflettere e vagabondare con la mente. Questo tema particolarmente caro all’arte dell’Ottocento viene esplorato a Rancate attraverso i lavori di maestri ticinesi e lombardi, con qualche incursione nella pittura toscana e in quella del resto della Svizzera. A fungere da preambolo all’esposizione troviamo la ricostruzione di una vecchia aula scolastica, dove banchi, calamai, quaderni, abbecedari e lavagne ci ricordano il ruolo fondamentale che durante il XIX secolo la pubblica istruzione ha avuto nel nostro Paese nella lotta all’analfabetismo, riconoscendo come un diritto di tutti l’apprendimento degli elementi base della lettura, della scrittura e del far di conto. E questo anche grazie alle figure di Stefano Franscini, padre della moderna scuola ticinese, e di Enrico Pestalozzi, celebre scrittore e pedagogista elvetico, il cui contributo nel processo di diffusione capillare della formazione primaria è stato indispensabile. Nell’allestimento sono entrambi ricordati, l’uno con un busto di marmo di Vincenzo Vela, l’altro con due bronzi
degli scultori Luigi Vassalli e Giuseppe Chiattone. Da qui parte poi la lunga carrellata di dipinti. Una bella sorpresa è la sezione riservata al bernese Albert Anker, che in una sorta di piccola mostra nella mostra torna nel nostro cantone con le sue splendide tele dopo più di venticinque anni dalla rassegna che Villa dei Cedri a Bellinzona gli ha dedicato nel 1989. Nel realizzare le opere incentrate sulla lettura – un tema davvero ricorrente nella sua produzione – Anker viene influenzato proprio dagli ideali educativi del Pestalozzi. La ragazzina che ritorna da scuola, il fanciullo con la lavagnetta sottobraccio, il contadino che legge il giornale, il segretario comunale che esamina documenti ufficiali, nonna e nipote che guardano un libro illustrato: l’artista si preoccupa di raffigurare con partecipazione quella che per molti è una nuova condizione di vita, più dignitosa e appagante. Si coglie questo intendimento in uno dei lavori più toccanti di Anker, Le dimanche après-midi, del 1862, un’intima scena domestica intrisa di pathos. Qui, attorno alla stufa, sono raccolti una giovane donna intenta a leggere la grande Bibbia che tiene tra le mani, l’anziano nonno e la sorella minore che ascoltano con attenzione le sue parole e, più in là, il fratellino teneramente addormentato. Il rito della lettura religiosa in un quieto pomeriggio domenicale diventa il simbolo di un’esistenza onesta e gratificante, un gesto che sa portare serenità. Da ben altri sentimenti è accompagnata l’apertura delle epistole giunte dal fronte, soggetto rappresentato nei dipinti del lombardo Gerolamo Induno e del ticinese Angelo Trezzini. Di quest’ultimo è esposta l’opera La lettura di una lettera giunta dal campo, datata 1861, una scena di genere che si consuma nella sala da pranzo di un prete, figura di riferimento per chi ancora non aveva dimestichezza con il testo scritto. Qui il curato siede placidamente dinanzi al camino acceso e legge all’apprensiva parrocchiana analfabeta che gli sta vicino la missiva spedita dal figlio garibaldino. Numerose sono poi le tele che ritraggono giovani donne immerse nella lettura di un libro, romanzi d’amore o di avventura capaci di catapultarle in
Mosè Bianchi, La lettrice, 1867 olio su tela, cm 84 x 65, Milano, Pinacoteca di Brera.
appassionanti storie. In queste immagini che immortalano brani di quotidiana intimità, le fanciulle appaiono spesso sospese tra contemplazione e abbandono, con lo sguardo trasognato di chi si è lasciato trasportare con la mente verso mondi piacevoli al di fuori delle mura di casa. Belle in mostra La lettrice di Mosè Bianchi, del 1870, la Jeune femme lisant realizzata da Federico Zandomeneghi nel 1898 e la Pensierosa del 1920 di Adolfo Feragutti Visconti, in cui, con una pittura dai contorni evanescenti memore della tradizione scapigliata, l’artista ticinese dipinge una figura femminile in atteggiamento malinconico, con il libro appena distinguibile appoggiato sul tavolino al suo fianco, come fosse in attesa di essere ripreso in mano dopo un breve momento di pausa. E poi, ancora, c’è la lettura del giornale, soggetto trattato in numerosi
quadri dove sovente è l’uomo a essere protagonista, effigiato con la concentrazione di chi si applica alla doverosa conoscenza delle notizie che lo mettono al corrente di ciò che accade nel mondo. Talvolta, poi, il leggere si fa anche attesa, come nell’opera Arriva il postino (1908) del luganese Luigi Monteverdi, in cui un gruppo di donne al lavatoio aspetta trepidante la corrispondenza consegnata dal portalettere, nella speranza che siano buone novelle. La mostra ci riserva anche un’interessante sezione contemporanea dedicata alla fotografia del siciliano Ferdinando Scianna, in cui sono esposti alcuni degli scatti in bianco e nero pubblicati nel libro Lettori edito dalla Henry Beyle. Con sguardo al contempo obiettivo e sensibile, Scianna indaga la lettura in contesti molto diversi tra loro – dagli eleganti locali parigini ai
mercati boliviani – realtà contrastanti da cui emerge come questo gesto che per noi sembra ormai scontato, sia per molti un traguardo ancora difficile da raggiungere. Dove e quando
Leggere, leggere, leggere! Libri, giornali, lettere nella pittura dell’Ottocento. Pinacoteca cantonale Giovanni Züst, Rancate. Fino al 24 gennaio 2016. Orari: da ma a ve 09.00-12.00/14.0018.00; sa, do e festivi 10.0012.00/14.00-18.00; chiuso il lunedì. www.ti.ch/zuest In collaborazione con
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Cultura e Spettacoli
Marinetti, un bluff? Personaggi I Futuristi, incantati dal progresso che regnava sovrano a Berlino, credettero di potere conquistare
a loro volta i tedeschi
Luigi Forte Berlino gli italiani la conquistarono di notte, scorrazzando su e giù per le affollate vie del centro, lungo la Friedrichstrasse e oltre, nella Leipziger dove faceva bella mostra di sé il primo grande magazzino della città, Wertheim, con le sue ottantatré scale mobili e uno spazioso atrio dal soffitto di vetro. Erano solo in due, Marinetti e il pittore Boccioni, alla guida di un’auto scoperta, ma lo spettacolo fu tale da mandare in visibilio i numerosi nottambuli in cerca di emozioni. Si sentivano a casa loro in quella moderna e luccicante metropoli e lanciavano volantini come confetti tra la folla gridando: «Evviva… futurista!». Un metodo già sperimentato con successo qualche anno prima quando il Manifesto di fondazione del Futurismo era stato distribuito a Milano con migliaia di manifestini. E ora in nome del dinamismo e della velocità quei sacerdoti di una nuova estetica facevano il loro ingresso nella metropoli dell’imperatore Guglielmo II.
A lungo andare la retorica futurista, più che della rivoluzione, cominciò ad avere il gusto del cabaret Con il suo papillon e i baffi all’insù come il supremo monarca, Marinetti andò alla conquista della città grazie all’invito di Herwarth Walden, direttore della nota rivista d’avanguardia «Der Sturm», il quale appoggiò il movimento italiano pubblicandone il Manifesto e organizzando nell’aprile del 1912 una mostra di pittura nella sua galleria in Tiergartenstrasse. C’erano tutti i più bei nomi, da Boccioni a Carrà, da Russolo a Balla e Severini, felici di poter dichiarare che quella prima esposizione berlinese era anche la più significativa che mai fosse stata sottoposta al giudizio dei tedeschi. Il successo non si fece attendere: lo scrittore Alfred Döblin, cofondatore della rivista, ne fu entusiasta. Quegli artisti, secondo lui, non erano epigoni, ma inventori. Nonostante qualche voce critica anche nei mesi successivi, l’intraprendente Marinetti era ormai sulla cresta dell’onda e riuscì a intrufolarsi ovunque. «Era come se (…) Berlino fosse preparata per lui e lui improvvisamente la riempisse», dichiarò lo
Inconfondibilmente futuristi, da sin. Umberto Boccioni e Filippo Tommaso Marinetti in un’immagine scattata a Parigi nel 1910. (Keystone)
scrittore Rudolf Leonhard. A sua volta Ernst Blass, uno dei tanti habitué del Café des Westens, ricordò una serata con Boccioni e Marinetti che parlavano in francese con un piglio indiavolato. C’era anche la poetessa Else Lasker-Schüler che per un po’ li ascoltò, poi indicando la pietra colorata di un anello disse con nonchalance: «Couleur». Ironia che colpiva nel segno: tutta quella retorica futurista sapeva più di cabaret che di profonda rivoluzione artistica. I futuristi fecero di tutto per non passare inosservati nella tranquilla e borghese Berlino. Boccioni schiaffeggiò perfino un passante che gli si era piantato davanti fissandolo con una certa sfrontatezza. Ma ben più importante era stato l’impatto con la loro pittura.
Gino Severini, ad esempio, fece scalpore con il suo splendido quadro Pan-pan a Monico scomparso probabilmente nel rogo dell’arte degenerata del 1933 e di cui l’autore fece una copia molti anni dopo. L’enorme dipinto rappresentava l’interno di un affollatissimo caffè chantant dove ballerine dai costumi multicolori si esibivano in danze dal ritmo vorticoso, mentre le loro figure venivano scomposte in tessere colorate creando un intenso dinamismo; una vera bomba artistica, «la più importante dipinta da un pennello futurista», scrisse Guillaume Apollinaire. Anche Walther Mehring, futuro esponente del dadaismo berlinese, ricordò lo spettacolo offerto dalla galleria dello Sturm dove aveva luogo la più turbolenta mostra di pittura mai vista.
«Evviva l’amore! – Evviva Garibaldi! – Evviva futurista!» sbraitavano gli italiani, mentre in campo avverso, il pubblico tedesco strillava: «Basta, andatevene…! Dov’è finita la polizia?», che poi fece irruzione con gran sollazzo dei futuristi che non aspettavano altro per farsi pubblicità. Marinetti in compagnia degli amici del gruppo di Walden in una saletta del Caffè Josty nel 1913 viene descritto come un tipo irruento, intuitivo; abile commediante dai gesti precisi, dalla tipica esuberanza mediterranea di cui era gran maestro. Si sente padrone del Potsdamerplatz al punto di scrivere: «Per quanto un po’ troppo idealiste e inesperte le mie mani di poeta tengono energicamente la pulsante astronomica piazza come il volante di un’automobile
affamata di strada sorprendente». Egli non esita ad avvolgere nel suo paroliberismo anche la capitale del Reich, simbolo eclatante del furore modernista e appetibile mito della tecnologia come motore della storia. L’uomo moltiplicato e il regno della macchina suonava uno dei suoi straripanti manifesti, in cui il soggetto umano si potenzia e prolifera nel congegno meccanico. Là sul Potsdamerplatz di fronte al gran viavai di auto e passanti lo scrittore inneggia alla prima torretta mondiale smistatraffico trasformatasi nel suo linguaggio in un «distributore di direzioni e lasciacorrere semaforico». Lo sguardo di Marinetti si esalta come ogni neofita per «la crepuscolare baldoria degli avvisi luminosi arrampicatisi sui cornicioni dei quartieri Charlottenburg Friedrichstrasse e Unter den Linden». Il suo inno alla metropoli si eleva a mistiche ebbrezze non disgiunte da un gusto tutt’altro che banale per la pubblicità. Ed ecco allora che, stimolate dall’illuminazione della grande piazza, anche le costellazioni salgono «dal semaforo Polizei per scrivere allo Zenit del centro Europa la grande parola GERMANIA scorrente in carrucole stellari e fili adamantini per unire illuminare Baltico e Mediterraneo». Una strampalata fantasia che poteva piacere al Kaiser come alla sempre più aggressiva destra nazionalista. Per quel clan di avanguardisti del sud Berlino era la scena del futuro, una città piena di folla, di traffico, di merci e vetrine illuminate a giorno. Ben altra cosa dall’arretratezza economica e politica dell’Italia. Al suo rientro dal secondo soggiorno, nell’autunno del 1913, un Marinetti entusiasta non esitò a dichiarare in un’intervista al «Giornale d’Italia» che Berlino era «una meravigliosa città futurista, priva di ruderi, di difensori di ruderi e passatisti». C’era da meritarsi non solo l’attenzione, ma anche l’entusiasmo dei colleghi d’Oltralpe. Ma in breve tempo aumentarono le voci critiche. Di fronte alla sua poesia gli intellettuali tedeschi non ebbero dubbi: era solo pathos, eloquenza cadenzata, flusso di parole, rumore per amore del rumore. E le cose non andavano meglio parlando di musica o di teatro. Insomma, il maestro del futurismo non era affatto, secondo un diffuso giudizio, un innovatore; piuttosto un uomo d’impresa, e perfino un clown del girare a vuoto, una nullità scoppiettante, la cui opulenza di luoghi comuni appariva come un parodistico stravolgimento dell’espressionismo. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 04 gennaio 2016 ¶ N. 01
Cultura e Spettacoli
Le sette fatiche di Seal Musica Di nuovo sotto i riflettori: dopo una «pausa creativa» di alcuni anni, Seal torna alla composizione
con un nuovo album, che non delude le aspettative dei fan Benedicta Froelich A ulteriore dimostrazione della penuria creativa dell’epoca che stiamo vivendo, le ultime annate discografiche hanno visto molti nomi di spicco della scena pop-rock trascurare l’ormai perlopiù negletta arte della composizione, preferendo affidarsi a schiere di autori o, addirittura, alla reinterpretazione di grandi classici del passato. Non ha fatto eccezione a questa regola l’enigmatico Seal – interprete che ha sempre esercitato un innegabile fascino sul grande pubblico, in parte dovuto alla connotazione esotica di un’identità in bilico tra le origini nigeriano-brasiliane (il suo vero nome è Olusegun Olumide Adeola) e la rigorosa formazione anglosassone come rampollo di una famiglia adottiva londinese: un contrasto esemplificato anche dalla sua intensa fisicità e presenza scenica, rese ancor più misteriose dalle ampie cicatrici che ornano il viso del cantante (le quali, nonostante le dicerie che le vedevano come risultato di qualche singolare rito d’iniziazione, si devono semplicemente a un’aggressiva forma di lupus). In effetti, Seal è riuscito a sfondare presto sulla scena internazionale: già nel 1991 Crazy, il singolo apripista del suo eponimo album d’esordio, è divenuto una hit mondiale, garantendo al suo autore
grande successo di pubblico e svariati premi, il tutto grazie a una sapiente miscela di musica R’n’B, black e soul. Da allora, l’artista ha venduto oltre trenta milioni di dischi; tuttavia, la sua arte è spesso passata in secondo piano davanti al polverone mediatico suscitato dapprima dal matrimonio con la modella Heidi Klum (2005), e, in seguito, dalla palese passione dello stesso Seal per i riflettori (prima del loro divorzio, lui e la Klum avevano in programma di realizzare nientemeno che un reality show incentrato sulla loro famiglia, e nel 2013 Seal è stato anche giudice dell’edizione australiana del programma TV The Voice). Oggi, però, vediamo infine Seal tornare alla ribalta per motivi esclusivamente artistici, grazie all’uscita di questo nuovo 7, il cui titolo si deve al fatto che si tratta del settimo lavoro dell’artista a essere firmato interamente da lui (seppur con l’aiuto di una vera legione di coautori), dopo aver, tra gli altri, pubblicato due dischi dedicati a rielaborazioni di capisaldi del repertorio soul. E il Seal che ritroviamo in questo CD sembra effettivamente in ottima forma, tanto che il primo singolo estratto dall’album, Every Time I’m With You, ripropone tutti gli ingredienti che hanno decretato il grande successo commerciale del cantante: una melodia a metà strada tra il lento e la ballata
7, il nuovo album di Seal.
emotiva, arrangiamenti delicati ma di classe, e una voce come sempre inconfondibile e avvolgente. Anche perché c’è da dire che, quando Seal tenta di distaccarsi marcatamente da questa formula, i risultati appaiono un po’ incerti, come accade con un brano nervoso quale Redzone Killer e, soprattutto, Life On the Dancefloor – il quale, pur presentandosi dichiaratamente come una canzone uptempo che fa il verso ai ritmi
dance anni ’90, non riesce a convincere del tutto, forse perché rappresenta un ambito nel quale Seal non risulta disinvolto come con le ballate romantiche o i pezzi più lenti. Una verità rinforzata da un brano particolarmente appassionato e riuscito, intitolato semplicemente Love, in cui la voce di Seal e l’intensità della sua interpretazione sembrano toccare il picco delle loro possibilità – come avviene, in tono minore,
anche nello struggente Half a Heart. Così, anche The Big Love Has Died vede l’artista ritornare al terreno per lui più congeniale, ovvero quello della ballata ad alto voltaggio emotivo, sul genere, per intenderci, del suo più grande successo di sempre, Kiss From a Rose (1994): e difatti questo brano dagli accenti quasi epici, che richiama gli accompagnamenti orchestrali dei pezzi soul anni ’60, non mancherà di riscuotere l’approvazione dei fan di vecchia data, come del resto è probabile che sia per il secondo singolo trasmesso dalle radio, Do You Ever, ballata aggraziata che mostra buona varietà e brio compositivo. Purtroppo, a tratti tali predilezioni vengono portate ai limiti della banalità, come con Monascow e Let Yourself, brani dalla linea melodica riconoscibile e monotona. Fortunatamente, Seal mostra anche il coraggio di avventurarsi lungo strade più originali e meno scontate tramite canzoni più intense quali Daylight Saving (caratterizzata da cori emotivamente potenti) e la claustrofobica Padded Cell. Il che dimostra come questo 7 ci offra un ritorno creativo in buona forma per il cantante; certo, potrà non esserci nulla di sorprendente in queste undici tracce, ma l’album mostra comunque che Seal ha in sé tutte le potenzialità per compiere un’ulteriore evoluzione e svolta artistica.
2015, il meglio e il peggio
Bimbi e mamme
Classifiche Tra le sorprese più piacevoli vi è Jacopo Incani,
Linguistica Un originale saggio di Spitzer
all’estremo opposto un De Gregori che forse, insieme a molti altri, ha fatto il suo tempo
sulle denominazioni affettuose delle mamme Stefano Vassere
Zeno Gabaglio È certamente un atteggiamento manicheo, e per questo ingiusto e forse bugiardo. Ma il fatto di affrontare l’intera produzione musicale 2015 per decretarne un vertice e un abisso offre perlomeno l’utilità di mettere un punto fermo, stilare una sorta di bilancio e annotarsi cosa varrebbe la pena di conservare in tutto l’anno appena concluso. O cosa sarebbe opportuno lasciarsi alle spalle senza nessuna esitazione: cave canem. Il meglio – Iosonouncane
«C’è un uomo in mezzo al mare e teme di morire da un momento all’altro. Nello stesso istante, sulla terra ferma, c’è una donna, presumibilmente la sua donna, che teme di non rivederlo mai più». Questo è il contesto narrativo in cui si svolgono le sei tracce di DIE – il secondo album di Iosonouncane – ed è bene tenerlo presente nell’esatta misura in cui la componente testuale delle canzoni trascende in modo piuttosto sensibile (alcuni direbbero criptico, altri evocativo) questa linea, rendendola quasi inintelligibile. Ma non è tanto l’approccio al testo – pur trattandosi di un’opera tecnicamente cantautorale – che rende il disco di Jacopo Incani la più lieta novità del 2015, quanto piut-
tosto la vena d’invenzione musicale. Il testo diventa infatti elemento musicale dalla sua concezione (frammentaria, schizzi raccolti e poi ordinati) fino al missaggio, d’impronta assai poco italica per come le parole si fondono fin dentro ai volumi dei suoni strumentali o campionati. Il risultato è un inesauribile trionfo di stimoli e idee che riesce a non sacrificare nulla di ciò che può essere melodia o armonia, piegando l’essenza della canzone in posture che ricordano i rave techno ma che pure concedono indispensabili momenti di pausa e respiro. Che qualcuno sia riuscito a far quadrare il cerchio?
lontani e distinti dalla poetica sospesa e minimale (ancorché timbricamente ricchissima) di Ólafur Arnalds. E nei pochi momenti in cui la distanza viene colmata il risultato è forse ancora peggiore, perché l’inquieto lirismo di Chopin – anche se la scelta dei Notturni ne offre il lato meno agitato – non può resistere alla sedazione emotiva che invece è presupposto della musica di Arnalds. Prendete il buon vecchio Fryderyk, legatelo con delle cinghie di cuoio, iniettategli la giusta dose di lorazepam e lasciatelo a rimirare il lento evolversi di un pomeriggio su un lago d’inverno: questo è grosso modo il risultato.
Il meno peggio – Ólafur Arnalds & Alice Sara Ott
Il peggio – Francesco De Gregori
Gli ingredienti per giungere a un giudizio di tipo diverso ci sarebbero stati tutti: lo spunto (la meravigliosa musica di Chopin), il genio contemporaneo (il manipolatore islandese Ólafur Arnalds), la grande interprete classica (la giovane promessa Alice Sara Ott) e il contesto propizio (la serie editoriale di Deutsche Grammophon trasversale ai generi e alle idee). Eppure il disco The Chopin Project non ha saputo mantenere l’alto livello delle precedenti produzioni «recomposed by». Il pianoforte classico, gli originali di Chopin e Alice Sara Ott stanno infatti da un lato, ben
Rivelazione? Il «cantautore particolare» Jacopo Incani.
Premesso che per carità umana abbiamo evitato la categoria «il pessimo» – in cui sarebbero rientrate a giusto titolo le nuove produzioni di Laura Pausini, Giovanni Allevi, Andrea Bocelli e Mario Biondi, tutte prive in modo diverso ma ugualmente drammatico di idee o profilo artistico/artigianale – l’ingrata maglia nera del 2015 se la conquista Francesco De Gregori. Che al cantautore romano piacesse Bob Dylan lo si era già capito una quarantina di anni fa, ai suoi esordi, ma anche più avanti con le varie traduzioni man mano dedicate al menestrello di Duluth. Perché dunque pubblicare nel 2015 un intero di disco di traduzioni dylaniane? E soprattutto: come provare a farlo aggiungendo qualcosa di nuovo e di sensato a quei pezzi che già (quasi) tutti conoscono? «Nella traduzione inevitabilmente si perde qualcosa» ha candidamente ammesso De Gregori – allora perché?, verrebbe da chiedergli – «ma almeno negli arrangiamenti ho voluto essere più aderente all’originale». Ah sì? E che merito c’è nel proporre con tre decenni di ritardo e con forza inevitabilmente diluita quelle che allora furono le idee di Daniel Lanois e Mark Knopfler?
«L’originalità della madre consiste nel sapersi arrangiare in modo femminile, nell’intrecciare e riscaldare la materia linguistica, meno nel trovare ardite costruzioni. È al fondo del cervello di lei, del suo cuore, insomma di tutta la sua anima che si cristallizzano verbalmente le impressioni». Riuscire a cavare un ragionamento linguistico innovativo da uno studioso che si sia formato in campo letterario è impresa che sembra talora frustrante; quando un letterato cerchi di darsi da fare con la linguistica il più che ne viene sono delle illocuzioni velleitarie, legate agli studi stilistico-letterari o, nella migliore delle ipotesi, a oneste e disciplinate composizioni negli stadi più tradizionali e consolidati dello studio del linguaggio: la stilistica, l’etimologia, poco più in là. Nel campo dei letterati che si occupano di linguistica brilla però l’eccezione di Leo Spitzer (Vienna 1887 – Forte dei Marmi 1960), che, nella presentazione di questo Piccolo Puxi. Saggio sulla lingua di una madre è definito a giusta ragione linguista, critico letterario, filologo e «il maggiore studioso di stilistica del Novecento». Presentazione che fa il paio con una, altrettanto lusinghiera, di Cesare Segre, secondo il quale «Leo Spitzer non cessa di giganteggiare tra gli esponenti maggiori della linguistica della prima metà del Novecento». Diremo subito che questo Piccolo Puxi (del 1927, suonava meglio l’originale in tedesco Puxi. Eine kleine Studie zur Sprache einer Mutter, cioè: «Puxi. Un piccolo studio sulla lingua di una madre») può parere leggermente ostinato nella rassegna insistita e abbondante dei nomi e nomignoli che Emma Spitzer attribuì al piccolo Wolfgang nei suoi primi anni di vita: Puck, Puckchen, Pucksi, Bübi, Mausi, Katzi, Matschele, Kabäuschen, Tüdülütchen, Schnützeling e infiniti altri. Ci pensa anche la stessa Emma, la quale, al momento della consegna cerimoniale del dattiloscritto, oltre a mettere in dubbio alcune forme, «contestò pesantemen-
te la serietà pedante» di questo repertorio. Grippando peraltro immediatamente la fucina di creazioni onomastiche, evidentemente inibita dalla dichiarazione esplicita del lavoro di raccolta fin lì tenuto nascosto. Attribuire vezzeggiativi a un bambino nobilita la fabbrica affettiva della madre, e il lavoro di ricerca sulle circostanze dell’attribuzione, si capisce in questo libro, è un processo che è simile ai tentativi di dare un senso alle parole di una lingua straniera mentre la si sta apprendendo: la tentazione di incollare significato a parole estranee si prolunga fino a quando, impossessatici sufficientemente delle competenze necessarie, i suoni e le forme della nuova lingua appaiono nostri, pacificati, normali, non più oggetto di faticosa conquista. In questo ambito, c’è un linguista francese Valery Larbaud che ha dedicato studi ai sentimenti legati all’apprendimento del portoghese in parlanti stranieri. Per cui, nomi passeggeri, forme archetipiche e innumerevoli derivati, paragoni con nomi di altri bambini, argomenti a favore o a sfavore dell’adozione di un nome, simpatie o antipatie per i vezzeggiativi, nomi di esserini e animaletti. «Già prima della nascita di Puxi avevamo paragonato i piedi freddi, le gambe, i polpacci con le cosce di rana definendoli Fröscheling, nel quale –ling ne evidenziava l’individualità». I morfemi, come –ling ballonzolano qua e là nel mondo morfologico di queste creazioni, anzi ogni tanto superandolo, e conquistandosi un posto nella regina delle discipline linguistiche, la sintassi. In questo modo può capitare che una si chiami – poniamo – Kalkidan e assista non senza sconcerto a una migrazione generativa di parte del suo nome altrove nella frase: «Ciao Kalkidan, come staidan? Tutto benidan?»; roba da matti! Bibliografia
Leo Spitzer, Piccolo Puxi. Saggio sulla lingua di una madre, Milano, il Saggiatore, 2015.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 04 gennaio 2016 ¶ N. 01
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Flûte alla francese: morbida dentro, croccante fuori
Un regno per i golosi Tradizioni La torta dei re Magi non può mancare nell’ultimo
giorno del periodo natalizio Se l’Epifania tutte le feste porta via, un’ultima imperdibile golosità porta però con sé: la torta dei Re Magi. Il tradizionale morbido dolce di pasta lievitata è prodotto dai panettieri della Jowa con l’utilizzo di ingredienti genuini scelti con attenzione. Oltre alla bontà, il dolce è naturalmente apprezzato anche per la sua peculiarità: infatti al suo interno esso na-
sconde una statuina a forma di re, la quale dà diritto a chi la trova di «regnare» per tutto il giorno. L’effimero re potrà così indossare la corona dorata acclusa alla confezione e farsi viziare da tutta la famiglia. Oltre alla variante classica la torta dei re Magi è disponibile nelle maggiori filiali anche in altre tipologie in grado di accontentare ogni gusto: da quella senza
uva sultanina per chi non apprezza la frutta secca a quella con gocce di cioccolato per i golosi più incalliti fino alla versione bio, ossia a base di ingredienti rigorosamente di produzione biologica. La torta dei re Magi è in vendita solamente il 4 e 5 gennaio. Torta dei Re Magi 420 g Fr. 4.10
Non solo in Francia: anche in Ticino il pane tipo baguette è molto gettonato, anche se da noi è spesso conosciuto con nomi quali Flûte o Lingua francese. Ed è proprio la Flûte alla francese ad essere particolarmente apprezzata dalla clientela Migros. Di questo pane chiaro «allungato» i consumatori apprezzano il fatto che la mollica rimane bella morbida, mentre esternamente spicca per la sua croccantezza. Tagliata a fette non troppo sottili oppure anche spezzata, la Flûte si sposa a meraviglia con formaggi, insalate, zuppe, pomodorini a fettine, ma con il giusto companatico sa anche trasformarsi in men che non si dica in irresistibili panini imbottiti. La Flûte alla francese è prodotta dal panificio Jowa con farina di frumento chiara derivante da cereali svizzeri coltivati in armonia con la natura. Altro vantaggio di questo pane è la buona conservabilità: grazie ad un tempo di lievitazione lungo è ancora una delizia il giorno dopo l’acquisto. Una curiosità: si ritiene che il padre della baguette sarebbe stato Napoleone il quale necessitava di un pane allungato per poterlo trasportare più facilmente durante le sue campagne.
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Idee e acquisti per la settimana
La soluzione ideale per la mobilità Attualità Dal 7 al 9 gennaio la mall del Centro S. Antonino ospita, in collaborazione con OBI,
un’esposizione di veicoli elettrici di qualità per chi ha difficoltà a deambulare
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Buone notizie per chi non vuole rinunciare alla propria indipendenza nella vita di tutti i giorni: il Centro OBI di S. Antonino ha da poco introdotto nel suo assortimento tre modelli di scooter elettrici a quattro ruote ideali per persone con mobilità limitata. Questi veicoli a batteria di alta qualità sono in grado di soddisfare le esigenze più disparate e sono offerti a prezzi particolarmente concorrenziali. Il modello di base si chiama Mobi 270 e spicca per la sua maneggevolezza gra-
zie alle dimensioni ridotte (lunghezza 1000 mm, altezza 270 mm, larghezza 490 mm) e al peso totale di soli 45 kg. Ha una velocità massima di 6 km/h per un’autonomia di 20 km. Mobi 500 è il modello medio della gamma e permette un carico di ben 140 kg per una velocità massima di 10 km/h. La sua autonomia è di 35 km con tempi di ricarica della batteria di sole 8 ore. Chi cerca uno scooter di alta gamma ad un ottimo rapporto qualità-prezzo trova nel Mobi 800 il modello perfetto. Questo
articolo del peso di 124,5 kg permette di muoversi ad una velocità fino a 10 km/h per un’autonomia di ben 55 km. Il telaio completamente ammortizzato assicura il massimo comfort. Infine, segnaliamo che per poter condurre questi veicoli non serve né la patente di guida né l’omologazione. Inoltre sono permessi solo su percorsi pedonali, marciapiedi, piste ciclabili e strade campestri. Gli interessati a questi veicoli potranno conoscere meglio le loro potenziali-
tà durante l’esposizione prevista presso il Centro S. Antonino, da giovedì a sabato prossimi. Negli orari 10.00-12.00 e 14.00-17.00 sarà presente uno specialista OBI per rispondere alle domande e per permettere agli interessati di testare i vari modelli. 1 2 3
Migros richiama due levigatrici orbitali della Bosch Per motivi di sicurezza, la Robert Bosch ritira le levigatrici orbitali prodotte tra il giugno e l’agosto 2007. Gli articoli presentano un difetto di materiale del sistema di ventilazione che potrebbe causare la rottura dell’utensile e l’espulsione dei pezzi, il che non consente di escludere a priori il rischio di lesioni e, in caso estremo, di una scossa elettrica. Nel 2007 presso Do it + Garden sono stati venduti due degli apparecchi interessati: Levigatrice orbitale PSS 200A (n. art. 6166.142; codice EAN 3165140337441). Levigatrice orbitale PSS 250AE (n. art. 6166.299; codice EAN 3165140337526). Le levigatrici non si devono più utilizzare né cedere a partire da subito. I clienti sono pregati di rivolgersi direttamente e senza indugi al fabbricante contattandolo al numero gratuito 00800 83 64 67 04. La Robert Bosch è disposta a sostituire gratuitamente gli apparecchi interessati con uno nuovo.
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PESCE, CARNE E POLLAME Bratwurst dell’Olma di San Gallo in conf. da 2, 2 x 2 pezzi, 640 g 6.– invece di 12.– 50% Prosciutto speziato M-Classic, Svizzera, per 100 g 2.50 invece di 3.60 30% Tutto l’assortimento di salumi Gusto del Sol, per es. prosciutto crudo Serrano, Spagna, per 100 g 3.85 invece di 4.85 20% Carne di manzo macinata M-Classic, Svizzera, al kg 9.– invece di 18.– 50% Cosce di pollo Optigal al naturale o speziate, 4 pezzi, Svizzera, per es. al naturale, al kg 9.– invece di 13.– 30% Gamberetti tail-on ASC cotti, d’allevamento, Vietnam, per 100 g 3.40 invece di 5.70 40% Luganighetta, Svizzera, conf. da ca. 800 g, per 100 g 1.25 invece di 1.85 30% Salametti a pasta fine, prodotti in Ticino, in conf. da 2 pezzi, per 100 g 2.90 invece di 3.70 20% Fettine fesa di vitello TerraSuisse, Svizzera, tagliate fini, imballate, per 100 g 5.70 invece di 7.60 25% Spezzatino e arrosto spalla di maiale TerraSuisse, Svizzera, imballato, per 100 g 1.15 invece di 1.70 30% Mini filetti di pollo Optigal, Svizzera, imballati, per 100 g 2.55 invece di 3.65 30% Filetto di passera MSC, Atlantico nord-orientale, in vaschetta, per 100 g 2.– invece di 3.– 33% Fino al 9.1
PANE E LATTICINI Mezza panna per salse, mezza panna acidula o M-Dessert Valflora, per es. mezza panna acidula, 180 ml 1.35 invece di 1.70 20% Tutti gli yogurt Passion da 180 g, per es. stracciatella –.70 invece di –.90 20% Emmentaler dolce, per 100 g 1.05 invece di 1.55 30% Appenzeller Classic, per 100 g 1.25 invece di 1.60 20% Emmentaler/Le Gruyère grattugiati in conf. da 2, 2 x 120 g 3.80 invece di 4.80 20% Caseificio Leventina, prodotto in Ticino, al libero servizio, al kg 18.20 invece di 24.35 25%
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ALTRI ALIMENTI Branches Frey in conf. da 50, UTZ, Classic, Eimalzin o Bicolor, per es. Classic, 50 x 27 g 11.– invece di 22.25 50% Tavolette di cioccolato Frey da 400 g in conf. da 3, UTZ, per es. Crémant, 3 x 400 g 9.60 invece di 14.40 33% Schiumini da 290 g o schiumini al cioccolato da 350 g, per es. schiumini al cioccolato, 350 g 3.65 invece di 4.60 20% Tutti i biscotti rotondi in confezione a tubo (prodotti Alnatura esclusi), –.50 di riduzione, per es. biscotti margherita, 210 g 1.40 invece di 1.90 Tutti i tipi di caffè UTZ da 1 kg, per es. caffè in chicchi Boncampo 5.65 invece di 8.50 33% Confetture Extra in conf. da 3, fragole o albicocche, fragole e lamponi, per es. fragole, 3 x 500 g 5.90 invece di 8.85 33% Tutte le barrette ai cereali Farmer, a partire da 2 confezioni 25% Miscela di noci o cranberries in conf. da 2, per es. cranberries, 2 x 150 g 3.40 invece di 4.30 20% Involtini primavera con verdura o pollo J. Bank’s in conf. da 2, surgelati, per es. involtini primavera con pollo, 2 x 6 pezzi 9.80 invece di 14.– 30% Filetti di pangasio Pelican, ASC, surgelati, 1 kg 6.10 invece di 12.20 50% Délice di pollo Don Pollo, surgelati, 1 kg 9.10 invece di 13.05 30% Aquella in conf. da 6, 6 x 1,5 l, per es. verde 1.65 invece di 3.30 50%
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