Azione 02 dell'11 gennaio 2016

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXVIII 11 gennaio 2016

Ms alle hoppin pag g ine 27-2 9/

Azione 02

Società e Territorio Nez Rouge Ticino: da vent’anni un servizio molto apprezzato

Ambiente e Benessere Provare le vertigini è come sperimentare un labirinto in cui sono messi in gioco udito, equilibrio, emozioni, paure

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Politica e Economia Braccio di ferro fra Riyad e Teheran per la supremazia

Cultura e Spettacoli Come si può vedere a Torino, Monet era un artista eccezionale

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pagina 3 pagine 14 e 15

di Peter Schiesser pagine 18-19

Stefano Spinelli

Un presidente figlio del territorio

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La lezione di Colonia di Peter Schiesser Proviamo ad immaginare di trovarci la sera di San Silvestro in una grande città. Appena giunti alla stazione ferroviaria vogliamo scendere al fiume ad ammirare i fuochi pirotecnici, o prendere le vie della città vecchia e brindare al nuovo anno. Siamo in compagnia di amici, partner, figli. Improvvisamente nella grande e affollatissima piazza si scatena il caos. La situazione si fa pericolosa e la polizia chiude la piazza (e l’entrata alla stazione) nel tentativo di controllare centinaia di persone ubriache. Ma attorno a noi, dove la polizia non arriva ci sono un migliaio di persone, la pelle scura e la parlata araba, che cominciano ad importunarci, palpeggiano le donne, le insultano, le derubano. Siamo in balia di una calca aggressiva, non sappiamo come andrà a finire, cerchiamo di difendere compagna, moglie, figlia, amica. Qualcuno subisce, impotente. Inaccettabile. Questo è quanto è successo poco prima della mezzanotte del 31 dicembre a Colonia: il primo episodio di molestie sessuali di massa. Non è successo a noi, ma le vittime sono esattamente persone come noi, scese a divertirsi in piazza per salutare il nuovo anno, la

cui libertà e integrità personale viene lesa dal branco scatenato. Qualche ora dopo a Colonia la situazione torna sotto controllo, ma solo allora, dal racconto di vittime e testimoni, gli agenti vengono a sapere che cos’è successo: centinaia di molestie sessuali, alcuni casi di violenze sessuali e non solo, persone derubate. Inizialmente la notizia bomba non trapela, i vertici della polizia sostengono che è stata una serata tranquilla. Solo quattro-cinque giorni dopo in Germania emerge il quadro completo di quanto successo. Come mai tanta reticenza a riconoscere la gravità dei fatti? Proprio il fatto che sono tanto gravi e inusuali, che tutti gli episodi, secondo vittime e testimoni, hanno coinvolto persone di origine nordafricana, ha indotto autorità, politici, giornalisti, a trattare con estrema cautela (autocensura?) la notizia: arabi, magari richiedenti l’asilo, che molestano donne tedesche? Oddio, sarebbe la perfetta incarnazione dei cliché mentali dei gruppi di destra e anti-stranieri. Una notizia ghiotta, servita su un piatto d’argento per essere strumentalizzata contro la politica della frontiere aperte di Angela Merkel. Non può essere vero, per cui, responsabilmente, non diamone risalto, devono aver pensato molti giornalisti. Ma la notizia era vera

e non si poteva più negarla, però non senza fare ancora un tentativo di relativizzarla («non è provato che si trattasse di richiedenti l’asilo», «succede anche all’Oktoberfest»). Ed ora che i fatti sono noti, che le denunce fioccano e le inchieste sono partite, è tempo di riflettere su ciò che un simile abuso sessuale di massa significa: è il machismo di società arcaiche, in cui l’uomo ha potere sulla donna, che si scontra con costumi più liberi e un’eguaglianza fra i sessi che si basa sul rispetto reciproco, prima di tutto della sfera fisica personale. Nulla di tanto sconosciuto: ogni donna occidentale che ha viaggiato nel Terzo mondo, dal Messico all’India, dal Pakistan all’Egitto, sa di dover evitare determinati atteggiamenti o indumenti, in quei paesi. Ma se questo avviene anche in casa propria, abbiamo un problema. Il problema non va relativizzato, ma neppure strumentalizzato, semmai osservato in modo differenziato: anche in culture machiste, non tutti gli uomini trattano le donne come una proprietà privata e usano violenza nei loro confronti. Per contro, anche in Europa molte donne subiscono violenze e vengono uccise. Colonia dovrebbe insegnare che il machismo va combattuto indipendentemente dal colore della pelle di chi lo incarna, ma senza buonismi gratuiti.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 11 gennaio 2016 ¶ N. 02

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Attualità Migros

M Fatturato in calo in un mercato in flessione Migros Ticino 2015 Pubblicati i dati relativi all’attività della cooperativa nell’anno appena concluso Migros Ticino chiude il 2015 con una cifra d’affari di 490,8 milioni di franchi, in calo del 4,8% rispetto all’anno precedente. La cooperativa ha operato in un mercato del commercio al dettaglio caratterizzato sia a livello svizzero ma ancora di più in Ticino da una flessione (circa –1,8, rispettivamente –4 per cento), influenzata dall’apprezzamento del franco sull’euro e dalla conseguente diminuzione dei prezzi (circa del –1,8 per cento) e dalla crescita del turismo degli acquisti. Sui ricavi della cooperativa hanno inoltre pesato i lavori di ristrutturazione in due dei suoi punti di vendita più importanti (Centro Agno e Lugano Centro). La filiale di Migros Ticino attiva dal 2014 nel campo dei centri fitness (Activ Fitness Ticino SA), i cui ricavi non sono consolidati in quelli della cooperativa, ha inoltre realizzato un fatturato di 1,6 milioni di franchi, in forte crescita rispetto all’anno precedente. Nel settore commerciale (451,8 milioni di franchi) la cooperativa ha ulteriormente sviluppato l’offerta di beni e servizi, cercando di favorire i prodotti della regione e quelli a valore aggiunto

a livello di ecologia e sostenibilità, nel quadro delle promesse del programma Generazione M. La rete di vendita è stata ulteriormente ampliata e rinnovata: nel corso dell’anno è stato aperto un nuovo supermercato a Melano e sono stati ristrutturati il secondo e il terzo piano del supermercato di Lugano Centro e i supermercati del centro Agno, di Faido e di Molino Nuovo. Malgrado i disagi dovuti ai lavori nella sede principale di Lugano, nel settore della formazione per adulti (Scuola Club Migros Ticino) le ore di frequenze sono state 283’000, in crescita dello 0,5%, con un risultato particolarmente positivo per i percorsi formativi con diploma nel settore wellness e fitness. Le attività culturali sostenute dalla cooperativa nell’ambito del programma del Percento culturale Migros Ticino sono state caratterizzate da alti livelli di frequenza, mentre il settimanale di informazione e cultura «Azione», ha visto aumentare a 117’000 il numero di lettori. Ulteriori dettagli sui dati dell’esercizio 2015 verranno comunicati il prossimo mese di marzo in occasione della conferenza stampa annuale.

Molto positivo il bilancio per l’attività nei centri Activ Fitness.

Tra passione e innovazione Scuola Club Migros Ticino L’impegno per una formazione

d’avanguardia e per tutti La Scuola Club Migros Ticino riparte e lo fa con importanti novità, come ci racconta la nuova responsabile Mirella Rathlef (nella foto). «La nostra visione della scuola si fonda su una premessa: imparare ci aiuta a vivere meglio, ogni giorno. Credo che la formazione sia una grandissima opportunità che va resa sempre più accessibile a tutti e continuamente rimodulata per stare al passo con un tempo complesso ed esigente come il nostro. Questa convinzione ha spinto me e il mio team ad affinare la nostra offerta, nella consapevolezza che oggi la domanda di formazione è multiforme e tocca tutte le fasce della popolazione e tutte le età della vita. Questa è per noi una grandissima sfida. Ciò significa anzitutto pensare format sempre nuovi, più flessibili, rapidi e personalizzati». Da qui l’adattamento dei corsi e dei loro contenuti. «Abbiamo rimodellato i tempi e gli spazi dell’apprendimento. Per facilitare tutti abbiamo ampliato l’offerta proponendo percorsi nei weekend, corsi po-

wer, slow e outdoor», ci spiega la nuova responsabile. La seconda leva strategica è l’elevata professionalità dei formatori: «Ho sempre rivolto un’attenzione particolare ai formatori seguendoli nel loro percorso professionale. Oggi, dalla prospettiva del mio nuovo ruolo, la loro figura mi appare ancora più cruciale. Sono loro l’anima della scuola. Se loro vanno bene, la Scuola Club va bene». La cura dell’aggiornamento interno è incessante, come mostra la prima edizione di Vivere la formazione, un evento per i formatori in cui sperimentare nuove tecnologie e scambiare best practice. «La Scuola Club Migros Ticino è leader nel mercato della formazione dei formatori; lavoriamo molto sulla qualità dei docenti e questo ci viene riconosciuto». Il riconoscimento di un’eccellenza avviene anche sul fronte delle lingue che rimangono il core business della Scuola. «Siamo ormai diventati una scuola di tedesco e di italiano per stranieri» – racconta Mirella Rathlef – «Qui ci sono percorsi quasi sarto-

riali. Pensiamo a soluzioni creative e in linea con le esigenze del pubblico. Cito, ad esempio, il Tedesco Top, una full immersion per chi è attivo professionalmente e ha tempo solo la sera. Manteniamo uno sguardo attento anche ai supporti didattici all’avanguardia. Oltre al rinnovamento strutturale della nostra sede di Lugano, provvista di aule luminose e funzionali, abbiamo dotato i nostri spazi formativi di LIM (Lavagna interattiva multimediale), uno strumento ormai imprescindibile per una formazione davvero al passo con i tempi. E per finire ci stiamo specializzando in Assessment, un tipo di servizio che, accanto al già consolidato insegnamento, le aziende sempre più ci richiedono». La strada disegnata dalla nuova responsabile è chiara: custodire una grande tradizione formativa, aprendosi al futuro con passione e innovazione, offrendo condizioni vantaggiose grazie al fatto che mediamente i partecipanti pagano solo i due terzi del costo dei corsi (la Cooperativa prende a carico la differenza). Ma non ci si ferma qui.

Tra le novità del 2016 CORSI Tedesco TOP

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Azione Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

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L’ascolto delle persone e dei loro bisogni formativi si è ampliato per diventare così ascolto di un intero territorio. «Abbiamo pensato di proporre eventi dedicati ad un vasto pubblico su temi che ci stanno davvero a cuore – ricordo che il 2016 è l’anno dedicato alla prevenzione e alla promozione della salute. Nel prossimo anno sono già a calendario alcuni appuntamenti importanti: Lorella Zanardo, attivista e scrittrice, per una serata dibattito sul tema dello sguardo consapevole sui media contemporanei; lo chef Pietro Leemann, una vera star della cucina naturale, per una presentazione del suo libro. Ogni tema toccato dai nostri ospiti è corredato da corsi specifici, così da permettere a tutti gli interessati di ritrovarsi e approfondire. Cito ad esempio il percorso formativo Coach in nutrizione che a febbraio vedrà una seconda edizione a pochi mesi di distanza dal lancio della prima che ha avuto grandissimo successo. E lo sguardo spazia anche oltre Gottardo dove si svolgono esperienze formative di successo che verranno presentate anche in Ticino, come ad esempio il Corso base di Assistenza per prendersi cura degli anziani». Una scuola, già oltre la scuola, si potrebbe affermare. «Proprio così. Nei prossimi anni la

Scuola Club Migros Ticino diventerà sempre più un think tank, un serbatoio di idee, uno spazio per pensare, progettare e proporre. Proprio per questo apriremo la scuola a tutti, anche virtualmente, grazie anche ad un grande progetto nazionale che riguarda l’elearning. Insomma, noi siamo qui. Vi ascoltiamo. Venite a trovarci. Sperimentateci». In Ticino c’è uno spazio per coltivare e far crescere il futuro, dunque. Mirella Rathlef e il suo team hanno colto il cambiamento e sono pronti ad accompagnarlo.

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Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


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Società e Territorio Progetto quartieri urbani Pregassona e Molino Nuovo sono al centro di un progetto pilota che coinvolge direttamente i cittadini, lo scopo è far emergere necessità e bisogni della popolazione pagina 5

L’equilibrio di una valle Un libro e una mostra offrono spunti di riflessione sulla Valle Bavona e sul suo futuro basato su un delicato equilibrio tra conservazione e sviluppo pagina 6

Un utente affida le chiavi della propria auto a una volontaria di Nez Rouge che lo riaccompagnerà a casa. (W. Jentsch/www. nezrouge.ch)

Mi accompagni a casa? Nez Rouge Ticino L’associazione nel 2015 ha compiuto vent’anni e ha registrato un grande aumento di richieste Paola Bernasconi Un aumento vertiginoso, di circa il 50%. È stato un anno d’oro per Nez Rouge Ticino, l’associazione di volontari che accompagnano a casa chi non se la sente di guidare. Nel 2015, nel corso di 49 serate, hanno aiutato, in 486 interventi, quasi 1000 persone, percorrendo 25mila chilometri. Nel solo mese di dicembre, i servizi effettuati sono stati 126, con 263 persone condotte alle proprie abitazioni per un totale di 7800 chilometri. «Solo la sera del 31 dicembre, ci sono stati 79 interventi, lo stesso numero di tutto il mese nel 2014» ci spiega soddisfatto il presidente René Grossi. «Secondo me i fattori determinanti sono stati diversi; sulla scia del nostro 20esimo anniversario, tv, giornali e media hanno parlato di più di noi, facendoci conoscere. Noi stessi abbiamo fatto passare in radio 4 volte al giorno una pubblicità. Inoltre, il clima è stato più mite, dunque più gente ha trascorso il Capodanno in piazza. E importante è stata la nostra applicazione, scaricabile su Android e smartphone». L’idea che a rivolgersi a Nez Rouge sia solo chi è ubriaco è falsa. «Una statistica svizzera dice che la media alcoolemica delle persone che sono state accompagnate è fra lo 0,5% e lo 0,8%,

per cui non elevato», aggiunge Grossi. E due volontari confermano: chi sale a bordo è quasi sempre in ottime condizioni. «Una sera, su un’auto è nata una conversazione sui generi musicali e ho imparato molto sul metal. Un’altra volta mi sono fatto una cultura sulle auto ibride: c’è sempre qualcosa con cui arricchirsi!», racconta divertito un volontario, che presta servizio da una dozzina d’anni. «Chi è davvero ubriaco, spesso non ci chiama, ma si mette al volante lo stesso, rischiando di causare incidenti», conferma un altro. «Le persone che pensano a noi hanno la testa sulle spalle, capiscono di non potersi mettere alla guida, oppure non se la sentono». Grossi sottolinea come Nez Rouge accompagni chiunque, da chi è troppo stanco per guidare a chi non lo può fare per farmaci assunti o alcool «non chiediamo perché non se la sentono di guidare e assolutamente non giudichiamo il loro stato». Chi usufruisce, in genere, di Nez Rouge? «Statisticamente, possiamo dire che il numero di uomini e di donne è circa lo stesso. Soprattutto ora che arriveranno i carnevali, chi sale a bordo sono sovente persone fra i 25 e i 40 anni», continua Grossi. I volontari ci parlano di diversi giovani, magari con

la patente non ancora definitiva, che preferiscono non rischiare se hanno bevuto anche solo poco. L’ostacolo più grande per un’associazione del genere è probabilmente quello di abbattere i pregiudizi, e col tempo e con l’informazione ci sta riuscendo. «Ma c’è ancora chi chiede di essere lasciato a 100 metri da casa per non farsi vedere dai vicini o dal coniuge», racconta un volontario. Una paura diffusa fra chi potrebbe chiamare Nez Rouge è che i numeri di targa vengano poi passati alla polizia. «Assolutamente non è così», ci tiene a sottolineare René Grossi. «Chiediamo il modello e il colore dell’auto, un recapito telefonico per ritrovare gli utenti una volta sul posto; gli unici che vengono a conoscenza dell’indirizzo di consegna sono i componenti dell’equipaggio». Questi dati vengono eliminati a fine serata. «Qualcuno credeva che il servizio fosse solo per il Sottoceneri, mentre copriamo il Ticino intero ed anche il Grigioni italiano, una ragazza mi ha chiesto se è vero che, in caso abbia delle amiche in auto, non le riaccompagniamo: altra informazione falsa, portiamo tutti», ricorda un volontario: l’informazione è importante. Ovviamente, Nez Rouge non è un servizio taxi, an-

che se qualcuno che fa il furbo c’è sempre. «Una delle mie uscite è stata inutile, nel senso che quando sono arrivato di fronte all’hotel, le due signore che ci avevano chiamato mi hanno detto che l’auto l’aveva presa il marito. Non le abbiamo caricate, non facciamo concorrenza ai taxi». Solitamente, un equipaggio è formato da tre persone. Una mette a disposizione la propria auto; una volta giunti sul luogo dove si trova chi ha chiamato, un autista e un accompagnatore salgono sulla macchina dell’utente e li riaccompagnano, mentre l’auto di Nez Rouge segue. I tre poi tornano in centrale o partono per un altro servizio sulla vettura del volontario. Chi si mette a disposizione, con un reclutamento che avviene di solito nel mese di dicembre, non manca, di tutte le età e per i motivi più disparati. Uno dei nostri interlocutori ci racconta di aver lasciato la famiglia a dicembre. «Ho passato dunque un periodo di feste triste, e l’anno successivo, avendo sentito che Nez Rouge cercava volontari mi sono iscritto per la notte del 31, e da lì non ho mai smesso. Col tempo si sono aggiunti nuovi volontari a quelli già “rodati”. Quello che non è mutato sono l’entusiasmo e la motivazione». L’altra

persona con cui abbiamo dialogato ha svolto la sua prima serata da volontario per Capodanno ed è felice. «Alla tv il 31 non c’è mai nulla di interessante, i miei figli sono piccoli e verso le 20.30 sono già a letto. Ci tenevo a cenare con loro, ma per il dopo ho voluto provare qualcosa di diverso». L’intenzione è di proseguire, anche se il tempo a disposizione è poco. «Non chiediamo un minimo di serate», precisa Grossi. Il vantaggio di Nez Rouge, secondo il volontario, è che chiunque può partecipare. «In molte attività di volontariato, come per i pompieri o per l’ambulanza, si richiede un grado quasi di professionismo e dei corsi. Qui no, e piuttosto che non sapere che cosa fare...». A colpire entrambi è il clima: raccontano di giochi di società, carte, piramidi da costruire con dei legnetti, cibo e bevande e il divertimento nell’accompagnare a casa persone appagate. Ore divertenti, pronti per essere utili. Anzi, peccato non poterlo estendere a tutto l’anno. «Ovviamente, a base volontaria non si può, ma sarebbe bello poter coinvolgere magari dei disoccupati», ipotizza uno dei volontari. Per il momento, Nez Rouge si gode la sua crescita, segno che tutti insieme, comitato e volontari, si sta lavorando bene.


L’enorme partecipazione alla nostra raccolta fondi è un successo che ha dell’incredibile! Ti ringraziamo di tutto cuore per il tuo impegno. L’importo totale delle donazioni, pari a 6’120’000 franchi svizzeri, confluisce in progetti a favore dei bambini bisognosi in Svizzera. Un’iniziativa della Migros a favore di:


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Società e Territorio

Quartieri che cambiano Lugano A Pregassona e Molino Nuovo è al via un progetto pilota del Dicastero Integrazione e Informazione sociale

che con un processo di partecipazione vuole far emergere le necessità dei cittadini Roberta Nicolò Il luogo in cui si abita, soprattutto se ci si è cresciuti, ci racconta una storia che riconosciamo come nostra. Il paese, la cittadina o il quartiere fungono da zona sicura, in cui la persona, di regola, inizia a costruire la sua rete sociale, si identifica, si sente a proprio agio. Ecco allora che quando il quartiere cambia, possono insorgere alcune difficoltà. Occorre rivedere lo spazio e soprattutto occorre attivare un processo di mediazione che ne ricomponga gli elementi e le dinamiche fondanti, quegli elementi che aiutano il cittadino a identificarsi con il territorio.

Il progetto rivolto ai quartieri urbani segue la logica dello sviluppo dal basso coinvolgendo il cittadino in tutte le fasi, dall’ideazione alla realizzazione Negli ultimi anni in Ticino si sta assistendo a un progressivo incremento delle aggregazioni di Comuni che vanno a costituire centri civici più grandi e spesso dal territorio frammentato che comprende aree tipicamente urbane ed aree verdi e boschive molto diverse le une dalle altre. Questo nuovo tipo di agglomerato necessita di un’adeguata risposta da parte delle infrastrutture, mirata a raccogliere e valutare le necessità contingenti dei suoi abitanti per garantire una buona qualità di vita dei centri abitati. A Pregassona e Molino Nuovo, proprio per far fronte al nuovo assetto territoriale, è in partenza un progetto pilota promosso dal Dicastero Integrazione e Informazione Sociale in collaborazione con l’Ufficio di Quartiere della Città di Lugano e sostenuto dall’Ufficio federale dello sviluppo territoriale (ARE), sezione sviluppo sostenibile. «L’intento del progetto è quello di cercare un processo di partecipazione della popolazione di questi due quartieri nel fare emergere le ne-

cessità degli abitanti. Bisogni ed esigenze che possono essere le più svariate: dalla costruzione di un parco giochi alla creazione di centri di aggregazione, dallo sviluppo di momenti di incontro per famiglie e bambini alla creazione di associazioni di quartiere. Ma possono anche comprendere l’organizzazione di serate informative su tematiche legate all’ambiente e alla salute, la valorizzazione dello spazio pubblico e la creazione di zone d’incontro. Tutte necessità già emerse da progetti realizzati in altre città svizzere» ci spiega la responsabile Sabrina Antorini Massa. La scelta per Lugano è caduta su due quartieri cittadini che presentano problematiche simili: «Pregassona e Molino Nuovo sono affini tra loro, con una popolazione che si aggira sui 9000 abitanti, hanno più o meno gli stessi problemi come, per esempio, la presenza di abitazioni popolari o l’elevato numero di cittadini stranieri. Sono inoltre zone in cui si assiste a un grosso sviluppo di nuove costruzioni e insediamenti e sono quartieri di passaggio a traffico intenso, con poco verde a disposizione e una forte carenza di zone di incontro. Mancano anche eventi che possano far incontrare i cittadini. Tutti questi fattori hanno determinato, nel tempo, un peggioramento della qualità della vita e hanno visto crescere problematiche sociali quali la difficoltà di convivenza e i conflitti fra persone appartenenti a varie generazioni e culture. Per questo abbiamo deciso di partire proprio da questi due quartieri per lanciare il nostro progetto». I legami sociali sono sicuramente alla base di una buona qualità di vita, fattore che il Progetto quartieri urbani della città di Lugano intende favorire e accrescere. «L’intervento di prossimità è rivolto alla popolazione residente con una particolare attenzione alle fasce più deboli quali persone sole, anziani, persone con passato migratorio e nuclei famigliari a basso reddito. L’ottica è quella di un approccio comunitario ovvero, nella prima fase, gli obiettivi principali sono quelli di raccogliere sul territorio i bisogni dei cittadini. Durante tutto il 2016 ci adopereremo quindi per fare una corretta mappatura delle necessità del territorio dei due quartieri e

A Molino Nuovo sarà attivo un operatore di prossimità. (CdT Gonnella)

alla fine dei lavori verranno valutate le possibilità di intervento specifiche. Per raccogliere i suggerimenti degli abitanti verranno coinvolte associazioni, enti e antenne già attive sul territorio. Il lavoro sarà svolto da un operatore di prossimità che attraverso l’ascolto, la mediazione e un approccio informale potrà facilitare processi di miglioramento della qualità di vita, della coesione sociale e della convivenza della popolazione del quartiere. Particolarità del progetto – prosegue Antorini Massa – è il fatto che i cittadini non ne beneficiano passivamente, ma ne sono i principali protagonisti e, grazie alla conoscenza del loro quartiere, sono essi stessi la risorsa principale del progetto». Un piano di lavoro improntato alla sostenibilità, così come auspica-

to dall’Ufficio federale dello sviluppo territoriale, poiché, seguendo la logica dello sviluppo dal basso, coinvolge la cittadinanza non solo nella fase di raccolta dei bisogni, ma anche nella realizzazione e soprattutto nel mantenimento e nel buon funzionamento delle soluzioni che verranno adottate in seno all’amministrazione comunale. Inoltre, la messa in rete di vari uffici già presenti nel quartiere e in città, attraverso collaborazioni trasversali, potrà garantire una maggiore fruibilità dei servizi già in essere. In Svizzera questo tipo di approccio, che prevede una soluzione mirata alla specificità territoriale, è fortemente promosso e sostenuto. «Le nostre realtà sono oggi particolarmente esposte al cambiamento sociale con conseguenze

e fenomeni che si manifestano localmente. Per questo è importante dare delle risposte puntuali e mirate ai singoli bisogni. Ogni area, ogni quartiere, necessita di una strategia a sé. Per Pregassona e Molino Nuovo stiamo infatti valutando il coinvolgimento di figure quali i portinai dei palazzi per raccogliere i suggerimenti degli abitanti. Crediamo che più il cittadino si sente coinvolto nella pianificazione, nello sviluppo e nella corretta gestione di infrastrutture e iniziative, maggiormente sarà propenso a farsi carico anche della loro buona riuscita. È una strategia che paga e che aiuta l’amministrazione a rispondere ai reali bisogni della sua cittadinanza», conclude la responsabile del Dicastero Integrazione e Informazione Sociale.

Social, ma in sicurezza Alfabeto Digitale A cosa occorre prestare attenzione per preservare la propria immagine

sulle piattaforme di condivisione nel web Ugo Wolf Avete mai provato a «Googlare» il vostro nome e cognome? Un tempo lo si faceva con un briciolo di egocentrismo, per pura curiosità narcisistica. Oggi la pratica si rivela quasi una necessità, dal momento che nessuno di noi è oggettivamente in grado di sapere se qualche nostro amico o conoscente abbia deciso di pubblicare sul web, a nostra insaputa, una foto o altre informazioni che ci riguardano. Molte persone non sono per niente d’accordo di essere «esposte» nella bacheca elettronica. I motivi sono chiari: una volta online una fotografia diventa di pubblico dominio e può potenzialmente essere usata per gli scopi più vari (perciò non ci stancheremo mai di raccomandare di non pubblicare sul web, in nessun caso, fotografie dei nostri bambini). Gli ambiti in cui occorre prestare maggiore attenzione sono principalmente i Social network. Quelli che vanno per la maggiore oggi sono Facebook, Google + (Plus), Instagram, Twitter: citiamo solo questi perché sono quelli più

facilmente alla portata dell’utente «di recente alfabetizzazione digitale». Tralasciando gli ultimi due, di cui ci occuperemo in un prossimo articolo, nel caso di Facebook tutte le informazioni relative al modo con cui i nostri dati sono utilizzati si trova cliccando sull’iconetta a forma di lucchetto in alto a destra nella pagina blu. Sono offerte quattro moda-

lità di verifica: «Controllo della privacy / Chi può vedere le mie cose? / Chi può contattarmi? Qualcuno mi infastidisce – Come faccio a farlo smettere?». Cliccando sulla prima voce saremo guidati in un percorso di configurazione abbastanza intuitivo per modificare vari parametri, decidendo a chi è permesso vedere i nostri contenuti (Tutti /Amici /

Le sezioni di Facebook e Google per il controllo della propria privacy.

Amici degli amici /Solo a me). È possibile tra l’altro vedere come viene visto il nostro profilo da un osservatore esterno (sotto la voce «Chi può vedere le mie cose» cliccare su «Cosa vedono gli altri sul mio diario»). È un esercizio utile perché Facebook è molto complicato e rimanendo solo all’interno del nostro profilo non possiamo immaginare come appare a chi lo frequenti dall’esterno. Per quello che riguarda Google +, un servizio che ha molte analogie con Facebook, la configurazione dei suoi livelli di privacy è inclusa nei controlli relativi a tutta la gamma di prodotti Google: chiunque possieda un account Gmail ha infatti la possibilità di apparire anche sul social «di casa». All’indirizzo web https://aboutme.google. com si trova la proposta: «Controlla la visibilità delle tue informazioni». Oltre alle regolazioni necessarie alla visualizzazione del profilo Google +, cliccando sulla voce «Vai al controllo della privacy» il sito ci proporrà una procedura guidata, simile a quella del concorrente, vista più sopra. È però molto più complessa, perché permette di regolare vari

parametri concomitanti: ad esempio il modo con cui il nostro profilo sarà visualizzato su YouTube, nel caso vi avessimo attivato un nostro canale personale (e qui soprattutto sarà possibile modificare le impostazioni legate alla cronologia delle visite e ai video consigliati). Oltre alle modifiche proposte da tale procedura guidata, il piano completo delle possibilità di verifica del nostro account Google si trova in https://myaccount.google.com/privacy. Nonostante il tono rassicurante e apparentemente colloquiale delle varie voci da modificare, il lavoro di parametraggio è piuttosto complesso. Gli utenti meno esperti e coraggiosi non esitino qui a chiedere aiuto ad amici e conoscenti più capaci. In fondo è la piccola vendetta che il piacere dei rapporti sociali può prendersi sull’informatica. Ad ogni modo, fatelo. Tenete conto che sia Facebook che Gmail hanno tutto l’interesse a mantenere la massima visibilità dei dati dei loro utenti, per motivi eminentemente pubblicitari. Sta a noi modulare, nel limite del possibile, questa esposizione «di default».


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Società e Territorio

Un delicato equilibrio Valle Bavona Un libro e una mostra offrono spunti di riflessione sul futuro di una valle tra conservazione e sviluppo

Elena Robert Le specificità storiche, geografiche e antropologiche della Valle Bavona portano istituzioni, enti e persone coinvolti nei processi decisionali a domandarsi come salvaguardare e promuovere, accertandosi sempre che i cambiamenti siano efficaci, non destabilizzino comunità e ambiente o non ricadano con effetti domino indesiderati. In gioco, qui più che altrove, c’è sempre da mantenere il delicato equilibrio tra tradizione e modernità, conservazione e sviluppo. Due recentissime iniziative, l’esposizione di Heimatschutz a Zurigo Valle Bavona – una valle ticinese senza uguali (che probabilmente arriverà in Ticino nel 2017) e il volume Terre di Val Bavona. Il sole dietro il crepuscolo, edito a fine 2015 dalla Fondazione Valle Bavona (FVB) per il 25mo di attività in collaborazione con l’editore Armando Dadò, si completano a vicenda e hanno il pregio di riproporre l’invito ad una doverosa riflessione sul futuro della Valle. Entrambe si rivolgono alla collettività e alla comunità locale, fiera delle origini, con profondo senso identitario e consapevole della ricchezza acquisita da generazioni.

Dal 1995 Heimatschutz Svizzera sostiene i progetti della Fondazione Valle Bavona «Difficilmente ci si rende conto delle esperienze vissute che hanno prodotto il paesaggio straordinario che oggi tutti ammiriamo e la cultura rurale unica che ci è stata tramandata, senza considerare l’impegno che occorre per mantenere in vita tutto ciò» ci dice Karin Artho, direttrice del Centro Heimatschutz a Zurigo e co-curatrice della mostra. Una piccola esposizione realizzata con pochi mezzi, la prima temporanea ospitata nella nuova sede a Villa Patumbah, riaperta al pubblico nel luglio scorso dopo oltre due anni di restauri. L’essenzialità della comunicazione punta dritta al coinvolgimento attivo del visitatore consentendogli di avvicinarsi alla realtà della valle, al suo paesaggio, ai suoi abitanti, attraverso testi, immagini, testimonianze e filmati. Geografia e morfologia del territorio nonché eventi naturali hanno condizionato l’organizzazione sociale, il lavoro e l’uso del suolo: quello del fondovalle tra Mondada e San Carlo è vicino agli abitati ma esiguo, mentre il retroterra difficilmente accessibile rappresenta l’80 per cento di quello produtti-

vo. Si accenna ad alcuni fondamentali cambiamenti e al loro impatto sulla Valle: l’emigrazione iniziata nel 1600, lo sfruttamento idroelettrico della Maggia a Robiei dagli anni Cinquanta, la costruzione della strada carrozzabile avvenuta solo nel 1955, l’adozione di un Piano regolatore intercomunale nel 1984 e di un manuale per il rinnovo delle costruzioni nel 2000. Oggi si riconosce una nuova forma di transumanza nel pendolarismo degli abitanti di Cavergno e Bignasco verso altre località del Cantone dove studiano o lavorano e tornano in valle per trascorrervi parte del loro tempo libero. Norme e strumenti esistono per la Bavona, iscritta dal 1983 nell’Inventario federale dei paesaggi e dal 2004 in quello federale degli insediamenti: vi sono stati inventariati e rilevati cappelle, edifici rurali, costruzioni sottoroccia, prati pensili, molti degli stessi abitanti conoscono della Valle ogni masso. Non mancano nemmeno gli aiuti. In Valle Bavona il Cantone, tramite il Dipartimento delle finanze e dell’economia, ha sostenuto diversi progetti, dai recuperi storici e paesaggistici, alla sistemazione di alloggi per gruppi, strutture ricettive e rustici, senza contare che, attraverso il sostegno diretto della Fondazione Valle Bavona e in seguito con i Fondi di promozione regionale, sono confluite in Valle importanti risorse per il sostegno ad altre iniziative di micro e piccola imprenditorialità. La Bavona è stata, inoltre, inserita recentemente nel comprensorio d’interesse per l’attuazione del Masterplan Alta Vallemaggia, un’iniziativa che, grazie al sostegno del Dipartimento federale dell’economia e all’accompagnamento di un esperto esterno, dell’Ente regionale per lo sviluppo e dell’Organizzazione turistica regionale, consentirà agli attori locali di progettare lo sviluppo futuro della Valle avviando o rivitalizzando iniziative con importanti ricadute sul territorio. Determinante il ruolo della Fondazione Valle Bavona, impegnata su vari fronti in attività concrete svolte in collaborazione con il Comune di Cevio (nel quale dal 2006 si sono fusi Bignasco e Cavergno), i Patriziati e altre istituzioni della Valle. Ad esempio, progetti didattici con le scuole per vivere le emozioni in uscite sul terreno abbinate ad attività pratiche, percorsi letterali, il restauro delle cascine di Lièlp a Robiei, unico alpe caricato della Valle che si pensa ora di trasformare in un agriturismo, i contributi annuali per lo sfalcio. Dal 1991 ad oggi i gestori del territorio sono passati da poche unità a una trentina e la superficie dei terreni falciati, sul fondovalle e sui monti, è aumentata da 30 a 40 ettari. Dal 1995 Hei-

Dal libro pubblicato da Dadò: scorcio sulla Terra di Ritorto. (Foto Dante Bianchi, © 2015 Fondazione Valle Bavona)

matschutz Svizzera sostiene i progetti della Fondazione. Finora sono stati stanziati oltre 2 milioni di franchi per la conservazione del paesaggio antropico e le attività di sensibilizzazione, contributi possibili solo grazie all’importante legato di Hans Rosbaud, già direttore d’orchestra della Tonhalle di Zurigo e di sua moglie Edeltraud. La mostra evidenzia gli incoraggianti risultati della Valle di Binn (Alto Vallese), della Bregaglia e nella Valle di Muggio. I segnali di ripresa nella Bavona ci sono, ma nulla va dato per scontato. Si vuole e ci si può permettere di conservare la Valle con le particolarità che presenta oggi? La domanda provocatoria la rivolge Heimatschutz al visitatore, messo di fronte all’ipotesi di scenari futuri come l’elettrificazione della Valle e la sua dotazione di servizi primari, oppure l’abbandono della cura del territorio e degli insediamenti, o ancora la continuazione dell’impegno della FVB a far vivere le tradizioni come fa da 25 anni a questa parte. Ad un possibile futuro per la Valle

si riaggancia l’ultima parte del volume appena uscito dedicato alle Terre bavonesi nella quale si dà voce a giovani particolarmente legati a questi luoghi e a persone in rappresentanza di istituzioni. Protagoniste del libro sono i tredici insediamenti del fondovalle (Prèsa incluso), con abitazioni e superfici coltivabili dove si risiedeva buona parte dell’anno, utilizzati come campo base per raggiungere monti e alpi nei mesi migliori: «Una sintesi di genialità insediativa, semplicità edificatoria e razionalità urbanistica, che colpisce e sorprende ogni osservatore attento» annota Luigi Martini. A lui si deve la parte storica, che attinge alle informazioni certe contenute in atti pubblici e incarti privati, studiate, interpretate e analizzate per tutta una vita. Il volume colma una lacuna, se si pensa ai molti già pubblicati sugli alpi e si presenta come un ritratto vivo della Valle, un’appassionata opera corale, coordinata da Rachele Gadea Martini, presidente della FVB e da Bruno Donati, autore di 29 interviste. I testi lettera-

presidente della multinazionale, gli «apparecchi elettronici e le reti wi-fi riempiranno le nostre case rendendole interattive, connesse, confortevoli e sicure». Grazie alla crescita del numero di oggetti intelligenti la nostra vita domestica non sarà più la stessa, vivremo esperienze completamente nuove: le nostre scarpe da tennis ci parleranno e ci diranno tempi da percorrere e velocità da mantenere, l’orologio ci dirà se dopo le feste siamo ingrassati e di quanto, ci ricorderà gli appuntamenti della giornata e la macchina del caffè partirà da sola e ci parlerà con la stessa voce suadente dell’affascinante ragazzo del bar sotto casa. Tutto questo, grazie al fatto che la continua comunicazione e lo scambio di informazione tra i vari dispositivi consentirà un maggiore controllo di

sprechi ed emissioni, si tradurrà inoltre in un notevole risparmio energetico e in una migliore e più sostenibile gestione delle nostre città. «Grazie ai sensori, alle reti connesse, all’automazione diffusa, alla possibilità di gestire tutto in remoto e in maniera personalizzata, i consumi si abbasseranno notevolmente» afferma sempre Bettina Tratz-Ryan. In questo scenario il nostro smartphone sarà un alleato strategico anche per le cose più impensabili, tanto che nulla, o quasi, ci sembrerà impossibile. Ad esempio potremo costruire un aeroplano di carta, e fin qui niente di nuovo, ma saremo anche in grado di farlo volare grazie al progetto PowerUp FPV – Live Streaming Paper Airplane Drone che sta raccogliendo fondi attraverso una campagna di crowdfunding perché l’idea si traduca in realtà: montare

ri sono di Anna Felder, Alberto Nessi, Ilario Domenighetti, Matteo Ferrari. L’approfondimento sui prati pensili di Damiano Torriani, quello sulle cappelle dell’Associazione per la protezione del patrimonio artistico e architettonico di Valmaggia, le foto di Dante Bianchi, quelle d’epoca, inedite, di Willy Gengenbach. Informazioni

AA.VV., a cura di Rachele Gadea Martini e Bruno Donati, Terre di Val Bavona. Il sole dietro il crepuscolo, Fondazione Valle Bavona, Armando Dadò editore, Locarno 2015 (www. bavona.ch). Valle Bavona – una valle ticinese senza uguali esposizione bilingue (italiano/tedesco) al Centro Heimatschutz, Villa Patumbah, Zurigo, a cura di Karin Artho, con Judith Schubiger e Ariana Pradal. Aperta fino al 29 maggio 2016: me, ve, e sa 14.00-17.00, gio e do 12.00-17.00 (www.heimatschutzzentrum.ch).

La società connessa di Natascha Fioretti Internet e gli oggetti

Il 2016 sarà l’anno in cui vedremo una crescita esponenziale dell’internet delle cose o internet degli oggetti nelle nostre vite domestiche di cittadini digitali immersi in case e città intelligenti. Dall’inglese Internet of Things (IoT), per indicare l’estensione di Internet al mondo degli oggetti e dei luoghi concreti, l’espressione nasce per definire la rete di apparecchiature e dispositivi connessi a internet. Può trattarsi di sensori per l’allarme, per il fitness, termostati in grado di rilevare la temperatura più adatta in modo autonomo, elettrodomestici, lampadine, in altre parole qualsiasi dispositivo elettronico fornito di un software che abiliti lo scambio di dati con altri oggetti connessi. Ebbene, piaccia o meno, il futuro prossimo secondo la Gartner, società

multinazionale leader mondiale nella consulenza strategica e nella ricerca nel campo dell’Information Technology, sarà sempre di più un ecosistema intelligente di oggetti collegati tra loro che noi possiamo controllare e gestire da remoto attraverso internet con notevoli benefici sulle nostre modalità di vita e sui nostri consumi. Questo almeno è quanto emerge dallo studio Forecast: Internet of Things – Endpoints and Associated Services, Worldwide, 2015 che su scala globale mira a rilevare la diffusione di case e edifici commerciali intelligenti arrivando alla conclusione che nel 2016 gli oggetti connessi nelle case intelligenti registreranno un incremento del 22% rispetto allo scorso anno mentre nel 2020 avremo 25 miliardi di oggetti connessi. Per dirla con le parole di Bettina Tratz-Ryan, vice

un modulo di controllo remoto di carbonio con due eliche e videocamera frontale sull’aereo di carta che potrà essere controllato via wi-fi anche dallo smartphone e raggiungere le 20 miglia orarie. Le prime spedizioni dell’areo di carta che oltre a volare, trasmetterà allo smartphone lo streaming delle immagini, inizieranno a giugno 2016 con un pacchetto chiamato Early Bird composto di un visore in cartone, drone e una batteria per un costo che parte da 159 dollari. L’applicazione sarà disponibile sia per Android e iOS. Segnatevelo, potrebbero essere un bel regalo per il prossimo Natale. Intanto voliamo in questo 2016 e vediamo se l’internet delle cose davvero rivoluzionerà le nostre vite anche se io preferisco la voce suadente del ragazzo del bar sotto casa, quello in carne ed ossa.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 11 gennaio 2016 ¶ N. 02

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Società e Territorio Rubriche

Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni Il mondo invecchia nell’anno nuovo Scriveva il Leopardi intorno al 1825: «Io credo che ognuno si ricordi avere udito da’ suoi vecchi più volte, come mi ricordo io da’ miei, che le annate sono divenute più fredde che non erano, e gl’inverni più lunghi». E il poeta smentisce decisamente: le sue conoscenze storiche e letterarie gli consentono di affermare che l’Italia, al tempo dei romani, doveva essere più fredda che nel XIX secolo. E aggiunge poi qualcosa che oggi suona come un presagio: il riscaldamento climatico – dice – è credibilissimo «perché da altra parte è manifesto per isperienza, e per ragioni naturali, che la civiltà degli uomini venendo innanzi, rende l’aria, ne’ paesi abitati da essi, di giorno in giorno più mite». Leopardi vedeva giusto. Oggi lo sappiamo bene ma, a differenza del poeta – insolitamente sereno in quella sua annotazione – non pensiamo a un clima «più mite», bensì a un surri-

scaldamento del pianeta. Se ne parla da tempo, e per lungo tempo se ne è parlato soltanto. È una storia lunga. Nel 1997 si concluse l’accordo di Kyoto che prevedeva entro dieci anni una riduzione del 5% di gas inquinanti: quel 5% era, secondo i calcoli degli scienziati, solo la metà del necessario per non aumentare l’effetto serra oltre i livelli allora raggiunti. Ma quell’accordo non era vincolante: uno dei primi atti del Presidente Bush fu di dichiarare che gli Stati Uniti se ne dissociavano; «Per me – affermò categoricamente – Kyoto è morto». Inoltre i Paesi emergenti – Cina, India ecc. – non intendevano frenare il loro sviluppo adottando nuove tecnologie costose per filtrare le emissioni nocive. Venne poi la Conferenza dell’Aia nel novembre del 2000, che non portò nemmeno alla ratifica della modesta riduzione delle emissioni nocive concordata a Kyoto. Eppure, gli effetti dell’inquinamento diventa-

un arresto, bensì solo un rallentamento della crescita di emissioni nocive. E finalmente, nel 2005, il protocollo di Kyoto diventò operativo. Ma i discorsi e le trattative non finirono lì: nel 2006 ci fu il summit di Nairobi, che rinviò al 2007 l’intesa sul cosiddetto «Kyoto plus», ossia il programma per introdurre tagli crescenti alle emissioni di gas serra, con l’obiettivo ultimo di arrivare dal 5 al 50% entro il 2050. Ma fu rinviato al 2008 il nodo cruciale – ossia la decisione se gli accordi sui tagli dovessero avere valore vincolante per tutti i Paesi contraenti (ma Cina e India rifiutarono ogni imposizione, e gli USA scelsero per sé una via di compromesso). E poi ancora ci fu l’accordo di Bali (2007), con qualche proposito di modesti provvedimenti; e nel 2009 il summit di Copenhagen, con qualche lodevole dichiarazione d’intenti ma senza alcuna ratifica di un accordo vincolante; e l’anno seguente

l’incontro di Cancùn, in Messico, ebbe lo stesso esito. Insomma, l’unica cosa certa è che sono stati versati fiumi di parole in cambio dei fiumi veri, sempre più poveri d’acqua. Viene dunque naturale chiedersi se tutti quei summit, tutti quei convegni, siano stati indetti per affrontare il problema e avviare soluzioni, oppure solo per tranquillizzare l’opinione pubblica e offrire un piacevole soggiorno ai tanti intervenuti (al Forum mondiale dell’acqua, tenutosi a Kyoto nel 2003, parteciparono 10’000 delegati dai vari Paesi!). Ora il summit di Parigi, recentemente concluso, rilancia la speranza, ma di nuovo senza accordi vincolanti. Se davvero le varie nazioni si metteranno d’impegno a procedere come convenuto, allora vorrà dire che davvero la situazione è grave e che la paura prevale finalmente sull’incoscienza finora dominante. Oppure… anno nuovo, storia vecchia.

sto luogo dove ventiquattro anni fa è sbarcata la sua mostruosa collezione ammirevole. Salgo le antiche scale in sasso che portano negli altri spazi del museo chiamati brillantemente souvenirs du futur. La mostra sui robot è declinata in vari temi: in questa stanza degli specchi ci sono le maschere. Riconoscibile quella di Mazinga zeta. Di là ecco i robot giocattoli, non male quelli giapponesi anni Settanta. Ci si avventura poi in stanze buie dove dietro i vetri s’illuminano, man mano che si passa lì davanti, alcune locandine; il tema è l’androide. Android con Klaus Kinski e Metropolis di Fritz Lang, solo alcuni dei titoli. Accanto alle scale, schiacciando uno dei quattordici bottoni tra le tre stanze dove sono esposti quattordici vinili, potete realmente sfuggire dal reale. Io opto per il mago Giorgio Moroder e ondeggio come d’incanto, ipnotizzato dalle semplici sonorità futuristiche di I wanna rock you (1979). Poi attraverso The Robots (1978) dei Kraftwerk

mi astraggo del tutto dal mondo: un miracolo di museo. Il secondo piano che è poi l’ultimo, si apre in un magnifico sottotetto con una struttura a vista di travi in legno imbiancate che è qualcosa. Qui, se vi sedete a una delle tre scrivanie potete farvi fare il ritratto robotico. Tre mani cibernetiche ideate dall’artista Patrick Tresset impugnano una biro nera che vi scarabocchiano il volto ripreso da una minitelecamera. Alle pareti sono appese le facce di alcuni visitatori oltre ad alcuni personaggi celebri come Isaac Asimov. Curioso il portrait-robot di un robot: quello del manga Astro boy. Va detto, portrait-robot, in francese, significa identikit. Altre scale conducono a un soppalco interattivo a tema avatar, termine che mi ricorda sempre «Je est un autre» di Rimbaud. Si può giocare a un videogame o interagire con il capriccioso Nao che chiede in modo ossessivo: «montre-moi le terminator». Nella cronologia del fantastico tracciata su un muro, noto la testa

parlante di Cervantes, 1605. Se toccate un terrario, un robot-tarantola vi farà spaventare un po’. Ora una passerella vetrata a esse, sospesa come il ponte dei sospiri veneziano, sopra la rue du Casino, mi riporta nel mondo ma il paesaggio è talmente avvolto nella nebbia da risultare irreale. Eccoci nell’Espace Jules Verne inaugurato nel 2008. Una odorosa biblioteca del fantastico e nelle teche, i più bei robot della mostra: quelli di Bruno LefèvreBrauer fatti riciclando materiali vari. Sbircio il dorso dorato di alcuni vecchi libri e tutte le edizioni immaginabili dei cinquantaquattro Viaggi straordinari di Jules Verne, il cui busto troneggia in questo spazio; all’entrata della sala riservata al genere pulp fantasioso. Robot di legno tengono compagnia a centinaia di imbrunite riviste pulp, chiamate così, si sa, per la polpa di legno di pessima qualità utilizzata. Qualche stanza, a volte, è un viaggio straordinario. Nell’altrove, spesso, ci si trova, finalmente, a casa.

soprattutto dalla funzione di guida che gli è stata attribuita: dispensano aiuti e indirizzi per agevolare scelte di vita. Quale sarà il partner giusto, quali studi intraprendere, c’è da fidarsi del capoufficio, dov’è meglio andare in vacanza, quali cibi preferire per restare sani? Sono infinite le incognite in cui l’intervento del proprio segno zodiacale dà, o dovrebbe dare, utilmente, una mano. E sinora si sta parlando di un ambito privato in cui le previsioni concernono decisioni individuali e avranno, quindi, ricadute limitate. Non così, invece, nell’ambito pubblico, dove è in gioco l’avvenire politico, economico, ambientale, sanitario: insomma le sorti del pianeta e dei suoi abitanti. Da qui l’importanza degli studi e delle ricerche destinati, appunto, a decifrare le prospettive con cui governi, istituzioni, popolazioni si troveranno alle prese, in un domani prossimo o lontano, possibile o soltanto probabile. Sono interrogativi che hanno mobilitato schiere di specialisti, impegnati in una nuova branca

scientifica che punta, innanzi tutto, a identificare, per prevenirli, i pericoli che ci minacciano. E, chiaramente, per farlo si ricorre a strumenti e indagini ben più seri della lettura dei segni zodiacali. Con ciò, anche queste previsioni, condotte sotto l’egida di centri universitari famosi, magari con l’intervento di premi Nobel, non sono in grado di garantire risultati assolutamente sicuri. Il margine di errore rimane sempre elevato: lo sostiene Philip Tetlock, psicologo studioso dei comportamenti all’Università della Pennsilvania. Nel suo ultimo saggio, dal titolo già ironico Superforecasting, ribadisce una tesi a cui deve una discussa notorietà: «Paragonando i pronostici formulati dai più quotati esperti, con quelli degli osservatori non professionisti, si registrano evidenti analogie». In entrambi i casi, sulla scorta di un’ampia base statistica, si arriva alla conclusione che il futuro rimane, in buona parte, insondabile. A partire, per citare il caso più banale, dalla meteorologia. Che tempo farà? Le prospettive

non vanno oltre una settimana. Per non parlare, poi, degli effetti delle energie fossili sulla salute. Non si tratta, conclude Tetlock, di rinunciare alla curiosità e alla speranza di addomesticare il mondo, attraverso la conoscenza: però da «cauto ottimista» raccomanda «l’umiltà». Tanto più che, allargando il discorso, c’è anche chi sostiene che, in definitiva, sia meglio ignorare quel che il destino ha in serbo. Del resto, a loro modo, ne sono un indizio il piacere per l’incognito, l’incertezza per l’effetto sorpresa, lo struggimento per la suspense. Tutti comportamenti sfruttati, dalla letteratura, dal cinema, e, in particolare, dalle serie televisive che hanno sostituito i romanzi a puntate, che comparivano anche sui nostri quotidiani. In proposito, il critico cinematografico Mark Sandberg, docente ospite all’Università di Zurigo, ha parlato, appunto, del fenomeno «segretezza» che deve circondare la diffusione di un «serial»: guai a rivelarne il finale. Una sorta di metafora della realtà, ne ha concluso.

vano sempre più palesi, non solo per la lenta crescita del livello dei mari in seguito alla liquefazione dei ghiacci polari, ma soprattutto per una diversa distribuzione della piovosità, che da un lato provoca disastrose inondazioni e dall’altro crea vaste zone di siccità. Ma l’opposizione degli Stati Uniti, nonché Giappone, Canadà, Australia e Nuova Zelanda, ha condotto a un compromesso ancora più blando: nella conferenza di Bonn del luglio 2001 si decise di abbassare la quota di riduzione di emissioni inquinanti previste dal Protocollo di Kyoto dal 5,2 per cento all’1,8 per cento. Ma se quel 5,2% era già stimato insufficiente, la nuova quota segnava un netto fallimento. Venne poi, nel 2002, la conferenza di Johannesburg: qui l’unico successo fu di aver resuscitato l’accordo di Kyoto del ’97, con la prevista riduzione del 5,2% – ma era evidente che quella auspicata riduzione non sarebbe stata

Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf La Casa dell’Altrove a Yverdon-les-Bains La Casa dell’Altrove è un museo della fantascienza, dell’utopia e dei viaggi straordinari. Si trova nel cuore del centro storico di Yverdon-les-Bains, al quattordici di piazza Pestalozzi. Costruita nel 1806 come prigione, oggi – dal martedì alla domenica dalle undici alle sei tranne Natale e il primo dell’anno – libera la fantasia. Meraviglia subito la fantastica pietra bioclastica color burro che varia, a seconda dei grossi mattoni, in diverse tonalità tra le quali, il giallo deserto. È la pietra gialla di Neuchâtel che si ritrova anche nel municipio qui vicino e in altri edifici della piazza principale di questa cittadina termale. Maison d’Ailleurs è sobriamente scritto a lettere metalliche in Garamond color antracite, applicate in rilievo, sopra l’entrata. Una fine pomeriggio all’inizio di gennaio entro così nella Casa dell’Altrove di Yverdon-les-Bains (435 m), proprio in faccia a un torrione del castello e a fianco dell’esile canale orientale. Immancabili, in questo periodo, i

gadget di Star Wars – saga cinematografica spaziale giunta in questi giorni al settimo episodio – in vendita qui. Portrait robot è il titolo della mostra in corso e nella prima sala, bene illuminati nelle loro teche di vetro, una ventina di libri e fumetti sui robot ai loro albori, oltre a tre robot. In una stanzetta buia adiacente, ad angolo, c’è lo schedario maniacale in metallo beige del papà di questo museo unico: Pierre Versins (1923-2001), nome di penna di Jacques Chamson. Nato ad Avignon e deportato ad Auschwitz, nel 1952 approda in Romandia dove durante la sua convalescenza, innesca il suo enciclopedismo fantascientifico riuscendo a collezionare nell’arco di venticinque anni duecentomila documenti e oggetti legati alla fantascienza più quarantamila libri e fumetti. Autore tra l’altro dell’Encyclopédie de l’utopie, des voyages extraordinaires et de la science fiction (1972), opera di riferimento in questi campi dalla quale è stato mutuato il nome di que-

Mode e modi di Luciana Caglio Le previsioni, un’arma spuntata? È giusto che gli oroscopi continuino a trovare ospitalità sui giornali, quotidiani autorevoli compresi, e nelle trasmissioni radiotelevisive, canali del servizio pubblico compresi? La domanda, che sottintende una condanna d’ordine culturale e morale, ritorna puntualmente a ogni inizio d’anno scontrandosi però con la realtà di abitudini mentali e di riti sociali, profondamente radicati, benché illusori. Si tenta, insomma, di strappare al futuro il suo mistero magari affidandosi ai presagi scritti negli astri. E sono, del resto, i tempi grami ad alimentare la speranza di uscirne al più presto dando credito a predicatori poco attendibili. Fatto sta, come si è appena visto, che i media, stampati e parlati, hanno garantito agli oroscopi uno spazio persino straripante. E, qui va detto, conoscendo le difficoltà finanziarie del settore, che queste rubriche rappresentano un toccasana provvidenziale per riempire pagine e ore d’ascolto: costano poco, intrattengono, si possono persino inventare (in tempi remoti, il

reato è ormai in prescrizione, mi capitò di fare il sostituto-astrologo per questo settimanale). Ovviamente, la persistente popolarità degli oroscopi dipende

John William Waterhouse, The Crystal Ball, 1902. (Wikipedia)


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Ambiente e Benessere Il viaggiare dei millennial Cresciuti insieme ai voli Low Cost, per i 30enni spostarsi è diventata la regola quotidiana

Gli anelli che narrano Un tronco segato, una ceppaia nel bosco, la trave di una vecchia baita possono raccontare molto pagina 11

Grand Prix Migros 2016 Appuntamento da non perdere per tutti i giovani sciatori domenica 21 febbraio ad Airolo pagina 12

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Il dottor Aleardo del Torso, otorinolaringoiatra e medico aggiunto all’Ospedale Regionale di Lugano. (Vincenzo Cammarata)

Disorientati come in un labirinto Salute Le vertigini sono prese in seria considerazione dalla medicina specialistica,

anche in fase di ricerca sperimentale Maria Grazia Buletti Nausea, percezioni di sprofondamento o rovesciamento, sudorazioni, palpitazioni, sensazione di movimento dell’ambiente circostante rispetto a noi: si è istintivamente portati a chiudere gli occhi con l’illusoria convinzione di ripristinare una realtà nella quale ritrovare la corretta percezione del proprio corpo per rapporto all’ambiente. È una perdita d’equilibrio, una vertigine. Nel libro L’insostenibile leggerezza dell’essere lo scrittore ceco Milan Kundera scrive: «La vertigine è la voce del vuoto sotto di noi che ci attira, che ci alletta, è il desiderio di cadere, dal quale ci difendiamo con paura». Ma la vertigine è ben più di questa definizione filosofica, la cui manifestazione «è strettamente legata a un meccanismo di conflitto neurosensoriale nel quale l’organo vestibolare, situato nell’orecchio interno e preposto per l’appunto all’equilibrio, è uno degli attori principali». Il dottor Aleardo del Torso, otorinolaringoiatra e medico aggiunto all’Ospedale Regionale di Lugano, così introduce questa patologia che interessa molte più persone di quanto non si pensi: si stima infatti che nel corso della vita circa 20-30 per cento della popolazione generale ne soffra. L’incidenza dei disturbi dell’equilibrio si attesta intorno al 5-10 per cento l’anno, ma rag-

giunge un picco del 40 per cento nelle persone con più di 40 anni. «Si tratta di disturbi così subdoli e che comportano una buona dose di disorientamento, tanto che nell’ambito medico l’otorinolaringoiatria si è specializzata ulteriormente nella disciplina della vestibologia: una branca deputata all’orecchio interno e concentrata su un suo organo di senso che è per l’appunto il vestibolo, prima contestualizzata nella neurologia». Il dottor del Torso ci spiega questo approccio più clinico e meno chirurgico che, insieme all’evoluzione di indagine strumentale, permette di meglio comprendere i meccanismi dell’orecchio interno «senza sempre, necessariamente e semplicisticamente, ricondurre le patologie alla labirintite, ma andando a indagare in modo più specifico e proponendo una fase terapeutica e riabilitativa precoce, per una buona risoluzione delle vertigini e delle conseguenze che comportano». Proviamo dapprima a comprenderne le cause: «Si tratta di un conflitto neurosensoriale che origina da una mancata sincronizzazione delle informazioni della nostra posizione nello spazio inviate al cervello dai tre sottosistemi dell’equilibrio: vestibolare, visivo, e propriocettivo. Quando uno di questi sottosistemi va in tilt, il segnale informativo non è più concordante con quello degli altri e sopraggiunge la ver-

tigine». Diverse le cause: «Dal colpo di frusta, che comporta una disfunzione dei recettori propriocettivi presenti nella muscolatura del collo, al deficit vestibolare destro o sinistro per cause infiammatorie, oppure metaboliche solo per citare qualche esempio. Ad ogni modo le cause più frequenti sono da ricercare proprio per la sua complessità anatomica, e pertanto fragilità, a livello vestibolare». Per fortuna, a quel punto il nostro cervello, attraverso una propria veloce diagnosi di funzionalità, riesce velocemente a individuare quale dei sistemi può essere disturbato dal deficit e vi pone rimedio provando a potenziare gli altri. «Spesso i pazienti giungono alla nostra attenzione in questa seconda fase, definita di compenso. La vertigine c’è stata, ma adesso si trovano confrontati con una sintomatologia d’instabilità posturale. Inoltre, da non sottovalutare, il vestibolo ha stretti rapporti con il sistema limbico (area del ricordo) e l’amigdala (area della paura), pertanto l’esperienza vetiginosa avuta, viene immagazzinata nel ricordo, e classificata come un evento che fa paura. Proprio per questo meccanismo centrale, anche a distanza di anni esistono molti fattori che possono re-innescare il ricordo di questa esperienza negativa, causando insicurezze fino a crisi di ansia». Di fatto, ci viene spiegato che la

vestibolopatia è un disturbo dei recettori che comporta il timore di svenire e l’angoscia per l’incapacità di avere sotto controllo il proprio corpo: «Per questo è importante curare immediatamente i disturbi d’ansia correlati all’evento acuto, che possono perdurare anche per settimane perché il paziente vive la fobia del movimento, proprio a causa di questa sorta di ricordo legato alla parte istintiva del nostro cervello, dunque non controllabile». Arriviamo all’arcaico riflesso della sopravvivenza innescato dal vestibolo che crea ansia e timore: «Quando si guarisce, la vertigine non c’è più, ma è come se il cervello ci impedisse ancora di muoverci normalmente. Per contro, muoversi è proprio ciò che va fatto per superare la situazione. Abbiamo visto che il corpo cerca di adattarsi spontaneamente e velocemente, ma possiamo assecondare la guarigione attraverso il movimento, mediante una riabilitazione neuro-muscolare per permettere così al sistema visivo e propriocettivo di compensare il deficit vestibolare». Il paziente che rimane fermo nelle prime ore e giorni dall’evento acuto farà molta più fatica a rientrare nella normalità. Il dottor del Torso non si ferma a queste indicazioni che ci hanno permesso di comprendere due cose: l’importanza di questa super specializ-

zazione otorinolaringoiatra che, per curare questi disturbi, non dimentica l’essere umano nel suo insieme e nelle sue esperienze, e il fatto che si tratti di una medicina in grande evoluzione, per la quale egli ci anticipa gli studi che sta conducendo in questo campo sui piloti militari: «Spesso, nelle loro prime fasi di addestramento al volo veloce e pluridirezionale, non essendo abituati, sono affetti da motion sickness (chinetosi, o “mal di trasporto”), con sintomi quali nausea, tachicardia e sudorazione. Questi casi sono trattati con una desensibilizzazione vestibolare: rendiamo attento il cervello a non prestare troppa attenzione a ciò che l’orecchio (vestibolo) gli suggerisce. Allora si usa una “sedia rotatoria” sulla quale si fa girare il pilota che muove la testa in senso ortogonale alla rotazione con l’obiettivo di far scatenare il conflitto neurosensoriale: il cervello, all’inizio, ci fa stare male, poi “spegne la spina”». È per questo che i piloti presentano una sensibilità vestibolare ridotta rispetto alla norma, così da poter compiere voli acrobatici senza provare malessere e con maggiore sicurezza. E siccome ci viene ribadita la stretta correlazione del vestibolo con l’aspetto emotivo della persona, ci piace concludere questo interessante capitolo ripescando Kundera quando dice: «La vertigine non è paura di cadere, ma voglia di volare». Chissà…


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 11 gennaio 2016 ¶ N. 02

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Ambiente e Benessere

Mille di questi viaggi Viaggiatori d’Occidente Per i giovani cambiar luogo è diventato la regola Claudio Visentin Li chiamano millennial: sono i giovani nati negli ultimi due decenni del Novecento, i ventenni e i trentenni di oggi. A dire il vero non si assomigliano più di tanto tra loro, anche se sono accomunati nella stessa categoria demografica. I trentenni sembrano invischiati in una perpetua transizione tra il passato e il futuro, mentre nei minori di venticinque anni il mondo di domani si intravede nitidamente, con le sue luci e le sue ombre. Ma anche tenendo conto di questa distinzione, tutti i millennial hanno condiviso alcune esperienze fondamentali. Per esempio si sono affacciati a un mondo divenuto improvvisamente più vasto dopo la caduta del Muro di Berlino; ma il grande evento che nel 1989 ha chiuso il «Secolo breve» per questi ragazzi è tutt’al più un ricordo d’infanzia. I millennial sono cresciuti insieme alle compagnie Low Cost: Ryanair fu fondata nel 1985, seguita dieci anni dopo da EasyJet. Chi è nato in quegli anni è abituato a pagare il volo aereo meno del taxi per andare all’aeroporto, e a muoversi in tutta Europa come se fosse il cortile di casa. Infine è la «Generazione Erasmus», programma creato nel 1987 che ha permesso a molti giovani universitari di trascorrere un periodo di studio all’estero, contribuendo più di tante iniziative politiche alla costruzione dell’identità europea. Naturalmente tutte queste nuove esperienze hanno cambiato in profondità il rapporto dei giovani con il viaggio, come mostra anche una recente ricerca presentata alla BTO (Buy Tourism Online) di Firenze dalla società di comunicazione Episteme, che ha intervistato diverse migliaia di giovani italiani.

La carica dei millennial, ovvero i giovani nati negli ultimi due decenni del Novecento. (Alessandro Gandolfi)

Per cominciare, la passione per i viaggi è più forte che mai: viaggiare è saldamente tra le priorità della vita, insieme alla sicurezza, agli affetti, alla crescita personale. Visitare un nuovo Paese ogni anno è l’aspirazione del 66,4% dei giovani sotto i 25 anni (per le altre fasce d’età ci si ferma al 51,7%). La possibilità di viaggiare viene prima anche della realizzazione professionale, del successo, della ricchezza. E se un tempo i viaggi di lavoro erano visti come una fatica, i più giovani preferiscono ora un lavoro anche meno pagato, ma dove si viaggia spesso (61,1% rispetto al valore medio della popola-

zione del 41,7%), piuttosto che restare sempre nella tranquillità dell’ufficio. In viaggio, i giovani sono aperti, curiosi, desiderosi di fare nuove conoscenze e di gettare ponti verso le comunità che vivono nei Paesi visitati, superando le barriere che separano turisti e locali. Certo non disdegnano una tranquilla vacanza al mare, magari in un villaggio vacanze, dal momento che hanno col consumismo un rapporto più sereno rispetto ai loro genitori, ma sono consapevoli dei limiti del turismo rispetto a forme di viaggio più indipendenti. E poiché vivono tutto l’anno in una società ormai multietnica e mul-

ticulturale, in viaggio non li spaventa certo la frequentazione di stranieri. Anche la diffidenza verso i cibi esotici è ormai scomparsa: i ristoranti etnici diffusi nelle maggiori città hanno reso familiare, già prima della partenza, la varietà delle cucine del mondo. All’auto, microcosmo rassicurante dei viaggiatori di un tempo, si preferiscono ora aerei, treni e autobus, o al limite mezzi di trasporto ecologici come la bicicletta. Quando viene utilizzata l’auto è spesso condivisa o affittata, com’è caratteristico di una generazione che mette l’utilizzo dinanzi alla proprietà. Soprattutto Internet ha rivolu-

Mosaico ecuadoriano

Tagliando di prenotazione Desidero prenotare il viaggio in Ecuador:

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L’Ecuador è un Paese piccolo ma molto vario (è il quarto Paese al mondo per biodiversità): questo itinerario consente di unire sia gli aspetti paesaggistici che culturali di due regioni molto diverse, il tutto percorrendo brevi distanze e senza bisogno di alcun volo interno. Un viaggio straordinario alla scoperta della più bella capitale andina del

Sud America e del mercato indigeno di Otavalo, con tre giorni nella natura rigogliosa della foresta Amazzonica. Poi visita al maestoso Parco Nazionale del Cotopaxi, e un tragitto a bordo del caratteristico trenino delle Ande, fino a raggiungere via terra la bella città di Cuenca, da dove si viaggia in direzione di Guayaquil attraversando il magnifico Parco Nazionale Cajas.

Domenica 27 marzo Viaggio Amazzonia – Puyo – Banos – Chimborazo – Riobamba Lunedì 28 marzo Visita di Riobamba Martedì 29 marzo Riobamba – Alausi – Ingapirca – Cuenca Mercoledì 30 marzo Visita di Cuenca Giovedì 31 marzo Cuenca – Parco El Cajas – Guayaquil

Cognome Via NAP Località Telefono

Possibilità di estendere il soggiorno per visitare il Parco Marino delle Isole Galapagos. Un arcipelago che sorge a 1000 km dalla costa dell’E-

Il programma di viaggio Martedì 22 marzo Partenza: Ticino – Milano – Quito Mercoledì 23 marzo Da Quito a Otavalo Giovedì 24 marzo Visita di Otavalo Venerdì 25 marzo Viaggio Cotacachi – Otavalo – Quitsato – Amazzonia Sabato 26 marzo Giornata in Amazzonia

zionato il modo di viaggiare dei più giovani. Nei ventenni il rapporto con le nuove tecnologie è tanto stretto da rasentare forme di dipendenza o di simbiosi. Per questo anche nei luoghi più remoti è imperativo essere connessi: ben l’83,5% dei minori di 25 anni si esprime in questo senso (solo 50,3% se si considera il totale della popolazione). Lo spazio virtuale della rete si intreccia continuamente con quello reale: tutte le esperienze sono immediatamente condivise e commentate attraverso Instagram e Facebook. Allineando tutte queste novità viene spontaneo chiedersi: si può ancora parlare di viaggio, così come lo abbiamo sempre pensato, quando il lavoro ci porta in una città straniera, gli amici del cuore in un’altra e la fidanzata sta dall’altra parte del mondo? Per i millennial, il viaggio non è più un tempo eccezionale che interrompe la quotidianità, ma il modo normale per gestire su larghe distanze i rapporti interpersonali. Il movimento è diventato la regola nella nuova società globale. Ma è anche vero che il viaggio è diventato più frequente e quasi abituale soprattutto all’interno dei Paesi occidentali (Europa, Usa o anche Australia) o comunque organizzati secondo gli stessi principi economici. Il viaggio che attraversa confini più profondamente marcati, il viaggio che ci porta fuori da noi, che ci provoca e ci sfida, quel viaggio che aveva affascinato i viaggiatori degli anni Sessanta che partirono alla volta dell’India, non sembra essere tra le aspirazioni dei più giovani. Tutta l’Africa, per esempio, è poco presente nella loro mappa mentale, se non per qualche limitata esperienza di volontariato, così come l’Asia continentale. C’è dunque ancora spazio per scoperte e nuove esperienze: il viaggio è morto, viva il viaggio.

Venerdì 1. aprile Guayaquil (estensione per le Galapagos*) Sabato 2 aprile Ritorno: Guayaquil – Milano – Ticino * Estensione Galapagos: le isole incantate. 1-4 aprile: itinerario Guayaquil – Baltra – Cratere Gemelos – Santa Cruz – Puerto Ayora – Bartolome – Santa Fe – Seymour – Tortuga Bay – Stazione Charles Darwin – Guayaquil.

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cuador: è un paradiso naturale unico nel mondo e fu d’ispirazione a Charles Darwin per l’elaborazione della Teoria dell’evoluzione della specie. Protetto dall’UNESCO quale Patrimonio naturale dell’umanità, offre l’opportunità di andare alla scoperta della fauna che popola il isole dell’arcipelago.

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Ambiente e Benessere

La storia è tutta negli anelli Dendrologia Le vicissitudini che hanno accompagnato la vita degli alberi attraverso il trascorrere degli anni

Il sommo Leonardo da Vinci (14521519) aveva dedicato la sua perspicace attenzione anche agli anelli di accrescimento degli alberi, considerandoli semplici curiosità della Natura («lusus Naturae»). Dopo circa cinquecento anni, un tronco segato, una ceppaia nel bosco, il trave di una vecchia baita possono trarre oggi la vostra attenzione. Quante volte vi siete soffermati, incuriositi, a contare gli anelli? Anelli ravvicinati, quasi invisibili, e anelli distanziati, ben riconoscibili e contabili, in un alternarsi di chiari e oscuri. E, forse, vi siete posti qualche interrogativo.

In virtù dei loro anelli di accrescimento, gli alberi narrano le loro storie di vita grazie a un disegno concentrico di raffinata estetica e unicità Nella realtà, queste strutture dell’albero (vivo o morto che sia) fungono da apparecchi registratori e integratori di tutti i fattori climatici. E quanto hanno registrato – e registrano tutt’oggi – resta testimoniato per sempre. Essi sono la carta d’identità dell’albero. Ci possono narrare annate propizie per la sua crescita, i colpi di gelo, i periodi di siccità, un incendio, gli attacchi d’insetti o di funghi parassiti. Oppure ci illustrano una lotta per la luce e per il nutrimento con un vicino troppo invadente, o meglio dotato fisiologicamente perché ha le radici più sviluppate oppure può attingere a una vena d’acqua più prossima. Tutto questo è fedelmente iscritto negli anelli di accrescimento: cernes in francese, tree-rings in inglese, Jahresringe in tedesco, Kolzo in russo. L’osservazione degli anelli permette, dunque, di conoscere le situazioni ecologiche che hanno accompagnato la vita dell’albero e di rilevare le even-

tuali avversità, conservandone nel tempo la documentazione. Ma prima è necessario conoscere la chiave di lettura di tutte le caratteristiche ecologiche e storiche. Da diversi decenni, due discipline si occupano dello studio e dell’interpretazione dei dati rilevati. La dendrocronologia (dal greco dèndron = albero, e crònos = tempo) permette di conoscere l’età degli alberi grazie al numero degli anelli: un anello equivale a un anno e stabilisce l’età assoluta dell’albero (oppure del campione ligneo) esaminato. Per merito dell’americano Andrew Douglass (18671962), la dendrocronologia acquisisce i requisiti di una nuova scienza. Nata negli USA e diffusasi rapidamente in Scandinavia e in Germania, essa trova in Fritz Hans Schweingruber il più fecondo studioso in Svizzera. Fin dai primi esordi fu subito evidente che la dendrocronologia poteva apportare anche la preziosa documentazione, contenuta negli anelli di accrescimento, sulle passate condizioni climatiche delle regioni dalle quali provenivano i campioni investigati. Quindi, non solo l’età ma anche il clima, studiato dalla dendroclimatologia. Per quanto riguarda il primo aspetto (il tempo) merita ricordare che nel nostro Cantone è stato possibile documentare l’occupazione umana in Valle Maggia – ben addietro i tempi del Medioevo – datando le travi inserite nei muri di case in pietra, dal sedicesimo secolo fino al 1280. Inoltre, e sempre in Valle Maggia, a Cavergno la costruzione di una stalla risale al 1372. A Bosco una «torba», costruita sui caratteristici funghi in pietra per proteggere il granaio dalle scorrerie dei topi, risale al 1401 («la Regione» 6.7.2010). Da questo caratteristico stile costruttivo, possiamo rilevare come la civiltà «walser» si era diffusa in un’ampia regione alpina, che si era sviluppata dalla Leventina fino alla Valle d’Aosta orientale (valli di Gressoney e di Ayas). E tutto questo grazie al clima particolarmente favorevole per gli insediamenti umani in montagna. Quali sono le applicazioni pratiche di questa scienza avvincente? Innanzi-

tutto essa consente di apprendere, per esempio, i ritmi temporali e le modalità di accrescimento delle differenti specie arboree utilizzate per la produzione legnosa: i pioppi per la cellulosa, senza la quale non leggereste questo articolo su «Azione». La produzione di altre latifoglie e conifere come legnami da opera, come combustibile nelle sue varie utilizzazioni (cippato, pellet, legna per il camino). Infine come materia prima per i rimboschimenti. In definitiva, l’analisi e la valutazione degli anelli di accrescimenti di un albero permettono di documentare – con concreti dati di fatto – quali sono le specie arboree più idonee nelle località d’impianto. La dendroclimatologia indaga sulle situazioni climatiche passate che hanno consentito l’impianto del bosco naturale: l’alternarsi dei suoi successi e insuccessi. All’inizio della nuova stagione vegetativa l’albero si risveglia dal più o meno prolungato torpore invernale. Allo stesso tempo ricomincia a produrre nuova materia legnosa, un fenomeno che è tributario delle condizioni climatiche dell’estate precedente e dall’albero stesso memorizzate. A seguito delle differenti esigenze ecologiche può verificarsi un eventuale mutamento delle caratteristiche fisionomiche del bosco, quindi del clima: da una faggeta a un bosco di abete rosso (Picea abies). Gli alberi aumentano annualmente il loro diametro grazie alla formazione di anelli concentrici di vario spessore e densità. Se osserviamo una sezione trasversale, cioè sul piano orizzontale, notiamo che ciascun anello è formato da una parte chiara che sfuma in una parte scura, mentre il passaggio dallo scuro al chiaro è molto netto. Ogni anello annuale è dunque costituito da queste due componenti. All’inizio della stagione vegetativa, la linfa grezza montante dalle radici verso la parte aerea degli alberi (rami, foglie, fiori) contribuisce alla costruzione del legno chiaro e tenero. Durante l’estate, si forma grazie alla fotosintesi la linfa elaborata discendente verso le radici, che consente la costruzione del legno duro di supporto: il durame. Dallo spessore delle due componenti chiare e scure è

Rodella di laburno alpino di 140 anni d’età, del diametro di 42 centimetri. Da notare l’estrema e lenta regolarità del ritmo di crescita.

Autografo di F.H. Schweingruber su rodella di abete rosso di 60 anni di età (dimensioni 17x13 centimetri).

possibile rilevare se la primavera è stata più propizia di quella estiva, oppure la situazione contraria. Talvolta, entro un anello normale si possono notare dei falsi anelli molto sottili e spesso interrotti nel loro sviluppo. Questi testimoniano un momentaneo arresto del ritmo di crescita dell’albero. Un fenomeno visibile che può essere causato da momentanei eventi climatici sfavorevoli: una subitanea siccità, oppure un duro abbassamento della temperatura (gelate primaverili). Nella regione insubrica, le grandinate primaverili provocano l’asporto più o meno totale delle foglie, sono quindi la causa di un brusco arresto momentaneo nella formazione dell’incremento legnoso e di conseguenza testimoniato nelle dimensioni dell’anello. Difatti, superato l’episodio sfavorevole, l’albero riprende i suoi ritmi di accrescimento e l’evento rimane iscritto negli anelli. A parità di diametro un albero

può avere un’età di cento anni e un altro albero (di un’altra specie) quindici. Per esempio un pioppo di trenta centimetri di diametro ha 15-20 anni. I suoi anelli sono evidenti e ben distanziati uno dall’altro, fino a due centimetri. In montagna, un abete rosso (Picea abies) dello stesso diametro può esibire oltre cent’anni d’età. I suoi anelli possono essere talmente ravvicinati (un millimetro) da essere contati soltanto con una buona lente d’ingrandimento. I salici nani di alta montagna (herbacea, serpillifolia) possono avere il diametro di un misero centimetro con un’età di 30 anni! Il loro conteggio necessita di un preparato microscopico per trasparenza («Azione» del 1.10.2012, No. 40). Anche a questa microscopica scala è agevole distinguere le annate favorevoli e quelle sfavorevoli per il minuscolo e ardimentoso alberello a causa di una prolungata permanenza della neve al suolo. L’insieme di queste sensibili differenze nello sviluppo degli anelli sono generate dalla temperatura, dalla quantità di luce disponibile, dalla quantità di apporto idrico (pioggia, rugiada), dalla possibile durata della stagione vegetativa, infine dalla disponibilità di sostanze nutritive organiche e minerali. Con l’avanzare dell’età, la parte centrale diventa più solida (durame) e generalmente acquista una colorazione più scura grazie all’ossidazione della cellulosa e a un accumulo di tannini e fenoli. In virtù dei loro anelli di accrescimento, gli alberi parlano e narrano le loro storie di vita attraverso un disegno concentrico di raffinata estetica e unicità, poiché non vi sono due campioni uguali. Forse, alla prima occasione li conterete con maggiore attenzione e curiosità e forse sorgerà spontanea qualche riflessione sul loro significato e divenire. Bibliografia

Pierre de Martin, 1974, Analyse des cernes. Déndrochronologie et Déndroclimatologie, Masson & Cie (Paris), 79 pp. Fritz Hans Schweingruber, 1988, TreeRings, Reidel Puhlidhers Company (Dondrecht, Boston), 276 pp.

Allie Caulfield

Alessandro Focarile


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Ambiente e Benessere

M Una grande gara per una grande voglia di sciare

Calendario appuntamenti 2016 Gennaio

3 9 16 17 24 31

Les Crosets Klewenalp Les Diablerets Schönried Zermatt Wengen/ Grindelwald

Febbraio

6 14 21 28

Hoch-Ybrig Davos Airolo Lenk

Marzo

6 Wildhaus 13 Savognin 19 Nendaz

Grand Prix Migros 2016 Torna ad Airolo – neve permettendo – la tappa ticinese dell’evento

sciistico più atteso nel mondo dei giovani aspiranti campioni

Swiss-Ski

Renato Facchetti Domenica 21 febbraio 2016: è questa la data che tutti i giovani sciatori ticinesi (e non solo) devono segnare sul nuovo calendario. L’appuntamento è sulle nevi di Airolo Pesciüm. Torna, infatti, l’evento più atteso dagli amanti del circo bianco elvetico, per non dire europeo, che mette in risalto i futuri campioni. L’occasione è data come vuole la tradizione dalla tappa ticinese di una delle 13 gare di qualifica riservate a tutti gli appassionati di sci dagli 8 ai 16 anni d’età, che potranno ambire a qualificarsi alla grande finale del Grand Prix Migros in programma dal 1. al 3 aprile a St.Moritz. Un inverno finora molto avaro in quanto innevamento. Ciò che fa alzare il desiderio di molti ma soprattutto di tutti gli appassionati degli sport invernali. Malgrado le oggettive difficoltà che hanno messo a dura prova anche gli organizzatori delle gare di Coppa del Mondo, le 13 località svizzere che ospitano il Grand Prix, con gli Sci Club e Swiss-Ski, stanno comunque già lavorando a pieno regime per rendere possibile il regolare svolgimento delle competizioni. Oltre ai percorsi di slalom gigante per i giovani sciatori (da 8 a 16 anni), vengono riproposti per la «Minigara» dei tracciati sensibilmente più facili; un’occasione d’oro per permettere a bambini di 6 e 7 anni – senza l’assillo del cronometro e

Aprile

1-3 Finale a St-Moritz

della conseguente classifica – di scoprire il fascino della più importante competizione sciistica a livello europeo. Al sud delle Alpi, questa festa andrà in scena sulle nevi di Airolo Pesciüm – neve permettendo – domenica 21 febbraio in collaborazione con la Valbianca SA e il locale Sci Club. Il villaggio degli sponsor, con i vari giochi e la distribuzione di premi, contribuirà certamente a rallegrare e smorzare la delusione di chi dalle varie gare si aspettava di più. Informazioni

Ci si può iscrivere da subito online sul sito www.gp-migros.ch; per la tappa di Airolo le iscrizioni scadono il 6 di febbraio.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino 11 gennaio 2016 N. 02

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 11 gennaio 2016 ¶ N. 02

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 11 gennaio 2016 ¶ N. 02

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Politica e Economia Guida alle sfide del 2016 Oltre all’Isis, petrolio, Cina, immigrazione ecc., il cruciale interrogativo del 2016 è: avverrà un’inversione di tendenza in questo momento di stagnazione secolare? pagina 16

Limitazione iniqua Il consulente finanziario della Banca Migros sulla decisione del Consiglio federale di porre limiti al prelievo di capitale al momento del pensionamento

CCIA più combattiva Intervista al neo-presidente della camera di Commercio su economia e imprenditori

CH-UE: Il tempo stringe La difficoltà di trovare un accordo con Bruxelles sulle clausole di salvaguardia

Due teocrazie a confronto Arabia Saudita-Iran Riyad ha fatto scattare l’allarme dopo la decisione americana di aprire all’Iran con la firma

pagina 17

sul nucleare, spezzandone l’isolamento internazionale che durava dal 1979

Marcella Emiliani pagina 19

AFP

pagine 18-19

Golfo in ebollizione Medio Oriente L’esecuzione dell’imam al-Nimr da parte di Riyad verte sul tentativo di chiamare a raccolta

i potentati sunniti della regione contro la presunta strategia espansionistica di Teheran. Tutto all’ombra del petrolio Lucio Caracciolo La decapitazione dell’imam sciita Nimr al-Nimr (foto), esponente del movimento di protesta della Provincia orientale saudita, avvenuta il 2 gennaio, ha riacceso la disputa fra Iran e Arabia Saudita e infiammato la regione. La devastazione dell’ambasciata saudita in Iran, in circostanze ancora poco chiare, ha poi spinto Riyad, seguita in ordine sparso da alcuni suoi satelliti arabi del Golfo sunnita, a interrompere le relazioni diplomatiche con Teheran. Se quest’anno doveva vedere il progresso verso la pacificazione della Siria e la riduzione della conflittualità nel Vicino Oriente, il caso al-Nimr ci riporta alla sobrietà: oggi più che mai il Golfo è in ebollizione e i tentativi occidentali di ristabilirvi equilibri meno pericolosi appaiono piuttosto velleitari. L’esecuzione di al-Nimr e di altri 46 presunti «terroristi» – di matrice sunnita qaedista – rivela il grado di emergenza che vige oggi a Riyad. La casa di Saud

non è mai apparsa tanto traballante da quando nel 1979 un manipolo di ribelli, cui l’attuale Stato Islamico probabilmente si ispira, occupò la Grande Moschea della Mecca, per esservi massacrato dai parà francesi chiamati in soccorso dal monarca saudita. All’ombra del vecchio re Salman, pressoché incapace di intendere e di volere, in grado di parlare solo leggendo da un «gobbo», si svolge una furiosa lotta di potere che sta dilaniando la famiglia reale. La decisione americana di aprire all’Iran – il grande rivale dell’Arabia Saudita sotto ogni profilo, geopolitico, energetico e religioso – ha fatto scattare l’allarme a Riyad. La reazione saudita verte sul tentativo di accentuare il carattere settario della contrapposizione alla Repubblica Islamica, chiamando a raccolta i potentati sunniti della regione contro la presunta strategia espansionista di Teheran. Per questo al-Nimr è stato presentato come un pericoloso agente iraniano, deciso a fomentare la secessione della Provincia Orientale – la più ricca di petrolio

in Arabia Saudita. Di fatto, al-Nimr era semmai vicino al grande ayatollah iracheno al-Sistani, certamente non assimilabile a quelli dominanti a Teheran. E la rivolta nella Provincia Orientale, dove prevalgono gli sciiti, è dettata più dalle vessazione subìte a opera di Riyad, che si rifiuta di redistribuire equamente i proventi petroliferi fra tutti i suoi governatorati, che da imperativi settari. È proprio la partita petrolifera a illuminare di luce sinistra l’ennesimo scontro irano-saudita. I sauditi hanno puntato sul forte calo del prezzo petrolio per lanciare vari segnali, in particolare alla Russia, di cui non si approva il protagonismo a sostegno di al-Asad in Siria, e a Teheran, della quale si teme il rientro sul mercato energetico mondiale in seguito all’accordo sul nucleare con le maggiori potenze – ciò che significherebbe affrontare un serio competitore fino ad oggi bloccato dalle sanzioni. Inoltre, la strategia di casa Saud intendeva mettere fuori gioco i produttori americani di gas e petrolio

non convenzionali. Nessuno di questi tre obiettivi pare oggi raggiunto. Di qui la carta della disperazione: soffiare sul fuoco dei conflitti regionali, dal «Siraq» (gli avanzi di Siria e di Iraq in cui si è incistato il «califfato» di Abu Bakr al-Baghdadi) allo Yemen, tutti presentati come una partita all’ultimo sangue fra il fronte sunnita wahhabita guidato da Riyad e quello sciita egemonizzato da Teheran. Quanto meno, una semplificazione. Ma a forza di insistervi, minaccia di diventare realtà inestirpabile. Celando la prima ragione dello scontro fra Iran e Arabia Saudita, che non è settaria ma politica. Da quando nel 1979 lo scià è stato cacciato e la Repubblica Islamica ne ha preso il posto, tutti i sovrani sauditi hanno messo nel mirino l’Iran soprattutto in quanto modello di Islam politico. Ovvero di un regime che unisce a una base teocratica una prassi di mobilitazione e partecipazione democratica incompatibile con l’assolutismo delle petromonarchie arabe del Golfo. L’o-

biettivo saudita è stato e rimane quindi il rovesciamento del regime di Teheran, per impedire che il richiamo dell’Islam politico si estenda dal mondo iraniano sciita a quello arabo sunnita. E infine alla stessa Arabia Saudita, proprietà di famiglia prima che Stato. Per ora il duello fra Arabia Saudita e Iran si è svolto per intermediari, in diversi teatri. Oggi però si corre il rischio dello scontro diretto. Emerge qui l’impotenza occidentale. Specie quella degli Stati Uniti, che si trovano ad aver scontentato l’alleato saudita – certo un alleato molto peculiare, visto che gran parte degli attentatori dell’11 settembre provenivano da quel Paese – senza aver peraltro incardinato su basi certe e positive la nuova relazione con l’Iran. Sicché di fronte alla concreta minaccia di una guerra Iran-Arabia Saudita, che sconvolgerebbe la regione e con essa il mercato energetico, dunque l’economia globale, siamo affidati al buon senso e allo spirito di autoconservazione dei leader locali. Non proprio il loro forte.

Come rendere credibile la volontà dell’Arabia Saudita di sradicare la malapianta del terrorismo? I principi del regno sembrano aver pensato che un en plein di condanne a morte potesse convincere anche i più scettici a qualsiasi latitudine. Così il 2 gennaio hanno proceduto a giustiziare 47 individui che – secondo la legge shariatica saudita – rappresentavano serie minacce per lo Stato. Tra di loro c’erano membri di Al-Qaeda, dell’Isis e 6 esponenti della minoranza religiosa sciita, tra cui Nimr al-Nimr, imam della moschea di Qatif ad Al Awamiyya nella provincia orientale del Paese. Al-Nimr era stato arrestato nel 2012 nel corso di una manifestazione di protesta degli sciiti sauditi, già in agitazione dal 2011, l’anno delle primavere arabe in Medio Oriente. Considerati «eretici» dal rigido sunnismo wahabita di casa Saud, gli sciiti locali sono sempre stati considerati cittadini di serie B e pesantemente discriminati soprattutto dopo la rivoluzione iraniana del 1979. Non era un mistero per nessuno che Khomeini quella rivoluzione la volesse esportare in tutto il mondo musulmano e soprattutto in Arabia Saudita, governata – a suo dire – da una casa regnante indegna di custodire i luoghi santi dell’Islam (Mecca e Medina), corrotta e venduta al Grande Satana (leggi Stati Uniti). Per i regnanti sauditi, con quei chiari di luna che si trasformavano in disordini a catena e attentati durante il pellegrinaggio alla Mecca, gli sciiti della provincia orientale rappresentavano la quinta colonna della destabilizzazione pilotata da Teheran. Destabilizzazione ancora più temuta perché gli sciiti dell’Arabia Saudita sono insediati nel cuore dell’Eldorado petrolifero del regno. Con tutto questo Nimr al-Nimr non aveva nulla a che fare. Si batteva certamente contro la discriminazione della propria minoranza religiosa, per la creazione di una monarchia costituzionale e una più equa distribuzione delle risorse nazionali, ma non risulta che fosse collegato a nessuna delle organizzazioni in odor di terrorismo della provincia orientale, tipo Munazzamat al-thawra al-islamiyya fi-l-jazira alarabiyya (Organizzazione per la rivoluzione islamica nella penisola arabica) o Hezbollah al-Hijaz (Partito di Dio dell’Hijaz, regione saudita). Non risulta nemmeno che abbia mai fatto appello alla rivolta armata contro la casa regnante o abbia manifestato simpatie per gli estremisti che usavano la religione come giustificazione per compiere omicidi, stragi o anche solo per oppri-

mere i più deboli. Li chiamava «boia» e poco gli importava che fossero sunniti o sciiti. Boia rimanevano. Tra questi a suo dire si segnalavano gli Assad (sciiti alauiti della Siria) e proprio i Saud. Fu arrestato nel 2012 nel corso di una manifestazione di protesta contro la casa regnante, quando l’Arabia Saudita era seriamente impegnata a frenare l’espandersi delle primavere arabe nella penisola arabica e soprattutto a tenere in piedi con i propri carri armati la monarchia sunnita del Bahrein (gli al-Khalifa, altri «boia» secondo Nimr) che governava e governa su una maggioranza sciita. In quell’occasione l’imam ci andò giù pesante contro l’allora ministro degli Interni saudita, il principe Nayef bin Abdulaziz, cui augurò di diventare un pasto per i vermi e di soffrire le pene dell’inferno nella fossa, concludendo: «Perché non dovremmo rallegrarci per la morte dell’uomo che ci fa vivere nella paura e nel terrore?». Ebbene il principe Nayef è morto il 16 giugno 2012, ma suo figlio Mohamed bin Nayef dallo scorso anno gli è succeduto alla testa del ministero degli Interni ed evidentemente ha pareggiato i conti con lo scomodo imam. Nimr al-Nimr era stato condannato a morte nel 2014 come terrorista e nemico dello Stato. Ma, sorvolando sulla totale mancanza di rispetto dei diritti umani e civili in Arabia Saudita, l’interrogativo cruciale da porsi è soprattutto politico. C’era proprio bisogno di giustiziarlo? E perché ora? Un grande del giornalismo dal Medio Oriente, Robert Fisk, il 4 gennaio scorso sul quotidiano londinese «The Independent» si chiedeva addirittura se i Saud non fossero ammattiti. Possibile che non immaginassero la reazione furiosa delle piazze sciite in tutta la regione e la dura reazione dell’Iran? Detto in altre parole, quella dell’Arabia Saudita è stata una provocazione bella e buona di cui conosceva perfettamente le conseguenze, anzi se le augurava. Nel giro di appena quattro giorni, dal 2 al 6 gennaio, in Iran scalmanati hanno assaltato l’ambasciata saudita a Teheran, dandola alle fiamme, in un remake decisamente anacronistico dell’assalto all’ambasciata Usa del 1979. Assalito anche il consolato saudita a Mashad. La Guida suprema della rivoluzione Ali Khamenei è arrivato a paragonare il regime degli al-Saud all’Isis quanto a fanatismo e ferocia. Alla sua condanna dell’esecuzione di Nimr al-Nimr si sono accodati prontamente i suoi satelliti sciiti della regione: gli Hezbollah del Libano per bocca del loro segretario generale Hassan Nasrallah e vari imam iracheni ormai al potere dietro il governo di Haydar Jawwad al-

Donne sciite del Bahrein protestano contro l’esecuzione dell’imam al-Nimr. (AFP)

Abadi. Quanto agli sciiti del Bahrein, più compostamente hanno spedito in piazza le loro donne supervelate e di nero vestite con cartelli e foto dell’imam giustiziato. L’unico a rimanere muto è stato Bashar al-Assad: difficile far scendere in piazza i propri fan per la morte di un sant’uomo che lo aveva chiamato «boia». Atto finale di ripicca: l’Iran ha vietato i pellegrinaggi alla Mecca, asserendo che l’Arabia Saudita non è in grado di garantire la sicurezza dei pellegrini medesimi, il che è come delegittimare i Saud che traggono gran parte del loro potere dalla «custodia e protezione» dei luoghi santi dell’Islam. Dal canto suo Riyad ha rotto le relazioni diplomatiche con l’Iran, seguita a ruota da Sudan, Bahrein, Kuwait e Qatar, mentre gli Emirati Arabi Uniti si sono «limitati» a sostituire l’ambasciatore a Teheran con un incaricato d’affari. E sicuramente non è finita qui. Aggravando la spaccatura settaria tra sunniti e sciiti nell’intero Medio Oriente, l’Arabia Saudita sta ottenendo il risultato che cercava: isolare Teheran e confinare la sua influenza alla cosiddetta «mezzaluna sciita» cioè quei pochi paesi in cui gli sciiti sono la mag-

gioranza (Iraq, Iran, Libano, Bahrein). Di questo calcolo si è accorto fin troppo bene il presidente iraniano Hassan Rouhani che ha cercato di gettar acqua sul fuoco prendendo le distanze dagli assalitori delle rappresentanze diplomatiche saudite a Teheran e Mashad (a suo tempo, nel 1979, Khomeini invece benedisse gli assalitori dell’ambasciata americana che costò all’Iran un pesante isolamento internazionale). Intendiamoci: l’Iran somiglia all’Arabia Saudita più di quanto voglia ammettere. Come l’Arabia Saudita ha finanziato e finanzia ancora in Medio Oriente, Africa e Asia organizzazioni terroristiche o eversive (Hezbollah in Libano, gli Houti in Yemen per esempio, per non parlare di regimi sanguinari come quello di Bashar al-Assad in Siria). Strumentalizza le spaccature settarie (nell’Iraq post-Saddam Hussein le sue milizie e politici sciiti locali su cui esercita una forte influenza hanno contribuito a esasperare l’emarginazione della minoranza sunnita che è tra le cause della nascita prima di Al-Qaeda in Iraq poi dell’Isis). Strumentalizza la guerra all’Isis in Iraq e in Siria. Strumentalizza oggi lo stesso Nimr al-Nimr

che del regime degli ayatollah non ne voleva sapere e soprattutto combatteva proprio contro la strumentalizzazione delle fratture settarie. L’Iran infine somiglia all’Arabia Saudita per il numero di condanne a morte comminate nel più totale disprezzo dei diritti umani. Dopo la Cina, al secondo e terzo posto mondiale nel ranking delle pene di morte, troviamo appunto Iran e Arabia Saudita in una fiera macabra di decapitazioni, impiccagioni e lapidazioni. Non è dunque sul piano delle accuse che si rinfacciano ufficialmente e le ripicche che mettono in atto che possiamo giudicare il pericoloso braccio di ferro ingaggiato dalle due teocrazie mediorientali. In questo momento storico in ballo c’è la supremazia nel Golfo e le vie per raggiungerla o mantenerla. L’Iran sta allargando la sua sfera di influenza combattendo realmente l’Isis sul terreno in Iraq e Siria, avendo al suo fianco la Russia di Putin e – dietro le quinte per l’imbarazzo – gli Stati Uniti di Obama. Questo irrita in massimo grado l’Arabia Saudita che si è messa sul piede di guerra non a caso dopo la firma del trattato sul nucleare tra Usa e Iran del 14 luglio 2015 che ha spezzato l’isolamento internazionale di Teheran che durava, come detto, dal 1979. In quest’ottica oggi ci sembra meno peregrina anche la coalizione anti-Isis messa in piedi dall’Arabia Saudita non più tardi del 15 dicembre scorso, che più che un’arma contro il Califfato si configura piuttosto come uno scudo sunnita anti-Iran per imbrigliarlo e impedirgli di diventare una vera potenza regionale col favore esplicito o meno delle superpotenze mondiali. Coalizione che assieme all’en plein di condanne a morte ora somiglia tanto anche ad uno schiaffo in faccia agli stessi Stati Uniti presi di mira dal vecchio alleato in un periodo pre-elettorale che poco permette di fare ad un presidente come Obama che non controlla il Congresso. In altre parole Riyad ha dimostrato a Washington che può destabilizzare l’intero Medio Oriente, mentre l’Iran non può esporsi apertamente con provocazioni analoghe finché non gli saranno tolte le sanzioni che hanno messo in ginocchio la sua economia. Nel clima di tragica escalation che si è creato, ci sono due test che possono chiarire dove intenda realmente andare a parare la prova di forza saudita: i negoziati per la pace in Yemen (la tregua peraltro è già saltata) e il terzo round delle trattative per varare un governo di transizione in Siria che dovrebbe aprirsi il 25 gennaio prossimo. Dovessero saltare, per impedire il peggio ci vorrà ben più degli inviti alla calma rivolti a Riyad e a Teheran da mezzo mondo. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

9 sfide + 1 interrogativo Scenari del 2016 La nuova fiammata di tensione fra Arabia Saudita e Teheran conferma che il Medio Oriente

è il nodo cruciale dei molti problemi che hanno afflitto l’anno appena concluso Federico Rampini L’anno si è aperto all’insegna del caos in Medio Oriente, con una nuova fiammata di tensione, stavolta lungo l’asse tra Teheran e Riyad. Un preludio alle sfide del 2016? Ecco una guida ragionata a quelle che considero le dieci sfide da tenere d’occhio nei prossimi dodici mesi. ISIS. Come sconfiggere lo Stato Islamico in Iraq e in Siria, al tempo stesso isolando il contagio della jihad tra i «lupi solitari» attirati dall’ideologia del terrore nei nostri paesi. La questione ci riguarda tutti, è stato detto in vertici come il G20 di Antalya in Turchia o la Cop21 di Parigi, sull’onda dei terribili attentati in Francia e in California. E tuttavia non è affatto chiaro che quei proclami di grande coalizione siano sinceri, o tantomeno seguiti da comportamenti coerenti. Dalla Turchia all’Arabia Saudita alla Russia, molti attori influenti in Medio Oriente hanno avuto a lungo dei «retro-pensieri», dicono di voler estirpare il Grande Califfato ma in realtà hanno in mente un altro nemico numero uno. Sciogliere queste ambiguità diventa centrale. E al tempo stesso diventa più difficile per il riemergere della linea di frattura tra sunniti e sciiti dopo le esecuzioni in Arabia Saudita e le proteste in Iran. La stessa linea di frattura tra sunniti e sciiti in passato portò alcune potenze regionali come Turchia e Arabia ad appoggiare di fatto lo Stato Islamico. IMMIGRAZIONE. Come governare i flussi migratori, all’interno dei quali non è sempre possibile distinguere chi ha diritto di asilo da chi emigra per ragioni economiche. Il tema è diventato un discrimine tra partiti politici, destre e sinistre, nuovi populismi. Domina il dibattito pubblico sia in Europa che negli Stati Uniti. C’è chi semplifica, c’è chi demonizza, c’è chi esorcizza, ma nessuno ha trovato un equilibrio stabile e condiviso tra le ragioni dell’accoglienza – che sono anche di interesse economico e demografico – e i timori che l’integrazione sia foriera di tensioni e conflitti. In America sull’immigrazione si è allargato il divario tra repubblicani (sempre più chiusi) e democratici (che puntano sull’elettorato ispanico). In Europa la leadership di Angela Merkel nel 2016 potrebbe entrare in un declino irreversibile dopo che la sua apertura ai profughi ha incontrato resistenze crescenti in seno al suo stesso partito. E l’Europa nordica, a lungo

considerata come un modello, è teatro di un’avanzata di forze xenofobe. In quanto ai flussi di profughi, sono stati temporaneamente ridotti dall’inverno e soprattutto dal patto Ue-Turchia: contro un pagamento immediato di 3 miliardi di euro la polizia turca ha cominciato a controllare più rigorosamente le sue frontiere. Con l’arrivo della primavera non è escluso che gli ostacoli alla frontiera turca spostino nuovamente i flussi verso il mare quindi verso gli approdi in Italia e Grecia. PETROLIO. Il 2016 si apre in pieno contro-shock energetico. Una manna per i paesi consumatori, anche se non tutti ne godono in modo eguale: in Europa il calo del petrolio è in parte nascosto o controbilanciato dalla svalutazione dell’euro e dall’elevata pressione fiscale sui carburanti. Per molti paesi emergenti produttori di materie prime è una maledizione, ha interrotto il loro lungo boom economico. Gli esperti sono divisi sugli scenari, fra chi prevede un’inversione di tendenza e chi invece si aspetta uno scenario prolungato di energia a buon mercato. Il crollo del 40% nelle quotazioni del greggio durante il 2015 ha avuto un ruolo determinante nel bilancio negativo delle Borse. Una guerra del petrolio fa da sfondo anche alle tensioni fra Iran e Arabia Saudita. Guai però a scommettere che i cicli dei prezzi siano a senso unico. TASSI. La Federal Reserve ha voltato pagina, iniziando a rincarare il costo del denaro già alla fine del 2015. La politica monetaria europea è di segno opposto, avendo adottato con enorme ritardo il quantitative easing americano (creazione di liquidità per acquistare bond). Ma la politica monetaria americana ha sempre irradiato la sua influenza in altre parti del mondo. Si è chiusa negli Stati Uniti un’era durata sette anni, dalla fine del 2008. Che cosa accadrà in un mondo dove i rendimenti Usa riprendono a salire, è un dilemma. Di norma i flussi di capitali tenderanno a premiare gli investimenti in titoli denominati in dollari. Dunque l’America continuerà a «prosciugare» altre nazioni nel 2016, dopo averle inondate di liquidità dal 2008 al 2014. In questo gioco dei vasi comunicanti alcuni soggetti deboli subiranno crescenti difficoltà: il Brasile che quest’anno ospiterà le Olimpiadi guida la lista delle economie emergenti entrate in recessione e colpite da sfiducia degli investitori. Il 2016 potrebbe essere l’anno di qualche default importante. Da tenere d’occhio, più ancora dei debiti pubblici, i debiti

Che cosa accadrà in futuro, in un mondo dove i problemi continuano a salire? (AFP)

privati di alcune multinazionali dell’emisfero Sud. CLIMA. L’inverno mite che ha investito sul finire del 2015 parti dell’Europa e degli Stati Uniti è servito a «sottolineare» la questione del cambiamento climatico su cui si è chiuso l’anno con il summit di Parigi Cop21. Il 2016 deve vedere gli impegni di Parigi tradotti in azioni concrete. La riconversione economica verso modelli energetici sostenibili si scontra con poderosi venti contrari, a cominciare proprio dal basso prezzo dell’energia fossile. BREXIT. L’Unione europea è sul punto di perdere uno Stato membro importante come la Gran Bretagna? Nel 2016 David Cameron deve prendere decisioni cruciali, sul ri-negoziato delle condizioni di appartenenza all’Unione e sul referendum popolare che darà il verdetto finale agli elettori. È l’elemento più visibile e potenzialmente drammatico in una fase dove le forze centrifughe sembrano prevalere nell’Unione. Cameron sembra inseguire il mito di Margaret Thatcher, quella

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Lady di Ferro conservatrice che seppe rinegoziare con grinta e astuzia le condizioni di appartenenza del Regno Unito all’Unione, riducendone i costi. Ma il premier attuale può essere vittima di un errore di calcolo. Se i partner europei considerano inammissibili le sue richieste, Cameron si trova costretto a indire il referendum facendo campagna per l’uscita. E una volta che sia uscita Londra, tutti cominceranno a chiedersi chi sarà il prossimo. CASA BIANCA. Novembre 2016, l’elettorato Usa deve scegliere un nuovo presidente, ed è una decisione gravida di conseguenze anche per il resto del mondo. Si chiudono otto anni di presidenza Obama, è il momento dei bilanci storici ma anche quello di una possibile svolta politica. L’eventuale ritorno di un repubblicano avverrebbe all’insegna di una sterzata conservatrice in molti campi: la destra Usa del 2016 si è radicalizzata perfino rispetto ai tempi di George W. Bush. Viceversa una vittoria di Hillary Clinton farebbe storia: dopo il primo nero, la prima donna presidente. Contro le chance di Hillary pesa la bassa popolarità del presidente uscente. Il primo test si svolge a inizio febbraio in Iowa. Una vittoria molto netta di Ted Cruz in quello Stato può rilanciare candidature «politiche» in alternativa all’outsider Trump. IRAN. È destinato a «tornare fra noi» come una potenza che vuole recuperare un rapporto normale con l’Occidente, oppure no? A prescindere dalle tensioni con l’Arabia Saudita, questa è una partita che si gioca su uno scacchiere più ampio. Sarà un anno chiave per verificare il rispetto dell’accordo sul nucleare. Se dovesse funzionare la scommessa su cui ha puntato Obama, il disgelo con l’Iran potrebbe cambiare tante altre cose sullo scacchiere mediorientale. CINA. La seconda economia mondiale affronta una transizione delicata e perfino pericolosa. La Cina entra nel 2016 a velocità ridotta, la crescita del Pil attorno al 6% è la più bassa da un quarto di secolo. Buona notizia se questo significa che sta riconvertendosi ad un modello di sviluppo più sostenibile. Ma se il rallentamento dovesse penalizzare il tenore di vita di una nazione con 1,3

miliardi di abitanti, potrebbero esplodere tensioni sociali che per decenni erano state controllate e contenute grazie ad uno sviluppo impetuoso. Xi Jinping è il presidente più autoritario e accentratore che la Cina abbia dai tempi di Deng Xiaoping. La sua campagna anti-corruzione lo ha reso popolare. Eppure tutta la sua potenza politica non è bastata finora per riformare il settore delle aziende di Stato, uno dei punti deboli dell’economia cinese. Se continua lo stallo delle riforme strutturali il 2016 può vedere il ripetersi di accessi di sfiducia degli investitori, un bis delle turbolenze di Borsa che gettarono scompiglio nel mondo intero durante l’estate 2016. NEXT. L’interrogativo più difficile di tutti: quale sarà la nuova invenzione, presumibilmente concepita nella Silicon Valley, che si candiderà ad essere la «star» dell’anno? Dopo gli anni segnati dall’avvento dei social media, dopo quelli delle app dedicate alla sharing economy come Uber o Airbnb, quale sarà The Next Big Thing? L’auto senza pilota di Google? Il medico dell’autodiagnosi affidata all’Intelligenza Artificiale? La conquista spaziale a buon mercato grazie ai vettori privati come Elon Musk? O qualche balzo in avanti della ricerca genetica? Resta tuttavia un interrogativo di fondo su queste innovazioni: perché non si traducono in un balzo in avanti della produttività? L’ultima volta che una rivoluzione tecnologica ebbe effetti concreti e molto positivi sulla produttività del lavoro, fu negli anni Novanta con la diffusione del personal computer su tutte le scrivanie e in tutte le aziende. Da allora la produttività è piatta. Né lo smartphone né i social media ci hanno reso più ricchi… naturalmente con l’eccezione degli azionisti di Apple, Google o Facebook. L’enfasi sulla creatività della Silicon Valley non deve far dimenticare che il tenore di vita per la maggioranza dei lavoratori in Occidente non migliora più da alcuni decenni. La «stagnazione secolare» resta la definizione più adeguata dell’epoca che viviamo. Purtroppo non c’è ragione di prevedere che il 2016 segni su questo fronte una rottura o un’inversione di tendenza.


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Politica e Economia

Il ruolo economico della famiglia in Svizzera Statistiche Alcuni dati essenziali riflettono qualche aspetto dell’evoluzione profonda della famiglia in Svizzera,

il suo apporto e i suoi costi per l’economia nazionale Ignazio Bonoli Il settimanale economico «Handelszeitung» ha dedicato il supplemento del numero di Natale alla famiglia. Accanto ad alcune brevi analisi sui molteplici aspetti della famiglia, anche quale fattore di successo, la pubblicazione si sofferma sui collegamenti, diretti e indiretti, dei nuclei familiari con l’economia. Così come la famiglia è in genere qualcosa di «imprevedibile» (per esempio nascite non programmate, parenti non desiderabili, incidenti, decessi, ma anche grandi e piccoli momenti di felicità), è anche difficile valutare le sue implicazioni economiche. Pensiamo solo alle ore di lavoro non rimunerate (in particolare delle casalinghe), ma anche all’assistenza a persone nel bisogno. Queste e altre prestazioni non entrano nemmeno nel calcolo della creazione di ricchezza (del PIL) di un’economia. In Svizzera però il ruolo della famiglia è molto importante. Non solo per l’apporto indiretto o l’assunzione di compiti di cui dovrebbe altrimenti farsi carico lo Stato, ma per esempio per il fatto che l’88% di tutte le imprese svizzere sono a gestione familiare! Dalla presenza delle grandi dinastie dai nomi altisonanti – dai Blocher agli Hoffmann / Oeri (chimica), dagli Schmidheiny (industria) agli Jacobs (gastronomia), dagli Hayek (orologeria) ai Vontobel (banca), per citarne solo alcuni – fino alla piccola azienda tramandata spesso da padre in figlio. In un paginone centrale, il settimanale presenta un quadro cifrato di molti degli aspetti che concernono le famiglie. Si possono così vedere

La famiglia: una realtà che è mutata radicalmente negli ultimi decenni. (Keystone)

a colpo d’occhio alcune cifre che non mancano di sorprendere. Per esempio quanto viene a costare un figlio: risposta 180’000 franchi, così suddivisi: 833 franchi al mese fino alla fine della scolarizzazione primaria, fino a 12 anni la media scende fino a 691 franchi al mese, ma dopo risale fino a 1’005 franchi al mese. Ogni figlio in più provoca di regola un risparmio del 20% su queste cifre. Altre cifre definiscono evoluzioni conosciute: per esempio il numero di figli per donna in età di procreare è sceso da 3,68 nel 1900 a 1,82 nel 1940, per risalire a 2,44 nel 1960 e attestarsi a poco più di 1,50 dal 1980 a oggi. L’età alla

quale una donna partorisce un figlio è salita da 30,4 anni nel 1935 a 31,7 anni nel 2015, ma dopo essere scesa a 27,7 anni nel 1975. Curioso è però il caso di aumento del numero di gemelli, che oggi è del 50% in più rispetto al 1970. In chiaro aumento è però anche il numero dei divorzi, che è passato dal 4,7% nel 1900 al 40,9% nel 2014. In alcune regioni la crescita di questo fenomeno è ormai vicina al 50%, il che significa che la metà dei matrimoni finiscono in un divorzio. È questo uno dei sintomi delle famiglie moderne, che dipende da molte cause, tra le quali il modo di vivere. Qui sorprende però constatare che la Svizzera è ancora ai li-

velli più alti per quanto concerne i pasti in comune. Il 90% delle famiglie riescono ad avere un pasto in comune almeno una volta alla settimana. Solo l’Italia fa meglio con il 94%, mentre la Germania è all’81%, la Grecia al 69% e la Finlandia perfino al 60%. Significativo anche il fatto che la maggior parte delle famiglie monoparentali, che riceve un sussidio cantonale, risieda a Basilea-Città (30%) e solo l’8,3% in Vallese. Un altro dato economicamente interessante è quello sulle persone che hanno un’attività lavorativa, in questo caso con un grado di occupazione tra il 90 e il 100%. Secondo gli ultimi rilevamenti statistici l’87,7% dei padri

aveva un simile grado di occupazione, contro soltanto il 13,7% delle madri. Il dato non tiene ovviamente conto delle occupazioni a tempo parziale di molte madri di famiglia, che però in Svizzera è ancora piuttosto basso. Lo conferma anche il dato sulla cura di figli da parte di terzi, che è alta nelle fasce d’età da 0 a 4 anni (49,8%), ma si riduce al 12,4% tra i 10 e i 14 anni, con una media al 34,1%. Come vive la maggior parte delle famiglie? A questa domanda la statistica risponde che nel 2007 il 35,2% viveva come persona sola (19,5% nel 1970), il 28,2% in coppia con due figli (1970: 44,3%), il 5,1% come un solo genitore con due figli, il 26,7% in coppia senza figli. Interessante anche l’analisi della composizione della spesa delle famiglie svizzere. Qui si conferma che ormai, in media, la spesa maggiore è dovuta a spese obbligatorie con l’11,8% di tasse e imposte, l’11,6% di assicurazioni sociali, il 7,4% di premi di cassa malati (totale 30,8%). Un altro 7,5% viene poi speso per assicurazioni private e altri contributi. L’altra grande componente della spesa familiare è quella per l’abitazione e l’energia (16,8%). Alle spese per l’alimentazione viene ormai dedicato solo il 9,4%. A quelle per i trasporti il 7,8% e a quelle per divertimento e cultura il 6,7%. Ristoranti e alberghi assorbono il 5,2%, gli abiti e le scarpe il 3,2%, la comunicazione il 2,1% e altre spese di consumo il 10,5%. Il confronto con gli anni precedenti riflette l’evoluzione di questa componente importante della società, magari meno veloce che in altri paesi, ma pure molto significativa.

Più difficile il prelievo di capitale: colpite le persone socialmente più deboli La consulenza della Banca Migros Albert Steck Il Consiglio federale vuole limitare le possibilità di prelievo del capitale al momento del pensionamento per la parte obbligatoria della previdenza fino a uno stipendio di 84’600 franchi. La riforma prevista comporta una pesante discriminazione soprattutto per i pensionati con un’aspettativa di vita piuttosto ridotta.

Albert Steck è responsabile delle analisi di mercato e dei prodotti presso la Banca Migros

La scelta tra «capitale» o «rendita» è una delle più importanti nella vita. Per la maggior parte delle persone la rendita del secondo pilastro è di certo l’opzione migliore, considerando l’elevata aspettativa di vita: un neopensionato ha una probabilità del 50 percento di raggiungere gli 87 anni. Per le donne si arriva addirittura a 90 anni. E chi ha buone chance di raggiungere un’età elevata è avvantaggiato dalla soluzione con la rendita, come conferma il nostro calcolo illustrato nel grafico: con un capitale di 500’000 franchi la rendita per un 95enne comporta già un guadagno di 300’000 franchi. Nel caso di una ridotta aspettativa di vita vale l’esatto contrario: partendo dallo stesso calcolo, un decesso all’età di settant’anni implica un guadagno di 300’000 franchi se il pensionato sceglie di prelevare il capitale, mentre la rendita significa la perdita di questo denaro per gli eredi. Una vedova o un vedovo percepisce comunque una rendita per superstiti, che di norma

Sono in gioco centinaia di migliaia di franchi

È l’aspettativa di vita a stabilire se la soluzione migliore sia il prelievo di capitale o la rendita. Esempio di calcolo per un single con un patrimonio di 500’000 franchi nella cassa pensioni.

arriva al 60 percento della rendita di vecchiaia. È dunque evidente che la limitazione prevista dalla Confederazione per il prelievo del capitale penalizza prima di tutto coloro che non vivono a lungo dopo il pensionamento. E spesso sono proprio le persone con un reddito modesto. Secondo una stima della Confederazione, le persone con il più basso grado di scolarizzazione muoiono in media sette anni prima di quelle con un livello elevato di formazione. A ciò si aggiunge che il

Vantaggio rendita Età Vantaggio prelievo di capitale

previsto divieto di prelievo riguarderebbe solo la parte cosiddetta obbligatoria fino a uno stipendio annuo di 84’600 franchi. Chi guadagna di più può comunque farsi liquidare una parte del patrimonio. Il prelievo del capitale continuerà a essere ammesso anche per l’acquisto di una proprietà abitativa. Ma, anche qui, è svantaggiato chi dispone di poche risorse finanziarie. La limitazione al prelievo del capitale non è ancora definitiva. Nella consultazione la Confederazione sottopone

anche una variante edulcorata (v. blog.bancamigros.ch). Occorre riflettere su una questione sostanziale: fino a che punto lo Stato può ingerire nei diritti di proprietà? Non dimentichiamo che il capitale accumulato nel secondo pilastro appartiene agli assicurati. La possibilità di scelta dovrebbe dunque essere limitata solo di fronte a motivi molto gravi. Attualità su blog.bancamigros.ch: ■ Le conseguenze concrete dei progetti della Confederazione.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 11 gennaio 2016 ¶ N. 02

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 11 gennaio 2016 ¶ N. 02

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Politica e Economia

Politica e Economia

Primo, giocare d’anticipo

riguardano temi settoriali. Lì abbiamo 42 associazioni di categoria, che fanno bene il loro lavoro. Chi fa impresa, in Ticino, trova buone condizioni quadro?

CCIA Sotto il suo nuovo presidente Glauco Martinetti, la Camera di commercio intende recuperare un ruolo

proattivo nel dibattico sulla politica economica – Nell’intervista, uno sguardo allo stato dell’economia ticinese e dell’imprenditoria, nel quadro della crisi dell’euro e di un forte afflusso di frontalieri Peter Schiesser Il neo presidente della Camera di commercio dell’industria, artigianato e dei servizi del Cantone Ticino ci accoglie nel suo ufficio alla Rapelli, a Stabio, azienda che dirige dal 2012 e in cui è entrato nel 2002 come direttore marketing e vendita, dopo dieci anni alla testa della FOFT. 50 anni nel 2016, sposato, padre di tre figli, ha studiato agronomia al Politecnico di Zurigo – una scelta logica essendo nato in una famiglia di contadini, anche se il suo sogno sarebbe stato di diventare ingegnere civile. «Amo lavorare con le mani, non appena posso vado nella mia vigna – che è il mio psicologo – e nei miei rustici su a Iragna». È persona che si definisce molto legata alla terra, al territorio. Ed è questa una qualità che ne ha fatto il candidato ideale per succedere a Franco Ambrosetti alla presidenza della CCIA: «non ho cercato questa carica, ma alla fine ho accettato, perché ho visto che c’è un ufficio presidenziale con persone altamente motivate e competenti, che conoscono bene il territorio». Esperienze e competenze che saranno molto utili per affrontare un futuro che non si preannuncia facile, per l’industria e il commercio del canton Ticino. Glauco Martinetti, come sta l’economia ticinese, in questi anni?

L’economia ticinese ha avuto una fase di buona espansione negli ultimi dieciquindici anni. Il rapporto del Professor Baranzini di alcune settimane fa, Oltre metà del guado, lo indica chiaramente. Non è più un’economia al traino, come diceva l’economista Angelo Rossi. Si sono create delle strutture e premesse diverse: pensiamo solo all’USI, alla SUPSI, all’IRB. A settembre siamo arrivati al minimo storico della disoccupazione e quindi al massimo della occupazione. L’economia ha dunque vissuto un periodo molto positivo.

«La libera circolazione ha portato benessere, il Ticino ha creato più posti di lavoro rispetto al numero di frontalieri» Invece nel Paese si percepisce da tempo un pessimismo, c’è l’impressione che l’economia non vada bene.

Secondo me si è gridato al lupo in un momento in cui il lupo non c’era, perché certe forze politiche hanno voluto attirare consensi. Il settore bancario ha avuto delle difficoltà ma sta trovando delle nuove vie. Non abbiamo mai avuto un fiorire nel settore immobiliare come negli ultimi 10 anni in tutto il cantone. Ci sono settori che stanno meglio, altri che stanno peggio: la forza del franco svizzero penalizza il commercio, le esportazioni, il turismo.

Tutti e tre i settori sono molto toccati direttamente, è solo la tempistica che cambia. Il primo settore che ne ha risentito dopo il 15 gennaio è stato il commercio, soprattutto quello al dettaglio: il 16 gennaio abbiamo avuto le prime colonne di ticinesi che facevano acquisti oltre frontiera. Il settore del turismo è stato toccato alcuni mesi dopo, a partire dalla Pasqua. Il settore delle esportazioni è toccato adesso: la riduzione dei margini è stata da subito molto vistosa a seguito della modifica del cambio, ma gli ordinativi sono continuati per molti mesi, quindi quasi non ce ne siamo accorti. Adesso però inizia il calo degli ordinativi, perché le aziende

Dipende dal luogo di provenienza dell’imprenditore. Se viene da Zugo trova condizioni nettamente peggiori (a parte il clima e i grotti), se viene dall’Italia trova condizioni migliori. Le zone industriali sono mal pianificate. Inoltre, a livello fiscale intercantonale siamo scesi al terzultimo posto, la rete stradale non è all’altezza dei fabbisogni, l’amministrazione cantonale non è per nulla snella, per qualcuno che viene da Oltralpe. Se viene dall’Italia l’imprenditore dice: «Posso parlare con il funzionario? Fantastico, in Italia non posso». Se viene da Zugo dice: «Non ci siamo capiti, io non parlo con il funzionario, ma con il Consigliere di Stato». Alptransit e la galleria autostradale del San Gottardo potrebbero darci la possibilità di attirare industrie da Oltralpe. È facile attirare aziende dall’Italia, dove tutto va peggio. Ma se dobbiamo misurarci con il resto della Svizzera è un’altra storia. Non possiamo rimanere tagliati fuori dalla Svizzera, il nostro partner principale, sia in termini di forniture che di acquisti. Per questo dobbiamo batterci per il completamento della galleria autostradale del San Gottardo, su cui voteremo in febbraio. La ferrovia ha dei limiti strutturali fatti di cadenze orarie ben precise e poco flessibili. Che cosa chiedete alla politica e ai cittadini?

Glauco Martinetti: «Dobbiamo mettere in risalto le belle realtà imprenditoriali che abbiamo in Ticino». (Stefano Spinelli)

che non sono riuscite a comprimere i costi, malgrado i molti sforzi per farlo, non sono più competitive. Credo però che il tasso si stabilizzerà di nuovo sopra a quello attuale. Il turismo invece continuerà a soffrire, lì il problema è anche di variazione dell’offerta, di saper accogliere i nuovi turisti in modo mirato, e dell’attrattività di altri mercati. La libera circolazione delle persone in Ticino viene vista criticamente dalla maggioranza della popolazione.

In generale negli ultimi dieci anni il Ticino ha creato più posti di lavoro rispetto al numero dei frontalieri assunti. Il fatto che la disoccupazione sia diminuita ne è la prova. Io credo che la libera circolazione abbia portato benessere: più industrie e quindi più posti di lavoro. Io ho vissuto per anni il contingentamento delle persone quando ero ancora direttore della FOFT e mi ricordo molto bene i pomodori non raccolti nei campi per carenza di manodopera. Se non avessimo avuto l’imprenditoria che compensava in parte il gettito che è venuto a mancare dalle banche, noi oggi avremmo ancora meno entrate fiscali. Dall’altra parte, c’è un rovescio della medaglia: c’è più traffico sulle strade. Ma è un errore dare la colpa al frontalierato: è il Ticino che non è stato in grado di anticipare e pianificare la crescita che stava arrivando. Abbiamo strade non abbastanza capienti, un trasporto pubblico non performante, soprattutto nei collegamenti con la zona di confine. Il Tilo va da Chiasso a Milano, ma tutto il Varesotto non è servito. Pensi solo che l’unico bus che collegava la Svizzera e l’Italia è stato messo sotto sequestro dall’Italia credo tre anni fa e ancora adesso la politica non ha trovato la soluzione. Il problema sono le strutture che mancano, non i frontalieri. Nonostante il rapporto dell’IRE lo smentisca, molti pensano che i frontalieri tolgano lavoro ai residenti e che vi sia una massiccia pressione sui salari.

Ci sono settori per i quali non si trova manodopera residente a sufficienza: pensiamo a tutto il settore del terziario come ospedali, case per anziani, gastronomia e ristorazione. Nel secondario, sia industriale che nelle costruzioni, abbiamo una carenza cronica

di manodopera residente. Anche nel primario abbiamo bisogno di braccia d’oltre frontiera. Il frontalierato è sempre stata una grande opportunità per il Ticino. Negli ultimi 10 anni, in un momento di grande espansione, il Ticino politico ha voluto lanciare in modo assolutamente ingiustificato una guerra al frontalierato. Certamente ci sono stati anche dei casi di sostituzione, li ho visti personalmente e vanno combattuti, ma non possiamo assolutamente generalizzare. Questo messaggio non è stato recepito e trasmesso da nessuna forza politica ticinese. Riguardo al dumping salariale: se l’economia italiana fosse cresciuta con l’euro come era nelle previsioni non saremmo in questa situazione. Non avremmo neppure una sovravalutazione del franco. Siamo partiti con l’euro a 1 franco e 60 perché la politica europea credeva in uno sviluppo più forte. Oggi subiamo la pressione di una manodopera a buon mercato e abbiamo un problema a richiamare all’ordine certe imprese affinché non se ne approfittino. La risposta deve arrivare attraverso dei contratti collettivi o attraverso accordi imprenditoriali. Il resto della Svizzera ha approfittato della libera circolazione per attirare manodopera altamente qualificata. In Ticino?

Una volta il frontalierato entrava solo nell’industria. Oggi è diverso. Nell’industria si è passati da circa 17 a 20 mila frontalieri. In 20 anni ci si è mossi poco. Il grosso aumento c’è stato nel terziario. Quando si dice terziario tutti pensano alle banche e alle assicurazioni. Ma le banche hanno una percentuale di frontalieri credo inferiore al 10 per cento. L’aumento c’è stato negli ospedali, nelle case anziani, nei ristoranti, negli alberghi. L’esigenza c’è: gli anziani sono in aumento e le famiglie non sono più organizzate per tenerli in casa. È un’esigenza reale della società moderna. Se noi non rispondiamo con la nostra manodopera, da qualche parte dobbiamo andarla a prendere. Un altro aspetto è questo: sento, da parte di molte industrie, che manca manodopera specializzata. Prendiamo Medacta, azienda che produce protesi:

mi dice Alberto Siccardi che stanno assumendo molte persone, perché hanno molti ordinativi, necessitano di profili altamente qualificati, ma il bacino ticinese è troppo piccolo per offrire questo tipo di personale, forzatamente Medacta deve assumere persone dall’estero. Rapelli vive la stessa situazione: senza frontalieri chiuderemmo baracca. Noi siamo a Stabio, che non è al centro del Ticino: se nelle valli si trova qualche apprendista macellaio, da Lugano in giù nessuna famiglia consiglia ai propri figli di intraprendere la professione di macellaio. In Ticino abbiamo fra gli 8 e i 10 apprendisti macellai all’anno, ci sono anni in cui riusciamo ad avere al massimo 2-3 apprendisti ticinesi. Su 400 dipendenti che abbiamo, 3 apprendisti non mi garantiscono il ricambio, dovrei comunque averne 20. Consideriamo poi che l’Italia ci offre una manodopera molto qualificata nel settore della salumeria perché il nord Italia ha una cultura nella lavorazione del maiale che non esiste da nessun’altra parte al mondo.

«C’è più traffico sulle strade, ma non è colpa dei frontalieri: è il Ticino che non è stato in grado di pianificare la crescita»

imprenditoriale, che è invece fatta di molte piccole e medie imprese famigliari (33mila aziende , il 90% con meno di 10 impiegati). La pecora nera, che purtroppo esiste, è assunta ad esempio della categoria. A me questo fa male. E la vostra risposta che cosa sarà: una campagna d’immagine?

Innanzi tutto dobbiamo dire con fermezza che non è così: tacere significa accettare questa posizione. In secondo luogo dobbiamo comunicare di più e meglio. Dobbiamo mettere in risalto le belle realtà che abbiamo in Ticino. Più che campagna di immagine parliamo di campagna di comunicazione. A me piace quel che sta facendo Christian Vitta: sta girando le industrie del Ticino e mette in risalto quello che stanno facendo. Non mi ricordo di altri consiglieri di Stato, dopo Dick Marty che ho visto in visita all FOFT nel 1993, che abbiano fatto altrettanto. Noi della Camera di commercio e dell’industria dobbiamo fare come Vitta. Io oggi le 42 associazioni di categoria non le conosco, per cui mi dico: nel 2016 visito le 15 più grandi, poi seguiranno le altre, per poter documentare quanto stanno facendo. Conosco realtà fantastiche: c’è una ditta a Lugano che occupa 100 ingegneri che progettano e costruiscono centrali per la produzione di ammoniaca in tutto il mondo! Un valore aggiunto incredibile. Quali accenti intende porre durante la sua presidenza?

Nel suo discorso in occasione della 98esima assemblea generale della Camera di commercio e dell’industria del canton Ticino lei ha sottolineato di sentire una «chiara e ingiustificata ostilità verso gli imprenditori».

Constato che l’imprenditore non è più visto come creatore di posti di lavoro, di ricchezza, come una persona che rischia del suo per far progredire il benessere della società, ma come l’approfittatore che impiega manodopera a basso costo per farsi milionario. Lo si legge in modo chiaro nelle lettere sui giornali, nei comunicati stampa delle organizzazioni sindacali, lo dicono alcune forze politiche. È una visione sbagliata. Esiste in pochissimi casi ma non rappresenta la nostra realtà

Il primo lo abbiamo appena detto: migliorare la comunicazione mirata. Il secondo è di mettere l’accento sul ruolo della Camera quale interlocutore privilegiato per le questioni di economia generale e di politica economica. Per fare questo sfrutteremo meglio le competenze presenti all’interno dell’Ufficio presidenziale: oggi abbiamo veramente delle grandi personalità al nostro interno, con grandi competenze. La Camera deve ulteriormente rafforzare il lavoro proattivo, giocare d’anticipo, evidenziando le esigenze dell’imprenditoria, non solo nella fase di reazione alle proposte politiche. Per poterlo fare dobbiamo avere le conoscenze, sapere che cosa si discuterà a livello politico e prepararci. La Camera non deve entrare nei problemi e nelle discussioni che

La politica oggi non è politica, è «partitica», o peggio ancora è personalismo. E questo è un degrado della politica che abbiamo copiato dai nostri vicini. Guardiamo, purtroppo, le televisioni italiane e i suoi dibattiti politici in cui si parla molto della persona e non delle idee che promuove. E noi stiamo copiando questo. Abbiamo dimenticato la vera politica, che è: anticipare, pianificare, organizzare. Ciò che chiedo alla politica è di tornare a fare politica. A me non interessa se sia di destra, sinistra o centro, ma che si mettano d’accordo e che il Paese funzioni. Ai cittadini chiedo lo stesso senso di responsabilità che si pretende dall’imprenditore. Se vogliamo tenere i posti di lavoro in Ticino dobbiamo agire di conseguenza. Lei dirige la Rapelli SA. Il turismo degli acquisti fa male anche alla sua ditta?

Certamente. Se Migros ha il raffreddore, noi abbiamo 40 di febbre. Il turismo degli acquisti nel 2015 è progredito da 8 miliardi a 12 miliardi. È quindi normale che ogni produttore svizzero, e quindi anche la Rapelli, stia soffrendo. Tutta la filiera soffre. E mentre oltre frontiera ci sono ormai supermercati aperti 24 ore su 24, in Ticino si dibatte da anni sulle aperture dei negozi. La Camera di commercio e dell’industria come si posiziona?

Ci sarà una votazione il 28 febbraio 2016 e la posizione della Camera è chiaramente a sostegno della legge, anche se si tratta di una legge timidissima, nata da un compromesso castrante. Ed è una legge che non risolverà i problemi. Pensi solo alle grosse disparità intercantonali: a Zermatt in estate alla domenica i negozi possono essere aperti dalle 9.00 fino alle 18.00. In Ticino no. Il Ticino in estate è forse un cantone meno turistico del Vallese? Il 26 dicembre molti negozi in Svizzera tedesca erano aperti, da noi abbiamo fatto tanto rumore per poter aprire la domenica 27 dicembre. Se dipendesse da lei, che orari di apertura applicherebbe?

Dalle 8.00 alle 20.00, sette giorni su sette. Avrei un occhio di riguardo per le Feste importanti (Natale, Pasqua, eccetera). Non deve essere lo Stato a regolare quando posso e voglio lavorare o fare gli acquisti. Al momento in cui è garantita la tutela del personale, non possono essere norme statali a regolare l’esercizio del commercio. Personalmente credo che il lavoro vada preso quando c’è. Non capisco la posizione di chiusura ad oltranza dei sindacati. Dovrebbero dire di sì, perché si garantiscono posti di lavoro, poi si deve certamente discutere

dei contratti, di quanto pagare i dipendenti la domenica, stabilire le regole. È ridicolo che d’estate chiudiamo alle 18.30 o alle 19.00. A quell’ora i nostri turisti escono dal lago e non trovano più un negozio aperto. Imporre una tassa sui parcheggi significa gravare sulle imprese e sui suoi dipendenti. Avete detto chiaramente che non la accetterete.

Assolutamente no. Intanto il Ticino va sgravato di tasse, perché non siamo assolutamente più concorrenziali in termini di pressione fiscale. Trovo aberrante che se lo Stato ha bisogno di 18 milioni decida di mettere le mani nelle nostre tasche. Questa tassa è quanto di più iniquo e ingiusto si possa immaginare. La si è venduta come tassa contro il traffico generato dai frontalieri, ma in realtà per i tre quarti la pagheranno i ticinesi (150mila collaboratori su 210mila sono residenti). Inoltre, al traffico dei frontalieri non diamo una vera alternativa. Solo il Tilo funziona, ma per tutto il traffico proveniente dal Varesotto non abbiamo soluzioni, visto che il Tilo si ferma a Stabio. Abito a Giubiasco e per esperienza le dico che tutte le auto targate TI che transitano in direzione di Bellinzona sono occupate da una sola persona. Quindi è un problema comportamentale di tutti e non solo dei frontalieri. Inoltre si è fissato il limite dei 50 parcheggi: fino a 49 non genero traffico, a 51 genero traffico – figuriamoci! La realtà è che il Ticino è in ritardo di 20 anni sulla pianificazione del traffico, sulla pianificazione delle aree industriali, sulle aggregazioni comunali e quindi abbiamo una miriade di piani regolatori non coordinati tra di loro. Gli imprenditori vengono ulteriormente penalizzati da questa tassa. Questo non è risolvere i problemi, è semplicemente nasconderli dietro a un mucchio di neve: ma il caldo arriva sempre. Il commercio online sta modificando radicalmente il commercio al dettaglio. I consumatori stanno rapidamente cambiando le loro abitudini, soprattutto i giovani. La Camera di commercio e dell’industria ne è consapevole?

Glauco Martinetti ne è consapevole perché ha 3 figli maschi che smanettano in rete: se dico a mio figlio, vieni che andiamo a comprare i jeans, mi risponde che non esce certo di casa per andare a comprare dei pantaloni, li acquista online. Un altro figlio si fa arrivare un serbatoio dello scooter dal Maryland, in quattro giorni. Questa realtà la vedo in casa mia. La tendenza è mondiale e quindi anche il Ticino seguirà questa strada. Credo che in prima persona sono chiamati a rispondere a queste tendenze gli specialisti del mercato e quindi le associazioni settoriali di categoria, Disti e Federcommercio. Credo che la Camera possa fungere bene da piattaforma volta a mettere in rete le esperienze fatte in altri cantoni, ma le risposte devono venire in primis dal settore. Comunque la Camera contribuisce con una variegata offerta formativa e di eventi informativi alla sensibilizzazione sulle nuove realtà. Ad esempio, siamo stati fra i pochi a proporre approfondimenti sul tema del Bitcoin.

Due mesi decisivi Relazioni CH-UE Manca un anno per concretizzare l’iniziativa

del 9 febbraio 2014, il tempo per negoziati con Bruxelles è pochissimo

Marzio Rigonalli Il 2016 porterà una schiarita nei rapporti tra la Svizzera e l’Unione europea? Le diplomazie riusciranno a trovare un compromesso soddisfacente sulla questione dell’immigrazione? Gli altri dossier bilaterali, congelati dal voto popolare del 9 febbraio 2014 favorevole all’iniziativa contro l’immigrazione di massa, verranno sbloccati e rilanciati nell’interesse reciproco? Sono interrogativi che si collocano al centro della politica estera elvetica sul Vecchio Continente. Le risposte che verranno date nei prossimi dodici mesi, si ripercuoteranno sulla posizione della Svizzera in Europa e sulla vita quotidiana dei cittadini elvetici in termini concreti di benessere e di sviluppo.

La «clausola di salvaguardia» proposta dal Governo è la chiave di volta: se l’UE la accetta gli accordi sono salvi, se imposta unilateralmente si va verso sanzioni Gli ultimi sviluppi del braccio di ferro tra Berna e Bruxelles si sono registrati poco prima della fine del 2015. Il 4 dicembre, il Consiglio federale ha presentato la sua opzione, ossia la strada che intende percorrere per giungere ad una soluzione. È una strada già invocata da più parti e da un po’ di tempo, che prevede l’introduzione di una clausola di salvaguardia per controllare l’immigrazione dei cittadini provenienti dai paesi dell’UE. La clausola scatterebbe quando l’immigrazione supererebbe determinati parametri quantitativi. Berna spera così di adempiere al mandato costituzionale di controllare e limitare l’immigrazione, previsto dall’iniziativa popolare contro l’immigrazione di massa, nonché di non violare la libera circolazione delle persone e, quindi di salvare gli accordi bilaterali conclusi con l’Unione europea. Il Consiglio federale invoca l’articolo 14 dell’Accordo sulla libera circolazione delle persone, entrato in vigore nel 2002, che consente ad un paese di sospendere questa libertà, quando si trova alle prese con gravi difficoltà economiche e sociali. Lo stesso articolo, però, prevede che la sospensione non può essere decisa unilateralmente e che ci vuole l’accordo preliminare di un comitato misto. Un comitato chiamato a definire le difficoltà economiche e sociali che possono essere prese in considerazione, nonché a fissare i parametri quantitativi consentiti. Berna cercherà

Quale futuro intravede per l’economia ticinese?

Per un paio d’anni saremo fermi se non addirittura in recessione. La disoccupazione aumenterà, i fallimenti aumenteranno, le tensioni sociali aumenteranno. I bollettini di guerra sono già iniziati: swissmem ha dichiarato ordinativi in calo per il 2016, il turismo ticinese ha chiaramente mostrato cifre negative, di conseguenza la ristorazione è fortemente in calo, la Disti ha mostrato una diminuzione degli effettivi di 190 unità, la Federcommercio di 400 unità, i frontalieri in Ticino sono calati per la prima volta da molti anni, e questa non è una buona notizia ma una sirena d’allarme. Il periodo di crescita è finito, adesso la crisi è iniziata e il Ticino non ne uscirà tanto rapidamente. Spero solo che chi ha gridato al lupo per niente negli ultimi anni, abbia adesso ancora fiato per proporre soluzioni. Questo è il compito della politica.

Simonetta Sommaruga e Jean-Claude Juncker: nonostante buoni rapporti personali, tutto è rimasto fermo. (Keystone)

di trovare un’intesa con l’UE sull’applicazione di questa clausola dell’accordo, ma se non ci riuscirà, ha già promesso di procedere autonomamente. Il 21 dicembre Simonetta Sommaruga, presidente della Confederazione, si è incontrata a Bruxelles con il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker. È stato il loro ultimo incontro, poiché dal 1. gennaio la consigliera federale bernese ha passato il testimone della presidenza al collega Johann Schneider-Ammann, pure lui bernese. Dal colloquio prenatalizio di Bruxelles non sono emerse grosse novità. Juncker non ha chiuso la porta all’applicazione di una clausola di salvaguardia e si è dichiarato disposto a discuterne. Ha, però, aggiunto che un simile passo non può avvenire senza l’accordo dell’UE ed ha lasciato intendere che un’iniziativa unilaterale della Svizzera potrebbe portare a non ben definite ritorsioni da parte dell’Unione e dei suoi paesi membri. Le due parti hanno concordato di continuare la trattativa ed hanno espresso la speranza di poter giungere ad un accordo entro la fine di febbraio. La scadenza non è lontana ed è voluta soprattutto dal Consiglio federale, che deve applicare l’iniziativa popolare sull’immigrazione di massa entro il mese di febbraio del 2017. Il tempo stringe, poiché l’iter parlamentare ha i suoi ritmi e la volontà popolare va rispettata. Il governo federale, dunque, deve agire ed ha promesso di sottoporre la legge d’applicazione all’esame delle Camere federali nel corso del mese di marzo, qualunque sia il risultato del negoziato con Bruxelles. I prossimi mesi, dunque, saranno decisivi. Due sono i percorsi possibili. Il primo potrà essere fondato su un’intesa con l’Unione europea e consentirà di preservare gli accordi esistenti, eventualmente di estenderli. Il secondo integrerà più decisioni politiche interne, che oggi restano ancora da definire e che avranno probabilmente conseguenze negative sui rapporti con l’UE. Il primo comporta il raggiungimento dell’aspirato compromesso tra il controllo dell’immigrazione ed il salvataggio degli accordi bilaterali, due obiettivi perseguiti dal Consiglio federale. Il secondo apre la strada alle misure unilaterali e allo sconvolgimento dei rapporti costruiti fin ora con l’Europa. Bisogna riconoscere che il contesto in cui il Consiglio federale è costretto ad agire non è per niente favorevole. Sul piano interno, le forze euroscettiche sono in aumento e le simpatie per l’Europa hanno perso terreno. L’UDC ha rafforzato la sua presenza in Consiglio federale con un suo secondo rappresentante. Le ultimi elezioni federali hanno dato più spazio ai partiti politici che guardano con distacco all’Unione

europea e che sono pronti a sacrificare intese consolidate e a scegliere vie nazionali. La possibile approvazione della nuova iniziativa popolare dell’UDC sull’espulsione degli stranieri che commettono reati, in votazione il 28 febbraio, rischia di creare nuovi problemi. L’iniziativa è in contraddizione con alcuni diritti garantiti dalla libera circolazione delle persone. Infine, i sondaggi indicano che il sostegno agli accordi bilaterali sta diminuendo, soprattutto tra gli elettori dei partiti borghesi, probabilmente a causa della crisi e dei timori che il nuovo flusso migratorio ha provocato in Europa. Anche sul piano internazionale le premesse non appaiono favorevoli. Si è dapprima sperato che la Svizzera potesse trovare un alleato nella Gran Bretagna e nelle sue richieste nei confronti dell’UE. Un’alleanza che avrebbe potuto indurre Bruxelles ad essere meno intransigente e più conciliante con la Svizzera. In realtà, le due situazioni sono simili soltanto in parte. La Gran Bretagna vuole organizzare un referendum sulla sua permanenza nell’UE entro il 2017 e chiede concessioni a Bruxelles. La Svizzera deve applicare l’iniziativa popolare sull’immigrazione di massa entro il mese di febbraio dell’anno prossimo e sollecita pure concessioni. Le differenze appaiono alla lente delle rivendicazioni. Londra non vuole limitare la libera circolazione delle persone con una clausola di salvaguardia. Chiede soltanto di poter limitare l’accesso alle prestazioni sociali per gli immigrati europei e avanza rivendicazioni in altri settori. Berna, invece, rispettando la volontà popolare, vuole limitare la libera circolazione delle persone che, come è noto, è uno dei principi fondamentali dell’UE, e non sollecita altre importanti concessioni. Posta di fronte ai due negoziati praticamente paralleli, l’Unione europea sa perfettamente che non può applicare misure diverse, anche se per Bruxelles la Gran Bretagna è più importante della Svizzera. Una concessione fatta a Berna può essere rivendicata da Londra e viceversa. Per di più, la stessa concessione rischia di essere chiesta in futuro anche da altri paesi membri. L’UE sta attraversando un periodo di grosse difficoltà, derivanti in particolare dalla gestione degli immigrati, dall’irrompere dei nazionalismi, dalla minaccia terroristica e dalla povertà di consensi popolari. Sono difficoltà gravi che rischiano di mettere in pericolo l’esistenza stessa dell’Unione. Per questo, a Bruxelles, ogni decisione che va oltre la prassi quotidiana, vien presa tenendo soprattutto conto del suo probabile impatto sull’Unione, sulla sua esistenza e sul suo futuro. E sarà così anche per le decisioni che verranno prese nei confronti di Berna e di Londra.


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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi La prima scuola di quadri del Cantone Ci fu un tempo, tra gli anni Ottanta dell’Ottocento e gli anni Sessanta del Novecento, in cui il Cantone Ticino conobbe una situazione di equilibrio territoriale tra le tre città di Lugano, Bellinzona e Locarno. Non da ultimo perché in ciascuna di esse era localizzato un istituto di educazione di livello superiore. A Lugano, dalla metà dell’Ottocento circa il liceo, a Locarno, sorta qualche decennio dopo, la Magistrale e a Bellinzona, dal 1895, la Scuola cantonale di commercio. Al liceo si poteva conseguire la maturità federale. Alla magistrale la patente di insegnante di asilo o di scuola elementare. Dalla Scuola cantonale di commercio di Bellinzona (SCC) si usciva invece con un diploma che aveva il pregio di essere equivalente a una maturità cantonale e a un certificato di fine tirocinio. Oggi, la situazione è fondamentalmente cam-

biata. Primo perché nel Cantone i licei sono diventati quattro. In secondo luogo perché, con l’istituzione della maturità professionale, la formazione professionale è stata rivalutata e con essa il ruolo formativo del tirocinio, delle Scuole di Arti e mestieri e di altre scuole professionali a pieno tempo. Terzo perché gli effettivi di studenti sono esplosi, anche alla SCC. Questo lungo preambolo per dire che la storia degli istituti di educazione superiori del Cantone può rappresentare un capitolo interessante della storia dello sviluppo del Cantone. Ben vengano quindi pubblicazioni come quella che, di recente, gli «Alumni» della SCC hanno pubblicato, da Salvioni, con il titolo 120 anni di storia e di storie. Il contenuto del volume è eterogeneo. Accanto ai saggi di storia, che illuminano aspetti del passato della scuola, si possono leggere, nella parte dedicata

al presente, interessanti interviste ai direttori ancora in vita e a qualche ex-allievo di fama. Il volume si chiude con una serie di tabelle statistiche che illustrano l’evoluzione degli effettivi nonché con l’elenco di tutti i direttori e di tutti i diplomati dal 1898. Da citare è anche il ricco materiale fotografico che, forse ancora più dei testi e delle cifre, aiuta a farsi un’idea concreta dei cambiamenti sopravvenuti nel corso di 120 anni. Ma concentriamoci sulla parte dedicata al passato che raccoglie quattro saggi. Il più lungo, quello di Marco Marcacci, è dedicato alla storia dell’istituto. Marcacci sottolinea dapprima lo stretto legame che, almeno inizialmente, univa la scuola alla città. La SCC è nata come scuola bellinzonese per le necessità delle attività terziarie della capitale del Cantone. Di fatto, però, i suoi licenziati, fino alla metà del

Novecento e anche oltre, lasciavano il Cantone per intraprendere le loro carriere nel resto della Svizzera e anche all’estero. Gabriele Rossi, spogliando un ricco epistolario costituito dalle lettere degli ex-allievi al direttore della Scuola, ricostruisce la geografia di questi spostamenti e, nello stesso tempo, descrive le condizioni, in molti casi difficili, nelle quali gli ex-allievi si avviavano alle carriere del commercio in Svizzera, in Europa e nel resto del mondo. Da ricordare a questo proposito che, fin oltre la metà del Novecento, l’ufficio del direttore della Scuola era anche un agenzia di collocamento. Per i licenziati della SCC, infatti, erano poche, allora, le possibilità di svolgere una carriera nel secondario o nel terziario ticinesi. Gianni Ghisla, nel suo saggio, dedicato in buona parte agli sviluppi della scuola negli ultimi decenni, affronta, tra altri, anche il tema

della sua identità ambigua con un piede nella formazione professionale e l’altro nella formazione pre-accademica. Per Ghisla questa ambiguità è sempre stata uno dei punti forti della SCC. Essa è stata così la prima scuola di quadri per l’economia ticinese. E lo resterà certamente anche se, con l’introduzione della maturità professionale e la creazione della SUPSI, si è delineato un nuovo quadro per le formazioni scolastiche superiori professionalizzanti. L’ultimo saggio storico contiene lunghi passaggi di relazioni sulle visite che gli allievi della SCC effettuarono tra il 1895 e il 1898 in aziende della regione e di fuori Cantone. Sorprende leggere che, nel periodo della seconda rivoluzione industriale, i visitatori delle aziende industriali di qui e di fuori fossero soprattutto impressionati dalle prestazioni dei lavoratori più che dalle macchine o dai prodotti.

gine da duro. Quando si è dimesso dal governo di Tsipras, nel luglio scorso, dopo la vittoria al referendum ma la successiva capitolazione di fronte alle richieste dei creditori europei piuttosto infastiditi, il ministro-economista ha tolto il sostegno al governo: ancora resta come immagine-simbolo della crisi greca la foto di Varoufakis seduto per terra in Parlamento, con la T-shirt grigia, stanco, che ascolta in una lunga nottata di dibattito il premier che decide di non ignorare le richieste dell’Europa (non che avesse grandi

alternative). Scuote la testa, si capisce che quel governo non è più un posto adatto a lui. Ma pure fuori dal ruolo nell’esecutivo, Varoufakis ha continuato a portare avanti la battaglia, e ora a Berlino vuole coronare il suo progetto con un movimento che metta insieme tutti quelli che la pensano come lui. Non è affatto solo, Varoufakis. Il coro della sinistra che rifiuta le riforme liberali come via per la crescita è sempre alto. In Francia, l’ala radicale del Partito socialista – incarnata da un altro ex ministro dell’Economia, Arnaud Montebourg – ha appena convinto il presidente, François Hollande, a edulcorare le proposte liberalizzatrici della cosiddetta Loi Macron 2 (la seconda tranche del progetto che prende il nome dal ministro liberale che ha preso il posto di Montebourg, il giovane Emmanuel Macron), riducendone molto la potenza e anche le possibilità di sopravvivenza. Nella già citata Spagna, Podemos prova a fare l’ago della bilancia in un governo che non accenna a delinearsi, tanti sono i veti, con l’ipotesi spaventevole di un altro voto per la primavera che potrebbe dare al movimento populista uno slancio ulteriore. Nel Regno Unito, il

leader del Labour Jeremy Corbyn prova a imporre la sua visione antiliberale dell’economia e del mondo: ha qualche difficoltà, soprattutto in un paese che con l’austerità è rinato, letteralmente, ma se si guarda il numero degli iscritti al partito, in alcune circoscrizioni duplicato e triplicato dall’arrivo del nuovo leader, si capisce che Varoufakis potrà contare a Londra su un grande alleato. Gli intellettuali poi daranno il loro contributo (e questo sarà utile, certo, ma non bisogna dimenticare che Varoufakis è accademico a sua volta, i suoi saggi sono andati a ruba, in un solo pollaio non ci sta più di un gallo): Thomas Piketty, il francese cantore della diseguaglianza, darà alle stampe un libro con la raccolta dei suoi saggi scritti per il quotidiano «Libération», un vademecum per il partito paneuropeo di imminente nascita. Joseph Stiglitz, che assieme a Piketty ha già costituito un team di consiglieri per Corbyn, sta scrivendo un altro saggio anti liberista e intanto si candida a diventare la Cassandra del 2016: non siate troppo ottimisti, sarà un anno durissimo, dice. Ma tutti insieme e tutti a sinistra hanno ancora l’ambizione di migliorarlo.

ta alle reti sociali. Insomma: installarsi ai vertici di una formazione politica è un’impresa gravosa, che richiede un ventaglio di competenze vasto. Inoltre i militanti – la «base» – pretendono «carisma», ossia un potere quasi soprannaturale: «magico», nella celebre definizione che ne diede il sociologo tedesco Max Weber. Qualità superiori, «non accessibili agli altri, oppure come inviate da Dio o come rivestite di un valore esemplare», in grado di generare «egemonia»: in sostanza la capacità di diventare punto di riferimento e di attrazione anche per altre forze e movimenti gravitanti nell’area. Un tempo le posizioni dirigenziali venivano occupate da figure professionalmente indipendenti. Buona parte della storia politica cantonale è stata scritta da avvocati e notai, e in subordine da architetti, medici, ingegneri,

sindacalisti, giornalisti. Le categorie che avrebbero potuto contrastare la supremazia dei liberi professionisti non potevano accedere al parlamento per incompatibilità, come i funzionari e gli insegnanti. Nulla, in Ticino, aveva l’aria di funzionare senza l’«avvocatocrazia», nemmeno le commissioni apparentemente più innocue, come quelle culturali o filantropiche. Sarà così anche nei prossimi anni? Le convulsioni che affliggono i partiti – dai Verdi alla Lega passando per democratici cristiani e socialisti – confermano la nostra diagnosi: le persone disposte a sacrificare tempo ed energia per il bene del partito sono sempre meno numerose. Perché gli oneri sono tanti e gli onori pochi; perché anche il fegato ha le sue ragioni; perché ogni tanto si vorrebbe poter dormire sonni tranquilli...

Affari Esteri di Paola Peduzzi Tutti insieme, tutti a sinistra La giacca di pelle, la motocicletta, il casco come optional, la camicia senza cravatta, ma soprattutto la T-shirt un po’ aderente, con la quale tutto diventa possibile. Yanis Varoufakis (foto), ex ministro delle Finanze greco dall’inglese perfetto e l’antithacherismo nel dna, è tornato: il 9 febbraio lancerà un partito paneuropeo, e lo farà a Berlino, perché lui è così, nei dettagli c’è tutta la sua filosofia. Nella capitale della Germania che ha imposto responsabilità alla Grecia, nel regno della cancelliera Angela Merkel che, nelle ricostruzioni greche di area Syriza, il partito al governo del premier Alexis Tsipras, ha cercato di fare un golpe ad Atene, Varoufakis fonda Democracy in Europe Movement 2025 (DiEM25). È un movimento che vuole raccogliere tutte le sinistre dell’Unione europea, in modo che insieme possano «democratizzare» il continente: c’è una terza via, dice Varoufakis, tra il ritorno degli stati-nazione e il collasso dell’esperimento di unificazione europea, e «le strutture non democratiche» che oggi plasmano le istituzioni europee. Lo spirito dell’ex ministro nasce in Grecia, naturalmente, ma si sviluppa negli altri paesi che in Europa sono stati, secondo

la sua versione, vessati dalle imposizioni rigoriste di Bruxelles/Berlino: la natura «draconiana» delle misure offerte dai creditori europei era pensata per evitare, dice Varoufakis, che Podemos potesse vincere in Spagna. E oggi che il partito di Pablo Iglesias è arrivato terzo alle elezioni del 20 dicembre – ha conseguito un risultato storico, ma è terzo – l’ex ministro greco consiglia: non fate concessioni, non scendete a compromessi, se entrate nel governo non snaturatevi. Varoufakis tiene molto alla sua imma-

Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Tanti auguri ai futuri presidenti di partito Si conclude quest’anno la triplice tornata elettorale (cantonali, federali, comunali) iniziata nel 2015. Per quattro anni regnerà quindi una relativa quiete, dato che l’architettura istituzionale elvetica non prevede rovesci o sconquassi governativi. Anche il Consiglio federale appare più solido di prima, dopo l’ingresso nell’esecutivo del secondo rappresentante dell’Udc nella persona del vodese Guy Parmelin. Quiete non significa però assenza di conflitti. È molto probabile infatti che il terreno di scontro si trasferirà altrove, ossia nel campo della democrazia diretta (iniziativa e referendum). Già il primo appuntamento con le urne – in programma il 28 febbraio –si prospetta incandescente: risanamento della galleria stradale del San Gottardo e attuazione delle norme che prevedono

un’espulsione spiccia degli stranieri autori di reati. Sono argomenti che non daranno luogo a maggioranze nette. Ancora una volta emergeranno spaccature tra regioni linguistiche e tra i ceti popolari e le élites intellettuali; meno evidente sarà invece il contrasto tra città e campagna, anche perché oggi questa suddivisione non rispecchia più le dinamiche insediative in atto, alimentate da agglomerati sempre più ipertrofici e tentacolari nella loro emulsione ai bordi delle periferie. In subbuglio appare anche il sistema dei partiti, anello di mediazione vitale tra il cittadino e i luoghi del potere. I partiti sono alle prese con una grave crisi di leadership. Detto altrimenti e con parole più semplici: le persone preparate disponibili ad assumere un incarico di responsabilità, come la presidenza o il coordinamento,

sono sempre più rare. A determinare questa crescente rinuncia concorrono più fattori. Tra i più rilevanti citiamo l’aumentata concorrenza sul mercato del lavoro: concorrenza che fatalmente finisce per restringere lo spazio dell’autonomia individuale, e quindi il tempo da dedicare alla milizia politica. In secondo luogo occorre menzionare il crescente investimento in energie che una carica pubblica esige: non solo capacità gestionali e conoscenza della macchina amministrativa, ma anche doti comunicative e strategiche. Il leader deve sapersi destreggiare dentro e fuori il partito, «dare la linea» ovvero indicare la strada da percorrere, orientare le forze presenti in parlamento, padroneggiare le regole e i segreti del marketing politico, all’interno di un contesto giornalistico che opera su più livelli, dalla tradizionale carta stampa-


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Cultura e Spettacoli Addio a Boulez Compositore, direttore, saggista: il francese Boulez, controverso provocatore, è morto a novant’anni

Immersioni nella luce Al LAC fino al 31 gennaio è possibile visitare gli impressionanti spazi di luce creati dall’artista inglese Anthony McCall pagina 23

The Corrs e il poco coraggio L’amata formazione pop/rock/folk irlandese è ritornata con un nuovo album in cui sembra avere prediletto la strada della compiacenza pagina 24

pagina 22

Ciò che dobbiamo a Monet Mostre Claude Monet alla Gam di Torino Gianluigi Bellei Claude Monet è sicuramente un artista eccezionale. Ma è stato eccezionale anche come uomo. Nonostante la sua fama, ammirava pubblicamente gli artisti del suo tempo: Eugène Boudin, JeanFrédéric Bazille che è morto durante la guerra franco-prussiana del 1871, Édouard Manet per il quale, dopo la dipartita, si è battuto per portare l’Olimpia al Louvre, Alfred Sisley del quale dopo la morte ha aiutato economicamente i figli, Gustave Courbet che ha visitato in carcere dopo i fatti della Comune… Ma è stato anche un uomo modesto. Nel 1912 ha scritto a Gustave Geffroy: «non sono un grande pittore, grande poeta, io non so. So solo che faccio ciò che penso per esprimere ciò che provo». E pensare che proprio a lui si deve il termine impressionismo che tutti conosciamo. Nel 1874 organizza una mostra collettiva nello studio del fotografo Nadar. Partecipano 35 fra i maggiori pittori parigini che non si riconoscono nei canoni dell’accademia e Monet porta cinque dipinti fra i quali uno intitolato Impression. Soleil levant. Il giornalista Louis Leroy scrive sarcastico: «Visto che sono impressionato, deve esserci dell’impressione lì dentro». La cerchia degli impressionisti comprende, oltre ovviamente a Monet, Renoir, Pissarro, Sisley, Cézanne, Berthe Morisot. Artisti diversi uno dall’altro ma con alcune caratteristiche simili: non si riconoscono nell’accademia, operano tutti uno schiarimento della gamma cromatica, frantumano il colore attraverso la pennellata e, a parte Degas, dipingono en plein air. Le mostre degli impressionisti continuano fino al 1886. In tutto sono sei. Poi il gruppo si disgrega e ognuno va per conto suo. Monet, dopo un periodo di miseria, incomincia a vendere e negli anni Ottanta raggiunge una discreta tranquillità economica. Durante i suoi frequenti viaggi scopre Giverny, dove nel 1890 acquista una casa nella quale vive per quasi quarant’anni, fino alla morte avvenuta nel 1926. Qui nel 1893 scava il celebre stagno delle ninfee e allestisce il giardino acquatico. Dal 1897 realizza il famosissimo ciclo delle ninfee composto da circa duecento opere. Una vera e propria ossessione. All’amico George Clemenceau confida: «Mentre voi cercate filosoficamente il mondo in sé, io esercito semplicemente il mio sforzo su un massimo di apparenze, in stretta correlazione con le realtà sconosciute». Sono gli anni dei grandi cicli: le cattedrali, i pioppi, i covoni, le vedute di Londra e Venezia. Non dipinge più solo all’aperto ma all’aperto mette su tela le

prime impressioni e termina il quadro a memoria nello studio. Nel 1895 presenta nella galleria di Durand-Ruel una ventina delle sue Cattedrali (oggi ne sono conosciute 28) e Clemenceau parla apertamente di «rivoluzioni delle cattedrali». Incitato dall’amico Clemenceau, che nel frattempo è diventato Presidente del consiglio, dedica gli ultimi anni della sua vita a un grande progetto: dei pannelli decorativi da esporre all’Orangerie nei giardini delle Tuileries. Grandi tele, alcune di due metri per dodici, raffiguranti le ninfee del suo stagno a Giverny. Nonostante le perplessità del momento – Lionello Venturi per esempio le considera «l’errore artistico più grave» di Monet – le due sale sono stupende tanto che, nel 1952, André Masson le definisce «la cappella Sistina dell’Impressionismo». A Torino in questi giorni possiamo ammirare una quarantina di dipinti di Monet provenienti dal Musée d’Orsay di Parigi che conserva la più importante collezione di opere dell’artista. Si rinnova così la collaborazione fra la città di Torino, la Civica galleria d’arte moderna e contemporanea e Skira editore con il Musée d’Orsay che ha già fruttato una mostra su Degas nel 2012, una su Renoir nel 2013 con 260’000 visitatori e una, prevista per il prossimo anno, dedicata a Manet. Una collaborazione importante che piace molto al presidente del d’Orsay Guy Cogeval il quale ricorda con affetto l’origine piemontese della madre. In mostra una serie di capolavori che coprono l’intero percorso dell’artista dagli inizi folgoranti «che mettevano alla prova il realismo di Courbet con La colazione sull’erba alle “grandi macchine” di Giverny», come scrive Cogeval in catalogo. Fra questi troviamo all’inizio Le déjeuner sur l’herbe del 1865-66. Il dipinto che vediamo oggi è solo una parte di una grande tela di quattro metri per sei che Monet realizza come omaggio al quadro di Manet con lo stesso titolo. L’artista in ristrettezze finanziarie non riesce a pagare l’affitto di casa e offre il quadro al proprietario che lo tiene in cantina. Appena raggranella la somma necessaria riscatta la tela che però risulta ammuffita. La taglia e ne conserva tre frammenti dei quali oggi uno risulta scomparso. Nel frammento principale in mostra troviamo seduto in basso a sinistra un uomo barbuto molto somigliante a Courbet. Il quadro è definito il primo manifesto di Monet ma certo non ha la forza rivoluzionaria immessa dalla figura femminile nuda di Manet. Poi la variante, girata verso destra, di Essai de figure en plein air del 1886 dove Suzanne Hoschedé, la figlia di Alice modella e seconda moglie dell’artista, passeggia in campagna con l’ombrel-

Di Monet, Essai de figure en plein-air: Femme à l’ombrelle tournée vers la droite (1886) Paris, Musée d’Orsay. (© RMN-Grand Palais [musée d’Orsay] / Hervé Lewandowski)

lo in mano. La rue Montorgueil à Paris. Fête du 30 juin 1878, dipinta nello stesso anno, è un tripudio di colori che rende immediatamente percepibile il momento di festa e la concitazione dell’avvenimento fra la miriade di bandiere al vento e il brulicare della folla. Per il periodo delle serie, splendide sono le due tele de La cathédrale de Rouen nelle versioni con il tempo grigio e in pieno sole. «Tutto cambia, anche la pietra» scrive Monet ad Alice nel 1893. Al termine del percorso espositivo troviamo Londres, le Parlement. Trouée de soleil dans le brouillard del 1904 dove, come in tutti i dipinti lon-

dinesi, la nebbia confonde acqua, cielo e parlamento. La pennellata sempre maggiormente frammentata vibra di una luce propria e i contrasti e i bagliori non nascondono l’influenza dei dipinti di Turner. Insomma, una bella mostra, costata due milioni di euro, che mette a frutto le esperienze di quelle imponenti tenutesi da Wildenstein a New York nel 2007 e al Gran Palais a Parigi nel 2010. Buona l’illuminazione realizzata dallo Studio Barbara Balestreri che mette in penombra l’architettura generale per concentrarsi sulle opere esposte. Da notare le didascalie con il loro delicato

controluce. Numerose le pubblicazioni realizzate da Skira: Sguardi su Monet di Fabrizio d’Amico; Piacere di conoscerti, monsieur Monet! per i più piccoli; il saggio su Monet di Federica Armiraglio, oltre ovviamente al catalogo della mostra. Dove e quando

Monet. A cura di Guy Cogeval, Xavier Rey e Virginia Bertone, Torino. Galleria civica d’arte moderna e contemporanea. Orari: ma-do 10.00-19.30. Fino al 31 gennaio 2016. Catalogo Skira. www.mostramonet.it


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Cultura e Spettacoli

Boulez è morto In memoriam Si è spento a novant’anni uno dei personaggi

più controversi della musica del ’900

Zeno Gabaglio «SCHÖNBERG È MORTO» scriveva – proprio così, in caratteri tutti maiuscoli – cinquantaquattro anni fa Pierre Boulez. Era poco più che trentenne, all’epoca, il celebre compositore e direttore spentosi settimana scorsa, ma già era pienamente coinvolto nella vita culturale e musicale europea. Al punto da sentirsi in diritto di giudicare senza mezzi termini il più innovatore tra i compositori del primo Novecento: «siamo in presenza di un’eredità tra le meno felici, dovuta alla sclerotizzazione difficilmente difendibile di un certo linguaggio bastardo adottato dal romanticismo». Con questa vis polemica di Boulez si scagliava contro Schönberg per aver portato solo a mezzo compimento la rivoluzione seriale: il maestro viennese si era fermato solo all’altezza delle note, mentre l’elaborazione in serie della composizione musicale avrebbe dovuto abbracciare tutti i parametri - inserzione pubblicitaria -

sonori: timbro, intensità, durata,… Solo così si sarebbe finalmente potuto giungere alla figura di un compositore «con immaginazione, un po’ ascetico e un po’ intelligente, sensibile ma che comunque non si rovesci alla minima corrente d’aria». Ora che anche BOULEZ È MORTO ci si potrebbe chiedere che cosa è davvero morto con Boulez. Tanto per cominciare è ormai defunta – pace all’anima sua – quella concezione del fenomeno musicale come asettico movimento cerebrale, madre di tutte quelle musiche che hanno sì avuto un grande valore grafico-simbolico (addirittura matematico e algoritmico) ma solo sulla carta, perché all’udito e alla comprensione sensoriale hanno restituito assai poco: la famosa tanto quanto assurda «fatica nell’ascoltare la musica contemporanea». E non è un fatto da poco decretare la morte – cioè il definitivo insuccesso – per quel tipo di idee di cui il serialismo integrale bouleziano fu massima espres-

LAZUPPA DI CAVOLI E VERDURE LA NUOVA CURA DIMAGRANTE ULTRARAPIDA 5 GIORNI!

sione: fino a poco fa e per interi decenni la musica come branca della logica era infatti ritenuta la sola musica di cultura, il solo avamposto estetico presente nelle accademie musicali. La speranza è che con Boulez sia anche definitivamente morta la strisciante ipocrisia di quegli artisti-intellettuali dell’ambito classico (compositori, direttori, programmatori) che accanto alla sincera professione d’impegno progressista in ambito socio-culturale (entusiasmanti le parole che attorno al ’68 Boulez pronunciava in favore dell’avvicinamento alle giovani generazioni!) hanno in realtà operato sempre e solo in un contesto (post-)borghese, con produzioni faraoniche destinate a delle élite ma sostenute dai fondi pubblici della politica compiacente o dallo sponsoring delle più compromesse multinazionali. D’altronde a loro del popolo è sempre importato assai poco. E siccome la musica può diventare cul-

GRATUITO Questo elegante braccialetto magnetico

Pierre Boulez francese radicale e controverso. (Keystone)

tura se – e solo se – è rappresentativa di un sentire umano condiviso in un determinato spazio/tempo, dovendo scegliere un campione per il secondo

Novecento francese (e volendolo cercare nei cognomi che iniziano per B) senza sosta continueremo a ripetere «Brassens».

Una vecchia signora poco convincente Teatro Alla Schauspielhaus di Zurigo

in cartellone la pièce di Dürrenmatt a 25 anni dalla morte del grande drammaturgo

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Una settimana di cura, 2 taglie di perse È sufficiente mangiare 2 piatti di zuppa al giorno seguendo i nostri consigli. In soli 5 giorni si perderanno molti chili in modo molto facile, gustando una deliziosa preparazione a base di verdure. La sua formula fornirà proteine e 25 vitamine, minerali ed estratti vegetali consentendo, inoltre, di ritrovare una for- Una soluzione dimagrante golosa ed efficace  Estratti vegetali attivi (tè verde, filion le ma smagliante. pendula, tarassaco, gramigna) per micattive abiI 5 benefici della gliorare la combustione e l’eliminazione tudini alimentadieta iperproteica dei grassi. ri, la mancanza di attività fisica, lo  Vitamine, minerali e oligoelementi per stress e l’invecchiamento, è spes✔ Si dimagrisce rapidamente, mantenere la propria vitalità. so difficile sbarazzarsi di qualche anche oltre i 50 anni

C

chilo superfluo accumulato. Con le diete tradizionali si perde massa muscolare, con risultati antiestetici e la sensazione di stanchezza. È quindi molto meglio seguire una dieta a basso contenuto calorico, ma iperproteica. L’organismo, quando viene privato delle calorie, deve attingere energia dalle riserve, questo provoca un rapido scioglimento dei grassi,pur conservando i muscoli che sono costituiti da proteine.

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Marinella Polli Se per Friedrich Dürrenmatt La visita della vecchia signora (Der Besuch der alten Dame, andata in scena per la prima volta nel 1956 alla Schauspielhaus di Zurigo) era certo anche un modo per spalancare una finestra su ipocrisie e falsi perbenismi di una grottesca società moderna, si ha l’impressione che per il regista ungherese Viktor Bodó (scenografia di Juli Balazs, costumi di Fruzsina Nagy, arrangiamenti musicali di Klaus von Heydenaber) alla testa di questo nuovo allestimento zurighese, la pièce diventi piuttosto il pretesto per far sfilare in passerella tutta una serie di caricature esagerate. Caricature, nota bene, al posto di personaggi che, francamente, eccentrici e grotteschi lo sono già di per sé nell’eloquente, magnifico, sferzante e sempre attuale testo dürrenmattiano. Come apparentemente già grottesche sono le vicende che si ritrova a vivere Güllen, l’immaginaria cittadina svizzero-tedesca (ma l’azione si potrebbe svolgere in qualunque altro luogo) da tempo vittima di una crisi economica e sociale e ormai in rovina, al ritorno, dopo quarant’anni di assenza, di Claire Zachanassian, nel frattempo diventata arcimiliardaria. Una vecchia signora rifatta dalla testa ai piedi, questa Claire, che promette ricchezze a destra e a manca, a patto che qualcuno sia disposto in cambio ad uccidere il concittadino Alfred, colpevole di averla sedotta e abbandonata, dopo aver corrotto due ubriaconi affinché mentissero in tribunale sui rapporti avuti con lei. Come tutti sanno, dopo un primo sconcerto, negli abitanti di Güllen potere, denaro, ambizione, avidità, bassi istinti e corruzione avranno il sopravvento su etica individuale, valori morali e sentimenti. Così, vendetta sarà fatta e, nonostante Dürrenmatt abbia sempre evidenziato il fatto che Der Besuch der alten Dame sia da considerare sostanzialmente una commedia, con

Un momento della celebre commedia di Dürrenmatt. (Toni Suter / T + T Fotografie)

l’evolversi della paradossale situazione ci si rende conto di assistere ad un’allucinante, cupa tragica apologia della cattiveria umana. Una vera e propria tragedia greca con il fato che sembra incombere su tutti e con i due eunuchi che fanno da coro, qui purtroppo soffocata, come si è detto, da gag e altre scelte registiche a grande effetto. Ottimo il cast, e sempre in grado di assecondare il regista fino in fondo, ma straordinaria soprattutto Friederike Wagner nel ruolo del titolo: Medea umiliata, feroce e furibonda, e implacabile angelo vendicatore. Le sono quasi pari Klaus Brömmelmeier nei panni di Alfred, povero diavolo dal passato non più fetente di quello di tantissimi altri, e poi Claudius Körber, Gerrit Frers, Philippe Graff e Amine Jacoubi nei ruoli rispettivamente di Boby, Loby, Koby e Toby, e tutti gli altri. Alla prima, applausi misurati, ma all’indirizzo di tutti i partecipanti. Le repliche si protrarranno fino al 16 febbraio del 2016.


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Cultura e Spettacoli

Sculture di luce Mostre Lugano ospita le installazioni dell’artista inglese Anthony McCall Alessia Brughera È il buio ad accoglierci. Ci avvolge, quasi ci assorbe, e mitiga i nostri sensi facendoci immergere completamente nell’ambiente circostante. Solo in questa condizione possiamo percepire appieno le installazioni luminose di Anthony McCall, in un’oscurità totale che per contrasto definisce meglio la luce, ne esalta la presenza e crea un’atmosfera suggestiva sospesa tra il reale e l’illusorio.

Al Museo d’arte della Svizzera italiana quattro proiezioni orizzontali realizzate tra il 2003 e il 2013 Incerti e vulnerabili ci muoviamo cautamente, attratti dai fasci rilucenti che descrivono nello spazio le forme di solidi geometrici in continua, seppur lenta, evoluzione: proiezioni effimere e corporee, evanescenti e tangibili, capaci di generare un poetico contrasto tra sostanza e apparenza. Offuscate a dovere e pervase da una foschia artificiale, sono le sale al piano –2 del Museo d’arte della Svizzera italiana di Lugano a ospitare la mostra dell’artista inglese, che per l’occasione ha allestito qui alcuni dei suoi Solid Light Works, opere tra scultura, film e performance che ci conducono in un viaggio sensoriale dove luce e corpo umano interagiscono tra loro in una dimensione spazio-temporale straniante e insieme coinvolgente. Alla base di tutto c’è appunto la luce, elemento a cui McCall si dedica fin da quando, negli anni Settanta, re-

Anthony McCall Face to Face, 2013, 2 schermi, 2 videoproiettori, 2 macchine per foschia artificiale ciclo di 30 minuti in due parti, Anthony McCall Studio, New York.

alizza le prime sculture luminose nate dalle sue indagini nell’ambito del cinema. In questo periodo l’artista si interessa al mezzo filmico non intendendolo come semplice veicolo di narrazione ma cercando di analizzarne i principi costitutivi. È infatti pensando alla meccanica cinematografica che intuisce che il fascio di luce scaturito dal proiettore possiede una sua tridimensionalità. Decide così di sfruttarne le potenzialità mettendolo in diretta relazione con lo spettatore. Nel 1973, anno in cui si trasferisce negli Stati Uniti, elabora Line Describing a Cone (di cui la mostra luganese presenta la versione digitale del 2010), il suo primo lavoro basato su tale concetto: un raggio di luce traccia

progressivamente un cerchio, disegnando nell’oscurità la forma volumetrica di un cono; l’osservatore percepisce così una sorta di tunnel luminoso che si materializza nella stanza buia. Dopo queste prime sperimentazioni che lo hanno reso uno dei protagonisti della stagione concettuale, alla fine degli anni Settanta McCall decide di sospendere le sue ricerche e di dedicarsi al graphic design (fondando uno degli studi più noti di New York), fino a che, con l’inizio del nuovo millennio, riprende con rinnovato vigore l’attività artistica, servendosi ora anche delle tecnologie digitali che gli consentono di affinare la tecnica dei suoi lavori. Le opere presenti a Lugano sono

quattro proiezioni orizzontali realizzate tra il 2003 e il 2013 (Doubling Back, Meeting You Halfway [II], la già citata Line Describing a Cone 2.0. e Face to Face) che ben rappresentano l’approccio di McCall, libero di confrontarsi con discipline diverse per approdare a risultati che rifuggono da qualsiasi restrittiva definizione. Un po’ film e un po’ sculture vicine all’estetica minimalista, queste installazioni ci colpiscono per la loro capacità di attivare sensazioni inedite in relazione alla luce, allo spazio e al tempo: una luce che assume una consistenza materiale fin quasi a diventare oggetto fisico, uno spazio che si trasforma in un contenitore in grado di vanificare la distinzione tra interno

ed esterno, un tempo che scandisce il manifestarsi delle composizioni luminose dando loro ritmo e ordine. I volumi delle figure geometriche si espandono e si contraggono lentamente, animati e resi dinamici dal fumo artificiale che fuoriesce da appositi apparecchi e che si propaga insinuandosi silenzioso nelle impalpabili trame di luce dei loro profili. È però lo spettatore il vero fulcro di ciascuna di queste opere. Può entrare in contatto con le membrane luminose, toccarle come fossero concrete, muoversi attorno e attraverso di esse, penetrarne le eteree pareti varcando il confine tra bagliore e oscurità. «Le forme di luce devono essere esplorate», dice McCall, «respirano e hanno una propria presenza fisica». I lavori dell’artista occupano lo stesso spazio e lo stesso tempo presente delle persone che li guardano, vivono dell’interazione, del riscontro dei sensi, facendo del nostro corpo e delle sue percezioni l’elemento catalizzatore. Ed è qui che sta l’importanza dell’arte di McCall, capace – al di là dei complessi calcoli che la regolano, delle sofisticate tecnologie di cui si serve e degli scrupolosi studi preparatori su cui si fonda – di porsi come un’esperienza estetica che accresce la consapevolezza delle nostre impressioni, che esorta la nostra attitudine ad assorbire gli stimoli e che ci trascina in un’avventura meditativa in cui il pensiero si fa introspezione. Dove e quando

Anthony McCall. Solid Light Works. Museo d’arte della Svizzera italiana, Lugano. LAC Lugano Arte e Cultura. Fino al 31 gennaio 2016. Orari: ma, me e do 10.30-18.00, gio, ve e sa 10.30- 20.00, lu chiuso. www.masilugano.ch

Jaime Rosales, il cinema come mezzo per indagare la violenza del reale Cinema Attraverso un cinema lento e studiato nei minimi dettagli, il regista spagnolo ci confronta

con quelle che sono anche le nostre ossessioni e angosce Muriel Del Don Quali sono i segreti che si annidano nella mente delle persone così dette «ordinarie»? Cosa significa realmente la parola «normalità»? Queste e molte altre domande abitano l’universo artistico di Jaime Rosales, controverso regista spagnolo nato a Barcellona, «habitué» del Festival di Cannes e vincitore di numerosi Goya. I film di Rosales sono (a prima vista) calmi e ipnotici, come un viaggio in macchina tra le montagne. Questa placida monotonia è però sconvolta da improvvisi e inaspettati momenti di violenza: una violenza straordinaria nella vita di gente ordinaria. La filmografia del regista iberico si concentra sulla stretta relazione che esiste tra la normalità e l’orrore, tra la calma e la violenza estrema. I suoi film emanano un’energia fredda, glaciale come se il calore non riuscisse a penetrare la pel-

licola. Questo sentimento è ulteriormente sottolineato dal suo modo di filmare diretto e senza fronzoli. La cinepresa sembra dotata di vita propria, incurante della struttura narrativa o dell’evoluzione emotiva dei personaggi. Ma possiamo veramente parlare di emozioni riferendoci ai personaggi dei film di Rosales? Se per emozione intendiamo «risposta emotiva» allora probabilmente no. I personaggi che abitano l’universo del nostro regista barcellonese vivono una vita di plastica, sempre seguendo le regole imposte dalla società, ma covando in segreto dei mostruosi sogni di violenza e crudeltà. La loro vita, sconvolgentemente banale, non lascia trapelare niente del loro mondo interiore. Le emozioni non fanno parte di un quotidiano fatto di banali rituali che si ripetono all’infinito. I visi ritratti, impassibili e apparentemente neutri sono privi di qualsiasi forma

Ingrid Garcia Jonsson nel film di Rosales Hermosa Juventud. (Keystone)

d’umanità, soffocati da un desiderio inconfessabile di caos. Nei film di Rosales la violenza irrompe nel quotidiano in modo improvviso, come uno tsunami che travolge tutto ciò che si oppone al suo incedere distruttivo. Quando i suoi personaggi decidono di dare libero sfogo alle emozioni queste sono violentemente crudeli ed edonistiche nella loro ricerca di un piacere che è tanto potente quanto devastatore. In Las horas del dìa (2003) Abel trascorre una vita banale fatta di routine e di gesti meccanici. La sua esistenza è scandita da un ritmo monotono che lo sballotta da casa di sua madre (dove vive) all’appartamento della sua fidanzata per la quale non prova nessun affetto. L’apparenza però è spesso ingannevole (soprattutto nei film di Rosales). Abel nasconde e reprime in effetti dentro di sé un istinto omicida che lo spinge a commettere un atto liberatorio, questo è certo, ma anche e soprattutto irreparabile. Un sentimento soffocante di incomunicabilità aleggia sull’universo di Abel che diventa un robot della sua stessa esistenza, vittima suo malgrado di una «devianza» che lo spinge inevitabilmente al di fuori della norma. Rosales mostra una società imperfetta ma sempre incredibilmente reale, frutto di un’anomalia congenita che si trova, suo malgrado, ancorata nella mente dei personaggi. La sua è un’analisi estrema e viscerale della società attuale dove la normalità di un quotidiano spesso artificiale e disumaniz-

zato deve fare i conti con una violenza improvvisa e non calcolata. Il regista catalano porge uno specchio deformante alla nostra società consumistica, obbligandola a confrontarsi con il proprio (mostruoso) riflesso. Rosales non giudica ma mostra. Come detto da lui stesso «fuggo la realtà filtrata attraverso la morale», una verità che accompagna tutta la sua filmografia da Las Horas del dìa al recente «pugno nello stomaco» Hermosa juventud (2014). La fedeltà ad una realtà dalla quale nemmeno il cinema può fuggire è per lui una sorta di contratto etico che lo spinge a mostrare il lato positivo ma anche e soprattutto il lato oscuro degli esseri umani. Tiro en la cabeza (2008), suo terzo lungometraggio basato su di un fatto di cronaca (l’assassinio di due guardias civiles per mano dell’ETA), è un ulteriore esempio di quanto il suo cinema spinga verso una lettura «diversa» degli eventi, verso la (ri)presa di coscienza di una realtà che non sappiamo più riconoscere come nostra. Rosales analizza questo fatto sanguinoso di cronaca nera dal punto di vista del terrorista che da semplice – per non dire banale – spettatore della sua vita si trasforma in assassino senza scrupoli. Un essere disumano che condivide con noi molte (inquietanti) similitudini. Malgrado il suo interesse quasi entomologico per la realtà il nostro regista spagnolo non si limita però a raccontare delle storie. Alla riflessione profonda sulla nostra società si aggiunge un’interrogazione

costante sul mezzo filmico che viene stravolto e manipolato come se fosse creta. Rosales esplora nuovi cammini creativi alla ricerca di un nuovo linguaggio cinematografico: l’utilizzo dello split screen in La soledad (2007), l’assenza totale di dialoghi in Tiro en la cabeza, il bianco e nero etereo e i gesti silenziosi che sostituiscono le parole in Sueño y silencio (2012) o ancora l’utilizzo di dialoghi estrapolati da WhatsApp o Skype e di foto scattate con il cellulare (Instagram) in Hermosa Juventud. Il nostro regista spagnolo gioca con la temporalità che non è più drammatica, come nel caso estremo dell’industria hollywoodiana, ma dilatata. Nei suoi film la monotonia della quotidianità e i tempi morti sono parte integrante della narrazione. Hermosa Juventud, il suo ultimo lungometraggio che tratta in modo diretto e viscerale le difficoltà della generazione Y, rappresenta un cambio radicale nella sua filmografia, un timido avvicinamento a un cinema che potremmo definire più «commerciale». Malgrado una narrazione più lineare rispetto ai suoi film precedenti, Hermosa Juventud rimane fedele ai suoi ideali artistici: un cinema autentico riflesso della vita stessa. Per riprendere le parole di Rosales a proposito del suo ultimo film: «(in Hermosa juventud non sono stato) né ottimista né pessimista, ho soprattutto cercato di essere realista». Un cineasta controverso e misterioso che non cede a compromessi. Da seguire molto da vicino.


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Cultura e Spettacoli

Corrs, l’irresistibile fascino del mainstream

Star Wars: il ritorno degli eroi

Musica Divisi tra due mondi: dopo un lungo silenzio, la formazione irlandese dei Corrs

torna alla carica con un album che conferma la duplice natura della musica della band

Il settimo episodio della celebre saga

Benedicta Froelich

Fabio Fumagalli

La grande popolarità che la musica di stampo tradizionale irlandese ha riscosso negli ultimi anni in tutto il mondo ha dato vita a una vera e propria proliferazione di artisti provenienti dall’Isola di Smeraldo – formazioni che, il più delle volte, hanno semplificato (e, purtroppo, sovente banalizzato) il folk angloirlandese, «annacquandolo» a beneficio degli ascoltatori casuali al fine di renderlo commercialmente accattivante. Esempio calzante di questa modalità stilistica è la band dei Corrs, costituita dai quattro rampolli della famiglia Corr (le tre sorelle Andrea, Sharon e Caroline e il fratello Jim), saliti alla ribalta internazionale nel 1997 grazie a un collaudato ed efficace mix che univa le sonorità celtiche della loro educazione musicale al più orecchiabile pop radiofonico. Purtroppo, dal 2000 in poi i Corrs sembrano aver sofferto della stessa malattia che già aveva colpito la band dei colleghi irlandesi Cranberries – i quali, dopo un inizio sfolgorante, in cui il carattere introspettivo del loro songwriting si combinava a perfezione alle atmosfere musicali proto-celtiche, si sono infine arresi alle leggi del mercato, finendo per produrre album dall’impostazione estremamente commerciale. I fratelli Corr sembrano aver completato questa «conversione» con ancor maggior convinzione dei colleghi di Limerick,

**(*) Star Wars – Il risveglio della forza, di J.J. Abrams, con Daisy Ridley,

Alcuni testi della band irlandese dei Corr sono talmente banali da risultare quasi affascinanti

Concorsi

tanto che forti dosi di sound puramente mainstream, quasi da pop band per teenagers, sono presenti già da tempo nel loro repertorio; ma il fatto di indugiare abitualmente anche in brani di carattere più profondo e introspettivo aveva dato l’impressione che i Corrs potessero staccarsi da un’impronta prettamente «da classifica» per privilegiare le loro radici musicali.

091/821 71 62 Orario per le telefonate: dalle 11.00 alle12.00

Filmselezione

John Boyega, Oscar Isaac, Harrison Ford, Carrie Fisher (USA 2015)

White Light, recente fatica dei Corrs.

Tuttavia, è evidente come, dopo tanto tempo, i fratelli Corr siano tuttora divisi, quasi lacerati tra questi due generi apparentemente inconciliabili: fatto confermato senza troppi preamboli dal loro nuovo CD, White Light, che giunge dopo oltre dieci anni di silenzio discografico, dovuto principalmente agli impegni famigliari dei vari membri della band. E difatti, la prima traccia dell’album, I Do What I Like, si presenta subito come un’innocua canzoncina pop dal ritornello orecchiabile e il testo talmente banale da risultare quasi affascinante. Purtroppo non va molto meglio con brani quali Bring On the Night e Stay, sebbene quest’ultimo sia in parte salvato dalla presenza del tin whistle, l’irresistibile flauto tradizionale irlandese; perfino la title track White Light suona come mille altre blande canzoni pop del tipo che ci si potrebbe aspettare in sottofondo a una giornata di shopping ai grandi magazzini, soprattutto considerando come le gradevoli e aggraziate sezioni corali che da sempre sono il marchio di fabbrica dei Corrs siano ormai divenute poco più di un patinato accessorio.

Fortunatamente, White Light offre comunque anche brani meno deludenti, come ad esempio due ballate quali Kiss of Life e Strange Romance, che mostrano maggiore personalità e si distinguono per una linea melodica se non altro leggermente più originale; allo stesso modo, Unconditional, classico pezzo uptempo, è «riscattato» da buona grinta ed energia interpretativa, mentre Ellis Island costituisce un valido esempio di brano di spessore tematico e dai toni ben più emotivi e drammatici, in cui le radici irlandesi della band tornano a risaltare grazie al familiare suono del violino e del pianoforte. È proprio in brani come questo – e l’eccellente Gerry’s Reel, classica giga irlandese eseguita nel migliore stile tradizionale – che i Corrs riescono a ottenere i risultati migliori e a emozionare davvero l’ascoltatore. E la magia si ripete con Harmony, potente brano ispirato agli infiniti disordini religiosi tra Irlanda del Sud e del Nord (i cosiddetti «troubles»), scandito dal tamburo militare e, nuovamente, dal tin whistle: peccato che il brano assomigli un po’ troppo ai recenti arrangiamenti di

alcuni pezzi della tradizione angloirlandese (su tutti, The Foggy Dew, non a caso incentrato sulla tragica insurrezione di Pasqua del 1916). Allo stesso modo, la romantica Catch Me When I Fall è una buona canzone, anche se purtroppo ricorda da vicino troppi brani simili del passato per poter davvero colpire l’ascoltatore. Nonostante ciò, non sarebbe scorretto affermare che White Light possa definirsi un album perlopiù riuscito, poiché combina con successo elementi apparentemente discordanti quali il pop easy listening e l’emotività della musica angloirlandese; tuttavia, riesce difficile comprendere per quale motivo i Corrs insistano a voler relegare la musica delle loro radici in secondo piano a favore di canzoni ben più banali e asettiche, che, in fondo, qualunque band sarebbe in grado di comporre. Un buon motivo per sperare che, in un futuro non lontano, i quattro possano lasciare da parte una volta per tutte il versante più frivolo e consumistico del pop per concentrarsi sul cantautorato di alto livello, che del resto già hanno dimostrato di saper riprodurre con grazia.

Swiss Chamber Concerts Rassegna musicale Conservatorio, Lugano Venerdì 15 gennaio, ore 19.00

Lugano in Scena Rassegna teatrale Teatro Foce, Lugano Lunedì 18 gennaio, ore 20.30

Chiassodanza Rassegna di balletto Cinema Teatro, Chiasso Sabato 23 gennaio, ore 20.30

Magma Mozart

Iliade

Carmen

Musiche di W. A. Mozart, P. Hindemit, T. Takemitsu, H. Holliger.

Adattamento e regia di Maria Grazia Cipriani, con Giovanni Balzaretti, Nicolò Belliti, Andrea Jonathan Bertolai, Elsa Bossi, Maria Vittoria Nervi, Fabio Pappacena, Giacomo Pecchia, Antonio Pomponio e Giacomo Vezzani. Produzione Teatro del Carretto.

Interpreti: Rossella Brescia, Josè Perez Musiche Georges Bizet e Marco Schiavoni. Regia e Coreografia Luciano Cannito.

www.swisschamberconcerts.ch

www.luganoinscena.ch

www.centroculturalechiasso.ch

Regolamento Migros Ticino offre ai lettori biglietti gratuiti per le manifestazioni sopra menzionate.

Massimo due biglietti per economia domestica. La partecipazione è riservata a chi non ha beneficiato di vincite in occasione di analoghe promozioni nel corso degli scorsi mesi.

Per aggiudicarsi i biglietti basta telefonare mercoledì 13 gennaio al numero sulla sinistra nell’orario indicato. Buona fortuna!

Sarah Wegener: soprano Heinz Holliger: oboe Daria Zappa: violino Muriel Cantoreggi: violino/viola Jürg Dähler: viola Daniel Haefliger: violoncello

Biglietti in palio per gli eventi sostenuti dal Percento culturale di Migros Ticino

Star Wars – Il risveglio della forza, ossia l’episodio VII, è oggetto di culto fra i più venerati della storia del cinema e deve rispondere a una serie di imperativi, tra cui costituire il seguito dei primi tre capitoli della saga di George Lucas e recuperarne eroi e spirito, per non incorrere nell’ira dei fan. Infine aggiornare il tutto a uso e consumo delle nuove generazioni, assicurando lo smercio degli ultimi due episodi, già in gestazione. Se preferite: permettere alla Disney d’investire in modo utile i quattro miliardi versati nel 2012 alla Lucasfilm, quando il papà di Skywalker le cedette i diritti. Il risveglio della forza in questione è una faccenda che sfugge in parte a chi scrive. Basti sapere che, 30 anni dopo il finale de Il ritorno dello Jedi, Luke Skywalker pare essersi esiliato su un pianeta sconosciuto, come già era successo al saggio Yoda. Non va quindi minimizzato il piacere degli aficionados nel ritrovare l’adorabile scimmione Chewbecca, i deliziosi droidi R3-D3 e R2-D2, la principessa Leia Organa o l’edipico figliolo Kylo Ren, che osa finalmente togliersi la terrificante maschera alla Dark Vador per svelare – in una bella sequenza – il profilo del glamour nascente di Adam Driver. Ma fra nostalgia, marketing e merchandising cos’è ad incidere veramente? Certo, il regista J.J. Adams è maestro nell’arte di riattualizzare i mega successi, lo si era già visto con Star Trek e ha l’intelligenza di non calcare con gli effetti digitali. Non a caso, le sequenze più brillanti sono quelle costruite secondo concetti tradizionali e su sfondi reali. Adams si diverte con scheletri di astronavi rottamate nel deserto d’epoca e introduce l’inevitabile violenza contemporanea. Rivalorizza gli spazi, l’immenso vuoto intergalattico, come nella sequenza graficamente eccitante dei pianeti spiaccicati dal mostruoso laser dei cattivissimi. Lawrence Kasdan, che aveva firmato la sceneggiatura del lucasiano L’impero colpisce ancora come del primo Indiana Jones, I predatori dell’arca perduta dell’amicone Steven Spielberg, parrebbe essere l’anima di questo Guerre stellari. Fa un po’ specie, la sceneggiatura non essendo fra le cose più riuscite. Ci sono esche apparentemente inevitabili, come i due protagonisti nei quali identificarci o il blando accenno a un genocidio. Ma è la progressione drammatica a faticare, oltre al tono politicamente corretto affinché sia garantito il gradimento universale. Un buon film d’azione che, chiamandosi Guerre Stellari, ci fa abbandonare al piacere di ritrovare dopo tanto tempo vecchi e cari protagonisti.

Il settimo episodio era atteso da tutto il mondo.


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Cultura e Spettacoli Rubriche

In fin della fiera di Bruno Gambarotta Voglio una vita tranquilla Arriva una sorta di onorificenza e apre una fenditura nella corazza delle mie certezze. È dentro una busta dell’ACI, l’Automobile Club Italiano; ci sono una vetrofania, un distintivo e una lettera con la quale mi si informa che sono stato insignito del titolo di «Gentleman Driver». Seguono le congratulazioni del Presidente e le delucidazioni: l’ambito riconoscimento spetta a coloro che guidano l’auto da mezzo secolo senza essere mai stati coinvolti in un incidente. Per la verità per me gli anni sono sessanta, ma non è questo il punto... Che interesse può suscitare il racconto della vita di un tale che guida da così tanti anni senza un sia pur piccolo tamponamento o una strisciata contro un’altra auto? Tutti i miei amici o conoscenti, tutte le persone note, hanno avuto una vita più avventurosa della mia. Non ho mai dormito una notte d’estate in un sacco a pelo sulla spiaggia in riva al mare o su una panchina nella piazza davanti a una stazione in attesa della partenza del primo treno.

Farlo ora sarebbe gesto tardivo e pericoloso, rischierei una bronchite. Leggo le biografie di scrittori e artisti e, se le confronto con la mia, cado in un nero sconforto. Giancarlo Fusco e Curzio Malaparte si sono arruolati nella Legione Straniera, io non ho neanche voluto entrare negli scout. Fusco da giovane aveva praticato il pugilato, io neanche ginnastica artistica. Non mi sono mai scazzottato con un avversario. Fusco sì: Osvaldo Guerrieri scrive che una volta, volendo fare a pugni in mezzo alla strada con un tale che l’aveva insultato, si era tolto la dentiera posandola sul cofano di un’auto parcheggiata. Ma l’auto si era messa in moto e i due avversari avevano smesso di picchiarsi per lanciarsi all’inseguimento e recuperare la dentiera, frutto di una colletta dei colleghi del «Giorno». Anch’io ho la dentiera, anzi ne ho due, una sopra e l’altra sotto ma mi guardo bene dal posarle sul cofano di un’auto, fosse pure una Ferrari. Me le tolgo la sera, prima di coricarmi e lo faccio

con mille precauzioni. Georges Simenon sosteneva di aver praticato carnalmente con diecimila donne nella sua vita, io sto per festeggiare le nozze d’oro. Fra gli scrittori da me prediletti molti hanno praticato la caccia e alcuni, per esempio Ernest Hemingway, è stato in Africa a uccidere bestie feroci. Ho avuto anch’io, per i 18 mesi del servizio militare nell’artiglieria contraerea, un’arma a disposizione, e anche bella grossa. Purtroppo non eravamo in guerra e i miei comandanti non mi hanno mai dato il permesso di sparare, neanche a un semplice aereo da turismo. Ero stufo di sentirmi dire da amici e parenti: se da grande vuoi fare lo scrittore devi metterti uno zaino in spalla e andare alla ventura in paesi esotici e lontani, provare a campare con mestieri umili, accumulare esperienze. Mi sono deciso; nell’estate del 1961 avevo 24 anni e un lavoro sicuro ben remunerato; approfittando delle ferie mi sono lanciato all’avventura e come primo test ho deciso di provare a sopravvivere in

Germania; è vero che ci sono paesi un filino più selvaggi ma io dovevo cavarmela senza sapere il tedesco. Quanto al fare autostop ho preferito viaggiare in treno, facevo prima e potevo permettermelo. Al posto dello zaino avevo una valigia così le camicie e le maglie non si stropicciavano. Nei miei giri ho sempre dormito negli ostelli della gioventù, erano in periferia ma camminare per un paio d’ore fa bene alla salute; il regolamento imponeva all’ospite di rientrare entro le 20 e a me andava bene, andare in giro di notte può essere pericoloso. Girando per un paese straniero pensavo a quegli scrittori che avevano sempre fatto in modo di trovarsi nei posti «caldi» del pianeta per raccontare guerre, insurrezioni, colpi di stato. Una sera, rientrando in ostello, ho incrociato un’edicola che esponeva giornali con titoli di scatola; avevano ancora una copia di «il Giorno». L’ho comprato e ho letto che i russi avevano iniziato a costruire un muro a Berlino Est. Così ho preso il primo treno

per la Francia e sono andato a finire le mie vacanze in Alsazia. In alternativa al protagonista di avventure esotiche, mi sarebbe anche piaciuto essere un eroe della finanza, appartenere alla categoria di coloro che dal nulla creano un impero, con intuizioni geniali e controcorrente. Così, quando sono andato in pensione ho collocato i miei risparmi in banca, e lì mi hanno proposto di acquistare obbligazioni e quote di fondi. Per disegnare il mio profilo di investitore, il funzionario mi ha sottoposto a una serie di domande. Ho scoperto che la procedura si chiama «valutazione della propensione al rischio», con un punteggio che va da zero a cento. Con quattro classi: conservativo, moderato, dinamico, attivo, andando da sinistra a destra della riga. Io non sono rientrato in nessuna delle quattro classi, hanno dovuto collocarmi ancora più a sinistra del conservativo, in pratica fuori dal foglio e per potermi classificare hanno coniato una nuova categoria: colui che tiene i soldi sotto il materasso.

nell’ultima Postilla del 2015 avevamo espresso dei pensierini sui capricci della società obesa e ricca nei confronti del cibo, quella possibilità di rifiutare quasi tutto perché si è nella condizione di scegliere. Insomma, la conclusione era che se avessimo fame, come un terzo della popolazione mondiale, ci faremmo pochi problemi. A parte evidenti – e spesso terribili – allergie, nessuna presunta intolleranza o irenica visione del mondo ci avrebbe fatto rifiutare «il» pasto della giornata. Spedendo la Postilla alla redazione, avevo qualche dubbio: troppo dura, troppo rigida? Forse il fatto che a me siano proibiti per motivi di salute, niente di grave solo seccature, la maggior parte dei cibi golosi, questo fatto mi porta a far fatica a comprendere le automutilazioni alimentari? Ho avuto sempre simpatia per i vegetariani e i vegetali, quindi mi spiace se sono stata cattiva. Poi è accaduto. Serata pre o post natalizia, casa di amici, uno dei quali disabile, aiutato dal mitico peruviano Josè. Come si usa

da un paio d’anni, niente caviale niente tacchini ripieni che fanno troppo Francia, troppo America, troppo costosa esterofilia. Invece nessun freno a polenta, stufato, trippa coi fagioli. Josè apprezza moltissimo la trippa e ancora più i fagioli, due cibi decisamente poco fini, poco da ricchi, se pur ricchi di gusto e nutrimento, queste frattaglie di maiale con tanto sugo e tanti borlotti. Josè si serve un paio di volte, poi passa dal suo assistito per ritirare il piatto. Non è vuoto del tutto, c’è ancora un po’ di questo cibo degli dei, di trippa e fagioli. «No lo prende? Posso manyarlo yo?». Sono lì vicino, non posso non sentire, sorrido. Josè si sente in dovere di dare una spiegazione: «En mi paìs, no se buta nada de lo que se pueda comer!». Non importa il miscuglio di (poco) italiano e di ispano-peruviano, ci siamo capiti. E, caro Josè, sei stato per me come un experimentum crucis di Galileo, hai dimostrato quello che sostenevo nella Postilla, che quando si ha fame no se buta nada.

realtà, la realtà sia ancora qui, più dura a morire della finzione. Sul blog «il Post» (5½) di Luca Sofri, un servizio da New York di Simona Siri ci informa che la migliore serie televisiva che ci capiterà di vedere nel 2016 è una storia vera che si intitola Making a Murderer: un documentario in dieci puntate che racconta la allucinante vicenda giudiziaria di Steven Avery, un povero disgraziato o un efferato omicida del Wisconsin, accusato di stupro nel 1985, condannato e scagionato dopo 18 anni di carcere, poi di nuovo accusato di omicidio. Cinquant’anni fa usciva in volume il romanzo-verità capostipite del cosiddetto «nuovo giornalismo» americano: A sangue freddo di Truman Capote (6), un libro che al tempo fu accusato di essere «un fallimento dell’immaginazione» e che oggi viene citato ovunque come un modello. Modello di cosa? Modello di quella letteratura di realtà (o giornalismo narrativo) tardivamente premiata

a Stoccolma con il Nobel a Svetlana Aleksievic (molto prima della scrittrice bielorussa l’avrebbe meritato il polacco Kapuscinski). Il migliore esempio recente, in ambito italiano, è La frontiera di Alessandro Leogrande (5+): viaggio nel dramma di uomini e donne e bambini, famiglie in fuga dalla violenza, dalla guerra, dalla povertà, il grande romanzo-verità delle ventennali migrazioni nel Mediterraneo, un libro che dà voce ai vivi (e ai fantasmi dei morti) curdi, iracheni, eritrei, somali arrivati in Italia andando a ricercare le storie dei sopravvissuti e dei sommersi per sottrarle alla dimenticanza e al rischio dell’assuefazione e dell’indifferenza. (È impressionante e sconfortante il fatto che questo 2016 si sia aperto all’insegna dei clandestini, extracomunitari, migranti, immigrati, rifugiati, profughi naufragati morti per mare: così si è aperto l’anno nuovo esattamente come si sono aperti gli anni passati).

Postille filosofiche di Maria Bettetini Non si butta niente La prima Postilla del 2016 sarà breve perché poi devo riprendere l’ultima del 2015. Così approfitto dello spazio diverso dal solito per tentare di sciogliere due dubbi. Il primo è banale: ma sono rimasta così indietro solo io a ritenere d’obbligo la gratitudine per un regalo? Piaciuto o no, utile o no, non era ovvio che comunque si dovesse dire «grazie che bello»? Sarà la crisi, sarà la nuova povertà, non so, ma quest’anno mi sono tornati indietro almeno cinque o sei regali. Sarà che ho sbagliato tutto negli acquisti. Ma no le motivazioni non sono sull’oggetto, ma su qualche caratteristica: troppo grandi, le scarpe per il bambino (e crescerà, no?); grazie, non uso questo genere di trucchi (e regalali a tua sorella, tua cugina, alla dirimpettaia); preferivo il carrello per fare la spesa non pieghevole, che se è pieghevole è meno resistente (e fallo resistere finché resiste!). Dopo tutti i buoni propositi di non riciclo, guarda cosa mi doveva capitare. Dubbio primo: forse che il sospetto di riciclo portava

alla stesura di un pietoso velo sull’oggetto, come non accade invece – causa solenne promessa – in caso di dono col fiocco del negoziante? Il secondo dubbio è invece molto serio: perché le donne non vogliono essere chiamate dottora, ministra, direttora? Che cosa c’è di brutto nell’essere detta ingegnera? Durante i giorni passati, quando il mondo di chi sta bene si rotolava tra bollicine e danze scatenate, c’era chi affrontava il dramma del presente. No, per il momento lasciate stare Siria, Libia, stragi. L’Accademia della Crusca ha da poco proposto, come tema di discussione, l’uso del femminile nelle professioni. I pareri sono discordi. Poniamo il caso di una Giovanna Rossi. Il ministro Giovanna Rossi: molto usato, e però maschilista. Come se i ministri dovessero essere uomini con rare eccezioni (cosa vera fino a pochi decenni fa). Allora: la ministra Giovanna Rossi. L’assonanza con minestra e finestra rende ridicolo il neologismo, che non è nemmeno nuovo. La ministro? Sem-

brerebbe la soluzione più logica, ma la grammatica bacchetta. Saltiamo la minestra e la finestra, prendiamo l’ing. Giovanna Rossi. L’ingegnere? Ancora uno a zero per i maschi. L’ingegnera? Brutto, come direbbe il bollitissimo Bruce Willis nelle sue pubblicità. D’altra parte, se direttore può trasformarsi in direttrice, ingegnere non mi diventa ingegnerice o ingegnice. Tenendo conto del fatto che in ogni caso direttrice suona male, perché fino a poco tempo fa la direttrice dirigeva solo scuole, convitti, sale ospedaliere, con un alone di simpatia nel nome che immaginiamo bene. Tempo fa. Ma perché disturbare le vacanze invernali agli accademici (e alle accademiche) della Crusca, quando il tempo stesso, con l’uso, ci dirà cosa dire, come è sempre stato. Nel Trecento si diceva «vadi pure», nel Novecento «vada pure», nel Duemila «va’», forse perché qualcuno lo ha deciso a priori? Ma basta coi dilemmi, ecco invece una soddisfazione: come lor signori ricorderanno,

Voti d’aria di Paolo Di Stefano La realtà esiste (e a volte sorprende) È impressionante (e anche un po’ confortante) che, dopo tanto battage pubblicitario e tanto parlarne a ogni occasione e in tutte le salse, il mercato dell’ebook sia fermo, anzi sia in leggera flessione. In questi anni, quanti profeti (1) hanno annunciato la morte del libro tradizionale e la marcia irresistibile della lettura digitale su tablet. Invece, ecco una scoperta controintuitiva (5½): le vendite dei libri cartacei sono passate negli Stati Uniti dai 559 milioni di copie del 2014 ai 572 del 2015. In parallelo, l’ebook è sceso dal 22 al 20 per cento del mercato globale. E in Italia non supera il 5 per cento. Con il fuoco e le fiamme degli ultimi anni, è come se la montagna avesse partorito il topolino. Intendiamoci, non è escluso che l’epoca del libro a stampa, in auge da cinque secoli, si possa chiudere nel giro di qualche decennio e che i nostri nipoti leggeranno solo su supporti tecnologici, ma i proclami messianici sulla Nuova Era Imminente per il mo-

mento sono stati smentiti. Poi si vedrà se la tecnologia gutenberghiana verrà superata. Intanto il libro è ancora lì solido, maneggevole, sicuramente più bello di una schermata su un dispositivo elettronico. È impressionante (e anche un po’ confortante) che, dopo tanto parlare dei (e nei) blog che sostituiscono le riviste tradizionali, le migliori riviste tradizionali resistano a tutto: ho sul tavolo gli ultimi numeri dello «Straniero», dell’«immaginazione», di «Anterem», del «Verri» (ottima monografia su Roland Barthes), dell’«Indice», dell’«Archivio Storico Ticinese»… E ancora più impressionante (e confortante) è che altre ne nascano. Come per esempio «Nuova rivista letteraria» (5½ al coraggio), che si presenta come semestrale di letteratura sociale, pubblicata dalle Edizioni cooperative Alegre, nate nella stagione più accesa dei movimenti no-global. Il n. 2, uscito da poco, è dedicato ai nazionalismi e

populismi di destra sorti in tempo di globalizzazione. Consiglierei, tra l’altro, oltre agli interventi di Wu Ming 1, un saggio di Paolo Vachino sulla «neolingua» intitolato ironicamente con uno slogan del Grande Fratello (non quello televisivo ma quello letterario): «L’ignoranza è forza!». Il concetto di «neolingua» è ben spiegato nel capolavoro di Orwell 1984: «la neolingua non era concepita per ampliare le capacità speculative, ma per ridurle, e un simile scopo veniva indirettamente raggiunto riducendo al minimo la possibilità di scelta». Tra le espressioni che contribuiscono ad accrescere l’omologazione e a ridurre le capacità del pensiero, Vachino cita il bodybuilding, l’happy hour, il talk show, il Twitter, il politically correct e altri abusi lessicali, sintomi del livellamento verso la volgarità e l’ignoranza. È impressionante (e anche un po’ confortante) che, dopo tanto discutere e allarmarsi sulla scomparsa della


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Idee e acquisti per la settimana

shopping Insalata per il periodo freddo Attualità Il formentino nostrano arricchisce la tavola invernale con il suo

Flavia Leuenberger

sapore delicatamente nocciolato. Questa settimana alla Migros l’apprezzata insalata è proposta ad un prezzo particolarmente vantaggioso

Il formentino è un’insalata particolarmente adatta al periodo invernale. Le rosette, che raggruppano fino a 20 foglie, tollerano bene il gelo e si possono così coltivare anche nei periodi freddi. Anzi, è proprio con le basse temperature che si riesce a ottenere un prodotto di ottima qualità, con un bel colore verde scuro e una migliore conservabilità. Le coltivazioni avvengono oggi prevalentemente in coltura protetta (tunnel o serre), ma anche negli orti casalinghi non è difficile coltivare questa varietà appartenente alla famiglia delle Valerianacee e proveniente dall’Eurasia. Per averlo fresco prima delle feste di fine anno, il formentino andava seminato nella prima decade di ottobre, spargendo circa 500 semi per metro quadrato, preferibilmente in piccoli cassoni di propagazione o in serre. Con un terreno umido la tenera insalata arriverà in tempo per guarnire i piatti invernali. A fine inverno (marzo), così come da lu-

glio ad agosto la semina può invece avvenire direttamente in pieno campo, in file a distanza di 15 centimetri oppure a spaglio. La coltivazione non richiede di norma una concimazione ed è di facile gestione: produce un discreto raccolto in pochi mesi e, come detto, non teme il gelo, anche prolungato. Il formentino è noto anche come Valerianella e in tedesco è chiamato Nüsslisalat a causa del suo gusto: forte, saporito e che ricorda la noce (Nuss). Piace quindi molto anche ai bambini, si dice, proprio per l’assenza della sensazione amarognola tipica di altri tipi d’insalate. Da sola o con altri ingredienti, la Valerianella si presta molto bene come entrata per menu sontuosi. Cucina di stagione, la rivista gastronomica di Migros, propone diverse possibilità di abbinamenti seducenti: arance, melagrana, senape e erbe, nocciole, barbabietole, frittata, formaggio, champignon e uova sode. / Elia Stampanoni

Formentino con melagrana Antipasto per 8 persone Ingredienti 1 melagrana 1 arancia bionda 2 rametti di menta 6 cucchiai d’olio d’oliva 4 cucchiai d’aceto balsamico bianco sale, pepe 300 g di formentino Preparazione 1. Preparazione max. 1 giorno in anticipo: incidete in tondo la buccia della melagrana senza tagliare il frutto a metà. Riempite d’acqua una scodella e dimezzate la melagrana nell’acqua. Liberate i chicchi dalle pellicine che si staccheranno facilmente. Raccogliete le pellicine salite a galla e gettate l’acqua. Coprite i chicchi e conservateli in frigo.

Grattugiate finemente la scorza d’arancia e spremete il succo. Staccate le foglie di menta dai gambi e tritatele. Per la salsa, mescolate l’olio con l’aceto, la menta il succo e la scorza d’arancia. Condite con sale e pepe. 2. Finitura: condite il formentino con la salsa, cospargete il tutto con i chicchi di melagrana e servite. Tempo di preparazione ca. 20 minuti + finitura ca. 5 minuti

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 11 gennaio 2016 ¶ N. 02

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Idee e acquisti per la settimana

Dal Vallese alla conquista di tutti i palati Attualità Per portare in tavola una raclette «comme il faut» non bisogna andare lontano:

basta scegliere il formaggio Raccard della Migros Non importa che sia al naturale, aromatizzata con aglio o pepe, resa ancora più piccante con l’aggiunta di paprica, peperoncino o curry, oppure ancora fatta fondere insieme a fettine di pancetta, carne secca o salame: la raclette rimane uno dei piatti più amati durante i mesi freddi, anche se molti non la disdegnano nemmeno il resto dell’anno. Si ritiene che questo piatto tipico del Vallese fosse già conosciuto dai pastori alpigiani cinquecento anni or sono. La parola raclette, dal canto suo, si rifà alla canzone popolare «La Râclette», scritta da Oscar Perrollaz in occasione dell’esposizione cantonale di Sion del 1909, che loda la straordinaria bontà del piatto nazionale vallesano. Migros onora la specialità del Vallese per eccellenza grazie al marchio Raccard, il quale secondo un sondaggio è il formaggio per raclette più conosciuto in Svizzera. Raccard è prodotto dalla Mifroma, un’azienda del gruppo Migros, la quale lo produce fin dal 1967. Oggi la produzione si aggira sulle 3000 tonnellate all’anno e si declina in differenti tipologie di gusto. Nel 2015 il Raccard entra nel Guinness dei primati con il fornello per raclette più lungo al mondo: durante una degustazione gratuita sulla Bärenplatz di Berna venne installato un fornello lungo oltre 100 metri. È solo dall’inizio degli anni Settanta che il formaggio per raclette viene per lo più fatto fondere a fette per mezzo degli appositi fornelli elettrici muniti di padellini. Fino ad allora le mezze forme di formaggio venivano ancora fatte sciogliere sotto una serpentina incandescente e la porzione raschiata direttamente sul piatto. Infine, non va dimenticato che la raclette si serve con i suoi contorni obbligatori: patate bollite con la buccia, cetriolini e cipolline sottaceto.

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Una nuova verdura dal sapore unico Novità Il nuovo modo per gustare il cavolo si chiama Flower Sprout.

Esposizione artistica

È disponibile ai reparti verdura delle maggiori filiali Migros

Flower Sprout è una nuova verdura che offre infinite possibilità di preparazione in cucina. Versatile, dal sapore intenso e facile da cucinare, saprà conquistare anche i palati dei bambini. Flower Sprout è un incrocio tra il cavolo e i cavolini di Bruxelles e si distingue per il suo aspetto particolare, caratterizzato da foglie verdi arricciate e tracce di un bel color violetto. Dal punto di vista nutrizionale

è molto ricco di vitamine B6 e C. Flower Sprout possiede inoltre un sapore unico, al contempo dolce e nocciolato. Grazie alla sua versatilità può essere consumato sia crudo sotto forma di insalata, oppure arrostito, grigliato o leggermente saltato. Come gustare il Flower Sprout?

Sbollentato: bollire la verdura per 3-4 minuti, estrarla dalla pentola e immer-

gerla subito in acqua fredda per interrompere la cottura. Bollito: portare ad ebollizione l’acqua e aggiungere il Flower Sprout e cuocere a fuoco lento per 3-5 minuti fino a quando risulta tenero. Al vapore: mettere il Flower Sprout nello steamer a cuocere per 5-6 minuti. Saltato in padella: saltare a fuoco vivo per 2-3 minuti.

Microonde: cuocere a 800w per 2-3 minuti. Arrostito: arrostire Flower Sprout su carta da forno, con un filo di olio di oliva, una decina di minuti a 250°C. Crudo: per apprezzare il suo delicato gusto nocciolato tagliare il Flower Sprout dal gambo verso l’estremità, oppure rimuovere la parte inferiore, in modo da separare le piccole foglie.

L’artista e fotografa bellinzonese Cristina Memmo esporrà questa settimana al Centro S. Antonino una selezione delle sue opere. Cristina Memmo si è diplomata al CSIA di Lugano nel 1987 e successivamente affina la sua professione in Svizzera interna. Dopo varie esperienze passa alla pittura su tela con tecnica olio e misto, nonché, da autodidatta, alla scultura. Nel 1998 ha vinto il 1° premio quale pittrice dell’anno, in occasione di una mostra collettiva a Lugano. Segnaliamo inoltre che mercoledì 13 gennaio (dalle 14.00 alle 17.00) e sabato 16 gennaio (ore 10.00-12.30 e 14.0017.00) l’artista proporrà dei divertenti momenti di trucco facciale rivolto a tutti i bambini.


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FRUTTA E VERDURA Clementine, Spagna, retina da 2 kg 2.90 invece di 4.40 33% Lattuga cappuccio M-Classic, 20% di contenuto in più, 240 g 3.90 Cetrioli, Spagna, il pezzo –.60 invece di –.90 33% Formentino, Ticino, imballato, 100 g 1.65 invece di 2.25 25% Broccoli, Italia, imballati, al kg 2.20 invece di 3.30 33% Mele Topaz bio, Svizzera, imballate, al kg 4.45 Fragole, Spagna, in conf. da 250 g 1.95 invece di 3.90 50%

PESCE, CARNE E POLLAME Salsiccia di Lione di pollame Optigal in conf. da 2 o chorizo di pollame Optigal da 136 g, per es. salsiccia di Lione di pollame in conf. da 2, Svizzera, per 100 g 1.05 invece di 1.50 30% Minipic in conf. da 3, Svizzera, 3 x 90 g 6.90 invece di 9.90 30% Tutti i salami Rapelli affettati o al pezzo, per es. classico affettato, Svizzera, 155 g 4.90 invece di 7.05 30% Fettine di pollo M-Classic, prodotte in conformità all’Ordinanza svizzera sulla protezione degli animali, Germania / Ungheria, per 100 g 1.50 invece di 1.90 20% Filetti di trota affumicati M-Classic, ASC, in conf. da 3, d’allevamento, Danimarca, 3 x 125 g 7.40 invece di 11.10 33% Prosciutto crudo di Parma Beretta, Italia, affettato in vaschetta da 100 g 4.80 invece di 6.90 30% Arrosto di vitello cotto, Svizzera, affettato in vaschetta, per 100 g 3.40 invece di 4.25 20% Entrecôte di manzo TerraSuisse, Svizzera, imballato, per 100 g 4.95 invece di 7.30 30% Tutto il lesso di manzo, per es. lesso magro di manzo TerraSuisse, Svizzera, imballato, per 100 g 2.05 invece di 2.60 20% Costolette di vitello TerraSuisse, Svizzera, imballate, per 100 g 4.15 invece di 5.60 25% Sminuzzato di maiale M-Classic, Svizzera, imballato, per 100 g 1.35 invece di 2.30 40% Lombatine d’agnello, Australia / Nuova Zelanda, imballate, per 100 g 3.75 invece di 5.40 30% Nuggets di tacchino, prodotti in Svizzera con carne di tacchino dal Brasile, in conf. da 2 x 250 g, 500 g 8.50 invece di 11.40 25% Filetto di pangasius ASC, d’allevamento, Vietnam, in vaschetta, per 100 g 2.– invece di 3.– 30% Salmone affumicato, Scozia, in conf. da 3 x 100 g, 300 g 13.– invece di 19.50 33%

Spezzatino di manzo TerraSuisse, Svizzera, imballato, per 100 g 2.– invece di 2.90 30%

PANE E LATTICINI Panna intera UHT Valflora in conf. da 2, 2 x 500 ml 5.20 invece di 6.50 20% Tutti gli yogurt Bifidus, per es. alla fragola, 150 g –.65 invece di –.85 20% Tutto l’assortimento Léger, per es. burro mezzo grasso, 200 g 20x 3.– 20x PUNTI ** Gruyère piccante, per 100 g 1.45 invece di 1.85 20% Fondue fresca moitié-moitié in conf. da 2, 2 x 400 g 13.10 invece di 16.40 20% Mini Babybel, retina da 15 x 22 g 5.60 invece di 7.– 20% Ciabatta TerraSuisse, 350 g 2.– invece di 2.40 15% Pane alle nocciole bio, 320 g 2.85 invece di 3.40 15% Ciabattine M-Classic TerraSuisse, 3 pezzi, 300 g 2.70 invece di 3.20 15% Caseificio Canaria, prodotto in Ticino, a libero servizio, al kg 22.40 invece di 28.10 20%

FIORI E PIANTE Tulipani M-Classic, disponibili in diversi colori, mazzo da 20 11.70 invece di 13.80 15% Phalaenopsis in conf. da 2, in vaso da 12 cm 19.90 invece di 33.80 40%

ALTRI ALIMENTI Kinder Bueno in conf. da 10, 10 x 2 pezzi, 430 g 6.30 invece di 7.– 10% Tavolette di cioccolato Frey da 100 g in conf. da 4 o da 6, UTZ, conf. da 4 (Les Délices Crème à l’Orange), conf. da 6 (Noxana o Crémant 55%), per es. Les Délices Crème à l’Orange in conf. da 4 6.10 invece di 8.80 30% Caramelle per la gola Bonherba senza zucchero, in bustina, in conf. da 2, melissa citronella, erbe o erbe ripiene, per es. alle erbe, 2 x 150 g 6.50 invece di 8.20 20% Magdalenas al limone o marmorizzate M-Classic in conf. da 3, per es. marmorizzate, 3 x 225 g 4.20 invece di 6.30 33% Tutti i Blévita Biscuit, per es. alle nocciole, 248 g 2.90 invece di 4.20 30% Tutte le bevande istantanee al cacao o al malto, per es. Banago, Fairtrade, in busta, 600 g 6.30 invece di 7.90 20% Nutella in barattolo di vetro da 1 kg 5.60 Tutto l’assortimento Kellogg’s, per es. Choco Tresor, 600 g 5.10 invece di 6.40 20% Pizza Finizza al prosciutto, alla mozzarella o al tonno in conf. da 3, surgelata, per es. alla mozzarella, 3 x 330 g 5.85 invece di 11.70 50%

NEAR FOOD / NON FOOD Tutto l’assortimento di alimenti per cani Asco, per es. Sensitive, 4 kg 5.90 invece di 11.80 50% Tutto l’assortimento di accessori per animali Best Friend, per es. topolini dal pelo corto, conf. da 3 1.95 invece di 2.45 20% Tutto l’assortimento di prodotti Essence Ultîme o Gliss Kur, a partire da 2 pezzi (mini, cura istantanea ed intensa Gliss Kur e confezioni multiple esclusi) 20% **

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 11 gennaio 2016 ¶ N. 02

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 11 gennaio 2016 ¶ N. 02

Idee e acquisti per la settimana

I vincitori

Stefan (20) e Vreni M. (60)

Meccanico e venditrice di Egerkingen (SO) hanno vinto Fr. 50’000.–

1 Heinz W., Kloten ZH, Fr. 1013.80 2 Corinne C., La Ferriere BE, Fr. 2562.90

«Non riuscivamo a capacitarci della nostra fortuna. Ora posso esaudire un desiderio che cullavo da tempo: un nuovo gruppo imbottito. Anche Stefan vuol acquistarsi qualche nuovo mobile.»

3 Annaliese W., Thônex GE, Fr. 3249.20 4 Martin K., Flumserberg SG, Fr. 17’328.60 5 Magbule A., Köniz BE, Fr. 50’000.–

Claudia S. (20)

6 Melanie B., Zurigo ZH, Fr. 1845.20

Studentessa di Cugnasco (TI) ha vinto Fr. 50’000.–

7 Vreni H., Zurigo

«Era il primo gioco a premi a cui ho partecipato. Sono rimasta di sale e ho chiamato subito mia madre. Dividerò la vincita con la mia famiglia e mi concederò un bel viaggetto.»

ZH, Fr. 1139.20 8 Heidi A., Uster ZH, Fr. 22’537.80 9 Romeo O., Niederlenz AG, Fr. 50’000.–

33 Lea T., Grafstal ZH, Fr. 37’291.30 34 Fanny R., Martigny VS, Fr. 5392.– 35 Gerhard B., Zufikon AG, Fr. 50’000.– 36 Romina C., Bonstetten ZH, Fr. 4294.20 37 Luzia J., Hittnau ZH, Fr. 1128.10 38 Katya G., Froideville VD, Fr. 9861.– 39 Manuela R., Berna BE, Fr. 21’329.20 40 Basha F., Wohlen AG, Fr. 3301.80 41 Walter H., Wangen ZH, Fr. 17’138.10 42 Kathrin Z., Langendorf SO, Fr. 10’329.90

10 Xenja B., Olten SO, Fr. 4839.80

43 Nicolas S., Biel BE, Fr. 50’000.–

11 Vreni Z., Murten FR, Fr. 1262.–

44 Doris H., Wallisellen ZH, Fr. 28’610.90

12 Antoine M., Ginevra, GE, Fr. 50’000.–

45 Joseph H., Baar ZG, Fr. 1453.90

13 Claudia A., Le Lignon GE, Fr. 1002.30

46 Petra K., Ebnat-Kappel SG, Fr. 2983.40

14 Suzanne F., Opfikon ZH, Fr. 2033.20

47 Myriam H., Gampel VS, Fr. 50’000.–

15 Sylvette E., Ittigen BE, Fr. 1027.50

48 Marinette D., Saubraz VD, Fr. 1023.40

16 Vanessa B., Bernex GE, Fr. 3718.30

49 Shena S., Uster ZH, Fr. 35’823.20

17 Giosué P., Losanna VD, Fr. 6589.20

Yedah A., (42)

Segretaria di Yverdon (VD) ha vinto Fr. 14’752.80

18 Sonja M., Dintikon AG, Fr. 1009.80

«Ho vinto, ho urlato a mio padre e non potevo crederci, quando ho immesso il codice sullo smartphone. Mi comprerò un nuovo computer, un Natel per mio marito e un armadio congelatore per la famiglia.»

19 Drago B., Kriens LU, Fr. 50’000.– 20 Christele N., Cheseaux VD, Fr. 1043.50 21 Martha F., Oberriet SG, Fr. 34’582.30 22 Sebastian S., S. Gallo SG, Fr. 1003.70

50 Stefanie W., Gerlafingen SO, Fr. 1059.50 51 Markus B., Thun BE, Fr. 21’429.20 52 Nili A., Zunzgen BL, Fr. 1783.40 53 Oliver B., Bellevue GE, Fr. 1783.40 54 Claudia S., Cugnasco TI, Fr. 50’000.– 55 Ruth B., Berna BE, Fr. 1674.20

23 Jennifer G., Landquart GR, Fr. 1045.70

56 Therese C., Neuenhof AG, Fr. 11’056.70

24 Viviane P., Yverdon VD, Fr. 12’259.20

57 Daniela K., Zurigo

25 Thilde I., S. Gallo SG, Fr. 1253.10

ZH, Fr. 42’832.10 58 Beatrice H., Zurigo ZH, Fr. 15’628.30

26 Philippe S., Altdorf UR, Fr. 5429.80

59 Deidre B. A., Zurigo

27 Constantin K., Dübendorf ZH, Fr. 8764.80

ZH, Fr. 2329.10

28 Ilir H., Gais AR, Fr. 50’000.–

60 Moniks B., Ettiswil LU, Fr. 1108.20

29 Luana T., Lyss BE, Fr. 6289.40 30 Yvonne H., Sempach LU, Fr. 9677.20 31 Silvia O., Uetliburg SG, Fr. 10’932.80 32 René F., Fontnas SG, Fr. 1000.40

Mega Jackpot

Che fortuna! Per otto settimane ogni scontrino di cassa Migros valeva dei soldi. Il gioco a premi Mega Jackpot 2015 ha elargito complessivamente più di un milione di franchi, suddivisi fra 64 vincitori

61 Yédah A., Yverdon VD, Fr. 14’752.80 62 Monika S., Therwil BL, Fr. 4725.30 63 Stefan M., Egerkingen SO, Fr. 50’000.– 64 Ramiro A. V., Liebefeld BE, Fr. 39’282.20


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