Azione 03 del 12 gennaio 2015

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXVIII 12 gennaio 2015

Azione 03 -61 ping M shop ne 33-41 / 56 i alle pag

Società e Territorio Il Ticino del 2036 nella graphic novel di Timothy Hofmann

Ambiente e Benessere Human enhancement, ovvero la scoperta di nuove tecnologie che ci porteranno verso un orizzonte postumano

Politica e Economia Dinastie politiche alla Casa Bianca

Cultura e Spettacoli De Sade protagonista di una mostra: eterna ispirazione

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La libertà insanguinata

AFP

di Lucio Caracciolo e Paola Peduzzi pagine 22 e 26

Dodici voci tacciono, le parole mai di Peter Schiesser Più che delle bombe, i fanatici hanno paura delle parole. Le prime li confermano nel delirio di un martirio per volere di Dio, le seconde – se libere – fanno vacillare le loro verità. Di conseguenza, per un estremista (islamico, in questo caso) solo un giornalista morto è un buon giornalista; affinché nessuno possa contraddire la sua visione delle cose e del mondo. Ce lo dimostrano i tagliatori di teste dell’Isis in Siria quando se la prendono con dei giornalisti, ce lo ricorda l’attacco del 7 gennaio a Parigi alla sede del settimanale satirico «Charlie Hebdo», costato la vita a 12 persone. La libertà di pensiero è la grande nemica dei fanatismi, è sempre stato così. E l’attacco di Parigi è un calcolato tentativo di far crollare le «torri gemelle» della libertà di espressione: di far tacere penne e matite. Le manifestazioni spontanee avvenute a Parigi e in numerose città francesi e del mondo sono il deciso segnale di un Occidente che vuole difendere i valori, di libertà e di pensiero, di cui va maggiormente fiero. La miriade di scritte «Je suis Charlie» sono un’affermazione forte e coraggiosa delle nostre libertà e dei nostri valori, ma sottintendono

anche che ognuno di noi è potenzialmente una vittima, sia della privazione della libertà di esprimere il proprio pensiero, sia di futuri attentati terroristici. Non c’è da scherzare: dall’11 settembre 2001 abbiamo dovuto imparare a fare i conti con l’inimmaginabile e Parigi è solo un’ulteriore tappa nel viaggio dell’orrore che vari estremismi islamici hanno intrapreso in tutti i continenti. Il giorno dopo l’attacco a Parigi, il «Tages Anzeiger» ha motivato in prima pagina la scelta di non pubblicare le vignette satiriche di «Charlie Hebdo» su Maometto: per non esacerbare ulteriormente gli animi, ha scritto il suo direttore Res Strehle. E per non correre rischi di attentati, tutt’altro che remoti, si potrebbe aggiungere. Noi stessi dobbiamo ammettere che se la prima ragione ci basta per non pubblicarle, la seconda ci toglie ogni eventuale dubbio sull’opportunità di farlo o meno. È un atto di coraggio in meno, lo sappiamo, ma è pubblicando le vignette contestate che si vince la guerra contro i fanatismi e gli estremismi, in cui un totalitarismo religioso di antica marca e il potenziale letale di armi moderne ha creato una miscela estremamente esplosiva? Per contro, siamo convinti che questa lunga guerra dovrà essere condotta riaffermando ad ogni massacro la forza dello stato di diritto,

portando davanti alla giustizia gli autori di questi crimini, affermando la forza del dubbio di fronte a chi pretende di avere la verità in tasca, difendendo le nostre libertà e concendendole a tutti coloro che vivono nelle nostre società – musulmani compresi. Faremmo invece il gioco degli estremisti se ascoltassimo chi, anche qui da noi, vuole indurci a erigere muri fra cristiani e musulmani. È bene sottolineare che anche in Svizzera la strage di Parigi è stata condannata dall’intera comunità islamica – e ricordare che la stragrande maggioranza delle vittime del fanatismo islamico sono musulmani (sciiti, yazidi, sunniti moderati). Perciò, piuttosto che parlare di «islamisti» dovremmo finalmente chiamarli con un termine più appropriato: fascisti musulmani. L’Occidente può difendersi tenendo alta la libertà di espressione, rafforzando lo stato di diritto e la tolleranza fra i popoli e le religioni, combattendo militarmente gli estremisti. Ma la guerra contro il fascismo islamico potrà essere vinta solo se e quando la inerme maggioranza dei musulmani nel mondo si ergerà contro i fanatismi che sorgono al suo interno e supererà le contraddizioni fra la Modernità e un Islam che si richiama ad una purezza e a una rigidità originaria.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 12 gennaio 2015 ¶ N. 03

Attualità Migros

Migros mantiene le promesse

Migros richiama il cavo di rete Lenovo

Generazione M Due volte all’anno Migros verifica il grado di realizzazione degli impegni

che si è assunta con le giovani generazioni Una cifra di tutto rispetto: al momento attuale il programma di sostenibilità «Generazione M» comprende 43 promesse. A fine giugno 34 di queste erano in dirittura d’arrivo, mentre sei non lo erano ancora. Altre tre sono state lanciate dalla Migros all’inizio di luglio e la loro valutazione è quindi appena avvenuta. Il prospetto complessivo della situazione è pubblicato nel sito web ufficiale www.generazione-m.ch: una sorta di grafica a «semaforo» mostra quale sia la situazione aggiornata nel raggiungimento degli obiettivi. Il «semaforo verde» indica i propositi raggiunti: ad esempio la promessa relativa alla riduzione dello zucchero nello iogurt («Promettiamo a Giulia di ridurre il contenuto di zuccheri nel 45% degli iogurt in assortimento entro la fine del 2013»); quella legata agli alimenti vegani («Promettiamo a Gelsomina di contrassegnare esplicitamente 120 prodotti alimentari per vegani e vegetariani»); oppure quella legata alla formazione dei dipendenti sui temi legati all’energia («Promettiamo a Dimitrije che sensibilizzeremo i nostri collaboratori ad un uso consapevole dell’energia mediante corsi appositi»). Altri obiettivi raggiunti riguardano la rinuncia al terriccio con torba («Promettiamo a Sarina che, a partire dalla metà del 2013, rinunceremo del tutto ad acquistare torba»), la coltivazione Bio («Promet-

tiamo a Jeremy che entro il 2013, grazie a Migros Bio, una superficie equivalente a 140 campi di calcio dedicata alla coltivazione convenzionale di cereali verrà sostituita da coltivazioni biologiche») e l’impronta di CO2 («Promettiamo a Roman che quest’anno pubblicheremo l’impronta individuale di CO2 di 850 prodotti»). Il semaforo rosso indica invece le promesse non mantenute. Esse riguardano ad esempio i prodotti Délifit («Promettiamo a Sharon che entro la fine del 2013 nei ristoranti e take away Migros il 20% dell’offerta sarà costituita dai leggeri prodotti Délifit»), il tenore di sale («Promettiamo a Ikechi di ridurre il contenuto di sale in 170 prodotti pronti all’uso entro la fine del 2012») e la riduzione degli imballaggi («Promettiamo a Nuyen di ridurre del 10% l’impatto ambientale complessivo degli imballaggi dei 250 prodotti più venduti entro il 2013»). Gran parte delle promesse, comunque sono in corso di realizzazione e vengono evidenziate nella classifica con piccole frecce di tendenza. Tra quelle in fase di implementazione ne troviamo una relativa ai corsi sulla salute («Promettiamo a Dylan che dalla fine del 2017 offriremo corsi di fitness e wellness nonché strutture di allenamento per 10 milioni di visitatori all’anno») e una sulle gare di corsa («Promettiamo a Deborah che ogni

Foto di gruppo per i bambini testimonial delle promesse di Generazione M.

anno fino al 2015 consentiremo a oltre 200’000 sportivi di partecipare a gare di corsa grazie alla nostra attività di sponsor principale»). Più legate al mondo del lavoro la promessa dedicata ai candidati all’impiego («Promettiamo a Joel che entro il 2015 offriremo a oltre 2200 dei nostri apprendisti un posto di lavoro promettente»), quella legata ai luoghi di lavoro confortevole («Promettiamo a Fiona che entro il 2015 tutte le Cooperative Migros vanteranno il marchio di qua-

lità «Friendly Work Space») e alla mobilità ecologica («Promettiamo a Marta di sostenere l’azione “Bike to work” contribuendo con il maggior numero di partecipanti tra tutte le imprese private svizzere»). Le promesse qui menzionate sono solo una parte di tutte quelle che sono state elaborate: come detto, il monitoraggio aggiornato in tempo reale sulla situazione è consultabile nel sito web ufficiale dell’iniziativa, insieme alle relative informazioni esplicative.

Per ragioni di sicurezza, Lenovo Svizzera Sagl richiama un cavo di rete per dispositivi Lenovo IdeaPad. Il richiamo riguarda anche melectronics. Si tratta di un cavo di rete contrassegnato con la sigla «LS-15», che collega il cavo di alimentazione con la presa di corrente. Il cavo interessato dal richiamo può surriscaldarsi, generando un pericolo d’incendio. Si tratta di un cavo per dispositivi Lenovo IdeaPad fornito nel periodo compreso tra febbraio 2011 e giugno 2012 e offerto in vendita anche nei negozi melectronics. Per motivi di sicurezza Migros prega i suoi clienti di rinunciare a utilizzare i cavi di questa serie. I clienti che possiedono un cavo contrassegnato dalla sigla LS-15 possono ottenere da Lenovo un cavo nuovo in cambio di quello difettoso. Nel sito Internet http://support.lenovo.com/de/ powercord2014 si possono trovare tutte le indicazioni necessarie sul cavo e sulla possibilità di sostituirlo con un cavo di ricambio.

Gastronomia armoniosa Musica e cucina Un originale progetto ticinese che affronta il tema di Expo 2015: quando la storia

dell’alimentazione incontra la storia della musica Il 2015 sarà l’anno dell’Expo di Milano, una manifestazione di respiro mondiale il cui tema è legato all’alimentazione del pianeta. Tra i progetti che si propongono di rappresentare quanto di buono offre il territorio della Svizzera italiana in quel prestigioso contesto c’è anche un interessante contributo offerto dalla CORSI, la Cooperativa per la radiotelevisione svizzera di lingua italiana, in collaborazione con la RSI. L’iniziativa, che gode del sostegno di Migros Ticino, comprende una doppia pubblicazione, editoriale e musicale, curata dall’editore locarnese Dadò, promossa poi in una serie di concerti e conferenze. Del libro sono protagonisti l’Or-

chestra della Svizzera italiana, la specialista e studiosa di temi legati alla storia dell’alimentazione Marta Lenzi, la musicologa Anna Ciocca e il giornalista radiotelevisivo Giacomo Newlin, i quali, insieme al compendio di ricette originali attualizzate dallo Chef di Villa Principe Leopoldo, Dario Ranza, ci propongono una riflessione multidisciplinare sui numerosi e profondi rapporti che intercorrono nel tempo tra «buona musica» e «buona cucina» e la loro attualizzazione da parte del servizio pubblico radiotelevisivo (a cui l’Orchestra fa riferimento) e attraverso il quale possiamo fruire di numerosi spunti legati all’arte culinaria. I pun-

La copertina del volume.

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

ti di intersezione di questi due mondi sono affascinanti: nel corso dei secoli ad esempio la miglior musica è stata utilizzata come accompagnamento per le grandi serate dedicate alla cucina raffinata, meritandosi il nome di «Tafelmusik» mentre, per converso, intrattenimenti gastronomici particolari hanno spesso fornito il contorno a grandi occasioni di spettacolo e alle grandi prime musicali. Ma i percorsi culturali che attraversano la storia della musica utilizzando il fil rouge gastronomico sono innumerevoli. Lo dimostra con competenza e ricchezza d’esempi Marta Lenzi. Nei suoi contributi inclusi nella pubblicazione, ricostruisce dal Medioevo all’800 la storia dei rapporti tra musica e alimentazione, indagando inoltre nelle biografie di grandi compositori che sono stati anche grandi buongustai. Una tra le chicche è la riproduzione fotografica, sin qui inedita, della lista della spesa stilata di proprio pugno dal grande Beethoven in persona. La Lenzi si occupa anche di uno dei più grandi cuochi nella storia della cucina italiana. In tema di alimentazione, il Ticino può far valere l’onore di aver dato i natali a Mastro Martino, «mitico» cuoco bleniese alla corte sforzesca, uno dei primi chef a fissare sulla carta i principi della scienza culinaria. In questo progetto editoriale e nelle manifestazioni di contorno che lo presenteranno al pubblico ticinese e lombardo, l’Orchestra della Svizzera italiana gioca un ruolo da protagonista:

è infatti la formazione fiore all’occhiello della musica ticinese a tradurre in note e in armonia i molti suggerimenti storico-culturali riuniti in questo volume. Il repertorio allestito è stato fissato su un CD, la cui produzione è stata resa possibile grazie al contributo intelligentemente garantito dall’Associazio-

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

Tiratura 98’645 copie

Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

ne Amici dell’Orchestra della Svizzera italiana, che è parte integrante della pubblicazione e che ne costituirà il più «gustoso» accompagnamento sonoro, soprattutto se abbinato alla realizzazione in cucina delle ricette proposte.

Sottoscrizione di Menu per Orchestra Il volume sarà presto nelle librerie ticinesi: i lettori di «Azione» possono sottoscriverne l’acquisto al prezzo speciale di Fr. 35.– (prezzo di vendita

Fr. 42.–) compilando il tagliando qui sotto e inviandolo a: Dadò Editore, Via Orelli 29, C.P. 563, 6600 Locarno (info@editore.ch; tel. 091 756 01 20).

(Offerta valida fino al 31 gennaio 2015) Numero di copie Recapito: Nome e cognome Via Località Telefono

Stato e-mail

Fattura a: Nome e cognome Via Località Telefono

Stato e-mail

Data e firma:

Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


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Società e Territorio Una casa editrice contro le differenze Si chiama Settenove e mette sul mercato libri che vogliono a opporsi ai luoghi comuni e agli stereotipi sui ruoli sessuali: libri in cui le principesse non devono essere salvate

Le risorse della mamma single Educare un figlio maschio da sola è spesso un compito difficile per una madre, soprattutto quando il ragazzo affronta il passaggio tra infanzia e adolescenza pagina 8

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Corvi+Topi è una graphic novel ambientata a Lugano. (Ti-Press)

Viaggio nell’immaginario di Timothy Hofmann Fumetti Un giovane luganese affronta con creatività le problematiche del territorio Roberta Nicolò Timothy Hofmann, artista, classe 1987, è un figlio di Lugano. La città che definisce centro nevralgico del Canton Ticino e che ha eletto sfondo ideale per la sua prima graphic novel, intitolata Corvi+Topi. Un romanzo a fumetti diviso in 10 capitoli e ambientato in un futuro non troppo lontano, nel quale, la società ticinese e le problematiche del territorio, vengono affrontate con creatività e un linguaggio sicuramente inusuale. Ticino 2036: nessuno entra o esce dall’enorme muro di cinta che delimita il confine con il territorio italiano. Florence ha 23 anni, vive a Lugano con l’amica Tea ed entrambe lavorano in una pizzeria da asporto. Una sera la ragazza si trova a fare una consegna in un luogo singolare e sperduto. Un incontro scatenerà una serie di eventi, che coinvolgeranno lei e chi le sta attorno, in un piano per abbattere quel muro. Inizia così il racconto di Corvi+Topi, con un’immagine forte, che colpisce diritto allo stomaco e fa riferimento ad un tema di attualità politica e sociale indubbiamente importante. Ripensare la nostra identità, ragionare sull’attualità politica e sociale del territorio, scoprire il punto di vista giovanile leggendo un fumetto. Una vera sfida quella che

ci lancia Timothy Hofmann che, con i suoi dieci capitoli, parla di noi, del nostro passato, del nostro presente e di un futuro possibile. Perché hai scelto di innalzare un muro di confine, un simbolo che si lega a tante storie di separazione e segregazione?

Innalzare un muro è un’idea assurda. Talmente assurda che l’ho trovata perfetta da inserire nella storia. Il racconto è inteso come un invito alla riflessione e in quest’ottica il muro ha molti significati profondi e diretti. Ci sono due grandi muri a cui ognuno di noi pensa immediatamente, il primo è sicuramente il muro di Berlino. Un muro che ha diviso, una divisione voluta dalle ideologie, ma che la gente ha sempre cercato di superare. Quel muro oggi non esiste più, sono passati venticinque anni dalla sua caduta, ma ci ricorda che tutto cambia e spesso i cambiamenti sono repentini ed imprevedibili sia nel bene che nel male. L’altro grande muro è quello di Gaza, un muro che racconta la storia di un capro espiatorio e in questa veste è forse più simile al muro di Corvi+Topi.

molte, inutile nascondersi dietro un dito. Oggi un ragazzo che finisce gli studi ha grosse difficoltà a trovare lavoro. Per chi come me, e sono tanti, è uscito dal Ticino per completare il suo percorso formativo, il rientro è faticoso, anche se hai un Master in mano. Solitamente nella ricerca di un impiego quello che ti senti rispondere è che sei troppo qualificato, oppure che ti manca esperienza, quell’esperienza che non potrai mai farti se nessuno è pronto ad investire su di te. La situazione economica della città di Lugano poi è sotto gli occhi di tutti. Ecco allora che si costruiscono i capri espiatori, che si grida al cattivo frontaliere che ruba i posti di lavoro, senza ricordare che ad assumerli spesso e volentieri sono proprio coloro che gridano allo scandalo. Le regole andavano pensate, ma finora ha fatto comodo lasciar correre e adesso si cerca un approccio sicuramente scorretto oltre che tardivo. Si urla anche al recupero della tradizione in virtù di una colonizzazione straniera, un paradosso a mio modo di vedere.

Quali sono i capri espiatori di Lugano e del Ticino?

Il desiderio di tradizione e di elementi che identifichino il territorio emerge in maniera significativa nel tuo romanzo a disegni, dove sta quindi il paradosso?

Le problematiche del territorio sono

Oggi c’è tanta confusione, l’identi-

tà svizzera è in crisi, c’è la voglia di riaffermare la propria personalità e allo stesso tempo di reinventarsi. Il paradosso lo trovi soprattutto a livello politico, le nostre città sono state violentate, i simboli urbani storici e culturali vengono cancellati. Si tende ad un’omologazione, alla costruzione di archetipi del non luogo. Per me, che lavoro nel campo visivo, è evidente, non si può trasformare Lugano in una città che potrebbe essere ovunque nel mondo, senza una sua dimensione identitaria, perché questo fa perdere i punti di riferimento. In Corvi+Topi il paesaggio è profondamente mutato, ma ho resuscitato dei palazzi di valore storico e architettonico, come Villa Branca, cercando di dare al lettore una mappa del territorio attraverso i suoi elementi distintivi. Simboli che possano riconoscere e che li guidino nel racconto come le bricioline di pane di Hänsel e Gretel. Le mie briciole sono il Quartiere Maghetti, la statua di Tell o il parco San Michele. La storia non ci viene rubata, siamo noi che la stiamo svendendo. Le trasformazioni sociali non si fermano, la tradizione non è qualcosa di statico, ha una sua dinamica di cambiamento naturale. Anche questo è un tema su cui vale la pena riflettere. Alteriamo artificialmente i nostri luoghi simbolo

e altrettanto artificialmente vorremmo che il dialetto venisse insegnato a scuola. Non è così che potremmo mantenere vivo il background culturale ticinese, in questo sta il paradosso. Temi di grande attualità: perché hai deciso di scrivere questa novel?

Perché volevo rendere omaggio al Ticino e l’ho fatto facendo quello che so fare meglio: disegnare. Mi sono documentato, ho studiato, ho fatto ricerche storiche sulla città di Lugano e sul territorio in generale. Inizialmente ero un po’ titubante sull’opportunità di affrontare temi così delicati, ma mentre sviluppavo la narrazione mi convincevo che proporre un racconto fantasioso per trattare tematiche importanti poteva essere interessante. L’idea è maturata nel tempo, soprattutto negli ultimi due anni, mi ci è voluto un po’ per trovare il linguaggio più idoneo e lo stile giusto. Mi sono ispirato allo stile Mods, sottocultura inglese degli anni 50-70, soprattutto per delineare il carattere dei protagonisti, perché rappresenta al meglio un’emancipazione giovanile motivata da un forte desiderio di modernismo. Produrre un fumetto made in Ticino è stato un azzardo, un’opera decisamente poco comune, ma è stata una scommessa con me stesso e visto le vendite del primo numero direi una scommessa vinta.


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Società e Territorio

Favole contro gli stereotipi di genere Editoria La casa editrice Settenove pubblica libri europei per bambini e per adulti,

con storie che intendono modificare l’immaginario sul femminile e il maschile e rinnovare l’immagine della tradizionale divisione dei ruoli

Stefania Prandi Carlotta è una principessa che si è stancata del suo vestitino rosa e del suo guardaroba rosa pieno di abitini rosa. Vuole indossare magliette e pantaloni di altri colori: rossi, verdi, gialli, viola. Non sogna di baciare un rospo per trasformarlo in un principe azzurro ma spera di diventare una cacciatrice di draghi e di girare il mondo volando in mongolfiera. Ettore, invece, è un uomo muscoloso che lavora nel circo ed è capace di imprese straordinarie. Riesce a sollevare due lavatrici con un dito e a tirare un carrello pieno di leoni con i denti. La sua forza incredibile è ammirata da ballerine e saltimbanchi. Ettore ha anche una passione un po’ particolare: lavorare all’uncinetto. Un’attività che tiene nascosta per non essere preso in giro dagli altri che pensano che un vero macho non possa dilettarsi con ferri e merletti. E poi c’è Cloe, una bimba di sei anni che adora fare cose «da maschi». Vuole giocare con i suoi compagni a calcio, si veste con le magliette dei supereroi e ha un punching ball coi guantoni per sfogarsi «come Rocky» quando è arrabbiata. Cloe va a scuola con la cartella di Spiderman che tutti, ad eccezione dei suoi genitori, considerano però non adatta a una bimba. Carlotta, Ettore e Cloe sono i protagonisti dei libri C’è qualcosa di più noioso di essere una principessa rosa di Diaz Reguera Raquel, Ettore, l’uomo straordinariamente forte di Magali Le Huche, Mi piace Spiderman di Giorgia Vezzoli, pubblicati da Settenove, una casa editrice indipendente che ha come obiettivo il contrasto alla violenza e alla discriminazione contro le donne. Settenove pubblica in italiano il meglio della letteratura infantile europea – in particolare francese e spagnola – scegliendo libri che mettono in discussione gli «stereotipi di genere». Con quest’ultimo termine si intendono i pregiudizi che portano a pensare che esistano ruoli «per natura» femminili e maschili. Credenze che fanno sì, ad esempio, che le donne vengano considerate maggiormente propense alla sfera emozionale, alla cura dei figli e della casa e meno inclini al lavoro, alla carriera, al comando, alla scienza e alla tecnologia degli uomini. «Si tratta di modi di pensare apparentemente in-

Pagina da C’è qualcosa di più noioso che essere una principessa rosa? di Raquel Díaz Reguera.

nocui che invece hanno conseguenze pesanti sulla vita delle persone. Infatti i pregiudizi creano ruoli sociali rigidi, difficili da scardinare, che portano a discriminare e a stigmatizzare chi non li rispetta. Da qui, spesso, il passo alla violenza è breve» spiega la fondatrice di Settenove, Monica Martinelli.

Protagonisti di queste storie sono bambine che amano i supereroi e uomini forzuti che nel tempo libero adorano rilassarsi con l’uncinetto La casa editrice ha sede nelle Marche, in provincia di Pesaro Urbino. Prende il nome dal 1979, anno in cui le Nazioni Unite hanno adottato la Cedaw, la Convenzione Onu sull’eliminazione di

tutte le forme di discriminazione nei confronti della donna, che costituisce ancora oggi il parametro di riferimento per la condizione femminile negli Stati aderenti. «Ho deciso di avviare questa iniziativa perché ho sempre avuto una vita esemplare in termini di uguaglianza di genere», racconta Martinelli, che ha iniziato la sua avventura un anno fa con un finanziamento di qualche migliaio di euro. «Quando ero piccola mio padre dava una mano in casa cucinando e facendo le pulizie nonostante avesse un lavoro a tempo pieno e mia madre aveva la sua carriera. Anche con mio marito ho un rapporto di supporto reciproco e di rispetto. Quando mi sono accorta che il mondo esterno non funzionava esattamente come la mia vita ho deciso di fare qualcosa. Ho messo insieme le mie diverse competenze, una laurea in giurisprudenza, un lavoro a fianco di chi contrasta la violenza sulle donne, varie esperienze da illustratrice, e sono partita. Sono soddisfatta di come sta andando perché c’è un baci-

no di utenza ampio interessato ai miei libri. Ci sono sia donne sia uomini tra i lettori, molti dei quali fanno gli insegnanti». Tra i libri pubblicati ce ne sono anche per adulti. L’ultimo arrivato, in ordine di tempo, è 40 settimane. Cronaca di una gravidanza di Vives Xiol Glòria, una graphic novel che racconta le esperienze di una donna incinta e del suo compagno: l’oracolo del test, la radicale trasformazione del corpo femminile, il dolore dell’aborto spontaneo, le contraddizioni, le paure, le code in ambulatorio, le dicerie popolari, i consigli di «chi c’è già passato», i discorsi degli amici, le liste infinite delle cose da fare. Con la leggerezza dei fumetti il libro rompe i tabù che circondano la gravidanza e smonta gli stereotipi che possono influenzare l’intera vita di una coppia. Sempre di un figlio in arrivo, ma pensato per i lettori più piccoli, si occupa Papà aspetta un bimbo! di Frédérique Barroux e Loew. Dai primi mesi di

attesa fino al momento della nascita, un padre racconta in prima persona le proprie insicurezze: certi giorni teme di restare solo, altri di non essere all’altezza di quel che sta per accadere. Alcune notti sogna di trasformarsi in un cavalluccio marino che culla il figlioletto nel pancione. Con testi e immagini delicate il testo abbatte i luoghi comuni sulla famiglia, puntando sulle peculiarità della figura paterna che non viene rappresentata come surrogata della madre, – un «mammo» – ma come quella di un genitore dalla cui presenza il bambino può trarre grandi benefici. A metà novembre è prevista una nuova uscita: Io sono così, di Fulvia degli Innocenti e Antonio Ferrara, diario illustrato di una bimba che descrive che cosa le piace fare senza preoccuparsi del fatto che i giochi che sceglie siano «da femminuccia» oppure «da maschietto». Informazioni

www.settenove.it

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Silvia Borando, Forme in gioco, Minibombo. Da 2 anni e mezzo Esprit de finesse et esprit de géométrie, per dirla con Blaise Pascal. È un albo per i più piccoli delizioso e molto geometrico. Cuore divertente, razionalità elegante. Ideato, scritto e illustrato da una giovane creativa italiana («autrice» sembrerebbe riduttivo), Silvia Borando, responsabile del progetto editoriale Minibombo. Per conoscere Minibombo, vi rimandiamo al sito, che davvero merita una visita: www. minibombo.it. Qui ci limitiamo a parlare di Forme in gioco. Le «forme», protagoniste assolute della storia, sono triangoli, quadrati e cerchi. Rossi i triangoli, gialli i quadrati e blu i cerchi. E che gioco fanno? Quello di creare figure, e quindi storie. Combinandosi tutti insieme creano case, castelli, alberi, automobili, un treno e persino un razzo. Figure semplici e immediate, che prendono vita sulla pagina e invitano i piccoli lettori a partecipare al gioco, anche perché alla fine il razzo porta i triangoli, i quadrati e i cerchi

su un altro pianeta, e gli extraterrestri che li accolgono sono… trapezi, rombi e pentagoni, pronti per nuove giocose creazioni! La Borando accoglie e fa propria la lezione dei migliori artisti del libro per bambini, così ben rappresentata in Italia da Bruno Munari, e la attualizza con notevole freschezza. Viene spontaneo, per un libro così, pensare a una trasposizione digitale e interattiva, e infatti Forme in gioco

è sia un libro cartaceo, sia un’App disponibile su App Store e Google Play. E non è l’unica App abbinata a un libro Minibombo: l’App da Il libro bianco, di Borando, Pica e Clerici, ha vinto quest’anno il prestigioso premio Andersen come Miglior Creazione Digitale. Loredana Frescura, Il pallone è maschio, la palla è femmina, Gruppo Editoriale Raffaello. Da 8 anni È una storia che parla di calcio. E la protagonista è una bambina. Già questo basterebbe a conferire valore al libro. Un romanzo che segna il primo goal abbattendo uno stereotipo diffusissimo, della serie «le storie di calcio sono per lettori maschi e hanno protagonisti maschi». Questa invece è una bella storia di calcio per tutte e per tutti, e l’io narrante è quello di Carlotta, quasi nove anni e grande tempra in campo e nella vita. Anche perché la sua, di vita, non è facilissima, visto che deve fare i conti con la nostalgia per un

papà che non c’è più. Appassionato di calcio come lei, lavorava in un’agenzia viaggi e un brutto giorno un incidente l’ha mandato in cielo «a far viaggiare gli angeli». Ma Carlotta ne avrebbe tanto bisogno sulla terra, «gli angeli tra l’altro non avevano bisogno di uno che gli prenotava aerei e navi perché loro hanno le ali». Per fortuna c’è la sua fantastica mamma, «che si è fatta i capelli

rossi da un mese e ha fatto aggiustare la Vespa 125 di papà». Con la Vespa arancione, che chiama «Calabrone», la mamma accompagna Carlotta agli allenamenti e alle partite. Quando può, naturalmente. Se ha i turni di lavoro, sono i genitori di Giovanna e Alberto ad accompagnarla. Giovanna è la migliore amica di Carlotta, portiera provetta, e suo fratello Alberto, anche lui in squadra – nella squadra mista, categoria Pulcini, del loro paese – è un po’ il suo innamorato. Batticuore, amicizia, e soprattutto pallone. Anzi palla, al femminile. In campo ogni volta è un’avventura: nelle partite ci vuole coraggio e ci vuole lealtà. Queste doti a Carlotta non mancano, tanto più se s’ispira guardando le nuvole in cielo, che le ricordano il suo papà. E quando, per un’improvvisa mancanza di giocatori, la squadra rischierà di doversi ritirare dal torneo, Carlotta avrà un’idea geniale, che abbatterà un altro stereotipo molto diffuso… chi ha detto che «la danza e il calcio sono ambiti incompatibili»?


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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Guadi, imperi, adulterii L’Altropologo non saprebbe certo dire quanti visitatori abbia il Museo del Fronte del Rubicone nel comune di Roncofreddo, provincia di CesenaForlì, Romagna, Italia. L’esposizione è dedicata ai fatti bellici che nell’autunno del 1944 segnarono lo sfondamento della Linea Gotica e l’inizio della ritirata finale delle truppe tedesche oltralpe. Un fatto comunque è certo: le persone in grado di dire cosa successe sul Rubicone – corso d’acqua peraltro insignificante – nel ’44 sono incomparabilmente meno di quante siano in grado di dire cosa successe invece quell’altra volta – secoli prima – che il Rubicone fu guadato in senso inverso da Giulio Cesare alla guida della fedele Legio XIII Gemina. Era il 10 gennaio del 49 avanti Cristo, ed il gesto rivestiva un alto valore simbolico. Il Rubicone segnava infatti il confine fra la Gallia Cisalpina e l’Italia in senso proprio. Per legge, nessun generale poteva varcare quel confine alla guida di un esercito senza che questo costituisse un attacco diretto contro l’Urbe. Cesare

era leader designato dei Populares, la fazione «di sinistra» opposta agli Optimates, la classe aristocratica che vedeva nell’ascesa di Cesare una pericolosa deriva populista. I tribuni Antonio e Cassio si schierarono con Cesare, subito salutato come Salvator Patriae dalle masse dell’Urbe e questo dette origine alla guerra civile al termine della quale Cesare sarebbe emerso prima come Dictator e poi come Imperator. Era la fine della Roma repubblicana e l’inizio di quella imperiale. Ma, come ben sanno i lettori più competenti, l’altropologia lascia volentieri il compito di discettare sui massimi sistemi alle discipline alleate per occuparsi degli aspetti marginali e minori delle Grandi Date. Cosa disse veramente il futuro primo Cesare al momento di guadare il Rubicone? Un amico, giocoso come tanti romagnoli, sosteneva che avrebbe esclamato un «Boia di un mondo, com’è fredda!» – naturalmente in stretto dialetto romagnolo felliniano: francamente improbabile. Dubbia per quanto fosse, questa

versione delle parole famose si riferiva ovviamente a quel «Il dado è tratto» che tutti conoscono anche se non tutti poi sanno collocarlo storicamente. Anche perché – sia detto a difesa di coloro che ignorano – gli stessi filologi non si sono mai messi d’accordo su cosa veramente Cesare avrebbe potuto dire. Nei paesi latini – Italia e Francia – prevale infatti la versione «alea iacta est»: il dado è tratto, al singolare – nel senso di gettato in maniera non più revocabile. In Gran Bretagna, invece, prevale la versione «alea iacta sunt»: «i dadi sono tratti», al plurale. Fatto sta, e questo è quanto interessa all’altropologia, che il detto si ripete ancor oggi forse come il più citato dei detti latini consacrati dalla cultura popolare. Anche se poi, magari, chi lo dice non ha la benché minima idea di cosa voglia dire di preciso: così infatti comprova l’Altropologo. Qualche settimana addietro, in un’osteria a Nord del confine del Rubicone verso le Valli di Comacchio, Comune di Sant’Alberto di Romagna, si era accesa una serrata

discussione fra un gruppo di bevitori in pausa briscola e in avvento di un nuovo mezzo litro di Sangiovese. «Alea iacta est» – aveva solennemente dichiarato uno dei contendenti deciso a sostenere la controversa decisione di XY – personaggio noto in paese – di abbandonare il tetto coniugale avendo trovato la coniuge a giacere con l’amante quell’unico giorno in trentacinque anni di matrimonio che si era dimenticato le chiavi a casa ed era dovuto tornare per prenderle. A chi controbatteva che XY stesse esagerando, in quanto dopo tutto lui stesso negli stessi trentacinque anni ne aveva combinate di cotte e di crude, il Nostro continuava a ripetere il detto latino. Sperava forse che il fatto stesso «di dirla in latino»conferisse alla sua opinione sul fattaccio un’autorità incontrovertibile? «Voi potete dire quello che volete, ma in queste cose alea iacta est» – continuava a ribadire, sicuro ed autorevole. La disputa andò avanti per qualche minuto, fino a quando uno degli oppositori, esasperato dall’ultima

reiterazione del mantra cesareo sbotta, rigorosamente il dialetto così come era stata l’intera chiamiamola conversazione (imprecazioni omissis): «E poi dimmi tu cosa c’entrano tutti quegli agli e quelle iatture che continui a tirar fuori!». Alea/Agli, Iacta/Iatture: questa la tabella delle traduzioni di una situazione che rischiava di degenerare non fosse stato per la tempestiva consegna del mezzo di Sangiovese. Come poi succede secondo quel carpe diem istantaneo del latinorum proprio della cultura popolare, l’istanza della discordia fu nell’occasione dimenticata a favore di un nuovo tema proposto dalla coppia di briscola vincente. Morale della favola? Altropologicamente parlando, la cultura popolare, la stessa vox populi che per vie misteriose ed ancora inesplorate, decreta nel 49 a. C. la sacralità di Caesar Imperator è poi la stessa che ne preserva, a distanza di secoli, la memoria. Beninteso: a suo uso e consumo. Agli come Dadi. Lancio dei medesimi come iattura. O no?

o di una qualsiasi attività espressiva. Cerchi, per quanto possibile, di aprire le porte di casa al mondo in modo da allentare il vostro legame che, col procedere degli anni, potrebbe diventare soffocante. Tutto quello che farà per lei, per realizzarsi e sentirsi appagata, lo farà anche per lui. In Ticino vi sono innumerevoli offerte di socialità e di cultura, scelga quella che meglio corrisponde al suo temperamento e ai suoi interessi e si organizzi per frequentarla. Vedrà che, pur impegnandosi di più, si sentirà meno stanca. La donna che fa solo la mamma rischia di cadere in overdose e di drammatizzare quelle che sono normali difficoltà. Esponga all’insegnante i problemi che ci ha raccontato e le chieda aiuto e consiglio. Nella sua lettera, cara Ivana, non si parla della sua vita, dei rapporti che lei ha avuto con sua madre e col padre di suo figlio. Per capire il presente occorre riflettere sul passato, non per rivangarlo, per aprire un processo ai nostri genitori e ai nostri partner

(sarebbe inutile e doloroso), ma per non ripetere gli errori che ci hanno fatto soffrire. Vi è infatti, nella nostra mente, una spinta a rivivere, in modo attivo, quello che abbiamo subito in modo passivo. E può anche darsi che il compito di pareggiare i conti sia affidato ai figli. Se così fosse, Diego sarebbe aggressivo per vendicare i torti che le sono stati inferti dalla vita. Come vede, il fatto di essere in due non semplifica la situazione ma richiede più attenzione e sensibilità. Infine non si disperi, nelle vostre difficoltà non scorgo nulla di irreparabile purché proceda con fiducia in se stessa e in suo figlio. Non dimentichi che, dopo la pioggia, torna sempre il sereno.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi L’epidemia della mamma cattiva Cara Silvia, sono rimasta impressionata dalla vicenda della mamma, Veronica, che in Sicilia ha ucciso, non si sa perché, il figlio Loris di otto anni. Anch’io ho un figlio della stessa età, Diego, e spesso mi sento stanca e stressata di doverlo crescere da sola. A scuola le maestre l’hanno preso di mira perché è troppo vivace, le altre mamme lo incolpano di essere violento con i loro figli e i compagni e le compagne lo lasciano in disparte. Risultato: Diego è teso, irritabile, impaziente, non gli piace studiare, va a scuola mal volentieri e, se lo sgrido, mi risponde male. Ieri, per un rimprovero sacrosanto, mi ha mandato a quel paese. Ma io, da sola, cosa posso fare? Sono disperata. / Ivana La sua lettera non è l’unica che ho ricevuto su questo tema. Il caso di Loris è evidentemente un caso estremo e ancora non sappiamo bene come siano andate le cose. Ma, comunque, ha posto il problema, spesso sottovalutato, delle mamme che si trovano a crescere

da sole un figlio maschio. Le situazioni sono diverse: il marito può essere lontano per lavoro, perché non vive bene la separazione, perché non riesce a sentirsi padre o perché non c’è mai stato. Sia come sia, il rapporto a due può essere molto difficile. È vero che un tempo era frequente che una donna rimanesse genitore unico, ma allora la famiglia era estesa e la comunità coesa. Ora invece può accadere che nessuno sostenga la madre rimasta sola con un unico figlio e non sempre la giovane donna è in grado di svolgere il doppio ruolo, di fare al tempo stesso da papà e da mamma. La prima cosa da fare è evitare di idealizzare la figura materna, di porsi un obiettivo di perfezione. Anche la mamma migliore del mondo vive momenti di stanchezza, d’irritabilità, di rimpianto e di rancore. Ed è bene ammetterlo senza sentirsi in colpa, anzi chiedendo aiuto come lei ha fatto inviandoci questa lettera. Spieghi a Diego la vostra situazione, gli confidi che talvolta si sente stanca

e demoralizzata e stabilisca con lui un patto di solidarietà. Insieme potrete procedere meglio perché l’unione fa la forza e avete bisogno l’uno dell’altro. Al tempo stesso cerchi di individuare una figura maschile che possa svolgere una funzione paterna: un nonno, uno zio, un amico di famiglia? All’età di Diego, l’infanzia sta finendo e si pone l’esigenza di assumere un’identità maschile che mamma e maestra da sole non possono offrire. Suppongo che il bambino assuma atteggiamenti aggressivi per superare un senso di inferiorità rispetto a chi il papà ce l’ha e che, menando le mani, voglia dire ai compagni: «guardate che ci sono anch’io e conto qualcosa». Non so se suo figlio pratichi regolarmente uno sport, ma è importante che si senta appartenente a una squadra, che possa usare il pronome personale «noi» invece del solito «io» e, perché no, che si senta accettato e valorizzato dall’allenatore. Lo stesso vale per l’apprendimento di uno strumento musicale

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Se il plurilinguismo è un farmaco: svizzeri favoriti? Chi parla più lingue non solo se la cava meglio nella vita sociale e professionale ma dispone di un’efficace arma terapeutica: che protegge nientemeno che dall’Alzheimer. Come si è letto, nei giorni scorsi, ricerche condotte presso la York University di Toronto avrebbero dimostrato che fra i plurilingui il temuto morbo si manifesta con minore frequenza e, comunque, più tardi e in forme meno gravi e veloci. La notizia, naturalmente, è stata accolta con beneficio d’inventario suscitando giustificati dubbi e ironie negli ambienti scientifici, impegnati da decenni nella lotta per identificare le origini, sempre sfuggenti, di questo male del secolo. Realisticamente, la sconfitta dell’Alzheimer rimane un traguardo ancora lontano. Con ciò, la correlazione fra capacità linguistiche e attività cerebrali è oggetto di indagini interessanti: insomma il plurilinguismo come farmaco non è un’ipotesi

completamente campata in aria. È rivelatrice, in proposito, l’attenzione che, a questa notizia, in apparenza assurda, ha dedicato uno studioso e divulgatore quale Massimo Piattelli Palmarini, docente di scienze cognitive e linguistica. In un recente commento sul «Corriere della Sera», spiega, infatti, il nesso che, effettivamente, esiste fra linguaggio e specifiche aree cerebrali. Lo confermano le osservazioni di altri gruppi di ricercatori universitari: studiando una nuova lingua «si allargano zone fondamentali per il linguaggio come l’area di Broca, l’ippocampo, fondamentali per il consolidamento della memoria». Quest’ultima, come si sa, è parte in causa nell’Alzheimer. Si fa strada, dunque, fra neurologi, psicologi, filologi, la convinzione che bilinguismo e plurilinguismo possano influire positivamente sullo sviluppo intellettivo dei bambini e infine sulla personalità degli adulti.

Al di là dei presunti e forse illusori effetti terapeutici nei confronti della demenza senile, sta di fatto che sapersi esprimere in diverse lingue costituisce un privilegio di cui proprio noi andiamo fieri, a giusta ragione. Siamo cittadini di un Paese che, nel suo quadrilinguismo, s’identifica tanto da farne un simbolo; che, però, sta perdendo il suo smalto tradizionale. Gli idiomi nazionali, riconosciuti sul piano ufficiale e praticati nei rapporti umani, soffrono sotto l’urto dell’inglese. Si moltiplicano i segnali di una resa alla nuova lingua d’obbligo: fra Zurigo e Ginevra, negli ambienti finanziari, si comunica come vuole la City londinese. Nelle nostre scuole, francese e tedesco sono diventate materie opzionali mentre, oltre Gottardo, l’italiano facoltativo è spesso soppiantato dallo spagnolo. Insomma, il tipico talento elvetico per le lingue, oggetto di ammirazione all’estero, va scomparendo?

Il timore non è infondato. È uno dei tanti aspetti di un cambiamento, per certi versi incontrastabile, di cui ha fatto le spese quello che, sino a un paio di decenni fa, era un automatismo: per un normale ticinese, apprendere il francese e il tedesco, e magari un’infarinatura di Schwiizerdütsch, figurava fra gli obblighi della stessa sopravvivenza. Ciò che poteva poi sollecitare curiosità e aperture culturali e umane. Viene spontaneo chiedersi se l’indebolimento del plurilinguismo non rappresenti una perdita di valori irrimediabile. L’interrogativo sta, infatti, provocando preoccupazioni e perplessità, non però unicamente di segno negativo. Come emerge da uno studio del Fondo nazionale per la ricerca, si assiste a uno spostamento: da una Svizzera quadrilingue verso una Svizzera plurilingue. In altre parole, gli abitanti della Confederazione continuano, spesso, a esprimersi in idiomi diversi che, però,

non sono più quelli di una volta. A una lingua nazionale elvetica si affianca, in molti casi, una lingua d’origine: lo spagnolo, il portoghese, il turco, l’albanese, il croato, il serbo. Ma c’è di più. Si deve, infatti, citare il cosiddetto «mistilinguismo», di cui si è occupato, per la Treccani, il linguista Bruno Moretti. Il termine, del resto, ne rivela chiaramente il significato: è una commistione di linguaggi, che avviene spontaneamente, sul piano popolare, fra persone che condividono una stessa situazione. È stato il caso dell’italoamericano, agli inizi del 900, e prima ancora del pidgin, e del creolo, all’epoca del colonialismo. In Svizzera, l’immigrazione ha lasciato, e continua a lasciare, tracce nel linguaggio: in particolare, i giovani italiani, della seconda e terza generazione, hanno creato una miscela fra svizzero tedesco e dialetti d’origine, da cui, a volte, nascono persino neologismi che s’impongono nel linguaggio corrente.


PUNTI. RISPARMIO. EMOZIONI.

DAS ZELT: UN’ESPERIENZA PER GRANDI E PICCINI Divertente, sorprendente, entusiasmante: per l’inizio dell’anno «Das Zelt» – Chapiteau PostFinance sarà ospite a Lugano. Ti aspettano Clown Dimitri, Family Circus, Comedy Club 15 e Philipp Fankhauser live on Tour. Quando: dal 28 gennaio al 1° febbraio 2015, Lugano Prezzo: da fr. 20.– a fr. 55.20 invece che da fr. 25.– a fr. 69.–, a seconda dello spettacolo e della categoria Osservazione: massimo 4 biglietti per carta Cumulus Informazioni e prenotazione: www.cumulus-ticketshop.ch

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Lo spettacolo Personaggi riunisce alcuni tra i volti creati da Antonio Albanese: dall’immigrato che non riesce a inserirsi al Nord, all’imprenditore che lavora 16 ore al giorno, dal sommelier serafico nel decantare il vino, al candidato politico poco onesto, dal visionario Ottimista «abitante di un mondo perfetto» al tenero Epifanio e i suoi sogni internazionali.

Allevi porterà sul palco «Piano Solo» con le melodie entrate ormai nell’immaginario musicale di tutto il suo pubblico e che lo hanno portato ad essere considerato l’enfant terrible della Musica Classica Contemporanea: da «Go with the flow», a «Vento d’Europa», senza dimenticare «Secret Love» e altri brani del suo ultimo album per pianoforte solo «Alien» ma eseguirà anche brani storici appartenenti ai suoi primi album, come «Cassetto» e «Filo di perle», che non esegue in concerto da oltre 15 anni.

Quando: 26 gennaio 2015, Lugano Prezzo: da fr. 48.– a fr. 64.40 invece che da fr. 60.– a fr. 80.50, a seconda della categoria Informazioni e prenotazione: www.cumulus-ticketshop.ch

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Ambiente e Benessere Viaggio nell’Asia centrale Un unico saliscendi pietroso da oasi in oasi, tra muretti e scacchiere degli orti d’arlecchino

La passione per le bici si fa verde In svizzera si contano oltre 230mila e-bike in circolazione: l’ottimo risultato richiede ora adeguate misure di sicurezza

Nel regno di Bacco Con il nuovo anno si rinnova anche la rubrica dedicata al vino che esplorerà nuovi territori

Agonismo equestre Reportage sui cavalli da competizione, al Concours Hippique di Ginevra

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Sulla via del potenziamento umano Scienza «Human enhancement»

è il tentativo di usare tutte le tecnologie possibili per andare oltre i limiti del nostro corpo e del nostro cervello

Lorenzo De Carli Nel 2013 uscì Elysium, un film di fantascienza scritto e diretto da Neill Blomkamp, con protagonisti Matt Damon e Jodie Foster. Siamo in un mondo distopico e Damon è Max Da Costa, un operaio che lavora nella principale ditta produttrice di robot del pianeta. Ex ladro d’auto pregiudicato, Da Costa si rende disponibile per una missione e a questo scopo viene equipaggiato di un potente esoscheletro meccanico collegato al suo sistema nervoso (vedi foto). Si tratta di una trasformazione abbastanza tipica dei film di fantascienza, dove – accanto agli androidi – possono coesistere umani per così dire «potenziati», ai quali la tecnologia ha fatto fare un salto evolutivo, rendendoli adatti a vivere in un mondo nel quale, altrimenti, sarebbero scomparsi perché totalmente inadeguati. Come sempre, la fantascienza, per un verso anticipa se possibile ciò che è solo in fase di studio e che, forse, mai potrà essere realizzato; mentre per l’altro verso non fa che modificare la realtà di tutti i giorni, rendendola irriconoscibile perché proiettata in un contesto narrativo estraneo alla nostra quotidianità. Gli esoscheletri sono uno dei tanti accorgimenti del più generale programma di potenziamento delle nostre capacità denominato Human enhancement, un insieme di tecnologie, sia naturali sia artificiali, sviluppate allo scopo di andare oltre le limitazioni del nostro corpo e delle nostre funzioni cerebrali. Se pensiamo a quanti di noi sono state applicate ginocchia o anche artificiali, o quanti stanno portando apparecchi ortodontici o tutori per gambe o schiena, ci rendiamo conto che – per nostra fortuna – tante terapie di cui disponiamo hanno fatto della fantascienza la nostra normale esistenza; tuttavia il programma di Human enhancement, sebbene faccia ampio ricorso a tutto quanto usato in ambito terapeutico,

aspira a proiettarci oltre il normale funzionamento del nostro corpo, modificandolo e potenziandolo. Le tecnologie suscettibili di essere usate sono tante, alcune già disponibili, altre emergenti, altre ancora – invece – solo prefigurate. Le tecnologie riproduttive sono del primo tipo, nel quale, possiamo anche includere tecnologie che operano per modificare il nostro aspetto fisico: chirurgia plastica o tecniche odontoiatriche, per esempio; oppure sostanze dopanti; o tecnologie funzionali come protesi di vario tipo; o ancora tecnologie mediche, con cui impiantare pacemaker (per esempio) o rimpiazzare organi. Ci sono, poi, tecnologie per modificare gli stati mentali – come tutte le sostanze usate in psichiatria, ma anche sostanze cosiddette nootropiche, ricercate proprio perché capaci di aumentare le capacità cognitive. Nella prospettiva delineata dal progetto Human enhancement fanno parte di questo stesso gruppo tutte le tecnologie della comunicazione, che ci permettono di estroflettere la memoria e «pensare in rete». Impianti neurali, nanomedicina, interfacce cervello-computer, neurotecnologie, terapie geniche, ecc. fanno parte del secondo gruppo di tecnologie, solitamente definito «emergente» e sempre al centro del dibattito etico perché spostano sempre più in là non solo i limiti della ricerca, ma anche i limiti della nostra capacità di assimilarle al modo in cui ci pensiamo nel mondo. Con il terzo tipo di tecnologie, invece, siamo praticamente nell’ambito della fantascienza, dove è lecito pensare di poter fare l’upload della nostra mente in un supporto diverso dal nostro cervello. Siccome proiettato in questa direzione, il programma di Human enhancement viene talvolta definito come transumanesimo: un insieme di saperi che si propone l’uso di tutte le tecnologie possibili per rendere più estesa e migliore la vita degli esseri umani. Concetti come quello di Human

Matt Damon nei panni robotici di Max Da Costa. (dal film Elysium)

enhancement o programmi come quello definito con il termine «transumanesimo», inevitabilmente, accrescono le preoccupazioni etiche già espresse in ordine alla manipolazione genetica. In un libro importante, intitolato Geni a nudo. Ripensare l’uomo del XXI secolo, Helga Nowotny e Giuseppe Testa avevano sottolineato un aspetto importante spesso trascurato: la definizione di ciò che riteniamo essere «umano» o «naturale» varia nel tempo e rispetto ai diversi contesti culturali. La questione di che cosa è «umano» e «naturale» è centrale. Se programmi come quello di Human enhancement ci spaventano è perché ci sembrano modificare la nostra natura. Eppure, basterebbe osservare come siamo cambiati, da quando abbiamo lasciato l’Africa. Ci sono stati periodi, nei quali abbiamo convissuto anche con cinque diverse specie di ominidi. Sicuramente ci sono stati scambi genetici. Documentato è, per esempio, lo scam-

bio genico con l’Homo neanderthalensis. Che cosa significa? Che qualcuno di noi, oggi, è meno umano? Pensiamo a come si è modificato il colore della nostra pelle, a mano a mano che c’insediavamo a diverse latitudini. Spingendoci verso Nord, avevamo bisogno di minor melanina e una più efficace capacità di produrre vitamina D. Cosa significa? Che abbiamo abbandonato la nostra vera natura perché abbiamo cambiato colore della pelle o modificato fisionomia per meglio sopravvivere in nuove condizioni ambientali? Abbiamo continuamente manipolato noi e gli ambienti in cui c’insediavamo (per esempio attraverso la domesticazione di piante e animali), talvolta anche modificando l’espressione dei nostri geni, come è successo alle popolazioni del Nord, che hanno evoluto la capacità di continuare a nutrirsi di latte anche dopo lo svezzamento perché in grado di continuare a produrre l’enzima lattasi.

La questione, quindi, non è il fatto di essere fedeli a una «natura umana», che in una forma immutata non è mai esistita. La questione è invece il fatto che, oggi, disponiamo di una «cassetta degli attrezzi» tecnologicamente sempre più avanzata e siamo nelle condizioni di progettare noi stessi. Non si tratta di una discontinuità rispetto alle tendenze del passato, bensì di un’accelerazione che ci sconcerta. Ciò che ci mette a disagio è la necessità di prendere decisioni in merito al nostro futuro, assumendocene la totale responsabilità – quando, finora, la lentezza dei mutamenti ci ha illuso di ritenere naturale ciò che, invece, è stata una conseguenza di nostre scelte. Ovviamente, resta l’opzione di accettare tutti i nostri limiti attuali: la caducità della nostra esistenza, la casualità con cui sono distribuite le malattie, ecc. Ma è davvero possibile porre freno alla conoscenza? Non sarebbe, forse, contro la nostra natura?


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Ambiente e Benessere

Dai monti celesti alle montagne nere Viaggiatori d’Occidente Su e giù da alti colli, passi e valli tra Kirghizistan, Cina e Pakistan Paolo Brovelli, testo e foto Monti, altipiani e valli; pascoli, yurte e cavalli. A quattromila metri con lo sguardo che scivola sull’erba umida o s’incaglia su un picco, su una cordigliera. È quassù che s’appollaia il Kirghizistan, la terra dei Kirghizi. Periferia estrema del vecchio dominio sovietico, questa Svizzera centro-asiatica è l’inizio del mio viaggio, un viaggio in tre mondi diversi. Guardo la cartina verso sud, la mia meta. Il percorso prende avvio da quel residuo di mare interno che dai tempi antichi è chiamato Turkestan, valica contrafforti rocciosi e va ad arenarsi nella fertile pianura del Punjab, la terra dei Cinque fiumi, a Lahore.

«E tra i canyon, cioè nelle pieghe del tetto del mondo, le genti del posto hanno costruito regni e castelli, riuniti sotto la bandiera pakistana solo cinquanta anni fa» La scoperta di quest’angolo d’Eurasia, solcato nei secoli dei secoli da migliaia di tribù nomadi, porta con sé la conoscenza di gente che ha studiato il russo a scuola, ha usato il rublo e per tanto tempo ha guardato a Mosca come al caput mundi. Maledetta, benedetta Mosca. Anche sugli altipiani, tra verdi pascoli di infinite mandrie di cavalli, spuntano campi di tende fumanti di kumys, il latte di giumenta. Qui si passa l’estate, tra le transumanze. Dove una

La Torre di Burana in Kirghizistan - .

yurta è casa, col pavimento di tappeti e le pareti di tessuti. E i mobiletti logori, ai quali manca una zampa. E il focolare. Sui «monti celesti» del Kirghizistan ha scorrazzato l’eroe Manas, le cui gesta zampillano tra le parole degli akyn, i cantastorie, come le mille leggende e i miti che aleggiano su questo piccolo Paese. Manas, sgomitando tra le orde dei cugini turchi e i possenti regni del Catai, ha guadagnato alla sua patria questo lembo di terra. Fu in un’epoca fuori dal tempo, quando il greve moncone del minareto di Burana, nell’antica capitale dei karakhanidi, ancora non sorgeva. Ben prima dell’anno Mille, calando profugo dalle steppe mongole e dalla taiga siberiana. Come loro, calo anch’io. Scappo da Biškek, capitale ristrutturata ma sempre scialba, rendo onore alle terre di Manas e scollino. Ed è subito Cina. La collina è un monte. È un passo a 3900 m. È in fondo a una pista bianca lungo il filo spinato, lascito d’altri tempi sempre pronti a ritornare. Di qui c’era l’Unione sovietica, di là c’è ancora la Repubblica popolare cinese. Spunta irta della sua burocrazia, delle ispezioni, dei soldati senza sorrisi, orgogliosa dei palazzetti lindi nelle lande secche della sempre meno autonoma provincia dello Xinjiang, la terra degli uighuri, pure turchi e islamici, come i kirghizi, ma non così liberi di esserlo. Specie dacché onde di cinesi hanno cominciato a sciabordare dall’est e ad annacquare il fiero retaggio del sangue loro che, sgorgato tra genti mongole del Nord, da secoli circola per le vene del bacino del Tarim e del deserto del Taklamakan. La strada scivola dal passo fino a valle, accanto a contadini e pastori che rincasano con le zappe e con le bestie.

La statua di Mao in Cina a Kashgar.

Fortezza di Baltit in Pakistan nella Valle dell’Hunza.

Scivola fino a Kashgar, da secoli estremo avamposto dell’Impero di mezzo sulla Via della seta, col suo celeberrimo mercato domenicale: magnete per mercanti e turisti, ora il solerte governo pechinese lo ha canonizzato rendendolo permanente, un enorme bazar coperto e sempre attivo. Avrà guadagnato affari, ma di certo ha perso fascino. Meno male che è rimasto il mercato del bestiame: schiere di pecore, cavalli, cammelli battriani, yak in un deserto di periferia tra i pioppi, lontano dai nuovi fiumi di traffico e dagli sfavillanti centri commerciali che assediano il bel centro storico (in «ristrutturazione» alla cinese), tra i quali persino l’enorme Mao Zedong di Piazza del Popolo sembra aver timore d’abbozzare il suo ancora eminente saluto. A me però arriva, il saluto. Lo ricambio, prima di ripartire verso sud,

sulla strada del Karakorum, la Karakorum Highway, che da qui sale fino al passo Khunjerab (4872 m) e poi ridiscende in terra pakistana fino quasi alla capitale Islamabad. Più di mille chilometri di cui almeno la metà tra i monti, anche qui. Le Montagne nere: sette, ottomila metri, che ti senti una formica sull’altare di San Pietro su quella strada che serpeggia in bilico tra l’Indo grigio d’alluvione e le nuvole bigie di monsone. È un riassunto dei sentieri e delle mulattiere che da millenni hanno permesso a uomini e idee di far la spola tra le due realtà più significative dell’Asia: il mondo cinese e quello indiano. Approdo subito nella valle del fiume Hunza, perla sul filo di questa strada d’incanto che, già Via della seta, è ora una Via del petrolio, quello che vi transita dal porto pakistano di Gwadar,

Al bazar di Kashgar in Cina.

sul Mare Arabico; ceduto nel 2013 ai cinesi per i traffici col Golfo Persico e il Mediterraneo. Io, nel saliscendi pietroso dei Territori del nord, d’oasi in oasi, tra i muretti e le scacchiere degli orti d’arlecchino, stringo mani diverse. Genti indoeuropee, ma anche turche e tibetane, filtrate nel tempo tra i canyon del Karakorum, del Pamir, dell’Hindukush, dell’Himalaya, che qui, tra le pieghe del tetto del mondo, han costruito regni e castelli, riuniti sotto la buona pace pakistana solo una cinquantina d’anni fa. Le antiche residenze dei mir e dei raja, i signorotti, sono state da poco restaurate grazie all’Aga Khan, che qui sostiene accoliti sciiti ismailiti. Ora si visitano e in alcuni, diventati hotel e ristoranti, ci si dorme di lusso persino e ci si mangia altrettanto bene. Posti da favola orientale, spesso come nidi d’aquila, sui picchi, per controllare i passi. L’odore di naan (ndr: pane lievitato) col montone e le spezie spira dai fuochi delle botteghe scure, in tutti i bazar. Tessuti e berretti tappezzano pareti e soffitti, con i mercanti svaccati tra gli abiti-uniforme nazionale, camicioni lunghi e pantaloni larghi, i shalwar kamiz. «Ehi you, come in», vieni, entra a vedere il tappeto, i rubini, l’argenteria, vieni per un tè con due chiacchiere. Baffi scuri, sorrisi sinceri e sguardi curiosi, da Gulmit a Gilgit, e da qui fino a Islamabad, e ancora nell’Azadi Kashmir, il Kashmir «libero» del Baltistan, dove occhieggia il K2, a Skardhu, a Khaplu, sulla strada (proibita) verso il Ladakh e il Tibet. Lahore è lontana, è in fondo alla strada verso il Punjab. Ma Lahore, per me, è già casa.


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Ambiente e Benessere

Boom di e-bike Motori In Svizzera un sesto delle biciclette

acquistate è a «pedalata servo-assistita», servono perciò nuovi sistemi di protezione

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A fine 2014 sulla rete stradale svizzera circolavano circa 233 mila biciclette elettriche. Solo nel 2013 sono state vendute circa 50 mila e-bike e ormai quasi un sesto delle biciclette acquistate in Svizzera sono a batteria. Numeri importanti che crescono di mese in mese. Che le biciclette piacciano non è una novità. Basti pensare che nel 2012 in Svizzera venivano vendute più bici che auto: 348’600 contro 328’100. È però il boom delle biciclette a «pedalata servo-assistita» a sorprendere.

In Svizzera nel 2013 sono state vendute 50 mila e-bike e alla fine del 2014 ve n’erano 233 mila in circolazione Su incarico dell’Ufficio federale dell’energia (UFE), Ecoplan AG e l’Istituto di marketing e gestione aziendale dell’Università di Berna (IMU), hanno studiato la diffusione, l’utilizzo e gli effetti energetici dell’uso della bicicletta elettrica in Svizzera. L’analisi si è basata sui dati raccolti da un sondaggio online condotto tra i possessori e gli utilizzatori di e-bike. I risultati riportano che l’utente medio percorre circa 2600 chilometri all’anno con la sua e-bike e che per l’80 per cento degli interpellati la bicicletta elettrica è tra i mezzi di trasporto utilizzati quotidianamente con maggior frequenza, tanto da posizionarla in prima o in seconda posizione. Il futuro delle e-bike è evidentemente roseo: si prevede che la diffusione in Svizzera aumenterà tra le 2,8 e le 7,9 volte rispetto a oggi. Si potrebbe arrivare quindi a un valore compreso tra 450 mila e 1’400’000 proprietari di e-bike a seconda dello scenario di riferimento. Alla luce di questi dati, diventa particolarmente interessante la tecnologia appena presentata in anteprima mondiale dal costruttore automobilistico Volvo, POC (azienda leader nella

produzione di attrezzature di protezione per ciclisti) ed Ericsson in occasione della manifestazione International CES 2015 che si tiene questo mese a Las Vegas negli Stati Uniti. Si tratta di un dispositivo tecnologico salvavita in grado di mettere in comunicazione i caschi dei ciclisti con le automobili. Secondo alcuni dati forniti da Volvo, il 50 per cento di tutte le morti di ciclisti in un incidente stradale è stata causata da una collisione con un’automobile. Ma come funziona questo nuovo sistema di sicurezza? In pratica consiste in una comunicazione bidirezionale fra auto e ciclista, che vengono avvisati nel momento in cui si trovano vicini. Un aiuto prezioso specialmente quando le condizioni del traffico vanno ad ostacolare le relative visuali. Grazie a Strava, una popolare app per smartphone dedicata a chi va in bici, la posizione del ciclista viene condivisa con l’auto e viceversa tramite il cloud di Volvo. Se viene calcolata la possibilità di una collisione imminente entrambi gli utenti della strada vengono avvertiti in modo da poter compiere le azioni necessarie ad evitare l’incidente. L’automobilista verrà avvisato tramite un segnale sul display dell’auto mentre al ciclista si accenderà a intermittenza una spia luminosa montata sul casco. Klas Bendrik, vicepresidente di Volvo Cars ha commentato: «La collaborazione fra Volvo Cars, POC ed Ericsson è una tappa fondamentale per studiare e capire quali dovranno essere i successivi passi da compiere per arrivare alla realizzazione dell’obiettivo di Volvo Car, ovvero costruire automobili che non faranno incidenti. Già oggi il nostro sistema City Safety, incluso nella dotazione standard della nuova XC90, è in grado di rilevare e segnalare la presenza di ciclisti e di attivare i freni automaticamente per evitare una collisione. Ma adesso, analizzando le potenzialità dei sistemi di sicurezza basati sul cloud, ci stiamo avvicinando ancora di più all’obiettivo di eliminare i punti ciechi che ancora rimangono fra le auto e i ciclisti, il che ci porterà a evitare del tutto gli incidenti con questi utenti della strada».

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Ambiente e Benessere

L’italianità della trattoria Allan Bay Un amico mi ha chiesto: ma cos’è veramente una trattoria? La risposta non è semplice, vediamo di ragionarci un po’. Le trattorie sono una tipologia di somministrazione del cibo tipicamente italiana, anzi italiana che di più non si può. Nessuno al mondo ha qualcosa di simile. Siamo cresciuti a pane e trattorie, fanno parte della nostra storia, quindi chi, come me, si occupa da sempre del cibo somministrato in pubblici esercizi – lo so, poche definizioni sono più orrende di questa, ma per lo meno è chiara a tutti – deve ragionare anche, e soprattutto, sulle trattorie.

Le trattorie si specializzano in pochi piatti fatti con le buone materie prime realmente disponibili Iniziamo con le definizioni. Quella di Wikipedia inglese (che è un’ottima enciclopedia, non tutte le versioni nelle altre lingue lo sono…) mi sembra perfetta: «A trattoria is an Italian-style eating establishment, less formal than a ristorante, but more formal than an osteria. There are generally no printed menus, the service is casual, wine is sold by the decanter (qui inteso come una caraffa, non quell’altro oggetto che si usa per i top vini) rather than the bottle, prices are low, and the emphasis is on a steady clientele rather than on haute cuisine. The food is modest but plentiful (mostly following regional and local recipes) and in some instances is even served family-style». È chiarissimo, non serve nemmeno tradurre. Tre chiose. La prima: la trattoria è meno formale di un ristorante, quindi è diverso il servizio, ma molto meno il tipo di piatti proposti. Ovviamente si parla di ristoranti cosiddetti commerciali che per molti sono alla fin fine

null’altro che trattorie di tono. L’alta cucina, che si fa nei ristoranti, è un’altra cosa. Non ha senso dire meglio o peggio, è semmai diversa: sono esperienze degustative non confrontabili. E ovviamente è, a livello di numeri, più che infinitamente piccola, anche se non è mai stata «grossa» come in questi ultimi anni. Seconda chiosa. Il cibo è modesto ma abbondante e regionale e i prezzi sono bassi, dice Wikipedia. Sull’abbondante nessun dubbio: a noi, di certo agli italiani ma anche agli svizzeri e un po’ a tutti) piacciono i piatti ricchi, questo i trattori lo sanno e quindi vai col mestolo. Sui prezzi... magari fosse sempre così! Stanno comunque salendo, dato che i costi di un locale sono in continua e ininterrotta crescita (ndr.: nella foto accanto vi è ritratta l’entrata della storica «Antica Trattoria Poste Vecie» di Venezia, che non è proprio un ristorante a buon mercato). Sulla modestia, una cosa va detta: in linea di massima lo è, Wikipedia ha ragione, ma esistono tanti esempi di buon cibo, cioè fatto con buone materie prime e con maestria, proposto nelle trattorie. Terza chiosa. Per tutta una serie di motivi, la buona trattoria, qualunque cosa voglia dire, sta in campagna, meno nelle città. Perché in campagna gli affitti e i costi tutti sono più bassi, molto più bassi che nelle città, e quindi tenere bassi i prezzi è più facile a parità di offerta culinaria – e per noi arrivarci in auto non è comunque un problema. Ma soprattutto, perché permette un contatto immediato e diretto con i produttori di buone materie prime artigiane. Se operi in città esiste in ogni caso una filiera di fornitori, che bisogna pagare. In campagna compri direttamente dai produttori, il trattore paga meno e il produttore riceve di più, tutti sono contenti. E quindi inevitabilmente e giustamente le trattorie si specializzano in pochi piatti fatti con le buone materie prime realmente disponibili nel loro circondario. È un circuito virtuoso che fa felici noi appassionati.

Jorge Royan

Gastronomia Meno formale di un ristorante, ma più di un’osteria, economica e ricca di prodotti regionali

CSF (come si fa)

Oggi vediamo come si fanno tre risi cinesi guarniti. Riso saltato con verdure. Ingredienti per 4 persone: 4 ciotole di riso bianco bollito, 1 carota, 2 zucchine, 2 foglie di pak choi, 2 uova, 2 cucchiai di olio d’oliva, 20 g di frutta secca tostata, poca uva passa, 1/2 bicchiere di vermut, 2 cucchiai di salsa di soia, sale. Pulite le verdure e tritatele. In un piatto sbattete bene le uova. Scaldate l’olio in

una capiente padella e aggiungetevi le uova e le verdure, mescolando. Unite il riso bollito, la salsa di soia, poco sale e l’uva passa ammollata per 15’, scolata e strizzata. Quindi fate saltare bene il contenuto per 5’ e sfumate con il vino. Servite in una scodella capiente. Riso saltato con gamberi e vongole. Per 4 persone: 4 ciotole di riso bianco bollito, 1/4 di peperone rosso, erba cipollina, 100 g di code di gamberi, 100 g di vongole spurgate, 1/2 bicchiere di vino bianco, 2 uova, 2 cucchiai di olio d’oliva, sale. Pulite e tagliate il peperone a dadini. Sgusciate e pulite i gamberi, sciacquate le vongole. In una terrina sbattete le uova. Scaldate l’olio in una capiente padella e aggiungete le uova mescolando continuamente. Poi unite i gamberi, le vongole, le verdure, il sale, e in-

fine aggiungete il riso e fate saltare per 5’. Sfumate con il vino e servite profumando con erba cipollina spezzettata. Riso saltato con pollo. Per 4 persone: 4 ciotole di riso bianco bollito, 200 g di petto di pollo, 2 cucchiai di salsa di soia, 4 cucchiai di vermut, 2 cucchiai di olio d’oliva, 1 uovo, semi di sesamo, sale. Tagliate il petto di pollo a dadini e lasciateli marinare in una terrina con la salsa di soia e 2 cucchiai di vino per 10’. Scaldate l’olio in una capiente padella, aggiungete i dadini di pollo, dopo averli sgocciolati dalla marinata, e fateli saltare per 3’. Unite le uova mescolando continuamente, poi aggiungete il riso e poco sale. Fate saltare il tutto per altri 5’ e sfumate con il restante vino. Servite in un piatto fondo spolverando con semi di sesamo.

Manuela Vanni

Oggi due amatissimi risotti. Il primo è il super canonico risotto con le barbabietole, da sempre presente a Milano e che oggi è tornato di moda, l’altro è un risotto arricchito con una specie di caponata di melanzane. Risotto alle barbabietole

Manuela Vanni

Ballando coi gusti

Risotto con melanzane e pomodoro

Ingredienti per 4 persone: 360 g di riso Carnaroli · 2 barbabietole già lessate · 1

Ingredienti per 4 persone: 360 g di riso Carnaroli · 1 grossa melanzana · 1 zuc-

cipolla · 80 g di stracchino · 40 g di grana grattugiato · brodo vegetale · 1 dl di panna fresca · burro · sale e pepe.

china · 1 cipolla · 1 carota · 1 gambo di sedano · salsa di pomodoro · prezzemolo · 40 g di grana grattugiato · brodo vegetale · burro · sale e pepe.

Tostate il riso per 2’ nella pentola. Unite la cipolla mondata e tritata e 2 mestoli di brodo bollente. Quindi portatelo a cottura unendo il brodo necessario. Nel frattempo, pelate le barbabietole e frullatele con poco brodo a temperatura ambiente fino a ottenere una crema densa. Regolate di sale e di pepe. Frullate lo stracchino con la panna e tenete da parte. A cottura, unite al risotto 40 g di burro, il grana e la purea di rape e regolate di sale e di pepe. Mescolate bene e fate riposare coperto. Servite schizzando con la salsa allo stracchino.

Mondate e tagliate a dadi la melanzana e a dadini tutte le altre verdure. Mettetele in una pentola, unite qualche abbondante cucchiaiata di salsa di pomodoro e 1 mestolo di brodo e cuocete per 40’, mescolando e unendo altro brodo se necessario. Regolate di sale e di pepe. Tostate il riso per 2’ nella pentola. Unite 2 mestoli di brodo bollente e portatelo a cottura aggiungendo il brodo necessario. A cottura, unite al risotto 40 g di burro, il grana e abbondante prezzemolo tritato, poi regolate di sale e di pepe. Mescolate bene e fate riposare coperto. Servite il risotto nappato con il sugo.


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Ambiente e Benessere

Tra simboli e sogni Nel regno di Bacco I numeri fortunati della Cabala riguardano

anche il mondo del vino – prima parte

Davide Comoli A inizio anno non c’è giornale o trasmissione che non parli di oroscopi o divinazioni, così anche a noi è capitato di trovarci tra le mani una vecchia edizione della Cabala (ricezione tramite la tradizione). Sfogliando la Cabala – e i trattati più o meno esoterici intorno ai simboli che ad essa si riallacciano completandola – ci si può fare un’idea del valore che ebbe il vino (e tutto ciò che al vino si collega) nella vita delle antiche popolazioni, le quali cercarono di scoprire il rapporto intimo esistente tra il concreto e l’astratto, per soddisfare la loro sete di meraviglia. Quando noi diciamo Cabala (Kabbalah) non vogliamo davvero riferirci a quella dottrina mistica che si sviluppò intorno al V secolo a.C. a Babilonia, culminando nel cosiddetto Libro della Creazione in cui si fondono cosmogonia, gnosticismo, angelogia... e altre cose difficili, bensì al più semplice e popolare Libro dei sogni. Il quale, oltre a spiegare il recondito significato delle visioni che si hanno mentre si dorme, ci dà un numero (quello buono da giocare al lotto) corrispondente al sogno stesso e ottenuto secondo la magica e misteriosa concordanza che esiste fra le cose e i numeri. Per procedere nell’esposizione, seguiremo per i nostri lettori (così possono subito trovare l’interpretazione di ciò che il sogno ha fatto fiorire nella loro mente) il più pratico e divertente

ordine alfabetico dei termini che rappresentano la visione onirica in tema d’ispirazione vitivinicola. Detto questo, eccoci alle prese con Aceto, figlio cattivo del buon vino, ma tanto utile per la preparazione di squisiti piatti; vediamo cosa dice la Cabala: sognare aceto vuol dire «fatica, ritardo» (giocare il 64); se bianco è segno di «rovina e decadimento» (13); se rosso è «insulto fatto ad altrui», bere aceto significa «infermità» (20). Il vocabolo che segue, che poi è un verbo: Bevere (sì, la Cabala non dice «bere») sotto il quale si legge vino: «allegrezza» (30), acqua: «false confidenze» (20), acqua calda: «infermità, malattia» (33). E qui, poiché la spiegazione non fa una grinza e coincide con la nostra intima convinzione, passiamo alle Botti che se sognate piene, annunciano «abbondanza e fecondità» (60), se vuote «carestia» (17); a cui seguono le Bottiglie le quali anch’esse se piene predicono «gioia vicina, festino» (25), ma se vuote «infermità, delusione» (58). Altrettanto si dica della Cantina che se ricca di botti colme vuol dire «prosperità e salute» per chi la sogna (88), ma se spoglia, «miseria e preoccupazioni» (55). Imbottigliare o Imbottare vino è segno «d’allegrezza» (43) e «d’innamoramento» (38). Se tra le braccia di Morfeo, si sogna di stare in un’Osteria è segno di «riposo e piacere» (40); stare sempre nel sogno sotto una Pergola (di uva naturalmente) «recherà molto presto l’annuncio di un cambiamento in meglio» (39). Sognare di stare sotto

i Pampini, è sempre bello, ma esserne incoronati è «grande allegria da farsi» (90). Poiché il verbo «incoronare» ci fa tornare alla mente... tutte le corone bacchiche da noi viste nei quadri e nei disegni che rappresentano scene dionisiache, vogliamo fare notare come sovente il Dio del vino rechi sul capo una corona spesso mista, formata da foglie di vite, di edera e di fico. Perché questo? Circa le foglie di vite, è inutile parlarne; riguardo a quelle d’edera, si vuole che questa pianta (ma ne parleremo più avanti) sia stata creata (inventata) da Bacco, quando in Edera mutò la ninfa Cisseide che amava: e perciò volle che fosse sempre verde a immagine della giovinezza eterna che il vino dà; inoltre l’edera lega tutto ciò cui s’aggrappa così come il vino lega le amicizie, possiede in sé una forza occulta che agita la mente e tempra gli effetti dell’ebbrezza (ragion per cui di edera si coronavano il capo gli antichi Romani nei loro banchetti). E le foglie di fico? Tutti sanno che quest’albero dà i suoi frutti maturi quando è la stagione dell’uva, e molte piccole vigne sono sostenute da alberi di fico, i cui frutti rimangono piccoli perché la vite succhia il meglio dal terreno, ma il mito abbellì la vicenda naturale raccontando come Bacco abbia cambiato in fico la ninfa Sica (questo è il nome del fico in greco) tanto cara al suo cuore. Anche l’uva a grappoli fa parte delle corone enoiche; nelle raffigurazioni

Sogno di una notte di mezza estate di Joseph Noel Paton (1821–1901) .

antiche essa occhieggia tra i pampini e l’edera attorno al capo di Bacco, dai lati delle orecchie sulle quali scende mollemente. Una corona d’uva posero gli Etruschi sulla testa di Vertunno, la divinità italica che presiedeva alle stagioni e specialmente alla maturazione dei frutti autunnali e della vendemmia. Ma bando alle divagazioni (occasionali, ma belle) sui serti dionisiaci e ritorniamo alla Cabala dopo la voce Pergola, troviamo la parola Tirabusciò per la quale il «Libro dei Sogni» si spiccia dicendo che significa «festino» (40); più dettagliata è la spiegazione data per il Torchio in quanto esso può essere «da stampa, da olio o da vino». La prima attribuzione non ci riguarda, per le altre due: sognare un Torchio da olio vuol dire «bontà sfruttata» (18), sognare un Torchio da vino significa «bontà che giova ad altrui, generosità premiata» (90). Chi beve troppo non tarda a giungere all’Ubriachezza che però se è sognata vuol dire «aumento di fortuna» (18), ma guai a vedersi nel sogno ubria-

chi senza aver bevuto vino = «annuncio di atroce calunnia» (84). Molto esauriente la spiegazione riguardo l’Uva che significa «soddisfazione» (3). Ma a questo punto riportiamo per esteso la voce, così come noi l’abbiamo trovata nel testo consultato (un Libro dei Sogni ossia Vera ruota della Fortuna, stampato a Venezia nel 1735). Dice: mangiare uva significa: «gioia e profitto» (13); coglierla: «guadagno, considerevole fortuna» (6); gettarla: «perdita, amarezza, inquietudine» (78); pigiarla con i piedi: «piccole contrarietà subito compensate» (15); bianca: «vittoria sui propri nemici» (65); rossa: «vittoria negli affari, salute» (66); acerba: «asprezza, discordia, lite in famiglia» (89). Sognare di Vendemmiare è pericoloso, forse per tutte le ruberie che una volta devastavano le vigne o per le contese scoppiate alla maturazione dei grappoli, significa «gravi angosce, minaccia delle proprie sostanze» (56); per Vigna dà «abbondanza e prosperità» (87). Nella prossima puntata procederemo verso il Vino e la Vite. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Quando l’atleta è un cavallo Mondoanimale Al Concorso ippico internazionale di Ginevra per comprendere esigenze e cura dei cavalli

da competizione sportiva Maria Grazia Buletti «Oggi il cavallo soffre dell’urgenza della vita che noi umani conduciamo: la nostra superficialità e la costante ricerca del successo e della gloria in ogni ambito delle nostre attività (comprese quelle svolte nel tempo libero) ci inducono a una perdita dell’autentica ed equilibrata relazione che avevamo costruito come esseri umani nei confronti della natura e della terra. Il nostro stile di vita non è più così compatibile con lo stile della vita dei cavalli. Eppure, malgrado ciò, il cavallo è stato salvato dall’uomo che, accompagnandovisi per lavoro e per piacere, lo ha sottratto al suo destino legato al fatto di essere, in natura, preda di predatori. E lui, il cavallo, gli si sottomette nel darsi da fare con un’immensa forza di volontà: mi commuove questa profonda attitudine alla disponibilità del cavallo verso l’essere umano che non sempre lo contraccambia come dovrebbe». Questa è la premessa del veterinario dottor Pierre Alain Glatt, nella lunga chiacchierata avuta a metà dicembre, durante il 54° Concorso ippico internazionale di Ginevra: una delle più prestigiose manifestazioni equestri, che può contare sulla presenza dei migliori cavalieri al mondo e dei migliori cavalli atleti. Il dottor Glatt è a capo dell’équipe di veterinari addetti al benessere dei cavalli durante il loro soggiorno a Ginevra: «Siamo numerosi, suddivisi in tre distinti gruppi: coloro preposti alle urgenze, i veterinari clinici che si occupa-

no dei trattamenti correnti e dei piccoli malanni, e poi ci sono io, responsabile dell’intera manifestazione e di tutto il team veterinario». A lui chiediamo innanzitutto di parlarci dei cavalli che vengono impiegati a livelli sportivi agonistici così alti: «Si tratta di soggetti selezionati secondo la loro attitudine al salto e nascono con le qualità che dimostrano in gara, sotto la guida del cavaliere o dell’amazzone che comunque deve fare la sua parte nel condurre l’animale al buon risultato; per questo parliamo di binomio». Scopriamo che, come per un atleta di qualsiasi disciplina umana, «la condizione fisica e mentale del cavallo è molto importante: esso lavora 120/140 giorni all’anno ad alto livello, poi necessita riposo e passeggiate nei boschi che ne possano riequilibrare fisico e spirito». I proprietari nutrono grande rispetto dei loro cavalli: «Oggi il cavallo non è più solamente un compagno di vita e di giochi (come dovrebbe essere), poiché i risultati delle competizioni prendono il sopravvento sul resto. Ciononostante, o forse proprio per questo, i proprietari si barcamenano fra il rispetto dell’animale e la gloria dei successi ottenuti». Da parte sua, il cavaliere sa di dovere al proprio animale un lavoro quotidiano equilibrato, accompagnato da pause frequenti: «La capacità di concentrazione di questo animale si riduce a qualche minuto e quando si esagera nel suo allenamento esso si sente spossato fisicamente e psichicamente. Allora è importante che possa

Pierre-Alain Glatt, responsabile dell’équipe veterinaria del Concorso ippico di Ginevra. (Alice Buletti)

fare passeggiate all’aria aperta, stare al pascolo con i suoi consimili e nutrirsi frequentemente in modo adeguato». Mentre ci permette di visitare la struttura che li ospita per una settimana a Ginevra, il dottor Glatt ha il coraggio di evidenziare le contraddizioni che talvolta l’uomo vive rapportandosi con l’animale suo compagno di imprese sportive: «Preparo le scuderie in modo che nessuno di esterno ai cavalieri, groom (ndr.: stallieri), cani e cavalli possa accedervi: quest’area deve essere pensata in modo da mettere a proprio agio tutti i cavalli, qualche stallone compreso. Pen-

so al loro benessere durante il soggiorno, l’allenamento e le competizioni. Mi occupo delle loro uscite, controllo che i box siano puliti, senza i residui dell’ammoniaca della loro urina. Il mio ufficio al centro delle scuderie mi permette di controllare che i cavalli vicini di box vadano d’accordo e non vi siano problemi. Ho disposto che chi si occupi di loro (ndr: i groom) possa ricevere un pasto caldo quotidianamente, perché il loro benessere si ripercuote sul benessere dei cavalli». Il dottor Glatt partecipa alle prove ed esercita tacitamente controlli di pro-

tezione: «Controllo come i cavalli vengono trattati da groom e cavalieri». Mostra grande passione e professionalità questo medico veterinario, anche se l’imponderabile può sempre accadere, come è successo per la prima volta a Ginevra, dal 1991 ad oggi, con la morte della cavalla Camille Z di Athina Onassis e suo marito a causa di una rovinosa caduta su un ostacolo durante una gara. L’ippica è uno sport non privo di pericolo tanto per il cavaliere quanto per il cavallo. Tuttavia, anche se cadute come quella successa a Ginevra non sono rare, per fortuna si risolvono quasi sempre senza che cavaliere e cavallo si facciano male o periscano. Aggiunge il dottor Glatt: «Ho soccorso personalmente quella cavalla, insieme al mio team che ringrazio per il lavoro che ha svolto. In quei momenti non ho visto più niente e più nessuno attorno a me: c’era solo la cavalla da curare e accudire con la dignità e il rispetto che meritava un animale che tanto ha regalato all’essere umano. Non mi è importato dei tempi che forse per la TV erano lenti, per la stampa mancavano commenti, per altri erano criticabili così come è stata criticata la scelta di prendersi il tempo per fare il dovuto. Contava soltanto la cavalla e la sua fine dignitosa e indolore. So di aver fatto tutto il possibile nel miglior modo e nel totale rispetto dell’animale». Anche i proprietari sono stati accanto alla loro cavalla, «perché la ricchezza non risparmia nessuno dal grande dolore che si prova perdendo una compagna di sport». Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 12 gennaio 2015 ¶ N. 03

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 12 gennaio 2015 ¶ N. 03

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Politica e Economia Casa Bianca Il ruolo delle dinastie regnanti nella democrazia americana: dai Roosevelt ai Kennedy fino ai giorni nostri pagina 23

Golpe dolce in Pakistan Per la prima volta un governo democratico si affida alle corti militari per arginare il fenomeno del terrorismo fondamentalista

Un futuro per la piazza finanziaria Il rapporto del gruppo guidato da Aymo Brunetti traccia la via da seguire per garantire solidità alla finanza elvetica

Modello monarchia negli Usa?

pagina 24

Dinastie politiche Nell’America democratica parte una sfida per la Casa Bianca fra due cognomi illustri:

pagina 24

Bush contro Clinton. Un figlio e fratello contro una ex First Lady

Federico Rampini Torna a furor di popolo sugli schermi tv americani la serie britannica Downton Abbey. E i sociologi vedono in questo successo un segnale: la giovane America è affascinata da una serie televisiva ambientata tra gli aristocratici inglesi. Proprio quando Jeb Bush (figlio di George senior, fratello di George junior) si scalda per lanciare la sua candidatura alla nomination presidenziale del 2016. E dunque si affaccia all’orizzonte la possibilità di una sfida per la Casa Bianca fra due cognomi illustri: Bush contro Clinton. Un figlio e fratello di presidenti contro una ex First Lady. Facilitati dalla notorietà già acquisita, e anche dalle munizioni economiche accumulate. Jeb Bush ha dovuto dimettersi da una ragnatela di società finanziarie per non essere in conflitto d’interessi, ma al momento buono gli amici petrolieri e banchieri non gli faranno mancare nulla. In quanto a Hillary, come suo marito lei si fa pagare dai 100’000 ai 200’000 dollari per ogni apparizione come relatrice ad un convegno. L’America è una democrazia che scivola verso il modello monarchico, quello da cui si affrancò con la Guerra d’Indipendenza?

AFP

È alla fine dell’Ottocento che risale la grande storia d’amore fra l’America e le sue dinastie politiche

Se è la satira a uccidere

«Charlie Hebdo» La strage di Parigi segna un punto di svolta nella partita più importante per l’Europa del XXI

secolo: la convivenza o lo scontro con le minoranze islamiche presenti nelle nostre società

Lucio Caracciolo L’eccidio di Parigi del 7 gennaio scorso, quando un commando guidato da due fratelli franco-maghrebini ha massacrato dodici fra giornalisti e vignettisti del settimanale satirico «Charlie Hebdo», segna un punto di svolta nella partita strategica più importante per l’Europa del XXI secolo: la convivenza o lo scontro con le minoranze islamiche attive nelle nostre società. La questione riguarda infatti non solo la Francia, con i suoi cinque milioni di musulmani, ma più o meno tutti i Paesi europei, dove i flussi migratori recenti, incentivati negli ultimi anni dalla «guerra globale al terrorismo», stanno aprendo una questione sociale e politica di prima grandezza. Per capire l’ampiezza e la profondità del problema, conviene inquadrarlo sotto tre profili: sociale, politico e strategico. Quanto al primo aspetto, tutti i modelli di relazione con le minoranze musulmane in Europa stanno mo-

strando la corda. Anzitutto perché tali comunità non afferiscono a un’unica autorità, ma sono profondamente divise sia in termini confessionali – sunniti versus sciiti e varie declinazioni del sunnismo – che sociopolitici, nel senso di cercare o rifiutare un certo grado di integrazione/convivenza nel contesto secolarizzato, se non laicista, che caratterizza le società europee attuali. Eventi come quello di Parigi contribuiscono a dividere ed eccitare gli animi, favorendo da una parte il senso di frustrazione diffuso nelle comunità maomettane, specie se di provenienza araba, dall’altra l’islamofobia. La premessa di ogni sviluppo positivo è la volontà e la capacità di mettersi dal punto di vista dell’altro, ciò che implicherà uno sforzo pedagogico e un’apertura mentale di formidabile vigore, con effetti misurabili solo nel medio-lungo periodo. Le ricadute politiche in Francia e in altri Paesi europei della strage di Parigi vanno tutte nel senso di irrobustire movimenti e partiti che fanno della pau-

ra dell’islam una fonte di consenso e di radicamento. Come Marine Le Pen in Francia, la Lega di Matteo Salvini in Italia, leghisti ticinesi e seguaci di Blocher in Svizzera o il movimento Pegida e forse la stessa Alternative für Deutschland e settori della CDU-CSU in Germania. Forze interessate a dipingere la minaccia maomettana nei termini più foschi possibili. Ad echeggiare la tesi non troppo romanzata di Michel Houellebecq, che nel suo ultimo libro immagina in Francia l’avvento di una repubblica islamica nel 2022. L’interesse di questi gruppi è di alimentare la paura del musulmano e del «diverso» in genere, senza considerare i rischi enormi che una guerra di religione non troppo virtuale può comportare per la pace in Europa. Infine, il lato strategico. I due fratelli che hanno scatenato l’inferno contro «Charlie Hebdo» erano reduci dalla Siria. Come loro, migliaia di combattenti provenienti dal nostro Continente e da altri Paesi occidentali erano, sono e saranno impegnati sui fronti del jiha-

dismo armato, dalla Libia all’Afghanistan, dall’Iraq alla Siria. Molti di questi, quando torneranno in Europa, magari solo per un periodo di riposo, saranno delle mine vaganti in grado di minacciare la sicurezza delle nostre metropoli. È dunque imperativo serrare i bulloni alle frontiere, per mitigare l’impatto di questi flussi, e allo stesso tempo infiltrare per quanto possibile le organizzazioni islamiste nelle quali si formano questi aspiranti martiri della fede. L’attacco di Parigi, solo l’ultimo di una lunga sequenza di attentati islamisti in Francia e in altri Paesi occidentali, si inquadra anche nella guerra civile fra musulmani che tocca quasi ogni regione del pianeta. E che ha il suo epicentro geopolitico nel Golfo, dove si intrecciano la storica rivalità IranArabia Saudita (sciiti – sunniti) e le lacerazioni nell’estremismo sunnita, con i Fratelli musulmani oggi sotto schiaffo da parte dei regimi militari o filosauditi. Il 95% delle vittime di questi scontri sono musulmani, ma è eviden-

te che nessuno può sentirsi al sicuro. Infine, un dato inquietante: secondo le ricerche di una sociologa francese, Dounia Bouzar, una cospicua quota di jihadisti attivi nei teatri di guerra mediorientali e non solo proviene da famiglie della borghesia europea medio-alta, dal mondo delle professioni. Giovani senza più riferimenti ideali, che trovano nel richiamo dell’islamismo più radicale una ragione di impegno per cambiare il mondo. Qui la fede conta poco o nulla. Fra loro anche atei, agnostici, cristiani e financo ebrei. Degenerazione estrema dell’avventurismo, che gruppi jihadisti abili nell’uso delle nuove tecnologie dell’informazione, a cominciare dai social network, sanno reclutare, «rieducare» e manipolare ai propri fini. La strage di Parigi non può dunque trovare solo risposte di emergenza. Richiede invece una dura, faticosa battaglia politica, culturale e anche di repressione, che ci impegnerà per i prossimi decenni.

Tutto cominciò a New York, e molto prima dei Kennedy, dei Bush o dei Clinton. È alla fine dell’Ottocento che risale la grande storia d’amore fra l’America e le sue dinastie politiche. Tutti gli altri sono quasi dei pallidi epigoni o imitatori, se paragonati con la fantastica epopea dei Roosevelt. Che diedero agli Stati Uniti i due presidenti più importanti della loro storia, nonché una First Lady davvero eccezionale. Tutti e tre consanguinei. Non si capirebbe la figura di Joseph Kennedy, il patriarca nonché miliardario di origine irlandese, e la sua ambizione di proiettare i figli verso la Casa Bianca, se prima di lui non ci fosse stato l’esempio dei Roosevelt: a indicare che in qualche modo anche il potere politico americano poteva diventare ereditario, appannaggio di grandi famiglie investite da una missione storica. I Roosevelt politici nascevano già all’ombra di immense fortune. Il loro cognome era di origine olandese: i primi mercanti europei a colonizzare Manhattan e a crearvi la New Amsterdam venivano dai Paesi Bassi, ancor prima che dall’Inghilterra. I Roosevelt erano quanto di più simile ad una famiglia «patrizia» del Nuovo Mondo, un’aristocrazia americana fondata sul denaro, e poi raffinatasi con l’amore della cultura, delle belle arti, il mecenatismo, la filantropia e le opere sociali. Signorili e disinteressati, gli avi di Theodore e Franklin si tenevano alla larga dalla politica: che sul finire dell’Ottocento era dominata da lestofanti, corrotti, un ceto considerato spregevole, ai confini della delinquenza comune. Theodore Roosevelt, detto Ted, spezzò quella tradizione. Provocando dapprima lo sgomento tra i suoi familiari, dopo aver studiato a Harvard de-

cise di mettersi al servizio della nazione non attraverso le opere caritatevoli, ma lanciandosi nella mischia elettorale. Scalò i gradini del potere uno ad uno, dalla gavetta nell’assemblea legislativa locale di New York, fino alla presidenza federale. Una volta insediato alla Casa Bianca – dapprima fortuitamente, cioè subentrando da vice a un presidente assassinato – diede un’interpretazione estensiva, senza precedenti, della funzione presidenziale. Con Ted Roosevelt nasce la prima «presidenza imperiale» nella storia degli Stati Uniti, fino a quel momento segnati da un potere decentrato negli Stati, e da un Congresso più forte della Casa Bianca. Ted oltre che imperiale è il primo leader imperialista, spezza il tradizionale isolazionismo Usa, impone l’influenza yankee sull’America centrale e meridionale, costruisce una flotta militare, interviene come mediatore in conflitti lontani come la guerra russogiapponese. È perfino più innovativo sul piano interno: per la prima volta la Casa Bianca diventa l’arbitro di un’economia capitalistica che scivola verso le concentrazioni monopolistiche. Dichiara guerra ai Robber Baron, i baroni ladri, come vengono chiamati i magnati delle ferrovie, delle miniere e della siderurgia. Nasce la legislazione antitrust. L’inquilino della Casa Bianca diventa il difensore dell’uomo comune contro le oligarchie. Ted Roosevelt è anche il primo leader ambientalista dei tempi moderni, il suo amore per la natura lo spinge a mettere sotto la protezione federale ampie zone del territorio nordamericano. L’impatto di questo personaggio sull’immaginario popolare è così forte, che diventa il modello per la carriera politica di Franklin Delano Roosevelt. Lontano cugino di Ted, Franklin viene dal «ramo di Hyde Park» che si distingue dal ramo di «Oyster Bay»: le due località di villeggiatura delle rispettive famiglie. Franklin si avvicina a Ted sposandone una nipote, Eleanor Roosevelt. Perfino nei matrimoni tra consanguinei, i Roosevelt adottano le consuetudini delle dinastie reali della vecchia Europa. Ma l’investitura dinastica la mettono al servizio di un mandato progressista. Franklin è il presidente del New Deal, la politica di investimenti pubblici che contribuì a sollevare l’America dalla Depressione degli anni Trenta. Creò la Social Security, la previdenza federale, primo caposaldo di un Welfare State moderno. Difese i diritti dei lavoratori, il ruolo dei sindacati. Mai prima di lui né dopo di lui gli Stati Uniti ebbero un leader capace di portare al termine così tante riforme sociali progressive. In altri campi, proseguì anche la vocazione ambientalista di Ted (parchi nazionali) e l’espansione dell’influenza americana nel mondo: fino alla vittoria contro i nazifascismi. Per capire come il fascino delle dinastie familiari abbia potuto contagiare anche la sinistra, bisogna focalizzarsi sul paradosso dei Roosevelt: Ted, Franklin e l’attivissima Eleanor (la prima First Lady moderna, con un ruolo politico di spicco, ancora più radicale di suo marito) furono audaci nell’affrontare i poteri forti del loro tempo. Contro gli eccessi del capitalismo Usa, nel primo Novecento o nella crisi del 1929, i Roosevelt sfoderarono una grinta rara, mobilitando le masse per contenere lo strapotere dei privilegiati. In

L’ufficio ovale della Casa Bianca negli anni ’70. (Keystone)

un certo senso furono aiutati dalle loro origini patrizie: un Roosevelt guardava un Rockefeller o un Carnegie (i capitalisti del loro tempo) dall’alto in basso. I Roosevelt erano stati ricchi prima degli altri. Non avevano timore reverenziale verso i padroni dell’industria, anzi spesso li disprezzavano. Donde l’idea che il potere dinastico può avere un lato positivo…

La storia dei Bush è all’insegna del conflitto d’interessi, quasi il rovesciamento speculare dei Roosvelt È il modello dei Kennedy, appunto. Joseph Kennedy non era un patrizio. Immigrato dall’Irlanda povera, si era arricchito con loschi traffici. Ma una volta divenuto un magnate, anche lui prese le distanze dal suo mondo: come capo della Securities and Exchange Commission fustigò gli speculatori che avevano provocato il crac del 1929. Poi allevò i figli sul modello rooseveltiano. John, Bob, Ted Kennedy furono educati come futuri leader, possibilmente presidenti. Con un’infanzia e adolescenza da aristocratici ma anche una morale austera e patriottica: il maggiore dei fratelli morì in guerra, John rischiò di

fare la stessa fine. Il martirio di John e Bob, assassinati nel 1963 e nel 1968, ha «santificato» l’idea dinastica, costruendogli attorno una leggenda eroica, una venerazione popolare. Lungi dal vivere adagiati sui privilegi, i rampolli della famiglia regnante hanno pagato con la vita la propria missione storica. Dopo la morte di Ted, il «vecchio leone» della sinistra democratica che guidò tante battaglie riformiste al Senato, i nostalgici continuano a cercare tra nipoti e bisnipoti del clan di Boston i possibili eredi per prolungare quella tradizione. Nulla di eroico, invece, nelle altre due dinastie contemporanee. Anzi, attorno ai Bush e ai Clinton c’è un clima di sospetto elevato almeno quanto il rispetto. Hanno i loro fan, certo, ma suscitano anche irritazione, esasperazione, ostilità. I Bush sono la prima dinastia della destra moderna: né Richard Nixon né Ronald Reagan riuscirono a formare degli eredi. Ma la storia dei Bush è all’insegna del conflitto d’interesse, quasi il rovesciamento speculare dei Roosevelt. Arricchiti dal petrolio, i Bush hanno sempre generosamente contraccambiato con favori alle lobby dell’energia fossile. I Clinton sono la prima dinastia che nasce povera (ma non lo rimane a lungo...) Bill proviene da quel ceto sociale che nell’Arkansas viene crudamente definito «white trash», spazzatura bianca: cioè quei bianchi del Sud

afflitti da una miseria paragonabile a quella dei neri. Poi però il potere li ha avvicinati alle lobby del denaro. Sia Bill che Hillary hanno ottimi rapporti con Wall Street e con la Silicon Valley: le due massime concentrazioni di ricchezza capitalistica americana finanziano le loro campagne elettorali. Sotto Bill Clinton fu varata la nefasta deregulation dei derivati, foriera di catastrofi per l’economia mondiale e di ricchi profitti per i banchieri. Verso Bill, Hillary e la figlia Chelsea che già si vede «predestinata» a seguire le orme genitoriali, cresce una diffidenza da sinistra. Non tanto per opposizione di principio alle dinastie, ma perché nel XXI secolo queste famiglie regnanti sembrano troppo vicine alle oligarchie del denaro, a differenza dei Roosevelt. Il paradosso è che proprio nel suo capitalismo, l’America è il meno dinastico di tutti i Paesi. Non ci sarà un Gates alla guida di Microsoft dopo il fondatore Bill. Non c’è un Jobs alla guida di Apple dopo la morte di Steve. Nell’economia, nell’industria e nella tecnologia, vige ancora il principio meritocratico. I cognomi illustri pesano quando a votare non sono i consumatori, i mercati o gli azionisti, bensì il cittadino elettore. Alexis de Tocqueville, il primo grande studioso della democrazia americana, oggi forse sarebbe sconcertato dalle analogie con l’Ancien Régime.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 12 gennaio 2015 ¶ N. 03

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Politica e Economia Un militare pakistano sul luogo dell’attentato di Pashawar. (Keystone)

Mercati finanziari, quale politica? Rapporto Brunetti Suggerimenti

sull’organizzazione del sistema bancario, sull’accesso ai mercati internazionali e sulla strategia migliore per la piazza finanziaria Ignazio Bonoli

Corti militari in Pakistan Emergenza terrorismo Il governo civile, dichiarandosi incapace

di gestire l’ordine pubblico e la sicurezza nazionale, firma una sorta di golpe militare dolce Francesca Marino Il presidente pakistano Mamnoon Hussain ha firmato il 21 Emendamento alla Costituzione rendendolo esecutivo e firmando così, secondo analisti e società civile, il primo colpo di stato militare del Pakistan a opera di un governo civile. L’emendamento, passato a grande maggioranza sia alla Camera che al Senato, attribuisce a corti militari la capacità di giudicare individui e gruppi (civili, non appartenenti all’esercito o a qualche organizzazione paramilitare) imputati per terrorismo: abdicando così di fatto a una delle prerogative essenziali di ogni società democratica ed esautorando il potere dei giudici e il ruolo dell’autorità giudiziaria. Asma Jehangir, avvocato in odor di Nobel da anni per le sue battaglie in difesa della società civile e della democrazia, è stata la prima ad usare senza mezzi termini l’espressione «colpo di Stato». Colpo di Stato «dolce» e indolore, ma sempre colpo di Stato.

La misura eccezionale è stata fatta ingoiare alla società civile in conseguenza all’attacco a una scuola di Peshawar a opera dei Taliban pakistani Il provvedimento, che fa parte di un più ampio pacchetto di cosiddette misure antiterrorismo, mette di fatto e legalmente in mano ai militari la sorte e le vicende giudiziarie dei cittadini pakistani: inutile rimarcare come all’occorrenza si può accusare chiunque di terrorismo, visto anche che di «terrorismo» non è stata data una chiara definizione, e portarlo davanti a un Tribunale militare con tutte le conseguenze del caso. I partiti politici, tutti all’unanimità hanno sostenuto l’Emendamento sposando la teoria del generale Raheel Sharif: non si tratta di un attentato alla democrazia ma soltanto di una misura eccezionale dovuta all’eccezionalità del particolare momento storico che il Paese si trova ad attraversare. Secondo Sharif il provvedimento potrà essere abrogato o revocato in futuro, non appena l’emergenza terrorismo in Pakistan non sarà più così pressante; non solo: la misura straordinaria «dovuta ai tempi straordinari in cui viviamo» non è stata voluta dai militari ma dalla politica e l’esercito, come sempre, ha graziosamente accettato ancora

una volta di farsi carico della salvezza della terra dei puri. Balle spaziali, per usare una poco forbita ma pregnante espressione, e lo sanno tutti: ma tutti fanno finta di crederci. A cominciare dall’opposizione, che tra lacrime e sospiri ha votato a favore del provvedimento pur «turandosi il naso». I partiti islamici si sono astenuti perché contrari al provvedimento: non per ragioni di democrazia e civiltà, ma semplicemente perché a loro avviso il 21 Emendamento è contrario alla Sharia. Non ci sono state manifestazioni di protesta nel Paese, e soltanto i quotidiani in lingua inglese hanno pubblicato editoriali luttuosi definendo «un triste giorno» per il Pakistan il giorno in cui un governo democratico ha di fatto gettato la spugna e si è dichiarato incapace di gestire l’ordine pubblico e la sicurezza nazionale. La cosiddetta misura eccezionale è stata fatta ingoiare alla società civile in conseguenza all’attacco di una scuola di Peshawar a opera di una fazione del TTP, i Taliban pakistani. L’omicidio a sangue freddo di 144 tra studenti e insegnanti inermi ha suscitato nel Paese un’ondata di indignazione senza precedenti, che ha spinto la gente in piazza per piangere i morti innocenti e per chiedere opportuni provvedimenti al governo. Non solo: un tam tam spontaneo organizzato via social network ha riunito una nutrita folla di cittadini di Islamabad e dintorni davanti alla famigerata Lal Masjid, una delle culle del terrorismo finanziato dallo Stato. La gente chiedeva l’arresto del maulana Abdul Aziz, detto maulana Burqa per essere sfuggito travestito da donna all’assedio della suddetta moschea ai bei tempi di Musharraf. Inutile dire che Abdul Aziz, formalmente incriminato da un giudice di buona volontà, sta ancora a casa sua. Mentre negli stessi giorni un altro tribunale liberava su cauzione un signore di nome Zakiur Rehman Lakhvi: colpevole, secondo la testimonianza della spia David Headley e di altri, di aver organizzato materialmente l’attacco a Bombay nel 2008. Lakhvi si trova in teoria in galera dal 2009, rinchiuso in un carcere di massima sicurezza di Rawalpindi da cui, secondo fonti dell’intelligence indiana e secondo la stampa locale, entra ed esce a suo piacimento adoperando macchine ufficiali della polizia e in cui riceve il fior fiore del terrorismo islamico locale. In galera, Lakhvi è perfino riuscito a concepire un figlio. Il provvedimento è stato temporaneamente bloccato dal governo con un provvedimento d’urgenza, ma non ha mancato di suscitare le ire dei cittadini e soprattutto dell’India. In questo

clima è maturato il 21 Emendamento, e nessuno ha avuto il coraggio di protestare più di tanto in nome della democrazia. Tanto, il nuovo stravolgimento del diritto penale pakistano sancisce soltanto uno status quo. E non c’è bisogno di ricorrere a fantapolitiche teorie della cospirazione per fare due conti facili facili. Nawaz Sharif, da sempre inviso all’esercito, è stato politicamente messo all’angolo da Imran Khan e Mumtaz Qadri, che dell’esercito sono invece pupilli e strumenti. I due hanno messo sottosopra il Paese per mesi e minacciano di ricominciare al più presto: chiedono l’annullamento delle elezioni per brogli elettorali e le dimissioni di Sharif. La politica estera è di fatto in mano al generale Sharif e ai suoi, che incontrano dignitari stranieri e si recano in visita all’estero svolgendo di fatto un ruolo che spetterebbe al premier. Il Paese è nel caos più totale e vittima, da quando Nawaz è al governo, di un’ondata di attentati senza precedenti. Le minoranze vivono ormai nel terrore, così come i giornalisti e gli intellettuali dissenzienti. La gente ha paura perfino di mandare i figli a scuola o di andare a fare la spesa. I terroristi, a parte i Taliban «cattivi» del TTP, impazzano liberi e belli nelle piazze e in televisione: Mohammed Hafiz Saeed, fondatore della Lashkar-i-Toiba, sputa veleno e odio nei confronti dell’Occidente e dell’India su ogni canale televisivo e in tutte le piazze di Lahore; Abdul Aziz si rifiuta di condannare formalmente i vigliacchi attentatori di Peshawar; Hamid Gul ripropone continuamente le sue teorie della «mano straniera» dietro gli attentati in Pakistan, che sarebbero opera del suddetto TTP finanziato e messo su dall’India e dalla Cia. Perfino l’ex-presidente Musharraf, in teoria sempre agli arresti domiciliari, è tornato a essere una stella dei talk show sia indiani che pakistani, dando man forte a Gul e soci e sostenendo una delle sue vecchie teorie: l’attribuzione formale all’interno dell’ordinamento pakistano di un ruolo politico all’esercito. Detto fatto, il 21 Emendamento costituisce un primo ma significativo passo verso l’ennesima aberrazione legale e logica dell’ordinamento della terra dei puri: riconoscere legalmente nella Costituzione la supremazia dei militari sui governi civili e democraticamente eletti. Una dittatura democratica, insomma, come ha sempre sostenuto Musharraf che entra a questo punto nel novero delle menti politiche più brillanti e innovative del secolo in corso. Con buona pace di concetti ormai vecchi e usurati come libertà, democrazie e diritti umani.

Nell’autunno del 2013, il Consiglio federale, dopo le vicende che avevano colpito l’intero settore bancario e dopo le misure urgenti per evitare il peggio, aveva istituito un gruppo di lavoro, affidato al professor Aymo Brunetti, docente all’Università di Berna ed ex capo-economista al Seco. Il rapporto di 60 pagine è stato pubblicato all’inizio dello scorso dicembre, ma era pronto fin dall’estate e conteneva raccomandazioni che le autorità avrebbero dovuto mettere in atto fin dallo scorso autunno o, al più tardi, dall’inizio di quest’anno. Il rapporto propone, infatti, una strategia che dovrebbe risolvere a media-lunga scadenza i problemi del settore finanziario svizzero, andando oltre le misure messe in atto finora, tra l’altro con misure particolari per le banche di rilevanza sistemica. Quindi, tutto il sistema bancario elvetico dovrebbe dotarsi di un piano di stabilizzazione e di sviluppo, che tenga conto della grandezza, della complessità e delle relazioni d’affari di ogni singolo istituto. Il tutto sulla base di un’analisi che metta in evidenza i possibili punti vulnerabili dell’intero sistema. Da qui la necessità di disporre di strumenti di intervento immediato, magari attraverso una base legale, con precise competenze da esaminare da parte della Confederazione, che potrebbe tradursi in maggiori poteri da conferire alla FINMA, cioè l’organo di sorveglianza del mercato. Questa parte del rapporto ha subito sollevato critiche da parte del sistema bancario. Se l’Associazione Svizzera dei Banchieri ha sostanzialmente approvato il rapporto, alcuni settori, come ad esempio quello delle banche cantonali o regionali, vi vedono un’inutile ingerenza in un campo che non presenta grandi pericoli e i cui problemi sono risolvibili senza interventi straordinari. Secondo questi criteri, in un sistema economico liberale tocca alle banche stesse assumersi la responsabilità dei rischi che corrono. Le critiche maggiori si concentrano sulla necessità non dimostrata di dotare tutte le banche di piani di sviluppo e di intervento, quando non sono di rilevanza sistemica. Altri però ammettono che anche istituti minori possono assumere un ruolo importante a livello regionale, ma anche nazionale. Si tratterebbe, quindi, di un problema di misura, anche per tener conto dei costi delle misure da adottare. Per esempio, negli Stati Uniti, le banche con somme di bilancio oltre i 50 miliardi di dollari devono allestire periodicamente i rispettivi piani di sviluppo. Tradotto in termini adeguati alla situazione svizzera, ciò significherebbe una somma di bilancio di circa 1,7 mi-

liardi di franchi. In questo caso, sarebbero oltre un centinaio le banche interessate. Il punto debole è però dato dal fatto che le banche di gestione patrimoniale hanno tendenzialmente somme di bilancio contenute, a fronte di un «fuori bilancio» elevato. L’Unione Europea sottopone, invece, tutte le banche a questi impegni, adottando forme semplificate per le minori. I termini dell’assoggettamento non sono però ancora definiti. Un altro degli aspetti principali del rapporto concerne l’accesso ai mercati internazionali per il sistema finanziario svizzero. L’accento è posto in particolare sull’Europa e, quindi, sul mercato dell’UE. Anche in questo caso, dopo il 9 febbraio, bisogna tener conto del voto popolare contro l’immigrazione massiccia e sulle sue conseguenze per tutti i tipi di rapporto tra la Svizzera e i Paesi dell’UE. Il rapporto prende atto della situazione che si è venuta a creare, ma chiede soprattutto – in attesa della conclusione delle trattative tra Bruxelles e Berna – la conclusione di accordi bilaterali con i principali partner, sia in Europa, sia fuori dall’Europa, in vista di garantire agli operatori svizzeri l’accesso ai mercati finanziari internazionali. Per raggiungere questo obiettivo, la Svizzera dovrà adeguare il proprio diritto ai regolamenti internazionali, quando questo adeguamento risponde ai suoi maggiori interessi. Su questo punto i gestori patrimoniali indipendenti hanno espresso parecchie critiche, dicendo che la Svizzera ha già fatto molto (se non forse troppo) in questa direzione. Finora questa strategia, detta dell’equivalenza, avrebbe generato smacchi cocenti, particolarmente per quanto attiene agli investimenti collettivi. Il rapporto suggerisce però un dialogo rinforzato e istituzionalizzato fra le autorità e gli attori del mercato, utilizzando in modo ottimale lo strumento già in atto del Forum Piazza Finanziaria. Il Consiglio federale non ha atteso la pubblicazione del rapporto per introdurre o prospettare alcune misure. Fra queste anche la riforma dell’imposta preventiva. Oggi, gli stranieri che sottoscrivono prestiti obbligazionari svizzeri non possono recuperarla e le grandi aziende non emettono quasi più prestiti in Svizzera. La riforma è già avviata, per cui il rapporto raccomanda di adottare il metodo «dell’agente pagatore», che corregge i difetti attuali. Esso dovrà essere coordinato con lo scambio automatico di informazioni fiscali. Anche in questo caso, la Svizzera ha già fatto passi avanti, con le convenzioni sulla doppia imposizione e la firma dell’accordo sui parametri dell’OCSE. Difficile però che si giunga a concedere la scelta tra pagare l’imposta o dichiarare l’operazione al fisco.

Da destra, Aymo Brunetti, Patrick Odier, presidente Associazione Svizzera Banchieri, Urs Berger, presidente Associazione svizzera d’assicurazioni. (Keystone)


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Politica e Economia

Il nuovo mondo dei tassi negativi La consulenza della Banca Migros

Albert Steck

Quando il debitore ci guadagna

Mi domando quali saranno gli effetti dei tassi negativi: comporteranno un esproprio dei risparmiatori?

Dati: Swiss Exchange

Albert Steck è responsabile delle analisi di mercato e dei prodotti presso la Banca Migros

Di fronte a questo argomento la maggior parte delle persone pensa prima di tutto al conto di risparmio. In realtà il tasso sul conto è solo di poco sopra lo zero, ma almeno le conseguenze immediate sono in qualche modo limitate grazie alla bassa inflazione. Sulle obbligazioni, invece, la politica monetaria ha effetti molto più pesanti, solo che l’opinione pubblica ne è poco consapevole, per questo vorrei approfondire il tema. Cominciamo con un esempio concreto: presterebbe denaro alla Confederazione fino al 2026 se ottenesse come indennizzo un rendimento annuo dello 0,4 percento? Probabilmente lo riterrebbe un cattivo affare. Tuttavia, senza accorgercene, partecipiamo tutti continuamente a questi investimenti, più precisamente con la previdenza professionale, quindi le nostre casse pensioni. Nel suindicato esempio la Confederazione è stata sommersa dalle sottoscrizioni degli investitori nonostante il tasso basso. Voleva raccogliere 120 milioni di franchi e ha ottenuto offerte per 180 milioni. Il seguente grafico illustra quanto è forte il fabbisogno di investimenti per le obbligazioni della Confederazione: fino a una durata di sei anni il rendimento è negativo. In altri termini, per prestare denaro alla Confederazione,

Rendimento

1 giorno

1 settimana

1 mese

4 mesi

7 mesi

1 anno

4 anni

5 anni

10 anni 30 anni Durata residua

Fino a una durata di sei anni il rendimento delle obbligazioni statali svizzere si colloca in territorio negativo. Esempio di lettura: per un’obbligazione che scade fra tre anni il rendimento annuo è pari al –0,25 percento.

occorre addirittura pagare. Per un’obbligazione trentennale, che scadrà solo nel 2045(!), il tasso ammonta appena allo 0,8 percento. Se questo rendimento riuscirà a compensare l’inflazione futura solo il cielo lo sa.

Alle casse pensioni vengono sottratte entrate miliardarie Con la previdenza professionale gli Svizzeri detengono un pacchetto

obbligazionario di oltre 250 miliardi di franchi. La somma in ballo è dunque notevole. Attualmente la remunerazione reale (depurata dell’inflazione) è del 2 percento circa inferiore a quella degli ultimi decenni. Ciò significa che ogni anno dobbiamo subire una perdita per interessi sul patrimonio della cassa pensioni di circa 5 miliardi di franchi. Si potrebbe argomentare che le casse pensioni dovrebbero cercare altre obbligazioni meglio remunerate. In realtà un titolo di Stato italiano a dieci anni rende il 2 percento. Tuttavia chi si sentirebbe davvero a suo agio, conside-

rano la voragine del debito pubblico del Paese? E chi sa con certezza se nel 2025 l’Italia apparterrà ancora alla zona euro? L’esempio dimostra che i tassi ai minimi storici sono diffusi in tutto il mondo. Sfuggire è impossibile. Rimane comunque una magra consolazione: le obbligazioni statali svizzere offrono tuttora un’eccellente sicurezza. Attualità su blog.bancamigros.ch: Che cosa ne pensate dei tassi negativi? Presentiamo inoltre la politica d’investimento della Banca Migros per il 2015. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Dalla società del rischio allo sviluppo sostenibile È morto a Monaco all’inizio dell’anno il sociologo Ulrich Beck, conosciuto altrimenti come il sociologo della società del rischio. Non che Beck abbia pubblicato solo sull’importanza del rischio nelle società nelle quali viviamo; certamente però il suo Società del rischio, in cammino verso un’altra modernità del 1986 è il libro che ha proiettato la figura di questo sociologo tedesco a livello mondiale. Beck non è stato il primo ad affrontare il discorso sui rischi che pesano sulle società economicamente avanzate se non addirittura sulla sopravvivenza della specie umana. Chi lo aveva preceduto (Meadows e Meadows, Forrester) si era però concentrato sulla simulazione delle conseguenze catastrofiche dello sviluppo in atto. Beck mise invece al centro del suo argomentare non l’evoluzione dei singoli processi (demografici e economici) ma il cambiamento in atto nella società. Per lui

le tendenze di sviluppo erano semmai la prova che la società umana stava cambiando di paradigma. L’argo-

Aveva colto più di altri i cambiamenti in atto nella società. (Keystone)

mentazione del sociologo tedesco può essere circoscritta con due tesi. La prima afferma che la società uscita dalla rivoluzione industriale, che possedeva un tipo di modernità caratterizzato dalla razionalità, facente largo posto ai valori scientifici e al materialismo nella concezione del mondo, stava per essere sostituita dalla società del rischio, in particolare, ma non solo, per l’emergere del pericolo di catastrofe ecologica. La seconda tesi sostiene che i conflitti sociali, che, nella prima società industriale, si sviluppavano attorno al processo di redistribuzione di ricchezza e reddito sarebbero stati sostituiti dai conflitti e dai problemi derivanti dalla produzione, definizione e distribuzione dei rischi. Questo perché nella nuova società la produzione di ricchezza si accompagnerà in modo inscindibile alla produzione di rischi. La logica della distribuzione di ricchezza, che aveva presieduto al

forte sviluppo delle economie occidentali, nei tre decenni successivi alla seconda guerra mondiale, sarà sostituita da quella della distribuzione del rischio. Di conseguenza i conflitti del futuro saranno sulla maniera di riconoscere il rischio, sul come affrontarlo, come suddividerlo nello spazio e tra i ceti sociali e su chi dovrà sopportarne conseguenze e costi. A partire da Hiroshima e Černobyl – concludeva Beck – i fondamenti della vita si sono rivelati come un terno al lotto. Se il rischio diventa una nozione importante, altrettanto importante diventa quindi la nozione di sicurezza. È certo che la pubblicazione del libro di Beck suscitò un vasto dibattito sul modo di gestire i rischi di catastrofe per incrementare la sicurezza a livello della società. Il risultato più tangibile di questo dibattito è probabilmente rappresentato dall’emergere di un consenso ge-

nerale – almeno per quel che riguarda i principi – sulla necessità di assicurare alla nostra società un futuro sostenibile. Il termine di sostenibilità venne coniato nei primi anni Novanta dello scorso secolo, soprattutto per merito di discussioni avvenute a livello internazionale. Esso relativizzava l’importanza della dimensione economica che, nella modernità della società industriale, era dominante, affiancandole tre altre dimensioni: la sostenibilità sociale (sicurezza, salute, istruzione per tutti i ceti della popolazione), la sostenibilità ambientale intesa come capacità di ridurre i processi inquinanti, contenere l’uso delle risorse naturali non riproducibili e mantenere la riproducibilità delle altre, e la sostenibilità istituzionale: ossia la capacità di assicurare alla società indispensabili condizioni di stabilità politica, di democrazia, di partecipazione e di giustizia.

al partito. Gli anni intorno al ’68 – un poco prima, un poco dopo – non provocarono quegli sconquassi che ancora oggi certa letteratura evoca, chi per esaltarli chi per denigrarli. Qualcosa tuttavia misero in moto anche nei partiti; si levarono voci di protesta, sia nel campo cattolico, sia nel frastagliato arcipelago della sinistra, da sempre terreno d’incontro e di scontro di varie tendenze, riformiste e rivoluzionarie, minimaliste e massimaliste. A cavallo degli anni 80, ecco intervenire un nuovo cambio di scena. I «sacri furori» cedevano il posto al «riflusso» e al «privato», spalancando così le porte a poteri e progetti per nulla interessati alla riqualificazione del claudicante impianto sociale dello Stato, che anzi andava smantellato. Iniziava la stagione del neo-liberismo e delle leghe, dei partiti personalizzati e guidati

dall’alto, delle assemblee ridotte a platee plaudenti: la stagione delle formule ritenute «vincenti» che prosegue tuttora: più persone e meno programmi, più spettacolo e meno dibattito. E l’afflusso alle urne? Il calo della partecipazione è stato continuo, inarrestabile. Per contenerlo si è pensato di introdurre la «scheda senza intestazione», che a ben guardare si risolve in un atto di sfiducia nei confronti del sistema dei partiti. La novità di questo 2015 sarà invece «il voto per corrispondenza generalizzato», come già avviene per iniziative e referendum. Insomma, il prossimo 19 aprile non sarà più necessario recarsi al seggio, scostare la tenda della cabina, scorrere la lista dei candidati, ma basterà infilare la scheda in una busta e inviarla al comune. Il prossimo passo sarà il voto elettronico.

Quest’anno si chiude dunque una lunga era, un’era di ardenti e viscerali passioni politiche che spesso sconfinava in scorrettezze e brogli ben architettati, in cui le varie «tribù» in lotta riuscivano a resuscitare anche i morti. Le cronache politiche ottocentesche narrano di raggiri continui, di violenze pressioni ricatti intimidazioni, e d’interventi della forza pubblica chiamata a ristabilire la legalità. Ora tutto questo sarà archiviato, assieme ai riti del voto segreto in cabina, «confessionale laico» in cui si poteva anche cambiare idea e «tradire» le consuetudini paterne o materne. Si voterà «in famiglia». Sarà un voto più libero e più meditato, al riparo da influenze esterne? Nessuno potrà dirlo perché tutto si svolgerà tra le domestiche pareti. Se brogli ci saranno, saranno brogli «legalizzati».

«un colpo da maestro», e Maris è rimasto ucciso nell’esecuzione. Houellebecq ha pianto, e il suo Sottomissione è diventato un presagio sanguinoso: il romanzo racconta l’islam trionfante nella Francia del 2022 di un presidente ambizioso e capace, Mohammed Ben Abbes, descritto con piglio napoleonico, che per vie democratiche ha la meglio su una società, quella francese, esausta, su una civiltà, quella occidentale, che vive la sua libertà come un peso (alle elezioni batte il Front National di Marine Le Pen, gli altri grandi partiti francesi sono già battuti). Il protagonista del romanzo, il

quarantaquattrenne François, professore alla Sorbonne esperto di Huysmans, suggerisce allora di lasciarsi trascinare, guidare, dalla sottomissione, le donne sottomesse all’uomo (tante anche, la poligamia non è esclusa, anzi), la società sottomessa ad Allah. L’islam è per François il destino ultimo per sopravvivere in pace, tre mogli (nemmeno scelte, nemmeno amate), uno stipendio grandioso, una sottomissione tenace: in Piattaforma, altro romanzo di Houellebecq, questa funzione era rappresentata dai bordelli thailandesi – «non si viene a Pattaya per rifarsi una vita, ma per finirla in condizioni accettabili». Ma i bordelli thai non hanno il sapore ideologico che ha l’islam, e la resa di fronte alla religione musulmana racconta della Francia, e dell’Occidente, molto più di quanto possa fare la sottomissione al piacere, per di più se a scrivere è un autore che ha definito l’islam la «réligion la plus con» e che per questo è finito in tribunale per incitazione all’odio religioso. Abbiamo perso la battaglia dei valori contro l’islam? Intervistato sulla «Paris Review», Houellebecq ha detto che l’illuminismo è morto, che i musulmani sono in una situazione ancora più

schizofrenica, in Europa, perché non c’è nessuno che li rappresenta, e che la Francia non si sta suicidando, anzi, in un continente che tende alla dissoluzione, la Francia prova a combattere. Ma un destino così cupo, di resa, di donne a casa che non lavorano e che non possono più indossare le loro minigonne (così muore anche l’erotismo, elemento sempre presente nei romanzi di Houellebecq) non può che far pensare a un’islamofobia dilagante, senza appello, anche se l’autore dice che non ci sono romanzi che cambiano la storia, al limite qualche saggio. In queste pagine si sente soltanto la tristezza e la rassegnazione, come se non fosse più possibile combattere, e in queste ore di cordoglio e di solidarietà con la redazione di «Charlie Hebdo», fa ancora più impressione il parallelismo tra la strage e la pubblicazione di Sottomissione, non soltanto per il tempismo e per la paura che quei colpi di kalashnikov finiscano per avere la meglio sulla libertà di pensiero, ma perché Houellebecq stesso dice, quando gli si chiede come fa a scrivere sempre e soltanto di temi controversi che lo rendono tanto inviso, lui risponde: «Oh è facile, faccio finta di essere già morto».

Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti La fine dei brogli elettorali Terminate le prove, formati o riformati gli equipaggi, le bighe dei partiti ticinesi hanno preso il via. Poco più di tre mesi di gare, con qualche interruzione, ludica (Carnevale) e religiosa (Pasqua). La lista di arrivo sarà resa nota domenica 19 aprile. Ogni tornata elettorale fa storia a sé, come nelle competizioni sportive. Per decenni, a partire dalla fine degli anni 20 con l’uscita del Partito agrario dal governo, non è successo nulla o quasi. Scaramucce, scissioni, ricomposizioni, cambio di alleanze, ma nessuna rivoluzione, nessun ribaltone. Il «governo consociativo» (due liberali, due conservatori, un socialista) esprimeva una società poco mobile, ancora disciplinata dai partiti, dalla stampa e dalle associazioni, fondata sulla distribuzione dei posti e dei mandati in base alla fedeltà alla bandiera.

Poi lo stagno ha iniziato ad agitarsi. Le increspature, in principio leggere, si sono trasformate in onde sempre più alte. Negli anni 60 idee nuove e movimenti fortemente ideologizzati hanno impresso un’accelerazione improvvisa, scompaginando le coordinate tradizionali e le logiche delle appartenenze. Le scosse telluriche che allora investirono il microcosmo ticinese – il declino del settore primario, lo spopolamento delle valli, l’esplosione del terziario, l’arrivo dell’autostrada, le città che diventavano agglomerati – hanno reciso i legami con i valori comunitari precedenti. Valori che sembravano intangibili, basati sul principio dell’autorità e dell’obbedienza, centrati sulla famiglia e sulla Chiesa, e quindi trasmessi dall’alto verso il basso, furono «messi in discussione», come usava dire allora, compresa la fedeltà

Affari Esteri di Paola Peduzzi La fine dell’illuminismo Abbiamo discusso molto di islamofobia, in queste ultime settimane in cui le librerie francesi hanno ospitato libri come quello di Eric Zemmour sul declino dei valori francesi (si intitola Il suicidio francese) e adesso quello di Michel Houellebecq sul presidente islamico che vince in Francia, e in cui Dresda, in Germania, ha visto la sua piazza centrale riempirsi, ogni lunedì, dei sostenitori di Pegida, movimento contro l’islamizzazione dell’Occidente (con sfumature neonaziste) che a ogni appuntamento diventano sempre di più. Il rapporto con l’islam in Occidente è complesso, c’è la voglia di tolleranza e di apertura, ma c’è sempre la paura, ancora più forte adesso che lo Stato islamico, nuova forza jihadista nata dalle ceneri di al Qaeda in Iraq, recluta europei per la sua causa feroce, e lo fa a ritmi che ogni volta ci sconvolgono. Poi è arrivata l’esecuzione a Parigi dei giornalisti del «Charlie Hebdo», giornale satirico, insolente, anarchico, libero, e dei poliziotti che erano lì per garantire la sicurezza di quei giornalisti, che già erano stati minacciati e colpiti. Tre uomini, armi pesanti, cinque minuti di strage, le vittime chiamate per nome e poi fucilate, dodici morti, venti feriti, gli

attentatori in fuga, con i loro passaporti francesi così simbolicamente spaventosi. Houellebecq, autore controverso dall’aria patibolare che vive chiuso nel suo appartamento guardando il traffico dalla finestra, è scoppiato a piangere quando ha saputo della strage al «Charlie Hebdo»: l’ultimo numero del giornale era dedicato al suo Sottomissione, che era arrivato in libreria proprio quella mattina, preceduto da polemiche di ogni tipo. Bernard Maris, economista alla Banca di Francia ed editorialista di «Charlie Hebdo», definiva il romanzo

Michel Houellebecq, autore del controverso romanzo Sottomissione.


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Cultura e Spettacoli More English La posizione del celebre linguista italiano De Mauro di fronte all’avanzata dell’inglese

Fincher e Eastwood Gone Girl e American Sniper, film riusciti solo in parte

Alla festa con Elsa Maxwell È stata una delle più grandi socialite della storia recente, e noi possiamo imparare da lei come organizzare la festa perfetta pagina 30

La segretaria dei Beatles Chissà quante ne avrà da raccontare... e invece purtroppo non è esattamente così pagina 31

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All’attacco del sole Mostre De Sade al Musée d’Orsay di Parigi

per il bicentenario della morte

Gianluigi Bellei È passato quasi in sordina l’anniversario della morte di Donatien Alphonse François de Sade: il divino marchese, anche se in realtà era solo un conte. Nato a Parigi nel 1740, de Sade muore nel manicomio di Charenton il 2 dicembre 1814 dopo una vita dissoluta e fuori norma nella quale, durante i 28 anni di reclusione fra un carcere e l’altro, scrive senza sosta. Libertino per vocazione, scrittore per passione – anche se assai monotono e scadente – rappresenta la summa del pensiero nichilista. Il libertinismo si sviluppa in Francia nel 1600 dopo l’assolutismo e il riaffermarsi dell’ortodossia cattolica. Il termine libertino deriva dal latino e significa colui che è diventato libero. Il Settecento è il secolo della letteratura libertina. Da Venezia a Parigi, fra balli in maschera e viaggi, l’aristocrazia si concede alla mondanità più dissoluta e gli incontri amorosi diventano momento estetico di riflessione. Giacomo Casanova abbandona la carriera ecclesiastica per una vita dissipata e nel frattempo spopolano i romanzi di ClaudeJoseph Dorat, Nicolas Chorier, Giorgio Baffo, Antonio Piazza e Vincenzo Rota. Tutti, ma in principal modo Rota con il suo Speziale di qualità del 1767, trovano un compromesso fra morale borghese e libertinaggio. Fino a de Sade dove il libertinaggio diventa violenta oscenità e provocazione. Le sue opere vengono proibite fino al 1958, anche se diverse edizioni circolano da sempre in forma clandestina. In vita de Sade pubblica in forma anonima e a sue spese Justine ou les Malheurs de la Vertu nel 1791 per poi riscrivere il romanzo sette anni dopo intitolandolo La Nouvelle Justine, ou les Malheurs de la Vertu, suivie de l’Histoire de Juliette, sa soeur, ou les Prospérités du Vice: un’opera torrenziale di ben 3600 pagine. Assieme a Les 120 Journées de Sodome, Justine è l’opera più celebre e rappresentativa che probabilmente è ancor oggi di difficile pubblicazione, soprattutto per l’ingente

mole di pagine. Da quando i suoi scritti sono entrati nel catalogo della celebre Bibliothèque de la Pléiade, de Sade è diventato un autore classico a tutti gli effetti. In italiano esiste dal 1976 una bella edizione dei Meridiani. Sono gli artisti, in ogni caso e non solo, che leggono i suoi libri clandestini: sicuramente Füssli a Londra e Goya a Bordeaux, ma un esemplare viene trovato nella biblioteca di Goethe e dei suoi testi si sono serviti Baudelaire, Flaubert e Huysmans. Rapporti di prossimità si possono trovare poi con Delacroix, Rodin, Mirabeau. Ma perché non si può leggere de Sade? Perché in lui il libertinaggio galante fa posto all’anticlericalismo e alla negazione di Dio. Dio è morto, come poi ha scritto Nietzsche, e quando un monaco diviene stupratore il cerchio si chiude tra violenza, sodomia, oscenità. Il racconto diviene così assillante pretesto e contesto di una radicale messa in discussione della naturalità delle cose e della vita. Lo status quo è ribaltato e il bene si tramuta in male e questo nella base per la felicità. Tipici sono i due personaggi di Justine e Juliette. La prima virtuosa e destinata alla sventura e la seconda viziosa e destinata alla prosperità. De Sade svuota e altera di significato i simboli della società e così facendo si pone contro l’ordine costituito e le sue convenzioni. Nelle prima pagine di Justine scrive: «Se, nonostante il rispetto per le nostre convenzioni sociali e l’accettazione delle dighe da esse imposte, ci è accaduto di non incontrare che rovi, mentre i malvagi non raccoglievano che rose, uomini con un patrimonio di virtù poco sperimentate potranno, tenendo conto di osservazioni simili, calcolar vantaggioso l’abbandonarsi alla corrente anziché resisterle». Dopo la terrifica e bellissima esposizione Crime et Châtiment («Azione» del 21 giugno 2010) il Musée d’Orsay a Parigi dedica un’imperdibile mostra, nel bicentenario della morte, a de Sade e a quegli artisti che si sono ispirati, direttamente o indirettamente alle sue

Giuditta e Oloferne (1927) di Franz von Stuck. (© Diritti riservati)

opere: da Goya a Picasso, da Courbet a Degas, da Munch a Rodin. Le curatrici – Annie Le Brun, studiosa del divino marchese e Laurence des Cars, direttrice del Musée de l’Orangerie – si sono subito interrogate sui limiti da imporsi per la scelta delle opere da presentare in un museo. Nessuna censura, è stata la decisione finale, ma solo un cartello all’entrata che avverte i visitatori sulla possibilità che le opere possano disturbare la suscettibilità di qualcuno. Sì, perché alcune immagini, come la fotografia di Jindrich Styrsky Émile vient à moi en rêve del 1933, sono di carattere pornografico e qui per pornografico intendiamo non la semplice rappresentazione degli organi genitali ma il loro essere in azione. Precisato questo, la mostra si snoda grandiosamente – grazie a più di 500 pezzi fra incisioni, foto, dipinti, manoscritti e sculture – lungo un percorso tematico che si interroga, e ci interroga, sulla questione di cosa sia stato e cosa sia oggi l’irrappresentabilità di ciò che è scandaloso. Accanto ad una casta Angélique di Jean Auguste Dominique Ingres del 1891 o a un intrigante Les Curieuses di Jean-Honoré Fragonard del 1776, troviamo Le calvaire, un inquietante

dipinto di Félicien Rops del 1882 nel quale Cristo in croce, con il membro eretto e le zampe da capra, strangola una donna nuda. Blasfema la fotografia di Man Ray del 1933 dedicata a de Sade nella quale si vedono dei glutei femminili incorniciati da una trasparente croce stilizzata che appare come un fallo rovesciato. Ma l’erotismo è anche convulsione. Sempre splendida da vedere è la Femme piquée par un serpent di Auguste Clésinger del 1847 che ha scatenato la critica al Salon di quell’anno. Lo scultore, che ha realizzato l’opera con un calco dal vero sul corpo di Apolline Sabadier, sembra chiedersi: il morso del serpente reca dolore o voluttà? Terribile invece L’Exécution di Francisco de Goya del 1808, come pure, nella sua intrigante sensualità, Orphée dépecé par les Ménades di Félix Vallotton del 1914. L’esposizione inizia con una sala video nella quale si possono vedere i principali film dedicati all’opera di de Sade, tra i quali L’Âge d’or di Luis Buñuel del 1930 e Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini del 1975, per terminare in una lunga escursione sul Surrealismo: il movimento che più di ogni altro deve al marchese una delle sue ragioni di esistere. André

Masson, per esempio, illustra Justine e La Philosophie dans le Boudoir, Hans Bellmer con le sue bambole dà forma al corpo del desiderio, Max Ernst concepisce l’irruzione dell’irrazionale e Paul Éluard canta le lodi dello «scrivano fantastico e rivoluzionario… che ha voluto restituire all’uomo civilizzato la forza dei suoi istinti primitivi, ha voluto liberare dai propri oggetti l’immaginazione amorosa. Egli ha creduto che da questo, e solo da questo, nascerà l’eguaglianza vera». Nel periodo dei Lumi de Sade inventa un mondo alla rovescia che ancor oggi ammalia; forse perché appare attuale come non mai. Bella mostra, coraggiosa, vitale, discussa, radicale: come devono essere il pensiero e l’arte, soprattutto se vogliono rappresentare l’irrappresentabile. Dove e quando

Sade. Attaquer le soleil. A cura di Annie Le Brun e Laurence des Cars. Musée d’Orsay, Parigi. Fino al 25 gennaio. Orari: ma-do 9.30-18.00, gio 9.30-21.45. Catalogo coedizione Musée d’Orsay/Gallimard euro 42. www.musee-orsay.fr


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Cultura e Spettacoli

Un futuro in inglese Fenomeni linguistici Che ce ne facciamo del plurilinguismo europeo? È il caso di cedere

all’idea di una unica grande lingua per l’Europa unita?

Visti in tivù Ospiti

dello speciale Il gioco del mondo Pippo Baudo e Maria Grazia Cucinotta

Stefano Vassere «Ma a quale lingua rivolgerci nella vita civile e politica di una piena democrazia unitaria dell’Europa? La risposta è stata già data dai numeri, dalle propensioni prevalenti in tutt’Europa. Se vogliamo un’Europa in cui tutti i cittadini parlino una lingua per discutere e decidere insieme che cosa è giusto e che cosa no, che cosa conviene e che cosa no per la comune pólis europea, oggi questa lingua è senza dubbio l’inglese». A ottantatre anni, come se ne avesse quaranta di meno, la produzione nel campo della linguistica di Tullio De Mauro è ancora sorprendente, per quantità, qualità e purezza cristallina del ragionamento scientifico: per la prima, De Mauro ci abitua sempre di più a uscite regolari e potenti, una o più volte l’anno; quest’anno per esempio, dopo la Storia linguistica dell’Italia repubblicana di qualche mese fa ecco questo In Europa son già 103. Troppe lingue per una democrazia? È un provocatorio saggio breve sul plurilinguismo europeo e sul ruolo dell’inglese – e qui arriviamo al valore qualitativo – nel «tenere insieme» continente e unione politica; perché sorprende anche come a quell’età

La lingua inglese dovrebbe assurgere a codice comune di una nuova realtà democratica si abbia ancora intatta la voglia di promuovere tesi che certo faranno discutere, spaccando la comunità degli specialisti, e non solo quella, di fronte alla promozione della lingua dell’impero come codice comune e ineluttabile della moderna democrazia europea. La tesi, come tutte le tesi coraggiose, è piuttosto semplice ed essenziale.

Antonella Rainoldi

La lingua inglese, storia di un’ascesa inarrestabile. (Keystone)

L’Europa non è un’isola e a differenza di altri continenti «politici» non è delimitata al suo interno da creste montuose e deserti ma essenzialmente da fenomeni storici e culturali che, nella storia, ne hanno tracciato i confini. Tra questi, alcuni sono linguistici o sono riportati a questioni linguistiche, e ancora tra questi c’è il multilinguismo come carattere fondante: lingue e dialetti, codici transnazionali e addirittura transoceanici, che non solo si parlano al di fuori dei propri territori storici, ma addirittura nelle terre dell’Oltremare, in altri continenti. La molteplicità delle lingue ha avuto nella storia valutazioni un po’ oscillanti: non piace certo a tutti e, talora, si accompagna alla tentazione di abbandonarsi alle lusinghe dei tratti costitutivi e unificanti dell’Europa storica: per esempio il «Vocabolario universale Europeo, che comprendesse quelle parole significanti precisamente un’idea

chiara, sottile e precisa che sono comuni a tutte o alla maggior parte delle moderne lingue colte», dello Zibaldone di Leopardi. Ma altre consonanze si annunciano; e tra queste l’idea di una lingua inglese che dia pace al tutto; certo non una lingua comune, di carattere mediano e di largo uso che si impone a colpi di hamburger e alta finanza, ma qualcosa di più concreto e profondo, imparato nei suoi aspetti linguistici e socio-culturali. «Non come globalesisch o inglese aeroportuale, turistico, commerciale, ma come pieno possesso di una lingua ricca di tutto il suo spessore e della capacità di arricchirsi degli apporti di tutte le culture e lingue dell’Europa». Un processo, quello tracciato da De Mauro per la diffusione consapevole dell’inglese come codice comune della nuova realtà democratica europea, che funzioni un po’ come l’affermazione dell’italiano nella re-

altà postunitaria, dove «abbiamo imparato l’italiano senza cancellare i nostri diversi dialetti». Nei dialetti, gli italiani (e, perché no?, anche gli svizzeri italiani) hanno portato molta «cultura nazionale» e la lingua italiana si è contestualmente arricchita di valori come il colore, l’informalità e la spontaneità portati in dote dai diversi dialetti. Ecco, così l’inglese e le altre lingue europee nell’Europa linguistica del futuro: «portare nell’uso dell’inglese tutta la ricca varietà di culture, di significati e di immagini delle diverse lingue, senza abbandonarle, e portare nelle nostre lingue il gusto della concisione e della limpidezza dell’inglese». Bibliografia

Tullio De Mauro, In Europa son già 103. Troppe lingue per una democrazia?, Roma-Bari, Laterza, 2014.

Alcuni libri di poesia Meridiani e paralleli Le più o meno recenti pubblicazioni dedicate alla poesia lasciano

ben sperare: nel nostro Cantone qualcosa si muove

Giovanni Orelli 1. È Mauro Valsangiacomo che fa vivere, coraggiosamente e bene, con sacrifici suoi e di chi collabora con lui, le edizioni di «alla chiara fonte», LuganoViganello. Ma Vals, oltre a fare tutto quello che fa per l’editoria, scrive, dipinge, scolpisce, in particolare con il legno. Uno dei suoi bianchi volumetti ha come titolo Meditazione sul medio oriente, pitture e sculture di Mauro Valsangiacomo con la presentazione di Elisabetta Mero (nata a Milano nel 1983; Vals è del 1950) è stato pubblicato per l’esposizione alla galleria «Il Cavalletto» di Locarno, settembre-novembre 2014. Per Vals, la Mero parla di «una tendenza a non descrivere ma a evocare attraverso pennellate ricche di colore denso che, secondo il pittore, è vicino alla pittura barocca di Giovanni Serodine». Le riproduzioni in piccolo nel volumetto fanno pensare al bello degli originali. Io penso in particolare a Chiesa in fiamme, olio su tela del 2014, cm 120 x 100. 2. Francesca Coda. Il suo Pensiero laterale è del dicembre, ma non 2014, bensì del 2008. Ho però l’impressione che, con i tanti o troppi libri che escono, il volumetto della Coda non abbia trovato i lettori che invece si merita. Un solo esempio. E scelgo la poesia di p. 18, che

Rsi, Canetta e l’effetto numeri uno

ha per titolo Stupida (titolo forse mal scelto: avrei preferito ripetere il titolo del volumetto o, leopardianamente Il pensiero dominante). Ecco la poesia: «La bimba giace morta in ospedale / e io penso ai panni stesi, / alla minaccia del temporale. / Dirimpetto alla tragedia, / cosa faccio con questi pensieri / che non si spigliano dal quotidiano / da cui torno a scacciarli. / Vorrei stare vicina, / condividere, compatire / e i pensieri fuggono / a quei panni zuppi / che non serviranno più». D’accordo per l’uso del «banale» dirimpetto (accostato a tragedia). Un po’ meno per spigliano (spigliato, come aggettivo, o.k.; spigliare come verbo qui mi pare dubbio...). Ma la Coda ci sa fare... 3. Enzo Pelli. Questa, Momenti irripetuti (sempre «alla chiara fonte», settembre 2014) è la prima raccolta di poesie del Pelli (nato a Lugano nel ’48, prima era alla televisione). Non è piacevole, e mi devo ripetere, scegliere un solo testo (meglio, suggeriscono, se breve): ecco allora un flash che poteva anche intitolarsi «Ticino d’oggi» e invece è Scavatrice gialla, p.11: La scavatrice gialla a colpi di dente solleva sassi e terra senza sforzo senza rimorso. Stasera dell’orto non resterà niente.

La sostanza del contenuto di questi semplici, volutamente elementari versi, tende a convincere che il paese, diciamo pure per semplificare, il Ticino, non va così bene come dicono che vada e sulla litote (dire che «non va così bene» per non dire che inclina spesso verso il male) veda per conto suo il lettore. A me interessa anche il «senza rimorso» della scavatrice gialla (allegoria della borghesia «scavatrice»? Ma allora dirà forse qualcuno – allora questa è poesia politica? Guai!) 4. Alfred Andersch. È nato cento anni fa in Germania in tempo, dati i suoi anni, per essere deportato due volte, a Dachau, nel 1933 e nel ’44 (Peter Uhlmann, nell’introduzione a Pezzi di terra, trad. italiana di Mattia Mantovani, «alla chiara fonte» 2014, informa molto meglio di me); ma è anche ticinese: Berzona è nel Ticino. Non entro nei particolari, perché voglio servirmi delle non molte righe che ho per segnalare un altro suo libriccino che se lo merita ampiamente: Dort wo Du nicht warst; che contiene libere versioni da poeti italiani del ’900. Andersch si dà da fare, traducendo bene, per far amare un po’ di più la lingua (e la poesia) italiana nel mondo tedesco. Ma torno a Pezzi di terra, p. 35, per alcuni versi brevi di L’architetto di San Nicolao, Giornico, parla: «nient’altro che / trenta strati /

di blocchi di granito (...) ma quando / la strada nazionale due / e la linea del gottardo saranno / nuovamente scomparse / io continuerò a / esserci / e ripeterò / ciò che ho / già detto / nell’anno 1210 / la mia / grigio-azzurra / di graniti quadrati / definitiva / benedettina / parola». La leggano, per intero, non solo i ticinesi. 5. Leonardo Tonini. Nulla so di lui, se non che è nato nel 1974 e che fa il giardiniere. Un doppio augurio. Ma di lui parlano versi suoi in Megalopoli:

Sarà stata la pausa natalizia, la necessità di riempire il palinsesto, ma la RSI è riuscita a fare di un tappabuchi un appuntamento degno di essere onorato, come pochi altri supplenti a cavallo tra il vecchio e il nuovo anno. Stiamo parlando de Il gioco del mondo (La1, domenica, ore 19.20). Nel periodo festivo Damiano Realini ha passato temporaneamente il timone del programma a Maurizio Canetta, in trasferta in Italia per incontrare due «numeri uno», Pippo Baudo e Maria Grazia Cucinotta (seguirà a Pasqua Carla Fracci). Vogliamo subito sbilanciarci: insieme a Reto Ceschi, Maurizio Canetta è il nostro «televisivo» preferito. Forse perché possiede un lato umano e all’occorrenza lo sa mostrare, forse perché l’ironia non gli fa difetto, forse perché Canetta ha avuto il coraggio di togliere dal video qualche volto imbarazzante (forza direttore, che la strada è ancora lunga!), forse perché era ed è un ottimo conduttore, abile nello scandagliare psicologie, nel frugare le menti, mescolare i piani del discorso, tessere storie. Inutile spiegare cosa ha fatto Canetta nelle due puntate speciali de Il gioco del mondo: dopo aver consegnato dadi e pedine ai «numeri uno», ha fatto il suo mestiere. Con Pippo Baudo si è comportato come ci si comporta quando si ha di fronte un personaggio di chiara fama, compiaciuto e incontenibile, del genere leader sempiterno: ci si tiene in disparte, si dosano le domande e le parole, si assume un atteggiamento privo di graffio, si lascia molto spazio ai monologhi. Possiamo sbagliarci, anzi sicuramente ci sbagliamo, ma i soliloqui di tradizione baudiana danno un po’ l’impressione di essere lunghi e frusti, troppo lunghi e frusti per incuriosire lo spettatore. Con Maria Grazia Cucinotta, attrice e produttrice cinematografica messinese, le cose sono andate diversamente. Canetta è tornato a manifestare le abilità cui ci aveva abituati, e il risultato finale è stato molto convincente. Dall’intervista è uscito il ritratto di una donna bella e intelligente, schietta e piena di ironia, completamente estranea ai pregiudizi, allergica alle «piccole menti, come le persone invidiose», impegnata «nella causa delle donne», nella professione e nella famiglia. Ci voleva Canetta per capire che Cucinotta è molto meglio di come appare nei film e nella tv italiana.

Finché non mi dirai: il lavoro è fatto. Quindi alzai gli occhi e vidi (...) Il poeta gioca, se non vedo male, tra finché e quindi. Finché, banale e poco usato nel parlar quotidiano, è termine nobilitato nella poesia: «Finché dei tuoi capelli emulo vano» comincia uno dei più bei sonetti del mondo... : è il 151 di Gongora («Mientras por competir...», qui nella versione di Ungaretti). È rinascita del latino «usque dum vivam et ultra»: fin ch’io viva e più in là... Su questi finché e quindi si potrebbe continuare. Ma qui premeva anche dire che non poca poesia di oggi, di scrittori più o meno giovani, fa bene sperare senza darsi alla vanagloria, per le lettere nella Svizzera italiana...

Maria Grazia Cucinotta ospite de Il gioco del mondo. (rsi.ch)


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Cultura e Spettacoli

Guerre in Iraq e in famiglia Cinemando Abili, interessanti e discontinui: gli attesi film di David Fincher e Clint Eastwood

Fabio Fubagalli ** Gone Girl – L’amore bugiardo,

di David Fincher, con Ben Affleck, Rosamund Pike, Carrie Coon, Neil Patrick Harris (Stati Uniti 2014) David Fincher è un sofisticato cuciniere. Capace d’inventare ricette complesse e pure appetitose come Gone Girl. Per poi farsi commensale dagli occhi più grandi della propria pancia quando giunge il momento di gustarle. Il film è tratto da un romanzo da sei milioni di copie dell’americana Gillian Flynn; alla quale, forse di conseguenza, è riuscito (fatto assai raro in produzioni del genere) di assicurarsi in esclusiva la stesura della sceneggiatura. Ma non sarà che in questi casi la prima tentazione dell’autore letterario rischia di risolversi nell’ansia di affinare con ulteriori vicissitudini e contorcimenti narrativi la propria creatura? Puntualmente, Gone Girl sfocia allora in un brillantissimo mostro (ricordate il serial killer biblico-psicopatico di Seven, mitica entrata in materia di Fincher?), ma dalle molte teste. Thriller coniugale (l’amore appassionato, l’usura del rapporto coniugale, la vicendevole manipolazione, l’enigma eventualmente mortale) ingigantito dalla satira sulla speculazione mercantile da parte del circo mediatico (la scena del dramma trasformata in reality show), dallo scetticismo sugli inquirenti (incuranti di riflettere

sulle vere ragioni della scomparsa improvvisa di una moglie apparentemente appagata). Soprattutto riflessione su una società prigioniera delle apparenze, già dalla costruzione artificiosa dei sentimenti più intimi. Un’operazione encomiabile: ma che risulta annacquata, assieme all’efficacia stessa del thriller, dai mille cambiamenti di rotta in atto. Filmata dall’autore di magistrali labirinti estetico-intellettuali come Zodiac e Il curioso caso di Benjamin Button, in presa diretta con capolavori sul tema, a cominciare dagli hitchcockiani Rebecca, Il sospetto o Il delitto perfetto, tutta questa materia affidata a un talentuoso ingordo della manipolazione cinematografica come Fincher, rappresentava una bomba a orologeria: scomporre, capovolgere infinite volte l’apparenza delle cose, verità e psicologie presunte. Un Ben Affleck molliccio a dovere in uno dei suoi ruoli migliori e una Rosamund Pike che aspira ad inserirsi nella corte di enigmatiche seduttrici come Grace Kelly, Kim Novak o Eve Marie Saint, affrontano valorosamente le due ore e ventinove minuti (ma quando la smetteremo di esasperare le durate al di là dei limiti fisiologici dello spettatore?) dei capricci contorti della sceneggiatura. È un gioco più crudele che avvincente per la vittima in sala; che al cinema è portata a «credere» alla verità, per sua natura fotografica, di quanto le viene mostrato.

Bradley Cooper, protagonista di American Sniper.

** American Sniper, di Clint Eastwood, con Bradley Cooper, Sienna Miller, Jake McDorman (Stati Uniti 2014)

Ispirato alla vita e all’autobiografia di Chris Kyle, sottoufficiale dei Navy Seal e cecchino leggendario che in Iraq protesse l’avanzata dei marines uccidendo più di 200 persone (un record nella storia militare USA), l’ultimo film dell’ottantaquattrenne maestro di molte battaglie non è una riflessione sulla guerra. Ma un ritratto di sé stesso, della propria filosofia, del proprio modo di porsi nei confronti della Patria. Non si tratta allora di mettere in discussione la perizia di un cineasta che non solo rappresenta l’ultimo erede del grande classicismo hollywodiano, ma che sull’uso della violenza ha costruito molta parte della sua gloriosa filmografia. Secche, implacabili, spesso vissute

attraverso la visione distaccata, chirurgicamente analitica, di un visore posto sopra un’arma usata con micidiale destrezza, sull’esitazione dell’indice appoggiato al grilletto, le scene di guerra di American Sniper non sono solo difficilmente eguagliabili in termini di realismo. Nella loro efficacia, nella semplicità e precisione con la quale traducono lo sguardo del cineasta esse si caricano quasi inconsciamente di un peso morale che, impresso su uno schermo, sedimenta nella memoria ben oltre tanti discorsi. Rimane il fatto che il film è tutto costruito su una serie di andirivieni fra l’orrore della battaglia e l’aspirazione alla serenità famigliare, costituita dalle pause fra una missione e l’altra del protagonista. Meglio dimenticare allora l’incontenibile emozione suscitata da quel genere di contrapposizione

ne Il cacciatore di Michael Cimino per rendersi conto della convenzionalità delle rimpatriate di American Sniper. È allora dovuta allo schematismo della sua costruzione drammatica (alleata allo scarso carisma del protagonistaproduttore Bradley Cooper e consorte Sienna Miller che non stimolano di certo l’identificazione dello spettatore) l’impressione di uno scarso approfondimento ideologico di una pellicola nella quale non si «dice» mai l’essenziale? Di quanto in ognuna delle due parti ci siano i buoni e i cattivi, di quanto questa distinzione venga progressivamente obnubilata nell’infamia di ogni guerra. Forse, American Sniper è soprattutto il film di un Grande Vecchio che volge uno sguardo a ritroso sul proprio esauriente cammino; riaffermare i propri atti di fede gli appare ormai sufficiente. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Come ti organizzo un party Pubblicazioni Party! L’arte del divertimento è un libro di preziosi consigli per una festa perfetta

dispensati a piene mani da Elsa Maxwell, socialite ante litteram Mariarosa Mancuso I buoni propositi per l’anno nuovo di Mark Zuckerberg prevedono la lettura e il commento di almeno due libri al mese: consideriamolo un pentimento da parte di chi ha inventato Facebook e fornito ai lettori (anche ai romanzieri come Jonathan Franzen, che per concentrarsi riempiva di colla la presa atta a mettere il computer in rete) una potentissima arma di distrazione quotidiana. «A year of book» è il nome del suo club del libro. Sulla falsariga del circolo, celebre e seguitissimo, fondato da Oprah Winfrey: la star della tv americana nata poverissima in un tugurio impestato di scarafaggi, diventata miliardaria e capace di imporre come lettura estiva agli spettatori del suo programma in tv l’ostico William Faulkner. Oltre che di ospitare nel suo divanetto per le interviste uno scrittore orso come Cormac McCarthy di The Road. «Gliel’ho chiesto, e lui mi ha detto sì», disse a sua discolpa, vittoriosa dove i colleghi del «New York Times» avevano fallito. Siccome due libri al mese li leggevamo già prima che Mark Zuckerberg li facesse diventare un obbligo social, tra i nostri buoni propositi per il 2015 abbiamo segnato «più feste, più cene, più conversazioni brillanti». Torna utile un manualetto uscito da Elliot, con il titolo Party! L’arte del divertimento. Lo ha scritto Elsa Maxwell, la grande pettegola d’America negli anni 40 e 50, in

radio e poi sui giornali, e prima ancora fantastica organizzatrice di feste mondane (quando non le organizzava lei, era una richiestissima ospite, a dispetto del fatto che se ne andava in giro abbigliata come un albero di Natale, anche quando a fornirle gli abiti da sera erano i sarti più in voga del momento). «Eva diede la sua prima festa solo con una mela» sostiene miss Maxwell, che non si sposò mai e coltivò una devastante cotta, neanche lontanamente ricambiata, per Maria Callas. Tra le ispiratrici, la festaiola nata nell’Iowa e cresciuta a San Francisco (bravissima al pianoforte, suonava nei cinema dove si proiettavano i film muti) conta anche l’egiziana Hatshepsut, vissuta due millenni prima di Cristo: la faraona si era autonominata «rinnovatrice di cuori», tanto era il piacere che regalava ai suoi invitati. Da lei si passa con un balzo a Isabella d’Este, consorte del duca di Mantova. Per essere ammessi al suo cospetto i maschi del rinascimento impararono a destreggiarsi con una moderna diavoleria chiamata forchetta. Chiusi i brevi cenni storici, il libro affronta i fondamentali dell’arte, collaudati in duemila feste organizzate sull’arco di 40 anni: scelta degli invitati, luoghi e orari, menu, divertimenti, cortese fermezza nello zittire gli ospiti che fanno i marpioni con le ragazze (nessun uomo veramente affascinante pratica forme di seduzione così sfacciate, solo le mezze tacche indulgono), oppure raccontano storielle sconce, oppure bevono più di quel che riescono a reg-

Elsa Maxwell e Gina Lollobrigida durante una festa a Berlino nel 1958. (Keystone)

gere. L’altra festaiola Dorothy Parker – mise in versi l’escalation della sbronza: «Adoro farmi un Martini, perfino un secondo bicchiere, al terzo finisco sotto il tavolo, al quarto sotto il mio cavaliere» – sarebbe stata cacciata via subito. Scopriamo che Elsa Maxwell inventò le feste con caccia al tesoro e le feste

Masterchef, dove gli invitati gareggiano cucinando le loro specialità (non è detto che escano sempre piatti mangiabili, o all’altezza degli standard di una padrona di casa esigente, ammette, ma l’atmosfera si riscalda subito, e le chiacchiere su «ma io le friggo con il burro» prendono il posto dei più rischiosi pette-

golezzi). Meno consigliabile la richiesta all’ospite pianista o cantante di esibirsi: solo i mediocri accettano, i bravi non si fanno trascinare (facendo il verso al regista e sceneggiatore Billy Wilder, che si vantava di non aver mai scritto una riga se non a pagamento, «non una nota se non dietro compenso»: così lavorano i professionisti). In tempi non sospetti, la «party animal» di nome Elsa deplorava la moda dell’aperitivo, senza sapere che si sarebbe riproposta – nei locali pubblici, non più in case private – ai nostri giorni. Troppo alcool, troppi canapé (anche pizzette o bruschette, per noi, e non parliamo neanche delle frittatine o del cuscus, o delle insalatone punteggiate di mais), nessuna certezza, per gli ospiti e per la padrona di casa, sull’ora di andarsene via. «Cacciateli», è il consiglio: l’indomani vi saranno grati per non aver bevuto l’ultimo bicchiere che li farà risvegliare con i postumi della sbronza. Consigli da tenere presente, anche se le feste non si organizzano per mestiere. Meno aperitivi e più cene tranquillamente seduti a un tavolo potrebbe essere un altro dei buoni propositi. Sulla conversazione, si prende quel che offre il mercato, avendo cura di scegliere chi all’arte ancora si dedica. Senza annoiare gli astanti con le sue diete, con le sue intolleranze alimentari, con il numero di flessioni fatte in palestra e certificate dal braccialettino che misura le pulsazioni, con i suoi amori finiti in rissa. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Yes, una lunga avventura Musica Ancora sulla breccia: anche dopo la rivoluzione provocata

dall’arrivo di un nuovo cantante, la storica formazione degli Yes continua la sua avventura con un album dal vivo

Benedicta Froelich Tra tutti i generi musicali che hanno vissuto il loro maggior momento di gloria commerciale durante l’irripetibile e prolifica stagione degli anni 70, quello del rock cosiddetto «progressive» è forse l’ambito che più ha risentito del passare del tempo. In effetti, le pur eccellenti band «prog» della scena internazionale (non solo la celeberrima scena angloamericana, ma anche quella italiana, come dimostrato dal successo degli Area di Demetrio Stratos) non sono riuscite, nei decenni successivi, a riprodurre la straordinaria popolarità e la notevole influenza culturale che ne aveva caratterizzato la prima fase di carriera; tanto che la maggior parte di esse si sono sciolte o hanno cessato l’attività discografica non appena si sono rese conto di come il loro stravagante e vagamente lisergico stile musicale avesse perso lo smalto della novità per farsi d’un tratto «datato». Fortunatamente, la formazione britannica degli Yes rappresenta un’eccezione a questa regola impietosa: nonostante una storia turbolenta, fatta di molteplici scioglimenti e sostituzioni, la band è a tutt’oggi ancora attiva non solo dal punto di vista discografico, ma anche per quanto concerne la presenza live, grazie a tournée che si susseguono regolarmente da un continente all’altro. Certo, gli Yes hanno dovuto rivoluzionare radical-

mente la propria line-up, al punto da avere oggi un nuovo cantante che sostituisce, peraltro in modo tutt’altro che disprezzabile, l’indimenticato Jon Anderson (nonché il precedente rimpiazzo Benoit David); e per quanto ciò possa apparire anacronistico, il fatto che, in termini canori, il nuovo frontman – il quasi omonimo Jon Davison – presenti un timbro e un’estensione differenti da quelli di Anderson non lo scoraggia dal tentare, con intelligenza e disinvoltura, di adattare il proprio registro vocale al complesso schema musicale da sempre marchio di fabbrica della band. È questo fattore cruciale a permettere oggi ai redivivi Yes di pubblicare un buon album live come il nuovo Like It Is: Yes at the Bristol Hippodrome, appena giunto nei negozi come testimonianza del «Three Album Tour» del 2013-14, che ha fatto seguito alla pubblicazione del primo disco inciso con Davison alla voce (l’interessante Heaven & Earth, uscito nel luglio 2014). Superato il primo momento di incertezza nell’udire un altro cantante declamare le amate strofe di pezzi storici quali Wonderous Stories e Awaken, si scopre così che i virtuosismi strumentali di Starship Trooper o Turn of the Century mantengono l’eccellenza di sempre, senza che la tanto temuta goffaggine guasti l’effetto finale: il che permette ai brani di due dischi illustri come Going for the One (1977) e The Yes Album (1971), eseguiti per intero

in questo live, di non essere troppo intaccati dai vari «passaggi di testimone» succedutisi all’interno della band. Quella che si presenta all’ascoltatore è perciò una setlist serrata, condotta dall’inizio alla fine con professionalità, in barba alle difficoltà di esecuzione inevitabilmente insite nel repertorio degli Yes, i cui complicatissimi arrangiamenti e frequenti overdub vocali e orchestrali sono difficilmente riproducibili sul palco; ma di sicuro, ai più esigenti tra i fan di vecchia data non sfuggiranno alcune piccole mancanze, legate alle infinite vicissitudini degli ultimi anni di carriera del gruppo – su tutte, il fatto che il tastierista Geoff Downes (sì, proprio quello del duo The Buggles, responsabile della mega-hit anni ’80 Video Killed the Radio Star) non potrà mai raggiungere l’eccelso livello tecnico di un mostro sacro come il suo predecessore Rick Wakeman, inizialmente rimpiazzato dal figlio Oliver. Allo stesso modo, a tratti si può notare una lieve stanchezza nel tappeto sonoro un tempo fulgido e incredibilmente fluido offerto dai membri del gruppo: e in effetti, laddove Davison mostra una grande energia nei panni di vocalist, lo stesso non si può sempre dire dei colleghi agli strumenti, i quali talvolta arrancano sulle complessità dei loro arazzi sonori – un fattore che, inevitabilmente, rinforzerà l’opinione di alcuni fan, secondo i quali l’epoca d’oro degli Yes è ormai terminata, e l’attuale

Cosa c’è ancora da scoprire sui Beatles? Musica Un nuovo libro e un nuovo film cercano di aggiungere

sostanza all’imperituro mito del rock

La copertina della recente fatica degli Yes.

incarnazione della band è da considerarsi come nient’altro che il pallido riflesso di un lontano passato. Tuttavia, bisogna dire che, nonostante il vigore di un tempo si sia in parte trasformato in vago manierismo, è difficile non provare stima verso una band che, in barba a qualsiasi rivoluzione o lotta intestina, è sempre riuscita a reinventarsi e a proseguire con la propria attività, in primis per profondo desiderio e pas-

sione per la musica. Dalla loro nascita, nel lontano 1968, gli Yes hanno attraversato la magica stagione del progressive per poi reinventarsi, negli anni 80, in chiave più pop ed easy listening, e riuscire, malgrado tutto, a giungere fino ai giorni nostri relativamente indenni. E anche solo per questo, ogni vero amante del «prog rock» dovrebbe nutrire verso di loro un piccolo, grande debito di gratitudine. Annuncio pubblicitario

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Zeno Gabaglio Sono passati circa 55 anni dal concerto amburghese in cui, per la prima volta, un gruppo si esibì con un contratto a nome The Beatles; e il prossimo 30 gennaio saranno 46 anni esatti dall’ultimo concerto tenuto dallo stesso gruppo sul tetto di un palazzo al numero 3 di Savile Row a Londra. È quindi passato ormai mezzo secolo da quei nove anni che cambiarono la storia della musica, ma anche del costume, anche della società e – perché no? – anche del mondo. Un’epopea, quella dei Beatles, che oltre a vendere miliardi di dischi ha fatto versare oceani d’inchiostro, nel tentativo di svelare, analizzare e capire ogni piega del vissuto e delle opere di John, Paul, George e Ringo. Per questo motivo in qualche modo stupisce che oggi ci sia ancora spazio per pubblicare – con squilli di tromba e lacrime di fan – novità editoriali a proposito dei Fab Four. Eppure così è, se vi pare. La segretaria dei Beatles

La meravigliosa serie Real Cinema di Feltrinelli ha da poco pubblicato in libro+DVD quello che è stato annunciato come il film-rivelazione sulla genesi dei Beatles: Freda Kelly – la loro segretaria di sempre, nonché vicina di casa, sostenitrice della prima ora e guida del fan club ufficiale – finalmente ha accettato di mettersi davanti a una videocamera e lasciarsi intervistare. In questo genere di casi prodigiosi la domanda è però sem-

pre la stessa: perché fino a oggi nessuno aveva mai provato a ottenere e a pubblicare una sua intervista? E le risposte possibili sono sempre e solo due: perché è successo qualcosa di forte che solo ora l’ha spinta a vuotare il sacco gelosamente custodito per decenni, oppure perché semplicemente non ha niente da dire. Purtroppo per noi la risposta giusta è la seconda, perché la superficialità con cui la Kelly riporta alla luce fatti insignificanti e la riservatezza (a cinquant’anni di distanza con solo due dei Beatles ancora in vita?) con cui evade le poche domande mirate a bersagli più sostanziosi lasciano un’unica impressione: questa donna ha vissuto nell’epicentro del più grande terremoto musicale percependo solo qualche scossa di assestamento. George Martin – L’estate di Sgt. Pepper

Ben diversa – per fortuna – è la percezione del fenomeno-Beatles avuta dal produttore discografico George Martin: talmente cosciente e complice che il suo lavoro ideativo all’interno della musica dei Beatles gli è valso il soprannome di «quinto Beatle». Sono infatti sue le mani che hanno ordinato e plasmato le idee musicali di quasi tutti i dischi dei Favolosi Quattro. Compreso quel capolavoro di estetica e sociologia che fu Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, l’ottavo album della discografia ufficiale dei Beatles uscito il 1. giugno 1967. Quel disco fu una rivoluzione di idee e di messa in pratica – il primo vero concept-album,

Requisiti – Formazione di livello superiore con specializzazione nel settore della formazione continua e/o della formazione in azienda; – Esperienza negli ambiti manageriale e della gestione delle risorse umane; – La conoscenza del tedesco parlato e scritto costituisce un requisito importante; – Spiccate capacità organizzative, dinamismo, creatività e spirito d’iniziativa; – Buone doti comunicative e relazionali, attitudine al lavoro in team.

Freda Kelly, storica segretaria dei Beatles.

il primo lavoro di studio a prevalere sull’attività live – che non lasciò il rock più uguale a sé stesso, e che qui puntualmente rivive nelle pagine redatte da uno dei suoi fautori. In realtà Martin il libro lo scrisse nel 1993 ma solo ora – grazie a La Lepre Edizioni – se ne può avere una versione in italiano. Ed è un vademecum imprescindibile per tornare alla genesi di quel disco in quella magica estate in cui le persone «si emarginavano dalla società, si facevano crescere i capelli, si dipingevano il corpo, si reinventavano il sesso. Contemplavano l’eventualità di fare una rivoluzione ma anche i propri ombelichi. Avevano i fiori, che per loro rappresentavano il potere. Avevano erba e acidi, ottimismo ed entusiasmo. Avevano gli happening, i be-in e i love-in. Avevano l’idealismo, l’energia, i soldi e la giovinezza. E avevano anche un’altra cosa: avevano la musica».

Mansioni – Analizza i bisogni formativi dell’azienda ed elabora il piano di formazione annuale; – Sviluppa e organizza interventi formativi volti a migliorare le competenze del personale e del management; – Si occupa dell’erogazione di corsi e di varie attività di affiancamento, di coaching e sviluppo delle risorse umane; – Realizza progetti nell’ambito del settore assegnato e collabora a progetti aziendali di gestione delle risorse umane; – Collabora con diversi partner interni ed esterni all’azienda; – Contribuisce a garantire una completa informazione dei collaboratori nell’ambito di una gestione del personale moderna e dinamica; – Cura i contatti a livello nazionale e si occupa dei relativi dossier specifici. Offriamo – Salario attrattivo e prestazioni sociali all’avanguardia; – Ambiente di lavoro aperto e dinamico. Saranno prese in considerazione unicamente le candidature con i requisiti corrispondenti al profilo indicato. Le persone interessate possono inviare la loro candidatura, corredata da un curriculum vitae e da fotocopie dei certificati d’uso a: Cooperativa Migros Ticino Dipartimento Risorse Umane Casella Postale 468 6592 S. Antonino


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Idee e acquisti per la settimana

shopping «Vi aspetto per consigliarvi al meglio» Attualità Luca Finardi è il vostro nuovo

referente per l’acquisto di pesce fresco nel supermercato Migros di Locarno. Lo abbiamo incontrato

Signor Finardi, qual è l’aspetto più stimolante del suo lavoro in qualità di responsabile del banco pescheria di Locarno?

Sicuramente il contatto quotidiano con la clientela e il piacere di consigliarla il meglio possibile con le specialità ittiche più variegate e con ricette appetitose. È sempre appagante poter trasmettere le mie conoscenze sui prodotti, maturate in diversi anni di esperienza nel settore ittico. Quali sono i pesci che preferisce personalmente?

Quelli di mare, perché li trovo particolarmente saporiti. Tra i miei preferiti figurano ad esempio la rana pescatrice oppure il branzino. Quanto è importante per lei il tema sostenibilità?

Luca Finardi, responsabile banco pescheria, Migros Locarno. (Vincenzo Cammarata)

Moltissimo. È importante contribuire tutti insieme alla lotta contro l’eccessivo sfruttamento dei mari e dei

laghi. Per questo tutto il pesce venduto presso i banchi a servizio Migros proviene esclusivamente da fonti sostenibili. Garanti di questo impegno sono i marchi MSC, ASC, Bio e Pesce Svizzero. Una sfiziosa ricetta per i nostri lettori?

Filetti di branzino alla mediterranea: per quattro persone servono due filetti di branzino a testa, qualche oliva, un cucchiaio di capperi, 400 g di pomodorini cherry, 800 g di patate, mezzo bicchiere di vino bianco e olio extravergine d’oliva. Procedimento: adagiare i filetti di branzino in una pirofila e coprirli con le patate pelate e tagliate a cubetti, i pomodorini dimezzati, le olive e i capperi. Aggiungere mezzo bicchiere di vino bianco, un filo di olio extra vergine d’oliva, salare e pepare. Coprire con un foglio d’alluminio e infornare nel forno caldo a 180 gradi per una trentina di minuti.

Le trote nostrane diventano bio Novità Le trote nostrane hanno ricevuto la certificazione

Le trote della Piscicoltura di Pura sono state contrassegnate con il marchio di qualità bio. Le trote qui allevate, della varietà iridea, vivono in limpidi laghetti di acque sorgive a temperatura costante, dispongono di ampi spazi i cui nuotare e ricevono esclusivamente mangime di origine biologica. I pesci vengono catturati al raggiungimento dei

18 mesi di vita – rispettivamente 250 grammi di peso – e subito lavorati affinché entro breve tempo possano già essere disponibili sugli scaffali dei supermercati di Migros Ticino. Una carne compatta, un sapore delicato e l’incredibile versatilità culinaria fanno della trota uno dei pesci più apprezzati dagli amanti della buona tavola.

Giovanni Barberis

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Idee e acquisti per la settimana

Contro i malanni dell’inverno Tosse, mal di gola e raucedine sono tipici malanni dell’inverno. Con i prodotti Medisana di Actilife i rimedi sono a portata di mano

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1 Vescica e vie urinarie Le capsule di cranberry impediscono ai batteri di aderire alle pareti della vescica. In questo modo la vescica e le vie urinarie sono meno soggette alle infezioni. Actilife Medisana Cranberry MED 30 capsule Fr. 10.80 Prodotto medicinale – nelle maggiori filiali

2 Contro le infezioni

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Le pastiglie da succhiare sono un’ottima protezione naturale contro i rischi di infezioni. I tannini dell’estratto di cistus echinacea aderiscono alle mucose della bocca e della gola formando uno scudo protettivo. In tal modo contribuiscono a bloccare virus e batteri. Actilife Medisana Cistus-Echinacea ImmunFit 30 pastiglie da succhiare Fr. 8.90 Prodotto medicinale – nelle maggiori filiali

3 Per mal di gola e raucedine

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Le compresse da succhiare proteggono dalle irritazioni alla bocca e alla gola provocate da raffreddori, dall’eccessiva sollecitazione delle corde vocali oppure dall’aria secca. Alleviano quindi il mal di gola e la raucedine. Actilife Medisana Mal di gola & raucedine 30 pastiglie da succhiare Fr. 7.90 Prodotto medicinale – nelle maggiori filiali

4 Calmante per la tosse Allevia la tosse e seda lo stimolo di tossire. Il calmante per la tosse contiene un estratto di muschio islandese e un aroma di piantaggine. Queste collaudate sostanze vegetali hanno un effetto calmante, depositandosi sulle membrane infiammate e sensibili. Actilife Medisana Calmante per la tosse 200 ml Fr. 7.50 Prodotto medicinale – nelle maggiori filiali

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Idee e acquisti per la settimana

Oggetto di culto Il 6 giugno 1958 alle sei è nata ufficialmente la marca Handy. Il detersivo per stoviglie della Migros è diventato ormai un oggetto di culto. I fans lo amano non da ultimo per il flacone maneggevole nell’elegante design retrò Testo: Dora Horvath Foto: Yves Roth, Peter Hebeisen Styling: Marlise Isler

Con questa immagine si invitano i frequentatori dei cinema a spegnere il loro cellulare. È stata creata dall’agenzia zurighese Bildwurf.

SERIE

Non si può dire con sicurezza assoluta chi sia il padre di Handy, spiega la Federazione delle Cooperative Migros, «con buona probabilità Hanspeter Spohn, che allora era responsabile del reparto Detersivi, Carta, Cosmetici». Quello che è sicuro al 100% è che l’inventore ha fatto un bel colpo. Il «detersivo a mano per stoviglie pulite e brillanti» colpisce per la sua semplicità. In primo luogo per il design, immutato da decenni: non pretenzioso, senza ghirigori, arancione e bianco, la forma ridotta a pura funzionalità. Così il tappo allargato impedisce che durante le ope-

razioni di lavaggio il flacone sfugga dalla mano bagnata finendo nel lavandino. A prescindere da piccoli adattamenti, anche il contenuto è rimasto invariato. Il suo discreto profumo di limone va contro la tendenza generale verso la profumazione eccessiva. C’è allora da stupirsi se incalliti fans di Handy, quando gli capita di acquistare un altro detersivo, lo travasino nel loro flacone vuoto di Handy? Nell’era di Handy, il flacone rosso diventato ormai cult ha perfino fatto ingresso nella pubblicità delle sale cinematografiche. Grazie all’agenzia zurighese Bildwurf.

Noi firmiamo. Noi garantiamo. Parte 1 Dal detersivo per stoviglie, alle barrette di cioccolato, fino ai noti tè freddi. Questa settimana: Handy Handy (ingl.): maneggevole, pratico, adeguato Handy, das (ted.): piccolo telefono mobile che si porta con sé

L’ANEDDOTO

IN CIFRE Dal 1958 esiste la marca Handy.

Un Handy è un Handy non è un Handy

3,5 mio di flaconi Handy sono stati venduti nel 2013.

Un detersivo per stoviglie su 3 venduto in Svizzera è un Handy.

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10’000 flaconi di Handy al giorno

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sono utilizzati in Svizzera.

2 spruzzi di Handy bastano

Degno di un museo: Handy fa bella mostra di sé anche nel Museo Migros d’Arte contemporanea.

L’industria Migros produce molti apprezzati prodotti, fra cui anche Handy.

Foto Peter Hebeisen; Bildwurf / Brigitte Rueegg

per 5 litri d’acqua.

«Venticinque anni or sono ci eravamo permessi un pesce d’aprile tutto particolare. Erano i tempi del leggendario Natel C. «Handy per solo un franco il prossimo giorno alla Migros Huttwil»: era scritto in grande nell’annuncio che avevamo pubblicato nel giornale locale il giorno prima del 1. aprile. L’avevamo realizzato di proposito in modo spartano, senza nemmeno indicare concretamente la data. Certamente non avevamo menzionato il fatto che con Handy s’intendeva il detersivo. (Ndr: Nella Svizzera tedesca si definisce Handy anche il telefono cellulare). L’annuncio ebbe il suo effetto: già un’ora prima dell’apertura del negozio i primi clienti facevano la fila fuori dalla porta. Dopo l’apertura, il negozio venne subito preso d’assalto. A quel punto si notava benissimo l’annuncio speciale «Solo oggi, 1. aprile, Handy per un franco!», nonché gli occhi stupiti della gente, soprattutto giovanotti. Avreste dovuto vedere le risate, quando si sono accorti in che trappola li aveva trascinati la loro avidità quel primo aprile. Nessuno se l’è presa più di tanto, molti si sono addirittura comperati un telefonino come ricordo.» Raccontato da Thomas Bornhauser, dal 1986 al 2013 capo della Comunicazione e Cultura della Cooperativa Migros Aare.


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Idee e acquisti per la settimana

Il fido aiutante Handy fa brillare stoviglie e bicchieri. Ma può fare molto di più

Vista chiara

Le componenti principali dell’acqua per le bolle di sapone sono acqua (distillata) e detersivo. Altri ingredienti per rendere le bolle più grandi e colorate possono essere glicerina, zucchero, sciroppo di mais o pasta per carta da parati. In Internet si trovano indicazioni sulle giuste quantità da utilizzare. L’anello per fare le bolle di sapone si può fare da sé con uno scovolino per pipe o con un filo di ferro attorno al quale si avvolge della lana.

Le lenti degli occhiali si possono pulire in modo veloce ed efficace con una goccia di Handy. Distribuirla bene, tenere gli occhiali sotto il getto d’acqua, asciugare con carta da cucina o un asciugapiatti, fatto.

Padelle pulite

Acchiappamosche

I resti di cibo incrostati si staccano facilmente dalla padella versandovi acqua e Handy e portando a bollore il liquido. Se le incrostazioni non si staccano basta ripetere l’operazione.

I moscerini della frutta sono innocui, ma noiosi. Inoltre si moltiplicano a velocità vertiginosa. Con un semplice rimedio casalingo si può contrastare l’invasione estiva in modo semplice ed efficace. Si versa in una ciotola una miscela di aceto e acqua in parti uguali. Alla fine vi si aggiungono una o due gocce di Handy, il che scioglie la tensione superficiale. In tal modo i moscerini, attirati dall’aceto, non possono più tenersi a galla e annegano.

Illustrazioni Georg Wagenhuber

Bolle di sapone fai da te

Qualità elevata bottiglia dopo bottiglia: il detersivo per stoviglie Handy è prodotto dalla Mifa SA a Frenkendorf BL.


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NEAR FOOD / NON FOOD Confezioni multiple di alimenti umidi Exelcat in bustina da 24 x 100 g e da 24 x 85 g oppure Snackies da 6 x 60 g, per es. prelibatezza di carni miste in salsa, 24 x 100 g 15.60 invece di 19.50 20% Prodotti modellanti Nivea Hair Styling in conf. da 2, per es. lacca per capelli Diamond Gloss, 2 x 250 ml 8.40 invece di 10.60 20% ** Tutto l’assortimento di prodotti Garnier Face & Body, per es. crema da giorno antirughe Ultra Lift, 50 ml 13.10 invece di 16.40 20% ** Tutti i prodotti Labello, per es. Classic in conf. da 2, 2 pezzi 3.– invece di 3.80 20% ** Prodotti per l’igiene intima Always, Tampax e o.b. in confezioni multiple, per es. assorbenti Always Ultra Normal Plus in conf. risparmio, 28 pezzi 4.40 invece di 5.85 20% ** Ricariche Sangenic Universal, 6 pezzi 55.20 invece di 82.80 6 per 4 *,** Abbigliamento per il tempo libero per bambini, bebè e donne, per es. completino da bambina, 2 pezzi, taglie 104–152 29.90 ** Tutti i detergenti Migros Plus, a partire dall’acquisto di 2 prodotti, –.70 di riduzione l’uno, per es. detergente per i vetri, 250 ml 3.60 invece di 4.30 ** Carta igienica Soft in confezioni multiple, per es. Antarctic, FSC, 24 rotoli 12.50 HIT ** Diverse lampadine in conf. da 2, per es. lampadine alogene Classic A Eco Superstar 46 W E27, 2 x 2 pezzi 7.90 invece di 11.80 33% ** Tutte le padelle Greenpan, in acciaio inox, indicate anche per i fornelli a induzione, per es. padella a bordo basso Miami Marathon, Ø 28 cm, 1 pezzo 29.50 invece di 59.– 50% ** Tutte le linee di stoviglie da tavola in porcellana e vetro Cucina & Tavola, per es. piatto piano Melody, Ø 30 cm, 1 pezzo 4.90 invece di 9.80 50% ** Linee di bicchieri Cucina & Tavola (stoviglie in vetro escluse), per es. Superiore Bianco, set da 3, 3 x 32,5 cl 6.40 invece di 12.80 50% ** Asciugapiatti in set da 4, diversi colori, per es. asciugapiatti, tinta unita, rosso, 45 x 80 cm 9.80 ** Tutte le Doetsch Grether’s Pastilles, per es. Blackcurrant senza zucchero, in bustina di ricarica, 100 g 7.30 20x PUNTI 20x Vestitino in jeans a 2 pezzi per bimba, taglie 68–98 20x 29.– NOVITÀ *,** Tutto l’assortimento Zoé Ultra Sensitive, per es. latte detergente, 200 ml 20x 7.90 NOVITÀ **


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 12 gennaio 2015 ¶ N. 03

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 12 gennaio 2015 ¶ N. 03

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Idee e acquisti per la settimana

È tempo di leggerezza

Una spolverata di zucchero velo dà il tocco finale a questa deliziosa torta.

Con i prodotti Léger si possono cucinare tutti i piatti preferiti, ma con meno calorie, meno grassi e meno carboidrati. Il gusto, però, rimane intatto Nidi di spaghetti alle erbe con formaggio fresco di capra

Dopo le grandi mangiate di fine anno, per molti diventa prioritaria una dieta coscienziosa, più sana e soprattutto leggera. Léger viene incontro a questa esigenza. Il marchio della Migros propone un assortimento molto variegato per tutti coloro che mettono l’accento su una dieta leggera ed equilibrata, ma che nel contempo non intendono rinunciare né al gusto né a certi piatti. I prodotti Léger contengono almeno il 30 percento in meno di calorie, carboidrati o grassi rispetto agli alimenti convenzionali. Le differenze dei valori sono visibili a colpo d’occhio sull’imballaggio, facilitando così la scelta. Ma Léger non trascura neppure il gusto. Inoltre, la gamma viene costantemente arricchita di nuovi articoli.

Per ca. 12 pezzi da 7 cm Ø / Per 1 teglia da muffin da 12 Ingredienti 2 cucchiaini di Léger burro mezzo grasso* 400 g di Léger spaghetti* sale 1 spicchio d’aglio 20 g d’aneto 10 g d’erba cipollina 1 cucchiaio d’olio di colza 150 g di Léger formaggio fresco di capra* 2 dl di Léger mezza panna* 3 uova pepe

Prodotti per ogni occasione

Dal burro semigrasso allo jogurt, dal formaggio alle salse per insalate, dalle patatine al ketchup, fino al pane e agli spaghetti: con i suoi attuali 93 prodotti Léger copre praticamente ogni tipo di pasto della giornata. In questo modo di possono preparare un’infinità di pietanze leggere, limitandosi a sostituire i normali ingredienti con quelli della linea Léger. Quanto sia facile lo dimostrano le due ricette proposte su queste pagine. / JV

All’interno dei soffici nidi di spaghetti si cela un cuore di formaggio di capra fuso.

Preparazione 1. Imburrate una teglia per muffin. Cuocete la pasta al dente in acqua salata. Scolate e fate sgocciolare. Schiacciate l’aglio. Tritate finemente l’aneto e l’erba cipollina. Mettete da parte 2 cucchiai di erbe. Mescolate gli spaghetti con l’aglio, il resto

delle erbe e l’olio. Arrotolate gli spaghetti con un forchettone e distribuiteli negli incavi della teglia. 2. Scaldate il forno a 180 °C. Mescolate bene il formaggio fresco, la panna e le uova. Condite con ¾ di cucchiaino di sale e pepe. Versate la crema sui nidi. Cuocete i nidi in forno per ca. 15 minuti nella metà inferiore del forno. Estraeteli e lasciateli raffreddare un po’. Staccate i nidi con una spatola e distribuiteli nei piatti. Accompagnate con un’insalata mista.

Tempo di preparazione ca. 25 minuti + cottura in forno ca. 15 minuti Per persona ca. 26 g proteine, 18 g di grassi, 74 g di carboidrati, 2410 kJ/570 kcal

Ricetta di

Crostata di semolino con confettura d’albicocche Per 12 pezzi / Per 1 stampo a cerniera di 26 cm Ø

Léger Latte magro 1l Fr. 1.60

Léger Mezza panna 500 ml Fr. 3.85

Léger Confettura di albicocche 325 g Fr. 1.90

Léger Burro semigrasso 200 g Fr. 3.–

Ingredienti 1 Léger pasta per crostate ottagonale, spianata, di 270 g* 5 cucchiai di Léger confettura d’albicocche* 8 dl di Léger latte* 1 limone 1 presa di sale 120 g di semolino 50 g di zucchero 100 g di Léger mascarpone* 3 uova zucchero a velo per spolverare

Preparazione 1. Ricoprite lo stampo con la pasta per crostate. Formate un bordo di ca. 4 cm. Bucherellate il fondo con una forchetta. Spalmate la confettura sul fondo. Mettete in frigo.

Foto e Styling Claudia Linsi

Léger Spaghetti 400 g Fr. 2.90

Léger Pasta per crostate spianata 270 g Fr. 2.–

Léger Formaggio fresco di capra* 150 g Fr. 3.80 *Nelle maggiori filiali

Léger Mascarpone * 250 g Fr. 3.– *Nelle maggiori filiali

2. Mettete il latte in una pentola.

Grattugiateci finemente la scorza del limone. Salate. Portate il latte a ebollizione. Versateci il semolino tutto in una volta. Cuocete per ca. 15 minuti mescolando di tanto in tanto, fino ad ottenere una pappa. Togliete la pentola dal fuoco. Zuccherate il semolino e lasciatelo raffreddare un po’. 3. Scaldate il forno a 180 °C. Incorporate il mascarpone e le uova al semolino. Distribuite la massa sulla pasta. Cuocete la crostata nella metà inferiore del forno per ca. 45 minuti. Estraete e lasciate raffreddare. Spolverizzate con lo zucchero a velo. Tempo di preparazione ca. 30 minuti + cottura in forno ca. 45 minuti + raffreddamento Per persona ca. 70 g di proteine, 6 g di grassi, 28 g di carboidrati, 827 kJ/198 kcal


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Idee e acquisti per la settimana

Un tocco di gran gusto Quattro suggerimenti per rendere ancora più appetitoso la vostra purea di patate

Preparate la purea di patate per 4 persone seguendo le istruzioni sulla confezione.

Mifloc Instant Purea di patate 4 sacchetti 440 g Fr. 6.20

Purea di patate alle nocciole Purea di patate alle erbe Tritate grossolanamente ca. 60 g di nocciole. Tostatele in una padella senza grassi. Togliete dalla pentola fino a ca. 2 cucchiai di nocciole e incorporatele alla purea. Aggiungete al resto delle nocciole 2 cucchiai di burro, scurirle leggermente e distribuitele sulla purea.

Staccate le foglioline da ½ mazzetto di erbe (basilico, cerfoglio e prezzemolo) e frullatele con 5 cucchiai d’olio d’oliva. Servite la purea e irroratela con l’olio alle erbe. Guarnite a piacere con delle erbe.

Bio Mifloc Purea di patate 2 sacchetti 190 g Fr. 3.95

Purea di patate all’arancia Grattate via la buccia di 1 arancia e ½, prelevate delle scorzette da ½ arancia. Spremete le arance. Integrate il succo d’arancia con acqua fino a ottenere la quantità di liquido necessario per la purea. Preparate la purea. Incorporate le bucce d’arancia grattugiate nella purea già pronta. Guarnite a piacere con le scorzette. Novità: Mifloc Instant Purea di patate 3 sacchetti, 150 g Fr. 3.50

L’Industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra i quali anche le puree di patate Mifloc.

Ricetta di

Purea di patate con barbabietole Sostituite la metà dell’acqua necessaria con succo di barbabietole. Preparate la purea e guarnitela con cubetti di barbabietole ripassati nel burro. Mifloc Purea di patate 4 sacchetti 380 g Fr. 4.55


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Idee e acquisti per la settimana

Dalla nostra cucina Oltre ad essere più saporita, una colazione fatta in casa regala momenti di puro godimento: per questa ragione i ristoranti Migros imbandiscono la tavola della prima colazione con prelibatezze fatte in proprio. Molti dei prodotti provengono, infatti, dalle aziende di proprietà della Migros in Svizzera. E così, già di buon mattino si possono assaporare cornetti, panini, burro, marmellate e succo di frutta di qualità superiore. Una capatina al ristorante Migros vale sempre la pena.

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Ciò che ci sta più a cuore lo facciamo noi stessi. Siamo fieri di produrre oltre 10 000 dei nostri articoli nelle nostre industrie in Svizzera. Per questo oggi desideriamo ringraziarti di cuore. In qualità di cliente Migros sostieni infatti direttamente la nostra produzione, che a sua volta permette di rafforzare la piazza industriale svizzera assicurando preziosi posti di lavoro e sorprendendo la clientela con articoli sempre nuovi e diversi. Solo questi prodotti portano il marchio «Noi firmiamo. Noi garantiamo.», un sigillo che certifica la produzione responsabile e garantita nelle nostre aziende Migros. Buon divertimento alla scoperta degli articoli di nostra produzione!

L’industria Migros e i suoi prodotti. Latte, bevande a base di latte, yogurt, formaggio fresco, salse, maionese. Collaboratori: 580

Caffè, caffè in capsule, frutta secca, spezie, noci. Collaboratori: 330

Ice Tea, succhi di frutta, prodotti pronti, prodotti a base di patate e prodotti a base di frutta. Collaboratori: 860

Pane, prodotti da forno, pasticceria, paste. Collaboratori: 3280

Carne fresca, pesce, salumi, pollame. Collaboratori: 2800

Formaggio per raclette Raccard, Gruyère AOP, Appenzeller, fondue. Collaboratori: 260

Acqua minerale, sciroppo, succhi di frutta. Collaboratori: 120

Biscotti, Blévita, gelati, dessert in polvere, frittelle di Carnevale, prodotti da forno per l’aperitivo. Collaboratori: 630

Prodotti trattanti, sostanze cosmetiche attive, detersivi, margarine, grassi commestibili. Collaboratori: 730

Diverse varietà di riso, riso al latte, varietà speciali di riso. Collaboratori: 24

Cioccolato, gomma da masticare. Collaboratori: 900

Grande concorso di disegno per bambini! Siamo alla ricerca di piccoli artisti in tutta la Svizzera. Fai disegnare al tuo bambino il suo articolo preferito tra l’assortimento di produzione Migros. Con un pizzico di fortuna la sua opera d’arte verrà raffigurata sulle nostre borse riutilizzabili. Partecipare è semplice n Carica il disegno su: www.noifirmiamo.noigarantiamo.ch/ concorso-di-disegno. n Sul sito, fai votare amici e parenti per il disegno.

n I 100 disegni con il maggior numero di voti passano al secondo turno. n Una giuria sceglierà quindi i 60 disegni che appariranno su 5 delle nostre borse. n Ma non è finita qui: con tutti i disegni ricevuti creeremo un album fotografico online.


Un milione di pacchetti sorpresa per te. Solo per breve tempo :

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Fino al 9.2.2015 presso tutte le casse dei supermercati Migros, per ogni 20 franchi di spesa riceverai un bollino (al massimo 10 bollini per acquisto, fino a esaurimento dello stock). La cartolina completa di tutti i bollini può essere consegnata in tutte le filiali Migros fino al 9.2.2015 ricevendo in cambio un pacchetto contenente prodotti di uso quotidiano del valore di circa 20 franchi. Offerta valida solo fino a esaurimento dello stock. Ulteriori informazioni su www.noifirmiamo-noigarantiamo.ch


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