Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXVIII 02 febbraio 2015
Azione 06 ping -67 M shop ne 41-48 / 62 i alle pag
Società e Territorio Il centro di accoglienza Casa Astra ha una nuova sede
Ambiente e Benessere La sclerodermia, malattia rara autoimmune, attraverso la testimonianza di una paziente e l’intervista al dottor Gianluca Vanini
Politica e Economia Fra Stati Uniti e India è luna di miele
Cultura e Spettacoli La Scuola Club di Bellinzona rinnovata con arte
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Keystone
La Grecia spera, l’Europa freme
di Rampini e Cazzullo pagine 22 e 29
Il volo del «bombo» di Peter Schiesser Forse anche l’Unione europea è come un «bombo», quella sorta di ape «la cui struttura alare – diceva Einstein – in relazione al suo peso non è adatta al volo, ma lui non lo sa e continua a volare». Pare spesso in procinto di schiantarsi, poi con un colpo di ali riguadagna quota e va avanti. La decisione della Banca centrale europea (BCE) di immettere 60 miliardi di euro al mese fino ad almeno settembre 2016 è un colpo di ali, seguito a ruota dall’ennesimo vuoto d’aria, rappresentato oggi dalla vittoria del partito di sinistra Syriza in Grecia (vedi l’analisi di Federico Rampini a pagina 22). Fino a quando potrà continuare a volare senza riformarsi profondamente? Il quantitative easing annunciato dal presidente della BCE Mario Draghi è considerata l’ultima misura di politica monetaria possibile per influenzare la congiuntura. Se l’obiettivo di innalzare l’inflazione al 2%, per ridare ossigeno alla crescita, se i capitali immessi non si trasformeranno in buona misura in investimenti per stimolare gli apparati produttivi degli Stati membri, la BCE avrà esaurito gli strumenti a sua disposizione, come pure la sua credibilità. Ma forse,
più ancora dei 60 miliardi di euro al mese potrà l’effetto collaterale generato dalla decisione della BCE: il deprezzamento dell’euro rende da subito più competitive le industrie dei Paesi membri dell’UE. Sommato al crollo del prezzo del petrolio potrebbe dare lo slancio atteso da tempo alla congiuntura di Paesi come Italia, Spagna, Francia. Inoltre, il timore che il quantitavie easing induca i Paesi meno virtuosi a indebitarsi viene ridotto al minimo dalle condizioni poste dalla BCE (e da Berlino): gli acquisti di titoli di Stato verranno compiuti dalle banche centrali dei singoli Paesi, che risponderanno dell’80% di eventuali perdite, solo il 20% verrebbe «comunizzato». Per contro, la vittoria di Syriza in Grecia, che ha subito concretizzato una sua promessa elettorale (il congelamento delle privatizzazioni decise dal governo precedente), mette l’UE di fronte alle sue rigidità e lacune strutturali. Infatti, tecnicamente non è quasi possibile operare un ulteriore taglio del debito della Grecia, dopo che nel 2012 titoli di Stato greci per 200 miliardi di euro erano stati trasformati in nuovi titoli con una rinuncia volontaria del 53,3% del loro valore: oltre tre quarti del debito di 317 miliardi di euro della Grecia (fonte «NZZ» 28.1.15) sono oggi dovuti a istituzioni pubbliche, di cui un
terzo allo EFSF (European Financial Stability Facility) finanziato con denaro dei contribuenti dell’Unione, poi ci sono i 53 miliardi dovuti a singoli Stati membri, i 32 miliardi del FMI (che di norma non può partecipare a tagli del debito), i 27 miliardi di euro dovuti ad altre banche centrali europee e alla BCE (che contravverrebbe al divieto di un finanziamento statale se rinunciasse ai crediti). Tuttavia, come si fa – politicamente e umanamente – rispondere picche al governo di un Paese il cui Prodotto interno lordo è crollato del 25% in cinque anni, con una disoccupazione altrettanto alta e con oltre un terzo della popolazione al di sotto della soglia della povertà? Quanto potrà ancora volare la Grecia, con il peso dell’austerità imposta dalla «Troika»? Una soluzione andrà trovata. Per ora all’interno dell’UE tiene banco lo scontro ideologico fra sostenitori dell’austerità (Germania in primis) e sostenitori di una politica monetaria espansiva e di forti investimenti. Le due posizioni paiono inconciliabili. Ma una vera riforma dell’UE potrà probabilmente esserci solo quando si troverà una sintesi di questi due approcci. Perché se è vero che una crescita va stimolata, è pure vero che i massicci debiti statali pesano eccessivamente, anche sull’economia.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 02 febbraio 2015 ¶ N. 06
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 02 febbraio 2015 ¶ N. 06
Attualità Migros
Attualità Migros
M Numero uno al mondo
5 Prodotti e servizi 1 Collaboratori e fornitori
Migros è il dettagliante più «sostenibile» al mondo 6 Efficienza ecologica
Lo indica l’ultima indagine di un’agenzia di analisi indipendente, che ha messo sotto esame 140 aziende del commercio al dettaglio. Con la nota complessiva B+, Migros precede di gran lunga la concorrenza internazionale. Nell’attuale classifica 2014/2015, Migros è seguita dalle catene di distribuzione britanniche Marks & Spencer Group e Tesco, valutate con la nota C+. A questo risultato è giunta la società «oekom research AG» di Monaco di Baviera, un’agenzia di rating che valuta la sostenibilità delle imprese. «Le valutazioni di Oekom Resarch tengono conto di molti fattori» dice il presidente della Direzione generale della Federazione delle cooperative Migros Herbert Bolliger. «Vengono analizzati oltre 100 criteri ecologici e sociali. Sono molto contento che la nostra azienda si distingua in questo modo a livello internazionale. Il risultato ci sprona a continuare nel nostro ruolo di pionieri nel servizio alla clientela». In virtù del gran numero di criteri di valutazione, oltre 100, questo rating rappresenta una rilevazione molto impegnativa nel confronto internazionale. I requisiti sono stati più severi di quelli adottati per la valutazione del biennio 2010/11, perché le aspettative sono cresciute e sono stati introdotti nuovi settori di indagine, come lo spreco di
prodotti alimentari e perché nel frattempo la Comunità Migros è cresciuta ed è impegnata in diversi nuovi settori di attività. La Comunità Migros è stata messa a confronto con altre 139 imprese, tra le quali – oltre alle già citate Marks & Spencer e Tesco – c’erano giganti come la francese Carrefour e la tedesca Metro.
1 Collaboratori e fornitori
curezza sul lavoro, di salari corretti oppure del diritto di potersi organizzare in sindacati. Già una quindicina d’anni or sono, Migros aveva collaborato alla fondazione della cosiddetta Business Social Compliance Initiative (BSCI), di cui oggi fanno parte 1400 imprese di tutto il mondo. Queste aziende sono impegnante per ottenere migliori condizioni di lavoro lungo tutta la catena di approvvigionamento. Inoltre, l’azienda ha potenziato ulteriormente i suoi sforzi a favore della formazione e del perfezionamento professionale nelle fabbriche e nelle aziende agricole. I fornitori nei Paesi emergenti devono riconoscere che il corretto trattamento dei loro dipendenti porta esclusivamente vantaggi: se i collaboratori vengono retribuiti in modo equo e si garantisce loro diritti e sicurezza, ne guadagna anche l’impresa. Infatti, così facendo la forza lavoro è più motivata ed efficiente. Inoltre, i produttori ottengono miglior accesso ai mercati occidentali, perché oggi molti loro clienti in Europa e Stati Uniti tengono in considerazione i fattori sociali.
Non solo Migros è il più grande datore di lavoro privato della Svizzera, ma ai suoi collaboratori offre anche delle condizioni di lavoro esemplari. Queste sono fissate nel nuovo Contratto collettivo di lavoro nazionale, entrato in vigore dall’inizio dell’anno. Ora, oltre 50’000 collaboratori ripartiti nelle 39 aziende della Comunità Migros beneficiano di prestazioni ancora più estese: per esempio, il congedo maternità è stato portato da 16 a 18 settimane pagate, mentre il congedo paternità pagato è salito da due a tre settimane. Degno di nota il fatto che il contratto professionale valga per i settori più disparati, come ad esempio per il personale delle filiali Migros, per i collaboratori dell’Industria Migros, dei centri logistici, così come per gli impiegati della Banca Migros. Straordinariamente buone sono, poi, le prestazioni della Cassa pensione Migros (CPM): il datore di lavoro versa un contributo sul salario assicurato che equivale al doppio di quello versato dai collaboratori. La quota versata dal datore di lavoro è quindi molto più alta di quella di tante casse pensione svizzere. Lavoro e vita privata devono trovare un equilibrio
Già diciassette aziende della Comunità Migros, tra cui l’industria Chocolat Frey, hanno ottenuto il marchio «Friendly Workspace» della Fondazione promozione salute svizzera. Per ricevere questo certificato un datore di lavoro deve impegnarsi ad offrire, per esempio, postazioni di lavoro ergonomiche, ma anche la possibilità di conciliare vita privata e vita professionale. Migros non si occupa soltanto dei suoi collaboratori, ma si batte anche per i dipendenti dei suoi fornitori stranieri. Ciò vale in particolare per i lavoratori agricoli e dell’industria nei cosiddetti Paesi emergenti. Sempre nel quadro di Generazione M, Migros ha promesso di migliorare attivamente le condizioni di lavoro di 75’000 dipendenti dei suoi fornitori. Si tratta soprattutto della si-
Molto elogiati 6 punti di forza
In particolare sono stati elogiati i seguenti punti di forza della Migros: innanzitutto, è stata attuata una strategia globale a favore della protezione del clima. Viene promossa in modo mirato la vendita di prodotti con un valore aggiunto ecologico e sociale. Inoltre, Migros s’impegna a favore di un’agricoltura sostenibile tramite direttive severe e un ampio programma di marchi. I prodotti vengono acquisiti e trasportati in modo efficiente, grazie a una logistica che viene costantemente ottimizzata. Migros offre condizioni di lavoro eccellenti e si impegna affinché i suoi collaboratori abbiamo un corretto equilibrio tra vita personale e professionale. Infine, Migros si distingue anche nel campo della Corporate Governance, ossia l’insieme di regole che disciplinano la gestione e la direzione di un’impresa. Il codice di comportamento della Comunità contempla undici regole e si
2 Responsabilità sociale e sui prodotti Qui si fa riferimento all’assortimento della Migros, in particolare allo sforzo di fornire ai clienti degli alimenti sani. Per esempio, il dettagliante ha promesso di produrre, a partire dal 2019, oltre 150 generi alimentari con meno zucchero, sale e grassi, ma con più fibre alimentari. Migros ha fatto analizzare oltre 1400 prodotti propri da specialisti, che hanno applicato i criteri dell’Alta scuola zurighese di scienze applicate (ZHAW). Alla fine Migros ha deciso di modificare gli ingredienti di 150 articoli, come ad esempio certi fiocchi di cereali o piatti pronti. Si tratta di un procedimento estremamente laborioso, dato che il sapore di questi cibi deve restare inalterato.
2 Responsabilità sociale e sui prodotti
può sintetizzare in una frase: noi non perseguiamo il profitto ad ogni costo, ma vogliamo raggiungere i nostri obiettivi con senso di responsabilità.
Protezione svizzera per gli animali anche all’estero
L’indagine Oekom in breve
La società «Oekom research AG» di Monaco di Baviera, è un’agenzia indipendente di analisi della sostenibilità. Alla valutazione 2014/2015 hanno preso parte 140 imprese commerciali di tutto il mondo. Sono stati considerati 100 criteri. Con la nota B+ Migros si è piazzata al primo posto, davanti alle britanniche Marks & Spencer e Tesco valutate entrambe con una C+. Per la sua valutazione, Oekom si basa su analisi dettagliate effettuate con l’ausilio di esperti indipendenti. Molto importante è anche la collaborazione con le aziende esaminate. A sua volta Oekom è stata elogiata per la sua credibilità e trasparenza dallo studio «Rate the Raters» (lett. «giudica i giudici») dell’organizzazione «SustainAbility». In questo studio, le analisi della Oekom sono giudicate come molto severe e, dunque, anche molto serie.
3 Corporate Governance e etica del commercio
5 Prodotti e servizi 4 Management ambientale
Informazioni
www.oekom-research.com www.sustainabilty.com/projects/ rate-the-raters
«Congratulazioni!» Thomas Vellacot CEO di WWF Svizzera
«Ci congratuliamo con Migros veramente di cuore per questo importante riconoscimento. Un premio che contribuisce a mostrare chiaramente quanto la Svizzera sia un modello da seguire quando si tratta di ecologia nel settore del commercio al dettaglio. Questo ci fa molto piacere e mostra in modo inequivocabile come porsi obiettivi ambientali ambiziosi e trasparenti, mettendoli poi coerentemente in pratica, conduca al successo». Rudolf Strahm Già Consigliere nazionale ed ex Mister-prezzi
«Per Migros è un riconoscimento meritato. Nessuna azienda svizzera si impegna altrettanto per il bene comune e nessuna azienda forma altrettanti apprendisti quanto Migros. Come ex «Mister Prezzi» ho constatato di persona che Migros si impegna intensamente per il bene dei consumatori e per mantenere prezzi accessibili» Reto Knutti Professore di fisica del clima all’Institut für Atmosphäre und Klima e delegato per la sostenibilità del Politecnico di Zurigo
«La sostenibilità non deve rimanere un concetto astratto. Dovrebbe guidarci invece sempre di più nelle nostre scelte di acquisto. Come consumatori possiamo avere un’influenza sul mondo che lasceremo in eredità alle generazioni future. L’offerta delle aziende al dettaglio e la trasparenza nelle dichiarazioni sui prodotti sono decisive. La direzione segnata è quella giusta, anche se il cammino da compiere è ancora lungo».
Migros è impegnata da decenni a favore della sostenibilità nei suoi processi di produzione e fornisce approfondite informazioni ai suoi clienti affinché possano fare la spesa in modo consapevole. In quanto maggior fabbricante di marchi propri al mondo, con circa 10’000 articoli provenienti dalle industrie Migros, la Comunità dispone di un ottimo controllo sull’assortimento. Utilizzando i cosiddetti «label» che contrassegnano merci e servizi segnala ai clienti che si tratta di prodotti sostenibili. L’assortimento Migros conta complessivamente 12 di queste etichette di qualità.
Molti alimenti per allergici
Inoltre, Migros ha promesso di ampliare del 30 percento la sua gamma di prodotti per allergici. Già oggi il distributore propone un’ottantina di prodotti contrassegnati con il marchio «aha!». Si tratta di articoli testati dall’agenzia di certificazione Service Allergie Suisse SAS, adatti alle esigenze di determinati gruppi di allergici. Specie le persone con intolleranze al lattosio e al glutine trovano alla Migros molti generi alimentari adatti a loro, come prodotti lattieri, pane, pasta, dolci, snack e cibi pronti. Anche il settore gastronomia propone cibi con la certificazione «aha!»: nei ristoranti Migros, ad esempio, si trovano panini, torte, muesli, condimenti per insalata e interi menù adatti agli allergici.
3 Corporate Governance ed etica commerciale I consumatori considerano Migros una delle imprese più degne di fiducia della Svizzera. Alla base ci sono buone ragioni e una lunga storia: già Gottlieb Duttweiler prestava grande attenzione alla responsabilità sociale e ai valori etici a tutela della società e dell’ambiente. Ma dove un tempo bastavano le tesi del fondatore e la correttezza dei collaboratori, oggi lo sviluppo economico e tecnologico pone nuove frontiere: la crescente complessità delle attività sociali va ben oltre i confini nazionali, il continuo inasprimento delle norme giuridiche, così come l’applicazione rigorosa di nuovi standard, richiedono direttive vincolanti. Per garantire il
rispetto delle norme e delle leggi vigenti, nonché delle direttive etiche, Migros ha adottato un codice di condotta basato sui propri valori di fondo che, sottoforma di undici principi concreti, costituisce l’impegno della Comunità Migros per il totale rispetto delle leggi e della propria integrità. Principi vincolanti per tutti i collaboratori
L’adozione del codice di condotta è stata richiesta dal Consiglio d’amministrazione della Federazione delle cooperative Migros e definisce in modo vincolante i principi fondamentali, a cui tutte le aziende e i collaboratori della Comunità devono sottostare. Oltre all’introduzione del codice di condotta quale elemento centrale della propria cultura di lavoro, Migros ha istituito un ufficio di notifica indipendente, al quale i collaboratori si possono rivolgere per denunciare gravi infrazioni.
4 Gestione ambientale Ormai da decenni la ferrovia è il mezzo prediletto da Migros per trasportare le merci. I suoi centri di distribuzione e i suoi impianti industriali hanno addirittura i propri raccordi ferroviari. Ogni giorno, oltre 400 vagoni circolano per conto della Migros, trasportando più di un milione di tonnellate di merci all’anno e percorrendo 11 milioni di chilometri. E così, già da anni Migros è il maggiore cliente di FFS Cargo. Il suo parco veicoli conta 557 mezzi per le consegne alle filiali, che annualmente percorrono
all’incirca 30 milioni di chilometri su strada. Questa moderna flotta soddisfa quasi completamente le severe norme sulle emissioni Euro 5 ed Euro 6. In più Migros utilizza il trasporto combinato strada/ferrovia. Obiettivi ambiziosi per energia, elettricità ed emissioni di CO2
Il trasporto aereo costituisce solo una minima parte del totale delle importazioni intercontinentali di merci, che vengono trasportate quasi esclusivamente via nave. Dai porti di approdo, i container sono trasferiti in Svizzera su rotaia e in parte sulle chiatte del Reno. Migros è l’unico distributore al dettaglio d’Europa a trasportare in treno perfino le banane. Le aziende della Comunità Migros
hanno fissato obiettivi ambiziosi per quello che riguarda l’uso della corrente elettrica, l’energia e per le emissioni di CO2 e si impegnano a mantenere questa strategia. Non investono soltanto in una rete di trasporti delle merci ecologica, ma anche in filiali e centri di distribuzioni ecologici. Con Generazione M Migros ha promesso di ridurre le sue emissioni di CO2 tra il 2010 e il 2020 del 20 per cento. Questo traguardo si sta avvicinando passo dopo passo. Attualmente è già misurabile una riduzione dell’8 per cento. Con il suo piano di riduzione delle emissioni di CO2, Migros offre un contributo superiore alla media alla protezione del clima in Svizzera, riducendo della metà le sue emissioni ad effetto serra, in linea con gli obiettivi che si è posta la Svizzera.
Migros incrementa costantemente i prodotti identificati dal molto apprezzato marchio Bio, ora arrivati a quota 1000. Il marchio «Tegut» propone un 25 per cento di prodotti con l’etichetta Bio, mentre la catena di prodotti online LeShop.ch mantiene una quota molto alta di prodotti Bio, l’11 per cento, nel suo assortimento. Un altro esempio degli sforzi a favore del commercio sostenibile è il marchio FSC, con cui il dettagliante sostiene i prodotti provenienti da una gestione responsabile delle foreste. Dalla metà del 2014 tutto il materiale pubblicitario nazionale in carta e cartone viene confezionato con prodotti derivati dal riciclaggio o certificati FSC. Attualmente, oltre 10’000 contadini svizzeri producono secondo le severe direttive del marchio TerraSuisse, dunque con metodi ancora più rispettosi degli animali di quelli prescritti dalla legge svizzera in materia. Altri importanti requisiti di questo marchio di qualità della Migros sono la conservazione della biodiversità e la coltivazione rispettosa dell’ambiente di cereali, patate, frutta e colza. In Svizzera le disposizioni di legge tutelano il benessere degli animali. All’estero, invece, queste leggi sono spesso assenti. Nel 2013 Migros ha perciò deciso di applicare gli elevati standard della protezione degli animali vigenti in Svizzera anche a tutti i prodotti importati, obbligando i suoi fornitori stranieri ad allineare i loro allevamenti alle prescrizioni elvetiche al più tardi entro il 2020. Per tacchini e conigli questi requisiti sono già stati soddisfatti. Sempre entro il 2020, il distributore al dettaglio ha promesso di inserire nel suo assortimento solo pesci e frutti di mare contrassegnati da un’etichetta di qualità o raccomandati dal WWF. Già oggi il 94 per cento dei pesci venduti provengono da fonti sostenibili. Il label che alla Migros garantisce la pesca selvatica si chiama MSC, mentre ASC o Bio sono i marchi che contrassegnano i pesci d’allevamento. Inoltre, primo grande distributore in Svizzera, dall’inizio del 2014 Migros espone nei suoi banchi di vendita solo pesce e frutti di mare provenienti da fonti sostenibili. Oltre ai marchi tutte le aziende della comunità Migros devono rispettare delle prescrizioni minime nella fornitura delle merci. Ad esempio le uova non devono provenire da allevamenti in batte-
«È proprio la Costituzione della Migros» Andrea Broggini è presidente dell’Amministrazione FCM e committente del codice di condotta della Migros.
aziendale responsabile ed è in fondo il codice Migros che definisce il quadro delle nostre attività commerciale. A complemento del codice, si applicano i valori e le direttive esistenti nelle singole aziende Migros, e vale naturalmente il sano buon senso di ogni persona. Cosa disciplina il codice di condotta?
Andrea Broggini, perché Migros ha bisogno di un codice di condotta?
Come ogni grande azienda, anche Migros deve poter garantire il rispetto di norme e leggi. Con i suoi undici principi fondamentali, il codice di condotta è in linea con gli standard di una gestione
Undici concrete regole comportamentali aiutano i collaboratori a rispettare le principali direttive e norme etiche. Ad esempio, stabiliscono che non dobbiamo corrompere né farci corrompere, che ci riconosciamo nella libera e corretta concorrenza, che all’interno della Comunità Migros ci comportiamo reciprocamente con stima e rispetto op-
pure che nelle nostre attività e decisioni seguiamo il principio della sostenibilità. Cosa è cambiato con l’adozione del codice di condotta?
Fortunatamente, la sua introduzione non ha costituito una costrizione, dato che da tempo immemorabile Migros ha preso straordinariamente sul serio la propria responsabilità nei confronti dei collaboratori, dei soci delle cooperative, dei clienti e dell’intera società. La maggior parte dei contenuti erano già presenti, ad esempio nei regolamenti di lavoro e del personale oppure nella strategia aziendale. Tuttavia, è un passo logico cementare questa consapevole responsabilità in un codice di condotta valido per tutti.
«Fatti, non parole» Thomas Beschorner, professore di etica commerciale, esprime la sua opinione sul riconoscimento assegnato a Migros Il Professor Thomas Beschorner è direttore dell’Istituto di etica commerciale dell’Università di San Gallo. Thomas Beschorner, Migros dunque è da oggi ufficialmente «la catena di commercio al dettaglio più ecologica del mondo». È un primato meritato?
Sì, Migros si impegna su diversi fronti per l’ambiente e per la società. Il suo impegno non è di facciata, ma autentico e verificabile. Un buon esempio è il programma legato alla sostenibilità Generazione M: comprende obiettivi concreti e una tempistica di verifica. E se uno di questi obiettivi non viene raggiunto, Migros lo comunica apertamente. Oggi molte imprese cavalcano il tema della «sostenibilità». Migros è davvero in grado di distinguersi dai propri concorrenti in questo contesto?
Certo, perché le sue dichiarazioni d’intenti sono seguite da fatti concreti. Alcune aziende si pronunciano in favore della sostenibilità con parole che sembrano apprezzabili, ma che rimangono però relativamente astratte. Migros, all’opposto, cerca tenacemente delle soluzioni concrete per essere nel quotidiano più vicina all’ambiente. Dall’affidarsi a mezzi di trasporto ecologici, alla conversione dei prodotti del proprio assortimento, al ritirare le bottiglie di plastica: tutte queste misure sommate le une alle altre hanno un grande effetto. Il termine «sostenibilità» viene declinato in modi molti diversi. Come lo intende il mondo economico?
Un tempo faceva riferimento a un ria o le piume dei piumini non devono essere state strappate ad animali vivi.
6 Efficienza ecologica Da parecchi anni Migros si preoccupa di ridurre il consumo di energia elettrica nonché le emissioni di gas serra, sia per quanto riguarda i prodotti sia per la gestione aziendale. Ed anche i clienti vengono incoraggiati a fare acquisti in linea con la salvaguardia del clima. Migros propone molti apparecchi elettrici ad alta efficienza energetica. Negli ultimi anni sono state coinvolte in questa gestione ambientale altre società della Comunità, tra cui Globus, Denner, Migrol, Chocolat Frey, Aproz, Banca Migros e Hotelplan. Attraverso l’uso di energie rinnovabili Migros riduce le sue emissioni di gas serra. Nove centri logistici impiegano calore proveniente dal legname, dall’ambiente o dal teleriscaldamento. Migros è oltre a ciò uno dei maggiori acquirenti di elettricità proveniente da fonti rinnovabili ed è impegnata direttamente nella produzione di elettricità ecologica. Infatti, sui tetti degli edifici della Comunità sorgono complessivamente 30 impianti fotovoltaici che ogni anno producono una quantità di corrente pari a quella consumata da 2500 case unifamiliari. Migros costruisce in modo sostenibile. Negli standard sono compresi gli aspetti energia, ecologia dei materiali, natura e paesaggio. Le filiali sono costruite con materiali ecologici e ci si preoccupa dell’ambiente circostante, per esempio con zone verdi sui tetti piani. Gestione ponderata di acqua a rifiuti
L’Industria Migros si prefigge di incrementare ogni anno l’efficienza idrica ed è impegnata nel corretto smaltimento delle
modo di pensare legato alle donazioni: le aziende decidevano di elargire del denaro ad associazioni di utilità sociale. Oggi invece il termine viene inteso come un elemento strettamente legato alla cultura aziendale: quanto è corretta l’azienda nel suo modo di relazionarsi con i suoi collaboratori e con i suoi fornitori? Come gestisce le materie prime e come organizza i propri trasporti? Non basta che un’azienda devolva una parte dei suoi profitti in beneficienza: importa invece che quei profitti siano ottenuti con una strategia commerciale sostenibile. Quanto tempo impiega un’impresa a convertirsi a una pratica commerciale veramente sostenibile?
Se si tratta di adottare un sistema veramente sostenibile occorre un processo di conversione estremamente oneroso. Il cambiamento culturale deve investire l’intera azienda, dal portiere al CEO: non si ottiene dalla sera alla mattina. Migros in questo campo ha un vantaggio, perché in un certo senso la sostenibilità fa parte del suo DNA. Già il suo fondatore, Gottlieb Duttweiler, spingeva affinché la sua azienda assumesse una responsabilità sociale. Si è fatto guidare dal concetto della sostenibilità ancora prima che il termine fosse utilizzato nel senso che oggi gli attribuiamo. Ma la «sostenibilità» resterà importante anche in futuro? In una nuova crisi economica le aziende potrebbero non permettersi più un impegno in questo ambito.
È quello che si pensava nel 2008, quando scoppiò la crisi mondiale della finanza. Ma le previsioni non si sono avverate: molte aziende hanno continuato a perseguire una «sostenibilità», altre hanno addirittura rafforzato il loro impegno. Chi punta sull’ecologia ha un vantaggio sui concorrenti: offre ai suoi clienti un plusvalore. In questo modo Migros si differenzia dai discounter tedeschi concorrenti. Per me è chiaro che la sostenibilità sarà un tema importante anche in futuro, non è una moda del momento. / Michael West acque reflue. Inoltre, sensibilizza i propri fornitori sul consumo responsabile delle risorse idriche. E così, per i suoi sistemi di raffreddamento, Micarna riutilizza l’acqua di scarico dopo averla depurata. L’impianto di trasformazione di prodotti lattieri ELSA tratta le acque reflue prima di immetterle negli impianti di depurazione pubblici. Inoltre, Migros esamina con cura i prodotti freschi importati da regioni aride, la cui coltivazione richiede molta acqua, facendo attenzione che le proprie linee guida siano rispettate, come per esempio l’uso legale delle risorse idriche e una gestione idrica efficiente. Migros ha sviluppato la maggiore piattaforma per il riutilizzo dei rifiuti. Oltre il 74 percento delle sue 236’000 tonnellate annue di rifiuti vengono riciclate. Di queste, 14’000 tonnellate sono costituite dal reso dei clienti, per il quale le cooperative regionali hanno implementato il sistema più completo esistente. Oltre a tutte le bottiglie di PET, i flaconi e le bottiglie in plastica, vengono raccolti separatamente CD e DVD. E a livello di prevenzione si spinge ancora più in là. Per il trasporto, infatti, Migros usa dei contenitori riutilizzabili: un espediente che ha permesso di risparmiare ben 93’000 tonnellate di cartone nel solo 2013. Migros cerca poi di sprecare meno prodotti alimentari possibile. Il 98,6% degli alimenti presenti in filiale o nella gastronomia vengono venduti oppure consegnati – a prezzo pieno o ridotto o anche gratis – ad organizzazioni di utilità pubblica come il Tavolino magico, che a loro volta li distribuiscono alle persone bisognose. Solo l’1,4 percento dei generi alimentari proposti da Migros sono impiegati per produrre cibo per animali, biogas o compostaggio. Al termine del processo di smaltimento aziendale solo lo 0,2 per cento dei prodotti residui finisce nei rifiuti. / Sabine Müller, Thomas Tobler, Daniel Sidler, Michael West
Circa 10’000 articoli di nostra produzione.
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Ciò che ci sta più a cuore lo facciamo noi stessi. Per esempio, il nostro detersivo per i piatti Handy, che produciamo in una delle nostre imprese svizzere. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––
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Società e Territorio Pene alternative In Ticino ci sono circa un centinaio di casi di persone con una condanna che decidono di trasformare la propria pena in ore di lavoro di pubblica utilità
La cittadinanza sostenibile Quattro intellettuali si interrogheranno su tematiche urgenti della nostra società. Fabio Merlini ci presenta le «4 prove d’autore»
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Donato Di Blasi davanti alla nuova sede di Casa Astra: l’ex Osteria del Ponte di Mendrisio. (Ti-Press)
Una casa per ritrovarsi Socialità La nuova sede del centro di prima accoglienza Casa Astra conta 24 posti letto ed è stata acquistata
e adattata anche grazie al sostegno di tanti cittadini Laura Di Corcia Sono fori, crepe, buchi che si aprono anche fra i tessuti apparentemente più resistenti; alcuni li saltano via, per altri risultano letali. Per Rudolf, per esempio, che non ce l’ha fatta a risalire dal buio alla luce, che è rimasto imprigionato in una zona grigia che a poco a poco se l’è risucchiato. La storia risale a qualche anno fa: una chiamata dal Comune e il personale di Casa Astra si è trovato di fronte ad una persona affetta da gravi disturbi psichici, che da qualche settimana vagabondava senza tetto presso la stazione di Chiasso e che aveva serie difficoltà a fornire informazioni coerenti riguardo alla sua identità e al suo passato. Come racconta Donato Di Blasi, uno fra gli operatori sociali che hanno seguito l’iter dell’uomo durante tutto il suo soggiorno a Casa Astra, i racconti di Rudolf erano confusi e contraddittori, a causa del bipolarismo che non gli consentiva la lucidità necessaria a gestire la sua vita, ma alla fine si è venuti a capo della vicenda tramite il suo medico curante, di Lugano, che non lo vedeva da qualche tempo ma che era grossomodo al corrente delle sue vicis-
situdini, almeno per quanto riguarda il periodo passato in Ticino. Rudolf, d’origine austriaca, era arrivato nella Svizzera italiana quindici anni prima, ma non aveva ottenuto il domicilio perché il Comune presso cui risiedeva aveva giocato sul fatto che viveva con una donna la quale faceva da spola fra la Svizzera italiana e i Grigioni. E «se non sei domiciliato, l’OSC ti tiene per l’emergenza e poi ti dimette», come spiega Donato Di Blasi; nel caso di Rudolf, che non voleva saperne di tornare in Austria, significava essere in mezzo a una strada. Casa Astra ha quindi fatto pressioni a Bellinzona per ottenere un permesso B umanitario, in modo che potesse accedere ai servizi necessari, e fra le altre cose essere segnalato all’Autorità tutoria (ARP) e chiedere una perizia, che effettivamente è stata eseguita e ha messo in luce che l’uomo era gravato da seri problemi psichici e necessitava di una tutela. «Anche questa impresa non è stata semplice – precisa Donato Di Blasi – ci sono voluti più di quattro mesi per trovare una persona disposta a prendersi a carico un caso così problematico». Ce l’avevano quasi fatta: Rudolf poteva finalmente essere seguito da una persona che
avrebbe saputo gestire anche la rendita AI e consentirgli una vita più tranquilla, così come adeguate cure. Ma un giorno l’uomo è caduto davanti al cancello, non si è sentito bene; in poco tempo è deceduto, sconfitto da un tumore al cervello. «Nel periodo in cui ha vissuto con noi, è stato bene; gli altri ospiti, a parte qualche testa calda, lo accettavano perché erano coscienti della sua situazione; giocava spesso a scala quaranta e non aveva nemmeno bisogno di assumere medicinali». Rudolf non ce l’ha fatta a uscire da quella zona grigia in cui finiscono molti degli ospiti di Casa Astra, non ce l’ha fatta a risalire dal buio alla luce (il destino? o anche in parte l’intempestività delle cure? chi lo sa). Ma la casa di accoglienza, che nei prossimi mesi si sposterà a Mendrisio in una sede più idonea e più ampia di quella di Ligornetto, ha i muri pregni di storie positive. C’è anche chi è riuscito a buttarsi tutto alle spalle e a ripartire, come un giovanissimo artigiano ticinese, che chiameremo col nome fittizio di Manuel, un ragazzo con molti sogni, forse poco concreto. «Si era messo in proprio ma non ce la faceva – spiega Donato Di
Blasi – inoltre aveva problemi anche con la famiglia». Morale della favola? Manuel si è trovato a un certo punto a non poter più pagare l’affitto e a dormire nel garage. Ci si chiede: ma i servizi sociali? Il Municipio? Gli operatori? Possibile che nessuno intervenga? «In molti casi – aggiunge Di Blasi –sono le persone stesse a chiedere aiuto in ritardo: non sanno che esistono certi servizi, provano vergogna, sono paralizzati. Spesso ci chiamano e ci dicono che stanno per essere sfrattate: quando noi chiediamo informazioni sulla tempistica, aspettandoci un mese o almeno due settimane di tempo, scopriamo sbigottiti che il contratto scade il giorno dopo». Manuel ha passato un intero anno a Casa Astra, periodo durante il quale ha capito che per riuscire ad andare verso la luce aveva bisogno di ricostruire a poco a poco sé stesso e la sua vita. Ha riflettuto sugli errori del passato ed è giunto alla conclusione che l’idea di mettersi in proprio era stata azzardata, che a quell’altezza non era ancora in grado di gestire un’attività da indipendente. Con calma ha ripreso in mano le redini della propria esistenza, trovando un appartamento in affitto
e dando il via ad una nuova attività da indipendente, ma stavolta con più testa e ponderatezza. «Il nostro servizio, pur claudicante e precario, permette una libertà di movimento che altri enti non hanno», conclude Di Blasi. Per alcune persone Casa Astra è stata un’ancora di salvezza per risalire i crepacci che nessuna società, anche quella più previdente e sociale, riesce a cancellare del tutto. Giovano quindi servizi diversi, più attenti rispetto alle famose «zone grige». Ancora qualche mese e Casa Astra si sposterà a Mendrisio, presso la vecchia Osteria del Ponte, grazie all’appoggio di molti cittadini, di un gruppo di parrocchie del Mendrisiotto, del comune di Mendrisio e di alcuni enti privati: una struttura più ampia, con 24 posti letto (contro i 12 della sede di Ligornetto), che potrà dare una possibilità anche a chi, fino ad oggi, si è sentito dire di no per mancanza di spazio. Si calcoli solo che nel 2014 sono state ospitate 70 persone, ma sono pervenute in totale 200 richieste, fra locali, stranieri e persone di passaggio, fra cui vanno segnalati 9 bambini e 31 donne. Se ci fossero stati dieci, dodici letti in più…
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 02 febbraio 2015 ¶ N. 06
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Società e Territorio
La prigione fuori Pene alternative Un lavoro di pubblica utilità può, in certi casi regolamentati, sostituire la detenzione, con grandi
vantaggi per tutta la società. Ne parla Christian David, operatore sociale presso l’Ufficio dell’assistenza riabilitativa Sara Rossi Guidicelli Una persona dietro le sbarre, dentro la sua cella, per non parlare del desueto pigiama a righe e di una palla incatenata al piede, non sono le uniche immagini della prigione che ci dobbiamo fare. Le carceri, come parte necessaria di una società, evolvono insieme al suo grado di civilizzazione: anche negli ambiti più difficili, come quello della gestione di chi infrange la legge, si cercano soluzioni sempre migliori, per avvicinarsi alla perfezione – che, come tutti sappiamo, è irraggiungibile. Una multa o un braccialetto elettronico non sono le uniche alternative alla detenzione. Da una decina d’anni, anche in Ticino si offre la possibilità, a chi ha commesso un reato minore, di svolgere un lavoro di pubblica utilità al posto di un certo numero di giorni di prigione o in sostituzione di una multa o di una pena pecuniaria. Questa idea di «pena alternativa», come si definiscono le misure diverse alla detenzione, si è impiantata in altri cantoni svizzeri a partire dagli anni Novanta, a titolo sperimentale, e da noi sono partite attività nell’ambito di questo progetto nel 2003. Oggi ne parliamo con Christian David, operatore sociale presso l’Ufficio dell’assistenza riabilitativa che si occupa tra l’altro anche delle Pene alternative e in particolare di chi beneficia del Lup (lavoro di utilità pubblica). David ci spiega che, con la revisione della parte generale del codice penale, entrata in vigore a gennaio 2007, il Lup è diventata una pena autonoma, decisa dal giudice di merito e con il consenso della persona interessata, per condanne contenute al massimo in 180 giorni (6 mesi), ossia 720 ore di lavoro pubblico. Esiste tuttavia anche la possibilità che i condannati stessi possano richiedere di trasformare in ore di lavoro la loro pena pecuniaria o ancora in caso di multe penali e amministrative, come per esempio un’infrazione della circolazione o legata al servizio militare.
La totalità delle ore di lavoro sono da svolgere entro due anni, diluendole a seconda delle esigenze professionali, anche se di principio si chiede che vengano svolte almeno dieci ore settimanali fino al completamento. Con questa alternativa al carcere viene offerta la possibilità di riparare il debito che si ha contratto con la giustizia in maniera utile e gratuita per lo Stato (se si pensa che una giornata di carcere costa circa 300 franchi, si tratta di un risparmio considerevole), oltre che con grandi benefici anche del condannato stesso. Mentre un’incarcerazione potrebbe nuocere alla sua integrazione sociale e professionale, il fatto di lavorare permette al condannato di restare a casa propria, in famiglia, di non lasciare il proprio impiego abituale (il Lup si esegue per definizione durante il tempo libero: i fine settimana, durante le vacanze o la sera) e di evitare ogni altra conseguenza negativa legata all’inattività o all’isolamento della detenzione. Da non sottovalutare nemmeno l’aiuto tangibile (gratuito) all’ente beneficiario, che spesso considera l’utente come una forza lavoro effettiva. Tali enti sono principalmente i Comuni, le Case anziani e le associazioni e la fondazioni senza scopo di lucro. Le attività che vengono svolte sono variegate. In particolare per i Comuni, si tratta di aiuto alla squadra esterna (giardinaggio, pulizia, magazzino), o nei lavori in discarica; per le case anziani chi fa un lavoro di pubblica utilità solitamente dà una mano in cucina, in lavanderia, affianca il custode o gli animatori. Le associazioni no profit possono invece avvalersi dei programmi di pene alternative per traslochi, sgomberi, tinteggi, restauri, coltivazione di un orto, giardinaggio, pulizia, rifugi per animali, e molti altri ambiti in cui svolgono le proprie attività. «Noi come Ufficio dell’assistenza riabilitativa», illustra David, «convochiamo il condannato all’inizio del progetto per informarlo sulle modalità del lavoro, verifichiamo le sue competen-
I lavori di pubblica utilità in alternativa a una condanna possono essere svolti per i Comuni (soprattutto pulizia e giardinaggio), per le case anziani o per associazioni no profit. (Keystone)
ze individuali e il tempo da dedicare al Lup. Cerchiamo poi un ente disponibile e fissiamo un incontro con quest’ultimo, dove verrà firmato un contratto tripartito (condannato, Ufficio dell’assistenza riabilitativa e ente) sul quale verranno indicate le ore da svolgere, la data di inizio e le responsabilità del condannato e dell’ente. Dopodiché contattiamo gli uni e gli altri in modo regolare al fine di monitorare la situazione; se è il caso si procede ad una vera e propria presa a carico. Al termine del lavoro all’ente è richiesta una valutazione scritta per quanto riguarda l’attitudine, la puntualità e il lavoro fornito dall’utente». Spesso il condannato che non ha lavoro spera di trovarlo laddove svolge la sua pena alternativa. Purtroppo, dice David, questo capita raramente; «... ma quando avviene è una grande soddisfazione anche per noi!». «L’importante», prosegue, «è che l’utente prenda tale forma di condanna come opportunità per la propria vita. Siamo sempre più spesso confrontati
con persone ai margini della società, senza un’attività lavorativa, con problemi sociali e finanziari. Riuscire a scontare la propria pena lavorando, magari a fatica, è un successo non evidente, che permette alla persona di dare una regolarità alla propria quotidianità, creare dei rapporti sociali, sentirsi utile, occupare in maniera intelligente il proprio tempo». Una parte delle persone che svolgono un Lup, infatti, sono individui che vivono un disagio. Due terzi ce la fanno, mentre un terzo circa abbandona prima del termine, a causa dell’incostanza, del comportamento o delle condizioni non rispettate; in tal caso le ore non effettuate vengono commutate in una pena pecuniaria o detentiva. Una delle condizioni per aderire al programma è l’astinenza da sostanze stupefacenti e un consumo di alcool entro i limiti prefissati (vengono svolte delle analisi regolari). A volte è proprio perché si ha un lavoro che si riesce a superare un problema di dipendenza: ecco
un altro aspetto che dà senso a questa forma di esecuzione della pena di cui stiamo parlando. I casi di Lup attualmente in gestione in Ticino sono un centinaio. Durante l’anno 2014 sono stati aperti 160 nuovi incarti, con un aumento del 60 per cento in confronto all’anno precedente. All’incirca quindicimila ore di «volontariato» all’anno che provengono dall’Ufficio dell’assistenza riabilitativa che sono destinate ad aumentare, secondo David, «in quanto aumentano le difficoltà economiche del singolo e, di conseguenza, l’impossibilità di pagare le pene pecuniarie e/o le multe». Non va nemmeno dimenticato il significato simbolico, ma altrettanto importante del Lup verso la società intera e che consiste nel riparare lo strappo al tessuto della società civile causato dall’inosservanza delle norme e delle leggi che ci siamo dati, attraverso una propria prestazione, come un «risarcimento in tempo», fuori dalla prigione, dentro la società.
Un viaggio tra le cartoline d’epoca Ticino ieri e oggi Nel suo ultimo libro il fotoreporter Rémy Steinegger va alla scoperta dei luoghi più suggestivi
del Ticino, immortalati da cartoline d’epoca e fotografati a distanza di anni Gemma D’Urso «L’idea del libro risale a tre quattro anni fa – ci racconta Rémy Steinegger, fotografo professionista in Ticino da oltre trent’anni – e lo spunto mi è stato dato dalla collezione di mio padre che durante tutta la vita ha raccolto francobolli e cartoline d’epoca delle quali m’interessava soprattutto il retro per via dei francobolli e vari timbri. Poi ho iniziato a osservare con attenzione anche le illustrazioni, i paesaggi e le località ripresi in epoche diverse». Autore del volume Ticino tra cielo e terra pubblicato nel 2011 sempre dalla casa editrice Fontana di Lugano, Rémy Steinegger si è quindi domandato come sarebbe stato confrontare cartoline d’epoca del Ticino con gli attuali paesaggi, per vedere che cosa è cambiato e che cosa è rimasto oggi del Ticino di un tempo. Il fotografo di Sala Capriasca ne ha parlato con Raoul Fontana, il suo editore, il quale ha accolto l’idea con entusiasmo e l’ha indirizzato al «re dei collezionisti» di Lugano, Diego Luraschi oggi 82enne, proprietario di un negozio di francobolli, cartoline e altre varie pregiate collezioni in Via Cattedrale. «Ho estrapolato 250 cartoline dalla sua ricchissima raccolta di oltre 4000 pezzi risalenti agli ul-
timi 100 anni e che raffigurano tutto il Ticino dal San Gottardo a Chiasso». È quindi seguito il certosino lavoro di scansione delle illustrazioni selezionate. «Quando il materiale è stato pronto, ho iniziato il mio percorso alla ricerca dei luoghi immortalati, cercando di rispettare il periodo dell’anno e l’ora del giorno. Un lavoro più difficile di quanto immaginassi poiché la distanza, l’altitudine e l’angolazione dovevano essere esatte per riprodurre perfettamente la giusta prospettiva» ci spiega Rémy Steinegger. Un lavoro spesso e volentieri ostacolato dalle opere erette dall’uomo con il passare degli anni e che ostruivano la vista oppure anche da proprie-
tari di terreni o immobili poco disponibili. «Mi sono sforzato di essere il più fedele possibile alla foto originale anche se mi sono trovato spesso di fronte ad una natura radicalmente trasformata o a contrasti enormi come nel caso di Gravesano ripreso da San Zeno e cambiato all’inverosimile in un secolo». Come spiega l’autore, la natura stessa è stata tra i suoi maggiori oppositori: «dove una volta gli uomini avevano lavorato duramente per strappare al bosco prati, terreni agricoli o vigneti, oggi sono tornati a crescere alberi e piante che hanno dato talvolta vita a boschi rigogliosi e, in altri casi, a una vegetazione selvaggia, con corsi d’acqua corretti o canalizzati, comunque sempre impenetrabili per il mio obiettivo». Il viaggio di confronto tra i paesaggi raffigurati nelle cartoline della ricca collezione di Diego Luraschi e quelli odierni si è snodato su diversi mesi, dal 2012 al 2013 e circa l’80 per cento dei 250 soggetti iniziali è stato concretizzato. All’anziano collezionista l’uso fatto delle sue cartoline è piaciuto molto. Postino di professione, nativo di Castione ma trapiantato a Lugano, Diego Luraschi raccoglie da una vita minerali, pietre preziose, monete, francobolli, quadri e cartoli-
ne d’epoca, in bella mostra nel suo appartamento: «con l’aiuto di mia moglie – ci racconta – ho reperito le cartoline nei mercatini di Parigi, di Bruxelles, di tante altre città e anche alle aste. Mi era già stato proposto di fare un libro sul Ticino di allora e di oggi, ma non me la sono sentita perché non sono un fotografo professionista». Parte della sua collezione di cartoline Diego Luraschi l’ha usata in alcuni suoi volumi stampati da Fontana come ad esempio Da Chiasso ad Airolo con le diligenze oppure Lugano nella storia e nella giustizia. Un libro scomodo quest’ultimo stando all’82enne poiché illustra le pratiche messe in atto nella Lugano medievale e tardo medievale come le impiccagioni alla forca di San Martino, le messe a morte di condannati rinchiusi in sacchi di iuta e buttati nel lago oppure decapitati alla foce del Cassarate. O ancora il commercio di neonati orfani che avveniva al vecchio Ospedale laddove sorge ora il quartiere Maghetti. Il giornalista Giorgio Passera, redattore in capo di «Terra ticinese» è l’autore dei testi che corredano le immagini del libro di Rémy Steinegger: «il libro era già pronto per quanto riguarda le foto quando ci è venuta l’idea di dare una chiave di lettura a quelle
immagini suggestive» ci dice Giorgio Passera. Grazie alla sua ottima conoscenza del territorio ticinese e ad una documentazione storica in suo possesso, il giornalista ha ultimato il suo lavoro redazionale in poco tempo: «è stato molto interessante ragionare sui cambiamenti in atto nel nostro cantone e constatare che non vale sempre la teoria “com’era bello il Ticino allora e com’è brutto oggi”, infatti non è così nella Val Bavona ad esempio dove il bosco cresciuto nel corso degli anni ha migliorato il paesaggio». I testi di Giorgio Passera sono quindi stati tradotti in tedesco dal giornalista Hanspeter Gschwend cosicché il libro Ticino ieri e oggi – gestern und heute è anche distribuito in Svizzera interna. Chi lo sfoglierà non mancherà di stupirsi su quanto siano rimasti immutati nei decenni alcuni paesaggi montani come la strada della Tremola definita da Giorgio Passera il «più lungo monumento viario della Svizzera» oppure i paesi di Muggio, Gerra Gambarogno, Corippo in Val Verzasca, Ritorto in Val Bavona, Villa in Valle Bedretto o Bosco Gurin. O si interrogherà sui radicali cambiamenti che hanno mutato le fisionomie di Lugano e della sua periferia sud in particolare, di Chiasso e di Mendrisio.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 02 febbraio 2015 ¶ N. 06
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Società e Territorio
«L’impoverimento riguarda noi stessi» Intervista In vista di un prossimo ciclo di conferenze, ecco come per il filosofo Fabio Merlini si potrebbe
superare la crisi tra cultura, formazione ed individui Marco Jeitziner Sono tematiche molto attuali e più che mai urgenti della nostra società quelle che animeranno le «4 prove d’autore per una formazione alla cittadinanza sostenibile» alle quali si potrà assistere i prossimi 5 febbraio, 5 marzo, 2 aprile e 28 maggio al convento di Monte Carasso, con inizio alle 18.30. Il ciclo di conferenze è organizzato dalla Conferenza della Svizzera italiana per la formazione continua degli adulti e dall’Istituto universitario federale per la formazione professionale, di cui abbiamo intervistato il direttore, Fabio Merlini. Signor Merlini, ci presenta brevemente il contenuto di questo ciclo di conferenze? A quale pubblico vi indirizzate?
Siamo partiti da una domanda semplice: nell’odierno disorientamento delle coscienze e della progettualità (politica, istituzionale, economica), la formazione ha ancora qualcosa da dire? E se sì, quali sono i grandi temi attorno ai quali sarebbe utile interrogarsi? Quattro intellettuali di prestigio sono così stati invitati a confrontarsi sulla sostenibilità sociale e ambientale, la solidarietà, la creatività e la cura di sé. Abbiamo privilegiato dei temi che a noi sembrano centrali, e da questi intendono partire le analisi che presentiamo al pubblico. Ci rivolgiamo a chi è interessato al discorso educativo, ma anche al contesto nel quale vive.
Al convento di Monte Carasso quattro intellettuali si interrogheranno sulla società contemporanea e su come educare alla cittadinanza e alla sostenibilità. (Keystone)
contestazione degli anni Settanta. Ma, come spesso accade, si è poi passati al lato opposto: ora si tratta di ritrovare la giusta via mediana. Smetterla di pensare la scuola a partire dal modello imprenditoriale e riappropriarsi, senza però farsi troppe illusioni, di un progetto educativo che abbia il coraggio di pensarsi anche come progetto di società. E non solo come risposta a esigenze preconfezionate.
Qual è l’urgenza di queste tematiche rispetto all’ideologia dominante della crescita e dell’individualismo, che mostra ormai tutti i suoi limiti?
Veniamo ai conferenzieri. Ci illustri brevemente il concetto di «modello di sensibilità interculturale» di Milton J. Bennett.
Appunto quella di mostrare che non pochi «valori» sui quali le nostre società hanno investito negli ultimi decenni si sono rivelati fallaci e in ultima analisi controproducenti. Ne prendo due che valgono per tutti: la competitività esacerbata e la flessibilità a tutti i costi. Che cosa hanno prodotto, che tipo di società e di individuo hanno veicolato? E poi, quali costi stanno producendo?
È un modello evolutivo che si riferisce alla persona, immaginandola all’interno di uno sviluppo che dall’approccio esclusivo e autocentrato conduce all’apertura inclusiva e rispettosa delle differenze. Il fatto è che una sensibilità di questo tipo non è mai garantita una volta per tutte. E, soprattutto, non disegna alcuna progressione lineare degli individui e delle loro società. L’evoluzione cui fa riferimento Bennet non è nelle cose. È una idealità che va curata, educata, promossa. Basta pochissimo a farla saltare, come vediamo bene oggi.
La scuola, il settore della formazione in generale, sta facendo abbastanza in questo ambito? Perché?
La scuola ha certamente scontato negli ultimi trent’anni una sudditanza a quella che lei chiama «ideologia dominante». Un fatto che si spiega come reazione a non poche ingenuità della
Elena Pulcini, docente di filosofia sociale a Firenze, promuove la cura di sé e del mondo con particolare attenzione alle emozioni. Che spazio
e che valore hanno le emozioni in questa era globalizzata e tecnologica?
Le emozioni di cui parla Elena, sono quelle ascrivibili a passioni e sentimenti che debbono poter essere rimessi in circolazione per correggere il sentimentalismo emozionale a buon mercato di esistenze completamente asservite al consumo e alla spettacolarizzazione dei messaggi, delle immagini e delle informazioni. La tecnica non uccide le emozioni, ma vi è un uso delle tecnologie che rende morbose le emozioni, in modo che qualcuno possa poi approfittarne. Gian Piero Quaglino, psicologo della formazione, ritiene utile il modello di «auto-formazione» o «auto-apprendimento» e sprona all’esercizio del dubbio e dell’incertezza. Oggi però è la delega formativa che prevale, così come il bisogno di certezze.
l’incontro con noi stessi. Vi è iperattivismo anche nello stile attuale delle offerte formative. Se non ho più tempo di leggere, di ascoltare musica, di partecipare alla vita culturale perché le mie giornate sono impegnate costantemente a seguire e quindi certificare qualche corso, qualche aggiornamento, qualche Master, che cosa ci guadagno, di fatto? E che cosa ci guadagna l’insieme della società? Rispetto ai valori di Quaglino, la formazione in Svizzera viene definita come «troppo tecnica» e troppo poco umanistica. Cosa ne pensa?
Mi sembra che anche da noi sia accaduto quello che si è prodotto in altri Paesi: abbiamo trascurato i saperi umanistici, con la loro straordinaria capacità di educare sensibilità, gusto, visioni del mondo eteroclite, a tutto vantaggio di un concetto equivoco di utilità. Per Luigina Mortari, docente di filosofia, pedagogia e psicologia a Verona, l’esperienza è l’unica vera fonte di apprendimento su cui riflettere. Ma la formazione oggi non è troppo centrata sulla teoria a dispetto del fare, del vivere, del sentire, ecc.?
Giustissimo. Anche perché la formazione è diventata un grande mercato. Come se una formazione priva di certificazione non conti nulla, non abbia valore. Bisogna capire che questo modello rispecchia quella tipica estroflessione dell’attenzione, delle emozioni e della coscienza che è uno dei caratteri più salienti dell’epoca attuale. Anche in questo caso, ciò che manchiamo è
Diciamo che le nozioni cui fa riferimento la sua domanda sono oggetto di grandissima attenzione nella lettera-
ancora vivi, che si preoccupa di riprendere ma non di soccorrere. E non si ferma più, notte dopo notte esce in cerca di cadaveri da riprendere perché sa che ci sono le emittenti televisive pronte a pagare bene per i suoi filmati. Più sono cruenti, creano paura e insicurezza nei cittadini, tanto meglio. Fanno ascolto. Come Lou abbia girato le sue riprese non interessa a nessuno, la deontologia e l’etica professionale non esistono. Contano i soldi, lo share, il successo, l’apparenza. Qualsiasi cosa è lecita per avere questo. E Lou Bloom avrà ciò che vuole, diventerà il più ricercato videomaker sulla piazza. Ricorda lo spietato Frank Underwood (Kevin Spacey) di House of Cards, il quale grazie ad intrighi, raggiri, qualche morto sulla coscienza, vendette personali, inganni tramati nell’ombra e un’abile strategia politica, da demo-
cratico eletto nel quinto distrettuale congressuale della South Carolina e capogruppo di maggioranza della Camera, riuscirà in una incredibile scalata al potere diventando Presidente degli Stati Uniti. Sulla sua strada troverà molti rivali ma molti di più saranno i complici, a partire dalla moglie Claire (Robin Wright) fino ai collaboratori e alla giovane giornalista Zoe Barns. House of Cards ci dice che la più grande democrazia del mondo non è che un castello di carte sorretto da politici scorretti, bugiardi, traditori, assassini e davvero poco virtuosi e meritevoli delle cariche che ricoprono. Trasmessa sul canale online Netflix, che dal 2008 offre agli utenti della Rete un servizio di streaming online on demand accessibile tramite un apposito abbonamento, la serie ha avuto un successo internazio-
tura specialistica, ma non sempre il sapere prodotto a questo livello trova le sue applicazioni nella scuola. Anche in questo campo disponiamo di conoscenze raffinate, ma tradurle in aula non è una operazione facile, anche per le ragioni dette sopra. Se è dalla formazione che possono nascere nuove prospettive, come spiega che tra le ultime generazioni i segni di cambiamento sono così pochi o persino inesistenti?
Nuove prospettive nascono prima di tutto dall’intelligenza, non direttamente dalla formazione. La formazione è una forma di amministrazione dell’intelligenza: le assegna una direzione, un orientamento. Non direi che i segni di cambiamento siano inesistenti; osserverei invece che siamo confrontati con un cambiamento che interessa in modo unilaterale la nostra abilità di intervenire operativamente sul mondo. Molto meno di intervenire creativamente su noi stessi e sulla nostra capacità di stabilire relazioni di comprensione, di empatia, di cura rispetto a ciò che ci circonda. È un impoverimento che, lo ripeto, riguarda in primo luogo noi stessi. Informazioni
www.conferenzacfc.ch/incontri
La società connessa di Natascha Fioretti Se al cinema vince il cinismo
Sul grande e il piccolo schermo oggi in politica, nei media, nella società vince il cinismo. Dalle pellicole cinematografiche alle serie di Netflix come House of Cards vince chi è più cattivo, più furbo, più scaltro. Lo scopo è l’autoaffermazione, nel lavoro e nelle relazioni umane, a qualunque costo. Per ottenere visibilità e potere qualsiasi arma è lecita. Non ci sono regole, codici d’onore, non c’è umanità, i buoni sentimenti se ci sono vengono annientati, annichiliti, è bravo insomma chi gioca sporco. Per trovare riscontro nelle mie parole, che naturalmente non valgono per tutto e per tutti ma vogliono mettere in luce una certa tendenza, basta vedere Lo sciacallo, due nomination agli Oscar, uno come migliore sceneggiatura originale, l’altra per il miglior attore.
Fermo restando che non si vuole fare critica cinematografica è interessante quanto drammatico soffermarsi sulla trama del film che fa molto riflettere sulla società di oggi e sul mondo dei media. Un perfetto nessuno, ladruncolo di reti metalliche che recita a memoria concetti di marketing e gestione di impresa imparati navigando in Rete, si improvvisa videomaker. Videocamera da principianti alla mano, Lou Bloom di notte riprende incidenti stradali o fatti di cronaca nera per poi venderli al migliore offerente. Per arrivare in tempo sul posto spia le comunicazioni della polizia. Diventa bravissimo nel suo lavoro, il più bravo sulla piazza grazie ai cadaveri che ha sulla coscienza: quelli della concorrenza, quelli del suo braccio destro e quelli delle vittime degli incidenti,
nale strepitoso sia a livello di critica, sia di pubblico con tanto di nomination ai Prime Time Emmy Award e ai Golden Globe. Dunque il cinismo dilaga e imperversa nella fiction. Ma noi ci riconosciamo in Frank e Claire Underwood, oppure in Lou Bloom? E quel modo di fare politica e di fare giornalismo corrispondono alla realtà? Perché c’è un elemento che terrorizza più del cinismo, del calcolo e della cattiveria di queste fiction ed è la tacita accettazione di chi sta intorno a Frank e a Lou e potrebbe opporsi, cambiare il corso degli eventi, rompere le dinamiche viziose e invece si rende complice a sua volta rendendo sempre più labile il confine tra ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Per fortuna è fiction e noi siamo solo degli spettatori…
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 02 febbraio 2015 ¶ N. 06
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Società e Territorio Rubriche
Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni La felicità secondo le statistiche La statistica svolge oggi un ruolo fondamentale nelle nostre società, per orientare le politiche economiche e sociali, per affinare le strategie di mercato, per cogliere segni di patologie sociali incipienti, per rilevare la volontà dell’elettorato e così via. Un ruolo importante, dunque, come aveva intuito con geniale anticipazione Stefano Franscini che si dedicò per anni e anni a raccogliere statistiche, scorgendovi un ausilio per la corretta amministrazione dello Stato e per lo sviluppo del Ticino. Da allora le ricerche statistiche sono progressivamente straripate in ogni ambito: e ve ne sono anche di «dissennate» – come quelle segnalate da Neil Postman nel suo ottimo libro Technopoly; o altre che si smentiscono a vicenda. Cito un solo esempio: nel 1994 uno studio pubblicato dall’Università di Berna lanciava l’allarme sullo stress al quale sarebbero sottoposti gli studenti svizzeri,
oberati di compiti e di studi, oltre alle normali ore passate a scuola, per un carico di lavoro totale di oltre 50 ore settimanali. Tre mesi dopo, una nuova indagine condotta dal Fondo nazionale per la ricerca scientifica rovesciava clamorosamente queste conclusioni: secondo i nuovi dati, i giovani svizzeri non dedicherebbero in media più di 50 minuti al giorno ai compiti a casa e lo stress scolastico sarebbe quasi inesistente. Insomma, esempi come questo – e ce ne sono tanti! – invitano a un ragionevole scetticismo nei confronti di simili indagini statistiche. Ciò non toglie che ve ne siano di serie e importanti, e ultimamente mi sono imbattuto in un tipo di ricerca che mi sembra ben fatta e che dà da pensare: si tratta delle rilevazioni condotte dall’Indagine mondiale sui valori che in più di ottanta Paesi del mondo raccoglie dati sul grado di felicità avvertita dai rispettivi
già un’indagine condotta da Easterlin negli Stati Uniti rilevava che se dal dopoguerra al 1996 il reddito del Paese era raddoppiato, la felicità – che faceva registrare un aumento all’inizio degli anni Sessanta – era poi diminuita. Che cosa concluderne? Null’altro che la vecchia consapevolezza che «il denaro non fa la felicità» (anche se è pur sempre vero che, senza denaro, è ben difficile essere felici). Ma i risultati statistici menzionati inducono a qualche altra riflessione. Sembra di poterne dedurre che la percezione soggettiva di felicità sia in rapporto con la prospettiva di qualcosa che manca, ma che si può raggiungere con la volontà e l’impegno; quando poi l’obiettivo è soddisfacentemente raggiunto, perde d’interesse e dunque non costituisce più un fattore di felicità. Anzi, il venir meno del progetto che era incentivo ad agire comporta un certo senso di vuoto, di scontentezza e di inappa-
gamento. Come in una corsa: la linea del traguardo attrae chi è impegnato a correre; una volta che la si è raggiunta non ha più alcun motivo d’interesse. La vita, appunto, è simile a una corsa. Comunque, la soddisfazione di sé e un’impressione di felicità sono legate al fare, al voler realizzare un’aspirazione, un sogno, un progetto. Quando l’orizzonte lontano si fa vicino e svanisce, se non emerge un altro orizzonte a fare da richiamo rimane solo il vuoto: la felicità dilegua. La bella favola d’amore di Hermann Hesse, Le trasformazioni di Pictor, esprime appunto sotto forma di metafora la tesi che la felicità è realizzarsi, divenire. E vi si legge: «Lo si può vedere tutti i giorni anche nei cavalli, negli uccelli, negli uomini e in tutti gli esseri: quando non possiedono il dono della trasformazione, col tempo sprofondano nella tristezza e nell’abbattimento, e perdono ogni bellezza».
l’architetto, Karl Koller (1873-1946), è lo stesso del mitico Waldhaus di Sils-Maria nonché del Suvretta a St. Moritz: entrambi ancora oggi imponenti e fatati tra gli abeti. Le sei fonti d’acqua acidula arsenicale-ferruginosa ormai in disuso – a parte la Ulrich che si può bere in estate, pompandola in una vasca di nichel vicino alle vestigia della Trinkhalle – sono proprio sotto l’hotel. Di fianco, il lascito inquietante di una valanga. Dentro: poltrone polverose di velluto rosso carminio, pianoforte Schiedmayer & Söhne, parquet ultracentenario e scricchiolante, tende floreali, piante d’appartamento. Una in training legge un thriller in compagnia di un thermos di tè. «Allegra!» le dico, «Goedenavond» mi fa. Nella bliblioteca con vista totale di abeti innevati, un puzzle da tremila pezzi quasi finito di uno scorcio notturno di Amsterdam. La foto del dr. Albert Nadig (18731956), per quarant’anni anima del sanatorio, si trova in una vetrinetta
vicino a una cartina escursionistica, assieme ad altri cimeli. Se le prime bottiglie etichettate Val Sinestra arrivano sul mercato europeo nel 1879, le sorgenti erano già note nel XV secolo. Secondo la leggenda, scoperte ancora prima da San Florin, incontrando nel bosco una donna in cerca di una fonte miracolosa per guarire sua figlia. In sogno la Madonna le ha detto di cercare da quelle parti e tra le genziane, con l’aiuto di San Florin – conosciuto tra l’altro per trasformare l’acqua in vino – la trovano. Qui si cena dalle sei alle sette. Non nella grande, sobria ed elegante sala da pranzo, ma in una saletta con tre tavoli. Una quindicina di ospiti, tutti olandesi. La cena selfservice: zuppa di pomodoro, curry di carote e piselli, riso. E delle nuvole di drago, pallide chips cinesi ai gamberi forse. I piatti bisogna riportarli da sé in cucina; non sto lì a osservare, ma l’apice del «sentirsi come a casa» che è «la filosofia del luogo», come dicono, deve essere lavarli. Lars, tabagista di
Utrecht, mi dice che qui, negli anni Novanta, organizzava delle feste con orde di zurighesi. È venuto per vedere se si può ancora fare qualcosa, ma lo vedo un po’ sfiduciato. Alle otto e un quarto, soporifero filmato muto sulle cure termali ai bei tempi, commentato da Brigitte, l’animatrice. E ora visita nei piani bassi, da Gilbert, come chiama lei il fantasma. I primi indizi è Peter Kruit stesso a notarli, negli anni Ottanta, «piante che si spostano, bicchieri rotti, il pianoforte che suona da solo la notte». Degli esperti in spiriti lo hanno localizzato nella camera numero cinque, che Brigitte apre: c’è solo una vasca, collegata a un quadrocomandi terapeutici. Correnti d’aria gelide e spifferi qui non mancano, si vedono le rocce vicino alle scale, qualche sgraffito engadinese. Nella mia preadolescenza sono stato un grande fan di Sheridan Le Fanu, forse il più grande autore di racconti di fantasmi, ma di fantasma, va da sé, qui c’è solo il cuoco, «italiano» hanno detto.
di cui si è, in pari tempo, soggetto e oggetto. In altre parole, quest’apparecchio intelligente, lo smartphone appunto, per certi versi strabiliante, allarga poi veramente la nostra visione delle cose, stimola la conoscenza al di là dell’apparenza, avvicina alla natura, favorisce il contatto con l’arte, in definitiva è al nostro servizio? Affiorano, adesso, interrogativi tutt’altro che campati in aria, non certo viziati dal pregiudizio verso la tecnologia, coltivato magari da intellettuali schizzinosi o da passatisti dediti al rimpianto. Esprimono, invece, un diffuso disagio di fronte a un fenomeno dilagante quanto incomprensibile: come si spiega quella selva di piccoli schermi luminosi, innalzati per cogliere e immortalare qualsiasi momento e aspetto di ciò che ci circonda? A prima vista, negli autoscatti di oggi si ritrovano motivazioni di ieri: d’ordine affettivo, innanzi tutto, quando si ritraggono bambini, compleanni, nozze, carnevali, balconi fioriti, cani e gatti,
cioè scorci di vita privata e familiare. Un tempo erano soggetti sottoposti, non senza fatica, all’obiettivo di un apparecchio da cui uscivano, persino faticosamente, foto in bianco e nero e poi a colori: da conservare. Adesso basta sfiorare un’icona per ottenere immagini su immagini, grazie a una tecnologia che, non solo, ha facilitato l’operazione, rendendola banale. Ma, qui sta il problema, esponendola al rischio dell’esasperazione, con derive addirittura patologiche. Come definire, infatti, il selfie con il defunto? Giorni fa, una conoscente, che abita nel Comasco, me ne ha fornito una testimonianza che lascia increduli: parenti e amici avevano voluto «autoscattarsi», a fianco del cadavere di sua madre, morta ultranovantenne in una casa di riposo. Insomma, il bisogno di esserci, sempre e dappertutto, sembra superare i limiti di uno spontaneo buon senso o buon gusto. Sin qui, evidentemente, si rimane nell’ambito dell’uso-abuso del selfie nell’ambito privato. Da cui sembra diffi-
cile riuscire a difendersi. Diversamente, nell’ambito pubblico, ci si sta impegnando per trovare soluzioni efficaci: scontrandosi, alle nostre latitudini, con l’esigenza di garantire ai cittadini una libertà, in parte intaccata proprio dal potere dei selfies. Non a caso, in Iran, dove già i social sono sotto controllo, il selfie è stato vietato, per motivi di pubblica moralità: aveva ripreso ragazzi e ragazze, insieme, in uno stadio. Altre, ovviamente le motivazioni che stanno dietro alla proibizione di usare i telefonini al museo Van Gogh di Amsterdam: gli apparecchi issati impediscono di vedere i quadri. Alla stessa stregua, selfies vietati allo Shakespeare’s Globe di Londra, allo zoo di New York e persino nelle camere a gas di Auschwitz. Mentre, una spiaggia snob, La Garoupe di Antibes, espone il cartello «No Braggies Zone», zona vietata agli spacconi: di cui un segno distintivo sarebbe l’uso improprio del telefonino. Come dire, uno strumento non per vedersi ma per vedere.
abitanti. Ebbene, il risultato che più induce a riflettere è quello relativo al rapporto tra il livello individuale di reddito, la ricchezza complessiva del Paese e la felicità di chi vi abita: il divario di reddito tra Paesi ricchi e poveri «non sembra tradursi in un proporzionale divario di felicità». Ad esempio, messicani e nigeriani sarebbero in media più felici degli europei e degli americani. Sia chiaro: un aumento di reddito che porta gradualmente a una condizione sia pur modestamente agiata aumenta il grado di felicità avvertita; ma, una volta raggiunta una certa soglia di benessere, l’effetto positivo del reddito personale sulla felicità individuale si fa via via decrescente. Si giunge così a una categoria di «arricchiti scontenti» che, ad esempio, in Germania corrisponde a un terzo di tutti coloro che tra il 1992 e il 2006 hanno registrato aumenti di reddito. Del resto,
Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf Hotel Val Sinestra Bassa Engadina, in una valle laterale a sei chilometri da Sent, pittoresco villaggio sopra Scuol, c’è uno strano hotel. Ex sanatorio termale sperduto nei boschi, famoso un tempo per le sue fonti di acque minerali curative andate in malora e finito sui giornali, qualche anno fa, per la storia di un fantasma. Belga, paziente negli anni Venti, di nome Guillon, innamorato di un’infermiera, riporta il sei aprile 2010 un’inviata della «Tribune de Genève». Lo scoop è del «Sonntagsblick», un mese prima, ingaggiando persino un medium entrato in contatto con lo spirito. Andato sul luogo nel luglio dello stesso anno, un giornalista della «NZZ» aggiunge un cappello, baffi, soldato, sifilide. Dalla bocca di un drago sgorga l’acqua nella fontana della piazza di Sent. Aspetto qui qualcuno dell’hotel. In inverno la strada per la Val Sinestra è chiusa, la posta ci va solo in estate. Dopo un paio di curve serpeggianti nel fitto degli abeti, si capisce perché: finire
giù nel burrone è un attimo. Se a Sent la neve si scioglie al sole, qui ce n’è a oltranza, protetta dall’ombra. Tra i rami, ecco apparire laggiù, come un castello delle fiabe, un pomeriggio d’inizio febbraio, l’hotel Val Sinestra (1500 m). Di proprietà dell’olandese Peter Kruit dal 1977, oggi il vecchio hotel spettrale è perlopiù una colonia di olandesi. Come Michel, giovane chauffeur-tuttofare che il fantasma lo chiama Guillaume. Undici piani costruiti su uno sperone roccioso, in fondo a una valle stretta e buia, a ridosso del torrente Brancla. Aria quantomeno sinistra. Sinestra del resto, in romancio significa appunto sinistra, intesa come direzione. Gli elementi favolistici di questa casa di cura sorta nel 1912, oltre alla cornice di abeti, sono l’enigmatica torre cilindrica e la guglia appuntita che corona l’ala con il frontone barocco sudtirolese, tipico di certe case di Sent, che ondeggia tra la campanula e le parentesi graffe. D’altronde,
Mode e modi di Luciana Caglio Difendersi dai selfies, ma come? Cambiano in fretta, come per un riflesso condizionato, i nostri comportamenti di fronte alle novità tecnologiche. Dura poco la diffidenza iniziale, scalzata dalla curiosità per un oggetto che poi crea un’abitudine e, infine, una dipendenza, spesso inconsapevole. È successo anche con il selfie, parola ormai entrata nel linguaggio corrente, e legittimata sul piano scientifico. Proprio due anni fa, l’Oxford Dictionary la registrava ufficialmente fra i neologismi inglesi del 2013. Mentre i linguisti italiani esitano e propongono autoscatto, che non ne è, comunque, l’esatto equivalente. Alla popolarità di questo cellulare, che capta immagini, doveva contribuire, non da ultimo, Papa Francesco con un gesto che fu una primizia storica: quando accettò di figurare nei selfies, scattati dai suoi giovani fan, in Piazza San Pietro, conferendo alla nuova moda una sorta di assoluzione morale. Dopo che, da assiduo utente, Obama l’aveva resa politicamente corretta. Ma ecco che, a sua volta, dopo il cinema,
l’auto, il computer, la tv, ecc., anche per quest’acquisizione è arrivata un’inevitabile resa dei conti. Dal selfie, dunque, ci si deve difendere. Come testualmente si è letto sui giornali dei giorni scorsi. Si tratta, innanzi tutto, di valutare gli effetti reali prodotti da uno strumento
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Ambiente e Benessere Il fascino del dirigibile È il momento di riscoprire un altro modo di viaggiare vintage, lasciandosi trasportare dai venti dell’avventura
Il profumo nella neve Fiorisce durante i mesi più freddi dell’anno e ha una fragranza da fare invidia: è il Calicanto
Allevare con capacità I proprietari di allevamenti di animali da compagnia hanno bisogno di un’autorizzazione pagina 16
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Sport ricco d’appuntamenti Hockey, calcio e tennis a parte, stanno per cominciare i mondiali di sci apino in USA pagina 19
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Il dottor Gianluca Vanini capo del Servizio di immunologia clinica e allergologia dell’Ospedale regionale di Lugano. (Stefano Spinelli)
Quando la malattia è rara
Medicina Diagnosi e risposta terapeutica chiare e puntuali per fronteggiare la sclerodermia e la sua evoluzione Maria Grazia Buletti «Un giorno d’inverno, aspettando l’autobus mi sono accorta di avere le dita blu. Era freddo e non mi sono preoccupata più di tanto, finché mi sono resa conto che con il tempo, ogni volta che era freddo, le mie dita diventavano di un blu che non accennava a diminuire. Avevo 15 anni. Sono andata dal mio medico che, grazie alla sua esperienza, conosceva questa malattia e l’ha diagnosticata subito: sclerodermia». È il racconto di Maria, che oggi ha 22 anni. L’abbiamo incontrata nello studio del dottor Gianluca Vanini, capo del Servizio di immunologia clinica e allergologia dell’Ospedale regionale di Lugano. Da questo specialista di medicina interna, immunologia e allergologia (insieme alla testimonianza della sua paziente Maria) ci siamo fatti spiegare questa malattia rara autoimmune: «Per far fronte a questa malattia ci vuole parecchia determinazione e Maria ce lo dimostra; il paziente non va mai lasciato solo nel percorso terapeutico di una patologia così complessa, dai risvolti sociali spesso difficili, dato che non la si conosce e, per questo, le difficoltà e le sofferenze delle persone che ne sono colpite vengono spesso sottovalutate», asserisce lo specialista.
Anche alla nostra interlocutrice succede talvolta di sentirsi incompresa, e dunque un po’ sola, soprattutto nei momenti in cui la malattia la fa stare meno bene: «Ci sono giornate difficili, soprattutto ora che ho qualche problema ai polmoni e succede che mi svegli bene, e potrei fare qualsiasi cosa, oppure la mattina inizia malissimo e fatico a fare anche le cose più elementari. So che questa malattia non sempre si vede “da fuori” e le persone non riescono a capire che siamo davvero ammalati: i problemi polmonari, la fatica, ad esempio, non sono visibili esternamente e spesso ci sentiamo incompresi da chi poi sottovaluta la nostra situazione». La sclerodermia o sclerosi sistemica ha origini ancora oggi non chiaramente identificate e si situa nella categoria delle malattie rare autoimmuni. Oggi, in Svizzera ne sono toccate circa 1400 persone, per la maggioranza di sesso femminile, con un rapporto di 5 a 1. Il dottor Vanini ci spiega che il suo nome deriva dal greco sklêros (duro) e derma (pelle): «È caratterizzata da un indurimento progressivo del tessuto connettivo e può estendersi a tutti gli organi interni attraverso l’alterazione dei vasi sanguigni che conduce, a sua volta, a disturbi di tipo circolatorio».
La sclerodermia si distingue nelle forme «localizzata» e «sistemica»: «La prima è caratterizzata da una fibrosi della pelle che per questo ne deriva indurita e può sviluppare ulcerazioni, mentre la sistemica si distingue anche per le lesioni agli organi interni come l’esofago, i polmoni, l’intestino, i reni, il cuore e i disturbi vascolari della microcircolazione, come ha spiegato Maria parlando delle sue dita e descrivendone la cattiva circolazione che si manifesta con un pallore seguito da arrossamento intenso (ndr: sindrome di Raynaud, dal medico che lo ha individuato nel 1865)». Lo specialista ribadisce che a tutt’oggi le cause sono ancora poco chiare: «Possiamo parlare di multifattorialità che inizia attraverso un mal funzionamento del sistema immunitario, il quale erroneamente identifica come estranee le cellule dell’organismo stesso e per questo le combatte cercando di neutralizzarle. Inizialmente si manifesta una reazione infiammatoria incontrollata, poi le cellule del tessuto connettivo si moltiplicano all’eccesso con una fibrosi che provoca l’indurimento dei tessuti della pelle, come pure l’ispessimento della parete di alcuni vasi sanguigni». Il dottor Vanini completa l’elenco del-
le possibili cause concomitanti con la predisposizione genetica, alcuni fattori ambientali, infezioni di origine ignota, ormoni sessuali, farmaci e tumori: «Questi ultimi sono ancora oggetto di studio per rapporto alla loro concomitanza, ma è certo che si tratta di molti fattori scatenanti che si devono trovare in concomitanza perché la malattia si manifesti, con un decorso che differisce da persona a persona». Ognuno di questi pazienti deve perciò essere accompagnato lungo il decorso della malattia, curabile ma non guaribile, in modo assolutamente personalizzato, da medici che possono vantare grande esperienza in materia. «Solo attraverso una conoscenza approfondita di molti casi, il medico sarà in grado di accompagnare nel migliore dei modi il paziente, provando ad assicurargli la migliore qualità di vita possibile nella convivenza con la sclerodermia», asserisce il dottor Vanini che si spinge oltre il camice bianco: «Ripeto che si tratta di pazienti ai quali dobbiamo far sentire la nostra empatia e la nostra grande disponibilità nell’accompagnarli lungo il percorso di questa rara malattia, che proprio per la sua caratteristica subdola non è sempre socialmente individuabile e riconosciuta: questo porta a uno stato di frustrazio-
ne che noi dobbiamo aiutare a superare nel migliore dei modi». Lo specialista asserisce che realismo e percorso empatico comune sono la chiave di accompagnamento dei pazienti affetti da malattie croniche come queste, la cui speranza di vita è soggettiva: «La relazione di fiducia reciproca che si instaura con le persone che curiamo e incontriamo sovente e la condivisione della sofferenza fanno sì che questi pazienti siano inevitabilmente parte della vita stessa del loro medico curante: una strada difficile anche per me», conclude il dottor Vanini al quale Maria esprime la propria riconoscenza, ricordando inoltre l’esistenza dell’associazione svizzera di sclerodermia ASS, www.sclerodermie.ch. «Mi ha aiutato parecchio fare capo all’ASS, nella quale ho trovato la condivisione delle esperienze personali e tutte le informazioni delle quali necessitavo per affrontare il mio percorso», conclude Maria, riflettendo ad alta voce anche sul fatto che: «Chiunque si trovi confrontato con malattie così complesse dovrebbe poter affrontare anche un percorso di tipo psicologico: insieme al dottor Vanini mi ha aiutato parecchio la psicologa, anche per avere uno sguardo più positivo sulla vita».
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Ambiente e Benessere
Viaggi d’aria
Riscoprire l’Italia araba
Viaggiatori d’Occidente Il ritorno dei dirigibili dal passato al futuro
Bussole Inviti
a letture per viaggiare «Adesso che avete questo libro tra le mani e che state per partire, tanto vale che ve lo dica: non è facile andare per l’Italia araba. Occorre prestare attenzione ai dettagli, saper bene dove guardare e lavorare persino un po’ di immaginazione. Ma soprattutto bisogna guardarsi dai facili fraintendimenti. Quella di cui si parla nelle pagine che seguono è soprattutto, infatti, la storia di un lungo incontro: l’incontro tra una penisola posta al centro del Mediterraneo e il mondo a maggioranza musulmana che la circonda a sud e a est...» »
Dapprima le crociere in dirigibile saranno forse un prodotto di lusso, ma lo stesso avvenne con le crociere… È il momento di riscoprire anche i dirigibili? Si è già ipotizzato il loro uso per spedizioni spaziali (per esempio su Venere) o in ambito militare, per sorvegliare vaste aree con l’aiuto della tecnologia. Altrettanto forte è l’interesse per trasportare carichi pesanti (fino a 50 tonnellate) in aree remote. Ma anche il servizio passeggeri è tra le
Il Macon della marina statunitense in volo su Manhattan.
possibilità: alcune decine di persone potrebbero essere cullate dolcemente tra le nuvole… È un consapevole ritorno al passato. Nel periodo tra le due guerre, infatti, i dirigibili competevano alla pari con gli aerei nel collegare i continenti, anzi sembravano favoriti: i primi aerei erano rumorosi, scomodi, inaffidabili, poco capienti, mentre i maestosi giganti dei cieli sembravano promettere un viaggio confortevole e sicuro: solo sui dirigibili era possibile pranzare in volo, leggere come in un salotto, fumare, conversare con gli altri passeggeri. Il pennone in cima all’Empire State Building, reso famoso dal film di King Kong, sarebbe dovuto servire come attracco per i dirigibili a Manhattan. Per cinque anni, dal 1932 al 1937, il tedesco «Graf Zeppelin» garantì regolari collegamenti tra la Germania e il Brasile; anche la sicurezza sembrava garantita, dopo che questa macchina aveva volato per oltre un milione e settecentomila chilometri, incluso un giro del mondo nel 1929. Queste brillanti promesse si trasformarono in tragedia nel maggio del 1937, con il disastro del dirigibile «Hin-
denburg», che si incendiò e bruciò in pochi secondi mentre cercava di attraccare a Lakehurst, New Jersey. Non era il primo incidente di questo genere, né il più grave (dopo tutto in quell’occasione due terzi dei passeggeri e degli uomini dell’equipaggio riuscirono a salvarsi), ma per la prima volta la tragedia fu raccontata alla radio e ripresa dalle telecamere, per essere poi diffusa nei cinema. La spettacolare catastrofe ebbe ampia eco nell’opinione pubblica e scoraggiò i potenziali clienti, proprio quando l’aviazione registrava sostanziali progressi. Si chiudeva il tempo dei mezzi più leggeri dell’aria, anche perché gli aerei della Pan American Airlines attraversavano ormai l’Atlantico a una velocità ben maggiore dei 130 km/h dell’«Hindenburg». In Gran Bretagna lo sviluppo dei dirigibili era legato al progetto R101, sviluppato sotto il controllo dello Stato. L’obiettivo era collegare le diverse parti dell’impero sparse per tutto il globo: con solo due soste tecniche, 60 passeggeri avrebbero potuto raggiungere l’India in una settimana. Il benessere era particolarmente curato: gli spazi dei passeggeri non erano più sospesi sotto
Cravatte ingannevoli Giochi matematici Quando il paradosso è frutto
di un ragionamento errato che sembra però corretto
Ennio Peres In Matematica, si definisce paradosso una proposizione apparentemente assurda, ma assolutamente vera. Uno dei più inestricabili paradossi matematici riguarda la natura dei numeri pari e dispari, un concetto oggettivamente piuttosto semplice. Come è a tutti noto, infatti, in una qualunque successione limitata di numeri interi consecutivi, si alternano un numero pari e uno dispari, come qui evidenziato: (…) –6 –5 –4 –3 –2 –1 0 1 2 3 4 5 (…) Si può, quindi, tranquillamente affermare che la quantità dei numeri pari
Azione Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
è uguale alla metà di quella dei numeri interi (lo stesso vale, ovviamente, per i numeri dispari). Se si considera, però, la totalità infinita dei numeri interi, la quantità dei numeri pari risulta essere esattamente uguale a quella dei numeri interi! Infatti, dato un qualsiasi numero intero N, esiste sempre un numero pari P, tale che: P = 2N. Analogamente, dato un qualsiasi numero intero N, esiste sempre un numero dispari D, tale che: D = 2N+1. Le teorie matematiche sono ricche di affermazioni paradossali, che sfuggono a un’immediata intuizione, anche
se possono essere dimostrate mediante rigorosi ragionamenti logici. Il termine paradosso, però, viene spesso utilizzato anche per definire un’affermazione che appare incredibile, semplicemente perché scaturisce da un ragionamento errato (ma che, ingannevolmente, sembra corretto). In un caso del genere, si dovrebbe parlare più propriamente di: sofisma, se l’inganno logico è intenzionale, e di: paralogismo, se invece è involontario. L’insidia nascosta in un sofisma ben congegnato può avere effetto anche quando i ragionamenti da compiere sono relativamente semplici.
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il veicolo, ma incorporati nella struttura, e divisi su due piani… Ma anche qui il destino decise diversamente. Durante il viaggio inaugurale verso l’India, nell’ottobre del 1930, l’R101 si schiantò sul suolo francese uccidendo 48 delle 54 persone a bordo, tra cui il progettista e i politici che più avevano creduto nell’impresa. Vennero a mancare gli uomini e la fiducia nel progetto, che fu abbandonato. Quasi un secolo dopo al Campo di volo di Cardington, un villaggio vicino a Bedford, i giganteschi hangar dell’R101 sono stati restaurati e ridipinti in un verde brillante. C’è voglia di nuovi inizi. Si confida che i problemi di infiammabilità del gas, che causarono tanti problemi in passato, siano risolti con l’adozione dell’elio inerte al posto dell’idrogeno. Per decollare o atterrare non servono grandi aeroporti e il resto lo farà la novità, la nostalgia per il passato e il piacere di scivolare leggeri e silenziosi nel cielo. Certo dapprima le crociere in dirigibile saranno probabilmente un prodotto di lusso, ma lo stesso avvenne con le crociere, che sono poi diventate accessibili a tutti. Sarà il cielo la prossima frontiera dei viaggiatori? Un significativo esempio è costituito dal seguente rompicapo, ideato nel 1953 dal matematico belga, Maurice Kraitchik, e reso popolare dal grande divulgatore statunitense, Martin Gardner, che lo propose nel suo libro Ah! Ci sono!, nel 1982. «Il signor Rossi e il signor Verdi, amici di vecchia data, si incontrano e notano che ciascuno di loro indossa una cravatta nuova, avuta in regalo. I due cominciano a discutere su chi abbia ricevuto la cravatta più costosa; poi, decidono di recarsi nei due negozi dove sono state acquistate, per controllarne il prezzo. Lungo la strada stipulano una bizzarra scommessa: chi di loro ha indosso la cravatta più costosa dovrà cederla all’altro. Dentro di sé, il signor Rossi pensa: «Le probabilità che io vinca o perda sono entrambi uguali a 1/2. Se perdo, ci rimetto il valore della cravatta che indosso, ma se vinco sono sicuro di guadagnarne una più costosa. Perciò, la scommessa è evidentemente a mio favore». Nel frattempo, il signor Tiratura 98’645 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
Curioso: in questi tempi si guarda con apprensione all’arrivo dei musulmani in Italia, si invocano difese e si alzano barriere, proprio quando tutto intorno si incontrano le tracce di una presenza costante, tenace, secolare. Certo sono realtà diverse: da un lato l’immigrazione disperata e disordinata degli ultimi decenni, dall’altro memorie che spesso risalgono a prima dell’anno Mille, quando la penisola era sulla linea di confine tra un Occidente in crisi e un Islam in forte espansione, tanto che l’Italia meridionale sembrò destinata a diventare parte della comunità di fede musulmana: Bari fu un emirato tra l’847 e l’871, e la storia della Sicilia islamica si snoda tra l’827 e il 1091, con Palermo capitale. Ma anche dopo il Mille le relazioni e i reciproci influssi continuarono, certo soprattutto nella forma dello scontro e della razzia, come testimoniano le torri d’avvistamento che scandiscono ancora oggi la costa adriatica: ma ci furono anche scambi culturali e proficui commerci, se a Venezia intorno al tempo del grande sconto di Lepanto (1571) esisteva un Fondaco dei Turchi (dall’arabo funduq). Per questo un viaggio può anche servire a riannodare passato e presente dell’Italia islamica, a patto di saper cogliere e riconoscere tracce nascoste, mascherate, spesso dimenticate. Bibliografia
Alessandro Vanoli, Andare per l’Italia araba, Il Mulino, 2014, pp.144, € 12,00.
Verdi compie un ragionamento analogo, arrivando alla conclusione che la scommessa sia vantaggiosa per lui». Ma come è possibile che la scommessa sia conveniente a entrambi?
Soluzione
«Tutto ciò che è dimenticato è nuovo» recita un proverbio che si applica anche alla storia dei viaggi. Il miglior esempio è quello delle crociere: dopo aver dominato i trasporti tra i diversi continenti nella seconda metà dell’Ottocento e nella prima metà del Novecento, le gigantesche navi, simbolo d’orgoglio nazionale, furono rapidamente sospinte fuori dal mercato dai nuovi aerei a reazione, eredità della ricerca militare durante la Seconda guerra mondiale. I giorni di viaggio si trasformarono in ore e i viaggiatori più ricchi e famosi cominciarono a essere etichettati come il jet set, l’élite della società, riconoscibile appunto per l’uso frequente dell’aereo. La maggior parte delle navi, con poche eccezioni, fu mestamente smantellata e il loro tempo sembrava concluso per sempre. Ma così non fu. A partire dagli anni Ottanta comincia una lenta e inarrestabile riscoperta delle crociere: l’antico piacere dell’andar per mare si lega alle nuove suggestioni del viaggio lento. Un film di successo (Titanic del 1997, con Leonardo Di Caprio) diede la spinta decisiva, pur raccontando un tragico affondamento. Vennero poi i treni che, nonostante il successo delle compagnie aeree low cost, hanno riconquistato spazio nei viaggi a lunga distanza, con la proposta delle crociere ferroviarie: Orient Express, Transiberiana, ecc.
Per semplicità di esposizione, poniamo: X = prezzo della cravatta più cara; Y = prezzo della cravatta meno cara. Siccome vince la scommessa chi indossa la cravatta di valore Y (quella meno cara…), ognuno dei due amici è indotto a pensare erroneamente che, in caso di perdita, ammonti a Y anche il valore della cravatta da cedere. In realtà, perde chi ha indosso la cravatta di maggior pregio (ovvero quella di valore X). Per cui, X rappresenta sia l’importo della potenziale vincita, sia quello della potenziale perdita. Di conseguenza, siccome la probabilità di vittoria è uguale a 1/2 per ciascuno dei due amici, la scommessa non è favorevole a nessuno dei due, ma è semplicemente equa.
Claudio Visentin
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Ambiente e Benessere
Proprietari più esperti Mondoanimale Obbligatorie autorizzazione federale e formazione
Maria Grazia Buletti Partendo dal presupposto che gli allevamenti di animali servono da esempio e svolgono una funzione di consulenza, l’Ufficio federale della sicurezza alimentare e di veterinaria (USAV) ha stabilito che «l’allevamento professionale di animali da compagnia deve essere autorizzato dall’autorità cantonale preposta alla protezione degli animali». Così sta scritto nell’articolo 101 lett. d dell’Ordinanza Protezione Animali (OPAn).
L’USAV ha ritenuto di doversi adeguare a questa realtà, poiché «per uno sviluppo normale degli animali giovani sono determinanti le condizioni di allevamento e la salute dei genitori». Un presupposto che, con la conseguente legislazione, mette ordine sconfessando l’idea che chiunque potesse mettersi ad allevare criceti, uccellini, cagnolini e ogni specie di animale domestico. Le conseguenze di un proliferare disordinato di allevamenti animali sono subito immaginabili: anche se non mancano coscienziosi allevatori,
L’inverno del cervo L’inverno è un periodo critico per tutti gli animali selvatici. È la premessa di una scheda redatta dall’Ufficio della caccia e della pesca ticinese che parla del più grosso degli ungulati presente nel nostro Cantone: il cervo. Scopriamo che i cervi si radunano in branchi e, sotto l’esperta guida degli esemplari più vecchi, abbandonano la montagna portandosi a quote dove la ricerca di cibo è meno impegnativa. Ma nel caso di importanti nevicate anche i cervi faticano a trovare cibo. «Il metabolismo di questo animale, durante i mesi invernali, è principalmente basato sull’assunzione di fibre, elementi di per sé poco nutritivi, ma che comportano un investimento
energetico contenuto per essere assimilate e trasformate in energia», descrive il trattato. Da ciò si deduce che se vi fosse un grande apporto di proteine attraverso il foraggiamento da parte dell’uomo, ad esempio con pane e verdura, gli animali correrebbero un serio pericolo: «Le proteine sono elementi nutritivi più ricchi in energia rispetto alle fibre, ma implicano un notevole investimento energetico per essere assimilate». Quindi «foraggiare gli animali significa renderli dipendenti e condannarli a una probabile morte; inoltre attirare gli animali selvatici nelle immediate vicinanze di abitazioni fa aumentare le potenzialità di conflitto».
fino ad oggi ci si poteva pure imbattere in chi vedeva solo l’aspetto lucrativo della vendita di cuccioli d’ogni sorta. Ora si tratta di stabilire cosa si intende per animali di compagnia, perché non stiamo parlando solo di cani e gatti, i primi che vengono in mente a chiunque: in questa categoria rientrano «gli animali tenuti o destinati a essere tenuti presso l’alloggio domestico per l’interesse che suscitano o per compagnia». Ed ecco che si parla di uccelli, pesciolini, serpenti e tartarughe, furetti, roditori, conigli e molte altre specie oltre naturalmente a cani e gatti. All’autorizzazione dell’allevamento di animali da compagnia, si aggiunge anche quella a titolo professionale: concessione che va richiesta all’autorità cantonale preposta alla protezione degli animali, prima che l’allevamento abbia raggiunto dimensioni commerciali (ndr: gli indirizzi degli uffici veterinari cantonali si possono trovare su www.blv.admin.ch). In questo modo, l’USAV pone le basi per gli allevamenti con una sola specie animale, per i quali «è sufficiente che la persona responsabile disponga di una formazione specialistica non legata a una professione riconosciuta dall’USAV». Formazione che comprende un corso di almeno 40 ore con contenuti pratici e teorici, nonché uno stage di almeno tre mesi, e fornisce le conoscenze tecniche e le competenze pratiche relative agli animali allevati, al trattamento rispettoso degli
Anna Saccheri
per chi alleva gli animali da compagnia a titolo professionale
stessi, alla riproduzione, ai requisiti igienici e alle prescrizioni sulla protezione degli animali. Inoltre, l’USAV regolamenta «gli allevamenti con diverse specie animali»: «è d’obbligo che esse siano accudite sotto la responsabilità di un guardiano di animali con attestato federale di capacità, un certificato di capacità secondo l’ordinanza del DFI del 22 agosto del 1986 concernente l’ottenimento del certificato di capacità di guardiano di animali o un certificato di capacità rilasciato dall’USAV prima del 1998». A queste nuove regole non si sottraggono neppure gli allevatori di equini, per i quali Giulia Meroni dell’Azienda agricola San Martino di Mendrisio ha il compito di tenere i corsi. Da noi interpellata, così ne ha riassunto i contenuti: «Questi corsi offrono informazioni concernenti la detenzione dei cavalli: si affrontano 6 capitoli (protezione degli animali, anatomia e fisiologia del cavallo, etologia del cavallo, alimentazione, sistemi di detenzione e cura dell’animale)».
Giulia Meroni ci spiega che questo corso è a tutti gli effetti riconosciuto dall’USAV e abilita alla detenzione di più di 5 cavalli. Il secondo corso è terminato qualche mese fa e constava di tre serate alle quali hanno partecipato 9 persone: «I partecipanti si sono sempre dimostrati molto partecipi, hanno apportato interessanti contributi e loro esperienze che ci hanno permesso di intavolare delle belle discussioni», racconta la nostra interlocutrice che indica come ciò che più le ha fatto piacere è il fatto che «sono pochissime le persone che obbligatoriamente avrebbero dovuto partecipare; la maggior parte delle persone era lì perché desiderava continuare a formarsi e condividere la loro passione per i cavalli, o meglio: per gli equini, dato che il corso è dedicato ai detentori di equini». Quest’ultima constatazione ci permette di apprezzare l’assunzione di responsabilità verso gli animali che il nostro Cantone sta dimostrando, per mezzo di tutte quelle persone che si sono date da fare nel seguire i corsi. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Fragranze d’inverno Mondoverde Il profumatissimo calicanto
invernale fiorisce nei mesi più freddi dell’anno
Anita Negretti Ognuno ha le proprie passioni, la mia è facilmente intuibile e mi è difficile pensare che non tutte le persone amino le piante. Caso vuole che proprio una di queste risieda nella mia famiglia: mia suocera! Facile abbozzare un sorriso, visto gli stereotipi tra nuore e suocere, ma la mia è una dolce signora, sempre disponibile, mai invadente, che si prodiga per aiutarmi con le figlie.
Alcuni confondono il calicanto d’inverno con l’Hamamelis che fiorisce anch’esso in dicembre-gennaio Unico neo: non ama le piante. Nel suo piccolo giardino ha fatto tagliare al piede rose e camelie, ridotto una povera magnolia a un bastone di scopa e fatto potare un faggio a misura bonsai. L’unica pianta lasciata indisturbata è un calicanto invernale (Chimonanthus praecox il cui sinonimo è C. fragrans). Bello ma soprattutto profumatissimo, ha il suo momento di gloria in pieno inverno quando completamente spoglio dalle foglie, si riempie di fiori gialli piccoli ma abbondanti, magnifici da ammirare quando la pianta è circondata dalla neve. Vi è una certa confusione sul nome: molti, infatti, chiamano semplicemente calicanto il Chimonanthus praecox, confondendolo con il Calycanthus floridus, che ha origini diverse (America del Nord) e periodo di fioritura differente: alto due metri, il Calycanthus floridus fiorisce tra giugno e luglio, con bei boccioli singoli che si aprono sull’apice dei rami con petali profumati rosso mattone. Il calicanto invernale appartiene alla famiglia delle Calycanthaceae ed è originario della Cina; si compone di sole sei specie di cui il più utilizzato in giardino risulta essere C. praecox. Il nome del genere deriva dall’unione di due termini greci: cheimon, inverno, e anthos, fiore per indicare appunto la fioritura nei mesi più freddi dell’anno. E l’aroma dei fiori persiste anche nei rami recisi e portati in casa durante le feste natalizie. Importato in Europa nella seconda metà del Settecento, ha una chioma scompigliata che raggiunge i quattro metri in età adulta, con una larghezza di tre metri; incomincia a fiorire solo dal quinto anno dalla semina e ha fo-
glie caduche che compaiono in primavera di un bel verde chiaro, che tende a divenire scuro in estate e giallo oro in autunno. I rami, a sezione quadrangolare da giovani, si riempiono di fiori dalla metà di dicembre, colorando tutta la pianta con i loro petali gialli. Cerosi e dunque resistenti, non temono nemmeno le temperature più fredde. Tra le varietà reperibili in commercio, vi consiglio la C. praecox «Luteus» (sinonimo di «Concolor»), che risulta essere quella con il fiore completamente giallo, mentre se volete orientarvi sulla grandezza dei fiori, a scapito però del profumo, ecco C. praecox «Grandiflorus» con petali gialli dal centro bronzeo. Di facile coltivazione, ama posizioni da pieno sole a mezz’ombra con terreno fertile e ben drenato; vi consiglio di posizionarlo in un luogo isolato per godere appieno la sua fioritura. In realtà spesso lo si trova inserito in aiuole miste, perché viene utilizzato come pianta da sfondo, visto che in primavera e in estate non entra in competizione con le altre fioriture. Le uniche cure richieste da questa pianta consistono in una potatura di pulizia dai rami rovinati o vecchi. Questo intervento deve essere eseguito subito dopo la fioritura. Se avete la fortuna di trovare in vendita la specie sempreverde Chimonanthus nitens, non esitate a comprarla. Ritenuta molto rara, ha una fioritura stupefacente: dai rami rossastri compaiono i fiori bianchi nastriformi leggermente profumati. Alcune persone confondono il calicanto d’inverno con un altro arbusto che fiorisce sempre in dicembregennaio sfoggiando fiori gialli: si tratta dell’Hamamelis. Appartenente a un’altra famiglia, quella delle Hamamelidaceae, è anch’esso un arbusto deciduo, alto circa quattro metri (alcune specie raggiungono i sei metri), rustico ma che non ama i venti freddi. Posizionato in pieno sole o mezz’ombra con terreno ricco di humus, si riempie di petali lunghi, simili a zampette di ragno, molto fragranti in alcune varietà. Se il freddo diventa intenso, dai –4°C i petali si arricciano, srotolandosi nuovamente appena la temperatura risale. Oltre al genere H. mollis dai fiori gialli e dal centro bruno, vi sono alcune varietà particolari, come H. japonica «Pendula» con rami prostrati, H. x intemedia «Diane» e «Ruby Glow» con fiore rosso o H. x intermedia «Arnold Promise», con lunghi petali gialli, molto profumati e dalle belle foglie rossastre in autunno.
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Ambiente e Benessere Cucina di Stagione La ricetta della settimana
Riso con cavolo nero e luganighetta Piatto principale Ingredienti per 4 persone: 800 g di cavolo nero · sale · 2 luganighette di circa 100 g · 2 cucchiai d’uvetta · 2 cl di grappa · 2 scalogni · 2 spicchi d’aglio · 2 cucchiai d’olio d’oliva · 300 g di riso integrale · 20 g di porcini secchi · 1 dl di vino bianco · 8 dl di brodo di pollo · pepe.
1. Mondate il cavolo nero ed eliminate le costole delle foglie coriacee. Tagliate il cavolo a strisce larghe 2 cm e sbollentatele in acqua salata per 2 minuti. Scolate, passate sotto l’acqua fredda e fate sgocciolare bene. 2. Estraete la carne dal budello della luganighetta e sbriciolatela con una forchetta. Spruzzate l’uvetta con la grappa. 3. Tritate gli scalogni e l’aglio. Fateli appassire nell’olio. Unite il riso e i porcini secchi e continuate la cottura finché il riso comincia a scoppiettare leggermente. Aggiungete la luganighetta e mescolate bene. Bagnate con il vino e incorporate la metà del brodo. Cuocete il riso per 15 minuti, quindi incorporate il cavolo nero e il brodo restante. Continuate la cottura per altri 20-25 minuti. Infine aggiungete l’uvetta e la grappa. Condite con sale e pepe.
Un esemplare gratuito si può richiedere a: telefono 0848 877 869* fax 062 724 35 71 www.saison.ch * tariffa normale L’abbonamento annuale a Cucina di Stagione, 12 numeri, costa solo 39.– franchi.
Preparazione: 15 minuti. Cottura: circa 40 minuti. Per persona: circa 21 g di proteine, 27 g di grassi, 68 g di carboidrati, 2600
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Ambiente e Benessere
In attesa delle vere bagarre Sportivamente Il campionato di hockey si fa spazio fra molte proposte sportive: dalla ripresa del campionato
di calcio agli internazionali di tennis fino ai mondiali di sci alpino mentre noi possiamo soltanto farvi partecipi del leggero dispiacere d’aver visto uscire troppo presto di scena il nostro Federer e contro un avversario che pareva facilmente battibile) dove lo svizzero Stan Wavrinka sembra aver ritrovato invece tutta quella verve che sa dargli lo stadio e il pubblico di Melbourne. Non vogliamo – né possiamo – dimenticare inoltre i Campionati del mondo di sci di Beaver Creek negli USA. Qui la nostra Lara Gut sembra, forse, l’unica delle elvetiche a poterci regalare motivi di soddisfazione. Noi la vorremmo, infatti, vedere più spesso sul gradino più alto sia in discesa sia nel Super-G – la sua gara – anche al cospetto della straordinaria Lindsey Vonn, che ne riconosce il valore. Una medaglia di Lara (o di un’altra/o rappresentante della nostra nazione) può offrire gli stimoli necessari a compagne e compagni per ottenere quei risultati che mancano in stagione, ma che spesso giungono in occasione dei grandi appuntamenti. Preparate allora la vostra postazione… casalinga, armatevi di fiducia, tenetevi in forma se non volete rinunciare inoltre alle molte promettenti offerte (c’è pure il basket) che lo sport cantonale ci offre da qualche tempo. Se nell’hockey il Ticino, nonostante la complicata stagione dell’Ambrì, è tornato a essere un temuto crocevia del campionato, nel calcio il Lugano ripartirà con alcuni importanti cambiamenti per puntare con determinazione al ritorno nel massimo campionato. L’unico rammarico rimane la difficoltà con cui giovani rincalzi ticinesi riescono a farsi largo nelle varie prime squadre. Gli accadimenti delle ultime settimane sembrano però aver rilanciato sul ghiaccio e sull’erbetta le loro quotazioni e ridestato così tutta l’attenzione del vecchio suiveur.
Alcide Bernasconi Lo sport a volte può entusiasmare le folle. Succede nelle partite «tirate», che siano esse di calcio, di hockey o di basket; fate voi. Non sempre però accade e non sempre è la qualità del gioco a far scatenare tale entusiasmo, quanto piuttosto il gol cercato con insistenza, per riportarsi in parità o andare in vantaggio, dopo una vera lotta. In altre parole è il risultato ottenuto con determinazione a entusiasmare. La lotta, magari con qualche scontro in cui due o più giocatori se le danno di santa ragione (o, magari, fanno solo finta) – si tratta pur sempre di uno sport – sembra più avvincente e più gradita dal tifoso poiché così avverte che la sua squadra è disposta a battersi fino in fondo per strappare il successo. Certo, se il tutto è corredato da una magistrale azione d’attacco, da una finta spettacolare, da una giocata imprevedibile, allora può sembrare allo spettatore di parte di toccare il cielo con un dito. Ma alla base sta la spinta della battaglia. I volti allora si fanno scuri, mentre l’arbitro rischia di rovinare tutto con le sue astruse interpretazioni di un gesto appena accennato, mentre non s’accorge di episodi che meriterebbero il suo intervento senza indugio. A quel punto, il giocatore conscio del proprio ruolo importante riesce a controllare le proprie reazioni e si limita a lanciargli uno sguardo truce, tanto per dire che non approva. Il regolamento, per fortuna, non vieta gli sguardi truci, così come quelli un po’ disperati. Ma offre all’arbitro un’altra arma sottile, per punire il gesto esagerato che cerca di trarlo in inganno. E ciò va bene, sempre che il direttore di gara però non sia vittima di un clamoroso abbaglio. La battaglia, dunque, piace al pubblico; abbiamo detto anche qualche
Qualche sano scontro sembra entusiasmare ogni tifoso. (CdT Scolari)
bagarre, parola usata nel gergo sportivo per indicare che una situazione è assai più di una zuffa, cioè quando i giocatori vengono alle mani e, nell’hockey, i giudici di linea intervengono avendo intuito che anche per i giocatori può bastare. Gli arbitri principali, taccuino alla mano, prendono nota di un paio di numeri e, a seconda della rudezza del combattimento, decideranno le sanzioni, da una semplice penalità minore fino all’espulsione dal campo per il resto della partita. Eppure, in tribuna, comodamente seduto, bicchiere di champagne a portata di mano, qualche spettatore accenna uno sbadiglio. «Guarda quello – mi fa un amico, indicandomene uno, forse un cosiddetto “vip” invitato da uno sponsor, dopo una giornata di lavoro, quindi non particolarmente partecipe, il quale sembra avere lo sguardo
fisso nel vuoto – fra un attimo si addormenta». Rendendosi però conto che pure lui sta per essere assalito da uno sbadiglio, sente il dovere di giustificare in qualche modo la persona che mi ha appena additato: «Sai, la partita è veloce, su e giù, ma non si vedono lucide trame di gioco, sembra tutto dovuto un po’ al caso. Mi mancano insomma certe giocate che avevo visto all’inizio della stagione». La verità è che da troppo tempo si trova a digiuno di calcio, dove milita la sua vera squadra del cuore. Anche l’hockey gli piace, ovviamente, ma ora che è tranquillo – visto che la sua squadra ha centrato l’obiettivo – spera di tornare a entusiasmarsi come vorrebbe nei playoff. Ecco! Gli manca questa certezza. Il che, in fondo, è un bene. Perché talvolta il dubbio crea lo stato d’animo un po’
ansioso che caratterizza il vero tifoso, il quale sa valutare le virtù dei suoi giocatori ma anche il valore degli avversari. Lo sport è entrato in quella fase dove sembra non esserci che l’imbarazzo della scelta. L’hockey è offerto anche tre volte per settimana, con incontri ravvicinati giocati sul ghiaccio di casa. Sembra quasi di essere accomodati davanti al televisore per una specie di zapping sportivo, alla ricerca di qualcosa che sappia destare la nostra curiosità. Ci sono gli incontri di coppa del calcio in Italia che un tempo non interessavano proprio a nessuno. Ora che impazza il mercato per rattoppare al meglio le squadre che arrancano (fra queste ci sono pure Inter e Milan!), ecco che torna il grande tennis con gli Internazionali d’Australia (voi, lettori attentissimi, è giusto aggiungere fra parentesi, saprete già come sono andati a finire,
ORIZZONTALI 1. Lo perdono i nonni 5. Servivano a corte 10. Sepolcro in poesia 12. La capitale dell’Arabia Saudita 13. Le iniziali del giornalista Lerner 15. Nome femminile 17. Fora ed è forato 18. Già in latino 20. Sponda, riva 22. Interpreta «La signora in giallo» (Iniz.) 23. Acide, pungenti 24. Servizio vincente a tennis 26. Simbolo del voltampère 28. Il riposo degli inglesi 30. Alberi ad alto fusto 32. La patria di Abramo 33. Monete rumene 34. Volle sfidarli Capaneo 35. Le iniziali dell’imitatrice Aureli 36. L’attrice Minnelli VERTICALI 1. Noia mista a malumore 2. Giù dopo la prima 3. Prefisso che vuol dire tre 4. Parlamentare 6. Diede i natali al Petrarca (Sigla) 7. Avverbio di tempo 8. Giovane fatuo 9. Praticata dai pagani 11. Il fiabesco Babà 14. Articolo spagnolo 16. Rende stretti i vestiti 19. Le iniziali dell’attore Placido 21. Misure inglesi di superficie 25. Lette senza consonanti 27. L’incerto di ogni impresa 29. Canale ad ovest della penisola del Sinai 31. Pronome personale 34. Preposizione
Sudoku Livello facile
Giochi Cruciverba «Sai Carlo per dar retta al medico sono stato un mese senza mangiare!» – «Ma perché? Che ti ha detto?» Completa la frase leggendo, a cruciverba ultimato le lettere in evidenza. (Frase: 2, 8, 2, 8)
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Scopo del gioco
Completare lo schema classico (81 caselle, 9 blocchi, 9 righe per 9 colonne) in modo che ogni colonna, ogni riga e ogni blocco contengano tutti i numeri da 1 a 9, nessuno escluso e senza ripetizioni.
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Soluzione della settimana precedente
Pronostici per il nuovo anno – la felicità è un … : modo di vedere, sceglila ogni giorno.
M O N D O E T A V L O D V E R E I S E C O G I L I A D A M O K I N G I O D T R A N S I
I D D I O
M I E T T A
L A R C L A G I I O G L O
E N N I O
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 02 febbraio 2015 ¶ N. 06
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Politica e Economia Cambiamento in Europa Il voto greco riuscirà a rendere meno inflessibile Angela Merkel?
Morto re Abdallah Gli succede sul trono saudita il principe della Corona Salman bin Abdulaziz al-Saud, che ha fama di uomo pragmatico ma meno capace pagina 23
Ultimo giallo argentino Un appassionante thriller politico tiene in ansia l’Argentina mettendo in difficoltà la presidente Cristina Kirchner
Guerra globale all’evasione Intervista a Paolo Bernasconi, autore di un libro-vademecum sulla lotta mondiale all’evasione
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AFP
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Luna di miele Obama in India Washington e Delhi hanno sbloccato l’attuazione dell’accordo sul nucleare civile inviso a Islamabad
Francesca Marino Praticamente un trionfo. La visita di Obama a Delhi, il primo capo di Stato americano a essere invitato come ospite d’onore in occasione delle celebrazioni del Republic Day si è trasformata in un vero e proprio trionfo personale per il premier indiano Narendra Modi: a cui, tanto per rinfrescare la memoria a chiunque lo avesse dimenticato, gli Stati Uniti avevano per anni negato un visto di ingresso nel Paese con l’accusa di aver favorito e in qualche modo coperto i massacri di musulmani in Gujarat avvenuti nel 2003 in seguito all’incidente di Godhra. Quando cioè, un treno che trasportava pellegrini hindu di ritorno dalla città di Ayodhya era stato dato alle fiamme provocando la morte di molti di loro. Modi, definito da Sonia Gandhi «mercante di morte» più di una volta, ha celebrato ora la sua definitiva consacrazione mettendo a tacere definitivamente ogni sussurro (le grida tacciono ormai da un paio d’anni) sul suo conto. La visita è cominciata con un clamoroso, vista l’inamovibilità della buro-
crazia indiana, strappo al cerimoniale: Narendra Modi, che da quando è primo ministro sta conquistando anche un insospettabile posto nella top ten dei premier meglio vestiti al mondo, si è recato di persona all’aeroporto ad accogliere gli Obama. Abbracciando affettuosamente Barack, tanto per mettere in chiaro il tono dei successivi due giorni. Obama, da parte sua, si è premurato di salutare giornalisti e corrispondenti adoperando un paio di frasi in hindi e di sfoggiare una certa conoscenza della cucina indiana. Il picchetto d’onore deputato ad accogliere il presidente Usa è stato per la prima volta nella storia comandato da una donna, e i reggimenti femminili dell’esercito sono stati i primi a sfilare nella parata del Republic Day. Gli abiti di Michelle, gli abiti dello stesso Modi, i menù di pranzi e cene e tutto quanto fa spettacolo sono stati ampiamente dibattuti e riportati in ogni possibile declinazione da tutta la stampa indiana, e nessuno ha protestato perché Delhi, per tre giorni, è stata praticamente, una città occupata e messa sotto assedio. Fin qui, le note di colore. Perché mentre
l’India era in preda alla Obama-mania magistralmente orchestrata da quel geniale manipolatore di media che è Narendra Modi, ai confini si registravano in diversa misura nervosismo e preoccupazione. La visita di Obama ha difatti sbloccato l’attuazione dell’accordo sul nucleare civile siglato con gli Usa dall’allora premier Manmohan Singh: accordo che a Singh ai tempi costò l’appoggio della sinistra estrema al suo governo e per cui la destra lo aveva pesantemente attaccato. I tempi però cambiano e così le strategie di governo, per cui pochissimi sembrano ricordare che il Trattato era stato firmato da Singh e l’operazione è stata ascritta d’ufficio alla lista dei trionfi di Modi. L’accordo sul nucleare civile, che permette all’India di continuare a sviluppare il suo programma nucleare militare senza sottostare alle ispezioni internazionali e senza firmare il Trattato di non-proliferazione, è per il Pakistan una spina nel fianco da molti anni. Perché gli Usa si sono sempre rifiutati, e continuano a farlo, di firmare un analogo accordo con Islamabad pur essen-
do, in teoria, storici alleati della Terra dei Puri. Non solo: il deciso miglioramento delle relazioni sia politiche che commerciali (la visita di Obama sembra aver portato all’India investimenti esteri per circa quattro miliardi di dollari) tra Washington e New Delhi piace ai pakistani come un pugno sui denti. Islamabad cerca da tempo l’appoggio degli Usa per internazionalizzare la questione del Kashmir, mentre invece «la parola che comincia per K» non è stata menzionata da Obama neppure per sbaglio. C’è stato invece un accordo-cornice sulla collaborazione Usa-India in materia di difesa e, soprattutto, è stato posto l’accento sugli sforzi comuni e l’adozione di strategie comuni per la lotta al terrorismo: materia in cui il Pakistan, per essere gentili, soffre della classica coda di paglia. Pochi giorni prima della visita degli Obama a Delhi, Washington avrebbe chiesto a Islamabad di consegnare all’India Mohammed Hafiz Saeed e Rehman Lakhvi, colpevoli secondo New Delhi di aver concepito e organizzato l’attacco a Mumbai del 2008. La notizia è stata prontamen-
te smentita dai pakistani, che però si sono affrettati a dichiarare fuorilegge gli Haqqani: dopo aver annunciato la cosa con largo anticipo per dare tempo a chi di dovere di trasferire altrove i loro conti e cambiare nome a gruppi e gruppuscoli satellite. Di dichiarare fuorilegge Hafiz Saeed e la Jamaat-ud-Dawa, braccio politico della Lashkar-i-Toiba, non se ne parla proprio, Obama o non Obama. Tanto, ragionano a Islamabad, gli Stati Uniti continueranno ad avere bisogno comunque di tenere in piedi la difficile alleanza con il Pakistan nonostante gli ormai noti doppi giochi e le strategie del terrore come mezzo di politica estera. La luna di miele tra Delhi e Washington piace poco anche a Pechino, altro storico alleato e fornitore di tecnologia nucleare del Pakistan. I rapporti sempre più stretti, per quanto altalenanti, tra India e Usa vengono difatti letti, e in qualche modo a ragione, in chiave anticinese: un mezzo per contrastare, sia da parte di Delhi che della Casa Bianca, le mire espansionistiche cinesi, sia in chiave commerciale che militare.
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Politica e Economia
Due sconfitte per l’austerity Eurozona Gli eventi europei delle ultime settimane, prima la svolta impressa da Mario Draghi
alla Banca centrale europea poi la sterzata a sinistra della Grecia, rappresentano due vittorie a favore del partito europeo che vuole politiche monetarie più espansive al World Economic Forum di Davos. Non sarebbe una cosa inaudita: alla nascita dell’euro nel 1999 ci fu un periodo in cui la moneta unica europea valeva meno di un dollaro. Questo fa un gran bene all’industria esportatrice del Vecchio continente. Ma può anche innescare una nuova «guerra delle valute». L’indebolimento dell’euro infatti avviene in una fase in cui rallentano i Brics (Brasile Russia India Cina Sudafrica) e tutte le economie emergenti. I Paesi dell’emisfero Sud sono tentati anch’essi dalla svalutazione competitiva. L’America starà a guardare, se il resto del mondo usa l’arma della svalutazione? Già si levano le prime proteste: i repubblicani hanno chiesto che la manipolazione del cambio sia vietata e perseguita con sanzioni, nei nuovi trattati di liberalizzazione degli scambi. Le multinazionali Usa – a parte eccezioni come Apple – cominciano a soffrire per il superdollaro: i prodotti americani all’esportazione risultano sempre più cari; i profitti guadagnati in Europa valgono sempre meno, una volta rimpatriati e convertiti in dollari. Ma per il momento l’America è in grado di fare da locomotiva, anche perché il commercio estero vale solo il 14% del suo Pil: è un’economia molto più chiusa rispetto all’eurozona. Resta da vedere se la Fed manterrà invariata la sua intenzione di alzare i tassi, qualora il superdollaro rallenti la crescita Usa.
Federico Rampini Il premio Nobel dell’economia Paul Krugman trionfa: la vittoria della sinistra radicale in Grecia, è anche un po’ sua. Da anni, nei suoi commenti pubblicati sul «New York Times», Krugman tuona contro l’austerity europea. E anche l’editoriale non firmato, che la direzione del «New York Times» fa uscire dopo i risultati di Atene, dà ragione agli elettori greci: «L’Europa li ascolti, e ponga fine all’austerity».
Visto dagli Stati Uniti quel che sta accadendo in Europa appare come una correzione di rotta, in ritardo di 5 anni Un po’ meno scontato, è il fatto che al coro di approvazione verso il voto greco si unisca un altro grande giornale americano di tendenza conservatrice, il «Wall Street Journal». «È il secondo colpo alla leadership della Germania»: con questo titolo il «Wall Street Journal» riassume due eventi europei delle ultime settimane, prima la svolta impressa da Mario Draghi alla Banca centrale europea, poi la sterzata a sinistra della Grecia. Proprio perché non ha mai sposato le tesi neo-keynesiane di Krugman, il «Wall Street Journal» è più inatteso. Ma stavolta non ha dubbi: «Due vittorie a favore del partito europeo che vuole politiche monetarie e di bilancio più espansive, due sconfitte per l’austerity». L’unico dubbio riguarda l’effetto «combinato-disposto» di questi due eventi. L’avvio degli acquisti di bond da parte della Bce è stato già subìto come un affronto da parte di Angela Merkel. La Grecia la renderà un po’ più flessibile, o al contrario può scatenare a Berlino una reazione di intransigenza e irrigidimento? Visto dagli Stati Uniti, quel che sta accadendo in Europa appare come l’inizio di una correzione di rotta, molto tardiva, dopo cinque anni passati a perseverare nell’errore. Un breve riepilogo dei fatti, aiuta a capire la prospettiva americana. (E a distinguere la diagnosi democratico-obamiana da quella del partito repubblicano). Barack Obama vince la sua prima elezione presidenziale nel novembre 2008, nel bel mezzo della grande crisi iniziata a Wall Street. Nel gennaio 2009, appena insediatosi alla Casa Bianca, Obama propone una maxi-manovra di investimenti pubblici pari a 900 miliardi di dollari. È il classico intervento statale antipanico, fedele all’esempio di Franklin Roosevelt durante la Grande Depressione degli anni Trenta. C’è dentro un po’ di tutto, a cominciare da investimenti in infrastrutture, energie rinnovabili, ricerca. Un’operazione a parte, è il salvataggio di General Motors e Chrysler tramite una temporanea nazionalizzazione. A quell’epoca il Congresso è a maggioranza democratica, e approva il piano Obama. Nessuno parla di «limiti nel rapporto deficit/Pil», poiché il «tetto del 3%» contenuto nel trattato di Maastricht e nel patto di stabilità europeo, non esiste in America. E in effetti la manovra Obama lascia esplodere il deficit pubblico che arriva fino al 12% del Pil americano cioè il quadruplo di quanto sarebbe consentito in Europa. Qualche resistenza ci sarà, in seguito: nel novembre 2010 il partito repubblicano guadagna voti alle elezioni legislative di mid-term, anche grazie
La diffidenza dei tedeschi verso l’Europa del Sud impedisce di aprire un dibattito serio sulle disastrose conseguenze dell’austerity
Alexis Tsipras, leader del partito greco di sinistra Syriza. (AFP)
agli slogan contro il deficit pubblico (il tema dominante di quella campagna, tuttavia, è la riforma sanitaria di Obama). Un consenso bipartisan, invece, accoglie la politica monetaria audace e innovativa della Federal Reserve. Il cosiddetto quantitative easing ha inizio alla fine del 2008, quando al vertice della Fed c’è Ben Bernanke: repubblicano, nominato da George W. Bush. Si tratta di acquisti di bond sul mercato aperto, in dimensioni massicce, mai viste nella storia. In media 80 miliardi di dollari al mese, distribuiti su titoli di varia natura: non solo buoni del Tesoro e altri titoli pubblici ma anche obbligazioni legate ai mutui casa e ai prestiti per le imprese. Il quantitative easing sarà riconfermato anche dalla nuova presidente della Fed, Janet Yellen, nominata da Obama. Al termine di sei anni di quella politica, la Fed ha «stampato dollari» per 4,500 miliardi. Un’operazione gigantesca, col risultato di far affluire non solo alle banche e alle Borse ma anche all’economia reale, un credito abbondante e a buon mercato. L’effetto collaterale, mai dichiarato ufficialmente ma assai gradito, è che per quei sei anni il dollaro è stato mediamente sottovalutato, un aiuto competitivo per le esportazioni made in Usa. Solo pochi falchi della destra rigorista hanno denunciato la politica della Fed come una «fabbrica d’inflazione»; peraltro il pericolo inflazionistico non si è mai materializzato. Il bilancio delle azioni
intraprese da questa parte dell’Atlantico è chiaro: l’America è entrata nel suo sesto anno consecutivo di ripresa; ha creato dieci milioni di posti di lavoro; il tasso di disoccupazione è la metà di quello che affligge l’eurozona. Krugman, insieme con altri premi Nobel dell’economia come Joseph Stiglitz e Robert Solow, sono convinti che la manovra keynesiana di Obama abbia avuto un ruolo essenziale per trainare l’America fuori dalla crisi. Il «Wall Street Journal» e i repubblicani avrebbero preferito che Mitt Romney conquistasse la Casa Bianca nel 2012 e varasse sgravi fiscali al posto degli investimenti pubblici. Ma nessuno ormai contesta l’utilità del quantitative easing applicato dalla Fed. E soprattutto: nessuno, proprio nessuno né a sinistra né a destra, si sogna di additare l’eurozona come un modello alternativo. I fatti parlano chiaro, e almeno qui in America ci si ostina ancora a prestare qualche attenzione ai fatti. L’eurozona ha fatto tutto il contrario di quel che ha fatto l’America, e i risultati sono conseguenti: un disastro. Mentre l’America imboccava cinque anni di crescita, l’eurozona si fabbricava in casa propria due ricadute nella recessione, una crisi così prolungata da meritarsi ormai il termine depressione. Ora i mercati si sono convinti che siamo giunti ad una sorta di «staffetta», almeno per quanto riguarda le politiche monetarie. La Fed ha abbandonato gli strumenti d’emergenza,
perché non più necessari. Il quantitative easing ha svolto la sua funzione ed è stato concluso. Nel 2015 la banca centrale americana dovrebbe cominciare a rialzare i tassi d’interesse direttivi, fermi a livello zero dalla fine del 2008. Finalmente è la Bce a copiare la ricetta americana, inaugurando gli acquisti di bond al ritmo di 60 miliardi di euro al mese. La divaricazione tra euro e dollaro, con le ripercussioni che ha avuto anche sul franco svizzero, è la logica reazione dei mercati di fronte alla «staffetta». Se si avvia a conclusione l’epoca del denaro facile in America, e i rendimenti Usa sono destinati a risalire, mentre nell’eurozona accade il contrario, la scelta razionale è vendere euro e comprare dollari per investirli in titoli dai rendimenti superiori. Da mesi i mercati fanno questa scommessa e Draghi non li ha delusi. I flussi di capitali che lasciano l’eurozona diretti verso gli Stati Uniti sono così imponenti, che di fronte a questo macro-aggiustamento anche la Banca nazionale svizzera ha dovuto rinunciare a mantenere l’aggancio con l’euro (anche se in teoria, ma solo in teoria, avrebbe potuto stampare franchi svizzeri all’infinito per difendere una parità «debole»). Il cambio tra le due principali monete del pianeta, che aveva toccato un massimo di 1,60 dollari per euro, è sceso a quota 1,13. Non si esclude la parità: anzi un cambio uno a uno è stato esplicitamente auspicato dal premier italiano Matteo Renzi
La vera incognita però è l’eurozona. Ormai l’unione monetaria europea si è trasformata in una vasta zona di depressione, un «buco nero» dell’economia globale. Non si salva più neppure la Germania: a furia di imporre ai suoi vicini delle terapie distruttive, ha perso preziosi mercati di sbocco per le sue esportazioni. La crisi della Russia e il rallentamento della Cina hanno aggravato ulteriormente i problemi per il made in Germany. Ma non si vedono all’orizzonte segnali di un «ravvedimento operoso» da parte di Angela Merkel. L’austerity, sempre più simile a una religione fondamentalista, continua a essere la linea ufficiale. La Grecia governata da Tsipras otterrà degli sconti e delle indulgenze? O al contrario il caso greco rischia di provocare ulteriori diffidenze e irrigidimenti a Berlino? La situazione è complicata da incognite esterne ed interne, se vista da Berlino. Fare concessioni a Tsipras, potrebbe creare un precedente pericoloso, e magari perfino agevolare un’avanzata elettorale della sinistra radicale (Podemos) in Spagna. Già la Germania è preoccupata dall’impatto politico del quantitative easing: la stessa Merkel teme che Renzi e Hollande si sentano meno sotto pressione, che annacquino il risanamento dei conti pubblici, ora che c’è l’aiuto della Bce. Anche la Germania ha il suo partito della destra anti-euro che può rafforzarsi. La diffidenza dei tedeschi verso l’Europa del Sud (Francia inclusa) impedisce di aprire un serio dibattito autocritico, sulle spaventose conseguenze dell’austerity, e sui prezzi che ne sta pagando la stessa economia tedesca.
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Politica e Economia
Lunga vita al nuovo re Regno saudita La morte di Abdallah bin Abdulaziz al-Saud lascia l’Arabia Saudita in una situazione di incertezza
e di dissidi, mentre il successore, il principe Salman, non ha grandi capacità per saperla affrontare
delle ricchezze nazionali. In Arabia Saudita non esistono e non sono ammessi partiti, associazioni civili o gruppi di opposizione. L’unico gruppo di potere che può impensierire i Saud è il clero wahhabita che fa capo al Gran Muftì Abdulaziz al Ash-Sheikh, con cui i Saud devono collaborare se vogliono mantenere il loro diritto a regnare nel solo nome dell’Islam salafita più rigorista qual è appunto il wahhabismo. Ma vista la globalizzazione e il ruolo internazionale primario dell’Arabia Saudita quale primo produttore mondiale di petrolio, il regno non può restarsene isolato nel suo Medio Evo oscurantista: deve modernizzarsi. Così ogni sovrano ha dovuto ingaggiare durissime battaglie col clero per restare al passo coi tempi. Re Abdallah ad esempio ha introdotto le prime elezioni municipali, svoltesi nel 2005, ma senza la partecipazione delle donne. Solo nel 2011 ha concesso loro il diritto di voto, ma la data delle successive municipali è già slittata due volte. Per ora le signore devono accontentarsi di essere state inserite nella Shura, il Consiglio consultivo di nomina reale che «assiste» il sovrano, ma non possono fare cose più banali come guidare un’auto o uscire da sole per strada senza un parente maschio. Il clero su questo punto è inflessibile.
A volte però i diktat del clero vengono bellamente ignorati. Sebbene Twitter sia stato stigmatizzato dai vetusti ulama come «una baraonda di clown», anche re Abdallah aveva una sua pagina Facebook e oggi in Arabia Saudita i navigatori sul web sono quasi tre milioni (su 18 della popolazione autoctona). I più vivaci, quelli per intenderci che denunciano la corruzione della famiglia reale o peggio reclamano riforme politiche o il rispetto dei diritti umani, fanno invece una brutta fine, come è successo a Raif Badawi, condannato a 10 anni di prigione e a 1000 frustate (pena per ora sospesa). La modernizzazione, dunque, continuerà a creare dissidi e instabilità. Messo in allarme dallo scoppio delle Primavere arabe nel 2011, Abdallah per tenere a freno le piazze di casa sua si è affrettato a varare un piano faraonico di «pacificazione» sociale che prevedeva la costruzione di 500’000 alloggi popolari, assunzioni nel servizio pubblico con aumenti sostanziosi dei relativi stipendi, per una spesa totale di 130 miliardi di dollari. Una cifra folle anche per un Paese ricchissimo come l’Arabia Saudita che però dall’anno scorso ha visto calare vertiginosamente le proprie entrate con la drastica riduzione del prezzo del greggio. Abdallah, inoltre, ha moltiplicato il numero delle scuole, sottraendo al clero il controllo dei curricula relativi, e ha costruito una nuova università che porta il suo nome dedicata non allo studio della religione, come la maggior parte delle università saudite, ma alla ricerca scientifica, frequentata dai giovani di entrambe i sessi. A parte le gravi discriminazioni di genere, i problemi dei giovani sauditi rappresentano una miccia a tempo sempre pronta a scoppiare. La disoccupazione per quelli sotto i 25 anni raggiunge ormai il 40%: i migliori espatriano, gli altri nella stragrande maggioranza non si abbassano a fare mestieri manuali in un Paese che continua a importare quote massicce di manodopera non qualificata, tant’è che i lavoratori stranieri hanno ormai raggiunto la bella cifra di otto milioni nonostante le condizioni di semi-schiavitù in cui si ritrovano a vivere. Lunga vita a re Salman, dunque, ma il suo compito non sarà facile.
dal vento o venire iniettato dalle zanzare nella loro perenne ingordigia di sangue umano: «Ho dovuto perciò combattere l’ignoranza di questa gente, abbattere i loro tabù – insiste il religioso: ma c’è voluto del tempo per convincerli che quel male si contrae solo attraverso il contatto diretto, quando non intervengano infusioni di sangue infetto». Che il monastero-ospizio di Lopburi sia diventato metà turistica per le scolaresche avvalorando il sospetto che della tragedia si stia facendo un business mette non poco a disagio l’abate Tikhapanyo, il quale però, lamentando
la progressiva diminuzione di sovvenzionamenti e donazioni, lancia il suo grido di dolore: «Dio sa quanto ci costi curare i vivi e bruciare i morti». Attualmente, dei due forni crematori di cui dispone il monastero solo uno funziona a tempo pieno: l’altro langue in agonia e non vuol più saperne di cadaveri, dopo averne divorati troppi durante la sua attività. Col ritmo attuale dei decessi per Aids, sarebbe indispensabile la costruzione di nuovi forni: ma in tal caso, la volta celeste sarebbe irrimediabilmente oscurata per l’eternità dalla caligine nera dell’inferno.
Marcella Emiliani La morte di Abdallah bin Abdulaziz alSaud, avvenuta nella notte tra il 22 e il 23 gennaio scorsi, lascia l’Arabia Saudita in una situazione di incertezza e fragilità. Al trono è immediatamente salito il principe della Corona Salman bin Abdulaziz al-Saud, che ha fama di uomo pragmatico, ma non sembra possedere la maestria del suo predecessore nel governare la navicella del regno. Una maestria che consiste nel sapersi destreggiare innanzitutto tra i complotti di corte, poi nel braccio di ferro perenne con il clero wahhabita, quindi nel caos in cui versa oggigiorno l’intero Medio Oriente e infine nell’arena internazionale dove l’Arabia Saudita, uno degli alleati di più vecchia data degli Stati Uniti, è seriamente impegnata a contrastare l’espansionismo dell’Iran sciita da una parte e dall’altra il dilagare del terrorismo targato Califfato islamico e al-Qaeda nella penisola arabica. Vista l’entità delle sfide esterne, occorre pertanto verificare la «tenuta» interna del regime degli alSaud, cercando di penetrare le nebbie di uno dei sistemi politici più opachi e misteriosi del mondo. Il nuovo re, Salman, è anziano (ha 79 anni), ma soprattutto è malato da tempo. Diventa così cruciale conoscere i suoi più stretti collaboratori cioè il nuovo principe della Corona, Muqrin bin Abdulaziz (69 anni) e il ministro degli Interni, Mohammed bin Nayef bin Abdulaziz (55 anni), che corrispondono al no. 2 e no. 3 della piramide di potere del regno. Come rivelano i nomi, Muqrin è figlio di Abdulaziz ibn Saud (che nel 1932 ha fondato il terzo regno saudita), dunque è fratellastro del re defunto e di quello in carica. Per anni direttore dell’intelligence saudita, se ne conosce l’ostilità verso l’Iran e verso la comunità sciita saudita. Ma si conosce soprattutto l’animosità che ha sempre mostrato nei confronti dell’attuale n.3 del regno, Mohammed bin Nayef. Mohammed è invece nipote di Abdulaziz perché suo padre Nayef è morto nel 2012. È un noto conservatore ma a preoccupare è il fatto che al vertice del sistema fin dal 23 gennaio scorso esista una grave frattura tra gli uomini più vicini al re. Muqrin, poi, è l’ultimo dei figli di Abdelaziz e per lui non dovrebbero applicarsi le nuove regole di successio-
Il principe della Corona Salman bin Abdulaziz al-Saud. (Keystone)
ne al trono, una volta morto Salman. Secondo le regole volute da Abdulaziz ibn Saud, dopo la sua morte nel 1953, la successione è sempre avvenuta in linea orizzontale, non verticale, da fratellastro a fratellastro, non di padre in figlio. Dietro questa anomalia dinastica c’era una precisa strategia volta a garantire la pace sociale beduin style. Chiarendo: Abdulaziz ha provveduto a sposare figlie o vedove dei capi tribù che ha sconfitto o sottomesso. Secondo la legge islamica ne sposava quattro alla volta, per poi ripudiarle quando gli avessero dato dei figli maschi, e sposarne altre quattro. Tutto questo per avere il controllo delle rissose tribù della penisola, che a turno avrebbero potuto accedere al trono e smetterla di ribellarsi al potere statuale. Così oggi con re Salman, si sono saldamente reinsediati al vertice del regime i Sudairi, un gruppo che in origine era di sette fratelli, nati dalla stessa madre, Hassa bint Ahmed al-Sudairi. Il defunto re Abdallah – della tribù degli al-Shurain – è stato sufficientemente abile da spaccare il gruppo e farsene alleata una fazione fin dal 1995 quando assunse la reggenza come principe della Corona dopo che il monarca in carica, re Fahd (il più anziano dei Sudairi), venne colpito da un ictus. Proprio nel ’95, un altro membro del clan Sudairi, Sultan, tentò una sorta di colpo
di Stato cercando di impedirgli di fare le veci del re, col favore del potente clero wahhabita. E l’alleanza tra Abdallah e Salman è rimasta intatta anche dopo che Abdallah è divenuto ufficialmente re, alla morte di Fahd nel 2005. Vista la morìa degli anziani figli di Abdelaziz, sempre Abdallah ha stabilito le nuove regole della successione che prevedono il passaggio del potere di padre in figlio, non più da fratellastro a fratellastro. Ha poi creato una specie di sistema di pesi e contrappesi con l’istituzione nel 2006 dell’Hayat al Bayah (Consiglio della fedeltà o lealtà) composto dai figli di Abdulaziz ancora vivi e dai figli di quelli morti, incaricato di indicare il nuovo re e il nuovo principe della Corona. Ma il Consiglio, a sua volta, è sotto il controllo della cupola securitaria rappresentata dai Ministri degli Interni e della Difesa nonché dalla Guardia Nazionale che ha il compito primario di proteggere la dinastia Saud e che re Abdallah ha provveduto a mettere sotto la direzione di suo figlio Mutaib. Per dirla in breve, siccome tutte le cariche importanti del regno sono ricoperte da membri della famiglia, il gioco politico si risolve in una dinamica da parenti-serpenti che non stupisce in un Paese dove la dinastia reale, composta da almeno 20’000 principi e principesse, è al tempo stesso Stato e cassaforte
I morti viventi di Wat Pharabat Nampu Ettore Mo La morte è di casa al monastero buddista di Wat Pharabat Nampu, in Thailandia, da tempo adibito ad ospedale-ospizio per malati terminali di Aids. Oggi è il turno di Niwam, un uomo di 31 anni, adagiato sopra un materassino verde che per medici e infermieri è soltanto il numero 29. Ha i minuti contati. All’alba due infermiere l’avevano spinto fuori dal padiglione quasi nudo su una sedia a rotelle, sottoponendolo poi, armate com’erano di tubo dell’acqua e spugna, ad una doccia torrenziale: da cui sarebbe riemerso pulito e profumato come un angioletto. Ma sotto la brandina su cui giaceva c’era una bara di legno: vuota, naturalmente, ma pronta ad accoglierlo quando fosse il momento. Nel monastero-ospizio-ospedaleobitorio di Wat Pharabat Nampu morivano in media dalle 2 alle 4 persone al giorno e anche 6 o 7 nei periodi di maggior accanimento della malattia. Le bare aperte erano allineate bene in
vista lungo le corsie, sotto i finestroni. I malati che potevano avere al massimo ancora due mesi le guardavano con indifferenza. Tra questi, il vicino di letto di Niwam, che sembrava divertirsi un mondo. Era soprattutto affascinato dalla cerimonia del supplizio cui Niwan veniva sottoposto: e cioè quando le due infermiere lo lavavano e munite di rasoio e forbici, lo rapavano a zero spandendo sul pavimento un bel mucchietto di capelli neri. Come avveniva in tutti gli ospedali per malati terminali, nessuno si illudeva di poter guarire: al contrario, ognuno di loro si chiedeva quando sarebbe arrivato il proprio turno. Poteva essere questa signora di 27 anni, infettata dal suo ragazzo? Oppure Suwana, che avrebbe lasciato due figli orfani, un maschietto di dieci anni e una bimba di sette? Non chiedere mai per chi suona la campana, ammoniva il poeta inglese John Donne che fornì a Hemingway, morto suicida, il titolo per il suo famoso romanzo. Dopo anni di sofferenza, Niwan ha
avuto il raro privilegio di non morire in solitudine: gli è stata accanto, nelle ultime ore, una ragazza giapponese, «uno di quegli angeli vaganti del volontariato internazionale, che frequentano luoghi di pena, come il lebbrosario di Madre Teresa di Calcutta. La ragazza è stata con Niwan fino a quando è morto, una veglia di quasi dodici ore. Quindi, dopo l’ultima ripulita, lo hanno chiuso nella bara, che era lì pronta, sotto il letto, ed è stato portato al forno crematorio a neanche un chilometro di distanza con un lungo seguito di monaci salmodianti. «Ho fondato l’ospedale-ospizio di Wat Pharabat Nampu nel ’92 – racconta l’abate buddista del monastero, Alongkot Tikhapanyo – dopo aver conosciuto dei malati di Aids. Erano dei disperati, respinti dalle loro famiglie, odiati da tutti. Un paio sono morti fra le mie braccia. Datti da fare, mi sono detto. Dopo tutto, la compassione è alla base della nostra religione e filosofia»: al tempo si era diffuso il panico che l’Aids potesse essere propagato come un polline
Luigi Baldelli
Storie Fra i malati di Aids nel monastero-ospizio thailandese
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 02 febbraio 2015 ¶ N. 06
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Politica e Economia
L’Argentina chiede giustizia Caso Nisman Il procuratore federale è stato trovato morto nel suo appartamento di Buenos Aires,
proprio nel giorno in cui avrebbe dovuto riferire in Parlamento sulle accuse alla presidente Cristina Kirchner di aver coperto l’Iran per l’attentato nella capitale del ’94 che causò 85 morti
Angela Nocioni Un appassionante thriller politico tiene in ansia l’Argentina. Nel giallo, già di per sé inquietante, della misteriosa morte di un noto giudice a Buenos Aires, stanno comparendo poco a poco strani personaggi: loschi agenti di scorta della Policìa federal, predicatori iraniani che mandano messaggi da Teheran, hezbollah libanesi, emissari israeliani, amici all’ambasciata americana e doppie spie argentine, forse triple. Una spietata guerra di tutti contro tutti dentro i servizi segreti argentini fa da cornice al quadro. Il giallo, in pillole, è questo. Il procuratore Alberto Nisman denuncia il 14 gennaio la presidente della repubblica Cristina Kirchner, il ministro degli Esteri Hector Timerman e altri collaboratori del governo, per aver coperto con un patto segreto i mandanti della strage del 18 luglio 1994 alla mutua ebraica di Buenos Aires (85 morti). Il 19 gennaio è atteso in Parlamento, su invito dell’opposizione, a presentare le prove alla base della sua denuncia. Attenzione: è una denuncia, non un’accusa. Non ha bisogno di avere prove ai fini di una condanna, ma di elementi sufficienti per aprire un’inchiesta. Dice comunque ai giornalisti che ha in mano «prove inoppugnabili, talmente evidenti da mandarli tutti in galera». Il 18 sera viene trovato cadavere nel bagno del suo appartamento con un foro di proiettile alla tempia destra e una calibro 22, non sua, lì accanto. Anche la storia oscura della strage di vent’anni fa si complica. Accanto alla pista iraniana (iraniani i mandanti e hezbollah libanesi gli esecutori, secondo l’accusa) ne rispunta fuori una siriana: contrabbando d’armi ai tempi del governo di Carlos Menem, sotto la cui presidenza avvenne la strage. Vediamo i dettagli.
Un thriller politico inquietante e pieno di ombre tiene in ansia il Paese Col cadavere ancora caldo di Nisman accasciato davanti allo specchio del bagno, il governo Kirchner si precipita lunedì ad accreditare la tesi del suicidio. Il primo a farla circolare è il Segretario per la sicurezza della presidenza, Sergio Berni, che misteriosamente arriva nell’appartamento del giudice prima del magistrato inquirente e della polizia scientifica. Passeggia per ore indisturbato in quella che potrebbe essere la scena di un delitto. Giustifica la sua presenza con l’amore per la professione, ma non spiega cosa ha fatto in quelle ore, né chi l’ha avvisato. Di certo c’è solo che a dare l’allarme, alle due del pomeriggio, per aver trovato il giudice in una pozza di sangue, sono la madre e due agenti di scorta, entrati in casa con l’aiuto di un fabbro. E che la polizia scientifica e la pm incaricata, Viviana Fein, arrivano non prima dell’una di notte. I giornalisti corrono sul posto, avvisati da un tweet di un cronista del «Buenos Aires Herald», che poi dirà di aver dovuto imbarcarsi al volo in un aereo per Israele perché minacciato «per aver mandato all’aria l’operazione» con quel tweet. L’appartamento di Nisman è al tredicesimo piano del grattacielo «Le Parc», a poche centinaia di metri dalla Casa Rosada. La giudice dice di essere stata avvisata a mezzanotte e quaranta. C’è un buco di undici ore che nes-
Agenti della polizia giudiziaria raccolgono materiale per la pm Viviana Fein. (AFP)
suno ha finora spiegato. Gli agenti di scorta, dieci uomini della Policìa federal, dicono di essersene andati il venerdì sera su sollecitazione di Nisman che avrebbe detto di non aver bisogno del loro servizio fino alla domenica alle 11. Perché una persona che ha appena detto a una giornalista «in questa storia posso finire morto», che teme per la sua vita tanto da chiedere in prestito a un collaboratore informatico la sua pistola calibro 22 nonostante abbia registrate una calibro 38 e una calibro 22 a suo nome – (strano collaboratore con uno stipendio da 40 mila pesos al mese, troppi per un semplice tecnico informatico della procura) – dovrebbe volersi privare della scorta? Forse, suggerisce il tecnico informatico, perché Nisman era stato avvisato da un ex agente dei servizi suo amico, il potentissimo Antonio Horacio Stiuso, alias «Jaime», di non fidarsi dei suoi angeli custodi. Il tecnico informatico è l’unico inquisito in questa storia. L’accusa è di aver prestato un’arma a un’altra persona, la legge lo vieta. Gli interrogativi aperti sono tanti. Perché la scorta se ne va senza avvisare i superiori? Quando torna la domenica mattina, Nisman già non risponde più al telefono. Perché l’allarme non viene dato fino alle due del pomeriggio? Il lunedì, nonostante l’Argentina sia sotto shock per la notizia e la magistratura abbia aperto un’indagine per «morte sospetta», la presidente della repubblica, che si manifesta solo via Facebook, si chiede «cosa possa spingere una persona alla scelta tragica di togliersi la vita». Spiega al mondo che solo l’intenzione del suicidio a causa di una denuncia annunciata con le fanfare e destinata al flop, spiegherebbe la necessità di Nisman di procurarsi una pistola, visto che è stato trovato morto in un appartamento «inaccessibile, chiuso a chiave da dentro», dotato di «codice di sicurezza all’entrata, telecamere ovunque 24 ore su 24 e una scorta di dieci persone». Accusa il giudice morto di
essersi prestato a un complotto contro di lei, di essere tornato di corsa dalle vacanze per approfittare del clima creato dalla marcia di Parigi, quella contro le stragi jihadiste in Francia, per presentare una denuncia «evidentemente già scritta». La presidente si dimentica di fare le condoglianze alla famiglia. Il ministro degli Esteri definisce il giudice morto «un poveraccio». Un altro ministro gli dà della «canaglia». La tesi del suicidio, però, non passa. Le strade si riempiono di gente che piange e innalza cartelli con scritto «Yo soy Nisman». Il «New York Times» solleva dubbi sull’attendibilità della Kirchner. Ma è il fabbro chiamato dalla madre del giudice per aprire la porta a sconvolgere l’indagine. Accaldato, temerario, con la camicia sbottonata fino all’ombelico, rivela ai giornalisti: «La porta di servizio non era chiusa a chiave. C’era solo la chiave infilata nella serratura dall’interno. In meno di due minuti siamo entrati. È bastato un fil di ferro. Chiunque sarebbe potuto entrare in quella casa». Fil di ferro, contro propaganda di governo. L’appartamento «inaccessibile» aveva quindi una porta di servizio aperta, una scorta assente e un’altra porta che dal salone dava su un corridoio stretto dove ci sono i motori dell’aria condizionata e, in fondo, la porta che dà sul living dell’appartamento di fronte. La maggior parte delle telecamere 24h non funzionavano. Il grattacielo «Le Parc» comunica con quello accanto da un corridoio nel piano dei garage. La security era tanto affidabile che i condomini, stanchi di subire furti tutti i mesi, stavano accordandosi per cambiare gestione. Molti degli appartamenti del grattacielo vengono affittati per brevi periodi ai turisti. C’era un tale via vai di sconosciuti nel palazzo, che i portieri non chiedevano nemmeno il nome al citofono prima di aprire il portone. L’ex moglie di Nisman, anche lei giudice, dice di non credere al suicidio e
fa sapere di non fidarsi della pm, né dei risultati dell’autopsia che dicono che Nisman è stato ucciso dalla calibro 22 trovata in bagno. Non c’è però traccia di polvere da sparo nelle mani di Nisman. Una soffiata pubblicata dal giornale «Clarìn» parla di un colpo esploso a 20 centimetri, ma la pm smentisce: la distanza è di 1 cm dalla tempia. Cristina Kirchner, intanto, ha però cambiato idea. Non è più un suicidio. La sua teoria è ora quella del crimine perfetto, compiuto da settori deviati dei servizi per screditare il governo. Al giudice, secondo la Kirchner, sarebbe stata servita una polpetta avvelenata proprio dall’ex spia Stiuso, quello tirato in ballo dal tecnico informatico. Stiuso è un pezzo grosso dei servizi segreti argentini, inamovibile dal 1972, grande servitore dall’ex presidente Nestor Kirchner prima e di sua moglie Cristina poi, ma fatto fuori da lei (o da qualcuno che l’ha convinta a farlo) il 17 dicembre. Nella vulgata governativa Nisman non è più «una canaglia», ma un «utile idiota» che si fa scrivere l’inchiesta della sua vita da una spia.
La Kirchner sostiene la teoria del crimine perfetto compiuto dai servizi per screditare il governo Stiuso, scrive ora Cristina, avrebbe passato a Nisman prove false. Il giudice ha abboccato, ha annunciato la denuncia e poi, alla vigilia della deposizione in Parlamento, poiché serviva ormai più morto che vivo, così da poter gettare discredito sulla presidente, sua principale accusata, è stato fatto uccidere. Quadri e militanti di La Campora, l’organizzazione di base del kirchnerismo fondata dal figlio della presidente, Massimo Kirchner, da giovedì scorso hanno l’ordine di dire in giro che Ni-
sman è stato fatto uccidere da servizi deviati, nemici di Cristina, con l’aiuto del Mossad. Le prove alla base della denuncia di Nisman, che consisterebbero fondamentalmente in 961 cd di intercettazioni telefoniche, sarebbero da tempo state depositate in copia in posti considerati sicuri dal giudice. Questo dicono i suoi amici. Nisman era considerato intimo dell’ambasciata americana a Buenos Aires. Di certo la comunità ebraica lo amava molto, l’ambasciata di Israele anche. Possibile che né gli uni né gli altri abbiano pensato di garantirgli una sorveglianza? Nessuno sano di mente a Buenos Aires si sentirebbe al sicuro perché ha una scorta della Policìa federal. Nisman nella denuncia tira in ballo agenti di Buenos Aires in filo diretto con Teheran per trattare in segreto l’impunità dei sospetti mandanti della strage. La guerra nell’intelligence argentina è scoppiata almeno un mese prima della morte del giudice, dopo il repulisti firmato da Cristina. La presidente ha messo a capo dell’intelligence un uomo di sua fiducia, Oscar Parrilli, che nessuna voglia aveva di andare a dirigere gli 007 in lotta intestina quando pensava ormai d’essersi guadagnato la candidatura a governatore dello stato di Neuquén. Inaugura di malavoglia il nuovo incarico cominciando una spending review. Chiede la lista degli «agentes inorgánicos», quelli in nero che maneggiano al buio grandi quantità di fondi riservati. Scoppia una tale rivolta che deve fare marcia indietro. Va a sbattere contro il capo dell’esercito, l’intoccabile Milani. La confusione lì dentro è tale che il settore di intelligence antiterrorismo è sguarnito. Dice al «Clarìn» un uomo dei servizi: «Buenos Aires, la città della strage perpetrata all’ambasciata di Israele nel 1992 e di quella alla mutua ebraica del 1994, è pronta per un terzo attentato».
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Politica e Economia
Metterà radici in Svizzera?
Notizie svizzere
Pegida Il movimento tedesco contro l’islamizzazione dell’Occidente ha da poco tempo una
Un direttore per due giornali
succursale in Svizzera, ma è dubbio che possa trovare i consensi che incontra in Germania
Manifestazione di Pegida a Dresda, il 25 gennaio. (Keystone)
Marzio Rigonalli I tragici eventi di Parigi del 7 gennaio hanno dato nuovo ossigeno a coloro che vedono una minaccia nella presenza dei musulmani nelle società occidentali. Due giorni dopo, il 9 gennaio, in Svizzera è nata l’associazione Pegida, una specie di succursale dell’importante movimento che è sorto in Germania l’autunno scorso e che ogni lunedì, a Dresda, porta in piazza migliaia di persone. Lunedì 12 gennaio, nel centro della città, si sono ritrovate ben 25 mila persone. Lunedì 19 gennaio, invece, la manifestazione è stata vietata per paura di attentati terroristici contro i dirigenti del movimento, ed è stata sostituita con candele accese sui davanzali delle finestre e con l’esposizione della bandiera nazionale . Oltre che in Svizzera, Pegida è stata creata anche in Austria, Danimarca e Norvegia. La sigla Pegida significa «Patriotische Europäer gegen die Islamisierung des Abendlandes» (Patriottici europei contro l’islamizzazione dell’Occidente). I fondatori del movimento intendono difendere l’identità giudaico-cristiana dell’Occidente, ma se la prendono anche con l’élite politica, per il modo in cui governa, e con i media, ritenuti vassalli del potere. Rivendicano di essere i veri rappresentanti del popolo e respingono le accuse di razzismo e di islamofobia. La maggior parte dei membri di Pegida ha un lavoro e proviene dalla classe media. Fin ora, il movimento sembra concentrarsi soprattutto nella Germania orientale. Il suo successo ha provocato le critiche della cancelliera Merkel e la reazione di molti tedeschi che sono scesi in piazza, in particolare nelle città occidentali, per esprimere il loro dissenso nei confronti di Pegida. Le informazioni sul movimento nato in Svizzera sono ancora molto
frammentarie. Pegida avrebbe simpatizzanti soprattutto nella Svizzera centrale ed orientale; in Ticino è stata creata una pagina di sostegno su Facebook. Fin ora, i dirigenti del movimento sono rimasti nell’ombra. Soltanto il portavoce, Ignaz Bearth, si è espresso davanti ai media, ma dopo poche apparizioni si è dimesso. Domiciliato nel canton San Gallo, Bearth ha un passato movimentato. È stato prima membro della piccola formazione di estrema destra PNOS, «Partei National Orientierter Schweizer», poi ha fatto parte dell’UDC per quattro anni ed, infine, nel 2012, ha creato un suo partito, il DPS, «Direktdemokratische Partei Schweiz». Attualmente, è al centro di una procedura giudiziaria per aver scritto che Angela Merkel ed il suo governo sono i veri nazisti di Berlino. Pegida intende organizzare la prima manifestazione pubblica in Svizzera il 16 febbraio, in un posto ancora segreto. Pegida può sperare di avere in Svizzera il successo che ha ottenuto in Germania? Due almeno sono le ragioni che portano verso una risposta negativa. La prima risiede nel ruolo che svolge l’UDC. Negli ultimi anni, il partito di Blocher ha difeso le idee che oggi Pegida sostiene in Germania ed ha fatto ricorso agli strumenti della democrazia diretta per ottenere, in votazione popolare, il divieto di costruire minareti (2009), l’espulsione degli stranieri che commettono reati (2010), nonché il controllo e la limitazione dell’immigrazione (2014). Membri influenti di questo partito si sono ritrovati in comitati che hanno operato, o che sono tutt’ora attivi, con l’obiettivo di contenere la presenza islamica. È il caso dello zurighese Ulrich Schlüer, ex consigliere nazionale. Schlüer fa parte del comitato d’Egerkingen, che fu all’origine del voto popolare sui minareti e che sta prepa-
rando un’iniziativa popolare nazionale che prevede il divieto di portare il burqa nei luoghi pubblici ed aperti al pubblico, come ha fatto il canton Ticino. Non sorprende, quindi, che le prime reazioni di esponenti dell’UDC nei confronti di Pegida non siano molto entusiaste. L’UDC non vuole lasciare ad altre formazioni i temi che hanno contributo ai suoi successi elettorali, soprattutto non nell’anno in cui avverrà il rinnovo del parlamento federale. Non vede di buon occhio rivali sulla sua destra, in quello spazio politico dove attinge volentieri per alimentare le sue campagne. Per di più, la democrazia diretta offre già un certo sfogo ad un possibile malessere, presente in almeno una parte della popolazione. Infine, è risaputo che qualsiasi movimento in Svizzera si ritrova alle prese con un cammino difficile, quando non può contare sull’appoggio di un partito politico. La seconda ragione emerge dalla comunità musulmana presente in Svizzera. Nel nostro Paese vivono circa 400 mila musulmani, pari a circa il 5% della popolazione. La maggior parte proviene dall’ex Jugoslavia e dalla Turchia e vive nella Svizzera tedesca. In Romandia prevalgono i musulmani che arrivano dall’Africa settentrionale e dal vicino Oriente. Un terzo dei musulmani residenti nella Confederazione possiede un passaporto elvetico. Solo una minoranza si dichiara praticante, un po’ come avviene con le altre religioni. In Svizzera non si riscontrano grossi problemi d’integrazione, per lo meno non così evidenti come in altri Paesi europei, che hanno avuto un passato coloniale, o che sono in prima linea nella lotta internazionale contro il terrorismo, come per esempio la Francia. Prevale un islam moderato, che annovera pochi casi attribuibili a forme d’integralismo e d’estremismo. La convivenza tra le varie comunità
non riscontra grossi incidenti e non offre, quindi, apparentemente, un terreno molto fertile alle tesi ed alla propaganda del movimento Pegida. La situazione attuale potrebbe però cambiare. Un atto violento sul territorio elvetico, per esempio, potrebbe destare piccole e grandi paure che ora sono sopite, e che potrebbero tradursi subito in manifestazioni ed in un atteggiamento ostile nei confronti dei musulmani. Alcune decine di integralisti residenti sul territorio elvetico sono andati a combattere in Siria, Iraq, Afghanistan, Pakistan, Yemen e Somalia. Altri sono sorvegliati, perché sono ritenuti pericolosi e godono di simpatie ed appoggi vari. I servizi segreti sono in piena azione e lasciano uscire poche informazioni. Un potenziale pericolo non può essere negato e potrebbe, se la sorveglianza dovesse fallire, modificare le condizioni di oggi. Anche l’evoluzione della situazione nei Paesi europei, in guerra contro il terrorismo islamico, soprattutto in quelli confinanti con la Svizzera, potrebbe incidere sul futuro di un movimento come Pegida. Nuovi attentati, nuove stragi, gli darebbero sicuramente un ulteriore impulso. Da ultimo, va considerata una tendenza di fondo. La popolazione di religione musulmana è quella che cresce di più nel mondo. Ha un aumento annuale dell’1,5%, contro lo 0,7% della popolazione che non professa questa religione. Il numero dei musulmani in Europa, quindi, è destinato a crescere. Nel lungo periodo, potrebbero sorgere problemi sia per quanto riguarda la loro integrazione nella società occidentale, che per quanto concerne il loro rispetto dei valori insiti nella nostra cultura. È una sfida che può riuscire, ma che potrebbe anche fallire e generare un terreno di scontro propizio per Pegida, o per qualcosa di simile.
Cambiamenti in vista al «Tages Anzeiger: come annunciato mercoledì scorso dall’editore TAmedia, dal primo gennaio 2016, quando andrà in pensione l’attuale direttore Res Strehle, il posto di direttore del «Tages Anzeiger» verrà occupato dall’attuale direttore della «SonntagsZeitung» Arthur Rutishauser, (nella foto) che manterrà anche la carica di direttore del domenicale. Si tratta di una novità assoluta, che sottolinea però l’accresciuta collaborazione fra le redazioni del «Tages Anzeiger» e della «SonntagsZeitung». Come ricorda la «NZZ» nell’edizione del 29 gennaio, i due giornali cooperano parzialmente già nelle sezioni Società, Cultura, Sport e Scienze, in futuro dovrebbero essere raccolti in una sola redazione anche gli Esteri, mentre, sempre secondo la «NZZ», le redazioni Interni, Economia, Approfondimenti e Zurigo resteranno separate. Parallelamente, le redazioni online e della versione cartacea del «Tages Anzeiger» collaboreranno in modo ancora più stretto. Inoltre, come annunciato dallo stesso Rutishauser, dalla prossima estate il «Tages Anzeiger» apparirà in tre quaderni e non più in quattro come finora. Le persistenti difficoltà in cui si dibatte la stampa scritta, a causa del forte calo degli annunci pubblicitari, rende necessari questi e ulteriori risparmi e sinergie. L’attuale direttore del «Tages Anzeiger» Res Strehle continuerà la sua collaborazione con la testata come mentore e pubblicista. Franco forte e lavoro ridotto Il Dipartimento federale dell’economia pubblica reagisce con una misura immediata al rafforzamento del franco svizzero sull’euro: le imprese in difficoltà hanno nuovamente la possibilità di richiedere un’indennità per lavoro ridotto. Le autorità dovranno però verificare se le difficoltà annunciate dalle aziende sono effettivamente da mettere in relazione al rafforzamento del franco svizzero e se l’introduzione del lavoro ridotto, da intendersi come misura provvisoria (per una durata massima di 12 mesi sull’arco di due anni), serva davvero a salvare posti di lavoro. In caso affermativo le imprese in questione riceveranno un rimborso che permetterà loro di pagare ai propri dipendenti l’80 per cento del salario per le ore in cui non possono lavorare. Dal canto suo, l’associazione mantello Economiesuisse dubita che molte aziende faranno effettivamente uso della possibilità di introdurre il lavoro ridotto. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
L’euro e la BCE creano difficoltà all’economia svizzera Scenari La politica della BCE volta a indebolire l’euro potrebbe provocare in Svizzera un inizio di recessione
a causa della pressione sulle esportazioni Ignazio Bonoli Dopo la decisione, a sorpresa, della Banca Nazionale Svizzera di abbandonare la difesa del tasso di cambio dell’euro sul franco, a distanza di una settimana, è seguita quella (prevista, ma forse non così ampia) della Banca Centrale Europea. Il direttore generale Mario Draghi ha, infatti, annunciato di applicare il previsto quantitative easing cioè l’acquisto di titoli di Stati e anche aziende indebitate, in misura di 60 miliardi di euro al mese, fino almeno al mese di settembre del 2016. Si tratta in sostanza dell’iniezione di oltre 1’000 miliardi di euro nell’economia dei Paesi europei, che dovrebbero servire al rilancio dell’economia. Non senza qualche sorpresa fra gli esperti, quella che dovrebbe essere una conseguenza della ripresa, cioè l’aumento dei prezzi, diventa un obiettivo. Infatti, per la BCE, l’inflazione nell’area euro dovrebbe salire fin quasi il 2% (oggi è allo 0,2%). In caso contrario, il programma di quantitative easing verrebbe proseguito e contribuirebbe a svalutare l’euro nei confronti delle altre monete, principalmente il dollaro e – ovviamente – anche il franco svizzero. Per cui il periodo di sofferenza per l’economia svizzera, avviato con la decisione della BNS, potrebbe continuare per almeno due anni.
Draghi ha preso esempio dalla Federal Reserve americana, che ha applicato lo stesso metodo con un discreto successo. Molti osservatori fanno però notare che la mossa europea non avrà lo stesso successo di quella americana. Intanto perché i finanziamenti sono rivolti alle banche, presso le quali si finanziano le imprese europee e non è detto che le banche facciano affluire subito questi capitali verso le imprese. In America invece le aziende sono abituate a finanziarsi regolarmente sul mercato dei capitali. Anche le condizioni di partenza sono diverse: il PIL europeo è tuttora sempre dal 6 all’8% inferiore a quello del 2007, mentre il tasso di disoccupazione è circa il doppio di quello americano. Di conseguenza, e tenuto conto del fatto che arriva un po’ tardi, il piano europeo non avrà effetti analoghi a quello americano. Inoltre le potenzialità economiche dei vari Paesi europei sono piuttosto distanti ed è probabile che l’uso di queste facilitazioni non venga fatto da tutti nello stesso modo e con gli stessi scopi. Non a caso la Germania è il solo Paese che finora ha annunciato un aumento delle stime del PIL dall’1,3 all’1,5% per quest’anno. Evidentemente le esportazioni tedesche beneficeranno dei ribassi dell’euro sui mercati finanziari. Molto spesso l’industria tedesca è la principale concorrente di quella sviz-
Il presidente della BCE Mario Draghi ha annunciato l’acquisto di titoli per 60 miliardi di euro al mese fino ad almeno settembre 2016. (Keystone)
zera sui mercati mondiali. Quindi, per l’industria svizzera d’esportazione, i tempi si faranno doppiamente più difficili. La Banca Nazionale Svizzera non ha più mezzi a disposizione per contrastare questa tendenza. Sui mercati finanziari si prevede quindi un euro sempre vicino alla parità con il franco svizzero, mentre anche il dollaro, che era in netto recupero, sembra ora voler seguire la tendenza dettata dall’euro. Non si esclude nemmeno che nei prossimi mesi l’euro possa essere soggetto a nuove pressioni e quindi perdere ancora qualche punto sul franco svizzero. Alla luce di questi primi dati, il Consiglio federale non ha ritenuto di
dover adottare misure particolari di sostegno della congiuntura, ma di attendere l’evoluzione dei prossimi mesi. Ha nel frattempo confermato i propri indirizzi di politica economica, basati sulla crescita dell’economia e la difesa dei posti di lavoro, aumentando la produttività del lavoro, la concorrenzialità e l’innovazione. Intanto però le prime valutazioni non sono rassicuranti: UBS prevede, per esempio, un calo degli utili delle aziende del 13/14%, dal momento che circa il 90% degli utili delle aziende quotate in borsa viene realizzato all’estero. La banca, come altri istituti analoghi, ha ridotto le previsioni di crescita
del PIL dall’1,8 allo 0,5%, con un miglioramento fin verso l’1,1% nel 2016. Secondo il BAK di Basilea, l’economia svizzera perderà tra l’1,5 e i 2 punti di crescita del prodotto interno lordo entro il 2016. Se il corso dell’euro si manterrà sopra la parità con il franco, non vi sarà recessione, cioè un PIL negativo. Secondo il KOF del Politecnico di Zurigo, che ha riveduto le proprie stime, basandosi sulla parità euro-franco, tenendo conto anche del calo dei prezzi del petrolio, una leggera recessione non è da escludere già nel primo semestre di quest’anno (vedi anche Rossi a pag.29). Questo a causa della brusca frenata che colpirà le esportazioni a causa della rivalutazione del franco. A fine anno, il PIL dovrebbe così risultare negativo nella misura dello 0,5%. Globalmente le esportazioni dovrebbero diminuire dell’1,4%. Questa contrazione si rifletterà anche sui consumi interni, che, dopo aver superato lo choc iniziale e una riduzione dei prezzi, dovrebbe comunque subire un rallentamento. Di conseguenza, anche gli investimenti dovrebbero rallentare. Il tutto provocherà sia una diminuzione dei gettiti fiscali, sia un aumento della disoccupazione. Le previsioni del KOF appaiono, quindi, le più pessimistiche. Potrebbero venir corrette se l’euro migliorasse la propria quotazione in franchi, ma è proprio quello che la BCE non vuole. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 02 febbraio 2015 ¶ N. 06
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Politica e Economia
Guerra all’evasione fiscale Intervista Che cosa è successo negli ultimi sette anni in Svizzera e nel mondo? Come e perché si è svuotato il segreto
bancario elvetico? Quali sono le conseguenze per la piazza finanziaria elvetica e luganese? A colloquio con Paolo Bernasconi, all’indomani della pubblicazione della versione aggiornata e ampliata del suo libro-vademecum Peter Schiesser Quanto successo dal 2008 in campo internazionale nella lotta all’evasione fiscale è senz’altro rivoluzionario. Nessuno più della Svizzera e delle sue banche ne ha subito maggiormente le conseguenze, tant’è vero che oggi il segreto bancario elvetico si è di fatto svuotato, cioè non potrà più servire ai clienti stranieri per sfuggire al fisco nel proprio Paese. Nella girandola di pressioni internazionali, di mutamenti legislativi (l’evasione fiscale diventa persino reato pregresso al riciclaggio di denaro sporco, punibile con il carcere), di multe multimilionarie e miliardarie alle banche svizzere da parte del fisco americano, diventa arduo riuscire ad orientarsi e a capire come il settore bancario e quello parabancario da una parte e i loro clienti dall’altra dovranno muoversi in un futuro molto prossimo. Il libro Avvocato, dove vado? scritto dall’avvocato e professore di diritto Paolo Bernasconi (con il sostegno del Centro di studi bancari di Vezia), fornisce un quadro completo della situazione, delle origini della lotta all’evasione fiscale e delle conseguenze che questa ha e avrà sulla piazza finanziaria elvetica e luganese e sui suoi clienti stranieri. La rapidità dei mutamenti in corso ha indotto l’autore a pubblicare una seconda versione del libro, aggiornata e ampliata, a nemmeno un anno dalla prima edizione. La tesi di fondo è comunque la stessa: i tempi sono cambiati, evadere il fisco diventa un affare pericoloso, sia per i clienti, sia per chi gestisce patrimoni in nero.
Paolo Bernasconi, dopo decenni di connivenza si è passati alla «Guerra globale contro l’evasione fiscale». L’accerchiamento degli evasori è quasi concluso, va ancora perfezionato con l’introduzione dello scambio automatico delle informazioni in materia fiscale. Non c’è più nessun «paradiso fiscale»?
Per le persone fisiche, di vie di fuga ne esistono ancora dozzine, ma sono diventate molto più rischiose. E poi sono di nicchia, non sono più di carattere sistematico: i modelli di affari che, per decenni, prevedevano di mettere a disposizione i servizi a favore dell’evasione organizzata degli obblighi fiscali sono diventati illegali e lo saranno presto anche a Singapore, Montecarlo, Liechtenstein, Montecarlo e simili. Per la Svizzera, le cose sono cambiate dal 12 dicembre scorso, con l’approvazione da parte del Parlamento della punibilità del riciclaggio del provento di infrazioni fiscali gravi, imposto dall’OCSE a tutti i Paesi del mondo. Anche gli Stati americani del Delaware e del Wyoming sono nel mirino dell’OCSE. E presto lo sarà anche lo sfrontato stratagemma dei «resident non domiciled» di Londra.
Anche per le grandi società multinazionali l’illegalità pacchiana scricchiola: Luxleaks (le rivelazioni sulle pratiche adottate in Lussembrugo dalle autorità per favorire l’evasione fiscale da parte di grandi aziende, ndr.) ha dato una frustata all’UE. Intanto, l’OCSE, con l’appoggio politico del G20, vara il programma BESP/ Base Erosion and Profit Shifting, per bloccare i turismo fiscale delle imprese multinazionali. Chi continuerà ad evadere il fisco rischierà ben più di una multa?
Da sempre, sia in Svizzera che negli altri Stati, almeno le infrazioni fiscali gravi vengono punite anche con una pena privativa della libertà. Ma, salvo eccezioni, si tolleravano ampiamente le fughe in paradisi fiscali per mettersi al riparo dalle indagini giudiziarie. Ma poi venne il Fisco statunitense: dal 2008, per la prima volta, perseguì in modo sistematico anche coloro che aiutavano l’evasore fiscale, ossia banchieri, fiduciari, avvocati. E cominciò proprio con l’UBS e la banca LGT di Vaduz. Per dare l’esempio. Ora altri Paesi applicano lo stesso modello, molto più efficace che rincorrere solamente l’evasore fiscale. Quindi, il rischio della prigione è diventato concreto. Oggi i governi vogliono che tutti, a seconda delle loro possibilità reali, concorrano effettivamente a pagare ospedali, scuole, polizia e strade, insomma quei servizi pubblici di cui tutti si servono. I clienti stranieri delle banche svizzere, in Ticino soprattutto italiani, sono consapevoli di essere ormai diciamo - in trappola?
È un brutale risveglio, per i contribuenti stranieri di banche svizzere: da un paio di anni, ed in modo sempre più massiccio, le banche in Svizzera limitano il diritto del cliente di disporre del proprio patrimonio. Senza prova di conformità fiscale, sono finiti i prelievi in contanti, i bonifici a favore di società di comodo, le rimesse in contanti a debito dei conti aperti presso le filiali di Nassau, Panama e Singapore, i trust «alla milanese» e simili giochetti. Una trappola amara, per quegli imprenditori che si ritrovano ancora ricchi in Svizzera, ma con la propria azienda in crisi in Italia. Vita dura anche per le polizze-vita: a inizio gennaio c’è stata una massiccia retata giudiziaria a Milano presso tre società del Gruppo Credit Suisse a caccia di contribuenti italiani cui era stata promessa la «salvezza fiscale» grazie a queste polizze, che hanno ingrassato per anni i bilanci di compagnie assicurative in Svizzera, Irlanda, Liechtenstein, Lussemburgo. C’è ancora chi li illude, in Ticino? E chi: banchieri, gestori indipendenti di patrimoni, fiduciari?
Banche, assicurazioni ed altri intermediari finanziari hanno ormai adottato nelle Condizioni generali di affari e nelle direttive interne le posizioni ufficiali sulla conformità fiscale, la cosiddetta Weissgeldstrategie. Ovviamente, all’esterno qualcuno offre ancora «passaggi» per lidi esotici, ma sapendo che durerà ancora poco. E gli addetti del mondo bancario e finanziario ticinese sono consapevoli che l’età dell’oro è finita per sempre, che corrono grandi rischi per sé stessi e per gli istituti per cui lavorano se aiuteranno anche in futuro i loro clienti esteri a evadere il fisco?
Tengo seminari nelle banche a Zurigo, Ginevra e Lugano: ovunque tutti sono consapevoli che è tramontata la regola d’oro secondo cui «da parte nostra basta rispettare il diritto svizzero, mentre del diritto fiscale estero si occupi il cliente estero». Oggi è obbligatoria la conformità anche al diritto fiscale straniero,
Paolo Bernasconi: «Banche, assicurazioni e gestori patrimoniali hanno ormai adottato la Weissgelstrategie». (CdT - Gonnella)
controllata tramite le società di audit, dall’autorità di federale di vigilanza (FINMA), quella stessa che per decenni ha tollerato l’andazzo, perché lo tollerava anche il Fisco straniero. Quanto ai rischi giudiziari dall’estero per le banche e per gli operatori, gli esempi stanno su tutti i giornali: USA, Belgio, Francia, Germania, Israele, Italia... Nel libro (pagina 132) scrive di «occultamento di denaro contante in cassette di sicurezza, non solo nelle banche, ma anche nei caveau di banche liquidate, ora gestite da ditte non sottoposte al controllo antiriciclaggio», per sfuggire al fisco. Un’affermazione «pesante».
Questa lacuna nel sistema antiriciclaggio è stata denunciata anche mediante recenti interventi parlamentari a Berna e a Bellinzona, a causa dei rischi di abuso a scopo delittuoso. Purtroppo, le autorità amministrative preposte o ignorano le prassi del mercato o trovano più facile occuparsi prioritariamente dei ladruncoli. Anche questi fanno danni, ma molto meno vittime.
«Si legge in una sentenza del Tribunale federale che senza concessioni al fisco USA sarebbe fallita UBS. Una catastrofe.» A sua conoscenza, i Compliance officer, all’interno delle banche in Ticino, come stanno compiendo il loro lavoro?
I responsabili della confomità legale delle attività delle banche, assicurazioni ed imprese similari svolgono da sempre il ruolo più ingrato: il cliente chiede di concedere le soluzioni applicate sistematicamente nel passato, e che oggi sono vietate. Come responsabile di un corso di formazione al Centro di studi bancari di Vezia, ora anche in cooperazione con l’Università di Ginevra, dovrei poter dire che il loro livello professionale si è molto elevato. Fino a ieri bancari e fiduciari si adoperavano per aiutare i clienti a sfuggire al fisco; domani saranno costretti a bloccare i patrimoni sospetti per non incorrere in una violazione della legge sul riciclaggio di denaro, considerato che il
parlamento svizzero ha qualificato le infrazioni fiscali gravi come reato preliminare, o pregresso, del riciclaggio di denaro. Come stanno muovendosi?
Questa novità era preannunciata da anni, il Governo svizzero la propose oltre un anno fa, le Camere federali l’hanno appena approvata, nessun referendum sembra sia annunciato, quindi dovrebbe diventare legge forse già il prossimo primo luglio. Il mercato è già pronto, le Direttive interne anche, fervono ovunque corsi interni di aggiornamento. E i clienti esteri come reagiscono? Si fidano ancora delle banche svizzere, dei gestori patrimoniali, dei fiduciari?
In vista di questa svolta storica, di cui i media parlano da anni, parecchi Stati, fra cui USA, Belgio, Francia, Germania, Italia, Portogallo, Spagna, hanno lanciato programmi per facilitare l’autodenuncia. I clienti sanno che le banche svizzere si adeguano, come quelle di tutte le piazze finanziarie. Hanno cambiato le loro prassi perché i grandi del mondo – G20, OCSE, UE – hanno imposto di cambiare le regole. Per tutti. E quei clienti che fuggono in lidi esotici rimpiangono la generale correttezza già sperimentata sul mercato svizzero. E appena qualcosa va storto, si trovano confrontati con sistemi giudiziari e amministrativi di ben altro livello e affidabilità. Lei conosce bene la piazza finanziaria ticinese di ieri e di oggi: che aspetto avrà domani? Qualcuno avrà ancora interesse a portare capitali a Lugano? Le banche sono in grado di offrire prestazioni superiori a quelle fornite da banche a Singapore o Londra? Ha un futuro la piazza finanziaria luganese, e quale?
Quarant’anni orsono, nella prefazione ad un mio libro, l’allora Direttore della Banca Nazionale, Fritz Leutwyler, scrisse che la piazza bancaria svizzera poteva reggere benissimo anche senza il segreto bancario (quello verso il fisco, non quello relativo alla privacy). Aveva ragione: le piazze concorrenti sono ancora poche, specialmente in un mondo dove tutti cercano affannosamente la stabilità, precisione e correttezza, non solo delle banche ma anche del settore amministrativo e giudiziario. Pertanto, anche Lugano potrà ancora giocare buone carte.
L’iniziativa popolare per iscrivere nella Costituzione federale il segreto bancario è stata consegnata alla Cancelleria federale con 117’596 firme. Si andrà quindi probabilmente a votare. Che cosa succederebbe se il Popolo approvasse questa iniziativa?
L’iniziativa popolare prevede che per ragioni fiscali si potrà condurre una indagine in banca solamente previa una decisione giudiziaria. Un passo indietro a favore degli evasori fiscali: infatti, la Divisione speciale federale delle inchieste fiscali non potrà più condurre quelle indagini bancarie che ora, ogni anno, permettono di scoprire frodi ed evasioni milionarie commesse da contribuenti svizzeri. Da anni la destra borghese ripete che un Consiglio federale e una classe politica debole hanno «calato le braghe», concedendo tutto in cambio di nulla. Era possibile fare diversamente?
Si legge in una famosa sentenza del Tribunale federale che senza concessioni al Fisco USA, sarebbe fallita UBS: una catastrofe per l’economia svizzera. Sono centosei le banche svizzere che hanno dovuto decidere di partecipare al programma varato dagli USA il 29 agosto 2013. Se un migliaio di amministratori, responsabili di migliaia di posti di lavoro, ha scelto questa strada, vuol dire che non ce n’era un’altra. E gli esperti in «bragologia» non ne hanno ancora identificata una. Che cosa succederà ancora? Il segreto bancario non potrà più celare nemmeno l’evasione fiscale compiuta in Svizzera da cittadini residenti in Svizzera, come chiede anche la Conferenza dei direttori cantonali delle finanze?
Recentemente, in Consiglio Nazionale è emerso che, negli ultimi cinque anni, 20’219 contribuenti svizzeri hanno confessato di avere evaso imposte per circa quindici miliardi di franchi complessivamente. Leggo in un libro pubblicato nel 2008 la stima di cento miliardi evasi dai contribuenti svizzeri. Ecco perché il Presidente uscente e quello attuale della Conferenza intercantonale chiedono che il Fisco svizzero possa avere a disposizione gli stessi strumenti del Fisco degli altri Stati. Specialmente quando cominciano a vacillare anche i bilanci di qualche Cantone e di qualche Comune.
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Per il momento dobbiamo credere ai modelli Le settimane che hanno seguito la decisione della Banca Nazionale Svizzera di abbandonare il cambio fisso con l’euro sono stati contraddistinte da molte dichiarazioni sulle possibili conseguenze fatte da politici e addetti ai lavori. Il tono di queste dichiarazioni variava a seconda degli interessi della persona che parlava e a seconda del luogo in cui si trovava. Dalla BNS e dal governo centrale sono venuti solo messaggi incoraggianti. Anche dai rappresentanti delle associazioni mantello della nostra economia sono venuti commenti positivi, ma fatti a denti stretti. Più ci si muoveva verso i singoli rami o verso le singole aziende e più ci si muoveva da nord verso sud, il colore delle dichiarazioni passava dal rosa al nero. Difficile orientarsi in questa selva di dichiarazioni contrastanti. Per aiutare il lettore a farsi un’idea diciamo dapprima che molte di queste dichia-
razioni, specialmente da parte dei politici, erano reazioni improvvisate a una decisione inattesa e non si basavano su nulla di concreto. Molte altre riflettevano invece le preoccupazioni di singoli settori, gruppi di aziende, o aziende singole – dal turismo alle casse pensioni, passando per l’edilizia e l’industria – che sono in grado, limitatamente alla loro attività, di fare una stima delle conseguenze negative dovute all’improvvisa rivalutazione del franco. I responsabili della ricerca universitaria, per esempio, hanno fatto sapere che per i progetti europei ai quali partecipano i loro istituti riceveranno meno franchi di quanto prevedevano di ricevere quando avevano preparato i preventivi per il 2015. Questo perché gli organismi europei finanziano le ricerche in euro. Di questi esempi ce ne sono molti. Ma non è possibile derivare da un loro possibile elenco una valutazio-
ne generale dell’ampiezza dell’impatto negativo che la rivalutazione del franco potrà avere sulla congiuntura dell’economia svizzera nei prossimi mesi e nei prossimi anni. Tuttavia il lettore attento ricorderà di aver sentito più volte, negli scorsi giorni, un apprezzamento su quel che poteva capitare all’economia svizzera di questo tipo: nel breve termine vi saranno forti conseguenze negative, ma nel giro di due o tre anni l’economia svizzera dovrebbe riprendersi e ritrovare il suo tasso di crescita normale. L’ha detto il presidente del direttorio della BNS, l’ha ripetuto la nostra ministra delle finanze. Ci si può chiedere su che cosa si basi questa previsione. Ebbene la stessa è basata sui risultati di una simulazione dell’andamento dell’economia svizzera nei prossimi anni, a seconda del possibile livello del cambio con l’euro, che la BNS aveva fatto prima di prendere la deci-
sione di abbandonare il cambio fisso, utilizzando il suo modello econometrico della nostra economia. Il «Tages Anzeiger» e la NZZ hanno avuto accesso ai risultati di questa simulazione e li hanno pubblicati. Gli stessi descrivono uno scenario di deflazione con prezzi e, forse anche, salari reali che scendono e disoccupazione che aumenta. Ovviamente queste conseguenze saranno tanto più gravi quanto maggiore sarà la perdita di valore dell’euro rispetto al franco nel corso dei prossimi mesi. Con un cambio di un euro pari a un franco, per esempio, la disoccupazione, a livello nazionale, salirà dall’attuale 3%, a un livello superiore al 5%, verso la metà del 2016, per poi ridiscendere al 3% nel 2018. Per il Ticino che conosce sempre un tasso di disoccupazione superiore a quello medio nazionale questo significa che si passerebbe dall’attuale 4% al 7% verso la metà del 2016 per poi ritrova-
re il livello attuale due anni dopo. In Ticino si ritroverebbero quindi i tassi di disoccupazione della seconda metà degli anni Novanta dello scorso secolo. Se però, tocchiamo ferro, il cambio con l’euro dovesse scendere a 95 centesimi la disoccupazione, in Ticino, potrebbe salire vicino all’8%. Insomma 10 centesimi di meno nel cambio equivalgono a un aumento di 1,5 punti del tasso di disoccupazione. Nei prossimi mesi l’evoluzione economica è tutta in discesa. Abbiamo due soli elementi di conforto. Le previsioni dei modelli econometrici sono probabilistiche, vale a dire che non è sicuro al cento per cento che si realizzino. Inoltre, se il modello dovesse aver ragione, gli anni delle vacche magre dovrebbero essere solo tre, anzi, se teniamo conto della revisione delle previsioni per il 2015, fatta dal KOF e pubblicata la settimana scorsa, potrebbero essere anche di meno.
ma anche sotto l’aspetto politico. E come nel 2011 la tempesta finanziaria si è estesa agli altri Paesi dell’Europa meridionale, anche stavolta la tempesta politica minaccia gran parte del Continente. In primavera va al voto Londra, che è fuori dall’euro e ha ormai un piede fuori dall’Europa. I conservatori di Cameron dovrebbero riuscire a confermarsi primo partito, rintuzzando l’avanzata di Farage, che ha sfondato alle Europee. Ma gli alleati del premier, i liberaldemocratici di Clegg, rischiano di crollare. Potrebbe essere necessario per i conservatori cercare una qualche forma di accordo con i laburisti. A meno che non trovino un’intesa con Farage per uscire dall’Europa. Si aprono insomma scenari inquietanti. Ma il Paese più a rischio è la Spagna. «Podemos» dell’economista con codino Pablo Iglesias è oggi il primo partito nei sondaggi. Il premier Rajoy è ancora in grado di rimontare. Molto dipende dalla riuscita dell’esperi-
mento Tsipras, cui Iglesias è dichiaratamente legato. Se quella sorta di neosocialismo che Syriza ha promesso ad Atene riuscirà, se la sfida della povera Grecia alla ricca Germania avrà successo, allora a Madrid Iglesias può davvero ottenere un risultato clamoroso. Poi c’è la Francia. Prima ancora che Tsipras facesse il governo con la destra euroscettica, affidando il ministero della Difesa a un corpulento energumeno che qualche anno prima l’avrebbe fatto manganellare in piazza, Marine Le Pen aveva plaudito al successo dell’estrema sinistra ellenica: il nemico del mio nemico è mio amico. E il grande nemico di Marine Le Pen e dei tanti che la pensano come lei è l’Europa. Di fronte allo schema che sta saltando, l’Italia appare poco consapevole. Il segno del nostro tempo è la rivolta contro le élites, l’establishment, i poteri tradizionali, ogni forma di rappresentanza, dai partiti ai sindacati. Più il sistema si arrocca, più rischia.
Ma una qualche minima forma di intesa tra le forze politiche è necessaria, soprattutto nei Paesi in cui il governo è chiamato a varare riforme talora impopolari, come in Italia. Renzi finora si è avvalso dell’alleanza con Alfano, trattato sempre con un po’ di sufficienza, e del patto con Berlusconi. Nella partita del Quirinale il presidente del Consiglio ha ricompattato il suo partito, ma ha tirato forse un po’ troppo la corda con gli alleati interni ed esterni al governo. L’Italia poi ha il problema della ripresa economica che tarda. L’impressione è che il governo stia forse sottovalutando la gravità della situazione. È vero che Tsipras è considerato un alleato contro l’austerity e l’eccessivo rigore tedesco. Ma la Bce di Draghi non seguirebbe il governo italiano in una luna di miele con gli euroscettici. Tanto meno lo farebbe la Merkel (foto), che non sarà sempre amabile come nella vacanza fiorentina conclusa con la conferenza stampa congiunta con Renzi ai piedi del David di Michelangelo.
esperti statunitensi definiscono «da terzo millennio». La notizia è di inizio anno: anche il gigante dell’e-commerce produrrà propri film e li distribuirà per poche settimane nei cinema e poi li metterà in vendita sulla sua piattaforma di streaming web Amazon Prime. Per Bezos, questo significa entrare in competizione nel business dell’intrattenimento con la società californiana Netflix che ha avviato e sta dominando questa escalation, grazie a successi e forti guadagni realizzati producendo in proprio serie tv e originali televisivi, ma soprattutto raggiungendo 50 milioni di abbonati via web (di cui 36 solo negli Usa) che, oltre a consentirgli di bypassare le tradizionali reti di distribuzione cinematografiche, gli stanno garantendo il primato in questo nuovo genere di intrattenimento. A premiate serie tv come «House of Cards» e «Orange is new Black», ora Netflix ha deciso di aggiungere la produzione del suo primo lungometraggio, il seguito
di «La tigre e il dragone» di Ang Lee, tanto per gradire. Questo spiega perché anche Amazon ha annunciato il suo esordio nella produzione cinematografica: Bezos ha convinto Woody Allen a realizzare un’intera serie di filmati. Negli stessi giorni in cui si captavano queste notizie riguardanti «cinema e tv su internet», cioè il passaggio dell’intrattenimento che sinora abbiamo visto in televisione o nei cinema sui display di computer, tablet e smartphone (rivoluzione che da noi deve ancora iniziare), anche un altro gigante di internet ha fatto sapere di voler esplorare nuove vie: Google è diventata azionista di riferimento della società Space X, azienda statunitense attiva nel ramo spaziale da una decina di anni! La sorpresa qui è ancora più grande. Già era difficile seguire le mosse di Jeremy Bezos, ma quelle del fondatore di Google, Larry Page, sono addirittura depistanti. Basti un semplice raffronto: Google decide un miliardario investimento nella Space X proprio mentre le speranze di
avviare un turismo spaziale sono scese al minimo dopo il tragico incidente di fine ottobre al prototipo della Virgin Galactica di Richard Branson. Di fronte all’imprevedibilità delle scelte di questi giganti di internet, le deduzioni da fare non devono necessariamente essere condizionate dagli zeri su cui si poggiano questi investimenti. I milioni di dollari di Bezos per il cinema e quelli di Page per lo spazio, in fondo, possono essere relativizzati se confrontati con le risorse finanziarie di Amazon e di Google. Assai più rilevante, a mio avviso, è che questi investimenti (Amazon porta cinema e tv sui display, Google trasmette, e ascolta, dallo spazio) siano orientati verso un’imprenditorialità vera che da sempre muove la storia industriale ed economica, quella fatta di progetti visionari nati dalla ricerca di «vie vicine», nella speranza di scoprirne qualcuna che sbocchi su viali ampi e apra orizzonti nuovi: gli stessi che Bezos diceva di sognare nella sua lettera agli azionisti.
In&outlet di Aldo Cazzullo Atene, l’anello debole In Europa governa una Grosse Koalition, una grande alleanza tra centrosinistra e centrodestra. All’Europarlamento socialisti e popolari sostengono insieme la commissione Juncker, che non è certo partita nel migliore dei modi: ombre sul presidente, e un piano di investimenti annunciato da 300 miliardi che sono in realtà 21. A Berlino la Grande Coalizione tra cristianodemocratici e socialdemocratici è ufficialmente insediata. A Roma no; ma fino all’elezione del presidente della Repubblica di fatto Renzi e Berlusconi avevano governato di comune accordo. Persino a Londra, dove la cultura maggioritaria e bipartitica è antica di secoli, c’è un governo di coalizione. In altri Paesi il sistema elettorale consente, come in Francia, a una forza che al primo turno vale il 27% di avere la maggioranza dei seggi in Parlamento e di governare da sola; ma si tratta di una forzatura che Hollande sta pagando cara. Un po’ dappertutto la destra e la sinistra tradizionali si sono quindi unite
per tagliare fuori le estreme. Ma ora questo schema sta saltando. La Grecia si conferma l’anello debole d’Europa, non solo sotto l’aspetto finanziario
Zig-Zag di Ovidio Biffi Anche i giganti possono sognare Da mesi, sia pure solo mentalmente, sto seguendo piste di dinosauri. Non quelli fatti rivivere da Steven Spielberg per il cinema, bensì una specie modernissima. Sono le grandi imprese di internet, legate all’informatica e all’elettronica, giganti che con le scelte verso cui orientano le loro immense risorse, ormai guidano, o perlomeno condizionano, gran parte delle strategie presenti e future della mondializzazione. I giganti seguiti negli ultimi tempi sono Google e Amazon. Quest’ultimo da sempre è stato uno dei più attivi nella ricerca di attività alternative, ma negli ultimi mesi ha incrementato le decisioni forse perché il suo geniale fondatore, Jeffrey Bezos, ha intuito che dopo venti anni innovare o perlomeno diversificare diventa una priorità. Quel che sorprende è il tipo di scelte. Ad esempio ci si chiedeva: che c’entra il commercio elettronico (Amazon distribuisce dai libri ai mobili, passando da videogiochi e cibi) con un giornale austero come il «Washington
Post» che Bezos ha acquistato (con un capitale relativamente modesto, ma con la tara di ingenti passivi annui) nel 2013? La domanda non ha avuto risposte esaustive. Qualcuno arrivò persino a ipotizzare che fosse non un investimento, ma un regalo per la moglie, Mc Kenzie Bezos, scrittrice che in quei giorni aveva pubblicato il suo secondo romanzo dal titolo Trappole. Invece che alla maldicenza, per capire la mossa di Bezos sarebbe stato meglio far capo all’ultima lettera ai suoi azionisti, in cui lasciava intuire che il suo spirito imprenditoriale lo spingeva a cercare di andare oltre il cliché di «maggior rivenditore su internet». Scriveva infatti Bezos: «La nostra tenacia di pionieri ci porterà a esplorare altre vie vicine, e, inevitabilmente, molte si riveleranno strade cieche. Ma – con un po’ di fortuna – riusciremo a trovarne alcune che si immettono su ampi viali». Così dopo il «Washington Post», ecco che ora si punta sul cinema, o meglio su un genere di intrattenimento che gli
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Cultura e Spettacoli Il nostro vivere a Soletta Film e documentari di qualità alle Giornate del Cinema, che quest’anno festeggiano i 50 anni
Quotidianità rivisitate Il duo di grafici e artisti Gysin & Vanetti propone una lettura insolita di oggetti... soliti
Made in Italy In Italia ormai il rap sembra l’unico genere in grado di portare un vento di novità
Il mondo piatto Una cena, un gruppo di amici e un cane fedele: la seconda parte del racconto di Genetelli pagina 38
pagina 34
Vendetta e conquista di Collezionisti di montagne una poltrona simbolica Teatro A Lugano Il ritorno a casa di Pinter, con la regia di Peter Stein Giovanni Fattorini
pagina 37
Il luogo in cui si svolge l’azione visibile di The Homecoming (commedia in due atti rappresentata per la prima volta nel 1965) è l’ampio soggiorno di una vecchia casa – zona nord di Londra – abitata da un nucleo familiare composto di quattro uomini: Max, Sam, Lenny e Joey. In scena, all’inizio, ci sono Max (ex macellaio di settant’anni, prepotente, collerico, aggressivo) e il figlio trentenne Lenny (che svolge attività imprecisate, ma quasi certamente poco commendevoli). Il loro dialogo, carico di tensione e costellato di reciproci insulti, è interrotto dall’arrivo di Sam (fratello di Max, sessantatré anni, chauffeur) e dal fratello venticinquenne di Lenny, Joey, che lavora per un’impresa di demolizioni e si allena per diventare un pugile. Entrambi (Sam in particolare) sono accolti da Max con parole sarcastiche. Come ha notato acutamente Laura Caretti in una nota pubblicata nel programma di sala del Teatro Metastasio di Prato – produttore dello spettacolo di Peter Stein che ha debuttato al Festival di Spoleto nel luglio del 2013 – sono questi i primi «ritorni a casa» della commedia Pinter.
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Il regista tedesco dedica grande attenzione ai dettagli e ai silenzi, realizzando così una pièce intensa
Sacca Sant’Elia 2011-2014 di Mariapia Borgnini alla Scuola Club Migros di Bellinzona, 2014.
Ritorni consueti, previsti, routinari. Del tutto imprevisto è invece il ritorno – che avviene nottetempo, dopo sei anni di assenza, mentre gli altri si trovano al piano superiore, nelle loro camere da letto – del primogenito di Max, il trentacinquenne Teddy, docente di filosofia in una prestigiosa università
americana. Teddy non è solo: con lui c’è Ruth, un’ex fotomodella che ha sposato prima di lasciare l’Inghilterra, all’insaputa dei familiari, e dalla quale ha avuto tre figli. Teddy rivede con emozione lo spazio domestico in cui ha vissuto per anni; Ruth invece sembra inquieta, poco propensa a trattenersi per qualche giorno. Al mattino, appena la vede, Max la prende per una prostituta e la insulta pesantemente, benché Teddy gli dica più volte che è sua moglie. Si placa soltanto quando viene a sapere che ha tre figli, che è madre. Laconica, enigmatica, Ruth diventa rapidamente l’oggetto del desiderio manifesto di Lenny e Joey, avvezzi a rapporti rozzi o addirittura brutali con le donne. Ignorando le parole di Teddy, che la invita fiaccamente a far ritorno con lui in America, Ruth sembra consentire liberamente e con piacere – in presenza del marito sempre più inerte – alle pesanti avances di Lenny e Joey. Per bocca di Teddy, Max e Lenny le chiedono di restare con loro. Poi le propongono un accordo: affitteranno un appartamento in centro, dove lei potrà guadagnarsi da vivere prostituendosi per qualche ora al giorno; dopo di che farà ritorno a casa per soddisfare le loro esigenze sessuali e prendere il posto di Jessie, la moglie-madre defunta. Avanzate alcune richieste che dovranno essere formalmente sottoscritte, Ruth accetta. L’immagine finale – Teddy se ne è andato – è la seguente: Ruth siede sulla poltrona rigorosamente riservata a Max. Con una mano accarezza i capelli di Joey che si è inginocchiato e ha posato la testa sul suo grembo. Sam è disteso a terra, colpito da un infarto. Lenny li guarda stando in piedi, immobile. Max si rivolge a Lenny per chiedergli se Ruth ha ben capito che non può tenersi solo Joey, che deve prenderli tutti e tre. È pronto a scommettere che lei vuole imbrogliarli, che si servirà di loro, che non si adatterà. Cade in ginocchio, geme,
singhiozza. Smette di singhiozzare e scavalcando il corpo di Sam striscia fino alla poltrona. Alza gli occhi verso Ruth e dice: «Non sono vecchio. Mi senti?». E sollevando il volto fino a lei: «Baciami». Il ritorno a casa è un testo di calcolatissima fattura, e di calcolatissima fattura è lo spettacolo costruito da Peter Stein insieme a sei attori splendidamente affiatati (Paolo Graziosi, Alessandro Averone, Elia Schilton, Antonio Tintis, Andrea Nicolini, Arianna Scommegna), tre dei quali facevano parte del folto cast de I demoni, la monumentale trasposizione dell’omonimo romanzo di Dostoevskij che il famoso regista tedesco (abitante da venticinque anni in Italia) ha realizzato nel 2010. Basta un quarto d’ora per rendersi conto di quanto grandi siano la sottigliezza, la sensibilità e l’attenzione con cui Peter Stein (curando ogni dettaglio; sottraendo al rischio di meccanicità e ridondanza le frequenti ripetizioni del parlato; riempiendo di piccoli gesti significativi i silenzi e le pause – le famose pause pinteriane) ha saputo trasformare in scrittura scenica fortemente realistica la peculiare artificialità della scrittura drammaturgica di Pinter. Il tema della famiglia come fonte di nevrosi e di psicosi emerge fin dal principio con chiarezza non didascalica insieme a quello della conflittualità tra i sessi. Nella lettura del regista, il disegno di Ruth è vendicarsi dei maschi oltraggiosi, ma Stein è troppo intelligente per far sì che l’interpretazione di Arianna Scommegna non presenti dei tratti di ambiguità, e per proporre un’immagine conclusiva che non sia – come sempre avviene nei drammi di Pinter – un’immagine «aperta». Dove e quando
Lugano, Palazzo dei Congressi, 3 e 4 febbraio.
Percorsi in trasparenza Arte Nella nuova sede della Scuola Club Migros di Bellinzona l’installazione di Mariapia Borgnini Alessia Brughera È da oltre mezzo secolo che la Scuola Club Migros, grazie al sostegno e al finanziamento del Percento culturale di Migros Ticino, svolge la sua attività di formazione e di promozione della cultura. Da poco è stata completata la ristrutturazione della sua nuova sede di Bellinzona e, come era già avvenuto negli anni passati per alcuni edifici ticinesi della Scuola, i lavori di rifacimento sono stati una preziosa occasione per inserire nello stabile una traccia d’arte permanente, un segno distintivo che potesse essere espressione degli obiettivi e degli intenti dell’istituzione. Ecco che gli spazi di Bellinzona accolgono così un’installazione artistica che diventa metafora dell’apprendimento, inteso come percorso imprescindibile per comprendere sé stessi e il mondo che ci circonda. Per realizzarla è stata chiamata Mariapia Borgnini, l’artista ticinese che ha già creato negli anni passati le opere nelle sedi della Scuola Club di Lugano e di Locarno.
A Lugano, l’intervento della Borgnini, compiuto nel 2003, traeva ispirazione dalle costellazioni e dalla poesia Il cielo di Wislawa Szymborska, e bene interpretava l’idea della conoscenza intesa come cammino che segue una direzione (una stella), come viaggio personale di consapevolezza e di apertura verso il mondo (nei versi della Szymborska si parla di un cielo che è «finestra senza davanzale, telaio, vetri. Un’apertura e nulla più, ma spalancata»). L’ideale prosecuzione di questo lavoro è stata l’installazione del 2007 per gli spazi di Locarno, in cui l’artista ha approfondito il concetto di formazione come itinerario che ci porta alla realizzazione di un sogno. Seguendo con coerenza e continuità il filo di questo discorso, si arriva poi all’opera di Bellinzona, del 2014, un intervento in cui il legame con l’apprendimento si esprime nel richiamo a una sorta di messa a fuoco di ciò che è stato fatto, a una coscienza degli obiettivi raggiunti da cui procedere verso nuove sfide. L’installazione bellinzonese diventa quindi emblema della possibilità, di
tutto ciò che ancora possiamo sperimentare, delle cose che abbiamo fatto e di quelle che ancora non abbiamo concretizzato, conducendoci verso una più ampia riflessione sul rapporto tra vita vissuta e non vissuta. Per risalire alla genesi di quest’opera bisogna però tornare indietro di qualche anno. Nel 2011 Mariapia Borgnini visita un’area privata sull’isola di Murano dove vengono raccolti gli scarti della lavorazione del vetro: questo fazzoletto di terreno incolto assediato dal mare si rivela per lei un vero e proprio tesoro. Qua e là, tra cani randagi che si muovono guardinghi e gabbiani che volano bassi quasi a vigilare sulla zona, l’artista scatta numerose fotografie con una macchina non professionale e preleva alcuni frammenti di vetro abbandonati. È questo il materiale che sta alla base dell’installazione di Bellinzona. L’artista realizza nuove fotografie nel suo atelier che hanno per soggetto i vetri raccolti a Murano e seleziona alcuni degli scatti effettuati durante la perlustrazione del posto. Le immagini ven-
gono stampate su una pellicola speciale che poi viene fusa attraverso un procedimento di cottura e infine impressa su piccole lastre delle dimensioni di una cartolina. I frammenti ritratti ritornano così a essere vetro e a rivivere nella loro trasparenza e lucentezza originarie. L’artista ha restituito loro la condizione primigenia e gli ha elargito una seconda possibilità per generare nuovi significati. Perché il vetro ben si presta a questa funzione: è un materiale che rispecchia, riflette, rinvia figure e visioni, e spesso rivela la limpida evidenza della realtà. Le oltre cinquanta formelle si dispongono con discrezione lungo i corridoi dei due piani dell’edificio della Scuola Club, piccole cartoline di luce a illuminare e segnalare un percorso. In alcune di esse compaiono piccoli vetri colorati tra trifogli e ciuffi d’erba, talvolta seminascosti nella natura selvatica, talaltra mimetizzati come fiori o insetti. Altri esemplari sono invece sguardi ravvicinati su cocci accostati fra loro, a creare quadri astratti in cui i frammenti vitrei paiono macchie
cromatiche intrise di bagliore, oppure sono ingrandimenti di particolari che creano forme dilatate inusuali, imitano paesaggi naturali o ingannano l’occhio sembrando materiali differenti. Emerge così il tema della ricerca e dell’esplorazione, ma anche quello dell’ambiguità tra dato reale e percezione. Quest’opera ci parla dunque di nuove occasioni e di ritorni, di opportunità scartate da riconsiderare, di quella capacità di scorgere e di riconoscere che diventa comprensione della vita e di noi stessi, proprio come lo stimolante cammino di scoperta e arricchimento che è l’acquisizione della conoscenza. Dove e quando
Installazione permanente di Mariapia Borgnini. Scuola Club Migros di Bellinzona. Piazza Rinaldo Simen 8, Bellinzona. Opera visitabile durante gli orari di apertura della scuola: da lu a gio 9.00-12.30/13.30-20.00, ve 13.30-18.30.
La scena conclusiva della pièce.
Pubblicazioni Un libro racconta i 140 anni
di vita del Museo della Montagna di Torino
Piero Zanotto Collezionisti di montagne. Suona come uno slogan il titolo del nuovo volume, come i sei precedenti edito in elegantissima veste da Priuli & Verlucca, voluto dal Museo Nazionale della Montagna «Duca degli Abruzzi» di Torino, per festeggiare i suoi centoquarant’anni d’esistenza sulla sommità del Monte dei Cappuccini, come dice Aldo Audisio nel suo testo di apertura, «il caratteristico colle che domina a levante la città, alto sulla sponda destra del Po». Slogan simpatico che ovviamente non è fine a se stesso. Racchiude sostanziosi contenuti. Insieme la storia con momenti di sofferenza via via superati sull’onda di sacrifici e convinti entusiasmi vissuti nei decenni dal Museo, oltre alla specificità del suo essere custode attivo di importanti «raccolte» di materiali testimoni oggettivi d’un infinito consapevole amore per le montagne del mondo. Audisio, direttore dal 1978 del Museo, dapprima «tecnico», quattro anni dopo «conservatore», firma il libro assieme a Veronica Lisino, producendosi in una serie di saggi che conducono per mano il lettore alla conoscenza «intima» del respiro sempre più a pieni polmoni di questa istituzione nata per urgente necessità sociale e culturale sulla spinta del Club Alpino Italiano nel 1874. Quell’anno, «una squadra di operai edificava un’edicola dotata di un telescopio ad uso del pubblico» la cui portata visiva era di oltre 100 chilometri. «La conoscenza del territorio era (allora) appannaggio esclusivo delle classi privilegiate». Sarebbe diventato utile supporto a coloro, la maggioranza della popolazione, in giorni in cui in Italia «l’obbligatorietà e la gratuita dell’istruzione elementare apparivano di là da venire». Dice ancora Audisio: «Il seme gettato diede ottimi frutti. Fu l’occasione buona per un museo che si occupasse delle Alpi, o meglio della montagna nazionale in genere. La così chiamata Vedetta Alpina sarebbe diventata realtà tre anni dopo con il nome di Stazione Alpina». Fornito il volume di un foltissimo materiale fotografico e illustrativo, raccoglie (curiosità!) anche quello del primo manifesto ufficiale del Museo in litografia, risalente al 1900, dovuto a Bonfiglioli, in giorni recenti divenuto soggetto di un francobollo delle Poste italiane. Sotto l’intestazione Vedetta Alpina mostra un escursionista
di spalle munito di zaino che guarda lontano attraverso il telescopio. Si accennava alle varie, anche rovinose, vicissitudini subite dal Museo. Un granello d’incenso (ricordo storico, tra i tantissimi) va a quanto disse in proposito Benito Mussolini nel 1942, a proposito della riapertura, dopo più di un lustro di chiusura per deperimento del manufatto, successivamente colpito da bombe incendiarie: «Gli italiani devono conoscere le loro montagne per saperle difendere». In giorni di guerra una delle prime donazioni al Museo fu quella dei cimeli del pioniere dell’alpinismo Mario Piacenza. Risalgono agli anni Settanta i lavori di ristrutturazione muraria e il concepimento (tra cospicue difficoltà economiche) di una organizzata prima area espositiva. Gaston Rébuffat, gloria dell’alpinismo transalpino, nel 1975 diede al Museo il ricavato delle vendite dei biglietti con la proiezione a Torino del suo film Gli orizzonti conquistati. Un inizio che ha portato il museo in anni vicini e a seguito di incessanti ricerche in tutti Paesi del mondo (condotte, posso testimoniarlo, con bel fiuto e appassionato impegno personale, da Aldo Audisio) a un raccolta straordinaria di materiali i più diversi: editoriali (libri riviste guide alpine), foto, film, video, manifesti, cartoline e figurine, giochi, oggettistica comprendente preziose ceramiche d’arte, quindi sculture lignee di paziente ingegno artigianale, centrini figurati di pizzo, ventagli pubblicitari, tele pittoriche e quant’altro di inesauribile curiosità ed eccezionale valore. Anche visori di diapositive storiche come quelle riferite alla spedizione antartica di Ernest Henry Shackleton del 1901-1904. Tutto frutto in variegata espressione alla conoscenza e vicinanza, con passione anche talora velata di sana ingenuità, della montagna. Molte le pubblicazioni in proprio, come il volume odierno, e le collane del Museo (celebre quella dei «cahiers»), sono ormai folte di titoli. Taluni a supporto culturale e documentario di mostre allestite al suo interno e divenute itineranti, tutte bene elencate. Il loro utilizzo è nella così detta area espositiva permanente, quindi a rotazione nelle sale riservate alle esposizioni a rotazione e temporanee. Con spazio in esclusiva per la videodidattica. Si può curiosarne gli interni (e contenuti) attraverso le molte chiare foto riprodotte nel volume in più sequenze.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 02 febbraio 2015 ¶ N. 06
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Cultura e Spettacoli
Belli e ignoti Arte La mancanza di fondi e di amore per opere inestimabili, non permette,
in occasione di Expo, di riscoprire i Bronzi di Riace Eliana Bernasconi Non li troveremo all’Expo come invece avrebbero voluto la Regione Lombardia con il noto critico Vittorio Sgarbi (che all’Expo del resto si diceva pronto a portare anche la Venere di Botticelli), ma la polemica ha infiammato i quotidiani italiani della scorsa estate: «I Bronzi» diceva Sgarbi, «sono simboli della civiltà universale della Magna Grecia, sono beni che appartengono allo Stato, l’operazione di portarli a Milano avrebbe un riscontro economico enorme, porterebbe ossigeno al patrimonio più grande d’Italia, una risorsa che non è sfruttata e ha bisogno disperato di finanziamenti, ne deriverebbe un vantaggio per la Calabria, dove in pochi si spostano per vederli». «Sono delicati e intrasportabili, correrebbero dei rischi», dicevano altri. «La tecnologia odierna può trasportare tutto», si rispondeva ancora. In realtà con l’avvento della pittura su tela arrotolabile, è dal 1500 che le opere d’arte viaggiano ovunque ma non esiste in Europa e soprattutto in Italia una normativa univoca in proposito. Recentemente il ministro Franceschini ha presentato la grande offerta culturale che dall’Expo irradierà in tutta Italia e ha annunciato che con Alitalia si sta studiando un potenziamento dei voli per la Calabria per rendere agevole lo spostamento dei visitatori dell’Expo. Le persone che al momento si recano a Reggio Calabria per ammirare i Bronzi di Riace sono davvero
poche e tranquille, nessun affollamento, come si racconta succeda al Louvre, dove le folle si accalcano inquadrando e scattando davanti alla Gioconda. Al Louvre gli ingressi nel 2001 avevano fruttato 5,1 milioni di euro, nel 2013 sono saliti a 9,3. Per restaurare il Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria, ricchissimo di materiali straordinari che non sono esposti, rimasto chiuso o quasi chiuso per diversi anni, ci sono voluti 32 milioni e si dice che oggi gli incassi siano sugli 840 euro al giorno. Da poco è stata approvata in Italia una riforma che darà maggiore autonomia finanziaria ai musei. In questo museo si è chiaramente in deficit, ma siamo in Calabria: due secoli fa, quando Palermo, Napoli e la Puglia prosperavano ed erano al centro del mondo, questa era la misera terra dei briganti e dell’Aspromonte, e il passato viene ancora scontato. Forse per questo, il 16 agosto del 1972, nel tratto del mar Ionio antistante il piccolo comune di Riace Marina, a circa 200 m dalla costa emerge un dono per ricordare alla Calabria che 2000 anni prima ospitava lo splendore dei templi della Magna Grecia, che Pitagora e i suoi allievi percorrevano le strade di Crotone. Un sub, o così almeno si racconta, avvista le statue dei due Bronzi alla profondità di 8 metri, e tutto il mondo si accorge del sensazionale ritrovamento, (anche se è noto che le coste dell’Italia meridionale racchiudono un immenso patrimonio archeologico sommerso, tutto da scoprire).
Si racconta di file lunghissime di visitatori davanti al Museo Archeologico che attendevano di entrare per ore nella polvere della strada. Subito dopo il ritrovamento dei Bronzi un’equipe di tecnici lavora alla ripulitura fino al 1975, quando si decide di trasferirli nel Centro di Restauro archeologico della Toscana. Qui iniziano nuove operazioni di pulizia, di conservazione delle superfici esterne e svuotamento dalla terra. Le statue vengono radiografate attentamente e per sei mesi sono esposte al Museo archeologico di Firenze, da dove si spostano alla volta del Viminale a Roma, per poi ritornare a Reggio nel 1995, dove si conclude l’operazione di restauro con strumentazioni tecnologiche avanzatissime. Il Museo però è in ristrutturazione e le cose procedono con lentezza. I Bronzi sono fatti riposare al buio e finalmente dopo tre anni si arriva a una nuova esposizione. Al momento solo tre sale del Museo Archeologico di Reggio Calabria sono visitabili, ma si spera in una riapertura per l’estate 2015. La sala che ospita i Bronzi ha un sistema di controllo del clima e del tasso di umidità che evita ogni corrosione. Prima di entrare si sosta per tre minuti in una sala di decontaminazione; le statue sono collocate su piedistalli in marmo antisismici, un sistema ingegnoso le fissa al pavimento con aste e cavi di acciaio e regola e controlla qualsiasi moto ondulatorio orizzontale o verticale. I Bronzi sono imponenti con la loro altezza che supera i due metri. Ma
chi erano, e da dove provenivano? Dalla Grecia, dalla Magna Grecia o dalla Sicilia? Purtroppo probabilmente non lo sapremo mai, come non sapremo rotta e destinazione della nave, se vi fu naufragio o le statue furono scaricate in mare per evitarlo. E chi rappresentavano? Le città o le comunità che allora celebravano i propri dei, guerrieri o eroi erano moltissime. Si è anche ipotizzato trattarsi di un carico di commercio di opere d’arte e antiquariato, si è infatti scoperto che una delle statue subì un intervento di restauro databile a secoli dopo, cioè al primo secolo dell’era romana. Entrambe le statue con un braccio reggevano uno scudo e con l’altro un’arma andati perduti. Uno dei due personaggi porta un elmo corinzio. La prima statua, databile a metà del V secolo a.C., per la rigidità classica dell’impostazione dei piani del torace, è attribuita alla scuola di Fidia, mentre la seconda presenta una singolare spontaneità della postura, una torsione naturale di tronco e gambe, che la fa avvicinare agli scultori di anni successivi. I riccioli del personaggio più giovane ricadono sulle spalle, attorcigliati e curatissimi, elaborati come la barba; la bocca ha labbra in rame, le iridi dovevano essere pietre preziose o pasta vitrea, si è conservato solo l’occhio destro. Per la costruzione di simili statue, dall’argilla alla fusione a cera persa, la stessa tra l’altro che si pratica ancora oggi nelle fonderie, occorrevano lunghi tempi di lavorazione. Ma loro, i Bronzi, non
Uno dei due Bronzi di Riace esposti a Reggio Calabria.
hanno mai avuto fretta, nel loro luccicante metallo, nudi, maestosi e bellissimi, guardano lontano con indifferenza. I visitatori li contemplano dal basso silenziosi e intimiditi, loro non fanno una piega, sanno aspettare e sfidare i millenni: lo hanno dimostrato. Sullo splendido lungomare di Reggio Calabria, davanti al Museo archeologico il vento soffia per loro. Dove e quando
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Cultura e Spettacoli
Sobrietà e temi forti
Testimonianze che rafforzano la memoria
come il cinema svizzero abbia un vigore tutto suo
Visti in tivù Molti
Giornate di Soletta Tra lungometraggi e documentari il festival dimostra
Nicola Falcinella Tre film su anziani che non aspettano altro che morire, tra i titoli più in vista. Quasi un paradosso nell’anno del 50mo delle Giornate di Soletta. L’appuntamento annuale con il meglio del cinema svizzero, che a metà anni ’60 fu espressione di un clima di fermento e lanciò la generazione dei Tanner, Goretta, Seiler e degli altri dell’allora «nuovo cinema svizzero», ha celebrato il suo mezzo secolo. Una festa sobria, accompagnata da una retrospettiva dei lavori più significativi presentati in passato, da Charles mort ou vif di Alain Tanner a Höhenfeuer di Fredi M. Murer e Matlosa di Villi Hermann. La molto ampia selezione sulla produzione recente ha presentato i titoli più in vista dell’anno passato o in arrivo sugli schermi, come Dora oder Die sexuellen Neurosen unserer Eltern di Dora Werenfels, che sarà al festival di Berlino, Cure di Andrea Štaka o Fuori mira del ticinese Erik Bernasconi.
Le Giornate di Soletta rappresentano un’interessante occasione di lettura del presente È stato accolto da calorosi applausi Vecchi pazzi di Sabine Boss, produzione zurighese-ticinese, girata tra Locarno e Milano. A un’ormai anziana soubrette (Andrea Jonasson, la moglie di Giorgio Strehler in una sua rara apparizione cinematografica) è diagnosticata una sclerosi a placche e la figlia (Lucia Mascino) la costringe ad abbandonare il teatro nel quale cercava ancora di esibirsi e a ritirarsi in una casa di riposo. Non accetta la nuova sistemazione, si offende alla proposta di cantare nel coro dell’ospizio, ma incontra il burbero coetaneo Carlo
(Luigi Diberti) con il quale architetta un piano, matrimonio compreso, per salvare la vecchia sala da ballo che il nipote dell’uomo (Leonardo Nigro) vorrebbe abbattere per costruirci uno stadio. Una commedia ben scritta e diretta, con grande attenzione ai dettagli, alcuni momenti esilaranti (soprattutto con le ceneri della moglie di Carlo) e molto ben interpretata. Un bel piccolo film sulla fine di un mondo è Stella Ciao di Vito Robbiani, dove il titolo dice molto. Un ritratto del ristorante pensione Stella d’oro di Tenero fino alla demolizione e del suo gestore, il cinquantenne d’origine sarda Silvio. Circa un anno e mezzo in questo universo, un alloggio centenario, sempre più circondato di palazzoni e sempre meno frequentato dai turisti. Silvio, emigrante egli stesso, decide di ospitare anche immigrati in attesa di permesso e con loro instaura un rapporto di grande umanità. Robbiani ha trovato un bel personaggio e un tema complesso, e li tratta senza retorica, senza banalizzazioni, rifuggendo formule televisive, dando il giusto spazio alla figlia quattordicenne cresciuta dentro lo Stella d’oro e agli avventori. Commedia sugli anziani è Liebe und Zufall del grande Fredi M. Murer, a partire da uno spunto autobiografico di sua madre. Anche qui torna il teatro: è la loro domestica che, dopo 20 anni di servizio, decide di cimentarsi nella recitazione a cambiare gli equilibri in una coppia di pensionati, che hanno ancora qualche conto da regolare con il passato. Angela che riscopre il gusto per la vita è interpretata da Silvana Gargiulo giustamente sopra le righe. Il tema torna in Usfahrt Oerlike di un altro cineasta di lungo corso, Paul Riniker. L’amicizia tra due anziani, tra dissidi con i figli e preoccupazioni su come morire, il tutto trattato con leggerezza. Altro nome consacrato è Richard Dindo, che ha adattato Homo Faber – Drei Frauen dal romanzo di Max
i programmi sul piccolo schermo per ricordare la Shoah
Antonella Rainoldi
Immagine tratta da Dora oder die sexuellen Neurosen unserer Eltern.
Frisch. Monologo interiore di un uomo di mezz’età alle prese con tre donne importanti della sua vita: l’amore di gioventù Hanna, la modella Ivy che ha appena lasciato a New York e la giovane Sabeth che conosce in nave. Un film malinconico e cinico e ironico, pieno di vita e riflessioni sulla coppia, sull’amore, sull’età. Le donne non pronunciano parole, ma, filmate dal protagonista stesso, trasmettono intense emozioni. Esordio molto interessante è Chrieg di Simon Jacquernet, una guerra degli adolescenti contro gli adulti mostrata con uno stile energico e personale. Matteo è un sedicenne zurighese problematico portato in una comunità sulle Alpi che dovrebbe essere di cura e che invece è una base per le scorribande di una banda giovanile. Molto ben diretto, con le facce giuste, difetta di qualche piccolo elemento di verosimiglianza che lo renderebbe ancora più forte. Parte in chiave di commedia e
prende una piega drammatica, perdendosi un po’ per strada, Koch di Ralf Huettner. Il giovane cuoco d’origine srilankese Maravan è cacciato da un ristorante di Zurigo e sogna di gestirne uno proprio. Inventa così un «Love Food» per coppie in crisi e anziani ricchi, utilizzando le ricette insegnategli dalla nonna con effetti afrodisiaci. Ma un cliente è un trafficante d’armi che vende anche nello Sri Lanka dilaniato dalla guerra tra Tamil ed esercito. Tra i documentari merita Kühe, Käse und 3 Kinder – Vacche, formaggio e tre bambini della regista engadinese Susanna Fanzun: tre fratellini dai tre agli otto anni d’estate su un alpeggio nei Grigioni con i genitori. Sorprendente è Christian Schocher Filmemacher di Marcel Bächtiger e Andreas Müller sul quasi sconosciuto regista (da ricordare Reisender Krieger del 1981) e gestore del Cinema Rex a Pontresina.
Tre eroi sfortunati Cinemando Un Oscar annunciato, la rivelazione russa di Locarno e l’ultimo Ken Loach
Fabio Fumagalli **(*) The Imitation Game, di Mark
Tykdum, con Benedict Cumberbatch, Keira Knightley, Matthew Goode (Stati Uniti – Gran Bretagna 2014) Quanto intelligente può essere una macchina? È un’interrogativo che in assenza di risposte trasformerebbe il mondo in cui viviamo in qualcosa di diverso. Ed è quello che si è posto per primo il matematico e crittografo britannico Alan Turing. Al riservatissimo professore di Manchester dobbiamo anche un altro aspetto della nostra sopravvivenza: è grazie a lui, infatti, che la Seconda Guerra mondiale ha finito per prendere la piega che sappiamo. La Germania nazista possedeva Enigma, una macchina unica al mondo, assolutamente inviolabile, che inviava codici indecifrabili alle truppe d’assalto tedesche. Nello scetticismo generale, nella diffidenza crudele e perversa di un ambiente ancora vittoriano, allo scienziato asociale riuscì il miracolo: costruire quello che può essere considerato il primo computer, il passo decisivo verso l’intelligenza artificiale. L’aspetto era quello di un gigantesco scatolone pieno di cavi e rotelle che permise al britannico di Bletchey Park d’infrangere i codici. Nell’Inghilterra di allora la riconoscenza era lungi dall’essere pari alla
Benedict Cumberbatch nella locandina di The Imitation Game.
tolleranza: omosessuale (un crimine in Gran Bretagna fino al 1967), l’eroe fu condannato alla castrazione chimica. Morì suicida nel 1954, morsicando una delle sue predilette mele, nella quale aveva iniettato del cianuro. Vicenda appassionante, che il regista norvegese Mark Tykdum filma con fervore, dedizione e uno stile decisamente accademico. The Imitation Game gode però di una marcia in più, l’interpretazione del protagonista. Straordinariamente mutevole e concreta, imperscrutabile e fragile, la presenza di Benedict Cum-
berbatch è di una umanità toccante. Privarlo dell’Oscar sarà quasi impossibile.
*(*) Jimmy’s Hall, di Ken Loach, con
**(*) Durak (The Fool) , di Yuri Bykov, con Artyom Bystrov, Natalia Surkova, Dmitry Kulichkov (Russia 2014)
Ken Loach ritorna in Irlanda e ai riferimenti storici che non sempre (L’agenda nascosta, Carla’s Song; con l’eccezione della Palma d’Oro 2006, Il vento che accarezza) sono stati fra le cose che gli nascono con la formidabile naturalezza dei soggetti di analisi contemporanea. Da sempre, il maestro dell’intimismo sociale è unico quando deve rappresentare dei comportamenti. Assai meno, quando cerca di convincere seguendo delle tesi. Jimmy’s Hall è il ritratto di un socialista emigrato che ritorna al paese nel 1932. Aiuta la madre, e vorrebbe rimettere in sesto una sala da ballo incendiata durante la guerra civile: bella figura di eroe semplice, d’estrazione contadina ma di idee libertarie acquisite nel suo soggiorno negli Stati Uniti. E bella come sempre è la generosità di Ken Loach. Ma è il cinema del maestro coraggioso e geniale dell’osservazione sociale, un tempo così immediato, a farsi un po’ telefonato e didascalico. E la battaglia anche giovanilmente musicale e sentimentale dei simpatici protagonisti nei confronti delle istituzioni, dei reazionari e della Chiesa finisce per trascinarsi con qualche fatica.
C’è uno stabile fatiscente attraversato da una immensa crepa nel quale vivono a rischio 800 persone in Durak, bel film russo, solido e significativo, uno dei migliori in assoluto visti a Locarno l’estate scorsa. E c’è un idraulico, onesto, nel mezzo della perpetuata corruzione di marca post-sovietica, che si è intascato i soldi destinati al restauro. Un idealista, che non solo non viene preso sul serio quando avverte chi vuol ascoltarlo del terribile crollo che incombe. Ma viene sbeffeggiato, addirittura pestato nel corso della lunga notte durante la quale cercherà di sensibilizzare tecnici e politici intenti a gozzovigliare. Al suo terzo film e all’interno di una scrittura abbastanza tradizionale, Bykov calca un po’ i toni, specie quando sottolinea l’arretratezza avvinazzata e a dire poco becera degli inquilini o quando il suo thriller politico-edilizio sconfina in un umorismo nero un po’ facile. Ma il protagonista Artyom Bystrov è molto bravo; e che il tono generale non si dimentichi del loro Gogol di certo non guasta.
Barry Ward, Simon Kirby Jim Norton (Gran Bretagna 2014)
«Non dobbiamo mai dimenticare cosa è stato Auschwitz. Sono passati settant’anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e dall’Olocausto. Le persone che ricordano in prima persona quel periodo sono sempre di meno. Spetta a noi, della generazione successiva, mantenere viva la memoria di quei terribili anni della storia europea». Sono le parole pronunciate dalla presidente della Confederazione, Simonetta Sommaruga, in trasferta ad Auschwitz, dove i grandi del mondo si sono raccolti per commemorare l’anniversario numero settanta della liberazione del campo di sterminio nazista. Insieme a loro trecento internati risparmiati dalla morte, trecento testimoni dello strazio, trecento voci capaci di aprire squarci d’intelligenza. La tv ha fatto molto per tenere viva la memoria. La scorsa settimana c’è stato tutto un fiorire incessante di proposte: film, dibattiti, cerimonie, inchieste, testimonianze. Per evitare di perderci nella quantità dell’offerta, e magari rischiare la visione incrociata, martedì abbiamo deciso di assistitere a tre appuntamenti distinti: la diretta mattutina di Raitre dal Quirinale, il film Il diario di Anna Frank, in prima serata su RSI La 2, e il documentario Auschwitz, premiers témoignages, in terza serata su Arte. Tutto contribuisce a ricordare lo sterminio di milioni di ebrei nei lager nazisti, tutto concorre a mantenere in vita il ricordo della tragedia umana della Shoah, ma nel processo di conservazione della memoria nulla ha la forza della testimonianza. Lo sosteniamo da tempo, e dal settantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz la nostra convinzione esce rafforzata. Particolarmente interessante il documentario su Arte. In Auschwitz, premiers témoignages, Emil Weiss ha raccolto le testimonianze di quattro sopravvissuti: Suzanne Birnbaum, Robert Levy, Robert Waitz e Mark Klein. E ha tentato di ricostruire il quotidiano della vita del campo di sterminio. Se dovessimo tradurre la nostra esperienza, dovremmo parlare di effetto cross event. Le baracche, il filo spinato, gli strumenti di tortura, i vagoni della morte, i morti accatastati: sembrava di assistere a Mystères d’archives: 1945. Ouverture des camps en Allemagne, di Serge Viallet e Cédric Lépée, o a Nazi concentration camps, di Georges Stevens. Con la testimonianza la memoria è meno fragile.
Un fotogramma dal documentario Auschwitz, premiers Témoignages.
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Cultura e Spettacoli
Due di due Mostre La prima personale del duo Gysin e Vanetti a Porza, visibile fino all’8 marzo 2015 a Villa Pia premiati nel 2013 da Pro Helvetia con la pubblicazione di una monografia nella collezione Cahiers d’artistes – ripensano oggetti della quotidianità ricollocandoli in un nuovo contesto, indicando così all’osservatore nuovi possibili significati o funzioni, come accade per le carte da gioco in Come quando fuori piove o per le composizioni di cartelli stradali, un’idea già sviluppata per un progetto di arte urbana, o ancora in Ostacoli, opera costituita da decine di barriere ippiche accostate a formare un enorme quadro astratto. Che il gioco sia una cosa seria, come hanno dichiarato i due artisti ticinesi qualche tempo fa in un’intervista televisiva, lo aveva già ribadito Bruno Munari, emblematico esempio del connubio fra arte e scienza. Forse resta ancora da capire quale sia il punto di forza della coppia di artisti che si sta affermando sulla scena contemporanea locale, al di là di un indubbio impatto visivo: se la riflessione sociopolitica che caratterizzava i concretisti come Bill e Lohse o gli interrogativi quasi filosofici propri di Munari, l’artista – è stato scritto in occasione di una recente mostra – che si prendeva gioco «dei dogmatismi della razionalità».
Emanuela Burgazzoli L’ironia, il rapporto con le nuove tecnologie e lo spazio, la varietà di supporti e formati, l’interattività e l’importanza del ruolo dell’osservatore: nelle opere dei giovani Andreas Gysin (1975) e Sidi Vanetti (1975) sembrano convergere molte caratteristiche dell’arte prodotta nel corso degli ultimi decenni. Se si spinge idealmente lo sguardo oltre le sale di Villa Pia si intravvedono tracce dello spirito dadaista e modernista, dal Bauhaus fino alla video art, passando per l’arte concettuale e digitale, fino al concretismo di Max Bill e Bruno Munari. Alla predilezione per le arti applicate e al gusto per la composizione, legata alla loro formazione di grafici, si aggiunge una fascinazione per i numeri, che siano algoritmi matematici o programmi informatici che si traducono in geometrie, come nella serie di serigrafie esposte (cfr. The puddle) o in opere cinetiche – in movimento – come quelle realizzate espressamente per la mostra (la prima personale del duo) curata da Tiziana Lotti Tramezzani per la Fondazione Erich Lindenberg. Ne è un esempio Digits, opera in cui un pannello per le stazioni di benzina è stato trasformato in un quadro digitale, in cui si succedono composizioni geometriche; in questo caso l’impulso elettronico, di un software, si traduce in movimento meccanico, come accade già per Colourflap, un’opera realizzata qualche anno fa per
Oggetti della quotidianità ripensati: un esempio di opera di Gysin & Vanetti.
un edificio pubblico a Locarno. Analogo il procedimento che sta alla base dell’installazione Fari, in cui gli oggetti seguono movimenti sincronizzati, come in un balletto di piccoli robot. Opere che presuppongono un lavoro analitico che richiama i procedimenti
seguiti da Richard Paul Lohse, altro esponente di spicco del concretismo elvetico, che già negli anni Quaranta del secolo scorso aveva sviluppato una pittura geometrica modulare e seriale a partire da diagrammi numerici; «dietro di noi si situa la tradizione
della tecnica, davanti a noi il campo di una flessibilità illimitata e di nuovi ordinamenti», scriveva l’artista zurighese. Nelle loro installazioni e composizioni Gysin e Vanetti – che collaborano insieme dal 2000 e sono stati
Dove e quando
Gysin & Vanetti. Due più due diviso due per due meno due. Porza, Villa Pia. Orari: ma 10.00-18.00; do 14.0018.00; www.fondazionelindenberg.org Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Per accontentare tutti Musica La «grande musica» dei Simple Minds: nell’ultimo lavoro della band scozzese, l’amore per la propria arte
si fonde con la difficoltà di reinventarsi dopo tanti anni di carriera
Benedicta Froelich Nel corso degli anni 80, l’ambito del pop-rock internazionale cosiddetto «da stadio» ha visto salire alla ribalta nomi che hanno finito per divenire, nell’immaginario popolare, sinonimo di qualità e costanza; alcuni di essi, come gli elefantiaci U2 o i Queen, sono assurti a uno status pressoché mitico, ormai dato per scontato dall’opinione pubblica. Altri, quali l’ottima band scozzese dei Simple Minds, hanno preferito evitare di autoproclamarsi portavoce di intere generazioni, accontentandosi piuttosto di raggiungere un buon successo commerciale e portare avanti la loro produzione musicale con il massimo impegno possibile. Difatti, nel corso degli ultimi vent’anni, il gruppo di Jim Kerr non ha mai smesso di pubblicare dischi – alcuni dei quali probabilmente non memorabili, ma sempre comunque caratterizzati da una grande professionalità e onestà; e oggi, dopo cinque anni di silenzio, questo nuovo lavoro del gruppo, Big Music, appare animato dal medesimo spirito. Salutato da molti critici come il miglior album dei Simple Minds da molto tempo a questa parte, fin dal primo ascolto il disco mostra senz’altro un carattere stilistico ben preciso: l’intero CD sembra infatti privilegiare la ricerca dell’arrangiamento «perfetto» tramite un attento e accurato studio delle sonorità elettroniche ora
predilette dalla band – una scelta sintomatica della tendenza che la musica dei Simple Minds ha seguito in questi ultimi anni, distanziandosi da quel gusto vagamente anni 80 di cui erano intrisi i più grandi hit del gruppo: i ritmati arrangiamenti a base di tastiere e sintetizzatori hanno ormai lasciato il posto alla contaminazione elettronica, poiché Kerr e i suoi sembrano ora concentrati sull’obiettivo di fondere il proprio, riconoscibile stile melodico con atmosfere in puro gusto electropop. Un approccio paradossalmente non attualissimo, che pervade l’album fin dal brano di apertura, Blindfolded – in qualche modo sintomatico del rischio da sempre implicito nella scelta di concentrarsi su di un’unica e ben precisa connotazione stilistica: ovvero, quello di creare un prodotto che, per quanto ben bilanciato ed eseguito, appaia alla lunga un po’ monocorde. Ciò si avverte soprattutto in brani un po’ ripetitivi come Concrete and Cherry Blossom o Spirited Away, la cui linea melodica manca alquanto di inventiva; mentre l’incipit di Honest Town sembra addirittura tratto da un disco dei Depeche Mode, a conferma dell’ormai totale dedizione della band al sound elettronico. Va meglio con brani dalle liriche più personali e ricercate (come Blood Diamonds e Human) o, ancora, dallo spirito dichiaratamente «amarcord», come Broken Glass Park – il cui testo anela alla nostalgia per i bei tempi an-
La copertina del disco.
dati e che, forse proprio per questo, si rifà al passato anche dal punto di vista musicale, rispolverando le ariose melodie dei tempi di Once Upon a Time (1985). Sulla stessa linea è anche Midnight Walking, che rappresenta il classico esempio di ballatona suggestiva di cui il gruppo di Glasgow è maestro; anche se spiace notare che non ha la stessa forza espressiva mostrata in passato da brani del calibro di Glittering Prize o All the Things She Said. Il che
dimostra come quest’album, costantemente in bilico tra l’effetto nostalgia e il desiderio di affidarsi completamente alle sonorità elettroniche, non riesca ad assumere una connotazione stilistica definita: tanto che perfino la ritmata ed epica title-track non riesce a emozionare davvero l’ascoltatore, pur richiamando subito alla mente pezzi storici come Promised You a Miracle o Ghostdancing. Forse il problema di Big Music
sta proprio nel fatto che i Simple Minds hanno tentato di incidere un disco che potesse piacere a tutti, dai fan di vecchia data alle nuove generazioni di potenziali ascoltatori; e non si può negare che si tratti di un lavoro molto ben realizzato, dagli arrangiamenti e la produzione eccellenti, ed effettivamente impeccabile sotto molti punti di vista. Tuttavia, per i «vecchi» fan dei Simple Minds – coloro che hanno vissuto i momenti più epici della carriera del gruppo, innamorandosi di brani storici come Alive and Kicking o Belfast Child – resta una vaga insoddisfazione, dovuta al fatto che l’album sembra mancare di brani veramente memorabili; di conseguenza, Big Music finirà forse per accontentare soprattutto gli amanti del pop-rock di classe, i quali non potranno che rimanere piacevolmente colpiti dalla qualità degli arrangiamenti e dall’ottimo equilibrio nella strumentazione elettronica. Del resto, non per niente i Simple Minds hanno ben trent’anni di carriera e di innegabile competenza alle spalle; così, pur non potendo davvero accusare quest’album di manierismo, è legittimo augurarsi che Jim Kerr e compagni riescano a impossessarsi nuovamente di quella grinta e sensibilità quasi viscerali tipiche della produzione giovanile dei Simple Minds – proprio quegli elementi che, a tutt’oggi, restano il motivo chiave per il quale la band è rimasta nel cuore di tanti appassionati. Annuncio pubblicitario
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Quest’anno la natura ha fatto i capricci. Non ubbidisce ai nostri standard di qualità. Con questa pagina vorrei parlare in prima persona a chi conosce e apprezza la nostra qualità. In Italia la recente produzione di olio extra vergine di oliva è stata compromessa da un andamento climatico sfavorevole. Scarseggiano le olive sane ed integre per produrre un buon olio extra vergine così come lo intendiamo noi Monini, ovvero con gli alti standard qualitativi per i quali ci conoscete. Per questo abbiamo deciso di riservare l’eccellenza dello scarso raccolto italiano al GranFruttato, e di dedicare l’accurata selezione dei migliori oli dell’Unione Europea al nostro Classico e al Delicato. Sicuri così di garantire quell’elevata qualità alla quale vi abbiamo abituato.
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Cultura e Spettacoli
Dov’è il suono contemporaneo?
Idee coraggiose per musica diversa
Musica 1 Da poco pubblicati i nuovi dischi di Marracash,
con progetti originali e anche sorprendenti
Giovanni Allevi e Carmen Consoli Zeno Gabaglio Martedì 20 gennaio 2015: cosa può aver significato di speciale questa data? Quale congiunzione astrale ha reso tale giorno – in mezzo alla settimana, in mezzo al mese, lontano da qualsiasi momento topico del calendario – imprescindibile per i discografici italiani? Un tempo si diceva che i dischi dovessero uscire circa un mese prima di Natale, per approfittare della propensione al regalo. O appena prima dell’estate, per tentare di trasformarsi in un irrinunciabile tormentone. O tutt’al più al rientro dalle vacanze estive, quando il mondo si rimette in moto, e con esso le abitudini socio-culturali. Il 20 gennaio, però, non l’ha mai citato nessuno come momento discograficamente saliente, ed è quindi perlomeno curioso che tre delle uscite più attese (da pubblici e con motivi completamente diversi) per il 2015 italiano, siano capitate in questo stesso insignificante giorno. Forse i discografici – ormai allo sbando conclamato – si sono rivolti per miti consigli al medesimo rabdomante. O forse qualche divinità del marketing deve aver sentenziato l’inevitabile successo del 20 gennaio, un po’ come quando dicono che il colore del 2017 sarà certamente il verde cinabro. Giovanni Allevi – Love
«La gente mi ferma per strada e mi conforta. La creatività fa paura, perché la cultura dominante in questo Paese è passatista, congelata. Il presente è indecifrabile, misterioso, giovane». Pace all’anima sua, verrebbe da dire, perché con queste parole che accompagnano l’uscita del suo nuovo (si fa per dire) disco, Allevi rivela una volta di più quella che è la sua autentica colpa: la presunzione. A proposito del pianista italiano più discusso dell’ultimo decennio il critico Quirino Principe aveva espresso una significa tautologia «Allevi è quello che è», come a dire che se esiste qualcuno così – buono o cattivo che sia – di sicuro un motivo c’è, e perciò ci tocca tenercelo. Il problema risiede però
La cantautrice siciliana Carmen Consoli.
nel fatto che sia lo stesso Allevi a spacciarsi per qualcun altro, a proclamarsi (unico?) erede di Mozart e Beethoven e latore della (sola?) musica classica contemporanea, prendendosela però nel contempo con la cultura passatista. Lui, che di nuovo non fa assolutamente nulla, che come autore ribadisce senza originalità cent’anni di easy listening, che nella propria musica non riesce a mettere nulla di «indecifrabile, misterioso, giovane», che in quanto a tecnica pianistica dimostra meno sensibilità di un molosso adagiato su una tastiera. Carmen Consoli – L’abitudine di tornare
Malgrado un’attesa relativamente lunga (sei anni dal precedente album, che dovrebbero significare tanto tempo per la ricerca, la ricarica, la rigenerazione artistica) non è nemmeno quello di Carmen Consoli un disco che ci possa dare il polso sul nuovo suono del 2015. La cantautrice siciliana ribadisce sì il suo personalissimo contributo alla componente testuale della canzone (il termine arte qui può tranquillamente essere usato senza spropositi) con un approccio intimistico e comunque oggettivo, emotivo ma anche sociale. Il suono però – cioè quell’elemento che dovrebbe costituire almeno il 50% del valore creativo di una canzone – non racconta nulla
di speciale, nulla di nuovo. Per le scelte musicali questo disco potrebbe anzi risalire a dieci o vent’anni fa; e qui forse si spiega il «tornare» del titolo che opportunamente non è un «progredire». Si potrà dire che è un vizio del cantautorato italiano, quello di procedere con le parole ma non con i suoni; e se si pensa a Guccini la linea effettivamente è quella. Se si punta un poco più in alto e si pensa a de André, però… Marracash – Status
Può apparire fin troppo facile, ma se davvero si vuole respirare un po’ di aria (musicalmente) fresca è inevitabile rivolgersi al genere più vivace, più creativo e più diffuso dell’attuale musica italiana, vale a dire il rap. Tra gli esponenti di punta – con un percorso discografico già ricco di produzioni, di successi e di ripensamenti – c’è di sicuro il rapper siciliano Marracash, cresciuto nei sobborghi scuri di Milano e marchiato a fuoco da una visione gangsta della società. Tanta aggressività, quindi, nel suo nuovo disco, ma anche tanta intelligenza produttiva che si rispecchia – per fare un unico esempio – nel sincretismo stilistico di una traccia come Don, da cui emergono insospettabili incroci di ritmiche, elettronica, ottoni ed effetti speciali. Qualcosa di finalmente plausibile per il suono del 2015.
Festival a teatro, il formato migliore Jazz Per l’edizione dei 18 anni la rassegna
Musica 2 Produzioni discografiche ticinesi
La passione per la musica può far succedere cose strane. E quando ciò succede in Ticino vale la pena di segnalarlo, in particolare se gli esiti di questi avvenimenti danno luogo a produzioni discografiche di ottimo livello. Può capitare ad esempio che il direttore di un festival, grande conoscitore del jazz, scopra una propria vena di talent scout e investa le proprie energie intellettuali (e anche economiche) nella produzione di un album discografico. Ne nasce un disco inatteso, davvero sorprendente, tanto più che ne è protagonista una cantante pop della giovane generazione italiana. La quale a sua volta sembra scoprirvi una propria predisposizione verso il jazz e la canzone americana d’autore. Può capitare, poi, che uno stimato cantautore di casa nostra, ottimo musicista e compositore, si lasci trascinare dalla propria passione per gli strumenti esotici ma ancora di più per gli incontri con mondi musicali extraeuropei e faccia uscire uno degli album più sorprendenti che il Ticino abbia dato alle stampe negli ultimi anni. Cominciamo dal primo. Da Amici a JazzAscona: l’idea che Nicolas Gilliet aveva avuto due anni fa proponendo alla giovane cantante italiana Karima di partecipare al festival asconese, poteva sembrare un azzardo. Come conciliare la potente vena pop-soul della giovane vocalist con la necessaria
preparazione tecnica e culturale che richiede il repertorio jazz? L’esperienza in realtà si era dimostrata perfettamente centrata. Ed anzi, aveva fatto frullare nella mente di Gilliet un’idea peregrina... che si è ora realizzata con il bellissimo album Karima Sings Bacharach. Un disco nato completamente in studio, in una sessione di registrazione simile a una performance live: e la tecnica efficace di Mauro Fiero ne ha saputo conservare tutta la magia. Ascoltandolo, vi sembrerà insomma di essere davanti ad un piccolo palcoscenico, e che Karima e i suoi partner stiano suonando esattamente per voi una compilation dei più bei brani del grande compositore e arrangiatore americano. Altrettanto vivo, anch’esso registrato d’impulso, nel corso di un cocerto live, l’album Una nuova forza di Marco Zappa. Accompagnato da un suo nuovo trio in cui militano amici musicisti dei Balcani, Zappa ci propone un repertorio vivace, caldo e pieno davvero di nuova energia, da stupire. Il disco in qualche modo è opposto ai suoi album precedenti, così ben preparati, limati nel minimo dettaglio ma alla fine, forse, meno coinvolgenti. Questo nuovo disco, in cui fanno capolino anche nuovi strumenti, ritmi e sonorità, è sicuramente una pietra miliare nella sua produzione, un album spontaneo e ricco, pieno di vita. /AZ
La cantante italiana propone un omaggio al compositore americano.
Nuovo gruppo, nuovo disco e nuove ispirazioni per il cantautore ticinese.
Top10 Libri
Top10 CD
1. Jeff Kinney
1. Marco Mengoni
Diario di una schiappa Sfortuna nera, Castoro
di Chiasso torna alle origini
Parole in circolo 2. J-Ax
2. Massimo Gramellini
Il bello d’esser brutti / Novità
Avrò cura di te, Longanesi 3. Claudio Baglioni
Sarà forse una predisposizione dei jazzofili, ma per chi ama questa musica la nostalgia è spesso in agguato dietro l’angolo. Sedetevi ad un tavolo di appassionati: dopo un attimo li sentirete raccontare di
Il programma Giovedì 5 febbraio
20.30 Randy Weston African Rhythms Quartet 22.30 Shayna steele Band Venerdì 6 febbraio
20.30 Craig Taborn Quartet 22.30 Maria Joao & Ogre 24.00 Kiku Sabato 7 febbraio
20.30 Nolan Quinn Quintet 22.30 Bireli Lagrene Gypsy Quartet 24.00 The Apples A seguire: Dj set Cybophonia
quello stupendo concerto di Zawinul a Umbria Jazz nel 1979, o di quella meravigliosa serata a Milano nell’81 in cui Chet Baker aveva fatto scattare in piedi la platea del Capolinea. La notizia che il prossimo Festival Jazz di Chiasso tornerà ad occupare gli spazi del Cinema Teatro di Chiasso ha fatto sospirare più di uno di noi. Nel 1998 il festival di Chiasso era «nato» per il teatro, uno stabile allora in condizioni abbastanza precarie, il cui il futuro era tra l’altro non del tutto chiarito (solo nel 2001 si arriverà al suo restauro dopo non poche traversie). Il primo festival si chiamava Who Shot Miles Davis, e presentava musicisti del calibro di David Grossman, Gianlugi Trovesi e David Murray. La sala del teatro era arredata in modo futuristico da un gruppo di allievi dell’architetto Zumthor. Nel 1999 sarebbe seguita un’altra edizione altrettanto memorabile, 56 Balene per Mingus, dedicata al grande contrabbassista a 20 anni dalla sua scomparsa (sul palco tra gli altri i mitici Oregon). Poi tutto si sarebbe sposta-
3. Umbero Eco
D’amore (2 CD)
Numero zero, Bompiani 4. Tiziano Ferro 4. Michel Houellebecq
TZN - Best of (2 CD)
Sottomissione, Bompiani / Novità 5. Gianna Nannini Il pianista Randy Weston, uno dei grandi della musica nero-americana.
5. Wilbur Smith
to nei magazzini delle ferrovie FFS. Ma di quelle serate a teatro, trascorse in una specie di bagnomaria musicale, in un’atmosfera di grande, accogliente intimità che rendeva piacevolissimo l’ascolto ci è rimasto, lo confessiamo, un grande rimpianto. Avremo quest’anno l’occasione di «vivere» il teatro e goderci la sua ottima acustica con un programma di eccellente livello. La lista dei ricordi nostalgici, temiamo, si arricchirà di un’annata in più da rievocare nelle discussioni tra amici a venire. /AZ
6. Markus Zusak
Hitalia
Il Dio del deserto, Longanesi 6. Modà
Info e prezzi
www.chiassocultura.ch
Storia di una ladra di libri, Sperling
2004-2014 L’originale (2 CD) 7. Radio Italia
Love 2015 (2 CD) / Novità 7. Alberto Angela
I tre giorni di Pompei, Rizzoli
8. Vasco Rossi
Sono innocente 8. John Grisham
I segreti di Gray Mountain Mondadori 9. Gianrico Carofoglio
La regola dell’equilibrio, Einaudi 10. John Green
Colpa delle stelle, Rizzoli
9. Pino Daniele
Titoli vari 10. Pink Floyd
The Endless River
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Cultura e Spettacoli
Col cane dietro Il racconto Del bisogno di partire per dimostrare che la Terra è piatta, con un cane per amico – Seconda parte Imboccarono la Bavona a caso, con però l’idea di essere a Robiei per la sera, ignari di alcune cosette: distanza, dislivello e agguati d’ospitalità. Infatti, quella valle è nota per la rudezza solitaria di chi osa viverci, ma al contrario di altri selvatici, quelli della Bavona hanno animo socievole. A Sabbiom, nello svoltare a sinistra e mentre pensavano di essersi tirati avanti per benone, furono fermati da un tipo corpulento che teneva in una mano un osso di seppia e nell’altra un coltello. «Devo farci un oggetto in argento», disse l’uomo, come per scusarsi. E per scusarsi ancora di più, imbandì la tavola di sasso e sotto tutti a mangiare e a bere e, tranne il cane, a fumare. A metà pomeriggio il mondo era stato rifatto una decina di volte, sempre con la stessa conclusione: è piatto. Con destinazioni irraggiungibili, almeno per quel dì, si arresero agli agi. Robiei mica scappava, e a Sabbiom c’era festa, in mezzo a prati e boschi, con musica, griglia e alcol. Inutile perdere altro tempo a contare i giorni o i chilometri. «Conta la conquista, il sentire e il ragionare» disse a Glauco, con una costina in mano. Il cane assentì, ingordo. Poi, il corpulento che di nome faceva Fosco, rivelatosi un grande artista sconosciuto a molti e tra quei molti ovviamente Melchiade, salì su un masso e annunciò l’avvento del nuovo Tolomeo. «Chi è?» chiese Melchiade a Glauco, confondendo le idee al cane. Sotto, si era radunato in un lampo un parterre divertito e giovane, come se gnomi e fate fossero schizzati fuori
La copertina del racconto, pubblicato da ANAedizioni, disegnata da Gabriele Zeller.
dai boschi. Gnomi alticci e fate che… «Minchia», pensò Melchiade, mettendo in secondo piano la scienza. Fosco strattonò sul masso il giovane mezzo inebetito ma in chiaro che il nuovo Tolomeo era lui, nonostante le persistenti ombre su chi fosse quello vecchio. Dall’alto, quei giovani coloravano il buio. Si schiarì la gola, partì con una vaghissima escursione nel mondo dell’arte, come per compiacere el padron da cà, e poi cavalcò la furia bizzarra della sua scienza, suscitando entusiasmi tali da non sembrare veri. Fu interrotto con delicatezza almeno dieci volte per la consegna di altrettante birre in lattina, dono di ignoti ammiratori, e anche se non le bevve tutte concluse il comizio col serbatoio carico. «È piatta!». Mentre il popolo sotto esplodeva in urla, fischi, abbracci, cori, Melchiade tenne la mascella protesa in avanti per mezzo minuto buono, come a incitare il furore delirante che sempre accom-
pagna le grandi scoperte o precede le grandi catastrofi. La sera divenne notte e la notte divenne scoperta, e tra le scoperte una rossa di nome qualcosa come Mariapaola o Mariastella, chi lo sa, una ninfa sinuosa e profumata, con tutte le labbra che si schiudevano per poi risucchiare l’anima del viandante e condurla in inferni roventi che la Monteforno è niente. Una ninfa che il giorno dopo nemmeno si ricordava di come potesse essere capitata lì, lei che abitava a Montagnola. A Melchiade, stavolta, la mascella di cui sopra cadde un po’, scheggiando il cuore. Si era fatto tutti i suoi progetti. Fosco gli batté una manata sulla schiena. «Fa così con tutti» disse, come se fosse una consolazione. Alle due del pomeriggio erano a Robiei, terrorizzati dagli strapiombi sotto la teleferica. A Glauco tremavano le zampe, a Melchiade tutto. La sera, nel fieno di una stalla, dubitò sui
bordi terrestri. Dormì male, tra insicurezze scientifiche e sentimentali, fino al primo tenue e salvifico chiarore. Ora che erano lì, in quell’aurora splendente, bisognava prendere una decisione che salvasse la dignità della scienza e che nel contempo fosse una prova d’amore per tutte le mariepaole o le mariestelle presenti sulla focaccia chiamata Terra. Glauco capì. Partirono silenti, arrivarono al ghiacciaio, lo percorsero cauti e inadatti, trovarono ancora pietre sicure, aggirarono crepacci, cavalcarono creste, in alto e ancora di più, con la fatica a maciullare i tendini. E poi il Basodino, infine. Tremila metri di altezza regale, ma sembravano diecimila. «Guarda Glauco! Si vede Catania di là». E di qua, bello largo sulla sinistra, un vuoto burronesco oltre l’immaginazione. «Se ha il fondo la Terra è rotonda.
Se non lo ha è piatta. Vediamo chi ha torto, stronzi». Con la ragione della scienza e l’incoscienza dell’amore, saltò. Col cane dietro. / © Giorgio Genetelli Biografia
Giorgio Genetelli è nato nel 1960 a Preonzo, luogo di molte sue storie. Falegname, giornalista, scrittore, blogger e libertario a tempo pieno. Tra le sue opere, il romanzo Il becaària, pubblicato nel 2010 per ANAedizioni, e due raccolte di poesie dialettali nella collana Leporello. Anche lui, da Carèe. Informazioni
Coordinate per abbonarsi ai racconti del collettivo Arbok Group: impressione.anaedizioni@gmail.com (Franco Lafranca, tel. 079 655 96 26) giorgiogene@bluewin.ch (Giorgio Genetelli, tel. 078 807 92 10) http://arbokanaedizioni.blogspot.com Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta Una telecamera in redazione Dobbiamo prepararci a cantare il De Profundis per il quotidiano in versione cartacea? È un fatto che il giornale perde giorno dopo giorno il suo appeal verso le nuove generazioni. Nella mia famiglia di origine ci strappavamo l’un l’altro di mano il giornale; di modeste condizioni economiche, padre operaio tipografo e madre pettinatrice, con due figli, nonna e cognata in casa, i soldi per acquistare il giornale si sono sempre trovati. Per essere il primo a leggerlo mi offrivo di andarlo a comprare in edicola. Mio padre lo teneva bene, ripiegava i fogli e li stirava con il palmo delle mani; mia madre lo sbranava, lo appallottolava, ne strappava delle pagine per metterle da parte. Ora in famiglia è rimasta una sola persona alla quale devo contendere il privilegio di essere il primo a leggere il quotidiano: mia moglie. Mi impressiona dover constatare che nessuno dei miei tre figli, di età fra i 40 e i 48 anni, e ancor più dei miei nipoti adolescenti, nutra la minima curiosità di sapere cosa c’è su quei fogli che mi vedono scorrere
avidamente. Nel mio condominio, abitato da famiglie di professionisti, dirigenti, pensionati benestanti, siamo rimasti in due ad acquistare un quotidiano. Venticinque anni or sono iniziai a curare una rubrica settimanale sulla cronaca locale e quando andavo a fare la spesa nel mio quartiere trovavo sempre qualcuno che mi aveva letto e voleva commentare le mie opinioni. Ora non più, è finito il tempo in cui in ogni famiglia di Torino trovavi una copia della «Stampa». Per spiegare il calo d’interesse, gli analisti mettono in campo molte spiegazioni. Una riguarda il prezzo dei giornali cresciuto più di ogni altro prodotto: su un libro dei conti del 1968 trovo che il giornale allora costava 60 lire, ora è aumentato di 50 volte. Il mio stipendio di funzionario era di 180 mila lire. Moltiplicato per 50 e tradotto in euro, sarebbe ora di 4650 euro. Mi hanno raccontato che a Napoli gli amministratori del maggior quotidiano della città, «Il Mattino», hanno notato che, pur con i dati di vendita in calo costante, gli inserzio-
nisti non protestavano chiedendo una diminuzione delle tariffe. Nello stesso tempo, c’erano nelle rese molte copie che sembravano essere state lette, qualcuna anche con macchie di caffè e di sugo. Fatta un’indagine è risultato che molte edicole affittavano le copie del «Mattino» per 10 centesimi ai privati e per 20 ai titolari dei bar, con l’impegno di restituirle prima della chiusura dell’edicola. Un’altra spiegazione mette in campo il linguaggio giornalistico che sarebbe troppo difficile per la maggioranza dei lettori, stando anche al risultato dei test di comprensione. Di contro le uniche testate che in Italia hanno i bilanci in attivo sono i giornali sportivi e loro sono una palestra di linguaggio criptico e barocco che esige dal lettore una forte comunanza semantica. Provate a leggere la cronaca relativa a uno sport di cui sapete poco o niente e poi ditemi cosa avete compreso. Da ragazzi, all’inizio della nostra carriera di lettori ci siamo imbattuti in frequenti metonimie e poco per volta abbiamo imparato a risolvere i rebus. Leggendo
«via Solferino non è di questo parere» il lettore si chiede come può una via avere delle opinioni, se non sa che quello è un altro modo per citare «Il Corriere della sera». Il Lingotto stava per Fiat, il Colle per il Quirinale, viale Mazzini per la direzione della Rai, ecc. A proposito di Rai, su invito di Paola Marchesini, direttrice dei programmi di Radio 2, ho potuto trascorrere un’intera giornata negli studi di via Asiago 10 a Roma, mentre stavano andando in onda le trasmissioni in diretta della rete dedicata all’intrattenimento. Avevo già qualche sospetto, ma lì ho potuto toccare con mano la rivoluzione in atto in un settore considerato superato dalla televisione. Grazie a internet e alla diffusione virale dei social network i programmi sono diventati uno strumento di condivisione pressoché totale. Da anni, con l’uso massiccio del telefono, gli ascoltatori erano già diventati quasi coautori in certi programmi come «Il ruggito del coniglio»; i conduttori lanciano un tema che si presta a narrazioni umoristiche e da casa (o dall’ufficio) si rispon-
de felici di essere stati messi in linea. Un ulteriore passo in avanti è consistito nel dotare gli studi di una telecamera web, trasformando il programma in una diretta televisiva; di conseguenza la radio ascoltata sul computer è anche vista, perciò il livello di attenzione sale di un gradino. Non basta ancora: un programma come «Un giorno da pecora» ovviamente è anche su Facebook, perciò gli ascoltatori possono in tempo reale scrivere i loro commenti su quello che stanno vedendo; non saranno letti al microfono ma visti su uno schermo dai conduttori in studio. Tutti coloro che sono collegati possono a loro volta entrare in gioco, creando una comunità attiva di ascolto, in pratica un club. Avete presente la famiglia di Woody Allen seduta in religioso silenzio attorno all’apparecchio in Radio Days? Sembrano trascorsi secoli. Secondo il mio parere, la riscossa dei giornali passa dal coinvolgimento attivo dei lettori, ben oltre le lettere al direttore. Prima o poi qualcuno avrà l’idea di installare le telecamere in redazione.
un progetto intelligente ideato, se così si può dire, da una mente divina, che dopo il Big Bang ha affidato l’universo alle precise leggi che noi faticosamente stiamo scoprendo e mai comprendiamo fino in fondo: la fisica dei quanti e la teoria della relatività, come Einstein sapeva bene, non scuotono i «diritti» di Dio, è l’uomo piuttosto che si è visto franare sotto i piedi le certezze su spazio e tempo. Certo si potrebbe obiettare che così si rischia l’errore rimproverato a Cartesio da Pascal, che accusava il filosofo del metodo di aver dato a Dio solo il compito di costruire il mondo e poi di lasciarlo andare, come un orologiaio che costruisca un orologio, gli dà la carica e poi se ne disinteressa. Il disinteresse di Dio per il mondo risulta inaccettabile da molte religioni, ma si potrebbe rispondere all’obiezione dicendo che, come l’esistenza di Dio, così anche e a maggior ragione, la sua presenza nel mondo e la sua misericordia e provvidenza non sono certo frutto
di dimostrazioni scientifiche basate su sillogismi ed esperimenti. Quindi, senza eccessivi sforzi, si poteva arrivare a uno stimolante accordo di base, dialetticamente aperto a chiarificazioni e nuove proposte sulla nostra conoscenza del mondo, di Dio, dello spazio e del tempo. Ma il Board School del Kansas non ha avuto né tempo né spazio per affinare le idee, quindi con metodo salomonico ha deciso: pari lezioni per creazionismo ed evoluzionismo, pari opportunità per i ragazzi che poi da adulti decideranno di chi fidarsi, se fare un atto di fede verso la proposta di coloro che vogliono solo l’intervento divino all’origine della specie, e chi invece preferisce accettare di discendere da organismi monocellulari, pesci, volatili e infine scimmie. Come ho appena scritto, si tratta pur sempre di un atto di fede, anche l’evoluzionismo duro e puro lo richiede, perché non tutto tutto è dimostrabile scientificamente (per esempio perché io so che devo morire
e il mio criceto no?). Quel ragazzaccio di Henderson se la prende proprio su questo: fede per fede, io credo nel Flying Spaghetti Monster, il Mostro di Spaghetti Volante. I contenuti del credo sono una trasposizione di generici riti religiosi alla devozione per un enorme, invisibile, intelligente forchettata (senza forchetta) di spaghetti con le polpette. Già qui si ribellano la mente e la pancia dei veri cultori dello spaghetto, gli italofoni. Polpette? Che se le mangino gli americani, con gli spaghetti, a dimostrare la perniciosa tendenza anglosassone a usare della pasta come di un contorno alla carne. Ragazzi, il gioco è simpatico, alzare la posta sulla sospensione dell’incredulità, ma mi cadete sul culto dello spaghetto, vergogna. E, soprattutto, mi rovinate dei bravi ragazzi impegnati in politica, che lo scolapasta se lo mettono in testa davvero, non hanno capito che è uno scherzetto senza dolcetto.
sono opposti e la questione ha preso la via giudiziaria. Sarebbe stato meglio che prendesse la via del buon senso. Per esempio, quello di molti linguisti, come il presidente dell’Accademia della Crusca Claudio Marazzini, che sostengono quanto sia importante che l’insegnamento venga impartito nella lingua nazionale: l’imposizione diffusa dell’inglese come lingua basica, e l’abbandono della lingua madre nelle scuole e/o nelle università, rischierebbe di nuocere non solo sul piano culturale, ma anche sul piano economico. Senza peraltro dare grandi vantaggi, visto che comunque si tratterà pur sempre di un inglese inferiore a quello parlato dagli anglofoni per nascita: accettare indiscriminatamente il primato dell’inglese (senza negare l’ovvia necessità di apprenderlo) significherebbe rassegnarsi alla marginalità della propria cultura e del proprio ruolo politico e scientifico.
Prima di tutto viene la salute, dicevano le nonne. Prima di tutto sarebbe bene studiare la propria lingua, possederne tutte le strutture, le sfumature e le potenzialità espressive. E se guardiamo il sito del Politecnico di Milano si esce rafforzati in questa convinzione. Un istituto che vuole rinunciare alla propria lingua madre, promette 35 corsi di laurea magistrale, «di cui la maggior parte erogati in lingua inglese». Dunque si erogano lezioni come fossero l’utenza del gas o dell’acqua! VeryBello! Poi si informa lo studente che i 25 corsi di laurea sono «articolati su più sedi» (articolati su). In compenso viene annunciato, tutto rigorosamente in italiano (in un certo italiano), un Open Day, viene descritto un Polishop, viene presentato un Career Service, viene proposto un MobilePoliSel, viene segnalato un Virtual Desktop, viene offerto un Guided Tour per chi voglia immatricolarsi. Se, come anche
i più pessimisti possono presumere, qualche studente straniero (magari anglofono) pensasse di iscriversi al Politecnico di Milano e andasse a cercare informazioni nel sito, rimarrebbe però deluso: perché sotto la voce International Students troverà non più di due frasi in inglese (ma sarà davvero inglese?) e stop. E cliccando su Find out more, che promette notizie più dettagliate, si imbatterà in un implacabile Page not found, chiarissimo anche ai non anglofoni. Ciò detto, si avverte che il Politecnico di Milano «richiede la conoscenza obbligatoria della lingua inglese a livello indicato nella tabella 1» e che senza presentare la certificazione «non potrai immatricolarti anche a seguito di valutazione positiva». Anche a seguito? Sì, sì, anche a seguito. Intanto, nel dubbio, valutazione negativa (3–) all’italiano del Politecnico milanese. Quanto all’inglese, si vedrà. Awanagàna!
Postille filosofiche di Maria Bettetini Io credo in un’unica pasta Niko Alm sulla patente ha una foto con uno scolapasta capovolto sulla testa. Christopher Schaeffer è diventato consigliere comunale: ha giurato fedeltà alla Patria indossando uno scolapasta come copricapo. Le autorità rispettivamente austriache e statunitensi hanno consentito a Niko e a Christopher di mantenere in testa quello che è stato fatto passare per un simbolo religioso. E parliamo di Austria e Stati Uniti, non dell’isola di White o delle spiagge di Goa, dove lo spirito hippie aleggia ancora. La vicenda è interessante, aggiunge brio alle stantie considerazioni sulla libertà religiosa. Interessante la vicenda e ormai diffusa, anche Niko Alm è diventato deputato, e anche una ex-pornostar, Asia Lemmon, ha ottenuto la patente col nome legale di Jessica Steinhauser, scolapasta incluso, nello Stato conservatore dell’Utah, dove sette su dieci abitanti sono mormoni. Forse proprio per questo le leggi consentono cappelli e copricapi solo se indossati per
motivi religiosi, così la direttrice della Driver Licence Division di Hurricane non ha avuto nulla da obiettare, anche perché negli ultimi anni le era già capitato di dover esaudire una richiesta simile da parte di almeno una dozzina di persone, tutte seguaci del Pastafarianesimo, la religione parodistica fondata in Kansas nel 2005 dal fisico americano Bobby Henderson. Il ragazzo, allora venticinquenne, venne a sapere che nelle scuole del Kansas erano diventate obbligatorie lezioni di «creazionismo», per controbilanciare quelle sull’evoluzionismo: da una parte l’idea di un disegno intelligente del mondo, dall’altra la casualità che poi avrebbe portato all’evoluzione di cui siamo l’esito. L’errore, in questo caso è all’origine, ab ovo. Infatti se gli americani fossero meno estremisti, avrebbero da un po’ capito che le due tesi non sono affatto contraddittorie. Nulla vieta a un credente di accettare l’evoluzionismo come modalità di svolgimento di
Voti d’aria di Paolo Di Stefano VeryBello e awanagàna! «VeryBello!» è il sito che il Ministero italiano della Cultura dedica ai percorsi e alle manifestazioni in occasione dell’Expo. «VeryBello!» è stato giustamente sbeffeggiato nei social network, perché un nome così è davvero ridicolo, tanto più se si pensa che il portale è solo in lingua italiana, mentre dovendo promuovere la cultura italiana all’estero sarebbe bene che avesse anche, almeno, una versione in inglese. In realtà, nella pagina d’apertura c’è una verybella didascalia in inglese, «1000+ Cultural Events», ma niente di più. Evidentemente il ministro Franceschini vuole riprodurre l’eterno stereotipo raccontato da Alberto Sordi in Un americano a Roma (5½) e incarnato da quel Nando Meniconi, il cow boy in salsa romana, che gira caracollante sotto er Cupolone con il cinturone, le borchie e il cappello da baseball dicendo «oràit» e «awanagàna». Se lo slogan voleva essere una
cosa seria, è grave (3). Ma è ancora più grave (2) se la scelta di «VeryBello!» si propone di essere autoironica, visto che la satira del mito americano risale al dopoguerra (il film di Steno è del 1954) e il famoso That’s Amore di Dean Martin, contaminazione al rovescio, è del 1952. Senza dimenticare che anche Tu vuò fa’ l’americano del grandissimo Renato Carosone (6–) risale al 1956. Dunque, dopo sessant’anni siamo ancora fermi all’esibizione, chissà quanto consapevole, di un complesso d’inferiorità culturale che se prima faceva ridere adesso fa piangere. Non un passo avanti né nella produzione di stilemi promozionali né nella considerazione di sé. Possibile? Very possibbol! Del resto, la vicenda dell’insegnamento in inglese al Politecnico di Milano è approdata alla Corte Costituzionale. Il rettore aveva deciso di adottare la lingua inglese per le lezioni di secondo livello e di dottorato. 150 professori si
Giorna ta sugli sci per tut ta * .– 5 8 r. f li so la famiglia a atoriale { Giornaliera { Pranzo { Gara am Medaglia { Regalo Famigros e Swiss-Ski, *Of ferta esclusiva per i membri di a fr. 85.– invece di fr. 110.– per famigli
Calendario 2015 8 febbraio 2015 14 febbraio 2015 15 febbraio 2015 21 febbraio 2015 22 febbraio 2015 1° marzo 2015
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 02 febbraio 2015 ¶ N. 06
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Idee e acquisti per la settimana
shopping Voglia di bollito misto? Attualità Una preparazione che conferisce
alle carni un sapore e una tenerezza impareggiabili. Gli esperti macellai di Migros Ticino sapranno consigliarvi i tagli che meglio si prestano a questo metodo di cottura
La bollitura è una tecnica di cottura in umido ideale per le carni ricche di tessuto connettivo. Biancostato, lesso, geretto, aletta – i tradizionali tagli del manzo –; ma anche spalla di vitello, pancetta, luganighe, cotechino, lingua e pollame, con questo metodo risulteranno particolarmente teneri e gustosi dal momento che l’aroma proprio della carne viene esaltato e non alterato. L’aggiunta di un osso con midollo permette inoltre di ottenere un brodo finale ancora più saporito. I pezzi più grassi come salsicce e pancetta, come pure quelli affumicati, vanno cotti separatamente, solo in acqua, senza aggiungere altri ingredienti. Il classico trio di verdure da aggiungere al brodo è composto da porro, carote e sedano; ma andrebbero aggiunte solo una mezz’oretta prima della fine della cottura della carne per evitare che si sfaldino. Indispensabile è poi il bouquet d’aromi, p. es rametti di prezzemolo e timo, foglie d’alloro o rosmarino; il tutto da legare attorno ad un pezzo di por-
ro. Perfetta anche una cipolla infilzata con alcuni chiodi di garofano. Le pentole più indicate per il bollito devono essere ampie e con il coperchio per evitare l’evaporazione di troppi liquidi; idealmente di acciaio inossidabile per una buona conduzione del calore. La cottura: immergere la carne e gli aromi nell’acqua in leggera ebollizione e farla sobbollire dolcemente nella pentola semicoperta fino al termine della cottura. Schiumare regolarmente. È sempre difficile definire i tempi esatti di cottura. Il giusto grado di cottura dei pezzi più grandi si raggiunge quando, infilzando nella carne una forchetta, quest’ultima entra facilmente e si estrae senza porre resistenza (ca. 75 min. per ogni kg di carne). Per le luganighe ci vogliono 30 minuti, mentre per il cotechino 60 minuti, cuocendoli in acqua calda ma non bollente e bucherellandoli al termine della cottura. Servire la carne con mostarda di frutta, patate lesse, le verdure utilizzate per il brodo, maionese o salsa verde.
L’accompagnamento ideale La mostarda di frutta della Sandro Vanini di Rivera è l’immancabile complemento ad un ricco piatto di bollito misto. Nel rispetto della genuinità e degli alti standard qualitativi, la Sandro Vanini propone delle mostarde di frutta lavorate a mano secondo la migliore tradizione che mantengono inalterate la fragranza naturale della frutta e il profumo pungente dell’olio essenziale di senape. Il loro gusto intenso, dolce e piccante, oltre che con i bolliti, si sposa bene anche con molti altri cibi quali formaggi, salumi, pollame e pesce. La gamma annovera la mostarda mista in pezzi e il tris di mostardine puré fichi, ananas-curry e pere.
Mostarda di frutta 290 g Fr. 5.20
Tris di Mostarde puré 3 x 80 g Fr. 9.50
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Idee e acquisti per la settimana
Ortaggi invernali: buoni e salubri Attualità I cavoli si caratterizzano per le loro virtù nutrizionali e culinarie. Sugli scaffali dei nostri
supermercati al momento ne trovate una grande scelta
I cavoli, in generale, sono ricchi delle importanti vitamine C, K, B, nonché di sali minerali come ferro, potassio, calcio e altri elementi essenziali. Questi ortaggi ipocalorici sono inoltre benefici in caso di affezioni delle vie respiratorie, disturbi urinari, anemie, oppure, sotto forma di cataplasma, possono aiutare ad alleviare i sintomi di otiti, infiammazioni della gola, dolori articolari e punture d’insetti. Ma i cavoli sono molto apprezzati anche in cucina grazie alla loro versatilità. All’acquisto devono essere chiusi, senza chiazze brunastre. In frigorifero si conservano fino ad una settimana. Vediamone insieme alcuni. 1 Cavolini di Bruxelles: devono il nome al fatto che vennero coltivati per la prima volta proprio nella regione di Bruxelles, nel diciottesimo secolo. Si consumano previa cottura in poca acqua salata. Non conservare vicino a frutta che sprigiona etilene, come le mele.
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2 Verza: si consuma sempre cotta ed è ricca di acido folico. È l’ingrediente per eccellenza della «cazzöla», il tipico piatto invernale della regione insubrica a base di parti di maiale e verza. 3 Romanesco: il broccolo romanesco si distingue per la sua forma bizzarra e il colore verde-giallo. Si cuoce spesso intero e lo si serve tale quale. Mantiene il colore durante la cottura. 4 Broccolo: originario dell’Asia Minore, è facilmente digeribile è spicca per il suo gusto delicato che ricorda al contempo l’asparago e il cavolfiore. 5 Cavolfiore: ha un sapore di cavolo poco pronunciato. Può essere consumato anche crudo. Aggiungere all’acqua di cottura un crostino di pane o una foglia di alloro per attenuarne l’odore. 6 Cavolo bianco: ha una forma sferica, con testa soda e compatta e foglie lucide. Si può consumare sia cotto – brasato, al vapore, stufato – sia crudo tagliato finemente in una sfiziosa insalata invernale. È ricco di fibre alimentari.
Gratin di verdure minuti. Non devono essere troppo morbide. Scolate, passate sotto l’acqua fredda e fate sgocciolare bene.
Contorno per 4 persone
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Marka
Ingredienti 300 g di cavolfiore 300 g di broccoli 300 g di romanesco sale burro per la forma 3,5 dl di latte 3 uova 1 cucchiaino di curry Madras 3 grissini o bastoncini al burro 1 cucchiaio di formaggio grattugiato
2. Scaldate il forno a 170 °C. Imburrate una forma per gratin. Sistemate le rosette nella forma. Sbattete il latte con le uova e il curry e salate il composto. Sbriciolate i grissini e mescolateli con il formaggio. Versate il composto di uova sulle verdure e cospargete con il mix di grissini e formaggio. Infornate per 15-20 minuti. Tempo di preparazione ca. 20 minuti + cottura in forno 15-20 minuti
Preparazione 1. Dividete il cavolfiore, i broccoli e il cavolo romanesco in rosette. Lessatele in acqua salata per 5-7
Ricetta di
Una festa anche per il palato Attualità I bigné di Alain Savaris
addolciscono il carnevale
Il paese del carnevale
Lo sapevate che la Svizzera possiede una densità di carnevali tra le più elevate al mondo? Si ritiene infatti che nel nostro paese ve ne siano addirittura oltre duecento. Tra quelli più conosciuti possiamo citare, oltre Gottardo, quelli di Basilea e Lucerna; mentre nella Svizzera italiana da questa settimana si entra nel clou dei festeggiamenti con i carnevali di, solo per citare i più noti, Roveredo (3-8 febbraio); Lugano (11 febbraio); Bellinzona (12-17 febbraio); Chiasso (12-17 febbraio); Biasca (18-21 febbraio) e Tesserete (19-21 febbraio). Il nome carnevale deriva dal termine latino «carnem levare» (eliminare la carne), e rappresenta l’ultima possibilità di far festa prima dell’inizio dell’astinenza della Quaresima, che inizia il mercoledì delle ceneri, ossia il giorno successivo al martedì grasso, per la durata di quaranta giorni.
Bigné alla vaniglia Savaris 150 g Fr. 3.90 Flavia Leuenberger
I bigné artigianali firmati Savaris
Da ormai una decina d’anni il pasticcere Alain Savaris rifornisce Migros Ticino dei suoi apprezzatissimi dolcetti tradizionali: i bigné alla vaniglia e quelli allo zabaione. Nel suo laboratorio di pasticceria di Cugnasco-Gerra, Alain e i suoi collaboratori attualmente sono particolarmente affaccendati per riuscire a soddisfare la forte domanda da parte della clientela. Gli ingredienti utilizzati sono pochi e semplici, ma selezionati con grande cura direttamente da Alain. «L’impasto base è composto da farina, margarina, uova e acqua – ci spiega –. Affinché i bigné risultino più leggeri e croccanti, li cuocio poi in forno anziché friggerli. Infine i dolcetti vengono riempiti di crema alla vaniglia o zabaione di nostra produzione, spolverati di zucchero a velo e subito forniti a Migros Ticino».
Bigné allo zabaione Savaris 150 g Fr. 3.90 In vendita ai reparti pasticceria delle maggiori filiali Migros.
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Punti Cumulus moltiplicati per 5 sulle vacanze estive
Lassi al mango Per 4 bicchieri Tempo di preparazione: 15 minuti + refrigerazione ca. 2 ore Ingredienti 1 cucchiaino di pistacchi tritati 1 pezzo di mango (ca. 130 g di polpa) 1 cucchiaio di succo di limone 2 dl d’acqua 2 prese di zafferano 360 g di yogurt al naturale, ad es. Bifidus 1– 2 cucchiai di miele liquido
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Preparazione Tostate brevemente i pistacchi in una padella antiaderente e metteteli da parte. Pelate il mango, staccate la polpa dal nocciolo e tagliatela a pezzi. Mescolateli con gli ingredienti restanti e riducete il tutto in purea. Mettete in frigo per ca. 2 ore. Frullate ancora brevemente e servite il lassi freddo con i pistacchi. Su famigros.ch/bifidus trovi altre ricette a base di yogurt come, per esempio, il cake all’arancia e allo yogurt, la zuppa di lenticchie allo yogurt, il drink al miele e allo yogurt e molto altro ancora.
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Idee e acquisti per la settimana
Freddissimo sempreverde 30 anni or sono Migros ha immesso sul mercato svizzero il primo tè freddo. È stato l’inizio di una storia di successo: dalla sua introduzione, questo classico della Migros è il tè freddo più apprezzato sul piano nazionale Testo: Anette Wolffram Foto: Yves Roth Styling: Marlies Isler
Ice Tea di culto al limone 1l Fr. -.75
Complimenti: anche 30 anni dopo essere stato immesso sul mercato, il tè freddo «di culto» della Migros è più che mai apprezzato.
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Idee e acquisti per la settimana
Con il consumo di circa 30 litri in media all’anno, gli svizzeri sono i campioni europei assoluti fra i bevitori di tè. Seguono in seconda posizione i belgi con dieci litri, mentre il tedesco medio arriva appena a tre litri. Se si considerano le cifre di vendita solo in Svizzera, col suo Ice Tea di culto e una produzione annua del solo classico Ice Tea Limone che tocca i 30 milioni di litri (2013), la Migros è l’incontrastato leader sul mercato svizzero. Ma il classico Ice Tea gode di grande popolarità non solo in patria, come si vede dando un’occhiata alla lista delle esportazioni del fabbricante, la Bischofszell Alimentari SA. Il gustoso dissetante è già richiesto perfino in Brasile, Russia e Giappone. L’Ice Tea di culto deve il suo successo al suo particolare processo di produzione. Il metodo si basa sul principio della classica preparazione del tè in una tazza ed è stato mantenuto fin dalla prima ora. Stessa cosa per la formula: allora come oggi, per la preparazione dell’originale si utilizza una miscela di pregiato tè nero e foglie di rosa canina, con l’aggiunta di succo di limone, zucchero e sciroppo di fruttosio. Non si utilizza nessun tipo di conservante.
SERIE
IN CIFRE
Noi firmiamo. Noi garantiamo. Parte 4
700’000 litri di Ice Tea di culto:
Dal detersivo di culto fino alla barretta di cioccolato e al tè freddo.
7 le varietà di gusto disponibili attualmente: Limone, Zero Limone, Light Limone, Green Tea, Pesca, Mango & Ananas, Berry & Rabarbaro. Per il 2015 si annunciano due nuove varietà.
tanti può produrne oggi in caso di necessità la Bischofszell Alimentari SA in 24 ore.
Questa settimana: Ice Tea di culto
Fino a 700’000 litri al giorno: l’Ice Tea di culto è prodotto dalla Bischofszell Alimentari SA in due fasi.
2012 è stato deciso di utilizzare, per la preparazione della bevanda di culto, solo tè nero e verde proveniente da coltivazioni certificate UTZ di Giava. 10 paesi importano l’Ice Tea di culto: Italia, Germania, Brasile, USA, Russia, Canada, Australia, Austria, Giappone e – a partire dal 2015 – Arabia Saudita.
133’980 «mi piace» registrati L’industria Migros produce numerosi prodotti Migros molto apprezzati, tra cui anche l’Ice Tea di culto.
dalla pagina Facebook per l’Ice Tea di culto il 27 gennaio. E quasi ogni giorno aumentano…
IL PORTIERE DI HOCKEY HILLER IN CANADA
Preferibilmente solo l’Ice Tea svizzero La Bischofszell Alimentari SA sponsorizza la squadra nazionale svizzera di disco su ghiaccio. Jonas Hiller (32 anni), uno dei portiere della squadra, dal luglio dell’anno scorso gioca nel Calgary Flames nella National Hockey League in Nordamerica. Appena possibile si fa portare dai visitatori svizzeri l’Ice Tea di culto. Da quando beve tè freddo della Migros?
Ho conosciuto l’Ice Tea di culto solo sei anni or sono grazie a mia moglie. Sono cresciuto a Urnäsch, dove purtroppo non c’era una Migros. Quanto Ice tea beve?
D’estate, quando sono in Svizzera, me ne concedo circa un litro alla settimana. Durante la stagione in Canada bevo decisamente meno, già solo perché qui trovare il mio tè freddo preferito non è affatto semplice. Cosa fa quando l’Ice Tea della Migros è finito?
Durante la stagione assumo zucchero più che a sufficienza con le bevande isotoniche. Per questa ragione, il mio consumo casalingo di bevande si limita per lo più all’acqua. Che cosa apprezza in particolare dell’Ice Tea di culto?
Che sa veramente di tè e non in modo artificiale. E non è eccessivamente dolcificato come altri tè freddi.
LA PAGINA FACEBOOK
Quando Facebook introdusse le fanpage, nel 2008, a Christian Jung (36 anni, nella foto) venne spontaneamente un’idea: per il popolare social network creò una pagina dedicata alla sua bevanda di culto: www.facebook.com/ MigrosIceTea. «Accanto al mio computer c’era una confezione di Ice Tea», ricorda l’allora studente di economia dei media. «Avevo semplicemente voglia di dedicare una fanpage alla bevanda.» La community reagì con entusiasmo. Nel giro di un mese la pagina contava 30’000 fans, solo poco più tardi erano già circa 130’000. «Sulla pagina s’incontra un’allegra compagnia di fans, in maggioranza giovani», dichiara soddisfatto Christian Jung, che ora lascia che sia la Migros a gestire la pagina.
Foto Christian Schnur, zvg
«Un’allegra compagnia»
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Idee e acquisti per la settimana
Cocktail al tè freddo e al mango Per 4 bicchieri da cocktail da ca. 2 dl
Ingredienti 1 mango 3 cucchiai di Sanbitter 1 kiwi 4 ciliegie in scatola 4 alchechengi peruviani 4 spiedini di legno ca. 16 cubetti di ghiaccio 7 dl di tè freddo al limone Preparazione Pelate il mango, staccate la polpa dall’osso. Riducete in purea 2/3 della polpa con il Sanbitter. Tagliate il resto della polpa a cubetti. Pelate il kiwi e tagliatelo a fette. Tagliate le fette in quattro. Infilzate sugli spiedini i cubetti di mango, il kiwi, le ciliegie e gli alchechengi. Distribuite la purea di mango e i cubetti di ghiaccio nei bicchieri. Versate il tè nel bicchiere facendolo scivolare con cautela sul dorso di un cucchiaio. Guarnite ogni bicchiere con 1 spiedino di frutta e servite subito. Tempo di preparazione ca. 15 minuti Per persona ca. 1 g di proteine, 1 g di grassi, 30 g di carboidrati, 570 kJ/135 kcal Ricetta di
Il cocktail analcolico a base di tè freddo al mango è proprio fresco e fruttato come appare.
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Formaggio del vignaiolo per 100 g, 20% di riduzione
Coniglio tagliato Svizzera, imballato, per 100 g
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Prodotti trattanti, sostanze cosmetiche attive, detersivi e detergenti, margarine, grassi commestibili. Collaboratori: 730
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Cuore di panpepato 90 g
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PESCE, CARNE E POLLAME Carne di manzo macinata M-Classic, Svizzera, al kg 10.80 invece di 18.– 40% Affettato M-Classic in conf. da 2, Svizzera, per 100 g 1.20 invece di 1.75 30% Pancetta da cuocere, TerraSuisse, Svizzera, per 100 g 1.05 invece di 1.80 40% Prosciutto crudo San Pietro Rapelli, Svizzera, per 100 g 5.– invece di 7.20 30% Fettine di pollo Optigal, Svizzera, per 100 g 2.70 invece di 3.30 15% Filetti di trota affumicati M-Classic in conf. da 3, ASC, d’allevamento, Danimarca, 3 x 125 g 7.80 invece di 11.70 33% * Wienerli, Svizzera, in conf. da 5 x 4 pezzi, 1 kg 9.90 invece di 14.25 30% Roastbeef cotto, Svizzera / Germania, affettato in vaschetta, per 100 g 4.95 invece di 7.20 30% Salame del Mendrisiotto, prodotto in Ticino pezzo da ca. 400 g, per 100 g 2.80 invece di 4.10 30% Spezzatino di vitello, TerraSuisse, Svizzera, imballato, per 100 g 2.65 invece di 3.80 30% Arrosto spalla di maiale, TerraSuisse, Svizzera, imballato, per 100 g 1.15 invece di 1.70 30% Coniglio tagliato, Svizzera, imballato, per 100 g 2.– invece di 2.70 25% Galletto speziato Optigal, Svizzera, in conf. da 2 pezzi, per 100 g 1.– invece di 1.45 30% Tutto l’assortimento di pesce fresco, MSC, per es. filetto di passera, Atlantico nord-orientale, per 100 g 2.20 invece di 2.80 20% (fino al 7.2)
PANE E LATTICINI Mezza panna Valflora, 2 x 500 ml 3.90 invece di 4.90 20% Dessert Foresta nera, 110 g 20x 2.35 2.35 NOVITÀ *,**
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Quark alla frutta in conf. da 4 –.40 di riduzione, 4 x 125 g, per es. ai lamponi 2.– invece di 2.40 Formaggio del vignaiolo, per 100 g 2.– invece di 2.50 20% Le Gruyère grattugiato in conf. da 2, 2 x 120 g 3.65 invece di 4.60 20% Caprice des Dieux, 300 g 4.35 invece di 5.45 20% Tris di formaggi Marenda per raclette, a libero servizio, al kg 19.20 invece di 27.50 30% Pane Leopardo, 350 g 1.80 invece di 2.10 Pane Nostrano, Ticino, 300 g 1.85 invece di 2.20 Pane cuore beta-glucan, 300 g 3.05 invece di 3.60
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Prodotti di pasticceria Foresta nera: torte, fette di torta o rotoli, per es. torta Foresta nera M-Classic, 500 g 7.50 20x PUNTI 20x Tutte le salse per insalata Anna’s Best o Tradition, per es. Française Tradition, 450 ml 3.90 invece di 4.90 20% Gnocchi M-Classic in conf. da 2, 2 x 550 g 5.60 invece di 7.– 20% Mah Mee da 400 g o Nasi Goreng da 370 g Anna’s Best, nuova qualità, per es. Nasi Goreng, 370 g 20x 5.40 NOVITÀ *,** Mah Mee o Chicken Satay Anna’s Best in conf. da 2, per es. Chicken Satay, 2 x 370 g 11.60 invece di 14.60 20% Prodotti Cornatur in conf. da 2, per es. falafel, 2 x 180 g 7.80 invece di 9.80 20%
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 02 febbraio 2015 ¶ N. 06
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 02 febbraio 2015 ¶ N. 06
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Idee e acquisti per la settimana
Una delizia del Mare del Nord L’offerta di pesce fresco in vendita ai banconi della Migros proviene da fonti sostenibili. Ne è un esempio il cosiddetto skrei, il delicato merluzzo invernale
Sette cose da sapere sullo skrei 1
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Migrante
Il merluzzo invernale, che in norvegese si chiama skrei (“migrante”), è un pesce che vive in alcune zone del Nord Atlantico e dell’Oceano Artico. Da lì, una volta raggiunta la maturità sessuale, banchi di skrei tra i cinque e i sette anni intraprendono un viaggio di un migliaio di chilometri verso Sud, fino a raggiungere le acque di riproduzione davanti all’arcipelago norvegese delle Lofoten, temperate dalla corrente del Golfo. 2
Pregiato
Arrivato nelle acque di riproduzione, lo skrei assume un altissimo valore dal profilo gastronomico. Infatti, durante il suo lungo viaggio ha sviluppato una carne magra e muscolosa, che dopo la cottura resta compatta, pur essendo tenera e facile da affettare.
5
Ricercato
Per il suo sapore delicato, lo skrei è considerato un pesce prelibato, una delizia molto ricercata dagli intenditori, cuochi per hobby e grandi chef. Può essere cucinato in molti modi. La sua carne, infatti, si presta in modo eccellente a vari abbinamenti di sapore: dal dolce, all’asiatico, al mediterraneo.
Parte di
Protetto
Dal 2005 lo skrei è un marchio commerciale registrato e protetto. Hanno il permesso di distribuire il merluzzo invernale con la denominazione «Skrei», solo le aziende che soddisfano i severi requisiti fissati dal Norwegian Seafood Export Council, riguardanti la cattura, la selezione, la conservazione e il trasporto. 6
3
Selezionato
La stagione di pesca allo skrei dura da gennaio ad aprile. Le quote e i metodi di cattura sono regolamentati e controllati dalle autorità norvegesi. Ancora oggi gli skrei sono catturati da piccoli pescherecci con gli attrezzi da pesca tradizionali, come ami, lenze e piccole reti. In questo modo, si possono selezionare gli esemplari da catturare ed esportare.
Stagionale
I filetti di questo prelibato pesce sono in vendita nei banconi del pesce fresco della Migros soltanto da febbraio e fine marzo. 7
Certificato
Lo skrei in vendita alla Migros è certificato secondo le direttive MSC, con le quali si garantisce la provenienza da una pesca sostenibile. / JV
Generazione M è il programma della Migros a favore della sostenibilità, al quale anche il marchio MSC fornisce un prezioso contributo.
Un contributo alla protezione del mare Mangiar pesce con la coscienza in pace: affidatevi a marchi come MSC.
Skrei con purè di pastinache e olio al prezzemolo Piatto principale per 4 persone
Ingredienti 900 g di pastinache 300 g di patate farinose sale, pepe 2 spicchi d’aglio 1 mazzetto di prezzemolo 4 cucchiai d’olio d’oliva 3 cucchiai di burro 3 cucchiai di panna semigrassa acidula 8 filetti di skrei di ca. 75 g (merluzzo d’inverno)
Caratteristico della carne dello skrei è il colore bianco intenso.
sul lato più scuro della pelle. Girate i filetti e rosolateli per 1 minuto. Trasferiteli in una teglia e completate la cottura in forno per ca. 4 minuti. Rosolate le fettine d’aglio nel resto del burro a fuoco medio finché diventano croccante. Estraete l’aglio e mettetelo da parte. Fate appassire brevemente le pastinache e le patate nella stessa padella. Allontanate la padella dal fuoco. Unite la panna e con una frusta mescolate il tutto fino a ottenere un purè. Unite il prezzemolo rimasto e mescolate. Regolate di sale e pepe. Servite il purè nei piatti e cospargetelo di aglio. Servite il pesce accanto e irroratelo con l’olio al prezzemolo.
Preparazione 1. Tagliate le pastinache e le patate a pezzettini. Lessateli in acqua salata per ca. 30 minuti. Scolateli e fateli sgocciolare. Nel frattempo tagliate l’aglio a fettine sottili. Tritate finemente il prezzemolo, mescolatene 3/4 con l’olio e condite con sale e pepe.
Tempo di preparazione ca. 25 minuti + cottura ca. 30 minuti
2. Scaldate il forno a 80 °C. Condite il pesce con sale e pepe. Rosolate i filetti nella metà del burro per 3-4 minuti
Per persona ca. 32 g di proteine, 21 g di grassi, 19 g di carboidrati, 1650 kJ/400 kcal
Il Marine Stewardship Council (MSC) è sinonimo di pesca sostenibile certificata. Pesci e frutti di mare provengono sempre dalla pesca selvatica. MSC contribuisce così a preservare le risorse, ossia i pesci e il loro ambiente, nei mari di tutto il mondo.
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Idee e acquisti per la settimana
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Viaggio culinario asiatico ma con carne di pollo svizzera: Anna’s Best punta sulla Swissness.
Esoticamente svizzeri Ann’s Best propone menu a base di carne svizzera come curry oppure macinata con cornetti Nostalgia di paesi lontani? Un Chicken Satay al curry con una cremosa salsa d’arachidi oppure un Mah Mee indonesiano regalano per lo meno al nostro palato un delizioso viaggio gastronomico all’insegna dell’esoticità. I piatti asiatici firmati da Anna’s Best non sono comunque del tutto autentici nel vero senso del termine, ed è bene così: perché il pollo proviene dalla Svizzera. Che si tratti di pollo, maiale o manzo, ora Anna’s Best produce tutti i menu contenenti carne esclusivamente con carne svizzera. Sempre attenta a utilizzare ingredienti freschi e ecologicamente sostenibili. / NO
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Idee e acquisti per la settimana
Sensazione di benessere I prodotti Balance sono perfetti per chi predilige i grassi vegetali e dà importanza a una dieta equilibrata a basso contenuto di colesterolo
Balance au beurre è una margarina contenente il 65 percento di grassi e burro svizzero. È ricca di acidi grassi polinsaturi e, soprattutto, contiene il prezioso acido grasso omega-3, l’acido alfa-linolenico che favorisce il mantenimento del corretto tasso di colesterolo nel sangue. Balance au beurre 250 g Fr. 2.90 Nelle maggiori filiali.
Balance Preparato a base di olio vegetale è un prodotto completamente vegetale e ricco di acidi grassi polinsaturi omega-3 e omega-6. Inoltre ha un alto contenuto di vitamina E. Balance Preparato a base di olio vegetale 50 cl Fr. 5.30
Balance è una margarina completamente vegetale con il 53 percento di grassi e ricca di acidi grassi polinsaturi omega-3 e omega-6. Contiene anche l’acido alfa-linolenico, oltre all’acido folico, una vitamina essenziale. Balance 250 g Fr. 1.95
Col Balance vital è la margarina con il 35 percento di grassi. È ricca di acidi grassi polinsaturi omega-3 e omega-6 e contiene steroli vegetali, sostanze che hanno il potere comprovato di abbassare il tasso di colesterolo. Col Balance vital è adatta solo a persone che sono obbligate a mantenere sotto controllo il loro tasso di colesterolo nel sangue. Col Balance vital 250 g Fr. 5.30
L’Industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra i quali anche quelli della linea Balance.
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