Azione 07 del 15 febbraio 2016

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXIX 15 febbraio 2016

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Società e Territorio Archeologia industriale: la Linoleum di Giubiasco

Ambiente e Benessere Opel presenta la GT Concept: una vettura pura, minimalista e allo stesso tempo audace e senza compromessi

Politica e Economia Il presidente del consiglio Matteo Renzi ai ferri corti con l’Europa

Cultura e Spettacoli A Milano la pittura Art Nouveau di Alfons Mucha

pagina 11

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Keystone

Clima, i mutamenti a casa nostra

di Martucci, Buletti pagine 11 e 19

La cacciata dall’Eldorado di Peter Schiesser C’è una crisi finanziaria alle porte, forse anche una recessione mondiale? Le Borse sono estremamente nervose da qualche mese, l’indice svizzero SMI è sceso sopra i 7000 punti, dagli oltre 9000 su cui veleggiava ancora sei mesi fa, e ad essere penalizzati sono in particolar modo i titoli bancari – l’azione Credit Suisse è tornata ai livelli del 1990, da inizio anno ha perso un terzo del suo valore, quello UBS «soltanto» un quarto, peggio ancora fa Deutsche Bank con un crollo che sfiora il 40 per cento. Non sono segnali da sottovalutare, ma vanno compresi al di là di quanto esprimono le quotazioni di borsa. È in forse la solidità di banche come UBS, Credit Suisse, Deutsche Bank? In realtà no, sono capitalizzate meglio rispetto alla crisi finanziaria mondiale del 2008, ma gli analisti sono convinti che dovranno muoversi a lungo in un contesto globale difficile, condizionato da bassi o negativi tassi d’interesse, dal crollo del prezzo del petrolio frutto di un eccesso di produzione ma anche di una richiesta inferiore alle attese, dalle turbolenze finanziarie ed economiche in Cina.

Nel caso di Credit Suisse e Deutsche Bank c’è poi anche il timore che i piani di riorientamento strategico non abbiano successo. È per questi motivi che il titolo UBS continua a perdere quota nonostante la banca abbia annunciato per il 2015 l’utile più alto dal 2008, di 2,7 miliardi di franchi. In particolare, i problemi si manifestano in un deflusso netto di patrimoni gestiti di 3,4 miliardi di franchi nell’ultimo trimestre 2015, ritirati da investitori russi, mediorientali, latinoamericani impoveriti dal crollo del prezzo del petrolio. Dal canto suo, Credit Suisse paga anche il costo della gestione passata, sotto Brady Dougan. Il nuovo direttore generale Tidjane Thiam sta svuotando gli armadi e vi ha trovato un vecchio scheletro: la banca d’investimenti americana Donaldson, Lufkin & Jenrette, acquistata nel 2000 sotto la direzione di Lukas Mühlemann per l’equivalente di 20 miliardi di franchi, vale oggi 3,8 miliardi in meno; per quale motivo questa e altre correzioni di bilancio per un totale di 6,2 miliardi nell’investment banking (cui vanno sommati 2,3 miliardi in altri settori) non siano state compiute da tempo è materia di dibattito: il «Tages Anzeiger» suggerisce che se fossero state compiute in prece-

denza, la direzione e il Consiglio d’amministrazione non avrebbero potuto giustificare il programma di bonus a lungo termine introdotto nel 2010, comprendente azioni CS per 3 miliardi di franchi. E così Tidjane Thiam, nel mezzo della riorganizzazione annunciata in ottobre, ha dovuto chiudere il 2015 con una perdita di quasi 3 miliardi di franchi, lasciando intendere che il 2016 non si presenta sotto una luce migliore. Le sorti di queste grandi banche si intrecciano poi con il contesto bancario europeo, tutt’altro che ristabilitosi dopo la crisi dell’euro. Anzi, la crisi dell’euro non è superata, solo anestetizzata dalla politica monetaria della Banca centrale europea. Lo stato di salute del settore in Europa sembra migliore che nel 2008, ma con enormi differenze da Paese a Paese. Tuttavia, secondo il Fondo monetario internazionale, il 10 per cento dei crediti detenuti da banche europee sono problematici, carta straccia in caso di una crisi. Appare dunque il quadro di un settore bancario che fatica a rimettersi in salute e deve farlo in un contesto che promette meno guadagni. Di conseguenza, anche salari e bonus stanno scendendo...


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 15 febbraio 2016 ¶ N. 07

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Attualità Migros

M Accompagnare nella quotidianità Scuola Club Migros Ticino Martedì 16 febbraio alle ore 19.00 nella sede di Lugano (via Pretorio 15)

si terrà una serata informativa gratuita dedicata al nuovo «Corso base di Assistenza», della durata di 5 giorni La percentuale di persone bisognose di cure è in continuo aumento. Secondo una proiezione dell’Ufficio federale di statistica, nel 2030 supererà i 2 milioni. Il settore dell’assistenza a domicilio lamenta la mancanza di forza lavoro preparata: già da anni infatti si sente la mancanza di personale qualificato e ben formato per il settore socio-sanitario, esposto a tale crescita costante. La Scuola Club Migros risponde a questo forte bisogno sociale proponendo anche in Ticino una formazione di base per l’assistenza ad anziani e persone bisognose di aiuto, prendendo lo spunto da un’esperienza attiva già da tempo nella Svizzera centrale. Il corso base di Assistenza della Scuola Club Migros Ticino vuole essere un approccio concreto e pratico, che offra agli interessati eventualmente anche la possibilità di accedere al mercato del lavoro. Il progetto si fonda su un percorso di formazione studiato ad hoc da Barbara Radtke, pluripremiata imprenditrice ed ex-infermiera diplomata. La Radtke è stata responsabile e ha guidato con successo la ditta privata Spitex zur Mühle AG. Conosce quindi perfettamente necessità dell’utenza e requisiti professionali, e affiancherà la Scuola Club Migros con la sua impresa Goldstück AG. Barbara Radtke è convinta che «il grande potenziale del Corso base di Assistenza sta nella capacità di attirare l’interesse di molte persone verso il settore delle cure». Le persone anziane hanno molta esperienza di vita. Alcune necessitano però di aiuto nella quotidianità e di sostegno nei lavori domestici. Il corso pone le basi per gestire in modo rispettoso e professionale le persone anziane e bisognose di cure. Trovare la giusta misura di sostegno è una vera sfida. Il corso base di Assistenza trasmette le competenze necessarie a tal fine in diversi ambiti come aiuto nella vita quotidiana, alimentazione e

Per sostenere le persone anziane sono necessari tempo, competenza e delicatezza.

cura del corpo, economia domestica, comunicazione e diritto. L’esperienza compiuta nella Svizzera tedesca ha mostrato che diverse persone, dopo aver frequentato il corso, hanno potuto sensibilizzarsi rispetto al problema e in alcuni casi addirittura decidere di intraprendere una formazione quali operatori sociosanitari nei centri di cura. Le nozioni ricevute durante il corso hanno permesso di consolidare la consapevolezza, rafforzare la pazienza e la tolleranza nell’affrontare le situazioni quotidiane. Un giovane, che recentemente ha intrapreso un

Serata informativa Martedì 16 febbraio, ore 19.00, sede della Scuola Club Migros di Lugano (via Pretorio 15). La partecipazione è gratuita. Date del corso: dal 7 all’11 marzo 2016 (totale 35 ore-lezione). Tassa d’iscrizione: Fr. 875.–. Per ulteriori informazioni rivolgersi direttamente alla segreteria di Lugano (Tel. 091 821 71 50) oppure consultare il sito www.scuola-club.ch.

percorso di formazione professionale nel campo racconta: «Nelle situazioni difficili riesco ad aiutare la persona affidatami senza però farmi coinvolgere emotivamente. Le conoscenze specialistiche acquisite mi danno sicurezza per agire in modo professionale anche nelle emergenze». Grazie alle lezioni basate su esempi pratici, tratti dalla realtà, i partecipanti apprendono competenze di base ad ampio spettro ai fini di un’assistenza professionale. Forti di queste capacità specialistiche, i corsisti hanno una buona probabilità di proporsi sul mercato del lavoro, tro-

vando impiego presso servizi di assistenza e cura a domicilio, in case di riposo o di cura oppure presso privati. Anche mettersi in proprio è un’alternativa da valutare. Già oggi alcune piattaforme online pubblicano richieste di privati, opportunità di lavoro sicuramente interessanti per chi si è messo in proprio. Non da ultimo, il corso intende formare volontari o persone coinvolte nell’assistenza di parenti o amici non in grado autonomamente di svolgere gli atti necessari alla vita quotidiana a causa dell’età, di una disabilità o di una malattia.

Appuntamenti con l’attualità FORUM elle Nel calendario 2016 dell’organizzazione femminile di Migros, incontri con ospiti famosi

e uscite di gruppo in Ticino e oltre frontiera... Riprende il 18 febbraio l’attività di FORUM elle Ticino: l’organizzazione femminile di Migros a livello nazionale si prefigge di coinvolgere, grazie ad eventi regionali e interregionali di vario genere, tutte le donne che si interessano di temi sociali e culturali. Per questa prima parte del 2016 (da febbraio a giugno) l’associazione proporrà diversi appuntamenti (vedi calendario qui a destra) che toccano vari aspetti della vita sociale e culturale nella nostra regione: il programma prevede quindi tre conferenze e cinque escursioni. Ricordiamo alle nostre lettrici che è possibile diventare socie dell’associazione pagando la quota sociale annuale di 30 franchi. Una novità importante rispetto agli scorsi anni è l’introduzione (a partire da aprile 2016) di una quota di iscrizione anche per i singoli appuntamen-

ti mensili. Per partecipare è quindi necessario scaricare da Internet il tagliando d’adesione relativo ad ogni

Azione

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Il giornalista Aldo Sofia tra gli invitati: sarà a Paradiso il 12 maggio. (rsi.ch)

La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

incontro, pagando nel contempo una partecipazione di 10 franchi. La nuova procedura è chiarita in dettaglio nel sito web www.forum-elle.ch. Questa quota d’iscrizione aggiuntiva verrà rimborsata con l’inizio dell’anno successivo sotto forma di carta regalo Migros a tutte le socie che hanno partecipato a un minimo di 5 eventi. Da notare che per gli appuntamenti organizzati in collaborazione con altri partner (come la gita a Genova e l’uscita a Milano per il musical Fame) si ricorda che le spese di viaggio, pernottamento e ingresso per ogni singola manifestazione vanno sommati alla quota d’iscrizione. Tutti gli incontri ed eventi, ad eccezione dell’Assemblea Generale riservata alle socie, sono aperti ad amiche/amici o simpatizzanti. Per questi ultimi sono previsti prezzi di partecipazione speciali. Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

Il programma Giovedì, 18 febbraio 2016 – ore 18.30. Canvetto Luganese, Lugano (Molino Nuovo). Perché scrivere un libro? Incontro con l’esordiente scrittore Andrea Bertagni. Giovedì, 10 marzo 2016 – ore 17.00. Fondazione OTAF – Sorengo. Assemblea Generale e conferenza con Roberto Roncoroni, direttore Fondazione OTAF Sorengo. Sabato 19/Domenica 20 marzo 2016. Gita a Genova: Mostra «Dagli Impressionisti a Picasso». Viaggio in torpedone, pernottamento, ingresso e visita alla mostra, accompagnatore. In collaborazione con Dreams Travel Biasca. Giovedì, 7 aprile 2016 – pomeriggio. Visita alla Chicco d’Oro di Balerna. Gita in torpedone.

Tiratura 101’035 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Domenica, 17 aprile 2016 – partenza ore 13.00 dal Ticino. Milano – Teatro Nazionale: musical «Fame» (inizio ore 15.00). In collaborazione con Dreams Travel Biasca. Giovedì, 12 maggio 2016 – ore 18.30. Suitenhotel Parco Paradiso – Lugano Paradiso. Il giornalismo che cambia, fra ricordi e attualità – incontro con Aldo Sofia. Giovedì, 26 maggio 2016 (Corpus Domini) – giornata intera. Visita allo ZOO del Circo Knie a Rapperswil. Gita in torpedone. Giovedì, 16 giugno 2016 – pomeriggio. Gita al Monte Tamaro. Tutti gli incontri ed eventi, ad eccezione dell’Assemblea Generale riservata alle socie, sono aperti ad amiche/amici o simpatizzanti.

Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


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Società e Territorio La forza dell’attenzione Un libro di Maria Pia Borgnini su come usare le risorse mentali per capire come funzioniamo

Fiabe antiche e universali Un progetto teatrale – e forse un domani anche cinematografico – recupera una serie di narrazioni del nostro territorio pagina 5

C’era una volta il linoleum Storia dello stabilimento di Giubiasco in cui dal 1909 si produsse quel particolare rivestimento per pavimenti pagina 6

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Pitture rupestri, Madhya Pradesh, India. (Marka)

La maledizione del Paleolitico Sociobiologia Secondo Edward O. Wilson siamo una specie intrinsecamente disfunzionale Lorenzo De Carli Biologo, Edward O. Wilson, dichiaratamente neoilluminista, è il fondatore della sociobiologia, la disciplina che studia il modo in cui l’evoluzione ha selezionato i tratti comportamentali che ci caratterizzano. Probabilmente, quindici anni fa, questa definizione di sociobiologia non sarebbe stata possibile, e si sarebbe detto che la sociobiologia – collocandosi tra biologia e sociologia – è la disciplina che studia il modo in cui i nostri geni orientano il nostro comportamento sociale, oppure che è la disciplina che studia le basi biologiche del comportamento sociale delle varie specie animali, incluso l’uomo. Sebbene raramente argomento di riflessione, è normale che la definizione delle discipline – umanistiche o scientifiche che siano, non importa – muti nel tempo perché, con il trascorrere degli anni, nuove scoperte aprono nuovi campi d’investigazione e nuove prospettive permettono di osservare le cose finora studiate da un’altra angolazione, dalla quale si scorgono connessioni prima ignote. Il caso, poi, della sociobiologia è più problematico di altri perché, fin dal suo apparire, ha conosciuto l’opposizione di coloro, i

quali ritengono che la natura umana è libera da ogni vincolo naturale, che siamo cioè totalmente liberi di autodeterminarci e che i legami sociali sono «contratti» culturali. Che, insomma, noi facciamo società in modo ben diverso da come lo fanno le formiche o le api. Subito dopo aver pubblicato La conquista sociale della Terra, Wilson ha sentito la necessità di sollevare lo sguardo da termiti e formiche allo scopo di tratteggiare un quadro, nel quale siamo inclusi anche noi, specie «eusociale», scrivendo Il significato dell’esistenza umana, dove egli sostiene che ciò che caratterizza in maniera specifica la nostra specie e ciò che da un senso alla nostra vita è la cultura umanistica. Ciò che sembrerebbe essere un’abiura del programma sociobiologico, è invece una coerente riflessione di chi, come appunto Wilson, ritiene doveroso tracciare i passaggi evolutivi di un tratto fondamentale della nostra specie: «il comportamento sociale avanzato». La Terra è stata conquistata dalle specie eusociali, quelle specie, cioè, che «cooperano nell’allevamento degli individui immaturi nell’arco di più generazioni», e che praticano la divisione del lavoro. «Possiamo star certi

che l’eusocialità ha avuto origine in un numero esiguo di casi», nemmeno una ventina, e noi ne facciamo parte (in compagnia di insetti, crostacei marini e roditori). La nostra specie – diramazione dal ceppo delle grandi antropomorfe africane – viene da un albero cespuglioso e ci sono stati momenti nei quali siamo stati fianco a fianco con altri ominidi. Secondo Wilson, ciò che ci ha favoriti sono state due tappe evolutive molto importanti. La prima è stata la capacità di organizzarci in gruppi, suddividendoci i compiti della cura degli individui più giovani e l’impegno di procacciarci il cibo; la seconda è stata uno sviluppo cerebrale sufficiente, da poter fare della mente «una mappa caleidoscopica sia degli individui presenti nel gruppo, sia di alcuni esterni ad esso». Dal punto di vista di Wilson e della sociobiologia, l’eusocialità che ci ha portati a conquistare la Terra, è un «tratto» selezionato dall’evoluzione, vale a dire una caratteristica che ha permesso ad alcuni individui di riprodursi con maggior efficienza e, in tal modo, di diffondere con successo questo stesso «tratto». Ma è Wilson stesso a rendersi conto di quanto ambivalenti siamo: generosi ma anche egoisti, buo-

ni ma anche vendicativi, altruisti ma anche razzisti. Il fatto è, ci dice Wilson, che ci portiamo appresso la «maledizione del Paleolitico». L’evoluzione ha selezionato in noi una spiccata cura per la nostra prole e per chi condivide parte del nostro patrimonio genetico. La selezione multilivello ha poi esteso questa cura anche alle persone che fanno parte della nostra tribù, e che riconosciamo perché hanno tratti simili ai nostri. Nello stesso tempo, l’evoluzione ha anche selezionato una marcata avversione per il diverso e l’estraneo. Il problema è che «gli adattamenti genetici che hanno funzionato a meraviglia per i milioni di anni in cui abbiamo condotto un’esistenza da cacciatori-raccoglitori ci sono ora sempre più d’impaccio in una società urbana e tecnoscientifica». Siamo in piena globalizzazione ma il nostro cervello è ancora «cablato» per la dimensione della tribù, prendiamo decisioni orientati da pulsioni tribali. Accanto a questo conflitto manifestatosi recentemente, Wilson ne ha individuato un altro, che la nostra specie si porta appresso da sempre. L’evoluzione, da un canto ha selezionato quei tratti che in noi come in qualunque altra specie vivente favoriscono l’egoistica riproduzione dei nostri geni; dall’altro

canto, nella nostra specie, essa ha selezionato l’estensione della cura anche alla nostra comunità. Le due tendenze, secondo Wilson, sono in opposizione: coltivare i propri interessi o quelli del gruppo. Il loro conflitto è all’origine dell’ambivalenza che ci contraddistingue ma, nello stesso tempo, è all’origine di tutte le nostre iniziative culturali, che ne fatto oggetto di riflessione: dai disegni rupestri a Michelangelo. Nella prospettiva di Wilson, il «biologico» è antecedente il «culturale», e quest’ultimo si è evoluto a beneficio del primo. Dio, per esempio, è un’invenzione umana, ma evolutivamente utile perché strumento di coesione di gruppo, al punto che questo tratto (chiamiamolo «esperienza religiosa») è stato «cablato» anch’esso proprio perché si tratta di un adattamento efficace: «le neuroscienze della religione hanno ottenuto risultati che depongono fortemente a favore di un istinto religioso». Dal punto di vista biologico, la fede «è interpretabile come un dispositivo darwiniano per promuovere la sopravvivenza e la riproduzione». Il problema, sottolinea però Wilson, è che la fede è spesso fede esclusiva nella propria tribù, e ciò genera ulteriori conflitti nella società globalizzata.


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Società e Territorio

Quasi un’ecologia della mente Mindfulness La forza gentile dell’attenzione è un libro di Mariapia Borgnini che cerca di spiegarci come è possibile

utilizzare nel modo migliore le risorse del pensiero, per capire come funzioniamo il giudizio sull’esperienza e focalizzandosi su quello che si sente.

Laura Di Corcia Lasciare che le cose accadano; non opporre resistenza. Uno fra i segreti del vivere bene, suggeriti da quasi tutte le scuole mistiche, soprattutto quelle orientali, è anche un’impresa fra le più ardue da realizzare. Ma niente paura: arriva in soccorso la mindfulness. Abbiamo chiesto a Mariapia Borgnini, istruttrice di mindfulness e attiva nella scuola del pretirocinio d’orientamento come psicopedagogista con adolescenti in difficoltà, che incontra singolarmente utilizzando il metodo del «fare storie», che vantaggi apporti praticare questi esercizi, partendo dal libro pubblicato da Casagrande e intitolato La forza gentile dell’attenzione, nel quale racconta la sua esperienza con bambini e ragazzi. Storie diverse ma accomunate da un disagio che si può superare solo soffermandosi sulle sensazioni e sul corpo, senza giudizio, semplicemente vigilando. Un libro sulla mindfulness un po’ diverso da quelli pubblicati finora, utile agli adulti, ai più piccoli e agli adolescenti, a chiunque abbia voglia di conoscere meglio sé stesso, i propri limiti ma anche le proprie risorse. Che cosa si intende per mindfulness?

Mindfulness significa consapevolezza. Può essere praticata esercitando l’attenzione, soffermandosi a capire ciò che succede nel corpo e nella mente nel presente, cercando di mettere a tacere

In concreto, come si fa? Ci si siede in una stanza ad occhi chiusi, tenendo lontani i rumori?

Ci sono due modalità per praticarla. La pratica formale si basa sugli esercizi di antica meditazione e prevede che vi sia silenzio, che si stia seduti e concentrati sulla respirazione o su un altro oggetto (i pensieri, i rumori). La pratica informale invece si inserisce nelle azioni quotidiane della vita e trasforma le normali faccende domestiche, dal camminare al guidare, dal lavarsi i denti al preparare la cena, in occasioni per esercitarsi. Che vantaggi si ricavano praticando questi esercizi?

La mindfulness serve per prendersi cura della mente e per interrompere quel chiacchiericcio continuo che invade i nostri pensieri. Praticandola, si diventa meno critici verso sé stessi e gli altri, si comprendono meglio le nostre emozioni, collegandole alle sensazioni corporee. La mente diventa più calma, ci si sente meno ansiosi e si affronta con più grinta la quotidianità. Siamo sempre tutti occupati a pensare a quel che ci aspetta il giorno dopo o a cosa è accaduto nel passato: esercitarci a stare nel presente ci aiuta a liberarci da queste attività che spesso portano preoccupazione e stress. A quanto pare abbiamo circa 80 mila pensieri che attraversano la nostra mente; alcuni studi dimostrano che passiamo metà del tempo a pensare a cose che non sono assolutamente

connesse con quanto stiamo facendo. È un vagabondare della mente che può renderci parecchio infelici. Che rapporti ci sono con le filosofie orientali?

Nella mindfulness non c’è niente di mistico. È vero che a suo fondamento ci sono la filosofia buddista e le pratiche di meditazione, ma è anche vero che gli esercizi sono stati spogliati degli aspetti religiosi. Non ci sono obiettivi da raggiungere, come il vuoto mentale o gli stati alterati di coscienza, si tratta semplicemente di analizzare l’esperienza per capire come funzioniamo. È una modalità orientata non al processo, ma al percorso. Analizzando le esperienze senza giudizio, ecco che i cambiamenti accadono. Come è possibile spegnere il chiacchiericcio interiore che spesso è il frutto di una volontà ostinata attraverso un atto volitivo?

Attraverso la pratica e l’esercizio. La mindfulness, secondo il suo fondatore, Kabat Zinn, si concretizza nel prestare attenzione al momento presente in modo non giudicante. In questa definizione c’è una parolina che a mio avviso è alla base di tutto: l’intenzione. Occorre avere l’intenzione di praticare questi esercizi, bisogna volerlo: ci vuole motivazione, curiosità e costanza. Questa attitudine ti porta non solo a sperimentare l’esercizio, ma anche a ritornare a farlo. Perché spesso la mindfulness si pratica e si impara in gruppo?

Perché è una risorsa. Nel gruppo

Giulio Paolini, Studio per Sulla soglia, (Amen/non oltre), 2011-2012, particolare.

l’esperienza viene condivisa e quella dell’altro può diventare uno stimolo e può fare capire a me che l’osservo tante cose sul mio stesso funzionamento. Perché è importante lavorare anche con le scuole?

Dopo aver ottenuto il mio diploma di istruttrice di mindfulness, ho avuto il desiderio di portare la mia esperienza all’interno della scuola. Ho iniziato dall’Istituto dove lavoro, poi ho formato gruppi di docenti in modo che portassero questa esperienza nella loro vita ma anche nell’insegnamento. Quando un docente dice «stai attento» a un allievo o a un’allieva sbaglia completamente approccio. L’attenzione non

va imposta, ma spiegata: bisogna insegnare come fare a tenerla viva. Il libro (La forza gentile dell’attenzione, ndr.) rende conto, attraverso dei ritratti, di come questi esercizi siano stati utili per i ragazzi e le ragazze che hanno avuto l’intenzione di seguire questa strada. Con i bambini nelle scuole abbiamo praticato molto il silenzio e hanno capito che è una risorsa utile. Con gli adolescenti usiamo un altro approccio, insegnando loro che l’idea di non farcela ad affrontare per esempio un compito in classe non è né più né meno che un pensiero. Bisogna accantonarlo, provarci, tentare: solo così si possono saggiare le proprie capacità. Annuncio pubblicitario

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Società e Territorio

Fiabe antiche ad uso contemporaneo Tradizioni del territorio Il progetto Barlott di Strii, ideato da Cambusa Teatro e Akra Studios,

ripropone cinque leggende e fiabe ricche di storie di carattere universale

Roberta Nicolò Riscoprire la tradizione del territorio attraverso fiabe e leggende, ma trasportate nella contemporaneità dal linguaggio cinematografico. Questa è la sfida raccolta da Cambusa Teatro e Akra Studios, ideatori del progetto Barlott di Strii. Il Ticino è ricco di leggende e favole legate alla vita e alle abitudini contadine delle valli, una tradizione molto produttiva raccolta in più volumi etnografici intitolati Il Meraviglioso (edito da Dadò), tomi in cui il folklore orale viene totalmente rispettato, ma dove lo stile di scrittura, osservante della fonte, mal si presta ad una lettura per il pubblico. «Il nostro obiettivo è quello di ridare lustro alla storia locale, a elementi di identificazione presenti nelle leggende di queste terre, per mostrare come principi di valori passati siano ancora utili alla vita moderna – ci racconta Andrea Palamara regista di Akra Studios – per far questo occorreva non solo scegliere le leggende e le fiabe, presenti nel Meraviglioso, più adatte ad una rivisitazione, ma, soprattutto, scegliere una mediazione che fosse da un lato aderente alla forma tradizionale e dall’altro, invece, funzionale al linguaggio peculiare del cinema e del gusto moderno». Un lavoro che ha visto impegnati, sia il regista Andrea Palamara sia i membri di Cambusa Teatro, che hanno selezionato, dopo un’attenta analisi delle fonti, cinque fiabe su cui lavorare. «Scelte le fiabe abbiamo iniziato subito un primo adattamento teatrale, volevamo portare in scena i personaggi e le storie avvicinandole al pubblico. La scelta di regia si è concentrata su come rendere la narrazione interessante e soprattutto piacevole per lo spettatore. L’ escamotage è stata la messinscena di un bisticcio tra gli attori per l’assegnazione delle parti, in modo da far vivere fin da subito l’alternanza tra passato della fiaba e presente del contesto scenico. Abbiamo presentato il lavoro a Morbio e ci siamo subito resi conto che l’idea di confezionare uno spettacolo che avesse diversi livelli di lettura era vincente. Lo spettacolo è stato apprezzato sia dai più piccoli che dagli adulti. Da lì è partito un tour in Ticino, che ci ha permesso di valutare e studiare meglio la seconda fase del nostro progetto, ovvero la trasposizione cinematografica delle fiabe e soprattutto ci ha permesso, attraverso delle libere donazioni, di raccogliere il denaro sufficiente a girare i primi quat-

I tre attorinarratori, Diego Willy Corna, Valentina Grignoli Cattaneo ed Elisa Conte. (Astrid Wolff - Akra Studios)

tro minuti del film – prosegue Palamara –. L’impegno di un lungometraggio implica investimenti importanti, sia economici che tempistici, e stiamo quindi valutando quale sia la soluzione più funzionale per girare. In Europa centrale è di moda produrre dieci minuti per volta, andando a dilazionare il lavoro e anche le risorse da investire, ma questa modalità comporta un maggiore sforzo a livello organizzativo. Una produzione classica aiuterebbe molto, ma significa senza dubbio una spesa cospicua».

La seconda fase del progetto prevede una trasposizione cinematografica dello spettacolo, ma per ora i fondi sono bastati per girare pochi minuti Passare da una leggenda tipica della tradizione orale ad una trasposizione cinematografica, e quindi che utilizzi un linguaggio prettamente visivo, è un lavoro complesso che abbisogna

di attenzione, investimenti e di molta competenza anche da un punto di vista antropologico. Le leggende e le fiabe tradizionali costituivano il mezzo con cui si veicolavano i valori fondanti, e i luoghi di narrazione erano le piazze e i focolari. Oggi si è persa questa dimensione intima, di paese, di comunità e il cinema, il teatro, la televisione, sono divenuti i luoghi dove raccontare e ascoltare storie. «Oggi la filmografia ha una funzione importante anche nel recupero di elementi della tradizione e nel cinema svizzero ne abbiamo ottimi esempi. Ecco perché abbiamo deciso di cimentarci in questa mediazione partendo dal Ticino, ma ponendo le basi per una sorta di format replicabile per leggende e fiabe di altri Cantoni. Per Barlott di Strii abbiamo scelto di concentrarci molto su elementi etici e morali con una valenza universale, come per esempio il valore dell’accoglienza che è di grande attualità, o il valore di cooperazione. Elementi che hanno bisogno di un certo tipo di linguaggio, che ci proiettano lontani, ma che mantengono nel contempo il legame col territorio, è un continuo giocare tra universale e territoriale. Gli attori sono

tutti ticinesi e anche l’ambientazione vorremmo che fosse quella originale. Per noi un ragazzino che vede il film deve poter riconoscere i luoghi e avere voglia di scoprirli, di visitarli. La fiaba scelta per costruire lo scheletro della storia è infatti una favola della Valle Onsernone e narra di una anziana che accoglie un viandante in casa, il viandante si scopre essere San Remigio, che per gratitudine offre alla vecchia signora un potere speciale, ovvero quello di bloccare le persone. L’anziana bloccherà però la morte che era venuta a prenderla e da quel momento nessuno potrà più morire. Su questa storia se ne inseriscono altre, con personaggi di altre fiabe, come la dama bianca che fa riferimento a una leggenda di Faido, ma anche personaggi storici come Carlo Magno e soprattutto un protagonista del nostro tempo, un ragazzino che attraverso una lanterna magica da vita a tutte queste favole». Giocare sul continuo passaggio tra contemporaneità e leggenda è una formula già ampiamente sperimentata nel cinema e ben si presta a dare vita ai personaggi delle nostre valli, mettendoli in relazione coi giovani d’oggi. Una finestra temporale utile a creare, seppur

artificialmente, un continuum tra tradizione e modernità. «Anche da un punto di vista linguistico il nostro lavoro vuole valorizzare l’origine e la peculiarità delle leggende. Abbiamo infatti interpellato Franco Lurà e scelto di far parlare i personaggi del film nei dialetti locali, ma anche l’italiano sarà tipico del periodo storico da cui provengono. Inserire elementi puntuali aiuta da un lato a rendere più divertente la storia e dall’altro più realistico il film. Una scelta un po’ azzardata per le regole del cinema, ma per noi è molto importante costruire un ponte con la tradizione e anche il recupero linguistico ha grande valore. Tutti i personaggi li abbiamo costruiti con grande attenzione e si muovono, reagiscono e parlano portando alla luce il loro background culturale» Dalla parola al video, un progetto che può ridare vita alle tante fiabe locali, favole che hanno fatto compagnia ai nostri nonni e che rischiano sennò di rimanere chiuse per sempre nei libri di etnografia, ad uso e consumo di pochi studiosi. Per sostenere questo progetto si può visitare la piattaforma progettiamo.ch

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Nicoletta Costa, Arriva la nonna!, EL. Da 5 anni È mattina, bisogna alzarsi per andare scuola, ma la piccola Gaia ha la gola che brucia e la fronte che scotta. La mamma deve andare al lavoro, è già in ritardo, che fare? Quando il gioco si fa duro entrano in campo le nonne, eroine del problem solving in emergenza, veri baluardi della sopravvivenza familiare. E così, convocata al volo, arriva la nonna di Gaia, che trascorrerà la giornata in casa con la nipotina raffreddata. La piccola storia di Nicoletta Costa si snoda attraverso tutte le tappe minime ma essenziali dell’accudimento: la nonna riordina la stanza, arieggia un po’la casa, coinvolge la bambina nelle parole crociate, cucina con quel che trova in frigo, racconta delle storie... Una storia semplice, ma che nasconde tante ricchezze. Ad esempio i dettagli, che potenziano il coinvolgimento del piccolo lettore: la nonna non si limita a «riordinare la stanza» ma mette «i libri

nella libreria, i pupazzi seduti sulla poltroncina, le pantofole una vicina all’altra come soldatini e i vestiti piegati per bene sulla sedia»; non si limita a «fare i cruciverba con Gaia», ma ne trova uno facile – anche se lei di solito fa quelle difficilissime – e chiede le parole a Gaia (quindi, implicitamente, anche al lettore): «una città italiana di quattro lettere che comincia con R»; «era brutto in una favola», e così via. Inoltre, le storie che le racconta per farla mangiare sono raccontate anche a noi lettori, e si tratta di quelle piccole narrazioni

di memoria familiare (quando ero piccola, quando era piccolo il tuo papà) di cui i bambini hanno sempre fame e con le quali vanno amorevolmente nutriti. Infine, ovviamente, un pregio del libro è il tratto magistrale di Nicoletta Costa, che ci disegna una nonna non stereotipata, con un bel taglio di capelli (niente crocchia), un nome che la identifica, Viviana (niente nonnetta anonima), e delle «gambe lunghe», dalla falcata «veloce come il vento». Altro che bastone, le nonne di oggi – poverette – non si riposano mai. Lodovica Cima, Le sei storie scacciapaura, Gribaudo. Da 3 anni Ha paura del buio l’elefantina Titti: «è lì vicino alla porta, è grande, tutto nero e cerca proprio noi». Al che la sua mamma ha un colpo di genio: la signora elefante infatti non le risponde ma no ma cosa dici Titti il buio non è mica un mostro che ti prende, bensì: «Oh, buonase-

ra signor Buio, tanto piacere. Mi dica, che fa da queste parti?...Ah che bello, signor Buio. Mi sembra un programma perfetto per stanotte!» E quando Titti impaziente le chiederà: «Che cosa ti ha detto, mamma?», la grandiosa signora elefante riferirà: «Ha detto che viene a portarvi sogni di sole, di tuffi, di pizza e di festa... meglio di così! Lasciatelo lavorare. I sogni arriveranno presto se chiudete gli occhi...». Quello che fa la mamma di Titti è mettersi all’ascolto della sua cucciola, guardando il mondo dalla sua prospettiva, senza trascinarla forzatamente nella propria, razionale

e adulta. Si mette in gioco, accetta di varcare quella frontiera con l’altrove con cui i bambini hanno dimestichezza, entra nel loro mondo simbolico e animistico, incontra il «signor Buio» e con molta naturalezza annulla la paura. Altre volte però capita a tutti (ed è più che lecito) di esclamare: «qui non c’è nessun orco», come fa il papà della lupetta Lara; in questo caso la paura si dissolve osservando la realtà, e scoprendo che quel cik cik sospetto non è rumore di mandibole di orco ma è dovuto al ciuccio del fratellino che dorme beato nella sua culla. In altre storie la paura si neutralizza grazie a un medico dotato di fantasia, o a un istruttore di nuoto rassicurante, o alla gioia di trovare un nuovo amico. Sono sei, le piccole storie «scacciapaura» di Lodovica Cima: perfette per scacciare le paure, appunto, ma anche semplicemente per abbandonarsi alla magia del racconto condiviso con chi ci fa sentire al sicuro.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 15 febbraio 2016 ¶ N. 07

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Società e Territorio

La Linoleum di Giubiasco Archeologia industriale La storia della produzione in Ticino di questo rivestimento per pavimenti,

cominciata nel 1909 e cessata nel 1970 Laura Patocchi-Zweifel ll linoleum è il risultato di lunghe ricerche intraprese allo scopo di ottenere un rivestimento per pavimenti, impermeabile, elastico ed economico che rispondesse ai bisogni dell’igiene, del comfort e dell’estetica. Un primo tentativo risale al 1823 quando il francese Chenavard realizza un tappeto di feltro verniciato e ricoperto da uno strato bituminoso per proteggerlo dall’umidità. Un grande passo in avanti lo si deve all’inglese Elijah Galloway che nel 1851 brevetta il «Kamptulicon», un rivestimento composto da un impasto di caucciù colorato e polvere di sughero applicata su di un supporto di tela. Ma il suo successo è di breve durata a causa del progressivo aumento di prezzo del caucciù dovuto al moltiplicarsi dei suoi impieghi in vari campi. Finalmente intorno al 1860 lo scozzese Frederick Walton sviluppa l’idea di sostituire il costoso caucciù con l’economico olio di lino. Mediante un processo di ossidazione dell’olio e l’addizione di resine, ottiene una sostanza cementante che miscelata a farina di sughero o di legno e pigmenti coloranti viene calandrata su una tela di juta naturale e infine lasciata essicare. Nasce così il linoleum. Walton brevetta la sua invenzione nel 1863 e due decenni dopo in Inghilterra esistono già venti fabbriche di linoleum. Nel 1879, con la cessazione dei diritti di brevetto di Frederick Walton inizia una fase di espansione della

Il vecchio stabile della Linoleum, oggi adibito ad altri scopi. (Laura Patocchi-Zweifel)

produzione industriale del linoleum a livello internazionale. La produzione industriale deve soddisfare la crescente domanda del nuovo rivestimento resiliente. Siccome agli albori del Novecento la Svizzera importa linoleum in grandi quantità dall’Inghilterra o dalla Germania, la prospettiva di produrne in patria è alquanto invitante. L’occasione si presenta quando la Società del Linoleum di Milano di Giovan Battista

Pirelli decide di costruire una succursale a Giubiasco per evitare i pesanti dazi applicati in Italia sull’importazione dell’olio di lino. Inoltre Giubiasco gode di un’invidiabile posizione geografica in un territorio pianeggiante e dotato di luce elettrica posto al centro del Ticino, lungo la tratta nord-sud della ferrovia transalpina che dal 1882 collega Milano a Lucerna. Lo stabilimento industriale inizia la sua attività nel 1905 con il so-

stegno delle autorità comunali che deliberano di esonerare la Società dalle imposte comunali per la durata di tre anni a condizione che in fabbrica vengano assunti abitanti di Giubiasco. Con lo scoppio della prima guerra mondiale la produzione subisce una forte battuta d’arresto dovuta soprattutto alla mancanza di materie prime. Nel 1919 la produzione riprende e la fabbrica conta 220 dipendenti. La popolazione è più che raddoppiata anche grazie all’immigrazione operaia. Nel 1921 avviene una svolta determinante quando l’azienda si rende definitivamente indipendente dal capitale italiano. Una società anonima retta da diritto svizzero acquista con l’importo di un milione e mezzo di franchi «...tutti i beni immobili, fabbricati, macchinario e terreni...» situati in Giubiasco, nonché «... l’impianto idroelettrico in Gorduno...» per costituire la Società Anonima del Linoleum di Giubiasco. Per il rilancio postbellico la neonata società si rivolge sempre più al mercato transalpino per rispondere alla considerevole domanda interna ed estera fino ad evolversi verso una dimensione multinazionale. Nel 1928 viene così costituita l’Unione Continentale del Linoleum, una società holding con sede a Zurigo alla quale si associa anche la fabbrica di Giubiasco. Pur mantenendo complete e intatte la loro indipendenza giuridica e amministrativa le singole aziende del Gruppo hanno modo di scambiarsi informazioni di natura tecnica, scientifica

e commerciale. Nel secondo dopoguerra attraversando crisi, ristrutturazioni, innovazioni produttive e cambiamenti di gestione, la fabbrica cresce notevolmente di importanza e arriva ad impiegare più di trecento operai alla fine degli anni Sessanta. Nel 1959 ha inizio la produzione del «Colovinyl» piastrelle di plasticaamianto che richiede la costruzione di nuovi capannoni a ovest della ferrovia. Nel 1970 l’Unione Continentale del Linoleum, in seguito a una ristrutturazione radicale, integra la fabbrica di Giubiasco nel Gruppo e sospende la produzione del linoleum riducendo drasticamente il personale. La ragione sociale della ditta viene modificata in Giubiasco Industrie SA e nel maggio del 1974 in Forbo-Giubiasco SA. La sede dell’azienda, viene trasferita nei nuovi capannoni di via Industrie dove si continuano a produrre rivestimenti per pavimenti. Bibliografia

Adolfo Caldelari, Stradario del borgo di Giubiasco, Porza-Lugano, 1978. Hans Rudolf Schmid, 50 anni Linoleum Giubiasco, SA del Linoleum di Giubiasco, 1956. La Fabrique de Linolèum de Giubiasco, Bellinzona 1924. Moreschi Alessandro, Linoleum Giubiasco. Territorialità e patrimonio industriale, in Percorsi di ricerca, Laboratorio di storia delle Alpi 4,2012, pp. 53-61, Mendrisio. Annuncio pubblicitario

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BIANCANEVE E I SETTE NANI Biancaneve, nota anche come Biancaneve e i sette nani, è una fiaba popolare europea. La versione attualmente conosciuta è quella scritta dai fratelli Grimm, Jacob e Wilhelm, in una prima edizione nel 1812, pubblicata nella raccolta Kinderund Hausmärchen, evidentemente ispirata a molti aspetti del folclore popolare, del quale i due fratelli erano profondi studiosi. La città di Lohr in Bassa Franconia sostiene che Biancaneve sia nata in loco. Lo spettacolo si terrà al Palazzo dei Congressi di Lugano. Quando: 17 marzo 2016 Dove: Lugano Prezzo: da fr. 36.– a fr. 52.– (invece che da fr. 45.– a fr. 65.–), a seconda della categoria Informazioni e prenotazione: www.cumulus-ticketshop.ch

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 15 febbraio 2016 ¶ N. 07

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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Lettere anonime Nell’ormai dimenticato Manifesto del Partito Comunista Marx ed Engels caratterizzavano l’età del capitalismo moderno come l’età nella quale novità e cambiamento sono all’ordine del giorno, conditi con la velocità ed il veloce passare di moda di usi, costumi e tradizioni a favore del qui ed ora, del transeunte e del provvisorio. «Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria», scrivevano i due – quasi, verrebbe da dire col senno di centosettantanni poi, una sorta di nostalgica considerazione per i tempi che furono da parte dei due che si proponevano invece come rivoluzionari. Sia come sia: parole comunque profetiche anche se, sostiene l’Altropologo, ancora non abbiamo visto niente. Bene: una delle «solidità» che sembravano acquisite con la modernità, uno dei successi e delle industrie-chiave nell’accelerazione di scambi e commerci, di rapporti fra Stati e singole persone, ovvero il servizio postale, è oggi per molti versi in sofferenza, almeno nella sua forma classica. Il Penny Nero, il Pony Express, il Vapore Postale e la Posta Aerea sono

altrettante icone moderniste oggi ampiamente surrogate – e in molti casi soppiantate – da altre, nuove forme di comunicazione. Chi di noi continua a investire pomeriggi interi – ed un certo budget – alla compilazione di cartoline di auguri natalizi, industria inventata in Inghilterra ai tempi dell’Impero che faceva i profitti dell’Her Majesty’s Mail International Service e tanto, tanto Natale? Il business delle Christmas Cards, lamentavano lo scorso Natale i media inglesi, è da anni in sofferenza. Vuoi perché è soppiantato da readymade auguri virtuali che uno basta scelga l’opzione «spedisci a tutti» nel PC ed è bell’e che fatta (per poi magari finire nello spam) o vuoi perché – più sottilmente da un punto di vista antropologico – le comunicazioni urbi et orbi sono oggi così facili e veloci via web o telefonia mobile (ah, l’epidemia di sms natalizi o di auguri in facebook che uno deve prendersi le ferie per leggersele tutte – aiutoooo – e finisce esausto e scoraggiato per non leggere niente e creare permali) che il valore di

testimonianza d’affetto, di «ricordo» e di saluto della cartolina d’auguri ormai svanisce nell’aria senza che nessuno se ne accorga. La riprova? Il vostro Altropologo preferito cercava l’altro giorno una cartolina in una nota cittadina balneare della riviera romagnola (la stessa, intendo, dalla quale fino a qualche decennio fa partivano cartoline di auguri fitte come branchi di acciughe) da inviare ad un’anziana signora che fa (ancora?!) la collezione di cartoline. Bene: dopo lungo e penoso peregrinare da tabaccaio a giornalaio e da cartoleria a kebabbaro (non si sa mai, di questi tempi…) sono riuscito a spedire una cartolina degli anni ’60 – credo – nella quale una ragazzona prosperosa in bikini con fronzoli modello Obelix pascolianamente recita: «Saluti dalla Romagna solatia». Però, però, però. Non è mai detta l’ultima parola: leggevo l’altro giorno che, in controtendenza alla liquefazione delle card natalizie, la vendita e spedizione in cartaceo delle card di San Valentino non sembra conoscere crisi

di modernità. Di San Valentino stesso medesimo si sa poco o nulla – o forse si sa troppo, nel senso che nel corso della storia almeno tre santi omonimi si alternano nei martirologi e nelle agiografie. Peggio ancora, le reliquie dei Valentini sono tali e tante che sembrano continuare a moltiplicarsi – l’ultima fu scoperta nel 2003 a Praga, nella chiesa dei Santi Pietro a Paolo. Incertezza storica e confusione di identità sono tali che la Chiesa Romana, pur non espurgandone il nome dalla lista dei Santi, lo ha tolto dal calendario lasciando così il 14 febbraio come festa di San Valentino solo negli usi locali speciali. L’escamotage che salva capra e cavoli è certo dovuto alla popolarità del Santo «folclorico» – chiunque esso sia stato – celebrato nella tradizione di tutta Europa come presbitero (alcune fonti lo vorrebbero vescovo di Terni) messo a morte nel 269 dall’Imperatore Claudio II il Gotico per le sue attività di proselitismo presso i pagani. La sua fama postuma gli viene dall’aver inviato un biglietto d’addio alla figlia

del suo carceriere, divenuta sua amica, la vigilia della sua decapitazione. O così ha voluto quella vox populi che vedeva, già nel ’300 e nel ’400, le classi aristocratiche di Francia ed Inghilterra scambiarsi versetti amorosi – spesso salaci ed a volte compilati da poeti di valore (Chaucer fu fra questi) – godendo, nell’anonimato, del risultante gossip di corte. Discesa fra le classi popolari nella prima metà del XIX secolo, complice la crescente efficienza del sistema postale, l’usanza si è poi diffusa in tutto il continente – e globalmente oltre, fino ad acquisire le attuali dimensioni planetarie. Protetta dalla convenzione internazionale sull’inviolabilità della posta privata, la circolazione dei cosidetti valentini rappresenta, oggi, l’unica forma convenzionalmente accettata di posta anonima. Merito della vis amorosa che tutto vince – incluse le buone maniere quotidiane – o merito forse dell’insolubile dilemma dell’anonimità storica del mittente del primo valentino? Corro a controllare la posta.

trasformarsi in un handicap. Attenzione: il bambino ipersensibile ha spesso, come nel vostro caso, un genitore ipersensibile che ne fa il suo confidente sovraccaricandolo di emozioni improprie. Ho spesso sentito un genitore dire: «sono il miglior amico/a di mio figlio/a», ma non ho mai sentito un figlio/a dire: «sono il miglior amico/a di mio padre o di mia madre». Per aiutare Peter a prendere confidenza col suo corpo e con le energie che lo animano, sarebbe opportuno iscriverlo a uno sport individuale, come lo judo, un’arte marziale prevalentemente difensiva. Paradossalmente i soggetti ipersensibili sono al tempo stesso vulnerabili e resistenti al dolore e, nelle situazioni difficili, rivelano di avere una marcia in più, sino a trasformarsi in leader di gruppo. Ricordatevi che, essendo

particolarmente ricettivi agli stimoli, hanno bisogno di intervalli di solitudine e di silenzio per ritemprare le loro energie. Infine non puniteli se sbagliano, i bambini ipersensibili sono fin troppo severi con sé stessi. Meglio riflettere insieme facendogli sentire tutta la vostra fiducia e il vostro appoggio. In questo compito può esservi d’aiuto un libro pratico e rassicurante: Rolf Sellin, I bambini sensibili hanno una marcia in più, Feltrinelli, Milano, 2016.

Anna Antonazzi, metteva giustamente in guardia dal «pericolo di una forzatura» in operazioni di genere. E ricordava come, con un linguaggio semplice ed efficace, per promuovere una buona causa alimentare, nei lontani anni ’30, in America ci si era affidati al personaggio di «Braccio di ferro», gran divoratore di spinaci. Che, poi, non sarebbero gran dispensatori di ferro, come si credeva. È, comunque, un dato di fatto indubitabile che siamo ormai spettatori, in ogni ambito, al fenomeno delle rivisitazioni, favorito, come detto, dall’ondata, a suo tempo, giustamente moralizzatrice del «politically correct», quando accompagnò la conquista dei diritti dei «neri» e non più «negri», negli USA. Strada facendo, però, i criteri fondanti di una buona causa si sono trasformati in cincischiamenti balordi. Da manuale del ridicolo: ecco che «alcoholic» diventa «anti-sobriety activist» e, per non offendere le donne, in alcuni dizionari britannici si è abolito il suffisso «man», ad esempio nel termine

«Craftmanship» (abilità) adottando il neologismo «skillapplication». E rimanendo in argomento, si deve citare il caso della «Maja desnuda», ovviamente una copia, che venne tolta dall’atrio dell’università della Pennsylvania, perché offendeva la dignità femminile. L’impegno riformista non risparmia neppure il cinema. Recentemente, è comparsa un’immagine di Humphrey Bogart, nel classico «trench» spiegazzato, ma senza la sigaretta, suo attributo tradizionale: quando la sigaretta era addirittura un simbolo sexy. Le cose si complicano affrontando l’alta cultura. Però ci si prova. Recentemente, la direttrice del «Globe Theatre» di Londra ha deciso di intervenire su Shakespeare: affidando ruoli maschili a interpreti femminili. Ma non c’è soltanto da sorridere e ironizzare. Dietro la facciata buonista del revisionismo che vuol proporci modelli positivi, il lupo mite che mangia lattuga, insomma, c’è una falsificazione culturale e, in fin dei conti, una forma di censura.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Il figlio ipersensibile Nostro figlio Peter, di sei anni, ci preoccupa perché, pur essendo un bambino normale, non è come gli altri. Capita, ad esempio che all’uscita della scuola i maschietti si spingano, si diano colpi con lo zaino o tentino, per gioco, di farsi lo sgambetto. Ma lui non partecipa, non reagisce, non protesta. Preferisce subire che attaccare, anche se gli diciamo in continuazione di non farsi sopraffare. Pur essendo grande e grosso sembra aver paura degli altri, tanto che preferisce giocare da solo. Eppure non gli sfugge niente: se un compagno ha subito un’ingiustizia ne soffre come fosse toccato a lui, se un animale è sottoposto a maltrattamenti, come in certi spettacoli circensi, si rattrista mentre tutti si divertono. Mia moglie d’altra parte è lo stesso: ingigantisce ogni problema, non si

sente mai abbastanza considerata, piange o ride per particolari che agli altri sfuggono. L’insegnante dice che Peter è «ipersensibile», ma che cosa significa? Che è un superdotato? Un artista? Un «navigatore solitario»? / Un padre preoccupato Caro «padre preoccupato», Peter ha, come tutti i bambini, un futuro aperto dinnanzi a sé. Non sappiamo che cosa diventerà ma è giusto che si senta un «bambino normale», senza che voi anticipiate il suo destino. Il fatto che sia ipersensibile può rivelarsi un handicap o un talento. Tutto sta nel modo con cui questa inclinazione verrà utilizzata. In questi casi i genitori temono che in futuro il loro figlio non possa cavarsela da solo. Invece è proprio sul lavoro che l’ipersensibili-

tà può rivelarsi un vantaggio. Nelle professioni attuali, sempre più relazionali e analitiche, la capacità di osservazione costituisce una dote rilevante: serve al terapeuta per stabilire un contatto diretto col paziente, al detective, come Sherlock Holmes, per cogliere indizi marginali, all’atleta per valutare l’avversario, allo scienziato per monitorare gli esperimenti. Nello stesso tempo però la persona ipersensibile non conosce il proprio corpo, le proprie potenzialità. Probabilmente a Peter, grande e grosso, basterebbe una mossa per mettere a posto i compagni prepotenti, ma lui non la fa perché teme di esagerare. In tal modo rischia di apparire debole, pauroso… una femminuccia. Di conseguenza, quello che potrebbe diventare un talento, rischia di

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Rivisitare le fiabe: nuova censura? Sono i bambini a leggerle ma, ovviamente, sono gli adulti a scriverle e a riscriverle per adeguarle agli umori del momento. E così i protagonisti delle favole tradizionali si presentano, oggi, con connotati ben diversi da quelli originali, cioè riveduti e corretti in senso virtuoso, o considerato tale. Ecco che, per citare il prototipo di questa metamorfosi, il lupo non mangia più i 7 capretti, come succedeva nel racconto dei fratelli Grimm, pubblicato nel 1812. A due secoli di distanza, un animale

che, per definizione, impauriva, sia nella realtà sia nelle raffigurazioni letterarie, compare invece nelle vesti di un bonaccione che, alla carne, preferisce insalate, carote e broccoli. Un campione, insomma, del vegetarismo e persino del veganismo, tendenze di moda, che è chiamato a svolgere una funzione educativa nei confronti del pubblico infantile, solitamente refrattario ai piatti di verdure. Nelle ultime settimane è arrivato, a tenergli compagnia, un altro convertito, il «T-Veg», un dinosauro,

T-Veg, il dinosauro vegetariano, nato dalla fantasia di Smriti Prasadam Halls.

pure lui vegetariano, inventato dalla scrittrice anglo-indiana, Smriti Prasadam Halls, e illustrato dalla disegnatrice anglo-greca Katherina Manolessou, una coppia di successo sul piano internazionale. Qui, infatti, proprio i classici per l’infanzia sono esposti, in prima fila, agli interventi dei revisionisti, animati da uno zelo, a prima vista lodevole, in realtà rischioso. Si tratta di modificare invenzioni fantasiose, come erano Cenerentola, Cappuccetto rosso, Biancaneve, Hänsel e Gretel e persino Pinocchio, e trasformarle in figure attuali, da mettere al servizio delle esigenze contemporanee, del pensiero dominante, politicamente corretto. Cioè ricavare dalle letture di queste pagine, che facevano sognare e magari impaurivano, lezioni d’ordine pratico: stimolare i bambini a mangiare frutta e verdura, e persino insegnare a «rispettare le diversità e l’inclusione sociale», come auspicava lo psicologo Adriano Schimmenti, sul domenicale del «Corriere della sera». Mentre, una specialista in letteratura per l’infanzia,


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 15 febbraio 2016 ¶ N. 07

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Ambiente e Benessere In Israele con Hotelplan Nuovo viaggio di gruppo in Medio Oriente proposto per i lettori di Azione

Contraddizioni cinesi Tra le vie della fabbrica del mondo, tutta grattacieli e mall di lusso, dove vengono costruiti i nostri modernissimi telefonini, a passeggiare senza App, senza googlemaps e senza internet

I semi di Chia Sono molte le proprietà riscoperte dei minuscoli chicchi d’origine messicana

C’è chi vince, c’è chi perde Il rialzo termico porterà alcuni animali a proliferare e altri ad aver maggiori difficoltà

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Canicola, piogge, siccità, inondazioni… Clima Otto le sfide che il Governo deve

affrontare per combattere le conseguenze dei cambiamenti atmosferici in atto

Marco Martucci La canicola della scorsa estate ci pare ormai molto lontana. Come per tante altre cose, il ricordo fa presto a sbiadire. Eppure tutto è registrato. Il mese di luglio 2015 è stato il più caldo degli ultimi 150 anni e le temperature delle estati 2015 e 2003 sono state le più elevate dal 1863, da quando cioè s’iniziarono in Svizzera misurazioni meteorologiche sistematiche. Chi ricorda ancora il novembre 2014, con un record secolare di precipitazioni a sud delle Alpi, Ceresio e Verbano straripati, frane e morti? Difficile dire, anche per gli esperti, se questi estremi meteorologici indicano un mutamento climatico. Di certo ci fanno capire quanto sia importante per noi il tempo meteorologico, con tutte le sue conseguenze, e che il clima sta decisamente cambiando. È sotto gli occhi di tutti il ritiro dei nostri ghiacciai alpini: in poco più di un secolo e mezzo la temperatura media nel nostro Paese è aumentata di 1,7 °C. All’origine di questi rapidi mutamenti stanno le emissioni di gas-serra, in primo luogo del diossido di carbonio CO2, che dovranno essere drasticamente ridotte a livello mondiale. Ma, anche potessimo rinunciare oggi stesso ai combustibili fossili, ciò che comunque non succederà, le temperature continuerebbero ad aumentare per inerzia. Arrestare un fenomeno di tale imponenza che coinvolge l’atmosfera e le acque degli oceani è come voler fermare in pochi metri un treno lanciato a gran velocità. Ormai, il meccanismo è in moto e con questo dobbiamo fare i conti. Oltre a ridurre le emissioni dovremo anche difenderci dalle conseguenze del cambiamento climatico. In tutto il Pianeta; dunque anche in Svizzera. E si sa: prevenire è meglio che curare e costa meno. Per questo, il Consiglio federale ha elaborato una strategia per l’adattamento ai cambiamenti climatici, della quale una prima parte, «Obiettivi, sfide e campi d’intervento» è stata presentata nel 2012, mentre il «Piano d’azione 2014-2019», nel 2014. Nella prima parte, fra l’altro, si esaminano le sfide derivanti dagli ef-

fetti dei cambiamenti climatici, le quali saremo – anzi, già siamo – chiamati ad affrontare. Cosa cambierà in Svizzera nei prossimi decenni, siamo preparati per questi cambiamenti? Quali parti del nostro Paese e quali settori saranno particolarmente toccati? Come dobbiamo agire? Ecco dunque, in breve, le sfide – otto – ognuna con qualche esempio di come il nostro Governo intende affrontarle. Potranno aumentare le canicole estive, in frequenza, intensità e durata e le ondate di caldo colpiranno soprattutto città e agglomerati urbani, dove già ora le temperature superano anche di dieci gradi quelle delle zone rurali. A soffrire in modo particolare saranno anziani, malati, bisognosi di aiuto e bambini molto piccoli. Inoltre, potremo assistere a un aumento delle intossicazioni alimentari: per il caldo molti cibi rischieranno di guastarsi. Ma il caldo si riflette anche sull’efficienza delle persone, sulla loro produttività e la capacità di concentrazione. Fra le misure dirette a ridurre la sensibilità di fronte a questo problema, dunque per adattarvisi con successo, sarà di fondamentale importanza la pianificazione degli spazi urbani, con alberi e aree verdi. Anche il comportamento della popolazione, informata tempestivamente, avrà un ruolo decisivo. A tutto ciò s’aggiungeranno l’impiego efficiente dell’energia negli impianti di condizionamento dell’aria, il rinverdimento di tetti e facciate, una nuova sensibilità di architetti e progettisti. I modelli climatici prevedono, soprattutto per la seconda metà del secolo, un aumento marcato della siccità estiva, con ripercussioni, a seconda della regione, del periodo e del settore, sulla gestione delle acque, l’agricoltura, le foreste, l’energia, la biodiversità e lo sviluppo territoriale. La riduzione dell’approvvigionamento idrico è già oggi una realtà per la Svizzera, che pur dispone di eccellenti riserve d’acqua. Nel futuro potrebbero sorgere problemi di competizione fra i diversi consumatori di questa risorsa: occorrerà dunque sia ridurre il fabbisogno sia ottimizzare le riserve disponibili. L’agricoltura potrà da una parte scegliere varietà adatte

Valle di Saas, Alto Vallese. (Marco Martucci )

a un clima più arido, dall’altra dovrà sviluppare tecniche d’irrigazione più efficienti. Il settore energetico potrà essere toccato nella produzione di energia idroelettrica, dovrà sfruttare efficacemente il potenziale residuo e sviluppare le nuove energie rinnovabili. Il possibile aumento degli incendi di bosco richiederà una rivalutazione dei servizi di protezione della popolazione. In inverno, ma anche all’inizio della primavera e dell’estate potrebbe aumentare il rischio di piene a causa fra l’altro del previsto aumento delle precipitazioni invernali e dell’innalzamento del limite delle nevicate. Pur essendo queste previsioni piuttosto incerte, un aumento delle piene toccherebbe in modo particolare le aree urbane, gli edifici, le vie di comunicazione, le superfici agricole. In Svizzera, la protezione contro le piene è già garantita. Un ruolo primario nell’adattamento al maggior rischio di piene verrà assunto dalla pianificazione del territorio. Salvaguardia di superfici permeabili e spazio necessario per i corsi d’acqua faranno parte delle misure per garantire

la capacità del suolo di assorbire acqua e dei fiumi di ritenere le piene. I tragici eventi del novembre 2014 ci hanno resi ancor più consapevoli che il nostro territorio montagnoso è soggetto a frane e smottamenti. Il futuro delle regioni montuose della Svizzera, Giura e ambiente alpino, vedrà un’ulteriore diminuzione della stabilità dei pendii e una maggior frequenza dei cosiddetti movimenti di masse, a causa del rapido scioglimento dei ghiacciai, della lenta scomparsa del permafrost, dell’innalzamento del limite delle nevicate e dell’aumento delle precipitazioni intense. L’adattamento richiederà l’osservazione dello scioglimento dei ghiacciai e della scomparsa del permafrost, l’allestimento e l’aggiornamento delle carte dei pericoli. Gli indispensabili boschi di protezione dovranno adeguarsi ai cambiamenti del clima. L’innalzamento del limite delle nevicate è un tema che da qualche anno interessa anche il grande pubblico, soprattutto per quanto riguarda il turismo invernale. L’innevamento artificiale è solo una risorsa temporanea

alla quale dovrà seguire una diversificazione dell’offerta turistica. Anche la gestione dei bacini di accumulazione per la produzione di energia idroelettrica dovrà adattarsi ai cambiamenti delle portate. I mutamenti climatici potranno ripercuotersi sulla qualità di aria, acqua e suolo. Ad esempio, sempre più zone stabili di alta pressione aumenteranno la concentrazione di inquinanti, cui si dovrà far fronte limitando ancor più le emissioni. Aumento delle temperature e cambiamenti delle precipitazioni avranno effetti anche sugli habitat, sulla composizione delle specie e sul paesaggio. Si modificheranno gli spazi adatti alle colture come pure la distribuzione altitudinale di animali (v. articolo a pag. 19) e piante. Per specie molto sensibili si potrà ricorrere a un trasferimento. Organismi nocivi, malattie e specie esotiche potranno aumentare come conseguenza di inverni più miti clima più caldo. Ricerca scientifica e collaborazione internazionale aiuteranno ad affrontare anche questa minaccia.


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Ambiente e Benessere

Da Israele a Petra

Tagliando di prenotazione Desidero iscrivermi al soggiorno estivo dal 22 al 29 maggio 2016:

Hotelplan Alla scoperta di terre magnifiche grazie a Hotelplan

e alla sezione ticinese dell’Associazione Svizzera Israele; il viaggio è previsto dal 22 al 29 maggio 2016

Nome Cognome

Un viaggio di gruppo affascinante alla scoperta delle località di maggiore interesse storico e archeologico di Israele, per poi proseguire verso il cuore della Giordania è quanto viene proposto da Hotelplan in collaborazione con la sezione ticinese dell’Associazione Svizzera Israele ai lettori di Azione.

Due terre magnifiche che fondono insieme modernità e tradizione, natura e storia. Sarà l’occasione per visitare incantevoli paesaggi naturali, città antichissime e una grande varietà di etnie, lingue e fedi. Il viaggio porterà i partecipanti alla scoperta dei tesori di Gerusalemme, come il Muro del Pianto

e la città vecchia, vero cuore di Gerusalemme dove si fondono le tre religioni monoteiste, dove si trova il bazar arabo, la Via Dolorosa e le stazioni della «Via Crucis» fino al Santo Sepolcro: con le sue cappelle che sono racchiuse nel luogo più santo della Cristianità. Proseguendo verso sud lungo le

Il programma di viaggio 22 maggio Ticino / Milano / Tel Aviv / Gerusalemme Trasferimento in bus Ticino / Malpensa Partenza per Tel Aviv con volo di linea. Trasferimento in bus a Gerusalemme. Sistemazione in hotel. 23 maggio Gerusalemme La mattina visita della città vecchia. Nel pomeriggio visita allo «Yad Vashem» il Memoriale dell’Olocausto, eretto in memoria dei martiri della barbarie nazista. 24 maggio Gerusalemme / Wadi Rum In mattinata partenza per il monastero

ortodosso di S. Giorgio Koziba; si procede per Massada, nel deserto di Giudea. Proseguimento per il confine con la Giordania verso Wadi Rum. Pernottamento in campo tendato. 25 maggio Wadi Rum / Petra Partenza in 4x4 per l’esplorazione del deserto; uno spettacolare scenario desertico formato da sabbia e rocce rossastre. Proseguimento per Petra e tempo a disposizione. Cena e pernottamento in hotel. 26 maggio Petra / Tel Aviv Partenza per la visita a Petra.

Proseguimento per il confine con Israele e arrivo a Eilat. Volo per Tel Aviv. 27 maggio – Tel Aviv Partenza per l’animata Jaffa, e si prosegue lungo il litorale per raggiungere Cesarea Marittima, capitale erodiana e fortezza dei Crociati. Quindi Haifa, centro industriale costruito sul Monte Carmelo. Rientro a Tel Aviv. 28 maggio – Tel Aviv Visita del Lago di Tiberiade, Nazareth e Cana. Rientro a Tel Aviv. 29 maggio Tel Aviv / Milano / Ticino Giornata a disposizione e prima del trasferimento in aeroporto, visita della città.

Bellinzona

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Lugano

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Viale Stazione 8a 6500 – Bellinzona T +41 91 820 25 25 bellinzona@hotelplan.ch

Centro Comm. Serfontana 6834 – Morbio Inferiore T +41 91 695 00 50 chiasso@hotelplan.ch

Via Pietro Peri 6 6900 – Lugano T +41 91 910 47 27 lugano@hotelplan.ch

Via Emilio Bossi 1 6900 – Lugano T +41 91 913 84 80 lugano-viabossi@hotelplan.ch

Via NAP Località

rive del Mar Morto, si attraverserà poi il deserto del Wadi Rum formato da sabbia e rocce rossastre per arrivare a Petra, capitale del Regno dei Nabatei, gioiello nazionale e Patrimonio dell’Unesco. Infine si ritornerà in suolo israeliano e si visiterà il Lago di Tiberiade, Nazareth e Cana. Tutto in Hotel da cinque stelle.

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notti. Trattamento come specificato nel programma. Guide locali parlanti italiano durante le visite come da programma in pullman privato. Visite, entrate ai siti e alle chiese menzionate nel programma. Facchinaggi negli hotel (1 bagaglio per persona). Tasse e percentuali di servizio . La quota base non comprende Assistenza aeroportuale in Italia. Accompagnatore dall’Italia. Visti (ove necessario). Tasse di uscita dalla frontiera Allenby Bridge (circa USD 50,00 PP). Tassa di uscita dalla Giordania (circa USD 15,00 PP). Le mance per guide ed autisti. Pasti e bevande ove non menzionati, mance ed extra in genere.

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Ambiente e Benessere

La skyline di Shenzhen vista dal KK100. (Danilo Elia)

Ritorno al futuro Viaggiatori d’Occidente Spostarsi con gli strumenti tradizionali nella città più moderna della Cina Danilo Elia Grigio ovunque, Shenzhen si scioglie nello smog denso. Il mio smartphone tace. La Grande muraglia digitale cinese, il firewall con cui il governo controlla Internet in tutto il Paese, blocca quasi ogni servizio occidentale: mappe di Google, traduttore, email, Messenger, Facebook… Tutto è offline. Lo smartphone è tornato a essere soltanto un telefono. Non posso recuperare l’email con l’indirizzo dell’ostello né la mappa della metropolitana e meno che mai quella della città; non posso tradurre quel segnale stradale o il menu in cantonese;

non posso condividere con i miei amici quel che mi accade. Al massimo posso fare una telefonata che mi prosciugherà il credito o mandare un sms a casa: roba da anni Novanta. E così sono costretto a rispolverare gli attrezzi tradizionali del viaggiatore, che sono solo di ieri ma sembrano già antichi: cartine, informazioni a gesti, indirizzi scarabocchiati dove capita. E quindi perdersi, andare alla deriva, sbagliare strada, lasciarsi guidare dall’umanità in movimento e non dal GPS. Il paradosso è che questo avviene nel Paese del futuro, dove i treni levitano su cuscini magnetici e i pa-

lazzi bucano il cielo; e proprio nella capitale mondiale dell’elettronica, dove si costruiscono praticamente tutti i gadget high-tech che inondano i nostri negozi, compreso il mio smartphone. Se non ci fosse ancora un confine solido come una barriera, Shenzhen potrebbe essere un prolungamento di Hong Kong, dove si arriva con una corsa in metropolitana. Ma soprattutto Shenzhen è tutt’uno con Guangzhou, Foshan e Dongguan: insieme contano 260 milioni di abitanti, il più grande agglomerato urbano della terra, esteso quanto la Svizzera. Un’espansione che ha avuto la forza del big bang da quando nel 1979

Lo Yitian Holiday Plaza, mall del lusso di Futian e negozi di lusso su Shennan Road. (Danilo Elia)

il governo di Pechino decise che qui sarebbe sorta una città che avrebbe rivaleggiato con Hong Kong, allora protettorato inglese. Il risultato è questa metropoli in perenne costruzione. Centri commerciali scintillanti e botteghe polverose, alberghi a sei stelle e interi quartieri ancora senza fogna, una metropolitana modernissima ma niente acqua potabile dai rubinetti, palazzi di vetro e impalcature di bambù. Shenzhen vive in un futuro distopico. A Shenzhen ci si viene per fare shopping fino a sera e poi ricominciare il mattino dopo. Quasi tutti arrivano in metropolitana. Escono dalla stazione Lu Wo di Hong Kong la mattina presto, passano la frontiera e si tuffano in un’orgia di acquisti finché durano le forze. Sfatti, rientrano carichi come muli da soma. Bisogna seguire questo flusso per capire Shenzhen. Un paio di fermate della metropolitana mi depositano a Huaquiang, il gigantesco mercato dell’elettronica. Un intero quartiere di megastore, frastuono di luci e suoni, maxischermi ovunque. Il vero nirvana dello shopping è però a Laoje. Per raggiungerlo bisogna immergersi di nuovo in metropolitana. Mi muovo su linee colorate ignorando cosa scorra sulla mia testa in superficie. Laoje è il sogno di ogni shopping addicted, moltiplicato per due. Tutto quello che si può immaginare è qui, a prezzi che vanno dalla metà a dieci volte meno che in Occidente. Nei fine settimana le vie del quartiere si riempiono all’inverosimile di cinesi ubriachi di nuovo benessere e stranieri in preda a una specie di Sindrome di Stendhal davanti a tanta abbondanza. Laoje, dicono, è la vera faccia di Shenzhen. Ma mi sto convincendo che questo viaggio sotterraneo tra linee e punti non renda giustizia a questa città. Ho bisogno di muovermi in superficie, ma non è per niente facile in una griglia di strade a dieci corsie, tunnel e viadotti, che si spande per 80 chilometri tra

quartieri popolosi come intere nazioni. Per orientarsi in un posto così bisogna rimuovere dalla mente l’idea di tour, lasciarsi portare dallo straniamento, dimenticare la meta. E non avere quella scatola delle meraviglie chiamata smartphone aiuta. Shennan Road attraversa i distretti di Luohu e Futian da est a ovest. Sembra un’arteria come le altre, ma qualcosa la rende diversa. Sarà forse la mancanza di un centro storico, di un nucleo originario riconoscibile a far nascere il bisogno di concentrare comunque da qualche parte tutto il meglio che la città sa offrire in termini di sfacciata opulenza, occidentalizzazione, grandiosità architettonica. Si può percorrere Shennan Road a piedi – magari non tutta, dato che è lunga 22 chilometri – passando da un canting, una tipica taverna cinese, a un centro commerciale di marchi di lusso, facendosi guidare dalle sagome dei grattacieli come fari metropolitani: lo Shun Hing Square con le sue due antenne bianche, il Golden Business Centre tutto d’oro come un candelabro barocco, il SEG Plaza lucente e sfaccettato come un prisma. E poi c’è il KK100, il mezzo chilometro di ferro e vetro sul quale mi trovo ora. Guardo Shenzhen dal centesimo piano del grattacielo. Quando ci sono arrivato avevo già macinato diversi chilometri, ma sembrava che non mi fossi spostato da dov’ero partito. Ogni angolo, ogni incrocio sembrava la copia di quello precedente. E in realtà non sapevo neanche dove mi trovavo esattamente, in questo pagliaio di cemento. Ho una mappa, ma è di carta. Racchiude una porzione di tutta la megacittà, non la posso zoomare, non la posso spostare. Mi manca la visione d’insieme. Shenzhen, là sotto, è un frattale inestricabile che neppure dal palazzo più alto lo sguardo può abbracciare interamente. Intanto di fronte a me un grattacielo ancora più imponente sta già sorgendo…


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Anteprima mondiale dalla Opel Motori Al Salone di Ginevra sarà presentato il prototipo della nuova futuristica supercar GT Concept Mario Alberto Cucchi Si chiama GT Concept ed è il nuovo prototipo Opel che debutterà il prossimo marzo al Salone di Ginevra. Un’anteprima mondiale che permetterà di vedere questa sportiva due posti dal vivo, ma qui vi offriamo comunque le prime foto ufficiali di questa futuristica mini supercar.

Un’auto scultorea che mette in mostra le caratteristiche eccitanti ed emozionanti del marchio Opel Si sa già molto: il motore è centrale e la trazione posteriore come la prima Opel GT o come la Corvette, altra icona del Gruppo General Motor. Un potente 3 cilindri turbo in alluminio da soli 1000 cc che è in grado di erogare sulla GT Concept una potenza massima di 145 cavalli e di sviluppare una coppia massima di 205 Newton Metro. Molti, per un’automobile che pesa meno di 1000 chilogrammi. La potenza del turbo viene inviata all’asse posteriore dotato di differenziale meccanico autobloccante attraverso un cambio sequenziale a sei velocità, azionato da levette al volante. E le prestazioni? La vettura passa da 0 a 100 km/h in meno di 8 secondi e raggiunge una velocità massima di 215 chilometri orari. Discendente diretta dell’avveniristica Monza Concept que-

sta GT introduce la prossima fase del linguaggio stilistico Opel. «Con la GT Concept mettiamo in mostra le caratteristiche eccitanti ed emozionanti del marchio Opel. È una vettura scultorea e piena di innovazioni. Tutti elemen-

ti – ha dichiarato Mark Adams, Vice President, Design Europe – che fanno parte della nostra tradizione e che continuano a essere presenti nei nostri modelli. Nel 1965 Opel sviluppò la Experimental GT, un veicolo modernissimo

caratterizzato da una forma scultorea pura. Sicuramente è difficile reinventare un’icona, ma proprio come la Experimental GT si poneva all’avanguardia allora così fa la GT Concept oggi: una vettura pura, minimalista e allo stesso

tempo audace e senza compromessi. La coupé dimostra in maniera convincente il continuo sviluppo della nostra filosofia stilistica. L’arte scultorea incontra la precisione tedesca». Dalla Experimental GT esposta allo IAA di Francoforte nel 1965 derivò poi la Opel GT di serie che debuttò nelle concessionarie tre anni dopo. Un modello che negli anni ha riscontrato un successo straordinario diventando una vera icona. Rispetto alla Gt anni Sessanta, la GT Concept che sarà esposta a Ginevra è più larga e piatta. Gli pneumatici anteriori rossi montati su cerchi con stile ispirato ai pattini a rotelle ricordano la Opel Motoclub 500: una motocicletta all’avanguardia nel 1928. Altri elementi che strizzano l’occhio alla vecchia GT sono il cofano anteriore allungato, l’assenza di quello posteriore e il doppio scarico centrale. Sulla GT Concept mancano le maniglie e gli specchietti esterni sulle portiere. Non sono però dimenticanze. Le portiere si aprono elettricamente sfiorando il touchpad integrato nella linea rossa del tetto. Mentre al posto degli specchietti ci sono due monitor interni posizionati a sinistra e a destra del cruscotto a cui giungono le immagini riprese da due telecamere montate dietro ai passaruota. Un’ultima chicca sono i fari Opel IntelliLux Led a matrice, già presentati sulla nuova. Il design dei fari viene completato dallo stile tridimensionale dei gruppi ottici posteriori che rendono la nuova GT inconfondibile anche di notte. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Bere anche quando non si ha sete Il vino nella storia La vite e i suoi derivati, secondo Plinio il Vecchio nella sua opera Naturalis Historia Davide Comoli Grandi scrittori della latinità, come Catone, Columella, Virgilio, Orazio, Varrone, tanto per citarne alcuni, hanno dedicato dei veri e propri trattati alla vite e al vino. Partendo anche da questa considerazione non vanno dimenticati dei testi fondamentali e purtroppo per noi perduti, del cartaginese Magone e degli etruschi Saserna, padre e figlio. Nei nostri scritti, abbiamo più volte citato Plinio il Vecchio, per distinguerlo dall’altrettanto celebre nipote Plinio il Giovane (61-113 d.C.). Gaio Plinio Secondo, detto il Vecchio, fu il più grande scrittore latino enciclopedico del I sec. d.C.. Nacque a Como nell’anno 23. Ricoprì molte cariche militari e civili, quando a Roma erano imperatori Vespasiano e in seguito Tito. Delle sue molte opere (purtroppo perdute), rimane soltanto l’ultima Naturalis Historia scritta in 37 libri e nella quale egli raccolse un enorme materiale scientifico estratto da decine di autori greci e latini. In quest’opera, egli riassume tutte le conoscenze degli antichi del mondo di allora. Anche la sua morte fu un atto coerente di una vita interamente dedicata alla scienza. Di tutte le vittime causate dall’eruzione del Vesuvio nell’anno 79 d.C. che sommerse Pompei, Stabia ed Ercolano, Plinio fu sicuramente la vittima più illustre. Con le navi della flotta romana di cui era ammiraglio, accorse di persona sia nel generoso tentativo di salvare vite umane, sia per vedere da vicino lo straordinario fenomeno naturale del vulcano in eruzione.

29 capitoli che compongono il XIV libro della Naturalis Historia, sono interamente dedicati alla «vite e al vino», argomento peraltro non del tutto esaurito in quella sede. Nel successivo XVII libro che tratta dell’arboricoltura, infatti, vengono affrontati in dettaglio i problemi relativi all’esposizione delle vigne, ai metodi di coltura e alle malattie delle piante. È proprio in questo capitolo che Plinio per primo, già più di 2000 anni or sono, individua l’importanza del terroir! E scrive: «(sul vino) influiscono la regione e il tipo di terreno, non l’uva, è quindi inutile voler enumerare tutte le specie, perché una stessa vite dà risultati diversi secondo i luoghi». Orgogliosamente, in Ticino possiamo dimostrare quanto questa affermazione sia corretta, il nostro vitigno principe Merlot, coltivato nelle diverse zone del Cantone dà origine a vini molto diversi tra loro. Nel XXIII libro l’autore, invece elenca gli usi medicinali della vite e dei suoi derivati, incluso il vino. Il tema della vite e del vino viene trattato dall’autore con dovizia di informazioni e, affinché il lettore non abbia dubbi sull’importanza del vino, nel XXIII libro del N. H. Plinio scrive: «Il genere umano deve al vino la prerogativa di essere i soli esseri viventi che bevono pur senza aver sete». Il rileggere le pagine del N. H. ci fa conoscere il punto in cui si trovava la trasformazione dell’uva in vino a quell’epoca e non mancano spunti vivaci e curiosità varie. Come ad esempio l’annotazione in cui Plinio scrive «dell’annata mitica» del vino.

La bottega di un vinaio a Ercolano, con anfore e vasi. (Tratta da Il vino nella storia, a.d., Editoriale Domus, 1981)

L’anno in cui i vini sono diventati una leggenda fu il 633° dalla fondazione di Roma (il 121 a.C.) per noi sotto il consolato di Lucio Opimio; un’annata della quale si conservano i vini ancora sul finire del I sec. d.C. Nel XIV libro, Plinio ce li descrive così: «I vini vecchi di quasi duecento anni si sono trasformati in una sorta di miele amaro». Di questo vino, Trimalcione, nel celebre banchetto del Satyricon di Petronio (tra il 50 e il 60 d.C.), fa servire a tavola «anfore di cristallo, accuratamente sigillate che portano attaccate al collo etichette con la scritta “Falerno Opimiano” di cento anni». Sempre nel XIV libro, non può non stupirci il dettagliato e il lungo elenco di viti autoctone presenti nel mondo conosciuto d’allora e, addirittura, Plinio stila

pure (antesignano del Gambero Rosso) una classifica dei vini italici. Al primo posto pone il Cecubo, vino prodotto a Terracina, poi viene il Falerno coltivato tra il Lazio e il Volturno, pone quindi i vini prodotti sui colli Albani e nella penisola sorrentina al 3° posto e al 4° posto il Mamertino prodotto a Taormina. Plinio, elenca pure i vitigni di Grecia, Spagna e Francia, ma dice poco o nulla della Gallia Cisalpina. Per saperne di più sui vini prodotti nell’odierno Canton Ticino, dobbiamo farci aiutare dal geografo-storico greco Strabone (63 a.C.-20 d.C.) e del suo Geografia, ma un grazie di cuore va soprattutto all’opera di ricerca del Gruppo Archeologia Ticino. Il ringraziamento è per i loro ritrovamenti di vasellami risalenti al V e IV sec. a. C., basandoci sui

quali possiamo conoscere meglio le abitudini di coloro che ci hanno preceduto. Di certo i nostri padri «bevevano» e con il tempo, grazie ai commercianti Etruschi, oltre a conoscere e apprezzare il vino, assimilarono le tecniche di produzione dello stesso e la coltivazione della vite. Le vie d’acqua come quella Ticino – Lago Maggiore hanno sicuramente favorito gli scambi tra le locali popolazioni dei Leponti e il mondo EtruscoRomano, giacché il vino era di certo una preziosa merce di scambio. Sempre grazie all’aiuto del Gruppo Archeologico, sappiamo che la vitis raetica era il vitigno coltivato nella vasta zona che comprende l’attuale Grigioni, il Tirolo, la Lombardia settentrionale e forse il Sopraceneri, e il suo vino era molto considerato. Lo stesso imperatore Augusto lo usava contro la sterilità. Un altro vitigno dell’epoca era la vitis gallica, forse la Spionia citata dal Plinio e antenata dell’odierno Nebbiolo coltivato in Ticino sino ai primi del Novecento e coltivata nelle Centovalli con il nome di Prunent. Il vino comunque doveva essere, critica il solito Plinio, di gusto allappante per la forte concentrazione di tannino, e a poco servivano i famosi vasi a trottola dall’imboccatura stretta per mantenere profumi e aromi. Con precisione, comunque, non sappiamo quando le popolazioni locali incominciarono a coltivare la vite, sappiamo però con certezza da analisi effettuate sui sedimenti lacustri nei pressi del lago di Muzzano, che la vite era presente in Ticino già a partire dalla fine dell’età del Bronzo, vale a dire nel XII secolo a.C. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 15 febbraio 2016 ¶ N. 07

Ambiente e Benessere

I più buoni e teneri sono quelli bianchi Gastronomia Crescono un po’ ovunque e fra poco tornano ad essere di stagione: sono gli asparagi,

Tra non molto incominciano ad arrivare sul mercato gli asparagi – anche se non spariscono mai, il sud del mondo ne produce di ottimi, soprattutto il Perù, che è secondo produttore al mondo dopo l’inarrivabile Cina, la quale dal canto suo ne produce più di tutti gli altri messi assieme. Curiosamente non ho mai parlato degli asparagi. Succede. Anni fa ho solo scritto su come si mondano. Rimediamo.

Tra i migliori, il Bianco di Bassano, dal tipico gusto dolce-amaro, dritto e senza spaccature trasversali Dalle nostre parti le persone si suddividono in due tifoserie – capita, non solo per il cibo: quelli che fra le verdure prediligono gli asparagi e quelli che prediligono i carciofi; ovviamente patate, pomodoro e cipolle giocano in un altro campionato, anzi in un altro sport. Io sono laico e dico sempre che amo tutte le preparazioni a patto che siano buone, però alla fine per me vince l’asparago: scelta non razionale fin che volete, ma non si vive di sola analisi critica. L’asparago è una strana pianta. Sembra sia nata in Asia Minore e vive per molti anni. La parte commestibile, quella che noi chiamiamo asparago, è data dai turioni (la parte terminale) dei rizomi (fusti) sotterranei, che crescono appunto in primavera. Se questi turioni escono dalla terra en plein air, diventano verdi, a causa della fotosintesi. Se invece restano sottoterra, nel senso che è la mano dell’agricoltore a provocare questo, restano bianchi, più delicati dei confratelli verdi. Purtroppo non si conosce nulla di quel genio, apostolo del buon mangiare, che ebbe l’intuizione di questa crescita forzata sotterranea: che proprio intuitiva non è. La prossi-

ma volta che mangiate asparagi bianchi, brindate a lui. I cultivar di asparagi sono tantissimi, anche quelli di asparagi bianchi. Fra i tanti, prediligo il Bianco di Bassano, coltivato a Bassano del Grappa e in altri dieci comuni limitrofi, dal tipico gusto dolce-amaro, dritto e assolutamente senza spaccature trasversali. Segni particolari: è buonissimo, le parole sono proprio inutili, quindi gustatelo e poi chiedetevi perché è così buono. Comunque tutto il mondo produce asparagi. Con una media di sapore estremamente alta: ben raramente ho trovato un asparago cattivo. Sono pochi gli ingredienti di cui dico questo. Per mangiarlo, salvo eccezioni, bisogna separare le punte dai gambi. Le punte si sbollentano per pochi minuti, poi, tradizionalmente tagliate a metà per il lungo si finisce di cuocere in umido per pochi minuti insieme agli altri ingredienti previsti. Quanto ai gambi, si eliminano i primi due centimetri, si pelano, si tagliano a rondelle e si cuociono meglio a vapore ma anche in acqua: muoiono se alla fine vengono frullati, insaporiti e utilizzati come crema. Fra le eccezioni che accettano la cottura degli asparagi interi, ovviamente con i gambi pelati, ce n’è una misticamente buona: gli asparagi alla Chantilly. Sono così. Mondate una ventina di asparagi e cuoceteli al vapore per 15 minuti. Intanto montate bene 100 g di panna e, separatamente, 1 albume con 1 punta di sale, a neve. Preparate con 2 uova, poco succo di limone, 1 punta di senape e olio metà di semi metà di oliva una maionese, in un frullatore o con il minipimer. Alla fine incorporate l’albume e la panna montati: questa salsa si chiama chantilly, non c’entra nulla con l’omonima panna montata e zuccherata. Scolate gli asparagi, appena non sono così caldi che si possono toccare con le mani metteteli nei piatti individuali e serviteli nappati con la chantilly. Di più non si può.

CSF (come si fa)

Zorro 2212

Allan Bay

Andrea Martinello

ottimi con la Chantilly

La porchetta è sicuramente uno dei più mitici piatti della tradizione italiana. Chi scrive sospetta, o meglio crede che sia originaria dell’Italia centrale, ma anche i sardi la rivendicano. Consiste in un maialino meglio se da latte intero, svuotato delle frattaglie, disossato (ma tutto questo lo fa il macellaio…) farcito e cotto. Purtroppo sempre in meno la facciamo a casa e preferiamo comprarla in rosticceria,

al punto che è diventato il più classico dei piatti di rosticceria – per non parlare dei camion attrezzati che illuminano le notti offrendo questa e altre preparazioni ai nottambuli. Non è però un piatto complesso da preparare ed è ideale per un gran pranzo con tanti amici. Certo, bisogna avere un forno grosso… Vediamo come si fa. Porchetta farcita. Per 8 persone. Tritate 700 g di carne di maiale e 300 g di fegato di maiale al tritatutto e impastateli con 2 fette di pancarré ammollate per 5’ nel latte e strizzato, 2 uova, rosmarino e timo tritati, sale e pepe. Riempite 1 porchetta da latte da 3 kg – ben pulita, svuotata e disossata – con questa farcia. Fate tanti piccoli taglietti nella pelle per favorire l’uscita dei grassi e legatela con filo da cucina in modo da impedire la fuoriuscita della

farcia durante la cottura. Mettetela in una capace casseruola, con le zampe in basso. Con un pennello, ungete la porchetta con olio. Cuocetela in forno a 180° per 2 ore, spennellandola spesso con il fondo di cottura: la pelle diventerà bella croccante. Servitela intera su un (grosso!) piatto di portata e tagliatela davanti ai commensali. Nappate col fondo di cottura filtrato. Classico accompagnamento, sono le patate arrosto. Se siete attrezzati, la porchetta cuoce perfettamente allo spiedo, più che mai in questo caso dovete spennellarla continuamente con olio. Esistono negli Stati Uniti delle salse al profumo di legno da pennellare sulla carne che cuoce: sono meglio di quanto sembri, però bisogna procurarsele…

Ballando coi gusti Oggi due preparazioni a base di gnocchi: piacciono sempre a tutti, grandi e piccini…

Gnocchi con ragù di porcini

Gnocchi di polenta alle verdure

Ingredienti per 4 persone: 1 kg di gnocchi di patate · 300 g di funghi porcini · 1

Ingredienti per 4 persone: Per gli gnocchi: 1 l di latte · 250 g di farina di mais · 3

cipolla · 100 g di salsa di pomodoro · 1,5 dl di panna · 5 cucchiai di vino liquoroso · prezzemolo · burro · sale e pepe.

tuorli · burro · noce moscata · 50 g di grana grattugiato · sale. Per condire: 300 g di verdure da soffritto tagliate a dadini · 1 pomodoro · 1 bicchierino di brandy · 1 cucchiaio di concentrato di pomodoro · 50 g di burro · sale e pepe.

Fate rosolare la cipolla tritata in una padella con una noce di burro, poi unitevi i funghi mondati e affettati e saltateli finché non avranno buttato fuori tutta la loro acqua, alla fine sfumate col vino. Unite il pomodoro e la panna e fate amalgamare, regolate di sale e di pepe e profumate con prezzemolo. Lessate gli gnocchi in abbondante acqua salata. Scolateli con il mestolo forato man mano che vengono a galla, trasferiteli nella padella e mescolateli. Serviteli subito.

Fate bollire il latte con 20 g di burro, sale e noce moscata. Mescolando con la frusta versate a pioggia la farina, senza smettere di mescolare cuocete per 20 minuti, poi incorporate i tuorli e il grana. Versate il composto sul piano di lavoro inumidito e con l’aiuto di una spatola bagnata stendetelo in uno strato spesso 2 cm. Lasciatelo raffreddare. Rosolate le verdure nel burro; bagnate con il brandy, fate sfumare e aggiungete il pomodoro a dadi e il concentrato diluito in acqua. Fate cuocere per 10 minuti, poi frullate, salate e pepate. Ricavate dei dischetti dal composto per gli gnocchi, disponeteli in una pirofila imburrata, condite con qualche fiocchetto di burro e fate gratinare in forno a 200° per 20’. Nappateli con la salsa calda e servite.


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Ambiente e Benessere

I magici semi della forza Alimentazione La riscoperta dei tesori nascosti del sapere antico portano alla ribalta la Chia Loris Fedele Esistono diverse iniziative nell’ambito di programmi che mirano a combattere la fame nel mondo. Tra questi, la riscoperta e la promozione di antiche coltivazioni che per colpa dello sviluppo industriale, della massificazione mondiale della produzione alimentare o, semplicemente, perché ignorate o cancellate dalle culture dominanti, avevano perso di importanza ed erano state dimenticate. È stato il caso della Quinoa (v. «Azione» n° 15 dell’8 aprile 2013), largamente consumata dalle comunità precolombiane e preincaiche dell’America Latina, per la quale la FAO lanciò una campagna promozionale nel 2013, con il sostegno dell’Assemblea generale dell’ONU. Oggi la Quinoa, la cui spiga genera chicchi di forma rotonda simili a quelli del miglio, è in vendita anche da noi ed è molto apprezzata non solo dagli adepti delle diete vegetariane. Dalle stesse zone del Centro e Sud America viene un’altra specie vegetale, riscoperta nel 1991 grazie a un programma di sviluppo avviato nel nord dell’Argentina, in Colombia e in Perù. I suoi semi sono stati subito adottatati

Così si presentano i semi di Chia. (Stacy Spensley)

dai salutisti americani e dai vegetariani, e recentemente si sono imposti all’attenzione europea per le eccellenti proprietà nutrizionali. Si tratta dei semi

di Chia, ricavati da una pianta floreale della famiglia delle Labiatae, la Salvia hispanica. È una pianta erbacea annuale, che cresce fino a un’altezza di un me-

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541 Trucchi e Consigli della Nonna

La cannella: un patrimonio di benefici per la salute … Chi l’avrebbe creduto? Un tempo bramata più dell’oro, in Cina la cannella viene usata da secoli per controllare il livello degli zuccheri nel sangue. Secondo uno studio pakistano del 2003, la cannella riduce fino al 29% il tasso glicemico nei pazienti affetti da diabete di tipo 2. Utilizzata da secoli per alleviare i dolori provocati dall’artrite, un recente studio dell’Università di Copenhagen ha confermato che una combinazione di cannella e miele procura ai pazienti affetti da artrite un significativo sollievo dopo una sola settimana. Che splendida notizia! La cannella contiene più di 80 principi nutritivi, ma non grassi, zuccheri, colesterolo né sodio. Un cucchiaino di cannella ha un apporto calorico di sole 6 calorie.

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Allevia la stitichezza e impedisci che si ripresenti con questo rimedio naturale ● Ferma la diarrea, il vomito e altri disturbi addominali con questi suggerimenti incredibili ● Aiuta le arterie intasate con questo aceto ● Allevia il dolore artritico con questo ingrediente aggiunto al bagno ● Elimina il desiderio di nicotina con questo intruglio cremoso ● Rilassa i piedi stanchi e doloranti con questo pepe nei calzini ● Una cura casalinga per il piede d’atleta ● Non riesci a prendere sonno? Prova questo rimedio naturale per una bella notte di riposo! ● Affila le forbici smussate con questa soluzione rapida disponibile in cucina ● Aumenta l’efficienza energetica in casa con questi consigli incredibili ● Ecco un suggerimento per una carnagione setosa e delicata ● Sconfiggi le caviglie gonfie con questo ingediente disponibile in cucina ● Prendi una pagina di questo libro per migliorare il sapore del pesce ● Aggiungi questo a un piatto di tacchino per una sensazione davvero gustosa Trucchi e consigli della nonna per le faccende domestiche ti aiuterà a risolvere in maniera semplice i problemi quotidiani. Potrai risparmiare tempo e denaro... e ti sorprenderai di quanti cosiddetti prodotti “essenziali” di marca si possano eliminare e sostituire con alternative economiche. ●

Elimina gli odori dalle scarpe con il bicarbonato di sodio, funziona! I colori sbiadiscono durante il lavaggio? Vai al capitolo 2 e scopri le meraviglie del giorno del bucato Ripristina la lucentessa del tuo bagno con le vecchie tende Basta con le macchie ostinate e gli odori nel microonde: ecco come sbarazzarsene facilmente Sconfiggi le caviglie gonfie con questo ingrediente disponibile in cucina Stappa i canali di scolo più difficili in un batter d’occhio Scopri come eliminare le macchie ostinate da indumenti, tappeti e tappezzeria Scopri come la lacca per capelli può rinnovare il linoleum Metti a bagno la dentiera per una lucentezza che dura Utilizza questa verdura quotidiana per lenire le scottature Un segreto d’oro che ti aiuterà a mantenere a bada la voglia di un goccetto Riduci gli occhi gonfi in soli 10 minuti Ferma la diarrea, il vomito e altri disturbi addominali con questi suggerimenti incredibili

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tro e settanta, con foglie opposte e infiorescenze composte di color porpora e bianche poste in cima a ogni stelo. È originaria del Messico e del Guatemala. A un certo punto si parlò di Salvia colombiana, salvia messicana, e poi salvia spagnola, ma il nome di hispanica, che si impose, glielo diede il botanico svedese Linneo nel Settecento, indotto all’errore dal fatto che i conquistadores spagnoli la portarono in patria nel 1521 e, dato il clima favorevole, si sviluppò tanto da far ritenere che fosse originaria della Spagna quando Linneo mise mano alla sua classificazione 200 anni dopo. La Salvia hispanica, o Chia, fu descritta e rappresentata per la prima volta nel Codice Mendoza, compilato a partire dal 1540, una ventina d’anni dopo la conquista spagnola del Messico. Mostra i tradizionali pittogrammi degli scribi aztechi, corredati con l’aggiunta di una traduzione e un commento spagnolo. Il Codice Mendoza, conservato presso la Biblioteca Bodleiana di Oxford, indica che la pianta fu estesamente coltivata in ben 21 delle 38 province azteche. Se ne parla anche nel Codice Fiorentino, tratto dall’opera scritta da Fra Bernardino de Sahagùn tra il 1559 e il 1569, che porta il nome spagnolo di Historia universal de las cosas de Nueva Espana, ed è scritto in spagnolo e nahuatl. Il frate giunse in Messico nel 1529 e per trent’anni raccolse testimonianze indigene prima di redigere la sua opera che, oltre a parlare degli aztechi, della loro società e della vita, parlava di astrologia e divinazione, di animali, di piante e di minerali. Pur non rinnegando mai il valore della conversione al cristianesimo portata dagli invasori, Fra Bernardino si esprimeva criticamente sui danni sociali innescati dalla conquista spagnola della regione, ribattezzata Nuova Spagna. Per questo l’Autorità spagnola vietò la lettura e la pubblicazione del manoscritto, che riapparve soltanto nel XIX secolo. La pianta di Chia, era questo il nome originale derivato dal nahuatl chian (che vuol dire oleoso), quando arrivarono gli spagnoli, costituiva insieme ai fagioli, al mais e all’amaranto, la base alimentare per le popolazioni messicane, in particolare per i Maya e per gli Aztechi. I semi di questa pianta erano usati come cibo, mischiati ad altri alimenti; aggiunti all’acqua per creare bevande gelatinose; inclusi in certe medicine oppure pressati per avere olio. Macinati diventavano una farina che poteva conservarsi per anni e che poteva facilmente essere portata in viaggio, come cibo fortemente energetico. I semi di Chia erano chiamati «i semi della forza» e venivano tradizio-

nalmente forniti ai guerrieri in battaglia. Avevano una tale importanza sociale che gli Aztechi obbligavano le popolazioni conquistate a pagare un tributo annuo in tonnellate di semi di Chia. Ma non basta: gli indigeni attribuivano ad essi poteri magici, tanto da utilizzarli nelle cerimonie religiose quale tributo agli dei. Anche per questo i conquistadores ne bruciarono i raccolti e le scorte ed Hernàn Cortés ne vietò la coltivazione, sostituendola con quella del frumento, dell’orzo e delle carote, più interessanti per l’Europa. Si salvarono solo il mais e i fagioli, ma Chia e Amaranto sparirono, sopravvivendo solo in piccole aree montagnose discoste. Per la verità Cortés portò i semi di Chia in Spagna e la loro coltivazione indusse più tardi Linneo all’errore linguistico di classificazione. Ma non erano nella tradizione europea e furono presto dimenticati. Tanto più che proprio sui semi di Chia e di Amaranto pesava quella fama di magìa legata ai riti religiosi centroamericani, fatto che aveva messo paura e scatenato la furia dei colonizzatori spagnoli. I semi di Chia sono minuscole sferette scure con un alto contenuto di fibre, utilissime per la digestione, e hanno la prodigiosa capacità di assorbire una quantità d’acqua da 9 a 12 volte superiore al loro peso. Assorbendo acqua diventano gelatinosi e possono essere usati come addensante, per esempio in un muesli. Aggiunti agli alimenti danno un senso di sazietà e quindi sono un valido aiuto alle diete dimagranti. Non hanno alcun gusto sgradevole o particolare. Ovviamente bisogna usarli con parsimonia, si parla di circa 15-20 grammi al giorno. I semi di Chia sono la più ricca fonte naturale del regno vegetale di Omega 3 e Omega 6, due acidi grassi essenziali le cui benefiche proprietà sono note e che il nostro organismo non è in grado di sintetizzare, per cui possono essere assunti solo con una dieta. Hanno poi un altissimo contenuto di vitamine e sali minerali: sette volte più vitamina C delle arance, cinque volte più calcio rispetto al latte, tre volte più ferro degli spinaci, il doppio di potassio delle banane, quindici volte il magnesio dei broccoli. Sono ricchi di antiossidanti e aminoacidi e possiedono un basso indice glicemico. La loro forte assunzione, tuttavia, potrebbe forse entrare in conflitto con i farmaci che qualcuno sta prendendo per curare precise patologie. In questo senso sarebbe buona cosa chiedere un consiglio in merito al proprio medico. Le controindicazioni per i soggetti sani praticamente non esistono e i «semi della forza», a lungo dimenticati, sono una riscoperta preziosa per la nostra alimentazione.


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Ambiente e Benessere

Vincitori e vinti Mondoanimale Il riscaldamento globale miete alcune vittime illustri fra gli animali che popolano anche la Svizzera Maria Grazia Buletti «I cambiamenti climatici producono già oggi effetti tangibili e lasciano intuire il futuro al quale va incontro il nostro pianeta», questa la premessa della portavoce di WWF Svizzera Susanna Petrone, a proposito degli effetti del rialzo termico del pianeta registrato negli scorsi anni (v. anche l’articolo a pag. 11). «Il 2015 è stato quello più caldo dall’inizio delle misurazioni, e il 2014 segue a ruota in seconda posizione». Con questo rialzo termico, caratterizzato da alte temperature e inverni miti, alcuni animali («alquanto fastidiosi») prolifereranno e saranno destinati a estendere le loro zone di diffusione. E mentre queste specie si moltiplicheranno a dismisura, animali come il simpatico orso polare o la tartaruga marina avranno sempre maggiori difficoltà a sopravvivere. Cominciamo a parlare del futuro

tutt’altro che roseo della vittima più nota dei cambiamenti climatici: «Entro il 2050 gli effettivi di orso polare potrebbero crollare di due terzi». Questo in ragione del fatto che l’Artide si scalda due volte più rapidamente del resto del pianeta, i ghiacci si assottigliano in fretta o si sciolgono completamente. Tuttavia, gli orsi polari non possono fare a meno di andare a caccia sulla banchisa. «Anche le foche, prede principali di questi plantigradi, risentono già della scomparsa dei ghiacci e sempre più spesso sono costrette a far nascere i propri piccoli in acqua, dove avranno scarsissime probabilità di sopravvivenza». Un altro problema legato al riscaldamento globale è quello delle tartarughe marine: «Questa specie depone le uova nella sabbia e dopo la schiusa, i piccoli prendono da soli la via del mare. Il sesso delle tartarughe marine è determinato dalla temperatura d’incubazio-

Baciami ancora Malgrado sia appurato che le malattie trasmissibili dal cane all’uomo siano un numero davvero limitato (casi rari e patologie non pericolose), parecchi provano ribrezzo nel vedere qualcuno che bacia il proprio cagnolino. In aiuto di questi ultimi scende in campo un gruppo di ricercatori dell’Università dell’Arizona, convinti del fatto che i microbi presenti nella saliva dei cani abbia un effetto probiotico sugli esseri umani. Gli scienziati hanno preso in considerazione coppie di adulti di un’età media di 50 anni e cani salvati dalla Humane Society dell’Arizona del Sud. Prima e dopo le effusioni tra persone e cani sono stati analizzati alcuni criteri tra i quali la presenza di batteri nel corpo,

lo stato mentale, il livello di attività e le funzioni immunitarie. L’organismo umano ha circa 500 tipologie di batteri, alcuni dei quali contribuiscono a stimolare il nostro sistema digestivo e a rafforzare il sistema immunitario. Con l’età, l’uomo tende a perdere questi batteri «utili» e ciò incide sulla sua salute. Ora, lo studio in questione ha maturato la convinzione che i cani aiutino a preservare quel tipo di batteri. Dare di tanto in tanto un bacino al proprio cane potrebbe dunque contribuire a ricreare i microorganismi positivi all’interno del corpo umano. Al termine di questo studio i partecipanti hanno potuto adottare il cane con cui hanno condiviso in modo così «intimo» il periodo di ricerca.

ne delle uova: se il clima si fa più caldo, vi è una netta prevalenza di femmine». Ci viene spiegato che ciò mette a repentaglio la sopravvivenza delle popolazioni che devono pure fare i conti con la distruzione di habitat importanti come le praterie marine o le spiagge di nidificazione a causa delle tempeste più frequenti. Ma non ci sono solo perdenti. Chi sono quindi i «vincitori climatici»? Per cominciare ci sono le zecche, alcune specie delle quali sono in forte espansione, come ad esempio la zecca dei boschi: «Già oggi sono presenti ad altitudini notevoli e negli ultimi 50 anni, la zecca dei boschi ha colonizzato habitat situati fino a 1100 metri s.l.m., mentre prima non la si incontrava mai al di sopra di 700 metri». Questi dati sono pure confermati dai ricercatori dell’Università di Monaco di Baviera. Inoltre, le temperature elevate accelerano il ciclo vitale della zecca e il rapido sviluppo delle uova: «Bisognerà mettere in conto un aumento delle malattie trasmesse dalle zecche». Ed è la volta di mosche, zanzare e scarafaggi: «I moscerini della frutta si moltiplicano a una velocità incredibile e sono gli insetti più apprezzati dai genetisti; gli inverni freddi aiutano a tenere a bada la loro proliferazione, mentre l’aumento progressivo delle temperature fa sì che nelle nostre zone trovi il proprio habitat ideale anche un loro “parente” asiatico: il moscerino dei piccoli frutti». La zanzara tigre asiatica, responsabile di alcuni casi di dengue trasmessa localmente dal 2010, è una specie non autoctona che dal 2003 ha ripreso a diffondersi anche nel canton Ticino e per questo è sottoposta a monitoraggio dall’Istituto tropicale svizzero di Basilea: «Le zanzare tigre asiatiche trasmettono anche il virus Chikungunya e altre patologie i cui effetti, talvolta, accompagneranno per tutta la vita chi

Tartaruga marina. (Jürgen Freund WWF)

le contrae». E poi ci sono anche «gli scarafaggi: noti per attaccare le derrate alimentari, trovano nuovi habitat grazie alle temperature più miti, e alle nostre latitudini sono oramai presenti persino sulle pareti esterne degli edifici durante la stagione invernale». Scopriamo che la variante Ectobius vittiventris, originaria del Mediterraneo, ha attraversato le Alpi già negli anni Novanta del secolo scorso: «Il piccolo scarafaggio non attacca gli alimenti, ma risulta sgradevole a molte persone e in futuro dovremo abituarci a vederlo sempre più spesso». Anche le anatre avranno il loro bel daffare con il riscaldamento climatico e quest’anno molti bagnanti hanno già avuto un assaggio di quanto ci riserverà il futuro con un clima più caldo: «Se la temperatura dell’acqua supera i 23 gradi, le cercarie o pulci delle anatre, liberate a sciami, andranno alla ricerca di uccelli acquatici e talvolta potranno penetrare per errore nella pelle umana». Anche se l’infestazione avrà effetti

innocui e passeggeri, causerà un fastidioso prurito. Infine, non ci resta che citare le meduse fra le specie che prolifereranno: «Sono specie che vivono nei mari caldi, le cui “fioriture” hanno iniziato ad aumentare già negli anni Ottanta del secolo scorso». Comprendiamo che più si riscalderanno gli strati superficiali delle acque marine, più numerose diventeranno le meduse che invaderanno le spiagge con gran diniego dei bagnanti: «Una puntura di medusa può essere veramente dolorosa e, inoltre, le abbondanti fioriture possono compromettere la biodiversità delle specie ittiche, come hanno osservato alcuni ricercatori nel Mare del Nord». Il surriscaldamento climatico produce sempre più vincitori e vinti fra le specie animali e la flora (che non abbiamo considerato in questa sede), tutti accomunati dal fatto che i veri perdenti pare saremo proprio noi esseri umani che ne subiremo comunque le conseguenze.

Giochi Cruciverba Dal deserto del Sahara ogni anno si alzano 182 milioni di tonnellate di sabbia, 22 mila di queste, raggiungono … Trova il resto della frase risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 2, 7, 10, 12)

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Sudoku Livello Per geni Scopo del gioco

Completare lo schema classico (81 caselle, 9 blocchi, 9 righe per 9 colonne) in modo che ogni colonna, ogni riga e ogni blocco contengano tutti i numeri da 1 a 9, nessuno escluso e senza ripetizioni.

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VERTICALI 1. Sincero 2. Fa respirare a fatica 3. Santa... in Argentina 4. Presidente del Consiglio dei Ministri italiano 5. Contrari ai dittonghi 7. Nelle torte e nel timballo 10. Inoffensiva 12. Brezza poetica 13. Ha minuscoli denti 14. Albero sempreverde 15. L’attore Gullotta 16. Quello in fondo 17. A briscola vale due 19. Questo a Parigi 20. Gran disordine 22. Tribunale Amministr. Regionale 23. Fiume del Tirolo 24. Adesso a Mendrisio

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ORIZZONTALI 1. Le iniziali dell’attore Argentero 3. Imperiali a Roma 6. Duchi di Ferrara 8. Le iniziali dell’imitatrice Aureli 9. Prende per la gola 10. Interno in breve 11. Nota musicale 12. Invece, al contrario... 13. Si formano nella terra lavorata 17. Sono formate da trefoli 18. Parte dell’intestino tenue 19. Amato, diletto 21. Si ode nella cova 22. Costanza nel perseguire un obiettivo 24. L’attore Damon 25. Un singolare 26. Per Ugolino poté meno del digiuno 27. Un Chris attore statunitense

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Soluzione della settimana precedente

IL PROVERBIO NASCOSTO – Proverbio risultante: CHI SEGUE GLI ALTRI NON ARRIVA MAI PRIMO. P O C H E A R E G L O F I I P E T T E S T B O S T O E R T A O T O A N I P R E O M A

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 15 febbraio 2016 ¶ N. 07

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Politica e Economia Siria, 6. anno di guerra È incominciato male ed è finito peggio il terzo round negoziale convocato il 29 gennaio scorso dall’Onu a Ginevra per riportare la pace in Siria pagina 24

L’anno orribile del Brasile Fra emergenza sanitaria, disoccupazione, inflazione inarrestabile, scandali giudiziari, il carnevale è arrivato in un momento nero per il Paese, ormai uscito dall’illusione che il boom di consumi fra il 2005-2010 fosse il risultato di un autentico boom economico

Presidenti cercansi PPD, PLR e UDC rinnovano la presidenza, una carica oggigiorno poco ambita

Imprese, meno imposte A pochi mesi dall’entrata in vigore della nuova legge federale, uno sguardo alla tendenza degli ultimi 10 anni nei cantoni

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Matteo Renzi e la cancelliera Angela Merkel durante un recente incontro. (AFP)

Ventotene, non l’Europa dei burocrati Roma-Bruxelles Il presidente del consiglio Matteo Renzi polemizza contro l’Eu e contro il rigorismo berlinese

che ostacola la crescita in Italia e le nega flessibilità

Alfredo Venturi L’Europa di Ventotene, non l’Europa di Bruxelles. All’indomani dell’incontro berlinese con Angela Merkel, dove ha tuonato contro l’Unione dei burocrati, Matteo Renzi sbarca nell’isola tirrenica che vide i confinati antifascisti redigere il Manifesto dell’integrazione continentale. E qui invoca i valori contro gli interessi, soprattutto gli interessi comuni contro i trattamenti di favore. Il presidente del consiglio muove contro un’Europa che largheggia in concessioni alla Gran Bretagna pur di tenerla nell’Unione mentre nega un po’ di flessibilità agli ansimanti bilanci italiani. Contro un’Europa che finanzia la Turchia perché trattenga e regoli l’ondata di migranti che dal Medio Oriente punta verso l’Europa mentre non sostiene adeguatamente gli impegni, altrettanto costosi, che Roma si è assunti sulla direttrice LibiaItalia meridionale. Contro un’Europa, insomma, accusata di praticare il doppio standard, i due pesi e le due misure, per non parlare di quei Paesi membri che rischiano di compromettere, mettendo in discussione il trattato di

Schengen sulle frontiere aperte, la sua storica identità. In questa accesa polemica Renzi tende a trascurare certi dettagli. Per esempio batte i pugni sul tavolo chiedendo che le risorse destinate alla Turchia non incidano sul patto di stabilità: proprio per appoggiare questa richiesta ha lungamente rifiutato di sbloccare la quota a carico delle finanze italiane. A questo punto un ironico Jean-Claude Juncker lo consiglia di non agitarsi troppo visto che la Commissione europea, «come concordato con il tuo sherpa», a suo tempo ha già deciso proprio in quel senso. Nell’attesa di chiarirsi personalmente con Juncker, l’uomo che non vuole «prendere ordini da Bruxelles» riporta il dibattito alla casella di partenza: la clausola migranti vale per la Turchia? E allora valga anche per l’Italia. Noi abbiamo salvato e salviamo, fa notare, migliaia di vite in mare, le risorse inghiottite da queste operazioni umanitarie vengano dedotte dal patto di stabilità. Del resto mica si possono chiudere le frontiere marittime, come alcuni fanno con quelle terrestri... Controaccusa di Bruxelles: Roma è inadempiente sui rimpatri dei clandestini...

La parola chiave di Renzi è flessibilità. In nome di questo principio ce l’ha con il rigorismo berlinese in materia di gestione finanziaria, che ostacola la crescita dell’Italia e dell’Europa. Ce l’ha con l’Unione prona davanti alla Cancelliera, che accetta senza reagire il voltafaccia tedesco nelle relazioni con la Russia: prima le sanzioni per l’Ucraina invocate a gran voce e puntualmente applicate, quindi l’accordo Berlino-Mosca sul gasdotto North Stream. Ce l’ha soprattutto con Juncker, accusato di non rispettare lo spirito dell’intesa trans-partitica che lo portò al vertice della Commissione e che comprendeva il concetto di flessibilità. Dunque agita lo spettro della sfiducia all’esecutivo di Bruxelles e cerca di coagulare attorno all’esigenza di dar fiato ai bilanci l’insieme del Partito socialista europeo. E così trasferisce la dialettica nell’Unione, fin qui caratterizzata dal confronto fra Stati, sul piano della competizione fra i partiti, fra le due grandi famiglie politiche europee, socialisti e popolari. Insomma corregge nominalmente il bersaglio: dall’Europa a trazione tedesca all’Europa a trazione conservatrice.

Immediatamente i conservatori gli rispondono per le rime. Basta margini di flessibilità, attacca il tedesco Manfred Weber, presidente degli europarlamentari popolari. Ricorda che Juncker ha scritto in proposito a Renzi difendendo le ragioni comuni e si augura sarcasticamente che la lettera sia arrivata a destinazione. Fuoco di sbarramento da parte del Pd italiano, che è la componente più numerosa a Strasburgo dell’Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici: proprio Weber è il primo nemico della Commissione con le sue dichiarazioni oltranziste, accusa la capogruppo Patrizia Toia. Ma alle riserve brussellesi contro il rumoroso attivismo italiano si aggiungono salve di fuoco amico come le parole del socialista francese Pierre Moscovici, commissario per gli affari economici e monetari: bisogna finirla, dice, con gli scontri sulla flessibilità. Anche il socialdemocratico olandese Jeroen Dijsselbloem, presidente dell’Eurogruppo, osserva che la flessibilità, di cui l’Italia ha già usufruito, non si può applicare a ripetizione. Come la maggior parte delle dispute internazionali, anche questa ha le sue

radici saldamente piantate nel suolo nazionale. A parte l’ambizione piuttosto velleitaria di «rifondare l’Europa», Renzi prosegue la sua offensiva avendo ben chiare in mente due esigenze interne di più modesta portata. La prima riguarda il bilancio dello Stato, di cui una ripresa congiunturale ancora troppo timida, e per giunta nuovamente minacciata dallo spettro della recessione, non riesce a rilanciare le voci attive. Chiede flessibilità, dunque, per non dover imporre agli italiani nuovi sacrifici, per di più in un anno segnato da importanti appuntamenti elettorali (in primavera si vota a Roma, Napoli, Milano...). La seconda esigenza nasce da una constatazione: il tradizionale europeismo degli italiani è ormai cosa del passato, oggi l’Unione è percepita come un modello negativo, un meccanismo guidato da una casta di funzionari senz’anima. È il terreno sul quale prosperano i due rampanti partiti dell’antipolitica, Movimento cinque stelle e Lega nord. Per arginare il fenomeno Renzi cavalca a sua volta questa avversione, sia pure con uno spirito europeista che contrappone all’algida Europa dei burocrati il mitico progetto di Ventotene.


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Politica e Economia

Siria, quali speranze di pace? Fallimento di Ginevra III I nuovi negoziati si sono fermati dopo che l’offensiva ad Aleppo del regime di Assad

appoggiato dai russi ha sconvolto i piani dell’inviato speciale dell’Onu Staffan de Mistura Marcella Emiliani È cominciato male ed è finito peggio il terzo round negoziale convocato il 29 gennaio scorso dall’Onu a Ginevra, in Svizzera, per riportare la pace in Siria, entrata ormai nel sesto anno della sua tragica guerra civile. Una guerra che, su una popolazione di circa 24 milioni di persone, ha causato fino ad oggi almeno 260’000 morti, 5,3 milioni di profughi fuggiti all’estero e 11 milioni di sfollati interni. A dire la verità, fin dall’inizio erano in pochi a credere che si sarebbe trovata una soluzione «praticabile» alla pace, ma si sperava almeno di concordare un calendario di tregue militari che consentissero di creare corridoi umanitari verso le numerose città la cui popolazione è ormai ridotta allo stremo. Una per tutte: Madaya, sul confine tra Siria e Libano assediata dall’esercito governativo e dalle milizie libanesi di Hezbollah, alleate di Bashar al-Assad. Gli abitanti, costretti a mangiare erba e foglie dopo aver cucinato cani e gatti, sono ormai ridotti a larve umane.

La risoluzione n. 2254 non chiarisce quali gruppi dell’opposizione sono ammessi alle trattative e che sorte sarà riservata ad Al-Assad Per Staffan de Mistura, il diplomatico italo-svedese incaricato dalle Nazioni Unite di orchestrare i negoziati, è stato difficile persino decidere chi convocare, per la sequela di veti incrociati che gli attori sul terreno e i loro padrini internazionali hanno manifestato fin da subito. Su una cosa almeno l’accordo era unanime: non ammettere al tavolo delle trattative Jabath al-Nusra (Fronte del soccorso al popolo di Siria alias l’emanazione ufficiale di al-Qaeda in Siria) e l’Isis, gli esponenti più temibili dell’estremismo islamico. Ma nella galassia delle centinaia di gruppi armati che sta martoriando la Siria, le due organizzazioni terroristiche sunnite non sono certo le sole a seminare morte, a qualsiasi titolo lo facciano: per abbattere il regime di Bashar al-Assad, per creare un califfato o semplicemente per vampirizzare con furti e razzie quanto resta di un Paese in ginocchio. Dal canto suo l’Isis ha «salutato» l’apertura di Ginevra III con un sanguinosissimo attentato a Damasco, vicino al mausoleo sciita di Sayyida Zeinab, nel quartiere meridionale di Koua Sudan, presidiato dagli Hezbollah libanesi fin dall’anno scorso quando a colpire il mausoleo della nipote di Maometto fu al-Nusra. Le vittime sono state 71, i feriti 121. Tra gli esclusi era compreso anche Jaish al-Islam (l’Esercito dell’Islam), un gruppo armato salafita considerato ter-

Al tavolo dei negoziati di Ginevra il diplomatico dell’Onu Staffan de Mistura (a sinistra). (AFP)

rorista dal regime siriano e dal suo padrino internazionale, la Russia di Putin, ma sostenuto apertamente dall’Arabia Saudita. Non a caso è stato tra i firmatari della Dichiarazione di Riyad del dicembre dell’anno scorso, atto finale di impegno nella lotta contro il regime di Damasco e contro l’Isis di un centinaio di formazioni dell’opposizione siriana a Bashar al-Assad convocati nella capitale saudita dal ministro degli Esteri Adel bin Ahmed Al-Jubeir per compattare – appunto – il fronte sunnita in Siria. A Ginevra lo stesso problema si è posto per Ahrar al-Sham (Uomini liberi della Grande Siria), altra organizzazione armata in odor di terrorismo ma, di nuovo, sostenuta dall’Arabia Saudita, dalla Turchia e dal Qatar. Se Jaish alIslam è rimasto fuori dalla rosa dei convocati, Ahrar al-Sham si è praticamente imposto al negoziato con l’arrivo a Ginevra di un suo esponente di primo piano, Mohamed Zahran Alloush, che pretendeva addirittura di parlare a nome di tutta l’opposizione siriana al regime. Opposizione che, riunita nel High Negotiations Committee (Alto comitato per i negoziati), guidato da Riad Hijab, si è invece ufficialmente seduta al tavolo delle trattative con un ritardo di due giorni chiedendo, come pre-condizione per partecipare, che il regime di Damasco sospendesse le offensive militari in corso e consentisse l’arrivo in Siria delle missioni internazionali di aiuto per la popolazione civile nelle città assediate dalle forze governative. In questo caso a premere sui rappresentanti dell’Alto comitato per i negoziati sono stati gli Stati Uniti che, per bocca di Obama e dell’infaticabile Kerry, li hanno convinti a non «perdere una simile occasione storica». Dal canto suo,

il regime di Damasco ha solo consentito un afflusso col contagocce di viveri e medicinali verso Madaya, ma si è ben guardato dall’interrompere gli attacchi delle sue forze armate – con la copertura aerea russa – in varie regioni del Paese, da Latakia a Homs, da Hama a Der-er-Zoor, ma soprattutto ad Aleppo. La ragione ufficiale è sempre la stessa: cacciare l’Isis e al-Nusra, ma tutti sanno che dietro la lotta al terrorismo islamico c’è la sistematica repressione di ogni forma di opposizione al regime, costi quel che costi alla popolazione civile. Tra i tanti esclusi, infine, va citato il convitato di pietra per antonomasia, l’Iran, fido sostenitore di Bashar al-Assad, che comunque è in prima linea nella lotta al terrorismo dell’Isis, e vanno segnalati i curdi siriani del Partito dell’unità democratica (Pyd) il cui braccio armato (Ypg) ha fermato l’attacco militare del Califfato su Kobane nel 2014. A non volere i curdi al tavolo dei negoziati sono stati ovviamente i turchi che hanno intimato a Staffan de Mistura un aut-aut: «o noi o loro». In questo caso era la Russia a sostenere il Partito dell’unità democratica curda, non foss’altro per irritare maggiormente la Turchia con cui è ai ferri corti dopo l’abbattimento nel novembre scorso di un suo caccia in volo sul confine siriano ad opera dell’aviazione di Ankara. Per placare il ministro degli Esteri russo Lavrov è intervenuto dietro le quinte il suo omologo francese Laurent Fabius che ha ottenuto che i curdi siriani venissero convocati solo in un momento successivo. Momento che peraltro non è mai arrivato. In tutto questo triste balletto di schieramenti contrapposti dietro il braccio di ferro regionale tra sunniti e sciiti, ovvero tra Arabia Saudita e Iran,

e internazionale tra Stati Uniti e Russia, il rovello dei precedenti round negoziali, ovvero se Bashar al-Assad debba o meno partecipare alla fase di transizione verso la democrazia in Siria, non è nemmeno stato considerato, dopo aver causato il fallimento di Ginevra I del 2012 e Ginevra II del 2014. Per puro amor di cronaca diremo allora che la roadmap della transizione è stata tracciata il 14 novembre scorso a Vienna e sancita poi dalla risoluzione n.2254 del Consiglio di sicurezza dell’Onu del 19 dicembre successivo. La risoluzione prevede la formazione entro sei mesi di un governo di unità nazionale «credibile, inclusivo e non settario», che in un arco temporale di 18 mesi dovrebbe organizzare elezioni «libere e democratiche» e avviare il processo di riforma della Costituzione. Un’impresa a dir poco titanica per la quale 18 mesi sono al tempo stesso pochi e troppi. Pochi se si considerano le forze in campo a combattersi l’un l’altra, le crescenti tensioni regionali e lo stato pietoso in cui 5 anni di guerra hanno ridotto il Paese; troppi perché l’assenza di uno Stato forte e autorevole (che non gasifichi, stermini e torturi la propria popolazione come sta facendo il regime di Bashar al-Assad) favorisce le organizzazioni terroristiche, le bande di criminali e ogni sorta di interferenza esterna. Ma soprattutto la risoluzione n. 2254 non chiarisce affatto (e lo si è visto proprio a Ginevra III) quali gruppi dell’opposizione all’attuale esecutivo saranno ammessi alle trattative per la formazione del governo di transizione (quali, insomma, saranno considerati terroristi o meno) e quale sorte sarà riservata a Bashar al-Assad. In tutti i casi anche Ginevra III è fallita. Il 3 febbraio uno Staffan de Mi-

stura compassato annunciava che i negoziati erano solo «sospesi» e sarebbero ripresi il 25 febbraio. A far naufragare i suoi sforzi in questo frangente non sono stati l’Isis né al-Nusra, ma Bashar al-Assad e il suo sodale Putin che, prendendo tutti in contropiede, hanno lanciato un’offensiva senza precedenti su Aleppo dando così ragione alle opposizioni che già in partenza avevano definito la partecipazione del regime ai negoziati di Ginevra nient’altro che un escamotage per prendere tempo. Dalla città accerchiata nel frattempo riusciva a fuggire una massa di circa 15’000 abitanti, diventati 35’000 nel giro due giorni, che si dirigeva verso la Turchia dove trovava il confine completamente sigillato. Così tutto sembrava veramente perduto, ma un esile filo di speranza arrivava nella notte tra l’11 e il 12 febbraio, quando nell’ambito della riunione del Gruppo di sostegno alla Siria – composto da 17 Paesi – convocato a Monaco in Germania, Stati Uniti e Russia arrivavano ad un accordo per il cessate il fuoco in tutto il Paese da realizzarsi nel giro di una settimana per consentire alle organizzazioni internazionali di far fronte alla gravissima crisi umanitaria. Le operazioni belliche contro al-Nusra e l’Isis sarebbero comunque continuate e qui sta il punto dolente dell’intesa. Ormai sappiamo che la Russia e il regime di Damasco mascherano le proprie offensive contro tutta l’opposizione a Bashar al-Assad come lotta al terrorismo e in secondo luogo né gli Usa né la Russia hanno il controllo di tutto il territorio siriano. L’ambiguità e l’incertezza, dunque, rimangono. Lo hanno riconosciuto gli stessi Kerry e Lavrov avvertendo che si trattava comunque di «parole sulla carta». Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 15 febbraio 2016 ¶ N. 07

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Politica e Economia

La zanzara rovina la festa Brasile Emergenza sanitaria, disoccupazione, inflazione impazzita, politica bloccata dagli scandali giudiziari.

Nemmeno il Carnavale quest’anno risolleva gli animi dei solitamente assai ottimisti brasiliani

Per debellare la zanzara si fa largo uso di prodotti chimici. (AFP)

Angela Nocioni Emergenza sanitaria, disoccupazione al 10%, inflazione inarrestabile, politica bloccata dagli scandali giudiziari. Il Carnevale quest’anno è arrivato in un momento nero per il Brasile, ormai uscito dall’illusione che il boom di consumi registrato negli anni d’oro 20052010 fosse il risultato di un autentico boom economico. Alle difficoltà causate da una fase finanziaria difficile, si somma la preoccupazione per il diffondersi rapido e apparentemente inarrestabile dell’epidemia del virus zika, trasmesso da una semplice puntura di zanzara, l’Aedes aegypti. Si tratta dello stesso insetto che può trasmettere la dengue. La pericolosità del virus riguarda la sua capacità, provata, di penetrare nella placenta delle donne incinte e di trasmettersi al feto. La probabilità che i feti infettati possano presentare malformazioni gravi, danni neurologici molto seri, inclusa la microcefalia, è molto alta. Non esiste ancora la prova scientifica della responsabilità del virus nel causare microcefalia nei figli di donne contagiate durante la gravidanza, ma l’osservazione empirica è sufficiente a considerare altamente probabile la correlazione tra virus e malattia. I casi di microcefalia sono esponenzialmente aumentati in Brasile nelle zone il cui il virus è più diffuso: dai 399 del novembre del 2015 ai 3448 dell’ultima settimana di gennaio. L’epidemia, che pare abbia avuto il suo centro di propagazione nello Stato brasiliano di Pernambuco e da lì si sia estesa poi fino ai Caraibi e al Messico, è molto difficile da monitorare nelle sue reali dimensioni perché l’infezione spesso è asintomatica. Quando presenta sintomi si rivela con malesseri simili a quelli causati della dengue (febbre, dolori muscolari e articolari, occhi rossi) ma molto più lievi. È impossibile censire tutti i casi di zika non solo perché è impossibile spedire 200 milioni di persone a fare il test di diagnosi del virus (anche quando questo fosse re-

almente disponibile in ogni angolo dell’enorme territorio brasiliano e non lo è) ma perché il censimento andrebbe ripetuto almeno una volta al mese per avere dati aggiornati e quindi utili. Non esiste un vaccino. Di certo si sa solo che il virus è trasmesso dalla zanzara che, dopo aver punto una persona infetta, pungendone altre lo diffonde. Non è escluso il contagio sessuale. La presenza del virus è stata rilevata anche nella saliva e nelle urine.

È stato il moltiplicarsi di casi di microcefalia a far scattare l’allarme del virus zika, e quando questo è avvenuto l’epidemia aveva già raggiunto dimensioni incontrollabili Finché non è risultata evidente la correlazione tra zika e microcefalia, in Brasile l’epidemia è stata sottovalutata. Fino all’anno scorso la si è superficialmente liquidata come una manifestazione più lieve della dengue, che preoccupava molto di più perché può presentarsi in forma emorragica e causare la morte. È stato il moltiplicarsi di casi di microcefalia a far scattare l’allarme per il virus zika. E quando questo è avvenuto l’epidemia aveva ormai raggiunto dimensioni incontrollabili. Per questo la dichiarazione di emergenza mondiale da parte dell’Organizzazione mondiale della sanità è stata una notizia rincuorante per il Brasile, che così potrà contare su un necessario aiuto internazionale sia per il monitoraggio della diffusione del virus, sia per la ricerca di un vaccino. La presidente Dilma Rousseff si è trovata a dichiarare la difficilissima guerra alla zanzara Aedes Aegypti mentre la moneta brasiliana sta scivolando in basso e le agenzie di cambio espongono il cartello «1 dollaro = 4,7

reais», il valore piú basso dai tempi del Plan real, il piano che si inventò nel 1994 l’ex presidente Fernando Henrique Cardoso per arrestare l’iperinflazione. Nel frattempo la tempesta giudiziaria che sta massacrando il governo avanza. L’ex presidente Lula, sfiorato ma mai toccato finora da nessuno degli scandali che hanno travolto il suo partito, è inquisito in tre diversi processi. I problemi più grandi per lui si annunciano però da un’inchiesta in corso a San Paolo sulla proprietà di un attico davanti al mare. Quell’appartamento, che i magistrati fanno risalire alla famiglia Lula, è considerato dagli inquirenti la prova di uno scambio di favori tra l’ex presidente e un’impresa accusata di ruberie varie allo Stato. Le aule di tribunali, e soprattutto le cronache televisive che ne ricostruiscono con grande enfasi le attività, sono in questo momento il teatro di una feroce guerra politica. Un grande tema di discussione è l’uso dei collaboratori di giustizia. Gli avvocati difensori su questa questione si sono scatenati. Un pubblica lettera firmata da 150 grandi avvocati brasiliani denuncia «metodi da Inquisizione» nella principale inchiesta in corso. Si tratta dell’inchiesta di cui è titolare il giudice Sergio Mouro su tangenti pagate da imprese private a Petrobras, l’impresa pubblica del petrolio, per giudicarsi appalti. La lettera richiama «con urgenza il potere giudiziario» a «una postura rigorosa di rispetto e di osservanza delle leggi e della Costituzione». Come si devono usare le dichiarazioni di chi accusa qualcun altro in un’inchiesta? E soprattutto: cosa è legittimo fare per ottenerle? Il dibattito pubblico è infiammato da queste due domande. Il Brasile è in piena Tangentopoli. I giudici vengono osannati come eroi popolari, molti imputati si ritrovano messi alla gogna ancora prima dell’inizio del processo. Con tanti saluti al rispetto del principio della presunzione d’innocenza dell’accusato. L’operação Lava-Jato, l’inchiesta

di Mouro su Petrobras, è una mitragliatrice di arresti spettacolari e notizie riservate che finiscono sparate sui tg della sera. L’inchiesta – che accusa politici del Pt, il partito della presidente Dilma, ma anche esponenti degli altri principali partiti e che ha già sbattuto in galera un banchiere e i tre principali imprenditori brasiliani tra cui il presidente della Odebrecht, Marcelo Odebrecht, grande amico dell’ex presidente Lula – è basata sulle dichiarazioni di arrestati che accettano di collaborare con gli inquirenti spiegando quello che in Brasile chiamano «lo schema», il meccanismo della corruzione. Sostanzialmente la collaborazione consiste nell’indicare il nome di un presunto corrotto. Che non viene mai trattato come tale, ma finisce sbattuto in prima pagina come fosse un reo confesso. Nelle edicole campeggiano doppie pagine illustrate con un domino di facce di potenti messi alla berlina. La legge prevede una serie di benefici per chi collabora, incluso lo sconto di pena. Delações premiadas (delazioni premiate) si chiamano in linguaggio giuridico le dichiarazioni di chi collabora. Gli avvocati brasiliani sostengono che l’uso delle delações premiadas in quest’inchiesta avvenga sistematicamente al di fuori e al di sopra delle leggi. E che sia scomparso il rispetto dell’habeas corpus. Scrivono che «la prigione preventiva è usata per forzare la chiusura degli accordi di collaborazione». «Un giorno delle persone sono incarcerate per la forza di decisioni che affermano l’imprescindibilità della detenzione, dato che, se messe in libertà, queste persone rappresenterebbero un gravissimo rischio all’ordine pubblico. Il giorno dopo le stesse persone firmano un accordo di delação premiada e sono rimesse in libertà. Di colpo, con una bacchetta magica, tutta l’imprescindibilità della loro detenzione svanisce». Gli avvocati non si riferiscono a forzature sull’uso dei collaboratori da parte degli inquirenti: dicono che c’è proprio un sistematico abuso di pote-

re. «È inconcepibile – scrivono nella lettera – che a condurre un processo sia un giudice che si comporta con parzialità. Non c’è processo giusto quando il giudice titolare della causa, tranquillamente esterna il suo convincimento riguardo la colpevolezza dell’accusato». Parlano di attentato ala democrazia, di «stato di diritto sotto minaccia». La lettera, che tra i firmatari ha alcuni difensori di accusati nella LavaJato, parla esplicitamente dell’inchiesta in corso. «Per quanto riguarda la violazione dei diritti e le garanzie degli imputati – vi si legge – la Lava-Jato già occupa un posto importante nella storia del Paese. Mai c’è stato un caso penale con una così sistematica violazione delle regole minime del giusto processo nei confronti di un numero tanto alto di accusati. Non viene rispettato il principio di presunzione di innocenza, il principio del giudice naturale, vengono selezionati e fatti uscire documenti e informazioni segreti. Quello che si è visto negli ultimi tempi è una sorta di Inquisizione, una neo Inquisizione, nella quale già si sa, prima dell’inizio dei processi, come si concluderanno. Le tappe processuali tra la denuncia e la sentenza servono solo a compiere indesiderabili formalità». L’Associazione nazionale dei procuratori della Repubblica ha risposto che le accuse sono imprecise, che la lettera «contravviene al principio che vieta accuse generiche». I giudici federali, tramite la loro associazione, si difendono: «Stiamo svolgendo un lavoro esemplare e imparziale, senza dare un trattamento di favore a accusati che dispongono delle risorse necessarie a contrattare i migliori avvocati del Paese». I magistrati rivendicano che la maggior parte dei contratti di collaborazione firmata finora è stata sottoscritta da persone che non sono passate dal carcere. L’ovvia obiezione che la promessa di una mancata detenzione possa far parte degli strumenti indebiti di pressione non fa breccia in un’opinione pubblica incattivita dalla crisi economica e affamata di giustizia spettacolo.


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Politica e Economia

Un ennesimo annus horribilis Turismo in Ticino La continua caduta e relativa perdita di pernottamenti è un fenomeno di lunga durata,

solo aggravato da fattori monetari

Daniele Besomi L’anno turistico cantonale che si è appena concluso a somme fatte totalizzerà una perdita di pernottamenti di quasi 6 punti percentuali. Gli ultimi dati disponibili includono i mesi fino a novembre, registrando una perdita totale del 5,7% rispetto al 2014 che peraltro si somma alla perdita del 3,9% dei pernottamenti nel corso dell’anno precedente. La crisi era annunciata: facile prevedere che la rinuncia della Banca nazionale a difendere il cambio fisso avrebbe comportato perdite sostenute. Anche se è difficile misurare la correlazione tra tasso di cambio e perdita di turisti stranieri senza impiegare elaborati modelli econometrici, possiamo comunque ricorrere a una visualizzazione grafica. La figura 1 mostra il parallelismo tra l’andamento del tasso di cambio del franco (qui illustrato dalla linea verde che rappresenta un indice del cambio del franco contro le valute dei 24 maggiori partner commerciali della Svizzera) e la percentuale dei pernottanti in Ticino provenienti dalla Svizzera (linea blu): man mano che il franco si rafforza, per i turisti stranieri è più costoso visitare il Ticino, e il loro peso sul totale dei pernottamenti diminuisce. Questa prospettiva, però, è limitata. Se esaminiamo l’evoluzione della ripartizione tra ospiti provenienti dalla Svizzera e dall’estero più a lungo termine, notiamo che la nostra storia turistica ha subito una violenta rottura attorno all’anno 2000. La figura 2 mostra come le quote di turisti svizzeri e stranieri oscillassero attorno a un livello praticamente costante tra il 1980 e il 2000, e come nel nuovo millennio la parte di turismo interno sia esplosa e stia continuando a crescere Ora, se si trattasse di un fenome-

no puramente monetario (legato per esempio all’introduzione della moneta unica nei Paesi confinanti o all’evoluzione del cambio) dovremmo assistere ad un fenomeno equivalente anche nei dati nazionali. Invece, come mostra la figura 3, in Svizzera l’aumento del peso dei turisti nazionali è stato nettamente più contenuto, circa 1,5% contro il 9% del Ticino. In Ticino sta evidentemente succedendo qualcosa di particolare rispetto al resto della nazione, riconducibile solo in minima parte a fenomeni monetari. La storia è evidentemente più complicata di così. Esaminiamo la questione eliminando l’effetto dei cambio: se ragioniamo non sui valori assoluti ma sulla quota di mercato del Ticino rispetto alla Svizzera (= percentuale di pernottamenti in Ticino rispetto ai pernottamenti nell’intera Svizzera) possiamo astrarre da tutti i fattori comuni: quelli monetari, ma anche le oscillazioni congiunturali. La figura 4 mostra come precipita l’importanza del turismo in Ticino rispetto a quello nazionale: nel 1980, ogni 100 pernottamenti in Svizzera, 10,5 avvenivano in un albergo ticinese. Nel 2014, solo 6,5 pernottamenti erano registrati in Ticino rispetto ai medesimi 100 della Svizzera. Un calo, cioè, del 38% in 35 anni. La cosa interessante (e preoccupante) sta nel ritmo della caduta, che non è uniforme ma segue due modalità nettamente distinte. Tra il 1980 e il 1999 (linea blu nella figura 4), la perdita media è stata di un punto di quota di mercato ogni 14 anni, come indica l’equazione della retta interpolante. Dopo il 1999, per perdere un ulteriore punto percentuale sono bastati 6 anni (equazione dell’interpolante rossa). Stiamo dunque perdendo pernottamenti ad un ritmo

più che doppio. Un secondo aspetto rilevante è che fino al 1999 la quota di mercato scendeva con visibili oscillazioni, legate all’andamento congiunturale: quando l’economia andava bene, il Ticino recuperava un po’ rispetto al resto della Svizzera, per perdere poi nelle fasi di bassa congiuntura. Insomma, quando l’economia andava bene e la gente aveva soldi in tasca, ne spendeva una parte crescente in Ticino; quando l’economia andava male, il Ticino era tra le prime mete sacrificate. Dopo il 1999 le oscillazioni sono scomparse e si scen-

% di ospiti provenienti dalla Svizzera

Tasso di cambio del franco e peso dei turisti svizzeri in Ticino

Percentuale di svizzeri tra i pernottamenti in Ticino

Indice del tasso di cambio

Spettacolo di luci di Gerry Hofstetter sulla parete del Palace a Lugano, il 4 settembre 2014. (Keystone)

Figura 1 % di ospiti provenienti dalla Svizzera tra i pernottanti in Svizzera (Ticino escluso)

Figura 3

Figura 2 Quota di mercato del Ticino rispetto alla Svizzera

Figura 4

Quota di mercato del Ticino rispetto alla Svizzera, turismo interno e turismo internazionale

Figura 5

Quote di mercato di Grigioni e Vallese

Figura 6

de praticamente lungo la retta (come mostrato anche dal coefficiente R2, che indica la quasi totale assenza di dispersione dei punti attorno all’interpolante). Sono dunque venute a mancare le temporanee riprese che permettevano agli albergatori di riprendere fiato, e la discesa continua imperterrita. In questo contesto, il dato (provvisorio) del 2015 non è per nulla anomalo: si situa vicinissimo alla linea di tendenza, addirittura un po’ sopra. L’idea che la caduta dei turisti nel 2015 sia dovuta al cambio è dunque ingannevole: la forza del franco ha determinato una diminuzione del numero assoluto di pernottamenti, sia in Ticino che nel resto della Svizzera. Ma mentre il resto della Svizzera ha assorbito relativamente bene il colpo, il Ticino (come i Grigioni e, in misura minore, il Vallese) ha subito un salasso. Un salasso che tuttavia è pienamente in linea con la tendenza degli ultimi tre lustri, e che quindi non deve sorprendere nessuno e non richiede spiegazioni ad hoc. È difficile individuare le ragioni di questo cambiamento a partire dal nuovo millennio, ma è chiaro che è avvenuta una rottura che, sospetto, indica un punto di non ritorno. Non solo possiamo scordarci i fasti del passato, ma dobbiamo rassegnarci a una caduta che sembrerebbe inarrestabile. Neppure l’analisi per nazionalità è più confortante. La figura 5 è analoga alla 4, ma la quota di mercato è calcolata separatamente per i turisti nazionali e quelli di provenienza dall’estero. L’accelerazione della caduta si manifesta tanto per il turismo nazionale quanto per quello internazionale. Tuttavia, è molto più marcata per quest’ultimo, per due ragioni: la prima è che fino al 1999 perdevamo più ospiti svizzeri di quanto non perdessimo stranieri (la quota di mercato degli svizzeri perdeva un punto ogni 11,3 anni, quella degli stranieri ogni 17,2 anni), la seconda è che nel nuovo millennio la perdita di stranieri ha raggiunto e superato leggermente la perdita di turisti nazionali (la quota di mercato degli svizzeri perde un punto ogni 6,6 anni, quella degli stranieri ogni 5,6 anni). Che gli svizzeri abbiano tenuto un po’ meglio degli stranieri è probabilmente attribuibile all’evoluzione del cambio del franco. Quello che rimane da spiegare è il calo generalizzato. Il «Blick» ha qualche tempo fa avanzato il sospetto che la caduta abbia

a che vedere con la mancanza di cortesia di molti nostri operatori turistici. Può senz’altro aver inciso, ma questo può solo spiegare parte del risultato. Anche Grigioni e Vallese hanno le medesime difficoltà che abbiamo noi, con un’accelerazione della caduta (o, nel caso del Vallese, l’inizio della caduta) a partire dai primi anni del millennio (fig. 6). Difficile pensare che nei cantoni alpini e lacustri si sia diventati tutti contemporaneamente dei buzzurri. (Il fatto che questa spiegazione non sia del tutto valida difficilmente però può giustificare la risposta del Direttore di Ticino Turismo al «Blick», a cui ha dichiarato – facendo imbestialire i lettori – che la strategia dell’Agenzia Turistica è quella di puntare sui visitatori dai mercati emergenti. Quantomeno poco diplomatico, vista la sede in cui si è espresso, e poco opportuno, alla luce della rapidamente crescente quota di visitatori dalla Svizzera interna). Parte della risposta ha certamente a che vedere con lo stato delle nostre strutture alberghiere: dato il calo dei pernottamenti, gli albergatori hanno sempre meno risorse utilizzabili per fare investimenti, e meno si rinnova tanto peggio ci si presenta agli ospiti, tanto più se non è possibile abbassare i prezzi. (Anche qui, l’esternazione del Direttore di Ticino Turismo lascia perplessi: sostenere, come ha fatto sul «Corriere del Ticino», che è vero che ci sono strutture in rapido degrado ma ci sono anche punte di eccellenza, è come cercare di consolare i poveri dello Zimbabwe ricordando loro che Mugabe e pochi altri sono straricchi. Sostenerlo sul «Corriere» a beneficio del pubblico ticinese – e, soprattutto, dei politici che rinnoveranno i crediti all’ATT – non aiuterà certo a convincere la clientela confederata che la situazione è meglio di quanto non appaia). Il resto della spiegazione probabilmente risiede nel fatto che destinazioni alternative sono facilmente accessibili, meno costose, indifferenti alle bizze meteorologiche, e probabilmente più interessanti delle nostre. Certo non aiutano, per quanto riguarda il Ticino, né il traffico impossibile né la devastazione del territorio. Tutti fattori sui quali non abbiamo controllo, o abbiamo deciso di non esercitarlo, o peggio ancora esercitiamo scelte suicide. In queste condizioni è difficile pensare che le cose possano migliorare, o anche solo smettere di peggiorare.


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Politica e Economia

Presidente, carica poco ambita Politica nazionale UDC, PLR e PPD eleggono in aprile i rispettivi presidenti, finora c’è un solo candidato

per partito, tutti e tre schierati sull’ala destra

Marzio Rigonalli I tre principali partiti borghesi nazionali sono alla ricerca di un nuovo presidente. Le assemblee dei delegati sceglieranno le nuove guide delle rispettive formazioni nella seconda metà di aprile. Le candidature rese note fino ad oggi, lasciano supporre che non ci sarà molta battaglia nelle alte sfere dei tre partiti e che, senza sorprese dell’ultima ora, già oggi si può ritenere probabile l’esito che si sta delineando.

Il ruolo di presidente richiede molto impegno e disponibilità, ma può aprire le porte al Consiglio federale L’UDC ha presentato Albert Rösti come candidato alla presidenza il giorno stesso delle dimissioni di Toni Brunner, bloccando così eventuali altre ambizioni e un possibile lungo dibattito interno. Rösti è bernese e consigliere nazionale dal 2011. È una forte personalità ed è stato escluso dalla lista dei possibili candidati all’ultima elezione del Consiglio federale solo per il fatto che nel governo federale c’erano e ci sono già due bernesi, Simonetta Sommaruga e Johann Schneider – Ammann. Ha diretto l’ultima campagna elettorale dell’UDC, consentendo al suo partito di ottenere il 29,4% dei voti, ossia il risultato più lusinghiero della sua storia. Un successo che ha condiviso con il presidente uscente Toni Brunner. Rösti non è strettamente legato a Christoph Blocher, ma ha sempre condiviso la linea seguita dal partito. Lo dimostra anche il fatto che sia stata la direzione del partito a proporlo come successore di Brunner. Se verrà eletto, rafforzerà la presenza dell’UDC bernese in seno all’UDC nazionale, una presenza che già può contare sulla presidenza del gruppo alle

Camere federali, detenuta da Adrian Amstutz. Anche nel PPD è stata avanzata una sola candidatura, quella del consigliere nazionale zughese Gerhard Pfister. Altri potenziali candidati, come per esempio il consigliere agli Stati solettese Pirmin Bischof, o il giovane consigliere nazionale grigionese Martin Candinas, hanno preferito rinunciare. Pfister è consigliere nazionale dal 2003 e, quindi, sta già compiendo la sua quarta legislatura. Nel suo partito è una delle personalità situate maggiormente a destra e, per questo si distanzia dal presidente uscente Christoph Darbellay, che si collocava al centro e favoriva spesso il sorgere dell’alleanza di centro-sinistra. Nella sua attività parlamentare, Pfister si è spesso distinto con scelte personali, spiccatamente liberali, in contraddizione con quelle del partito o del gruppo parlamentare, provocando malumori tra i suoi colleghi. La sua candidatura non suscita molti consensi nella sinistra del partito e la sua elezione potrebbe causare forti tensioni all’interno del PPD. Toccherà a lui dimostrare di essere un leader capace di compiere quel lavoro di sintesi che è tipico della funzione di un presidente di partito. Un po’ d’indecisione sussiste ancora in seno al PLR. Il consigliere nazionale bernese Christian Wasserfallen, dato favorito da più parti, ha gettato la spugna. Ha scelto di rinunciare alla presidenza nazionale del suo partito, per cercare di ottenere, fra due anni, un seggio in seno all’esecutivo cantonale. Nel frattempo è stata avanzata la candidatura della consigliera nazionale svittese Petra Gössi. Potrebbe essere l’unica candidata se altri pretendenti non si manifesteranno entro il 29 febbraio, data limite per l’inoltro delle candidature. Petra Gössi ha 40 anni e lavora a Zurigo come consulente aziendale. È consigliera nazionale dal 2011, si colloca sulla sponda destra del suo partito e, dal 2012, presiede la sezione cantonale svittese del PLR. Non è molto conosciuta a livello nazionale, ma la sua candidatura ha trovato subito

simpatie ed appoggi sia nella Svizzera centrale che a Zurigo. Se verrà eletta, Gössi troverà un partito che è uscito rafforzato dalle ultime elezioni federali. Il PLR ha guadagnato voti ed eletti dopo decenni di continue perdite ed è diventato il primo partito al Consiglio degli stati, insieme con il PPD. Il numero ristretto di candidature emerse nelle tre principali formazioni borghesi è un chiaro segnale della poca attrattiva che la funzione di presidente di partito esercita oggi. Eppure, siamo di fronte ad un ruolo di primo piano. Il presidente è la persona più importante in seno al partito. Svolge un lavoro che lo proietta continuamente al centro dell’attenzione dei mass media, che gli consente di profilarsi agli occhi dell’opinione pubblica, che gli offre la possibilità di mantenere un filo diretto con tutti i principali attori della scena politica nazionale, che può dare una spinta decisiva alla sua carriera politica e che può aiutarlo a soddisfare l’ambizione di diventare un giorno consigliere federale. Non mancano gli esempi di politici che prima di diventare membri del governo federale, svolsero la funzione di presidente dei loro partiti. Oggi, in governo ci sono Doris Leuthard, che prima di essere eletta nell’esecutivo nel 2006 fu presidente del PPD per quasi due anni, e Ueli Maurer, che entrò in governo nel 2008 dopo ben 12 anni di presidenza dell’UDC. In un passato non tanto lontano, si possono citare Adolf Ogi e Flavio Cotti. Certo, l’esercizio della presidenza di un partito non si traduce in un accesso automatico al Consiglio federale, e gli esempi in merito non mancano. Si possono ricordare due forti personalità, attive negli ultimi decenni del secolo scorso: Franz Steinegger ed Helmut Hubacher. Steinegger fu presidente del PLR per 12 anni, ma fallì due tentativi per entrare in governo. Hubacher fu presidente del PS per ben 15 anni ed anche lui non riuscì a varcare la soglia dell’esecutivo. L’essere o l’essere stato presidente di un partito, può però favorire l’elezione in

Petra Gössi, consigliera nazionale svittese e presidente cantonale PLR: sarà la prossima presidente nazionale? (Keystone)

Consiglio federale, soprattutto quando il candidato, nell’esercizio della presidenza, è riuscito a conquistare un ampio consenso in seno al suo partito. Oggi, il mancato interesse per la presidenza di un partito sembra dovuto in gran parte alle caratteristiche che riveste ormai questa funzione. Chi l’assume, sa che troverà un lavoro pesante, che è mal pagato e che richiede molto tempo. Sa che dovrà rispondere a tutte le sollecitazioni dei media e prendere posizione di fronte a mille problemi e situazioni. Sa anche che dovrà dar prova di una disponibilità praticamente quotidiana e, quindi, che dovrà rinunciare almeno ad una parte della sua vita privata. Sono condizioni che inducono a riflettere e che possono frenare anche le ambizioni maggiormente giustificate. Rösti, Pfister e Gössi, dunque, potrebbero essere i nuovi presidenti dei tre principali partiti borghesi. In atte-

sa della conferma, conviene sin d’ora chiederci quali conseguenze politiche ne deriveranno. Al riguardo conviene separare la politica interna dalla politica estera. Sul piano interno, ci potrebbe essere una maggiore collaborazione tra i tre partiti su alcuni temi come la protezione del segreto bancario interno, la difesa della flessibilità sul mercato del lavoro, le tasse, le finanze e la lotta alla burocrazia. Sul piano esterno, invece, è difficile immaginare un avvicinamento tra la posizione dell’UDC, pronta a sacrificare gli accordi bilaterali con l’UE ed a denunciare la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e quella degli altri due partiti che si collocano su un fronte diametralmente opposto. In altre parole, in alcune situazioni l’asse borghese si ritroverà rafforzato, ma in altre le maggioranze necessarie per prendere le decisioni dovranno contare sull’appoggio di altre forze politiche. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

Nuova imposta sulle imprese, i cantoni si preparano Fiscalità Dovranno scomparire i privilegi per alcune società. Per restare concorrenziali molti cantoni

dovranno ridurre l’onere fiscale per le società Ignazio Bonoli A pochi mesi dall’entrata in vigore delle nuove norme per la tassazione delle imprese, i cantoni stanno adeguando le loro legislazioni fiscali. Quattro cantoni hanno già deciso per il 2016 una riduzione delle aliquote per la tassazione degli utili aziendali, mentre altri due cantoni le hanno aumentate. Sarà tuttavia nei prossimi tempi che si verificheranno grandi cambiamenti in questo ambito. All’inizio del nuovo anno, le differenze nella pressione fiscale fra i diversi cantoni restano infatti notevoli, tanto per la tassazione dei redditi delle persone fisiche, quanto per la tassazione degli utili delle imprese. In alcuni casi la differenza fra i cantoni più moderati e quelli fiscalmente più esigenti è quasi del doppio. Oggi una dozzina di cantoni hanno già annunciato di dover probabilmente essere costretti a ridurre sensibilmente le aliquote per la tassazione degli utili aziendali, per evitare una troppo grande differenza rispetto ai privilegi fiscali che la nuova legge federale non permette più di applicare. Le critiche principali a questi privilegi venivano mosse soprattutto dall’Unione Europea ed erano spesso evocate in occasione delle discussioni sugli accordi fiscali con i vari paesi. Globalmente – secondo i dati elaborati dal professor Pascal Hinny

dell’Università di Friburgo sull’onere fiscale per le imprese nel 2016 – la situazione non è cambiata molto. Alcuni cantoni (Argovia, Neuchâtel, Giura e Vaud) hanno ridotto le aliquote rispetto all’anno precedente, ma di regola si è trattato dell’applicazione di decisioni precedenti. Per contro i due cantoni di Svitto e Sciaffusa hanno deciso un aumento di queste aliquote. Di conseguenza, il livello medio di tassazione degli utili aziendali nei capoluoghi dei singoli cantoni non è cambiato molto. Compresa l’imposta federale diretta esso è passato dal 17,87% del 2015 al 17,80% di quest’anno. Rispetto a un periodo più lungo si può però constatare una notevole riduzione. Nel 2005, il livello medio di questo onere fiscale era infatti ancora del 22%. La tabella pubblicata dal professore friburghese di diritto fiscale mette a confronto le situazioni nei vari capoluoghi cantonali, tenendo cioè conto anche dell’imposta comunale, dell’imposta federale e di quella parrocchiale. Accanto al capoluogo, la tabella segnala anche il comune più favorevole e quello meno favorevole nel singolo cantone. La tabella segnala anche per il capoluogo l’aliquota prevista dalla legge e quella effettivamente applicata, tenendo conto della deduzione dal reddito imponibile delle imposte precedenti computabili.

Lucerna è il capoluogo con la minore pressione fiscale in Svizzera. (Keystone)

Il capoluogo più favorevole è quello di Lucerna, con un’aliquota legale del 14,05% e una effettivamente pagata del 12,32%. Ai piedi della scala troviamo invece la città di Ginevra con aliquote del 31,86% e rispettivamente del

24,16%. Il comune più favorevole nel canton Lucerna risulta essere quello di Meggen, con un’aliquota effettiva dell’11,48% e quello meno favorevole Menznau con il 13,34%. Nel canton Ginevra, vari comuni applicano

un’aliquota effettiva del 24,41%, mentre il più favorevole è Genthod con il 23,21%. Negli altri cantoni, i capoluoghi più favorevoli risultano quello di Nidvaldo, con un’aliquota effettiva del 12,66%, che vale anche per tutti i comuni del cantone, nonché quello di Obvaldo con il 12,89%, pure valida per tutti i comuni. Con aliquote più elevate figurano quello del Vallese (21,56%) e di Basilea-Città (22,18%) in entrambi valide per tutti i comuni. In Ticino l’aliquota effettiva a Bellinzona è del 20,67%. Vari comuni applicano un’aliquota leggermente superiore (20,95%), mentre il comune più favorevole è Cadempino con il 18,21%. Nei Grigioni vale invece un’aliquota effettiva unica per tutti i comuni del 16,68%. Le aliquote d’imposta non dicono però tutto sull’onere fiscale. Contano molto anche le valutazioni delle basi fiscali. Così alla Svizzera si rimproverano i privilegi concessi alle Holding e alle società speciali. Queste regole (per esempio per i redditi di brevetti o per le spese di ricerca) non potrebbero probabilmente evitare l’esodo di importanti aziende. Per questo alcuni cantoni si vedranno costretti a ridurre le aliquote e anche la media svizzera «ufficiale» scenderà. Non così però l’aliquota media effettiva, poiché alcuni privilegi dovranno scomparire. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi La Cina investe in Svizzera La notizia è di due settimane fa ma continua a suscitare commenti e discussioni. La società statale ChemChina ha reso nota una proposta di più di 40 miliardi di dollari per acquistare la Syngenta una delle grosse fabbriche di prodotti chimici della Svizzera. A quanto pare la proposta, accettata dal consiglio di amministrazione, non è stata accolta con entusiasmo da tutti gli azionisti della Syngenta. I prossimi mesi ci diranno se l’affare sarà concluso o no. Per il momento, questa proposta ci offre lo spunto per parlare degli investimenti diretti della Cina che è diventata, da qualche anno, la seconda potenza economica mondiale. Si dice che un paese investe direttamente in un’altra economia quando le sue aziende creano in quell’economia filiali o nuove aziende oppure ancora comperano, in parte o in tutto, aziende già esistenti. Creando o comperando

aziende in altri paesi le aziende del paese investitore diventano, per definizione, multinazionali. Perché un paese effettua investimenti diretti in altre economie o, formulato dal punto di vista aziendale, perché le aziende di un determinato paese scelgono di diventare multinazionali? Una volta lo si faceva quasi esclusivamente per conquistare mercati superando le barriere doganali o altri ostacoli creati ad arte dai paesi che volevano proteggere la loro produzione. Oggi, nel nostro mondo globalizzato, nel quale le barriere doganali sono state ridotte a un minimo, gli investimenti diretti e la creazione di aziende multinazionali perseguono altri fini. Gli economisti che studiano le multinazionali insistono in particolare sull’importanza dei trasferimenti di tecnologia e su quella dell’integrazione verticale di un’azienda. Nel caso degli investimenti diretti cinesi sembra che,

in una prima fase, fosse la preoccupazione dell’integrazione verticale a giustificare le iniziative, specialmente per il loro orientamento verso i settori energetici e delle materie prime che sono quelli che stanno all’inizio della catena di produzione. Nel corso degli ultimi anni, invece, sembra che l’appropriazione di nuove tecnologie giochi un ruolo di importanza centrale. La tecnologia relativa a un certo prodotto o processo produttivo può essere acquistata anche sotto licenza. Ma si sa che le conoscenze tecnologiche relative a un determinato prodotto non sono mai tutte raccoglibili in un testo. Buona parte delle stesse, affermano gli specialisti delle multinazionali, sono incorporate nell’azienda produttrice e nei «savoir faire» delle maestranze della stessa. In altri termini, se vuoi accapparrarti la tecnologia ti converrà acquistare l’azienda. È quanto sembra

stia facendo in particolare ChemChina che ha già acquistato, nel corso degli ultimi anni, due aziende di importanza internazionale come la Pirelli e il gruppo tedesco Krauss Maffei. Per i cinesi quindi, l’acquisto della Syngenta, una società specializzata nella produzione di semenze e prodotti chimici per l’agricoltura, potrebbe servire per acquistare nuove tecnologie in questo campo. Per l’economia svizzera, invece, questa operazione come, più in generale, tutte le operazioni di acquisto di aziende svizzere ad alta tecnologia da parte di società straniere solleva non poche preoccupazioni. Ne ricorderemo qui solo due, affiorate nei commenti degli ultimi giorni. La prima concerne il mantenimento dei posti di lavoro. Finora i responsabili di ChemChina hanno assicurato che i posti di lavoro non saranno diminuiti. Certi commentatori sottolineano addirittura che

l’accesso facilitato al mercato cinese potrebbe condurre a un’espansione delle esportazioni e alla creazione di nuovi impieghi. Secondo altri, e qui affiora la seconda preoccupazione, tutto potrebbe però cambiare nel medio termine se il possibile nuovo padrone dovesse insistere per realizzare un trasferimento della stessa dalla Svizzera verso nuove unità di produzione, localizzate in Cina. Da ultimo ricorderemo che l’operazione Syngenta potrebbe modificare la situazione nel bilancio degli investimenti diretti tra Svizzera e Cina. Finora il capitale investito dalla Svizzera in Cina e ad Hong Kong (circa 20 miliardi di franchi) superava largamente quello che le multinazionali cinesi avevano investito da noi (la statistica non dà in dettaglio ma è certamente inferiore ai 20 miliardi). L’operazione Syngenta basterebbe però per rovesciare il rapporto in favore della Cina.

espresso paure, rifiuti, rigetti, in sintonia con gran parte del suo elettorato. Più interessante è annotare che al Circo Massimo, sede del Family Day, si è rivisto il centrodestra. Nel luogo che evocava lo scudetto della Roma e la grande manifestazione di Cofferati contro il governo Berlusconi si è riversata una folla imponente. Era lì per una battaglia politica trasversale contro un disegno di legge che divide la stessa maggioranza, non in nome di un partito o di uno schieramento; ma era comunque espressione di un’area opposta alla sinistra al governo. Un’area che nel Palazzo non tocca palla da mesi; mentre nella società, come si è visto, è viva e vegeta. Certo, è noto che il centrodestra è storicamente maggioritario e conserva ampie riserve di voti. Ma non era affatto scontata che mostrasse una simile capacità di mobilitazione. Ora si tratta di stabilire che fare di una simile forza. La battaglia che l’ha condotta a Roma è senz’altro discutibile, e alla lunga votata alla sconfitta. La legge sulle unioni civili è attesa da un percorso accidentato in Parlamento, subirà di

sicuro agguati e attacchi, ma si farà; ed è bene che sia così, visto il ritardo con cui si muove l’Italia rispetto al resto d’Europa. Questo non toglie che la piazza del Family Day rappresenti un fatto politicamente significativo. È entrata, o meglio è tornata in campo una forza che non si riconosce né nell’Italia di Renzi, né in quella di Grillo. Ed è destinata a esprimersi ancora, per altri obiettivi e con nuovi leader. Colpiva la distanza tra il personale politico visto e raccontato sotto il palco, logoro o improbabile, e il dinamismo di un’area sociale e culturale che non sembra destinata a refluire nella passività e nell’attesa di tempi migliori, come veniva dato per scontato. È evidente che, al di là dei temi specifici della manifestazione, quell’area esprime la domanda forte di un’alternativa, di una stagione diversa, in cui anche all’interno dei partiti che già esistono emergeranno nuove personalità, nuovi punti di incontro, nuovi temi di mobilitazione. Il referendum contro la riforma istituzionale può essere uno di questi? C’è da

dubitarne. Intrupparsi con i grillini, con l’estrema sinistra, con i «professoroni», in nome della difesa dell’esistente, a cominciare dei 315 senatori, non è il modo migliore di infliggere la spallata a Renzi, ma per consentirgli di presentarsi come il nuovo contro il vecchio, il riformatore contro gli immobilisti. Senza considerare la difficoltà per Forza Italia di condurre una battaglia contro norme per il superamento del bicameralismo perfetto che in un primo tempo aveva contribuito ad approvare. Il centrodestra farebbe bene a muoversi per tempo per individuare un programma, fatto di pochi e chiari punti, e soprattutto un leader che tenga insieme Berlusconi e Salvini, ma non può essere né Berlusconi né Salvini. Quanto alla legge sulle unioni civili, prima la si fa, meglio è. Anche se, conoscendo un poco la sensibilità degli italiani sul tema, sarebbe stato meglio consentire alle coppie omosessuali di adottare un bambino in orfanotrofio, piuttosto che adottare il figlio biologico di un membro della coppia.

Rsi praticamente solo dal punto di vista dei licenziamenti, cioè di un’operazione che chi dirige l’ente radiotelevisivo doveva assolutamente compiere perché necessaria, imposta dai bilanci aziendali. Partendo da destra la «prospettiva Raetz» mostra il quadro che tutti conosciamo: la Rsi è un carrozzone che deborda di passeggeri, con a cassetta, cioè alla guida, uno massimo due dirigenti, tanti palafrenieri ai bordi del carro e millanta dipendenti intruppati sul veicolo o aggrappati gli uni agli altri, molti addirittura appesi o si fanno trascinare. Trascorse le prime ore di crisi il punto di vista si sposta. La nuova «prospettiva Raetz» è dettata principalmente da prese di posizione di politici e interviste di certi sindacalisti a certi corrispondenti (convocati?) della stampa italiana. Bersagliato dallo stillicidio di informazioni il carrozzone ora si presenta come una massa unica di passeggeri, quasi irriconoscibili, salvo il condottiero a cassetta e una dipendente (una

su mille ce la fa) che riesce a sporgersi più degli altri, forse per vedere che tempo che farà. Prima che arrivi il «bel lunedì» la prospettiva cambia ancora: come nelle opere di Raetz il carrozzone ormai non si vede più, si scorge una stretta banda con appeso qualche fronzolo. Arriva e parla de Weck: il carrozzone non ha retromarcia, fiducia a chi dirige, si prosegue come consigliava Goethe, studiando il problema a fondo e lasciando che tutto proceda come Dio vorrà. Partito il boss, la prospettiva torna allo «statu quo ante», ovviamente all’incontrario: ora, anche visto da sinistra, il carrozzone ha ritrovato la sua ormai inconfondibile sagoma. Devo ancora parlare di Zuoz e non ho spazio per dire che l’iniziativa è un esempio magnifico di «cultura che fa turismo». Mi limito a un solo frammento delle conferenze engadinesi, quella di Giorgio Griffa, artista visionario, anche lui vicino agli 80 anni (coincidenza?), impegnato in

una serie di cicli pittorici affascinanti e intriganti. Ha sorpreso tutti con una prolungata esortazione: dobbiamo fare in modo che la poesia torni ad avere la meglio e consenta di controllare la valanga di informazioni che i neuroni captano e faticano sempre più a compattare, a capire. Come esempio Griffa ha indicato il free jazz: ogni musicista è libero di eseguire un proprio suono, ma per non avere cacofonia è indispensabile che qualcuno compatti l’effetto acustico e componga melodie. Questa traccia dell’artista torinese mi suggerisce la conclusione: la Rsi ha bisogno di qualcuno in grado di compattare il caos e riattivare la fiducia, in modo da consentire all’ente di tornare a «guadagnar le spese / vendendo sempre fiori / di rose e gelsomin», cioè di tornare a fare creatività (poesia). Forse anche de Weck ha capito il seguito del «bel lunedì» e, magari con la scusa di controllare certi airbag sociali «alla ticinese», ha inviato a Comano un fido scudiero. Sarà lui l’abile compattatore?

In&outlet di Aldo Cazzullo I ritardi della società italiana orrido anglicismo «stepchild adoption». Non sono mosse che possano stupire. Sia Grillo sia Renzi sono molto attenti al consenso. Renzi è da sempre contrario alle adozioni gay, anche se ha ammorbidito la sua posizione per placare la sinistra interna. Quanto a Grillo, sui temi della modernità – dalla fecondazione assistita all’immigrazione – ha sempre

AFP

La legge sulle unioni civili, che esiste già – spesso in forme molto più radicali – in tutta Europa, sta diventando uno psicodramma che fotografa bene i ritardi della società italiana. Le ultime mosse sono quelle di Grillo e di Renzi, che hanno dato libertà di coscienza ai loro parlamentari sull’adozione del figlio biologico del partner, chiamata con

Zig-Zag di Ovidio Biffi Un po’ di poesia e la pillola va giù «Era un bel lunedì, partii dal mio paese» recita l’avvio di una nota canzone ticinese. Mi permetto di modificare quel testo e di proporre «Era un bel lunedì, arrivai a quel paese», precisando subito che «quel paese» non è inteso come «quel paese», cioè come ingiuria rivolta a chi non vorresti più avere attorno. Per «quel paese» intendo il Ticino, perché la canzone, con il nuovo testo, la immagino cantata da Roger de Weck, l’illustre direttore della Ssr, giunto proprio il primo lunedì di febbraio, giorno di San Severo, e ripartito la sera stessa dal Ticino. Volendo rispettare i dettagli, «quel paese» sarebbe Comano, comune sede della nostra radiotelevisione, ma potrebbe essere anche Lugano, visto che per l’incontro plenario con i dipendenti, si è spostato a Besso. Mentre cercavo di allestire un po’ di cronistoria degli avvenimenti che hanno provocato la visita di de Weck, mi sono reso conto che la bufera dei licenziamenti alla Rsi è andata in

scena contemporaneamente a due altri momenti artistici. Uno a Lugano, dove si è aperta la prima mostra monografica di Markus Raetz, artista svizzero che vanta opere sparse in tutto il mondo. Il secondo un po’ più lontano, a Zuoz, che ospitava invece gli «Engadin Art Talks», una due giorni di incontri ed eventi in cui artisti, architetti e intellettuali erano protagonisti di relazioni incentrate sul tema «Tracce e frammenti». La mostra al Masi del Lac mi ha subito suggerito di cercare una diversa interpretazione della sbandata della Rsi. Markus Raetz, come informano i curatori dell’esposizione dell’artista bernese 75.enne, crea opere (sculture, installazioni) «che si trasformano sotto lo sguardo dello spettatore mutando aspetto e significato a seconda del punto di vista scelto». È esattamente l’operazione che, modestamente, vorrei compiere per osservare meglio la crisi della nostra radiotelevisione. Infatti da troppo tempo si guarda alla


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Cultura e Spettacoli Una stella nera per David Recensione dell’ultimo album di Bowie e intervista ai musicisti che l’hanno realizzato

L’OSI su disco con Poschner Un’incursione nel repertorio di Richard Strauss mette in luce le grandi capacità della nostra orchestra: con qualche documento storico

Italiani a Berlino All’inizio del 900 era una fonte di ispirazione e un luogo di avventure anche per i giornalisti

Pinocchio da premio Giuseppe Clericetti insignito del riconoscimento che va alla letteratura dal naso lungo pagina 39

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Un artista fuori dal coro Mostre Andrea Schiavone al Museo Correr

di Venezia

Gianluigi Bellei Ci sono mostre che servono a riempire gli spazi, museali o meno, e altre, una minima parte, che progettano e indagano su di un artista o un periodo storico per nuove verifiche o aggiornamenti. Mostre virtuose che non hanno come fine «l’intrattenimento pseudo-culturale» ma la ricerca. Fra queste perle rare possiamo annoverare quella su Schiavone in corso al Museo Correr di Venezia. «Schiavone chi?» si sono sentiti rispondere i curatori Enrico Maria Dal Pozzolo e Lionello Puppi da tutti quelli ai quali hanno proposto l’esposizione. Il progetto, nato tre anni fa, è il primo che mette a fuoco e contestualizza un artista misconosciuto e sicuramente poco studiato scientificamente. Da vedere, quindi, e da riscoprire questo bistrattato e negletto Schiavone. L’attuale mostra e il meritorio catalogo, a parte la mancanza dell’indice dei nomi, si rivelano così come il primo strumento di indagine e di divulgazione aggiornato dopo la monografia di Francis L. Richardson pubblicata nel 1980. Andrea Schiavone nasce a Zara più o meno nel 1510, figlio di Simone Ravaglio originario di Meldola in provincia di Forlì. I Ravaglio o Ravaglia da Meldola dopo il trasferimento in Dalmazia, probabilmente nella seconda metà del Quattrocento, prendono il cognome dal paese d’origine. Il padre, come molti della famiglia, è connestabile (o conestabile) della Repubblica di Venezia; mansione che dovrebbe corrispondere al sovrintendente alle stalle. Andrea Meldola è poi soprannominato Schiavone perché «schiavoni» sono chiamati a Venezia gli originari dalla Dalmazia. La sua vita è particolarmente misteriosa visto che sono stati ritrovati solo una dozzina di documenti certi che lo riguardano. Muore il 1. dicembre 1563 a Venezia, come da certificato dei Provveditori alla Sanità della parrocchia di Santa Marina, dopo 12 giorni di ma-

lattia cerebrale o «mal de mazuco». I suoi lavori sono oggetto di contesa fra i critici, anche perché l’unico firmato è l’acquaforte Il Ratto di Elena. Berenson gli attribuisce 78 dipinti; Lili FröhlichBum nel 1913 solo 33; Adolfo Venturi 115 e la stessa Fröhlich-Bum nel 1930, fondendo le attribuzioni di Bereson e di Venturi, presenta un corpus di 120 dipinti. Infine Francis R. Richardson, nell’unica monografia dedicata all’artista del 1980, sostiene che al Meldola vanno attribuiti 129 incisioni, 5 xilografie, 75 disegni e 96 dipinti. Nel catalogo della mostra, Enrico Maria Dal Pozzolo fa il punto sulle attribuzioni tenendo presente il buio che avvolge gli esordi dell’artista, il numero ridottissimo di opere databili con certezza e la necessità di circoscrivere l’attività di una sua presumibile bottega per l’innegabile «dislivello qualitativo di un certo numero di prodotti solitamente attribuitigli». La sfortuna di Schiavone inizia subito. Giorgio Vasari nelle sue Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti nell’edizione giuntina del 1568 non gli dedica un personale profilo ma, all’interno della vita di Battista Franco, scrive che il pittore dalmata lavora per «machie, overo bozze». Poi, dopo la morte di Andrea, lo definisce pittore «buono, perché ha pur fatto talvolta per disgrazia alcuna buon’opera». Probabilmente sempre per screditarlo nel 1541 gli commissiona una Battaglia di Tunisi destinata a Ottaviano de’ Medici. Vasari come sappiamo predilige il disegno fiorentino al colore veneziano e le macchie dello Schiavone sono un cattivo viatico per i futuri storici dell’arte che considerano le Vite del Vasari come una sorta di «Bibbia dell’arte». D’altronde Paolo Pino nel suo Dialogo di pittura del 1548 scrive una netta condanna per quello che a suo modo considera più che un dipingere un «empiastrar» e di conseguenza un lavorare goffo, come fa appunto Schiavone. Al

Andrea Schiavone, Nozze tra Cupido e Psiche, 1550 ca. (The Metropolitan Museum of Art/Art Resource/Scala, Firenze)

contrario Pietro Aretino, che preferisce il colore veneziano, nelle sue lettere sostiene che la visione pasticciata sostenuta dal Pino non sopprime l’originalità dell’invenzione compositiva che con il «crescer degli anni, la pazienza e la discrezione» sarebbe emersa nel lavoro dello Schiavone. In mostra troviamo un documento eccezionale: una copia delle Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti, proveniente dalla Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna, di proprietà di Annibale Carracci che contiene due sue postille vergate a mano. Vicino al testo di Vasari che recita «Per quest’ignorante le buone opere si facciano per disgrazia» Annibale annota: «Schiavone fu spiritoso e gratioso pittore, e così spedito e facile che avanzò di gran longa molti pittori fiorentini i quali Vasari essalta fin al cielo». Annibale a più riprese definisce Vasari invidioso, ignorante e bestia. Ma è Giulio Cesare Gigli nella sua Pittura trionfante del 1615 che pone Schiavone quasi alla testa del carro della pittura perché «s’eguali al por giù i colori e tinte avesse avuto muscoli e contorni più di tutti farebbe che giammai abbino trionfato in alcun tempo ammirato, famoso e trionfante». Marco Boschini prima nella Carta del navigar pittoresco del 1660 e poi ne Le ricche miniere della pittura veneziana del 1674 elogia le «fierissime pitture del Schiavon» riportando la testimonianza di Domenico Tintoretto il quale dice che suo padre Domenico «teneva davanti a sé, come per esemplare, un quadro di questo autore per impressionarsi di quel gran carattere di colorito, così forzuto e pronto». Schiavone lavora prevalentemente per le case «de’ gentil’huomini» non

solo con dipinti su tela, ma con fregi o pitture su cassoni e mobili. Coltiva l’arte del disegno e soprattutto quella dell’incisione nella quale il segno tormentato è alla base di un lavorìo incessante fra ritocchi, cancellazioni, nuovi interventi con il bulino e la puntasecca; senza tralasciare l’uso di carte colorate e le dipinture finali di biacca. I vari stati giunti fino a noi delle stesse lastre lo dimostrano. I suoi influssi pittorici sono sicuramente riferibili al Parmigianino o al Pordenone come nella tela di Caino e Abele, magistralmente dinamica e impressionante. Poi il colore prende il sopravvento e si fa pura luce disfando i contorni in una sorta di preimpressionismo. Il suo influsso lo si vede chiaramente nelle opere dell’amico Tiziano e poi di Polidoro da Lanciano e Jacopo Bassano. Molto religioso, Schiavone verso la fine della sua vita si dedica a temi sacri e alla storia di Gesù. Il Compianto su Cristo morto diviene quasi un’ossessione sia nelle versioni all’acquaforte che nei dipinti. Nella Pietà, proveniente dalla collezione Donà delle Rose, ci troviamo di fronte all’apice del suo percorso artistico in un equilibrio fra la costruzione compositiva e l’immediatezza dello svolgimento. Intrigante l’intreccio di mani fra Cristo morto e Maria Maddalena e simbolico il gesto dell’angelo che getta via la corona di spine. Maggiormente crepuscolare la Pietà proveniente da Lucerna nella quale un fascio di luce copre il corpo nudo e livido di Cristo mentre Maddalena gli sostiene il braccio sinistro con ambedue le mani. Forse, scrive Fabrizio Biferali in catalogo, Schiavone si vede riflesso nei tormenti di Cristo, visto che invecchiava

senza arricchirsi a differenza di molti suoi colleghi. Carlo Ridolfi nelle Meraviglie dell’arte del 1648 scrive che il pittore si era dato allo strapazzo costretto dalla necessità, «da una vita disordinata, senza alcun riguardo per se stesso al punto da vestire così rozzamente». Anche se Andrea Polati, sempre in catalogo, sostiene che questa versione contraddice il ritratto all’acquaforte fatto all’artista da Jacopo Piccini nel quale appare vestito alla Schiavonia ma con una ricca ed elegante sopravveste. Una menzione speciale merita infine il Cristo tra due sgherri di Padova, sublime opera della maturità. In mostra 80 lavori fra dipinti, disegni e incisioni provenienti tra l’altro dalla Royal Collection di Elisabetta II, dalla Gemäldegalerie di Dresda, dal Musée du Louvre di Parigi, dal Metropolitan Museum of Art di New York e dal British Museum di Londra. Vengono poi proposti una serie di itinerari all’esterno del museo per scoprire le altre opere dell’artista che si trovano nella Biblioteca Marciana, nella chiesa di San Sebastiano, nella Cappella Pellegrini o in San Giacomo dall’Orio. Buoni sia l’illuminazione delle sale che il catalogo, utile strumento per le prossime indagini. Dove e quando

Schiavone, tra Parmigianino, Tintoretto e Tiziano. A cura di Enrico Maria Dal Pozzolo e Lionello Puppi. Venezia, Museo Correr. Fino al 10 aprile. Tutti i giorni 10.00-17.00. Catalogo 24 ore cultura. www.correr.visitmuve.it


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Cultura e Spettacoli

Lo spirito leggiadro dell’arte

Come un viandante a Roma, 150 anni fa

Mostre A Milano rivivono le atmosfere Art Nouveau

sul Tevere fra il 1840 e il 1870 del collezionista Marco Antonetto

con le opere di Alfons Mucha

Alessia Brughera Tra l’ultimo decennio dell’Ottocento e lo scoppio della Prima guerra mondiale un fenomeno artistico permeò l’Europa divulgando un nuovo linguaggio moderno e accattivante. Si chiamò Art Nouveau in Francia, Liberty o Stile floreale in Italia, Modern Style in Gran Bretagna, Sezessionstil in Austria, Jugendstil in Germania, Arte Jóven in Spagna.

L’Art Nouveau fu interprete di un gusto diffuso, scaturito da un sentire comune, un momento corale Non fu una corrente unitaria e programmata, ma piuttosto un gusto diffuso scaturito da un sentire comune, un momento corale che, sebbene abbia assunto denominazioni e peculiarità diverse nei vari Paesi, mantenne in ogni sua declinazione alcune caratteristiche costanti. Prima fra tutte l’idea che l’arte dovesse abbracciare ogni campo: «Occorre che l’arte penetri dappertutto, che porti nel più umile oggetto il suo marchio e il suo fascino, orni tutte le forme materiali dell’esistenza. Occorre che dai cardini di una porta al cuoio di un portafoglio, dalle cornici di un quadro a un braccialetto, dalla sedia al tappeto ogni cosa porti un’impronta e un sorriso d’arte», recitava uno dei periodici del tempo, sintetizzando bene lo spirito che pervadeva questo movimento. Fu un’età felice e ottimista quella in cui maturò l’Art Nouveau, un clima quasi magico in cui la spensieratezza e la fiducia nel progresso contribuirono al compimento di una rivoluzione formale

che traeva ispirazione dalla natura e che prediligeva linee morbide e serpeggianti, composizioni libere e tinte brillanti. Si sviluppò così una nuova tendenza dai caratteri ben definiti e riconoscibili i cui principali canali di divulgazione furono le esposizioni universali (soprattutto quella parigina del 1900), la pubblicazione di riviste e l’istituzione di scuole e laboratori artigianali. Palazzo Reale a Milano coglie oggi l’atmosfera di tale epoca feconda e raggiante – vero e proprio laboratorio della modernità – attraverso una mostra che illustra bene le molteplici anime dell’Art Nouveau, restituendone l’aspetto di fenomeno intrigante e variegato. E lo fa incentrando la rassegna su uno dei suoi più significativi interpreti, creatore di uno stile elegante e ricercato che lo ha reso il simbolo di questa florida stagione artistica: Alfons Mucha. Nato nel 1860 a Ivančice, nell’odierna Repubblica Ceca, dopo anni di collaborazioni come illustratore per riviste e case editrici francesi, Mucha trovò la fama quasi per caso nel 1894, quando gli venne commissionato il manifesto per la celebre attrice teatrale Sarah Bernhardt in occasione dello spettacolo Gismonda di Victorien Sardou. Un incarico affidatogli all’ultimo momento dalla tipografia Lemercier di Parigi che durante le feste natalizie non aveva trovato nessun altro disponibile per questo lavoro. Quello fu l’inizio della sua sfolgorante carriera. Da allora divenne in poco tempo uno degli artisti più popolari e richiesti, conosciuto per il suo modo personale e unico di dar vita a un universo di forme aggraziate che aveva il pregio di potersi applicare ai più disparati contesti, dai poster alla decorazione d’interni, dal teatro alla pubblicità, dall’architettura al design. Tanto peculiare fu l’arte di Mucha e tanto vicina ai nuovi canoni estetici

flessuosi e fluttuanti, che il suo nome venne ben presto fuso con il concetto stesso di Art Nouveau. Eppure egli non amava identificarsi con questo stile, sostenendo di realizzare i suoi lavori «a modo suo». Delle oltre duecento opere riunite nell’esposizione milanese, il nucleo principale è costituito proprio dalle affiches e dai pannelli decorativi dell’artista ceco, per la maggioranza provenienti dalla Richard Fuxa Foundation che ne possiede quasi tutti i manifesti (tra cui la cospicua collezione acquistata dall’ex campione di tennis Ivan Lendl, connazionale di Mucha) e che, tre anni fa, li ha presentati per la prima volta in una grande mostra monografica a Praga. Le fanciulle disinvolte e avvenenti di Mucha, i suoi colori vividi e solari, la sua esuberante inventiva ci accompagnano in un lungo percorso suddiviso in sezioni tematiche, dove troviamo anche arredi e opere d’arte decorativa di altri esponenti del periodo Art Nouveau che hanno condiviso la predilezione per un linguaggio ornamentale da cui far affiorare un nuovo immaginario figurativo (gli italiani Galileo Chini e Leonardo Bistolfi, l’inglese Aubrey Beardsley, i francesi Henri Bergé ed Émile Gallé, solo per citarne alcuni). Di particolare interesse è la sezione dedicata al teatro, che raccoglie molti dei manifesti realizzati da Mucha durante la sua prolifica collaborazione con la Bernhardt. Emblematica è la già menzionata Gismonda, opera in cui l’artista coniuga sacro e profano, tratti moderni e suggestioni antiche in una soluzione compositiva elaborata e dal tocco sofisticato. Belli anche i poster creati per la pubblicità, come quelli per reclamizzare i biscotti Lefèvre‐Utile o lo champagne Moët et Chandon: qui il prodotto quotidiano diventa qualcosa di sublime, presentato com’è da seducenti donne dai capelli fluenti avvolte in morbide vesti. Il fascino muliebre è fonte di ispirazione continua per Mucha (e per l’Art Nouveau in generale), che rappresenta figure femminili incantevoli sospese tra una visione idealizzata che ne sottolinea il carattere angelico e una concezione più terrena che le considera creature fatali e irraggiungibili. L’artista le immortala in movimenti leggiadri, con corpi dalle linee sinuose, trasformandole nelle personificazioni delle Arti o in pietre preziose, in allegorie del mondo naturale o nei simboli del trascorrere del tempo, come ad esempio nelle grafiche dei calendari (splendido, in mostra, è Zodiaque, del 1896). La forza del colore ne evidenzia la vitalità, l’ornamento, la sensualità, il segno incisivo, l’armonia. Quella di Mucha è un’arte che però va al di là della mera raffinatezza formale: «Aveva dato nuova vita a ogni cosa», scrive nel catalogo il curatore dell’esposizione Karel Srp. «Per lui non si trattava solo di decorazione fine a se stessa, di espressione estetica; più che l’abbellimento esterno ricercava il perfezionamento morale, la soppressione degli aspetti negativi della realtà quotidiana. Il quotidiano era diventato una festa, si era aperta la strada per sognare a occhi aperti». Dove e quando

Alfons Mucha e le atmosfere art nouveau. Palazzo Reale, Milano. Fino al 20 marzo 2016. Orari: lu 14.30-19.30; ma, me, ve e do 9.30-19.30; gio e sa 9.30-22.30. www.mostramucha.it Principessa Giacinta, 1911. (Richard Fuxa Foundation)

Mostre Al Museo Vela fotografie della città

Una delle immagini proposte nell’esposizione Con la luce di Roma. (Collezione Marco Antonetto)

Giovanni Medolago Non è la prima volta che il Museo Vela di Ligornetto ospita una mostra fotografica. L’esposizione attuale, dal titolo «Con la luce di Roma. Fotografie dal 1840 al 1870 nella collezione Marco Antonetto», vuole ricordare i legami della famiglia Vela con quella che all’epoca era la nuova straordinaria invenzione, di cui non si potevano ancora scorgerne i futuri sviluppi tecnici, come sottolinea la direttrice del Museo Gianna A. Mina: «Vincenzo Vela e suo figlio Spartaco furono assidui collezionisti e fruitori di fotografia già a partire dal 1848, anno in cui Vincenzo si fece ritrarre per la prima volta. Da lì in poi, e lungo tutta la sua carriera, egli si avvalse della fotografia come strumento di diffusione della propria arte e come fonte diretta per i suoi ritratti e monumenti scultorei, mentre il figlio Spartaco usò personalmente la nuova tecnica. Ci piace immaginare Vincenzo Vela – durante il suo soggiorno nel 1847 – percorrere le strade della Roma preunitaria, che lo stimolò a cimentarsi col suo capolavoro giovanile, la statua dello Spartaco. Una città dominata dall’antico, dalle basiliche, dal Vaticano e percorsa dal Tevere». Gianna Mina ha dunque raccolto volentieri l’invito di Marco Antonetto, gallerista e soprattutto importante collezionista luganese, il quale non poteva certo esporre la sua ricca collezione negli spazi ristretti della sua «Photographica Fine Art Gallery» di Lugano. Dopo oltre due anni di lavoro, di incontri e di scambi di idee, è nata la mostra di Ligornetto, dove sono esposte più di 150 immagini, molte delle quali ancora inedite, ottenute con le diverse tecniche a disposizione di quei pionieri che vollero immediatamente cimentarsi col nuovo strumento. Ne abbiamo parlato con il gallerista. Marco Antonetto, la prima domanda riguarda la sua grande passione: com’è nata e quando?

Mio padre mi regalò un apparecchio fotografico quand’ero ancora adolescente. Dopo aver trasformato un bagno di casa in una camera oscura e aver letto una notevole quantità di libri e riviste specializzate, mi resi subito conto che non sarei mai diventato un buon fotografo. Mi attraevano molto, tuttavia, le prime apparecchiature: un insieme di applicazioni ottiche e chimiche che avevano del miracoloso. Iniziai così a collezionarle e capitava che qualche «fornitore» insistesse affinché comprassi anche il frutto di quelle meraviglie. Fu così che, verso l’inizio degli anni ’70 del secolo scorso cominciai la mia avventura di collezionista. Con l’entusiasma del neofita, mi buttai quasi da onnivoro sulla fotografia dell’Ottocento in generale. Mancava però in quei primi anni una letteratura specifica e le mie acquisizioni erano orientate dal gusto personale. D’altra parte era positivo il fatto che allora si trovavano immagini vintage: curiosamente, gli autori non erano quasi mai indotti a ristampare le proprie fotografie, nem-

meno quelle più belle e famose. Capii subito che i vintage sarebbero diventati sempre più rari e ricercati. Marco Antonetto, altrettanto velocemente, è giunto a un interesse particolare: le fotografie di Roma realizzate nel periodo 1840/70. Oggi ne possiede circa ottocento, mentre al Vela ne sono esposte circa 150: come si è giunti a questa drastica selezione?

Essenzialmente guardando il nome degli autori, le tecniche usate e i luoghi scelti dai fotografi. Abbiamo cercato di ricostruire un immaginario percorso del viandante che si trovava a Roma in quel periodo. Ci sono molte immagini dell’eredità lasciata dall’Impero, di chiese naturalmente, di Castel Sant’Angelo e del Tevere: curiosamente sono rare le foto dei pur bellissimi palazzi rinascimentali. A proposito di autori: sono soprattutto dal nome straniero, scarseggiano quelli italiani. Come mai?

Roma era una tappa importante del cosiddetto Gran Tour, il viaggio che aristocratici e ricchi borghesi potevano permettersi in vasta parte d’Europa. A Roma c’era già una folta comunità di artisti stranieri, pittori e letterati, i quali si dimostrarono subito interessati alla nuova scoperta. Va ricordata l’importanza dello storico Caffè Greco, luogo d’incontro e di scambio, dove gli avventori erano soprattutto stranieri. Nel ricchissimo catalogo della mostra, lei parla delle diverse tecniche in auge a quei tempi. Era difficile ottenere un’immagine, era un lavoro lungo quanto complesso, più da scienziato che da artista…

Assolutamente! Nessuno si sognava di parlava di arte e le foto erano destinate ad altri studiosi: archeologi, naturalisti o geografi, che si servivano di fotografie per le loro ricerche. Ho notato che nelle foto esposte al Vela è rara la presenza umana: come mai?

Perché chi passava per caso davanti agli obiettivi non ci restava il tempo necessario per lasciare la propria traccia, i tempi d’esposizione erano molto lunghi. E se guarda con ulteriore attenzione noterà altre due cose interessanti: in qualche caso ci sono delle scie, dei tratti confusi nell’immagine: sono quelli i passanti! D’altro lato si noterà come uomini e donne rimasti ben impressi (erano attori pagati per mettersi in posa) si appoggino sempre a qualcosa – un muro o una scala, una panca o una sedia – altrimenti non avrebbero potuto restare così a lungo senza muoversi… Non ci resta che invitare tutti a passeggiare idealmente tra le vie di Roma e a segnalare la prossima delle interessanti iniziative a corollario della mostra: domenica 21 febbraio alle 16.30 il Maestro dell’animazione Georges Schwizgebel presenterà una selezione dei suoi lungometraggi, vere opere pittoriche in movimento. Lo stesso artista, lunedì 22, animerà al CISA di Lugano una master class aperta a tutti (informazioni al no. 091 971 51 61).


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 15 febbraio 2016 ¶ N. 07

Cultura e Spettacoli

Donny e l’anima jazz di Bowie

La parola e l’immagine

Personaggi Per il suo ultimo album l’artista inglese aveva richiesto la collaborazione

Filmselezione

di un quotatissimo quartetto di giovani jazzmen: li abbiamo intervistati

Tentazioni letterarie di Quentin Tarantino

Alessandro Zanoli Sembra essere passato abbastanza inosservato il fatto che per registrare il suo ultimo, definitivo, album, Bowie abbia chiamato attorno a sé un gruppo di giovani e eccellenti giovani jazzisti newyorkesi. La cosa è del tutto particolare e degna di nota, perché quasi mai nella sua carriera l’artista inglese aveva scelto un contesto jazz per le sue canzoni. Nel caso di Black Star si tratta poi di un jazz modernissimo e metropolitano, intessuto di ritmi hip hop e di accenti drum ’n bass. Ma il sassofono di Donny McCaslin, uno dei più dotati tra i solisti della Grande Mela, è davvero inconfondibile: teso, lancinante, dissonante. Gli appassionati ticinesi ricordano forse che McCaslin era stato a Lugano qualche anno fa, quale ospite della rassegna jazz di Rete Due. Lo abbiamo contattato per farci raccontare la storia di questa incredibile collaborazione. Va notato, peraltro, che già nel suo penultimo album, Nothing has changed, del 2014, Bowie aveva proposto una inedita e stupenda collaborazione con l’Orchestra di Maria Schneider. E proprio quel precedente pare aver aperto le porte del jazz a Bowie.

Fabio Fumagalli **(*) The Hateful Eight, di Quentin

Tarantino, con Samuel L. Jackson, Kurt Russell, Jennifer Jason Leigh, Tim Roth, Walton Goggins, Demian Bichir, Bruce Dern (Stati Uniti 2015)

Donny McCaslin è uno dei sassofonisti più creativi e moderni della «Big Apple». (Nick Chao) avete pensato tutti voi quando avete ricevuto la sua proposta?

Donny Mc Caslin, scusi se comincio da qui, ma è un po’ inevitabile parlando dello stretto rapporto tra l’uscita dell’ultimo album e la morte di Bowie. È vero quello che alcune fonti affermano, cioè che durante il periodo di registrazione non eravate a conoscenza della malattia di Bowie?

Maria Schneider si è incontrata con David per scrivere la canzone Sue. Ad un certo punto lei gli ha suonato il mio brano Casting for Gravity e gli ha suggerito di ingaggiare me e la mia band per una registrazione discografica. In seguito, Maria ha portato David in un club di New York che si chiama 55 Bar. È stato lì che lui ci ha sentiti suonare live e poco dopo ho ricevuto una sua email dove mi chiedeva se volevo registrare con lui. Può immaginare: ero entusiasta di aver ricevuto la proposta di lavorare con lui.

Non mi sento a mio agio a parlare di qualsiasi cosa riguardi salute e malattia.

Bowie era forse uno dei suoi musicisti preferiti?

Come spiega la decisione di Bowie di coinvolgere lei e il suo gruppo nel suo progetto musicale? Cosa

Le dico solo che il suo album Let’s Dance è parte della colonna sonora della mia gioventù.

Bowie ha chiesto a lei e al suo gruppo una particolare orchestrazione modern jazz? In altre parole, si aspettava da voi un contributo musicale come jazzmen e improvvisatori oppure ha provveduto lui stesso a scrivere per voi un preciso arrangiamento a cui attenersi?

ci caratterizza, ovvero interagire l’uno con l’altro sul momento e creare, come gruppo, composizioni spontanee nel contesto dei brani che lui aveva scritto.

È stato un ingaggio molto aperto e collaborativo. David ci ha incoraggiato a seguire quello che sentivamo e avevamo quindi la libertà di provare qualsiasi cosa. Il primo giorno mi disse che non sapeva cosa ne sarebbe uscito ma che come prima cosa avremmo dovuto divertirci! Le canzoni che ci ha mandato erano complete e quello che si sente nel cd, a livello di forma, è quasi uguale a quello che avevamo ricevuto da lui. La mia impressione è stata che lui abbia voluto spingerci a fare quello che

Questa esperienza ci ha avvicinati come band e molto probabilmente ha innalzato il nostro profilo. Vedremo come la mia carriera da solista ne verrà influenzata.

Pensa che questa esperienza eserciterà una particolare influenza sulla vostra carriera come gruppo e sulla sua come solista nel futuro?

Un ricordo speciale del periodo di registrazione o della sua relazione con Bowie?

Conservo nel cuore tutti i ricordi della produzione del cd. È stata un’esperienza straordinaria con un artista incredibile a cui sarò sempre grato e da cui sarò sempre ispirato.

Il canto del cigno viene dalle stelle CD Blackstar del compianto David Bowie si rivela essere un capolavoro di struggente

e dolorosa grazia stilistica, ammantato dall’anticipazione di una dipartita imminente

Benedicta Froelich In quanto affezionati consumatori di musica, noi tutti siamo talmente abituati alla distante, eppure costante, presenza dei personaggi più amati e celebri, da non riuscire a volte a concepire l’idea che anche loro siano, un giorno, destinati a scomparire. È forse per questo che la notizia della morte di David Bowie – forse l’artista più importante e venerato della grande stagione inglese degli anni ’70 – è stata accolta con grande incredulità, anche a causa del fatto che nessuno, al di là della famiglia e del collaboratore Tony Visconti, era a conoscenza della malattia della star, da oltre un anno affetta da cancro al fegato. Così, dopo aver per anni cantato di astronavi spaziali e incarnato extraterrestri infelici e incompresi, «l’uomo che cadde sulla Terra» ha infine lasciato il nostro pianeta; facendo di questo nuovo Blackstar – uscito appena due giorni prima della scomparsa del suo autore – un vero «canto del cigno», inevitabilmente attraversato, dalla prima all’ultima traccia, da un leitmotiv preciso quanto inquietante: non semplicemente quello della morte, ma, più in generale, di una forma di trapasso e transizione verso altri universi e significati. Tanto che il secondo singolo estratto dal CD, Lazarus, non costituisce soltanto il vaticinio di una scomparsa imminente, ma sembra racchiudere in sé la gamma di contra-

stanti sentimenti di qualcuno che si prepari ad affrontare il grande passo della dissoluzione fisica: lo dimostra, in primis, lo straziante videoclip, nel quale, simbolicamente, ci viene mostrato il trionfo dello spirito sul corpo attraverso l’immagine di un Bowie provato e tremebondo, che si ostina a scrivere e lavorare fino all’ultimo, mentre il suo alter ego, bendato e indifeso, è costretto a letto da un’entità maligna decisa a ghermirlo – chiaro riferimento alla creazione di questo disco, portato a termine nel pieno delle sofferenze di un male incurabile. Ciò spiega, inoltre, il motivo per cui, in un simile frangente di dolorosa introspezione personale, ritroviamo, nell’album, anche un tema – quello dello spazio come metafora dell’infinito e

del subconscio – che, da un punto di vista metafisico, ha interessato Bowie fin dai tempi di Space Oddity (1969), suo primo, grande successo discografico, incentrato sul distacco dalla vita di un astronauta disperso durante una missione: un brano pubblicato nell’era di 2001: Odissea nello Spazio, e che ancora oggi, a quasi cinquant’anni dalla prima apparizione, non ha perso nulla della sua lancinante forza espressiva. Così, pur nell’assenza apparente di espliciti rimandi al tema spaziale, l’idea del viaggio «al di fuori di sé» – quello dell’astronauta nella navicella, come dell’anima che si separa dal corpo – pervade anche la title track dell’album, l’onirica e misticheggiante Blackstar, le cui sonorità surreali ed eteree accompagnano la magia della voce di David nella sua accezione più inquietante: «qualcosa accadde nel giorno in cui lui morì / lo spirito si innalzò di un metro e si fece da parte / qualcun altro prese il suo posto, e gridò coraggiosamente / “sono una stella nera”...». Questa tendenza di struggente introspezione (che, alla luce di quanto accaduto al cantante, diventa ancor più significativa, assumendo toni davvero toccanti) si ritrova anche in brani meditati e sofferti, ma meno tormentati, quali le ballate I Can’t Give Everything Away e Dollar Days: dove, pur mantenendo il sound elettronico al quale era ormai da tempo votato, Bowie torna al vecchio amore per le sonorità a base di

assoli di sassofono e chitarra elettrica, nello stile dei bei tempi andati – stavolta però accompagnate da versi come «anche io sto morendo», che, ripetuti in ipnotici ed eleganti ritornelli, d’ora in poi metteranno certo i brividi a più di un fan. Tuttavia, liriche a parte, ciò che davvero sorprende in Blackstar è, ancora una volta, lo spirito di grande sperimentazione di Bowie, evidente nel suo desiderio di riscoprire le atmosfere già esplorate negli anni 80 con album come Let’s Dance, e qui combinate e traslate, con l’aiuto di un’ottima band, in isterici e ammalianti campionamenti elettronici. Il risultato è artisticamente eccelso, e risalta in modo particolare in ’Tis a Pity She Was a Whore e Sue (Or in a Season of Crime) – rivisitazioni di brani già apparsi nel 2014 sotto forma di singoli – ma anche nell’opprimente ma irresistibile Girl Loves Me. E ora che, come i personaggi di certi suoi brani, David è «tornato alle stelle», non occorre certo essere dei grandi esperti per rendersi conto che il suo album d’addio è un piccolo, imperdibile capolavoro; non solo un’opera di respiro moderno e sperimentale, ma anche di grande profondità intellettuale e stilistica, che ci conferma, purtroppo per l’ultima volta, come Bowie sia sempre stato un precursore: qualcuno che ha saputo spezzare le barriere del tempo per offrirci uno sguardo su altri futuri possibili – spesso inquietanti e distopici, ma a tratti anche vibranti di speranza.

Di fronte alle controversie critiche che accompagnano l’uscita del suo ultimo film, perlomeno su una cosa bisognerebbe accordarsi. Da sempre, ma in particolare dagli ultimi suoi Bastardi senza gloria (2009) e Django Unchained (2012) la ben nota predilezione di Quentin Tarantino per i dialoghi sembra dilagare. Tanto da fargli dire (su «Positif» dello scorso mese): «Quando avrò terminato con la regia, potrei concentrarmi sulla scrittura, diventare uomo di lettere, scrivere dei romanzi. Sarebbe un modo assai piacevole di vivere i miei ultimi anni, piuttosto di starmene seduto con una squadra che passa la sua giornata a scegliere delle scenografie». Tre ore, suddiviso in sei capitoli, concepito come esperienza teatrale, The Hateful Height riflette esattamente quello stato d’animo. Come spezzato in due: una prima parte che deve quasi tutto alla parola, alla sua cadenza, al suo potere di sublimazione nei confronti dell’incombente panorama dello Wyoming che incornicia questa specie di western. Lento, come mai lo è stato il cinema di Tarantino, nell’eco di un redivivo Ennio Morricone. Un inizio che fa dapprima pensare a una continuazione di Django; ma che diverrà ben presto il ricettacolo di balordi allusivi (siamo all’indomani della Guerra di Secessione): l’ex schiavo nero diventato cacciatore di taglie (un Samuel L. Jackson sovrano), un presunto futuro sceriffo, una supposta capobanda (l’ammaccata Jennifer Jason Leigh) condotta al patibolo da un improbabile giustiziere. Immobilizzati da una tempesta, finiranno nella taverna che funge da stazione di posta per cavalli. La seconda parte vede il Kammerspiel degli esterni recludersi in uno spazio claustrofobico; e la parola, che aveva il compito di condurre l’azione, concede maggiormente spazio all’immagine. Sfruttato grazie all’utilizzo del 70mm, l’interno della taverna diventa la scacchiera fisica di una riflessione più profonda di quel manipolo di otto hateful abbruttiti che la abita. Un’allegoria sempre meno festosa non solo sull’ambiguità e sulla cupidigia umana ma sulla Storia di un’America dai conflitti sociali e razziali che tragicamente fatica a rimarginare le proprie ferite. La sorprendente e inedita teatralità della visione cede poi il passo alla nota trasgressione trash-pulp dell’autore, agli schizzi d’emoglobina a questo punto più horror che western. Difficile considerarli proficui. Tarantiniani, di certo, più vicini al compiacimento che alla riflessione filosofica e politica che li precede. Ma relativamente ludici, coerenti e sorprendenti ai fini dell’invenzione.

Samuel L. Jackson offre un’interpretazione magistrale.


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Cultura e Spettacoli

L’Osi dimostra quel che vale CD Le musiche di Richard Strauss come elemento centrale in una produzione

Sofia nel mondo dei perché

discografica di alto livello, pubblicata di recente e diretta da Markus Poschner

Teatro In Ticino va

in scena la filosofia Timoteo Morresi Decisamente di pregio è l’ultimo CD, pubblicato alla fine del 2015 dalla casa discografica tedesca «cpo» e dedicato a Richard Strauss (1864-1949), protagonisti l’Orchestra della Svizzera Italiana e il suo direttore Markus Poschner. A cominciare innanzitutto dalla scelta azzeccata del programma, con in apertura il Duett-Concertino per clarinetto, fagotto, orchestra d’archi e arpa (1947), seguito dalla suite per orchestra op. 60 Le Bourgeois gentilhomme (1917). Il primo è tra i brani concertanti più deliziosi di Strauss, ingiustamente trascurato dalle stagioni concertistiche, composto a Montreux nel 1947 e presentato «in prima esecuzione mondiale» a Lugano dalla Radiorchestra il 4 aprile 1948, sotto la direzione di Otmar Nussio. La Suite per orchestra ebbe invece un’elaborazione più travagliata: l’idea di accompagnare con musica la commedia di Molière, sostituendo gli intermedi di Lully, fu di Hugo von Hofmannstahl. L’opera venne data a Stoccarda ma fu un fiasco. Il brano venne allora rimaneggiato e Hofmanmstahl scrisse un libero adattamento teatrale del Bourgeois gentilhomme. Nel 1919 Strauss ne trasse una Suite per orchestra, eseguita e diretta da lui stesso a Vienna dalla Filarmonia il 31 gennaio 1920. Il mondo galante del «Grand siècle» vi appare più volte: Strauss utilizza la musica cortese di divertimento come materia, sviluppandola e arricchendola con ar-

tifici di composizione molto piacevoli. L’interpretazione di entrambe le composizioni da parte dell’OSI è un altro motivo di interesse del CD. Il DuettConcertino esige dagli esecutori una prestazione tecnica minuziosa, data la presenza di un duo di solisti così finemente associati. Sebbene la versione di Poschner – con Corrado Giuffredi (clarinetto) e Alberto Biano (fagotto) – presenti un andamento più moderato nel primo e terzo movimento rispetto a quella di Paavo Järvi a capo della Kammerphilarmonie di Brema (PentaTone Classics, 2004), il contrasto tra i due strumenti solisti pare a me espresso meglio dalle due prime parti dell’OSI. L’OSI regge bene il confronto internazionale anche nella suite del Bourgeois gentilhomme. Qui Poschner, paragonato sempre a Paavo Järvi (stessa edizione) e soprattutto a Jesús LópezCobos con l’Orchestre de chambre di Losanna (Virgin Classics, 2001), sceglie tempi leggermente più lenti nei primi quattro numeri e negli ultimi due, mentre nel quinto, sesto e settimo procede ad un’andatura più rapida. In bella evidenza il primo violino (Robert Kowalski) nel quarto e quinto movimento, il pianoforte (Alfonso Alberti) nel terzo e il violoncello (Johann Sebastian Paetsch) nel nono. Di Poschner mi è inoltre piaciuto molto il settimo, con il tema della sarabanda di Lully esposto senza troppo vibrato da parte degli archi. Di particolare nota nel CD anche la registrazione storica delle quattro liriche di Strauss (con la soprano Annette

Giorgio Thoeni

Foto di gruppo per OSI e Poschner, sulla scalinata del LAC.

Braun, accompagnata dalla Radiorchestra), eseguite in concerto l’11/6/ 1947 a Lugano allo Studio radiofonico del Campo Marzio, e l’allocuzione che tenne il direttore d’orchestra, compositore e musicologo austriaco Bernhard Paumgartner (1887-1971). Nello stesso momento in cui usciva questo CD, la stampa riferiva la notizia secondo cui la SSR ha deciso di rinegoziare il contratto con l’OSI. Se da un lato ci si aspetta che la riduzione del contributo SSR non sia tale da metterne in pericolo l’esistenza, dall’altro è lecito attendersi un impegno finanziario maggiore dei comuni che più beneficiano della sua presenza: in primis

Lugano ma poi anche gli altri del Luganese che gravitano attorno al LAC. Un Ticino senza l’OSI è inimmaginabile: con i musicisti che la compongono e i registi che assicurano la qualità delle registrazioni, è un centro di competenza di alto valore aggiunto come l’Accademia di architettura di Mendrisio, l’Istituto di Studi italiani e il Centro di calcolo scientifico a Lugano, o l’Istituto di Ricerca in Biomedicina a Bellinzona. Privarsene sarebbe assurdo, tanto più se si pensa che Lugano ha da pochi mesi inaugurato una sala concertistica, il LAC, degna di una città che ambisce a svolgere un ruolo non secondario in campo culturale. Affaire à suivre…

La letteratura è un valido supporto per la creatività, la filosofia ancor di più. Affascinati dalla metafora editoriale de Il mondo di Sofia, romanzo del norvegese Jostein Gaarder pubblicato più di vent’anni fa, gli attori-autori-registi della giovane compagnia ticinese «Grande Giro» ne hanno tratto ispirazione per allestire uno spettacolo su misura dal titolo I am. Una storia che assomiglia tanto alla vita. Chi sono io e che cos’è la realtà? Sono le domande sulle quali ruota l’azione scenica, fra teatro, danza, musica e video. Un disegno introspettivo che mette a confronto la dimensione delle abitudini più semplici e spersonalizzanti con quella di consapevolezza, libero arbitrio, curiosità, conoscenza. Al centro del racconto c’è Sofia, una giovane che «apre gli occhi e si pone interrogativi», fra sonni e risvegli, mossa in una sorta di giostra degli arredi e animata senza soluzione di continuità da una sorta di simpatico giullare alla mercé di una fascinosa e autoritaria burattinaia sadomaso. Pur con l’ironia del discorso complessivo, l’impegno e la bravura degli attori non hanno evitato alcune ingenuità che una regia esperta avrebbe condotto per una resa drammaturgica più incisiva ed efficace. Applausi la sera del debutto al Foce di Lugano per Lea Lechler, Valentina Bianda, Paolo Masini, Loris Ciresa e a Daniele Bianco. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

I contrasti della città Italiani a Berlino Nei resoconti di giornalisti e scrittori ospiti della

metropoli il senso di stupore di fronte ai vari aspetti della sua vita

Parlare di libri Editoria Una rassegna di scritti sul mondo

dei libri e della lettura dello scrittore angloitaliano Tim Parks Stefano Vassere

Luigi Forte Cherchez la femme, sembra il motto dei giornalisti italiani nella Berlino notturna. È il caso di Borgese che frequenta assiduamente la Friedrichstrasse, strada della perdizione, per assistere alla messinscena dell’esemplare moralità germanica. Vale a dire «tre chilometri di passeggiatrici, accompagnate con urla di gioia e con gesti che si vogliono chiamare equivoci appunto perché non ammettono nessun equivoco da tre chilometri di passeggiatori, di cui perfino la tuba trasuda champagne». Ben altra esperienza fa il povero Alvaro nel borghese Westen: un donnone con un paio di stivali fino al polpaccio lo afferra per il colletto e lo vuole tutto per sé. Lui riesce a liberarsi, se la dà a gambe, ma poco oltre s’imbatte in un’altra lucciola che vedendo sfrecciare quel piccolo meridionale, strilla a più non posso: «Il diavolo! Il diavolo!». C’è chi invece, come Rosso di San Secondo, ama angoli solitari dalle parti della Sprea, che gli ricordano la tranquilla e pittoresca Olanda dove aveva soggiornato giovanissimo. È inevitabile che finisca per curiosare nella periferia lacustre, magari lungo le rive misteriose del Krumme Lanke, specchio d’acqua nel quartiere di Zehlendorf circondato da fitta vegetazione, dove domina una cupezza immobile che talvolta si anima per le strida di grossi uccelli. Insomma, la modernità di Berlino nelle cronache di alcuni giornalisti italiani respira anche attraverso una natura che non ha perso nulla del suo antico fascino. Borgese si esaltava passeggiando per il Tiergarten, un tempo terreno di caccia, vero polmone verde dietro la Porta di Brandeburgo. Gli piacevano i fitti querceti, dove fra i tronchi lampeggiavano bianche statue ed era più che mai convinto che «chi ha dato al suo popolo una foresta oscura e odorante, senza guardie e con molti sedili, nel cuore della città, gli ha fatto un dono più prezioso del suffragio universale». Berlino ruota ormai intorno a un luogo comune: è la metropoli dei profondi contrasti e delle incessanti trasformazioni. Lo stesso Tiergarten venerato da Borgese, è descritto anni dopo da Solari, autore di un noto baedeker, come un deserto; anche il Westen, orgoglio dell’epoca guglielmina, sembra aver perso il suo fulgore tanto da fargli credere che la città stia invecchiando e s’impoverisca in gran fretta, «come una donna viziosa, macerata dai piaceri». Eppure persiste e cresce una Berlino che racconta un’altra storia: quella dei centri commerciali nella Leipzigerstrasse o di Potsdamerplatz con la sua torretta metallica, il semaforo più moderno d’Europa. Quella del Funkturm, la torre della radio, o dell’originale palazzo Gourmenia, opera dell’architetto ebreo Leo Nachtlicht, una costruzione di tre

piani destinata al piacere gastronomico che ospitava il ristorante Trau-be con un giardino subtropicale popolato da uccelli, un buffet americano e la birreria «Città di Pilsen». Modernità e natura in simbiosi culinaria piacciono molto ad Alvaro che qui ammira «il pavimento di vetro, e sotto il vetro serbatoi d’acqua coi pesci che vi guizzano dentro, tra i passi di chi balla e le lampadine elettriche». Lo spettacolo prosegue in versione colossale e con gusto scenografico nel ristorante Haus Vaterland, la settima meraviglia, come la chiama Solari, un edificio di sei piani molto amato da intellettuali come Walser, Hessel e Giraudoux. In ogni sala una cupola Fortuny con la sua luce diffusa e indiretta dà l’impressione a migliaia di visitatori di aprirsi su cieli lontani, dal Bosforo a Pechino. La metropoli si traveste con panni multicolori, mentre la gastronomia diventa scenografia e spettacolo anche nei locali di Aschinger sparsi per la città, a cui Borgese, ancora prima di Roth e Döblin, dedica una splendida pagina. Una volta all’anno è lecito avvelenarsi, sentenzia lo scrittore, che immagina la sua visita come una Divina commedia culinaria in cui è l’ironia a scandire il menu: «...nel palazzo Aschinger si saliva dall’Inferno (panini imburrati, birra inoffensiva, porzioni omeopatiche, profumo archeologico come di un pranzo che aspettasse il consumatore da alcune epoche storiche) a una specie di Purgatorio (salviette di stoffa, birra vera di Monaco, cucina casalinga) fin su su al Paradiso, ove si mescevano i vini biondi e purpurei». Cuore dell’intera catena dei fratelli Aschinger era il famoso ristorante Oro del Reno nella Bellevuestrasse costruito fra il 1905 e il 1907 dall’architetto Bruno Schmitz: nei suoi dodici saloni potevano rifocillarsi quattromila persone. Più che dal cibo, il giornalista è attratto dagli arredi e dai vari stili architettonici dell’interno: «I mille e mille lampadari sbocciano come fioriture dei tropici da soffitti non indegni di palazzi regali (…) – afferma entusiasta –; piante di serra adornano le terrazze; i tappeti orientali smorzano il suono dei passi lungo le corsie. La sala degli imperatori è più fastosa di qualunque sala del trono». Nulla di simile naturalmente nelle trattorie a buon mercato di Gesundbrunnen e di Wedding o nella taverna negra della Dorotheenstrasse, luogo di ritrovo degli uomini di colore che Berlino utilizzava per i suoi film esotici. Meglio forse il ristorante Sorrento, la «graveolente taverna italiana», dove Paolo Monelli portava il suo stomaco nostalgico insieme all’anima, al cuore e allo spirito vagabondo che, come lui diceva, cerca la patria in ogni angolo del paese straniero. E invece ci trovava gli espressionisti dello Sturm con la loro ninfa Egeria, la pittrice svedese Nell Roslund, e molti artisti italiani e tedeschi.

Una clientela variegata con baldracchette della vicina stazione, loschi pervertiti, giornalisti, ministri e membri del Reichstag. Non poteva mancare nemmeno una serata a teatro, purché non in quello della Klosterstrasse, che Rosso di San Secondo definisce un «vero antro» frequentato da una popolare brigata di macellai, panettieri, merciai e commessi, dove furoreggiavano i testi di Frank Wedekind tra sessualità e disperazione per l’inferno del mondo. Anni prima, Borgese si entusiasmava per il Metropol nella centrale Behrenstrasse, noto teatro di rivista pubblicizzato da grandi insegne luminose che agivano sui nervi dei passanti «come le visite periodiche di un creditore paziente». Gli piaceva perché vi si poteva bere e fumare seduti in poltrona, ma soprattutto perché da quella comoda postazione si ammiravano sulla ribalta trentadue gambe sinistre in maglia rosa e altrettante destre in maglia cilestrina. Insomma, la serata offriva un allettante passatempo e sembrava «fatta apposta – come sottolinea con garbata ironia – per il figlio della grande metropoli, che ha lasciato il cervello nell’anticamera dell’azienda o negli ambulatori di borsa». La curiosità e un certo interesse sociologico spingono invece Alvaro verso le sale da ballo, rappresentazioni di una Babele moderna dominata da irrealtà e fantasia, nella quale «si è rifugiata l’illusione dei vecchi scenari di teatro, l’ideale dei salotti borghesi, il lusso dei film storici». Quasi commovente è lo sguardo su una folla di servette che ballano con stile e dignità in una sala sotterranea di Alexanderplatz: quelle umili ragazze hanno il contegno di signore, commenta il giornalista. Ben diversa è la realtà che lo scrittore ritrova nella Gran Sala Germania, al club degli Elmetti d’Acciaio, dove un pubblico fanatico ricorda il tipo di umanità prussiana prima del 1914, con uomini dai capelli rasati intorno alle tempie e all’occipite, e donne con la veste a campana, il bustino stretto e i lunghissimi capelli biondi. «Ballavano come marciassero», ricorda lo scrittore; poi, alla fine, tutti si alzano, salutano alla romana intonando la nota canzone patriottica tedesca Deutschland über alles, la cui musica risale a Joseph Haydn: «Gli uomini masticavano le parole dell’inno come se si vendicassero d’un lungo silenzio; e le donne, cantando, li ammiravano». Anche il ballo sembra riprodurre le grandi contraddizioni del momento e gettare un’ombra fosca su quel presente già tanto martoriato, in quella città volubile e ostinata, pedante e sognatrice, come la percepiva Alvaro nel 1929, «in cui tutti sono schiavi e tutti dominatori, tutti soldati e tutti sergenti, disperata e illusa». Così nel giro di un valzer o nello scalpiccio di un foxtrott la vita si maschera e sorride per un attimo a un futuro incerto popolato di fantasmi.

Bibliografia

Tim Parks, Di che cosa parliamo quando parliamo di libri, Torino, Utet, 2015. La copertina del libro di Tim Parks.

Concorso

La Friedrichstrasse in una cartolina del 1918.

«Mi chiedo inoltre se, scegliendo di non seguire un libro, per quanto eccellente, fino alla fine, il lettore non faccia un favore allo scrittore, esonerandolo dal compito ingrato e per certi versi assurdo di sbrogliare una trama così attentamente imbrogliata. C’è qualcosa di funesto nella nostra soggezione all’idea della fine. Sono convinto che avrei un’opinione meno generosa di molti romanzi, se li avessi letti fino in fondo». Di che cosa parliamo quando parliamo di libri è titolo che echeggia Di che cosa parliamo quando parliamo d’amore, la nota raccolta di racconti di Raymond Carver. Se però proviamo a chiedercelo davvero, se ci chiediamo di che cosa parliamo, veramente, quando parliamo di libri, allora la risposta è: «di un sacco di cose», perché la parola libro è una parola piena della sua storia, che significa anche «lettura», «cultura», «trasmissione del sapere», «passioni», «lingue» e molte altre cose. Che sono anche le molte altre cose contenute nell’ultimo libro di Tim Parks, che si chiama appunto così. Tim Parks è personaggio particolare, perché è uno scrittore inglese che insegna all’Università Iulm di Milano,

collabora con giornali e periodici di fascia superiore in Italia, in Gran Bretagna e Stati Uniti, traduce i classici italiani in inglese; ha pubblicato molti romanzi e saggi, e non da ultimo ha deciso di abitare vicino a Verona. Il libro, organizzato in quattro sezioni e capitoletti di qualche pagina, è, peraltro, un mirabile esempio di come si scrive e si struttura un saggio alla maniera anglosassone di Tim Parks (qui, nell’Italofonia, e forse anche in parte notevole della restante Europa, non siamo capaci di produrre questo metro a metà tra il racconto e il saggio; sappiamo solo fare, polarizzati, o narrativa o saggistica dura). C’è tutto sui libri. Tra le idee più originali, troviamo una documentata critica dei sempre più numerosi «sostenitori del bisogno narrativo», che identificano una necessità cognitiva, quasi connaturata all’uomo, di narrare e narrare le cose proprie e del mondo. O anche un inusuale elogio della lettura sull’e-book, per nulla tecnologico («è fin troppo facile difenderlo a livello pratico») e invece tutto narrativo. Alcune immagini, poi, sono veramente sorprendenti: c’è un capitolo che si chiama «Fino all’ultima pagina» e racconta della ragionevole abitudine di interrompere la lettura dei libri brutti, estesa, per ragioni difendibili, anche ai libri belli: «nei romanzi, gli epiloghi che trovo meno deludenti sono quelli che incoraggiano il lettore a credere che la storia avrebbe facilmente potuto prendere una piega diversa». E per chi si interessi della linguistica che si preoccupa dell’influsso imperialista dell’inglese ci sono osservazioni molto profilate sull’evoluzione linguistica e stilistica della stessa letteratura in inglese, che deve star lontano da raffinati estremismi stilistici perché, nel nuovo mercato globale, deve tenere conto anche della bottega delle traduzioni.

Tra jazz e nuove musiche Rassegna di Rete Due Teatro del Gatto, Ascona Lunedì 22 febbraio, ore 20.30 Jeb Patton Trio feat. Lewis Nash Jeb Patton, pianoforte; John Webber, contrabbasso; Lewis Nash, batteria. In collaborazione con il Jazz Cat Club.

Chi è di scena Rassegna teatrale Teatro Sociale, Bellinzona Venerdì 26 febbraio, ore 20.45 Decamerone, Vizi, virtù, passioni Liberamente tratto da Boccaccio. Con: Stefano Accorsi, Silvia Ajelli, Salvatore Arena, Silvia Briozzo, Fonte Fantasia e Mariano Nieddu. Adattamento e regia: Marco Baliani.

091/821 71 62 Regolamento Migros Ticino offre ai lettori biglietti gratuiti per le manifestazioni sopra menzionate.

Per aggiudicarsi i biglietti basta telefonare mercoledì 17 febbraio al numero sulla sinistra nell’orario indicato. Buona fortuna!

Massimo due biglietti per economia domestica. La partecipazione è riservata a chi non ha beneficiato di vincite in occasione di analoghe promozioni nel corso degli scorsi mesi.

Orario per le telefonate: dalle 11.00 alle 12.00

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 15 febbraio 2016 ¶ N. 07

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Cultura e Spettacoli

Un Pinocchio per Gabrieli Premi Letterari All’epistolario dell’organista veneziano pubblicato da Giuseppe Clericetti il «Venezia Graspo de Ua» Piero Zanotto Giuseppe Clericetti (Lugano, 1958) voce «storica» di Rete Due e musicologo autore di specifici studi riferiti soprattutto alle composizioni per organo di Andrea Gabrieli, già responsabile del settore musica della RSI, laureato a Friburgo con una tesi sul temperamento degli strumenti a tastiera del Seicento, è tornato in Svizzera da Venezia con in «tasca» una scultura in vetro di Murano, creazione del maestro Tiziano Rossetto, raffigurante... Pinocchio. Cosa curiosa, in apparenza priva di nesso. Diciamo allora che l’emerito bugiardino uscito dalla fantasia di Collodi nel 1881, e ancora vivissimo nell’immaginario globalizzato, viene consegnato in forma di premio per decisione di una giuria di scrittori e giornalisti, nella sua appena ricordata artistica veste, al vincitore del Premio Letterario Venezia al Graspo de Ua (al Grappolo d’uva). Ovvero, per la seconda edizione dell’evento culturale promosso dallo storico ristorante rialtino, proprio a Giuseppe Clericetti. E allora sorge spontanea la domanda: perché? Va specificato che il regolamento del Premio è un invito alla partecipazione di opere di narrativa di contenuti «bugiardi», riferiti appunto a Venezia. Una Venezia «romanzata», come hanno fatto con le loro visioni universali ad esempio Shakespeare, Goldoni, Thomas Mann. Fantasie innestate nel tessuto storico o moderno e avveniristico della città d’acqua. Che possono anche appartenere, secondo la definizione di Hugo Pratt, alla «letteratura disegnata». E vanno ricordate in proposito le graphic novel di cui è protagonista Corto Maltese e con esse le inventate Corti Sconte in Ghetto (cercate invano dai fan di Hugo in gran parte francesi: sarebbe curioso descrivere la genesi dello scherzo). Clericetti ha giocato con fine intel-

Il musicologo con l’opera di Tiziano Rossetto.

ligenza in proposito. Aveva cioè inviato a concorrere per il Premio un libro di indubbio serissimo impegno, sull’importante musicista veneziano, organista di San Marco e compositore della Serenissima, che l’autore avverte essere il manoscritto epistolare tornato alla luce dopo quattro secoli. Titolo: Andrea Gabrieli. Cessate Cantus. Lettere 15571585 (Zecchini Editore). C’è voluto un bel po’ perché la giuria individuasse il nesso tra il contenuto del libro e le bugie di Pinocchio. Bugie in questo caso raffinatissime, gioco in-

tellettuale superbo, che si individuano, dopo il divertimento specifico della lettura delle lettere e la visione dei documenti grafici annessi, scorrendo con attenzione la postfazione di Carla Moreni. Ma già la fascetta che avvolge il libro è lì a strizzare l’occhio. Dice: «Allora sono lettere vere? Eh, come crederlo fino in fondo». A porgere a Clericetti il Pinocchio in vetro di Murano con annesso motivato testo su pergamena è stato il vincitore del Premio della prima edizione, lo scorso anno, Renato Pestri-

niero, scrittore veneziano, col libro di intrigante fascino La pietra dell’alchimista (che Clericetti aveva letto ed ha pubblicamente elogiato). Un settore importante del Premio Letterario Venezia al Graspo de Ua è fermamente legato da Alessandro Mazzetto titolare del ristorante-hotel, a specifiche pecularietà di editing. Da ricordare almeno le due che caratterizzano il corpus di due narrazioni per immagini: il disegno in sequenza davvero straordinario di Matteo Alemanno per il volumi del belga Dargaud (tradotti anche per l’Ita-

lia): Marina. I figli del doge e La profezia di Dante Alighieri, testi di Zidrou, e la rarità delle tavole realizzate da Alvise Rossi con la tecnica della linoleografia, sui testi di Valentino Sergi, per il volume Inferni. La peste e l’uragano (Edizioni Comma 22). Annunciata la terza edizione del Premio per ottobre 2016. Sarà ancora il disegno del Pinocchio gondoliere con sguardo che si perde nel vuoto della laguna, disegnato dal pittore veneziano Aldo Andreolo, ad accompagnarne visivamente l’iter della documentazione.

Tutti a Berna per dar libero sfogo all’ascolto Radiofonia Giulia Meier ci presenta la nuova edizione del «sonOhr festival»

Zeno Gabaglio «Viviamo in un mondo tutto concentrato sul piano visivo, per cui siamo quotidianamente bombardati dalle immagini. Per questo il puro ascolto è una sorta di rifugio, e al tempo stesso un’intrigante avventura, perché attraverso l’udito c’è tantissimo da scoprire». Sono quasi un manifesto programmatico – per non dire una ragione d’esistere – le riflessioni che Giulia Meier ci offre a proposito del sonOhr Festival, la manifestazione dedicata esclusivamente all’ascolto che lei stessa ha contribuito a fondare e tuttora a dirigere. Dal 19 al 21 febbraio prossimo – nella suggestiva atmosfera del Kino REX di Berna – andrà infatti in scena un festival davvero unico nel suo genere, su scala nazionale ma forse anche oltre. Perché trovare diverse centinaia di persone che si incontrano esclusivamente per ascoltare delle produzioni audio diffuse da altoparlanti, in un unico spazio tutti assieme, non capita davvero spesso. È una sorpresa ma non di certo uno sconvolgimento: l’ascolto è infatti da sempre uno degli strumenti principali per la conoscenza dell’uomo, per la sua comunicazione, per l’autoespressione e pure per l’intrattenimento. La difficoltà è casomai quella di delimitare cosa può meritare un attento ascolto, e quindi quali sono le produzioni sonore di conseguenza ammesse nel festival. «sonOhr vuole dar spazio

a quasi tutti i generi di ascolto: per noi l’importante è che le opere presentate siano prodotte in maniera elaborata. L’unico genere di ascolto che in definitiva non è protagonista a sonOhr è la pura musica, visto che nella nostra società gode di presenza e popolarità già grandi». sonOhr è quindi – per i creativi dell’audio – un punto di arrivo ma anche un punto di passaggio, dal momento che dal festival transitano produzioni che avranno altrove la propria vita. Nell’ampio ventaglio di supporti e possibilità della nostra contemporaneità quali sono i media più toccati dalla vostra selezione? «Sebbene il web – e in generale il digitale – diventino sempre più centrali, sia come canale di distribuzione e ascolto sia come mezzo di produzione, sonOhr ha le sue radici nella radio, quindi la radio sarà sempre uno dei media più importanti per il nostro festival». La radio, appunto: ma quali possono essere le prospettive nel presente e nel futuro per un medium relativamente attempato come quello radiofonico? «Chi lavora in radio non passa un giorno senza chiedersi “che futuro avrà la radio?” ma sinceramente non penso che la radio stia per scomparire. Per rimanere viva e vivace dovrà però avventurarsi per nuovi sentieri, aprirsi, osare, sperimentare» e sonOhr – da questo punto di vista – è una sorta di passaggio obbligato per chi nella radio ci crede, e vuole anzi provare a immaginarsi

in che modo continuerà ad evolversi. Fantasia, quindi, che in un contesto di libera creatività non può che associarsi all’idea di indipendenza. Come

si può dunque giudicare il rapporto tra l’invenzione in ambito sonoro e le istituzioni ufficiali della cultura svizzera? «L’invenzione in ambito sonoro

È nata in Ticino ma ha studiato, e lavora, a Berna.

in Svizzera è dominata dalla Società svizzera di radiotelevisione SSR, un contesto in cui la creazione deve però rispettare certe regole. Io invece vengo dalla radio libera, e questo tipo di piattaforma offre davvero la massima indipendenza, e quindi spazio per la libertà creativa. La vera indipendenza è però quella economica, e in questo senso ognuno deve imparare a badare a se stesso. Bisogna essere creativi anche nelle finanze!». Quasi ci dimenticavamo di ricordare che Giulia Meier è ticinese, uno dei nostri cervelli che – per fortuna senza andare troppo lontano – ha scelto la fuga: nata e cresciuta nella Svizzera italiana si è trasferita per lo studio (Laurea in Lettere all’università di Berna e MAS Kulturmanagement all’università di Basilea), per l’amore e per il lavoro (giornalista culturale per Radio RaBe Berna, progetti radiofonici per Radio Kanal K Aarau, autrice e regista di radiodrammi) nella Svizzera tedesca. Da quelle terre come si giudica il panorama audio a sud delle Alpi? «La mia famiglia vive sempre in Ticino e quindi ci torno spesso. Seguo con molto interesse quello che succede a livello culturale, soprattutto ogni cosa legata alla produzione audio e radiofonica. Mi fa molto piacere vedere che anche in Ticino ci sia finalmente una radio libera – Radio Gwendalyn di Chiasso – che cresce, prospera, e offre una piattaforma creativa a molte persone».


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Idee e acquisti per la settimana

shopping Una tisana che fa bene due volte

Novità Migros Ticino introduce nel suo assortimento la tisana alla malva,

un prodotto elaborato dagli utenti della Fondazione San Gottardo. Abbiamo incontrato Antonio Aiolfi, responsabile della struttura Orto il Gelso di Melano

Signor Aiolfi, come è nata l’idea di produrre la tisana alla malva?

La tisana alla malva risponde ad una richiesta di Migros di poter offrire questo tipo di prodotto alla propria clientela, proposta alla quale abbiamo aderito con entusiasmo. Come per la realizzazione di tutti i prodotti, noi partiamo dal seme e ci occupiamo di quasi tutta la filiera sino al prodotto finito. La nuova Tisana Malva va a completare l’apprezzata serie di tisane già in vendita alla Migros: la tisana del mattino e quella della sera. Una tale produzione è sicuramente motivo di vanto per i vostri utenti…

Per quali motivi è apprezzata la malva?

È noto che in erboristeria la malva è apprezzata per le sue proprietà calmanti, emollienti e antinfiammatorie. Essa calma la tosse e la gola irritata, migliora la digestione e previene le infezioni urinarie. Inoltre svolge pure una leggera azione lassativa in caso di costipazione cronica.

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Per le persone inserite nel nostro laboratorio è una grande fonte di soddisfazione. La possibilità di lavorare dalle varie fasi della coltivazione fino alla lavorazione e, infine, vedere il frutto del proprio lavoro sugli scaffali Migros, nobilita e valorizza l’attività e, conseguentemente, chi la svolge. Da sempre puntiamo ad una proposta lavorativa «reale» normalizzante, proponendo prodotti con qualità riconosciute. I nostri prodotti sono apprezzati per le caratteristiche qualitative, valore che ci ha consentito un progressivo continuo sviluppo, sia nella lavorazione sia per numero di prodotti realizzati. Grazie al canale Migros riusciamo ad auto-finanziare il nostro laboratorio, anche questo un aspetto che ci rende particolarmente orgogliosi.

La Fondazione San Gottardo La Fondazione San Gottardo è una fondazione di diritto privato che offre un servizio di accoglienza e accompagnamento, in via transitoria o permanente, a persone maggiorenni che si rivelano incapaci di condurre un modo adeguato i loro rapporti nella famiglia, nel lavoro e nelle vita sociale, a causa di patologie congenite o acquisite. Esse sono accompagnate, partendo dalle loro potenzialità, verso la maggior autonomia possibile, tenendo conto delle loro caratteristiche all’interno di uno

sguardo globale e mettendo in atto con professionalità tutte le risorse e gli strumenti a disposizione in vista di un’adeguata integrazione nel tessuto sociale. La Fondazione San Gottardo gestisce cinque strutture di accoglienza, tra cui l’Orto il Gelso di Melano, laboratorio prettamente agricolo che si occupa di quattro diversi ambiti di attività: coltivazione biologica ed essicazione di erbe, economia domestica, legna da ardere e laboratorio verde. www.fsangottardo.ch L’Orto il Gelso di Melano della Fondazione San Gottardo.


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Idee e acquisti per la settimana

Concorso Deborah Milano

Attualità Vinci il nuovissimo make-up set

Secrets of Contouring

Il celebre marchio Deborah Milano, leader italiano nel make-up, presenta Secrets of Contouring, una collezione studiata in collaborazione con il celebre make-up artist Luca Mannucci. Essa è composta da Correttore Fluido Dress Me Perfect, Correttore Illuminante Radiance Creator, Pennello e Palette Contouring con 4 differenti colori. Il contouring è una tecnica già conosciuta da anni nel mondo del cinema e della fotografia e permette di ridisegnare i contorni del viso grazie a diversi colori di polveri compatte. Sfumando le giuste nuances, si riesce così a modificare i lineamenti del volto, rendendo più scolpiti i tratti di un viso dalla forma arrotondata o affusolando un naso aquilino. Deborah Milano è in vendita nelle maggiori filiali di Migros Ticino in una vasta tipologia di prodotti .

Vinci 1 dei 10 set Migros Ticino, in collaborazione con Deborah Milano, mette in palio dieci set della nuova collezione Secrets of Contouring. Tenta la fortuna inviando un’email entro il 21 febbraio 2016, con oggetto «Deborah Milano», a concorso@migrosticino.ch, indicando il tuo nome, cognome e indirizzo. Buona fortuna!

Piatti leggeri e gustosi con Manzotin

Il barometro dei prezzi La Migros riduce i prezzi di numerosi prodotti. Più convenienti sono tra gli altri le Chips alla paprica, gli spinaci alla panna e lo sciroppo alle bacche, tutti di M-Budget, nonché i J.Bank’s Jalapenõs. I clienti Migros pagano meno anche per diversi deodoranti

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della marca Rexona. Più cari, a causa dell’aumento di prezzo delle bacche secche, sono invece il müesli alla frutta Bio aha! e il müesli croccante con bacche. Infine, aumento anche per la Coca Cola in lattina a causa dei prezzi d’acquisto al rialzo. Prezzo vecchio Nuovo in Fr. in Fr. in %

M-Classic albiccocche secche turche, 300 g J.Bank’s Jalapeños, surgelati, 250 g M-Budget Chips Paprika, 350 g M-Budget gnocchi di patate, 700 g M-Budget Tortellini Spinaci e Ricotta, 500 g Rexona Deo Roll-On Cobalt, 50 ml Rexona Deo Spray Cobalt, 150 ml Rexona Deo Maximum Protection Stress Control, 45 ml Rexona Deo Roll-On Green Fresh, 50 ml Rexona Deo Spray Cotton, 75 ml Kleenex «das Taschentuch» Box, fazzoletti, 60 pezzi LED Banda 3 metri RGB LED Banda 5 metri RGB M-Budget Spinaci alla panna, surg., 1.2 kg M-Budget Sciroppo alle bacche, 1.5 l Bio Aha! Müesli alla frutta, 500 g Bio Aha! Müesli croc. frutti di bosco, 500 g Coca-Cola, lattina, 33 cl

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4.75 4.60 3.30 2.20 2.35 2.35 2.85 5.20 2.45 2.85 2.30 35.– 45.– 2.95 2.95 5.80 5.90 0.75

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Fettine fesa di vitello tagliate fini TerraSuisse, Svizzera, imballate, per 100 g 5.55 invece di 7.40 25% Prosciutto crudo di Parma Ferrarini stagionato 24 mesi, Italia, affettato, in conf. da 2 x 90 g, 180 g 9.40 invece di 18.80 50% Racks d’agnello, Nuova Zelanda / Australia, imballati, per 100 g 4.30 invece di 5.40 20% Roastbeef cotto, Svizzera / Germania, affettato in vaschetta, per 100 g 4.80 invece di 6.95 30% Spezzatino di manzo TerraSuisse, Svizzera, imballato, per 100 g 1.95 invece di 2.80 30% Filetti di trota affumicati bio in conf. da 3, d’allevamento, Danimarca, 3 x 100 g 10.50 invece di 15.– 30%

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Tutto il pane fresco bio, –.40 di riduzione, per es. corona del sole, 360 g 2.50 invece di 2.90

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Tutto l’assortimento di riso Migros Bio, per es. riso integrale Natura, 1 kg 2.60 invece di 3.30 20% Tutti i tipi di cereali in chicchi, di legumi o di quinoa Migros Bio, per es. quinoa bianca, Fairtrade, 400 g 4.45 invece di 5.60 20% Tutti i rösti Migros Bio o i prodotti Mifloc Migros Bio, per es. rösti, 500 g 1.95 invece di 2.45 20% Tutta la pasta M-Classic, a partire da 2 confezioni 30% Tutti i tipi di aceto Giacobazzi, per es. condimento agrodolce bianco, 250 ml 3.90 invece di 4.90 20%

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 15 febbraio 2016 ¶ N. 07

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 15 febbraio 2016 ¶ N. 07

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Idee e acquisti per la settimana

Le settimane delle famiglie

Tutti ai fornelli! I bambini in cucina

Hai otto anni o più e avresti voglia di essere uno chef di cucina? Vorresti cucinare da solo qualcosa di sfizioso per i tuoi genitori o fratelli? Per esempio una saporita pizza-baguette o un riso al latte fruttato? In queste pagine ti mostriamo come si fa

Mai lasciare i bambini da soli ai fornelli. Un adulto dovrebbe essere sempre nelle vicinanze per ogni evenienza.

Testo Heidi Bacchilega; Illustrazioni Flavia Travaglini; Ricette Margaretha Junker

Suggerimento Accompagnate con un’insalata, per es. di carote.

Ricetta

Pizza Baguette 1 Xenia Feta 200 g Fr. 3.30

Lava le mani e, se hai i capelli lunghi, fai la coda. Indossa un grembiule in modo da non sporcare i vestiti. Adesso puoi mettere tutti gli ingredienti sul tavolo.

Champignons bianchi 100 g prezzo del giorno

Cipollotti al mazzo prezzo del giorno

M-Classic petto di tacchino 129 g Fr. 3.15

M-Classic Baguette precotta 300 g Fr. 1.55

Bio Olio di oliva italiano 500 ml Fr. 8.90

Grana Padano grattugiato 120 g Fr. 2.25

Salsa all’italiana Napoli 250 ml Fr. 1.60

4 2

Sciacqua quattro grossi champignons con acqua fredda e falli sgocciolare bene. Tagliali a fettine sottili. Taglia ad anelli due cipollotti, gambi compresi. Spezzetta con le mani 100 grammi di prosciutto di tacchino.

Dimezza per il lungo due baguette. Ma fai attenzione con il coltello: taglia sempre lontano dal corpo. Se non sei capace, chiedi aiuto ad un adulto.

5 3 Fodera una placca da forno con carta da forno. Metti le baguette dimezzate sulla placca e spennella ogni pezzo con 2 cucchiai di salsa di pomodoro.

Metti 100 g di Feta su un piatto e sbriciolali con una forchetta.

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7

Distribuisci tutti gli ingredienti in modo uniforme sulle metà baguette. Cospargi con un filo di olio d’oliva e parmigiano grattugiato: per ogni pezzo di pane circa mezzo cucchiaio di ognuno di questi ingredienti.

Preriscalda il forno a 200 °C. Gratina le baguette al centro del forno per ca. 10 minuti. Sforna con cautela usando dei guanti da forno.

Tempo di preparazione ca. 20 minuti + 10 minuti di cottura Per persona ca. 16 g proteine, 14 g di grassi, 40 g di carboidrati, 1500 kJ/360 kcal

Ricette di

www.saison.ch


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 15 febbraio 2016 ¶ N. 07

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 15 febbraio 2016 ¶ N. 07

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Idee e acquisti per la settimana

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Ricetta

Taglia due grosse mele a metà, p. es Braeburn, senza sbucciarle e privale del torsolo con l’aiuto di un coltellino.

Riso latte con mela all’olivello spinoso 1 Lava le mani e, se hai i capelli lunghi, fai la coda. Indossa un grembiule in modo da non sporcare i vestiti. Adesso puoi mettere tutti gli ingredienti sul tavolo.

3 Trasferisci le mezze mele in una pirofila e aggiungi una tazza di acqua. Polpa di Olivello spinoso 450 g Fr. 6.20 Nelle maggiori filiali

Bio Latte intero 1l Fr. 1.80

Lilibiggs Miele 250 ml Fr. 3.35 Nelle maggiori filiali Baccelli di vaniglia 3 pezzi Fr. 2.30

M-Classic riso Originario 1 kg Fr. 2.30 Nelle maggiori filiali

Valflora M-Dessert latte acidulato 180 g Fr. 1.25

JuraSel sale da cucina con iodio 1 kg Fr. –.95

2 grosse mele per es. Braeburn prezzo del giorno

4 Distribuisci nell’incavo delle mele un cucchiaino di polpa di olivello spinoso. Scalda il forno a 180°C, dopodiché cuoci le mele al centro del forno per ca. 30 minuti. 5 Incidi con prudenza per il lungo un baccello di vaniglia.

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Lilibiggs

Tante golose ricette per bambini Il programma Lilibiggs per i bambini è dedicato ai bimbi da 3 a 10 anni. Sul sito www.lilibiggs.ch si trovano tante golose ricette come Omelette con anelli di mela, pesche alla vaniglia con mirtilli o gelato allo yogurt. Lilibiggs sostiene un’alimentazione equilibrata che si basa sulla piramide alimentare.

Prendi una grande pentola e porta a ebollizione 8 dl di latte, 2 dl d’acqua e una presa di sale. Aggiungi il baccello di vaniglia e in seguito 250 di riso. Lascia sobbollire dolcemente per 25 minuti, mescolando di tanto in tanto, finché il riso è cotto. Elimina il baccello di vaniglia. Incorpora al riso un vasetto di M-Dessert latte acidulato e 2 cucchiai di miele. Trasferisci il riso in un piatto. Sforna le mele con cautela usando dei guanti da forno e posiziona le mezze mele sopra al riso.

Tempo di preparazione ca. 40 minuti + 30 minuti di cottura al forno Per persona ca. 12 g di proteine, 12 g di grassi, 85 g di carboidrati, 2100 kJ/500 kcal


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