Azione 11 del 14 marzo 2016

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXIX 14 marzo 2016

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Azione 11

Società e Territorio Due nuovi studi scientifici confermano che i cervelli di donne e uomini sono identici

Ambiente e Benessere Viaggio nel Fars, il cuore della Persia, lungo la via di antichi caravanserragli pagina 15

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Politica e Economia Dopo il Supermartedì del 2 marzo votano gli importanti stati della Florida e dell’Ohio

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Cultura e Spettacoli La Beyeler di Basilea dedica una mostra importante all’artista francese Jean Dubuffet

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Keystone

I profughi, merce di scambio

di Lucio Caracciolo pagina 25

Primavera persiana, atto secondo di Peter Schiesser Nel fragore delle guerre che devastano il Medio Oriente fino al Maghreb, la nostra attenzione nota appena i semi della speranza che osano sfidare l’inverno delle armi e dei totalitarismi. Eppure c’è una nuova primavera pronta a sbocciare che potrebbe mutare gli assetti del mondo arabo, anche se arabo quel Paese non è, bensì persiano: in Iran, l’accordo sul nucleare (e la conseguente abolizione delle sanzioni economiche) ha innescato una dinamica nuova. Ha rinnovato quel desiderio di riforme che aveva trovato in Mohammad Khatami, eletto presidente nel 2007, il suo primo alfiere. Ha dato all’attuale presidente Hassan Rohani una maggiore forza politica in un parlamento dai contorni ancora poco decifrabili, ma non più dominato dai conservatori. E lo ha portato nel Consiglio degli esperti, il gremio che sceglierà il successore dell’Ayatollah Khamenei, la guida suprema della rivoluzione islamica sciita. Ma il potere, in Persia, è solo parzialmente in mano al presidente e al governo. Ci sono Stati nello Stato, come i Pasdaran, le fondazioni dei centri islamici, che hanno un potere politico ed economico enorme, i Pasdaran anche

militare. Sanno tutti troppo bene che il regime ha ancora la forza per reprimere un dissenso troppo smaccato, occorre dunque agire con cautela quando serve e con audacia quand’è il momento. Rohani si sta muovendo in questo senso, un po’ come il primo Gorbaciov, quando cominciò a mettere in discussione il comunismo sovietico dall’interno. Riferisce il «New York Times» che il 7 marzo Rohani ha infranto per primo un tabù assoluto: in diretta televisiva ha ricordato «il mio caro fratello Seyyed Mohammad Khatami», difendendo la sua figura e dicendosi certo che l’Iran non dimenticherà chi ha contribuito alla sua grandezza, contravvenendo così al divieto assoluto di menzionare il nome dell’ex presidente. Benché nei suoi otto anni di presidenza non sia riuscito a realizzare molte riforme, costantemente bloccato dalle forze conservatrici, Khatami resta molto popolare in Iran, e per questo motivo il regime lo ha dichiarato una non-persona, quasi agli arresti domiciliari. La regia ha reagito spegnendo l’audio, ma il nome di Khatami era stato pronunciato, e un’alleanza saldata in diretta. Sì, perché prima delle elezioni parlamentari di febbraio, in un video sui social media Khatami aveva invitato i suoi sostenitori a

votare sia i candidati riformisti, sia quelli centristi (che si riconoscono in Rohani), e così gli elettori hanno fatto. La vittoria di Rohani è anche la vittoria di Khatami. I loro avversari non stanno certo con le mani in mano: i Pasdaran mostrano i muscoli sfidando gli Stati Uniti con un nuovo lancio di missili a lunga gittata. Tuttavia, c’è un motore potente che sta dietro a questa nuova primavera: la necessità di riforme economiche. Una necessità che trova d’accordo anche strati più conservatori, a riprova del fatto che i fronti sono molto fluidi. Gli anni in cui l’Iran era sottoposto a sanzioni economiche, in conseguenza della sfida atomica lanciata dal successore di Khatami, il folle Ahmadinejad, sono stati molto duri: l’economia recedeva, mentre la popolazione cresceva, in numero e in età. Ora è tempo di aprirsi al mondo, chiamare investimenti e know how tecnologico per uno sviluppo economico coerente con le risorse del Paese, a cominciare dall’ottimo grado di formazione scientifica della giovane generazione. Rohani è un riformista? Ambisce solo a far decollare l’economia? Fino a dove si spingerà? L’anno prossimo ci sono le elezioni presidenziali, avrà sicuramente tempo altri quattro anni per farcelo capire.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 14 marzo 2016 ¶ N. 11

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 14 marzo 2016 ¶ N. 11

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Società e Territorio I deficit dell’attenzione I consigli dello psicologo Alain Caron per aiutare i bambini con difficoltà di concentrazione

Le trasformazioni del territorio L’istituto internazionale di architettura i2a di Lugano si propone come spazio di riflessione e di incontro pagina 5

Cosa nascondi nello smartphone? Il film Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese è lo spunto per alcune riflessioni dello psicoanalista Mauro Pedroni

Disattenti, impulsivi, iperattivi Bambini I consigli dello psicologo canadese Alain Caron, autore di diversi libri rivolti a genitori e insegnanti,

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per aiutare i bambini con difficoltà di attenzione e di organizzazione Elisabetta Oppo Disattenti, impulsivi e disorganizzati. Sono tanti i bambini che possono essere definiti così. Un problema, quello che si manifesta con una persistente difficoltà a stare attento, che viene riconosciuto soprattutto quando un bambino entra nella scuola elementare. Perché è in questo contesto che si rendono evidenti le difficoltà legate alla concentrazione: stare al passo con le richieste, interiorizzare le regole, ascoltare ed eseguire consegne, rispettare i tempi, stare fermo quando gli impegni lo richiedono possono diventare un problema. A volte può trattarsi di una semplice reazione all’ingresso in un nuovo mondo, che richiede un approccio completamente diverso rispetto a quello a cui si era abituati nella scuola dell’infanzia e che si risolve dopo un periodo di ambientamento. Altre volte, invece, la difficoltà può protrarsi più a lungo e può essere il sintomo di un problema che merita di essere affrontato nel modo dovuto. Ecco perché è importante per un genitore cercare gli indizi che possono permettere di riconoscere le eventuali difficoltà del figlio e di intervenire in età abbastanza precoce. Molti bambini presentano problemi di attenzione soprattutto in compiti che richiedono l’applicazione di processi molto controllati, in attività prolungate nel tempo o che richiedono una discreta dose di flessibilità cognitiva e uso di strategie. La disattenzione può manifestarsi in situazioni scolastiche o sociali. I bambini con questo problema possono incontrare difficoltà a prestare attenzione ai particolari o possono fare errori di distrazione nel lavoro scolastico. Il loro compito può essere spesso disordinato e svolto con poca cura, e a volte incompleto. In alcuni casi, sembra che la testa di questi bambini sia altrove, che non ascoltino o che non abbiano capito quanto è stato appena detto loro. Passano frequentemente da un’attività all’altra senza completarne alcuna, perdono il materiale o i giochi, e non riescono a fare i compiti autonomamente. Alcuni bambini, oltre che disattenti, sono anche agitati o impulsivi, manifestano un’eccessiva impazienza, difficoltà a controllare le proprie reazioni ed eccessiva velocità nel rispondere

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Il cervello è unisex Scienza Due nuovi studi dimostrano che

i cervelli di donne e uomini sono uguali: le attitudini e i comportamenti diversi sono dovuti a motivi sociali e culturali

Stefania Prandi In un celebre bestseller di qualche anno fa, intitolato Gli uomini vengono da Marte e le donne da Venere, lo scrittore e saggista statunitense John Gray sosteneva che i comportamenti femminili e maschili dipendessero dalla diversa produzione di ormoni e da specifiche caratteristiche cerebrali. Un’idea che, pur essendo entrata a far parte del senso comune, è stata confutata più volte dalle neuroscienze. L’ultima smentita è arrivata lo scorso dicembre, da uno studio dell’Università israeliana di Tel Aviv, che ha esaminato, attraverso la risonanza magnetica, 1’400 cervelli umani. Secondo la ricerca, pubblicata sulla rivista americana PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences), i cervelli di donne e uomini non hanno differenze tali da poter essere suddivisi in maschili e femminili. Quindi, ha spiegato Daphna Joel, la neuroscienziata che ha guidato l’indagine, presupporre che essere uomo o donna implichi comportamenti, tratti del carattere e attitudini tipicamente maschili o femminili, non ha basi scientifiche. A ottobre 2015, un altro studio, condotto alla Rosalind Franklin University, negli Stati Uniti, ha riscontrato, attraverso oltre 6mila risonanze magnetiche, che donne e uomini non presentano significative differenze nella dimensione dell’ippocampo, l’area del cervello associata al controllo delle emozioni, alla memoria e alla gestione delle risposte dell’organismo allo stress. Un dato che smentisce una tipica credenza del passato che voleva che le donne avessero un ippocampo più grande e per questo fossero più emotive e avessero una memoria verbale migliore di quella degli uomini. Per la coordinatrice della ricerca Lise

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Eliot, professoressa associata del dipartimento di Neuroscienze della Chicago Medical School, non esistono differenze morfologiche rilevanti tra i cervelli di uomini e donne, nemmeno rispetto al corpo calloso, il fascio di fibre nervose che permette all’emisfero destro e sinistro di comunicare tra loro. Fino a pochi anni fa, si credeva che nelle donne il corpo calloso fosse più spesso e che il linguaggio non fosse esclusivamente appannaggio dell’emisfero sinistro, come per gli uomini, ma bilaterale. «I vari tentativi di dimostrare che ci sono delle differenze tra il cervello maschile e femminile sono stati condotti post mortem e non hanno portato a risultati attendibili» spiega Raffaella Rumiati, docente di Neuroscienze cognitive alla Scuola internazionale superiore di studi avanzati (Sissa) di Trieste e autrice del saggio Donne e Uomini. Si nasce o si diventa?. «Ci sono altri studi che insistono sul fatto che le donne hanno, in genere, un cervello più piccolo degli uomini, ma la grandezza del cervello non implica una riduzione di funzionalità. Infatti, il cervello è proporzionale al resto del corpo. Sarebbe come dire che le persone basse sono meno intelligenti di quelle alte». A supporto della tesi di Rumiati, un saggio di James Flynn, uno dei massimi esperti internazionali di studi sul Quoziente intellettivo (Qi). Flynn sostiene che negli ultimi cento anni le donne hanno superato gli uomini nelle prestazioni dei test del Qi. E questo non certo perché i loro geni o le dimensioni del cervello sono cambiate, ma perché sono diventante più istruite e hanno raggiunto maggiori possibilità di espressione rispetto a prima. Nonostante le donne abbiano dimostrato di essere capaci di eccellere in diversi campi del sapere, c’è ancora Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

alle domande, prima ancora che queste siano state completate. Sull’argomento abbiamo intervistato lo psicologo canadese Alain Caron, nei giorni scorsi in Ticino per una conferenza organizzata dalla sezione Ticino dall’Ase, Associazione svizzera degli ergoterapisti.

no verso lo studio incide sulla sua concentrazione? Continui insuccessi possono fare crollare la sua motivazione e quindi tradursi in disinteresse per la scuola e in mancanza di concentrazione e disattenzione?

Professor Caron, oggi sempre più spesso si sente palare di disattenzione, mancanza di organizzazione e iperattività nei bambini. In alcuni casi questo comportamento non deve destare preoccupazioni, altre volte invece è il campanello d’allarme di un problema che deve essere affrontato adeguatamente. Come fare a capire quando bisogna intervenire?

In psicologia definiamo l’attenzione come una linea continua che parte da uno stato in cui uno è assolutamente attento fino ad arrivare alla totale disattenzione. Lungo questo «tracciato» si possono manifestare disturbi di attenzione leggeri, moderati e gravi. Più ci si avvicina a un disturbo grave, più è evidente che bisogna occuparsene. Poi è il contesto che determina quando bisogna intervenire. Per esempio, a scuola il momento in cui si decide di agire è quando ciò che il bambino produce è molto al di sotto del suo potenziale. Allora si cerca di capire cosa impedisce al bambino di raggiungere il suo livello di potenziale, si fanno dei test e si valuta il problema con dei protocolli precisi per decidere in che modo intervenire. Che cosa c’è all’origine di questo tipo di problema?

Quando si è diagnosticato un disturbo di attenzione, circa nel 5% dei casi si tratta di un problema di tipo neurologico. Poi l’attenzione può essere disturbata anche da altri fattori, come ad esempio l’ansia e l’emotività. Tuttavia è piuttosto delicato fare una distinzione netta tra problema neurologico e non neurologico. C’è da dire che quando il deficit di attenzione è dovuto esclusivamente a cause neurologiche e non ci sono altri problemi è curabile con ottimi risultati con i medicamenti prescritti da un neuropediatra. Più complicato è invece se intervengono anche altri fattori. Se a un bambino viene diagnosti-

I bambini con un disturbo da deficit dell’attenzione hanno bisogno di aiuto per strutturare una strategia di apprendimento. (Keystone) cato un disturbo da deficit dell’attenzione con o senza iperattività (ADHD), cosa deve fare un genitore per aiutare il figlio a superare questa difficoltà?

In famiglia la parola d’ordine è routine: si devono strutturare bene le giornate. Visto che il bambino che soffre di ADHD non riesce a controllarsi, gli adulti devono mettere dei punti di riferimento, devono creare una routine in modo che a furia di fare le cose in maniera metodica con il passare del tempo il bambino inizi a farle automaticamente. Bisogna aiutare il bambino ad imparare ad essere autonomo: non è drammatico che non riesca a mettere in ordine la sua stanza, è importante invece che impari la quotidianità, cioè ad esempio prepararsi per andare a scuola. Inoltre è bene che i genitori siano aiutati da una rete di professionisti come il docente, l’ergoterapista, lo psicologo.

Cosa, invece, si deve evitare di fare per impedire che il problema diventi ancora più grande per il bambino?

Ovviamente il contrario, evitare che il bambino abiti in una casa in cui le giornate non sono strutturate, in cui ci sia assenza di regole. Inoltre i genitori devono cercare di capire bene il problema per evitare alcuni errori, come ad esempio rimproverare al bambino di non aver voglia di fare una cosa. E poi ci vuole tanta pazienza. Quanto il luogo in cui il bambino deve svolgere i suoi compiti è importante per la sua concentrazione? Come deve essere il suo ambiente di studio?

Ci vuole un posto tranquillo, deve essere sempre lo stesso che venga da lui individuato come luogo in cui si lavora. È importante che l’ambiente non si associ ad altre attività, come ad esempio il tavolo della cucina. Quanto l’atteggiamento del bambi-

Certo, per questo è bene attuare quella che io chiamo la «strategia del pomodoro». Il ruolo dell’adulto è quello di programmare la routine in modo che il bambino possa svolgere da solo il lavoro. Bisogna stabilire un obiettivo chiaro da raggiungere in un tempo preciso. Per esempio leggere un paragrafo in due minuti. In questo modo il bambino impara una cosa essenziale: la frase «sono capace». La strategia è di partire da una serie di piccoli obiettivi, al raggiungimento dei quali si ottiene una ricompensa, per esempio una piccola pausa, e dopo tante piccole ricompense si ottiene una grande ricompensa. Questo lascia al bambino un indelebile ricordo gradevole. È importante però che una volta definito l’obiettivo, esso venga raggiunto. Se l’obiettivo fallisce vuole dire che non era raggiungibile. Se l’obiettivo è raggiungibile e lui molla, bisogna fare in modo che vada avanti e lo raggiunga altrimenti pensa di non essere in grado di farlo, invece deve arrivare a dire «sono capace». Come fa un genitore a stabilire se un obiettivo è raggiungibile o meno?

Un consiglio è quello di partire da un piccolo obiettivo e aumentarlo a poco a poco, oppure frammentare il compito. Per esempio se il figlio deve leggere un testo si fa un pezzo alla volta e si vede come reagisce il bambino: se troppo facile si aumenta, se troppo difficile si riduce o si aiuta a farlo. Se ha 5 problemi di matematica, se ne risolve uno alla volta, ma se uno è ancora troppo difficile può essere aiutato: il genitore inizia e il bambino continua o viceversa. Qualche altro consiglio ai genitori che hanno un figlio con un deficit di attenzione?

Il periodo che va tra i 5 e gli 8 anni è un momento cruciale nello strutturare la strategia di apprendimento, spesso si convive con una progressione fatta di alti e bassi, ma bisogna crederci, non scoraggiarsi e alla lunga il risultato arriva. E bisogna soprattutto avere pazienza.

Le neuroscienze hanno sfatato tanti miti e pregiudizi sulla presunta «diversità» del cervello femminile. (Keystone)

chi è convinto che abbiano un cervello diverso che le porterebbe ad essere maggiormente predisposte per certe attività considerate tipicamente «femminili». Ad esempio, si crede che faccia parte «della loro natura» prendersi cura degli altri, della famiglia e della casa, e che non siano portate per il pensiero razionale, lo studio delle materie scientifiche, il comando, la competizione. Un fenomeno che la scienziata australiana Cordelia Fine, autrice del libro Maschi = Femmine (che ha ricevuto il titolo di Book of the year, nel 2010, dal quotidiano britannico «The Guardian»), ha chiamato neurosessismo. Per Fine, le differenze di compor-

tamento, che vengono ricondotte a differenze cerebrali, sono semplicemente dovute ai diversi ruoli che la società attribuisce a donne e uomini. Dello stesso parare anche Rumiati: «L’idea che donne e uomini siano fisicamente diversi e che per questo debbano avere ruoli sociali diversi, piace a chi preferisce una visione statica e conservatrice della società. Si tratta di un’idea facilmente smentibile. Consideriamo ad esempio la presenza femminile nella scienza, tecnologia, ingegneria e matematica (STEM). Siccome non ci sono prove convincenti che le donne abbiano meno propensione per queste materie, bisogna arrendersi

all’idea che qualcosa non funziona nel sistema educativo della maggior parte dei paesi cosiddetti sviluppati. Nei paesi come l’Islanda e la Norvegia, le adolescenti hanno dei risultati scolastici per la matematica che non differiscono da quelli dei loro coetanei maschi. In altri, invece, il divario è ancora notevole. In uno studio apparso qualche anno fa, si è visto che questi risultati sono correlati a un indice di equità che è stato calcolato sulla base dell’accesso alle cure sanitarie e alla scolarità dei cittadini e delle cittadine dei vari Paesi: dove l’indice di equità è più elevato, le differenze tra i sessi scompaiono o addirittura si invertono».

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Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Philippe de Kemmeter, Papà è connesso, Emme Edizioni. Da 5 anni Rivolto forse più agli adulti che ai bambini, questo pungente albo dell’illustratore francese de Kemmeter, è comunque una storia umoristica da condividere in famiglia, per divertirsi insieme e magari riflettere su eventuali somiglianze con quel papà pinguino perennemente preso dal web. La storia è raccontata dal punto di vista del piccolo pinguino, che vede il suo papà sempre catturato dallo schermo, in ogni momento della giornata. Durante i pasti, nel tempo libero, ogni volta che pinguinetto vorrebbe giocare con lui. Ma evidentemente al papà sembra più importante consultare le news, il meteo, chattare con gli amici, controllare la posta, aggiornare il profilo «Icebook». Per fortuna un bel giorno salta la connessione e inizia l’avventura! E quando papà pinguino si troverà in reale pericolo,

alla deriva su una lastra di ghiaccio, non sarà certo un amico del web a salvargli la vita, ma un amico in carne, ossa e pelo: Freddy, un orso polare, un nuovo amico «non virtuale». La riconnessione con la realtà è lì pronta che aspetta: con Freddy, mamma Pinguina, piccolo Pinguino e tanti altri amici ci sono un sacco di cose da fare, magari anche usando il computer in modo non proprio ortodosso ma molto creativo.

In vista della festa del papà, un invito molto saggio a trascorrere del tempo non virtuale con i propri bambini. Sieb Posthuma, Il Signor Paltò, Gribaudo. Da 5 anni Sieb Posthuma è stato un grande artista olandese: designer, scenografo, pittore, oltre che illustratore di libri per bambini. Le sue scenografie e i suoi costumi per il balletto Coppelia, messo in scena nel 2006 dal teatro nazionale di Amsterdam, e nuovamente riproposto quest’anno, segnano una pietra miliare nella storia della danza. Da noi è poco conosciuto, ma ben venga questo librettino di Gribaudo a farcene apprezzare la lievità, l’uso vivacissimo dei colori, la grazia degli elementi grafici, in atmosfere sorridenti, surreali e sospese che non a caso ci ricordano un po’ Alexander Calder, uno dei suoi artisti preferiti, al quale aveva dedicato nel 2012 un volume.

La piccola storia che è uscita in italiano è quella del Signor Paltò, un omino che ha sempre freddo, tanto che non gli bastano le stufe, le coperte, le borse dell’acqua calda, i maglioni pesanti. Per uscire mette innumerevoli paltò, uno sopra l’altro, sempre di più, finché un giorno non riesce nemmeno più a rientrare a casa, perché con tutti quegli strati addosso non passa dalla porta.

Allora vive per strada, e i cappotti diventano la sua casa. Tra le tante persone venute ad ammirare quello strano spettacolo, c’è un uomo che gli dice «devi assolutamente venire nella mia città a vedere una cosa». Quella cosa è una Signora Paltò, con la quale potrà nascere una timida e delicata amicizia, che porterà tanto calore nel cuore. Deliziosa l’ultima immagine, dei signori Paltò sulla panchina vicino a casa, quella casa che ormai condividono e sul cui attaccapanni «c’erano solo due paltò: uno da donna e uno da uomo». Il libro, di piccolo formato e di prezzo molto contenuto per essere un volume rilegato fa parte della collana «facile! Leggere bene. Leggere tutti», dedicata ai primi lettori, con accorgimenti grafici per facilitare la lettura anche a chi ha problemi di dislessia; il carattere usato è la font leggimi, creata da Sinnos.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 14 marzo 2016 ¶ N. 11

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Società e Territorio Villa Saroli, sede dell’istituto internazionale di architettura i2a. (Marcelo Villada)

Gli ottant’anni di Pro Infirmis Anniversari Una serie di eventi per

festeggiare l’importante servizio di sostegno alle persone disabili e ai loro familiari Paola Bernasconi

Per una cultura urbana Architettura L’istituto i2a vuole essere un ponte tra addetti ai lavori

e società civile proponendo occasioni di riflessione sulla trasformazione del territorio

Stefania Hubmann Prendere coscienza che il Ticino sta diventando un cantone urbano è un’esigenza sempre più affermata e diffusa. Autorità, addetti ai lavori e cittadini sono tutti implicati nello sviluppo del territorio, in questo caso tanto pregiato quanto fragile. L’istituto internazionale di architettura i2a, trasferitosi lo scorso autunno dall’idilliaca sede di Vico Morcote nel cuore di Lugano, nella storica Villa Saroli, si propone come forum non solo di architettura ma anche di cultura urbana. I suoi obiettivi: scuotere i professionisti, dar voce ai cittadini, accompagnare i politici, sensibilizzare le nuove generazioni. Per una trasformazione di qualità del territorio occorre essere consapevoli della necessità di progettarla e i cittadini devono essere parte attiva di questa evoluzione. L’architetta Ludovica Molo, direttrice di i2a dal 2012 dopo sei anni nel ruolo di curatrice, lavora con un piccolo team e il sostegno della Città di Lugano che ha affittato all’istituto i prestigiosi spazi. La sala al pianterreno di Villa Saroli e il suo giardino sono il luogo ideale per favorire l’incontro tra specialisti e gente comune nel tentativo di rendere più accessibile e riportare al centro del dibattito una disciplina, l’architettura, rimasta a lungo un po’ arroccata sulle sue posizioni. Uno sforzo che la popolazione dimostra di apprezzare. Gli eventi organizzati a Villa Saroli – con mostre allestite anche nella suggestiva limonaia – sono molto seguiti, raggiungendo punte di interesse quando l’argomento tocca da vicino la popolazione, come è stato il caso della conferenza dello scorso gennaio dedicata al futuro tram luganese. «L’esigenza dei cittadini di riappropriarsi del territorio è più che percettibile», afferma Ludovica Molo. «Assistiamo inoltre a un cambio di tendenza a livello politico e amministrativo. Professionisti preparati e aperti al dialogo sono per noi interlocutori preziosi. Il nostro ruolo è di fungere da collante fra i diversi attori chiamati a determinare lo sviluppo territoriale. In un sistema democratico è essenziale stimolare la discussione a più livelli, per giungere a visioni progettuali condivisibili. Essere consapevoli dei danni perpetrati e capire in quale direzione si vuole costruire il futuro del Cantone sono i primi passi da compiere. In una seconda fase potremo pure rivestire un ruolo nella formulazione di soluzioni. Un’altra questione centrale da affrontare sarà quella legata alla qualità dell’architettura. La responsabilità spetta a tutti, dagli enti pubblici, che dovrebbero dimostrarsi forti e capaci di resistere alle pressioni esterne, ai privati, in grado di giocare un ruolo dimostrando sensibilità e utilizzando ad esempio anch’essi, come l’ente pubblico, lo strumento del concorso. Il cittadino

deve capire che la qualità aumenta il valore di ciò che viene costruito. In ogni ambito desideriamo operare in una posizione di complementarietà rispetto alle altre istituzioni a vocazione locale e internazionale attive nella regione, penso in particolare all’Accademia di architettura». Questa duplice propensione è una tradizione dell’istituto, nato nel 1983 come sede europea di una scuola di architettura californiana. Con l’attuale attività interdisciplinare ciò si traduce in attenzione per le problematiche regionali e sguardo rivolto alle esperienze maturate oltre i confini cantonali, in Svizzera come all’estero. Il connubio, già sperimentato nei primi appuntamenti organizzati a Villa Saroli, sarà riproposto a breve con una nuova iniziativa. La riflessione sul processo di urbanizzazione regionale sarà infatti inserita in un contesto più ampio durante la prima Biennale i2a, concepita come stagione tematica caratterizzata da un evento faro. «Permanenze e metamorfosi del territorio: per meglio comprendere una Svizzera in via di urbanizzazione» è il tema centrale che sarà proposto sull’arco di tre giorni (dal 28 al 30 aprile) in diverse forme d’incontro per soddisfare più gradi d’interesse. Precisa la direttrice: «Sono previsti dibattiti, conferenze, mostre, proiezioni di film e presentazioni di libri, come pure tour guidati della città. Con questa iniziativa desideriamo proporre momenti di studio aperti al pubblico più approfonditi rispetto al ciclo Dialoghi sulla mutazione del territorio. Presenteremo inoltre la mostra The Horizontal Metropolis, già allestita al Politecnico federale di Losanna». Organizzata in collaborazione con esperti esterni, la Biennale fungerà pure da piattaforma per permettere a i2a di acquisire maggiore visibilità e tessere nuovi legami a livello nazionale. La riflessione è partita lo scorso autunno con un approfondimento teorico sull’identità intesa anche quale variabile dello spazio. Su queste fondamenta sono stati costruiti appuntamenti mirati (composti da mostra e dialogo) come Quale manifesto per un Ticino in divenire? o ancora quello già citato sul tram. «Tragitto, tappe e stazioni di una linea di trasporto pubblico devono essere considerati parte di un progetto culturale, poiché influenzano la vita quotidiana di tutti i residenti, bambini compresi». Ludovica Molo, che riserva alle nuove generazioni un’attenzione particolare attraverso eventi e programmi per diversi ordini di scuola, stimola gli incontri pubblici con interrogativi che si rapportano a esempi concreti provenienti dal resto della Svizzera o dall’estero. L’idea del manifesto si riallaccia all’esposizione Glatt! incentrata sull’ambizioso progetto avviato da un gruppo di architetti zurighesi secondo

cui per salvare la campagna è necessario gestire la trasformazione della città. Registro più ludico, con grande coinvolgimento dei bambini e di conseguenza delle famiglie, per la mostra sulle pensiline delle fermate degli autobus nel piccolo villaggio austriaco di Krumbach, disegnate da studi di architettura di fama internazionale. L’architetto ha però anche una responsabilità civile (programma di scambio «The architect as civil agent») che porta i2a a scelte meno scontate, come quella di invitare gli studenti di architettura della Hochschule di Lucerna e del MARCH di Mosca, uniti dal progetto «Swiss made in Russia», ad esprimere le loro idee per un centro di accoglienza destinato ai richiedenti l’asilo da realizzare a Lugano. Con quale risultato? Una mostra (con i progetti di tutti i partecipanti e i modellini degli studenti svizzeri) e un dibattito hanno permesso di confrontarsi con una tematica nuova che stimola la ricerca di risposte innovative. «Sono emerse soluzioni molto diverse per una parcella difficile, situata tra collina e pianura alle porte della città, in zona Cornaredo». Per la direttrice di i2a «il progetto ha offerto la possibilità di una riflessione più ampia, analizzando quale tipo di struttura è più idonea a ospitare i rifugiati sia dal punto di vista della forma abitativa, sia della sua ubicazione. Si tratta di un tema nuovo in queste dimensioni e di estrema urgenza, per il quale non esiste una tipologia consolidata alla quale ispirarsi. Noi abbiamo scelto di esplorarlo dal punto di vista architettonico e urbanistico». Il ruolo di i2a quale ponte tra gli addetti ai lavori e la società civile mira a coinvolgere tutto il cantone nel dibattito sullo sviluppo del suo territorio, affinché lo stesso sia frutto di una visione progettuale che tenga conto anche di questioni difficili come quella delle abitazioni per tutti in città, al centro del prossimo dialogo il 12 aprile. L’urbanizzazione del Ticino è un processo ineluttabile che investe tutto il Paese e sul quale è necessario chinarsi tenendo conto delle diverse sensibilità. Per questo motivo i2a apre le porte a tutti e auspica in futuro di poter rendere ancora più accessibile Villa Saroli, affinché diventi un luogo dove avvicinarsi e interrogarsi sin da bambini sull’uso, oggi forzatamente parsimonioso, del territorio. Le nuove generazioni devono infine poter conoscere direttamente le caratteristiche dell’ambiente nel quale vivono, perché, come afferma in conclusione Ludovica Molo, «solo attraverso la conoscenza ci si appropria di questi beni, s’impara ad amarli e quindi a proteggerli». Informazioni

www.i2a.ch

«Crediamo in una società inclusiva e diamo valore alla diversità. Il rispetto dell’individuo è alla base di tutto». È da questa convinzione, ribadita dal direttore cantonale Danilo Fiorini, che muove ormai da ottant’anni l’impegno di Pro Infimis Ticino e Moesano. Chiunque sposi questi principi, è bene accetto come volontario, aggiunge. Ottant’anni al servizio delle persone portatrici di handicap, che si traduce in consulenza gratuita non solo a loro ma anche ai loro famigliari in ambito assicurativo, finanziario, organizzativo e sociale. Per celebrare l’anniversario, Pro Infirmis ha allestito un ricco programma di eventi, che vuole anche essere l’occasione per sensibilizzare la popolazione sul diritto delle persone con disabilità di poter avere accesso ad una piena partecipazione sociale e di poter determinare autonomamente la propria vita e le proprie scelte. In particolare, due iniziative riguarderanno i famigliari: giovedì 17 marzo alle 18.30 al Cinema Lux di Massagno vi sarà la proiezione del film di Alberto Fasulo Genitori, mentre il 30 aprile, nell’ambito di ChiassoLetteraria, si terrà l’incontro con lo scrittore Massimiliano Verga, autore di Zigulì e Un gettone di libertà editi da Mondadori. Il calendario di eventi prevede poi il 1. maggio una serata di gala al Lac di Lugano con uno spettacolo della Candoco Dance Company e il 9 giugno un dibattito pubblico su temi di politica sociale alla Biblioteca Cantonale di Bellinzona. Inoltre quest’anno Pro Infirmis può festeggiare anche un altro importante traguardo: i dieci anni di vita di Casa Vallemaggia a Locarno

Dare valore alla diversità in una società veramente inclusiva, è questa l’idea che sta alla base dell’impegno di Pro Infirmis Ticino e Moesano Ma le persone portatrici di handicap sono accettate e supportate dalla nostra società? E soprattutto, che passi avanti si sono fatti negli anni? Danilo Fiorini parte dal film Genitori per rispondere a queste domande: «la pellicola mostra molto bene la complessità e le differen-

«Nessuno è perfetto»: il manifesto pensato per l’anniversario. (Pro Infirmis)

ti sfide quotidiane ed esistenziali con cui sono confrontati alcune madri, padri, sorelle, fratelli, zie, nonni coinvolti dalla disabilità. Occorre dare spazio a queste narrazioni per riuscire ad immaginare e comprendere queste realtà dalle quali emerge un grido di aiuto comune: la richiesta di una vita normale e il diritto di poter disporre delle stesse opportunità». Pro Infirmis è attiva in alcuni settori in particolare, da quello dell’istruzione a quello lavorativo. Per quanto concerne la scuola, «negli ultimi decenni si sono fatti passi da gigante nelle politiche sociali e nel campo della pedagogia specializzata. In particolare si sta puntando ad un approccio inclusivo, che prevede di offrire dei sostegni a chi ha dei bisogni particolari, senza tuttavia segregare le persone in spazi separati: offrire attenzioni particolari in luoghi normali». Più difficile è la situazione dal punto di vista del lavoro, dove la concorrenza è spietata, e «le persone in situazione di handicap si trovano in grande difficoltà a dimostrare che, al di là delle difficoltà motorie, psicologiche o cognitive possono disporre di importanti talenti. Si tratta di una sfida che spaventa prima loro stessi e poi i datori di lavoro», spiega Fiorini. Anche se alcuni datori di lavoro stanno dimostrando come sia possibile eliminare i pregiudizi e le barriere (architettoniche e culturali) e offrire degli «spazi» di sviluppo professionale a persone con disabilità, il cammino da percorrere in questo ambito è ancora lungo. Un altro fattore importante per Pro Infirmis è aiutare le persone portatrici di handicap a rimanere al proprio domicilio, ove possibile. «Occorre che la collettività offra altrettanti validi supporti per garantire il mantenimento a domicilio. Abbiamo sviluppato dei servizi di consulenza per aiutare le persone coinvolte ad organizzare la propria permanenza a domicilio. Inoltre siamo attivi, in sinergia con altri servizi presenti sul territorio, con dei supporti diretti per sgravare i famigliari curanti, qualora la permanenza a domicilio sia resa possibile dalle cure e dalla sorveglianza di un caro». Tanti, dunque, i campi in cui una mano è indispensabile, per migliorare la vita di coloro che si trovano a dover convivere con un handicap, e per i loro famigliari. Informazioni

www.proinfirmis.ch


Vuoi avere maggiori informazioni? Sul nostro Family-Blog vwfamily.volkswagen.ch puoi leggere tutte le esperienze ed impressioni delle nostre due famiglie di prova. I video e le gallerie fotografiche forniscono ulteriori dettagli sui risultati del test. Leggi ora il codice QR e ottieni maggiori informazioni!

La nuova Volkswagen Touran nella prova di durata Durante quattro mesi due famiglie hanno provato la nuova Volkswagen Touran: la Famiglia Heinz dall’Argovia e la famiglia Farruggio dal Neuchâtel. Hanno testato la vettura familiare in lungo e in largo e documentato le loro esperienze ed impressioni. Un riepilogo.

Spazi, neve e assistenti

Conclusione

Gli spazi della nuova Touran hanno entusiasmato entrambe le famiglie di prova. Oltre alla grande spesa per due settimane, nel bagagliaio c’era ancora spazio per tutti i regali di Natale. E, grazie alla fila supplementare di sedili, la famiglia Heinz ha potuto portare tutti i compagni di scuola del figlio più grande. Anche in caso di neve forte la nuova Touran non ha abbandonato le nostre famiglie Volkswagen:

Entrambe le famiglie di prova concordano sul fatto che la nuova Touran è un veicolo familiare ideale che dà buona prova di sé a 360 gradi. Famiglia Farruggio: “Si tratta di una vettura familiare con molte funzioni che non sono presenti in tutte le macchine. L’assistente di parcheggio e anche l’assistente di guida in colonna sono eccellenti sistemi di assistenza e ci mancheranno.” Famiglia Heinz: “Siamo stati colpiti dal fatto che durante l’intero periodo di prova abbiamo fatto rifornimento soltanto molto raramente. Siamo stupiti di quanto poco carburante consuma questo veicolo. La nuova Touran è una macchina molto gradevole in tutte le situazioni.”

“Il comportamento di guida sulla neve è molto preciso, tiene bene la corsia e l’ABS/ESP è un ottimo aiuto.” Entrambe le famiglie di prova si sono sentite particolarmente al sicuro nella loro Touran di prova non per ultimo grazie ai diversi sistemi di assistenza, che le hanno supportate nelle singole situazioni.

Corso di guida sicura È stato effettuato un corso di guida sicura da DRIVESWISS a Wohlen sotto una forte pioggia. Condizioni perfette per provare la macchina in situazioni difficili. Guidare correttamente in curva, fare una frenata d’emergenza e caricare correttamente il bagagliaio sono stati gli argomenti affrontati nel corso. In nessun esercizio la nuova Touran ha abbandonato i nostri partecipanti. Soprattutto la guida in curva è stata una sorpresa per il pilota di prova Stephan Heinz:

“In questo esercizio mi sono reso conto che per 20 anni sono sempre uscito dalle curve in modo sbagliato.” Anche nel guidare la macchina non si finisce mai di imparare.

Il parcheggiatore automatico

Stivare il bagagliaio

Che sia laterale o in retromarcia: con l’assistente di parcheggio la nuova Touran si può inserire senza problemi in ogni posto.

I bambini a bordo e comunque ancora spazio per la spesa. Nuova Touran c’è più posto di quanto si pensi.

La vettura 4 litri tra i van I tre motori a benzina Euro 6 (TSI da 110 CV/81 kW, 150 CV/110 kW e 180 CV/132 kW) e i tre motori diesel Euro 6 (TDI da 110 CV/81 kW, 150 CV/110 kW e 190 CV/140 kW) offrono consumi di carburante inferiori fino al 19 percento. Il modello dai consumi più contenuti, la Touran 1.6 TDI da 110 CV con cambio a doppia frizione a 7 marce (DSG), soddisfa un innovativo livello di consumi estremamente basso di 4,2 l/100 km.

Solo un piccolo movimento con il piede

Collegati durante la guida

Come su un aereo

Con la funzione Easy-Open il bagagliaio si apre senza alcun sforzo in ogni situazione.

Il sistema di infotainment integrato nella Touran offre utili caratteristiche per una sicurezza ancora maggiore.

La tecnologia più moderna con fattore benessere. L’automobile familiare offre il più elevato livello di comfort.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 14 marzo 2016 ¶ N. 11

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Società e Territorio

I segreti nello smartphone

Tempi moderni Il film Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese è lo spunto per riflettere sulle

nuove tecnologie e la loro invadenza nelle nostre relazioni

Guido Grilli La storia è questa: all’improvviso, nel cuore di una cena tra 7 amici di lunga data, tre coppie e un single, una delle invitate esordisce: «Mi state dicendo che nessuno di noi ha segreti? Allora facciamo un gioco, mettiamo tutti sul tavolo i nostri cellulari. E messaggini, WhatsApp, telefonate le leggiamo e ascoltiamo insieme. Tanto noi… non abbiamo segreti». Così si apre Perfetti sconosciuti, film-commedia del regista italiano, Paolo Genovese, approdato nelle sale a metà febbraio. Il risultato del «gioco al massacro» è dirompente: doppie vite, crollo delle certezze di coppie che si sfaldano, il disvelamento, per uno dei protagonisti, della propria omosessualità finora tenuta segreta. Le esistenze dei protagonisti vengono scompaginate. Quanto basta per offrire lo spunto per alcune riflessioni sulla questione dell’identità e sull’uso, meglio, le modalità d’uso, del telefono cellulare. Domanda: è giusto sapere tutto del o della propria partner? Conoscere le sue fobie, le sue debolezze? In altre parole, è lecito oppure no avere segreti propri? Rivolgiamo gli interrogativi a Mauro Pedroni, psicoanalista. «Distinguerei. C’è una parte di noi, il cosiddetto sé privato, che ha una sua assoluta riservatezza, tale la definerei e non segretezza – espressione un po’ equivoca che può rimandare a qualcosa di inconfessabile. Il riserbo e la riservatezza sono tutt’altra cosa, e ognuno di noi ne ha assolutamente diritto. C’è una parte segreta del sé che è una specie di scrigno, di giardino inviolabile, che ognuno di noi coltiva – parlo di persone equilibrate, sane. Nella formazione del sé del bambino è importantissimo. Victor Tausk affermava che l’identità dell’essere umano nasce con la prima bugia, tale per cui non tanto io devo nasconderti qualcosa perché mi vergogno, perché l’ho fatta grossa, per un senso di colpa o per cercare di imbrogliarti, ma perché questa è una parte mia, dove nessuno mette il naso.

Il cast del film, un selfie tra amici che non hanno segreti...

A questo sé privato, riservato, ciascuno decide chi può accedere. Il punto non è dunque che ci sono segreti inconfessabili, ma segreti che io riservo a persone di assoluta fiducia». Ma la persona di fiducia corrisponde al partner? «Può anche essere un estraneo conosciuto sul treno. O una persona che ti è affine a causa di una vicissitudine. Certamente il partner, nel senso più nobile della parola, dovrebbe destare fiducia. Perché scelgo questa persona, se non perché effettivamente è una persona con la quale mi sento di condividere anche le cose più delicate? Però non necessariamente è il partner. Dev’essere una libera scelta, devo poter essere “il padrone di casa”. Quanto più la relazione è profonda, vera, autentica, costruttiva, migliorativa, e tanto più penso sia possibile “entrare e uscire”, occasionalmente, in funzione di un bisogno specifico». «Se invece – prosegue Pedroni – questa area segreta del sé è carica di imbrogli, la prospettiva cambia. Il segreto di un tradimento evidentemente è tutt’altra cosa. È un’operazione manipolatoria nei confronti del partner,

per cui io cerco di tenere i piedi in due scarpe, ingannandolo. Diceva Gesù, “Oportet ut scandala eveniant”, ovvero “è opportuno che gli scandali avvengano”. È opportuno quindi che queste cose siano rivelate. Certo sono traumatiche, drammatiche, tuttavia rimane l’unica strada per poter immaginare di poter ridare vita a un rapporto basato sulla verità. Parlarsi con franchezza. Bisogna avere il coraggio di togliere questi scheletri dall’armadio». L’amore può esprimersi attraverso l’uso dei social network, delle chat? «Questo non lo credo proprio. L’amore deve essere qualcosa di estremamente reale per essere tale. Un impegno, una reciprocità, un cammino, una storia. Mi viene in mente Dante e Beatrice: non è un amore, è un’opera letteraria. Dante ha amato la sua moglie reale, con cui ha fatto dei figli, condiviso delle responsabilità. Quanto a Beatrice, era lo spazio della creatività». Se rinunciassimo alla finzione, il mondo dovrebbe rinunciare alla creatività e verremmo privati dell’arte che trae proprio dalla finzione la linfa dell’invenzione. «As-

solutamente d’accordo. Freud ha scritto un bellissimo saggio intitolato Il poeta e la fantasia che racconta proprio la funzione che ha l’arte nel consentirci di fantasticare, di immaginare, sviluppare delle storie, un’area che attinge al mondo delle fantasie onnipotenti, è questo un recupero sano, non dannoso dell’onnipotenza infantile, che è molto importante per il nostro equilibrio mentale. Pensiamo al sogno. Guai se non sognassimo. L’essere umano ha proprio bisogno di spazi di fantasticazione, dove può consolarsi nell’essere un eroe invincibile o che so, uno scienziato intelligentissimo. Questa è una consolazione rispetto a quella che è la più modesta vita quotidiana». Il telefonino può diventare luogo in cui alimentare la finzione, la fantasia? «Finché è un uso giocoso, innocente, va benissimo. Se diventa uno strumento di inganno non funziona più bene, come mi pare accada nel film. Tutto ciò che è fatto nel segno della menzogna e dell’impostura non funziona. Al contrario funziona tutto ciò che è fatto nel segno dell’autenticità e della spontaneità. Le cose che fai devi poterle dire, e se le puoi dire vanno bene. Se, citando dottor Jekyll e mister Hyde, nel telefonino teniamo Hyde, le cose non funzionano. Ed è il senso del film». Con l’avvento delle nuove tecnologie si può in qualche modo intravedere un’accelerazione di «tentazioni malsane»? «Non sarei così pessimista. Per esperienza professionale devo dire che queste nuove tecnologie offrono a tante persone che diversamente sarebbero più sole, più isolate, più inibite, delle possibilità, che ovviamente vanno gestite, di stabilire almeno qualche contatto con il proprio prossimo e quindi personalmente sono favorevole. Visto che la gente ha finito per isolarsi in casa propria, con le proprie paure, con la propria televisione, i propri elettrodomestici, le nuove tecnologie rappresentano un elettrodomestico che secondo me aiuta ad aprire delle finestre sul mondo».

Scuola Club Migros Ticino News «Iscriviti a un corso»: i vincitori Ecco i quaranta fortunati vincitori del concorso «Iscriviti a un corso del nostro catalogo» organizzato dalla Scuola Club Migros Ticino. I nomi sono stati estratti a sorte tra coloro che si sono iscritti a un corso della Scuola Club Migros prima del 31 gennaio 2016. Tutti si sono aggiudicati un carta regalo Migros Ticino del valore di 75 franchi utilizzabile in uno dei supermercati di Migros Ticino. I premiati sono: Nelly B. di Gordola; Loredana A. di Quartino; Melissa C. di Bellinzona; Nicole B. J. di Ascona; Selda F. di Arbedo; Giulio B. di Ascona; Michela G. P. di S. Antonino; Giuseppe C. di Locarno; Mebrahtom G. di Giubiasco; Luciano E. di Minusio; Stefano H. di Giubiasco; Barbara G. di Arcegno; Laura I. di Erstfeld; Sofia P. R. di Brissago; Patrizia V. di Camorino; Tina S. di Cadro; Catherine V. di Bellinzona; Jovanka B. di Pregassona; Marinella B. di Mendrisio; Cassandra B. di Arzo; Matilde C. di Mendrisio; Loredana B. di Pregassona; Annamaria C. di Balerna; Daniele B. di Ponte Capriasca; Lucia E. di Stabio; Francesca C. di Lugano; Melissa F. di Uggiate Trevano; Franciely F. M. di di Origlio; Daniele G. di Chiasso; Maria K. di Lugano; Andrea G. di Genestrerio; Maria L. di Porlezza; Thimoty G. di Cadorago-Caslino al Piano; Daniela M. B. di Losone;Anna R. di San Fermo della Battaglia; Valon M. di Minusio; Laura S. di Mendrisio; Alessia N. di Caslano; Elisa P. di Dino. «Living the Room» a Lugano Gli incontri del 23 marzo con Pierluigi Zanchi, del 14 aprile con Lorella Zanardo; del 12 maggio con Claudio Visentin e del 3 giugno con Pietro Leeman si terranno alle 19.00 nella sede della Scuola Club Migros di Lugano, in via Pretorio 15. Gli eventi sono gratuiti. Per esigenze organizzative vi preghiamo di confermare la vostra presenza allo 091 821 71 50 o scrivendo a scuolaclub. lugano@migrosticino.ch.

I media digitali nel futuro dei musei Nuove tecnologie Intervista a Daniele Turini responsabile del settore eCulture

del Museo storico di Basilea

Natascha Fioretti Mentre a livello internazionale le nuove tecnologie e le opportunità digitali sono entrate a far parte della vita e della programmazione museale già da qualche anno, in Svizzera si tratta di una realtà ancora piuttosto recente di cui però le mostre e le diverse iniziative raccontano una fervida fase di sperimentazione. Un tempo custodi e curatori di oggetti e collezioni, oggi sempre di più i musei sono luoghi di socializzazione, incontro, scambio, dialogo con e tra diversi pubblici. A fare da collante un nuovo modo di intendere la comunicazione che propone contenuti interessanti e accessibili ad un pubblico sempre più esigente, tecnologico e frammentato. Tra i musei che in Svizzera guardano avanti, in particolare ad un futuro in cui mondo analogico e digitale convivono unendo sapere, memoria, cura degli oggetti e innovazione, c’è il Museo storico di Basilea. Ne abbiamo parlato con Daniele Turini, responsabile del settore eCulture del museo, il quale ci ha raccontato della sua strategia e della prossima mostra dedicata a Erasmo da Rotterdam che

racconterà il grande teologo e filosofo attraverso la realtà aumentata. Daniele Turini, che cosa significa essere responsabile del settore eCulture, qual è il suo ruolo?

L’eCulture rappresenta la componente digitale che quotidianamente caratterizza la vita dei musei introducendo importanti elementi innovativi non solo nella comunicazione e trasmissione dei messaggi ma anche nel modo in cui il museo sempre di più gioca un ruolo fondamentale: intrattenere il pubblico. Quanto contano i media digitali e i social network nelle vostre mostre?

Utilizzare i nuovi media e le nuove tecnologie per rendere accessibili i nostri contenuti ad un pubblico più ampio, rientra nel nostro mandato. Vogliamo instaurare un dialogo e uno scambio con i nostri visitatori, e in questo, seppur i nuovi media siano decisivi, essi rappresentano solo un elemento che insieme ad altri contribuisce ad abbattere soglie e limiti nella fruizione dell’offerta museale. Per coinvolgere nuovi pubblici è necessario parlare un

linguaggio inclusivo che sia accessibile a molti. In questo discorso gli smartphone, che in molti casi permettono al visitatore di interagire con gli oggetti in mostra o le attività del museo, giocano un ruolo importante. Siete stati i primi in Svizzera ad organizzare un Tweet up: di che cosa si tratta?

È un incontro-dibattito su Twitter che chiunque può seguire usando l’hashtag scelto dagli organizzatori. Nel 2013 il Tweet up nel nostro museo era ancora nella fase sperimentale, oggi è una realtà assodata che fa parte della nostra programmazione e attira un pubblico che abitualmente non visita le nostre mostre. I Tweet up infatti hanno luogo nella fascia serale, in un orario in cui i musei sono chiusi, dando a chi lavora la possibilità di partecipare e a noi di costruire una nuova nicchia di interesse e di pubblico. Quanto è importante costruire una comunità?

Ciò che conta è non ridurre il concetto di comunità alla sola sfera digitale. Una comunità si può costruire in tanti modi e molto dipende dall’offerta del museo. Mi riferisco alle nostre matinée

del mercoledì, una sorta di colazione al museo pensata per un pubblico over 60 coinvolto in attività ludiche correlate alle nostre mostre. È un esempio concreto di come il nostro museo sia improntato al dialogo e alla costruzione di una comunità non solo nel mondo digitale ma anche in quello analogico. Per questo pensa che il museo del futuro sarà al tempo stesso tradizionale e moderno?

La mostra su Erasmo si aprirà alla realtà virtuale e aumentata. (hmb.ch)

Oggi quando si parla di media digitali, molte persone temono che questi dissolveranno quelli analogici. In realtà assistiamo e assisteremo sempre di più ad uno scambio tra i due ambiti e musei come il nostro, che vantano una lunga e ricca tradizione, trarranno sempre un vantaggio dal combinare digitale e analogico. La sfida sta nel trovare nicchie di interesse in cui l’uno valorizzi l’altro. Di certo non faremo mai a meno degli oggetti che sempre costituiranno l’anima delle collezioni e dei musei che li ospitano e preservano.

tati sotto nuove spoglie e tramite lo smartphone e un codice QR i visitatori potranno accedere ad informazioni supplementari sulla sua figura, le sue opere, e molto altro.

Qualche esempio concreto?

A maggio una mostra renderà omaggio a Erasmo da Rotterdam. Grazie alla realtà aumentata gli oggetti della nostra collezione saranno presen-

L’utilizzo dei nuovi media e dei social network non porta a una banalizzazione dei beni culturali?

Nel lungo termine, sia nel contesto digitale, sia in quello analogico la ricetta vincente è rivolgersi a pubblici diversi, attirare nel proprio museo persone che non vi sono mai state prima. E seppure il linguaggio cambi, molte volte si frammenti e si semplifichi, difficilmente si arriva ad una banalizzazione perché di fondo c’è sempre la conoscenza, il sapere e l’esperienza di chi opera in un museo.




Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 14 marzo 2016 ¶ N. 11

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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Credenti e perfetti Era il maggio del 1243. Il Siniscalco Hugues des Arcis al comando di diecimila soldati del re di Francia saliva faticosamente l’altura in cima alla quale, formidabile, imprendibile, si ergeva minaccioso il Castello di Montségur, non lontano da Carcassonne. Scopo della spedizione: farla finita una volta per tutte con l’eresia Catara. La Crociata degli Albigensi si era conclusa col trattato di Paris-Meaux già nel 1229, ma la pianta dell’eresia, forte dell’appello che aveva nei confronti delle classi popolari, si era dimostrata più dura a morire del terrore dell’Inquisizione che pure aveva giustiziato decine di vittime in tutta la Linguadoca. Già nel 1233 il Vescovo cataro Guilhabert de Castres aveva chiesto al nobile catalano Raymond de Pereille il permesso per fare di Montségur la sede del quartier generale del movimento. Raymond aveva le sue ragioni politiche per dare il suo assenso, e prima fra tutte il suo conflitto col Re di Francia e la Chiesa

Romano Cattolica di questi alleata. Troppo tardi si era accorto di aver fatto il passo più lungo della gamba: in un peraltro flebile tentativo di tornare persona grata a chi si era accorto era di gran lunga più forte di lui, si era rimangiato la promessa di protezione e aveva tentato senza successo di riprendersi il castello nel 1241, quando questi dava peraltro rifugio a sole 500 persone. Troppo poco e troppo tardi tanto per Parigi quanto per Roma: quando una cinquantina di Catari uccisero due personaggi prominenti dell’Inquisizione con l’aiuto di alcuni nobili occitani spogliati di terre ed averi durante la crociata degli Albigensi, allora Parigi decise di montare l’attacco definitivo. Il Siniscalco reale sapeva che dentro al Castello restavano solo un centinaio di perfecti, catari dei ranghi seniori che, in quanto «perfetti nella fede», si rifiutavano di usare le armi. Oltre a rifugiati civili di varia provenienza, il grosso della forza catara combattente

spostare la catapulta all’interno del barbacane del castello e bombardare il nemico da posizione vantaggiosa. Messi alle strette, i catari tentarono un’ultima, disperata sortita per sloggiare gli assedianti dal barbacane. Visto l’insuccesso, ormai allo stremo, ciò che rimaneva del contingente cataro decise di negoziare la resa. Le condizioni: tempo due settimane, tutti coloro che stavano nel castello potevano andarsene indisturbati, eccetto coloro che non avessero abiurato la fede catara. Quelli che decisero di non rinnegare passarono le due settimane di tregua in preghiera e festeggiamenti. Allo scadere dell’ultimatum, ai 190 perfecti rimasti saldi nei propri convincimenti, si aggiunsero altri credentes fino ad un totale di 210 o 215. Il 16 marzo il Vescovo cataro di Tolosa, Bertrand Marty, guidò i condannati al rogo eretto per loro nella piana del castello: tutti salirono la pira di spontanea volontà. Degli altri, Raymond de Pereille

fu arrestato per essere poi interrogato dall’Inquisizione. Tutti i restanti, inclusi gli assassini degli Inquisitori, ebbero salva la vita. Si dice – si disse allora e la storia continua fino ad oggi – che tre o quattro perfecti siano riusciti a fuggire tramite un passaggio segreto nelle settimane precedenti la disfatta. Si dice, si mormora, si tramanda, che questi avrebbero messo al sicuro un non meglio identificato «tesoro dei catari» nascosto in una caverna. Naturalmente (si dice, si mormora, si tramanda) che questo «tesoro» avrebbe contenuto – e cos’altro mai?! – il Santo Graal e certi testi gnostici ed oracolari di San Giovanni… poi ci vanno di mezzo un numero imprecisato di foglie di palma fitte fitte di scritture e simboli misteriosi che – pare – debbano essere tracciate fino in India e… Insomma: la vicenda dei Catari proietta le sue ombre ben oltre le fiamme sinistre dei roghi di Montségur. Ma su questo – parola d’Altropologo – di più ad un’altra puntata.

figlia lavora e che i figli adolescenti possono essere più impegnativi di quelli piccoli. Richiedono infatti di essere seguiti nei compiti, portati in macchina, più volte la settimana, nei centri sportivi o a trovare gli amici. Ma tu mi dirai che se, si vuole, non sono ostacoli insuperabili. Senza affrontare il problema frontalmente, che susciterebbe un penoso scambio di accuse, ti suggerisco piuttosto di proporre delle alternative. Potreste incontrarvi in un luogo intermedio, come un’accogliente caffetteria, oppure potresti offrire a tua figlia di trascorrere insieme una serata a teatro o al cinema. Spesso le madri di famiglia hanno bisogno di evadere dagli impegni quotidiani e di sentirsi ancora ragazze. D’altra parte, poiché i rapporti cambiano a seconda delle stagioni della vita, è anche vero, come osserva la tua amica, che potresti approfittare del maggior tempo a disposizione per seguire interessi, passioni frequenta-

zioni, prima trascurate per gli impegni familiari. Già avere buone amiche è una notevole risorsa contro la sindrome del «nido vuoto». Vi sono inoltre, in Ticino, splendide occasioni d’incontro tra donne offerte da Associazioni come Dialogare e Ava Eva. Senza dimenticare la possibilità di svolgere attività di volontariato commisurando l’impegno a seconda delle proprie energie psicofisiche. In ogni caso, cara Alma, non devi considerare la situazione attuale come assoluta e definitiva: non è stata così in passato, non è detto che lo sarà in futuro. Può darsi che, quando i vostri nipoti reclameranno più autonomia, la loro mamma si sentirà più disponibile a intensificare i contatti con te e con tutta la vostra famiglia. Infine, per moderare il tuo «cruccio segreto», rallegrati dell’amore di vostro figlio, delle prove di affetto che vi dà. Troppo spesso siamo portati a ingigantire le frustrazioni e a minimizzare le soddisfazioni. Il segreto della felicità

consiste invece nell’apprezzare ciò che si ha, nell’attribuire valore ai doni della vita senza crucciarci se non possiamo avere tutto. Soprattutto quando non si è più giovani, e tutto si fa precario, è giusto e confortevole provare un senso di gratitudine per il semplice fatto di esistere. Ogni mattina, al risveglio, mi sale silenziosamente alle labbra la «preghiera» che un grande poeta, come Mario Luzi, ci suggerisce: «Sia grazia essere qui, / nel giusto della vita, / nell’opera del mondo. Sia così». Mi sembra il modo migliore per non aprire il contenzioso del dare e dell’avere, e vivere in armonia con noi stessi e con gli altri il tempo che ci è concesso sulla Terra.

mana di tre giorni: «È una tendenza che non appartiene a un paese dove, quattro anni fa, i cittadini respinsero, a forte maggioranza, l’iniziativa delle sei settimane di vacanza che, nell’attuale clima economico, sarebbe più che mai inopportuna». E, portando il discorso su un piano addirittura filosofico, conclude: «C’è da chiedersi se lavorando di meno si è più felici?». Va detto, però, che nei confronti degli orari lavorativi, le divergenze non portano più un marchio ideologico riconoscibile, di destra o sinistra. Si delineano all’orizzonte, per un domani non lontano, forme di attività sganciate dall’obbligo di rispettare norme sindacali di orari e ferie, considerate finora indispensabili. Grazie agli strumenti informatici, è già possibile lavorare dove e quando si vuole, per conto proprio, pur rimanendo sempre in contatto con colleghi e dirigenti. E, a questo punto, si realizza l’ideale quadratura del cerchio: la professione, impegno

collettivo, s’integra nella quotidianità individuale. Chissà, staremo a vedere. Intanto, tornando al tema del venerdì, effettivamente si deve parlare di sorpasso, sul piano della mondanità, rispetto al sabato. È un nuovo rito, dagli effetti ben visibili, in cui lo snobismo ha la sua parte. Fatto sta che ci si deve mettere in coda per l’happy hour in certi bar ed è d’obbligo prenotare per la cena nei ristoranti che godono il favore del momento. E sono affollati centri sportivi e palestre mentre i più fortunati si concedono un salto in Liguria o in Engadina. Tutte le abitudini a cui si guarda con simpatia, perché rappresentano un provvidenziale incentivo per le cifre d’affari. E fanno chiudere un occhio sul rovescio della medaglia: incidenti stradali, rumori, eccessi alcolici, tafferugli. Certo è che il venerdì ha proprio cambiato connotati e contenuti: la riflessione è inevitabile per chi di settimane ne ha vissute tante, contrassegnate da venerdì «di magro»: i cattolici dovevano rinun-

ciare alla carne, sostituita dal pesce che, allora, non era certo considerato una prelibatezza. Come emerge dalle ricerche di Ottavio Lurati, era un giorno «circondato da una fitta corona di credenze e tabù»: di venerdì non si partiva in viaggio, non ci si sposava, non si battezzava un neonato. E, non ci si divertiva, tanto più che, il mattino dopo si lavorava e si andava a scuola. Nel Ticino degli anni 70, il sabato cosiddetto inglese (in Gran Bretagna risaliva al 1908) fu esteso dal pomeriggio al mattino, negli uffici e nelle scuole. La novità non fece tutti felici. Anzi suscitò le preoccupazioni, stranamente negli ambienti progressisti, dove si temeva un incremento consumistico. Due loro esponenti, un docente e uno psicologo, vennero in redazione per lanciarmi un accorato SOS: «Che ne sarà di bambini e adolescenti, fuori dalle aule, di sabato mattina?». Ero tentata di rispondere: potrebbero farsi una bella dormita. Ma non era il caso di scherzare. Per loro era un’emergenza seria.

era composta da credentes – militanti dei ranghi inferiori del movimento – che vivevano nelle adiacenze del castello in baracche e caverne. L’impresa sembrava cosa fatta vista l’esiguità delle forze catare. Tuttavia, con l’aiuto della popolazione locale che aveva in odio i francesi e l’Inquisizione, gli assediati riuscivano a mantenere aperti i canali di rifornimento e – addirittura – a rinforzare la guarnigione con partigiani accorsi dall’esterno. Dopo ripetuti fallimenti, un distaccamento di mercenari baschi riuscì a montare una catapulta in una depressione protetta ad est del castello: di lì presero a bombardare le adiacenze del castello forzando i credentes a ritirarsi nella fortezza. La trappola si chiudeva: presto le condizioni dei resistenti all’interno del castello si fecero difficili, ma la resistenza continuò fino a quando, ai primi di marzo del 1244, un traditore rivelò agli assedianti un passaggio segreto che permise a questi ultimi di

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi «Mia figlia non ha tempo per me» Cara Silvia, se mi guardo intorno dovrei considerarmi una persona fortunata, ma non ci riesco perché mi rode un cruccio segreto che neanch’io riesco a spiegarmi. Forse tu mi capirai. Vivo in armonia con mio marito, sono mamma di due figli e nonna di quattro nipoti. Mio figlio risiede a Zurigo e ci incontriamo appena possibile, invece mia figlia, che abita dieci minuti di macchina da noi e che passa davanti a casa nostra due volte al giorno, non trova mai il tempo di incontrarci. Vorrei tanto che, almeno una volta mi dicesse: «mamma ho voglia vederti». Invece mai. Se ha bisogno, e questo accadeva soprattutto quando i bambini erano piccoli, si fa viva, altrimenti, adesso che i ragazzi sono cresciuti, chi si è visto si è visto. Alcune, tra le mie amiche, dicono che avrà le sue ragioni, altre di godere della mia libertà. Eppure sono convinta che siamo stati, per tutti e due i figli, dei buoni genitori. Ma allora perché uno dimostra di amarci e l’altra no? / Alma

Cara Alma, i genitori non sono mai gli stessi per tutti i figli. Molte variabili intervengono a differenziare i rapporti: cambiano i periodi della vita, il sesso, l’ordine di genitura, il carattere. Inoltre il legame madre-figlia è particolarmente intenso ma anche particolarmente complesso. Appartenere allo stesso genere ci unisce doppiamente, tanto che Jung scrive: «la figlia è la madre e la madre è la figlia». Di conseguenza è più difficile separarci senza spezzare il «filo rosso dell’amore» che ci unisce in modo intenso e tenace. Tanto che, per tutta la vita, dobbiamo misurare la distanza evitando di stare troppo vicine o troppo lontane. Nel primo caso ci sentiamo soffocare, nel secondo ci sentiamo sole. Comprendo il tuo dolore per un desiderio d’affetto non corrisposto ma, purtroppo, i sentimenti altrui non si possono modificare a piacimento: l’amore si può attendere ma non pretendere. Se vogliamo eseguire anche un esame di realtà, tieni conto che tua

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Il venerdì promosso a vigilia Per i sociologi è il «nuovo sabato», simbolo di un cambiamento di abitudini e mentalità, magari controverso, ma ormai praticato su larga scala. Una conferma autorevole è arrivata, recentemente, dalla «Neue Zürcher Zeitung», dove appunto si leggeva che, sulla scorta di dati reali, «il weekend comincia per lo più il venerdì pomeriggio alle tre». A partire da quel momento, in particolare negli uffici del terziario, che da noi fa stato, tira un’aria di vigilia. Da «Sabato del villaggio», – la citazione è d’obbligo –, cioè rilassata e allegra in cui, come dicevano quei versi, si concentra il meglio della festa: l’attesa. Ciò che, concretamente, significa mettere da parte le preoccupazioni professionali, che fanno capo al dovere, e dedicarsi ai programmi di svago che, invece, s’ispirano alla libertà, anche se spesso apparente. C’è un equivoco da chiarire: lo svago, da sacrosanto diritto civico, rischia di diventare, a sua volta, un obbligo assillante. Si assiste a un paradosso: il

venerdì, leggero e sorridente, ha prodotto la sindrome del lunedì, pesante ed imbronciato. La figura del reduce dalle fatiche del riposo sembra da barzelletta. Ma, negli ambienti padronali, è un argomento preso sul serio, sfruttato per mettere in dubbio i presunti benefici degli orari lavorativi ridotti. Interpellato in proposito, il direttore dell’Unione svizzera degli imprenditori, Roland Müller, respinge l’ipotesi della setti-

Evviva è venerdì!


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Ambiente e Benessere Nel deserto del Fars Viaggio nel cuore della Persia, lungo le rotte di antichi caravanserragli

Il pugilato nella storia Nata inizialmente come disciplina con tratti estremamente brutali, la boxe si è evoluta in uno sport in cui contano tattica e preparazione fisica

In Crociera nel Baltico Hotelplan propone una vacanza dal 26 luglio al 5 agosto fra le città più caratteristiche

Amicus, dal 1. gennaio Nuove procedure di registrazione per chi adotta per la prima volta un cane in Ticino pagina 23

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Uno sciamano navajo benedice con delle piume di aquila uno hogan, la tradizionale capanna in terra. (Keystone)

I portatori del gene della follia Fra scienza e rito Lo sciamanesimo tradizionale tra gli indiani del nord America Roberta Nicolò Nell’immaginario collettivo lo sciamano per eccellenza è senza dubbio un pelle rossa. Un uomo vecchio e saggio che, ornato di piume, invoca la pioggia per il suo popolo, e anche se in forma meno pittoresca e sicuramente meno romantica, le popolazioni native dell’America settentrionale vantano certamente una tradizione sciamanica ricca e significativa. Il profondo legame con la terra, che contraddistingue tutte le antiche tribù americane, è un fattore importante nella nascita e nella presenza dello sciamanesimo all’interno dei molti gruppi etnici che abitavano l’intero continente prima dell’arrivo degli europei. Nelle culture native l’equilibrio naturale rivestiva un valore essenziale per la sopravvivenza e ogni elemento della terra era oggetto di attenzione e rispetto. Con un’economia di sussistenza atta a garantire il benessere della popolazione, in un’ottica che oggi definiremmo ecologica, gli indiani americani mantenevano integro l’ambiente considerandolo sacro. Si cacciava e pescava lo stretto necessario a sfamarsi, si coltivava in maniera non estensiva, si racco-

glievano le erbe necessarie per curare le malattie, tutto in un sano principio di salvaguardia ambientale. Lo sciamano rivestiva un ruolo di guida verso la spiritualità che ricordava, laddove necessario, come la natura fosse in diretto contatto con il mondo degli spiriti dai quali dipendeva ogni avvenimento umano. Gli sciamani conoscevano rimedi antichi, erano fini meteorologi e guide spirituali oltre che guardiani della tradizione. Gli sciamani nord americani erano dei botanici esperti, le erbe, la loro coltivazione o raccolta e soprattutto la preparazione di unguenti e tisane erano tra le loro attività di base. Tra gli sciamani più noti c’è anche Alce Nera, figura resa leggendaria dal cinema e dalla letteratura. Ogni tribù aveva il suo sciamano, che spesso era portatore di quello che noi potremmo definire gene della follia. Per molte delle culture native nord americane la figura del folle, del matto, era sinonimo di grande comunione con gli spiriti e degna quindi del massimo rispetto. Una dose di spensieratezza che serviva a sdrammatizzare conflitti o tensioni e che era quindi molto apprezzata all’interno delle comunità. Presso i Sioux, per

esempio, c’erano gli heyoka, preposti ad agire al contrario, dire no per intendere sì, vestire leggeri d’estate e pesanti d’inverno, questi sciamani, sicuramente un po’ folli, portavano il buonumore e per questo motivo erano considerati colonne portanti della società. In ogni tribù, dopo un lungo apprendistato presso uno sciamano anziano, il giovane aspirante poteva accedere al ruolo di guaritore, ma restava sempre il suo operato e la sua personalità a fare del nuovo sciamano un membro onorato della sua tribù. Nel caso, infatti, uno dei suoi pazienti fosse morto durante un rito di guarigione, il resto del gruppo gliene avrebbe attribuito la responsabilità. I metodi di cura variavano, ma uno dei punti fondamentali rimaneva la conquista della fiducia del paziente, che aveva, di fatto, un grande potere psicoterapeutico. Alcune tribù del nordest utilizzavano la lettura dei sogni, attraverso la quale portavano in superficie desideri inconsci per poterli di seguito allontanare. Una vera e propria psicoterapia freudiana, potremmo dire. Nel sudovest del territorio americano invece, tra le popolazioni Navajo, erano utilizzati canti e rituali guaritori che

presupponevano pazienza e concentrazione. Attraverso disegni eseguiti con la sabbia, il cantore si metteva in contatto con gli spiriti chiedendo loro la giusta cura per il paziente. L’operazione richiedeva una precisione estrema, poiché si credeva che anche il più piccolo errore avrebbe potuto irrimediabilmente inficiare il buon esito della cura. In generale, uno dei compiti principali degli sciamani era sicuramente legato alla gestione delle cerimonie sacre. Per i Cheyenne e per gli Arapaho le cerimonie erano legate al concetto di rinnovamento della vita, ma potevano anche servire per la cura di un famigliare malato o per scongiurare una guerra. Per i Sioux invece la cerimonia sacra era intesa come un momento di purificazione collettiva. C’erano inoltre cerimonie dedicate a particolari passaggi della vita di una persona, quelli che in moltissime culture, non solo quella indigena americana, sono chiamati «riti di passaggio». Presso gli Apache, infatti, c’era la Cerimonia del Sole Nascente che decretava il passaggio di una bambina alla pubertà ed era considerata tra le cerimonie più sacre e importanti. Un’altra cerimonia essenziale in

cui lo sciamano non poteva mancare era il Potlatch, tipici rituali della Costa del nord ovest del continente americano e destinate a matrimoni e funerali. Il ruolo che il Potlatch aveva all’interno delle comunità era di favorire un continuo scambio di ricchezza. Infatti, chi organizzava la cerimonia offriva ai propri ospiti ogni bene possibile non badando a spese. Gli invitati erano tenuti a loro volta a ricambiare l’invito cercando di eguagliare o addirittura superare la sontuosità del loro predecessore. Sono moltissimi i frangenti della vita sia collettiva sia personale in cui il ruolo dello sciamano era determinante per i nativi dell’America settentrionale. Una figura che faceva da collante tra l’individuo e la società, mantenendo in equilibrio sia i rapporti tra i primi sia quello delle comunità con la natura che le circondava. Oggi le tribù native presenti negli Stati Uniti e in Canada hanno perso molto del loro retaggio culturale, e molti dei riti proposti ai turisti sono delle rivisitazioni riadattate alle necessità della vita moderna, che mal riesce a gestire l’idea di equilibrio con l’ambiente che la accoglie.


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Ambiente e Benessere

Il falso vuoto

Viaggiatori d’Occidente Una notte nella polvere dell’Iran

Paolo Brovelli, testo e foto Scende la milleduesima notte. Un bicchiere di tè caldo per strada, sotto questa stellata, col profumo di montone arrosto che arriva col vento da chissà dove, segna una sosta in questo mio viaggio nel Fars, il cuore della Persia. Qui, nello scricchiolio del pietrisco sotto i sandali, dopo settimane di vagabondaggio nel falso vuoto dei deserti d’Iran, la vita mi diviene primordiale e l’assaporo insieme al tè, aleggiando in punta di piedi tra gli infiniti strati di rovine d’un Iran d’altri tempi, quello dei bozzetti esotici dei viaggiatori ottocenteschi o delle fiabe d’Oriente, popolato di turbanti, cammelli, scimitarre, odalische.

I kalut, frammenti settentrionali del Dasht-e Lut.

Gli edifici d’argilla e paglia cotti al sole si sciolgono nel tempo come castelli di sabbia in riva al mare

Una via di Yazd. In alto: 1 dei 999 caravanserragli di Abbas il Grande-nel Dasht-e Kavir.

Il cuore dell’Iran è un cuore di sete. Il deserto cambia nome, muta forma, sale, scende, si fa roccia e poi si scioglie in sabbia, punge con picchi aguzzi e rovi, lenisce con laghi salati e dune. Lo so per esperienza. A nord il Grande deserto salato comincia sotto i monti Elburz e sopra Teheran, basso tavolato roccioso che dalle vette acuminate si stempera nelle paludi salate che gli danno il nome. E poi pietraie a perdita d’occhio, roventi d’estate, gelate d’inverno. A cercar bene si scorgono robat, avanzi di fortini presidiati da veterani sui confini degli antichi imperi islamici, che spesso diventavano monasteri. Ora offrono riparo al viaggiatore di queste lande tormentate: la polvere dà scampo solo là, dove sboccia l’alto profilo dei pioppi dell’oasi. Ai robat s’aggregano spesso villaggi e caravanserragli, antichi ostelli lungo le vie carovaniere dove sostavano i mercanti. Gli edifici in mattoni d’argilla e paglia cotti al sole si sciolgono nel tempo e somigliano a castelli di sabbia dimenticati in riva al mare. A poca distanza da Yazd, la città «sposa del deserto», sosto a Kharanagh: le poche porte d’accesso al paese alto immettono in un formicaio di vicoli coperti e celle e tuguri nel fango secco; abitazioni senza finestre, però al sicuro nel cuore del villaggio. Sotto le volte acute ci passa stretto un uomo in groppa a un asino. Su una terrazza, affacciata sulla piana coltivata, sorge la moschea, che domina i resti sgretolati del

rata che affiora da un’antichità ancora più remota (sec. II-VII), con tanto di fossato, doppia cinta muraria e torrioni ornati a mattoni sbalzati. Anche qui vicoli intricati di scalette, porticine, celle, magazzini e dalla torre… cupolette a coprire quasi tutto il complesso, preso tra gli orti e il deserto. Una tromba d’aria spazza l’altipiano e, in lontananza, fate morgane annunciano laghi che non incontrerò mai. Oppure sì, ma laghi di sale come il Namak, poco a nord di Qom, la città santa dei mullah e degli intellettuali sciiti, sorgente del sapere che ha forgiato la classe dirigente dello Stato islamico. C’ho lasciato il fiato, su quel tavoliere bianchiccio e croccante di sale, che a volte sprofondavi, da aver paura delle sabbie mobili. Se no erano zolle secche fino all’orizzonte che non arrivava mai. Sulle rive del Namak occhieggia il caravanserraglio di Maranjab. Basso e quadrato, coi torrioni tondi, l’ampio cortile interno per le bestie e le merci, le celle e i magazzini intorno, somiglia a tanti degli edifici simili eretti da Abbas I il Grande, l’artefice del Rinascimento persiano del XVII secolo, che ne volle costruire ben 999, a una trentina di chilometri l’uno dall’altro, per invogliar mercanti a dar lustro al suo impero. Alcuni hanno oggi ripreso il vecchio ruolo di locande, per turisti in cerca d’avventura controllata, ma viaggiando fuori rotta, a volte, quando il calore è troppo intenso, mi rifugio in altri che, quando va bene, affiorano salvifici per strada. Edifici-fantasma che ora son

Dune periferiche del Dasht-e Lut.

Il Robat-e Naranjestan-nel Dasht-e Kavir.

paese, digradanti fin laggiù. Un vecchio ripete: «Abitavamo qui. Qui!». Ricorda senza rimpianto ma io gli sono grato, in segreto, che tutto sia ancora lì. Una gratitudine diffusa verso il destino, o

la fortuna, che m’ha accompagnato in tante mie scoperte in questo paese, misconosciuto persino dai suoi abitanti. Saryazd, per esempio, sempre presso Yazd, è una fortezza sassanide restau-

ricovero fugace di ovini e umani. Solo l’immaginazione può ricrearvi il movimento d’un tempo: cammelli, cavalli, carri di mercanzie, barbe, caffettani, imprecazioni e schiocchi di scudiscio. Magari vi avrei anche trovato un compagno di viaggio. La Via della seta era battuta, allora. E poi c’è il mare, nel cuore dell’Iran: il mare di sabbia del Dasht-e Lut, che per gli iraniani è il Sahara. È un’immensa distesa di dune che si snodano a perdita d’occhio a sud, oltre Kerman; dune tra le più alte del mondo, sino a quattrocento metri. Ai suoi margini settentrionali il «Deserto vuoto» si frantuma in un paesaggio da fiaba, quello dei kalut, faraglioni e balze che paiono appena emersi dalle sabbie, ancora gocciolanti di vento, e che da lontano somigliano ai resti d’una città in rovina. È lì che ho posto il campo per una notte memorabile. Domani, oltre la collina, troverò le tombe dei grandi imperatori Ciro e Dario: portali monumentali verso gli inferi, incastonati nella falesia di Naqsht-e Rostam. Poi le agognate rovine di Persepoli, la città cerimoniale di quel grande impero cosmopolita che nel V sec. a.C. si estendeva dalla Turchia all’India, attraverso mezza Asia. L’idea di avventurarmi nei suoi recessi petrosi mi fa sentire bene. Poi, là, magari, conoscerò qualcuno che mi ospiterà, e che mi chiederà del mio viaggio. E io gli sarò riconoscente, e lui mi sfamerà, e mi darà un riparo e un letto. Qui non si scherza con l’ospitalità e aiutare i viaggiatori porta fortuna…


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Ambiente e Benessere

Ambiente e Benessere

Tre pugili che cambiarono la boxe Sport Per limitare i danni agli atleti, dalla fine dell’Ottocento sono progressivamente state introdotte regole precise,

parallelamente hanno assunto maggiore importanza le tecniche di combattimento rispetto alla semplice forza bruta Jacek Pulawski testo e foto Il pugilato è considerato una disciplina sportiva violenta, ma per limitare il più possibile i danni fisici agli atleti nel corso dei decenni sono state introdotte numerose regole. Non è sempre stato così, alla fine dell’Ottocento gli incontri di boxe erano ancora dei veri e propri massacri. E fu proprio la brutalità di tre famosi pugili a spingere il mondo della boxe ad introdurre dei correttivi. Il primo di questi fu John L. Sullivan, campione del mondo dei pesi massimi.

Fino alla fine dell’800 gli incontri di pugilato erano dei veri e propri massacri, in cui quasi tutto era permesso Nel luglio del 1889 John L. Sullivan difese il titolo contro un nuovo pretendente al trono, Jake Kilrain. Quello organizzato nel profondo dei boschi del Mississippi non fu un incontro di pugilato come lo conosciamo oggi: il combattimento si svolse a mani nude, nel segno dell’antico codice della boxe, il London Prize Ring Rules. Erano permesse le prese della lotta libera e la ripresa finiva quando uno dei due contendenti finiva al tappeto. Svoltosi in segreto, l’incontro durò ben 75 round, in cui entrambi i pugili bevvero un li-

tro di whiskey. La consumazione di superalcolici durante gli incontri era una pratica molto in voga nel XIX secolo. Grazie all’ebbrezza si alleviava il dolore, garantendo così lo spettacolo. In quei tempi il pugilato non era che una prova di resistenza, e la forza bruta sop-

periva all’assenza di tecnica e tattica. Alla fine di questo leggendario incontro fu chiaro il motivo per cui si proibiva di gareggiare a mani nude su tutto il territorio degli Stati Uniti: i due pugili avevano riportato gravi danni fisici e lo sfidante J. Kilrain giaceva svenuto sul

tappeto. Negli archivi è conservata una fotografia di Kilrain con i tratti del viso così deformati da non essere più riconosciuto dalla moglie. In seguito a questo brutale incontro si decise di adottare le regole del Marchese di Queensberry, scritte de-

cenni prima, ma ignorate fino all’incontro del Mississippi. La rivoluzione consisteva nell’utilizzo di materiale protettivo sotto forma di caschetti e guantoni. La boxe divenne legale (e attirò molti capitali). Nel 1892 a New Orleans ebbe luogo il primo incontro secondo le nuove regole, fra John L. Sullivan e un giovane ed ambizioso banchiere californiano, James Corbett. Lo sfidante vinse l’entusiasmante incontro grazie alla sua giovane età, una migliore preparazione tattica e una migliore condizione fisica. Ciò diede nuovi impulsi al pugilato sportivo, in cui le strategie di combattimento assunsero maggior peso: si studiavano i punti deboli degli avversari, preparando le tattiche più idonee al singolo caso. I tempi di John L. Sullivan, denominato «il mostro di Boston», erano finiti, e la sua carriera annegò nell’alcolismo. Un altro personaggio che con il suo stile violento spinse la federazione di boxe a introdurre nuove regole fu Jack Dempsey, un giovanotto americano proveniente dal Far West. Nel 1914 si spostava attraverso gli Stati Uniti sui treni merci alla ricerca di un impiego. Consapevole di essere un gran picchiatore, non rifiutava la possibilità di battersi per denaro. Dempsey era tutt’altro che pauroso, ma evitava di essere coinvolto in risse da bar, ritenute da lui troppo pericolose. Nel 1916 arrivò a New York è trovò un’occupazione come spazzino nel Central Park. Durante un incontro di boxe amatoriale

venne addocchiato dal noto promoter Tex Rickard, che rimase letteralmente stregato dallo stile aggressivo ed efficace del giovane. Fu così che Jack Dempsey intraprese il cammino verso il Madison Square Garden, dove piegò ogni concorrente in tempi record. Persino Jess Willard, il campione dei pesi massimi dell’epoca, subì la furia del ragazzo del Colorado. Alla vigilia, l’incontro fu fortemente contestato in quanto ritenuto pericoloso per la salute dello sfidante. Va detto che questa preoccupazione non era del tutto infondata: Jess Willard era un gigante e pesava 30 chilogrammi in più dello spazzino vestito da pugile. Diciottomila spettatori assistettero allo scontro tra un impaurito Jack e il colosso Jess. Contro ogni pronostico, la sfida venne vinta da Dempsey che, con il gancio più forte mai registrato nella storia del pugilato, sollevò il campione da terra. Alcuni denti di Willard, recuperati tra il pubblico, furono successivamente venduti all’asta. In seguito a questo incontro, il regolamento venne modificato di nuovo: si introdussero i paradenti

e il concetto di categoria e peso. Inoltre si stabilì che il pugile a terra non poteva essere colpito prima che l’arbitro lo consentisse; Willard, infatti, era stato ripetutamente aggredito da Dempsey

non appena accennava a rialzarsi dopo il gancio che lo aveva steso al tappeto. Ma anche Dempsey incontrò qualcuno più forte, o di certo più intelligente e tattico di lui: nel 1926 a Filadelfia, da-

vanti a 130mila spettatori, perse il titolo contro il meno quotato Gene Tunney, un appassionato di letteratura shakespeariana, che furbescamente pretese di allargare il ring. Questo gli permise di schivare al meglio i temibili colpi di Dempsey. Vinse in dieci riprese, ma «lo spazzino», ormai ricco e famoso, non ne fu particolarmente turbato. Ispirato dall’inconfondibile stile di Dempsey, Mike Tyson fu tra i più violenti pugili mai conosciuti. Ripescato in un penitenziario per minorenni da Cus d’Amato, l’uomo che fece di lui il campione assoluto dei pesi massimi, Tyson si rese famoso per numerose scorrettezze dentro e fuori dal ring. Temuto da tutti gli avversari nel corso degli anni 80 del secolo scorso, la «Bestia» di Catskill surclassò tutti. I suoi duelli finivano a suon di martellate in pochi minuti. Quando Andrew Golota, un malcapitato in preda al panico, si rifiutò di continuare l’incontro, il pubbico lo derise gettandogli bevande colorate. Fu allora che la federazione internazionale di boxe stabilì che un

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atleta poteva ritirarsi con il classico «lancio dell’asciugamano». Golota, inoltre, accusò Tyson di gareggiare sotto l’influsso di stupefacenti. Durante l’inchiesta Tyson ammise di aver regolarmente assunto cocaina e marijuana prima dei suoi incontri. Grazie all’urina di amici, Tyson riusciva ad aggirare i controlli dell’anti-doping divenuti sempre più severi e regolari. Incapace di trovare concorrenti, nel 1990 Tyson fu invitato a Tokyo per una gara in 10 riprese che doveva essere una pura formalità. Il suo contendente Buster Douglas, quotato 42/1, cadde al suolo facendo temere il peggio. In stato confusionale riuscì tuttavia a continuare lo scontro, vincendo poi per knockout. Aiutato dalla formula long count, in cui l’arbitro rallenta il conteggio, Douglas segnò il declino dell’uomo più temuto nella storia del pugilato.

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Ambiente e Benessere

Si fa presto a dire pâté Il pâté è probabilmente il piatto della cucina «nazional popolare» francese (cioè quella che nulla o poco c’entra con l’alta cucina dei sommi ristoranti che sono la gloria di Francia; sommi ristoranti che peraltro spesso propongono il loro pâté fatto in casa) più icona nazionale e più amato. È onnipresente, non esiste salumeria che non lo proponga.

«Al di fuori della Francia i pâté non li fa nessuno. Si fanno invece i paté, che però sono… delle terrine» Di base è un pasticcio – pâté vuol dire appunto pasticcio – cotto in una crosta di pasta cosiddetta per pâté (ma anche pasta sfoglia) e farcito con carni varie (ma anche pesci e verdure) in linea di massima tritati e altri ingredienti. La cosa che rende difficile questa preparazione è la pasta da pâté. La carne in cottura emette liquidi che fuoriuscendo infradiciano la base, danneggiandola o anche distruggendola: per evitarlo si deve usare una pasta in grado di non disfarsi quando questi liquidi vengono emessi, a base di tanta farina, burro o strutto (meglio lo strutto), tuorlo d’uovo, acqua e sale, piuttosto dura da lavorare. Anche la parte superiore – io la chiamo coperchio – è un problema: il vapore emesso dalla carne che cuoce infradicerebbe anche il coperchio. Quindi bisogna fare dei buchi nella parte superiore e formare quasi dei camini per permettere al vapore di fuoriuscire senza infradiciare. Il doppio problema dell’impasto è la cosa che rende difficilmente fattibile il pâté a casa: l’equilibrio fra farina, temperatura di cottura, vapore, eccetera è una cosa che si apprende con tanti tentativi – e tanti strumenti ad

hoc. Un’industria, un artigiano questi strumenti li hanno e presto imparano; a casa è ben più difficile. Se si usa invece la pasta sfoglia, bisogna mettere gli ingredienti asciutti, già parzialmente cotti. Il pâté è un piatto nobile, perfetta apertura di un pasto casalingo importante. Si mangia tagliato a fette, messo su un piatto e usando coltello, forchetta e savoir faire. In Francia usano anche cuocere l’impasto del pâté in uno stampo rettangolare di terracotta, ceramica o ghisa. Però chiamano questa preparazione «terrina». Nell’esagono è, se non più popolare del pâté, altrettanto iconica, anche se è vissuta come meno nobile, un po’ come capita in Italia fra prosciutto e salame. Si mangia spalmandola su un trancio di baguette fresco o leggermente tostato in forno: altri modi di mangiarla non mi sono pervenuti. Se i pâté sono nobili, quindi fatti comunque con tagli nobili delle carni, le terrine non lo sono, e di conseguenza vengono fatte con tagli poco nobili di carni, carni avanzate e con tutti i ritagli altrimenti non utilizzabili. Quindi non costano tanto, da qui il loro successo. Al di fuori della Francia i pâté non li fa nessuno. Si fanno invece i paté, che però sono… delle terrine. In genere proposte così come sono, a volte coperte con una gelatina. In molti Paesi si chiamano paté anche alcune conserve di verdure cremose e spalmabili, per esempio il paté di olive. Una gran confusione la genera un termine sbagliato ma che tutti usano: pâté di fegato grasso. Che non esiste. Se si ha in casa del preziosissimo fegato grasso, mica lo si trita, lo si lascia intero! Semmai viene saltato in padella o cotto intero in terrina. Se lo trovate scritto, è un pâté di fegati vari impreziosito da un buon 1 per cento o poco più di fegato grasso. Ma in etichetta è, o dovrebbe essere, scritto, controllate sempre.

CSF (come si fa)

Fugzu

Allan Bay

David Monniaux

Gastronomia È facile confondersi, ma quella originale è solo francese

Tre piatti a base di frattaglie, 2 arcaici e buonissimi e uno moderno: la trippa. Vediamo come si fanno. Midollo all’antica. Ricetta per 4 persone. Sbollentate 16 tranci di ossi con midollo per 2’ in acqua bollente leggermente salata e scolateli. Metteteli in una teglia, col buco verso l’alto, copriteli a filo di brodo di carne, unite poco concentrato di pomodoro stemperato in acqua e cuocete scoperto a fuoco

dolcissimo per un’ora, unendo poco brodo se asciugasse troppo. Spolverizzate di pepe e di prezzemolo tritato e servite. Con un coltellino estraete il midollo e spalmatelo su fette di pane casereccio tostato. Non dimenticate di fare scarpetta col fondo che resta nella pentola. Piedini alla milanese. Per 2 persone. Lessate 4 piedini di vitello (o di maiale) per 2 ore in acqua leggermente salata con 1 cipolla picchettata con 2 chiodi di garofano, 1 carota, 1 gambo di sedano e 1 mazzetto guarnito. Scolateli e lasciateli raffreddare. Disossateli completamente, è meno arduo di quanto si possa pensare, cercando di tenerli più interi possibile (ma anche se sono a pezzetti il risultato non cambia). Infarinateli, passateli in uovo sbattuto e nel pangrattato e fateli cuo-

cere in abbondante olio d’oliva non extravergine e burro per 6’ a fuoco medio, rigirando spesso. Spolverizzateli con poco sale e serviteli. Trippa istantanea. Per questa trippa occorrono 2 particolari tagli: una (piccola) parte del rumine o chiappa che si chiama cordone, che è una specie di escrescenza che assomiglia al cordone di un filetto; e la cuffia o reticolo o beretta (la fantasia di noi italiani per la terminologia non ha limiti). Sono tagli che accettano una cottura di 2’. Gli altri chiedono da 4 ore in su. Ecco la ricetta per 4 persone. Tagliate sottile 800 g di cordone e cuffia di trippa. Fate saltare tutto in una padella unta con poco burro per 1’, unite 6 cucchiai di soffritto e cuocete per 2’. Regolate di sale e pepe e servite spolverizzando con prezzemolo tritato.

Ballando coi gusti Crocchette e polpette: piacciono a tutti. Ecco qui di seguito due semplicissime proposte.

Crocchette di zucchine

Polpettine alla besciamella

Ingredienti per 4 persone: 500 g di zucchine · 300 g di patate · pangrattato · 2

Ingredienti per 4 persone: 400 g di carne di manzo tritata · 50 g di grana grattu-

uova · noce moscata · farina · olio per friggere · sale · pepe in grani.

giato · 2 uova · 1 tazza di besciamella · limone · pangrattato · noce moscata in polvere · olio di oliva · sale e pepe.

Mondate e lavate le zucchine, grattugiatele e distribuitele su un canovaccio pulito dove le lascerete ad asciugare. Lavate e lessate le patate in abbondante acqua salata, sbucciatele e passatele allo schiacciapatate. Raccogliete il puré ottenuto in una terrina e aggiungete poco pangrattato. Unite le zucchine al composto di patate, aggiungete le uova leggermente sbattute, insaporite con una macinata di pepe, un pizzico di sale e una grattata di noce moscata. Mescolate per amalgamare gli ingredienti. Formate con le mani delle crocchette dalla forma arrotondata e leggermente schiacciata; passatele nella farina, quindi friggetele, poche per volta, in olio ben caldo. Prelevate le crocchette con una schiumarola, fatele asciugare su carta assorbente da cucina e servitele ben calde.

In una terrina amalgamate la carne con il grana, le uova sbattute, la besciamella e un pizzico di noce moscata; salate e pepate. Dovrete ottenere un composto omogeneo e consistente. Formate con l’impasto delle palline un po’ schiacciate; passatele nel pangrattato, premendo in modo da rivestirle completamente. Scaldate olio in abbondanza all’interno di un tegame e cuocetevi le polpettine, girandole su entrambi i lati in modo da dorarle uniformemente. Prelevatele dal tegame con una schiumarola e passatele su un foglio di carta assorbente da cucina per eliminare l’unto in eccesso. Disponetele su un piatto da portata, salatele e servitele accompagnando con spicchi di limone.


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Ambiente e Benessere

La grande passione dei Galli Il vino nella storia Dalla colonizzazione dei Focesi alla sconfitta di Vercingetorige – Prima parte Davide Comoli Tito Livio (59 a.C.-17 d.C.) nel suo Ad Urbe condita libri, scrive che: «Fu l’amore per il vino che spinse le truppe galliche di Brenno a marciare su Roma nel 390 a.C.». Lo storico riprende il luogo comune dello smodato desiderio dei Galli per il vino. In ogni caso non c’è nessun dubbio nell’affermare che le popolazioni della Gallia conoscessero e apprezzassero le virtù di questa bevanda. Tutto incominciò (si presuppone) a Marsiglia, o meglio a Massalia, intorno al 620 a.C. circa (più o meno il periodo della fondazione di Roma), quando un gruppo di coloni Focesi provenienti da quelle che oggi sono le coste ovest dell’odierna Turchia, sbarcarono in quel lembo di Provenza. I coloni Greci, per ottenere migliori frutti dalle viti selvatiche, insegnarono alle popolazioni locali l’arte della potatura. Due generazioni dopo la fondazione della colonia e la conquista di un territorio più vasto, i vini di Marsiglia cominciarono ad essere esportati. Le prime tracce di anfore vinarie provenienti da Massalia (risalenti al VI sec. a.C.) sono state ritrovate principalmente lungo l’asse del Rodano. Com’era quello che potremmo chiamare il primo gran crù della storia vitivinicola francese? La risposta la troviamo nel Sapienti a banchetto opera dell’erudito Ateneo di Naucrati (sec. IIIII). Nell’opera uno dei convitati parlando appunto di questo vino dice: «È buono, ma ce n’è poco. È spesso (pachus) e corposo (sarkôdès)». Il commento è breve, ma le impressioni di spessore e cor-

posità o meglio di consistenza – probabilmente dovuta alla presenza di estratto secco e glicerina – tradotti dall’aggettivo sarkôdès, ci fanno pensare a un vino di buona qualità, che in bocca dà una sensazione di pienezza e volume (pachus). Molto probabilmente il vino massaliota apparteneva a un genere di vino molto simile ai «passiti» moderni, molto adatti al trasporto, come lo erano i vini greci di Thasos e Chios. Avendo bisogno di molte cure e manodopera, senza escludere la lenta fermentazione alcolica che durava dei mesi, si pensa che la produzione di questo vino fosse abbastanza limitata. I Greci di Marsiglia, trovarono tra i Celti-Liguri clienti entusiasti, amanti del vino, ai quali trasmisero il loro modo di vivere e il loro sapere. Tra i vocaboli pervenutici dai vari dialetti celtici, si è trovata spesso, quando si parlava di vino, la parola greca emphyteuô (innestare), il che ci fa pensare che oltre alla tecnica della potatura i greci già ben conoscevano anche l’arte dell’innesto («terebra gallica» (trapano gallico) Plinio, Nat. Hist., XVII, 25.116). Lo storico Trogo Pompeo, originario di Vaison-la-Romaine è cittadino romano all’epoca di Augusto, nel I sec. d.C. scrive: «I Galli appresero dai Focesi a vivere in un modo più civile, dopo aver abbandonato le loro barbare abitudini essi impararono a potare la vigna». Vaison-la-Romaine (Côtes du Rhône) era la capitale dei Voconzi, tribù alleata dei romani, famosa per le sue terme ma anche per il suo vino prodotto con l’Helevennaca. Nel suo XIV libro della Naturalis Historia, Plinio ci descri-

Il principe gallo Vercingetorige si arrende a Cesare nel dipinto di Lionel Royer, 1899, Musée Crozatier a Le Puy.

ve il modo in cui si produce questo vino: «Esiste nella provincia Narbonese un vino dolce, in particolare tra i Voconzi, alcuni per ottenerlo lasciano i grappoli più a lungo sul ceppo torcendo il peduncolo, altri tagliano per lungo il sarmento, in modo che non porti più linfa, altri ancora fanno seccare l’uva su dei teli, ma tutti usano l’helvennaca» (Nat. Hist., XIV, 83.84). Come i nostri lettori noteranno, le tecniche per la produzione dei vini passiti non sono poi molto cambiate negli ultimi 2000 anni. I ritrovamenti archeologici confermano una vitivinicoltura indigena: sono stati scoperti, sui siti celto-liguri, resti di vinaccioli e sarmenti carbonizzati, ma anche tracce di probabili vigneti e degli utensili (zappe e roncole), sia in Linguadoca sia in Provenza, e in particolare nell’area del basso Rodano. I ritrovamenti fatti a Lattes (Lattara) nella Linguadoca orientale, che sono datati al III sec. a.C. circa, e quelli di

Nîmes, di un secolo dopo, dimostrano quanto fosse importante la coltivazione della vite per le popolazioni locali. La Linguadoca fu conquistata dalle legioni romane tra il 123-124 a.C. e come scrive Cicerone nel suo: De Republica (3, 9, 11), i Romani proibirono agli indigeni di piantare la vigna, riservando il diritto ai romani che si erano stabiliti nella regione e ai loro alleati delle varie tribù celtiche. È grazie alla conquista romana della Gallia meridionale che il vino italiano penetra nella Gallia interiore in grande quantità, generando un vero fiume di vino. Archeologi francesi hanno stimato in circa 120mila ettolitri (600mila anfore) per anno (il doppio della produzione ticinese) la quantità di vino esportata dall’Italia centrale verso la Gallia tra il 120 e il 50 a.C. Migliaia le anfore vinarie intere o in cocci che sono state trovate, cocci in quanto i Galli (antenati dei moderni sabreurs) sciabolavano il collo delle anfore durante i loro banchetti.

Il prezioso liquido veniva scambiato con i mercanti etruschi o romani, con pelli, minerali e con degli schiavi. Diodoro Siculo, storico greco (8020 a.C.) contemporaneo di Cesare e Augusto, autore di Biblioteca storica (storia universale dall’età preistorica alle guerre galliche) composta da quaranta libri (6030 a.C.) di cui però ci rimangono solo i primi cinque, riporta (forse in modo eccessivo) note sull’intemperanza dei Galli, che senza vergogna scambiavano un giovane fanciullo per un’anfora di vino. Questo traffico di schiavi – è stato dimostrato – provocò una profonda instabilità in Gallia, mosaico di una sessantina di tribù diverse, più o meno autonome, alla vigilia delle guerre galliche. Cesare cominciò la sua campagna contro i Galli per contrastare la migrazione degli Elvezi guidati dal vecchio Divicone, che già aveva sconfitto i romani di Cassio nella battaglia di Agen nel 107 a.C., (nel suo De bello gallico Giulio scrive: «Gli Elvezi senza dubbio sono i più forti tra tutti i Galli»). Cesare riuscì a fermare l’avanzata degli Elvezi durante il guado del fiume Saona, dove vivevano le tribù dei Sequani e degli Edui, aprendo così per Roma la possibilità di sviluppare un grande mercato economico, soprattutto legato al commercio del vino. Da qui si aprì anche la possibilità di creare una via di terra sicura per raggiungere la Spagna. Ironia della storia, le monete ritrovate ad Alesia, dopo la sconfitta di Vercingetorige (principe e condottiero gallo) portano su un lato la figura di un’anfora vinaria, simbolo di ricchezza e potere. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Crociera nel Mar Baltico

Tagliando di prenotazione

Hotelplan Per i lettori di Azione, Hotelplan organizza dal 26 luglio al 5 agosto 2016

Desidero prenotare la crociera Costa lungo le sponde del Mar Baltico:

Un suggestivo itinerario vi condurrà sulle rotte degli antichi mercanti, alla scoperta delle più belle capitali del Baltico. Il mare lega fra loro le mete del nostro viaggio, in maniera storica, geografica e culturale. Un’opportunità unica, per un caleidoscopio di paesaggi. La prima tappa sarà la capitale svedese (nella foto) che si sviluppa su 14 isole e vanta un cuore urbano medievale fra i più grandi d’Europa. D’estate come d’inverno, Stoccolma offre un volto inconsueto di natura e cultura. Si visiterà poi la briosa capitale dell’Estonia – Tallin – città dall’illustre passato e dall’affascinante atmosfera. La nave proseguirà per San Pietroburgo, uno dei principali centri culturali russi, dove si potranno ammirare i parchi e Palazzi storici, le residenze degli Zar e il meraviglioso Museo Ermi-

tage. Helsinki invece, deve il proprio fascino alla incomparabile posizione sul mare. Cuore della vita culturale del paese, la capitale finlandese è una grande metropoli che conserva nella piazza del Senato splendidi esempi di neoclassicismo architettonico. La nave attraccherà poi a Riga, città dalla storia antichissima che quest’anno sarà capitale europea della cultura. Questo itinerario vi porterà poi a conoscere anche delle località meno conosciute, come Klaipeda in Lituania, Gdynia in Polonia e Ronne in Danimarca. Un viaggio che vi conquisterà e regalerà momenti indimenticabili. La nave Costa Pacifica ha cabine spaziose che dispongono di bagno o doccia/WC, climatizzazione, TV, telefono, minibar, cassaforte, asciugacapelli, servizio in cabina 24h/24. Inoltre, offre 5 ristoranti (di cui due a

.– ros di CHF. 50 ig M lo a g re a M Cart tro l’8.4.2016 n e i n io z ta o n per pre

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un interessante itinerario fra le capitali Baltiche

pagamento su prenotazione), 13 bar, di cui un Cognac & Cigar Bar e un Coffee & Chocolate Bar, 4 piscine (di cui 2 con copertura semovente), 5 vasche

idromassaggio, centro benessere. Fra le attività di divertimento, la sera ci sono spettacoli presso il teatro e musica nelle varie sale. Ci sono poi casinò e discoteca. Mentre per chi volesse praticare dello sport o rilassarsi, non c’è

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30 luglio San Pietroburgo (Russia) arr. 09.00 31 luglio San Pietroburgo (Russia) part. 18.00 1. agosto Tallin (Estonia) arr. 08.00 - part. 13.00 2 agosto Riga (Lettonia) arr. 09.00 - part. 17.00

3 agosto Klaipeda (Lituania) arr. 09.00 - part. 20.00 4 agosto Navigazione 5 agosto Kiel (Germania) arrivo alle 18.00

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Lo scorpione Abarth colpisce ancora Motori Presentata a Ginevra non solo la Fiat 124 «spider», ma anche la versione più grintosa «rally»

Mario Alberto Cucchi Al Salone internazionale dell’automobile di Ginevra che si è tenuto ai primi di marzo lo scorpione Abarth ha colpito ancora. Sulle sponde del lago Lemano era infatti attesa «solo» la Abarth Fiat 124 spider, ma a sorpresa sotto i riflettori le è stato affiancato un grintoso prototipo che non poteva certo passare inosservato. Stiamo parlando della Abarth 124 rally. «Sinistra 4 taglia, 30 attenzione salto, destra 5 sinistra 3 chiude, 100, destra 2 non tagliare…» Questo l’immaginario dialogo tra il pilota e il navigatore a bordo di un’auto da rally. Guardando il grintoso prototipo rosso e giallo marchiato Abarth Fiat 124 rally sembra quasi di sentirli.

«A oltre quarant’anni dalla sua ultima gara ufficiale, il Rally di Montecarlo del 1976, l’Abarth 124 rally torna con la stessa filosofia: collaudare in condizioni estreme le soluzioni tecniche delle vetture stradali e garantire a tutti i clienti Abarth l’eccellenza delle

Per la Rally, il potente motore 1800 bialbero turbo a iniezione diretta può erogare fino a una potenza di 300 cavalli prestazioni e la massima affidabilità» spiegano gli uomini dello scorpione. Sotto il cofano, un potente motore

1800 bialbero turbo a iniezione diretta che grazie a differenti mappature è in grado di erogare una potenza massima di ben 300 cavalli. Il cambio non è da meno: sequenziale a sei marce con shift paddles. Un’automobile vera, prenotabile in Abarth dai piloti che vogliono preparare il debutto nella stagione dei rally 2017. Alla portata di molti più automobilisti è invece l’elegante Abarth 124 spider bianca e nera. Performance, cura artigianale e tecnologia sono il cuore di ogni Abarth. La 124 Spider dello scorpione può contare su un differenziale meccanico, su un peso di appena 1060 kg grazie alla sua costruzione che impiega per il 70 per cento materiali leggeri, su una per-

fetta ripartizione delle masse tra asse anteriore e posteriore, su sospensioni con dynamic system e su efficaci freni Brembo. Sotto il cofano, un 1.4 MultiAir con una potenza massima di 170 cavalli che è abbinato a un cambio manuale sportivo a sei rapporti o in alternativa a un cambio automatico sequenziale. Buone le prestazioni: scatta da 0 a 100 km/h in 6,8 secondi. La Abarth 124 spider sarà disponibile a settembre con prezzi a partire da circa 40mila franchi. Se a Ginevra Abarth ha puntato sulle emozioni, altre Case automobilistiche hanno invece puntato sull’ecologia anticipando le proprie strategie future. Kia, ad esempio, ha fatto sapere che presenterà 11 nuovi modelli motorizzati con unità ibride, elettriche

o ibride plug-in entro il 2020. Niro, il crossover compatto ibrido, e Optima plug-in sono solo le prime due novità di un’offensiva green senza precedenti. Audi ha ribattuto spiegando che «nel solo 2016 investiremo oltre tre miliardi di euro per la mobilità del futuro e spingeremo forte sull’elettrificazione e sulla digitalizzazione dei nostri prodotti». A dichiararlo è stato il presidente Rupert Stadler in occasione della conferenza annuale sul bilancio. Numeri positivi anche per le vendite 2015 nell’Unione Europea delle vetture con alimentazioni alternative che sono cresciute del 47,7 per cento lo scorso anno, totalizzando 363’422 unità. Nel computo sono inclusi veicoli ibridi, ibridi plug-in, elettrici e veicoli a idrogeno.


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Ambiente e Benessere

Io e te: Amicus Mondoanimale Nel 2016 nuove regole di registrazione in Ticino per coloro che adottano il primo cane

Maria Grazia Buletti Nel gennaio del 2013 scadde il termine transitorio per la registrazione di tutti gli equidi alla banca dati (espressamente creata per loro) Agate/Bdta. Era l’occasione per mettere ordine fra i proprietari di cavalli, pony, muli, asinelli e bardotti, attraverso l’obbligo di registrarli nella banca dati sul traffico di animali. L’obbligo di compiere questa registrazione aveva l’obiettivo di consentire una reazione più adeguata nei confronti di minacce in caso di epizoozie, momenti in cui è necessario poter rispondere a domande come: «Da dove provengono gli equini colpiti? Con quali altri animali sono entrati in contatto? Altre aziende sono minacciate dall’epizoozia?». Grazie al registro Bdta, obbligatorio per i detentori di tutti gli equidi, dunque oggi è più facile rispondere rapidamente a questi quesiti, e si possono di conseguenza attuare in queste occasioni misure mirate. Adesso tocca al censimento dei cani, fino ad ora registrati dal veteri-

nario di fiducia nella banca dati Anis SA (www.anis.ch), la quale annuncia che «dal 1° gennaio 2016 Anis SA sarà sostituita da una nuova banca dati denominata Amicus». La novità è confermata dall’Ufficio del veterinario cantonale: «Il 4 gennaio 2016 entrerà in funzione la nuova banca dati Amicus in sostituzione dell’attuale banca dati Anis». L’introduzione di questo nuovo sistema di registrazione del proprio cane sarà accompagnata da un cambiamento di procedura e toccherà esclusivamente i nuovi proprietari: «I nuovi proprietari di cani devono chiedere la registrazione dei loro dati personali tramite la Cancelleria comunale del loro paese di domicilio, mentre ai veterinari spetta unicamente il compito dell’identificazione del cane e della registrazione della tenuta nella banca dati». Questa registrazione deve avvenire dunque una sola volta, ripete e chiarisce Anis. Per coloro i quali possedevano un cane prima del 1° gennaio 2016 non cambia nulla, visto che i suoi dati

Convivenze Tenere un cane o un gatto in casa non aumenta il rischio che i bambini diventino allergici agli animali domestici, anzi: può proteggerli nei confronti di questa eventualità. È quanto dimostra un recente studio pubblicato da «Clinical & Experimental Allergy», nel quale si rassicurano i genitori ansiosi di sapere se accogliere un animale fra le mura domestiche possa esporre i propri bimbi al pericolo di diventare allergici facendoli crescere fianco a fianco del loro migliore amico animale. Gli

studiosi hanno seguito e visitato un gruppo di bambini dalla nascita fino all’età adulta: all’età di 18 anni, 565 partecipanti a questa ricerca avevano fornito campioni di sangue nei quali è stata esaminata la presenza di anticorpi agli allergeni del pelo di cane e gatto. I risultati hanno confermato che l’esposizione al pelo di un animale nel primo anno di vita è il periodo cosiddetto «cruciale» per i bimbi e che può essere persino valutato come una protezione nei confronti dello sviluppo di possibili allergie.

saranno automaticamente trasferiti da Anis ad Amicus. Una volta registrati i dati personali in Cancelleria comunale, il proprietario del cane potrà recarsi dal veterinario per l’inserimento del microchip e per la sua successiva registrazione nella banca dati Amicus. Anche l’Ufficio del veterinario cantonale puntualizza che la registrazione presso il Comune «serve a inserire nell’anagrafe canina Amicus i dati personali esatti, che devono corrispondere a quelli del controllo degli abitanti». In questo modo è possibile garantire una buona qualità dei dati. A questo punto, il compito del veterinario sarà naturalmente quello di verificare la registrazione presso la Cancelleria del Comune, prima di fissare un appuntamento: «Se non fosse il caso, è bene chiedere al proprietario di provvedervi prima dell’appuntamento». Solo in casi particolari il veterinario può incaricarsi di prendere contatto con il front desk della banca dati per registrare direttamente i dati personali del proprietario, questa prestazione di carattere eccezionale può essere però fatturata al cliente. Secondo l’Ufficio del veterinario cantonale Amicus «poggia su un sistema informatico più moderno e performante: essa permette di svolgere pratiche amministrative attraverso l’interconnessione con i sistemi informatici dei servizi veterinari, delle cancellerie comunali e dei veterinari clinici, soddisfacendo inoltre le attuali norme in materia di sicurezza informatica». Altro aspetto importante di questo cambiamento è la garanzia della continuità: «Tutti i dati già registrati in Anis saranno trasferiti automaticamente nella nuova banca dati e saranno immediatamente disponibili per i Comuni, mentre l’accesso rimane in-

Un lettore di microchip. (Sternrenette)

variato, con stessi Pin e parola chiave invariata». A livello puramente tecnico, esiste inoltre la possibilità di interfacciare il software comunale con Amicus: «I Comuni che utilizzano un proprio software per la fatturazione della tassa sui cani possono di principio esportare i dati dal proprio sistema informatico alla banca dati Amicus». Infine, af-

finché tutto si svolga in modo lineare e a beneficio del censimento dei nostri amici a quattro zampe: «La ditta Identitas è a disposizione per garantire il funzionamento dell’interfaccia». I nuovi proprietari di cani dovranno dunque annunciarsi ai Comuni che, a loro volta, sono invitati a comunicare a Identitas il nome del software usato e una persona di contatto.

Giochi Cruciverba In Grecia gli sposi, come augurio di una lunga vita insieme, devono fare… Scopri cosa, leggendo a soluzione ultimata le lettere evidenziate. (Frase: 3, 4, 7, 3’6)

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ORIZZONTALI 1. Personaggi delle fiabe 7. Le iniziali dell’attrice Rossellini 8. Niente a Parigi 9. Felici se si anagramma già 11. Due in centro 12. Estesa, vasta 15. Canna inglese 16. Ha 114 sure 20. Presente per le feste 22. Con «terno» fanno... dentro 23. Trasformano una sala in una stalla 25. Sviluppate verticalmente 26. Ha un buco in testa 27. Sulle spese... in tempo di crisi 29. Porto della Gran Bretagna 31. Permettono di rilanciare 32. Affilare, levigare VERTICALI 1. Più tiri e più si accorcia 2. Le vicende dei romanzi 3. Il... trilussiano 4. Il nome della protagonista di Pane amore e fantasia 5. Possessivo inglese 6. Preposizione francese 10. L’eccesso nei prefissi 13. Modello perfetto 14. Città al centro della Spagna 16. Isola dell’arcipelago delle Bahamas 17. Astro al… tramonto 18. Confina con il Ciad 19. Dignità 21. Pronome personale 24. Articolo spagnolo 26. Nonna, antenata 28. Le iniziali del politico Tremonti 30. Poco oltre

Sudoku Livello per geni Scopo del gioco

Completare lo schema classico (81 caselle, 9 blocchi, 9 righe per 9 colonne) in modo che ogni colonna, ogni riga e ogni blocco contengano tutti i numeri da 1 a 9, nessuno escluso e senza ripetizioni.

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Soluzione della settimana precedente

UN PO’ DI UMORISMO – Il padre al figlio: «Giorgio Washington alla tua età era il primo della classe!» – «Sì papà ma… Resto della frase: …ALLA TUA PRESIDENTE DEGLI STATI UNITI. A P I S G E T T I

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–––––––––––––––––––––––––––––––––––– Ingredienti 1 cipolla grossa, 50 g di pancetta a dadini, 1 cucchiaio di burro per arrostire, 120 g di lenticchie verdi o marroni, 1 l di brodo di pollo, sale, 300 g di patate resistenti alla cottura, 400 g di filetti di salmone senza pelle, 40 g di burro morbido, 25 g di farina, 100 g di crème fraîche, 1 cucchiaio di senape granulosa, 2 rametti d’aneto

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Preparazione Tritate la cipolla. Rosolate la pancetta a dadini nel burro. Aggiungete la cipolla e le lenticchie e continuate brevemente la rosolatura. Bagnate con metà del brodo e fate cuocere per ca. 30 minuti finché le lenticchie risultano morbide. Salate solo a fine cottura e scolate il liquido rimasto. Tagliate le patate a pezzettoni e lessateli nel brodo restante finché risultano quasi morbidi. Tagliate il salmone a pezzi grossi. Lavorate burro e farina. Aggiungete questo composto, poco alla volta, al brodo di patate e fate ridurre finché la salsa diventa cremosa. Unite la crème fraîche e la senape e continuate la cottura per altri 5 minuti. Aggiungete il salmone e le lenticchie. Togliete la padella dal fuoco. Fate cuocere il pesce per 10 minuti. Insaporite e guarnite con l’aneto. Tempo di preparazione 15 minuti, cottura 40 minuti Per persona ca. 34 g di proteine, 42 g di grassi, 30 g di carboidrati, 2700 kJ/650 kcal

Ricetta e foto: saison.ch

a s iu h c c a r a z z te a b li e r P in un tegame.


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Politica e Economia Primarie Usa Florida e Ohio, gli swing state decisivi per il voto presidenziale di novembre pagina 27

Libano ad alto rischio L’Arabia Saudita punta gli occhi sul Libano in mano agli Hezbollah, amici del regime di Damasco. In realtà il vero obiettivo di Ryiad è indebolire l’avversario Iran nella grande partita per l’egemonia regionale

Scandalo Brasile Il cerchio dell’inchiesta «Lava Jato» si stringe attorno a Dilma

Un contestato Piano B Il Governo presenta una soluzione su come regolare l’immigrazione, nel caso i negoziati con l’UE fallissero

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L’incontro fra Donald Tusk (a sinistra) e il premier turco Davutog˘lu. (AFP)

Ankara-Berlino, accordo sulla sabbia Crisi migranti È ad alto rischio l’intesa bilaterale in preparazione fra le parti. Incapace di gestire l’emergenza

profughi, l’Ue sta svendendo la propria anima all’autoritario e ambizioso Erdoğan

Lucio Caracciolo Con oltre 2 milioni e 700 mila migranti disseminati sul suo territorio, la Turchia dispone di una «bomba atomica» virtuale. E ne è ben consapevole, decisa a sfruttarne per intero il potenziale. Lo si sta vedendo in questi giorni, nel corso dei defatiganti negoziati con la Ue sul destino dei «suoi» migranti – in particolare siriani in fuga da una mattanza infinita. La trattativa è asimmetrica. Da una parte Ankara, decisa a spuntare il più alto prezzo possibile in cambio del mantenimento sul proprio territorio del più ampio numero accettabile di disperati in fuga dalle guerre e dalla miseria. Dall’altra parte ventotto paesi divisi su tutto, che cercano di scaricare il dramma migratorio sui vicini, arrivando fino a erigere barriere fisiche. E usando i gas lacrimogeni per ricacciare indietro gli aspiranti rifugiati. La questione è ormai decisiva per la stabilità di diversi governi europei, in particolare di quello tedesco. Ciò spiega perché il lungo vertice d’inizio marzo, pilotato dal presidente del Consiglio Eu-

ropeo, il polacco Donald Tusk – mirante a chiudere la via migratoria dei Balcani occidentali con la Turchia, che si sarebbe impegnata a riprendersi i migranti non siriani – sia stato di fatto sabotato dalla cancelliera Angela Merkel. Berlino ha scelto infatti il percorso bilaterale, impostando una trattativa diretta con la controparte di Ankara, guidata dal primo ministro Ahmet Davutoğlu. Il quale ha ricevuto istruzioni durissime dal suo mentore e padrone, il presidente Recep Tayyip Erdoğan. Il risultato è ancora in forse, ma l’intesa in corso di definizione fra le parti va molto al di là delle proposte messe sul tavolo europeo da Tusk. In sostanza, la Turchia si impegnerebbe a trattenere sul proprio territorio non solo i migranti non-siriani, ma anche i richiedenti asilo siriani. In cambio, Ankara otterrebbe sei miliardi di dollari – il doppio di quanto originariamente previsto dagli europei – l’eliminazione dei visti d’ingresso nello spazio Schengen per i cittadini turchi e un avanzamento del processo di avvicinamento alla Ue, in stallo ormai da anni. Tutto questo mentre il regime di Erdoğan sta rivelando sempre più

apertamente il suo volto autoritario. A negoziati con l’Europa in corso, infatti, la polizia irrompeva nella sede del giornale di opposizione «Zaman» per «normalizzarlo». La colpa di quella testata sarebbe di appartenere al cosiddetto «Stato parallelo» di Fethullah Gülen, già amico del «sultano» Erdoğan oggi autoesiliato in America. Ma l’Unione Europea sembra aver definitivamente abbandonato il suo approccio «valoriale», mettendo da parte ogni illusione di offrirsi al mondo come serbatoio di soft power liberale e democratico. Optando invece per la dura Realpolitik. Quando i governi si sentono vitalmente minacciati, non c’è più spazio per i discorsi della domenica e tutto si riduce alla più brutale negoziazione del quid pro quo. L’intesa bilaterale in preparazione fra Ankara e Berlino – quest’ultima ormai pensa di poter parlare a nome del resto d’Europa – è tuttavia ad alto rischio. Anzitutto sul fronte migratorio. L’idea di respingere tutti i migranti, aspiranti rifugiati siriani inclusi, dallo spazio Schengen – ovvero dalla sua frontiera meridionale, quella greca – è palesemente in contrasto con le regole

internazionali vigenti intorno al diritto d’asilo. La Turchia non è pienamente parte della Convenzione di Ginevra che regola la materia. Il tentativo di aggirare il problema con una dichiarazione greca che dichiarerebbe la Turchia «rifugio sicuro» per i richiedenti asilo appare piuttosto improbabile. Inoltre, l’idea di ammettere nello spazio Schengen oltre 70 milioni di cittadini turchi potrebbe rivelarsi un boomerang. Le opinioni pubbliche europee, la tedesca in particolare, non sembrano pronte ad aprire le braccia a tanti musulmani. Un afflusso libero di questo tipo rafforzerebbe probabilmente gruppi e partiti xenofobi. Ma Erdoğan tiene in modo particolare a tale clausola, che gli servirebbe come valvola di sfogo. Infatti il mondo degli affari turco agogna il libero accesso al mercato europeo, specie nella difficile congiuntura economica attuale. Per il presidente turco sarebbe un modo per recuperare sul fronte del business parte di quel consenso perduto negli ambienti della borghesia progressiva turca a causa delle sue scelte autoritarie. Infine, l’accelerazione del percorso verso l’ingresso della Turchia nell’U-

nione Europea si scontra con il veto di Cipro e della stessa Grecia, oltre che con l’indisponibilità di molti altri governi europei, i quali per ora preferiscono celarsi dietro la barriera greco-cipriota. Sarebbe in ogni caso difficile spiegare perché mai questa Turchia autoritaria e avventurista sul fronte bellico siriano dovrebbe essere premiata con il bollino d’accesso all’Ue. Vero è che ormai i canoni di democrazia e libertà richiamati dai trattati europei non sono apparentemente più così vincolanti: uno sguardo all’Est, in particolare alla Polonia, all’Ungheria e alla Slovacchia, rivela come in alcuni Stati membri la deriva autoritaria, intollerante e fascisteggiante sia molto avanzata. Nel medio periodo, il dramma dei profughi e degli altri migranti potrebbe essere alleviato dalla pacificazione del teatro siro-iracheno. Ne siamo però molto lontani. E soprattutto, la Turchia non ha dismesso le sue ambizioni neoottomane in quegli spazi, alla ricerca di glorie e territori perduti dopo la Prima guerra mondiale. Per questo, ogni accordo stipulato oggi con Ankara è fondato sulla sabbia.



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Politica e Economia

E il vincitore prenderà tutto Usa 2016 Donald Trump e Hillary Clinton guidano la classifica nelle primarie dove si voterà in Florida e Ohio,

due Stati importanti che possono fare la differenza il prossimo novembre

Federico Rampini «Adesso non date a me la colpa se il partito repubblicano si sta sfasciando», ha detto Barack Obama durante una conferenza stampa alla Casa Bianca mentre accoglieva il premier canadese Trudeau. Ma al tempo stesso il presidente si è detto «preoccupato» dello spettacolo dato dalla destra e in particolare dal fenomeno Trump, perché «la democrazia americana ha bisogno di un partito repubblicano che funzioni». In quanto alle tensioni e paure legate all’immigrazione, nonché alle posizioni protezioniste contro il libero scambio (che per la verità uniscono Trump a Sanders) il presidente ha detto «non è costruendo muri e rinnegando i nostri valori che risolveremo i problemi». La paura di un’America che «volti le spalle al resto del mondo», si è fatta sempre più viva alla vigilia del Supermartedì che si è svolto il 2 marzo in 12 Stati. Florida e Ohio, due Stati importanti, tengono le primarie questo 15 marzo. Sono due «swing-States», in bilico tra destra e sinistra, di quelli cioè che possono davvero fare la differenza a novembre. Inoltre sono Stati rappresentativi di due realtà importanti: il Sud multietnico a forte percentuale ispanica; il Midwest industriale. Per finire sia la Florida che l’Ohio applicano la regola (rara in queste primarie) del «winner take all»: chi arriva primo acchiappa tutti i delegati. Se in campo repubblicano dovesse vincere nuovamente Donald Trump, diventerebbe quasi impossibile fermare la sua strada verso la nomination repubblicana. Il mondo intero deve tremare?

La strana coppia Trump-Sanders demonizza il liberismo. Cioè l’epoca della globalizzazione Il primo a lanciare l’allarme è stato Larry Summers, con un’angolatura precisa: la strana coppia Donald Trump + Bernie Sanders può segnare la parola fine per un’intera epoca segnata da liberalizzazioni, apertura delle frontiere, prosperità condivisa. La chiamavamo globalizzazione. Per chi non ricorda questo nome: Summers, oggi docente a Harvard, fu segretario al Tesoro nell’ultima Età dell’Oro per l’economia americana, gli anni di Bill Clinton alla Casa Bianca, del trattato Nafta che creò una vasta area di libero scambio con Canada e Messico, seguito da altri trattati simili e infine dall’ingresso della Cina nella World Trade Organization (Wto). Tutte cose che oggi vengono demolite, demonizzate, dai due candidati che hanno vinto le primarie repubblicana e democratica nel Michigan. Trump e Sanders hanno espugnato uno degli Stati più industriali d’Ame-

rica (c’è Detroit, capitale dell’auto) con un messaggio simile. La classe operaia è stata tradita, i suoi salari ristagnano, i suoi posti di lavoro sono minacciati, l’insicurezza assedia un intero ceto sociale che è parte della «middle class». La colpa è della Cina, del Messico. E delle multinazionali che tradiscono l’America, chiudono qui e riaprono là, poi eludono pure le tasse. Queste frasi le hanno ripetute, identiche, Trump e Sanders, il demagogo di destra e il radicale di sinistra. Il Michigan li ha ascoltati, e votati. L’unica differenza tra i due, su questo terreno, è che Trump dà la colpa anche agli immigrati, Sanders no. Ma quando parlano di trattati di libero scambio, compreso il Ttip tuttora negoziato con l’Europa, i due sono allineati: mai più. L’allarme di Summers comincia a diffondersi. Eduardo Porter sul «New York Times» ricorda cosa accadde l’ultima volta che l’America si convertì al protezionismo: era il 1930, furono varati i dazi punitivi della legge SmootHawley, il crollo degli scambi mondiali contribuì alla Grande Depressione ancor più del crac di Wall Street (1929). Le preoccupazioni dell’establishment affiorano in una lunga analisi del «Wall Street Journal» intitolata: «Trump può scatenare una guerra commerciale?» Il capitalismo americano è stato antiTrump ma ora comincia a prendere le misure di quello che potrebbe essere il prossimo presidente degli Stati Uniti. «Che cosa farebbe appena insediato?» si chiede il «Wall Street Journal». E risponde così: «Mentre la costruzione del Muro col Messico non è praticabile in tempi rapidi, un Presidente Trump avrebbe il potere di provocare delle guerre commerciali. In base alla Costituzione è il Congresso che legifera sul commercio estero, però dal Trade Act del 1974 i presidenti hanno potuto assumere poteri unilaterali in questo campo. Invocando l’interesse nazionale, i presidenti possono imporre restrizioni agli scambi con altri Paesi. Dal terrorismo all’inquinamento, dalla sicurezza dei consumatori ai diritti dei lavoratori, un Presidente Trump potrebbe trovare ogni sorta di pretesti per varare azioni unilaterali contro i nostri partner stranieri». Per le grandi imprese, è Hillary Clinton a dare più garanzie contro un salto nel buio. Il suo cammino verso la nomination procede grazie agli Stati del Sud e agli afro-americani (ha stravinto nel Mississippi). Ma l’abbraccio dell’establishment può renderla ancora più sospetta per la base operaia delusa e arrabbiata. A destra l’unico che ancora avrebbe qualche chance di sfidare Trump è il senatore del Texas, di origine cubana, Ted Cruz. Ma fino a poco tempo fa Cruz era considerato il più pericoloso, il più estremista, dai suoi compagni di partito. Cruz di questo si fa un vanto: «Sono io il vero pericolo per l’establishment. A Washington i politici di mestiere sono terrorizzati dal mio

Il 15 marzo votano il Sud multietnico e a forte percentuale ispanica (Florida) e il Midwest industriale (Ohio). (AFP)

successo». Avendolo seguito nel suo Fort Alamo texano, alla Baptist University di Houston dove il pubblico era composto in prevalenza di evangelici, il linguaggio da predicatore di Cruz mi è rimasto impresso: «Ho due guide nella vita, la Bibbia e la Costituzione». Ancora più istruttivo è stato il suo discorso alla Conservative Political Action Conference (Cpac), il raduno degli ultrà del movimento conservatore dove Cruz ha stravinto i sondaggi di popolarità. In quell’ambiente i suoi attacchi a Trump sono stati una perfetta sintesi del Cruz-pensiero. Ha accusato il magnate immobiliare di: «flessibilità», «ambiguità sull’aborto», «oscillazioni sull’immigrazione», «valori morali tipicamente newyorchesi». Mentre altri tentano di screditare Trump frugando nei suoi scandali privati (bancarotte, truffe plurime, cause per frode da parte degli studenti della sua pseudo-università, o degli immigrati stranieri sfruttati nei suoi cantieri), Cruz ha una linea di attacco diversa: «Trump non è un vero conservatore, solo io ho le credenziali in regola». Quando scivola sull’insulto personale, è per definire Trump «blasfemo, ignorante delle sacre letture». Lo ridicolizza perché il tycoon ossigenato inciampa quando cita il Deuteronomio. In politica estera, per Cruz non è un problema che Trump teorizzi l’uso della tortura contro i nemici dell’America; il senatore texano semmai vuole accreditarsi come più falco dei falchi, è lui ad avere lanciato l’espressione «farò brillare la sabbia del deserto a furia di bombe, per estirpare l’Isis». Non trova deplorevole che Trump insulti i messicani

e prometta la costruzione del Grande Muro anti-immigrati al confine Sud degli Stati Uniti. No, la sua critica è un’altra: «Quando un gruppo di repubblicani scellerati e traditori cercò l’accordo con Barack Obama sulla riforma dell’immigrazione, io sabotai quell’intesa e feci fallire ogni compromesso. Dov’era Trump? Lui staccava assegni a favore dei repubblicani moderati, fautori dell’accordo». Su Planned Parenthood, agenzia che assiste le donne per il controllo delle nascite: «Io la metterò fuorilegge, Trump è ambiguo». I valori etici «newyorchesi»? È la parola in codice con cui il profondo Sud evangelico allude al marcio nella Grande Mela: multietnica, piena di gay, tollerante e lassista. Questo è il senatore Cruz, che nel partito ha tradito tutti, pur di distinguersi come il più puro, il più religioso, il più fedele alla lobby delle armi. In ogni caso anche i sostenitori di Curz ormai non si fanno troppe illusioni. Più che a sconfiggere Trump puntano ad una «convention aperta». L’obiettivo è impedire che Trump raggiunga da qui alla fine delle primarie una maggioranza assoluta dei delegati. A quel punto, le regole del partito repubblicano dicono che la convention di luglio sarebbe «brokered», che noi traduciamo con «aperta» (letteralmente andrebbe tradotto con «intermediata, negoziata»). Di fatto significa che ci sarebbe alla convention una prima votazione in cui i delegati seguirebbero il mandato degli elettori: quindi Trump arriverebbe in testa, ma senza superare il 50%. Dalla seconda votazione in poi, i delegati acquisterebbero libertà di

voto. Quindi si aprirebbero i negoziati, i candidati piazzati al secondo o terzo o quarto posto potrebbero raggiungere accordi fra loro dietro le quinte, i capi partito riacquisterebbero un potere come mediatori, ecc. ecc. Potrebbe perfino emergere una nuova candidatura, di tipo istituzionale: per esempio quella del presidente della Camera, Paul Ryan, un moderato che considera Trump come una sciagura. Ma come reagirebbe la base? Se una convention aperta dovesse stravolgere il verdetto delle primarie, i seguaci di Trump si sentirebbero gabbati, defraudati dal solito establishment, dalle congiure del ceto politico. La via maestra per sconfiggere Trump dovrebbe essere un’altra: il ripudio da parte degli elettori. Le ragioni non mancano. Per esempio un’intervista esplosiva del procuratore di New York sullo scandalo della Trump University. È raro che i magistrati americani parlino dei processi in corso. E il procuratore Schneidermann è andato giù duro: la Trump University era una truffa dall’inizio alla fine, non aveva neppure il diritto di chiamarsi università, i diplomi erano fasulli, migliaia di iscritti sono stati derubati. Uno scandalo simile dovrebbe colpire Trump proprio nella sua credibilità, nel suo messaggio centrale: sono un imprenditore, fidatevi della mia efficacia, come ho vinto nel mondo degli affari così farò vincere l’America nel mondo. Se è un volgare imbroglione, il teorema si disintegra. Ma nel popolo entusiasta o arrabbiato dei seguaci di Trump, qualcuno è disposto ad ascoltare le notizie dissonanti? Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

La deriva libanese Medio Oriente L’Arabia Saudita sposta

la sua attenzione verso il Paese dei cedri. Obiettivo innalzare i toni dello scontro con Beirut e, di conseguenza, con Hezbollah (alleati della Siria) e l’Iran

Marcella Emiliani Lo schieramento di Hezbollah a fianco di Bashar al-Assad nel conflitto che tormenta la Siria da cinque anni sta trascinando il Libano alla deriva. Dal punto di vista economico, innanzitutto, visto che ormai i rifugiati siriani in Libano hanno superato il milione su una popolazione locale di 4,4 milioni di abitanti. In secondo luogo dal punto di vista politico-militare. Non è certo la prima volta che i conflitti regionali finiscono per destabilizzare il piccolo Paese dei cedri, ma mai come oggi si temono «i demoni» del suo passato sanguinoso fino a prefigurare la minaccia di un’altra guerra civile come quella che lo ha devastato dal 1975 al 1990. Nel giro di appena due mesi, infatti, il Paese è diventato il bersaglio numero uno della determinazione saudita di punire tutti gli alleati e i protégé dell’Iran nella regione.

Le mosse dell’Arabia saudita sono rivolte in tutte le maniere a indebolire l’Iran e a far uscire il Libano dall’ambiguità Fino al 2 gennaio scorso, bene o male il Libano era riuscito a mantenersi in bilico nella faida che oppone Riyad a Teheran, congelando la situazione politica interna in un limbo molto prossimo alla paralisi. Col mondo politico spaccato sull’intervento di Hezbollah in Siria a fianco di Bashar al-Assad assieme all’Iran, dal 15 febbraio 2014 il Paese è retto da un governo di unità nazionale guidato da un sunnita indipendente, Tammar Salam, che ha finito per fungere anche da presidente della repubblica per non aggravare le tensioni legate alla scelta del nuovo capo dello Stato dopo l’uscita di scena di Michel Suleiman nel maggio dello stesso anno. Nel governo di unità nazionale sono stati garantiti otto ministeri ciascuno ai due maggiori blocchi contrapposti: la coalizione «14 marzo» detta anche Movimento per il futuro, guidata da Saad Hariri, sunnita e alleato dell’Arabia Saudita, e la coalizione «8 marzo» guidata da Hassan Nasrallah, il segretario generale di Hezbollah, alleato dell’Iran. I restanti otto ministeri sono stati suddivisi tra formazioni cristiane, druse e candida-

ti indipendenti. Tra i partiti cristiani va segnalato il Libero movimento patriottico del generale Michel Aoun, già sanguinosissimo protagonista della guerra civile del 1975-1990, che oggi è schierato al fianco di Hezbollah. Questo equilibrio di forze faticosamente raggiunto non ha impedito che sunniti e sciiti si scontrassero armi alla mano in varie località del Paese, ma come dicevamo, la situazione è diventata estremamente precaria a partire dal 2 gennaio scorso quando l’Arabia Saudita ha giustiziato, tra gli altri «nemici dello Stato», l’imam sciita saudita Nimr-al Nimr. La reazione in Iran e in tutto il mondo sciita è stata immediata con manifestazioni di piazza, assalto alle ambasciate saudite e discorsi infuocati dei leader sciiti a Teheran, Beirut, Baghdad, Sana’a e Manama (capitale del Bahrein). La risposta dell’Arabia Saudita non si è fatta attendere. Non potendo colpire direttamente l’Iran senza scatenare l’inferno nell’intero Medio Oriente, Riyad ha rotto le relazioni diplomatiche col regime degli ayatollah e ha deciso di prendere di mira l’anello più debole della catena degli alleati di Teheran, il Libano appunto. Già a metà gennaio, assieme ai suoi alleati del Consiglio di cooperazione del Golfo (Bahrein, Emirati arabi uniti, Kuwait, Oman e Qatar), consigliava ai propri cittadini di non recarsi in Libano o di abbandonarlo qualora l’avessero già raggiunto. Il 22 febbraio, è arrivato il secondo colpo, ben più ferale: l’Arabia Saudita ha sospeso il pagamento di 4 miliardi di dollari di aiuti, di cui 3 destinati dal 2013 all’esercito e alle forze di sicurezza libanesi per contenere la minaccia dell’Isis proveniente dalla Siria. Ufficialmente ha motivato questa decisione col fatto che nelle riunioni della Lega araba e dell’Organizzazione della cooperazione islamica che si sono moltiplicate dall’inizio dell’anno, il ministro degli Esteri libanese Gebran Bassil (uno dei leader del Libero movimento patriottico cristiano, alleato di Hezbollah), pur esprimendo «solidarietà all’Arabia Saudita» si è dissociato dalla condanna esplicita dell’assalto all’ambasciata saudita in Iran. Il motivo reale è il semplice fatto che Hezbollah ormai la fa da padrone tanto nelle forze armate quanto nei servizi di sicurezza del Libano, oltre ad avere milizie proprie. La comunità sciita, infatti, è l’unica tra le 18 comunità confessionali del Paese, ad aver

Il leader degli Hezbollah libanesi Saied Hassan Nasrallah. (AFP)

ottenuto il permesso di mantenere un proprio braccio armato dopo la fine della guerra civile, come recita l’Accordo di Taif, stipulato nel 1989, solo «per far fronte alla minaccia israeliana nel sud del Paese» dove la maggioranza della comunità stessa è insediata. L’Accordo di Taif – lo ricordiamo – è stato patrocinato ed eterodiretto dalla Siria, che in questa maniera ha «tutelato» il proprio alleato libanese (Hezbollah appunto), ma dal 2000 la minaccia israeliana sul territorio libanese non esiste più visto che Israele ha ritirato in quell’anno le proprie truppe dalla cosiddetta Fascia di sicurezza nel sud del Libano. Indubbiamente le Israeli Defence Forces continuano a presidiare le Fattorie Sheeba, un appezzamento di una ventina di chilometri quadrati all’intersezione tra Libano, Israele e Siria che il diritto internazionale non ha mai attribuito a nessuno dei tre Stati. Solo Hezbollah, del tutto arbitrariamente, si ostina a ritenere di pertinenza libanese quell’appezzamento e, con questo escamotage, può continuare a mantenere il proprio braccio armato. Ma non è solo per questo che l’Arabia Saudita ha sospeso il finanziamento all’esercito e alle forze di sicurezza libanesi. È per indebolire la presenza di Hezbollah in Siria al fianco di Bashar al-Assad e, per così dire, scaricare sul solo Iran il costo di mantenere gli alleati del regime di Damasco sia pure nella lotta all’Isis. Ma non è finita qui. La situazione è decisamente precipitata il 1. marzo quando il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, invece di tenere la lingua a freno,

se ne è uscito con uno dei suoi discorsi fiammeggianti per condannare l’Arabia Saudita, i «crimini che ha commesso in Yemen» (nella guerra che lo scorso anno ha iniziato contro gli Houthi sciiti arrivati a minacciare il presidente Abd Rabbuh Mansur Hadi, alleato di Riyad) e soprattutto la sua decisione di sospendere i suddetti finanziamenti. Il governo libanese, di cui peraltro Hezbollah fa parte, si era adoperato non poco per rasserenare i rapporti con Riyad, ma l’improvvida uscita di Nasrallah ha finito di convincere re Salman che Hezbollah è a tutti gli effetti un «nemico dello Stato saudita». Così l’Arabia Saudita e tutti i Paesi membri del Consiglio di cooperazione del Golfo il 2 marzo hanno redatto un comunicato al vetriolo in cui, pur ribadendo l’amicizia «col popolo libanese», hanno tacciato apertamente Hezbollah, i suoi leader e i suoi affiliati di essere terroristi avendo compiuto «atti ostili» nei sei Stati del Consiglio di cooperazione. Non bastasse, il segretario generale del Consiglio medesimo, Rashid al-Zayani (del Bahrein) ha accusato Hezbollah di aver reclutato terroristi e organizzato atti di terrorismo anche in Iraq e Yemen dove avrebbe contribuito all’addestramento dei ribelli Houthi. Infine, per non farsi mancare nulla, una emittente televisiva saudita ha mandato in onda una specie di soap opera in cui Hassan Nasrallah è stato impietosamente ridicolizzato. Ora quello che tutti in Libano temono è che l’Arabia Saudita e i suoi alleati congelino le rimesse del mezzo milione di lavoratori e imprenditori libanesi presenti nel Golfo che – stando alla Banca Mondiale – costi-

tuiscono il 70% dei 6,7 miliardi di dollari, cioè del totale, delle rimesse degli stranieri operanti negli Stati dell’area. Da Hezbollah non è arrivata alcuna reazione ufficiale, anche se i suoi sostenitori hanno improvvisato posti di blocco, con tanto di roghi di pneumatici, a Beirut. Resta il fatto che nemmeno i sostenitori dell’Arabia Saudita in Libano, i sunniti, i membri della coalizione «14 marzo», e il premier nonché presidente della repubblica Tammar Salam, hanno capito perché la monarchia saudita abbia scientemente deciso di minare il già fragile equilibrio del piccolo Paese dei cedri in un momento tanto delicato. Sono i primi ad ammettere che la responsabilità sia tutta di Hezbollah, che col suo intervento in Siria, ha trascinato il Libano in una guerra sciagurata in cui ufficialmente il Libano stesso si dice neutrale. Ma, appunto, come può dirsi neutrale se una delle sue formazioni politiche più importanti, che siede in parlamento e fa parte del governo, quella guerra la combatte attivamente e contribuisce a mantenere al potere un regime criminale come quello di Bashar al-Assad? Le mosse dell’Arabia Saudita proprio in un momento come questo sono sostanzialmente volte a indebolire in tutte le maniere l’Iran, a fare uscire il Libano dalla sua ambiguità e coprirsi le spalle nel caso in cui si ritrovi a colpire in Siria militanti di Hezbollah. Fino al 2 marzo avrebbe colpito miliziani di un Paese amico. Dopo il 2 marzo si è arrogata il diritto di colpire dei nemici dello Stato saudita che, in quanto tali, vengono automaticamente considerati terroristi alla stregua dell’Isis.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 14 marzo 2016 ¶ N. 11

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Politica e Economia

Lula sempre più nei guai Brasile L’ex presidente è stato chiamato a deporre nell’ambito della maxi-inchiesta

Angela Nocioni Marcelo Odebrecht, il principale costruttore del Brasile e presidente di una delle più grandi imprese dell’America Latina, è stato condannato martedì in prima istanza a 19 anni di prigione. L’accusa è di aver costituito una associazione a delinquere al fine di ottenere in forma illegale appalti dall’impresa petrolifera statale brasiliana Petrobrás. È l’ultimo capitolo, al momento, della mastodontica inchiesta «Lava Jato» che dall’aprile del 2014 sta rivoltando come un calzino il sistema politico e imprenditoriale brasiliano. Sta ricostruendo, sulla carta, un sistema illegale di appalti ottenuti al di fuori delle regole di mercato, con sovrapprezzi e tangenti. In questa stessa inchiesta, per ordine dello stesso magistrato, Sergio Moro, giudice federale di prima istanza nella città di Curitiba, nello Stato di Paranà, la settimana scorsa è stato prelevato a casa dalla polizia l’ex presidente Lula da Silva e condotto a dichiarare come testimone. Non si è trattato di un arresto, né di un fermo di polizia. Tecnicamente si è trattato di un accompagnamento coatto di fronte agli inquirenti, formula inedita, mai usata finora per qualcuno che non si sia negato a rispondere a una chiamata dei giudici. Lula – di cui fra l’altro la procura di San Paolo ha chiesto giovedì l’arresto preventivo in riferimento alla vicenda dell’attico di Guarujà, sul litorale dello Stato di San Paolo che risulta

intestato all’impresa di costruzioni Oas, coinvolta nell’inchiesta «Lava Jato» – è sospettato di avere ricevuto favori illeciti dalla Odebrecht. Di fatto la notizia, di evidente risonanza mondiale, stravolge la politica brasiliana. Lula è candidato, favorito, a sostituire l’attuale presidente Dilma Rousseff (foto) nelle elezioni presidenziali del 2018. Il giudice Moro considera Marcelo Odebrecht, che è amico personale di Lula da anni, colpevole di reati di corruzione, lavaggio di denaro e associazione criminale. Due successivi gradi di giudizio dovranno esaminare la sua sentenza. Secondo Moro, Odebrecht avrebbe formato un club segreto con altre grandi imprese per scavalcare ogni libera concorrenza e ottenere appalti sicuri e per di più al prezzo più alto possibile. Secondo l’accusa il lavaggio di denaro consisterebbe in una sofisticata impalcatura di conti all’estero attraverso i quali l’imprenditore avrebbe pagato somme indebite a funzionari di Petrobrás per non ostacolare i suoi disegni. Uno di questi pagamenti rintracciati è del valore di 28,7 milioni di dollari, un altro di 35 milioni. Odebrecht è stato presidente del gruppo dal 2008 al giugno del 2015, fino al momento dell’arresto. Il gruppo, fondato da suo nonno Norberto, si occupa di ingegneria, di costruzioni, di petrolchimica, di industria navale e di difesa. Attualmente ha alle sue dirette dipendenze 168’000 persone in 28 Paesi. L’ulti-

mo fatturato noto, quello del 2014, è di 28 miliardi di dollari. Tra il 2001 e il 2014 ha partecipato a 128 gare di appalto con Petrobrás e se ne è aggiudicate il 10%. Marcelo Odebrecht è uno dei pochi accusati nella «Lava Jato» a non aver firmato con i magistrati un accordo di «delazione premiata», simile ma non identico tecnicamente all’accordo di collaborazione con la giustizia che esiste in Italia: sconti di pena per chi fornisce agli inquirenti dati utili, in particolare nomi di persone da coinvolgere nell’inchiesta. La legge sulla delazione premiata è oggetto di un furioso dibattito intellettuale in Brasile. Abbiamo parlato con il presidente dell’ordine degli avvocati dello stato di Rio de Janeiro Santa Cruz per capire il perché. Ecco cosa ci ha detto: «C’è un processo mediatico in corso in Brasile, celebrato nelle tv e nei giornali, che influenza moltissimo lo sviluppo del lavoro nelle aule di giustizia. È pericoloso perché quello che sta succedendo non ha nulla che vedere con le forme e le garanzie previste dalla Costituzione a tutela degli accusati. C’è una vendetta, a mio avviso, di una parte dei poteri conservatori di questo Paese, che stanno usando i tempi e i modi dei media per conquistare spazio nella società, approfittando di un opinione pubblica molto ricettiva a un’idea primitiva di vendetta al posto dell’applicazione di un principio di giustizia. Il problema grave è che stanno chiaramente vincendo la battaglia. In

Brasile esiste purtroppo da sempre una innegabile impunità dei potenti. Chi è ricco e si può permettere ottimi avvocati, molto raramente finisce in galera. L’opinione pubblica sa questa cosa ed è affamata di vendetta. Gioisce alle notizie di arresti di persone importanti. Non interessa all’opinione pubblica la difesa dei diritti degli accusati, che finiscono per essere giudicati senza prove, fuori delle aule dei tribunali». Cosa c’è che viola la Costituzione, chiediamo, nella inchiesta «Lava Jato» a suo avviso? «Non mi esprimo sull’inchiesta in corso perché ho rispetto del potere dei giudici. Ma c’è un uso improprio, direi criminale, della prigione preventiva» risponde. Cosa non va nella legge sulla delazione premiata? «Sta succedendo qualcosa molto grave: si stanno rimpicciolendo enormemente diritti della difesa e si stanno dilatando i poteri dei giudici e della polizia al di là e al di fuori di quello che prevede la legge. Questo sta succedendo nei fatti, previsto dalle leggi, e sta di fatto trasformando il Paese». «Ci sono avvocati – dice l’avvocato Santa Cruz –, molto pochi, perché l’avvocatura in genere è contraria a questa legge e la considera pericolosissima, che si stanno specializzando nella contrattazione tra giudice e accusato. Fanno da mediatori di fatto nella contrattazione dei benefici che l’accusato ottiene dal giudice in cambio di ciò che gli dice». «Della delazione premiata si sta facendo un uso improprio, completamente al di

AFP

«Lava Jato» sulle tangenti del colosso petrolifero statale Petrobras. Inchiesta che prevede l’accordo di delazione premiata, oggetto di furioso dibattito nel Paese

fuori della legge. È regolata pochissimo e in maniera molto vaga dalle norme. È un contratto che il delatore firma ottenendo così uno sconto di pena o la liberazione dalla prigione preventiva. È legata spesso alla prigione preventiva di cui si sta facendo un uso inquisitorio. Viene usata come forma di pressione per ottenere confessioni o accuse verso terze persone. Ci sono persone in galera da più di un anno senza che le accuse contro di loro siano state provate. Il sospetto legittimo è che se, e finché, non accusano nessun altro, non vengano rilasciati. Questo è un ricatto atroce che non aiuta la ricerca della verità. Anche perché il rischio grande è che il delatore menta per compiacere il giudice, e così le ipotesi investigative finiscono per auto-confermarsi. Si rischia di mandare in galera persone sulla base di accuse false ottenute sotto ricatto. Quale processo giusto si può avere con queste premesse? Cosa ha che vedere tutto ciò con la ricerca della verità dei fatti? Niente». Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

Quanta ricchezza produciamo Analisi Uno studio dell’Ufficio federale di statistica sull’evoluzione del PIL per abitante – In Ticino, la sola regione

con la produttività in calo, l’unica spinta effettiva alla crescita economica proviene dall’occupazione di frontalieri

Daniele Besomi Qualche tempo fa l’Ufficio Federale di Statistica (UST) ha pubblicato un interessante opuscolo in cui analizza l’evoluzione del PIL per abitante della Svizzera dal 1991 al 20131). Potrebbe sembrare un dato crudo, ma in realtà l’andamento di questa variabile può contribuire a spiegare come è cambiato nell’ultimo quarto di secolo il modo di produrre ricchezza nel nostro Paese e nelle sue principali regioni. Val dunque la pena seguire il ragionamento degli autori, e trarne qualche considerazione aggiuntiva. Produttività e durata del lavoro

Il PIL per abitante si calcola semplicemente dividendo il PIL del Paese per il numero dei suoi residenti. Il risultato indica la ricchezza prodotta mediamente in un anno da ciascun abitante della Svizzera (includendo neonati e ottuagenari). Questa grandezza è importante perché permette di fare confronti internazionali e tra regioni: se il PIL di Svizzera e Stati Uniti (per esempio) non possono essere confrontati direttamente perché gli USA sono molto più grandi della Svizzera, e quindi hanno un potenziale produttivo molto maggiore, dividendo per il numero di abitanti si ottiene quanto produce mediamente ciascun residente, e si può dire (una volta corretti gli effetti dei diversi prezzi nei diversi Paesi) se il sistema economico di un Paese è più o meno produttivo di un altro, e se questa capacità produttiva media cresce in misura maggiore o minore. Fin qui la procedura è banale: i dati sia del PIL che della popolazione sono facilmente a disposizione, e ciascuno potrebbe effettuarsi «in casa» questo confronto. L’UST fa un passo ulteriore: scompone il PIL per abitante in due componenti principali, una delle quali è a sua volta suddivisa in ulteriori sottocomponenti, e segue l’evoluzione nel tempo di questi fattori2). Il ragionamento è svolto in termini di crescita rispetto all’anno precedente, così che si può dire che la crescita totale del PIL per abitante è uguale alla somma dei tassi percentuali di crescita delle componenti3). Ciò permette di semplificare molto l’esposizione, e soprattutto di ragionare sulle determinanti di ciascun fattore di crescita. Le componenti principali di cui è costituito il PIL per abitante sono da un lato la produttività oraria del lavoro, e dall’altro il numero medio di ore lavorate da ciascun abitante4). La produttività del lavoro dipende principalmente dalla tecnologia: man mano che migliorano le macchine e l’organizzazione del lavoro, ciascun lavoratore più produrre di più ogni ora. La relazione si spiega semplicemente: la produzione dell’intero Paese (il PIL) dipende da quanto la tecnologia permette di produrre in un’ora, e dal numero totale di ore in cui si lavora. I risultati di questa prima scomposizione si vedono nella Fig. 1. La linea nera rappresenta l’andamento del PIL reale per abitante. Si distinguono chiaramente delle oscillazioni che corrispondono all’andamento congiunturale: l’economia è in forte recessione dal 1991 al 1996, poi cresce fino al 2001, è in leggera crisi fino al 2003, cresce in modo sostenuto dal 2004 al 2008, ha un brusco ma breve calo nel 2009, e continua a crescere dal 2010. Questo andamento dipende dall’influenza congiunta della produttività da un lato (barre rosse) e del numero di ore lavorate (barre verdi) dall’altro. Il grafico mostra che la produttività del lavoro cresce, grazie al miglioramento nelle tecniche produttive, in quasi tutti gli anni del periodo considerato,

con solo due piccoli cali nel 1999 e 2003, e un grosso calo nel 2009 (quest’ultimo dovuto non a fattori tecnologici ma alle grosse perdite del settore finanziario). La tecnologia, insomma, è un fattore che aiuta quasi costantemente la crescita dell’economia. Tuttavia si devono osservare due cose. La prima è che il miglioramento della tecnica è mediamente superiore negli anni in cui l’economia avanza rispetto a quelli in cui l’economia ristagna; e la seconda è che la crescita della produttività negli anni Novanta è stata superiore a quella del periodo successivo. Per quanto riguarda il numero di ore di attività, le fluttuazioni sono decisamente più marcate. Lungo il ciclo si lavora un po’ di più quando l’economia va bene, e si lavora decisamente meno quando l’economia va male. Insomma, le fluttuazioni economiche si traducono in fluttuazioni delle prestazioni di lavoro.

Frontalieri e crescita economica

PIL per abitante (indice; scala di destra), tassi di crescita di produttività e di ore di lavoro (scala di sinistra) 4

3

2

1

0 1991

1993

1995

1997

1999

2001

2003

2005

2007

2009

2011

2013

-1

-2

-3 produttività oraria

ore di lavoro per abitante

indice PIL per abitante

Figura 2: evoluzione delle componenti del numero di ore lavorato per abitante 2

1.5

1

Le fluttuazioni degli input di lavoro

Quest’ultimo aspetto va analizzato meglio. L’UST lo fa scomponendo più in dettaglio il numero di ore lavorate per abitante, usando la stessa tecnica impiegata in precedenza. I fattori che si possono distinguere, e che sono rappresentati in figura 2, sono i seguenti5): 1. La durata media del lavoro delle persone occupate (tra queste sono inclusi i frontalieri), rappresentata dalla barra rossa. Dal grafico si nota una netta tendenza al ribasso; secondo l’UST, questo è dovuto in minima parte alla riduzione media dell’orario di lavoro settimanale, accorciatosi di mezz’ora tra il 1991 e il 2013, e principalmente al diffondersi del tempo di lavoro parziale; 2. L’effetto della disoccupazione (barra verde), definito come rapporto tra persone occupate e persone attive (si noti che i frontalieri sono inclusi sia al numeratore che al denominatore). Il grafico mostra come negli anni in cui l’economia rallenta, la disoccupazione aumenta (incidendo negativamente sul PIL per abitante), e viceversa nelle fasi di ripresa. Vi è tuttavia un importante e sistematico ritardo di reazione: la disoccupazione diminuisce solo un paio d’anni dopo l’inizio della ripresa economica, ma aumenta subito con l’inizio della recessione. È interessante notare come l’ampiezza delle fluttuazioni della disoccupazione sia minore di quella delle fluttuazioni del tempo di lavoro medio: questo significa che buona parte delle ripercussioni delle recessioni sull’attività lavorativa si traduce in diminuzione dell’orario di lavoro, piuttosto che in licenziamenti, mentre nelle fasi di crescita abbiamo più aumenti di orario di lavoro che non riassorbimento della disoccupazione; 3. Il tasso di partecipazione (barre viola), cioè il rapporto tra numero di persone attive (inclusi i frontalieri) e la popolazione residente in età da lavoro (frontalieri esclusi). Questa variabile tende a crescere, molto probabilmente per l’incidenza della crescita del numero di frontalieri che innalza il numeratore ma non il denominatore della frazione; 4. La parte della popolazione residente in età da lavoro (barre azzurre). Si tratta di un fattore demografico che evolve a lungo termine, indipendentemente dalla congiuntura. La Svizzera e l’OCSE

Nel suo studio l’UST confronta la situazione Svizzera con quella dei Paesi dell’OCSE, seguendo la medesima metodologia e apportando le dovute correzioni per tener conto dei diversi poteri d’acquisto delle varie monete nazionali. In valori assoluti, la Svizzera ha un elevatissimo PIL per abitante: nel 1991 eravamo secondi solo al Lussemburgo,

119 118 117 116 115 114 113 112 111 110 109 108 107 106 105 104 103 102 101 100 99 98 97 96 95 94 93 92 91 90 89 88

0.5

0 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 -0.5

-1

-1.5

-2

-2.5 numero medio di ore lavorate per persona attiva

disoccupazione

tasso do partecipazione

parte della popolazione in età da lavoro sui residenti

119 118 117 116 115 114 113 112 111 110 109 108 107 106 105 104 103 102 101 100 99 98 97 96 95 94 93 92 91 90 89 88 87 86 85 84 83 82 81 80

indice PIL per abitante

nel 2013 ci precedeva anche la Norvegia. Tuttavia l’evoluzione non è stata positiva: il nostro PIL per abitante è stato tra i più lenti a crescere (precediamo in questo solo Italia, Grecia, Giappone e Portogallo), a causa di una diminuzione dell’input di lavoro (ma in questo non siamo diversi da molti altri Paesi industrializzati) e di un aumento meno che mediocre della produttività del lavoro. Tuttavia, se scomponiamo questa performance in due periodi (1991-2002, e 2002-13), rileviamo che la prestazione dell’OCSE è stata molto elevata nell’ultimo decennio del secolo scorso, più di quanto non lo sia stata quella svizzera. Negli anni recenti, invece, la nostra produttività è progredita (pur calando rispetto al decennio precedente) più o meno nella media dei Paesi più industrializzati. L’apporto di lavoro per abitante è invece diminuito, suggerendo che il nostro progresso si spiega in termini di intensificazione dell’uso della mano d’opera disponibile. Produttività e contributo del lavoro in Ticino

Dopo aver confrontato la Svizzera coi Paesi dell’OCSE, l’UST esamina la situazione nelle grandi regioni statistiche in cui è suddivisa la Sizzera. Il Ticino, da solo, costituisce una di queste, e abbiamo dunque la possibilità di conoscere l’evoluzione di PIL per abitante, produttività e apporto di lavoro per abitante. In questo ambito è chiaro che occorrerebbe poter distinguere tra lavoratori residenti e non residenti. Questi ultimi (frontalieri e pendolari dalla Mesolcina) contribuiscono a produrre, e quindi influiscono sul PIL, ma non sono abitanti del cantone. Ovviamente ciò incide piuttosto pesantemente sul risultato. Resta comunque la possibilità di trarre qualche spunto di riflessione. Il Ticino contribuisce al PIL nazionale con il 4,3% del totale (media 200812), situandosi settimo dopo i soliti noti, trainati da Zurigo (21,7%), Berna (12%), Vaud (7,8%) e Ginevra (7,7%). Tuttavia nel contributo alla crescita del PIL nel medesimo periodo, il Ticino è solo dodicesimo. Nel computo del PIL per abitante,

il Ticino si situa appena al di sopra della media svizzera di circa 78’000 franchi, in leggera crescita tra il 2009 e il 2012. In testa, poco sorprendentemente, Zurigo, con quasi 100’000 franchi per abitante. Anche la Svizzera del Nord-Ovest si situa attorno alla media, mentre tutte le altre regioni sono al di sotto. Prima di gioire di questo dato bisogna comprendere bene cosa significa. L’entità numerica indica che ciascun abitante del Ticino produce in media PIL per 80’000 franchi. Naturalmente vi è chi non produce nulla (bambini, pensionati, disoccupati, studenti, ticinesi che lavorano fuori cantone), e chi invece produce ma non fa parte degli abitanti (frontalieri e mesolcinesi che lavorano in Ticino). Naturalmente tra Ticino e altri cantoni non di frontiera vi è una differenza notevole data dal fatto che sono molti i lavoratori che non abitano in Ticino, e che quindi alzano considerevolmente la media del reddito prodotto. È dunque indispensabile analizzare le varie componenti che contribuiscono all’evoluzione del PIL per abitante. Tra il 2009 e il 2012, il PIL per abitante del Ticino è cresciuto dell’1,4%. Scomponendo questo dato con il metodo visto in precedenza, vediamo subito che il risultato ticinese non è per nulla rallegrante. In effetti: la produttività è diminuita dell’1% (unica regione della Svizzera in cui la produttività è diminuita; altrove è cresciuta, tranne che a Zurigo dove è rimasta al palo); la durata media del lavoro è diminuita di pochissimo (–0,1%), la disoccupazione ha contribuito negativamente alla crescita (–0,4%, di nuovo unica regione della Svizzera dove si è verificato questo fenomeno), la quota di residenti in età di lavoro ha inciso negativamente (ma poco più della media nazionale, –0,3%), mentre l’unica variabile con un effetto positivo è stato il tasso di partecipazione, che ha dato una spinta positiva al PIL per abitante del 3,2%. Questa variabile, ricordiamolo, è influenzata fortemente (anche se non esclusivamente) dalla presenza di frontalieri, registrati tra gli occupati (al numeratore) ma non tra i lavoratori residenti (al denominatore).

L’unica spinta effettiva alla crescita economica del cantone è dunque legata all’occupazione dei frontalieri. La loro presenza, tuttavia, potrebbe anche avere diversi effetti negativi. Il primo, piuttosto ovvio, è sulla disoccupazione dei residenti, anche se è difficile quantificarne la rilevanza quantitativa; i dati di questo opuscolo UST non permettono certo di farlo. Il secondo effetto negativo potrebbe nascere dal dumping salariale (anch’esso difficilmente quantificabile): i salari sono una componente del valore aggiunto complessivo (e dunque del PIL) generato dall’attività produttiva, e una loro generalizzata diminuzione inciderebbe negativamente sia sul PIL complessivo che su quello per abitante. In terzo luogo, anche la componente tecnologica della diminuzione di produttività potrebbe essere una conseguenza dell’incremento del peso di lavori a bassa produttività (spesso affidati ai lavoratori frontalieri) nel bilancio totale delle attività produttive del cantone. Va comunque notato che la diminuzione di produttività dipende certamente in buona misura dalla scomparsa di posti di lavoro nel settore finanziario, come indicato anche dal fatto che l’unica altra regione che non ha visto aumentare la produttività del lavoro è Zurigo6). Lo studio dell’UST non ci permette di andare più in profondità sulla situazione ticinese, ma dà comunque delle indicazioni interessanti sui fattori che occorre esaminare nel valutare il ruolo economico dell’impiego di frontalieri. Tutto sommato sembrano essere un fattore di crescita del PIL, l’unico capace di compensare la caduta del settore finanziario e la caduta generale di produttività. Tuttavia i frontalieri non contribuiscono certo alla crescita del reddito cantonale in misura pari alla loro produzione: generano reddito (il PIL non è altro che il reddito che viene creato in una regione), ma poi ne trasferiscono una parte rilevante oltre frontiera. A questo proposito sarebbe molto utile poter disporre ancora dei dati sul reddito cantonale, ma l’UST ha rinunciato a calcolarlo a livello locale quando questo fattore è stato sostituito dal PIL nel meccanismo di perequazione federale. Note

1) Révision di PIB par habitant. Analyse de l’evolution de 1991 à 2013, Neuchâtel 2015 (http://www.bfs. admin.ch/bfs/portal/fr/index/themen/04/02/01/key/pib_wachs.html). 2) Matematicamente la procedura è semplice. La grandezza a/b può essere scomposta in a/c ∙ c/b, o in quanti altri fattori si desidera. 3) Matematicamente, esprimendosi in tassi di crescita le funzioni diventano logaritmiche, e il logaritmo di una moltiplicazione = somma dei logaritmi. 4) PIL/abitanti = PIL/(numero di ore lavorate) ∙ (numero di ore lavorate)/ abitanti. 5) (numero di ore lavorate)/abitanti = (numero di ore lavorate)/(attivi occupati) ∙ (attivi occupati)/(persone attive) ∙ (persone attive)/(popolazione 15-64) ∙ (popolazione 15-64)/abitanti. 6) Sulla produttività del lavoro in relazione all’impiego di frontalieri era intervenuto qualche tempo fa su «Azione» Angelo Rossi a partire da uno studio della SECO della primavera 2015 nel quale si scomponeva il PIL per abitante e la sua crescita esattamente nel medesimo modo considerato qui, concentrandosi tuttavia in particolare proprio sulla contributo dei lavoratori stranieri alla crescita economica tramite una scomposizione ulteriore della produttività in produttività del lavoro e del capitale.


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Politica e Economia

Un Piano B che scontenta tutti CH-UE In attesa che i britannici votino sul Brexit e che possano ripartire i negoziati tra Berna e Bruxelles,

il Consiglio federale presenta una possibile soluzione per applicare l’iniziativa del 9 febbraio 2014 contro l’immigrazione di massa: una clausola di salvaguardia unilaterale. Ma l’obiettivo del governo è tuttora un accordo con l’UE

Marzio Rigonalli Si aspettava una schiarita, sono arrivate nuove nuvole che hanno reso ancora più cupo l’orizzonte. Il cosiddetto Piano B, presentato dal Consiglio federale dieci giorni fa, come possibile soluzione per applicare l’articolo 121a della Costituzione federale, scaturito dall’approvazione dell’iniziativa popolare sull’immigrazione di massa il 9 febbraio 2014, ha sollevato un buon numero di critiche e di interrogativi e pochissimi consensi. Il Piano B prevede l’introduzione di una clausola di salvaguardia unilaterale, con tetti massimi e contingenti, destinata a limitare l’afflusso degli immigrati dall’UE qualora si ritenesse il loro numero troppo elevato. L’applicazione della clausola avverrebbe secondo determinati parametri tecnici, demografici ed economici, e sarebbe accompagnata da misure destinate a sfruttare meglio il potenziale offerto dai lavoratori presenti in Svizzera. Il governo però, intende applicare il Piano B solo nel caso in cui non riuscisse a raggiungere un accordo con Bruxelles. Per Berna, la conclusione di un’intesa bilaterale rimane l’obiettivo prioritario. Attualmente, la trattativa con l’UE è sospesa, a causa del Brexit, ossia della possibile uscita della Gran Bretagna dall’Unione, ma riprenderà dopo il 23 giugno, giorno della tanto attesa votazione britannica. Dopo più di due anni di consultazioni e di trattative, il Consiglio federale ha dunque messo le sue carte sul tavolo. Lo ha fatto nascondendo male le divisioni al suo interno, tra chi vorrebbe un’applicazione rigida dell’iniziativa contro l’immigrazione di massa, per mostrare al Paese tutte le sue conseguenze negative, e chi punta ad una soluzione il meno possibile dannosa per l’economia. Tra i primi si può contare la responsabile del Dipartimento federale di giustizia e polizia, Simonetta

Sommaruga, tra i secondi, l’attuale presidente della Confederazione, Johann Schneider-Ammann. Accanto a loro ci sono due ministri UDC, che seguono la linea voluta dal loro partito ed il cui contributo alla ricerca di una soluzione diversa si ridurrà probabilmente a nulla, o a poca cosa. E poi c’è il capo del Dipartimento degli affari esteri, Didier Burkhalter, che dovrebbe essere il ministro maggiormente coinvolto in questo dossier, ma che, stranamente, non era presente alla Conferenza stampa indetta dal governo. Le reazioni dei partiti politici sono state quasi tutte negative. I socialisti ed i verdi si sono dichiarati contrari alla clausola di salvaguardia. I liberali radicali hanno chiesto che vengano valutate anche altre possibili soluzioni. Non tanto tempo fa e attraverso la stampa, il presidente del partito, Philipp Müller, aveva proposto una soluzione basata sulla «priorità nazionale permanente» in tutti i settori economici e professionali che sono confrontati con una forte disoccupazione. L’UDC attende ed emetterà un giudizio soltanto quando sarà certa che la clausola di salvaguardia consentirà una sostanziale riduzione dell’immigrazione. Soltanto il PPD ha visto nella proposta del Consiglio federale una buona base di partenza. Non c’è stata, invece, nessuna reazione proveniente dai vertici dell’UE. Eppure, qualche mese fa, la Commissione europea si era dichiarata contraria all’introduzione da parte delle autorità elvetiche di una clausola di salvaguardia unilaterale. Il silenzio di Bruxelles è stato interpretato dagli uni come un atto dovuto, perché siamo di fronte ad un progetto di legge e non ad una legge pronta per entrare in vigore, e dagli altri come un gesto di buona volontà per non appesantire il clima bilaterale e nuocere alla trattativa in corso. Che cosa succederà adesso? Troppi ancora sono gli imponderabili per

poter delineare uno scenario con un buon tasso di probabilità. Il dossier, dunque, passa ora al parlamento. Nel corso del prossimo mese, durante la sessione straordinaria prevista dal 25 al 28 aprile, il Consiglio nazionale affronterà la decisione del Consiglio federale di firmare l’estensione dell’accordo sulla libera circolazione delle persone alla Croazia. Il governo ha firmato per non compromettere la partecipazione della Svizzera a Horizon 2020, il programma quadro dell’UE per la ricerca e l’innovazione, ritenuto essenziale dalle scuole politecniche federali e dalle università. Il Consiglio degli Stati se ne occuperà probabilmente durante la sessione estiva di giugno. Sempre a giugno e premesso che la commissione incaricata abbia completato il suo lavoro, la clausola di salvaguardia potrebbe venir discussa dal Consiglio nazionale, poco prima della votazione sull’uscita o la permanenza della Gran Bretagna nell’Unione europea. Nessuno può dire che cosa succederà in questi prossimi appuntamenti e, tanto meno più tardi, a partire dall’estate. Intanto, continuano a moltiplicarsi le proposte per cercare di uscire dall’impasse. Il ministro degli esteri, Didier Burkhalter, attraverso un’intervista rilasciata ad un settimanale, si è dichiarato molto ottimista sulla possibilità di trovare un compromesso con Bruxelles. Secondo lui siamo vicini ad una soluzione e non sarà necessario negoziare a lungo dopo il 23 giugno. L’Unione europea è interessata ad un accordo e lo dimostrano gli intensi colloqui avuti in questi ultimi due anni. Philipp Müller, presidente del PLR ancora per poco tempo, torna alla carica e questa volta si rivolge a Christoph Blocher, chiedendogli di lanciare un’iniziativa popolare contro l’accordo sulla libera circolazione delle persone. Un’iniziativa che comporterebbe la denuncia dell’intesa in vigore da anni e che, in

Da sinistra, Mario Gattiker, Simonetta Sommaruga e Johann Schneider-Ammann. Si nota l’assenza del ministro degli esteri Burkhalter. (Keystone)

caso di successo, farebbe cadere anche il pacchetto degli accordi bilaterali, ritenuto importante e necessario da gran parte del mondo economico. Secondo Müller, una simile iniziativa consentirebbe di fare chiarezza e permetterebbe il confronto tra chi difende gli accordi bilaterali e chi è pronto a rinunciarvi. Alcuni politici del centro, come il presidente del PBD, Martin Landolt, o la consigliera nazionale zurighese PPD, Kathi Riklin, propongono di presentare un controprogetto all’iniziativa popolare «Fuori dal vicolo cieco» (RASA), convalidata l’autunno scorso e sulla quale un giorno bisognerà votare. L’iniziativa chiede l’abolizione dell’articolo 121a della Costituzione federale. Il controprogetto potrebbe consentire di ancorare nella Costituzione la via bilaterale con l’Europa. Ultima in data, la proposta presentata dal canton Ticino, definita «clausola di salvaguardia con approccio ascendente (bottom-up)». È un modello che parte dalla situazione sul mercato del lavoro, dalle difficoltà che vengono riscontrate in settori ed

in regioni, e che si propone di frenare l’immigrazione con misure varie, come l’applicazione della priorità indigena, senza ricorrere a tetti massimi e contingenti. Si parla di un approccio che vuol essere nazionale, ma che è molto attento alle particolarità regionali. Di fronte a questo accavallamento di ipotesi, a questo scenario pieno di incertezze, rimane posto soltanto per un auspicio. Quello che si finisca presto di esitare, di tergiversare, d’intrecciare mosse e contromosse, di proporre soluzioni, di cercare di ottenere da Bruxelles concessioni che l’UE non è disposta a fare, e che si decida di prendere il toro per le corna. In che modo? Organizzando una nuova consultazione popolare che consenta di fare una scelta chiara sia sulla libera circolazione delle persone che sugli accordi bilaterali con l’Unione europea. Soltanto così si riuscirà a porre un punto finale ad un dossier che sta sfiancando la vita politica svizzera e che toglie tante energie ad iniziative e progetti, anch’essi importanti per il presente ed il futuro del Paese. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

Un fattore di deindustrializzazione La forza del franco Pesanti conseguenze dello «choc monetario» sull’industria d’esportazione. Un primo studio

sugli effetti di delocalizzazione, sulle cifre d’affari e sugli utili delle aziende Ignazio Bonoli Uno dei motivi – se non il principale – delle difficoltà attuali dell’economia svizzera (ma soprattutto della sua piazza industriale) è la forza del franco svizzero sui mercati finanziari internazionali. Quello che è stato definito lo «choc monetario», cioè l’abbandono della parità del franco con l’euro a 1,20 franchi ha messo in seria difficoltà la Svizzera, quale luogo di produzione industriale, a causa dei costi di per sé già elevati e quindi ulteriormente rincarati per l’esportazione. Ora, per certi settori produttivi, anche se con forte valore aggiunto, la forte riduzione dei margini di utile, subito attuate, si è accompagnata anche a una perdita di concorrenzialità nei confronti non solo dei Paesi europei, ma anche su tutto il mercato mondiale. In un primo tempo si è pensato che con misure quali l’aumento delle ore di lavoro non rimunerato e la compressione generale dei costi si sarebbe potuto resistere, ma col passare dei mesi le cose si sono aggravate, complice anche la scarsa crescita dell’economia in Europa. Si è quindi confermata e irrobustita, in qualche caso, la tendenza a delocalizzare impianti produttivi verso Paesi dai costi molto meno elevati. È trascorso poco più di un anno dalla decisione della Banca Nazionale Svizzera, per cui potrebbe essere prematuro trarre conclusioni certe. Tuttavia la Scuola politecnica federale di Losanna e l’Università di Ginevra

hanno pubblicato un primo studio sulle conseguenze dello «choc», studio che giunge a conclusioni piuttosto pessimistiche: «Il terremoto continua ad avere effetti sull’economia e appaiono i segni precursori di importanti delocalizzazioni». Analizzando i dati di 200 imprese svizzere quotate in borsa, i ricercatori trovano conferme della tendenza in atto. L’effetto del franco forte si è fatto sentire, nei primi sei mesi, nelle aziende esportatrici, tanto sulle cifre d’affari (–16,3% in media), quanto sull’utile netto (–20,4%). Inoltre gli esperti rilevano una diminuzione degli investimenti fino al 30% e un netto aumento di acquisizioni di siti o di infrastrutture fuori dai confini svizzeri. Difficile però valutare se un’azienda investe all’estero a causa del franco forte o perché segue una strategia messa in atto da tempo. Comunque l’aumento globale e rapido delle acquisizioni non lascia dubbi sul fatto che siano strettamente collegate all’abbandono del tasso minimo di cambio. Produrre altrove risolve il problema in termini di costi e di tassi di cambio. Tuttavia se le imprese svizzere attive sul piano internazionale vogliono rimpatriare i loro redditi, il franco è nuovamente fonte di guai, benché in misura minore. I dati delle piccole e medie aziende non sono ancora noti, ma si può pensare che siano sotto pressione se lavorano per l’estero, non avendo la possibilità di delocalizzare. Il caso tipico è quello dell’impresa che

automatizza al massimo la produzione, riducendo i costi, ma anche diminuendo i posti di lavoro. Il periodo molto breve dell’indagine e il campione limitato di aziende interpellate segnalano limiti importanti dello studio. Gli autori lo ammettono, ma vedono nei risultati una tendenza abbastanza chiara. Da qui resta però molto difficile azzardare qualche previsione evolutiva. I bilanci che vengono pubblicati dalle aziende in questi mesi confermano il momento delicato per l’economia svizzera, i cui responsabili ritengono generalmente che la situazione si ripeterà anche quest’anno. È pure difficile dire oggi se questa evoluzione sia dovuta alla brutalità del gesto della BNS (sorpresa radicale) oppure se si sia raggiunto un limite critico nell’industria d’esportazione. Ciò che si può vedere è comunque che le prospettive non sono positive. Né si possono avere risposte convincenti alla domanda se l’industria (o le sue aziende) è vittima, consumatrice o attrice della politica monetaria elvetica. In fondo, essa contribuisce pure alla forza del franco. Le esportazioni provocano infatti una forte domanda di franchi per pagare le fatture e quindi un aumento del tasso di cambio. La politica monetaria è poi in ogni caso integrata nei servizi contabili delle imprese e nei bilanci allestiti in franchi. Vittima lo può essere per decisioni pesanti della BNS, in ogni caso a breve scadenza. Nel caso in esame si delinea

Container con merci dirette all’estero al porto fluviale di Basilea: meno export equivale spesso a più delocalizzazione. (Keystone)

però una tendenza alla deindustrializzazione, che non può essere combattuta né dalla Banca Nazionale, né dalle imprese da sole. In realtà, sia le aziende esportatrici, sia la Banca Nazionale dipendono molto dall’estero, poiché sono chiamate ad operare in un contesto internazionale. Il tasso di cambio del franco svizzero dipende anche dalla situazione e dalla politica economica e monetaria del Paese corrispondente. È anche la debolezza strutturale dell’economia europea attuale che pesa sulla Svizze-

ra, per cui il franco forte può essere un aggravante, ma non è l’unico. Sull’altro fronte, se è logico che la Banca Nazionale debba preoccuparsi dell’economia svizzera, è anche vero che deve considerarne i molteplici aspetti, compresa una gestione efficiente e rivolta al futuro della politica monetaria. Nel caso specifico, non giova a nessuno che la BNS aumenti le riserve di divise a limiti insopportabili e non prive di pericoli. Deve ragionare perciò a lunga scadenza e non sempre in sintonia con le scadenze brevi delle imprese. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Immigrazione di massa: per intanto aspettiamo E così, per rispondere al mandato costituzionale, il Consiglio federale suggerisce che, se le negoziazioni con Bruxelles sulla possibile limitazione della libera circolazione non dovessero aver successo, il governo svizzero potrebbe adottare unilateralmente la clausola di protezione. Di fatto però la clausola proposta non piace ai partiti ed è difficile che possa piacere, nonostante l’ottimismo delle dichiarazioni del nostro ministro degli esteri, all’UE. Ma vediamo dapprima di che cosa si tratta. Nell’art. 14, capoverso 2, dell’accordo sulla libera circolazione è previsto che in caso di problemi gravi di natura economica o sociale la libera circolazione della manodopera può essere sospesa. La proposta del Consiglio federale prevede che se al primo giugno di un dato anno l’immigrazione dovesse superare una certa soglia nell’anno successivo il numero degli immigranti verrebbe limitato e verrebbero introdotti contingenti sia per i cittadini dell’UE, sia per quelli dei Paesi dell’AELS. Queste misure sa-

rebbero formulate da una commissione dell’immigrazione, che resta da creare, nella quale sarebbero rappresentati la Confederazione, i Cantoni e i partner sociali. La politica del contingentamento dell’immigrazione resterebbe quindi, diversamente da quanto, a suo tempo, era stato richiesto da diversi Cantoni, di competenza esclusivamente federale. La priorità per i lavoratori domiciliati non verrebbe valutata caso per caso, come dovrebbe avvenire nei confronti dell’immigrazione extra-comunitaria, ma sarebbe ritenuta unicamente come criterio di apprezzamento nella determinazione del limite assoluto e dei contingenti. Come si diceva, è difficile che questo regime di controllo annuale dell’immigrazione possa piacere all’UE. Le disposizioni dell’art. 14 dell’accordo sulla libera circolazione sono infatti da considerarsi come misure eccezionali, da limitarsi nella portata e nel tempo, non come il possibile pilastro di una politica di controllo continuo dell’immigrazione. Nella proposta del Consiglio

federale l’eccezione dovrebbe diventare la regola. È da escludere che l’UE sia disposta ad accettare questa proposta. Il Consiglio federale lo sa ed è per questo che propone di applicarla, in caso di mancato accordo con l’UE, in modo unilaterale. Altrettanto chiaramente questo regime di eccezione non corrisponde al dettato dell’iniziativa che ora è iscritto nella Costituzione. L’iniziativa domanda infatti che la Svizzera, in forza della sua sovranità, possa dotarsi di una politica di limitazione dell’immigrazione, da applicarsi in modo continuo, caratterizzata dall’introduzione di una limitazione del numero degli immigranti, di contingenti per ramo o per regione e della priorità di assunzione per i lavoratori domiciliati. La clausola di protezione, invece, fa dipendere l’introduzione di un limite e di contingenti solo dall’apprezzamento della situazione in materia di immigrazione che si farebbe a metà anno. Inoltre, come si è già ricordato, la priorità nell’assunzione ai lavoratori domiciliati non sarebbe

applicata con il rigore previsto dall’articolo costituzionale voluto dall’iniziativa contro l’immigrazione di massa. Se dunque c’è un aspetto che risulta chiaro, in questo rompicapo determinato dall’approvazione dell’iniziativa contro l’immigrazione di massa, è che la clausola di protezione non soddisfa né le norme dell’accordo sulla libera circolazione, né le rivendicazioni specificate nell’iniziativa. E allora perché il Consiglio federale la propone al parlamento? Perché, attualmente si trova in un’impasse. L’iniziativa domanda che il governo sottoponga un progetto esecutivo concreto al parlamento prima entro la fine del mese di gennaio del prossimo anno. L’UE, con la quale la Svizzera deve trattare, non è disposta a mettersi al tavolo delle trattative prima di sapere come andrà a finire la votazione sul Brexit. Di conseguenza oggi si può anticipare che, molto probabilmente, non vi sarà un accordo con l’UE prima della scadenza del termine entro il quale il Consiglio federale dovrà sottoporre

una soluzione al parlamento. E allora? Un possibile scenario potrebbe essere il seguente. Il Consiglio federale va in parlamento con la sua proposta. Il parlamento gliela respinge. Non essendoci il tempo per sviluppare un’alternativa il Consiglio federale introduce però la clausola di protezione in modo unilaterale con un decreto urgente per avere il tempo di negoziare una soluzione con l’UE. Oppure in attesa di risultati di nuove votazioni popolari che potrebbero servire a sciogliere l’impasse. Per intanto aspettiamo. PS: L’articolo era già in redazione quando è stata resa nota la proposta ticinese. Un commento a prima vista ci consente di dire che la stessa non è sostanzialmente diversa da quella del CF. In un punto si differenzia: nell’affidare la competenza dell’applicazione delle misure di controllo alle regioni (Cantoni?) piuttosto che alla Confederazione. Riguardo la sua fattibilità, valgono le osservazioni fatte a proposito della soluzione del Consiglio federale.

per un pugno di voti vince Valeria Valente, scelta dalla segreteria del partito. Non sono però candidati forti. Giachetti era il capo di gabinetto di Rutelli, e non ha neppure il sostegno di Rutelli. Valente era la pupilla di Bassolino, e si è messa in gioco contro Bassolino, il Totti della Campania, la conferma di quanto sia duro, almeno in Italia, lasciare la ribalta o vincere la tentazione dell’eterno ritorno. Resta da vedere se Giachetti e la Valente saranno in grado di diventare sindaci alle amministrative di giugno. Nei sondaggi sono messi male. Secondo quello pubblicato dal «Mattino», a Napoli oggi andrebbero al ballottaggio il sindaco De Magistris, benché non abbia alle spalle alcun partito – o forse proprio per questo –, e il candidato dei Cinque Stelle, che ancora non si sa neppure chi sia. Dati imbarazzanti per un Pd che Renzi vorrebbe ben ancorato al centro del campo; anche se il premier considera le comunali una sorta di

inevitabile scocciatura, un po’ come le regionali dell’anno scorso. E per l’uomo della rottamazione perdere a Napoli con la Valente sarebbe meno peggio che vincere con Bassolino. La vera partita di Renzi sarà il referendum di ottobre sulla riforma istituzionale. Arrivarci dopo aver perso qualche metropoli può persino aiutarlo a drammatizzare lo scontro e quindi a vincerlo; ma una serie di débacle darebbero forza alla sinistra interna – che anche ieri non ha battuto colpo –, e indebolirebbero il governo pure all’estero: due grillini sindaci a Roma e a Napoli sarebbero l’apertura dei siti di tutto il mondo. Nell’attesa del responso, la domenica un po’ troppo enfaticamente ribattezzata SuperSunday, consegna un’altra indicazione. Le primarie, quando sono regolari, funzionano, se non altro perché semplificano. Non si capisce perché debbano essere soltanto una «cosa di sinistra»; come se non ci fosse

un popolo di liberali e moderati altrettanto disponibile a partecipare. Anzi, la destra ne avrebbe bisogno più ancora della sinistra: storicamente maggioritaria nella società italiana, ha oggi un grave problema di ricambio e selezione della classe dirigente. Anziché gazebo improvvisati e consultazioni confermative, occorre riconoscere a militanti e opinione pubblica il diritto di scegliere il proprio candidato; a cominciare da Roma. Si decida liberamente e democraticamente tra Bertolaso, Meloni, Marchini; e si chiuda questa commedia. Più in generale, la destra sbaglia a puntare tutte le sue carte sul referendum di ottobre per mandare a casa Renzi. Un fronte antisistema che va da Salvini sino all’estrema sinistra, passando per Brunetta e Grillo e tenendo insieme quelli che Renzi chiama i «professoroni», si unisce per difendere il sistema, per conservare l’esistente, compresi i 315 senatori. Non mi pare una battaglia popolare.

che, non proprio secoli fa, proibiva di mangiar carne al venerdì, o il ballo, o alle donne di entrare in chiesa senza velo e che oggi si mostra invece aperto a ogni libertà, non solo di pensiero e di religione. Questa la schietta rievocazione di Silva: «La chiesa era grande quando produceva desiderio, i maliziosi dipinti commissionati agli artisti, gli indecifrabili affreschi, la vertiginosa maestà delle chiese erano tutti atti d’amore. La chiesa ancora trionfava alla fine degli anni Cinquanta, quando noi ragazzi si andava a sbirciare le ben protette gambe delle fanciulle intanto che rimbombava la minacciosa predica del parroco, che prometteva a noi tutti le delizie del peccato. E che piacere vedere le ragazze confessarsi, inginocchiate a dire… cosa? Mah, forse gli atti impuri che fantasticavano con noi ragazzi… e noi con loro… Eros volava tra i pilastri e le vetrate della chiesa, si accucciava sotto i banchi, seminava frecce. Ora non più. Artritici, i giovani di un tempo hanno abbandona-

to gli inginocchiatoi per le senili terme e il triste fango mentre i ragazzi e le ragazze di oggi agli incontri nelle chiese preferiscono quelli con il computer, il computo della loro pigrizia». Primo tentativo: esiste una connessione fra l’articolo della «Nzz» e quello del «Foglio»? Timidezza e fede, sconfitte quasi in contemporanea da computer e smartphone? Non sono in grado di fornire certezze. Ho però il presentimento che qualche fonte comune esista, tanto più che il terzo articolo citato è giunto a completare il quadro, proponendo l’aggiunta di un aumento della pigrizia nei giovani. Evoca questa tesi il musicista autore di Occhio alle orecchie per spiegare il calo di interesse verso musica classica e cori di gruppo in adolescenti e giovanissimi. Secondo Campogrande «assistiamo al proliferare di gruppi corali dai repertori caleidoscopici e che, pur se dilettanti (...), raggiungono livelli di eccellenza non indifferenti; ma allo stesso tempo si deve prendere atto di

una fascia di età compresa tra i quindici e i vent’anni che non mostra alcun interesse a cantare in gruppo, nemmeno per una strimpellata tra amici». Difficile a questo punto capire come mai al cantare e al suonare in compagnia, i giovani preferiscano le offerte delle nuove tecnologie, piombando in un isolamento che diventa palestra di forti mutamenti comportamentali. E decisamente ancor più difficoltoso cercare una correlazione fra l’assenza di interesse per la musica (classica o di gruppo) o l’aumento della pigrizia e la scomparsa della timidezza fra i giovani. Tanto più che a ingarbugliare la matassa arriva uno scienziato dell’università di Oxford. Studiando effetti e relative conseguenze dei media sociali sui giovani, è giunto alla conclusione che Facebook e Twitter stanno portando a un narcisismo estremo e a una «crisi di identità» i loro utenti. Torno a scriverlo: arduo essere giovani di questi tempi. Quasi come apparire timidi!

In&outlet di Aldo Cazzullo Supersunday alla napoletana Le primarie del Pd si sono rivelate un fallimento alla luce dello scandalo di Napoli, dove una serie di video rivelano la compravendita di voti a favore della vincitrice, Valeria Valente. Eppure domenica sera sembrava che le cose fossero andate meno peggio del previsto. Da una parte, molta gente si è recata a votare: a Roma ho visto code anche lunghe, almeno fino a quando c’è stato il sole (poi è scoppiato un temporale e molti si sono chiusi in casa). Dall’altra parte, il partito non è riuscito a gestire con serietà le primarie. Proprio come nel 2011, quando a Napoli vennero annullate. E a lungo andare uno strumento importante finisce per rivelarsi, se gestito in questo modo, controproducente. I riflettori stavolta erano puntati innanzitutto su Roma. Il discredito del Pd non potrebbe essere maggiore, così come il degrado della politica nella capitale. Eppure fin dal mattino presto gli elettori di centrosinistra hanno risposto. D’accor-

do: età media alta, come a teatro (ma gli anziani non sono mica cittadini di serie B); affluenza decisamente in flessione. Ma il confronto con il 2011 è improbo: in mezzo ci sono stati Mafia capitale e il disastro Marino. E domenica scorsa si confrontavano personaggi di seconda se non di terza fila. Di per sé, le primarie sono un mezzo utile ad attenuare la distanza tra elettori ed eletti, a rispondere alla domanda di partecipazione che nonostante gli scandali anima ancora le grandi città del Paese, come si era visto già a Milano. Ma occorrono regole serie e persone altrettanto serie che le facciano rispettare. Se il Pd non sarà costretto anche stavolta ad annullare le primarie di Napoli, alla fine avranno vinto i candidati di Renzi. Roberto Giachetti prevale a Roma, davanti a Roberto Morassut, che non si è schierato contro il premier ma aveva in teoria l’appoggio dei suoi nemici interni. A Napoli, come si è detto,

Zig-Zag di Ovidio Biffi Non c’è più timidezza Che cosa possono avere in comune la fede, la timidezza e la pigrizia? O se preferite: esiste un nesso fra le chiese vuote e il disinteresse dei giovani per il canto o la musica in gruppo e l’uso delle nuove tecnologie? Sono domande in apparenza banali, ma analizzando anche solo in superficie i vari fenomeni evocati emerge un’importanza meno scontata, più intrigante. È la lettura di tre articoli riguardanti i giovani che mi sono trovato in testa questi interrogativi e ho iniziato a cercare una connessione tra i contenuti evidenziati dai tre autori. Il primo, pubblicato dalla «Neue Zürcher Zeitung», era un lungo saggio di Birgit Schmid incentrato sulla timidezza. Il giorno dopo su «il Foglio» c’era uno scoppiettante articolo del cineasta Umberto Silva che spaziava su diversi temi, sempre in ambito di religiosità e di cattolicesimo, rievocando la sua gioventù. Sullo stesso giornale infine ho trovato anche la recensione di un

libro un po’ particolare: Occhio alle orecchie del compositore italiano Nicola Campogrande. Nel suo articolo Birgit Schmid si soffermava su un’interessante e sorprendente scoperta del nostro tempo: la scomparsa della timidezza nei giovani. Dopo aver passato in rassegna il mutamento, segnalando che forse è dovuto semplicemente al fatto che oggi la timidezza viene capita e curata in famiglia e a scuola in modo più efficace rispetto al passato, tra le possibili cause della scomparsa includeva anche l’avvento della comunicazione digitale, dagli smartphone alle varie social apps. L’intervento di Umberto Silva iniziava senza alcuna riservatezza sin dal titolo: «Perché la Chiesa paurosamente vacilla?». L’interrogativo serviva a Silva come una sorta di drone per sorvolare la figura e giudicare i metodi di papa Francesco, mettendo a fuoco gli anacronismi del cattolicesimo, gli stessi che hanno generato dubbi verso un credo



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Cultura e Spettacoli Una settimana a teatro La ricchezza della scena da Martone a Gassmann, passando per il Teatro di Pan

In arrivo il Titanic sul Ceresio In autunno Melide ospiterà un grande e indimenticabile spettacolo: il musical Titanic approda sul Ceresio

Addio a Claudio Origoni Sanguigno, passionale, amante della cultura: se ne è andato l’intellettuale Claudio Origoni

Un grande talento musicale Nonostante i suoi legami con il mondo Joana Maria Aderi ha un rapporto speciale con il Ticino

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Asfissiante cultura Mostre Jean Dubuffet alla Fondation Beyeler

di Basilea

Gianluigi Bellei Alla fine della Seconda guerra mondiale il mondo appare come frastornato, terrorizzato dagli avvenimenti passati. L’individuo scompare di fronte a realtà più grandi di lui e si trova impreparato, sconcertato, senza futuro. Il mondo è diventato più piccolo e il singolo può eclissarsi dalla faccia della terra senza che nessuno se ne accorga. La bomba atomica, e qui parliamo di Hiroshima e Nagasaki, porta, assieme alla guerra fredda, a un equilibrio di terrore. Nulla è più come prima; gli intellettuali e gli artisti si accorgono di questa precarietà. Nasce così l’Esistenzialismo che afferma la solitudine dell’uomo di fronte alla vita. Il filosofo Jean-Paul Sartre dà voce a questo malessere e l’arte diventa disagio, ferita, male di vivere. Una tendenza generalizzata che si traduce artisticamente non in un movimento unitario, bensì in un sentimento con varie diramazioni. In Italia si chiama Informale, in Francia Art Autre, Art Brut, Tachisme, negli Stati Uniti Action Painting o Abstract Expressionism. Informale può significare senza forma, ma dato che ogni opera contiene una forma il termine prende il significato di preformale e non-formalizzato. Insomma senza un canone definito, come avveniva fino a poco tempo prima. In Europa il critico francese Michel Tapié inventa i termini Art Autre, e Informel, indicando l’altro come il diverso, il nascosto, il pericoloso. Nel 1945 Jean Fautrier dipinge Otages, intendendo l’uomo come ostaggio della storia e degli altri uomini. Ma è Jean Dubuffet che rivoluziona la scena artistica. Per lui l’arte non è bellezza, composizione, colore, ma una sorta di viaggio dentro la purezza della non-storia, della non-cultura. Un mondo che ritorna alle origini e che vede nei malati di mente e negli esclusi dalla società i depositari di una verità primordiale e pura. Blaise Pascal aveva scritto che «gli uomini sono così necessariamente folli che sarebbe un’altra forma di follia non essere folli» e Dubuffet si pone ideologicamente – ma solo ideo-

logicamente, perché è l’artista di David Rockfeller e di Ernst Beyeler – contro il mondo dell’arte e della cultura. Scrive infatti che questa è l’attività di un gruppo ristretto di intellettuali che si considerano molto più intelligenti della gente normale. Parla di congrega, di banda di arrivisti, «morti, seduti nelle loro comode poltrone». «A certa gente – precisa – è sufficiente dire che l’autore di un’opera è un artista professionista, per rompere l’incantesimo. Tra gli artisti, come tra i cartomanti o gli amanti, i professionisti sono un po’ come imbroglioni». Per lui l’arte vera è un’altra. Quella che non si conosce, quella della follia che mette le ali ai piedi dell’uomo e non quella ufficiale dei camaleonti e delle scimmie. In Asphyxiante culture del 1968 scrive: «La cultura tende a occupare il posto che in altri tempi fu quello della religione. La cultura come la religione, ha oggi i suoi preti, i suoi profeti, i suoi santi, i suoi collegi di dignitari. Il conquistatore che vuol essere consacrato si presenta al popolo con al fianco non più un vescovo, ma un Premio Nobel. Il ricco prevaricatore per farsi assolvere dai suoi peccati non fonda più un’abbazia, ma un museo». Per lui si è parlato di «irritarte», tanto sconvolgente e fuori dai canoni sono le sue opere. Mondi archeologici, archetipi di un universo sporco e bituminoso, pieno di figure infantili e di materia grigia e senza tempo. Dubuffet è nel contempo drammatico e vitale, crudele, elementare. Certo, i suoi dipinti non sono sicuramente belli, e non voleva che lo fossero, non sono facili, non sono consolatori. Il suo mondo è quello dei malati di mente, dei bambini, degli ultimi che come lui non sanno disegnare, non sanno pitturare, non conoscono la grammatica e la vita. La Fondation Beyeler di Basilea gli dedica una bella mostra monografica che, partendo dai dipinti della fondazione – acquistati dal patriarca Ernst Beyeler che con Dubuffet stipulò un contratto esclusivo per le sue opere dal 1964 al 1971 –, si avvale di prestiti internazionali che spaziano dal MoMA e dal Guggenheim Museum di New York al Centre Pompidou di Parigi, dalla Na-

Jean Dubuffet, Paysage aux argus, 1955. Collage con ali di farfalla. (Collection Fondation Dubuffet, Paris. © 2015, ProLitteris, Zurich)

Particolare dell’installazione Coucou Bazar (1972-1973). (Collection Fondation Dubuffet, Paris. Foto: Les Arts Décoratifs, Paris/Luc Boegly, © 2015, ProLitteris, Zurich)

tional Gallery di Washington fino alla Fondation Dubuffet di Parigi. Il percorso parte dal 1942 quando Dubuffet a 41 anni affida a terzi la gestione del suo commercio di vini e, finanziariamente indipendente, inizia a pitturare seriamente. Nel ciclo intitolato Marionnettes de la ville et de la campagne l’artista sintetizza con colori accesi il corpo umano in volti fissi e trame articolate e simmetriche. In seguito il corpo diviene l’intreccio di un paesaggio che attraverso il nudo femminile si fa ancestrale e polimaterico. I materiali si fanno via via maggiormente naturali, dal fango alla melma ai detriti fossili, sino alle poetiche ali di farfalla che riempiono la superficie del dipinto in uno sfavillante tripudio di colori. L’uso di nuovi materiali investe pure la scultura per generare manufatti antropomorfi realizzati

per esempio con spugne come nel caso di Saïmiri del 1954. Fra il 1962 e il 1974 realizza il ciclo battezzato L’Hourloupe, una sorta di urlo o ululato del lupo, nel quale l’arte si fa scultura, teatro, musica. I materiali non sono più legati alla natura ma diventano sintetici: l’artista utilizza il polistirolo, il poliestere e la resina epossidica. I paesaggi paiono intricate strade zeppe di ancestrali figure segniche come in una babelica visione infantile. Il ciclo si decanta e sintetizza poi nel lavoro teatrale Coucou Bazar nel quale pittura, scultura, danza e musica si fondono in un’incredibile, affascinante, misteriosa, inquietante, gigantesca installazione di 42 elementi che sono l’apogeo della mostra basilese. Ma sono i suoi ultimi anni che, secondo noi, danno a Dubuffet maggior libertà dall’ideologia di fondo e dalle

costrizioni della materia e che ci regalano grandiosi dipinti come Le Cours des choses del 1983, un segnico acrilico immaginifico di blu e rosso e soprattutto il mirabolante e freschissimo Le Circulus II del 1984 della serie Non-lieux dipinto un anno prima della morte. Da vedere assolutamente il mercoledì e la domenica alle 15 e alle 17 le due figure con i costumi di Coucou Bazar che presentano nelle sale del museo una performance, sofferta e straniante. Dove e quando

Jean Dubuffet. Metamorfosi del paesaggio. A cura di Raphaël Bouvier. Basilea, Fondation Beyeler. Fino all’8 maggio. Tutti i giorni 10.00-18.00, mercoledì fino alle 20.00. Catalogo Hatje Cantz, D/E, fr. 62.50. www.fondationbeyeler.ch


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Cultura e Spettacoli

A che punto deve fermarsi la rivoluzione? Teatro Mario Martone ha inscenato Morte di Danton di Georg Büchner

Giovanni Fattorini Colpita con estrema durezza l’ala più radicale della rivoluzione (gli hébertisti, facenti parte degli «esagerati»), i giacobini guidati da Robespierre puntano all’annientamento del gruppo di moderati (gli «indulgenti») formatosi nel novembre del 1793 intorno a Danton e Desmoulins. Per decreto del Comitato di Salute Pubblica, nella notte fra il 30 e il 31 marzo del ’94 Danton viene arrestato e rinchiuso – insieme a Desmoulins, Philippeaux e Lacroix – nella prigione del Luxembourg. Con altri 15 imputati, il 2 aprile compare davanti al Tribunale rivoluzionario (istituito dalla Convenzione Nazionale nel marzo del ’93 – proprio su proposta di Danton – e destinato a diventare, nelle mani di Robespierre e dei suoi seguaci

– tra cui l’amico Saint-Just – un efficacissimo strumento di terrore). Accusato di cospirazione, Danton si difende con vigorosa eloquenza, ma inutilmente. La sentenza di condanna a morte mediante decapitazione viene eseguita in piazza della Rivoluzione il 5 aprile 1794. (Robespierre sarà ghigliottinato il 27 luglio). Questi, in estrema sintesi, i fatti storici riguardanti gli ultimi mesi di vita di un uomo che figura tra i protagonisti della rivoluzione francese, e che il ventiduenne Georg Büchner ha posto al centro del dramma in quattro atti Dantons Tod (Morte di Danton), composto nel 1835 nella casa paterna di Darmstadt, dopo essere fuggito da Giessen («i poliziotti sono stati la mia musa»), dove aveva fondato la «Società dei diritti dell’uomo» e scritto Il messaggero assiano, un pamphlet che in-

Giuseppe Battiston è fra i protagonisti di Morte di Danton. (Foto Mario Spada)

citava i contadini alla rivolta contro il granducato d’Assia. Nel dramma di Büchner, Danton è un uomo dai pensieri e dai sentimenti mutevoli e contraddittori (anche se in lui sembrano prevalere, col succedersi dei giorni e degli eventi, la disillusione, la stanchezza, la noia, la fatica di protrarre quel complicato processo di decomposizione che è la vita). Inizialmente convinto che i suoi avversari non oseranno eliminarlo, Danton non esita ad affrontare in privato Robespierre (l’Incorruttibile asserisce che «il terrore è un’emanazione della virtù», e che «il vizio» – in quanto crimine non solo morale ma politico – «dev’essere punito»), per ribadire che non vede la necessità di continuare ad uccidere, per dirgli che la sua rettitudine è rivoltante, per chiedergli se non ha mai dubitato di mentire, per rivendicare il diritto al piacere di ogni essere umano. Davanti al giudice Herman, dice di averne abbastanza («presto il nulla sarà il mio rifugio; la vita mi è di peso, non vedo l’ora di togliermela di dosso»), ma in attesa del verdetto esclama: «No, non posso morire. Dovranno strapparmi dalle membra ogni goccia di vita». Dice a Julie, sua moglie: «Siamo marionette tenute al filo da forze sconosciute, non siamo niente per noi stessi, niente!», ma poi ricorda con forza, di fronte al Tribunale, i propri meriti di rivoluzionario, e accusa di alto tradimento Robespierre e Saint-Just perché «vogliono affogare nel sangue la repubblica». I quattro atti del dramma si compongono di scene brevi o brevissime, ambientate in luoghi diversi, al chiuso o all’aperto. Forse suggestionato da una frase di Danton, che assimila la rivoluzione a una rappresentazione teatrale in cui si viene pugnalati sul serio, il regista Mario Martone ha pensato

– anche al fine di sveltire il ritmo della rappresentazione – di articolare lo spazio scenico per mezzo di cinque grandi sipari di velluto rosso che si aprono e si chiudono rapidamente – a volte con un rumore che ricorda lo scorrere di una lama di ghigliottina – in rapporto con lo spostarsi dell’azione da un luogo all’altro. Nelle scene di piazza – dove è protagonista il popolo – gli attori si distribuiscono anche in platea e in balconata, con effetti di coinvolgente coralità. Benché l’arredo delle scene sia complessivamente sobrio, lo spettacolo può ben dirsi imponente, per via dei sontuosi sipari di velluto e della folta compagine di attori (l’impegno produttivo è di quelli che solo un teatro stabile può affrontare: in questo caso lo Stabile di Torino). In conclusione: uno spettacolo con scene di forte tensione drammatica e altre piuttosto fiacche (poco riusciti, in particolare, sono i passaggi che dovrebbero far ridere e non fanno ridere affatto, per difetto anzitutto dell’autore, che si propone di emulare le alternanze shakespeariane di registro drammatico e registro comico). Poiché gli attori sono trenta, spero di venir perdonato se ne menzionerò soltanto quattro: Giuseppe Battiston (Danton), a volte intenso, vibrante, a volte spento, incolore; Paolo Graziosi, bravissimo nel ruolo dell’arguto illuminista Thomas Payne (che si professa ateista, mentre l’autentico Paine era deista); Fausto Cabra, nei panni di Saint-Just, giovane e lucido raziocinatore; e per terminare in bellezza: Paolo Pierobon, superlativo Robespierre. Dove e quando

Lugano, Sala Teatro LAC, 15 e 16 marzo. www.luganolac.ch

Tra Odissea e realtà del lavoro, due spettacoli socialmente impegnati In scena Questa settimana sui palchi ticinesi due interessanti proposte, la prima

frutto della creatività locale, la seconda di respiro internazionale

Giorgio Thoeni Attraverso il viaggio si manifestano i desideri, le ambizioni, le curiosità, l’umanità, i sentimenti più audaci ma anche le paure, l’ansia e l’eccitazione della scoperta. Con il viaggio nutriamo la nostra parte più viva ma spesso nascosta e misteriosa. Il mito che più di tutti rappresenta questo straordinario universo è rappresentato dal personaggio di Ulisse e racchiuso nell’opera che da millenni lo racconta: l’Odissea. Riascoltare le avventure del guerriero partito per conquistare Troia e tornato a casa dopo vent’anni non ci stanca mai, è intramontabile. Una storia eterna che continua a far sognare. L’idea di riportare in scena il poema di Omero per destinarlo a una platea di spettatori a partire dai 12 anni è venuta alla compagnia del Teatro Pan che ha allestito Odissea: un racconto che ritorna sulla base di un testo di Daniela Almansi che la regia di Luca Chieregato ha modulato per due protagonisti su un palco addobbato a stento: libri, una lavagna e una chitarra per l’attrice Cinzia Morandi e l’attore-musicista Nicola Cioce. Un teatro fatto di idee, semplici ma geniali, con una buona dose di ini-

ziativa attoriale ben ripagata dall’attenzione del pubblico. La scena è per una narrazione spiritosa, smagata, sensibile, in cui s’intrecciano parole e musica attraverso simpatici battibecchi tra i due attori lungo una storia che abbandona la pedanteria di singoli episodi per invitare alla conoscenza, all’amore per la lettura come necessità e virtù. Abbiamo visto lo spettacolo in replica al Teatro Foce di Lugano, un’ora di rappresentazione intelligente e divertente per un messaggio trasversale di civile accoglienza verso lo straniero che ha messo in luce il taglio pacato e

Ottavia Piccolo, protagonista di 7 minuti, spettacolo diretto da Alessandro Gassmann.

sicuro dell’ironica narrazione di Cinzia Morandi e l’azzeccato e spassoso estro mediterraneo di Nicola Cioce. Una produzione che varrebbe la pena mostrare ad ampie scolaresche. Spostiamo ora la nostra attenzione su LuganoInScena per parlare di 7 minuti di Stefano Massini con protagonista Ottavia Piccolo. Reduce dal ronconiano Lehmann Trilogy, il nuovo responsabile artistico del Piccolo e vincitore del Premio Ubu (2013) è oggi portavoce di una drammaturgia socialmente impegnata, come dimostra questo bel testo che racconta una storia

operaia al femminile in uno spettacolo visto sulla scena del LAC in coincidenza con l’8 marzo. «È possibile parlare di solidarietà in un’economia basata su una concorrenza spietata? È l’uomo che governa il mercato o è il mercato che governa l’uomo?» si chiedeva il presidente uruguaiano Josè Mujica, davanti a un’attonita platea politica internazionale in un discorso passato alla Storia. La vicenda che Massini ha tradotto in un intenso atto unico, è realmente accaduta e lui ce la racconta in un confronto dialettico attuale sulla dignità del lavoro in rapporto con il tempo. 7 minuti di pausa in meno: questa è la proposta del padronato alle lavoratrici per evitare il licenziamento. 7 minuti che moltiplicati per il numero delle operaie aumenta di 600 ore al mese il loro tempo di lavoro. Le undici donne rappresentanti del Consiglio di Fabbrica devono decidere: fra di loro giovani e anziane operaie riflettono, si scontrano in un’ora e mezza di tensione dialettica accompagnata da un’eccellente Ottavia Piccolo e da un affiatato gruppo di attrici in uno spettacolo a cui la regia di Alessandro Gassmann ha dato la giusta enfasi iperrealista.

Da quattro mura al mondo Cinemando Meritato

l’Oscar di Brie Larson

Fabio Fumagalli ** Room, di Lenny Abrahamson, con Brie Larson, Megan Park, William H. Macy, Joan Allen, Jacob Tremblay (Irlanda-Canada 2015)

Un ragazzino di cinque anni, una mamma, la stanza che dà il titolo al film. Che si tratti di un luogo particolare è facile da intuire: quell’amore così esclusivo tra i due personaggi è costretto in pochi metri quadrati. Da un lucernario sul soffitto proviene la poca luce del giorno; la sola esistenza del mondo esterno giunge dallo schermo di un piccolo televisore dalle immagini perturbate. Un sequestro. Una donna con un figlio di cinque anni, avuto da un individuo che intravvediamo di sfuggita; imprigionati da sette anni, all’interno di un container in giardino, nascondiglio insonorizzato e blindato, incredibilmente ignorato da tutti. Celebri fatti di cronaca che fecero scalpore, come quello della ragazza austriaca Natascha Kampusch sequestrata per anni. Ma la sceneggiatrice e autrice del romanzo al quale Room s’ispira, Emma Donoghue, irlandese come il regista Lenny Abrahamson, non ha (fortunatamente) inteso avventurarsi nell’orrore, né tantomeno nel thriller o nell’inchiesta poliziesca. Ad interessare gli autori è l’universo in cui si svolge il dramma: dapprima uno spazio fisico così esiguo e protratto nel tempo da non potere che farsi sempre più spazio mentale. Poi, una volta superato lo sconcerto iniziale dello spettatore per la situazione, ecco imporsi progressivamente il rapporto quasi invadente fra madre e figlio. Infine, nella seconda parte, un altro condizionamento, altrettanto drammatico: fra i due protagonisti e una realtà dimenticata o addirittura mai vissuta dal bimbo. Regista formatosi in una dimensione intima come l’Irlanda, Lenny Abrahamson fruisce di una produzione internazionale importante; e sembra adeguarsi ai nuovi mezzi, nei toni come nel modo di esprimerli. Pur non situandosi fra i capolavori del genere: uno fra tutti, Il collezionista (1965) di William Wyler, con l’inquietante cultore di farfalle Terence Stamp e un’indimenticabile Samantha Eggar, indecisa se indulgere nella celebre sindrome di Stoccolma. Ma è quando si addentra fra le (interessanti) difficoltà d’inserimento sociale della seconda parte che il film mostra certe crepe che già affiorano all’inizio: non più tenuti a bada, dilagano allora lacrime e buoni sentimenti, mentre le indagini psicologiche e i comportamenti sociali finiscono per apparire scontati. Gli attori in casi del genere risultano da Oscar, come regolarmente è avvenuto per l’interpretazione femminile a mamma Brie Larson. Risaltano valorosi comprimari come Joan Allen o il grande William H. Macy dei fratelli Coen; ma colui al quale è facile predire un futuro da ragazzino ad uso hollywoodiano è il piccolo protagonista, Jacob Tremblay.


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Cultura e Spettacoli

Rivisitazioni necessarie Incontri Intervista con Giulio Ricciarelli, regista del film Il labirinto del Silenzio, in cui si ripercorre

il processo di Francoforte del 1963 Blanche Greco Forse mai come quest’anno, il cinema ha portato agli Oscar tante storie vere, non solo vicende degne di un romanzo, ma anche fatti e persone cancellate dall’oblio, che hanno riconquistato il loro posto nella Storia e affascinato il pubblico. È il caso di Il labirinto del Silenzio, film designato per rappresentare la Germania all’Oscar per il Miglior film straniero che, pur non essendo entrato nella cinquina finale e non avendo vinto la statuetta, per il pubblico tedesco è di gran lunga il più importante. Narra infatti la storia di un processo epocale di cui tutti in Germania avevano paura e di Fritz Bauer, il magistrato deciso a portare gli orrori dell’Olocausto in tribunale. Una storia realmente accaduta che si è trasformata in un successo al botteghino e, soprattutto per i tedeschi, in una emozionante riscoperta storica, come ci ha detto il regista, Giulio Ricciarelli, cinquant’anni, padre italiano, pluripremiato documentarista, incontrato a Roma qualche settimana fa, alla presentazione del film: «La prima volta che ho sentito questa storia mi pareva incredibile. Possibile che nella Germania degli anni 50-60 si potesse scegliere di dimenticare gli orrori dell’Olocausto, e che tanti tedeschi non sapessero cos’era stato Auschwitz? La Germania in cui io sono cresciuto insegnava a scuola quel periodo, eppure anche io, come molti tedeschi, ignoravo che nel 1963 si fosse svolto a Francoforte un processo

contro un gruppo di SS e di funzionari del Campo di concentramento di Auschwitz, che erano stati, alla fine, inchiodati alle proprie responsabilità». Il labirinto del silenzio narra la battaglia dei Pubblici Ministeri che istruirono il processo e le enormi difficoltà che dovettero affrontare. «Il tema dell’Olocausto ha una tale forza che persino mentre scrivi la sceneggiatura senti come una scossa elettrica che ti invade» – ha ricordato Giulio Ricciarelli – «e questo, oltre al materiale che avevamo, mi ha convinto a farne un film che andasse al di là del documentario, che parlasse alla testa e al cuore del pubblico, perché i fatti storici da soli, senza le emozioni e i sentimenti, non bastavano a spiegare cosa fosse realmente successo all’epoca». Il film inizia nel 1958, in una Germania in pieno boom economico, che sta faticosamente ricostruendosi. La gente è piena di speranze e vuole dimenticare la guerra; imperano la moda, il rock’n’roll e la voglia di godersi la vita. In questo clima, un giorno in un tribunale di Francoforte un pittore dà in escandescenze riconoscendo in un insegnante incontrato lì per caso uno dei suoi aguzzini di Auschwitz. La cosa richiama l’attenzione di un giovane Pubblico Ministero, Johan Radman (Alexander Fehling) e di un giornalista, Thomas Gnielka (André Szymanski), che si mettono ad indagare su Auschwitz. Le ricerche risultano difficili. Tuttavia il Pubblico Ministero Generale, Fritz Bauer (Gert Voss) li incoraggia a con-

Alexander Fehling in una scena de Il labirinto del silenzio di Giulio Ricciarelli.

tinuare e con il ritrovamento di alcuni documenti dove figurano dei nomi di persone coinvolte e le loro mansioni nel campo di concentramento, il caso diventa ufficiale. Ma per perseguire legalmente i colpevoli dei crimini commessi ad Auschwitz, ci vogliono le testimonianze degli ex prigionieri sopravvissuti, persone traumatizzate, impaurite, consapevoli che i loro aguz-

zini, tolta la divisa, spesso vivono un’esistenza normale accanto a loro: sono idraulici, panettieri, gioviali postini. «La documentazione del processo che presentiamo è autentica, così come i fatti, le testimonianze e le argomentazioni degli avvocati difensori, che in certi casi utilizzarono tesi scandalose per scagionare i loro assistiti», ci ha detto Giulio Ricciarel-

li, «È venuto sul set anche uno dei tre veri Pubblici Ministeri dell’epoca, ormai ottantenne. L’unica libertà che ci siamo presi, è stata romanzare un po’ i personaggi, come Fritz Bauer, dimenticato per cinquant’anni, che fu determinante per il processo del 1963. Avvocato ebreo internato in un campo di concentramento nel 1933, e, dopo la guerra, Procuratore Generale a Francoforte, Bauer è andato con coraggio, contro quanti pensavano, come il Cancelliere Federale Konrad Adenauer, che fosse meglio seppellire il passato col silenzio». Il film mostra come questo processo fosse considerato un evento catastrofico, anche da chi non era stato nazista: «Pensavano che la “giovane” Germania, dovesse concentrarsi sul futuro e non riaprire vecchie ferite, perché, come spiega Giulio Ricciarelli, il rischio era che tutta una generazione finisse sul banco degli accusati. Ma oggi non si può capire il movimento del ’68 in Germania, senza pensare al processo del ’63. I giovani tedeschi chiesero ai loro padri cosa avessero fatto durante la guerra. O perché non si fossero opposti alle atrocità dell’Olocausto. Ciò che non era emerso durante il processo di Francoforte venne messo a nudo pochi anni dopo dal ’68». Nel film, intenso e coinvolgente, per ricreare l’atmosfera degli anni 50, Ricciarelli si è appoggiato anche alla musica, ad esempio alle canzoni di Vico Torriani, in quegli anni molto amato in Germania. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 14 marzo 2016 ¶ N. 11

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Cultura e Spettacoli

Un appuntamento titanico Musical Il grande evento ticinese dell’estate 2016, in collaborazione con Migros Ticino

Benedicta Froelich Perfino oggi, a oltre un secolo dal suo affondamento, non è esagerato affermare che quello del transatlantico britannico Titanic resta forse uno dei nomi storici più universalmente noti ed evocativi – talmente riconoscibile a livello internazionale da scatenare grandi emozioni alla sola menzione. Che tale popolarità sia, oggi, più attuale che mai anche in Svizzera lo conferma il grande evento che, tra il 10 agosto e il 10 settembre 2016, vedrà la sponda di Melide del lago di Lugano trasformarsi in un immenso teatro open air grazie all’innalzamento di un imponente e sfarzoso palcoscenico, il quale ricreerà, in dimensioni tanto ragguardevoli da dare quasi l’impressione di una ricostruzione a grandezza naturale, la nave più famosa di tutti i tempi. Sta infatti per approdare in Ticino la megaproduzione Titanic – Openair Musical, reduce da grandi successi in Svizzera interna, dove nel solo 2015 oltre quarantaduemila spettatori hanno assistito alle avventure di Kate McGowan e Jim Farrell, passeggeri dello sventurato vascello e protagonisti di una struggente storia d’amore a bordo. In origine pluripremiata hit di Broadway firmata da Peter Stone e portata alla ribalta teatrale quasi in contemporanea al kolossal cinematografico di James Cameron (1997), oggi questo musical di grande respiro viene proposto per la prima volta anche al pubblico italofono – tramite quella che può davvero definirsi, secondo le parole di Marco

Wyss, direttore della società produttrice TSW Ticino AG, «una grande prestazione». E per il nostro Cantone si tratta in effetti di un evento di ragguardevole spessore artistico e mediatico, frutto di una significativa unione di intenti tra ben ventisei comuni del distretto, con la collaborazione dell’Ente Regionale per lo Sviluppo del Luganese (ERSL), di Lugano Turismo e di diversi investitori privati: uno sforzo corale non da poco, che, come ha sottolineato Giovanni Bruschetti, presidente dell’ERSL, riguarda «una manifestazione di richiamo nazionale, e non solo». Manifestazione che si avvarrà di un cast di ben ventisei attori professionisti e di un’orchestra di quattordici elementi, ma anche di comparse scelte tra i dilettanti della regione, in una comunione d’intenti grazie alla quale la società Walensee-Bühne, che da dieci anni rappresenta il musical Titanic sullo sfondo del lago di Walenstadt, ha saputo realizzare il sogno di portare questo grande spettacolo oltre Gottardo, potendo contare in primis sull’entusiasmo del comune di Melide e sul sostegno di Migros Ticino come sponsor principale. Come conferma Angelo Geninazzi, sindaco della cittadina che ospiterà l’evento, Titanic ha saputo unire il Luganese in modo produttivo, rivelandosi un’ottima opportunità per offrire aiuto al turismo in un momento difficile, con la dichiarata intenzione di dimostrare come il Ticino sia ancora in grado di accogliere e intrattenere in grande stile i suoi visitato-

La suggestiva scenografia della versione 2015 del musical Titanic. swiss-image.ch (Andy Mettler)

ri. Quello del musical sul lago, del resto, è un progetto innovativo e stimolante, particolarmente indicato per la stagione turistica estiva, grazie anche alla cura nei dettagli della produzione, che offrirà al pubblico un mese di rappresentazioni sia in italiano che tedesco e un’ampia tribuna coperta a prova di pioggia – senza contare la ricca proposta gastronomica all’interno dell’area del musical, curata da Party Service Migros, e

le offerte speciali riservate alle famiglie con bambini e ai viaggiatori che vogliano raggiungere Melide in treno. Una grande occasione per la piazza artistica ticinese, con l’obiettivo di valorizzare il territorio attirando non soltanto turisti provenienti da altri cantoni, ma anche dal vicino Nord Italia e perfino dai paesi limitrofi. Tutto per gioire ancora una volta della riscoperta di una delle più intriganti vicende che la storia moderna

ci offra – stavolta proprio sullo sfondo di casa nostra, lungo la riva di acque familiari e affascinanti come quelle del lago di Lugano. Informazioni

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Cultura e Spettacoli

Leggere il mondo Fotografia La Fondazione Diamante propone una doppia mostra al Canvetto luganese e all’Uliatt

di Chiasso con immagini di Aldo Balmelli e Jacek Pulawski Giovanni Medolago La Fondazione Diamante propone nei suoi due ristoranti sottocenerini (il Canvetto luganese e l’Uliatt di Chiasso) due mostre fotografiche che, forse, più diverse non potrebbero essere. La prima dedicata a Jacek Pulawski, fotografo votato alla documentaristica e con una passione per la pregnanza del bianco e nero. La seconda presenta il recente lavoro di Aldo Balmelli, Breggia, in cui spiccano i colori sgargianti e la ricerca dell’insolito. Pulawski – com’è sua prassi sin dal lavoro sul mondo della prostitu-

zione a Chiasso (che nel 2010 gli è valso lo Swiss Photo Award) – prima di scattare si documenta sul campo, condividendo momenti e situazioni con chi diverrà soggetto delle sue immagini. È convinto che «un buon fotografo non è come una falena che va verso la luce alla ricerca di cibo», spiega «deve cercare di emettere luce proprio là dove non ce n’è». Non c’è luce nei sei intensi ritratti monocromati su toni marroni che accolgono il visitatore. Sguardi attoniti e disincantati di chi guarda al futuro con apprensione, due occhi ancor più inquieti dietro uno spioncino minuscolo, sbarrato e pron-

Il comune di Breggia secondo il fotografo Aldo Balmelli.

to a rinchiudersi sulla porta (bianca, stavolta). Pulawski vuol dar voce a chi non ce l’ha, vuole mostrarci chi è ai margini, soffre e dà fastidio. Le sue immagini sono esplicite: è un fotografo che si arrabbia quando i critici (sprovveduti) dicono che «ormai abbiamo visto tutto». No, Jacek Pulawski crede che ci siano mondi e realtà che non hanno avuto sufficiente visibilità: attualmente sta esplorando quella dei senzatetto milanesi, coi quali vive tre giorni e due notti a settimana. Ma accanto alle immagini di denuncia sociale, ecco che il fotografo ci offre anche il camera look di un elefante, imbarazzato mentre la sua domatrice lo sta complimentando. E nel mondo del circo trova pure una dimensione lunare… Anche Aldo Balmelli ha le sue realtà sulle quali indagare. Dopo il lungo tragitto su e giù per il Ticino a caccia di graffiti (uno di questi fa ancora capolino accanto a una betulla!), stavolta ha circoscritto la sua ricerca su un singolo toponimo: Breggia. Conferma così il suo stile, che già caratterizzava i lavori su Napoli e Palermo – pensiamo soprattutto agli accostamenti di colori sgargianti per inquadrature in cui predomina l’insolito: stavolta è un manichino «pel di carota» che da dietro gli occhiali scuri tiene d’occhio l’ingresso d’un villaggio. Oppure un Cristo decollato e che per giunta sembra finito nel giardino onsernonese di Armand Schultess, l’artista/filosofo naïf che

Un’immagine scattata da Jacek Pulawski a Milano.

scriveva i suoi pensieri su pezzi di latta per poi appenderli ai rami dei suoi alberi. Alla curiosità del suo occhio, che suggerisce talvolta un malcelato tocco d’ironia, Balmelli sa alternare verticalmente, cromaticamente e su più piani le sue inquadrature: un brullo Monte Generoso dietro un muro bianco; l’imposta rossa con un’altra montagna lontana sullo sfondo. E infine (ma l’elenco potrebbe continuare, allargandosi a inquadrature tagliate lungo la diagonale) la facciata di una casa – con una finestra arancione trompe l’oeil – geometricamente spezzata da una parete bianca.

Due mostre molto diverse, dicevamo: Pulawski fa della fotografia soprattutto un’arma per denunciare e la vive quasi fosse una missione, Balmelli (ma non è affatto una nota di demerito) la usa per soddisfare la sua curiosità e per sorprenderci con l’insolito. Dove e quando

Jacek Pulawski, 2009-2014. Lugano, Canvetto Luganese, (Via Simen 14b). Orari: ma-sa, 8.30-22.30. Fino al 26 marzo 2016. Aldo Balmelli, Breggia. Chiasso, Osteria l’Uliatt (Via dei Fontana da Sagno). Fino al 15 aprile 2016. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Mancherai all’abitudine della sera In memoriam Ricordo di un amico della letteratura:

Claudio Origoni è scomparso recentemente

Stefano Vassere Ricordo perfettamente, nel suo svolgimento scenico, il primo incontro con Claudio Origoni, ormai una trentina di anni fa; ero entrato per la prima volta nella Libreria dei ragazzi, ai margini del borgo di Mendrisio, in Via Gismonda. Di Claudio ricordo, in quel giorno, lo stare un po’ a disagio dietro al banco del negozio e la postura nell’avvicinarsi a uno scaffale per estrarne due libri che

Claudio Origoni è stato molte cose legate a cultura e lettura: docente e libraio, giurato e divulgatore ora ho di là: uno era certamente L’uovo alla kok, del comasco Aldo Buzzi, l’altro uno tra Libera nos a Malo o Pomo pero – non so più – di Luigi Meneghello. L’avrei incontrato ancora molte e molte volte, in varie forme, vari statuti, varie epoche e compagnie: lanciati come forsennati con lui al volante e io schiacciato sul sedile passeggeri lungo l’autostrada verso un paesino della Bergamasca; sorseggiando Campari estivi sul terrazzo di un ristorante di

Biasca; un po’ in imbarazzo in affollato bar con tifoserie urlanti davanti a una partita in televisione; a casa sua ad Arzo con grembiulino mentre prepara risotti e polente; più e più volte a presentazioni e iniziative culturali; al telefono per l’ormai desueta pratica del commento a libri e articoli di argomento culturale. Claudio Origoni era nato nel 1944, cittadino patrizio di Riva San Vitale per parte di padre e di Adrara San Martino, valle della Guerna, nella più gaia Bergamasca, per parte di madre. Negli anni è stato molte cose, tutte legate alla cultura e alla lettura: docente di italiano alla scuola media per oltre trenta anni, ma anche, appunto, librario; poi, autore di articoli e recensioni sulla letteratura e sulla letteratura per l’infanzia, membro di giurie di premi di scrittura, divulgatore in varie forme, scrittore e narratore, autore di testi per la scuola. Di quest’ultima attività, per esempio, tutti ricordano la bella antologia Tempo di poesia curata insieme a Federico Martinoni per gli allievi del secondo ciclo elementare, che si apre guarda caso con la più felicemente infantile Vivian Lamarque e che tutti vorrebbero come libro di testo sulle piccole scrivanie colorate dei propri bambini. Ho avuto soprattutto il piacere di collaborare con lui in qualche occasio-

ne, principalmente nella giuria del concorso di scrittura Tre Valli e nelle sedute della Sottocommissione letteratura e pubblicazioni del Cantone, dove gli veniva un carattere, all’inizio per tutti sorprendente, di attenzione e sistematicità positivamente scolastiche; lo applicava alle schede di valutazione, così come altrove, nella saggistica e nelle introduzioni a qualche libro che scriveva. Una specie di «vestito della festa» stilistico che mi ricordava ogni volta il doppio canone del più consapevole mondo contadino, quello che affonda mani quotidiane nella terra e nel lavoro ma che sa trovare insieme l’energia e il passo di un contegno più formale e controllato quando il contesto lo esige. Una doppia marcia che Claudio Origoni lasciava riconoscere nei racconti delle due raccolte, Nini, storia di un’infanzia (del 2008) e La fedeltà delle stagioni (del 2011). Sono cronache di emigrazione, ma di un’emigrazione di tipo domestico, perché partita dalla Lombardia verso il Mendrisiotto, e quindi prossima, immediata, precaria, non definitiva: i suoi protagonisti, soprattutto quelli più giovani, si distribuiscono tra inverni operosi e scolastici a Riva San Vitale e estati infinite e pregne di libertà e smania ad Adrara San Martino. Queste sono le prospettive, insieme a un modo sensibile e personale di trattare il mon-

Istrionico e sanguigno, Claudio Origoni. (Ti-Press)

do degli affetti, dei rapporti amorosi, e a molte declinazioni del mondo femminile: zie e ziette, madri, sorelle, cugine insinuanti e allusive, che a loro volta abitano la vita del ragazzo sul terreno di quella doppia prospettiva geografica ed esistenziale. Ecco, in questo modo Claudio Origoni ha certamente inventato, con i suoi racconti, un filone e un genere, e a lui dobbiamo qualcosa che stranamente mancava alla letteratura della Svizzera italiana. Alla fine della raccolta intitolata La fedeltà delle stagioni c’è Al fratello,

una delle più belle poesie di Attilio Bertolucci. Fa così: «Più freddi ora dispiega i suoi vessilli / d’ombra il tramonto, / un chiaro lume nasce / dove tu dolce manchi / all’antica abitudine serale». Ecco, mancherà l’antica abitudine al caro e caro Claudio e ci mancherà la sua inarrestabile e dolce consuetudine con il libro e la lettura. Al suo funerale di Lugano, in mezzo a tanta neve, amici lo hanno ricordato con stile, come si usa fare nella virtuosa e bistrattata comunità degli intellettuali. Leggendo poesie e ascoltando canzoni. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Di Joana Maria Aderi, ticinese per caso

Un glorioso Lago dei cigni

Musica Incontro con la cantante di Phall Fatale e Sissy Fox,

di Zurigo

impegnata da anni in un percorso che spazia dal pop alla ricerca

Balletto In cartellone all’Opernhaus

Marinella Polli Zeno Gabaglio Ormai è diventato un automatismo: se ti capita di sentire una musica che piace, vai subito online a controllare chi, come, dove e quando l’ha fatta. L’ascolti poi un’altra volta e, se davvero ti convince, vai su Facebook per guadagnarti – con un semplice «like» – il diritto a rimanere imperituramente aggiornato su ogni nuova produzione dell’artista in questione. Così piuttosto recentemente è capitato di rimanere colpiti dalla proteiforme cantante che ha dato vita al progetto Sissy Fox, ma che già da tempo era colonna portante della all-starband Phall Fatale (che unisce alcuni dei migliori esponenti della nuova creatività musicale svizzera) nonché protagonista di un proprio progetto in solo, chiamato eiko. Al centro di un simile percorso – diramato tra la pura ricerca e il pop mainstream, e ciononostante coeso e coerente – è Joana Maria Aderi: nata a Sciaffusa da padre keniano e madre svizzera, formatasi dapprima in ambito classico (fino a vent’anni non tollerava nessuna musica successiva a Bach) per poi muoversi verso l’improvvisazione e il jazz, con una significativa tappa di studio e lavoro in Norvegia, la patria di tante novità recenti e gustosissime. La progressiva sorpresa restituita dalla casuale comunicazione di Facebook – post dopo post – è stata quella di veder ricorrere attorno alla vita della Aderi paesaggi e situazioni di vita ticinese, con una frequenza a dir poco sospetta: com’è possibile? Ha forse una casa di vacanza in Ticino? Dei carissimi amici che viene spesso a visitare? Oppure vive qui senza che quasi nessuno – tra i nostri programmatori, tra i critici, tra gli appassionati di musica – se ne sia accorto? La terza è quella giusta, e addirittura risiede a Lugano dal 2012. «Dopo la formazione e le prime attività musicali in Svizzera mi ero trasferita a Trondheim, in Norvegia, dove ho vissuto per sette anni e dove ho incontra-

Joana Maria Aderi in veste di eiko. (© Mario Heller)

to mio marito. Che però è australiano, e quei paesaggi scuri per sei mesi all’anno faceva fatica a sopportarli. Così abbiamo pensato che tornare in Svizzera potesse essere una buona idea, ed essendo lui matematico non ha tardato molto a trovare un posto di lavoro – tramite il Politecnico di Zurigo – al Centro di Calcolo di Lugano». Sin qui tutto normale, se non fosse che Joana Maria si è trovata catapultata in una realtà di cui non parlava la lingua, in cui non conosceva nessuno, dove la socializzazione (a dispetto della solare latinità che taluni qui continuano ad autoattribuirsi) risultava decisamente difficoltosa, e dove gli orizzonti musicali nel vivere urbano non erano minimamente paragonabili a quelli delle città più a nord. «Nei primi due anni è stata dura, senza riuscire a parlare con nessuno. Adesso da questo punto di vista funziona un po’ meglio, e in ogni caso valuto quegli anni di clausura come un periodo artisticamente salutare, in cui ho potuto mettere a fuoco certe idee,

una sorta di terapia in cui sono riuscita a scrivere tanta nuova musica». E non è forse un caso che, a cavallo tra 2015 e 2016, siano giunti a pubblicazione, nella Svizzera tedesca, due dischi molto diversi in cui l’autorialità della Aderi è fortemente profilata. «Phall Fatale è un gruppo che esiste già da diversi anni, e che condivido con colleghi provenienti dall’ambito dell’improvvisazione (quali Joy Frempong e Fredy Studer) per un risultato musicale che si propone nel segno di una rinnovata ricerca musicale». Ricerca, sì, ma fortunatamente comunicativa: a tratti molto energica, in altri dolcemente poetica. «Sissy Fox è invece un progetto prevalentemente mio – quasi un alter ego – che dal vivo può assumere forme diverse e che nei contenuti musicali arriva a lambire il mainstream popular». Da indicare a tutti quelli che insistono nel dire che il pop non può essere un’espressione artistica intelligente, e tenendo ben ferma la speranza che – almeno in tempi brevi – il Centro di Calcolo non sposti altrove la propria sede.

Se è vero che a fare del Lago dei Cigni un capolavoro assoluto sono soprattutto la partitura ricchissima di sfumature e particolarità, il perfetto connubio della musica con la filigrana delicatezza dei «pas-de-deux», gli straordinari e suggestivi divertissement e l’articolazione delle scene drammaturgicamente plausibile, è però nella magica atmosfera della trama che risiede la straordinaria seduzione del più amato balletto di Čajkovskij. Una trama fatta di sogno e incantesimo, di amore e desiderio, di dubbio, paura e angoscia ma, soprattutto, di ambiguità, polarità fra positivo e negativo, bianco e nero, ovvero fra quello che è l’eterna lotta fra bene e male. Una storia romantica, dunque, basata su una fiaba tedesca antica, ma tenacemente ancorata alla realtà di tutti i tempi, in quanto impregnata di indicazioni comprensibili e attuali per qualsiasi generazione. Artefice del nuovo allestimento attualmente in cartellone a Zurigo è Alexej Katmansky. Il prestigioso coreografo russo né crea una nuova coreografia né opta per la versione originale di Mosca del 1877 che era stata un clamoroso insuccesso, ma si basa, con l’aiuto dell’obbligata notazione Stepanov, sulle indicazioni coreologiche e coreografiche, peraltro incomplete, di Marius Petipa e Lew Iwanow del 1895, offrendo un’interessante e precisa ricostruzione del balletto. A Katmansky (classe 1968), cui va una nota di plauso anche per la perfetta caratterizzazione psicologica sia dei protagonisti sia dei personaggi

secondari, riesce un’impresa tutt’altro che facile. E questo perché la storia del principe Siegfried e di Odette/Odile, pur essendo stata oggetto delle più svariate e spesso audaci interpretazioni nel corso degli anni, è ben presente nella mente degli amanti e conoscitori del balletto, tra l’altro non abituati all’eccessiva pantomima o a certe scene d’ensemble delle versioni originali, per cui il rischio era alto. Smagliante la performance di Viktorina Kapitonova nei panni di Odette/ Odile, ovvero Cigno bianco e Cigno nero, tecnicamente impeccabile e in grado di utilizzare sia il registro lirico per Odette sia quello più drammatico e sensuale per Odile, la seconda contraltare o alter ego della prima. Ora malinconico, ora sbarazzino, ora deciso Alexander Jones nel ruolo di Siegfried, che subirà il fascino di entrambi i cigni, magnifici i suoi salti di ottima elevazione. Bravissimi anche tutti gli altri comprimari e membri del Ballett Zürich, in particolare Andrei Cozlac nei panni di Benno e Manuel Renard in quelli del malvagio Rotbart e padre di Odile. Resta ancora da dire dell’ottima prova della Philarmonia Zürich che, diretta da Rossen Milanov, ha dato grande slancio emotivo allo straordinario evento, delle belle scene e dei magnifici costumi di Jérôme Kaplan. Scroscianti e interminabili gli applausi in occasione della première. Le repliche si protrarranno sino al 22 maggio. Informazioni

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Idee e acquisti per la settimana

shopping La primavera vola in tavola! Attualità Colombe ticinesi per una Pasqua di pace

Le rinomate colombe Poncini, a sinistra, e Buletti. (Flavia Leuenberger)

Gli artigiani panettieri hanno iniziato a sfornare colombe soffici e profumate per allietare la Pasqua. Punto di partenza della lavorazione delle colombe Buletti e Poncini è il lievito madre, un impasto di acqua e farina che rigenerato regolarmente diventa sufficientemente forte da far lievitare

un impasto ricco di burro e uova. Le fasi di lavorazione sono lunghe. Un primo impasto viene fatto lievitare nottetempo a temperature controllate, il giorno seguente questo viene unito agli ingredienti finali e si procede con il riposo nei pirottini a forma di colomba. La seconda lievita-

Colomba Poncini 500 g Fr. 19.–

zione è molto delicata, se non di più della prima. Un impasto troppo lievitato collasserebbe e addio sofficità e ariosità della mollica. Il risultato è un dolce dal sapore ricco ed equilibrato, dove né lo zucchero né il burro prendono il sopravvento ma si sposano in perfetta armonia. Le percentuali di

burro alte fanno la differenza e rendono l’impasto morbido e fragrante. L’aggiunta di aroma di vaniglia, oli essenziali di arancio, limone e mandorla, scorza d’arancio candita e, nella colomba Buletti, di cedro candito profumano la colomba con note primaverili anticipando la bella

Colomba Buletti 500 g Fr. 18.– / 1 kg Fr. 33.–

e mite stagione. Le colombe Buletti e Poncini, prive di conservanti e prodotte solo con i migliori ingredienti, sono disponibili durante il periodo pasquale. Conviene affrettarsi per poter gustare queste delizie e portare in tavola la primavera! / Luisa Jane Rusconi


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Idee e acquisti per la settimana

Sapori d’eccellenza Pasqua L’entrecôte Irish Beef proviene da bovini allevati all’aria aperta sui verdi pascoli irlandesi In Irlanda i manzi – principalmente delle razze Angus, Limousin e Charolais – vengono allevati all’aperto in ampi pascoli tutto l’anno, accanto alle loro madri, nutrendosi della pregiata erba grassa dell’isola verde. In inverno gli animali dispongono di un riparo da pioggia, neve e freddo, pur tuttavia potendo uscire al pascolo ogniqualvolta lo desiderino. L’ erba e il movimento conferiscono alla loro carne un aroma unico, dalla succosità inimitabile e dall’equilibrata marmorizzazione. I manzi sono macellati al raggiungimento dei 20-30 mesi d’età. Successivamente la carne viene fatta frollare all’osso per

due settimane: un procedimento che permette di ottenere una carne particolarmente tenera e saporita. Per esaltare lo straordinario aroma di questa carne in cottura, si consiglia di toglierla dal frigo mezzora prima della preparazione, altrimenti potrebbe risultare dura. Arrostirla da un lato fintanto che si formano delle piccole goccioline sulla superficie, quindi girarla sull’altro lato (1-2 minuti). Importante: dopo la cottura lasciar riposare l’entrecôte avvolto in un foglio di carta alu nel forno a 80-100 gradi per 3-5 minuti. Così facendo la carne risulterà tenera e succosa al punto giusto.

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L’arte di saper attendere

È nel sottosuolo di una dimora settecentesca, Villa Carpintero di San Vitale Baganza, in provincia di Parma, che maturano per molti mesi in condizioni microclimatiche ideali i prosciutti firmati Antiche Cantine Luppi. Qui, nel 1950, Tarquinio Luppi trasformò le cantine di sasso e cotto della villa in un luogo privilegiato per la stagionatura tradizionale dei migliori prosciutti di Parma. Le cosce selezionate provengono da maiali alimentati con siero di latte prodotto durante la la-

vorazione del formaggio e fornito dai caseifici della pianura padana. I prosciutti maturano da 24 a 36 mesi acquisendo aromi e profumi irripetibili. Autentiche specialità gastronomiche, dedicate a degustatori attenti. Le potete trovare nei reparti salumeria della vostra Migros. Prosciutto di Parma 24/30 mesi 100 g Fr. 7.90 In vendita nelle maggiori filiali di Migros Ticino

Un piacere delicato

In occasione della Pasqua, le macellerie Migros propongono una delicata specialità per un antipasto davvero indimenticabile: il paté di coniglio. Questa creazione a base di carne e fegato di coniglio di prima qualità si caratterizza per la sua anima cremosa e l’aroma raffinato. Viene prodotta a mano secondo un’antica ricetta tradizionale. Consiglio di servizio: togliere il pâté dal frigo mezzora prima di servirlo; per ottene-

re fettine a regola d’arte utilizzare un coltello a lama fine precedentemente immerso in acqua tiepida e asciugato. Servire con un’insalata di stagione e fettine di pane rustico leggermente tostate, guarnire con gherigli di noci. Pâté di coniglio 100 g Fr. 3.80 In vendita nelle maggiori filiali di Migros Ticino


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Idee e acquisti per la settimana

Il risotto alla milanese

Attualità Come ottenere un risotto alla milanese come si conviene? Per esempio usando

il rinomato riso Carnaroli di Riso Scotti Secondo una leggenda il Risotto alla milanese nacque in un giorno ben preciso, ovvero l’8 settembre 1574. A quel tempo il mastro vetraio belga Valerio di Fiandra – che lavorava all’imponente cantiere del Duomo di Milano – aveva fissato le nozze di sua figlia. L’uomo era stato incaricato di ultimare alcune vetrate del Duomo. Uno dei suoi allievi si distingueva per la sua abilità nell’ottenere colori a dir poco sorprendenti. Il suo segreto? Aggiungere un pizzico di zafferano ovunque. Il nome dell’allievo non si è mai saputo, ma si narra che Valerio lo canzonasse dicendogli: «Finirai con il mettere lo zafferano anche nel risotto!». Il giovane, allora, decise di fare uno scherzo al mastro proprio durante le nozze di sua figlia, facendo aggiungere al cuoco dello zafferano al risotto. Anche se non riuscì a beffare il mastro, il risotto ebbe comunque un enorme successo tra gli invitati al banchetto.

Riso Scotti Carnaroli 1 kg Fr. 3.80* invece di 4.80 *20% di riduzione su tutti i risi Scotti dal 15 al 21.3

Risotto alla milanese per 4 persone Ingredienti 320 g Riso Carnaroli Riso Scotti 350 g Midollo osseo di Bue 2 g Zafferano 1 lt Brodo di Carne 1 Cipolla 2 cucchiai di olio extravergine d’oliva 50 g Parmigiano Reggiano grattugiato 50 g Burro Preparazione 1. Sbollentate il midollo, ripulitelo e tritatelo. 2. In un tegame, fate dorare la cipolla tagliata finemente in due cucchiai d’olio, aggiungete il midollo di bue e versate il riso. Fate tostare il riso per due minuti,

Zafferano 3 cuochi 4 bustine Fr. 5.50

Gastronomia pasquale Aragosta, salmone a tranci, stampini con mousse di prosciutto o vol-au-vent di gamberi? Non c’è nulla di più invitante per l’antipasto della prossima festività di Pasqua. Queste e ancora altre specialità come l’insalata russa, gli stampini di gamberi, i cubetti misti con cocktail di gamberetti, polipo/olive, insalata russa/salmone affumicato o ancora i vol-au-vent ai gamberi e pâté vi aspettano presso i reparti gastronomia di Migros Ticino. Tutti gli ingredienti utilizzati per queste ricette sono attentamente selezionati e la lavorazione è fatta a mano secondo i criteri della migliore tradizione culinaria mediterranea.

Aragosta in Bellavista ca. 400 g, 100 g Fr. 4.30 Salmone a tranci ca. 330 g, 100 g Fr. 3.50 Vol-au-vent 320 g Fr. 12.90 Cubetti misti 330 g Fr. 10.90

quindi, alzate la fiamma e bagnate con un mestolo di brodo di carne e lasciate cuocere per 15-18 minuti aggiungendo del brodo quando serve. 3. 10 minuti dopo aver versato il primo mestolo di brodo aggiungete lo zafferano sciolto in un cucchiaio di brodo, mescolate e ultimate la cottura. 4. A cottura ultimata, spegnete il fuoco e mantecate con il burro e il Parmigiano grattugiato

Insalate più sfiziose

Arriva la primavera e con essa la voglia di fresche e croccanti insalatone. Oltre ad essere appetitose, le insalate contengono sostanze pregiate diverse, come vitamine, sali minerali e fibre alimentari, nutrienti importanti che favoriscono il benessere e aumentano la resistenza dell’organismo. A rendere ancora più sfiziosa l’insalata preferita, ecco che arrivano in aiuto le speciali miscele di semi e frutta secca Art on Salad da cospargere a piacimento. Disponibili nel pratico sacchetto da 60 grammi sugli scaffali del reparto verdura Migros, queste composizioni si declinano in quattro irresistibili varianti di gusto: Classic, con grano saraceno tostato, semi di girasole e zucca tostati; Deliziosa, con grano saraceno e noci di pecan tostati e pomodori secchi; Mediterraneo, con semi di zucca e girasole tostati nonché anelli di oliva e, infine, Vitality, un goloso mix di semi di zucca tostati, noci e cranberries.

*Azione 30% di sconto sulle miscele Art on Salad Fino al 21.3

Art on Salad Classic, Vitality, Mediterraneo o Deliziosa 60 g Fr. 1.95* invece di 2.90


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Idee e acquisti per la settimana

Cosmesi professionale

Novità Deborah Milano presenta un innovativo prodotto per il viso

La Festa del Papà

già usato dai professionisti del make-up

Da noi in Ticino, come anche in Italia, Spagna e Portogallo, conformemente alla tradizione cattolica la Festa del Papà si celebra tradizionalmente il 19 di marzo, giorno di San Giuseppe, padre di Gesù. In Svizzera interna, il giorno dedicato ai papà è invece celebrato la prima domenica di giugno, mentre nei paesi anglosassoni come Regno Unito, Stati Uniti e Canada cade la terza domenica di giugno. La ricorrenza è nata agli inizi del Novecento negli Stati Uniti quale complemento alla Festa della Mamma, con l’intento di celebrare e riconoscere l’importanza della figura paterna nell’ambito della famiglia. In questa giornata speciale, è bene dedicare qualche attenzione particolare al proprio babbo, p.es. invitandolo a cena e omaggiandolo con

per ore. Il prodotto è arricchito con un principio attivo di origine vegetale che minimizza visibilmente l’aspetto dei pori dilatati, idratando e rendendo la pelle più morbida ed elastica. Inoltre la micro silice assorbe il sebo in eccesso controllando la zona T del viso. Essendo un prodotto perfettamente scorrevole in applicazione, si stende in modo uniforme sul viso per un risultato opa-

cizzante particolarmente naturale. Delicatamente profumato alla violetta, Face Perfect Primer è oil free e dermatologicamente testato. Deborah Milano Face Perfect Primer 30 ml Fr. 17.80 In vendita nelle maggiori filiali di Migros Ticino

Top10 CD

Top10 DVD

Top10 Libri

1. Adele

1. Snoopy & Friends

1. Nicholas Sparks

25 2. Baglioni e Morandi

Capitani coraggiosi (2 CD) 3. Francesca Michielin

Di20are/ novità 4. Coldplay

A Head Full Of Dreams / novità

Animazione / novità 2. 007 Spectre

D. Craig, M. Bellucci / novità 3. Minions

Animazione

Nei tuoi occhi, Sperling 2. Fabio Volo

È tutta vita, Mondadori La meraviglia degli anni imperfetti, Garzanti / novità 4. Chiara Gamberale

Adesso, Feltrinelli 5. Stadio

Miss Nostalgia 6. Modà

Passione maledetta

5. Inside Out

Animazione 6. Hotel Transylvania 2

Il barometro dei prezzi Informazioni sui cambiamenti di prezzo

3. Clara Sanchez

4. Sopravvissuto – The Martian

M. Damon, J. Chastain

Torta sfoglia alla fragola 100 g Fr. 3.20 Torta sfoglia alla frutta mista 100 g Fr. 3.20 Tortelli di San Giuseppe 100 g Fr. 3.40 Figure di marzapane al pezzo, da Fr. 5.90

Flavia Leuenberger

Come mantenere una pelle opacizzata, levigata e uniforme? Facile, prova il nuovo Face Perfect Primer di Deborah Milano. Questa «base trucco» anti-lucidità, sviluppata per la zona T, si può applicare prima del fondotinta oppure da sola. Grazie alla sua texture in gel, sulla pelle si forma un film continuo e invisibile che migliora la tenuta del fondotina, mantenendolo inalterato

qualche regalo come una camicia, una cravatta, un profumo, un libro, un disco, una scatola di cioccolatini… E cosa ne direste di fare un’ulteriore golosa sorpresa al vostro babbo, per esempio con le speciali creazioni di pasticceria del laboratorio artigianale di Migros Ticino qui raffigurate? I prodotti sono in vendita solamente il 18 marzo presso i banchi pasticceria.

5. Andrea Vitali

Nel mio paese è successo un fatto strano, Salani

Migros riduce i prezzi di diversi prodotti. Costeranno meno, tra gli altri, la quinoa Bio Max Havelaar (400 g), i sorbetti al mango e ai lamponi Sélection, come pure i bastoncini alle nocciole. Migros riversa alla propria clientela i prezzi d’acquisto più vantaggiosi.

Animazione 6. Antonio Distefano

7. Marco Mengoni

Le cose che non ho 8. Laura Pausini

Simili 9. Alessandra Amoroso

Vivere a colori 10. Noemi

Cuore d’artista

7. Maze Runner – La fuga

D. O’Brien, K. Scodelario 8. Insurgent

T. James, K. Winslet

Prima o poi ci abbracceremo Mondadori 7. Luis Sepulveda

Storia di un cane che insegnò ad un bambino la fedeltà, Guanda

9. Jurassic World

C. Pratt, B.D. Howard 10. Masha e Orso Box (DVD+Toy)

8. Jeff Kinney

Diario di una schiappa – portatemi a casa, Castoro

Animazione 9. Nick Sloan

English da zero kids, Mondadori 10. Lucinda Riley

Ally nella tempesta, Giunti

Alcuni esempi:

Nuovo in Fr.

in %

5.60 5.60 5.60 8.20 8.20 7.50 6.70 2.75 3.50 0.90

4.95 4.95 4.95 7.65 7.65 7.10 6.50 2.65 2.70 0.80

–11,6 –11,6 –11,6 –6,7 –6,7 –5,3 –3,0 –3,6 –22,9 –11,1

0.85 4.10

0.80 2.90

–5,9 –29,3

Prezzo vecchio in Fr.

Bio Max Havelaar Quinoa rossa, 400 g Bio Max Havelaar Quinoa bianca, 400 g Bio Max Havelaar Quinoa tricolore, 400 g Sélection Sorbetto Mango, 500 ml Sélection Sorbetto Lamponi, 500 ml Thunder Storm gelato, 8x77 ml Yupi Glowworms ghiaccioli, 8x70 ml Bastoncini alle nocciole, 270 g Aha! Chocolate Chips Cookie, 150 g M-Budget cioccolato bianco, 100 g M-Budget cioccolato al latte nocciole & crispies, 100 g Zucrinet, 1000 pastiglie


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Idee e acquisti per la settimana

Migros Sélection

Il pomodoro per intenditori Straordinariamente carnoso e aromatico: così si presenta il pomodoro della varietà Merinda dell’assortimento Sélection Migros. I Merinda sono coltivati in Sicilia, dove sono raccolti ancora verdi. Solo in Svizzera maturano completamente acquisendo il loro particolare aroma. Questi pomodori di media grandezza, ben costoluti, sono ottimi per la preparazione di rustiche insalate come la Panzanella (vedi ricetta nel cerchio giallo), come pure per la Caprese, l’apprezzato piatto a base di pomodori, mozzarella e basilico fresco. Grazie al suo equilibrato rapporto tra acidità e tasso zuccherino, il Merinda tagliato fresco è ottimo anche gustato da solo, semplicemente con una presa di sale e pepe.

Panzanella Tagliare in otto spicchi i pomodori e amalgamarli bene con striscioline di cipolla, dressing di balsamico, origano, pinoli e dadini di ciabatta tostati.

Sélection Pomodori Merinda vasch. 350 g Fr. 4.90

Curiosità

Attorno al pomodoro Merinda Provenienza

Il pomodoro Merinda è coltivato principalmente nel sudest della Sicilia, nella regione di Pachino. Le piante crescono in terreni vicino al mare particolarmente ricchi di sale. Per questo vengono anche chiamati terreni salini. L’alto contenuto di sale conferisce al pomodoro un aroma intenso. Conservazione

Conservandoli in modo appropriato, i pomodori si mantengono fino a 14 giorni. Devono essere tenuti a temperatura ambiente, lontano da altra verdura o frutta che in fase di conservazione producono etilene. Questo ormone vegetale accelera infatti la maturazione di tali prodotti. Non è consigliabile conservarli in frigorifero, poiché lì i pomodori perdono sapore, consistenza e tenuta.

Palermo

I pomodori Merinda sono particolarmente aromatici, anche quando sono ancora un po’ verdi.

SICILIA

Pachino

In Sicilia, nella regione di Pachino, viene coltivato il pomodoro Merinda.


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Idee e acquisti per la settimana

Banco del pesce

I tesori del mare Ai banchi del pesce della Migros si vendono esclusivamente pesci e frutti di mare di qualità sostenibile. Su richiesta, il personale specializzato fornisce gratuitamente consigli per la preparazione e suggerisce allettanti ricette Testo Claudia Schmidt

Andrea Oddo è responsabile del reparto pesce presso la Migros di Agno.

Intervista

«Diamo volentieri consigli per la preparazione»

Club sandwich con pesce Piatto principale per 4 persone

Tonno Il tonno più venduto alla Migros è il tonno dalle pinne gialle, che vive in tutti i mari subtropicali e tropicali. Un esemplare adulto di questa specie può raggiungere i 200 chili. La carne è soda e si presta bene ad essere arrostita o grigliata.

Ingredienti 1 arancia 3 cucchiai di maionese 3 cucchiai di crème fraîche sale, pepe 80 g di cavolo bianco 1 cucchiaio di burro 500 g di filetti di pesce (ad es. 80 g di platessa, 120 g di pangasio, 150 g di tonno, 150 g di salmone) 4 capesante di ca. 25 g l’una 4 gamberi tail-on grandi 8 fette di pancetta da arrostire 12 fette di pane per toast 40 g d’insalata a foglia 4 rametti di aneto 8 spiedini

Per persona ca. 41 g di proteine, 23 g di grassi, 43 g di carboidrati, 2300 kJ/ 540 kcal.

Ricette di

www.saison.ch

E che cosa offrite ancora?

I clienti possono beneficiare delle vostre nozioni culinarie?

Diamo volentieri consigli personalizzati per la preparazione o raccomandiamo un determinato pesce, nel caso in cui il cliente non sappia esattamente quale si presti per che cosa.

Merluzzo È uno dei pesci più apprezzati a livello mondiale. Vive nelle zone fredde del Nordatlantico e del mar Baltico. Il merluzzo raggiunge anche i due metri di lunghezza e un peso di un centinaio di chili. La carne bianca è ottima da arrostire, stufare o friggere.

Foto Giulia Marthaler, Beat Scweizer; Styling Irène De Giacomo; Ricetta Katrin Klaus; Illustrazioni Rolf Joray

Tempo di preparazione ca. 30 minuti.

Il pesce è sempre di provenienza sostenibile. Inoltre si può acquistarne esattamente la quantità di cui si ha bisogno. Su richiesta filettiamo anche pesci interi. Mariniamo personalmente filetti di pesce fresco e prepariamo pietanze in padella con pesce fresco e verdure.

Preparazione 1. Grattugiate finemente la buccia di metà dell’arancia. Pelate l’arancia con un coltello, tagliatela a fette, raccogliendo il succo che fuoriesce. Per la salsa emulsionate la buccia grattugiata, il succo, la maionese e la crème fraîche. Condite con sale e pepe. Tagliate il cavolo a striscioline e mettetelo da parte con le fette d’arancia. 2. Sciacquate il pesce con l’acqua fredda, tamponatelo e tagliatelo a pezzi. Conditelo con sale e pepe. Arrostite la pancetta in una padella ampia. Toglietelo dalla padella e fatelo sgocciolare su carta da cucina. Mettete in padella il burro, i pezzi di pesce, le capesante e i gamberi e rosolate per ca. 2 minuti. Tostate il pane e mettetene da parte 4 fette. Sulle altre fette spalmate la salsa e farcitele con l’insalata, le fette d’arancia, il cavolo bianco, l’aneto e il pesce. Sovrapponete le fette farcite a due a due con la farcitura rivolta verso l’alto e coprite con le 4 fette messe da parte. Infilzate su ogni spiedino 1 fetta di pancetta e 1 gambero o 1 capasanta. Infilzate 2 spiedini in ogni club sandwich. Tagliate i sandwich in diagonale e serviteli subito.

Andrea Oddo, che vantaggio c’è ad acquistare pesce al banco?

Salmone Questo pesce nobile è fra i più apprezzati in tutto il mondo. Può provenire da pesca selvatica o da allevamento. Il salmone può avere una lunghezza di 1.50 metri. La sua carne soda si presta ad essere affumicata, arrostita, stufata così come cotta al forno o in minestre.

Gamberi Vivono sui fondali marini. Riscaldandoli, il loro colore grigio scuro si tramuta nella caratteristica tonalità rossastra. I gamberi fanno parte della cucina di molti paesi. Si possono arrostire, stufare o friggere.

ASC è simbolo di un allevamento certificato, responsabile, che deve seguire linee direttive ecologiche e sociali.

MSC è simbolo di una pesca certificata, sostenibile. I pesci e i frutti di mare provengono sempre da pesca selvatica.

Passera Nota anche come platessa, la passera fa parte dei pesci piatti. Si trova quasi dappertutto sulle coste europee. In confronto al merluzzo o al tonno, la passera raggiunge al massimo un peso di quattro chili. La sua carne è tenera e ideale da arrostire e da stufare.

Capesante Questi molluschi carnosi vivono nel Mediterraneo e sull’intera costa atlantica. Per aprirle occorre una certa forza e abilità. Le capesante possono essere arrostite brevemente o anche gratinate.

Pangasio Questo pesce proveniente dall’Asia sudorientale è molto apprezzato per il suo sapore non troppo pronunciato. Gli esemplari più grossi possono raggiungere i 44 chili di peso. I filetti si prestano a essere arrostiti, fritti e stufati, e sono ottimi nelle pietanze al curry.

Migros Bio è simbolo di un allevamento di pesce rispettoso della natura, sostenibile, che viene controllato e certificato da organismi indipendenti da noi.

Parte di


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Idee e acquisti per la settimana

Valflora

Sapore di casa nostra Il latte Valflora proviene esclusivamente da mucche svizzere. La lavorazione avviene presso l’Industria Migros Elsa a Estavayer-le-Lac, nel Canton Friborgo, uno dei maggiori trasformatori di latte in Svizzera

1 3

*Azione 20% di ribasso

Qual è la differenza tra latte Drink e latte intero? Un decilitro di latte intero ha un tenore di grassi del 3,5 per cento, mentre il latte Drink a tenore ridotto di calorie ne contiene il 2,5 per cento.

sul latte Valflora M-Drink UHT, 12 x 1l Fr. 12.40 invece di 15.60 dal 15 al 21.3

2

Cosa significa l’acronimo UHT (ultra high temperature)? Tramite questo procedimento, oppure anche con l’uperizzazione, i germi del latte vengono eliminati per mezzo di un breve riscaldamento a 135°C, dopo di che il latte è immediatamente raffreddato. Questo procedimento delicato fa sì che il latte mantenga tutto il suo sapore.

Chi produce i prodotti a base di latte Valflora? Sono prodotti dalla Elsa SA, l’azienda di trasformazione del latte della Migros, a Estavayer-le-Lac nel Canton Friborgo. L’azienda impiega 592 collaboratori in 20 professioni differenti e attualmente sta formando 29 apprendisti.

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Foto: Yves Roth

I produttori di latte come alimentano le loro mucche in inverno? Con insilati – un sostituto di alta qualità dell’erba fresca. Per questo l’erba viene conservata per l’inverno mediante la fermentazione. Così facendo i produttori garantiscono tutto l’anno un’offerta di latte adeguata al fabbisogno.

4

Da dove proviene il latte Valflora? Ogni latte Valflora è al 100% latte svizzero. Ogni due giorni viene ritirato direttamente dai produttori e lavorato giornalmente dalla Elsa SA, azienda che prevede tre turni di lavoro. Valflora latte Drink UHT 1l Fr. 1.30*

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Quanto latte elabora Elsa? Nel 2015 Elsa ha elaborato qualcosa come 265 milioni di chili di latte per produrre 600 prodotti differenti. Il principale cliente è la Migros, seguita da altre aziende alimentari. Una minima parte viene esportata.

L’Industria Migros produce numerosi prodotti, tra cui anche i latticini di Valflora.


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Idee e acquisti per la settimana

Anna’s Best propone due saporite novità per un lunch primaverile.

Anna’s Best

Pausa pranzo al sole di primavera Presto ci si potrà godere la pausa di mezzogiorno all’aperto, sotto i primi caldi raggi di primavera. Naturalmente assaggiando le due novità di Anna’s Best. Il bagel ai semi di chia è farcito con affettato di pollo svizzero e insalata di indivia ed è ricoperto di maionese al limone. I più affamati possono aggiungere come contorno l’insalata mista «Printemps», a cui gli asparagi verdi e il prosciutto crudo svizzero conferiscono un gusto primaverile.

T & LH I semi di chia sono considerati un alimento molto nutriente e sono originari del Sudamerica. Questi semi dal sapore neutro contengono molti acidi omega-3, proteine e fibre alimentari. Siccome si gonfiano notevolmente se impregnati di liquido, formando una massa gelatinosa, vengono anche usati dai vegani come ingredienti da forno o per budini e smoothies.

Azione 20x Punti Cumulus fino al 21 marzo, per le due novità di Anna’s Best

Novità Anna’s Best Salatbowl Printemps* 170 g Fr. 5.70

Novità Anna’s Best Chia Bagel Chicken* 135 g Fr. 4.20


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Idee e acquisti per la settimana

Aproz

Più di una semplice acqua Chi trova i softdrink troppo dolci e l’acqua minerale troppo neutra, ha a disposizione un’ottima alternativa con l’Aproz O2 leggermente aromatizzata. Adesso questa bevanda rinfrescante esiste anche nella variante con un’esotica nota di kiwi e frutto della passione. La scelta include anche le varianti lampone-limetta, limone e mela. In confronto all’Aproz Classic, l’Aproz O2 contiene dieci volte più ossigeno. Grazie al suo tappo sportivo richiudibile è ideale da portare con sé quando si è fuori casa.

Azione 20 x punti Cumulus sull’Aproz O2 kiwi-frutto della passione dal 15 al 28.3.

Aproz O2 kiwi-frutto della passione 50 cl Fr. 1.40

Rinfrescante, frizzante e fruttata: Aproz O2 kiwi-frutto della passione spegne la sete con una porzione extra di ossigeno. L’Industria Migros produce numerosi prodotti, tra cui anche le bevande Aproz.


Azione 50%

40% 10.80 invece di 18.–

5.– invece di 10.–

Carne di manzo macinata M-Classic Svizzera, al kg

Cestino primaverile Eva il pezzo

a partire da 2 confezioni

30% 2.30 invece di 3.30 Prosciutto cotto Puccini prodotto in Ticino, affettato in vaschetta, per 100 g

50% Azione assortimento Tutto l’assortimento Migros Topline per es. shaker, 0,5 l, blu, il pezzo, 4.80 invece di 9.60, offerta valida fino al 28.3.2016

–.60

di riduzione l’una

Azione assortimento Tutto l’assortimento Blévita a partire da 2 confezioni, –.60 di riduzione l’una, per es. al sesamo, 228 g, 2.75 invece di 3.35

50% Azione assortimento Tutti i coltelli da cucina e le forbici Cucina & Tavola o Victorinox per es. coltello per il pane Victorinox, il pezzo, 11.10 invece di 22.20, offerta valida fino al 28.3.2016

Società Cooperativa Migros Ticino Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli M-Budget e quelli già ridotti. OFFERTE VALIDE SOLO DAL 15.3 AL 21.3.2016, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

30% 1.95 invece di 2.80 Spezzatino di manzo TerraSuisse Svizzera, imballato, per 100 g

25% Conf. da 2 in azione Olio d’oliva Monini in conf. da 2 Classico o Delicato, per es. Classico, 2 x 1 l, 18.75 invece di 25.–


. te r e P . a z z e h c s e fr e il Incredib M-consiglia

25%

PANE DI SPELTA ORIGINALE Appena sfornato e fatto in casa, il pane di spelta originale è l’ideale per accompagnare la carne secca. Basta mescolare farina, sale e zucchero, poi sciogliere il lievito nell’acqua e aggiungere un po’ di quark. Quindi impastare fino ad ottenere una massa liscia e lasciarla lievitare coperta. Dopodiché dare alla pasta la forma desiderata, trasferirla su una teglia, spennellarla con olio e infornare... infine gustare! Trovi la ricetta su www.saison.ch/it/ consigliamo e tutti gli ingredienti freschi alla tua Migros.

1.80 invece di 2.50 Fettine e arrosto coscia di maiale TerraSuisse Svizzera, imballati, per 100 g

20% 6.90 invece di 8.65 Carne secca affettata Svizzera, 125 g

30% 3.70 invece di 5.30 Costolette di vitello TerraSuisse Svizzera, imballate, per 100 g

50%

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10.60 invece di 21.20 Nuggets di pollo prodotti in Svizzera con carne di pollo dal Brasile, in conf. da 2 x 500 g/1 kg

20% Lesso di manzo per es. TerraSuisse Svizzera, imballato, per 100 g, 2.– invece di 2.50

Orate e salmone selvatico per es. filetto di salmone selvatico MSC, pesca, Alaska, per 100 g, 3.75 invece di 5.40

50% 9.90 invece di 19.80 Salmone affumicato dell’Atlantico ASC d’allevamento, Norvegia, 330 g

30%

30%

30%

30%

25%

2.55 invece di 3.70

1.40 invece di 2.–

1.40 invece di 2.–

1.60 invece di 2.30

3.15 invece di 4.25

Salametti a pasta fine prodotti in Ticino, in conf. da 2 pezzi, per 100 g

Fleischkäse TerraSuisse affettato finemente per 100 g

Società Cooperativa Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DAL 15.3 AL 21.3.2016, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

I Lüganigh (le luganighe) prodotte in Ticino, imballate, per 100 g

Pancetta da grigliare affettata TerraSuisse per 100 g

Arrosto di vitello cotto Svizzera, affettato in vaschetta, per 100 g

15% 1.75 invece di 2.10 Fettine di tacchino M-Classic Ungheria, carne prodotta in base all’Ordinanza svizzera sulla protezione degli animali, per 100 g


20% Azione assortimento Tutti i bulbi primaverili per es. anemoni, conf. da 24, 4.70 invece di 5.90

30% 24.40 invece di 34.90 Phalaenopsis, 3 steli decorata, con coprivaso, la pianta

30%

2.90 invece di 4.20

3.40 invece di 4.90

Fragole extra Spagna, in conf. da 450 g

Mele Jazz, agrodolci Svizzera, al kg

Hit 3.90 Mirtilli Cile / Argentina, vaschetta da 250 g

25%

25%

25%

33%

2.90 invece di 3.90

5.40 invece di 7.30

2.90 invece di 3.90

–.80 invece di 1.20

Narcisi Tête-à-Tête in vaso da 10 cm, la pianta

20%

33%

2.– invece di 2.50

3.95 invece di 5.90

Lattuga verde Ticino, al pezzo

30%

Punte d’asparagi verdi Spagna, imballate, 200 g

Società Cooperativa Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DAL 15.3 AL 21.3.2016, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

Minestrone alla ticinese Svizzera, imballato, al kg

Arance Tarocco extra Italia, sciolte, al kg

20% Tutto l’assortimento Bontà di Stagione per es. Zuppetta Toscana con cavolo nero, in conf. da 350 g, 3.65 invece di 4.60

Cetrioli Spagna, il pezzo

25% 14.70 invece di 19.90 Formaggella grassa prodotta in Ticino, a libero servizio, al kg

Hit 2.30 Finocchi Italia, al kg


30% Conf. da 3 in azione Ravioli o cappelletti M-Classic in conf. da 3 per es. ravioli con formaggio e pesto, 3 x 250 g, 9.– invece di 12.90

20%

20%

Azione assortimento

12.40 invece di 15.60

Tutte le millefoglie per es. M-Classic, 220 g, 2.30 invece di 2.90

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Idee e acquisti per la settimana

Total

Altamente efficace contro le macchie I detersivi Premium della linea Excellent Power sono particolarmente affidabili nell’eliminare le macchie. Grazie a speciali sostanze attive efficacissime e nel contempo rispettose dell’ambiente, si eliminano facilmente macchie quali make-up, erba, succo di frutta, sangue o caffè. Inoltre i detersivi Excellent Power dispongono di una speciale formula per sciogliere lo sporco, in grado di ridurre la capacità dei capi di spor-

carsi nuovamente. In questo modo i tessuti tornano puliti più facilmente. Total Excellent Power Classic è indicato per la biancheria bianca e chiara ed evita che si ingrigisca. Per i tessuti colorati esiste invece il nuovo Total Excellent Power Color, esente da sbiancanti ottici: la scelta giusta per i capi colorati. Entrambe le liscive sono efficaci già a partire da 15 gradi ed evitano la corrosione delle parti sensibili della lavatrice.

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I detersivi Excellent Power di Total rispettano la biancheria e la lavatrice. L’Industria Migros produce numerosi prodotti, tra cui anche le liscive Total.


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Idee e acquisti per la settimana

Brunch in famiglia

Un brunch nel giorno di Pasqua è l’occasione ideale per raccogliere tutta la famiglia in un’atmosfera gioiosa. Con uova di tutti i colori e un mazzo di narcisi si fa presto a creare un bell’ambiente. E la padrona di casa può facilmente imbandire la tavola con stuzzichini preparati in anticipo. Se poi alla festa partecipano molti bambini, conviene approntare un tavolo esclusivamente per loro. Così potranno gustarsi pienamente le loro prelibatezze e godersi i coniglietti di Pasqua.

Per corpo e anima Chi ha la fortuna di potersi accomodare ad una tavola ammantata di un’atmosfera del genere, non può resistere ai piaceri del palato e al contagio di una festosa allegria. Ogni resistenza diventa inutile davanti ai Coniglietti di Sils su letto di verdure e Fleischkäse o ai tortini di barbabietola al formaggio fresco Testo Sonja Leissing; Foto Martina Meier; Styling Monika Hansen; Ricette Feride Dogum

Pasqua Questa settimana: brunch di Pasqua Fascicolo 12: Menu degustazione per la famiglia

Pudding di riso al cocco con purea di kiwi Dessert per 8 persone Per 8 stampi da ca. 2 dl Ingredienti 5 dl di latte di cocco 1 presa di sale 125 g di riso, ad es. Originario 2 kiwi 5 cucchiai di sciroppo d’agave 1 limone 50 g di noce di cocco grattugiata 50 g burro, morbido 2 uova zucchero a velo per guarnire

Sarasay Florida Succo d’arancio 1l Fr. 2.35* invece di 2.95

Uova di Pasqua svizzere colorate, da allevamento al suolo 6 pezzi da 50 g+ Fr. 3.50

Tête de Moine, Rosette 2 × 120 g Fr. 9.25* invece di 11.60 Tilsiter surchoix per 100 g Fr. 1.30* invece di 1.65

Preparazione 1. Portate a ebollizione il latte di cocco con il sale. Aggiungete il riso e lasciate sobbollire per ca. 20 minuti, finché il riso è cotto ma ancora al dente. Nel frattempo tagliate i kiwi a dadini, frullateli con 1 cucchiaio di sciroppo d’agave e mettete in frigo.

Uova di Pasqua svizzera a pois, da allevamento all’aperto 4 pezzi da 53 g+ Fr. 3.25

2. Scaldate il forno a 200 °C. Versate il riso in una scodella. Unite la scorza di limone grattugiata finemente, la noce di cocco grattugiata e il burro, mescolate e lasciate raffreddare. Montate le uova a spuma con il resto dello sciroppo di agave. Incorporate la spuma al riso con cautela. Versate la massa negli stampi. Cuocete i pudding nella parte bassa del forno per ca. 20 minuti. Sfornate e lasciate intiepidire. Spolverizzate con lo zucchero a velo e servite con la purea di kiwi. Tempo di preparazione ca. 40 minuti + cottura in forno ca. 20 minuti Per persona ca. 3 g di proteine, 12 g di grassi, 15 g di carboidrati, 700 kJ/170 kcal

Coniglietti di pasta Ricetta alla prossima pagina Tortine alle bietole Ricetta alla prossima pagina Ricetta Terrasuisse Treccia al burro 500 g Fr. 3.40

Avocado farcito Per 4 persone Preparazione Dimezzate 2 avocado, eliminate il nocciole e accomodateli su un piatto. Distribuite 100 g di salmone affumicato negli incavi degli avocado. Sgusciate 2 uova sode medio-cotte e dimezzatele. Adagiate le mezze uova sul salmone. Tagliate 1 cipollotto a rondelle sottili e distribuitele sugli avocado. Serviteli con mezze fette di limone. Condite con fleur de sel e pepe.

Sélection Marmellata di frutta Albicocche 70% Fr. 3.20 Sélection Marmellata di frutta Fragola-rabarbaro 70% Fr. 3.20 Nelle maggiori filiali

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Idee e acquisti per la settimana

Prodotti

Per un brunch delizioso Con alcune specialità selezionate ed altre provviste alimentari si può preparare una deliziosa colazione per la domenica di Pasqua

M-Classic Pasta sfoglia già spianata 320 g Fr. 1.60

M-Classic Originario Riso da minestra 1 kg Fr. 2.40 Nelle maggiori filiali

Valflora Panna intera UHT 500 ml Fr. 3.25

Anna’s Best Barbabietola a dadini 400 g Fr. 2.90

TerraSuisse Delikatess Fleischkäse, affettato fine per 100 g Fr. 2.–*

1

Tortine alle barbabietole con cottage cheese

Antipasto per 8 persone Per 8 tortine di 7 cm Ø (1 stampo per muffin) Ingredienti 125 g di farina di spelta originale chiara 50 g di nocciole macinate ½ cucchiaino di sale 75 g di burro, freddo 2 cucchiai d’acqua farina per spianare la pasta ½ mazzetto di prezzemolo 1 cipolla piccola 250 g di barbabietole cotte a dadini 1 uovo 1,5 dl di panna sale, pepe 200 g di cottage cheese 1 cucchiaio d’olio d’oliva ½ cucchiaio d’aceto alle erbe Preparazione 1. Versate la farina, le nocciole e il sale in una scodella. Aggiungete il burro a dadini e sfregate tutti gli ingredienti con le mani fino a ottenere un composto formato da tanti grumi. Aggiungete l’acqua e impastate velocemente fino a ottenere una massa compatta. Copritela e lasciatela riposare per ca. 30 minuti in frigo.

2. Scaldate il forno a 200 °C. Spianate la pasta su poca farina e formate una sfoglia di ca. 4 mm di spessore. Ritagliate 8 dischi di 10 cm Ø. Accomodate i dischi negli incavi dello stampo per muffin. Tritate il prezzemolo e mettetene da parte la metà in un recipiente con coperchio. Tritate la cipolla. Fate sgocciolare i dadini di barbabietola, poi mescolateli con la metà del prezzemolo e la cipolla e distribuite la massa nelle formine. Sbattete l’uovo con la panna. Condite con 1 cucchiaino di sale e poco pepe, versate sulle verdure. Cuocete le tortine nella parte bassa del forno per ca. 25 minuti. 3. Versate il cottage cheese in un colino. Sciacquatelo sotto l’acqua fredda. Fate sgocciolare bene. Mescolatelo con il prezzemolo tritato messo da parte, l’olio e l’aceto e condite con sale e pepe. Guarnite le tortine con il cottage cheese. Tempo di preparazione ca. 35 minuti + riposo ca. 30 minuti + cottura in forno ca. 25 minuti Per persona ca. 7 g di proteine, 22 g di grassi, 17 g di carboidrati, 1200 kJ/290 kcal

2

Coniglietti di pasta su aiuola di fleischkäse e verdure

Per 8 coniglietti Ingredienti 500 g di farina semibianca 1½ cucchiaini di sale ½ cubetto di lievito, 20 g 1 cucchiaino di zucchero 3 dl di latte 50 g burro, morbido 15 g di bicarbonato di sodio poco sale marino 8 nocciole 100 g di carote 80 g di ravanelli 4 cetriolini sott’aceto 150 g di fleischkäse affettato fine Preparazione 1. In una scodella mescolate la farina con il sale. Versate nel latte il lievito e lo zucchero, mescolate bene e amalgamate alla farina. Unite il burro e impastate fino a ottenere una massa omogenea. Copritela con un canovaccio umido e lasciate lievitare a temperatura ambiente, finché l’impasto raddoppia di volume. 2. Portate a ebollizione 1 dl d’acqua con il bicarbonato e fate sobbollire finché il bicarbonato non si è sciolto. Dividete l’impasto in 8 pozioni. Staccate ¼ di una porzione di pasta e modellate un ovale. Con la pasta restante modellate un cordone lungo ca. 30 cm e formate un nodo creando un anello e facendo

Sélection Fleur de Sel 75 g Fr. 6.60 Nelle maggiori filiali

Bio Max Havelaar Chop Stick Latte di cocco 400 g Fr. 2.80

passare una delle estremità nell’anello. Con le forbici tagliate a metà l’ovale, evitando di separare completamente le due metà, e formate le orecchie. Accomodatele sulla parte superiore del corpo. Procedete allo stesso modo con le altre 7 porzioni di pasta. Adagiate i coniglietti su due teglie foderate con carta da forno e spennellateli con il bicarbonato sciolto nell’acqua. Cospargete di sale. Premete le nocciole nella pasta per formare gli occhi. Accendete il forno ventilato a 200 °C e infornate subito i coniglietti mentre il forno si scalda. Cuoceteli per ca. 35 minuti. Lasciate raffreddare. 3. Con un pelapatate tagliate le carote a striscioline sottili. Dividete i ravanelli in quattro. Affettate i cetriolini. Accomodate il tutto in piatti da portata insieme con il fleischkäse e i coniglietti. Suggerimento Servite del burro alla senape con i coniglietti.

Bio Avocado al pezzo, prezzo del giorno

Tempo di preparazione ca. 20 minuti + lievitazione ca. 1 ora + cottura in forno ca. 35 minuti + raffreddamento Un coniglietto ca. 13 g di proteine, 13 g di grassi, 48 g di carboidrati, 1500 kJ/360 kcal

M-Classic Cottage Cheese nature 200 g Fr. 1.35

Bio Carote sacchetto da 1 kg, prezzo del giorno *Prezzo dell’azione valido dal 15 al 21. 3.


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Idee e acquisti per la settimana

Il brunch dei bambini

Uova, che passione!

Finte uova al tegamino Dessert per 8 persone

Davanti a una tortina di salmone o a un avocado guarnito con un uovo in camicia, la maggior parte dei bambini fa smorfie di disgusto. Infatti, se sul tavolo non c’è niente adatto a loro, i piccoli preferiscono sgranocchiare del cioccolato e al resto non dedicano neppure uno

sguardo. Chi però mette in tavola un brunch «su misura» per loro, può verificare come anche i più piccoli vi si gettino sopra con l’acquolina in bocca. Un piatto semplice, come ad esempio un uovo al tegamino, risveglia la curiosità e garantisce agli adulti un pranzo tranquillo.

Ingredienti 4 mele piccole 1 bustina di zafferano 1 cucchiaio di miele Lilibiggs 2 uova 60 g di zucchero 1 presa di sale 50 g di farina 25 g di mandorle spellate macinate ½ cucchiaino di lievito in polvere 150 g di crème fraîche 2 cucchiai di pistacchi verdi tritati Preparazione 1. Sbucciate le mele, dimezzatele e privatele del torsolo. Fate bollire 3 dl d’acqua con lo zafferano e il miele. Aggiungete le mele e lasciatele sobbollire finché risultano morbide. Lasciatele raffreddare nel liquido e mettetele in frigo.

Lilibiggs Honey Squeezer 250 g Fr. 3.35 Nelle maggiori filiali

2. Foderate una placca da forno con carta da forno. Scaldate il forno a 200 °C. Con lo sbattitore elettrico montate

le uova con lo zucchero e il sale fino a ottenere una crema chiara. Mescolate la farina con le mandorle e il lievito e incorporate la miscela a cucchiaiate alle uova. Spalmate la massa sulla carta da forno modellandola in 8 dischi alti ca. 1 cm. Cuocete al centro del forno per ca. 5 minuti. Capovolgete le rondelle di pan di Spagna su un altro foglio di carta da forno. Staccate la carta da forno con cura. Coprite il pan di Spagna con la placca e lasciate raffreddare. 3. Mescolate la crème fraîche. Accomodate i dischi di pan di Spagna nei piatti. Spalmate la crème fraîche sul pan di Spagna. Fate sgocciolare bene le mezze mele e accomodatele sulla crème fraîche. Guarnite con i pistacchi. Tempo di preparazione ca. 30 minuti + cottura in forno ca. 5 minuti + raffreddamento Per persona ca. 5 g di proteine, 12 g di grassi, 34 g di carboidrati, 1100 kJ/260 kcal

famigros

Attenti, pronti… Pasqua

Lilibiggs Chocomalt 1 kg Fr. 6.90 Nelle maggiori filiali

Fino al 28 marzo, per ogni 20 franchi di spesa nei supermercati Migros o LeShop riceverete un bollino da collezionare. Per ogni spesa si possono ottenere al massimo 10 bollini. Una volta raccolti i 18 bollini che completano l’album, anch’esso disponibile alla Migros, potete consegnarlo nella vostra filiale e scambiarlo con un coniglietto di peluche a scelta. Potete completare tutti gli album che volete. L’offerta è valida fino a esaurimento delle scorte. Libro per bambini Su 20 pagine illustrate con colori variopinti, si racconta la storia dei conigletti Lotty, Ricky e Willy. Si viene a sapere come si sono conosciuti e se hanno sempre potuto trasformarsi in uova di Pasqua. Questo libro per bambini è in vendita per 1 solo franco in tutte le filiali oppure è disponibile in versione e-book su www.migros.ch/ pasqua. Maggiori informazioni su www.migros.ch/pasqua o www. famigros.ch/pasqua

Valflora Crème Fraîche 200 g Fr. 2.60

Lilibiggs Mele borsa da 1,5 kg prezzo del giorno

Con 18 bollini si riceve gratuitamente un coniglietto di peluche. Maggiori informazioni sulla colonna a destra.

Il coniglietto di peluche in tre colori è un tipetto simpatico. E con poche mosse si può trasformare in uovo e poi di nuovo in coniglio. Ricette di

www.saison.ch


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Idee e acquisti per la settimana

Sanactiv

Quando imperversano i pollini Chi soffre di raffreddore da fieno, non deve per forza rinunciare alle attività all’aria aperta. I prodotti Sanactiv aiutano a godersi i momenti in mezzo alla natura

Intervista

«Spray e gocce sono efficaci» Dottor Dietschi, come si tiene sotto controllo il raffreddore da fieno?

Spesso gli allergeni possono essere evitati, ad esempio se non si dorme con le finestre aperte durante la fioritura e si è allergici proprio a quel tipo di polline. Una doccia nasale di sera libera le mucose dai pollini. Anche gli spray nasali e le gocce per gli occhi aiutano spesso ad alleviare i sintomi peggiori. Buoni risultati si ottengono con le terapie di desensibilizzazione, in cui si iniettano piccole dosi di allergeni affinché il corpo vi si abitui.

La crema per il naso.

Sanactiv lenisce la pelle secca e irritata. La lanolina e l’olio di sesamo agiscono nei punti infiammati e contribuiscono alla rigenerazione della cute irritata. La combinazione di glicerina e sale marino cura la mucosa nasale restituendole umidità. Adatta agli adulti e ai bambini dai tre anni.

Si può imputare al nostro stile di vita in materia di igiene il fatto che ci siano sempre più allergici?

È dimostrato che i bambini che crescono in una fattoria e nei dintorni di una stalla, successivamente soffrono meno di allergie rispetto alla gente di città. Si può fare prevenzione anche ricorrendo a determinati alimenti per bambini?

Crema per il naso 10 ml Fr. 5.20

Si dice che i bambini sviluppino meno allergie se vengono allattati nelle prime quattro o sei settimane di vita. Tuttavia, non si può dimostrare che ci sia una chiara correlazione tra determinati generi alimentari e una maggiore incidenza di allergie.

.La soluzione. per il risciacquo nasale.

Le gocce antiallergiche.

per gli occhi di Sanactiv sono d’aiuto in caso di lacrimazione e prurito agli occhi. L’ectoina contenuta nelle gocce è una sostanza impiegata anche per la prevenzione e il trattamento della congiuntivite allergica.

Sanactiv lava e pulisce il naso congestionato, rimuovendo gli agenti irritanti come ad esempio i pollini. Due ugelli di dimensione diversa forniscono il dosaggio più appropriato: l’azzurro più delicato, il blu scuro più potente. In questo modo il lavaggio nasale è adatto anche ai bambini a partire dai sei mesi. Soluzione per risciacquo nasale 125 ml Fr. 12.50

Gocce antiallergiche per occhi 10 x 0,5 ml Fr. 5.80

.Lo spray nasale.

di Sanactiv riduce i disturbi provocati dai pollini o altri allergeni grazie all’ectoina. Questa sostanza naturale ha proprietà antinfiammatorie e curative e viene, tra l’altro, utilizzata per la prevenzione e il trattamento del raffreddore comune e di quello da fieno. Spray nasale antiallergico 20ml Fr. 6.90 André Dietschi è specialista in medicina interna e medicina dello sport, nonché direttore del Centro per la salute Santémed di Diepoldsau (TG).


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 14 marzo 2016 ¶ N. 11

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Idee e acquisti per la settimana

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Finalmente il mascara giusto Non è forse vero che ogni donna sogna di avere ciglia lunghe, folte e voluminose? Non tutti i mascara, però, realizzano questo sogno. Nella scelta del mascara giusto, un ruolo importante è svolto dalla lunghezza naturale delle ciglia

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