Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXVII 22 dicembre 2014
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Società e Territorio La vita silenziosa delle monache carmelitane del Monastero di San Giuseppe
Ambiente e Benessere I Natali nelle religioni d’Oriente riportano alla memoria l’Atene di Socrate ma anche gli insegnamenti dei mistici islamici sufi
Politica e Economia Il Natale è sempre Natale: anche in India
Cultura e Spettacoli La Germania e il Natale, una storia di amore, luci e ombre
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Karl Mathis
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L’editore e la redazione di Azione augurano
Buon Natale alle lettrici e ai lettori, alle socie e ai soci della Cooperativa Migros Ticino
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Speciale Natale
Gary Cooper e Marlene Dietrich in una scena da Marocco, film del 1930. (Keystone)
Natale nella Legione Il racconto Lo scrittore svizzero Friedrich Glauser (1896-1938) ebbe una vita travagliata, di cui fece parte
anche un periodo nella Legione Straniera. Questa esperienza ispirò alcuni suoi scritti Friedrich Glauser Forse doveva valere come un inasprimento della pena. Per farla breve, dal momento che c’erano stati troppi disertori, il nostro battaglione fu spostato per punizione da Sebdou, dove anche in inverno le temperature sono miti e gradevoli, a Géryville. E Géryville si trova a duemila metri sopra il livello del mare, su un altipiano, ed è un luogo freddo… come potemmo constatare già durante la marcia. Andammo in treno fino a BoukToub, passando davanti a enormi distese luccicanti che sembravano dei laghi. Ma si trattava solamente di sale, ci spiegò il sergente Fahrny, che era in servizio già da dodici anni. A Bouk-Toub faceva ancora caldo, e da lì fino a Géryville restavano solamente centodieci chilometri di marcia. Il 22 dicembre uscimmo da Bouk-Toub, erano le tre di pomeriggio, montammo le tende, mangiammo e andammo a dormire. Il giorno dopo percorremmo trenta chilometri, la sera ci accampammo vicino a una fattoria: vi abitava una famiglia spagnola, era povera; in giro c’erano un paio di asini. L’acqua della fontana non era buona. Quella notte brinò e il mattino dopo i fili della stipa brillavano nel sole. Non avevamo più denaro, poiché eravamo passati da Saida, e lì avevamo fatto fuori il nostro soldo. Anche il tabacco era diventato raro. Per fumare una sigaretta ci riunivamo in quattro e ognuno teneva d’occhio la bocca dell’altro, affinché non inspirasse troppo profondamente. Quel 24 dicembre proseguimmo la nostra marcia, il paesaggio era desolato e spoglio, la strada saliva impercettibilmente, ma cominciava a fare più freddo, ci inseguiva un vento secco che riusciva a penetrare perfino nei nostri cappotti, e la sera, verso le cinque, proprio quando ci apprestavamo a montare le tende, scoppiò una bufera di neve. Per fortuna tra di noi c’era qualche vecchio che ci mostrò
come montare le tende anche nella peggiore bufera di neve. Altrimenti non ce l’avremmo fatta. Di nuovo ci accampammo vicino a una fattoria. Ovviamente gli ufficiali erano più fortunati e poterono dormire nella casa, il proprietario aveva ancora una botte di vino in cantina, gli ufficiali si fecero preparare del vin brulè, in casa c’era anche un grammofono, lo fecero suonare; suonava vecchissime canzoni di successo, i sottotenenti ballavano a turno con la donna. Da fuori sentivamo i loro piedi che strisciavano per terra. Nelle tende noi tremavamo per il freddo. I cuochi non erano riusciti a fare un fuoco decente. Il riso era cotto solo a metà, la carne quasi cruda. I teli che componevano la tenda gocciolavano; se li si sfiorava con il gomito o con la mano passava l’acqua. Faceva molto freddo, il vento diventava sempre più aggressivo. A quel punto il caporale Ackermann, un tedesco biondo, disse: «Oggi è la vigilia di Natale». Noi lo sapevamo già, ma avevamo fatto finta di niente, stavamo già male abbastanza. Fu per questo che imprecammo e ce la prendemmo con Ackermann, e lo insultammo per averci ricordato il Natale in mezzo a tanta miseria. Stavamo sdraiati sotto i teli gocciolanti, sempre in sei per ogni tenda, i russi si erano messi insieme, e così i tedeschi, nella nostra compagnia eravamo solamente quattro svizzeri, e anche noi ci trovavamo nella stessa tenda. Fra di noi c’era un tale, il vecchio Guy, che era in servizio già da dieci anni, aveva preso parte alla Grande Guerra, aveva perfino la Médaille militaire. Era stato sergente ben due volte, poi era stato degradato – credo fosse perché a volte beveva troppo, e poi diventava collerico quando qualcuno gli diceva qualcosa, e se si trattava di un superiore le cose potevano mettersi male. Anche nella Legione vi sono infatti ufficiali che non hanno alcuna comprensione… Il vecchio Guy era sdraiato accanto
a me. Era tarchiato, aveva un corpo nodoso e dei baffi grigi sul volto spigoloso. Il vecchio Guy sosteneva che dovevamo sdraiarci l’uno accanto all’altro e stendere entrambe le coperte e i mantelli sopra i nostri corpi, così avremmo avuto meno freddo. Nella sua borraccia aveva ancora un sorso di vino che condivise con me, poi mi diede anche una sigaretta. Parlava francese. Credo provenisse dalle Franches-Montagnes. «Tu non sei stupido come gli altri e non mi deriderai», mi disse (cominciava a fare un po’ più caldo) «magari riesci a spiegarmelo. Nella mia vita ho fatto tre volte lo stesso sogno, e vorrei sapere se anche tu riderai di questa cosa…» Fece una pausa. Gli dissi che sicuramente non avrei riso, anche a me era capitato di fare sogni strani. «Ma il mio è così», disse il vecchio Guy, appoggiandosi sui gomiti girando il volto verso di me. La neve mandava una tenue luce. I solchi sul volto di Guy si vedevano distintamente. «Sogno una notte come questa. E vedo una grande pianura, il cielo è scuro. Ho marciato per tutta la giornata accanto a una strana vettura con due sole ruote tirata da sei buoi. Nella realtà non ho mai visto buoi della stessa razza di quelli che tirano il carro. Così come non conosco il vestito che indosso. Si tratta di una grossa pelliccia, ma intorno ai polpacci ho delle galosce di cuoio che davanti sono rivestite di metallo, bronzo. Poi ho delle armi strane. Un lungo bastone con una punta di ferro e sul fianco una spada piatta a doppio taglio che mi arriva fino alle ginocchia, fissata a una cinghia che attraversa il mio petto. La sera arriviamo (ci sono infatti anche dei commilitoni, che però parlano una lingua strana) in un piccolo paese. Il cielo è coperto. Entriamo in una specie di fortezza dove incontriamo altri commilitoni. In mezzo al cortile della fortezza svetta un grande palo su cui siede un’aquila di metallo. Il metallo risplende. Abbiamo portato delle
provviste, vengono depositate in cantina. Poi riceviamo del vino dal sapore strano, dolce e aspro allo stesso tempo, al vino è stato mescolato qualcosa, ma è un sapore cui sono abituato. A quel punto mi reco in paese. Il villaggio è come i villaggi arabi che si trovano qui. All’uscita del villaggio c’è una grande costruzione quadrata, in realtà si tratta solamente di mura, in un angolo c’è una sorta di capanna con un tetto di paglia. Tutta la gente mi evita, ha paura di me, lo sento, e a me non piace che abbiano paura. Non appena entro nel cortile circondato dalle quattro alte mura, mi viene incontro un vecchio dalla barba lunga. Mi saluta gentilmente, so che mi conosce da molto tempo e so di conoscerlo anch’io. Mi racconta che qualche giorno prima in quel luogo erano giunti una donna con il suo uomo. La prima notte la donna aveva avuto un figlio. Gente povera, molto povera, il bambino giaceva per terra, sulla paglia. Lui, il vecchio, aveva dato loro il suo mantello di lino, così che ne potessero fare dei pannolini. Mentre racconta, l’uomo sorride. Credo che sia il proprietario della locanda. In giro ci sono dei cammelli. Da qualche parte si sente il raglio di un asino. Il cielo è scuro. In un angolo sgombro brilla un’unica stella. Il vecchio allunga la mano dicendomi che anch’io devo dare qualcosa per quei poveri. Al che rispondo di volere vedere il bambino. Non so perché, ma nel sogno sento di dovere vedere il bambino. Dunque il vecchio mi conduce alla capanna. Dentro si trova un bue magro, in un angolo una pecora allatta il suo agnellino. Accanto alla mangiatoia è accovacciata una giovane donna, e sulla paglia davanti alle sue ginocchia giace un neonato. Mi avvicino, il piccolo apre gli occhi, allunga le mani verso di me e io lo sollevo. La madre sorride e annuisce. E mentre tengo in braccio il bambino, sento di essere infinitamente felice e che non dimenticherò mai questo momento…
Né nel sogno, né nella realtà, o forse era anche il sogno realtà? Cosa ne pensi?» Il vecchio Guy tacque a lungo. Io non sapevo cosa rispondere. Avevo sempre immaginato i legionari romani come lui. Non so perché. I tratti molto duri, a causa delle rughe, ma intorno agli occhi azzurri un che di stupito e infantile, colmo di aspettative… Immaginavo come fossero giunti da Roma e avessero preso servizio, uomini della Gallia e della Rezia, e come poi venissero mandati nelle province più remote del grande Impero Romano. Un poco come noi. Solo che noi non serviamo nessun grande imperatore, bensì… Chi serviamo noi? «Ci ho pensato spesso», disse il vecchio Guy, «la storia di Natale l’ho letta anch’io, come tutti. Forse ho sognato tutto, voglio dire, ho mescolato tutto nella fantasia. Ma poi ogni cosa è così chiara, specialmente il vecchio che regala il suo mantello di lino, in fondo di questo il Nuovo Testamento non parla…» La voce del vecchio Guy si è fatta sempre più flebile. Tossisce. «Il bambino», dice, «sai, non sono mai stato sposato. Ma il bambino… Non ho mai visto un bambino come quello del sogno…» Io non risposi. Era una storia di Natale, certo. Durante la marcia il vecchio Guy si era buscato una polmonite e morì nel lazzaretto di Géryville. Io sono sicuro che non si trattasse solamente di sogni… Forse a volte viaggiamo a ritroso, forse ritorniamo di continuo su questa terra nei panni di noi stessi. Questa volta il vecchio Guy non ha trovato in una stalla un bambino da potere prendere in braccio che lo rendesse felice… Bibliografia
(Friedrich Glauser: Weihnachten in der Legion, racconto tratto da: Früher war Weihnachten später. 2011 Diogenes Verlag AG Zürich. Traduzione dal tedesco: Simona Sala)
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Speciale Natale
L’adorazione dei pastori Natività d’arte Il dipinto realizzato dal Caravaggio un anno prima della morte è straordinario sotto molti aspetti
Gianluigi Bellei I Vangeli canonici raccontano l’infanzia di Gesù in forma limitata e succinta. Quello che tutti pensano sulla sua nascita e l’immaginario collettivo che nei secoli ci ha accompagnato sino a oggi deriva in buona parte dai cosiddetti Vangeli apocrifi. Da un punto di vista iconografico uno dei più importanti è sicuramente il Vangelo dello Pseudo-Matteo. Sembra sia stato scritto tra l’VIII e il IX secolo. Le due parti che lo compongono circolavano tra i fedeli anche separatamente con i titoli di Libro sulla nascita della Beata Vergine e Libro sull’infanzia del salvatore e facevano capo, il primo, al Proto Vangelo di Giacomo e, il secondo, a Tommaso. In ogni caso poeti e artisti hanno usato questo testo come base per le loro narrazioni dal X al XV secolo. Teniamo presente che già nel Trecento circolavano ampiamente traduzioni in italiano. Ed è qui che troviamo l’immagine della luce divina che inonda la grotta sia di giorno che di notte «come se lì fosse l’ora sesta», cioè mezzogiorno, o quella, a tutti cara, dei pastori che nel cuore della notte vedono degli angeli i quali annunciano che è nato il Salvatore. Poi entrano nella stalla e adorano il bambino. In una delle varie versioni dello Pseudo-Matteo, e precisamente nel manoscritto che si trova alla Libreria del Capitolo a Hereford, si precisa che i pastori sono tre. Ne parlano anche Luca e il Vangelo dell’infanzia armeno. Sopra la grotta poi splendeva una stella, «la cui grandezza non si era mai vista dall’origine del mondo». Più avanti lo Pseudo-Matteo fa uscire Maria dalla grotta e la fa entrare in una stalla, unendo così la tradizione orientale a quella occidentale. Maria mise
il bambino nella mangiatoia accanto al bue e all’asino così come aveva predetto il profeta Abacuc: «Ti farai conoscere in mezzo a due animali». Errore di traduzione, sembra, perché il testo greco dei Settanta dice «in mezzo a due età», tradotto poi «in medio duorum animalium». Sia come sia, siamo comunque in presenza di un’interpretazione estremamente popolare che vede Gesù nascere quasi nell’indigenza, povero fra i poveri.
La tela del Caravaggio rappresenta senza dubbio uno dei grandi capolavori del Seicento Nell’iconografia artistica la natività, come la crocifissione, si sono sviluppate nei secoli attraverso una miriade di interpretazioni estetiche, dalle più umili alle più sfavillanti e barocche. Pa-
olo Veneziano nel 1355 ne dà una versione sintetica nella quale convivono la tradizione della capanna e della grotta come in quella articolata e concettuale di Sandro Botticelli del 1501 che dipinge una caverna sotto una tettoia. L’adorazione dei pastori è spesso raffigurata come una natività e gli angeli, i pastori e gli animali si sovrappongono fra eroismo e intimità. Se El Greco dipinge nel 1596 un’affollata scena rutilante, Giorgione nel 1504 ne dà un’interpretazione bucolica fra sorgenti d’acqua e testine d’angeli illuminate dalla luce solare. Gerrit van Honthorst nel 1622 e Georges de La Tour negli anni Quaranta del Seicento ne danno una versione al lume di candela. Ma quella probabilmente più straordinaria, che resta uno dei capolavori dell’arte del Seicento è sicuramente la tela che ha dipinto Michelangelo Merisi da Caravaggio a Messina nell’estate del 1609: un anno prima della sua morte. Caravaggio è in fuga da Roma dopo l’omicidio per motivi di gioco di Ranuccio Tomassoni avvenuto nel
Adorazione dei pastori di Giorgione (1504); in alto, Adorazione dei pastori del Caravaggio (1609). (Keystone)
1606. Scappa a Napoli, poi a Malta e infine approda in Sicilia il 6 ottobre 1608, prima a Siracusa poi a Messina. Non smette di dipingere e i suoi oli si fanno sempre più cupi e drammatici. Tragici, forse. A eccezione de l’Adorazione dei pastori, dipinta nell’estate del 1609. Il grande quadro, un olio su tela di 314 per 211 centimetri, che ora si trova al Museo Regionale di Messina, gli viene commissionato dal Senato messinese per l’altare maggiore della chiesa dei padri Cappuccini di Santa Maria la Concezione. Nel dipinto balza subito agli occhi l’utilizzo di una personalissima tecnica di esecuzione. I quadri di quel periodo sono in genere realizzati su di un’imprimitura chiara alla quale vengono sovrapposti colori sempre più scuri. Caravaggio, al contrario, parte da una base scura, quasi nera, per delineare le figure e i contorni per strati successivi con colori sempre più chiari. In genere non lavora con cartoni predefiniti, ma si avvale di modelli in carne e ossa che disegna direttamente sull’imprimitura fresca mediante sottili incisioni con uno stilo appuntito. Bellori nel 1672 scrive: «Usò sempre il campo, e ’l fondo nero; e ’l nero nelle carni, restringendo in poche parti la forza del lume». Il dipinto appare spoglio, povero, e l’atteggiamento umile della Vergine sembra una scelta iconografica derivata dallo stesso ordine dei cappuccini. Maurizio Marini nel 1987, negli atti del convegno di Siracusa dedicato agli ultimi anni dell’artista, scrive che il tema della natività tradizionalmente gioioso assume qui un tono cupo e dolente, assai vicino alle «funebri meditazioni cappuccine». I personaggi sono posizionati in obliquo dall’alto a destra verso il basso dove troviamo la Vergine adagiata su di un giaciglio con
il bambino in braccio che la guarda amorevolmente mentre la cerca cogli occhi e ha la mano allungata verso il volto. Giuseppe Grosso Cacopardo nel 1821 la descrive «ignobilmente protesa tutta lungo nel suolo», mentre Cinotti nel 1983 sostiene che si tratti di un’idea «di gentilissima e raffinata geometria». Alla sinistra della Vergine i tre pastori a capo scoperto — in osservanza ai dettami codificati poi dal De pictura di Federico Borromeo — che guardano stupiti l’avvenimento. I bottoni sul vestito del pastore di sinistra fanno intuire che probabilmente si tratta del ritratto di un benestante committente in quanto abitualmente i poveri non li usavano. Appoggiato a un bastone vediamo Giuseppe, vecchio come descritto dal Protovangelo di Giacomo: «Allora il sacerdote disse a Giuseppe: «Tu sei stato prescelto a ricevere la vergine del Signore in tua custodia». Giuseppe si schermì dicendo: «Ho già figli, e sono vecchio, mentre essa è una fanciulla!»». Sullo sfondo, immobili, il bue e l’asinello e in primo piano una natura morta dei poveri, come annota Roberto Longhi, con un tovagliolo, una pagnotta e una pialla da falegname «in tre toni di bianco, bruno e nero». In alto le assi in legno della stalla. Tutta l’immagine, come congelata, è avvolta in un silenzio mistico, quasi cosmico, in una sorta di sospensione temporale che accoglie, nei bagliori della luce, la nascita e contemporaneamente, nell’oscurità, prelude l’ineluttabilità della morte. Caravaggio in ottobre si sposta a Palermo e l’anno dopo, l’11 luglio 1610, si imbarca su una feluca per raggiungere Roma. Una settimana dopo muore all’ospedale di Santa Maria Ausiliatrice a Porto Ercole.
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Società e Territorio Palazzo Riva a Lugano È stato da poco pubblicato da Casagrande un volume dedicato al nobile edificio di via Pretorio, la curatrice Simona Martinoli ne svela la storia e le preziose decorazioni
Passeggiate svizzere Visita alla Biblioteca abbaziale di San Gallo la cui sala tardobarocca è una delle più belle e famose al mondo
Rinnovati splendori
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Bellinzona Un restauro conservativo
ridà vita all’Oratorio del Corpus Domini
La vita delle monache è scandita dai momenti liturgici e da quelli di preghiera personale. (Stefano Spinelli)
Laura Patocchi-Zweifel L’Oratorio del Corpus Domini sorge nel nucleo storico di Bellinzona dietro la Collegiata, tra via Magoria e la Salita alla Motta. L’edificio è diviso in due proprietà – le cantine nel seminterrato sono annesse alla casa adiacente, l’Oratorio e la sagrestia sovrastanti appartengono alla Parrocchia di Bellinzona. Il progetto di un suo restauro, affidato allo studio Sergio Cattaneo Architetti SA di Bellinzona, nasce dalla ferma volontà del Consiglio parrocchiale di arrestarne il processo di degrado e restituire alla comunità la fruizione di questo bene di notevole pregio e meritevole di ritrovare la sua identità e le sue funzioni religiose, sociali, culturali. Fin dai primi sopralluoghi con l’Ufficio dei beni Culturali (UBC) e i vari restauratori è stata definita una chiara linea da seguire prevedendo un intervento di carattere conservativo, volto a favorire l’approccio con l’aspetto originale del Seicento.
L’oratorio è un significativo esempio di palinsesto architettonico ricco di elementi stratificati nei secoli
L’Amore in un monastero di clausura Esperienze di fede Visita alle sedici monache carmelitane a Locarno, per provare a capire
la vita concentrata e silenziosa dietro le mura del loro giardino Sara Rossi Non si può entrare; nascosta è la loro vita. Le monache carmelitane del Monastero di San Giuseppe, sui Monti di Locarno, abitano vicino al Santuario della Madonna del Sasso, in una casa bassa che non osa nascondere la magnifica vista sul golfo di Locarno, sul lago, sulla natura di alberi e montagne che ha davanti. Non vedo il giardino ma so che c’è un orto, piante e un frutteto. So che d’estate le monache vanno a leggere, pensare, raccogliersi, passeggiare. A volte in uno spiazzo d’erba mettono le sedie in cerchio e cuciono o parlano o leggono. Io le incontro dietro una grata, simbolo del loro stare «da un’altra parte», invisibili, intensamente concentrate sulla preghiera. Non può esserci chiasso dove si cerca una comunicazione, un amore, una famiglia fatta di luce. Mi offrono biscotti «sfornati ieri sera», buonissimi, e il tè, servito in graziose tazze antiche e tutto, la zuccheriera, i cucchiaini, il vassoio ricoperto da un piccolo pizzo, tutto dimostra una cura speciale per ogni cosa. A ogni mia domanda paiono rispondere con una poesia. Subito mi chiedono: signora o signorina? Dico: signorina, solo ancora per un mese. Sono contente: sposarsi è sempre bello, in qualsiasi modo si inten-
da l’unione. Spesso, durante l’intervista paragonano il loro essere spose e il mio, il loro amore, la loro famiglia, la loro fecondità alla mia, rassicurandomi: «Non c’è matrimonio di serie B, il vostro è importante quanto il nostro. Noi vi diamo l’esempio, cerchiamo di indicare una vita di gioia e pienezza che è un processo e non un punto di arrivo». Parla la Madre della comunità, ha la voce melodiosa come ne ho sentite poche, spalanca gli occhi di felicità per sottolineare le parole importanti, esprime i concetti lentamente, ragionando mentre parla. Chiedo se non mancano loro i bambini: «No!» e la risposta sembra che soffi gioia nel suo sorriso: «Tutto sono i nostri figli, tutto ciò che facciamo, che curiamo, che prendiamo per mano. Le consorelle, certo, ma anche ogni attività e la vita religiosa in sé stessa. Siamo madri, siamo piene di maternità: ogni amore è fecondo. Noi non abbiamo rinunciato a niente, abbiamo scelto la libertà». Chiedo se guardano le stelle e cosa pensano quando si trovano sotto la volta celeste. Sappiamo che tutti, da giovanissimi ma anche da adulti, così come scienziati, teologi e poeti, tutti ci facciamo grandi domande osservando il firmamento: ci sentiamo minuscoli e iniziamo a chiederci chi siamo, cosa facciamo, ridimensioniamo il nostro posto
nell’universo. «Guardiamo le stelle», rispondono quegli occhi buoni, celesti, della Madre Superiora. «Il cosmo è il luogo dove Dio e l’uomo si incontrano, la nostra camera nuziale: le stelle Lui le ha create per incontrarci. L’uomo da sempre è assetato di infinito e questo infinito per noi è Dio, ecco perché lo chiamiamo mistero, perché è troppo grande per essere compreso da esseri limitati come noi. Ma il mistero non è come dire “Boh” è qualche cosa che supera la ragione e che provoca stupore perché supera ogni possibilità di comprensione. Quindi una notte stellata è per noi un simbolo di fede». Recitano un poema in versi sulle stelle del Santo riformatore dell’ordine dei Carmelitani Scalzi, San Giovanni della Croce, che in Spagna si studia come noi studiamo Dante Alighieri. Parla dell’Essere che passò nel cielo con snellezza e passando lasciò pieno di bellezza... Com’è la vita di una monaca di clausura, che scelta ha fatto? La giornata è scandita dai momenti liturgici in cui si dialoga con Dio, dai momenti di orazione che è la preghiera personale, che possono essere in cella oppure in giardino, nel bosco, nell’orto. C’è il silenzio, c’è il muro, c’è la cella. Tutto questo è per concentrarsi, per non disperdere all’esterno quello
che avviene internamente, per essere meglio all’ascolto del divino. Si parla, a voce bassa, di questioni di lavoro, domestiche o che riguardano la salute, ma tranne nei momenti di ricreazione, dove le chiacchiere e le risate squillano con allegria, non c’è parola tra le consorelle. La sera, dopo l’ultima parte liturgica c’è il grande silenzio: «È Bellissimo!», dicono raggianti. Poi invece ci sono le visite, inquadrate in una certa sobrietà di frequenza e stabilite in determinati orari, e lì si parla quanto si vuole. Nel Cantico dei Cantici si paragona la sposa a un giardino chiuso: ecco, mi spiegano, la clausura è un giardino chiuso, è un luogo dove gli innamorati cercano la loro solitudine per vivere ancora di più, non è una fuga, perché la fuga sarebbe sterile, è piuttosto un frutteto pieno di amore, che tiene conto di tutti i fratelli che soffrono nel mondo esterno. E chi sono loro? Le suore di clausura del Monastero San Giuseppe sono ticinesi o vengono dall’Italia, dal Vallese, dalla Moravia, dall’Austria... Ognuna ha percorso il suo cammino diverso da tutti gli altri per arrivare lì: chi è entrata presto, chi tardi, chi con estasi, chi nel buio... La Madre Superiore accetta di confidarmi la sua esperienza personale. Racconta che ebbe il primo richiamo a 16 anni e mezzo e subito pensò al Car-
melo. Conosceva questo Monastero perché sua mamma ci veniva a trovare una ex-compagna di scuola e ogni tanto l’aveva portata con sé. A quell’età sentì il richiamo ma pensò che fosse un «fuoco di paglia» e aspettò. Adagio adagio capì, continuò a farsi domande, a girare e dubitare della sua intuizione, frequentò il Monastero, parlando a lungo con la Priora dell’epoca. A 20 anni entrò, ma non aveva ancora la certezza, la convinzione totale. Non era in estasi, dice, piuttosto provava una gran... ripugnanza. E ripete questa parola, ormai così lontana da lei. Non voleva, aveva paura, preferiva sposarsi e stare fuori, ma sentiva che era chiamata. Fece i sei anni di prova, maturò, accolse l’alleanza che le era stata proposta; sapeva che avrebbe potuto rifiutare, che non avrebbe ricevuto meno amore, ma sarebbe stato un tradimento. Così accettò. «Attraverso la purificazione mi si stagliò davanti Dio come Amore e allora sentii che stavo facendo dei passi avanti. Fui sicura. La notte oscura dei sensi poi quella dello spirito si diradarono. Mi sono fidata e a poco a poco si è fatta la luce. Allora ho ricevuto qualche cosa che non potevo neanche minimamente immaginare. Lui è innamorato di me, non può fare a meno di me, né io di Lui. Questa, questa è la passione di una Carmelitana».
L’Oratorio è un significativo esempio di palinsesto architettonico ricco di elementi che si sono stratificati nel corso dei secoli. Originariamente era una casa con cella vinaria. Probabilmente esisteva già nel Trecento e al Quattrocento potrebbero risalire le aperture con cornici in facciata. Nel 1584 la Confraternita del Corpus Domini acquista l’edificio dal proprietario Bartolomeo Rusca. La Confraternita si era costituita nel 1535 e pur avendo già consacrato un altare del Corpus Domini in Collegiata nel 1547, si riuniva regolarmente nella chiesa di S. Maria del Ponte (S. Rocco). Siamo in piena Controriforma, quel movimento di rinnovamento e riorganizzazione della Chiesa scaturito dal Concilio di Trento in risposta alla Riforma protestante. Rigoroso sostenitore tridentino, il cardinale Carlo Borromeo arcivescovo di Milano, attuò l’azione riformatrice del culto e l’arte sacra nelle pievi pre-
alpine. Per ravvivare la fede popolare diede impulso alla costruzione di nuove chiese e favorì il sorgere di numerose confraternite del Santissimo Sacramento destinate a polarizzare le energie devozionali intorno al culto eucaristico e alla transustanziazione negata dai protestanti. È in questo movimentato clima di rinnovamento che la Confraternita del Corpus Domini di Bellinzona acquista la casa dei Rusca per trasformarla in oratorio. Dopo i primi rimaneggiamenti di fine Cinquecento si arriva alla grande trasformazione secentesca. La semplice facciata a capanna coperta da un tetto notevolmente aggettante viene sontuosamente arricchita da un grandioso e scenografico affresco opera di un pittore locale della prima metà del XVII sec. Il dipinto murale, ampiamente rimaneggiato negli anni Trenta del secolo scorso, ha riconquistato chiarezza grazie al sapiente e accurato restauro. Alla sommità di un imponente baldacchino due angeli scostano i tendaggi in tessuto rosso e verde scoprendo un dipinto raffigurante l’Adorazione del Santissimo da parte dei confratelli avvolti in vesti processionali azzurro verde. Dall’alto una folta schiera di angeli e cherubini scende librandosi intorno al prezioso ostensorio dorato, e all’intenso bagliore radiante col triangolo della Trinità (stemma dei Della Porta). Davide Adamoli autore di Mille e ancora mille, storia delle confraternite ticinesi, ora in stampa, ha confermato che i confratelli in origine indossavano un abito azzurro verde e solo nel primo Novecento si sono adattati al modello bianco e rosso. La Confraternita si è sciolta intorno al 1952. Contemporaneamente all’esecuzione dell’affresco, all’interno l’aula rettangolare viene coperta da una volta a botte schiacciata con tre vele lunettate per lato sopra le finestre. Le decorazioni a stucco, policromate e dorate, eseguite negli anni 1639-40 sono opera di Domenico Pacciorini di Ravecchia. Nel lunettone terminale la scena dell’Annunciazione esprime una vitalità e gestualità teatrale con l’incedere dell’angelo nel suo turbinoso panneggio e Maria inginocchiata in un timido atteggiamento di sottomissione (stemma dei Rusconi e dei Ghiringhelli-Magoria). Nastri curvilinei a ovuli e fusarole cor-
Una testimonianza secentesca nel nucleo storico. (Laura Patocchi-Zweifel)
rono lungo i profili delle vele delle lunette, da cui sporgono testine alate di putti, e vanno a confluire nelle sontuose cornici di volta plasticamente decorate con ricchi motivi ornamentali. Angioletti riccioluti a tutto tondo stanno seduti in spigliati atteggiamenti sul cornicione all’imposta degli archi. I profili delle lunette, le ricche decorazioni a stucco della volta e della pala d’altare fungono da cornici al ciclo di tele. Sulla volta i restauratori hanno riportato alla luce gli affreschi originali del Seicento che si celavano sotto il tinteggio azzurro di fine Ottocento. È affiorato un rigoglioso apparato decorativo dal programma iconografico strettamente correlato all’intitolazione dell’Oratorio. Le vele replicano un ornato con motivi simmetricamente raffigurati – alla base figure zoomorfe (leoni, pantere, scoiattoli, sfingi) accovacciate di profilo, affiancano due putti alati stanti ai lati di un alto vaso di fiori e contornati da steli fioriti stilizzati, chiavi incrociate, mazzi di fiori, uccelli e farfalle in volo e ombrellino processionale. Due putti alati siedono specularmente sui bordi di una sorta di fontana a calice a più livelli da cui zampilla uno stelo fiorito che termina in un cerchio irradiato contenente motivi eucaristici – rose, spighe, ostia. Sopra un cartiglio reca scritte in latino. Da una corolla di giglio pende un drappo frangiato d’oro con i lembi laterali sollevati sopra un oggetto circolare (ostensorio?). Nei quattro scomparti angolari della volta troviamo due sirene nimbate e con ali spiegate fra cui appare un motivo fitomorfo con fiore terminale su cui poggia una figura femminile, personificazione di una virtù cardinale, entro una cornice mistilinea – la Fortezza appoggiata a una colonna, la Giustizia con spada e bi-
lancia, la Prudenza con specchio e serpente al braccio e Temperanza con due vasi per mescolare acqua e vino. Una possente aquila dalla lunga e sinuosa coda attorcigliata si libra in volo con il becco spalancato. Tutto questo repertorio di motivi iconografici è carico di simbolismi eucaristici. I celesti putti alati guidano le anime purificate che rifioriscono e si librano come uccelli e farfalle in volo. Le spighe di grano e i calici alludono al sacrificio del pane e del vino mentre fiori, grifoni in volo, aquila simboleggiano la resurrezione. I cerchi radiati emanano la luce della speranza nella salvezza. Animali e sirene le tentazioni da superare grazie alle virtù. Per quanto riguarda le tele, ora tutte in cura presso i vari restauratori, solo due sono state attribuite. La tela della pala d’altare del 1643, raffigurante l’Incoronazione della Vergine, è opera di Salvatore Pozzi, già artefice del lunettone di controfacciata con l’Ultima cena del 1638. Le cornici della volta e delle lunette ospitano 9 tele raffiguranti temi ispirati al culto eucaristico. Il primo riquadro della volta con La benedizione di Giacobbe eseguita nel 1639 porta lo stemma dei Paganini mentre l’ovale centrale con il Trionfo dell’Eucarestia del 1638 quello dei Sereni. Il terzo riquadro erroneamente interpretato come un Melchisedech porta la scritta Ios. VIII e raffigura un Giosuè armato di lancia e scudo sollevato, come indicano le vecchie Bibbie (Gios. 8, 19-26): «E Giosuè non ritirò la mano, che aveva alzato in alto, tenendo lo scudo, sino tanto che tutti gli abitanti di Hai non furono uccisi» (stemma dei Cusa). Questa e le sei lunette laterali sono opera di ignoti artisti della prima metà del Seicento e portano gli stemmi de committenti. Il
sento il loro calore. Poi, dì a mamma e papà che non c’è bisogno di ordinare tutto su Amazon perché ci pensi tu a portare i regali. Io ti scriverò la letterina, anche via email, se preferisci. E non voglio regali materiali. Vorrei, invece, più tempo per stare fuori, all’aria aperta, senza compiti, senza suoni e senza luci. Solo io e i miei amici. Niente telefonini che si illuminano, che squillano, niente whatsapp, solo noi, la palla, le nostre risate e la nostra fatica. Vorrei più tempo per stare con i miei, giocare a Monopoly o a Memory, fare con loro delle lunghe passeggiate nei boschi; se nevicasse sarebbe per-
fetto!!! Poi rientrati al caldo, davanti al camino acceso, vorrei che la mamma mi raccontasse la storia della natività. Io l’ho vista su google, nel video, forte quando a Maria arriva il messaggio sul telefono dell’arcangelo Gabriele che le dice «Maria tu darai vita al figlio di Dio». Forse, Babbo Natale, rimarrai deluso da questa lettera che ti ho scritto a mano e inviato a casa (che fatica trovare l’indirizzo! C’era solo l’email). Penserai che vivo fuori dal mio tempo. Ma sai, credo siano molti i bambini come me. Essere nativi digitali e vivere nell’epoca dell’internet delle cose, non significa che il nostro mon-
miracolo della mula (stemma dei Pantera), Il sacrificio non accetto (stemma dei Ghiringhelli-Cislaghi), La Comunione indegna (stemma dei Della Porta), La cena di Emmaus (stemma dei Rusca), Il miracolo di Bolsena (stemma dei CusaMolo), Il miracolo del ponte (stemma dei Gabuzzi). Il prezioso altare barocco in marmi policromi, è opera di Paolo Bottinelli di Locarno degli anni 1769-1763. Nel 1772 la Confraternita cede al Luogotenente G.A.Molo la cantina dell’Oratorio in cambio della costruzione della sagrestia sopra l’orto adiacente. Vengono eretti tre muri e creati due livelli – sotto una cantina voltata e sopra la sagrestia alla quale si accede dall’oratorio attraverso l’apertura di due porte. Nel 1794 viene realizzata la scala d’accesso a doppia rampa in marmo su disegno di Francesco Coloneti. A fine Ottocento risalgono le modifiche visibili prima del restauro. Gli importanti interventi di recupero dell’oratorio progettati dagli esperti sono già a buon punto e consentono una lettura più complessa e approfondita dell’edificio e della sua storia. La struttura dell’edificio è stata consolidata e risanata. Stucchi, cornicione e pareti hanno ritrovato le cromie originali, sulla volta è riapparso il decoro secentesco, per il pavimento si è riproposto il battuto di calce, le tele stanno rinascendo. Trattandosi di un monumento protetto il restauro è in parte finanziato dalla Confederazione, Cantone e Città. L’importo rimanente a carico della Parrocchia fino alla conclusione dei lavori è di circa 180’000 franchi. Informazioni
www.corpusdomini-bellinzona.ch
La società connessa di Natascha Fioretti Lettera a Babbo Natale
Caro Babbo Natale, mi chiamo Daniel e ho 12 anni. Sono un nativo digitale. Non so esattamente che cosa significhi, credo sia un modo degli adulti per dire che io so già tutto di Internet e delle nuove tecnologie, so istintivamente quale tasto schiacciare, come si scarica una canzone oppure come si usa una nuova applicazione. E allora ti sembrerà strano che io non ti chieda l’Ipad, l’ultimo smartphone o l’ebook reader. E a dirti il vero mi viene il dubbio che tu possa avverare i miei desideri. Ci provo. Innanzitutto, vorrei che tornassi a portare i regali a
tutti i bambini con l’aiuto delle renne e passando per i camini, come facevi ai tempi della mamma. Sì, lo so che basta collegarti in video-conferenza dalla Lapponia per essere visto da tutti i bimbi del mondo (che poi non sono proprio tutti, perché tanti ancora, ad esempio in diverse zone dell’Africa, non hanno Internet). Ma vederti attraverso il video, Babbo Natale, non è magico. La tua voce è metallica. I tuoi occhi non si vedono, scompaiono tra le sopracciglia bianche e la barba folta. Più di tutto si vede il tuo pancione! E poi non posso parlarti. Non vedo le renne, a me piace tanto Rudolph. Non
do inizia e finisce dentro uno schermo, qualunque esso sia. Certo, forse a volte siamo così immersi nella realtà tecnologica che ci dimentichiamo delle vere tangibili bellezze. Dovrebbero allora venirci in soccorso gli adulti, aiutarci loro a trovare il giusto equilibrio, a diventare dei ragazzi consapevoli e smart, capaci di usare con intelligenza e giudizio critico internet e le tecnologie ma anche di divertirci in modo sano, a contatto con il mondo, non solo quello digitale ma anche, e soprattutto, quello reale. Ciao Babbo Natale, dai un bacio sul naso a Rudolph!
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 22 dicembre 2014 ¶ N. 52
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Società e Territorio La residenza appartenne al conte abate Francesco Saverio Riva che nel corso del Settecento la arricchì con opere dei più importanti artisti ticinesi dell’epoca. (Ed. Casagrande)
Arte e storia del Locarnese Pubblicazioni La guida culturale curata
dalla Società di storia dell’arte in Svizzera analizza 25 località Sergio Tamborini
Nel cuore di Palazzo Riva Arte e monumenti Un libro curato da Simona Martinoli svela
la storia e le decorazioni del nobile edificio di via Pretorio a Lugano Stefania Hubmann Grazie a una cospicua documentazione e a una ricerca ad ampio raggio, Palazzo Riva di Santa Margherita, edificio settecentesco situato in Via Pretorio 7 a Lugano, svela al pubblico la sua storia e le sue preziose decorazioni: affreschi, stucchi, dipinti. Rimasta di proprietà della famiglia Riva, che ne cura la conservazione attraverso una Fondazione, la residenza del conte abate Francesco Saverio Riva è oggi accessibile attraverso le pagine del volume Il Palazzo Riva di Santa Margherita a Lugano e la sua quadreria, curato da Simona Martinoli per le Edizioni Casagrande di Bellinzona. Il palazzo nobiliare, tutelato quale bene culturale cantonale sin dal primo elenco stilato nel 1911, rappresenta uno dei migliori esempi di architettura civile tardo barocca conservatisi in Ticino. Una testimonianza rara e preziosa anche per quanto concerne le numerose fonti storiche, pure preservate grazie alla sensibilità dei discendenti del conte Riva. La ricerca che Simona Martinoli ha avviato nel 2008 per conto della Fondazione Palazzo Riva si è così sviluppata in più direzioni. La storica dell’arte ha coinvolto colleghi esperti dei diversi settori come pure lo storico Marco Schnyder per l’approfondimento sulla famiglia Riva tra Sei e Settecento. Il team, tutto ticinese, ha portato alla luce nuove scoperte relative sia alla storia dell’edificio sia alle sue decorazioni. «In entrambi i casi – spiega la curatrice del volume – l’elemento chiave è il ruolo decisivo svolto dal committente, il conte abate Francesco Saverio Riva. Persona colta ed erudita, in contatto con gli ambienti artistici di diverse città italiane, sull’arco del ventennio 1732-1753 conferì un’immagine unitaria alla sua residenza, arricchendola con opere realizzate da alcuni dei più importanti artisti ticinesi dell’epoca
secondo un vero e proprio programma iconografico. All’inizio della laboriosa ricerca spesso mi è stato chiesto se avessi individuato l’architetto che aveva progettato il palazzo. In realtà questa figura sembra non esistere. Su una pianta settecentesca del palazzo vi sono per contro indicazioni riconducibili alla grafia del conte». Storia e architettura del palazzo sono state ricostruite attraverso analisi incrociate di fonti scritte e iconografiche, provenienti in primis dall’archivio di famiglia: la parte antica affidata all’Archivio storico della Città di Lugano, quella più recente riordinata e catalogata durante questa ricerca e ancora di proprietà privata. Per Simona Martinoli sono di particolare rilievo «gli atti di compravendita che testimoniano come la residenza sia cresciuta poco a poco, frutto di una serie di accorpamenti. Nel Settecento questa pratica era piuttosto diffusa, poiché i materiali da costruzione erano onerosi mentre la manodopera costava relativamente poco». Emblematico anche il testamento del conte abate che dimostra la sua lungimiranza nel tutelare il palazzo da manomissioni. L’analisi di Valeria Frei ha permesso di tracciare il fil rouge che unisce le decorazioni situate al pianterreno e al piano nobile. Se alcune opere, come l’affresco sulla volta della galleria chiusa attribuito a Giuseppe Antonio Petrini, erano già state oggetto di singoli studi, l’insieme di stucchi, affreschi e dipinti rivela che la scelta dei soggetti risponde a precisi intenti comunicativi. Al pianterreno episodi della mitologia classica e della storia romana trasmettono messaggi morali, mentre al piano superiore la celebrazione della natura conferisce serenità ai locali di rappresentanza e a quelli riservati alla famiglia. Unico soggetto religioso dell’intero palazzo l’Ascensione di Cristo, sulla volta di un piccolo locale identificato
come il coro di un oratorio privato oggi scomparso. Gli interessanti sviluppi della ricerca hanno indotto i responsabili a completare la stessa con un importante studio sulla quadreria della famiglia Riva, in parte conservata in loco, tra cui spiccano opere di Giuseppe Antonio Petrini, del figlio Marco Petrini, di Carlo Francesco Rusca e di Francesco Hayez. La ricerca, curata da Edoardo Agustoni e Lucia Pedrini-Stanga, si è concentrata su una ventina di opere. Accanto a dipinti religiosi, soggetti storici e paesaggi, che non potevano mancare in una collezione nobiliare dell’epoca, il nucleo principale è costituito da una galleria di ritratti, di cui si propone una lettura stilistica ma anche socioculturale, svelando storia e personalità dei membri della famiglia Riva. Questo approccio, sottolinea in conclusione Simona Martinoli, caratterizza tutto il volume. Gli autori hanno privilegiato la voce delle fonti, rendendo il testo di facile comprensione senza nulla togliere al rigore dei contenuti. Una preziosa occasione per avvicinarsi alla storia dell’architettura civile ticinese, settore finora poco indagato anche a causa del limitato numero di testimonianze. Il libro è il terzo della collana Arte e Monumenti inaugurata nel 2013 con La Chiesa di San Rocco a Lugano, seguito quest’anno da Santa Maria delle Grazie a Bellinzona. Storia e restauri. Il nuovo spazio di pubblicazione punta alla qualità e all’apertura, affinché si diffonda la conoscenza dei beni culturali, premessa della loro salvaguardia.
La Società di storia dell’arte in Svizzera SSAS, con sede a Berna, fondata nel 1880, è un editore eccezionale nel campo delle guide culturali, lo dimostra l’eccellenza dell’ultimo volume pubblicato alcuni mesi fa e dedicato al Locarnese. L’ente sta, infatti, allestendo una collana che illustra tutto il territorio nazionale, iniziata nel 1927, dal titolo I monumenti d’arte e di storia della Svizzera. Ogni volume presenta le località in modo uniforme e logico, con l’inventario dei beni culturali, civili e religiosi, esaminati secondo uno schema tecnico preciso e completo, valevole per tutte. L’ultimo che segnaliamo, «Distretto di Locarno», è il quarto dedicato al Ticino e comprende la Verzasca, il Pedemonte, le Centovalli e l’Onsernone. Ora il distretto di Locarno è completamente descritto. È il 123esimo della collana e nelle 455 pagine analizza 25 località, con centinaia di fotografie in bianco e nero preziose e storiche e parecchi disegni in scala, utilissimi per comprendere gli edifici religiosi e quelli civili più importanti. Ogni pagina può essere definita lezione di architettura, di storia e di vita. In pratica è un’enciclopedia del territorio. Si calcola che per l’elaborazione di ogni volume siano necessari circa sette anni. L’autrice Elfi Rüsch e le sue collaboratrici, Laura Damiani Cabrini e Antonella Infantino, hanno minuziosamente setacciato tutto il territorio descritto ricavando un inventario facile da consultare. Non solo elementi religiosi, ma anche strutture rurali e di utilità pubblica. La ricerca negli archivi ha facilitato il lavoro per avere informazioni sicure, ma spesso è stato molto difficile o anche impossibile consultare libri preziosi. Come d’altronde l’edilizia residenziale ha una limitata accessibilità perché edifici e og-
getti sono di proprietà privata. È stato fatto il possibile per favorire al lettore la conoscenza completa di ogni luogo trattato e scoprire la presenza di importanti elementi artistici e storici che possono sfuggire a una visita affrettata. Notiamo spesso la frequenza di arredi sacri di buona qualità, giunti in queste valli per arricchire chiese e cappelle grazie ai guadagni e alle rimesse di fondi da parte dei numerosi emigranti. E un’architettura particolarmente legata al clima e alla situazione geografica delle località. Per stuzzicare la curiosità e l’interesse dei lettori citiamo alcuni soggetti che potrebbero essere meta di una visita. Per esempio il Castello Marcacci a Brione Verzasca, un curioso edificio sul quale non si è ancora fatta piena luce che ne spieghi l’esistenza. E sempre Brione conferma la fede anche antica degli abitanti con la presenza di ben 44 tra cappelle e affreschi religiosi che esprimono un ringraziamento della popolazione per disgrazie e pericoli evitati durante le ripide e interminabili salite agli alpi. Palagnedra offre nell’antico coro di San Michele uno stupendo affresco di Antonio da Tradate, perfettamente accostabile a quello di San Fedele a Versoio. A Lavertezzo lo spettacolare «Ponte dei salti» che supera la Verzasca con due arcate, e a Mosogno nell’oratorio della natività una curiosa tela con la Madonna sistemata sopra una pianta. Un invito insomma ai lettori a gironzolare con la guida in mano, nelle località citate e fare interessanti scoperte. Bibliografia
Elfi Rüsch, I monumenti d’arte e di storia del Canton Ticino. Distretto di Locarno IV, Editore SSAS, Berna (www.gsk.ch).
Bibliografia
Simona Martinoli, Il Palazzo Riva di Santa Margherita a Lugano e la sua quadreria, Ed. Casagrande, Bellinzona 2014.
La copertina del volume curato da Elfi Rüsch. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 22 dicembre 2014 ¶ N. 52
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Società e Territorio Rubriche
Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni L’arte di provocare Umberto Eco lo diceva già negli anni Sessanta: «Se voglio diventare famoso vado in televisione e mi spoglio davanti alle telecamere: il giorno dopo sarò su tutti i giornali». Eco, con la sua solita arguzia, stigmatizzava la moda delle celebrità televisive costruite sul nulla – sulla parolaccia (che a quel tempo non era ancora, nei programmi televisivi, una consuetudine irrilevante com’è oggi, ma costituiva un fatto trasgressivo), sugli insulti, sulle battute strampalate o sull’abbigliamento strambo. A quanto pare, quell’arguzia è stata profetica: recentemente le cronache svizzere hanno riferito di due iniziative artistiche che convalidano l’intuizione di Umberto Eco. A Bienne, in maggio, si è svolta una manifestazione artistica che un quotidiano ticinese presentava così: «Nudi d’autore a Bienne in pieno centro»; ossia, una ventina di persone – maschi e femmine – ha eseguito una passeggiata esibendosi nuda per le vie
della città. Perché, poi, fossero «nudi d’autore» non mi è affatto chiaro – a meno che per «autore» s’intendano gli uomini e le donne che li hanno generati; ma simili autori tutti li abbiamo avuti, e non per questo, di solito, ci riteniamo opere d’arte da esporre in pubblico. Un mese dopo, in giugno, s’inaugurava a Basilea la manifestazione Art Basel, ma l’artista e modella svizzera Milo Moiré ha distratto l’attenzione dei potenziali visitatori avviandosi nuda con qualche scritta sul corpo all’ingresso dell’esposizione. Anche la sua esibizione – una performance alla quale non è nuova – fa parte di quel movimento artistico che va sotto il nome di body art e che usa un corpo nudo, bello o brutto che sia, come strumento di espressione artistica. Quando temo di essere antiquato perché non riesco ad apprezzare una sfilata di nudisti come prodotto artistico,
è tutt’altra cosa: è urtare la sensibilità comune, infrangere tabù, dissacrare, disgustare. È nota la «provocazione» di Piero Manzoni che nel 1960 mise in scatola i suoi escrementi: ne fece novanta scatole contenenti ciascuna 30 grammi del suo prodotto bio fatto in casa, ci appose l’etichetta «Merda d’Artista» e le mise in vendita per 30 grammi d’oro ciascuna. È sorprendente che nel 2007 uno di questi pezzi sia stato venduto a un’asta di Sotheby’s a Milano per 124 mila euro: forse, come la faceva lui, non ci riusciva nessun altro… La mia impressione è che la provocazione, oggi, sia una giustificazione arbitraria per chi non ha nulla da dire ma vuole dire comunque. Questo fa parte di un processo storico che ha consumato i linguaggi consueti, per cui in gran parte è vero che tout est dit: nel romanzo e nella poesia, nella musica e nell’arte figurativa. Quando tutto è detto, chi vuol ancora parlare,
per essere originale, deve sconvolgere la prassi comunicativa. Già all’inizio dell’Ottocento John S. Mill temeva che un giorno si sarebbero esaurite tutte le possibili combinazioni musicali: e infatti, nel primo Novecento, si tentò un rinnovamento del linguaggio abbandonando la musica tonale per quella dodecafonica (che, benché così ne dicano i detrattori, non ha nulla a che vedere con i cafoni!). Quando «tutto è detto», si finisce nell’indicibile. È facile constatare che tanta arte d’oggi non parla immediatamente, o è molto difficile farla parlare: in questi casi, di solito, al posto dell’opera d’arte parla il critico d’arte. Quanto più ermetico è il messaggio, tanto più lungo è il discorso del critico che cerca di trarne un senso. Oppure, si passa semplicemente alla «provocazione». Come nelle dispute e nei bisticci: quando mancano gli argomenti, si passa agli insulti.
l’ebanista bavarese e frate laico Gabriel Loser (1701-1785) che le realizza tra il 1764 e il 1766. Una galleria in noce e ciliegio con parapetto intagliato corre per tutta la sala ondeggiando in corrispondenza dei sei grandi blocchi di libri lì come pilastri del sapere: sotto ritmati da dodici lesene sostenute da altrettante colonne ornamentali corinzie in radica di tuia, al piano di sopra più spartani. Qui, dove solo trentamila libri dei centosessantamila in possesso sono esposti, c’è una tranquilla maestosità illuminata da ventiquattro finestre velate da tende color perla. Se le scostate, da una parte, distorto dal vetro fatto di esagoni, il cortile interno con porta da calcio. Dall’altra, Gallusplatz colma di abeti in vendita. Il soffitto a volte stuccate si apre in quattro squarci a forma di capesante. Gli stucchi eseguiti (1761-62) come flutti marini sono opera dei fratelli Johann Georg (1710-1765) e Matthias (1733-1796) Gigl di Wessobrunn, in Baviera. Affreschi
color cielo minaccioso, raffiguranti i primi quattro concili ecumenici, sono di Joseph Wannenmacher (1722-1780). Disseminate, sette teche con i manoscritti della mostra su Giustizia e Diritto, una delle quali è assalita da un gruppo con la solita guida rovina-silenzio. Se la pantofola aggiunge giocosità interattiva e uno scivolare domestico, preservando il parquet in abete intarsiato con stelle e viticci, non elimina lo scricchiolìo. A caccia di titoli curiosi, tra i libri riposti nelle nicchie, chiusi a chiave e protetti da esili grate, ne spunta uno di Humboldt sulla lingua Kawi. Scovo un corvo impagliato accanto al ritratto dell’abate Cölestin, sopra la porta chiusa al pubblico per la scala a chiocciola che sale in galleria. «È il ricordo di un’installazione di Steiner & Lenzlinger nel 2005» mi dice la signora Egli che ora rimprovera un russo per delle foto furtive. Sparsi sopra le colonne, una ventina di putti. Ognuno con il suo mestiere, come i puffi: dal
putto giardiniere al putto poeta. Sulla porta a nord c’è un quadro con la copia della scultura di Santa Cecilia giacente su un fianco (1599) fatta dal ticinese Stefano Maderno nella chiesa di Santa Cecilia in Trastevere. Lì vicino, in fondo alla sala, in una teca per manoscritti, la mummia. È Schepenese: donna egiziana vissuta seicento anni circa avanti Cristo e morta dopo i trent’anni. Approda nella biblioteca abbaziale nel 1836: venduta dal landamano Karl Müller-Friedberg che l’aveva ricevuta in regalo assieme ai suoi sarcofaghi da un amico di famiglia residente ad Alessandria d’Egitto. Sul sarcofago interno in sicomoro, a due pezzi, affiancato come una matrioska da quello esterno più grande, in tamarindo, ci sono dei pittogrammi: la scrittura geroglifica si ricollega alla calligrafia amanuense esercitata qui secoli dopo. A passo felpato, faccio ancora un giro, pensando al manoscritto B dei Nibelunghi conservato qui da qualche parte.
di una realtà che sta assumendo non soltanto un peso, in termini numerici, ma sempre più uno spessore, in termini di contenuti: cioè sentimenti e opinioni spontanei di cui tener conto. Questo, infatti, è il nuovo aspetto dei social network che, da passatempo individuale, persino narcisistico, di utenti, che si mettono in mostra e raccontano faccende private, ha conquistato una dimensione veramente sociale. Si tratta, insomma, di una voce, che trasmette umori e malumori diffusi, indizi di tendenze che, nell’era dell’antipolitica, meritano l’ascolto degli addetti ai lavori della cosa pubblica. Se n’era accorto, la scorsa estate, Emanuele Bertoli, quando con il suo discorso del 1. agosto, aveva suscitato dissensi e perplessità affidati, innanzi tutto alla rete. Del resto, l’uso politico del mezzo ha ormai alle spalle una tradizione: l’aveva collaudato, con successo, Obama, durante la sua prima campagna elettorale. Con ciò, il salto di qualità non deve far pensare, automaticamente, a una riabilitazione culturale e morale della rete, sempre esposta ai tipici rischi del
virtuale: creare dipendenza e facilitare cattivi incontri, situazioni frequenti fra i giovani, assidui frequentatori di questa piattaforma comunicativa. Ed è un pericolo, percepito nelle nostre scuole, dove si è corsi ai ripari organizzando corsi, affidati a Paolo Attivissimo, specialista informatico e divulgatore: l’obiettivo è preparare gli allievi all’uso appropriato dei social, superando infatuazioni e pregiudizi. Succede, infatti, a ogni svolta tecnologica, il nuovo strumento affascina e in pari tempo sconcerta. Soprattutto agli occhi degli anziani, sembrano tutte diavolerie. È una storia che si ripete. Agli inizi del 900, le prime auto spaventarono i contadini e le galline… che non avrebbero più fatto uova! Del resto, lo stesso Mark Zuckerberg, uno dei padri di Facebook, è consapevole dei pericoli innescati dalla sua invenzione, e dichiara: «Ho commesso errori, dai quali ho cercato d’imparare per liberarmi dalla dipendenza dal nuovo mezzo». Ma, tornando all’episodio luganese, al di là del potere della rete veicolo di comunicazione, emerge il significato di
un messaggio chiaramente decifrabile. Le simpatie, dirette a Jörg, si contrapponevano alle antipatie, espresse o sottintese, destinate a un marchio, simbolo di lusso. Si apre, qui, un tema ad alto rischio moralistico e demagogico. Ci si muove su un terreno scivoloso, dove i sentimenti rimangono confusi e divisi. Da un lato, le boutiques blasonate sono ambite: anche Lugano le sfoggia, alla stregua di un elemento decorativo e di un incentivo turistico. Via Nassa, dunque, come via Montenapoleone, via Condotti, Madison Avenue, ecc. D’altro canto, però, questa presenza induce a una riflessione d’ordine razionale e morale. Certi cartellini di prezzo, che accompagnano abiti, borse, orologi, gioielli, mettono addosso un brivido d’incredulità e raggelano la passeggiata sotto quei portici. Ci si sente spaesati, in un’isola assurda. Invece, appartiene, e come, a un mondo reale, che procura lavoro, stimola talenti, riempie le casse. Come, si usa dire, fa girare la ruota dell’economia. Con l’ottimismo, che è d’obbligo a Natale, speriamo che sia così.
mi consolo pensando a quanto diceva il grande storico dell’arte Bernard Berenson: «Il nudo non è lo spogliato». Quando si ammira la Venere del Botticelli, o quelle di Tiziano o di Giorgione, si coglie ben altro al di là dell’appetibile bellezza delle forme femminili: l’incanto delle luci e delle ombre, l’armonia della composizione, tutto ciò, insomma, che non può essere detto ed eccede di gran lunga il soggetto raffigurato e induce a sognare, al di là dell’immagine, una bellezza più alta, quasi un rinvío all’Idea platonica. Nulla di tutto questo ispira il crudo esibizionismo della body art: la sua giustificazione non sta, infatti, nelle forme esibite – magari anche brutte e deformi – ma in una sola parola: provocazione. Beninteso, anche gli artisti del passato che in qualche modo rompevano con una tradizione di maniera risultavano provocatori. Ma la provocazione chiamata a giustificare certa arte d’oggi
Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf La biblioteca abbaziale di San Gallo In fondo al corridoio, una distesa di pantofoloni in feltro. Ogni visitatore deve infilarci dentro le scarpe prima di entrare. «Farmacia dell’anima» c’è scritto in greco maiuscolo, nel cartoccio dorato fiancheggiato da due putti, sopra la porta d’ingresso in noce con i due battenti spalancati. Attrazione turistica maggiore di San Gallo e location del best-seller Signorina Stark (2001) di Thomas Hürlimann collocata al secondo e terzo piano nell’ala sud dell’ex abbazia benedettina fondata nel luogo scelto verso il 612, per la sua cella d’eremita, dal monaco colombaniano Gallo. Eponimo di questa città nota – oltre che come scriptorium rinomato sin dal medioevo e per l’attuale collezione importante di manoscritti e incunaboli – anche per i pizzi, i bovindi decorati, i bratwurst. Sulla soglia, come un buon odore di whisky, provocato credo dal mix delle antiche rilegature in cuoio e boiserie varie; corrente d’aria fredda
mentre intravedo i dorsi dei libri in curva. Pregusto con l’attesa della visita imminente, la vista della famosa sala tardobarocca di una delle biblioteche annoverate tra le più belle al mondo, i cui lavori voluti dall’abate Cölestin Gugger von Staudach (1701-1767) e affidati al capomastro austriaco Peter Thumb (1681-1766), iniziano nel 1758. E così un pomeriggio sotto Natale slitto dentro la biblioteca abbaziale di San Gallo (675 m). Nonostante le foto mozzafiato viste in internet, rimango di stucco. Il rococò non è il mio genere ma qui c’è qualcosa che travalica i gusti e t’investe di grazia. L’orchestrazione di tutti gli elementi nello spazio è da capogiro. Un’armonia vertiginosa tra contrasti e allitterazioni. Stucchi increspati sul soffitto a volte, onde delle librerie in legno intermittenti, vani delle finestre dove un tempo i monaci erano ai loro scrittoi. Libri a parte, mi sa che sono le parti in legno, il cardine del rapimento ottico. L’autore è
Mode e modi di Luciana Caglio Quando la rete fa opinione E merita anche l’ascolto di un sindaco. Com’è successo, giorni fa, a Lugano, dove Marco Borradori, con la sua diplomazia del sorriso, è riuscito a risolvere un diverbio, piccolo ma increscioso proprio per il luogo e il momento in cui era, inopportunamente, scoppiato: via Nassa sotto le feste. Protagonista, o piuttosto vittima, dell’episodio, il suonatore d’organetto, in tuba e frack, Jörg Wolters, figura ormai familiare, bene accolta nelle strade e piazze ticinesi. Con un’eccezione che, appunto, ha fatto notizia: lo slargo, agli inizi di via Nassa, diventata per lui zona off limits. Qui, infatti, due addetti alla sicurezza della boutique Hermès gli avevano bruscamente ingiunto di sloggiare, dato che quel suono infastidiva la gerente del negozio. Ora, quest’intervento abusivo e arrogante non poteva passare inosservato. Ma ad allargarne l’eco, con l’impareggiabile immediatezza dei mezzi elettronici, è stata la rete, dove un testimone dell’incidente ha «postato» il suo disappunto. Scatenando così una valanga di reazioni. In breve tempo, sulle pagine di Facebook si sono
accumulati oltre 8000 «mi piace»: tante le espressioni di simpatia e solidarietà rivolte a quell’ambulante che faceva, correttamente, il suo mestiere di tranquillo intrattenitore. Evidentemente, è stata l’entità stessa di questa partecipazione, tramite la rete, a mobilitare il sindaco, consapevole
Jörg Wolters e Marco Borradori davanti alle vetrine di Hermès. (CdT - Gonnella)
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Ambiente e Benessere Granelli di sabbia Sono il muto ricordo delle montagne di un tempo, ma anche narratori di storie antiche
Le parole volanti Un gioco da tavolo mette alla prova la nostra capacità di giostrare con le lettere: l’intento è anche terapeutico
Ricetta di stagione Le «torrette di salmone» sono un buon suggerimento per l’antipasto dei giorni festivi pagina 14
Il piacere dell’inverno Quando bastava che gelassero i laghetti di Origlio e di Muzzano per correre all’aperto armati di pattini rudimentali
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Un Dio bambino da generare nel proprio cuore Viaggiatori d’Occidente Gli infiniti natali
nelle religioni d’Oriente riportano alla memoria gli insegnamenti dei mistici Sufi e della Grecia di Socrate
Un’immagine trovata per terra sul Monte Abu, la montagna sacra del Rajahstan: Krishna e Rama bambini, generati dall’uovo cosmico, «galleggiano» su due foglie di ficus. (Stefano Faravelli)
Claudio Visentin, Stefano Faravelli Ogni presepe ruota intorno alla statuina di Gesù, centro fisico e simbolico della sacra rappresentazione, allestita per la prima volta da San Francesco a Greccio nel 1223. A volte la piccola effigie del Creatore viene messa per ultima, la notte di Natale, ma questa assenza la rende, se possibile, ancora più presente nei giorni dell’Avvento.
Nella antica Atene Socrate credeva che la verità dovesse nascere ogni volta dentro a ciascuna anima Il presepe, che tanto cruccia gli intolleranti, è invece caro ai viaggiatori, che trovano nei Re magi una sorta di santi protettori. Solo alle loro statuine, infatti, è accordato il privilegio di potersi muovere: collocati a una delle estremità del presepe, ogni giorno mani bambine le avvicinano un poco all’agognata capanna, inscenando di nuovo quel viaggio antico, quando i misteriosi viaggiatori di Persia giunsero in Palestina domandando dove fosse «il re che era nato», in quanto avevano «visto la sua stella in Oriente» (Mt., 2,2). Ben sapendo, come ha scritto Thomas Stearns Eliot in una bella poesia, Il viaggio dei Magi, che dopo quell’incontro nulla sarebbe più stato come prima, che quel bambino esigeva da loro una morte e una rinascita spirituale, che sarebbe stato impossibile riprendere la via e la vita di sempre. Ma il miracolo di un Dio che si fa bambino avviene anche sotto altri cieli e in altri credi, con la stessa meraviglia di questo nostro. Perché il Dio bambi-
no rappresenta il Verbo nel suo aspetto essenziale, nella sua semplicità assoluta di infans. Già sotto il sole di Atene, del resto, Socrate credeva che la verità dovesse nascere ogni volta dentro a ciascuna anima e che a lui toccasse solo il compito di agevolare il parto, per così dire, come un tempo faceva sua madre Fenarete, abile levatrice. Sempre più a est, troviamo Ramakrishna, il grande santo bengalese del XIX secolo, che spese un periodo della sua vita accudendo il piccolo Rama, incarnazione di Vishnu, l’essere supremo e la figura divina protettrice del mondo. Talora Ramakrishna era costretto a rimproverare Rama per i suoi dispetti, perché neppure Dio può essere diverso dagli altri bambini… E assai capriccioso era anche il fanciullo Krishna, un’altra incarnazione di Vishnu, che in India e in Nepal è spesso raffigurato sulle porte e dietro gli stipiti delle povere case con colori sgargianti (adorabile kitsch della devozione hindu!). Il viaggiatore può ascoltare diverse storie dell’infanzia di Krishna. Per sfuggire alle insidie del sovrano Kamsa, Krishna trascorse i suoi primi anni di vita nel villaggio di Vrindavana, dove Yashoda, la moglie di un pastore, si prese cura di lui. Un giorno il fanciullo fu sorpreso dalla madre adottiva dopo aver rubato il burro, con l’aiuto degli altri marmocchi, ma cercò spudoratamente di negare l’evidenza. Quando però la madre gli ordinò di aprire la bocca, vide spalancarsi dinanzi a sé l’immane gioco cosmico del samsara, l’immensità dell’universo rotante racchiuso in quel piccolo corpo. Ancora in India, la forma più alta della divinità è Swayambhu, l’autogenerato, rappresentato talvolta nella forma di un bambino cicciottello che succhia il proprio alluce disteso su una
Krishna e il furto del burro. A fianco: infante di buon auspicio su scatola di fiammiferi. (Stefano Faravelli)
ninfea galleggiante sull’oceano del non essere. Puer Aeternus, avrebbe detto Jung, che a quell’archetipo dedicò uno studio ricco e documentato. Ed eterni sono i bambini tondi e sorridenti, recanti giocattoli e tesori, che troviamo raffigurati sulle porte delle case cinesi, dallo Yunnan al Gansu. E anche nel pantheon buddista giapponese la figura di gran lunga più amata è Jiso, il Buddha bambino con
bavaglino e berrettino di maglia, pii ex voto, che si possono vedere a migliaia in quel luogo straordinario che è il Monte Koya, presso Osaka. Si crede che queste raffigurazioni del Dio bambino siano benauguranti, che portino fortuna, ricchezza e felicità. Forse ci ricordano che la vera fortuna, ricchezza e felicità è il fatto che ciascuno di noi è anche quel bambino eterno: non un’immagine ingenua e re-
gressiva dunque, ma un’icona attivante e rigenerante. Alla soglia del Natale, dopo averlo inseguito nei più diversi Paesi del mondo, in forme sempre diverse e sempre uguali, non resta che cercare il Dio bambino anche nel proprio spazio interiore perché, come scriveva il mistico sufi Jalal al-Din Rumi (XIII secolo): «A nulla serve che sia nato Gesù se non lo generi in te».
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Ambiente e Benessere
La bellezza della sabbia Biodiversità La rena può ospitare anche numerosi invertebrati, detti «psammicoli»
Alessandro Focarile Secchiello, palette e formine. Piste per giocare con le biglie, castelli di sabbia più o meno effimeri. Chi di noi non ha gradevoli ricordi dei primi giochi d’infanzia in riva al mare, oppure sulle sponde di un fiume o lungo un torrente vicino casa? La sabbia è stata il nostro primo materiale per costruire qualcosa con le nostre mani, dando libero sfogo alla nostra fantasia di bambini. Ma la sabbia ha anche una lunga storia da raccontare, se la osserviamo con occhi da adulti, con un pizzico di curiosità e una buona lente di ingrandimento, oppure (e meglio) al microscopio. Ciò che è probabilmente, un primo incentivo entusiasmante per costruire una collezione. Chi di noi, infatti, tornando da una vacanza balneare, vicina o lontana, non ha portato, quale «souvenir», un campione di sabbia, che ci ha colpito per la bellezza e la varietà dei suoi colori o per la forma dei granuli che la compongono? Sabbia rosa dalla Sardegna e dalla Corsica; nera dalle vulcaniche Eolie; bianca dalla Dalmazia, oppure dalle Maldive. Attualmente è attiva (a livello internazionale) un’associazione dei collezionisti di sabbie. Alcuni dei suoi membri hanno radunato, dopo anni di entusiasmanti viaggi ed esperienze anche in luoghi lontani, cospicue collezioni costituite da migliaia di campioni (fino a 11 mila!), provenienti da tutto il mondo. Inoltre alimentano una vivace attività di scambi con
Sopra e sotto, le zampe anteriori di due coleotteri psammicoli.
Sono efficienti strumenti di scavo. (Disegni originali di Roberto Pace)
colleghi. Nel bel libro dedicato alla sabbia, ed edito dal Museo di Storia Naturale di Neuchâtel (Le sable), sono illustrati magnifici campioni di sabbie: come quelli insoliti di salgemma dalla Somalia, ex colonia francese, oppure gli spettacolari granuli di granati raccolti sulle rive dell’Oceano Pacifico, in Nuova Zelanda. La sabbia ci narra le vicissitudini che hanno accompagnato la vita delle montagne, dei ghiacciai, oppure di un vulcano attivo migliaia di anni or sono, e dai quali ha tratto origine grazie alla demolizione delle rocce, o a seguito di un’eruzione, e al lento trasporto a valle, talvolta fino a un mare lontano. Inoltre, la sabbia può essere l’insieme dei minuscoli frammenti di vita marina: ricci di mare, coralli, conchiglie, foraminiferi, incessantemente rotolati e via via arrotondati dal gioco delle correnti, per essere poi depositati sulle spiagge. La formazione della sabbia può avere, dunque, varie origini: lungo fiumi e torrenti, sulle rive dei laghi, per eruzioni vulcaniche, o grazie alle onde marine. Le dimensioni dei granuli di sabbia sono comprese tra 0,05 e 2 millimetri. Sotto queste dimensioni conosciamo il limo e l’argilla. Al piano granulometrico superiore: la ghiaia e i ciottoli. Grazie all’incessante rotolamento nell’acqua, i granuli perdono gradatamente la loro forma spigolosa (foto), fino a divenire delle minuscole sfere a seconda della durezza dei minerali che compongono la roccia madre originaria, oppure dagli organismi marini. Un campione di sabbia, di origine terrestre, è un museo di mineralogia in miniatura, in quanto è composto dall’eterogenea mescolanza di più minerali, variamente e irregolarmente frammisti dalla fluitazione, e in funzione della densità dei costituenti minerali. Questi, se sono più leggeri, sono trasportati più facilmente in sospensione. I più pesanti tendono invece a depositarsi. Tra questi, i minerali di ferro (magnetite, ematite) di colore nerastro, che possono essere attirati ed evidenziati con una calamita. A tal proposito ricordiamo le vaste distese di sabbia nera sui litorali del Mare Tirreno dalla Toscana alla Campania. E l’oro, presente in molti torrenti alpini (specialmente nel gruppo del Monte Rosa sui due versanti) sotto forma di minuscoli aggregati e pagliuzze, senza dimenticare l’epopea dei cercatori d’oro in California, che ebbero talvolta la ventura di trovare anche pepite di notevoli dimensioni, facendo la loro fortuna. Le bianche spiagge di litorali lontani, che ci vengono proposte sui prospetti turistici, e che si stagliano su un cielo blu e sul verde delle palme, sono ammassi di «sabbie organògene» costituite dai frammenti di enormi quantità di conchiglie, incessantemente rimaneg-
Una spiaggia a Kailua, Hawaii. (AP)
giate dall’azione delle correnti marine che le depositano in riva. In alta montagna, le correnti aeree originano anche vistosi spostamenti di limo e di sabbia. Sono ben note le cadute di materiali sabbiosi fini provenienti dal Sahara fin sulle Alpi (sabbie eòliche). Spesso, nevai e ghiacciai possono essere ricoperti da periodici ricoprimenti ocracei e rossastri, rilevabili anche in lontananza. Grazie alle nevicate che si succedono anno dopo anno, queste singolari testimonianze si possono conservare a lungo negli strati annuali dei ghiacciai. Nei greti di fiumi e torrenti, sulle rive dei laghi e del mare, ovunque vi siano banchi di sabbia, questi sono stati popolati con alterne vicende e, fin dai primordi della vita (quando sono apparsi gli antenati degli attuali inver-
tebrati), da una minuta fauna anche di insetti. Nel corso della loro evoluzione, hanno escogitato e messo in opera complicati processi adattativi e meccanismi che consentono di vivere in un ambiente ai nostri occhi ostile alla vita. La sabbia conduce bene il calore: si surriscalda in superficie, raggiungendo notevoli valori termici. Esaltati, talvolta, dalla predominanza di minerali scuri, come quelli di ferro, di manganese e di mica biotite. Nel greto del torrente Bavona (in Vallemaggia) sono state rilevate temperature di 55° C in superficie: ambienti popolati impunemente da formiche e dai coleotteri predatori (Cicindela). Altrettanto rapidamente la sabbia si raffredda. Chiunque frequenti, nell’arco di una giornata, un arenile, se ne rende facilmente conto a livello dei piedi.
Sabbia umida, sede di un ricco popolamento di piccoli coleotteri. (A. Focarile)
Sabbia organògena (marina) e frammenti di conchiglie. Nuova Zelanda. (A. Focarile)
Inoltre, la sabbia è un substrato molto permeabile: può assorbire molta acqua e, altrettanto rapidamente, perderla in profondità. Gli insetti che popolano la sabbia, i sabulicoli (oppure, con termine scientifico, gli psammicoli, dal Greco psammon = sabbia) devono affrontare notevoli stress fisiologici, che li obbligano a ben definite scelte dei tempi di attività. Devono spostarsi, nutrirsi, procreare, e guardarsi dagli aggressori. La vita in superficie è potenzialmente pericolosa, e da qui ha avuto origine la loro facoltà adattativa di vivere nella sabbia invece che sulla sabbia. Le zampe anteriori di questi insetti psammicoli si sono lentamente specializzate in efficienti strumenti di scavo, aumentando «a pala» (vedi figure) la loro superficie, oppure munendosi di spine e di denti laterali, che agevolano il lavoro e lo spostamento dei materiali sabbiosi. Questi insetti si cibano di minute alghe, oppure di detriti organici contenuti in varia misura nella sabbia. Oppure sono predatori di uova e larve di altri insetti. La loro presenza, in un banco di sabbia, non è continua, né durante l’anno per motivi termici e neppure nello spazio, in quanto i sedimenti sabbiosi non sono mai di calibro omogeneo. Ogni comunità di insetti psammicoli è strettamente legata alla presenza di sabbie calibrate, che permettono (o impediscono) lo scavo delle gallerie (foto). Sono noti organismi ultra specializzati (come certe specie di Acari), che sono stati rinvenuti fino a due metri di profondità nella sabbia. Inondazioni, esondazioni, mareggiate sono la causa di permanenti spostamenti della fauna, composta da comunità «vagabonde» ma sempre vitali, legate al dinamico confine tra acqua e terra. «Un granello di sabbia – come ha scritto Raymond Siever – è il muto ricordo delle montagne di un tempo, dei fiumi e dei deserti, e di milioni di anni di sollevamenti e abbassamenti della crosta terrestre sulla quale viviamo oggi». E se vi capita di avere un po’ di sabbia nelle scarpe tornando dal mare, o lungo il fiume, pensate cosa essa rappresenta, e quanta lunga storia si porta appresso. Bibliografia
Jacque Ayer, Marco Bonifazi, Jacques Lapaire, Le sable, Muséum d’histore naturelle de Neuchâtel, 2002, 127 pp. Paihia (New Zelanda, North Island). (Alessandro Focarile)
Sabbia della Valle Bavona ( Vallemaggia). Quarzo, mica biotite, granati. (A. Focarile)
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Ambiente e Benessere
Partire per Natale o sognare in poltrona?
Verba volant Giochi di parole Per migliorare la propria memoria e la conoscenza lessicale Ennio Peres
Bussole Inviti
Verba Volant è un noto gioco da tavolo, basato sulla memoria e sulla conoscenza lessicale. Attualmente è distribuito dalla benemerita associazione Giovani nel Tempo (www.giovanineltempo.it), che si propone le seguenti finalità: ■ realizzare e commercializzare dei prodotti, in grado di allenare e mantenere le capacità cognitive (memoria, attenzione, linguaggio, pensiero astratto…) e di proteggere la salute cognitiva e psicologica individuale; ■ destinare alla ricerca sull’invecchiamento, condotta dal Dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna, una parte dei proventi ricavati da tali attività. Una confezione di Verba Volant contiene 54 tessere, tutte con lo stesso dorso. Su 53 di queste è riportata una lettera dell’alfabeto italiano (per praticità, la «Q» è sostituita dal gruppo «Qu»); sulla tessera rimanente, è disegnato un Jolly, che può assumere il valore di una qualsiasi lettera, a scelta. All’inizio di ogni partita, si scelgono a caso 36 tessere e le si dispongono sul tavolo, coperte, in un quadrato 6x6. Ciascun giocatore, al proprio turno, deve girare una quantità di tessere a propria scelta (ma non meno di 4); poi, deve cercare di formare una parola di senso compiuto, anagrammando tutte le lettere così scoperte. Se il giocatore riesce nell’intento, preleva le carte scoperte e conquista un punteggio proporzionale alla loro quantità; altrimenti, prima di passare il turno, deve ricoprirle (e tutti dovran-
a letture per viaggiare
riuscire a comporre almeno una parola di senso compiuto? 7. Avete girato le tessere: A B G I I O R S T e ricordate le posizioni della C, della P e della V; 8. Avete girato le tessere: A C E H I L O R R S e ricordate le posizioni della B, della C e della T.
Bibliografia
Viaggiare in poltrona, EDT, 2014, pp.272, € 22,00. Dello stesso editore Best in Travel 2015. Il meglio da Lonely Planet, EDT, 2014, pp.208, € 14,50.
Soluzioni
1. Avete girato le tessere: A E E G P R R; 2. Avete girato le tessere: A D E E G I R T; 3. Avete girato le tessere: E I L N O O S U Z; 4. Avete girato le tessere: Jolly – A C R S T T; 5. Avete girato le tessere: Jolly – F I N O S T U; 6. Avete girato le tessere: Jolly – A A E O R R T Z. Aggiungiamo ora la… memoria. Riuscite a individuale quale delle lettere ricordate vi conviene scoprire, per
Alcune soluzioni possibili sono le seguenti. 1. PREGARE – 2. TRAGEDIE – 3. SOLUZIONE – 4. I SCRITTA – 5. R FRUSTINO – 6. V ZAVORRATE – 7. V SBRIGATIVO – 8. T ORCHESTRALI.
no cercare di tenere a mente le posizioni delle relative lettere). Non potendo simulare su una pagina di giornale l’azione di rovesciamento delle tessere, per farvi avere un’idea del meccanismo di gioco vi propongo delle situazioni potenzialmente ottenibili, una volta effettuata una determinata serie di ribaltamenti. Cercate di affrontarle al meglio. Utilizzando tutte le lettere così scoperte ed eventualmente attribuendo al Jolly il valore più funzionale, cercate di comporre almeno una parola di senso compiuto:
«Che cosa ci spinge a viaggiare, a partire da casa se non i racconti, le immagini di luoghi che vorremmo scoprire di persona? (...) La meta di una vacanza ci è spesso suggerita dagli eroi della nostra infanzia, dalle canzoni della nostra adolescenza, dalle scene di film che ci hanno colpito…» I libri di viaggio strenna sono un inevitabile, rassicurante sottoprodotto del Natale e hanno ben poco dell’inquietudine e della sorpresa dei viaggi. Sono destinati a finire sul tavolino del salotto, accanto alla teiera, piuttosto che nel fondo di uno zaino. Questo Viaggiare in poltrona ha però dalla sua l’onestà del titolo e una selezione ampia e curata di «500 film, libri e musiche che fanno venire voglia di partire». Ci offre soprattutto una bella occasione per prestare maggiore attenzione a quella fase incerta eppure così importante che precede il viaggio: il momento in cui guardiamo un’immagine, leggiamo una pagina o ascoltiamo una canzone che nei giorni seguenti scopriremo di non riuscire più a dimenticare. Perché ogni viaggio comincia molto prima della sua partenza, e viene messo in scena nella nostra mente prima che nel mondo.
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Ambiente e Benessere Cucina di Stagione La ricetta della settimana
Torrette al salmone e ai capperi Aperitivo Ingredienti per 4 persone: 120 g di salmone affumicato · ½ cipolla · sale, pepe · 8 fette di pane per toast, ad esempio Toast Soleil · 1 mazzetto d’aneto · 50 g di capperi. 1. Tritate finemente il salmone e la cipolla, quindi conditeli con poco sale e pepe. Distribuite il trito su 4 fette di pane per toast. 2. Mettete da parte qualche gambo di aneto per guarnire. Tritate i capperi e il resto d’aneto, poi pepate. Distribuite il trito di capperi su 2 altre fette di pane. Sistemate le fette di pane farcite, una sopra l’altra, in modo da formare 2 torrette con lo strato di capperi a metà. Accomodate sulle torrette le ultime fette di pane per toast. 3. Eliminate la crosta del pane tagliandola con un coltello affilato. Fissate le torrette – ognuna con 4 stuzzicadenti – e tagliatele in quattro. Guarnite con l’aneto messo da parte e servite.
Un esemplare gratuito si può richiedere a: telefono 0848 877 869* fax 062 724 35 71 www.saison.ch * tariffa normale
Preparazione: 15 minuti. Per persona: circa 12 g di proteine, 5 g di grassi, 21 g di carboidrati, 700 kJ/170
kcal.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 22 dicembre 2014 ¶ N. 52
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Ambiente e Benessere
Ricordando un freddo «impossibile» Alcide Bernasconi Saranno trascorsi sessant’anni, tanti o pochi secondo i punti di vista e gli acciacchi, inesorabili, che si manifestano a una certa età. Dico, attorno al 1950, quando attendevamo l’inverno con l’incrollabile fiducia del ragazzo che aspetta il circo a novembre e la neve verso la fine dell’anno. Una spolverata, niente di più, in grado di resistere almeno un paio di giorni a un’improvvisa raffica di favonio, per vedere l’effetto che fa una slittata sull’erba umida di un vecchio ronco dalle parti di casa. Scivolata che si concludeva con un po’ di stridore sulla ghiaia della stradina sottostante.
Inverni temperati all’ombra delle palme ci facevano sospirare il primo fiocco di neve o una rara nevicata eccezionale La povera slitta, con impresso a fuoco in lettere maiuscole il marchio «Davos», ti faceva sentire per pochi attimi un futuro bobbista in lotta per una medaglia olimpica o mondiale, così come suggerivano gli epici racconti radiofonici del radiocronista sportivo Vico Rigassi, in perenne movimento fra una pista del ghiaccio per l’hockey e il pattinaggio artistico e di velocità, un percorso di sci di fondo (allora dominavano i nordici in tutte le discipline e Dario Cologna avrebbe potuto essere soltanto un sogno impossibile), i trampolini del salto, qualche pista per lo sci alpino e, soprattutto, i canaloni ghiacciati per la pratica del bob e dello skeleton lungo la Cresta Run. Il tutto con soste più o meno lunghe in una bettola, davanti a un bicchiere di grappa o di kirsch, da gustare in compagnia. Rigassi, un bre-
gagliotto che conosceva bene le piste di St. Moritz e dell’Engadina, era soprattutto, per noi, la voce del grande inverno, quello, sportivamente parlando, in cui la Svizzera sapeva ritagliarsi giornate di gloria: una volta armeggiando con pattini e bastoni per indirizzare il puck nella porta avversaria; un’altra, appunto, per scendere a capofitto, lungo la pista naturale del bob da St. Moritz a Celerina. Era uno sport, quello invernale, che si poteva soltanto immaginare dalle nostre parti, attraverso i racconti radiofonici dei primi Giochi Olimpici della neve e del ghiaccio. Due Olimpiadi si tennero proprio a St. Moritz: nel 1928 fu la seconda edizione dei Giochi invernali e nel 1948 la prima dopo la 2. Guerra mondiale. Ad aprire questa edizione fu il presidente della Confederazione, il ticinese Enrico Celio, e gli elvetici conclusero al terzo posto nel medagliere, alle spalle di Norvegia e Svezia, con lo stesso numero di medaglie, non tutte però dello stesso metallo. Della Svizzera, fra le prime nazioni del mondo nelle competizioni invernali – com’era giusto che fosse – si continuò a favoleggiare per anni. Anche noi, all’ombra delle palme, crescemmo col mito di appartenere a una nazione quasi imbattibile in certe discipline. Per questo, non appena gelavano i laghetti di Origlio e di Muzzano, con pattini rudimentali agli scarponi, allacciati con una morsa alle sempre più martoriate suole, eccoci a cercare di imitare i nostri campioni dell’hockey, per la verità mai visti in azione ma raccontati da Rigassi o scoperti in qualche brandello di Cinegiornale svizzero, per chi poteva permettersi la visione di un film in una delle numerose sale del centro. Capitò pure, qualche rara volta, di alzarci il mattino per recarci a scuola, mentre attorno a noi c’era un silenzio quasi irreale. Bastava spalancare le imposte per comprenderne il motivo. Dalla finestra ci appariva un paesaggio mai
Keystone
Sportivamente Le discipline invernali erano per noi ragazzi soltanto un sogno
visto prima, con alberi e case ricoperti da una densa coltre di neve. Venti, trenta centimetri di neve caduti durante la notte (o presto, il mattino) che molti alberi non sapevano reggere e quindi lasciavano cadere nella via sottostante blocchi di «neve bagnata», come si diceva allora, quindi pesantissima. Era il segnale per rispolverare le gloriose «Davos» per le immancabili gare del pomeriggio e della sera, lanciandosi da via Casserinetta, ventre a terra, verso via Pambio per concludere la folle discesa partita nel comune di Lugano sul territorio di Paradiso, poco distante dalla Chiesa della Geretta, proprio dove oggi fiumi di automobili transitano sulla bretella verso l’autostrada. Bei tempi, davvero. Allora non transitava quasi nessuno ma, per evitare eventuali tragici incidenti, ecco un coraggioso futuro poliziotto, privo di slitta, prestarsi per le segnalazioni e bloccare eventuali auto o camion di passaggio.
L’hockey, per noi, era soprattutto la nazionale svizzera, quindi l’Ambrì Piotta (sostenuto allora con simpatia dai luganesi) e quindi il Lugano che, a partire dal 1941, iniziò una storia gloriosa che a quei tempi però nessuno poteva neppure lontanamente immaginare. A dare una svolta alla storia dell’hockey svizzero furono le piste di ghiaccio artificiale e poi quelle coperte, cui fece seguito una ridda di trasferimenti da ogni parte della Svizzera, con le squadre di città che andarono a corteggiare, sempre con maggiore successo, i migliori giocatori delle squadre di montagna, dal Davos all’Arosa, o di altri piccoli club, in Vallese e nell’Oberland Bernese. Ad attirare l’attenzione del pubblico era anche la Coppa Spengler di hockey, torneo a inviti in cui primeggiarono squadre universitarie inglesi, club cecoslovacchi e milanesi. Nella pista artificiale meneghina del seminterrato di via Piranesi sostenne parecchi alle-
ORIZZONTALI 2. Arresta senza manette – 4. Prefisso che vuol dire muscolo – 5. Piccolo... nelle parole composte – 7. Si distingue all’alba – 8. La ninfa che amò Narciso – 10. Antica lingua francese – 12. Unità di forza elettromotrice – 14. Simbolo chimico del tantalio – 15. Può precedere il se – 16. Un tettuccio in giardino – 19. Stato mistico di rapimento – 21. Le iniziali dell’attrice Rossellini – 22. Pianta con foglie carnose usata in erboristeria – 23. Valente, preparato – 26. Bucata – 28. Gas raro – 29. Venuti alla luce – 30. Unto – 31. Prodotto per parrucchieri – 33. Sede di affetti e sentimenti – 35. Aumentano in età avanzata
Sudoku Natalizio
namenti anche l’HC Lugano, mentre l’Ambrì fece esordire con la sua maglia, proprio qui, nel 1971, il primo giocatore di gran nome della NHL che militò in Europa, il canadese Andy Bathgate, già capitano dei New York Rangers e vincitore di una Coppa Stanley, il quale attirò quella sera una vera folla di appassionati milanesi dell’hockey. Una disciplina sportiva, questa, che sottolineava la lunga pausa invernale del calcio svizzero (il campo dello Chaux-de-Fonds, squadra di punta del campionato era impraticabile per almeno un paio di mesi), mentre oggi, dopo cene natalizie e panettonate varie, quasi tutti i club si trasferiscono nei paesi caldi per riprendere la preparazione. Le feste di fine anno, con la Spengler che ormai è diventata un atteso appuntamento televisivo, sollecitano il ricordo di vecchi aficionados che sfogliano qualche pagina sgualcita di indimenticabili trascorsi sportivi, pur sempre vivi in chi li ha vissuti con affetto.
Giochi Cruciverba Quest’anno metti sotto l’albero due regali bellissimi che non hanno bisogno di essere scartati... Per scoprire quali sono, risolvi il gioco e leggi le lettere evidenziate. (Frase: 5, 1, 12) 1 2
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VERTICALI 1. Sogna di stare in un paese meraviglioso – 2. Dei ganci sinistri – 3. Tra il collo e il bacino – 5. Con me – 6. Infiammazione dell’orecchio – 8. Molti quelli fiscali – 9. Nome femminile – 11. Si può leggere ma non è scritto – 13. Un ripostiglio di tessuto – 15. Personaggio di Tristano e Isotta – 17. Fa parte della parentela – 18. Vaso di terracotta – 20. Pallida rosa – 22. Finisce... al fresco – 24. Di carota quel di Renard – 25. Amò Orione – 27. Malattia della pelle – 30. Alberi ad alto fusto – 32. Primo cardinale tedesco – 33. Le iniziali dell’attrice Mastronardi – 34. Di nove... vocali
Scopo del gioco
Completare lo schema classico (81 caselle, 9 blocchi, 9 righe per 9 colonne) in modo che ogni colonna, ogni riga e ogni blocco contengano tutti i numeri da 1 a 9, nessuno escluso e senza ripetizioni.
8 2 9 1 6 3 7
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Soluzione della settimana precedente
Curiositá dal mondo – il nome del frutto è: noce macadamia – origini: Australia.
N A S A L E
T O R I O I C E M C E M A E D A L M A R I M U L T A L I C I A P A R C A C O S E A S I O N O R E
N A S R I O L M O
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 22 dicembre 2014 ¶ N. 52
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Politica e Economia Il Natale degli italiani Sarà un 25 dicembre magro. Forse il peggiore degli ultimi anni. La crisi italiana sembra non avere mai fine. Forse perché, più che una crisi, è un declino. Che è peggio
La svolta energetica Con soddisfazione del Consiglio federale, il Nazionale ha approvato dopo sei giorni di dibattiti la «strategia energetica 2050»
Boff, l’odore del gregge Intervista L’ex frate francescano, uno dei più importanti esponenti della «teologia della liberazione»,
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parla di questa corrente di pensiero della Chiesa cattolica in America Latina, che considera la difesa dei poveri e la giustizia sociale il vero messaggio del vangelo
Angela Nocioni Leonardo Boff è un teologo, ex frate francescano, ed è considerato il massimo esponente della «teologia della liberazione», quella corrente di pensiero della Chiesa cattolica dell’America Latina che vede nella difesa dei poveri e nella lotta per la giustizia sociale, il principale messaggio del Vangelo. Boff oggi ha 75 anni, è figlio di una famiglia di immigrati italiani (veneti), al telefono in portoghese ci dice: «Possiamo parlare in italiano volendo, io parlo veneto». Ha studiato negli anni Sessanta e Settanta teologia e filosofia in Europa. Ha discusso la tesi di laurea con l’allora vescovo Jospeph Ratzinger. La «teologia della liberazione» ha sempre rappresentato un pensiero poco gradito al Vaticano e tuttavia tollerato da Paolo VI negli anni dopo il Concilio. Quando fu eletto papa Giovanni Paolo II le cose cambiarono. Iniziò una vera e propria guerra tra la «teologia della liberazione» e Roma, e Boff fu più volte censurato. Nel 1984 fu convocato in Vaticano e sottoposto a un processo da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede, allora presieduta dal prefetto Joseph Ratzinger, a causa delle tesi esposte nel suo libro Chiesa: Carisma e Potere. Nonostante le giustificazioni fornite, l’anno successivo fu condannato al silenzio rispettoso (silentium obsequiosum). Grazie alle numerose pressioni internazionali ricevute, la decisione fu parzialmente revocata nel 1986. Nel 1992, a seguito di ulteriori minacce di provvedimenti disciplinari da parte dell’allora Papa Giovanni Paolo II se il teologo avesse preso parte al Summit della Terra, Boff abbandonò l’ordine dei francescani. Keystone
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Christmas Baba Natale in India Anche se i cristiani costituiscono una percentuale minima della popolazione, qui la festività
si celebra un po’ ovunque con risalto più o meno grande, ma più nella sua forma pagana fatti di luci e alberi
Francesca Marino È stato surreale a dir poco svegliarsi a Calcutta una domenica mattina a fine novembre e sentire, invece dei soliti motivetti bollywoodiani o di canti religiosi hindu (dipende dalle ore del giorno), un coro di voci infantili che intonava a pieni polmoni Adeste Fideles. In latino, perdipiù. Un latino che somiglia tanto al grammelot da me adoperato per cantare sotto la doccia canzoni di film in hindi di cui capisco soltanto un quarto delle parole, ma sempre latino era. Poi mi sono ricordata che a Natale mancava meno di un mese e che Natale, nella patria di Kali, è un evento celebrato con grande risalto. Infatti dopo pochi giorni a Lake Market, tra i negozietti e le bancarelle del mercato rionale che frequento di solito, sono comparsi i primi Babbo Natale: quelli di plastica, elettrici, che cantano a voce spiegata per la gioia dei timpani dei passanti una serie di improbabili carole natalizie e tutto il repertorio di Bing Crosby. Una visione affascinante, incastrati
come sono tra casse di tè dell’Assam, mucchi di spezie, venditori di snacks e dolcetti e cataste di frutta e verdure e fiori. Le luci nelle strade e ai balconi, le luminarie ad arco nelle strade, sono là da Diwali e ci rimarranno fino a gennaio inoltrato. Tra poco cominceranno a spuntare nei negozi e per strada i venditori di decorazioni natalizie e gli alberi di Natale: ogni genere di albero va bene, compresi gli alberi di mango o i piccoli banani. Anzi, soprattutto quelli, visto che trovare un abete a Calcutta, a meno che il suddetto abete non sia di plastica, non è un’impresa da poco. La neve, per la maggioranza un’astrazione mitica vista soltanto nei film e difficile da immaginare, ricopre il tutto in forma di fiocchi di ovatta. A Park Street e dintorni, in quella che un tempo veniva definita «la città bianca» abitata in prevalenza dagli inglesi, si tengono concerti natalizi e mercatini di Natale che, da quando Mamata Banerjee è diventata Chief Minister dello Stato, sono finanziati e organizzati dall’amministrazione cittadina. Nelle pasticcerie
«storiche» come Fleury o Nohum si vendono pudding di Natale e altri dolci natalizi, i club organizzano per i propri soci pranzi e cene di Natale a base di tacchino arrosto. Tacchino, non pollo: perché a Calcutta, al contrario di quanto accade nel resto del subcontinente in cui se vuoi tacchino devi farlo arrivare da Dubai, si allevano tacchini per Natale. D’altra parte la città è stata fondata dagli inglesi e gli angloindiani costituiscono ancora una buona fetta della popolazione locale. In più, a Calcutta per tradizione e per mentalità cittadina si celebra praticamente qualunque festività di qualunque religione, a patto che ci sia da festeggiare, da bere e da mangiare in abbondanza. Anche se in India i cristiani costituiscono una percentuale minima della popolazione, Natale si celebra un po’ ovunque con risalto più o meno grande: più nella sua forma «pagana» fatta di luci e alberi e Babbo Natale che qui diventa Christmas Baba, certamente, ma si celebra da qualche anno a questa parte anche in luoghi in
cui tradizionalmente la presenza cristiana non è mai stata forte. L’aspetto religioso della festa ha grande rilevanza in Kerala, dove i cristiani costituiscono il 22 per cento della popolazione, o in posti come Goa e Pondicherry che sono stati per secoli rispettivamente protettorati portoghesi e francesi e dove si possono vedere, tra decorazioni di foglie di mango e incensi devozionali, anche delle Natività dalle fattezze locali circondate dalle stesse diyia, piccole lampade a olio, adoperate per salutare la dea Lakshmi a Diwali. È stata una sorpresa però trovare uno dei bazaar della vecchia Delhi pieno di Babbo Natale gonfiabili, di neve finta e di lucette natalizie a forma di stella. Ci sono gli stranieri, è vero, e il mercatino di Natale organizzato dall’ambasciata tedesca è ormai una tradizione cittadina, ma in passato l’arrivo del Natale non si avvertiva affatto se non dentro alle case dei cosiddetti expat che cercavano un po’ malinconicamente di ricreare in India un’atmosfera natalizia che sapesse almeno un
po’ di casa. Ricordo un surreale pranzo di Natale in un grande albergo di Madras, con gigantesche sculture di ghiaccio a forma di slitta e Santa Claus che si scioglievano serenamente al gran caldo nonostante l’aria condizionata. La globalizzazione ha cambiato tutto anche in questo caso, e la patria di Gandhi si è unita al resto del mondo nel celebrare il Natale degli shopping mall e dei regali, il Natale dei pacchetti colorati e dei film di Hollywood. Quello che non si accorge delle baracche accuratamente nascoste dietro le facciate bianche e le luminarie, dei bambini che giocano a piedi nudi dentro a rivoli d’acqua ai bordi della strada. Il «nostro» Natale, ovviamente. In cui lo spirito di Natale di dickensiana memoria non trova più le porte tra il nostro e l’altro mondo e Scrooge, che indossi un dhoti o un completo di Armani, ha preso il posto del Bambino Gesù e inneggia sorridendo dalle pagine di una rivista patinata, da un CD di carole natalizie, tra i pacchetti sotto l’albero, all’amore, alla gioia e al perdono.
La «teologia della liberazione» ha sempre rappresentato un pensiero poco gradito al Vaticano La sua attività pubblica è sempre stata caratterizzata da una strenua difesa dei diritti dei più poveri. Da decenni denuncia crimini e sopraffazioni da parte di alcune grandi lobby industriali brasiliane. È tuttora molto impegnato nelle comunità cristiane di base brasiliane. Dal 1993 insegna Etica e filosofia della religione all’università statale di Rio de Janeiro. È un aperto sostenitore dei Sem Terra (il movimento contro il latifondo, organizzato da contadini senzaterra brasiliani) che è anche il movimento sociale più grande del mondo. Boff, dopo la recente vittoria alle elezioni presidenziali brasiliane della presidente uscente Dilma Rousseff, del Partito dei lavoratori, lei si è molto lamentato dell’aggressività della reazione di alcuni sostenitori dell’opposizione. Non è ovvio che reagiscano con rabbia? Perché se l’è presa, lei che non s’arrabbia mai?
È spaventoso leggere nei giornali e soprattutto nelle reti sociali quanto costi a una quantità di persone, generalmente delle classi più privilegiate, digerire la vittoria elettorale del Partito dei lavoratori. Manifestano odio, rabbia contro il popolo brasiliano più povero, coprendolo di insulti. Ce l’hanno specialmente
con quelli del nord-est, neri all’80%, dove il voto pro Dilma è stato massiccio e dove c’è forte povertà diffusa. Molte di queste persone che insultano il voto dei poveri, non si sentono parte del popolo brasiliano e si vergognano del popolo. Alcuni addirittura, i più esasperati, per fortuna con poco ascolto, suggeriscono di dividere il Brasile in due: da una parte il sudest ricco e dall’altra parte il resto del Paese, includendo il nordest povero. Anche il parlamento brasiliano rappresenta male il popolo. Dopo lo scalpore suscitato dalle proteste popolari che manifestavano per chiedere migliori servizi sociali nel giugno del 2013, proteste andate in mondovisione perché criticavano anche la quantità di soldi spesi per i Mondiali di calcio, il Parlamento ha finto d’aver ascoltato le richieste della strada piena di ragazzi che chiedevano riforme, specialmente nella politica del sistema educativo, nella salute, chiedevano una migliore mobilità urbana, il diritto alla sicurezza e la trasparenza nella gestione della cosa pubblica. Il Parlamento già si è dimenticato. Tanto che ha rifiutato il progetto del governo che cercava di dar voce a queste richieste tentando di organizzare la partecipazione dei movimenti sociali nella conduzione della politica nazionale. Il Parlamento non ne vuole sentire parlare. Io credo che si possano tollerare l’arroganza e il mantenimento dei privilegi della classe più alta di questo Paese, però non si può privare di speranza un popolo intero. Il popolo brasiliano non se lo merita. È necessario a questo punto tornare nelle strade e rinnovare con più forza le richieste che tutto il mondo ha sentito nel giugno del 2013. Il fagiolo si riesce a cuocerlo bene solo nella pentola pressione? La stessa cosa vale per il Parlamento. Abbandonerà la sua inerzia soltanto quando sentirà forte la pressione, sennò non si muove. L’abbiamo visto l’anno scorso. Il Papa, durante un incontro con i rappresentanti di alcuni movimenti sociali in questo mese, ha pronunciato parole che sono state lette come un’esortazione agli esclusi perché lottino, come una chiamata al diritto alla ribellione di chi non ha terra, casa e lavoro perché se li procuri attraverso la lotta sociale. La ritiene una interpretazione corretta o una lettura superficiale?
È una lettura corretta. Le parole pronunciate dal Papa devono essere capite all’interno della traiettoria personale di Bergoglio. Una delle sue aperte polemiche con Cristina Kirchner, la presidente argentina, è stata proprio sul modo in cui si devono aiutare i poveri. Lui insisteva: non servono la filantropia e l’assistenzialismo di stato. Quello di cui c’è bisogno è giustizia sociale e redistribuzione della rendita. Realizzare la giustizia sociale implica riformare le strutture dello Stato e la mentalità dei cittadini contaminata dall’individualismo capitalista. Un’altra affermazione costante del Papa: nessuna soluzione per i poveri sarà efficace se non includerà gli stessi poveri nella sua realizzazione. Questa idea spiega anche perché il Papa abbia chiamato a Roma i rappresentanti dei movimenti sociali, così che loro stessi dicessero quali sono le cause della loro povertà, così che loro stessi spiegassero in cosa non vengono rispettati i loro diritti. Generalmente si chiamano grandi nomi della sociologia o della politica a svolgere questo compito. Il Papa ha imparato in America Latina
popolo , ma come dei pastori, in mezzo al popolo. Per questo ha detto che il vero sacerdote, vescovo o prete che sia, deve «avere odore di gregge» . È una chiamata e un’esortazione a tutti i potenti nella Chiesa, ma anche a tutti i cristiani. Ha chiesto di compiere «la rivoluzione della tenerezza» in relazione al popolo. Questo Papa inaugurerà una nuova dinastia di pontefici in arrivo dal sud del mondo, dove vive la maggior parte dei cattolici. In Europa sono solo il 24%. È ora che la Chiesa capisca che la Chiesa di oggi è una Chiesa del Terzo mondo, del Terzo mondo dove nacque. E questo cos’è, l’inizio di una rivoluzione o un’attitudine populista?
AFP
Intervista a Leonardo Boff Il teologo, ex frate francescano ci parla della «Teologia della liberazione»
che le vittime del sistema sanno dov’è il dolore e quali sono le ragioni della loro esclusione. Hanno tra loro, tra l’altro, intellettuali organici, come Joao Pedro Stedile del Movimento dei Sem Terra in Brasile. La versione delle vittime del sistema è quella vera, perché nasce dalla sofferenza e dall’oppressione. Il Papa è stato innovatore, ha fatto un discorso chiaro: la posizione della Chiesa deve essere sempre dal lato delle vittime, dei poveri e degli oppressi, scelta che fu di Gesù e che il Papa ha assunto personalmente. Il Vaticano sta aprendo alla «teologia della liberazione»?
Il Papa appartiene alla «teologia della liberazione» nella sua versione argentina. Lì esiste nelle forma della teologia del popolo e della cultura degli oppressi. Lì non si parla esplicitamente di lotta di classe, ma è evidente il conflitto tra i potenti che elaborano la cultura del dominio e il popolo che vive la cultura degli oppressi. Il principale esponente di questa teologia è stato Juan Carlos Sacannone, professore di Bergoglio nel Seminario maggiore di San Miguel, quartiere di Buenos Aires. Lui ha pubblicamente ricordato come lo studente Bergoglio fosse entusiasta di questa teologia. Da lì viene il voto a vivere senza ricchezze e ad andare sempre tra i poveri nel lavoro pastorale, cosa che Bergoglio effettivamente ha sempre fatto. Da cardinale non è andato a vivere nel palazzo, non usava la macchina ufficiale, viveva in un appartamento piccolo, si preparava i pasti da solo. Si muoveva in autobus e in metropolitana e andava da solo nelle villas miserias, le baraccopoli di Buenos Aires. Entrava nelle case e mangiava quello che la gente gli offriva. Le azioni e i discorsi di questo Papa vengono dal brodo della teologia della liberazione latino-americana. In ciascun Paese la teologia ha avuto un suo sviluppo: la teologia indigena nei Paesi andini, in Brasile una teologia della liberazione contro l’offensiva dei militari del grandi capitale, la teologia della liberazione femminile, la teologia della liberazione dei neri, la teologia
della liberazione degli omosessuali, delle lesbiche e di altri ancora. Come teologi della liberazione noi ci sentiamo rappresentati nella figura, nel comportamento e nelle parole del Papa. Non è per caso che il Papa ha voluto vedere il principale rappresentante della teologia della liberazione, il peruviano Gustavo Gutierrez e che ha voluto incontrare Arturo Paoli, il rappresentante più conosciuto della «teologia della liberazione». Il Papa l’ha mandato a prendere in auto nel posto dove si trovava, negli Appennini, per poter passare un pomeriggio intero con lui a parlare dei cammini della Chiesa nel mondo nella linea della liberazione dei diritti umani e della critica al sistema perverso e senza pietà del capitalismo speculativo. Così lo definisce il Papa: perverso e senza pietà. A parte la sfida ai privilegi della parte più conservatrice della Curia, cosa è davvero cambiato, concretamente, nell’impegno della Chiesa verso i poveri, con il papato di Francesco rispetto ai due precedenti?
Il Papa ha scandalizzato i cristiani della vecchia cristianità europea che volevano un papa un po’ faraone e un po’ imperatore romano, con tutti i titoli e le abitudini pagane. Il Papa non ha più voluto usare la mozzetta, la piccola sciarpa sulle spalle coperta di broccati, simbolo del potere assoluto dell’imperatore. Ha abbandonato il palazzo pontificio, è andato a vivere in una pensione, mangia quello che mangiano gli altri e dorme in una semplice stanza d’albergo. La croce che indossa è di metallo e le scarpe sono quelle che usa il popolo, non quelle fatte da Prada. Il Papa ha riscattato la tradizione del Gesù storico che viveva povero e in mezzo al popolo. La chiesa dopo Costantino era più vicina al palazzo di Erode che alla grotta di Betlemme. Papa Francesco ha preso come esempio San Francesco d’Assisi, il frate poverello che viveva secondo il Vangelo nel messaggio liberatore del Nazareno. Questo Papa rappresenta bene lo stile di molti vescovi, cardinali e sacerdoti che vivono vicini al popolo, non al di sopra del
Sta facendo una vera rivoluzione nelle abitudini e nei comportamenti della Chiesa. Populista è il discorso dei conservatori e dei difensori dei privilegi indecenti che cardinali, vescovi e Curia hanno accumulato durante tutta la storia. I comportamenti da pagani, antichi e moderni, non hanno niente a che vedere con la pratica di Gesù. Gesù era povero. Gesù non è morto vecchio, né per una disgrazia. È morto a causa delle sue azioni in favore degli ultimi di questo mondo, è morto per le sue prediche di liberazione, perché annunciava il regno di Dio che esiste laddove esistono l’amore, la compassione e la solidarietà per le persone sofferenti. Cosa risponderebbe lei a un pessimista che le domandasse se, per caso, questo Francesco abbia molto poco a che vedere con Francesco d’Assisi? Sarà che il gran talento di questo Papa così simpatico, sia semplicemente di saper suscitare interesse con iniziative e parole di grande impatto mediatico?
Quello che ammiriamo nel Papa è la sua spontaneità e la sua capacità di inventarsi gesti di umanità, il suo coraggio di criticare il sistema capitalista speculativo che ha molto semplicemente definito «perverso». Abbraccia con affetto i più penalizzati, non discrimina nessuno, né musulmani né atei. Ha aperto un dialogo franco e sincero con l’ex direttore di «Repubblica», Eugenio Scalfari, che si definisce ateo, con grande senso etico e preoccupato per il destino umano. Il Papa non sfugge alle questioni, dice chiaramente: non sappiamo dove andiamo, non lo so io e non lo sa il Dalai Lama, dobbiamo iniziare a costruire un cammino per salvare la vita e la nostra civiltà, che sono minacciate. Da San Francesco d’Assisi ha imparato la scelta di schierarsi con i poveri, la semplicità, la volontà di spogliarsi di tutti i titoli e delle forme di potere e anche l’apertura al dialogo con chiunque. Come fece San Francesco che andò a dialogare con il Sultano durante la crociata, e dopo tornò dal Papa dicendo che i cristiani non avrebbero dovuto fare una crociata perché si trattava di un popolo profondamente religioso. Francesco si interessò alla teologia musulmana, cominciò a chiamare Dio nelle preghiere «Altissimo», secondo il linguaggio della teologia dell’Islam. Ho scritto un libro uscito per la EMI Francesco di Assisi e Francisco di Roma tentando di tracciare i profili di entrambi. Scegliere di chiamarsi Francesco è più che scegliere un nome, è un nuovo progetto di Chiesa e di umanità nella linea di radicale fraternità universale, di apertura a tutti, di Chiesa con le porte sempre aperte che accoglie chiunque, protegge la natura e la Madre Terra.
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Politica e Economia
Le fondamenta del futuro energetico Strategia 2050 In sei giorni di dibattiti il Consiglio nazionale ha tracciato la via da seguire per uscire dal nucleare,
ridurre il consumo di elettricità e promuovere le energie da fonti rinnovabili, con soddisfazione di Doris Leuthard Johnny Canonica È la vigilia di Natale del 2050. Come da un qualche anno in qua – cinque per la precisione, cioè da quando è diventato papà – il signor Schweizer si appresta ad accendere l’illuminazione a Led dell’albero di Natale, dopo che i regali per tutta la famiglia sono stati depositati ai piedi dell’alberello. La magia del Natale è sempre la stessa, i bambini sono sempre impazienti di poter aprire i loro regali. Ma vi è un aspetto che fa di questo Natale 2050 qualcosa di profondamente diverso rispetto al primo che lui aveva vissuto da bambino, quello del 2014: la composizione dell’energia che serve a illuminare l’albero. Nel 2014 vi erano sì fonti energetiche rinnovabili, ma le lampadine – molte delle quali ancora a incandescenza, «roba da museo», si dice il signor Schweizer – venivano alimentate anche con elettricità prodotta da centrali nucleari; senza contare che l’elettricità importata dall’estero era spesso di origine fossile (petrolio e gas). In questo Natale 2050, invece, di energia di origine fossile non ve ne è più, tutte le case ricevono elettricità prodotta da fonti rinnovabili: idroelettrico, eolico, solare, biomassa, ma anche microcentrali che trasformano in energia elettrica l’acqua di scarico delle abitazioni e dei pluviali dei tetti, o quelle che invece trasformano il calore accumulato negli edifici. «E chissà che l’anno prossimo il Parlamento non autorizzi la produzione di elettricità originata dalla fusione a freddo?», si chiede
tra sé il signor Schweizer, ammirando l’albero che ha addobbato con la moglie e i figli. «Fantascienza?», potrà chiedersi a questo punto il lettore. Indubbiamente sì; ma non completamente. Perché nelle scorse settimane, nel corso della sessione invernale delle Camere federali, al Consiglio nazionale sono state gettate le basi che potrebbero portare a un futuro non troppo dissimile da quello descritto sopra. Discutendo infatti la «Strategia energetica 2050», il Consiglio nazionale ha stabilito che la produzione di elettricità da fonti rinnovabili deve continuare ad essere sussidiata (e pazienza se parchi eolici e impianti solari si trovano anche in zone naturali protette e/o di pregio paesaggistico), che il nucleare nella sua attuale tecnologia non ha un futuro in Svizzera e che il risparmio energetico deve venir stimolato in tutte le sue varie fonti (dall’impiego di apparecchi che consumano poca energia e facendo in modo che il calore prodotto per riscaldare gli edifici si disperda il meno possibile nell’ambiente) e da tutti gli attori (cioè dal produttore fino al consumatore). In sei giorni di dibattiti intensi – gli otto pacchetti in cui è stata suddivisa la «Strategia energetica 2050» sono stati affrontati in una ventina ore di discussioni, gli emendamenti proposti ai vari articoli di legge sono stati complessivamente 115 – i 200 consiglieri nazionali si sono dati battaglia sotto gli occhi della consigliera federale Doris Leuthard suddividendosi in tre campi. Da una
La centrale di Beznau, di cui Greenpeace con i suoi striscioni chiede la chiusura immediata, verrà spenta entro il 2031. (Keystone)
parte PS, Verdi e Verdi liberali a promuovere l’impiego di fonti energetiche rinnovabili e a fare in modo che queste vengano sostenute con sussidi, imposte ad hoc, eccetera. Dall’altra UDC e PLR, che, preoccupati che la strategia 2050 si dimostri un fallimento («un impianto solare su ogni tetto e una turbina eolica su ogni collina – sono illusioni», ha affermato il presidente democentrista Toni Brunner) e venga a costare troppo alle famiglie e alle imprese, hanno dapprima cercato di fare in modo che il Nazionale non discutesse il progetto o che quanto meno lo rinviasse al Con-
siglio federale per approfondirlo. Poi, avendo fallito entrambi questi obiettivi, hanno cercato soprattutto di salvare per quanto possibile la produzione di elettricità con il nucleare (nel timore che la Confederazione si ritrovi con un deficit energetico), un’operazione parzialmente riuscita, visto che è stato deciso che le centrali più vecchie (Beznau I e II) dovranno venir spente una volta raggiunti i 60 anni di attività (lo spegnimento di Mühleberg è già stato fissato al 2019), mentre quelle più nuove (Gösgen e Leibstadt) potranno restare in esercizio, a patto che la loro sicurezza
sia garantita e «certificata» dall’Ispettorato federale della sicurezza nucleare. Al centro invece PPD e Borghesi democratici a fare da ago della bilancia, nella ricerca di alleanze che portino le tecnologie utilizzate in Svizzera per la produzione di energia nel XXI secolo – per non dire nel XXII – e che assicuri nel contempo che la Confederazione disponga dell’energia di cui ha bisogno anche in futuro. Al termine del lungo dibattito, la ministra dell’energia Doris Leuthard si è detta «molto contenta» del modo in cui la strategia è uscita dall’esame del Consiglio nazionale. Il concetto presentato dal Consiglio federale non è stato stravolto – a volte succede… – pur se ha subito modifiche puntuali. Doris Leuthard ha affermato di contare sul Consiglio degli Stati per eventualmente correggere alcuni cambiamenti che l’hanno convinta poco. Nel corso del dibattito alla «Camera del popolo», a destra si è minacciato il lancio di un referendum per combattere quanto deciso, minacce che non hanno però intimorito la magistrata argoviese: a suo dire, infatti, la «Strategia energetica 2050» non è una rivoluzione, bensì la prosecuzione della politica attuale in materia di promozione delle fonti rinnovabili e per questo è convinta di avere la maggioranza della popolazione dalla sua parte. Anche perché sarà solo grazie al sostegno convinto della popolazione che il Natale 2050 del signor Schweizer sarà quello che abbiamo immaginato nel 2014. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Verso una crisi delle infrastrutture pubbliche Decenni di crescita demografica ed economica a tassi annuali elevati ci avevano abituato a considerare il problema degli investimenti nelle infrastrutture pubbliche (a livello locale, regionale e nazionale) come un fenomeno che si evolveva seguendo una curva a scalini. L’aumento della domanda di infrastrutture, generato dalla crescita, obbligava gli enti pubblici a costruire nuove unità di infrastruttura di rete o di punto. Le stesse mettevano a disposizione nuove capacità e contribuivano, all’inizio, quindi ad eliminare le code e i colli di bottiglia nell’utilizzazione creati dalla crescita della domanda. Col passare del tempo, però, l’aumento della domanda portava, poco a poco, ad esaurire anche le nuove capacità e quindi si manifestava la necessità di far fare all’offerta di infrastruttura pubblica un nuovo salto, per superare
un nuovo scalino, mettendo a disposizione nuova capacità. Nel corso degli ultimi tre decenni questa teoria dello sviluppo dell’infrastruttura pubblica è però diventata desueta per due ragioni. Da un lato perché, per la rivolta dei contribuenti, che ha inciso negativamente sul tasso di crescita delle risorse pubbliche, gli enti pubblici hanno dovuto dare, più volte, colpi di freno alla crescita degli investimenti. Dall’altro perché, le organizzazioni ecologiche hanno messo in evidenza l’esistenza delle correlazione tra aumento dell’offerta di infrastrutture pubbliche, in particolare di quelle per favorire la mobilità stradale (strade, posteggi e autostrade), e aumento dell’inquinamento. Nel frattempo, anche nel nostro cantone, la dotazione di infrastrutture costruita nel periodo di forte crescita (1960-1975) sta arrivando alla fine del suo ciclo
di vita e dovrebbe essere rinnovata con urgenza, anche per far posto a impianti più efficienti e più ecologici. D’altra parte la crescita della popolazione degli ultimi 10 anni ha ha dato un colpo di acceleratore alla domanda di capacità infrastrutturale. Di fatto però, nel corso di questo periodo, la dotazione infrastrutturale del cantone, non è stata, salvo poche eccezioni, né aumentata, né fondamentalmente rinnovata. Fondiamo questa affermazione sulla constatazione che gli investimenti pubblici, in particolare quelli dei comuni, una volta scontati per l’aumento dei prezzi della costruzione, sono, dal 1997, tutto sommato costanti. Il loro andamento mostra un ciclo. Con l’eccezione del 2008, gli investimenti nei comuni aumentano nell’anno delle elezioni per poi diminuire nel primo e nel secondo anno della legislatura, restano
costanti nel terzo e riprendono a salire nell’anno elettorale successivo. Così facendo, però, essi oscillano attorno a un valore costante che, ai prezzi del 2010, è pari a 200 milioni di franchi. Non sembra che vi sia una tendenza all’aumento per rispondere a un aumento di domanda. In che misura questo ammontare di investimenti sia in grado di assicurare il rinnovamento della dotazione di infrastrutture di punto e di rete già installata è difficile dire. Secondo noi, nel corso degli ultimi anni, le difficoltà finanziarie nelle quali si dibattono molti comuni, fanno sì che ci riescano sempre meno. Per alleviare queste difficoltà nel campo dell’investimento infrastrutturale degli enti pubblici sono state avanzate due tipi di proposte. La prima, abbastanza tradizionale e politicamente invisa da molti, è quella di aumentare le tasse di raccordo, di utilizzazione e
le partecipazioni dei proprietari. L’altra è quella di passare a forme miste di finanziamento nelle quali interverrebbero anche i privati, le cosiddette PPP (Public Private Partnership). Il problema delle PPP è costituito dal fatto che i privati che partecipano al finanziamento vogliono essere remunerati, il che riporta di nuovo il carico sulle spalle degli utenti. Da questo circolo vizioso non sembra che i nostri enti pubblici siano in grado di uscire. Nel campo degli investimenti infrastrutturali sono obbligati a navigare a vista, cercando di mettere qualche cerotto qui e là senza troppo gravare sugli utenti. Certo che se ci fossero gli dei di un tempo, potremmo anche noi fare come Sisifo che, in cambio di una nuova fonte di acqua per la sua città, rivelò al dio Asopo chi gli aveva rapito la figlia. Siamo o non siamo nell’epoca della comunicazione?
congiuntura» e quindi non occorre fare altro, significa che questo signore non ha mai visto un capannone, non ha mai incontrato un imprenditore italiano, non ha la minima idea del disagio sociale e della sfiducia nel futuro che segna il nostro tempo, in Italia ma anche in Francia e in altri grandi Paesi europei. Ed è la prova di come le classi dirigenti tedesche, per quanto tecnicamente preparatissime, non riescano a pensare l’Europa diversamente che in termini egemonici: a noi le cose vanno bene così (ma fino a quando?); voi arrangiatevi. Detto questo, bisognerebbe anche chiedersi perché i tedeschi dovrebbero venire incontro agli italiani. E non basta dire che non conviene neppure a loro avere al governo un Salvini a Roma e una Le Pen a Parigi. I tedeschi sanno che l’Italia si sta impoverendo. Ma sanno anche che gli italiani restano più ricchi dei tedeschi. L’Italia è il Paese al mondo in proporzione con la
maggiore ricchezza privata e il maggiore debito pubblico: prima o poi ci dovrà essere un riequilibrio. Oggi il deficit è sotto controllo; ma il debito continua ad aumentare, perché il Pil non cresce; e la crisi dell’economia reale rende fragile anche gli equilibri finanziari. Le continue notizie di scandali, corruzione, intreccio tra business e criminalità organizzata hanno un effetto devastante sulla credibilità italiana all’estero. E la reazione dei tedeschi è chiara: perché dobbiamo indebitarci noi per mantenere gli italiani al di sopra delle loro possibilità? È vero che la partita del futuro si gioca in Europa. Ma è vero anche che la riscossa dell’Italia non può che venire dagli italiani. Spero davvero che questo sia l’ultimo Natale di crisi. Basterebbe cogliere le grandi opportunità che il mondo globale rappresenta per la terra delle cose buone e delle cose belle.
Un segno di speranza viene dall’idea di ospitare le Olimpiadi. Il governo Monti, preso dalla politica della lesina, aveva detto no. Ma quello che serve oggi all’Italia è il contrario: una politica espansiva, di investimenti. Roma non è neppure tra le prime dieci città più visitate al mondo; eppure è una città unica al mondo. Le Olimpiadi servirebbero a farla conoscere in particolare nel mondo nuovo, l’Asia dei Paesi emergenti. I segni di speranza, a ben vedere, sono molti. Ma nessuno di per sé è in grado di far cambiare umore a un intero Paese. Paradossalmente apparve migliore il Natale 2011, con il governo Monti appena costituito e circondato di speranza. Oggi il Paese è depresso, di cattivo umore. Sta aspettando che passi la nottata, come diceva Eduardo. Ma la nottata non passa da sola. È dentro il proprio animo che gli italiani devono trovare le energie per ripartire.
bel peruviano ha avvertito che nella nostra società la determinazione a «evitare ciò che turba, preoccupa e angoscia, sta crescendo sino a diventare, in settori sociali sempre più ampi, un mandato generazionale». Spostando la sua analisi su una sponda più sociologica e politica, Vargas Llosa ha aggiunto un’altra importante indicazione: «Se non ci si preoccupa di violare il sistema legale su cui si fondano i nostri regimi politici, di spogliare la diplomazia della rispettabilità che le è propria, di trasgredire infine il diritto alla privacy dei politici, tutto in nome del diritto allo svago del pubblico e non dell’analisi critica, allora dobbiamo renderci conto che stiamo erodendo alla radice il nostro sistema democratico. Questo fa parte del collasso di quei valori morali che ancora nel recente passato puntellavano le nostre società libere». Questi mutamenti sono in atto anche da noi? Non ho certezze, ma posso abbozzare una risposta basata sul fatto che se un tempo c’erano giorna-
li di informazione di parte, ma anche opinioni e schieramenti chiari, oggi che i partiti tradizionali puntano tutti al centro, che i candidati di tutti i partiti scrivono migliaia di lettere ai giornali, lo «spirito del tempo» se già non ci domina, perlomeno incombe anche su di noi, nutrito da un’informazione che preferisce inseguire l’audience anziché promuovere impegno e attivismo sociale o politico. Insomma: anche da noi sta sempre più prevalendo un «fare informazione» condizionato dall’ipocrisia di un «politicamente corretto», sovente contrabbandato come cura per allentare le tensioni morali e civili, ma che in realtà appiattisce tutto. Di riflesso, se la gente sceglie l’evasione dell’«intrattenimento», l’apatia delle «serie tv» e i giornali gratuiti, è anche perché così è sicura di non trovarci niente che possa urtare né il suo già precario credo politico né un sempre più inconfessabile credo morale (un mix fra individualismo, egoismo e menefreghismo) da cui trae nutrimento il disimpegno.
In&outlet di Aldo Cazzullo Un magro Natale Sarà un Natale magro. Forse il peggiore degli ultimi anni. I consumi non ripartono non perché non ci siano soldi, ma perché si ha paura di spendere, e di investire. La crisi italiana sembra non avere mai fine. Forse perché, più che una crisi, è un declino. Che è peggio. La crisi è un punto di arresto o di caduta, che si può invertire. Il declino è meno drammatico ma più subdolo: crea assuefazione, rassegnazione, disperazione. L’Italia cresce poco e male non dal 2008, ma da 25 anni: fin da quando, con Maastricht, perse i due pilastri – per quanto viziosi – del suo modello di sviluppo, una moneta debole e una spesa pubblica generosa. Ora l’Italia ha una moneta fin troppo forte per il suo sistema produttivo, e una spesa pubblica sotto controllo. Purtroppo non ha ancora elaborato un suo sistema di sviluppo. L’Italia sta diventando il Paese del piagnisteo, a volte giustificato, altre volte meno: perché la causa dei mali italiani
dipende dagli italiani stessi. Che hanno la classe dirigente più corrotta d’Europa, un Mezzogiorno all’apparenza irredimibile, mafie ancora in salute, e un immenso patrimonio di arte, cultura, bellezza indegnamente ereditato ma non valorizzato. L’Italia deve riformare il lavoro, il fisco, la burocrazia, la giustizia. Ma deve in primo luogo cambiare mentalità. E guardare lontano. Sono rimasto colpito dall’intervista del governatore della Bundesbank Jens Weidmann ad Andrea Tarquini di «Repubblica». Mi è parsa la conferma di quanto l’accademia sia lontana dalla realtà, di come un uomo possa aver studiato tutta la vita (nel caso di Weidmann neanche tanto a lungo, visto che ha 46 anni) senza aver capito molto più di nulla. Frasi come «non vedo questa urgenza», «non c’è necessità vincolante di reagire», «il calo dei prezzi energetici è come un piccolo programma di aiuti per la
Zig-Zag di Ovidio Biffi L’informazione che ci cola addosso Ci voleva Mario Vargas Llosa, premio Nobel per la letteratura nel 2010, politico e osservatore di parte liberale e conservatrice, a darmi la dritta. Non spaventatevi, non rincorro argomenti di politica e nemmeno di letteratura. Mi soffermo invece sul giornalismo e, in genere, su quanto viene proposto dai media di oggi. In una intervista, rilasciata a margine di un premio consegnatogli in Italia, lo scrittore peruviano ha sorpreso tutti confessando di divertirsi a seguire i «serial» televisivi. Ma se ha parlato addirittura bene, lo ha fatto per parlare dell’importante mutamento del giornalismo moderno («Non c’è nessun disegno dietro, sia chiaro, ma i media sono diventati sempre più una fonte di “intrattenimento” piuttosto che di “informazione”. Si abbandona l’informazione e si percorre ogni strada possibile per conquistare l’audience») e offrire un chiaro esempio di come questo tipo di divertimento debba la sua popolarità al fatto di essere totalmente carente di attitudine critica.
Questi giudizi casualmente hanno preceduto di pochi giorni i risultati del rapporto «Annali 2014», uno studio di ricercatori dell’Università di Zurigo che prende in esame e giudica la qualità dei media elvetici: la classifica ha visto anche quest’anno l’intrattenimento al primo posto dei temi che hanno dominato il panorama, mentre i contenuti culturali, economici e politici figurano solo nelle retrovie. Dicono le agenzie che questi Annali, giunti ormai alla quinta edizione, suscitano reazioni controverse nel mondo dei media. Ad esempio lo scorso anno, viste le cattive note ricevute, l’Associazione degli editori svizzero-tedeschi «Schweizer Medien» si era difesa etichettando come «sforzo inutile» lo studio che misura lo stato dell’informazione elvetica. Questo spiega perché quest’anno i media hanno praticamente ignorato la notizia di un ulteriore peggioramento qualitativo della nostra informazione: i risultati migliori sono stati accreditati alla radio del servizio pubblico (cioè
le tre reti della SSR), seguono i due quotidiani «Neue Zürcher Zeitung» e «Le Temps», i principali giornali domenicali a pagamento e la televisione pubblica; i voti peggiori sono invece andati ai giornali online, ai tabloid e ai giornali distribuiti gratuitamente nelle strade. Mi colpisce un dettaglio: la classifica degli Annali 2014 combacia non solo con la scemata affidabilità dei giornalisti in Svizzera (siamo finiti al 15. rango di una graduatoria capitanata dai… pompieri e dai piloti di linea), ma di riflesso conferma anche l’analisi di Vargas Llosa sul predominio di un giornalismo che riserva eccessivo spazio e importanza all’intrattenimento e influenza in peggio il livello del dibattito pubblico. Non a caso anche il prof. Kurt Imhof che ha guidato i ricercatori dell’Uni di Zurigo lancia una messa in guardia: in Svizzera aumenta il pericolo di un’informazione non più in grado di esercitare la sua funzione centrale nella democrazia. Analogamente, nella citata intervista, il premio No-
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Cultura e Spettacoli La speranza nell’attesa Si spera sempre che tutto e tutti possano in qualche modo migliorare, specie a Natale
Ogni anno una poesia Il poeta russo Iosif Brodskij indugiava ogni anno nella stesura di un brano dal sapore natalizio, e perché no? pagina 22
Di Lennon e New Age Non esiste una musica di Natale, eppure esistono innumerevoli melodie natalizie: un breve (e doppio) viaggio tra storia e compilation pagina 23
pagina 22
Alcuni bambini trasportano un abete appena tagliato; litografia tedesca, 1890 ca. (Keystone)
Da nonna Elisabeth a zia Milla Oh Tannenbaum La Germania e il Natale, un’inossidabile storia di amore, riflessa anche in letteratura Luigi Forte Come non emozionarsi di fronte all’entusiasmo di Hanno, l’ultimo rampollo della famiglia Buddenbrook nell’omonimo romanzo di Thomas Mann, per i regali di Natale o alla meraviglia di Peregrinus Tyss nella fiaba Mastro Pulce di E.Th. Hoffmann davanti all’abete sovraccarico di dolciumi e mele d’oro del giardino delle Esperidi. Sono istanti di totale rapimento che diffondono i mistici profumi del marzapane e del panpepato accanto a torte decorate di mandorle e zucca candita, mentre dal presepe un Gesù Bambino di cera accenna un gesto benedicente. Viene spontaneo rivivere con Hanno quella sorta di dolce orgasmo che si allenta poco a poco in un senso di malinconica felicità. Certo altri bimbi, come i fratellini Corrado e Sanna sperduti in montagna durante un’abbondante nevicata, alla vigilia di Natale, nel lungo racconto Cristallo di rocca dell’austriaco Adalbert Stifter, avrebbero voluto condividere quei momenti di profonda intima letizia. Eppure la natura apparentemente inospitale rivela loro il mistero della
notte santa. Non le luci di una stanza calda e accogliente, ma lo sfavillio delle stelle e i ghiacci abbaglianti creano un’atmosfera magica e sognante come nelle migliori fiabe con un caloroso happy end. Tanto che al ritorno, la piccola Sanna dirà alla madre: «stanotte, quando eravamo sulla montagna, ho visto Gesù». Intanto nella galleria a colonne di casa Buddenbrook in cui troneggia ancora la vecchia nonna Elisabeth e piccoli coristi intonano Stille Nacht, la famiglia si avvia sulle note di Oh Tannenbaum verso la sala da pranzo in uno scenario da favola: infinite fiammelle sfavillano tra gli odorosi ramoscelli di abete sullo sfondo di una delicata tappezzeria azzurra. La scenografia di Thomas Mann che culmina nella cena natalizia col tacchino ripieno di un impasto di marroni, uva passa e mele è il momento sublime di una tradizione vista con gli occhi incantati del fanciullo Hanno che forse non ha pari nella letteratura tedesca nella quale l’avvento del Bambin Gesù è non di rado precorso da fatti drammatici. Valga per tutti il suicidio di Werther a ridosso del Natale. Da quel col-
po di pistola nacque il primo bestseller europeo e un nuovo grande scrittore, l’avvocato Wolfgang Goethe, non certo la sensazione di un’umanità riscattata dalla nascita del figlio di Dio. Del resto pochi anni fa il berlinese Sebastian Fitzek nel suo psicothriller Il ladro di anime (2009) trasformò la notte di Natale in un calvario. I pochi pazienti e medici rimasti in una lussuosa clinica psichiatrica nei pressi di Berlino hanno ben altro da fare che aspettare il Bambin Gesù: pare infatti che proprio lì si sia nascosto un maniaco che terrorizza le donne, ne spezza la volontà intrappolandole in una sorta di limbo fra sonno e veglia, in un incubo permanente fino alla morte. E una sorta di incubo, ma non da fiction, fu la scellerata manipolazione del Natale da parte del nazismo. Si trattava di sradicare nella coscienza del popolo tedesco la tradizione cristiana: il nuovo Messia e Redentore era Adolf Hitler, mentre nel culto del Natale si mescolavano mistica popolare e simbolismi presi a prestito dalla mitologia germanica. Si arrivò nel 1938 a celebrare il 25 dicembre una grande «festa della maternità», non senza ri-
chiami al personaggio di Frau Holle ripescato dalle fiabe dei fratelli Grimm e a Freya, dea germanica dell’amore e della fertilità. Forse gli abeti nazisti non esprimevano più il desiderio di diventare pii, soffusi di sacra luce, nel turbinio dei fiocchi di neve come quelli della poesia Avvento di Rainer Maria Rilke. Essi erano ormai recisi dalla vera tradizione, un po’ come l’albero natalizio che il buon Pinnenberg, protagonista del bestseller di Hans Fallada E adesso, pover’uomo? (1932), non può conservare per il figlio che gli sta per nascere, perché glielo hanno venduto senza radici. «Quelli come noi – dice lo sfortunato contabile alla dolce moglie Lämmchen – ci cascano sempre». Anche al marinaio anarchico e sbruffone Kuttel Daddeldu, creatura del cabarettista Ringelnatz, non va molto meglio: sbronzo e ormai senza un quattrino al rientro da Honolulu la sua donna lo chiude fuori casa la notte di Natale e il buon Dio, men che mai, si ricorda di lui. Forse avrebbe dovuto festeggiare da solo come il ricco Peregrinus Tyss che bimbo non era, ma uomo ormai maturo e un po’ picchiatello, al quale la presenza di una ma-
gica pulce cambierà la vita mentre sul suo fatidico albero di Natale faranno il nido «gli avvenimenti più incredibili e bizzarri». La fantasia di Hoffmann è seducente, ma non meno curioso è il racconto satirico Tutti i giorni Natale che il Nobel Heinrich Böll pubblicò nel 1952. Dopo più di mezzo secolo la storia della zia Milla che amava più di ogni cosa addobbare l’albero con nanetti di vetro, caramelle e figurine di marzapane non ha perso nulla del suo mordente. Gli abeti finiscono sotto le macerie, ma nel dopoguerra ne arrivano altri. Milla non sente ragioni: urla a perdifiato se non ha il suo Tannenbaum. Ogni giorno, ogni sera dell’anno. E intorno ad esso la famiglia riunita che finirà per sgretolarsi nei modi più bizzarri. Il fascino, la magia della notte santa diventano così consuetudine e rituale. La stessa protagonista non avverte che la quotidiana performance natalizia è ormai fasulla, opera di un gruppetto di attori. Forse anche noi oggi, spesso vittime compiacenti del consumismo, dovremmo riflettere sulle ossessioni di zia Milla per riscoprire più solide radici al nostro bisogno di Natale.
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Cultura e Spettacoli
La speranza di sfuggire all’incerto Attese Dai tempi in cui Pandora scoperchiò il vaso proibito, il motore di ogni (precaria) esistenza è la speranza Maria Bettetini Una sfida: quando e quante volte siete stati felici come da bambini la vigilia di Natale? Non il giorno di Natale, che ci trovava forse delusi da qualche dono, infastiditi dai parenti, intontiti da troppi dolci. La Vigilia, madre di tutte le attese, esempio di speranza. Che cosa è infatti, la speranza, se non uno sporgersi verso qualcosa di bello, che quasi di certo accadrà. Quasi: l’incertezza è parte fondamentale della gioia di chi spera, è la causa di quel trepidare che rende elettrica la pelle, lucidi gli occhi. Quando si spera, le brutture del quotidiano non fanno male, tutto si sopporta pensando a un bene che sta per arrivare. Forse. «L’incertezza è l’habitat naturale della vita umana, sebbene la speranza di sfuggirle sia il motore delle attività umane», ha scritto Zygmunt Bauman, il sociologo di origine polacca, sopravvalutato ma comunque abile nel racchiudere in semplici parole l’essenza del nostro vivere. Dunque l’inventore della società «liquida» riconosce una speranza che accompagna ogni nostro istante, la speranza di sfuggire all’incertezza. L’incerta vittoria sull’incertezza colora le nostre vite di felicità, «sfuggire all’incertezza è un ingrediente fondamentale, o almeno il tacito presupposto, di qualsiasi immagine composita della felicità», prosegue Bauman. Da qui il corollario che «una felicità autentica, adeguata e totale sembra rimanere costantemente a una certa distanza da noi: come un orizzonte che, come tutti gli orizzonti, si allontana ogni volta che cerchiamo di avvicinarci». Sarebbe deludente, poi, provare una felicità «totale», anche i più cinici e materialisti tra gli uomini sanno di quanto sia limitato questo nostro vivere. Per prima cosa, non sappiamo nulla del futuro, ed è impossibile sapere, perché la vita è un gioco di infinite variabili. Disgrazie e colpi di fortuna,
L’attesa delle Feste, preludio sperato alla felicità. (Keystone)
una tegola in testa o un’inattesa dichiarazione d’amore, un filo che rompe la calza o l’ultimo paio di scarpe in saldo, tutto è pronto ad accadere. Vi piacerebbe che l’oroscopo indovinasse il futuro, vero? Ma non è possibile, lo sappiamo tutti anche se qualcuno riesce a dimenticarlo, trovando quindi una certezza cui aggrapparsi. Colpa di Saturno, merito di Venere, e parole necessariamente vaghe (incontrerai, capiterà) leniscono la paura per l’incerto futuro. Come non comprendere questo attaccamento a segnali di certezza, quando nella vita umana una cosa sola è certa, e non è nemmeno tanto gradevole, perché a nessuno piace morire. Inoltre non ne sappiamo nulla, di come ci si sente a
morire, e nemmeno a esser morti. Ci fa paura, e per questo diventiamo aperti alla speranza, che si accompagna sempre al timore. Potrei morire adesso, ma spero di no. Potrei ammalarmi, mi potrebbe capitare ogni disgrazia ma spero di no. Mi spingo anche a sperare di sì, spero che gli amici non mi tradiscano, spero di trovare un lavoro bello e ben pagato, spero che la vita di coppia resista a tutto, spero di avere un bambino, o che il mio bambino cresca sano e felice. Spero di ricevere amore, e anche i segni tangibili dell’amore, come i regali di Natale, per tornare alla felicità di un bimbo la sera del 24 dicembre. Per gli adulti è un poco più difficile, perché la memoria seda o addirittura
cancella la speranza, riportando alla mente giorni di festa faticosi, per il peso dell’ospitalità o per quello di parenti con cui si ha ormai in comune solo il cognome, mentre il pensiero corre a qualcuno che invece vorremmo accanto, ma non c’è più. Fatichiamo molto più dei bambini a sperare, in un felice Natale come in un felice futuro. Però possiamo farcela, Esiodo ha scritto che quando Pandora disubbidì a Zeus e aprì il vaso che conteneva tutti i mali del mondo, sul fondo del vaso rimase Elpis, la speranza. Gli uomini all’improvviso divennero mortali, deboli, minati dalle malattie e dalla malvagità altrui, insomma una ben triste esistenza. Allora Pandora aprì di nuovo il vaso
e la speranza poté confortare il genere umano. Che stranezza, assaporiamo la felicità quando attendiamo un bene che al momento non c’è e non sappiamo con certezza se arriverà, infatti per i cristiani la speranza è una virtù, costituita dalla faticosa adesione a sperare beni mai visti né provati, di cui abbiamo a disposizione solo pallidi riflessi. Come la trepidazione della vigilia, che mirabilmente Giacomo Leopardi ha individuato nel Sabato del villaggio: «Questo di sette è il più gradito giorno, / Pien di speme e di gioia: / Diman tristezza e noia / Recheran l’ore, ed al travaglio usato / Ciascuno in suo pensier farà ritorno».
Ogni cosa in un solo luogo, all’interno della grotta Letteratura Parallelismi tra un capitolo dell’opera di Bulgakov Maestro e Margherita
e la vita di Iosif Brodskij, poeta che ogni Natale scriveva una poesia Daniele Bernardi È passato del tempo da quando, a Roma, durante i miei anni da studente, leggevo senza sosta Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov e percorrevo la Via Casilina, standomene seduto nei vagoni malandati della ferrovia LazialiGiardinetti. Eppure, e sarà certamente capitato a tanti, molto di quell’effervescente romanzo è rimasto in me, come un fuoco sempre vivo. Se dovessi indicare una delle tante scene ancora capaci di farmi ridere fino alle lacrime, sicuramente sceglierei quella che si trova nel capitolo Ultime avventure di Korov’ev e Behemoth. Cioè quando due degli strampalati tirapiedi di Voland (vale a dire Satana) si presentano al ristorante della «casa degli scrittori». Nel varcare la soglia di quel luogo dove «matura un subisso di ingegni», la coppia viene fermata da una «donna pallida e annoiata», che su «un grosso registro» scrive i nominativi degli ospiti: «– Le loro tessere? – disse (...). – Mi scusi tanto, quali tessere? – chiese sorpreso Korov’ev. – Sono scrittori? – chiese a sua volta la donna. – Indubbiamente, – rispose Korov’ev con dignità. – Le loro tessere? – ripeté la donna. (...) – (...) Dunque, per convincersi che Dostoevskij è uno scrittore, possibile che sia necessario chiedergli la tessera? Ma prenda cinque pagine di qualsiasi suo romanzo, e senza alcuna tessera si convincerà di avere a che fare
con uno scrittore (...) – (...) – Lei non è Dostoevskij, – disse la donna a cui Korov’ev faceva perdere il filo. – Be’, chi lo sa, chi lo sa, – rispose lui. – Dostoevskij è morto, – disse la donna, ma con poca convinzione. – Protesto! – esclamò calorosamente Korov’ev. – Dostoevskij è immortale». Pensare a questo dialogo tra Korov’ev, Behemoth e la donna mi ha riportato alla mente un aneddoto su Iosif Brodskij (Leningrado, 1940 – New York, 1996), il grande poeta russo che, a lungo, fu tenuto alla larga dalla cosiddetta «letteratura ufficiale» sovietica. Dopo essere stato preso di mira dalla stampa leningradese, la quale vedeva nella sua opera una ««nefasta influen-
Brodskij in un’immagine del 1995. (Keystone)
za» sui giovani», nel 1964 venne arrestato e processato. Non c’è bisogno di sottolineare i parallelismi tra il brano di Bulgakov e la trascrizione del suo interrogatorio: «Gli domandano come lavori. E Brodskij risponde che fa il poeta e scrive. Obbiezione: «Lei non è iscritto all’Unione scrittori, quindi non è poeta. Chi le ha insegnato a essere poeta, se non ha neanche finito le scuole?». Brodskij: «Non so, forse Dio»». Accusato di «parassitismo», l’autore venne condannato a cinque anni di lavori forzati nelle regioni del nord, dove avrebbe scaricato concimi in un kolchoz. Indimenticabile il commento sull’accaduto di Evgenij Evtušenko (Zimà, 1933), popolare poeta dell’immediato disgelo (il regista Andrej Tarkovskij, nei suoi Diari, lo ha definito, senza mezzi termini, autore di una mediocre «avanguardia filistea»). Egli, che più volte, ammonito dal Partito, aveva rivisto le sue posizioni, durante uno dei suoi innumerevoli soggiorni all’estero in veste di «ambasciatore viaggiante» della poesia civile, interrogato sull’esistenza del «Samizdat» (la stampa clandestina) e sulla sorte di Brodskij, rispose in modo sprezzante. Evtušenko, facendo le veci della burocrate bulgakoviana, disse che chi non pubblicava su organi istituzionali erano agli autori «di poco talento», e che i testi del poeta condannato non avevano «nessun valore». Fortunatamente, il perseguitato
non scontò per intero l’ingiusta condanna e, soprattutto grazie al decisivo intervento «dell’amico dell’URSS» Jean-Paul Sartre, tornò in libertà. Ma le sue difficoltà non finirono qui: il crescente interesse attorno alla sua opera, che nel 1987, contrariamente alle previsioni di chi disse che ci si «dimenticherà completamente» di Brodskij, gli valse l’assegnazione del Nobel per la letteratura, non favorì il suo destino di cittadino: nel ’72 fu costretto a lasciare il paese, dopo che le autorità gli avevano consigliato di accettare «per il suo bene» un visto per Israele (egli visse fino alla morte negli USA). Ora, se ho raccontato tutto questo, è perché tra le abitudini di Iosif Brodskij ce ne era una che apprezzo particolarmente e credo appartenga alle comuni ambizioni di molti autori: quella di scrivere brani di Natale. Ad alcuni parrà una banalità, eppure, da quando egli aveva iniziato a buttar giù versi «più o meno seriamente», ogni anno cercava di «comporre una poesia» sul tema della natività: «Amavo quella concentrazione di ogni cosa in un solo luogo – il che è quanto si verifica nella scena della grotta». I testi sono stati raccolti in volume nel libro Poesie di Natale, pubblicato in Italia da Adelphi nel 2004 (la casa editrice milanese si è curata di dare alle stampe l’intera produzione brodskijana). Questa silloge permette, con un sorvolo, di contemplare lo svolgersi
della scrittura del poeta, dagli anni 60 fino alla metà degli anni 90. Tra le sue pagine compare uno dei luoghi importanti della sua opera: il deserto come immagine del mondo. È qui che Dio, simbolo ideale di perfezione, scorge «sé stesso nel Figlio / fatto Uomo» che rivela tutta la solitudine dell’esistente («Al deserto abituati, figliolo», dice il Signore al bimbo in Ninna-nanna, «Con il tuo piede / giammai realtà più solida / calpesterai»). Egli, incarnato, è «un senzatetto in un altro negletto», che indica il solo possibile cammino umano: quello che passa attraverso l’accettazione del dolore. Allora, ravvisato il limite della vita che si sgretola, fronteggiando il vuoto, l’uomo e il poeta possono tentare di inventare un modo di «salvare certe cose (...) «della propria civiltà personale»», costruendo una lingua – senza dimenticare che questa è solo una maniera di scegliere come perdere, più o meno dignitosamente, la propria battaglia con l’assurdità intrinseca della condizione terrena (tale posizione, ha scritto Giovanni Buttafava, «ha poco a che vedere con l’ambizione della gloria»). Ciò detto, vogliamo credere sia stato questo l’insegnamento che un qualche «Dio» impartì a Brodskij per «essere poeta» sfuggendo all’illusoria onnipotenza di quell’apparato paranoico che era la dittatura, senza aver terminato le scuole e, soprattutto, senza essere «iscritto all’Unione scrittori».
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Cultura e Spettacoli
Di Natali e altro
Musica Colonne sonore di fine d’anno: un piccolo vademecum musicale di ascolti consigliati
per la stagione delle feste natalizie
Benedicta Froelich Come ogni anno, anche questo Natale si fa difficile, almeno per chi scrive, resistere alla tentazione di frugare nel proprio archivio discografico personale alla ricerca di quelle canzoni che possano aiutare a immergersi nella cosiddetta «atmosfera natalizia»; non intendendo con questo riferirsi alle semplici rivisitazioni di vecchi standard della tradizione folcloristica, ma soprattutto ai tanti pezzi più o meno moderni composti appositamente per il periodo festivo. Certo, quello delle canzoni di Natale resta un ambito controverso per molti melomani, giacché non è sempre facile distinguere tra i molti brani incisi con intenzioni puramente commerciali (e quindi irrimediabilmente zuccherosi), e quelli che sono invece riusciti a definire l’idea popolare di «spirito natalizio», tanto da divenire rappresentativi della propria epoca e contesto. Eppure, i piccoli capolavori non mancano, come questa breve lista si accinge a dimostrare.
Molti cantanti si sono cimentati nel «genere natalizio», ma al primo posto c’è sempre White Christmas Volendo stilare un ipotetico catalogo musicale, va da sé che al primo posto non si può che collocare un tormentone quale l’onnipresente White Christmas, inciso da Bing Crosby nel lontano 1942: potrete trovarlo datato, magari anche melenso, ma a tutt’oggi resta il brano che ogni Natale ci si scopre a fischiettare involontariamente (non a caso, detiene il primato di singolo più venduto di tutti i tempi). Ma parlando di crooner, come tralasciare esponenti di prim’ordine della categoria quali Frank Sinatra e Dean Martin? Se l’illustrissimo Frank
«the voice» ci ha offerto impeccabili gemme natalizie come, su tutte, un’edulcorata versione di Have Yourself a Merry Little Christmas (1947), non bisogna dimenticare nemmeno il collega Dino Crocetti (questo il suo vero nome), il cui catalogo vanta ben tre dischi di canzoni di Natale: ancor oggi, è difficile resistere alla travolgente complicità di un brano quale Let It Snow!, recentemente riproposto da Michael Bublé con il medesimo brio festivo. È però giunto il momento di passare dagli interpreti ai veri e propri songwriter, tra i quali l’ex Beatle John Lennon si distingue per essere riuscito, nel 1971, nella difficile impresa di realizzare un brano natalizio di impostazione moderna, che combinasse all’alta qualità musicale un’atmosfera festosa ma non stucchevole, unendo il tutto all’immancabile anelito alla pace tanto caro a lui e alla consorte Yoko Ono. Il risultato è la celeberrima Happy Xmas (War is Over), la quale, anni dopo, ha funto da ispirazione per un analogo tentativo da parte di un’altra band storica – l’immortale formazione dei Queen, la cui ballatona dai toni epici Thank God It’s Christmas, glorificata dalla voce stupefacente di Freddie Mercury, costituisce a suo modo un altro valido esempio di eccellente esercizio festivo, con tutte le qualità dell’evergreen. Caratteristiche che non mancano nemmeno a una gemma come Fairytale of New York (1987), opera di un astro del folk-rock quale la band inglese dei Pogues, che, insieme alla compianta Kirsty MacColl, ha fatto di questa irresistibile ballata l’unico esempio di brano natalizio dal testo cinico e «politically uncorrect», addirittura censurato dalla BBC. Nessuna panoramica potrebbe però definirsi completa senza un’incursione nel mondo del pop anni 80 nella sua accezione più deliziosamente edonistica: e chi non ha mai ballato sulle note dello strappalacrime Last Christmas, cantato da George Michael ai tempi in cui, sfoggiando un’impro-
Visti in tivù
Massimo Del Papa ricorda in un libro il critico televisivo dell’«Espresso»
Antonella Rainoldi
Il mitico Bing Crosby in un’immagine del 1954. (Keystone)
babile tintura bionda e un guardaroba quantomeno discutibile, portava al successo planetario il duo degli Wham! fondato insieme a Andrew Ridgeley? E poiché lo scopo di ogni selezione musicale è quello di offrire brani in piacevole contrasto tra loro, mi piace concludere questa breve carrellata con un pezzo non canonicamente classificabile nella categoria delle canzoni cosiddette «di Natale», il cui vero legame con la festività sta nel fatto che la narrazione si svolge in una tragica sera di vigilia. In effetti, soltanto un cantastorie del calibro di Woody Guthrie poteva riuscire nella sfida di comporre una canzone natalizia su un dramma come quello svoltosi il 24 dicembre 1913 nella cittadina statunitense di Calumet – dove il ballo di Natale della piccola comunità di sottopagati
minatori locali finì con la morte di ben 73 bambini, rimasti schiacciati nella ressa in seguito al falso allarme antincendio lanciato dai vendicativi sgherri del padrone. L’impeccabile sensibilità narrativa di Guthrie, che si rivolge direttamente all’ascoltatore per condurlo con sé sulla scena, fa di questa straziante parabola sulla crudeltà umana un autentico capolavoro, il cui finale a morale («guardate a cosa ha portato la vostra sete di denaro») colloca di diritto 1913 Massacre tra le canzoni di Natale meno note e scontate. Fornendo il perfetto spunto di riflessione con cui chiudere questa breve lista di brani consigliati per le feste – affinché l’ascolto «tematico» possa essere foriero non solo di intrattenimento, ma anche di proficue incursioni in altri universi e storie.
Il suono del Natale tra celti, romani e New Age Ascolto L’etichetta americana Windham Hill Records per anni attiva attorno all’ipotesi
di una musica natalizia Zeno Gabaglio La cosa ci può far poco piacere, ma in realtà il Natale non ha nessun suono proprio. Nel corso dei secoli si sono sommati vari elementi antropologici, sociali e culturali che ci hanno portato a pensarla diversamente, a riconoscere in determinati timbri o melodie l’essenza uditiva del Natale, ma queste idee non sono altro che frutti del caso divenuti convenzione. Come il suono delle zampogne (per antonomasia lo strumento della pastorizia, e quindi iconograficamente legato al presepe), o il suono dei campanelli (riduzione in miniatura dei ridondanti festeggiamenti dei campanili) o ancora le melodie che di volta in volta – ma sempre arbitrariamente – sono state associate ai riti natalizi: gospel americani, concerti grossi barocchi o litanie cattoliche. A ben guardare lo stesso posizionamento del Natale nel calendario non fu una rigorosa derivazione da fatti storici, quanto piuttosto una sovrapposizione a elementi festivi pagani preesistenti la nascita di Cristo. Risale infatti solo al 336 d.C. la prima menzione della Natività di Cristo con la data del 25
Atmosfere suggestive per Celtic Christmas.
dicembre, inequivocabilmente vicina a quel solstizio d’inverno che da sempre era stato ritenuto punto di svolta nell’avvicendarsi delle stagioni, e che è via via stato salutato con importanti festeggiamenti da innumerevoli civiltà precristiane: tutti i culti solari dalla Polinesia all’Africa, dalle Americhe al circolo artico; ma anche i romani – sulla cui festa del Dies Natalis Solis Invicti pare il nostro Natale sia stato costruito – e la cultura celtica. Non è un caso se si sottolinea la corrispondenza tra il Natale romano-
Saviane, un perdente di successo
cristiano e la festività dello Yule delle tradizioni precristiane germanoceltiche, perché nel sincretico melting pot culturale contemporaneo capita spesso di incontrare sovrapposizioni sonore tra le due differentissime culture. Non è infatti infrequente inciampare in dischi-compilation (alla radio, in autogrill, dagli altoparlanti dei supermercati addobbati) che recano titoli come Celtic Christmas, un’indicazione che è evidente ossimoro ma che rimanda anche a un preciso mondo sonoro fatto di arpe e flauti (strumenti tipicamente celtici) ma anche organi, archi e cori (strumenti invece continentali). Una commistione che mischia tutto – dai folletti agli angeli – ma che dai primordi della New Age fino ad oggi ha saputo anche offrire risultati artistici interessanti. Tra i maggiori responsabili della diffusione delle sonorità celtico-natalizie è stata l’etichetta discografica statunitense Windham Hill, fondata nel 1976 dal chitarrista William Ackerman su delle basi inizialmente folk e solo in una seconda fase aperte alla musica etnica e a quella elettronica. La pubblicazione di tre volumi di Celtic Christmas e di ben sette Win-
ter’s Solstice è perfettamente esemplificativa della fusione di generi e idee attorno al «suono del Natale»; che se concettualmente non può certo essere applaudito, dal punto di vista strettamente produttivo il lavoro della Windham Hill ha avuto l’effettivo merito di portare sul mercato incisioni musicalmente non scontate, dall’ottima qualità tecnica (suoni puliti e distorsioni ridotte a zero prima ancora dei supporti digitali) e con copertine dalla grafica essenziale ed elegante. E riguardo alla tanto (artisticamente) infamante accusa di essere new age, ecco quanto precisato in tempi recenti dal fondatore dell’etichetta: «Io suonavo e lavoravo già molto tempo prima che mi venisse appiccicata quell’etichetta. Ma il vero motivo per cui vorrei che la mia attività non venisse più associata alla New Age è il fatto che col termine si definisce un globale orientamento esistenziale, uno stile di vita che non ha niente a che fare con i musicisti della Windham Hill. Quando abbiamo iniziato noi non vendevamo altro che musica, di certo non avevamo intenzione di commercializzare un lifestyle. Non vendevamo cristalli e cose del genere, solo musica».
Non sempre il regalo più prezioso si trova sotto l’albero. Il nostro l’abbiamo trovato nella buca delle lettere, un paio di settimane fa: un libro accompagnato da un biglietto con su scritto: «Saviane era uno di noi. Parliamone». Va bene, parliamone. Non potremmo mai perdonarci di non averlo fatto, specie in questa sede. Con novantadue pagine di annotazioni intense, Massimo Del Papa ha voluto onorare il ricordo di un campione del giornalismo italiano, un genio dell’inventiva linguistica, un talento della scrittura, scomparso nel 2001: Il rompicoglioni. L’eredità perduta di Sergio Saviane (Alberto Liberali editore, per conto della CNA di Castelfranco Veneto; con una postfazione di Aldo Grasso). Saviane ha raccontato per oltre due decenni la RAI e la barbarie della lottizzazione e dell’affiliazione familistica dell’era Bernabei. E lo ha fatto con alcuni libri importanti, tra cui Dietro il video – I mezzibusti (Feltrinelli 1972) e Video malandrino (SugarCo 1977). Ma soprattutto con una rubrica di critica televisiva, madre di uno strepitoso bestiario composto da mezzibusti, urogalli, velinari, piantoni da forbice, becchini «col risvolto umano». Bisogna essere grati a Massimo Del Papa di aver riproposto una figura di cui l’«Espresso» per primo si è liberato troppo in fretta. Non si ricorda, nella storia meno recente della critica tv, un altro giornalista così determinato a smascherare i meccanismi perversi del potere, così deciso nel denunciare storture e sopraffazioni, così risoluto a non fermarsi davanti a nulla, così disposto a fare bene il proprio lavoro. Per oltre vent’anni di onorato servizio, Saviane ha sempre perdonato tutto e tutti, anche se a lui in pochi hanno perdonato la bravura e il successo di lettori. La sua critica, segnata da una satira tagliente e urticante, poteva piacere o non piacere, ma la sua voce è sempre stata libera e anticonformista, e il suo atteggiamento è sempre stato improntato alla competenza. Chi non sa riconoscere questa inscalfibile verità è semplicemente invidioso. Purtroppo il mondo giornalistico continua a fingere di guardare altrove pur di non guardarsi dentro e trovare finalmente il coraggio di riscoprire la linea Saviane. Difficile rendere giustizia a un rompicoglioni, più facile dimenticare: lui e la sua eredità perduta.
Il critico televisivo Sergio Saviane.
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Idee e acquisti per la settimana
shopping I tournedos alla Rossini Specialità Una ricercata e raffinata
prelibatezza per viziare i vostri invitati nei giorni di festa. Per altri consigli dell’ultima ora chiedete ai mastri macellai Migros
Per preparare i tournedos alla Rossini prendete delle fette di filetto di manzo tonde e regolari di circa 3 cm di spessore ciascuna (ca. 180 g per porzione). Far rosolare brevemente nel burro una fetta di foie gras e due fettine di tartufo nero per persona. A parte, dorare nel burro, da entrambi i lati, una fetta di pan carré senza crosta della stessa misura del tournedos. Rosolare la carne nel burro due minuti per lato, salare e porla sopra i crostini di pane. Terminare il piatto mettendo sopra la carne la fetta di foie gras e le due scaglie di tartufo. Deglassare rapidamente in padella un poco di salsa demi-glace e vino Madeira secco (metà-metà) e versare questo fondo sulla carne.
I tagli più pregiati per la vostra tavola festiva li trovate al vostro banco macelleria Migros, come per esempio, dal manzo, lo scamone, il filetto e l’entrecôte.
Orari d’apertura Informiamo la spettabile clientela che questa e la prossima settimana le consuete aperture serali del giovedì dei negozi Migros saranno anticipate al martedì (23 e 30 dicembre). Inoltre, mercoledì 24 e 31 dicembre, tutti i negozi e i ristoranti Migros resteranno aperti sino alle ore 17.00.
Marka
Giovanni Barberis
Il compositore Gioacchino Rossini, famoso per opere quali «Il barbiere di Siviglia» e il «Gugliemo Tell», era anche un raffinato buongustaio, nonché un eccellente cuoco. Sono state molte le ricette da lui ideate, ma sicuramente è passato agli annali per i tournedos alla Rossini. Una delle storie più divertenti legate a questo piatto racconta di un episodio accaduto durante un pranzo presso il Café des Anglais di Parigi. Qui Rossini, consigliando la ricetta allo chef e pretendendo che la preparazione venisse fatta nella sala da pranzo affinché potesse vedere, rispose al cuoco risentito: «et alors, tournez-moi le dos!» (e allora mi volti la schiena!). E fu così che il filetto di manzo prese il nome di tournedos.
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Idee e acquisti per la settimana
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Idee e acquisti per la settimana
Il salmone per le Feste Attualità Per le festività di fine anno gli specialisti dei banconi del pesce Migros consigliano numerose
specialità ittiche particolarmente saporite, come per esempio il salmone fresco selvatico. Luciano Valsecchi, chef del Ristorante Serta di Lamone, lo ha cucinato per i lettori di Azione. Approfittate inoltre del buono sconto in calce su tutto l’assortimento di pesce fresco Il salmone selvatico è un ottimo pesce, che ha una particolare caratteristica: nel periodo riproduttivo, risale i fiumi per deporre e fecondare le uova in acque poco profonde. Il salmone (Salmo salar) vive nell’Atlantico e periodicamente s’inoltra nei fiumi europei e del Nord America. Altre specie appartenenti al genere “Oncorhynchus” popolano il Pacifico settentrionale. Il salmone europeo, può raggiungere anche 1.5 m di lunghezza, ha un corpo snello, fusiforme, di colore blu acciaio con fianchi argentei e ventre quasi bianco. Il salmone ha una carne saporita e delicata, alla quale la buona distribuzione del grasso dà grande morbidezza, pur rimanendo compatta. Anche il suo colore è un pregio, il vivace rosa aranciato delle sue carni, rende spettacolare ogni sua presentazione. Ecco perché potrebbe essere l’idea per un pranzo o una cena per le prossime Feste. Presso i banchi del pesce Migros, gli specialisti potranno consigliarvi sul modo migliore di cucinarlo. Si può per esempio preparare bollito (in court bouillon), oppure anche al forno e allo spiedo. Un salmone intero è naturalmente molto impegnativo da cuocere; ma lo si trova anche in filetti da passare in padella o alla griglia. Molte anche le salse che accompagnano ottimamente le preparazioni calde del salmone, come hollandaise, beurre blanc, al vino bianco, allo champagne o Nantua. / Davide Comoli
Salmone croccante con insalata di patate e gamberi Per 4 persone
Ingredienti 800 g di salmone fresco in filetti ( 4 pezzi da 200 grammi ) Olio di oliva Erbe aromatiche 10 patate bollite 1 cipolla rossa Sale e pepe Olio ed aceto 1 mazzetto di rucola 80 g di gamberi
Lo chef del Ristorante Serta di Lamone, Luciano Valsecchi (Flavia Leuenberger)
Preparazione Praticare dei tagli trasversali sulla pelle del salmone, quindi condirlo con sale, pepe e le erbe aromatiche tritate. Ungerlo con poco olio. Versare nella padella un filo d’olio, scaldare ed aggiungere il filetto di salmone dalla parte della pelle, cuocere 3 minuti, salare e girarlo dall’altro lato cuocendolo ancora per 2 minuti. Brasare la cipolla tritata grossolanamente. Mettere le patate in una casseruola con poco olio, scaldare bene, quindi schiacciarle con una forchetta, aggiungere la cipolla. Frullare la rucola con olio, aceto e sale. Tagliare i gamberi a pezzetti, saltarli velocemente in padella, salare. Unire tutti gli ingredienti. Disporre l’insalata di patate al centro del piatto, adagiarvi sopra i filetti di salmone e finire con un filo d’olio d’oliva.
BUONO SCONTO 10% di riduzione
su tutto l’assortimento di pesce fresco in vendita al banco pescheria
Validità: dal 23.12 al 24.12.2014 / Importo minimo d’acquisto: fr. 40.– Buono utilizzabile nelle filiali Migros di Locarno, Lugano (Via Pretorio), Serfontana e S. Antonino. È possibile utilizzare un solo buono sconto originale per acquisto. Non cumulabile con altri buoni sconto.
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Idee e acquisti per la settimana
Brindare con stile Un primo festivo tutto nostrano
Loredana Mutta
Fiori di ibisco 250 g Fr. 14.50 In vendita nelle maggiori filiali Migros.
lentamente per trasformarsi in un meraviglioso fiore. Una volta terminato di bere, il fiore di ibisco può essere tranquillamente mangiato, il suo delizioso sapore naturale ricorda il lampone e il rabarbaro. Un barattolo di fiori di ibisco contiene 11 pezzi. Sul medesimo sono inoltre riportate diverse sfiziose ricette.
Natale goloso
Mai come a Natale è consentito concedersi qualche peccatuccio di gola supplementare, a maggior ragione quando le golosità provengono dai banchi pasticceria artigianale di Migros Ticino. Dal classico tronco al kirsch o al cioccolato, passando per il pan di spagna alla frutta e alla fragola, via via fino alle torte di sfoglia a forma di stella, alle tradizionali foreste nere e St. Honoré decorate a tema oppure ancora alle stelline monoporzione di sfoglia e
crema pasticcera, alla Migros trovate tutto quel che serve per festeggiare con gusto. Irresistibili novità di quest’anno sono la torta di Natale e i cup cakes. La torta di Natale è fatta con morbido pan di spagna e crema, quindi ricoperta di deliziosa crema al burro e decorata in modo raffinato. Infine, i noti cup cakes sono ottenibili in due gusti e con simpaticissime guarnizioni festive. Le specialità sono in vendita dal 22 al 24 dicembre.
abbrustolire la pancetta, quando diventa croccante toglierla ed appoggiarla su una carta assorbente. Nella stessa padella aggiungere i porcini secchi lavorati, la panna e portare a bollore. Regolare di sale e pepe. In una pentola capiente portare a bollore dell’acqua salata e cuocere i ravioli per ca. 3 minuti. Scolarli e passarli nella padella con la salsa amalgamandoli per ca. 1 minuto. Impiattare i ravioli e sopra adagiarvi qualche petalo di pancetta nostrana croccante.
Il re dei datteri
Keystone
Vuoi dare un tocco originale al tuo brindisi di fine anno? Grazie ai fiori di ibisco in sciroppo è veramente un gioco da ragazzi. Basta inserirne uno all’interno del bicchiere, aggiungere dello spumante – o un’altra bevanda frizzante – ed ecco che al contatto con le bollicine, come per magia, il bocciolo si aprirà
I raviöö nostrani Migros conquistano al primo assaggio. Anche a Natale. Abbiamo chiesto a Davide Mitolo del pastificio L’Oste di Quartino, produttore dell’apprezzata pasta ripiena, di proporci una ricetta ideale per le festività. Per 4 persone servono 2 confezioni di raviöö alla zucca, 30 g di porcini secchi, mezzo litro di panna semi-grassa, 50 g di pancetta nostrana tagliata sottile. Tritare finemente i porcini secchi in un cutter o col coltello. In una padella anti-aderente fare
Per le sue straordinarie qualità il dattero Medjool è considerato da molti il re dei datteri. Un tempo questo frutto era riservato esclusivamente alla famiglia reale del sultano del Marocco. Per alcuni popoli nordafricani il dattero rappresenta ancora oggi uno degli alimenti base fondamentali. È il frutto della palma da dattero, un albero che può vivere fino a 300 anni. Il dattero Medjool si distingue per le sue grandi dimensioni e l’irresistibile sapore. È molto nutriente, ricco di glicidi, ma esente da grassi, sodio e colesterolo. Contiene una ventina di aminoacidi differenti utili nei processi digestivi, ed è ricco di preziosi sali minerali e vitamine, nonché fibre, proteine, ferro e calcio. Grazie all’alto contenuto di carboidrati è un’eccellente fonte di energia immediatamente a disposizione dell’organismo. Per gustarne appieno il magnifico bouquet di sapori, lasciate che il dattero Medjool si sciolga lentamente in bocca. I datteri Medjool semisecchi li trovate sia sciolti che confezionati al reparto frutta Migros.
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Idee e acquisti per la settimana
Tradizione piemontese
Migros richiama cavo di rete Toshiba
Novità Leggeri, buoni e genuini: i grissini
stirati a mano per delle pause super sfiziose suoi gustosi grissini con olio extravergine d’oliva sono stirati rigorosamente a mano. La lunga lavorazione artigianale conferisce al prodotto una golosità e friabilità senza pari. Sono ottimi da soli, come aperitivo abbinati per esempio a qualche fetta di aromatico prosciutto crudo, oppure quale leggero accompagnamento ai pasti.
Grissini secondo tradizione
I nuovi grissini appena introdotti nell’assortimento di Migros Ticino sono prodotti artigianalmente in Piemonte dal piccolo panificio familiare Brusa. Nata nel 1974, l’azienda si distingue per i suoi prodotti dal gusto sano e autentico preparati nel rispetto dei sapori antichi. I
Grissini artigianali piemontesi 200 g Fr. 3.80 In vendita nelle maggiori filiali Migros. Flavia Leuenberger
Oggi ormai famosi in tutto il mondo, le origini dei grissini vanno fatte risalire alla seconda metà del 600. All’epoca, durante un’epidemia di peste, dopo essersi consultato con i suoi medici Carlo Emanuele di Savoia convocò i migliori panettieri affinché potessero inventare un pane sano e particolarmente cotto. Uno di questi propose al re un pane biscottato chiamato «ghersino». Egli ne fu talmente conquistato che da allora i grissini non mancarono mai sulle tavole dei Savoia. Carlo Felice di Savoia sgranocchiava addirittura dei grissini durante gli spettacoli teatrali; mentre Maria Felicita di Savoia in un quadro è ritratta mentre porge un grissino ad un cane.
Per motivi di sicurezza, la società Toshiba Europe GmbH ha disposto il richiamo di un cavo di rete per i suoi computer portatili. Il richiamo riguarda anche M-Electronics. Si tratta di un cavo di rete contrassegnato con la sigla «LS-15». Il cavo di rete collega il cavo di alimentazione con la presa di corrente. Il cavo può surriscaldarsi e quindi creare un rischio di combustione e incendio. L’articolo in questione è stato fornito con i nuovi computer portatili Toshiba o come pezzo di ricambio ed è stato venduto anche nelle filiali M-Electronics. Per motivi di sicurezza la Migros prega i suoi clienti di rinunciare a utilizzare i cavi di questa serie. I clienti che possiedono un cavo contrassegnato dalla sigla LS-15 possono ottenere da Toshiba un cavo nuovo in cambio di quello difettoso. I clienti interessati troveranno tutte le indicazioni necessarie alla sostituzione del cavo in Internet all’indirizzo https://extranet.toshiba-tro. de/de-DE/acreplacement.aspx . Annuncio pubblicitario
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Idee e acquisti per la settimana
Un netto risparmio di materiale
Illustrazione Daniel Röttele
Si valuta che sulla produzione annua delle nuove vaschette delle insalate Anna’s Best saranno risparmiate circa 6,2 tonnellate di granulato di PET. Una cifra che corrisponde al peso medio di 86 persone.
All’insegna del risparmio Ora Migros risparmia anche sulle vaschette dell’insalata Anna’s Best. Non sul contenuto, naturalmente, ma sull’imballaggio, riducendo il fabbisogno di PET di oltre sei tonnellate all’anno
Un valore aggiunto ecologico
Smaltimento ottimale La vaschetta è stata sviluppata affinché dopo l’uso possa essere piegata facilmente e occupare poco spazio.
Grazie a uno spessore ridotto, il nuovo imballaggio delle insalatiere Anna’s Best richiede nettamente meno plastica. Nonostante che il volume complessivo rimanga immutato, l’effetto risparmio si attesta all’11 percento.
Una pellicola al posto del coperchio Finora la vaschetta era chiusa da un coperchio di plastica. Adesso, invece, è sigillata con una sottile pellicola che mantiene fresca l’insalata. Ed anche la forchetta inserita all’interno è costruita con un materiale più leggero.
Parte di
Generazione M è il programma della Migros a favore della sostenibilità, al quale anche Anna’ Best apporta un prezioso contributo.
Ogni promessa è debito Anna’s Best Saladbowl Country 320 g Fr. 5.90
Nella sua campagna, Generazione M promette che entro il 2020 la Migros ottimizzerà dal profilo ecologico oltre 6000 tonnellate di materiale da imballaggio. La nuova confezione delle insalate Anna’s Best rappresenta solo uno dei tanti provvedimenti adottati per mantenere la promessa.
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Idee e acquisti per la settimana
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Si fissa al carrello La voluminosa Borsa Shopper* si fissa al carrello con un morsetto. Una fascia elastica assicura che resti ben aperta per potervi riporre comodamente i prodotti scansionati*. *Dimensione: 54x33x44 cm (78,5 l)
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Per una spesa più comoda e veloce
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Supporto stabile per le bottiglie All’interno ci sono tre supporti per bottiglie da 1,5 litri, che ne impediscono il ribaltamento.
Con la nuova borsa della spesa di Subito, fare gli acquisti diventa facilissimo: si afferra lo scanner, si sistema la Borsa Shopper nel carrello, si scansionano gli articoli scelti, li si mette nella Shopper e si paga. La borsa è disponibile presso il supermercato Migros di S. Antonino
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Isolamento per surgelati Un comparto termico integrato nella sporta mantiene al fresco i prodotti surgelati.
Lo scomodo trasferimento della merce dal carrello alla borsa della spesa è diventato ormai superfluo: Borsa Shopper Deluxe Fr. 9.80
Tutto molto facile con il subito self-scanning Chi desidera far la spesa con il Subito self-scanning ha bisogno di una carta Cumulus. Innanzitutto ci si registra con il numero Cumulus. Poi si effettua la scansione del codice a barre.
A questo punto s’illumina lo scanner personale. Lo si stacca dal supporto.
Scansionare il codice a barre sui prodotti, premere il tasto giallo. Riporre la merce registrata nella borsa della spesa.
Per i prodotti venduti a singoli pezzi si deve scansionare il codice a barre posto sul cartellino dei prezzi con il logo Subito.
Al punto di riconsegna si scansiona il codice a barre, indicando la conclusione degli acquisti e si seguono le istruzioni.
Alla stazione di pagamento si esegue la scansione della carta Cumulus, quindi si saldano gli acquisti tramite carta di pagamento.
Il mastro macellaio consiglia: «scamone di manzo in tutte le sue preparazioni»
Una festa per buongustai. Al bancone della carne, il mastro macellaio della Migros ti propone una grande varietà di pregiate specialità. Su richiesta puoi ottenere la carne in tutti i tagli che desideri: per la preparazione al forno, sul grill da tavolo, in pentola o per la fondue. La nostra maestria è al servizio del piacere gastronomico.
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Tutti gli yogurt Farmer 20% di riduzione, per es. al cioccolato, 225 g
Piatto di snack Asia 640 g, 20% di riduzione
Tutta la carne per fondue chinoise Finest surgelata, 20% di riduzione, per es. vitello, 450 g
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Pâté ticinese Svizzera, al banco a servizio, per 100 g
Prosciutto crudo di Parma Beretta Italia, affettato, in vaschetta da 100 g
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Salmone selvatico Sockeye, MSC* Alaska, 100 g
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8.90
Salmone affumicato, bio* Irlanda, 100 g
Salmone affumicato Symphonie Sélection* Norvegia, 190 g
Salmone affumicato Sélection all’aroma di champagne e arancia* Scozia, 100 g
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16.– invece di 32.–
Entrecôte di manzo, TerraSuisse Svizzera, imballato, per 100 g
Arrosto spalla di vitello, TerraSuisse Svizzera, imballato, per 100 g
Parmigiano Reggiano DOP 24 mesi al banco, al kg
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Filetto dorsale di salmone selvatico Sélection, MSC* Alaska, 120 g
Salmone dell’Atlantico affumicato* d’allevamento, Norvegia, 330 g
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Paté natalizio con carne di vitello Svizzera, 500 g
Paté casalingo Rapelli, affettato Svizzera, per 100 g
Terrina allo champagne e ai tartufi Sélection* Svizzera, per 100 g
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Terrina al pepe Rapelli, affettata Svizzera, per 100 g
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Idee e acquisti per la settimana
L’allegria vien giocando Per ingannare l’attesa dello scoccar del nuovo anno, niente è meglio per riscaldare l’atmosfera come cimentarsi in divertenti giochi di società. Scoprirete cosa ha escogitato la famiglia Bögli per intrattenere gli ospiti durante la serata di San Silvestro
Ferro di cavallo di marzapane 50 g Fr. 2.50 Porcellino con quadrifoglio di marzapane 80 g Fr. 4.– Bomba da tavolo Maxi diverse decorazioni Fr. 14.90 Petardi set da 10 pezzi Fr. 8.20 Tovaglia poliestere, di colore rosso, bianco e argento, 140x300 cm Fr. 16.80
Foto Jorma Müller; Styling Monika Hansen; Progetto Sonja Leissing
Stecchini portafortuna diversi tipi Fr. 1.90
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Idee e acquisti per la settimana
È ora di divertirsi: mentre la famiglia Bögli aspetta l’anno nuovo assieme ai parenti non si annoia di certo. La casa è piena di variopinte decorazioni, razzi, petardi e coriandoli sono pronti, lo spumante analcolico è già in fresco. Ma aspettando di accendere i fuochi d’artificio, i Bögli vogliono dare una sbirciatina al loro futuro e si mettono a esaminare i fondi di caffè e il piombo fuso che si raffredda. Zio Ben, invece, adora le scommesse e chiede a tutti «Chi sono?», mentre zia Anna mostra tutta la sua erudizione giocando a «Città, paese, fiume». E c’è anche il tempo per un appassionante Monopoly. / SL
Sélection Chips Salt & Pepper 150 g Fr. 5.20 Nelle maggiori filiali Ghirlanda con frange Fr. 5.90 Palloncini confezione da 12 pezzi Fr. 4.90 Hasbro Monopoly Fr. 49.80 UNO Mazzo di carte Fr. 9.80
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1 Chi sono? Ogni giocatore scrive il nome di un personaggio qualsiasi su un foglietto adesivo e lo attacca sulla fronte di un compagno di gioco. A turno si cerca di scoprire la propria identità ponendo delle domande agli altri («Sono famoso?» ecc.). Vince il primo che scopre chi è!
Post-it Super Sticky Foglietti autoadesivi 76x76 mm 270 fogli Fr. 5.30
Città, paese, fiume Tutti conoscono questo popolare gioco che richiede cultura e velocità. Per giocare bastano una matita e un foglio di carta. 2
3 Leggere i fondi di caffè Se si capovolgono su un piatto i fondi del caffè ancora umidi, prendono forma figure in cui si manifesta il nostro futuro. Bisogna solo sapere come interpretarlo.
Caruso Imperiale Crema in chicchi Fr. 8.90
4 Piombo fuso Cosa rivelano i grumi di piombo fuso raffreddato a proposito del nostro destino per l’anno nuovo? Affinché la fantasia dei veggenti non debordi, la confezione contiene un libretto di istruzioni.
3
Set per fondere il piombo Fr. 4.50
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g e g t i s a e r f e . r e p o v i t Ogni giorno un buon mo I JOLLY DEL GIORNO DI QUESTA SETTIMANA: LUNEDÌ
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Lonza di maiale al pezzo Svizzera, per 100 g
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Tutta la pasta Tradition per es. tagliatelle, 500 g
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Idee e acquisti per la settimana
Una festosa miscela La maggior parte delle ricette per i frizzanti cocktail analcolici alla frutta prevedono una buona dose di ginger ale, bitter lemon o acqua tonica Non esiste festa senza cocktail. Soprattutto in occasione di appuntamenti particolarmente significativi come il Natale o San Silvestro. Se, oltre ai classici, il padrone di casa desidera proporre anche qualche variante esotica, è meglio che tenga pronta una lista degli ingredienti. E non sorprende che in cima a questa lista si trovino ginger ale, acqua tonica e bitter lemon, dato che si tratta di bibite dal gusto amaro obbligatorie per qualsiasi cocktail che si rispetti. Con esse, infatti, si può preparare ogni sorta di miscela per frizzanti bevande analcoliche. Qui di seguito vi proponiamo tre ricette a base di questi tre classici, tutti presenti nell’assortimento della linea Apéritiv di Migros. Ginger Ale, Tonic Water e Bitter Lemon sono proposti sia in singole bottiglie da mezzo litro sia in confezione da 6 pezzi. Inoltre, il Ginger Ale è disponibile anche in bottiglia da 1,5 litri, singolarmente o in pacchi da 6. / AW
Raspberry-Lime Dosi per un bicchiere Ingredienti 2 cl di succo di limetta, 2 cl di sciroppo di lamponi, 1 cl di sciroppo di granatina, 1 cucchiaio da tè di miele, 5 lamponi, ginger ale, cubetti di ghiaccio. Preparazione Versate in un bicchiere il succo di limetta e gli sciroppi, quindi diluite con ginger ale. Aggiungete ghiaccio e lamponi.
Pineapple Cooler Ingredienti 10 cl di bitter lemon, 1 cl di succo di limetta, 20 cl di succo d’ananas, ghiaccio tritato, 1 spicchio d’ananas fresco, 1 ciliegia candita. Preparazione Mescolate i succhi di frutta con del bitter lemon, aggiungete il ghiaccio tritato. Guarnite il bicchiere con l’ananas e la ciliegia.
Apéritiv Tonic Water 6x50 cl Fr. 4.80* invece di Fr. 6.– Apéritiv Ginger Ale 1,5 l Fr. 1.40* invece di 1.80 Apéritiv Bitter Lemon 50 cl Fr. –.80* invece di 1.05 Nelle maggiori filiali * 20% di sconto su tutte le bevande da aperitivo (eccetto lo spumante) fino al 29 dicembre.
Northern Spleen Dosi per un bicchiere
L’Industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui anche le bibite della linea Apéritiv.
Foto Veronika Studer
Ingredienti 1 cl di sciroppo bio di fiori di sambuco, 1 cl di succo di limone, acqua tonica, ghiaccio tritato o in cubetti, 1 fetta di limone. Preparazione Mescolate lo sciroppo con il succo di limone e diluite con acqua tonica. Aggiungete il ghiaccio e guarnite con la fetta di limone.
20% DI RIDUZIONE 2.80 invece di 3.50
3.10 invece di 3.90
Farcitoast 290 g
Antipasto con tonno in salsa, 200 g
2.60 invece di 3.30 Pomodori alla siciliana 285 g
1.65 invece di 2.10
4.20 invece di 5.30 Funghi alla pizzaiola 285 g
Olive verdi e nere a rondelle 80 g
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Idee e acquisti per la settimana
C’è del buono nell’avena I prodotti col logo a forma di cuore aiutano a mantenere il benessere fisico. Contengono betaglucano d’avena naturale, che riduce il livello di colesterolo Definizione
Che cos’e il betaglucano d’avena? Il betaglucano d’avena è una fibra alimentare naturale, che è contenuta della crusca d’avena, lo strato esterno dell’avena. Grazie a un procedimento di macinazione speciale, si riesce ad aumentare il contenuto di betaglucano d’avena nella crusca d’avena dal normale 5 al 28%.
Tutti i prodotti contenenti betaglucano d’avena della Migros portano un logo rosso cuoriforme.
Effetto
Che cosa provoca il betaglucano? Studi scientifici hanno dimostrato che il betaglucano d’avena influisce positivamente sul livello di colesterolo. Un alto livello di colesterolo è uno dei fattori di rischio per le malattie coronariche. Natura
Il betaglucano d’avena è una sostanza naturale, che si trova in natura nella medesima forma? Sì, perché il betaglucano d’avena è una fibra alimentare che è una componente dell’avena. Proviene al 100 per cento da avena naturale e si trova anche nella crusca d’avena convenzionale. Alla crusca d’avena ricca di begtaglucano non vengono aggiunte sostanze artificiali di sorta.
2
1
Consumo
Come si raggiunge la dose giornaliera efficace? Per ridurre il livello di colesterolo in modo provato e significativo, è necessaria un’assunzione giornaliera di 3 grammi di betaglucano d’avena per un periodo di due-tre settimane. Questa quantità è fornita ad esempio da due fette di pane e una porzione di müesli.
1
Farmer Croc Exotic* 500 g Fr. 5.40
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Crispy Hearts* 210 g Fr. 3.90
3
Blévita avena-miele 216 g 6 porzioni Fr. 3.90
4
Farmer Jogurt Crunchy Exotic 225 g Fr. 1.95
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Betaglucano pane fresco 300 g Fr. 3.60
4
3
* In vendita nelle maggiori filiali.
5
I prodotti col cuore betaglucano in vendita alla Migros contengono crusca d’avena, che contiene circa cinque volte più betaglucano della crusca d’avena convenzionale. La quantità giornaliera di betaglucano d’avena raccomandata è di 3 grammi. Il betaglucano d’avena è una fibra alimentare idrosolubile e una componente naturale della crusca d’avena. Ulteriori informazioni: www.friendoatwell.ch
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Ricette con beta-glucano d’avena Tutte le ricette sono calcolate per 4 persone
Crema al cocco e ai mandarini
Ricette di
Mescolate 500 g di Blanc battu con 50 g di noce di cocco grattugiata e 3 cucchiai di miele d’acacia. Pelate al vivo 4 mandarini con un coltello affilato, liberate gli spicchi dalle pellicine facendo in modo di raccogliere il succo che fuoriesce. Mescolate il succo con il Blanc battu e la metà degli spicchi di mandarino e mettete in frigo per ca. 30 minuti. Distribuite la crema in 4 coppette e guarnite con gli spicchi di mandarino restanti. Distribuite su ogni coppetta 45 g di Farmer Croc Exotic con beta-glucano.
I prodotti col cuore betaglucano in vendita alla Migros contengono crusca d’avena, che contiene circa cinque volte più betaglucano della crusca d’avena convenzionale. Ulteriori informazioni: www.friendoatwell.ch
Yogurt esotico a strati Riducete in purea 1 mango con 1 cucchiaio di succo di limetta e ½ cucchiaino di cardamomo in polvere. Distribuite 4 yogurt Farmer Exotic con beta-glucano nei bicchieri, alternando uno strato di yogurt e uno di purea di mango. Cospargete infine con i cereali.
Crema di noci di acagiù e pomodori
Crema di pere e kiwi
Tostate 75 g di noci di acagiù, lasciate raffreddare. Riducete in una purea cremosa 75 g di pomodori secchi sott’olio con le noci d’acagiù. Tritate finemente 15 g di rucola e incorporatela ai pomodori insieme con 1 cucchiaio d’olio. Condite con pepe. Tagliate 240 g di pane cuore con beta-glucano in 8 fette e spalmate la crema di noci e pomodori. Guarnite con foglie di rucola.
Riducete in purea 3 pere con 3 kiwi, 1 cm di zenzero e 1 cucchiaio di sciroppo d’acero. Distribuite la purea in 4 coppette. Distribuite su ogni coppetta 30 g di Crispy Hearts con beta-glucano.
Crema di carote e mandorle Cuocete 150 g di carote in poca acqua salata. Scolatele bene. Tostate 75 g di mandorle e lasciatele raffreddare. Riducete in una purea cremosa le carote, le mandorle, 2 cucchiai di miele d’acacia e ½ cucchiaio di succo di limone. Spalmate la crema su 4 pacchetti di Blévita all’avena e al miele con beta-glucano. Tritate finemente 4 cucchiai di cranberry secchi e spargeteli sulla crema.
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