Azione 51 del 15 dicembre 2014

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXVII 15 dicembre 2014

Azione 51

Società e Territorio La guerra delle faccende domestiche: un quiz della Bbc rivela che la parità tra uomo e donna è ancora lontana

Ambiente e Benessere Stracci, pannolini e altri oggetti impensabili finiscono ogni giorno nelle canalizzazioni: ecco come vengono «smaltiti»

Politica e Economia Torture Cia: tutto l’orrore nel rapporto del Senato Usa

Cultura e Spettacoli Rembrandt e l’incredibile magia della luce in mostra a Londra

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Keystone

Mafia Capitale

di Alfio Caruso pagina 28

La linea rossa morale di Peter Schiesser Nella lotta contro al Qaeda, la CIA americana ha usato la tortura più di quanto si sapesse già, dopo le rivelazioni del «Washington Post» nel novembre del 2005, e su un numero più alto di prigionieri di quanto ammesso in passato dalla stessa Agenzia (119 anziché 98, di cui 26 accusati ingiustamente di terrorismo e poi rilasciati). E lo ha fatto inutilmente, poiché nessuna informazione importante su al Qaeda è stata estorta sotto tortura; paradossalmente, i prigionieri hanno fornito più informazioni utili negli interrogatori che le hanno precedeute. Queste le conclusioni della commissione del Senato sui servizi segreti, presieduta dalla democratica Dianne Feinstein, contenute in un rapporto di 6000 pagine e riassunte in 500, che nasce dall’analisi di 6 milioni di documenti interni della CIA. Per quanto circostanziate, le conclusioni vengono contestate dai repubblicani e dai pezzi da novanta dell’Amministrazione Bush, ciò che mette in evidenza la spaccatura fra le due anime dell’America, quella che giustifica ogni mezzo in nome della sicurezza nazionale e quella che ritiene fondamentale difendere i valori etici alla base di

una società democratica (a pagina 27 l’analisi di Federico Rampini). Il vero punto della questione è proprio questo: non importa se serva o meno, la tortura non è mai giustificabile né accettabile in un sistema di valori come quello sviluppato dalle società occidentali. Altrimenti si annulla ogni differenza morale con i terroristi islamici, da al Qaeda all’Isis. In che cosa si differenzia nell’animo un torturatore della CIA da un tagliateste dell’Isis? Entrambi violentano corpo e dignità umana. E si sa che quando si tratta di torturare si trovano sempre degli esecutori motivati. Intendiamoci: non esistono guerre pulite, quando i caccia e i droni americani bombardano, quando i carri armati e la fanteria sparano, muoiono anche civili innocenti, così è stato in Iraq e in Afghanistan. Ma sul trattamento dei prigionieri di guerra ci si gioca la reputazione morale, tantopiù che gli Stati Uniti hanno firmato la Convenzione dell’Onu contro la tortura. In realtà, questo dibattito non avrebbe mai dovuto aprirsi. L’Amministrazione Bush avrebbe fatto bene a ricordarsi del rapporto della CIA inviato al Congresso statunitense nel 1989 in cui scrisse (vedi «International New York Times» del 10.12.2014) che «tecniche d’interrogatorio fisiche o psicologiche disumane sono contropro-

ducenti perché non generano informazioni, bensì risposte false». Se ci ritroviamo a questo punto è perché gli attentati dell’11 settembre 2001 hanno sospinto l’Occidente indietro di mezzo secolo: di fronte all’inimmaginabile sono cadute anche da noi alcune barriere morali. E siccome la minaccia del terrorismo islamico è tutt’altro che bandita, la paura ma anche lo spirito di vendetta possono ancora avere il sopravvento (anche se nel frattempo la CIA ha bandito la tortura). L’ONU, come anche il ticinese Dick Marty, che indagò per il Consiglio d’Europa sulle prigioni della CIA in Europa, chiedono che i responsabili delle torture vengano processati. Si tratterebbe di portare in tribunale George Bush, il suo vice Dick Cheney, il capo del Pentagono Donald Rumsfeld (che però non erano a conoscenza in dettaglio delle pratiche della CIA). Impensabile. Ma a dire il vero la lista andrebbe allungata: come stabilì Dick Marty, vi furono numerosi Paesi che, anche in Europa (Polonia, Macedonia, Romania...), misero a disposizione della CIA delle prigioni segrete, mentre Berna permise il sorvolo della Svizzera agli aerei della CIA che trasportavano i prigionieri da torturare. Se vogliamo chiedere agli americani di indagare, non possiamo esimerci dal chiederlo a chi fu complice.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 15 dicembre 2014 ¶ N. 51

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Attualità Migros

M Energia per ricominciare Natale 2014 Con la propria raccolta di fondi Migros sostiene vari progetti di Pro Juventute,

tra cui un albergo in Engadina a cui possono far capo le famiglie in difficoltà economica

Natale 2014 Scarica

la canzone, partecipa al progetto benefico

B. Matter – M. West Inizio di stagione turistica in Engadina: a Souvretta, appena fuori da S. Moritz, la famiglia Ratnagar di Dietlikon sta trascorrendo un finesettimana all’Hotel Chesa Spuondas. L’atmosfera nell’area dei giochi a fianco della casa è rilassata: Esther Ratnagar, 38 anni, tiene suo figlio Laven di quattro anni sul sedile della piccola funivia per bambini. I fratelli Tarek e Yash, il primo di 15, il secondo di un anno, li osservano contenti. Il marito di Esther, Sudhir, è tecnico informatico indiano disoccupato. Ha 41 anni ed è il padre dei due bambini più piccoli: «Qui facciamo un pieno di energia» dice. La famiglia vive coi sussidi del servizio sociale. La casa in cui sono alloggiati appartiene a Pro Juventute. La fondazione, insieme ad altre organizzazioni, alimenta un fondo vacanze che permette alle famiglie in difficoltà economiche di godere di un periodo di ferie a prezzo favorevole in albergo. Pro Juventute ha ottenuto in donazione la proprietà di questa casa 50 anni fa, con l’obbiettivo di aiutare le famiglie meno abbienti a trascorrere un periodo di vacanza serena. Anita Gschwind la co-gerente dell’albergo sta curando gli ultimi ritocchi prima dell’inizio della stagione. «Finalmente la casa torna a riempirsi di vita e di nuove storie», si rallegra. Una di queste storie è quella della famiglia Ratnagar. Grazie al sostegno del fondo per le vacanze è stata già altre volte ospite nell’hotel. Il trattamento a mezza pensione è sempre stato finanziato in questo modo. A carico della famiglia sono soltanto le spese di viaggio e di vitto. La famiglia va spesso a passeggiare: «È bello che i bambini possano provare questa esperienza» spiega Esther, la madre. «Ogni anno pernottano a Chesa Spuondas 1600 tra bambini e adulti» ci racconta la responsabile Anita

Musica di solidarietà per le Feste

L’Hotel Chesa Spuondas è stato donato a Pro Juventute da un benefattore 50 anni fa. (stc.ch)

Gschwind. Le camere pronte sono 17. Il numero di famiglie che partecipano al programma dipende dall’occupazione delle stanze ma anche dalla cifra che Pro Juventute può mettere a disposizione: capita a volte che la casa risulti occupata per un terzo da ospiti che vi albergano con questa formula di solidarietà. «Si crea in questo modo una bella vicinanza tra famiglie di diversa estrazione sociale ciò che dona alla casa un’atmosfera divertente» dice Anita Gschwind. Per la famiglia Ratnagar l’hotel è un luogo di riposo ma anche di ricordi. «La prima volta che siamo venuti qui il piccolo Malik era ancora con noi» dice Esther. Lei è rimasta disoccupata a causa di una grave malattia contratta dal suo secondo figlio. Tre anni dopo la sua triste scomparsa, nella prossima primavera, tornerà al lavoro. È ottimista: «Fi-

nalmente abbiamo la speranza di poter vivere una vita normale». «Pro Juventute aiuta famiglie nel momento più acuto della loro difficoltà. Facciamo tutto il possibile per risolvere le situazioni di necessità urgente» ci spiega Robert Schmuki, direttore di Pro Juventute. «Offrendo delle vacanze gratuite in albergo permettiamo a persone che quotidianamente vivono sotto la pressione delle difficoltà contingenti di prendersi un momento di pausa. È importante, in particolare, che i bambini della famiglie colpite possano passare un periodo tranquillo con i loro genitori, semplicemente giocando nella natura». L’attività legata all’albergo engadinese è però soltanto una delle numerose iniziative sostenute dalla fondazione svizzera per la gioventù. E la raccolta Fondi Migros anche quest’anno sostiene

il numero di emergenza 147 per bambini e giovani. Il team che lo gestisce è confrontato spesso con situazioni estremamente critiche: diverse centinaia ogni anno, ad esempio, le chiamate di giovani che minacciano il suicidio. Ma i motivi che suscitano le chiamate al 147 sono molti. Si va dai problemi di cuore a casi di violenza domestica, ciò che succede persino nel periodo natalizio. Un tema particolarmente attuale è quello legato ai debiti contratti dai giovani. «Spesso i teenager si concedono desideri lussuosi e poi per anni devono pagare le conseguenze dell’indebitamento. Qui è il comportamento di molte star a fornire un esempio negativo» afferma Robert Schmuki. Pro Juventute si impegna affinché il problema sia maggiormente avvertito dall’opinione pubblica.

Chi scarica la canzone natalizia della Migros intitolata Ensemble sostiene alcuni progetti mirati di Caritas, Aiuto delle Chiese Evangeliche Svizzere (ACES), Pro Juventute e Soccorso d’inverno. Il download costa fr. 1.20 da ExLibris, fr. 1.10 su iTunes e 99 centesimi su Google Play. L’importo viene versato completamente ai progetti assistenziali. I consumatori, inoltre, possono comprare alle casse della Migros dei «buoni donazione» del valore di 5, 10 o 15 franchi. Infine, si possono versare contributi per la colletta anche sul conto 30620742-6 oppure inviando un SMS con il testo «MIGROS (offerta)» al numero 455. Dal 12 dicembre su natale. migros. ch si terrà un’asta online: ognuna delle 23 celebrità che partecipano all’iniziativa della Migros, metterà all’asta un oggetto personale. La somma incassata sarà devoluta ai progetti d’aiuto. L’importo totale raccolto con tutte queste attività sarà raddoppiato dalla Migros, fino a un massimo di un milione di franchi. La cifra raccolta verrà divisa in parti uguali tra Caritas, ACES, Pro Juventute e Soccorso d’inverno.

Anche Sebalter ha partecipato alla registrazione di Ensemble.

La formazione, un flusso a doppio senso Scuola Club Migros Ticino Per vocazione è vicina al suo pubblico, ne legge le esigenze e risponde con offerte

e programmi all’avanguardia, in sintonia con le trasformazioni di una società sempre più esigente e multiforme Pur mantenendo il core business delle lingue – che nel 2013 per la Scuola Club Migros Ticino ha rappresentato il 56 per cento del totale delle ore di frequenza – la scuola ha da anni accettato la sfida del cambiamento, sia con l’evoluzione dei metodi e dei supporti di insegnamento, sia con un costante aggiornamento dell’offerta stessa. Sono ormai pienamente consolidate modalità di apprendimento che continuano anche fuori dall’aula: corsi via Skype, piattaforme online, podcast con App scaricabili per 5 lingue. «Poniamo molta attenzione ai nuovi trend della formazione – afferma Mirella Rathlef, Responsabile Formazione della Scuola Club Migros Ticino – da una parte focalizzandoci sempre più sull’e-learning, che consente ai partecipanti di decidere in autonomia i tempi e i luoghi in cui organizzare le proprie lezioni, dall’altra con nuovi investimenti nelle infrastrutture. Il pubblico è sempre più

abituato a utilizzare una tecnologia funzionale e all’avanguardia, e noi ci impegniamo per raccogliere gli stimoli che ci arrivano ogni giorno in questo senso». Il concetto di aggiornamento continuo non riguarda solo programmi e strumenti didattici, ma investe anche i formatori. La scuola opera un’accurata selezione sulla base di curricula, titoli ed esperienze professionali, e propone ed esige inoltre un continuo aggiornamento. «In diversi momenti dell’anno – prosegue Mirella Rathlef – programmiamo formazioni per il nostro personale docente. Le tematiche degli incontri rispecchiano lo spirito sempre orientato al futuro della scuola, e spaziano da workshop sui supporti di ultima generazione, come la lavagna interattiva multimediale, a seminari più classici, come le tecniche di motivazione o la gestione dell’aula». In questo contesto il pubblico assume un ruolo centrale. L’essere un

Azione

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

punto di incontro di tante persone (nel 2013 ben 16.590 allievi hanno frequentato i corsi della Scuola Club Migros Ticino) permette di registrare e comprendere le nuove esigenze, su cui costruire e tarare corsi, formazioni e

Mirella Rathlef. Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

proposte più generali. «I docenti e gli allievi sono la nostra cartina di tornasole – aggiunge Rathlef – Per questo è per noi prezioso il loro feedback e l’osservazione accurata della risposta alle nostre proposte». Particolarmente significativo in questo senso è il successo delle formazioni con diploma. Un esempio interessante è rappresentato dalla formazione commerciale, un percorso che da quest’anno ha una nuova struttura pensata come risposta alle esigenze di una professione che, negli ultimi vent’anni, è profondamente cambiata. Sempre più frequentemente il pubblico femminile prende in considerazione la possibilità di un rientro o una riqualifica in ambito professionale, ad esempio dopo una maternità o per assumere mansioni amministrative in aziende familiari, per le quali sono richieste chiare competenze professionali. Il 30 gennaio prossimo partirà

la nuova versione – Impiegato amministrativo – una formazione più compatta, fortemente orientata alla pratica e immediatamente spendibile in ambito lavorativo. Sono stati infatti inseriti moduli come l’organizzazione del lavoro e la patente ECDL, divenuti skill imprescindibili per un curriculum in questo settore. Un’ulteriore novità è che quest’anno il percorso formativo si svolgerà a Bellinzona, per sottolineare l’attenzione che da sempre la Scuola Club presta a tutto il territorio ticinese. «Il concetto di formazione continua – conclude Mirella Rathlef – è un flusso a doppio senso. Come responsabile della formazione posso affermare che noi impariamo in primo luogo dai nostri clienti e dai nostri formatori che ci indicano costantemente cosa serve loro e alla società e ci aiutano così a costruire un’offerta sempre all’avanguardia e al passo con i tempi».

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Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch

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Società e Territorio Aspettando la grande Bellinzona Nel 2015 la popolazione del Bellinzonese si esprimerà sul progetto di aggregazione che coinvolge 17 comuni, ne nascerebbe una città con più di 50mila abitanti e tante potenzialità

Emigrazioni contemporanee Oggi chi decide di emigrare lo fa perché il Ticino gli va stretto, ma la nostalgia di chi emigrava in passato è diversa da quella presente? pagina 6

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Le coppie che condividono le incombenze domestiche in maniera equilibrata sono poche. (Keystone)

La guerra delle faccende domestiche Questione di genere Un quiz della Bbc rivela che la parità tra le mura di casa è ancora lontana.

Anche in Svizzera sono soprattutto le donne ad occuparsi di pulizie e figli. Uno squilibrio che, secondo il sociologo Lorenzo Todesco, fa comodo agli uomini che hanno più tempo per dedicarsi alla carriera Stefania Prandi La Bbc ha lanciato, sul suo sito internet, un test dal titolo «La guerra delle faccende domestiche». Si tratta di un questionario interattivo, con sottofondo audio che ricorda un videogioco, per calcolare quanto tempo donne e uomini che vivono in coppia dedicano alla pulizia della casa, alla cura dei figli, a cucinare e a fare la spesa. I risultati vengono poi comparati con i dati nazionali da Jonathan Gershuny, docente del dipartimento di Sociologia dell’Università di Oxford. Dalle risposte al quiz sta emergendo che, nonostante siano stati fatti progressi rispetto al passato, la strada verso la parità di genere tra le mure domestiche è ancora lontana. Le donne inglesi, infatti, dedicano in media, alla settimana, 11 ore e mezza ai lavori casalinghi contro le 6 ore degli uomini: quasi il doppio del tempo. «Ci sono attività che vengono svolte da entrambi i sessi come cucinare e fare certi tipi di pulizie, ma altre restano ancora prettamente femminili come ad esempio occuparsi del bucato e stirare», dice il professor Gershuny, intervistato dall’emittente radiofonica britannica. Puntare l’attenzione su come si gestiscono pulizie e figli è tutt’altro che

banale. Infatti, il tempo che le donne devono dedicare alle incombenze domestiche è sottratto non soltanto al relax ma anche al lavoro retribuito fuori casa. «La conseguenza di questa situazione è che le donne sul lavoro hanno meno opportunità di emergere, di avanzare di livello e quindi anche di stipendio: le loro possibilità di fare carriera sono ridotte drasticamente rispetto a quelle degli uomini» sottolinea Gershuny. Il sondaggio della Bbc rivela che sono poche le persone che amano le faccende domestiche. Un trantran che la filosofa americana Andrea Veltman definisce «una tortura di Sisifo». Ad occuparsi della questione era già stata la scrittrice e filosofa francese Simone de Beauvoir nel Secondo Sesso, uno dei suoi libri più famosi, in cui scriveva: «Il pulito diventa sporco, lo sporco va pulito, ancora e ancora, giorno dopo giorno». Un perpetuarsi di gesti fine a sé stessi che continuano all’infinito e a lungo andare snervano e affaticano. Un carico che grava soprattutto sulle donne, in tutto il mondo, Occidente incluso. Nonostante i progressi rispetto al passato, diverse ricerche – come ad esempio quella di Liana Sayer del 2010 – dimostrano che c’è ancora una situazione di dispari-

tà, anche se con percentuali diverse, in Australia, Canada, Francia, Germania, Norvegia, Paesi Bassi, Regno Unito, Stati Uniti e Svezia. Un’indagine dello scorso anno dell’Ufficio federale di statistica, rivela che la situazione resta sbilanciata anche in Svizzera. Le donne hanno sulle proprie spalle il 67% del carico dei lavori domestici, mentre gli uomini soltanto il 4,1 per cento. Il restante 25,4% viene diviso equamente (e il 3,5% fatto da altri). Le coppie che tendono a una ripartizione più equilibrata delle incombenze sono soprattutto quelle giovani, sotto i 25 anni (37,6%) e con meno di 40 anni (34,3%). Questa situazione sembra avere un peso non indifferente sul tempo che le donne dedicano al lavoro retribuito, quello fuori casa, in particolare quando ci sono dei figli. Sempre secondo i numeri dell’Ufficio federale di statistica, nel 2013 hanno lavorato a tempo pieno l’87% dei padri e soltanto il 17% delle madri con uno o più figli sotto i 25 anni. Per conciliare casa e lavoro il 61,5% delle madri ha svolto un’attività professionale a tempo parziale. Di contro, il part-time è stato scelto soltanto dal 9% dei padri. Un altro aspetto che emerge dalle statistiche è che le madri che vivono in cop-

pia e hanno più di un figlio, il più piccolo dei quali ha meno di 7 anni, sono più spesso senza attività professionale rispetto a quelle il cui bimbo più piccolo ha tra i 7 e i 14 anni. Va detto che indubbiamente sono stati fatti passi avanti rispetto al passato, dato che dal 1992 la quota di madri senza attività professionale è diminuita, passando dal 40 al 21 per cento. Parallelamente, però, è aumentata la percentuale di madri con un lavoro a tempo parziale, in particolare per quanto concerne i gradi di occupazione più elevati. Le cause della disparità di genere in famiglia che, come dicono gli esperti e come dimostrano i dati, si riflette anche sul lavoro, sono diverse. Le analizza nel dettaglio Lorenzo Todesco, ricercatore all’Università di Torino, nel suo ultimo saggio dal titolo Quello che gli uomini non fanno. Di fatto gli uomini sono maggiormente impegnati fuori casa perché continuano a guadagnare più delle donne, ad avere una carriera meno frammentata e ad occupare posizioni professionali più importanti. Sono ancora loro, in molti casi, i veri breadwinner, quelli cioè che portano a casa la pagnotta. A questo si associa quella che Todesco definisce «ideologia di genere»

e che fa sì che le donne facciano i lavori di casa e si curino dei figli con abnegazione per rispondere alle aspettative sociali che vengono trasmesse dalla famiglia, dalla scuola, dai mass media. Un altro aspetto che emerge dall’analisi di Todesco è che la situazione di disparità costituisce un elemento di comodo per gli uomini. Infatti, chi da single si occupa dei lavori di casa perché costretto dalle contingenze, appena entra in coppia smette o riduce il carico optando per attività meno gravose come le piccole riparazioni, la cura delle piante, la gestione dell’automobile, il pagamento delle bollette e in generale le commissioni saltuarie. E questa non è una caratteristica che viene riscontrata nell’atteggiamento maschile a livello internazionale. Trovare una soluzione non è semplice. Anche se sono sempre di più le coppie istruite, giovani, a doppio reddito che si mettono in discussione, spesso la questione del ménage quotidiano diventa causa di tensioni così forti da portare alla rottura del rapporto. Per evitare conflitti molte donne, a un certo punto, smettono di discutere e di lamentarsi e si adeguano al «ruolo» che ci si aspetta da loro.


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Società e Territorio

Anche Bellinzona sarà grande? Aggregazioni Nel 2015 la popolazione del Bellinzonese sarà chiamata alle urne per esprimersi su una fusione

che coinvolge ben 17 comuni, ne dovrebbe nascere un nuovo polo con più di 50mila abitanti Roberto Porta A qualcuno sarà saltato all’occhio, c’è un grande assente in questo Natale 2014. Come da tradizione, i principali poli del canton Ticino hanno allestito nel loro salotto cittadino una pista di ghiaccio per la cittadinanza. Un’offerta con quel «non so che» di atmosfera nordica che è proposta a Mendrisio, Locarno, Bellinzona e anche in altre realtà più piccole. Manca all’appello, e per la prima volta, la città di Lugano. Stordita dalle difficoltà finanziarie, la città-traino del canton Ticino – ma la si può ancora chiamare così? – ha dovuto gettare la spugna e tagliare anche sul pattinaggio natalizio. In Piazza Alessandro Manzoni si è però deciso di installare perlomeno un surrogato di pista di ghiaccio, con fondo in plastica, che permette in qualche modo di sognare l’inverno, tra gli sguardi un po’ increduli di chi non riesce ancora a capacitarsi che i tempi della «Lugano da bere» sono ormai tramontati. È il Natale ai tempi della crisi, con il concreto timore che quello del 2014 sia solo il primo di una lunga serie. E questo capita proprio nella città che più di tutte ha spinto sul pedale delle aggregazioni e che più degli altri contribuisce al finanziamento dei comuni in difficoltà, attraverso il meccanismo della perequazione intercomunale. Il «ghiaccio in plastica» è solo il simbolo di problemi ben più grandi, ma è anche una sorta di campanello d’allarme per gli altri poli del canton Ticino, perché anche loro prima o poi corrono il rischio di un Natale senza pista e, soprattutto, di altre misure di risparmio ben più dolorose.

La nuova Bellinzona punterà ad essere un polo d’eccellenza nel campo delle scienze della vita L’austerità natalizia di Lugano lancia così un monito a tutti i comuni del cantone ed anche a quelli del Bellinzonese, che si trovano sulla soglia di un 2015 che vedrà la regione della capitale andare alle urne per decidere il proprio destino aggregativo. Ben 17 i comuni coinvolti in questa mega-fusione, attesa da anni e per lungo tempo tenuta in ostaggio dal fuoco incrociato delle rivalità da campanile. Ora però il pro-

Anche nel Bellinzonese la questione del moltiplicatore avrà il suo peso. (Ti-Press)

getto aggregativo è pronto e la nuova Bellinzona sarà con i suoi 52mila abitanti la decima città svizzera, pronta ad affrontare il futuro con il piglio dei protagonisti. «Tra i nostri obiettivi c’è anche quello della gestione oculata del territorio, una risorsa importante che va gestita con cura», fa notare Mario Branda, il sindaco di Bellinzona, città che in un’ottica futura si troverà al centro di due parchi naturali, quello del Piano di Magadino e quello dell’Adula. All’intera regione non mancano già oggi potenzialità e progetti, legati in particolare alla prossima apertura di Alptransit e allo sviluppo scientifico e ospedaliero, con l’Istituto di ricerche biomediche (IRB) e la creazione di un nuovo ospedale, affiancato dall’Istituto oncologico della Svizzera italiana. Strutture di fama internazionale che permetteranno alla città aggregata di trasformarsi ancor più in un polo d’eccellenza nel campo delle scienze della vita. Un agglomerato moderno che continuerà comunque ad affidarsi anche ai suoi tesori del passato: i castelli e le loro mura, con l’obiettivo di incrementare la

presenza dei turisti. Proprio la settimana scorsa il Consiglio federale ha voluto rassicurare la città, rispondendo ad un interrogativo posto in Consiglio nazionale, durante la tradizionale «ora delle domande», da Fabio Regazzi. Il deputato ticinese chiedeva lumi sulle possibili conseguenze legate alla realizzazione di un terzo binario e di una nuova galleria di attraversamento sotto la cinta muraria di Bellinzona. Per il governo non c’è il rischio che queste nuove linee ferroviarie facciano perdere il marchio Unesco ai castelli. Una preoccupazione in meno per la città e per la regione alla vigilia dell’anno aggregativo che sfocerà in una votazione popolare consultiva verso l’autunno del 2015. Secondo i piani il nuovo comune dovrebbe nascere nella primavera del 2016. Un progetto che ha il sostegno del Consiglio di Stato, anche perché la grande fusione comunale bellinzonese coincide con il Piano cantonale delle aggregazioni. Un consenso per ora solo formale, resta infatti ancora da definire il contributo finanziario che il cantone dovrebbe versare per permettere all’aggregazione di partire con una bisaccia

sufficientemente fornita. A mo’ di paragone va ricordato che Lugano ha ricevuto 40 milioni per la sua ultima fase aggregativa, 30 invece i milioni previsti per quella di Locarno, poi naufragata in votazione popolare nel 2011. E qui è inevitabile, come in tutte le aggregazioni, toccare il tasto del moltiplicatore comunale, che per la nuova Bellinzona sarà attorno al 90%, questo perché diversi comuni della regione non possono contare su entrate fiscali da primato. In questo ambito c’è comunque un dato positivo, il debito pubblico pro capite si aggira attorno ai 2400 franchi, inferiore alla media cantonale, superiore ai 3700 franchi. Cifre che di recente hanno fatto dire al sindaco di Giubiasco Andrea Bersani che la nuova città non sarà un comune indebitato. In ogni caso la questione fiscale spaventa in particolare il comune di Sant’Antonino, che grazie alla sua zona industriale vanta un moltiplicatore del 65%, il più basso di tutto il nuovo agglomerato. «Noi abbiamo partecipato attivamente al progetto di questa aggregazione e ora informeremo ulteriormente la popolazione – ci

dice il sindaco del comune Christian Vitta – Non è esclusa la possibilità di realizzare anche un sondaggio per capire meglio la volontà dei nostri cittadini. E in base ai risultati di questa indagine il nostro municipio dovrà poi fare le sue valutazioni». A Sant’Antonino comunque l’entusiasmo popolare per l’aggregazione è piuttosto basso e non è da escludere che il comune decida di uscire dal progetto prima della votazione consultiva. «Noi teniamo molto alla sua presenza nel progetto aggregativo – fa notare il sindaco di Bellinzona Mario Branda – ricordo però che il gettito fiscale della nuova aggregazione sarà di 110 milioni e quello di Sant’Antonino soltanto di 5, ciò significa che questo comune non avrà in ogni caso un ruolo decisivo. Ricordo inoltre che saremo molto attenti alle spese, le uscite per i nostri servizi saranno inferiori di un terzo rispetto alla media cantonale». Sia quel che sia, la sfida aggregativa del Bellinzonese è lanciata. Il 2015 darà le risposte attese da tempo. E fra un anno a Natale si spera che possa ancora portare la pista di ghiaccio, vero, nella capitale.

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Emanuela Bussolati, Piazzetta Natale, Interlinea Junior. Da 7 anni «C’era una piazzetta bruttina, sporchina, grigina, noiosina», con questa sfilza di diminutivi depressi e tutt’altro che vezzeggiativi veniamo calati nel set (esterno/giorno, esterno/notte) di questa bella storia di Natale: una piazzetta periferica di una qualsiasi cittadina, abitata da malumore, stanchezza, crisi e diffidenza. La gente non ha tempo né voglia di sorridere o conversare, i negozianti se ne stanno immusoniti dentro le loro botteghe semideserte. «Ma ecco che un giorno si fermò un’automobile piccola piccola e sgangherata: su ogni botta della carrozzeria un fiore dipinto», e da questa macchina – un po’ come una versione hippie, o post-moderna e laica, dell’asinello di Giuseppe e Maria – scende una coppia di giovani sposi sorridenti, fiduciosi, innamorati. Lei, che aspetta un bambino, trova motivi di gioia e meraviglia in ogni cosa, anche nel pino «storto e spelacchiato» che sta al centro della

piazza, e con il suo entusiasmo riesce a coinvolgere gli scontrosi negozianti a mettere in comune le loro risorse per addobbarlo, visto che è Natale. Il risultato non sarà solo una piazzetta più bella, ma un autentico cambiamento nelle persone, di nuovo pronte ad aprirsi agli altri. E non saranno solo le stelline di carta stagnola dell’albero a brillare, ma anche gli occhi di tutti gli abitanti, «tornati un po’ bambini». Alla

fine il bambino nasce, e il suo sguardo, appena lo porteranno in piazzetta, si poserà sull’albero. Emanuela Bussolati scrive e illustra questo racconto, dove testo e immagini sono in equilibrio sapiente, senza che l’uno prevalga sulle altre, ma nemmeno si faccia troppo servizievole e scarno di parole. Al centro della piazza e della storia (che ha vinto il Premio Interlinea Storia di Natale 2014) c’è ovviamente l’albero di Natale: tuttavia, a ben vedere, con quel bambino che nasce e che porta l’amore, c’è anche un piccolo presepe di cittadini di periferia. Baccalario, Gatti, Masini, Milani, Nanetti, Piumini, Puricelli Guerra, Sgardoli, Che notte è questa! Otto racconti di Natale, illustrazioni di Gaia Stella, Einaudi Ragazzi. Da 9 anni Otto grandi nomi della letteratura italiana per ragazzi sono stati invitati dall’editore a scrivere una storia di Natale. Il risultato è questo volume, in cui la ricchezza è proprio l’etero-

geneità delle storie, la loro diversa interpretazione del tema. Pierdomenico Baccalario ci porta nello spirito del Natale londinese, tra orfanelli e un personaggio dal cuore (inizialmente) di ghiaccio, che non si chiama Scrooge ma Marley Broome, e fa il broker nella City; Alessandro Gatti ci racconta di un giovane aspirante detective alle prese con il suo primo caso, giallo-rosa, nelle bianche atmosfere invernali; la storia di

Beatrice Masini è quella di un nonno e un nipote che vivono il loro Natale tra gli animali del bosco; quella di Angela Nanetti ci conduce a Parigi; con Roberto Piumini andiamo lontano, in un villaggio dell’Anatolia; Elisa Puricelli Guerra mette in scena una ragazzina che durante le vacanze natalizie in campagna ricostruisce l’infanzia dei propri genitori; mentre siamo in guerra con Guido Sgardoli, il quale ci narra del soldato semplice Giulio Bandini che lascia la trincea per correre a casa, travestito da capotreno, a rivedere la sua famiglia almeno per una notte, la notte di Natale. Mino Milani, decano tra gli otto, ci offre una storia vera e personale: siamo nel 1918, in un paese della campagna lombarda. È finita la guerra, ma è arrivata la «spagnola» a mietere altre vittime: l’adolescente Piera, futura madre dello scrittore, è l’unica della famiglia a non essersi ammalata della micidiale influenza, e sarà lei dunque, poco più che bambina, a curare tutti gli altri. Il finale di speranza è ambientato nella notte di Natale.


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Società e Territorio

Un’impresa collettiva da imitare Archeologia industriale Storia della Latteria

sociale di Biogno-Beride-Castelrotto-Ronco Laura Patocchi-Zweifel

La nostalgia di chi parte Emigrazioni contemporanee Oggi chi decide di emigrare

lo fa perché il Ticino gli va stretto, ma la nostalgia di chi emigrava in passato è diversa da quella presente?

Roberta Nicolò Era il 1688 quando lo svizzero Johannes Hofer presentava la sua dissertatio medica De nostalgia, un’analisi scientifica di ciò che comunemente veniva definito come Heimweh ovvero mal di patria. L’Heimweh viene raccontata attraverso l’analisi dell’esperienza dei soldati mercenari svizzeri, tanto nostalgici da arrivare persino a morire di mal di patria. Nasce così la nostalgia, il dolore della lontananza, la malinconia per quegli elementi familiari che vanno a costruire in ogni essere umano il senso di identità. La nostalgia, da allora, è entrata a far parte del vocabolario comune, rappresentando per tutti noi un senso di rimpianto per qualche cosa che si vorrebbe ritrovare e che spesso non è possibile recuperare. Un sentimento di spaesamento comune soprattutto al migrante e che racconta in maniera significativa il partire per terre lontane, ma anche il ritornare a casa.

Per l’esule moderno la distanza è relativa, colmata da internet e dai social network, eppure spesso emerge una sensibilità nostalgica Ne abbiamo parlato con Mattia Bertoldi, coordinatore del progetto Oltre ConfiniTi: «L’emigrazione per il Ticino è un fenomeno vivo che tocca e toccherà sempre più residenti. Sono cambiate le esigenze, ma le dinamiche sono simili. Oggi chi parte lo fa perché il territorio gli va stretto, ma la nostalgia prima o poi affiora. Proprio per questo Oltre ConfiniTi raccoglie le esperienze di chi è emigrato in passato e quelle di chi emigra oggi». Ma quali sono gli elementi, i simboli, della nostalgia presente e passata? Gli epistolari degli emigrati ci raccontano la nostalgia per la cucina tipica, il passar delle stagioni e gli elementi naturalistici peculiari della regione. Fattori, che soprattutto un tempo, segnavano le differenze tra luoghi e genti. Sono i salumi, il formaggio, le luganighe, i cibi più rimpianti del passato, suggestioni sapientemente raccolte nel

saggio di Stefania Bianchi Nostalgia del gusto e della memoria (pubblicato in Ernährung und Gesundheit in den Alpen, Broschiert 2008, di Reto Furter e Anne-Lise Head-König) così com’è rimpianta la primavera degli alberi in fiore o l’inverno riccamente nevoso. Segni legati alla tradizione e al territorio, resi romantici dalla distanza che restava incolmabile, per chi, spesso, trascorreva da emigrato il resto della vita. Per l’esule moderno la distanza è certamente relativa. La tecnologia aiuta a restare in contatto con i propri cari. Inoltre l’esperienza della migrazione è fortemente cercata e non imposta dalle contingenze. I social network, internet e skype danno l’impressione di essere più vicini e permettono di tenersi maggiormente informati sugli avvenimenti locali. Ciononostante, emerge una sensibilità nostalgica. Elena Aglaja Amadò, attrice ticinese che ha vissuto prima a Londra e poi negli Stati Uniti, ci racconta la sua difficoltà nel partire: «all’inizio la malinconia era forte, avevo difficoltà con la lingua, volevo mollare, poi l’ho superata, anche se alcune cose mancavano sempre come la famiglia, i nostri boschi d’autunno, il camminare per strada e riconoscere la gente, un camino con il paiolo di rame dove fare la polenta. Ma l’esperienza fatta all’estero è stata determinante nel mio percorso di vita, mi ha consentito di riportare in patria un bagaglio di competenze unico, che mi ha permesso di distinguermi e di raggiungere alcuni obiettivi più velocemente». Oggi molti di coloro che partono scelgono a un certo punto di tornare. Il rientro segna quindi un nuovo aspetto della migrazione, quello del confronto con il territorio che viene riscoperto. L’immagine creata dalla nostalgia incontra la realtà, i simboli vengono decodificati e si costituisce un nuovo punto di partenza. Un ponte tra passato e presente che non sempre riesce a lenire da subito il senso di malinconia. Adriana Sermasi è tornata a Lugano dopo oltre quindici anni a Bologna e ci racconta il suo primo impatto con il territorio: «il rientro è stato difficile, più difficile che partire. Occorre riabituarsi un po’ a tutto, poi inizi a vedere, a capire le nuove dinamiche, alcune positive altre meno. Da un lato noti una grande apertura, un mondo meno ovattato ri-

spetto a quello che avevi lasciato, però forse più duro. La prima discrepanza è tra il ricordo del paesaggio verde e la realtà di un’urbanizzazione un po’ selvaggia. Sono tante le cose che lasci in un modo e ritrovi diverse e sono tante le differenze tra Lugano e Bologna, ma sono felice, perché la vita lontana mi ha regalato una marcia in più». È un’esperienza soggettiva, caratterizzata dalla ricerca di sé, la costruzione di nuove priorità e dalla voglia di trasferire al territorio l’esperienza maturata fuori. Ci si confronta con uno spazio meno protetto, più globalizzato e che vive una forte contaminazione culturale. Un Ticino con il quale, le personalità sviluppate all’estero, si rapportano, cercando uno spazio in cui collocarsi. Un momento di mediazione con il territorio, che sembra aprire un varco tra tradizione e cambiamento. Il punto di vista dell’emigrante di ritorno, a metà strada tra la nostalgia e la critica, può offrire così nuovi spunti. Per Diego Ricco, imprenditore e musicista, il rientro ha segnato un momento importante, soprattutto nel riconoscere i punti di forza proprio del territorio d’origine: «Il Ticino è certamente cambiato, ma offre una qualità di vita ancora alta e la burocrazia semplice ti aiuta a concentrare le energie in quello che fai. Stando fuori riscopri la meraviglia e l’unicità del paesaggio, il pregio della solidità politica. Prendi coscienza della fortuna che hai avuto nel nascere qui. Ho scelto consapevolmente di tornare, proprio perché conoscevo pregi e difetti del territorio e mi sono reso conto che il Ticino mi offriva, a questo punto, le giuste opportunità». Cambiamento sociale, produttività, buona qualità di vita ed una dimensione a misura d’uomo. Lo si riconosce anche se il prato verde, rivissuto con sentimento, non c’è più e al suo posto ci guarda dall’alto una palazzina in cemento armato, anche se il «grotto» dove assaporavi quasi esclusivamente polenta e funghi oggi serve à la carte paccheri alla napoletana. Sembra che la nostalgia di chi parte alla ricerca di nuove opportunità favorisca, in fondo, lo scatto di una fotografia inedita, che può aiutare a conoscere un po’ meglio il significato d’identità e tradizione, ma anche d’innovazione e potenzialità future.

Laura Patocchi-Zweifel

Tra le cose che mancano di più a chi vive lontano ci sono i cibi della tradizione. (Keystone)

Prima dell’istituzione delle Latterie in Ticino esistevano le «Comunelle» del latte, consorzi costituiti da alcuni proprietari di bovini che si univano per ricavare il massimo profitto dai prodotti caseari. Scriveva Stefano Franscini nel 1837: «Certo se i Ticinesi conoscer volessero, anche per autunno, inverno e primavera, le cascine di comunella, ritrar ne potrebbero di grandi vantaggi». Secondo le indicazioni della Società agricola valmaggese del 1872 per costituire una comunella necessitava «una buona cantina per il latte e il formaggio, una cucina per casare, gli utensili necessari, e un buon caciaiolo che disimpegni ottimamente il suo impiego». Il 7 luglio 1875 il Consiglio di Stato invia alle nove Società agricole del Cantone una circolare per incoraggiare e conseguire miglioramenti vantaggiosi nella manipolazione del latte e dei suoi prodotti con la costituzione di caseifici nei Comuni. Cinque anni dopo, la proposta di promuovere l’impianto di una latteria economica con caseificio a Meride non va a buon fine. Solo nel 1885, in seguito a un sopralluogo in alcune latterie sociali in Val d’Ossola e Val Cuvia, una commissione malcantonese presenta una memoria in cui si decantano i benefici che il nostro paese ne trarrebbe introducendo queste istituzioni. L’incoraggiante e allettante rapporto determina il costituirsi di un’associazione di proprietari di mucche di Curio, Bedigliora e frazioni sotto la denominazione di Latteria sociale Curio-Bedigliora. Il Capodanno 1886 viene così realizzata la prima latteria sociale del Cantone con sede a Curio in zona Rozzolo. Lo statuto organico adottato da una sessantina di soci specifica: «Scopo è di manipolare in società il latte superfluo al consumo di famiglia e riportare i prodotti in burro, formaggio e ricotta a stregua del latte fornito e come disporrà il Regolamento della Latteria». Questa impresa collettiva, pionieristica per il nostro Cantone, fa subito scuola e in breve tempo vengono attivate numerose latterie sociali. L’agosto successivo, nella popolosa zona rurale del Medio Malcantone entra in funzione il Caseificio sociale BiognoBeride-Castelrotto-Ronco. Situato in posizione isolata, equidistante dai paesi che forniscono il latte è sorto in un luogo particolarmente idoneo per la lavorazione, conservazione e maturazione dei prodotti caseari – burro, formaggio e ricotta. Un torrentello fornisce la forza idrica per far girare la ruota collegata alla zangola rotatoria, una botte a forma di tamburo rotante intorno a un asse orizzontale. Si tratta di un perfezionamento meccanico della tradizionale zangola cilindrica mos-

sa a forza di braccia che serve a sbattere la crema del latte per ottenere il burro. Il caseificio, inoltre è dotato di un sistema di vasche e condutture comunicanti per mantenere fresca e costante la temperatura nel locale di conservazione e spannatura. Le forme di formaggio fresco vengono portate in una stanza attigua dotata di aperture d’areazione per un primo periodo di stagionatura e in seguito in un vano al piano superiore accanto all’alloggio del casaro. Ai primordi il trasporto del latte è reso difficile dal cattivo stato delle strade. Il latte ritirato viene pesato, registrato sul libro dei conti e sui singoli libretti dei fornitori e trasportato in latteria in un capace bidone fissato fra le ruote di un carrettino. Già nell’anno di fondazione della latteria viene effettuata la prima ispezione e nel corso del 1887 la Società cantonale di agricoltura promuove i primi corsi di caseificio. Il caseificio di Biogno-Beride-Castelrotto-Ronco cessa la sua attività bel 1942. Nel 1990 avviene la cessione dello stabile al comune di Croglio e due anni dopo iniziano i lavori di conservazione e ripristino. Nel 1997 si inaugura l’edificio come testimonianza storica del passato ed è inserito nel sentiero didattico «Tracce d’uomo» (le chiavi per accedere all’edificio possono essere ritirate al Centro scolastico di Croglio, tel. 091 608 24 75, nel periodo scolastico, oppure alla Cancelleria Comunale di Croglio, tel. 091 606 16 26, durante le ore d’ufficio). E legata al latte nel Malcantone si racconta una leggenda natalizia: la Madonna, accorsa nell’Alto Malcantone per portare conforto e soccorrere la popolazione stremata dalla carestia, mentre riprendeva la via dei monti sopra Mugena, per risalire al Cielo non ebbe anch’essa più latte per Gesù Bambino e sedette più che mai stremata e afflitta su un masso sparso di coppelle. In quel mite pomeriggio d’ottobre fra gli alberi risplendenti di vivaci colori autunnali echeggiarono fievoli belati ed ecco sbucare improvvisamente una candida capra che si accostò docilmente mostrando disponibilità a lasciarsi mungere. Il Bambin Gesù iniziò a poppare e in breve le sue pallide guancine ripresero colore. Fu così che la capra di Mugena salvò il predestinato Redentore dell’umanità. Il masso, al margine del viottolo che conduce ai gradini del Tamaro, fu tenuto in gran pregio dalle genti dell’Alto Malcantone. Esso reca oltre le coppelle alcune grezze impronte lasciate dalla Madonna, dal Bambino e dalla capra nutrice. Bibliografia

Virgilio Chiesa, Latteria Luganese 1920-1970, Lugano 1970. www.museodelmalcantone.ch


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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Dove non osarono i greci Malta deve essere l’unico posto al mondo dove uno si mette a chiacchierare con un negoziante di liquori e quello gli rivela di essere stato un agente del Mossad, i servizi segreti israeliani. «Lei di sicuro sta scherzando» deglutisce nervoso l’Altropologo, che col Mossad ha avuto un solo diciamo «incontro» anni fa durante un tentativo di colpo di stato in Ghana e dell’evento non conserva un gran bel ricordo. «Un agente del Mossad non va certo a dirlo in giro». Quello ride – una risata da mercante levantino. Il suo negozio – anzi, di suo figlio – farebbe più figura in un suq del Maghreb che al limite estremo del Corso Repubblica, la strada più chic di La Valletta impaccata di turisti. Polvere e disordine fra bottiglie scompagnate e cartoni semiaperti ingombrano il passaggio che uno non sa dove trovare cosa. Prezzi da gladiatori, come dicono a Roma, che si deve cercare sotto gli scaffali per trovare una bottiglia di gin che non ci voglia un mutuo in banca... Insomma, quello ride e fa: «Quando un agente va in pensione può anche dirlo, anzi, gli conviene farlo», insiste. La cosa mi incuriosisce: «E perché?!». Quello lancia uno sguardo

a trecentosessanta gradi tutt’attorno quella sua tana di negozio, sorvola in ricognizione il banchetto che ha sistemato in mezzo alla strada con paccottiglia di poco conto. Soddisfatto mi pianta di nuovo addosso quel suo sguardo tornato sonnolento, glissa e mi fa: «Qui a Malta mi hanno sempre lasciato tranquillo. Lo sanno tutti che è meglio così, non crede?». Ci salutiamo con un shalom – e mi faccio di nebbia nella folla del corso. Posto strano, Malta. Piantata in mezzo al Mediterraneo ad ottanta chilometri dalla Sicilia eppure distante da quella anni luce. C’è più Sicilia a New York che non a Malta e la sensazione permane anche se uno cerca di convincersi che – dati i legami storici, politici e culturali fra le due isole qualcosa in comune dovrà pur esserci. Il problema è trovarlo, quel «qualcosa». Uno allora dice: certo saranno i pastizzi, prodotti da forno dolci e salati sfornati a tutte le ore del giorno dalle innumerevoli pastizzerie. Tempo sprecato: qualche lontana analogia, qualche vago ricordo. Gli arancini sono arancini, modo siculo e dunque solo importati ma non assimilati alla cucina o alla lingua locale. Che è una lingua

fare perché aprono scenari inaspettati) che sia per un residuo, impellente bisogno di distinguersi comunque da una variazione sul tema che ha definito la sorte delle isole maltesi, poi il loro carattere, ed infine il loro diventare Nazione, costruendo una identità che sensori intelligenti sentono pulsare accanto alla cacofonia delle influenze esterne (solo) apparentemente dominanti. Provate a pensare: con la caduta del Regno di Gerusalemme fondato con la Prima Crociata, il potente Ordine dei Cavalieri Ospitalieri di San Giovanni di Gerusalemme si ritira a Cipro, e di qui nel 1309 strappa Rodi ai Bizantini per farne la base permanente e centrale dell’Ordine, che cambia la sua line of business dalla cura dei poveri e dei pellegrini alla guerra di corsa: fare i corsari rende molto di più. Quando Costantinopoli cade nel 1453 il primo obiettivo del Gran Turco è di cancellare il cancro dei Cavalieri dalle acque vicine: nel 1522, in sei mesi 200’000 turchi costringono i 7000 armati cristiani a fuggire in Sicilia. Nel 1530 il re di Spagna assegna Malta agli ex-cavalieri di Rodi come nuova sede dell’Ordine e bastione ultimo

contro il pericolo che «Alla» diventi «Allah» da Malta alle Isole Lafoten (mi spiego?). È come se da un momento all’altro il Canton Ticino fosse dato agli Americani (intendo i gringos statunitensi) con licenza di perseguire da lì i loro interessi geopolitici. Il rapporto fra i Cavalieri, allora come ora organizzazione transnazionale problematica e misteriosa, e l’Isola di Alla fu complesso, difficile – e forse ancora da capire fino in fondo. Poi la dominazione Napoleonica, quindi quella Inglese: e questi sempre lì a invocare, pregare, cantare Alla col marchio Santa Romana Chiesa. Malta è la Melita dei Romani: ovvero «L’Isola del Miele». Perché i Greci, grandi colonizzatori che spremevano sangue dalle pietre, non vi abbiano mai messo piede resta per me un mistero. Qui, già dall’Età del Bronzo, si costruivano templi su di una scala che supera di gran lunga qualsiasi altro edificio coevo in Europa. Alla u akbar – in salsa maltese, dunque? È bello pensare che i Greci avessero capito che le Isole del Miele erano Altro, e se ne siano tenuti alla larga. Di certo l’Altropologo in questo sbaglia: ma è un errore che fa pensare.

ove s’incontrano i primi, secondi e talora terzi coniugi, con i rispettivi congiunti. In questi casi accade che i bambini si chiedano «papà di chi?». In mezzo si collocano le famiglie monosessuali, dove i genitori sono due maschi o due femmine. Mutamenti così repentini possono provocare un certo disorientamento e accade che alcuni, meno adattabili, decidano di fuggire lontano, trascorrendo i giorni di festa in crociera, oppure nel chiuso di una baita di alta montagna o su una spiaggia assolata dei Caraibi. Cito per ultimi, perché non fanno notizia, i nuclei tradizionali che ricalcano la famiglia dei nonni, quella che lei ricorda come un reperto storico. Immagino che tra commensali disomogenei s’intreccino discorsi più interessanti rispetto a quelli di un tempo, che finivano spesso col parlare di interessi e di soldi, e che le vivande preparate dalle nuove famiglie comportino variazioni rispetto al menù tradizionale. Non a caso la prossima Expo è dedicata all’alimen-

tazione del mondo. Tuttavia vorrei, da «bambinologa» quale sono, assumere ancora una volta il punto di vista dei bambini che, del Natale, costituiscono i principali protagonisti. Loro, insieme ai nonni, sono i paladini della tradizione e, come tali, vogliono che i riti si ripetano, che la continuità si affermi, che la sorpresa dei regali sia incorniciata dalla stabilità della situazione e dalla consuetudine dei gesti. Quando tutto cambia, la novità si disperde nella confusione. Meglio che la cena della vigilia e il pranzo di Natale comprendano, come asse portante, i piatti tipici della zona e della famiglia. Su questa base sicura si possono introdurre variazioni marginali ma l’attesa non può essere disattesa. Proprio perché l’età evolutiva comporta continui cambiamenti, cerchiamo, come accade sulla scena teatrale, che lo sfondo rimanga stabile in modo che a muoversi siano gli attori, non il fondale. Il meglio di ogni festa si condensa nei preparativi, nella prefigurazione e nell’aspettativa di ciò che

avverrà. Quella tensione gioiosa non si dimentica più e rimane nella mente come la musica di fondo dei Natali della nostra infanzia. Nelle ricorrenze fondamentali tutto è importante, non esistono particolari insignificanti: sono importanti gli addobbi, i profumi, il modo con cui si apparecchia la tavola e si serve il cibo, come sono incartati e disposti i regali sotto l’albero. I bambini, anche se non lo danno a vedere, osservano e memorizzano tutto. Ma, più saggi di noi, sanno che il senso del Natale non risiede nelle cose ma nell’amore che le illumina e riscalda. Perciò una cosa soprattutto chiedono: di volerci tutti bene, almeno per un giorno.

ziarie di chi lo compie e per scopi non più utilitaristici. Certo, esistono ancora cani destinati a mansioni specifiche: da caccia, da guardia, al servizio di pastori, poliziotti, soccorritori, ciechi, e via dicendo. Ma, per la stragrande maggioranza dei proprietari (denominazione politicamente corretta che sta sostituendo quella di padrone) il cane significa un compagno di svaghi, una presenza viva che riempie una solitudine, un hobby stimolante o consolatorio. Ciò che chiede il tempo necessario per occuparsene e, di conseguenza, è diventato un tipico attributo della società del tempo libero. E ha rappresentato, addirittura, un sintomo di libertà politica. Negli anni 70, avevo conosciuto una Mosca senza cani: «Sono un attributo borghese», raccontavano le guide. Ora, proprio quest’aspetto, di tipo classista, è andato

perso. Possedere un cane, insomma, non è più una questione di ceto. Si tratta, piuttosto, di una scelta individuale che fa capo a motivazioni diverse: amore per il mondo animale, piacere per le camminate, bisogno di sicurezza, non da ultimo spirito di sacrificio. Il dare-avere regola anche questo rapporto, in cui il proprietario può pagare ad alto prezzo la compagnia del suo amico più fedele: diventandone schiavo. Come succede soprattutto d’estate: quando per via del cane c’è chi rinuncia a viaggi e vacanze. Ma c’è un rischio peggiore: quando si cede alle tentazioni del consumismo cinofilo. Ne è un esempio clamoroso, il reparto cani di Harrod’s, a Londra, dove è in funzione una Spa e un servizio hairstyling e manicure per quattrozampe d’alto bordo. Al di là di questi risvolti grotteschi, la proliferazione dei cani fa

vivere un fiorente settore industriale e commerciale e ha creato nuove specializzazioni professionali. Fra cui, la più praticata, in particolare da giovani disoccupati, è il dogsitter: che porta a spasso il cane, anche per svolgere le sue più intime necessità. E proprio questa cacca ha costituito, per anni, un motivo di dispute. Quante volte, mi sono sentita ripetere: «Perché non scrive un articolo sui cani che imbrattano la città?». Allarme, a quanto sembra, rientrato. I proprietari sono spesso muniti di sacchetto e paletta. Con ciò, l’avvento di questa popolazione a quattro zampe non manca di provocare situazioni imbarazzanti: nei bar, nei ristoranti, nei giardini pubblici, persino in gallerie d’arte e musei, dove vigono regole fluttuanti. Cani sì o cani no? Fatto sta che, ogni tanto, scoppia una disputa.

punico-fenicia, della famiglia semitica come l’aramaico, l’arabo e l’ebraico: sentire parlare maltese ai numerosi caffè dove i notabili del quartiere si radunano per un caffè che dura tre ore di conversazione secondo quella virtù tutta (quella sì!) panmediterranea di trovare nella conversazione tale e quale una ratio per vivere è un’esperienza straniante. Cadenza, fonetica e gestualità sono senza dubbio siciliane, o forse anche calabresi e pugliesi, se proprio vogliamo gettare larga la rete: poi uno si avvicina e – invece – invece quello «è arabo» – uno improvvisamente s’accorge (anche se non è perché semmai è l’arabo ad essere come il punico, il fenicio o il berbero prima di diventare quella lingua globale che ne ha fatto l’Islam). E lo straniamento prende ancora più forza quando uno entra in chiesa: piene di gente come l’Altropologo si ricorda fossero le chiese a Bologna fino ai primi anni Sessanta, nelle chiese parrocchiali maltesi Dio si invoca, si prega e si canta col nome di Alla. Mi domando perché «Alla» e non «Allah» e mi piace pensare (su questo vi garantisco che anche l’Altropologo si sbaglia, ma ci sono errori che val la pena

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi A Natale, indovina chi viene a cena? Cara Silvia, oltre alla varietà dei personaggi che, a Natale, portano i doni ai bambini (San Nicolao, Babbo Natale, Gesù Bambino, la Befana e, come segnala una lettrice, i Re Magi) vorrei segnalarle la varietà delle persone che siederanno alla nostra tavola per la cena della Vigilia e il pranzo successivo. Quando ero bambina i commensali eravamo noi figli, i nonni e i genitori. Ora, anche noi abbiamo tre figli ma, alla fine, ecco come si è ramificato il nostro albero genealogico. Eleonora, la maggiore, sposata con un medico italiano, verrà col marito e la figlia diciottenne, indiana, adottata quando aveva sette anni. Il secondogenito, Michele, arriverà da Buenos Aires con la moglie argentina e due gemelle di otto anni. Il terzo, Nicola, interverrà con la compagna, proveniente dal Madagascar, il figlio dodicenne di lei e il loro piccolo, di due anni. Non sembra una seduta dell’ONU? Che ne dice? / Marta

Cara Marta, dico che non ci sono più i Natali di una volta. Ma non recriminiamo perché il mondo cambia e non è detto che cambi sempre in peggio. Che s’incontrino, in un clima di convivialità e di festa, persone provenienti da varie parti del mondo costituisce una opportunità per aprire le porte della casa, della mente e del cuore. In fondo le famiglie a denominazione di origine controllata, rischiavano di soffocare per eccesso di prossimità e somiglianza. Spesso, nelle grandi occasioni, scoppiavano litigi rimasti proverbiali. Ora invece l’eterogeneità delle costellazioni familiari rende difficile fare confronti e stabilire gerarchie di merito e di valore. Ognuno vive come può e come vuole. La famiglia modello non esiste più. Infranti gli stampi della tradizione, assistiamo alla costituzione delle forme più svariate. Si va dalla taglia extra small, composta da un solo genitore con il figlio, quasi sempre unico, a quella extra large, costituita assemblando due o più nuclei familiari,

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Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Largo ai cani, nuovi concittadini Sono più di 28 mila i cani ufficialmente registrati in Ticino, come dire uno ogni dieci cittadini adulti. Questa volta, il dato statistico non stupisce. Coincide, infatti, con l’esperienza vissuta nella nostra quotidianità: dove balza all’occhio la crescente presenza di questi amici dell’uomo. Di questa convivenza offre un’immagine rivelatrice il sabato mattina in città: un momento e un luogo, destinati all’abitudine degli acquisti familiari e al rito degli incontri spontanei, fra amici, conoscenti o sconosciuti. Proprio qui, con le persone, compaiono, sempre più numerosi, i cani. Magari non soltanto uno, ma due o tre, appartenenti allo stesso proprietario, che, a volte, sentendosi osservato, spiega: «Anche loro, come i bambini, soffrono se sono unici». L’allusione ai bambini, del resto, non è campata in aria. Segno dei tempi di

bassa natalità, gli amici a quattro zampe sono chiamati, non di rado, a sostituire, sul piano affettivo, un figlio o un nipotino. Tanto da suscitare un imbarazzante interrogativo, d’ordine etico, demografico e persino religioso : c’è, insomma, un nesso fra culle vuote e canili pieni? Risposta da lasciare, evidentemente, agli specialisti del pensiero alto. Mentre, da cronisti semplicemente curiosi, ci spetta il compito di decifrare un fenomeno, sempre più diffuso, per individuare le cause che l’hanno prodotto e degli effetti che produce. Perché, la constatazione è persino scontata, questa proliferazione canina non viene dal nulla. È frutto delle concomitanze, politiche, sociali, economiche, che definiscono un’epoca. Oggi, infatti, comperare un cane rappresenta, innanzi tutto, un gesto consumistico, che dimostra le possibilità finan-


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Salame al tartufo* Italia, al banco a servizio, per 100 g


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Attualità Migros

Alimentari in viaggio Generazione M Migros trasporta le proprie derrate alimentari nel modo il più ecologico possibile.

Ecco come arrivano nelle filiali i prodotti dal Centro di distribuzione di Neuendorf

Michael West Il viaggio inizia da un luogo freddissimo. I giganteschi congelatori del Centro di distribuzione Migros di Neuendorf (in sigla: MVN) nel canton Soletta mantengono una temperatura interna di –26 gradi. Quasi tutti i prodotti surgelati che sono messi in vendita nei supermercati vengono da qui. Quando una delle 570 filiali Migros sul territorio nazionale ha bisogno di bastoncini di pesce o di gelato, l’ordinazione arriva al MVN dalla centrale della Cooperativa regionale Migros a cui la filiale appartiene. A Neuendorf le ordinazioni vengono in seguito riunite per regione ed elaborate. Dei camion frigorifero provvedono poi a recapitare le merci dal centro di distribuzione alle 10 Cooperative regionali.

Il Centro di distribuzione Migros Neuendorf AG festeggia 40 anni Migros organizza le proprie consegne nel modo più ecologico possibile. Utilizza ad esempio camion che rispetta-

no le più restrittive norme sulle emissioni di gas di scarico. Soprattutto, fa in modo di movimentare la maggior parte dei suoi prodotti con treni merci, oggi la scelta più ecologica nel campo dei trasporti. L’azienda al dettaglio è del resto da anni la maggior cliente delle FFS Cargo. Nella prima metà del 2014 ha di nuovo aumentato la quantità delle derrate trasportate per ferrovia: la somma di tutte le distanze percorse sui binari ha raggiunto i 5,6 milioni di chilometri, con un incremento del 2 per cento. Questo nuovo risultato è stato possibile perché Migros cerca costantemente soluzioni per spostare i propri trasporti dalla strada alla ferrovia. Un esempio è la gestione dei trasporti di surgelati verso la Cooperativa Migros della Svizzera orientale. Da circa due anni questi trasporti sono stati indirizzati quando possibile su rotaia: i collaboratori di MVN caricano container frigorifero con le ordinazioni ricevute. I contenitori sono poi installati su vagoni merci e vengono avviati verso Gossau, nel canton San Gallo. Solo a quel punto, grazie a delle gru sono caricati sui camion, i quali si occupano poi dello smistamento delle merci nelle filiali.

Come simbolo, una locomotiva verde Migros si impegna, ogni volta che è possibile, a trasportare i propri prodotti su rotaia: l’azienda e le FFS Cargo sono partner consolidati. «Sul il tema trasporto il commercio al dettaglio ha delle esigenze e chiede il rispetto dei criteri di puntualità» spiega Nicolas Perrin, CEO di SBB Cargo. «Ci assumiamo volentieri la responsabilità di fare in modo che i clienti Migros possano essere sicuri di trovare i loro prodotti negli scaffali». Bernhard Metzer, Responsabile logistica e trasporti della FCM, è convinto dell’importanza della collaborazione. «Per i tragitti lunghi la ferrovia è il nostro mezzo di trasporto ideale, perché intendiamo operare in modo rispettoso dell’ambiente». Come simbolo della collaborazione, dall’estate 2014 è stata realizzata la decorazione di una locomotiva con un’immagine che riprende il design di Generazione M, il programma di sostenibilità di Migros. La locomotiva verde che viaggia sui binari delle FFS non traina vagoni merci ma è usata nel traffico dei convogli per i passeggeri. In questo modo potrà essere notata da un pubblico il più ampio possibile.

Partner consolidati: il CEO di Cargo Nicolas Perrin (a destra) e Bernhard Metzger, davanti alla locomotiva con la decorazione di Generazione-M. (Basile Bornand)

Un riso vantaggioso per tutti Generazione M L’azienda della Comunità Migros La Riseria Taverne SA partecipa ad un progetto di coltivazione Bio

del riso Basmati nell’India settentrionale. I coltivatori locali ottengono garanzie di tutela speciale per la produzione Per quasi le metà della popolazione mondiale il riso rappresenta l’elemento principale dell’alimentazione. Una delle qualità di riso più pregiate, il Ba-

smati, è prodotto ancora oggi principalmente da alcuni piccoli agricoltori indiani e il raccolto è destinato nella sua quasi totalità all’esportazione. Per

raggiungere gli alti tassi di produzione necessari, i contadini delle regioni centrali e meridionali indiane utilizzano spesso concimi e antiparassitari, sostanze che sono in seguito individuabili nel riso prodotto. Nel 2010 i responsabili de La Riseria Taverne SA, azienda della Comunità Migros, si sono trovati a dover affrontare una questione fondamentale: come possiamo assicurare a Migros un approvvigionamento a lungo termine di riso sostenibile Basmati di prima qualità? «Per noi era chiaro: dovevamo trovare nuovi luoghi di produzione incontaminati» spiega Daniel Feldmann, responsabile della Riseria. Gli esperti della Riseria hanno infine trovato una risposta nell’India settentrionale, negli stati del Jammu e del Kashmir. Già dopo il primo raccolto era apparso chiaro che il riso Basmati possedeva le alte qualità richieste ed era nel contempo coltivato in modo biologico, evitando l’uso di concimi chimici

e pesticidi. Nel maggio del 2012 il riso è entrato nelle filiali Migros con la marca Mister Rice. E da inizio ottobre di quest’anno è finalmente possibile trovarlo anche sotto il marchio Bio. Per ottenere la certificazione Bio coltivazione e raccolta del riso Basmati sono state sottoposte costantemente alle istanze di controllo indipendenti di alcune agenzie locali. Contemporaneamente, gli specialisti della Riseria hanno condotto delle visite regolari alle zone di produzione, ad esempio per raccogliere campioni di terreno, che sono poi stati analizzati in Svizzera. I contadini dello Jammu e del Kashmir coltivano il riso ancora oggi come lo facevano i loro antenati. «Proprio questa arretratezza tecnologica è stata la nostra chance» conferma Feldmann. In pratica, visto che il riso di questa regione non era mai stato coltivato per l’esportazione, il terreno su cui cresceva non era mai stato esposto a una sovrapproduzione. Era ancora incontaminato.

Un ulteriore punto a favore dell’ecologia deriva dal fatto che i campi sono irrigati con le acque che arrivano dal vicino Himalaya e, oltre a questo, dalle piogge monsoniche, senza nessun bisogno di prevedere forme di irrigazione artificiale. Per questo progetto di coltivazione biologica pluriennale, la Riseria ha stretto una collaborazione con circa 750 contadini, che lavorano circa 1200 ettari di terreno. La Riseria si è impegnata a ritirare una precisa quantità del raccolto e a coprire le eventuali perdite economiche. I coltivatori ricevono, oltre a questo, un prezzo maggiorato. In futuro il modello della coltivazione di riso sostenibile e della collaborazione diretta con i piccoli contadini locali sarà ampliato ed esteso anche ad altre qualità di riso. Nel nord-est della Thailandia già oggi viene coltivato riso Jasmin Bio, disponibile nelle filiali Migros sotto la linea di prodotti Mister Rice.



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Ambiente e Benessere A Disneyland con Hotelplan Doppio viaggio per i lettori di «Azione»: uno a marzo e il secondo a maggio

Dove finì Napoleone Sant’Elena, un lembo del Regno Unito sperduto nel mezzo dell’Atlantico pagina 17

Ottimizzare l’energia L’importanza di ripensare la società dei consumi, attraverso una ricerca mirata e nuove soluzioni

Come si ama un cane? Talvolta alcune situazioni sfociano in un subdolo maltrattamento, anche involontario, dell’animale da parte dell’uomo pagina 25

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Dalla toilette al lago Ecosostenibilità Un viaggio nell’impianto di depurazione delle acque a Bioggio – Prima parte Elia Stampanoni, testo e foto Le acque luride delle nostre economie domestiche, a parte qualche eccezione in alcuni dei luoghi più discosti del cantone, finiscono nei ventisette impianti di depurazione distribuiti sul territorio ticinese. Sono di diverse dimensioni, ma tutti eseguono un trattamento meccanico e biologico delle acque, a cui si aggiungono, per alcuni, altri trattamenti specifici. Quello di Bioggio – assieme a quello di Rancate e del Pian Scairolo – è tra i più completi e all’avanguardia. Inaugurato nel 1976, ha subito un rinnovo nel 1995 ed è tuttora in una fase di ammodernamento. A Bioggio, ci spiega il direttore Laurent Kocher (nella foto), arrivano ogni secondo tra 800 (tempo secco) e 3 mila litri (con pioggia) di acque luride, convogliate verso il depuratore tramite 90 chilometri di canalizzazioni consortili, a cui si aggiungono quelle comunali. Queste condotte raccolgono gli scarichi della Valle del Vedeggio, della grande Lugano, della Bassa Capriasca e di Agno. Undici stazioni di pompaggio aiutano invece a superare eventuali dislivelli nella rete d’adduzione. I flussi dipendono dalle condizio-

ni climatiche e i 52 bacini di ritenzione possono fungere da tampone. Però, con piogge importanti e persistenti – come quelle di qualche settimana fa – le vasche non ce la fanno più e l’acqua (sporca) deborda nei fiumi e poi nei laghi. La sporcizia passa direttamente dalle case all’ambiente, senza poter passare dal depuratore. Per questo è ancor più importante che negli scarichi non finiscano sostanze inquinanti o rifiuti da destinare al sacco dell’immondizia o alla raccolta separata. Presto, con la chiusura del depuratore della Stampa prevista nel 2015-2016, anche gli scarichi di tutta la Valcolla e della Capriasca confluiranno a Bioggio, un impianto che permette di rendere innocua l’acqua (per l’ambiente) prima di immetterla nel fiume Vedeggio. Il procedimento prevede diverse tappe e tutto comincia con una separazione meccanica, dove delle griglie (con maglie di tre centimetri) fermano tutti quegli oggetti grossolani che, come ci indica Laurent Kocher, «Non dovrebbero neppure finire nelle fognature. Troviamo spesso stracci, pannolini e altri oggetti impensabili». Una volta superato il primo ostacolo, l’acqua passa in quattro grosse

vasche, dove viene pulita da sabbia e sostanze oleose. La prima viene aspirata dal fondo dove si deposita, mentre gli oli vengono spazzati in superficie, dove galleggiano. All’uscita sono poste altre griglie, questa volta più strette (maglie di otto millimetri) che trattengono le materie fini, per esempio i mozziconi di sigarette che ancora troppo spesso finiscono negli scarichi. La depurazione procede quindi all’esterno, a cielo aperto, in diverse vasche. Si comincia con la decantazione primaria dove, tramite sedimentazione e altri procedimenti, si recuperano inizialmente i fanghi freschi, ossia sedimenti di sabbie fini, argille, carbonati e materiale recuperato sul fondo. Il passo seguente richiede l’aiuto di microorganismi, i quali lavorano in assenza d’ossigeno e trasformano i nitrati (denitrificazione). Il procedimento si completa con l’ossidazione, dove altri batteri, questa volta in presenza di ossigeno, generano anidride carbonica e forme d’azoto innocue, stabili e non dannose all’ambiente. Per garantire la corretta ossidazione, vengono soffiate delle bolle d’aria e la giusta concentrazione viene monitorata con delle sonde. Nella decantazione finale, a diffe-

renza delle altre, l’acqua scorre trasversalmente, permettendo di recuperare i fanghi depositati sul fondo. Il materiale viene in parte rimesso in circolo nelle vasche precedenti così d’assicurare una flora di microrganismi, mentre il restante è smaltito assieme ai fanghi di depurazione. L’acqua è ora decisamente più limpida e, tramite due grosse viti d’Archimede, viene trasportata nel nuovo edificio per la filtrazione. Qui si riescono a togliere ancora altre impurità e soprattutto tanto fosforo. Per risolvere il problema dell’eutrofizzazione dei laghi dovuta all’eccesso di fosforo, le direttive federali stabiliscono un valore limite di 0,8 mg di fosforo per litro, ma il cantone Ticino l’ha abbassato a soli 0,2 mg per litro. Un valore agevolmente rispettato a Bioggio, documentato dalle analisi eseguite giornalmente in entrata e in uscita, il tutto a tutela del Ceresio e degli habitat a esso connessi. La fase di filtrazione, in funzione con l’ampliamento del 1995, prevede il passaggio in strati di sabbia e migliora notevolmente la qualità dell’acqua. Del procedimento ne beneficia soprattutto il golfo di Agno, dove la balneazione è sempre garantita. Per meglio protegge-

re i bagnanti, nel periodo estivo viene eseguito un ulteriore trattamento (acido paracetico) che annienta la quasi totalità della carica batterica. Le scorie raccolte durante i vari processi, i fanghi di depurazione, vengono convogliate nei digestori, ossia due stanze di 2400 metri cubi ciascuna. Qui, in un ambiente con una temperatura costante di 32°C, grazie all’azione di vari microorganismi, la materia organica si trasforma in sostanze minerali e soprattutto in biogas. Un gas utilizzato per produrre elettricità e per riscaldare, risparmiando circa 500 mila litri di gasolio all’anno (è in costruzione un nuovo co-generatore che permetterà di ottimizzare il recupero di energia). Dopo quest’ultimo procedimento rimangono solamente pochi scarti, circa 40 tonnellate al giorno, che vengono trasportati a Giubiasco per essere smaltiti nel termovalorizzatore. Il depuratore di Bioggio funziona ininterrottamente giorno e notte, sempre monitorato da un sistema di vigilanza che segnala eventuali danni o problemi, sia in sede sia all’esterno, nelle diverse strutture correlate, come canalizzazioni, bacini di ritenzione e stazioni di pompaggio.



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Ambiente e Benessere

L’isola più remota del mondo Viaggiatori d’Occidente A Sant’Elena tutto potrebbe cambiare nel 2015, a 200 anni dall’arrivo di Napoleone Ornella D’Alessio L’isola di Sant’Elena, a metà strada fra le coste dell’Africa e quelle del Sudamerica, è lontana da tutto: 740 miglia dall’aeroporto più vicino sull’isola di Ascension, 1800 miglia da Città del Capo in Sudafrica, 1000 miglia dall’Angola e 2000 miglia dal Brasile. Sono ben pochi i posti abitati così isolati e difficili da raggiungere. Il conte Emmanuel de Las Cases, che nel suo famoso Memoriale di Sant’Elena raccontò l’esilio di Napoleone su quest’isola sperduta, la definì una specie di nave sul mare. E allo stesso tempo il Royal Mail Ship Saint Helena, l’ultima nave postale britannica ancora in funzione, può considerarsi a sua volta un pezzo d’isola in mezzo al mare, ma soprattutto l’unico collegamento con il resto del mondo. L’imbarcazione della corona porta le merci, l’abbondante alcol che si consuma nei tre pub dell’isola (e non sembra durare mai abbastanza prima del prossimo arrivo), la speranza di salvezza per chi si ammala e deve essere evacuato, e infine i corpi di coloro che vengono riportati sulla loro isola-prigione per esservi sepolti. Questo almeno fino al 2016, quando entrerà in funzione il nuovo aeroporto. Arrivare sull’isola è impegnativo anche perché non c’è un vero porto: la nave sta all’ancora e si sbarca a terra con piccole scialuppe a motore. Un’operazione semplice che, secondo gli umori dell’oceano, può però diventare acrobatica.

A bordo della Royal Mail Ship Saint Helena. (Sergio Ramazzotti)

Sant’Elena, 16 km di lunghezza e 12 km di larghezza, è un lembo di Regno Unito sperduto nel mezzo dell’Atlantico; quasi per riaffermare questo legame, due volte l’anno la nave RMS St. Helena attraversa l’oceano alla volta dell’isola di Portland, nel Canale della Manica. I collegamenti con Cape Town sono invece molto regolari: cinque giorni di navigazione per andare, cinque per tornare e otto giorni sull’isola, tempi perfetti per cogliere il ritmo isolano. È un viaggio per pochi, e lo si comprende già all’imbarco sulla nave. Es-

sendo una nave-cargo privilegia lo spazio per le merci, al quale si aggiungono solo 132 cabine, occupate soprattutto dagli abitanti che rientrano a casa, e in questo periodo dagli operai dell’aeroporto e da qualche sparuto turista. Durante la navigazione nascono nuove amicizie, il tempo per fare conoscenza non manca, così quando si visita l’isolapiù-remota-del-mondo capita spesso di incontrare visi già conosciuti durante la traversata. Dal mare, l’isola di origine vulcanica appare aspra e invincibile, come una fortezza, e per questo gli inglesi

l’hanno scelta per l’esilio dei loro nemici: Napoleone certo, ma anche cinquemila boeri e il re degli Zulu. E risiede pure in questo il suo fascino. Tre quarti delle coste sono a picco sul mare e solo avvicinandosi si intravede l’unico lato pianeggiante. Qui, in una piccola insenatura, nel XV secolo è nato il primo insediamento fortificato e protetto da mura, James Town. A breve distanza si trovano la piccola prigione, spesso sovrappopolata, la stazione di polizia, il parlamento e la più antica chiesa dell’emisfero sud, risalente al 1774. La vita si svolge lungo la doppia fila di case colorate, che sprigionano ancora quel sapore coloniale. Sulla via principale si affacciano anche le due radio locali e i pochi negozi, che per la povertà delle merci esposte ricordano molto quelli europei nel dopoguerra. Sull’isola non viene prodotto più nulla, a parte una piccola coltivazione di banane insufficiente al fabbisogno locale; è molto più pratico fare arrivare tutto da Cape Town. Da non perdere il giro di James Town con la guida-poeta George Basil, che spiega come sull’isola «i fantasmi sono tutti fuori dall’armadio», nel senso che tutti sanno tutto di tutti. E non è difficile capirlo. Nonostante non funzionino i cellulari, ma solo i telefoni fissi, comunicare non è un problema: grazie al passaparola qualsiasi genere d’informazione arriva agilmente sino all’altro capo dell’isola. La principale attrazione per i turisti e per i velisti di passaggio è Jacobs

Ladder, una ripidissima scalinata che collega la cittadina alla collina di Ladder Hill attraverso 699 gradini, altamente sconsigliati a chi soffre di vertigini. Ma una volta giunti in cima, la vista spazia sull’infinito. Oppure si può girare per l’isola con un’auto a noleggio e fare sosta nelle poche spiagge accessibili. Gli abitanti sono quattromila soltanto: sono i discendenti dei primi coloni inglesi, degli esiliati, dei manovali cinesi arrivati dalle Maldive, degli schiavi liberati provenienti dal golfo di Guinea. Entrare nella vita sociale non è difficile, almeno in superficie. Dopo otto giorni, alla partenza, si ha però l’impressione di lasciare amici di sempre. Tutto potrebbe cambiare nel 2015, anno del bicentenario dell’arrivo di Napoleone. Per questo grande evento Michel Dancoisne-Martineau, il console onorario di Francia residente sull’isola da 30 anni, si è dato un gran da fare per rimettere in ordine i possedimenti francesi sull’isola, acquistati nel 1858 da Napoleone III. Per esempio la residenza–museo di Longwood, dove l’imperatore morì nel 1821, o la tomba a Sane Valley, un luogo intimo e suggestivo dove Napoleone fu sepolto prima che la salma venisse traslata in Francia nel 1840 e posta sotto la cupola dorata della cattedrale di Saint-Louis des Invalides. Di certo tra anniversari e nuovo aeroporto ci sono molti cambiamenti in vista e chissà se un giorno qualcuno rimpiangerà la Sant’Elena che ho conosciuto, remota e per pochi.

Si moltiplicano i numeri… verdi Motori È tempo di bilancio anche per le automobili elettriche Mario Alberto Cucchi In dicembre è tempo di bilanci anche per le automobili elettriche. Da 554 auto vendute nel 2010 alle 36’258 del 2013. Numeri che potrebbero raddoppiare nel 2015 e che sono già il triplo di quelli del 2011. Numeri che riguardano le vendite europee, concluse in alcuni casi grazie anche alle incentivazioni all’acquisto e a una rete di rifornimento con colonnine in continua crescita. I risultati di oggi sono frutto delle ricerche di ieri. Lo sa bene il gruppo automobilistico Kia che ha cominciato a investire nella ricerca per sviluppare tecnologie alternative circa vent’anni or sono. In questi giorni arriva nelle concessionarie la nuova Kia Soul EV ovvero il primo prodotto al cento per cento elettrico esportato dal costruttore coreano in Europa. Soul è un modello di successo, un crossover, ovvero un veicolo trasversale

a metà tra monovolume, suv compatto e station wagon. La versione dotata della motorizzazione elettrica si differenzia da quella tradizionale per una maggiore ricerca aerodinamica. Paraurti di nuovo disegno, cerchi in lega lenticolari e mascherina anteriore chiusa, che nasconde la presa di ricarica convenzionale e quella trifase. Esclusiva anche la colorazione bianca con tetto azzurro che la rende unica e distinguibile immediatamente. Nell’abitacolo sono stati utilizzati materiali bio: antibatterici, atossici e ovviamente riciclabili al 100 per cento. Autonomia residua e punto di ricarica più vicino vengono segnalati dalla strumentazione digitale di bordo. Il motore elettrico, in grado di erogare una potenza massima di 110 cavalli, consente riprese quasi da auto sportiva grazie anche alla coppia costante di 285 NewtonMetro. Basta innestare la D nel selettore del cambio automatico per scattare nel silenzio più assoluto.

Kia Soul EV ha un’autonomia di 212 chilometri con tempi di ricarica che vanno dai 33 minuti in modalità trifase rapida a un massimo di 13 ore da presa domestica e con batteria completamente scarica. 27 kWh è la capacità che è abbinata a un peso di 282 chilogrammi, il pacco batterie più leggero della categoria. Tra le chicche c’è la climatizzazione programmabile. In pratica si può raffreddare o riscaldare l’abitacolo preventivamente mentre la vettura è in ricarica per poi trovarla già alla temperatura perfetta. Su www.kia.ch sono mostrati dei prezzi indicativi-provvisori: si parte da 36’900 franchi per la versione Trend sino ad arrivare a 39’900 della Kia Soul EV Style. Per entrambe, la garanzia è di sette anni. Mentre noi diamo il benvenuto a una nuova vettura ecologica la rivista «Car and Driver» – www.caranddriver. com – dà l’addio a un’altra scrivendo che Audi avrebbe definitivamente cancellato

La nuova Kia Soul EV.

dalla gamma la versione ibrida della A6 che nascondeva sotto il cofano un motore benzina 2.0 TFSI abbinato a un motore elettrico per ottenere consumi limitati a 6,2 litri/100 km. Lanciata sui mercati nel 2011 non ha mai soddisfatto le previsioni di vendita. Basti pensare che in tre anni hanno trovato un proprietario solo 4 mila esemplari di cui l’80 per cento nel continente asiatico. Forse anche per questo il Gruppo Volkswagen crede fermamente nell’Oriente. Nei prossimi anni

la Casa tedesca farà debuttare in Cina oltre venti novità tra elettriche pure o ibride plug-in. Ad annunciarlo è stato il responsabile delle attività cinesi del Gruppo tedesco, Jochem Heizmann. Il manager ha parlato da Shanghai, dove Volkswagen ha illustrato la campagna per promuovere la mobilità eco-sostenibile nel Paese della Grande Muraglia. La maggior parte delle novità di prodotto ecologiche sarà assemblata negli impianti locali gestiti in joint venture con First Auto Works e Saic.


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Ambiente e Benessere

Ottimizzazione dei consumi in casa nostra Scienza L’intelligenza artificiale ci aiuta a risparmiare acqua ed elettricità Loris Fedele Il recente dibattito sulla strategia energetica 2050 della Confederazione e le decisioni votate al Nazionale hanno sostanzialmente ribadito che bisogna ridurre le importazioni dall’estero e migliorare l’efficienza energetica delle nostre case, e non solo con la riduzione dei consumi. Circa i tre quarti dell’energia consumata in Svizzera sono di origine fossile; il quarto rimanente è costituito dall’energia elettrica, prodotta al 60 per cento dai nostri impianti idroelettrici e al 40 per cento dalle centrali nucleari: su questa fonte energetica si è deciso di intervenire subito. Nel 2013 le fonti rinnovabili davano poco più dell’1 per cento e la volontà espressa, anche con incentivi federali, è quella di aumentarne massicciamente l’utilizzazione. Come fare per raggiungere l’obiettivo è una questione aperta e in continuo divenire, soprattutto tenendo presente che si vuole rinunciare alla fonte nucleare nel medio periodo. Sappiamo che i tempi della politica sono lunghi, ma sappiamo anche che in questi anni i progressi tecnologici stanno avanzando a una velocità mai vista prima. Il ruolo dei tecnici nell’offrire soluzioni pratiche per la nostra vita futura è quindi molto rilevante. Presso la SUPSI (Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana), l’IDSIA (Istituto Dalle Molle di studi sull’intelligenza artificiale), oltre a svolgere un’attività didattica, possiede una doppia anima, accademica e applicativa. «Con il Fondo nazionale facciamo tanta ricerca e anche con le aziende», dice il direttore Luca Maria Gambardella. «Le idee più originali le portiamo sul territorio con progetti concreti. Non abbiamo bisogno di correre in giro a cercar specialisti: dall’idea all’applicazione, abbiamo tutto dentro l’Istituto». Per la corrente elettrica quale sarà l’impatto delle energie rinnovabili alternative sui sistemi tradizionali di gestione dell’energia? I tecnici in questi anni stanno analizzando con

attenzione alcuni scenari. Si è da poco concluso il progetto Swiss2Grid (S2G) lanciato nel 2010 dall’ISAAC (Istituto sostenibilità applicata dell’ambiente costruito) in collaborazione con altri istituti della SUPSI, tra i quali l’IDSIA. Una ventina di abitazioni nella zona di Mendrisio, con a disposizione delle auto elettriche e dotate di pannelli fotovoltaici che fornivano loro l’elettricità, sono state protagoniste e cavie del progetto pilota. Le case fotovoltaiche consumano energia ma anche la producono, in una quantità che non è sempre prevedibile e che varia nel corso della giornata. Queste case potrebbero riversare nella rete energia in esubero oppure richiedere improvvisamente un approvvigionamento straordinario, creando così problemi alla rete di distribuzione. Oggi, sulla base delle previsioni del consumo giornaliero, le aziende elettriche hanno a disposizione impianti diversi che lo possono soddisfare. Inoltre distinguono tra quella che è la potenza di base, da fornire lungo tutto l’arco della giornata, e la potenza di picco, che si verifica nei momenti di forte consumo collettivo. Solitamente nei picchi dei momenti critici, l’energia sul mercato costa di più. L’IDSIA è stato chiamato proprio a trovare degli algoritmi che potessero risolvere questi problemi, ottimizzando il funzionamento globale, facendo risparmiare sia l’utente sia l’Azienda. Un algoritmo è una sequenza ordinata di passi, operazioni o istruzioni elementari, che porta a un risultato ben determinato. I tecnici sono partiti dall’osservazione che alcune attività tipiche degli usi domestici dell’elettricità potevano essere spostate da una fascia oraria a un’altra senza colpire il confort dell’inquilino e, in più, livellando i picchi di produzione. Per questo hanno creato un algoritmo che è stato installato nelle case sul contatore. L’algoritmo riconosce e incamera le abitudini del padrone di casa, sa quando attiva il boiler per farsi una doccia, quando fa partire la lavatrice, quando solitamente mette in carica l’auto elettrica e così via. Sulla base delle sue misure prevede lo

Luca Gambardella e Andrea Rizzoli. (Stefano Spinelli)

stato della rete, se si avrà carenza o surplus d’energia, e decide quindi se deve far partire o posporre una determinata operazione. Il dispositivo legge tutte le situazioni e automaticamente inserisce, di volta in volta, un apparecchio piuttosto che un altro. Nel trovare la soluzione ottimale tiene anche conto di eventuali vincoli dettati dalle esigenze dell’utente. La sperimentazione ha mostrato che la presenza dell’algoritmo mitiga considerevolmente i problemi di violazione della tensione sulla rete causati dalla presenza diffusa di impianti fotovoltaici. Senza l’algoritmo, i problemi sarebbero sorti quasi subito. Però se in futuro tutte le case dovessero possedere impianti fotovoltaici l’algoritmo da solo non basterebbe e sarebbe essenziale che agli impianti fossero accoppiate numerose batterie di accumulo per immagazzinare l’energia prodotta in eccesso. «Anche l’utente singolo può avvantaggiarsi dei nostri dispositivi intelligenti – afferma Andrea-Emilio Rizzoli, responsabile per l’IDSIA del progetto – per esempio sfruttando in maniera del tutto trasparente la tariffa bi-oraria: l’algoritmo si preoccuperebbe di

caricare l’auto elettrica o di riscaldare il boiler nel momento in cui l’energia è meno costosa». Usciti dalla fase di sperimentazione per l’IDSIA si è aperta una fase di industrializzazione del prodotto, con il coinvolgimento di una importante impresa fornitrice di servizi energetici. Un altro progetto nel quale è coinvolta è un progetto europeo che mira a capire come si possa influire sulla domanda di acqua per uso urbano, utilizzando tecniche diverse, che possono essere l’incremento della consapevolezza dell’utente e anche tariffe dinamiche che si adattino ai momenti della giornata. Invece di modificare l’offerta d’acqua, molto diversa nei vari Paesi, si potrà modificare il comportamento degli utenti motivando le persone? Da noi vi è abbondanza d’acqua, per cui la gente si preoccupa poco dei consumi globali. Ma in nazioni europee più grandi e meno fortunate dal punto di vista idrico una sensibilizzazione della popolazione, con dati alla mano, può diventare importante. Lo studio dell’IDSIA, ancora sotto la responsabilità di Andrea Rizzoli, viene condotto a Tegna e in un quartiere della città di Londra.

Nel comune delle Terre di Pedemonte si stanno montando nelle abitazioni gli smart meter che sono dei contatori dell’acqua intelligenti, dotati di un algoritmo, capaci di darci un’informazione sul consumo giornaliero attribuendolo ai diversi apparecchi, così che uno possa capire quanto ha consumato con la lavatrice, quanto con la doccia, quanto con altri usi. I dati sono inviati all’azienda installatrice, che cofinanzia il progetto, e possono essere confrontati con i consumi di altri utenti con situazioni abitative simili. Oltre a sensibilizzare il singolo sui suoi consumi d’acqua, l’operazione permette all’azienda installatrice (che sfrutta anche i contatori elettrici per la trasmissione dei dati) di misurare e prevedere i diversi tipi di forniture che saranno fatte in quell’area. 200 dispositivi sono già stati piazzati ed entro marzo 2015 dovrebbero diventare 400. A Londra per ora sono 4 o 5 volte tanto, ma una grande azienda europea di distribuzione di acqua, che cofinanzia il test, intende installare entro il 2020 alcuni milioni di smart-meter, con un investimento di 300 milioni di sterline. Tornando a noi: si sta pensando che con i contatori intelligenti si potrebbero inserire nella bolletta dell’acqua degli elementi di gioco, come un punteggio che dipenda dal consumo individuale e che possa essere inserito in una classifica che premi i più virtuosi. Si aggiungerebbe così alla consapevolezza un elemento ludico di competizione. L’ultimo tassello di questo progetto è un gioco di carte, che sarà pronto il prossimo gennaio ed è destinato ai ragazzi delle scuole elementari. Per come è concepito il gioco, il quale conterrà anche domande sull’acqua e sui consumi, costringerà i genitori ad aiutare i figli e questo permetterà di veicolare la sensibilizzazione sui problemi a tutte le generazioni. Rizzoli, mosso da forte idealismo, ribadisce che la società dei consumi va ripensata e che, sia per quanto riguarda l’energia elettrica sia per il consumo dell’acqua, «bisogna lavorare per dare una chance alle generazioni future». Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Le sfiziose polpette Bacco a tavola I vini migliori da abbinare sono molti, l’importante è che abbiano tutti

Davide Comoli «Le polpette al pomodoro, che né tu né io assaggeremo più in questo modo, non venivano confezionate, ma servite in due modi diversi. La tua povera madre le mangiava calde e senza salsa; io fredde e col piatto ricoperto fino agli orli di pomodoro». Con queste parole, sotto forma di lettera, il poeta Umberto Saba (1883-1957), nella cornice famigliare di Trieste, scrive alla figlia Linuccia, rievocando con intenso affetto la figura scomparsa della moglie e le sue polpette al pomodoro, così misteriosamente squisite perché Lina ci metteva tutto il calore e l’amore di cui era capace. La carne trita ha sempre goduto di una pessima fama, anche a causa di certe preparazioni non proprio ortodosse: si pensi ad alcuni riciclaggi di certe trattorie nelle quali la «trita» era introdotta proprio per utilizzare gli avanzi. Le polpette sono delle preparazioni di carne, pesce o verdura macinati e possono avere, come base, alimenti crudi o già cotti. Questo secondo tipo è il più diffuso ed era usato tradizionalmente per riciclare gli avanzi in tempi in cui il cibo non abbondava e non esistevano gli odierni sistemi di refrigerazione. Nonostante il carattere del cibo povero, anche questo genere di polpetta ha acquistato una sua dignità gastronomica. All’antichissima arte di preparare le polpette, nei trattati di cucina dell’antica Roma, Apicio, dedica ai cibi preparati con carne trita una curiosa Hit-

Parade: «Le polpette di pavone hanno il primo posto, se son cotte in modo da renderle tenere; quelle di fagiano hanno il secondo, quelle di coniglio il terzo, quelle di pollo il quarto e quelle di porcellino da latte l’ultimo, ma per chi vuol osare ecco la ricetta delle polpette di carne (Apicio, 48) (…)». Segue la ricetta in latino che, tradotta, suona pressapoco così: «Prendete carne trita (di maiale se volete essere più vicini al sapore originale) impastatela con la mollica messa a bagno nel vino e pestate il composto nel mortaio. Unitevi del pepe pestato con un po’ di “garum” e delle bacche di mirto. Tritate dei pinoli e uniteli alla carne come ripieno. Avvolgete ogni polpettina in rete di maiale e fate cuocere adagio in vino cotto». L’uso della carne trita ha dunque una sua storia e origini molto antiche (ivi comprese molte nefandezze altrettanto antiche di certi cuochi), ma andiamo a ricercare qualche aspetto curioso. Spostiamoci nell’anno 1100 dell’era cristiana. In tutto il Medio Oriente un condottiero Temugin, che verrà chiamato «Gengis Khan», (Signore Oceanico), sta portando le sue organizzatissime truppe alla conquista di un immenso impero. Ma per far muovere migliaia di guerrieri nei lunghi trasferimenti incominciano a sorgere problemi di approvvigionamento. Mentre l’esercito che traversa il Tibet per arrivare fino a Pechino non ha problemi tra le nevi, per quanto inerenti alla conservazione della carne, i problemi sussistono in pianura nell’attraversamento dei deserti.

A Samarcanda, dove il Khan ha il suo quartier generale e la sua capitale, opera nella sua chiamiamola «équipe d’esperti», un medico lombardo, perseguitato nel suo paese per aver sposato una donna di religione ebraica. Questo rifugiato mette al servizio di Gengis Khan le sue conoscenze mediche, organizza ospedali da campo, cura i bambini e tra le altre cose cerca di risolvere il problema delle vettovaglie di carni senza che deperiscono. Proprio a Samarcanda nasce uno dei piatti che oggi consumiamo con piacere: carne cruda, ben speziata, messa a macerare con il vino dopo essere stata trita con diversi sistemi (tutti conoscono la leggenda della carne sotto la sella) e condita al momento di essere consumata con sale e pimenti. Nasce anche un primitivo modo di liofilizzare la carne tritata, seccandola e mescolandola con sale fino. Quando i Crociati, alleati di Gengis Khan (che era cristiano nestoriano), restano assediati in Damietta, ecco che gli alleati Mongoli e Tartari affidano a stormi di piccioni viaggiatori dei piccoli sacchetti «con polvere di carne» legati alle zampette, in modo che le polpette volanti possano raggiungere la guarnigione affamata e portare un minimo di conforto. Secoli dopo, saranno gli Arabi a usare lo stesso stratagemma durante l’assedio di Granada, sapendo che gli arcieri spagnoli mai avrebbero scoccato frecce contro piccioni bianchi, un simbolo della divinità. Ancora oggi attraverso il retaggio Arabo, nel sud della Spagna, troviamo le albóndigas, polpet-

Edsel Little

una buona e lunga persistenza gusto-olfattiva

te di carne il cui nome proviene dall’arabo al-búnduqa (la nocciola, la palla). Nella zona Insubrica, invece, le polpette vengono chiamate «mondeghili» un nome di origine spagnola, il che fa pensare – ma non ci sono documenti che lo comprovano – che l’uso di ritrattare le carni avanzate fosse venuto con quegli hidalgos un po’ a corto di denaro, quegli stessi che nella Napoli del Seicento erano chiamati «bisogni» (bisoros) perché bisognosi di tutto. La scelta del vino da abbinare varia a secondo del tipo di polpetta che abbiamo preparato (carne, pesce, verdure e così via) e siccome ne esistono di ogni sorta vien da sé la vasta scelta nel mondo dei vini. Bianchi e rosati di buona struttura, freschi, sapidi e abbastanza caldi o rossi non troppo caldi d’alcol,

tannini non aggressivi, alle volte magari un po’ frizzanti, ma tutti con una buona e lunga persistenza gusto-olfattiva. Con polpette di maiale, mortadella o pistacchi, consiglieremo quindi un Lambrusco Salamino frizzante; con i classici spaghetti con le polpettine (ci ricordiamo i momenti passati al ristorante da Mamma Leone a New York) non può mancare un Chianti dei Colli Fiorentini. Una profumata Schiava accompagnerà in modo perfetto i classici Knödel alla tirolese e alle classiche svizzere sposeremo un nostro Merlot Ticinese. Un Ravello rosato Campano ben s’abbinerà alle delicate polpette alla marinara, mentre un Vermentino di Levante bagnerà le polpette al basilico. Un Dolcetto sarà il delicato compagno ideale delle polpette di coniglio con spinaci. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

«Sono intollerante. Non mi piace» Gastronomia L’abuso indiscriminato del termine intolleranza sta rischiando di far abbassare

Da pochi giorni in Europa è diventata operativa una legge che impone ai ristoratori di indicare in un apposito documento l’elenco dei cibi proposti e i loro componenti, per permettere ai clienti di verificare se alcune delle sostanze utilizzate possono generare loro allergie o intolleranze. Quante siano le persone che soffrono di queste patologie è difficile dirlo, dato che molte lo sono, magari in maniera blanda, e non lo sanno. Si parla comunque a livello europeo di un dieci per cento di persone che soffrono a vario livello di allergie e gli intolleranti sono di più. Vediamo di ragionarci un po’. L’allergia è una malattia mediata dal sistema immunitario e provocata da fattori genetici ma anche ambientali. I soggetti allergici reagiscono a certe sostanze presenti nei cibi (allergeni) producendo proteine chiamate anticorpi, che possono provocare una serie di sintomi quali dermatite, rinite e asma, fino ad arrivare anche al pericolosissimo e talvolta mortale shock anafilattico, persino con l’assunzione di minime dosi di allergeni. In genere chi ne soffre lo sa e quindi porta con sé medicinali per l’emergenza, anche se è sempre prudente correre in ospedale. Le intolleranze alimentari, al contrario delle allergie, non coinvolgono il sistema immunitario. Nel caso delle intolleranze la dose di alimento deve essere significativa per provocare le reazioni dell’organismo, e in genere queste sono di tipo gastrointestinale e dermatologico, ma le manifestazioni violente sono assai rare. È più difficile però, rispetto alle allergie, scoprire se e a cosa siamo intolleranti. Esiste poi una malattia, la celiachia, scatenata in persone geneticamente predisposte dal glutine, la componente proteica di alcuni cereali (frumento, segale, orzo, farro ecc).

Sapere se una preparazione è venuta anche marginalmente a contatto con glutine è fondamentale per i celiaci. In ogni caso ci troviamo confrontati con un’«epidemia» epocale. Se avete, quindi, qualche dubbio correte da un medico e fate tutti i test: saperlo vi permette di vivere meglio rischiando meno. Diamo pertanto il benvenuto a questa legge che riduce – eliminare è una parola grossa… – il rischio per chi soffre a causa di tali patologie. Ma dopo il dramma c’è la farsa. La farsa è che oggi non è più politicamente corretto dire: questo ingrediente non mi piace. Tutti noi sappiamo che esistono vari ingredienti non graditi da molte persone: come per esempio le frattaglie, oppure l’aglio, o ancora le cipolle. Ma ben pochi oramai, soprattutto nei ristoranti, dicono: «questo ingrediente non mi piace». No, dicono: «ne sono intollerante», spesso riferendosi a ingredienti che mai e poi mai potrebbero generare intolleranza. Tanti ristoratori mi raccontano di scene che sarebbe giusto definire comiche in relazione ai clienti che li interrogano su cosa ha usato per preparare i suoi piatti e la frase conclusiva ricorrente spesso è: «ne sono intollerante!». Anche a me succede con i miei ospiti, a volte, ma alla mia (perfida…) domanda: «mi dispiace per te, ma quali test hai fatto?», molti non rispondono: i test veri non li hanno proprio fatti. Questo gioco un po’ comico rischia di creare un problema serio già in atto: quando arrivano gli intolleranti veri, troppi ristoratori pensano inevitabilmente che si tratti della solita storia, abbassando la soglia di attenzione. Un comportamento ridicolo sta quindi minando la sicurezza di molti intolleranti – che lo sono sul serio – per non parlare di chi è addirittura allergico. Non giochiamo quindi con la parola intollerante, esagerandone l’uso.

CSF (come si fa)

Sandstein

Allan Bay

Keystone

il livello di sicurezza nei ristoranti

Le feste si avvicinano e senza dolci non sono vere feste: vi propongo quindi le ricette di due mitici dolci della grande tradizione austriaca, il Mohr im Hemd e la super mitica Linzer Torte. Ecco come si fanno. Mohr im Hemd. Ingredienti per 6 persone. 70 g di burro, 4 uova, 70 g di cioccolato grattugiato, 70 g di mandorle grattugiate, 70 g di zucchero semolato, 60 g di pane grattato. Poco burro e zucchero per le forme. Panna da montare per guarnire.

Sciogliete il cioccolato a bagnomaria. Montate per bene il burro con il frullino elettrico aggiungendo uno a uno i tuorli e il cioccolato fuso. Miscelate il pangrattato con le mandorle e tenete da parte. Montate a neve i bianchi con lo zucchero. Aggiungete poco alla volta e alternando il pangrattato miscelato e i bianchi montati, miscelando con la frusta a mano. Ungete delle forme da budino con burro, zuccheratele, aggiungete l’impasto riempiendo solo metà e cuocete a bagnomaria con acqua già calda in forno a 90° per 1 ora. Servite tiepido guarnito con panna montata. Linzer Torte. Ingredienti per una torta da 24 cm di diametro. 250 g di farina, 250 g di mandole oppure nocciole grattugiate, 250 g di burro, 250 g di zucchero, 1 uovo, 1 cucchiaio di

cacao, cannella, polvere di chiodi di garofano, abbondante confettura di ribes o di lamponi (g 200), kirsch oppure rum, 1 tuorlo amalgamato con 1 cucchiaio di latte. Impastate velocemente la farina con il burro tagliato a dadi, le mandorle, lo zucchero, l’uovo, il cacao e le spezie. Formate una palla, avvolgetela in plastica da cucina e lasciatela riposare in frigorifero per 1 ora. Foderate con carta da forno la base di una tortiera apribile e aggiungete metà dell’impasto. Con l’altra metà fate rotolini da 1 cm di diametro. Sigillate la circonferenza dalla torta con parte dei rotolini. Spalmate la confettura mista al kirsch sulla torta e coprite a rete col resto dei rotolini. Ungete la pasta col tuorlo amalgamato. Cuocete in forno a 160° per 60’.

Manuela Vanni

Oggi una crema di asparagi, decongelati – dato che in questa stagione non si trovano freschi – e un riso saltato all’orientale, ma senza la salsa di soia.

Manuela Vanni

Ballando coi gusti

Crema di asparagi e cannellini

Riso fritto all’orientale

Ingredienti per 4 persone: 16 asparagi decongelati · 200 g di fagioli cannellini

Ingredienti per 4 persone: 200 g di riso a grana lunga · 200 g di gamberi · 80 g di

secchi già bagnati per una notte · 2 piccole patate · aglio · formaggio tipo gruyère o Emmentaler · olio di oliva · sale e pepe.

fagiolini verdi · 2 peperoncini rossi freschi · 2 spicchi d’aglio · 2 scalogni · zucchero di canna · olio di semi di arachide · sale e pepe.

Preparazione: Cuocete i cannellini in acqua a filo per un’ora e mezza. Pelate le patate e tagliatele a dadini. Separate le punte dai gambi degli asparagi e tagliateli a rondelle. Aggiungete le rondelle e i dadini di patate ai cannellini e cuocete per 30’, poi frullatele aiutandovi se necessario con poca acqua e passateli al setaccio. Scaldate in una padella un filo di olio con 1 spicchio di aglio, unite la crema e fatela insaporire per 3’. Regolate di sale e di pepe e servite guarnendo con le punte sbollentate per 1’ e il formaggio grossolanamente grattugiato.

Preparazione: Cuocete il riso 1’ in meno rispetto al tempo indicato sulla confezio-

ne, scolatelo e lasciatelo raffreddare. Mondate i gamberi del budellino nero. Tritate nel mixer i peperoncini, privati dei semi, con gli spicchi d’aglio spellati, gli scalogni e poco olio. Scaldate 2 cucchiai di olio in una padella e cuocete la miscela a fuoco basso mescolando per 5’. Alzate leggermente la fiamma e unite i fagiolini tagliati a pezzetti, spolverizzate con una punta di zucchero e cuocete a fuoco medio per 5’. Aggiungete il riso, continuate a soffriggere per altri 3’, poi unite i gamberi, cuocete ancora per 1’, regolate di sale e di pepe. Distribuite il riso nei piatti e servite.


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Ambiente e Benessere

Troppo (o troppo poco) amore Mondoanimale Riflessioni di uno psicologo, biologo ed etologo sull’equilibrio nel rapporto che l’essere umano

dovrebbe avere nei confronti degli animali Maria Grazia Buletti Sempre più spesso, con la complicità della televisione e dei social network che permettono di comunicare in tempo reale notizie a macchia d’olio, veniamo a conoscenza di parecchi tristi o tragici destini di animali. A questo proposito, chi scrive ha avuto pure modo di riflettere su un paragrafo del recente romanzo di Paulo Coelho, la cui protagonista ricorda un episodio non troppo edificante della propria vita nel quale scarica le proprie frustrazioni su un cagnolino che le è stato dato in affido: «…dovevo dividere con quell’essere peloso le attenzioni del ragazzo che amavo. E invece io volevo tutto il suo amore. (…) Decisi di vendicarmi di quell’animale irrazionale (…) e cominciai a tormentarlo fisicamente, premurandomi di non lasciare segni: lo punzecchiavo con uno spillo infilzato sulla punta di una scopa…». Senza entrare nel merito dell’esercizio letterario di cui si suppone Coelho si sia servito nel porre l’accento sul disagio

della protagonista del suo romanzo, quel che lascia l’amaro in bocca è il leggere come talvolta l’essere umano possa esprimere sentimenti di rivalsa sugli inconsapevoli e incolpevoli animali. Certo, non vogliamo pensare si tratti della regola; siamo certi che la maggior parte delle persone ama e accudisce con affetto e responsabilità i propri animali domestici. Ma restano comunque casi, si spera sempre più isolati, la cui ridondanza ci obbliga a chinarci sul fatto che gli animali vanno difesi da qualsiasi tipo di maltrattamento possa essere loro inflitto. Abbiamo fatto capo all’esperienza di Lukas Bircher, responsabile della pensione per animali di Oberbottingen e direttore di Berner Tierschutz, che nell’esercizio del proprio ruolo dice di avere quasi quotidianamente a che fare con tragici destini di animali: «Ad esempio, un po’ di tempo fa, degli sconosciuti hanno abbandonato dei cagnolini in un bosco. Questi cuccioli ora saranno allevati e curati da noi». Bircher racconta pure di un altro caso

Regali solidali per animali «Anche un semplice regalo può essere un’opportunità: un modo per tessere con le nostre mani il cambiamento che vorremmo vedere nel mondo. Per questo, a Natale potremmo unire il piacere del dono alla solidarietà, anche per gli animali», ogni anno è questo l’invito fatto alle persone che desiderano rendersi in qualche modo utili, da parte di associazioni ed enti che agiscono a favore degli animali. Invece di acquistare l’animaletto da mettere sotto l’albero, del quale poi non sempre si sarà in grado di prendersi cura a feste passate, ci si potrebbe adoperare in qualche piccolo gesto di generosità che, certo, non

cambierà il mondo, ma potrà aiutare. Per chi ama gli animali le strade sono parecchie, anche grazie agli strumenti messi a disposizione dal web. Qualche suggerimento arriva dal WWF (World Wildlife Fund) che dice «no» ai regali inutili: «Per sostenere l’associazione è possibile non solo diventare socio o fare una donazione, ma anche adottare una specie a rischio di estinzione o acquistare i gadget solidali». Ovviamente, anche le associazioni più piccole per dimensioni, ma non meno preziose e radicate sul territorio, offrono molti spunti e opportunità per regalare agli amici animali un Natale migliore.

in cui la polizia ha dovuto sequestrare alcuni gatti da un appartamento: «La proprietaria ne faceva collezione come altri collezionano tappi di bottiglie di birra». Nel settembre dello scorso anno, infine, Bircher e i suoi collaboratori hanno dovuto catturare e castrare diversi gatti giovani e adulti, poiché si riproducevano in maniera incontrollata in una vecchia fattoria in disuso: «Il proprietario aveva perso il controllo della situazione». Per non parlare dei tanti cani che sono stati accolti nella pensione per animali di Oberbottigen perché separati da proprietari che non erano in grado di gestirli: «Spesso capita che qualcuno acquisti cani prima di informarsi adeguatamente sulla loro detenzione e sul lavoro che essa comporta». Situazioni complicate che talvolta sfociano in un subdolo maltrattamento, anche se spesso involontario, dell’animale da parte dell’uomo, e che portano a chiedersi che cosa non funziona in quei casi e quale possa esserne la causa ultima. Bircher afferma che il rapporto uomo- animale è emotivo o addirittura irrazionale: «Spesso l’amore per l’animale si spinge troppo in là e la paura di perderlo o doversene separare può impedire al proprietario di capire quando il suo adorato animale soffre e, di conseguenza, la qualità della sua vita è così limitata che sarebbe meglio addormentarlo invece di prolungarne la sofferenza imbottendolo di medicinali o altri trattamenti». E qui il nostro interlocutore sfonda una porta aperta: troppo amore può rivelarsi nocivo per l’animale tanto quanto non occuparsene adeguatamente o maltrattarlo. Inoltre, quello che disturba Bircher sta nella necessità di istituire una protezione degli animali per difenderli dagli esseri umani: «Noi che ci occupiamo della protezione degli animali

Anche l’eccesso d’amore può essere nocivo. (Niels Klim)

ci troviamo a risolvere in pratica soltanto problemi che causiamo proprio noi esseri umani». Tutto ruota attorno al concetto di dignità dell’animale che va tutelata senza entrare nella spirale del fanatismo, ci spiega: «Non tutti intendono la stessa cosa quando si tira in ballo la dignità dell’animale, anche se ne sentiamo parlare spesso». Secondo lui, è importante sapere che utilizziamo gli animali e che possiamo anche farlo, ma non abbiamo il diritto di sfruttarli: «Inoltre, dovremmo ave-

re la consapevolezza del fatto che se vogliamo essere empatici con gli animali, dobbiamo cercare di metterci nei panni della loro specie. Per questo, dovremmo soprattutto mettere da parte il nostro punto di vista umano, il che è sempre molto difficile e, per tanti, addirittura impossibile», conclude Lukas Bircher, lasciandoci di che riflettere, nell’esercizio di funambolismo alla ricerca di un equilibrio stabile che ci permetta di rapportarci meglio con gli animali.

Giochi Cruciverba Sapresti dire il nome di questo frutto e di dove è originario? No? Allora risolvi il cruciverba e scoprilo leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 4, 9, 9)

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ORIZZONTALI 1. Di pubblico dominio 7. Pianta aromatica 8. Grava sul basto 9. Se è apostrofato… esiste 10. Desinenza verbale 11. Preposizione articolata 12. Articolo 13. Di cosa attinente al mare 16. Fa perdere punti... 17. Regione storica dell’Asia Minore 18. Danno armonia ai versi 20. Moderata, temperante 21. Parte dell’intestino 22. Profeta dell’Antico Testamento 23. La Ventura della tv

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VERTICALI 1. La voce raffreddata... 2. Rispettabilità, dignità 3. Tempo inglese 4. S’ingrassa con la polenta 5. Nota sovrana 6. Sermone 9. Bianca per chi lascia fare 11. Un fiore 13. Un ruminante 14. Rifugio, ricovero 15. Figlia di Zeus e di Metide 16. Ambiziosi scopi 17. Articolo spagnolo 18. Gitani 19. Possessivo francese 20. Nel tempo e nello spazio 21. 101 romani

Sudoku Livello difficile Scopo del gioco

Completare lo schema classico (81 caselle, 9 blocchi, 9 righe per 9 colonne) in modo che ogni colonna, ogni riga e ogni blocco contengano tutti i numeri da 1 a 9, nessuno escluso e senza ripetizioni.

Soluzione della settimana precedente

Il proverbio nascosto – proverbio risultante: Male ignoto si teme doppiamente. M A T T I N O

A R R E D I

L E S O N N D O O B E M E N A L A S P O S M O I N A A N S E

I A E G S I E N A S A N O C S K A I R A L I N T

G R E C I A

R E S A D O R O O V B E D E S T I P I R A T R U I E N T O


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Politica e Economia Mafia Capitale Oltre 70 indagati e decine di arresti nella maxi-inchiesta di Roma

Perché l’Africa? Il terrorismo di matrice islamica è ormai una realtà almeno tanto africana quanto mediorientale

Storie del narcotraffico Terza puntata, dedicata al boliviano Mancuso, uno dei boss più ricercati del mondo

pagina 29

Riforma delle pensioni Accolto tiepidamente dalle forze politiche, il progetto «Previdenza 2030» del Consiglio federale trova maggiori consensi nella popolazione, stando a un primo sondaggio pagina 35

pagina 28 pagina 31

Obama ha condannato i metodi della Cia ma non una parola sul fatto che non resero l’America più sicura. (AFP)

Un viaggio nell’orrore Torture Cia Il rapporto del Senato americano mostra che l’intelligence mentì alla Casa Bianca nascondendo

l’estensione e la brutalià di quelle azioni compiute durante gli anni dell’Amministrazione Bush – Gli errori di Obama Federico Rampini È una grande prova di democrazia, o invece è una conferma della «deriva imperiale» degli Stati Uniti? Ci sono due interpretazioni di segno opposto, di fronte al rapporto del Senato americano sulle torture praticate dalla Cia durante l’Amministrazione Bush. La lettura ottimista ha un suo fondamento: osserva che solo un paese democratico e trasparente può permettersi una simile operazione-verità, mettendo a nudo le azioni abominevoli dei suoi servizi segreti di fronte ai propri cittadini e all’opinione pubblica mondiale. Si tortura nelle carceri cinesi, russe, iraniane, ma non vedremo presto un analogo rapporto ufficiale pubblicato a Pechino, Mosca, Teheran. E tuttavia l’intepretazione pessimista ha un suo fondamento, anch’essa. La Cia non sembra affatto pentita, le sue reazioni contro il rapporto del Senato sono quasi rabbiose. Nulla garantisce che in futuro non accadranno di nuovo simili orrori. L’America è una grande democrazia ma al suo interno ci sono dei «corpi separati», istituzioni potentissime che sfuggono al controllo, talvolta mentono all’esecutivo e al Congresso. In particolare nell’apparato militare e dell’intelligence, la logica della sicurezza nazionale e della ragion

di Stato diventa auto-referenziale. C’è il rischio che la grande prova di trasparanza diventi una catarsi puramente simbolica, un rito periodico con cui ci si lava la coscienza, e basta. Lo stesso Obama ha mostrato una certa ambiguità. Ha condannato la tortura sul piano etico e politico ma non si è spinto fino ad abbracciare la conclusione più scomoda del rapporto del Senato, e cioè che gli interrogatori della Cia non resero l’America più sicura. «Non siamo stati all’altezza dei nostri valori. Continuerò a usare la mia autorità presidenziale per garantire che non useremo mai più quei metodi». Con queste parole Obama ha reagito al rapporto. Quell’indagine ufficiale, pubblicata dal Senato dopo cinque anni di lavori e di controversie, è un viaggio nell’orrore. L’agenzia d’intelligence nei suoi centri di detenzione all’estero usò sistematicamente la tortura, ancor più di quanto si sospettasse: dalle violenze sessuali ai quasi-annegamenti. Mentì alla Casa Bianca e al Congresso, nascondendo l’estensione e la brutalità di quelle azioni. E la conclusione dell’inchiesta ufficiale smonta anche l’argomento più caro alla destra, cioè che quelle violazioni della legalità fossero necessarie per scongiurare nuovi attacchi terroristici dopo quello dell’11 settembre 2001. «A tutti gli effetti quei metodi d’in-

terrogatorio erano delle torture», è tassativa nelle sue conclusioni la senatrice Dianne Feinstein, democratica della California, presidente della commissione di vigilanza sui servizi segreti. L’elenco delle violazioni di diritti umani, di leggi e convenzioni sia americane sia internazionali, è raccapricciante. Detenuti privati del sonno per intere settimane, fino a subire allucinazioni e crisi depressive. Finte esecuzioni. Minacce di violenze sessuali con manici di scopa. Minacce di stupri contro le loro madri, di violenze contro i figli. «Alimentazione anale e idratazione anale», usate non perché necessarie a scopi sanitari, ma solo per «affermare un controllo totale sul prigioniero» umiliandolo e privandolo di ogni dignità. Immersioni nell’acqua ghiacciata. Infine il famigerato «waterboarding», la tortura dell’acqua: ripetute immersioni della testa fino al limite dell’annegamento e della morte per soffocamento. Rilevante è il fatto che l’indagine parlamentare usi fonti interne: è un funzionario della stessa Cia a descrivere il modo in cui vengono tenuti i prigionieri come «cani in un canile». L’indagine del Senato smonta il «teorema Bush». L’ex presidente aveva difeso i metodi della Cia con due argomentazioni. Da un lato definendo quegli interrogatori «umani e legali».

Dall’altro insistendo sulla loro «utilità per sventare nuovi attacchi contro l’America». Di recente Bush e i suoi collaboratori, dall’ex vicepresidente Dick Cheney all’ex segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, si erano perfino arrogati il merito di avere consentito l’uccisione di Osama Bin Laden, grazie alle informazioni ottenute durante gli interrogatori della Cia. Tutto falso, afferma l’indagine del Senato. È ancora la Feinstein che parla: «Abbiamo passato in rassegna i 20 presunti successi che la Cia ha attribuito alle sue tecniche d’interrogazione. Ciascuno risulta errato». Le «prove» acquisite erano irrilevanti, o addirittura false: informazioni che i prigionieri davano solo allo scopo di far cessare le sofferenze. Un limite dell’operazione-verità, sia da parte del Senato che della Casa Bianca, sta nel suo carattere unilaterale. Il rapporto ufficiale sulla tortura è firmato dai soli democratici, che con questo atto chiudono il periodo in cui hanno avuto la maggioranza al Senato. I repubblicani non ci stanno. Cheney è stato il più virulento: «Quegli uomini della Cia andrebbero decorati al valore, non accusati». Il giorno dopo la pubblicazione del rapporto ufficiale del Senato sulle torture della Cia, un lungo editoriale del «New York Times» riassumeva la rea-

zione dell’America progressista. E poneva domande scomode anche a Obama. «Si ripropone più che mai – sostiene l’editoriale del “New York Times” – la questione dell’impunità, il perché nessuno sia stato chiamato a rispondere di quei crimini. Ed è una conferma del tremendo errore di Obama quando all’inizio della sua presidenza, nel momento stesso in cui ripudiava la tortura, decise di non aprire i conti. Ogni tentativo di perseguire in giustizia quelle azioni fu bloccato dal presunto segreto di Stato». Chi s’interroga su quel che accadrà è costretto a una risposta deludente: nulla. La commissione d’indagine del Senato non ha poteri giudiziari. Perché il suo rapporto diventi l’inizio di un’istruttoria, dovrebbe muoversi il Dipartimento di Giustizia. Ma Obama chiarì fin dal suo arrivo alla Casa Bianca che non avrebbe fatto processi ai predecessori. Bush, Cheney, Rumsfeld possono dormire sonni tranquilli; come loro, anche gli ex capi della Cia. Obama prese quella decisione perché nel gennaio 2009 non voleva che la sua presidenza s’impantanasse nei regolamenti di conti coi repubblicani. Questo però significa anche che la sua svolta è reversibile. Lui firmò fin dal 2009 l’ordine esecutivo che metteva al bando la tortura; qualsiasi altro presidente potrebbe cancellarlo con un tratto di penna.


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Politica e Economia

Roma scandalosa Mafia Capitale La maxi-inchiesta di due magistrati si abbatte sul potere romano, quello fatto di politici, star,

vip e imprenditori finiti tutti in una rete malavitosa che da almeno 10 anni operava indisturbata nella capitale ché parla di 40 milioni annui fatturati con la spiegazione che la gestione dei campi profughi rende molto più della droga. Le elargizioni mensili, invece, ammontano a circa 80 mila euro: stipendi da 1500 a 3000 euro; a un consigliere comunale 20 mila una tantum. Nelle pareti dell’appartamento di un dirigente del verde pubblico hanno trovato 540 mila euro dentro buste con la scritta «Comune di Roma». Un deputato regionale di Forza Italia, Luca Gramazio, è sospettato di aver ricevuto finanziamenti per truccare le elezioni regionali del 2013. A parte emergono le tangenti dei grandi appalti, quelle che avevano già portato in galera i due principali collaboratori di Alemanno, Riccardo Mancini, ex amministratore delegato di Eur Spa, e Franco Panzironi, ex amministratore delegato di Ama, la municipalizzata dei rifiuti riempita di parenti, amici, amanti. Mancini è accusato di aver gestito una tangente di 700 mila euro, di cui oltre 600 mila finiti a un politico ancora sconosciuto; Panzironi di aver ricevuto circa 200 mila euro all’anno da Buzzi in cambio di appalti. Per Alemanno situazione molto più fluida: agli atti i contributi alla sua fondazione politica e le cene elettorali; nelle intercettazioni si parla di enormi cifre portate personalmente dall’ex sindaco in Argentina, ma la procura ha smentito.

Alfio Caruso Massimo Carminati era il neofascista implicato nella nascita di una formazione terroristica – i Nar (Nuclei armati rivoluzionari) – compagno di classe e di militanza di Valerio Fioravanti, condannato con sentenza definitiva per la strage alla stazione di Bologna nel 1980 (85 morti), implicato in omicidi clamorosi con sorprendenti assoluzioni, legato alla banda della Magliana, che dettò legge a Roma fra il ’75 e l’85, assurto a celebrità nazionale grazie al libro Romanzo Criminale, che diviene anche un film di successo e una serie televisiva di ancor più successo su Sky. I camerati di un tempo lo conoscevano come il «Guercio», a causa dell’occhio perso nello scontro a fuoco con i poliziotti durante un tentativo di espatrio clandestino in Svizzera. Nelle pagine del romanzo viene chiamato, con evidente riferimento all’ideologia, il «Nero». L’appellativo gli rimane appiccicato, malgrado lui, molto più sobriamente, si consideri l’ennesimo re di Roma.

Buzzi e Carminati sono il motore di una gigantesca corruzione nella quale pochissimi sono i salvati e troppi i compromessi

In questo «mondo di mezzo» i traffici sporchi cominciavano a prosperare già sotto la giunta Veltroni

Keystone

Nella realtà rappresenta lo snodo degli affari sporchi della Capitale negli ultimi dieci anni. Non perché sia il mago dell’intrallazzo, bensì per la voglia di tanti di farsi corrompere, di avere accesso a quel danaro facile, che gli «sperti e malandrini» accumulano all’apparenza senza problemi. Tuttavia, al di là degli appellativi, Carminati rimane una figura discussa con la quale non è igienico intrattenere rapporti. Molto più semplice stringere la mano e soprattutto stringere accordi con Salvatore Buzzi. In superficie la sua è una commovente storia di redenzione: in galera per un omicidio, in cella ha strappato la laurea in lettere moderne (110 e lode) e fondato una cooperativa sociale di detenuti, «29 giugno», 2000 assunti, appalti moltiplicati ovunque – srl, onlus, pulizie, cura del verde, accoglienza immigrati, gestione campi rom – dal Lazio all’Emilia, dall’Umbria alla Toscana, all’Abruzzo. A garantire per lui una serie di personaggi eccellenti sedotti dalle sue doti affabulatorie: l’ex ministro socialista Giuliano Vassalli, l’ex sindaco di Roma, Ugo Vetere, parlamentari conservatori e progressisti, l’ex ministro e segretario della Dc, Mino Martinazzoli. Sull’atto costitutivo della «29 giugno» ci sono le firme di due nomi quasi santi per la Sinistra: don Luigi Di Liegro, fondatore della Caritas diocesana, e Laura Lombardo Radice, partigiana, pacifista, pedagoga, moglie del nume tutelare del comunismo italiano, il centenario Pietro Ingrao. Con un simile corteggio di garanti nessuno è stato mai colpito dai trascorsi del presunto redento. Cioè le 34 coltellate rifilate nel giugno 80 a Giovanni Gargano, giovanissimo pregiudicato e suo complice. Buzzi era all’epoca un ventiquattrenne bancario, che rubava gli assegni nell’istituto di credito dove lavorava e li girava al complice per l’incasso. Buzzi sostenne che il compare lo ricattava e aveva tirato fuori il coltello per minacciarlo. Dovette risultare convincente perché se la cavò con meno di 15 anni mitigati da indulto e grazia, concessa nel ’94 dal presidente della Repubblica, Scalfaro. Tornato libero Buzzi avvia gli affari. Il cambio di passo lo segna l’incontro con Carminati. I due si

annusano e si piacciono: a modo loro si sentono due idealisti e se Buzzi finge di crederci, Carminati almeno sa di essere un criminale. Però disprezza la vita, non commercia droga, non ostenta ricchezze, legge libri. Da Tolkien estrae la definizione di «mondo di mezzo» per definire il proprio ambito. Un’intercettazione già entrata nella cronaca: «Ci sono i vivi sopra e i morti sotto e noi in mezzo. C’è un mondo in cui tutti si incontrano, il mondo di mezzo è quello dove è anche possibile che io mi trovi a cena con un politico…». I vivi per Carminati sono gl’insospettabili, i morti sono i delinquenti dichiarati, loro agiscono da collante. E non esiste spazio per gli ideali. «Gli affari sono affari», chiosa Buzzi. I due costituiscono il motore di una gigantesca corruzione nella quale pochissimi sono i salvati e troppi i compromessi. Dall’inchiesta «Mafia Capitale» svolta dai due magistrati, Pignatone e Prestipino, che hanno guidato la cattura di Provenzano e determinato la condanna giudiziaria dell’ex presidente della Sicilia, Cuffaro, tantissimi appaiono in vendita. Dai commessi dei palazzi pubblici ai deputati, dagli impiegati comunali ai professionisti, ciascuno ha un prezzo ed è felice di averlo. Lo scopo finale è il controllo della politica, senza distinzione di sor-

ta, per garantirsi appalti e concessioni. I metodi usati da Carminati e Buzzi, la ragnatela da essi sviluppata sono quelli tipici di Cosa Nostra, benché non esistano interessi diretti dei mafiosi e i personaggi evocati restino sullo sfondo di altre intraprese. Nel mondo di mezzo i traffici cominciano a prosperare già con la giunta Veltroni, sindaco di Roma e segretario dei Democratici di Sinistra, avversario di Berlusconi nelle elezioni del 2006. Il grimaldello è il capo di gabinetto Luca Odevaine. Quando si chiamava Odovaine aveva rimediato due condanne: una nell’89 per spaccio di droga, l’altra nel ’91 per emissione di assegni a vuoto. Ma gli era bastato cambiare la «o» in «e» per rifarsi una verginità e assurgere a un ruolo di considerevole responsabilità. Considerato «il moltiplicatore dei profughi da destinare al centro di Buzzi», Odevaine viene ricompensato con 5000 euro mensili. Avendo moglie venezuelana preferisce incassare le mazzette sui conti correnti bancari dei parenti in Sud America. Ogni porta si apre con la sindacatura Alemanno. La nomina in posti apicali di ex camerati favorisce le antiche conoscenze di Carminati. Vi rientra lo stesso Alemanno con il quale nell’81 ha diviso per sei mesi lo stesso carcere: il nuovo sindaco, all’epoca mi-

litante fascista, era stato condannato per aggressione. Nessuno si stupisce che l’acchiappatutto di una giunta di destra sia una società delle cooperative rosse. E per chi ignora il passato basta la generosità di Buzzi, senza neanche dover ricorrere alla nomea di Carminati indicato al soldo dei servizi segreti, in combutta con Cosa Nostra attraverso Ernesto Diotallevi – un altro ex della banda della Magliana, legato a Calò e Santapaola – e Giovanni De Carlo. Detto Giovannone, pure lui arrestato al volo come il suo mentore, è ufficialmente avvocato, mai visto però in tribunale o lavorare un giorno. Molto visto, invece, nei ritrovi più chic con enorme disponibilità economica e sfoggio di Ferrari. A lui si rivolgono pieni di considerazione volti noti della tv – Belen, Mammuccari, De Martino – per l’acquisto di costosi passatempi o anche il calciatore della Roma e della nazionale, De Rossi preoccupato che un litigio in discoteca possa provocare spiacevoli conseguenze. Oltre a quelli con la mafia, gl’inquirenti hanno individuato rapporti antichi e recenti con la camorra dei Senese, dei Licciardo e con la ’ndrangheta dei Mancuso. Un considerevole guazzabuglio dove c’è spazio anche per la millanteria. Ma sembra essere sincero Buzzi allor-

In vista delle elezioni Carminati e Buzzi puntano su rappresentanti di entrambi i fronti. Una foto scolpisce la generale propensione al magna magna e non perché siano inquadrati attorno al tavolo di un ristorante: vi compaiono onorevoli di destra e di sinistra, c’è Alemanno, c’è l’attuale ministro del Lavoro, Poletti, all’epoca presidente della Coop, c’è un esponente dei Casamonica, temuto clan delinquenziale del litorale romano. I generosi contributi di Buzzi infrangono tutti i muri, in special modo quelli della decenza. Lo sta ad ascoltare persino Alfio Marchini – discendente di una conosciuta famiglia di costruttori edili dal cuore rosso, suo nonno Alvaro donò al partito la famosa sede di via Botteghe Oscure – teso in questi anni ad accreditarsi come l’ultima speranza di Roma. Anche il neo sindaco Marino ha affermato perentorio di non aver mai parlato con Buzzi, viceversa, ecco le immagini di un colloquio cordiale e sorridente con Buzzi; è addirittura ripescata un’intervista in cui Marino promette di versare il primo stipendio del Campidoglio alla «29 Giugno»; si scopre che una società di Buzzi ha finanziato la campagna elettorale di Marino con un bonifico di 20 mila euro, che altri 10 mila euro sono stati destinati al candidato della lista civica a supporto di Marino, che il suo capo di gabinetto, Mattia Stella, è un habitué di Buzzi. Eppure Marino è asceso ad àncora di salvezza nel Pd già afflitto dalle dimissioni dell’assessore alla casa, Ozzimo, del presidente del consiglio comunale, Coratti, di un consigliere regionale, Patanè, e dai tormenti di due deputati, Marroni e Campana. E dire che fino all’altro ieri proprio i democratici pressavano Marino affinché si dimettesse per eccesso di gaffe. Le stesse che ora garantirebbero sull’esser fuori da tutti i giochi.


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Politica e Economia

Una realtà anche africana Terrorismo islamico Non c’è dubbio che la sua matrice sia arabo-mediorientale,

ma il suo raggio d’azione sono stati in passato Kenya e Tanzania. Oggi Libia e Nigeria

Un soldato libico all’interno di un palazzo usato dai miliziani dell’Isis per sferrare un feroce attacco a Bengasi. (Keystone)

Pietro Veronese Secondo i comandi militari americani, l’Isis dispone adesso di campi di addestramento in Libia, frequentati da circa duecento combattenti. I terroristi islamici che controllano parte del territorio iracheno e siriano starebbero dunque estendendo al Nord Africa la loro rete e la loro sfera di influenza. Al momento si tratterebbe di «una cosa piccola e alle primissime fasi», che l’intelligence Usa cerca naturalmente di seguire il più da vicino possibile.

A differenza di Al Qaeda l’Isis non ha una strategia globale. Il suo non è un nemico lontano, bensì i regimi arabi vicini Questa notizia, la cui fonte è il generale David Rodriguez, capo dello U.S. Africa Command, non è in sé particolarmente sorprendente. Oggi la Libia è in uno stato di virtuale disgregazione, ma già all’indomani del crollo violento del regime di Gheddafi, tre anni fa, molti combattenti delle diverse milizie libiche presero la via della Siria, a suo turno in rivolta contro il potere della famiglia Assad. Fu così, nel fuoco della guerra civile siriana, che si saldarono i rapporti tra le frange più radicali dell’islamismo armato dei due Paesi. Adesso, dice l’intelligence militare americana, molti di quei combattenti sono tornati nell’est della Libia, in quelle zone della Cirenaica controllate dalle milizie islamiste. Il legame con l’Isis sarebbe dunque di natura ideologica e in parte anche operativa, consistendo di collaborazione logistica e in materia di armi, ma le organizzazioni resterebbero separate ed autonome. Del resto, ha scritto recentemente sulla «New York Review of Books» il giornalista pachistano Ahmed Rashid, studioso dell’estremismo islamico, l’obiettivo primario dell’Isis non è il «nemico lontano» bensì i regimi arabi vi-

cini, i musulmani non sunniti, cioè gli sciiti, e le altre minoranze. A differenza di Al Qaeda, e a dispetto delle migliaia di volontari giunti da ogni parte del mondo a rafforzarne i ranghi, nonché della sua strategia di comunicazione basata sul terrore, l’Isis non ha secondo Rashid una strategia globale, ma per il momento almeno solo locale. Tuttavia, se considerata in un altro contesto, la notizia che giunge dalla Libia assume un significato diverso. Suona cioè più allarmante se la consideriamo, invece che nell’orbita lontana di quanto sta avvenendo in Medio Oriente, all’interno del mosaico dell’estremismo islamico africano. Qui i legami appaiono molto più distanti di quelli tra i fondamentalisti libici e siriani o iracheni: nulla sembra accomunare i somali di Al Shabab con i miliziani di Bengasi o le formazioni di Boko Haram nel nord della Nigeria o in Camerun. E tuttavia, fuori dall’Iraq, è in Africa che le formazioni armate dell’islamismo hanno compiuto le loro azioni più sanguinose e spettacolari. Quasi due anni fa, nel gennaio 2013, miliziani vicini ad Al Qaeda attaccarono un grande impianto di estrazione del gas nell’est algerino, a In Amenas. La battaglia che ne seguì, al quarto giorno della presa di ostaggi, lasciò sul terreno almeno 39 morti fra i lavoratori stranieri dell’impianto e 29 assalitori. Risale invece all’aprile di quest’anno il rapimento di circa duecento ragazze nel nord-est della Nigeria ad opera dei terroristi di Boko Haram. Questa setta armata si è resa responsabile di numerosi fatti di sangue, autobombe nelle grandi città, assalti a chiese e collegi religiosi, occupazioni manu militari di interi villaggi, ma nulla ha colpito l’opinione internazionale come l’indisturbato ratto di centinaia di studentesse, delle quali solo pochissime sono successivamente riuscite a fuggire e tornare alle famiglie. La maggior parte restano prigioniere, date forzatamente in sposa ai miliziani di Boko Haram, contro i quali l’esercito governativo si è dimostrato finora singolarmente impotente.

Più recentemente, sono stati i somali di Al Shabab ad entrare in azione in Kenya, usando modalità inedite e devastanti. A fine novembre hanno fermato un bus in una località vicino alla frontiera somala, chiedendo ai passeggeri di recitare le semplici formule del credo musulmano; chi non se ne è dimostrato capace è stato fatto scendere e giustiziato al bordo della strada con un colpo alla testa: 28 morti. Nella notte tra il primo e il 2 dicembre, stessa zona di confine, stessa tecnica, questa volta in una cava di pietra dove i lavoratori stavano dormendo nelle tende. Le vittime sono 36. Senza dimenticare i 67 morti dell’attacco al grande centro commerciale di Westgate a Nairobi, nel settembre 2013. Tutto questo consente di dire che il terrorismo di matrice islamica è ormai una realtà africana almeno tanto quanto mediorientale. Se gli occhi delle opinioni pubbliche europee restano fissi sugli eventi del Medio Oriente, è in buona parte a causa di una distorsione ottica, favorita dalla presbiopia dei media, molti più attenti a quanto accade in quella parte del mondo che altrove. Da un punto di vista storico, non c’è dubbio che la matrice del terrorismo islamico contemporaneo sia arabo-mediorientale: Osama bin Laden era saudita, il suo successore al Zawahiri è egiziano, e il terzo «ceppo» fondatore di Al Qaeda era palestinese. Ma l’organizzazione che li riunì nacque tra Afghanistan e Pakistan e il suo raggio d’azione fu planetario: il primo terreno «globale» scelto da Al Qaeda per la sua campagna terroristica fu l’Africa: le ambasciate Usa a Nairobi in Kenya e Dar es Salam in Tanzania (1998). Oggi la sanguinosa campagna militare scatenata dall’Isis in Iraq ha avuto senza dubbio l’effetto di risvegliare e rilanciare l’attivismo dei terroristi islamici ovunque nel mondo. Molte schegge africane della galassia islamista, talora in passato associate ad Al Qaeda, hanno dichiarato la loro adesione al «califfato» proclamato dall’Isis, ovvero ne hanno adottato la terminologia, creando califfati autonomi

in casa propria. L’Isis, con l’onda di raccapriccio globale generata dalle sue gesta efferate, si propone come nuovo modello ai suoi peggiori seguaci. Ma poi le dinamiche, il reclutamento, le campagne terroristiche appaiono dettate da agende nazionali, o comunque locali. In Libia e Nigeria, malgrado la grande disparità dei contesti, la posta in gioco è la rendita petrolifera. Si tratta di due Stati fragili, sia pure per motivi assai diversi. Il primo è rimasto in uno stato di potenziale anarchia, che adesso sta diventando realtà, fin dal crollo del potere gheddafiano; il secondo è un colosso retto da un governo centrale debole e corrotto, la cui periferia settentrionale, da sempre negletta, sfugge di fatto al suo controllo. (A questi due Paesi va inoltre accostato il Mali, la cui crisi è oggi congelata, ma nel cui sterminato nord desertico restano in armi i movimenti separatisti che riuscirono a prenderne il controllo nel 2012, anch’essi di matrice «qaedista» o simpatizzanti dell’Isis).

Molte schegge africane della galassia islamista hanno dichiarato la loro adesione al califfato proclamato dall’Isis Diverso il contesto e la strategia degli Al Shabab somali. Da quando il Kenya è intervenuto militarmente nel loro Paese, dapprima unilateralmente, poi inquadrato nella missione internazionale dell’Unione africana, essi hanno portato la loro campagna di terrore all’interno dei confini keniani. A differenza di Boko Haram, appaiono in difficoltà e in ritirata; ma non hanno perso la capacità di colpire. Malgrado la disparità delle dinamiche locali, resta il fatto che il terrorismo islamico è oggi una realtà tanto africana quanto mediorientale. I successi dell’Isis gli hanno dato nuovo vigore, ma vive di vita propria.

Fra i libri di Paolo A. Dossena Michele De Lucia, Il baratto, Kaos edizioni, 2014 «Per quanto attiene il denaro da riciclare il medesimo apparterrebbe al clan di Silvio Berlusconi». Così si legge in un rapporto del 13 settembre 1991 della Sezione informazioni droga del Canton Ticino. A Bellinzona, la polizia, che è alle prese con un’inchiesta sul riciclaggio internazionale di capitali sporchi, scrive che «Il nome di Berlusconi non deve impressionare più di quel tanto poiché anni fa, segnatamente ai tempi della “Pizza connection”, lo stesso era fortemente indiziato di essere il capolinea dei soldi riciclati». Come mai questo rapporto della polizia svizzera è stato censurato dagli organi di informazione a sud del confine, incluse le fonti comuniste come il quotidiano «L’Unità»? Come e quando è nato il legame tra Silvio Berlusconi e l’Unione Sovietica (si pensi all’amicizia dell’uomo d’affari con l’ex agente sovietico del KGB Vladimir Putin.) Come mai in Italia il sistema politico è del tutto bloccato da vent’anni? Svizzera, Russia comunista, Italia: tanti sentieri, tante domande per altrettanti problemi, che sembrano trovare un’unica risposta nel rapporto della polizia svizzera e nel libro di Michele De Lucia. Secondo il quale tutto comincia il quattro maggio 1988, quando Silvio Berlusconi annuncia di aver stipulato un megacontratto con la tv sovietica. Con questo contratto l’azienda di Berlusconi, Fininvest, è diventata la concessionaria esclusiva per gli annunci pubblicitari di tutte le aziende europee sulla tv di Stato dell’Urss. In pratica, qualunque azienda europea voglia fare annunci pubblicitari sulla tv di Mosca, dovrà rivolgersi al gruppo di Berlusconi. Berlusconi così conclude il suo annuncio: «Noi non abbiamo cattivi rapporti con il Partito comunista italiano e cerchiamo di averne sempre di migliori». Secondo Michele De Lucia, in quegli anni un accordo commerciale tra un imprenditore italiano e i Paesi dell’est comunista era impossibile senza la mediazione del Pci, partito comunista italiano. C’è stato un «baratto» (il titolo del libro di De Lucia) tra il Pci e Berlusconi. Infatti, nel 1985 sono approvati dal governo italiano i «decreti Berlusconi», che consentono alle tv dello stesso Berlusconi di continuare a trasmettere su scala nazionale. È evidente che si tratta di un provvedimento incostituzionale, in quanto pretende di rendere legale l’illegalità del monopolio televisivo berlusconiano. Il Pci è all’opposizione, ma il governo e Berlusconi possono contare sul tacito accordo con i comunisti, che sono infatti ricompensati ottenendo la gestione di una rete televisiva di Stato, Rai Tre. Non si devono inoltre dimenticare i soldi berlusconiani al giornale comunista «Il Moderno» e alle Feste dell’Unità (ovvero i festival organizzati periodicamente in numerosi comuni italiani dal Pci.) Infine, Berlusconi, ex tessera 1816 della loggia massonica segreta P2, avrebbe comprato le televisioni locali del Pci. All’inizio del 1994, Berlusconi lancia il suo partito-azienda chiamato «Forza Italia», e nei vent’anni successivi, l’ex Pci, ora PD (partito democratico) ne è il grande competitore elettorale. Ma mentre Berlusconi coltiva amicizie imbarazzanti nell’ex Unione Sovietica, l’Italia rimane politicamente del tutto bloccata. Come mai? La risposta di De Lucia sembra essere: troppi compromessi: «Il baratto» continua a segretamente unire i due presunti avversari.


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Politica e Economia

Il boss della porta accanto 3. Narcos connection Arrestato a Imperia il colombiano Domenico Mancuso Hoyos, capo paramilitare

e narcotrafficante ricercato nel suo Paese per omicidi, associazione a delinquere, sovversione e banda armata

Angela Nocioni Può succedere, a volte, che una notizia di quattro righe nella cronaca locale, disegni all’improvviso una geografia nuova e sorprendente. E mostri, involontariamente, quanto permeabili possano essere i confini tra Stati quando a spostarsi sono i miliardari del narcotraffico e quanto vicine siano, a guardar bene, le due sponde dell’Atlantico. Può succedere, per esempio, di scoprire una mattina di luglio che l’Italia del nord, anche quella turistica, anche la Liguria con le sue belle coste e i suoi ristorantini a picco sul mare, non è poi così lontana dal profondo della selva colombiana e dai suoi orrori. Ecco un esempio. Italia, Liguria, Imperia, viale Europa numero 26. Domenico Mancuso, 49 anni, fino al 6 agosto dell’estate scorsa viveva in una palazzina dalle ringhiere bianche sotto il santuario di Santa Maria maggiore di Castelvecchio. Andava a messa quasi tutti i giorni e si caricava la Madonna in spalla a ogni processione. Disponibilissimo anche per la lavanda dei piedi in chiesa. L’ha raccontato il parroco.

Andava a messa tutti i giorni e si caricava la madonna in spalla a ogni processione. Ogni tanto andava a Monaco a comprare un albergo a 5 stelle Aveva un passaporto italiano in regola e la carta d’identità valida per l’espatrio. Ogni tanto andava a Monaco, stava per comprare un hotel cinque stelle. Cercava appartamenti in Riviera. Ne doveva trovare tanti, di soldi cash da investire ne aveva moltissimi. Sono venuti a prenderlo a casa agenti col viso coperto da cappucci neri. L’ha portato via la Guardia di finanza. Gli elicotteri l’hanno scortato fino a Genova, finché non è entrato dentro il carcere di Marassi. Quel signore paffuto dai modi molto gentili era ricercato dall’Interpol per 132 omicidi. Addirittura per strage. In Colombia lo vogliono processare per una serie di atrocità, compreso un massacro di gente inerme. Arrivò un giorno del 1999, verso sera, in un villaggio della selva con camion carichi di 200 uomini, mentre i contadini tornavano dalle piantagioni. «Musica al massimo volume che la festa sta per cominciare» disse. Fece inginocchiare tutti e ordinò di sparare. Riacciuffò un bambino, l’unico riuscito a sgattaiolare via tra le tute mimetiche dei paramilitari: «Da qui non esce vivo nessuno» disse prima di fargli sparare. In un giorno solo fece uccidere 34 persone inginocchiate e disarmate, a braccia alzate, mentre piangevano e lo supplicavano di aver pietà. Il suo nome intero è Domenico Antonio Mancuso Hoyos. Uno dei nar-

cotrafficanti più ricercati del mondo. Il capo del blocco Catatumbo, gruppo paramilitare delle Autodefensas unidas de Colombia (Auc). Squadracce feroci, con rapporti complessi e mai del tutto svelati con settori potenti delle istituzioni colombiane, le Auc sono state l’esercito irregolare d’estrema destra con teschi e tuta mimetica, in guerra per il controllo della coltivazione della coca con altri gruppi fotocopia e con i guerriglieri marxisti delle Farc e delle Eln, a loro volta in guerra con lo Stato colombiano e a loro volta di una violenza bestiale con la popolazione civile. L’ideologia, nella contesa, è ormai ferraglia dismessa. La guerra, da anni, nella selva colombiana serve ad aggiudicarsi fette di mercato nel narcotraffico. A far arrivare nel Mediterraneo i carichi ci pensa poi la ’ndrangheta. È lei che fornisce i nuovi broker. Ritenuti al momento più efficienti, pare, dei mafiosi siciliani. Più difficili da infiltrare, molto bravi nel riciclaggio. La mafia siciliana resiste, ovviamente, e fa i suoi affari, ma non è più la regina del mercato come ai tempi di Pizza Connection, quando Cosa nostra imperava incontrastata e il grande business stava nel viaggio in direzione inversa: dai laboratori chimici che raffinavano eroina in Sicilia fino alle grandi piazze americane. La ’ndrangheta si è infilata nelle pieghe del giro vorticoso d’affari e si è fatta spazio, in silenzio. Ha intuito negli anni Ottanta che il futuro era la cocaina, non l’eroina. E s’è piazzata, inabissandosi. Dispone di molti mezzi, ha gente ovunque dove si produce coca, dalla Colombia all’Ecuador. Stringe alleanze con i nuovi cartelli, si muove come un pesce nell’acqua tra i narcos locali che la trovano affidabile perché chiusa, impenetrabile, arcaica. I colombiani apprezzano la puntualità dei pagamenti, il professionismo nel trasporto. I carichi arrivano dove devono arrivare, quando devono arrivare. Non si perdono, non ritardano. Vuol dire che la valutazione delle rotte – necessario cambiarle in continuazione – è rapida e azzeccata. Se la frontiera col Venezuela non è più coperta bisogna capirlo subito, saltare il passaggio,

passare da sud. Sapere dove arrivare in Perù per poi passare in Argentina, se è meglio in Brasile e piazzarsi tranquilli nei porti del sud del Continente. Bisogna saper scegliere i carichi di copertura e superare tutti i controlli, nei porti sudamericani e nel Mediterraneo. Anche perché i narcos fornitori non tollerano errori, tantomeno sgarri. A volte esigono ostaggi volontari. Si tengono un broker, un interno, in garanzia del carico finché non arriva a destinazione. È una pratica imparata dai vecchi cartelli di Cali e di Medellin. La garanzia è merce umana, l’ostaggio è una cambiale. La ’ndrangheta pare abbia mostrato di sapersela cavare. Riesce ad essere invisibile nell’Italia meridionale profonda, in Aspromonte, ma anche a New York. Liquida, veloce, duttile. Ha massimizzato le opportunità, minimizzato i rischi. Feroce, ma attenta ad essere impercettibile. Ormai sono le ’ndrine calabresi le prime venditrici all’ingrosso in Europa. Riescono a sopravvivere come un’Idra, se salta una testa non muore l’organismo. La ferita cicatrizza e spuntano ’ndrine nuove. Difficile anche infiltrarle con successo, perché è complicato fare danni irreparabili all’intera organizzazione, non si riesce a colpire al cuore. In perfetto equilibrio tra le due sponde dell’oceano stava Domenico Mancuso. Italianissimo, dal ’92 è iscritto all’Aire, il registro dei cittadini italiani residenti all’estero, nel comune di Casal Velino, in provincia di Salerno. L’Interpol lo stava cercando da otto mesi. Ma lui a Imperia è arrivato nell’ottobre del 2012, con passaporto valido dal 2006 al 2016 rilasciato dall’ambasciata italiana a Bogotà. Anche la carta d’identità al comune di Imperia ha chiesto di recente. E, verificato che il domicilio era esatto, gliel’hanno data senza problemi. L’anagrafe del Comune non ha accesso alla banca dati della Questura. Tanto a posto era, il super narco della porta accanto, che persino un’auto usata s’era potuto comprare. Intestata a suo nome. Latitante risulta da giugno, prima era solo un ricco signore con delle buffe camicie che di-

Paramilitari delle AUC, Autodefensas unidas de Colombia. (Keystone)

Mancuso era ricercato dall’Interpol per 132 omicidi. Qui il suo arresto a Imperia.

ceva sempre «grazie, faccio da solo» al cameriere che gli apriva la porta al ristorante. Di nomi di battaglia ne ha avuti molti. Lucas, Alejandro, David. Agli inizi faceva il contabile della coca. Una quindicina di anni fa la zona colombiana di sua competenza era stata affidata al gruppo dei «Los Azules», gli Azzurri, sospettati dopo pochi mesi di rubarsi parte del denaro. Domenico Mancuso fu incaricato di registrare i profitti del traffico nella regione. Riceveva un fisso mensile in cambio del report dettagliato che mandava ai finanziatori a Cordoba. José Bernardo Lozada, alias «Mauro» nelle Auc, ha raccontato in un’udienza a Bogotà: «L’ho conosciuto, non sapevo il suo vero nome e non era il caso di domandarglielo, ma ricordo bene che lui era responsabile della revisione dei conti degli Azules e si occupava anche delle nostre spese e del denaro che maneggiavamo noi». Testimonianza confermata da Jorge Iván Laverde Zapata, alias «El Iguano», di un altro fronte delle Auc, che dice di essersi riunito almeno sei volte con Domenico per la revisione dei conti del gruppo. Poi c’è una fila di ex paramilitari che lo accusa di aver ordinato assassinii. «Ci ha dato lui l’ordine per vari omicidi che poi noi abbiamo eseguito in città» ha detto Edilfredo Esquivel Ruiz, alias «El Osito», l’Orsetto. La stessa frase ha pronunciato Albeiro Valderrama Machado, alias «Piedras Blancas», Pietre Bianche. Ma a parte l’ordinaria amministrazione del pianeta narco, l’incarico importante di Domenico Mancuso, il suo ruolo politico, è stato fare da ponte di comunicazione tra settori dell’esercito regolare colombiano e «los paras», i paramilitari delle Auc. Quando, nel dicembre del 2004, il governo colombiano avviò il «processo di smobilitazione collettiva» – una sorta di trattativa per far tornare i paramiliari alla vita civile – Domenico Mancuso scelse di non aderire. Lui non è un paramilitare qualunque, anche tra i capi ha uno status di lusso. È il cugino di Salvatore Mancuso, comandante supremo delle Auc, narcotrafficante potentissimo, con un esercito informale di 15 mila uomini ai suoi ordini, regista del lavaggio dei

profitti dell’export di coca, ricercato per anni dai detective americani della Drug enforcement administration (Dea). Non l’hanno mai preso. Si è consegnato alle autorità colombiane dopo una lunga trattativa. È stato estradato nel 2007 negli Stati Uniti prima che riuscisse a eclissarsi nell’azienda agricola in Toscana dove contava di organizzare il suo «buen retiro». Già era avviata l’importazione di bottiglie di Brunello di Montalcino e anche quella di vestiti di marca. Finivano in un cinquantina di belle vetrine illuminate a Bogotà, tutti negozi di sua proprietà, per la gioia degli appassionati locali del made in Italy. Estradato insieme ad altri 13 capi narcos, tra cui Diego Fernando Murillo detto «Don Berna» erede di Pablo Escobar a Medellin, nel 2009 Salvatore Mancuso è stato condannato a 40 anni di reclusione e a pagare 3000 salari minimi mensili alle famiglie di alcuni dei trucidati dal suo esercito irregolare. Ha detto di voler collaborare con gli inquirenti. Ha raccontato alcune cose agli investigatori. Ha negato più volte che Domenico facesse parte delle Auc, lo ha protetto a lungo. Poi nel 2012, in un’udienza a Bogotà, spiegando di aver paura per l’incolumità della sua famiglia, ha detto anche che il cugino decise di entrare nelle Auc dopo un attentato guerrigliero contro suo padre, avvenuto nell’azienda agricola di sua proprietà «La Madera». Ha detto poi che Domenico non aveva aderito al piano di disarmo perché «pressioni dagli alti comandi militari volevano evitare che aprisse bocca». Fu scelto come anello di congiunzione tra l’olimpo militare e le squadracce, con mediazione della politica ufficiale, perché era una persona di fiducia di Salvatore e perché non era estraneo al mondo delle forze armate. Domenico è colto, ha studiato in Cile, è passato per la scuola ufficiali e poi per la scuola navale. La sua testimonianza sarebbe importante per sapere chi, tra i politici e i militari regolari colombiani, facilitò l’ingresso delle squadracce in alcuni dipartimenti del Paese per fare il lavoro sporco che era meglio non facesse l’esercito e per occuparsi del business della coca. Tanto importante che forse gli conviene star zitto. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

Politica e Economia Nel nuovo quartiere di Blang Beurandang, a Meulaboh, Caritas ha edificato oltre 1000 case. (Samuel Trümpy)

La vita risorge dalle rovine grazie alle donazioni svizzere Reportage Dieci anni fa, un potentissimo tsunami devastò intere regioni del Sud-Est asiatico, innescando

la più grande raccolta fondi della storia svizzera: la Catena della solidarietà raccolse 227 milioni di franchi. L’estate scorsa la fondazione ha fatto valutare se tutto quel denaro è stato speso nel migliore dei modi – Un resoconto dalla provincia indonesiana di Banda Aceh

Ralf Kaminski * Nelle prime ore del mattino del 26 dicembre 2004 la terra tremò e il terrore si disegnò sul volto degli abitanti della cittadina indonesiana di Meulaboh, sulla costa occidentale dell’isola di Sumatra. Fortunatamente i danni erano limitati e tutti pensarono di aver scampato il pericolo. Ma, un quarto d’ora dopo la scossa, arrivò il primo muro d’acqua. Era alto più di dieci metri e travolse tutto, seminando morte e distruzione. In quel momento Umi Sakdiah si trovava nella sua casa vicino al mare. Quella mattina sua madre era andata in un villaggio vicino per curare un nipotino malato. Era appena tornata quando sopraggiunse l’acqua. I flutti dispersero la famiglia, Umi fu spinta nell’entroterra, perdendo subito di vista i suoi familiari. Lottando disperatamente per sopravvivere, si aggrappò a un cavo dell’elettricità e riuscì a mettersi in salvo sul tetto di una casa. Bloccata lassù, assistette alla devastazione portata dall’acqua del mare, che continuava a riversarsi nell’entroterra trasportando con sé cadaveri e macerie di ogni genere. Quando finalmente l’acqua si ritirò, lasciò dietro uno scenario da guerra. E Umi iniziò a cercare le sue due figliolette, la mamma e una sorella. Ma invano. Prima dello tsunami Meulaboh contava 120’000 abitanti, 40’000 morirono o non vennero mai ritrovati, 70’000 persero tutto quel che avevano. L’epicentro del sisma si trovava a soli 150 chilometri da lì, direttamente davanti alla costa, da nessun’altra parte il maremoto fu tanto rapido, da nessun’altra parte colpì con tanta violenza. Dei 230’000 morti causati dallo tsunami nel Sud-Est asiatico, ben

170’000 vivevano nella provincia indonesiana di Aceh, sulla punta settentrionale di Sumatra. Colpito duramente anche il capoluogo Banda Aceh, raso al suolo per circa un terzo. Umi si rifugiò a casa di una sorella, in un vicino villaggio risparmiato dall’inondazione. La donna, divorziata dal marito, cercò e cercò fino a quando dovette ammettere a se stessa che le figlie e sua madre erano probabilmente morte. Umi, oggi 38enne, ci racconta questa tragedia con apparente calma e impassibilità. Accanto a lei, nel suo salone di bellezza nel nuovo quartiere

di Blang Beurandang, siede il secondo marito, il maestro di scuola Abdul Wahad (55), che ha perso tra i flutti quattro dei suoi cinque figli e la moglie. «Per settimane mi aggiravo nei dintorni a cercarli, come impazzito». Ma a un certo punto si arrese anche lui. I due si conobbero per caso circa due anni dopo lo tsunami, in un bar che entrambi frequentavano. L’assistenza psicologica di un ente umanitario li aiutò a superare gradualmente il trauma. E grazie alle donazioni svizzere e all’intervento sul posto della Caritas, non solo oggi abitano in una

Anche numerose scuole sono state ricostruite nella provincia indonesiana di Banda Aceh. (Samuel Trümpy)

graziosa casetta molto lontana dal mare, ma Umi Sakdiah ha potuto anche seguire una formazione come parrucchiera ed estetista, un sogno a lungo accarezzato. Da 4 anni possiede un suo salone, integrato in casa. «Oggi la vita ci va molto meglio di prima dello tsunami», dice Umi. Naturalmente, lei e il marito si intristiscono ancora quando pensano ai familiari morti, ma la vita va avanti. E nel frattempo la coppia ha avuto anche un figlio che oggi ha otto anni, il quale conosce la sciagura che ha colpito i genitori solo attraverso i racconti. Infatti, tutti gli adulti che si incontrano nell’Aceh sono dei sopravvissuti dello tsunami. Tutti hanno vissuto momenti terribili, hanno perso i parenti, hanno storie drammatiche da raccontare. La vita è continuata per tutti, non da ultimo grazie a un’ondata di solidarietà che si è riversata sulla provincia dopo il maremoto. Solo dalla Svizzera sono confluiti circa 100 milioni di franchi, su un totale che si stima in 7 miliardi di dollari. «Il popolo svizzero vide le drammatiche immagini trasmesse alla televisione e dimostrò una generosità senza precedenti», afferma Manolo Caviezel (39 anni), responsabile di progetto per il Programma tsunami della Catena della solidarietà. Nelle settimane successive alla catastrofe, la fondazione ricevette 227 milioni di franchi, la più alta raccolta fondi della storia svizzera. Le donazioni vennero anche da molte ditte e istituzioni, la Migros versò un milione. «A quel punto la sfida consisteva nell’impiegare questo denaro nel modo più sensato possibile», racconta Caviezel, « ma fu molto difficile, perché centinaia di enti assistenziali si riversarono sull’Aceh con le tasche piene di soldi, talvolta perfino in competizione sui

progetti». La Catena della solidarietà non si attiva direttamente sul posto, ma trasferisce il denaro a organizzazioni umanitarie come la Caritas, Swisscontact oppure la Croce Rossa Svizzera, le quali realizzano i progetti in loco. «Dieci anni dopo volevamo sapere cosa hanno apportato questi progetti, cosa ha funzionato e cosa potremmo far meglio per altri progetti». L’incarico per la valutazione è stato affidato alla società belga Channel Research. Una sua squadra di collaboratori, diretta dall’esperto olandese Adriaan Ferf (66 anni), l’estate scorsa ha viaggiato per due mesi in India, Indonesia e Sri Lanka, i Paesi i cui è confluita la maggior parte delle donazioni svizzere. Dal canto suo, a fine agosto Caviezel si è recato nell’Aceh con un gruppo di giornalisti elvetici, per dar loro l’opportunità di rendersi conto di persona e incontrare gli analisti al termine della loro visita in Indonesia. Adriaan Ferf ha trascorso a Meulaboh un’intera settimana e dispensa elogi alla Catena della solidarietà. «È estremamente raro che, dieci anni dopo, un’organizzazione umanitaria faccia analizzare in modo neutrale che cosa ha apportato realmente il suo aiuto e per farlo metta a disposizione tutto questo tempo e queste risorse». Effettivamente, l’analisi commissionata dalla Catena della solidarietà costa 318’000 franchi e potrebbe concludersi anche con delle critiche. Comunque, al momento dell’incontro a Meulaboh, è ancora troppo presto per tirare le somme e Ferf non fornisce alcun giudizio. Tuttavia, confessa di essere «piacevolmente sorpreso». I dettagli sono stati resi noti l’11 dicembre. In totale sono state costruite 23’000 abitazioni. Alla fine del loro periplo in tre na-

zioni, Ferf e i suoi cinque collaboratori avranno condotto 150 colloqui con circa 500-700 persone. «A volte con la stessa famiglia trascorriamo una giornata, a volte anche tre». È fondamentale prendersi il tempo necessario per consolidare la fiducia. «Solo così ci si può accostare alla realtà delle persone». Naturalmente Ferf incontra anche funzionari e autorità al fine di verificare in che misura sono stati utili i vari progetti d’infrastruttura. Infatti, con i soldi della colletta sono state anche ricostruite scuole, modernizzati impianti dell’acqua e migliorati ospedali. È ovvio, osserva Ferf, che gli aiuti hanno sempre anche dei risvolti imprevisti. «Per esempio, capita che un pescatore preferisca rivendere la sua bella barca nuova di zecca e usi i soldi per bisogni più impellenti». Se oggi si visitano città come Meulaboh o Banda Aceh si fa fatica a credere che alla fine di dicembre 2004 questi posti assomigliassero a un teatro di guerra. Ora sono delle fiorenti città con un’infrastruttura funzionante, affollate di gente indaffarata e bambini curiosi, che colgono ogni occasione per esercitare la loro infarinatura d’inglese. Il gruppetto di giornalisti svizzeri viene subito avvicinato anche alla Inshafuddin Boarding School di Banda Aceh, ricostruita con l’aiuto della Croce Rossa Svizzera (CRS). Cinque ragazze adolescenti con il velo sul capo vogliono sapere come ci chiamiamo, da dove veniamo e come troviamo l’Indonesia. Fanno parte dei quasi 600 tra studenti di entrambi i sessi ospiti di questo collegio, che però è stato progettato per soli 500 studenti. L’istituto è infatti molto ambito: chi conclude con successo i sei anni di scuola media superiore ha poi buone possibilità di essere ammesso all’università o di trovare un buon lavoro. La 17enne Fahad Buyung, ad esempio, vorrebbe andare a studiare inglese in Australia, ma dovrà prima diplomarsi con buoni voti tra un anno. Come ogni scuola in questa provincia islamica profondamente religiosa, anche il collegio Inshafuddin attribuisce grande valore alla formazione religiosa. Comunque il rettore Abdullah Usman (63 anni) tiene a precisare che le ragazze ricevono la stessa istruzione dei maschi «e spesso sono anche nettamente più brave, specialmente in inglese», spiega con l’aiuto di un interprete. Durante la visita è presente anche Martin Fuhrer (60), ex responsabile per l’estero della CRS, che ha seguito da vicino i progetti a Banda Aceh ed ora si rallegra nel vedere come si è sviluppata la scuola. «La campagna di aiuti dopo lo tsunami è stata la più grande della

nostra storia». Solo nell’Aceh, la CRS ha stanziato circa 20 milioni di franchi per progetti di aiuto, soprattutto per scuole, cliniche e opere idriche». «La situazione subito dopo lo tsunami era estremamente difficile e caotica», ricorda Fuhrer. «A volte le organizzazioni umanitarie hanno prestato aiuto in modo del tutto casuale». A volte scoppiavano vere e proprie liti a causa di quale organizzazione avrebbe dovuto ricostruire una certa scuola o un certo ospedale. «Ci chiedevamo se avremmo davvero dovuto partecipare a questo circo», dichiara Fuhrer. «Ma i bisogni erano tanti e reali; era giusto impegnarsi e mettersi al lavoro qui. Oggi possiamo affermare di aver patrocinato progetti intelligenti, grazie ai quali abbiamo aiutato gli abitanti del luogo». Manfred Borer (40 anni), responsabile di Swisscontact in Indonesia, è della stessa opinione. Swisscontact è una fondazione indipendente, che ci concentra sullo sviluppo economico, sociale ed ecologico e che nella provincia di Aceh sostiene soprattutto le piccole imprese. In Indonesia l’organizzazione è attiva sin dal 1973, ma nell’Aceh solo dopo lo tsunami. Finora vi ha investito circa 25 milioni di franchi. Le sfide per i soccorritori erano numerose. «Un grosso problema era quello di reperire gente sufficientemente qualificata e tenersela stretta. Infatti, alcune organizzazioni pagavano salari più alti dei nostri», precisa Fuhrer. Altrettanto problematiche erano la complicata burocrazia indonesiana, la notoria corruzione e il fatto che dal governo provinciale giungevano continuamente nuovi desideri. «Bisognava respirare profondamente e avere pa-

Dieci anni dopo la vita si è normalizzata, solo qua e là si vedono ancora i segni lasciati dallo tsunami. (Samuel Trümpy)

zienza», dichiara Borer. Oggi, gli operatori umanitari sono confrontati con altre difficoltà: «Adesso l’infrastruttura esiste, ma spesso non viene gestita e mantenuta come si deve; a volte perché mancano i mezzi, a volte invece si tratta di pura mancanza di volontà e competenza», sottolinea Fuhrer. Ci sono stati anche investimenti sbagliati, ad esempio in alcuni luoghi le agenzie umanitarie hanno costruito abitazioni che oggi sono vuote. «Ma fatti

Umi Sakdhia, Abdul Wahad e loro figlio davanti alla loro nuova casa. (Samuel Trümpy)

del genere possono succedere ovunque, dopotutto perfino il nuovo aeroporto di Berlino non è ancora funzionante», osserva Borer. Lo preoccupa di più la crescente rigida religiosità. «Nella provincia dell’Aceh vige la legge islamica, la Sharia, che rende praticamente impossibile sviluppare un’industria del turismo, nonostante qui ci sia un’infinità di spiagge da sogno e si avrebbe bisogno di quei proventi finanziari». Nel complesso, comunque, entrambi giudicano piuttosto positivamente il progresso nella regione. «Rispetto al passato è stato fatto un grande passo avanti», afferma Borer. Vi ha contribuito anche il fatto che è stato sedato il conflitto in corso prima dello tsunami tra gli indipendentisti dell’Aceh e il governo centrale di Jakarta. La catastrofe ha scioccato a tal punto entrambe le parti che è stato possibile raggiungere un compromesso. Da allora l’Aceh ha più autonomia e vi regna la pace. Anche Annina Feller (36 anni) è sorpresa in positivo. La donna ha vissuto a Meulaboh dal 2008 al 2010 in qualità di coordinatrice dei progetti Caritas. In particolare, ha diretto la costruzione di nuovi alloggi per la popolazione, ricostruendo 200 case sui luoghi originari vicini al mare e altri 1050 nell’entroterra. «All’epoca, per noi la grande questione aperta era di sapere se avesse funzionato l’insediamento nei nuovi quartieri della popolazione della

costa», spiega Feller. «Ed è bello vedere che effettivamente ha funzionato». A quel tempo le sfide erano tantissime anche per Annina Feller. Tra le maggiori vi era la scelta degli aventi diritto agli alloggi. Molte organizzazioni umanitarie avevano costruito nello stesso luogo e c’erano famiglie che si erano annunciate contemporaneamente presso diverse organizzazioni. «Naturalmente volevamo evitare che improvvisamente una famiglia possedesse diverse case, mentre altre restavano a mani vuote». Se oggi si parla con gli abitanti del nuovo quartiere di Blang Beurandang, si sprecano gli elogi per le abitazioni della Caritas, che in fatto di qualità sono nettamente migliori di quelle delle altre organizzazioni d’aiuto. In generale, c’è tanta gratitudine. «Per favore trasmettete il nostro grazie al popolo svizzero», si sentono dire più volte i giornalisti. Anche Umi Sakdiah e suo marito sono felici per l’aiuto che ha consentito loro di rifarsi una vita e darsi un futuro. Il sogno di Umi è di aprire, un giorno, un grande salone di bellezza, situato più in centro città per attirare più clientela. E Abdul Wahad si è lasciato ispirare dal successo della moglie: ha intenzione di abbandonare il suo lavoro di maestro tra un paio d’anni e di aprire un salone di barbiere. * Reporter di Migros Magazin Annuncio pubblicitario

Fare la cosa giusta

Quando la povertà mostra il suo volto Dessie Abate (65), vedova dell’Etiopia


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Politica e Economia

Al via il grande cantiere della riforma delle pensioni Previdenza Pareri discordi, dopo la consultazione, fra partiti e organizzazioni. Secondo un’inchiesta di Pro

Senectute, la riforma sembra invece raccogliere favori tra la popolazione

Ignazio Bonoli Il pacchetto di riforme della previdenza vecchiaia in Svizzera – presentato dal Consiglio federale (dopo ampia consultazione e lunga riflessione) – parte dal presupposto che – al più tardi a partire dal 2030 – la sola AVS presenterà un deficit annuale che supera gli 8 miliardi di franchi. Il motivo principale di questa evoluzione è dato dall’invecchiamento demografico e quindi dal numero crescente di persone che beneficeranno delle prestazioni dell’assicurazione per la vecchiaia e i superstiti. Il consigliere federale Alain Berset ha fatto digerire al governo una riforma sicuramente epocale, dal momento che propone nientemeno di unificare il primo e il secondo pilastro, cioè l’AVS e la previdenza professionale. Ma questo è solo uno degli aspetti cruciali. Un altro tabù dovrebbe cadere, cioè quello dell’età di pensionamento, sia per la parificazione a 65 anni di donne e uomini, sia per la possibilità di flessibilizzare il pensionamento fra i 62 e i 70 anni d’età, anche per l’AVS, con relative conseguenze sull’ammontare della rendita. Come ogni riforma di questo tipo, anche questa necessita di un importante finanziamento. Né l’unificazione dei due pilastri, che permette di utilizzare le eccedenze delle casse pensioni anche per l’AVS, né l’aumento dei contributi

all’AVS basteranno per coprire il disavanzo preventivato per la sola AVS. Per coprirlo, almeno parzialmente, si propone quindi un aumento dell’IVA dell’1,5%. Se però il Fondo di compensazione AVS dovesse scendere sotto il 70% delle rendite versate in un anno, il Consiglio federale dovrà proporre misure di risanamento. In ogni caso, a questo livello vi sarà sia un aumento dei contributi, sia un adeguamento solo parziale delle rendite all’evoluzione dei prezzi e dei salari. È prevista anche una diminuzione delle rendite AVS delle vedove, ma anche un aumento delle rendite degli orfani. Infine – per restare solo alle modifiche principali proposte – oltre alla rinuncia alla deduzione di coordinamento sulla previdenza professionale, assicurando così anche salari bassi e tempi di lavoro parziali, è prevista la diminuzione del tasso di conversione, del capitale di vecchiaia del 2° pilastro in rendite, dall’attuale 6,8 al 6,0% entro quattro anni. Per garantire il mantenimento del livello delle rendite, i datori di lavoro e i dipendenti dovranno aumentare i contributi alle casse pensioni. L’accoglienza immediata delle riforme, che non si discostano molto dal progetto posto in consultazione, è stata abbastanza tiepida. Ma, mentre i socialisti (e i Verdi) dicono che una simile riforma può essere fatta solo attraverso

Alain Berset presenta l’ambiziosa ma ormai necessaria riforma «Previdenza 2020». (Keystone)

un «pacchetto» di misure, i sindacati criticano il contemporaneo rifiuto dell’iniziativa che chiedeva un sostanzioso aumento delle rendite AVS, nonché la riduzione del tasso di conversione del 2° pilastro. Negli altri partiti, il più vicino alle riforme proposte è il PPD, che approva la flessibilizzazione dell’età di pensionamento e anche la parificazione dell’età di pensionamento per le donne. Fra gli altri, le posizioni variano dalla proposta di rinviare il messaggio al governo, alla richiesta di suddividere il pacchetto, cominciando dalle riforme più urgenti. Cosa che anche Berset non rifiuta a priori. Rimane in ogni caso forte l’opposizione all’aumento dell’età pensionabile delle donne.

La battaglia sarà comunque ardua e più complessa. Basti pensare che riforme della sola AVS sono già cadute nel 2004 e nel 2011, mentre oggi anche le casse pensioni professionali incontrano difficoltà. In molti casi, il capitale di vecchiaia non basta per coprire le rendite, cosicché le giovani generazioni pagano per gli anziani e non solo per la loro futura pensione. Per sondare gli umori nella popolazione, prima ancora della discussione in Parlamento, Pro Senectute ha commissionato un’inchiesta all’Istituto GfS di Berna. Il risultato può riservare qualche sorpresa. Intanto, il «pacchetto» viene considerato generalmente ben bilanciato. Almeno i due terzi degli intervistati si dicono d’accordo con

le riforme. Presso tutti gli intervistati sembra prevalere la volontà di salvaguardare il sistema pensionistico, che viene considerato uno dei migliori al mondo. Per alcuni contenuti del «pacchetto» si sono avute risposte sorprendenti. Per esempio per quanto concerne l’aumento dell’età di pensionamento delle donne, tra gli uomini prevale il consenso con punte dell’83% tra coloro che hanno superato i 65 anni. Tra le donne sono d’accordo quelle che hanno superato i 65 anni (69%) e anche quelle fra i 40 e i 64 anni (54%). Contrarie invece le giovani tra i 18 e i 39 anni (60%). Sull’aumento dell’IVA dell’1,5% i pareri sono invece più sfumati: sono d’accordo gli uomini sopra i 65 anni (61%) e quelli tra i 40 e i 64 anni (57%). Tra le donne sono d’accordo quelle sopra i 65 anni (59%) e quelle tra i 40 e i 64 anni (53%). Maggioranza di contrari invece tra i giovani. È comunque ancora presto per un giudizio definitivo, ma per quanto concerne l’aumento dell’età di pensionamento in generale, l’Istituto GfS riscontra solo un 30% di favorevoli. L’esperienza insegna che i grossi «pacchetti» di riforme raramente superano l’ostacolo del Parlamento o del popolo. Non è da escludere che singole parti della complessa riforma possano trovare il necessario consenso e sarebbe già un bel risultato. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 15 dicembre 2014 ¶ N. 51

Politica e Economia

Il (non)senso del regalo La consulenza della Banca Migros

Guardo con un certo scetticismo la sempre più abbondante marea di regali per Natale. Questa usanza dilapida risorse. Che cosa ne pensa?

Albert Steck è responsabile delle analisi di mercato e dei prodotti presso la Banca Migros

Su un punto devo darle ragione come economista: nell’ottica del rapporto costi/benefici il regalo ha poco senso. Gli esperimenti scientifici dimostrano che le persone attribuiscono al regalo ricevuto in media un valore del 20 percento inferiore al suo prezzo effettivo. Anche se ci impegniamo strenuamente nella scelta del regalo, spesso è un caso incontrare i gusti della persona che riceve cioccolatini, un profumo o un pullover. In termini economici sarebbe dunque più efficiente se sotto l’albero mettessimo semplicemente del denaro. Ma allora perché ci facciamo regali, se questi si svalutano agli occhi dell’altra persona? Secondo la logica dell’homo oeconomicus si potrebbe argomentare che nell’atto del regalare non pensiamo prima di tutto al destinatario, ma al proprio vantaggio: con uno splendido dono aumento il mio prestigio personale. Inoltre, con un regalo posso indurre discretamente qualcuno a modificare il suo comportamento, per esempio nella scelta del suo profumo. Sicuramente con questo gesto seguiamo anche obiettivi egoistici, ma non solo! Perché il modello dell’homo oeconomicus che massimizza i vantaggi può spiegare solo in parte il comportamento umano. Inoltre, ci facciamo guidare

anche da motivi altruisti, quindi disinteressati. Ad esempio facendo offerte o svolgendo attività di volontariato. Queste forme di altruismo sono sconosciute nel resto del mondo animale.

L’essere umano ha bisogno di essere altruista Il fatto che per Natale dimentichiamo l’incremento economico del valore e ci copriamo di regali è, secondo me, l’espressione dell’esigenza umana di altruismo. D’altronde è bello che nel regalare – a differenza di così tanti altri ambiti nella vita – per una volta non domini il disincantato pensiero del rapporto costi/benefici. Ammetto che il nostro rito del regalo sia nel frattempo diventato un po’ eccessivo. Ciò indica tuttavia un’altra caratteristica, tutta umana: il sopravvalutarsi. Molti di noi sono molto meno bravi di quanto sperato a indovinare i desideri delle persone a noi più vicine. Basterebbe questa semplice constatazione per evitarci numerosi passi falsi con regali troppo stravaganti. Ma per questo è da abolire a piè pari la consuetudine del dono? Il mondo sarebbe più povero di tante gioiose esclamazioni di meraviglia… Discutiamone su blog.bancamigros.ch: Cosa ne pensate dell’usanza di farsi regali?

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Albert Steck

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Le conseguenze del crollo del prezzo del petrolio Nel corso degli ultimi sei mesi il prezzo del petrolio è diminuito di circa il 40 per cento. Il prezzo del barile di Brent, è caduto da 115 a 69 dollari. Il Brent è un petrolio che si estrae nel Mare del nord e che è diventato il metro di riferimento qualitativo per tutti gli altri petroli. Tutti gli esperti sono d’accordo nell’affermare che questa caduta non è un fenomeno passeggero. È probabile che il prezzo del

petrolio resterà basso non solo durante tutto il 2015 ma anche nel 2016. Gli appassionati dell’automobile faranno salti di gioia. Chi invece segue l’andamento dell’economia mondiale esprimerà più di una preoccupazione. Ma incominciamo da un esame del mercato del combustibile per eccellenza. L’attuale caduta del prezzo del petrolio è dovuta, da un lato, a un indebolimento della domanda e, dall’all’altro,

L’OPEC, un «cartello» sempre meno potente. (Keystone)

dall’incapacità dei Paesi che fanno parte del cartello del petrolio, l’OPEC, di mettersi d’accordo per ridurre la produzione. Nella sua riunione di fine novembre, a Vienna, l’OPEC, soprattutto per la pressione esercitata dall’Arabia Saudita, ha deciso di non ridurre la produzione. Per il momento quindi sul mercato del petrolio vi è una forte eccedenza di offerta che, ovviamente, fa calare il prezzo. Sappiamo che, sia nel caso dell’economia mondiale, sia in quello dell’economia del nostro Paese, esiste una stretta correlazione tra l’evoluzione del prezzo del petrolio e il suo andamento congiunturale. Quando l’economia tira, la domanda di energia aumenta e il prezzo del petrolio sale. Succede il contrario nei periodi di recessione. Sul prezzo del petrolio possono però influire anche avvenimenti politici come le decisioni dell’OPEC, oppure di singoli Stati membri del cartello, come pure i numerosi conflitti aperti nelle zone di produzione del greggio. Con il passar del tempo intervengono poi le strategie di adattamento alla nuova

situazione che possono invertire la tendenza. Per esempio, le decisioni dell’OPEC di contenere la produzione del greggio negli anni Settanta dello scorso secolo, indussero le case automobilistiche a studiare nuovi modelli di automobile che consumavano meno benzina. Sul prezzo del petrolio possono influire però anche decisioni di politica energetica o di politica ambientale di grandi consumatori di greggio come gli Stati Uniti e la Cina. Come i lettori sanno, questi due Stati hanno deciso, di recente, di combattere con maggiore impegno l’inquinamento ambientale. Questa decisione non ha certamente ancora avuto un impatto negativo sulla domanda di petrolio dei due colossi dell’economia mondiale, ma lo avrà di sicuro nel medio termine. Vi sono ancora altri fattori di natura strutturale, come lo spostamento di una parte significativa della produzione industriale dai Paesi ad alti salari a quelli con salari bassi, che incidono negativamente sull’evoluzione della domanda di petrolio. La debolezza at-

tuale, però, va fatta indiscutibilmente risalire alla diminuzione del tasso di crescita dell’economia mondiale. Cadute importanti del prezzo del petrolio greggio sono quindi le spie di una possibile recessione, proprio come l’arrivo del Föhn nelle valli della Svizzera centrale significa pioggia per il Ticino. Contemporaneamente, la caduta del prezzo del petrolio costituisce un incentivo importante per la ripresa dell’economia. Più lungo è il periodo di diminuzione e maggiore sarà l’impulso che l’energia a buon mercato potrà dare alla ripresa economica. Terminiamo rilevando che la caduta del prezzo del petrolio va a vantaggio della maggior parte delle economie avanzate. Vi sono però anche delle economie perdenti. Attualmente a soffrire di più delle riduzione del prezzo sembrano siano, nell’ordine, l’economia venezuelana, quella russa e quella norvegese, tutte economie che dipendono molto dall’industria petrolifera. Insieme a esse, anche economie come quella del Brasile che producono biocarburanti.

John Maguire, ex operativo della Cia. E fino alla crisi con lo Stato islamico e alla sua nuova visibilità, nessuno lo aveva quasi mai sentito nominare. Da quindici anni lavora nell’ombra, spietato e imprescindibile, con obiettivi chiari, come la tenuta della Siria e di Assad, cosa che da anni rende inefficace ogni tentativo di spallata da parte dell’Occidente. Anche lì la procedura è stata come in Iraq oggi: Suleimani si è trasferito a Damasco, ha occupato un palazzo nella capitale siriana, e ha iniziato a organizzare sia l’esercito di Assad sia i comandanti di Hezbollah, al punto che le fonti di intelligence americane hanno detto che, fondamentalmente, il capo delle forze al Quds guida da solo la guerra di Assad. In Iraq, Suleimani ha cambiato anche la sua strategia personale. Si fa vedere per dimostrare la sua influenza e per dire agli americani che, senza di lui, non è possibile vincere contro lo

Stato islamico. L’alleanza di fatto tra Iran e America fa sì anche che Assad continui a sopravvivere: il prezzo della collaborazione è che il regime di Damasco non cada, con buona pace per i ribelli siriani e per tutte le armi e gli addestramenti che stanno ricevendo dall’America per combattere la loro guerra sempre più solitaria. Suleimani è lì per garantire che il patto non sia violato, e gli americani sanno che il comandante iraniano fa sul serio. È uno che inviava sms al generale David Petraues, quando guidava le operazioni in Iraq, ricordandogli quanto fosse influente sulla sicurezza e sulla politica del Paese: lo chiamavano, allora, «il comandante ombra». Ora l’ombra non c’è più, ma resta quello che disse una volta l’allora ambasciatore in Iraq Ryan Crocker: «Suleimani va in moschea soltanto ogni tanto. Non è la religione a guidarlo. È il nazionalismo, e l’amore per la guerra».

doppio voto sull’immigrazione (9 febbraio e 30 novembre). «Malessere» inteso ora come uno stato d’animo sospeso tra il vuoto della solitudine e il timore di ritrovarsi invischiati in faccende molto più grandi di noi. Le «eruzioni» giovanili furono soltanto due: nel 1968 e nel 1980. La prima vide protagonisti soprattutto studenti delle superiori e delle università; la seconda strati urbani molto compositi che reclamavano spazi di autonomia culturale e associativa in agglomerati come Zurigo, Basilea, Berna e Losanna. Furono rotture che fecero scalpore e che spaventarono l’opinione pubblica moderata, ma che rientrarono presto nell’alveo della normalità e del «comune pensare svizzero». Gli ultimi dati sul grado di coesione interna – diffusi dal «barometro delle apprensioni» curato dal Credito Svizzero – registrano un picco del sentimento patrio mai raggiunto prima.

La patria, insomma, non è mai stata così popolare come oggi, aiutata in questo dal marasma economico internazionale e dalle convulsioni di cui è attualmente preda il progetto europeo. L’osservazione empirica, centrata sui comportamenti giovanili, specie quelli rilevabili nelle aree esposte come quella ticinese, conferma questa tendenza. Il malanimo non si scarica più sul «sistema» ritenuto discriminatorio, ma sui reali o potenziali concorrenti presenti sul mercato del lavoro (lo straniero, il frontaliere, l’apprendista lombardo) assumendo così le vesti dell’eurofobia o dell’italofobia. C’è da chiedersi che futuro possa avere un Paese – un cantone – che costruisce il suo senso di appartenenza ad una patria fondato su tali atteggiamenti di animosità. Purtroppo sono sempre più numerosi i partiti che li sfruttano a fini elettorali anziché interrogarsi sulle cause e le ragioni.

Affari Esteri di Paola Peduzzi Suleimani, l’iraniano alleato degli Usa Quando, nel giugno scorso, la seconda città dell’Iraq, Mosul, è caduta nelle mani dello Stato islamico, Qassam Suleimani, capo dell’unità d’élite delle Guardie della Rivoluzione iraniane dal 1997, ha deciso di prendere residenza a Baghdad, a casa di un parlamentare iracheno che siede nella commissione Affari esteri. Da lì Suleimani ha coordinato la difesa di Baghdad dall’assalto degli uomini del califfo, ha mobilitato le milizie sciite presenti in Iraq (quelle che hanno ucciso americani a decine durante la guerra: secondo le stime il 25 per cento dei soldati ammazzati) e le altre milizie alleate in giro per la regione. Un parlamentare iracheno ha raccontato al «Guardian» che Suleimani è attivissimo perché la battaglia contro lo Stato islamico «è ideologica, sia per Suleimani sia per l’ayatollah Ali Khamenei, cui Suleimani riferisce direttamente. Non è una battaglia per il futuro dell’Iraq, ma è in nome degli

sciiti, contro i sunniti», una guerra di supremazia, la più importante degli ultimi dieci anni. Questo spiega perché Suleimani, cinquantasettenne sfuggente e restio a ogni comparsata, sia oggi regolarmente fotografato a Baghdad, negli incontri con emissari stranieri, e nella città di Amerli, nel centro dell’Iraq, che i curdi e l’esercito iracheno hanno riconquistato allo Stato islamico ad agosto, grazie alla copertura aerea delle forze americane – e questo è il paradosso più grande e più spaventoso della lotta globale al califfato: Suleimani balla una danza della vittoria con i suoi uomini e deve ringraziare i suoi arcinemici, gli americani. È la prova dell’alleanza di fatto tra iraniani e americani, negata a livello ufficiale da entrambe le parti, ma reale e in qualche caso anche efficace sul campo. Suleimani, che era stato accusato da Washington di sostenere il regime di Bashar al-Assad in Siria nella

repressione, oggi è considerato l’uomo che può salvare il Medio Oriente da alBaghdadi, e per questo viene celebrato sulle cover dei magazine internazionali. Suleimani controlla il Libano attraverso Hezbollah, controlla lo Yemen sostenendo i ribelli sciiti Houthi, controlla la Siria avendo garantito al regime di Damasco la sopravvivenza e ora controlla l’Iraq gestendo la strategia di sicurezza contro lo Stato islamico. La sua unità d’élite, le forze Quds, ha anche aiutato i curdi nella resistenza di Erbil, pur se non sono sciiti, e questo ha fatto capire la profondità strategica del leader iraniano: ogni mezzo è buono per sconfiggere al Baghdadi, poi si regoleranno i conti a guerra finita. L’obiettivo di Suleimani è quello di modellare la regione sulla base degli interessi dell’Iran, è considerato «il più potente operativo nel Medio Oriente», secondo la definizione di

Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti I giovani e il ritorno dell’amor patrio Ogni epoca vede nascere e svilupparsi movimenti di contestazione, che hanno come bersaglio il potere costituito (politico, religioso, ideologico). Francesco Alberoni, nella sua ormai classica indagine intitolata Movimenti e istituzioni, uscita la prima volta nel 1977, individua e classifica un gran numero di aggregati sociali, che vanno dalle sette ai partiti, dalle chiese alle nazioni. Ogni potere produce forze a lui contrarie, forme di contro-potere; talune, dopo le prime fiammate, si frazionano o si squagliano; altre, invece, continuano, si allargano, si danno una struttura, dei leader, delle forme di organizzazione stabili, con statuti e tesserati. E spesso riescono, a loro volta, a presentarsi come nuovo potere. Per qualificare il Novecento, è stata usata anche questa etichetta: il secolo dei giovani. Ovvero, il secolo che vede irrompere sul proscenio questa nuova fascia sociale, coi suoi riti e costumi,

pratiche di consumo e desideri di contare come interlocutore politico. Sono giovani le avanguardie artistiche che cent’anni or sono scesero nelle piazze per invocare un salutare bagno di sangue fresco; alla vigilia del secondo conflitto mondiale, ogni partito di massa – nazista, fascista, comunista – poteva contare su manipoli di giovani militarmente inquadrati e suddivisi per età. Su queste politiche ha scritto pagine molto penetranti lo storico Antonio Gibelli, nel volume Il popolo bambino. Infanzia e nazione dalla Grande Guerra a Salò (Einaudi). Questa rigida organizzazione diretta dal partito unico tramonta con la sconfitta dei totalitarismi, almeno in Occidente (prosegue invece nella sfera orientale controllata dall’Unione Sovietica). Nel dopoguerra democrazia e società dei consumi crescono in parallelo. Le generazioni dell’era postbellica possono decidere

di contestare il sistema in cui vivono senza rischiare la galera o la deportazione. Sono ondate di protesta di vario genere. Alcune sono schiettamente politiche, ossia si pongono come polo anti-capitalistico, sulla base di ideologie alternative; altre invece cercano la salvezza nelle piccole utopie, come le comunità neo-rurali o le confraternite religiose, abbandonando ogni velleità rivoluzionaria. Anche la Svizzera, nel dopoguerra, ha conosciuto cicli di micro-agitazioni sociali che, pur senza intaccare l’architettura del Paese, segnalavano l’esistenza di uno specifico disagio elvetico («helvetisches Malaise»), una specie di «tarlo» che minava il rapporto di fiducia tra il cittadino e lo Stato. La formula, coniata dal professore di diritto pubblico Max Imboden giusto cinquant’anni fa, conobbe una certa fortuna, tant’è vero che è stata ripresa ancora recentemente a proposito del


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Cultura e Spettacoli Scrittori al cinema Anche il cinema può ispirare la letteratura, e non solo viceversa: un’antologia lo dimostra

Berlino, amata e odiata Si avvicina alla fine il nostro viaggio di ricognizione letteraria in una delle più significative metropoli d’Europa

Le metamorfosi di Bowie David Bowie ritorna ai suoi numerosi fan con un triplo disco antologico

Ricca scena ticinese Le produzioni teatrali locali diventano sempre più articolate e ardite, con buoni risultati pagina 49

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Rembrandt, The Conspiracy of the Batavians under Claudius Civilis (1661-2) The Royal Academy of Fine Arts, Sweden. (© Rijksmuseum, Amsterdam)

L’oro della vecchiaia Mostre L’ultimo Rembrandt alla National Gallery di Londra Gianluigi Bellei Sono passati ventitré anni dalla grande mostra su Rembrandt organizzata congiuntamente dalla Gemäldegalerie SMPK di Berlino, dal Rijksmuseum di Amsterdam e dalla National Gallery di Londra che inanellava una serie impressionante di capolavori del grande artista. Quest’anno la National Gallery e il Rijksmuseum hanno organizzato un’esposizione sui suoi ultimi anni dal 1650 al 1669, data della sua morte avvenuta, è utile ricordarlo, all’età di 63 anni. Pochi, direte voi. Tanti se prendiamo come esempio gli ultimi autoritratti dove appare particolarmente anziano. Dopo il successo e la ricchezza, che hanno il loro culmine con la realizzazione della Ronda di notte del 1642 e la morte della moglie Saskia, per Rembrandt inizia una parabola discendente che lo conduce quasi in miseria. Tormenti, tribolazioni, disgrazie, lo fanno sicuramente invecchiare precocemente. Ciò non toglie che i suoi ultimi lavori siano ammirati come i più alti esempi della pittura di tutti i tempi. Georg Simmel in un saggio filosofico sull’arte di Rembrandt scrive di soggettività della vecchiaia in contrapposizione al soggettivismo della gioventù. Quest’ultimo è derivato da un mondo spensierato e senza freni al quale

rivolgersi contro come se non esistesse; la soggettività della vecchiaia, al contrario, «è un liberarsi e un ritirarsi dal mondo, dopo che lo si è accolto in sé come esperienza e destino». La gioventù ha l’Io come «contenuto» predominante, la vecchiaia lo ha invece come «forma». La forma di Rembrandt appare con gli anni sempre più sfilacciata, indefinita, come se l’interno e l’esterno si coniugassero in un tutt’uno. Ed è proprio quest’aspetto che risulta il più intrigante e originale. Un po’ come per l’ultimo Tiziano. Un particolare non secondario riguarda l’interpretazione che gli studiosi danno a questo modo di pitturare. Van Hoogstraten nel suo trattato del 1678 sostiene che tale metodo «grossolano» adottato da certi artisti in tarda età non sia altro che l’espressione del loro declino fisico… Jonathan Bikker e Anna Krekeler nel saggio in catalogo della mostra londinese sostengono, al contrario, che la tecnica dell’ultimo Rembrandt altro non è che la summa dei singoli procedimenti adottati negli anni passati. Di conseguenza l’artista utilizza l’arsenale completo delle sue possibilità creando così un nuovo metodo e un approccio radicale nella realizzazione dei dipinti. Ma in che cosa consiste questa forma e questa tecnica? Baldassarre Castiglione nel suo Libro del cortigiano del 1528 parla di sprezzatura che defini-

sce l’attitudine a effettuare delle macchie difficili con un’apparente facilità e ne parla proprio a proposito dello stile tardivo del Tiziano e del suo modo grossolano di dipingere a grandi colpi di pennello. I tocchi liberi del pittore sono poi paragonati all’atteggiamento di noncuranza e scioltezza del cortigiano. Il Libro del cortigiano viene edito in nederlandese per la prima volta nel 1652 e il termine sprezzatura tradotto come lossigheydt che significa, appunto, scioltezza. Rembrandt già all’inizio della sua carriera utilizza una serie di coltelli per stendere il colore e contemporaneamente il manico del pennello per delle rapide incisioni sulla pellicola pittorica ancora fresca. Teniamo presente che il coltello tradizionalmente serviva unicamente per mescolare i colori sulla tavolozza; solo verso la fine dell’Ottocento gli artisti dipinsero direttamente sulla tela con l’utilizzo di appositi coltelli chiamati spatole. Da anni in ogni caso si sapeva che i colori chiari avrebbero assunto maggiore luminosità se eseguiti mediante strati spessi e sovrapposti. Rembrandt utilizza questa tecnica a macchia grossolana e ruvida come base per le velature (strati di colore molto diluiti) che poi gratta facendo apparire a tratti il colore sottostante. Crea così una forte intensità luminosa dagli effetti vibranti. Secondo Hoogstra-

ten le parti chiare del dipinto tendono a venire avanti, mentre quelle scure ad arretrare. Ma non solo: le parti chiare appariranno maggiormente vicine a noi più il colore sarà percettibile, cioè scabro. Scrive infatti: «Dico dunque che solo la percettibilità crea la vicinanza delle cose, mentre l’uniformità le allontana: perciò voglio che le cose in primo piano siano stese in modo ruvido e chiaro e che le cose sullo sfondo siano trattate con maggior precisione e finezza». La mostra londinese consta di una quarantina di dipinti, venti disegni e trenta incisioni provenienti dai più importanti musei del mondo. Le incisioni sono presentate in diversi stati così da poter verificare il metodo di lavoro dell’artista, i suoi ripensamenti e la sua tecnica raffinatissima e insistente. Si inizia con una serie di autoritratti e poi subito siamo confrontati con l’enorme tela The Conspiracy of the Batavians under Claudius Civilis del 1661 nella quale la fascinazione impressionante dell’effetto di luce si spande dalla tavola sul volto degli astanti. Seguono alcuni splendidi ritratti fra i quali quello del figlio Titus del 1656 e A Woman bathing in a Stream del 1654 dove una seducente Susanna al bagno ha le fattezze dell’ultima compagna dell’artista, Hendrickje Stoffels. Incandescente il Portrait of a Couple as Isaac and Re-

becca del 1665, ritratti in un momento di felicità coniugale. Isacco cinge con la mano sinistra la spalla di Rebecca mentre con la destra accarezza il corsetto. Lei, dal canto suo, poggia la mano destra su quella di Isacco e la sinistra sul proprio ventre. Da notare la strepitosa manica del vestito di Isacco nel quale il colore si stacca «dalla superficie del quadro in scaglie e grumi» dorati. L’ultimo dipinto in mostra è Simeon with the Infant Christ in the Temple del 1669, anno della morte di Rembrandt, opera estrema, sfilacciata, quasi illeggibile a distanza ravvicinata, nel quale Simeone sembra dire: «il Messia è arrivato, posso partire in pace». Ottimo allestimento suddiviso per temi, che alterna dipinti e incisioni, come il catalogo che ha anche l’indice dei nomi. Piccolo libretto con la descrizione di tutte le opere offerto gratuitamente. Buona l’illuminazione. Dove e quando

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Cultura e Spettacoli

Cinema in letteratura, stuzzicante come una scatola di cioccolatini Pubblicazioni Per Natale Racconti di cinema, una bella antologia che sa di cinema e di cioccolato... ottimi narratori

si ispirano al grande schermo e ci regalano belle storie Mariarosa Mancuso La più brava è Joyce Carol Oates. La sua invettiva intitolata Per Marlon Brando all’inferno rispolvera un genere purtroppo in via di estinzione, già questo merita una medaglia (queste forme letterarie rare e difficili bisognerebbe difendere, non i panda: ma dove lo trovate oggi uno che bombarda il nemico per pagine e pagine, in punta di penna, senza sbrigarsela con un insultino su twitter?). L’invettiva colpisce un idolo infranto. Parole di fuoco contro l’attore che nel dicembre 1953 spinse la futura scrittrice allora quindicenne a mentire ai propri genitori, a salire su un pullman Greyhound per Buffalo (12 miglia da casa, ma non aveva mai viaggiato sola), a infilarsi in un cinema di seconda visione dove proiettavano Il selvaggio. «Perché hai soffocato la tua bellezza nel grasso. Perché ti sei fatto beffe della nostra adorazione. Perché eri l’attore più grande che avevamo e hai buttato via la grandezza come fosse spazzatura». Così comincia l’invettiva, uno dei Racconti di cinema riuniti da Emiliano Morreale e Mariapaola Pierini in un libro appena uscito da Einaudi. Bella strenna natalizia per chi, come Italo Calvino, potrebbe dire «Ci sono stati anni in cui il cinema è stato per me il mondo». Quando lo schermo era occupato dal selvaggio Johnny, sempre con le parole di Joyce Carol Oates: «giubbotto di pelle nera, opachi occhiali scuri, l’autorità corrucciata del giovane maschio predatore in sella alla sua moto». Inutile cercare tra i racconti scelti dai curatori – le regole d’ingaggio dicevano solo storie concluse, non brani

Talento e bellezza gettati al vento: imperdonabile Marlon Brando. (Keystone)

di romanzi – Nei sogni cominciano le responsabilità di Delmore Schwartz. La storia straziante di un ragazzo che guarda un film con il primo appuntamento dei suoi genitori: l’incontro, gli sguardi, le parole dolci. Lui già conosce la fine, sa quanto infelice sarà il matrimonio. Ma non riesce a fermare il film, a far tornare indietro la pellicola: se non si fossero incontrati, la vita di tre persone sarebbe stata meno tragica (o forse no, ma lui lo spera). C’erano problemi di diritti – strano che non si sia riusciti a superarli, il mondo degli agenti e dei copyright ha le sue regole e le sue ostinazioni. Se vi resta qualche

curiosità, Delmore Schwartz lo trovate nel catalogo Neri Pozza. Ci fossero stati brani di romanzi, uno dei nostri prediletti sta in Coral Glynn, il romanzo britannico dell’americano Peter Cameron (a sua scusante dice di aver letto talmente tante scrittrici inglesi degli anni 50 da incamerarne linguaggio e humour). L’infermiera Coral Glynn nel giorno libero va al cinema, in cartellone un film intitolato Uno strano matrimonio. Ecco la trama, raccontata al modo di Rainer Werner Fassbinder nel libretto I film liberano la testa: aspetteremmo da un regista parole tecniche, e invece Fassbinder rac-

conta i melodrammi di Douglas Sirk con la partecipazione di una servetta (senza offesa per le servette). L’infermiera racconta quest’altro melodramma: «Due gemelle senza saperlo sono sposate con lo stesso uomo. Una sta in campagna e l’altra in città. La moglie di campagna era amante della casa e aveva un colorito roseo, quella di città era una donna elegante e annoiata». Finisce malissimo (un bel pianto era un valore aggiunto, per i registi di allora): «Le onde si frangono senza sosta sul cadavere in decomposizione del malvagio marito, e i gabbiani predatori, gli volteggiano sopra». Pri-

ma del THE END, Coral Glynn viene insidiata dal vicino di posto, che le mette una mano sul ginocchio: «L’uomo teneva gli occhi sullo schermo, quasi le parti del suo corpo fossero separate: la mano una piccola provincia ai confini di un vasto impero che, solo per la distanza dalla capitale, gode di una sorta di autonomia». La manomorta e il sunto del film riconducono a un altro di questi racconti cinematografici. Lo firma Irene Némirovsky, si intitola Nonoche al cinema. Sullo schermo, il 28mo episodio di L’ombra rapace (ci fu un tempo in cui il feuilleton dai giornali passò con successo al cinema, anche le serie d’autore hanno i loro bravi antenati), entra Nonoche accompagnata da un Signore Perbene, e cominciano a litigare. Lui non è stato capace di procurare due posti decenti. Lei si lamenta, anche del vicino che le schiaccia il gomito. Finché si accendono le luci, e Nonoche scopre che il vicino è «un bel tipo di vent’anni, molto alto, molto bruno». La cedevole virtù della signora viene stuzzicata, e il messaggio lanciato con un dibattito sulle differenze da cinema e teatro (il Signore Perbene, va da sé, preferisce il teatro). «Supponiamo che una donnina voglia dire a un tizio: “mi piaci sei carino, volentieri mi metterei con te”. Questo a teatro durerebbe ore. A teatro parlano più che in Parlamento. Mentre al cinema, vlin, vlan, due inquadrature ed ecco fatto. Non si apre bocca ma si capisce tutto lo stesso…». Solo un cioccolatino scelto tra i molti della scatola, altri sono firmati da Guido Gozzano, Carlo Emilio Gadda, Ennio Flaiano, Vladimir Nabokov, Massimo Bontempelli, Graham Greene, James G. Ballard.

Per ridere e riflettere Cinemando Natale al cinema: La Palma d’Oro di Cannes e l’ultimo Woody Allen

Fabio Fumagalli ***(*) Il regno d’inverno – Winter Sleep, di Nuri Bilge Ceylan, con Haluk

Bilginer, Melisa Sözen, Demet Akbag (Turchia 2014) Dopo l’incantato C’era una volta in Anatolia di tre anni fa, dopo la conferma de Il piacere e l’amore e Le tre scimmie della sensazione provocata nel 2003 a Cannes da Uzak, ecco che la Palma d’Oro 2014 a Winter Sleep è giunta a consacrare Nuri Bilge Ceylan fra i grandi cineasti degli ultimi dieci anni. Questa sua recente fatica di tre ore e sedici minuti, girata nel sontuoso paesaggio di un’Anatolia ghiacciata come le relazioni umane che vi si consumano, conferma tutta l’ambizione autoriale del regista turco. Straordinario nell’approfondimento dialogato (psicologico, culturale, morale) di due lunghe rese dei conti fra fratello, sorella, moglie e marito negli interni semioscuri di un albergo isolato della Cappadocia, indiscutibilmente posseduto da un magistero assoluto nella scrittura, il film poggia su una sua grande volontà e forza d’introspezione. Che, non a caso, ha ricordato a tutti la grande letteratura russa dei Dostojevski e Checov; oltre che un certo Ingmar Bergman… Una prova di maturità per tanti aspetti indiscutibile. Anche se, ripensando alla facilità del lirismo introspettivo di C’era una volta in Anatolia, segnata dall’ombra di un dubbio: che

il peso della riflessione filosofica, la volontà di chiudersi nel groviglio dell’intimo dei protagonisti, la seduzione colta delle metafore abbia sottratto a quest’ultima pellicola una parte del meraviglioso respiro poetico e della formidabile energia offerti dall’ambiente che esaltava la precedente. Winter Sleep è un grande, assolutamente ammirevole film: che forse sa un po’ tanto di esserlo. Quasi che il suo autore avesse voluto ricordarcelo, forzando non tanto le affascinanti qualità visionarie che avevamo ammirato in precedenza, quanto il peso letterario, un po’ moralista e autoreferenziale. Doveva essere la storia dell’ex attore Aydin, ritiratosi fra vette inaccessibili a fare l’albergatore e il locatore di quattro case sparse nei dintorni (che poveracci come il ragazzino che gli infrange il parabrezza nella sequenza iniziale stenteranno sempre a pagare). Al contrario, quasi a proteggersi dall’imponenza abbagliante del paesaggio esterno, si rinchiude negli interni oscuri che gli permettono di privilegiare un altro oggetto di fascinazione, la parola. Procedimento sublime, a rischio di presunzione. **(*) Magic in the Moonlight, di Woody Allen, con Colin Firth, Emma Stone, Marcia Gay Harden, Hamish Linklater (Stati Uniti 2014)

La ragione e l’illusione, la magia del prestidigitatore e il soprannaturale della graziosa (e finta?) medium.

Il paesaggio dell’Anatolia che fa da sfondo al film di Ceylan.

Come volete che finisca un film (e siamo al 43esimo…) di Woody Allen, se non con un innamoramento? Romantico e pessimista, Magic in the Moonlight deve parte del suo interesse al fatto di essere fatto a immagine e somiglianza del proprio autore. Depresso, realista e un filo cinico, Woody Allen assomiglia a quel Colin Firth, illusionista del film che ha in odio coloro che si spacciano per conversatori con i defunti. Pure romantico però, o perlomeno fiducioso nel potere della magia della luce che è in ogni cineasta, non è molto dissimi-

le da colui che arrischia di arrendersi al fascino e al sogno impersonato dalla giovane Emma Stone (la piacevole sorpresa del film). O, piuttosto, a un’altra illusione: se è vero, come dichiara il disincantato regista, che «il protagonista non rinuncia di certo alla propria visione realista dell’esistenza: ma impara a riconoscere ed apprezzare i passaggi di tregua e di piacere offerti dalla vita, senza i quali ci suicideremmo subito». Concepito con l’abituale intelligenza, ambientato con eleganza nella Costa Azzurra degli Anni Venti, acuto

e divertente nelle tipologie alla Scott Fitzgerald, splendente nella fotografia dorata di un grande Darius Kohndji (uno dei fattori creativi della pellicola), cullato dagli echi particolarmente piacevoli degli standard jazzy cari al nostro, Magic in the Moonlight non ci priva e si esalta di tutti quei fraintendimenti umoristici, garbati o impertinenti che hanno fatto grande la commedia americana dei Grant, Tracy, Hepburn. Eppure qualcosa (la malinconia dell’autore che affiora dalla trama spensierata?) non permette questa volta di agguantare la miracolosa precisione nei ritmi, la puntualità esilarante o spregiudicata dei dialoghi, l’annotazione spigliata e feroce dei dettagli di quei capolavori. Leggero, come sempre: ma privo dell’originalità magistrale di La rosa purpurea del Cairo nello stravolgere storie sempre uguali, dove, come dice Woody «all’inizio un tipo e la ragazza si detestano, e poi finiscono per mettersi assieme». Meglio felici nell’illusione che disperati nella verità, sembra concludere l’arrogante, impeccabile Colin Firth protagonista. Magic in the Moonlight è meno rabbioso e incisivo dello splendido Blue Jasmine che lo ha preceduto. Ma è nato sotto una diversa stella: è una delicata confessione sui limiti dell’artista quasi ottantenne che si rivela con forse furba, ma commovente sincerità. Quanto meglio poterlo fare filmando l’illusione, piuttosto che sdraiato dallo psichiatra...


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Cultura e Spettacoli

Una modernità sospetta Berlino, porta del mondo La metropoli tedesca ha dato molti spunti a intellettuali e filosofi per confrontarsi

– spesso criticamente – con il proprio tempo e con la città Luigi Forte Già all’inizio del secolo scorso Berlino offre stimoli nuovi e costanti alla percezione, e tale atmosfera trova nel sociologo e filosofo Georg Simmel, molto legato alla città, il suo teorico. È lui che analizza con spunti inediti vizi e virtù della modernità teorizzata per la prima volta da Baudelaire nel suo famoso saggio del 1863 Le peintre de la vie moderne. Il senso dell’effimero e del transitorio evocato dal poeta francese sembra modellare il ritmo euforico della metropoli tedesca dove gli individui sono sempre più esposti a una marea di impulsi come alla consapevolezza di vivere in uno spazio senza trascendenza, nel quale l’esistenza è fluida come il flusso del denaro e vaga in un labirinto dove i rapporti sono ogni giorno più «astratti», in preda come Tantalo a una nostalgia inappagata.

Al centro dell’interesse di molti scrittori le pecche e le zone d’ombra di una città che ha segnato il Novecento Walther Rathenau, futuro ministro degli esteri ucciso nel 1922 da due terroristi di estrema destra, apre a sua volta un’ampia riflessione sulla meccanizzazione, sugli aspetti problematici della divisione del lavoro, sul rapporto uomo-macchina. Successore del padre nel 1915 alla presidenza dell’AEG, a quel tempo una delle maggiori aziende industriali del mondo, egli è fra i primi imprenditori a riconoscere le conseguenze spesso negative della tecnica sull’uomo. Atteggiamento condiviso da molti intellettuali, ma con la faziosità e gli eccessi dell’anticapitalismo romantico allora di moda. Il sociologo Werner Sombart, ad esempio, nel moderno capitalismo non scorgeva che aspetti negativi come massificazione e razionalizzazione. L’uomo è sì padrone, ma anche vittima della macchina e rischia di robotizzarsi come il buon Charlot in Tempi moderni.

Anche lo scrittore Stefan Zweig in un saggio del 1925, quasi anticipando di decenni il fenomeno della globalizzazione, parla di monotonia delle forme di vita, di uomini, paesi e città che tendono sempre più a livellarsi snaturando la propria secolare identità. Non l’attenzione o lo stupore di fronte ai fatti caratterizzano la moderna sensibilità, ma una sorta di dilagante nevrosi: la ricerca affannosa di nuove realtà in una corsa all’infinito che nasconde, come annotava Zweig, una tendenza alla routine e l’eclisse di ogni individualità. Come per molti intellettuali anche per Zweig l’americanizzazione sembra essere la causa di tutti i mali. E dire che Rathenau sognava una ricostruzione urbanistica di Berlino, a suo parere deturpata da un ibrido stile architettonico, prendendo proprio esempio dal modello della city angloamericana. In quegli stessi anni anche il critico e pubblicista Maximilian Harden rilancia lo slogan di una capitale a cui manca una propria fisionomia e ritrae con ironia il gusto dei nuovi berlinesi per l’esteriorità e l’apparenza: «A Berlino tutto deve assomigliare a qualcosa. – egli dice – Ogni macellaio vorrebbe vendere sella di montone e filetto di manzo in una sala di marmo, ogni barbiere insaponare tra maioliche di Delft». Ma quella Berlino che Rathenau definì «Parvenupolis», cambia pelle negli anni weimariani e pur fra molte contraddizioni, sviluppa un progetto di estrema originalità nella letteratura come nel teatro e nelle arti figurative, ben oltre i confini nazionali. Grande è la ricchezza di un’epoca in agonia, sottolinea Ernst Bloch alle prese con il problema dell’attualità dell’utopia nel suo rapporto con il presente, consapevole che la contemporaneità non è niente se non «padroneggia il domani nell’oggi». Una dinamica purtroppo destinata a sgretolarsi negli anni bui del nazismo, in una Germania orientata verso forme truculente, incline alla mitologia popolare del sangue e del suolo. E tuttavia sono proprio figure di filosofi come Bloch, Benjamin e Kracauer che aprono una profonda riflessione su una modernità protesa ben

In occasione del Consiglio mondiale per la pace di Berlino del 1954 Bertold Brecht (a destra) incontrò il compositore sovietico Šostakovicˇ. (Keystone)

oltre lo sviluppo organico e ciclico della storia così come oltre la prospettiva marxista di progresso con un’idea di totalità ormai irrealizzabile. «La realtà è una costruzione», sentenzia Kracauer, e Döblin organizza il suo romanzo su Berlino con tecniche di collage e montaggio. Si fa strada la cultura del frammento e la dissoluzione della grande forma al di là delle illusioni storicistiche, oltre l’idea di un solido soggetto borghese. Anche lo scrittore Brecht si confronta polemicamente col proprio tempo. Con disincanto e apparente cinismo giovanile aveva già anticipato precarietà e fugacità della civiltà moderna: «Di queste città resterà: il vento che le attraversa», recita un verso della

sua famosa poesia Del povero B.B., mentre nella sua raccolta Dal Libro di lettura per gli abitanti delle città all’individuo metropolitano si consiglia di cancellare le proprie tracce. Era una strategia di difesa e di occultamento nella giungla delle città, oltre quel mondo borghese che tante rovine aveva accumulato e che non tarderà a palesare tutta la sua spietatezza. Dietro l’ansia per una modernità aggressiva c’era di certo non poca stilizzazione in quella Berlino che nel teatro di Brecht riemerge come «fredda Chicago». Eppure lo scrittore non fu insensibile al fascino della capitale. All’amico Caspar Neher scrisse durante una breve visita nel febbraio del 1920: «Berlino è una cosa stupenda, non puoi rubare 500 marchi e

venire? (…). Tutto è spaventosamente strapieno di cose di cattivo gusto, ma a che livello, ragazzo!». Il provinciale di Augusta s’infiamma per la metropoli, che presto saprà conquistare con il suo talento drammaturgico. Berlino resta lo spazio, la scena predominante di tutta la fase giovanile. Del resto proprio a metà degli anni Venti egli aveva programmato una rivista con la regia di Max Reinhardt, una sorta di parodia dell’americanizzazione della vita berlinese vista come un manicomio civilizzato. Ascesa e caduta della metropoli: è l’altalena di un destino in cui la modernità ostenta tutta la propria folgorante magia, mentre già si affacciano i demoni della distruzione. Annuncio pubblicitario

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Sul lato oscuro della musica Musica Le nuove produzioni discografiche di Edda e di Teho Teardo

Zeno Gabaglio «E se la diga si squarciasse molto prima del previsto, e se non ci fosse posto sopra la collina, e se anche la tua testa esplodesse di oscuri presagi, ci incontreremo sul lato oscuro della luna». Così simbolicamente si riferivano i Pink Floyd a quel 41% di superficie che costituisce la faccia nascosta della luna, cioè all’emisfero del nostro satellite che nessun occhio umano prima del 10 ottobre 1959 aveva mai potuto vedere. Il luogo misterioso per antonomasia, dunque, che sotto forma di mito ha da sempre rappresentato la nascostezza insita in ciascuna realtà evidente. Il lato imperscrutabile che è connaturato anche ai fenomeni più limpidi. E, in quanto mito, l’idea del lato oscuro ha ovviamente permeato di sé la cultura umana: dagli albori al celebre Dark Side pinkfloydiano, dal Dottor Jekyll di Robert Louis Stevenson al lato oscuro della forza in Guerre stellari. Ma anche ora che morfologicamente la luna non ha per noi più nessun segreto, la pulsione verso il doppio misterico – o gli oscuri presagi che secondo i Pink Floyd possono far esplodere la testa – rimane una costante nella produzione culturale e artistica. Con artisti che si fanno consciamente carico del pesante fardello. Edda – Stavolta come mi ammazzerai?

Non è molto di moda, nella canzone italiana, il dedicarsi al lato oscuro dell’esistenza, il raccontare quello che quasi tutti gli altri evitano di dire. Si rischia di venir emarginati, o addirittura di venir etichettati come iettatori e banditi dall’ampia diffusione pubblica. Stefano Rampoldi, in arte Edda, in realtà si è

Gli attori Cillian Murphy e Mikel Murfi sulla copertina del disco Ballyturk di Teho Teardo.

bandito da solo, e ripetutamente. L’eroina l’ha trascinato con sé per ben due volte, la prima nell’adolescenza e la seconda quando a metà anni Novanta aveva deciso di abbandonare i Ritmo Tribale, il gruppo con cui era montato dalle cantine ai palcoscenici più prestigiosi, costituendo una delle promesse meno mantenute della musica indipendente italiana. La disintossicazione si è accompagnata ad altri ritiri: in India, nelle clausure Hare Krishna e sui cantieri dove per anni ha lavorato come carpentiere, completamente dimentico del pas-

sato da rockstar. Fino alla fine dello scorso decennio, quando ha ripreso in mano la chitarra e ha ricominciato a pubblicar dischi. In stile cantautorale, senza band attorno: lui, le canzoni e la coscienza di un mondo che non è come lo si vorrebbe dipingere. Così nel terzo disco dalla rinascita – il recentissimo Stavolta come mi ammazzerai? – riecco l’indicibile male di vivere (droga, sesso, violenza, pedofilia, malattia) urlato in faccia senza giri di parole. La para-evangelica voce di uno che grida nel deserto, tanto fastidiosa quanto necessaria.

Teho Teardo – Ballyturk

Nella carriera e nella poetica di Teho Teardo non sembrano esserci particolari ombre. Il premiato autore di colonne sonore (David di Donatello e Nastro d’Argento per le collaborazioni con Paolo Sorrentino) non appare infatti di primo acchito come un tormentato portatore di chissà quale dark side. Se però si considera che il retroterra industrial in cui ha cresciuto l’essenza della propria arte si è riversato – tra le varie – anche in una serie di pubblicazioni intitolate all’osculum infame (cioè il bacio rituale con cui

la strega accoglie il diavolo nel corso del sabba) qualche dubbio può giustificatamente instillarsi. Per la creazione delle proprie inimitabili sonorità Teardo scava infatti anche nel torbido, in quella materia sonora sporca e rumorosa che molti benpensanti dell’udito rifuggirebbero con orrore, ma che ri-plasmata nel contesto di archi ed elettronica assume una plasticità a tratti sublime. Prova ne siano le musiche di scena appena licenziate dal compositore friulano, realizzate in Inghilterra per lo spettacolo del drammaturgo irlandese Enda Walsh.

David sa ancora stupire CD Uno sguardo indietro: a cinquant’anni dai suoi esordi, David Bowie riscopre il piacere

della retrospettiva – giusto in tempo per Natale

Benedicta Froelich Ormai da lungo tempo, il periodo prenatalizio è universalmente riconosciuto come il più imbarazzante per l’industria discografica internazionale, troppo spesso colpevole di sommergere i negozi di ogni sorta di superflua strenna natalizia, pensata appositamente per il mercato del regalo a tutti i costi. In effetti, l’affannosa comparsa di ristampe e raccolte antologiche rappresenta, soprattutto per gli artisti affermati, il maggior pericolo delle settimane prefestive; e non deve quindi sorprendere che, proprio in questi giorni, anche un «mostro sacro» come David Bowie si sia lasciato convincere a (ri)tentare la strada dell’antologia. Il nuovo Nothing Has Changed si presenta infatti come «la selezione definitiva dell’opera di Bowie dal 1964 al 2014», forse ignorando deliberatamente il fatto che, ben prima di questa, già altre collezioni e miscellanee dedicate all’artista avevano affollato il mercato; e benché le loro tracklist si arrestassero inevitabilmente con la fine degli anni 90, l’ascoltatore medio avrebbe comunque ogni diritto di porsi l’immancabile domanda che si presenta alla mente in simili casi – ovvero, «c’era davvero bisogno di un altro greatest hits di Bowie?» Una risposta al quesito si potrebbe forse trovare nei segnali lanciati dall’artista stesso: poiché sono ormai diversi anni che David sta apertamente riflettendo sul proprio passato da un punto di vista biografico quanto arti-

stico, rivelando un gusto inaspettato per l’amarcord – sottolineato anche dal lussuoso packaging della deluxe edition di questa raccolta, il quale offre una serie di elaborazioni fotografiche che vedono il cantante osservare il proprio riflesso allo specchio, «incontrando» di volta in volta i suoi alter ego del passato: un’idea che presenta più di

un’analogia con alcuni tra gli ultimi videoclip del «Duca Bianco», a partire dal dolente e nostalgico Thursday’s Child (singolo di lancio di Hours…, album del 1999), all’inquietante cinismo di Love is Lost e The Stars (Are Out Tonight), tratti dal recente The Next Day (2013). Così, dall’alto di una carriera

Per il Duca Bianco è tempo di bilanci, come rivelano le cover della compilation.

cinquantennale e del suo status ormai mitico, Bowie ha deciso di offrire un’antologia della propria opera che comprendesse anche i lavori dell’ultimo decennio; e l’ha fatto con grande cura, pubblicando questo Nothing Has Changed in ben due formati differenti – un’edizione standard a doppio disco e la già citata deluxe edition, il cui un elegante cofanetto di tre CD presenta una selezione di brani decisamente meno scontata. In contrapposizione alla versione standard, la tracklist del triplo box set presenta i brani in ordine inverso a quello cronologico, andando dal più recente al più datato: il disco si apre così con l’unico inedito originale presente nella raccolta – Sue (Or in a Season of Crime), una sorta di rivisitazione elettronica e ossessiva delle atmosfere jazzate che l’artista aveva già esplorato in pezzi storici come John, I’m Only Dancing o Absolute Beginners. Certo, come accade con la maggior parte degli ultimi brani del Duca, la sperimentazione elettronica tende a vincere sulla qualità melodica della composizione, rischiando di rendere l’ascolto vagamente ostico; tuttavia, fa piacere che, a quasi settant’anni, Bowie conservi ancora il gusto per simili sperimentazioni. Al di là di questo brano, le novità offerte dalla versione deluxe della raccolta sono principalmente rivolte ai collezionisti: come Let Me Sleep Beside You, pezzo originariamente incluso nel primo album di Bowie e poi reinciso durante le session del

«disco fantasma» Toy (registrato nel 2001, ma mai pubblicato), dal quale sono tratti anche Your Turn To Drive e Shadow Man. Meno interessanti risultano i vari remix inseriti tra una traccia e l’altra, tra cui vi è comunque un caposaldo quale il cosiddetto «Hello Steve Reich Mix» di Love is Lost a firma James Murphy. C’è da dire che non tutti i fan apprezzeranno la scelta di incentrare la tracklist soprattutto sui radio edit e le versioni da singolo promozionale dei vari brani, a scapito delle più elaborate tracce da album; ma anche questo, in fondo, rende il disco un oggetto da collezione che possa essere apprezzabile non solo dai completisti, ma anche dall’ascoltatore occasionale. Anche perché, al di là delle facili critiche alle quali un simile prodotto inevitabilmente si presta, bisogna dire che, come compilation, Nothing Has Changed costituisce un successo: non solo grazie all’astuta scelta di evitare di concentrare la selezione soprattutto sul materiale prodotto nei due decenni di maggior successo commerciale di Bowie (7080), ma anche per il tentativo di presentare agli ascoltatori un artista più sfaccettato e complesso di quello che, forse, la maggior parte del grande pubblico conosce. Il che dimostra una volta di più come David Bowie non sia soltanto l’eroe glam di Ziggy Stardust o di classici come Changes (1971), ma anche l’eclettico e maturo musicista che, negli anni 10 del nuovo millennio, è ancora capace di ammaliare – e perfino di stupire.


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Cultura e Spettacoli

L’amore per le lingue Pubblicazioni Un dizionario «innamorato» dei modi di parlare,

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Tre nuovi lavori regional-universali In scena A teatro, nientemeno

che Shakespeare, Brecht e la colpa Stefano Vassere

Giorgio Thoeni

Claude Hagège è nato a Cartagine, vicino a Tunisi. Per dire, se i linguisti nascono di regola in posti più ordinari lui, invece, eccolo lì, al crocevia tra francese, arabo e berbero, in uno dei posti più belli del Mediterraneo, pronto a prendere il largo per studi tutt’altro che scontati: l’École normale supérieure di Parigi, l’École nationale des langues orientales, il diploma in lettere classiche e in linguistica generale, specializzazioni in arabo, cinese, ebraico e russo, conoscenze in qualche decina di altre lingue, premi di qua e di là, pubblicazioni in ogni ambito della linguistica; una non secondaria militanza, solida e qualificata, a favore del francese e contro l’imperialismo anglofono. Insomma, la scelta di affidare a Claude Hagège questo Petit dictionnaire amoureux des langues (Piccolo dizionario innamorato delle lingue) pare più che legittima, quasi un diritto, per l’ormai ottantenne Claude. Va fatta una premessa, anzi due: che il dizionario è Petit perché riduzione di un maggiore Dictionnaire edito da Plon et Odile Jacob, e che lo stesso fa parte di una collana insieme ad altri piccoli repertori del genere in diversi ambiti delle scienze moderne: c’è un Petit dictionnaire amoureux dell’India, uno dei treni, uno dedicato a Venezia, uno alla Francia, uno al cattolicesimo, uno alle serie televisive, molti altri. Essendo un dizionario, il libro è organizzato in brevi testi in ordine alfabetico, che parlano di cose e concetti più o meno direttamente legati a faccende linguistiche: c’è intonazione, negazione, verbi di movimento, neologia, ma ci sono anche affetti, amo (io ti), difficili (lingue), étymojolies. Queste ultime, le étymojolies (che è gioco di parole evidentemente intraducibile in italiano ma che, letteralmente, fa «etimocarine») sono l’esempio del carattere giocoso distribuito in questa operazione editoriale: ci sono delle etimologie, basate non su un criterio filologico-linguistico ma su una qualche meno scientifica e ben più seducente speculazione; come

Abbiamo spesso testimoniato della vitalità della nostra scena indipendente. Non possiamo che confermare anche alla luce di recenti debutti che sembrano far crescere l’urgenza di dare al pubblico un segno tangibile della propria esistenza. Circondati da grandi titoli e grandi nomi sui cartelloni ufficiali (a Locarno Re Lear con Michele Placido, a Lugano Riccardo III con Massimo Ranieri e Enrico IV con Franco Branciaroli), ecco dunque che tre nuove produzioni hanno visto la luce fra Bellinzona, Minusio e Lugano i cui riferimenti autorevoli non son da meno. Iniziamo dal debutto al Teatro Sociale di Un’opera da 3 soldi. Dalle stelle alle stalle, spettacolo liberamente ispirato all’opera di Bertolt Brecht e realizzato dal Progetto Brockenhaus in collaborazione con il Teatro DanzAbile. È una rilettura del classico brechtiano che ben si adatta agli obiettivi delle due compagnie che uniscono la danza al teatro in un incontro fra professionisti e portatori di handicap: un territorio affascinante ed esemplare in cui i confini della «diversità» non si notano e dove la professionalità si esprime grazie al disegno registico lucido e rigoroso di Elisabetta di Terlizzi e Emanuel Rosenberg. Mackie Messer, la giovane Polly, Jenny delle Spelonche, Peachum, il capo della polizia Brown, sono personaggi di una metafora sociale che Brecht aveva utilizzato come strumento di passaggio dalla disciplina dello studio delle tecniche drammatiche a una sorta di bohème letteraria a carattere musicale con i celebri songs di Kurt Weill. Con questa produzione le due compagnie raggiungono un traguardo estetico e formale dal taglio espressionista: dai costumi (Laura Pennisi) al trucco, con luci calde (Marco Oliani) per una recitazione che mescola nel testo tracce autobiografiche di alcuni attori che trasformano così la propria «alterità» in un punto di intersezione con la pittoresca «corte dei miracoli» brechtiana fra ladri, mendicanti e prostitute per una metafora sociale sulla dimensione dell’emarginazione. Accanto ai già citati registi e ideatori dello spettacolo, bravi e applauditi gli attori: Laura Coda Cantù, Piera Gianotti, Viviana Gysin, Aida Ilic, Elena Milani, Marco Mox Molinari, Bintou Ouattara, Daniele Zanella, Cristiana Zenari. Repliche 23-25 gennaio al Teatro Foce di Lugano.

Top10 DVD & Blu Ray 1. Dragon Trainer 2

Animazione 2. Planes 2

Animazione 3. Transformers 4

M. Wahlberg, N. Peltz 4. Il pianeta delle scimmie – Apes Revolution

A. Serkis, G. Oldman / novità

A me tu mio amore sei, ossia io amo verso te: i modi per dirlo sono molti. (Keystone)

nel caso del latino cadaver «cadavere», che viene da cadere «cadere» ma che è più joli far derivare da una specie di acronimo sillabico caro data vermibus «carne data ai vermi». A rendere omaggio all’originale titolo c’è tutta la serie dei lemmi dedicati all’amore. Due, sopra tutti: affects, che apre la raccolta, e aime (je te), che lo segue poco dopo. Il primo è una rassegna dei verbi che associamo all’esperienza affettiva, sentire, provare, essere, che si accompagnano a amore, vergogna, innamorato. Come spesso accade, la scelta linguistica riflette un sistema di valori e simboli che è diverso tra cultura e cultura: in swahili si vede la vergogna, in cinese mandarino la si mangia (e beh? È così strano? In italiano, ci si mangia il fegato e si mangia rabbia); in lingue del Togo e del Ghana, si vedono la collera e anche la felicità; e ancora in cinese mandarino si mangiano tutta una serie di cose, come la sorpresa, l’asprezza e altro. L’articolo sui modi di dichiarare l’amore nelle varie lingue del mondo è un po’ meno originale ma anche lui joli. Da una parte ci sono le lingue occiden-

tali, che esprimono questo sentimento attraverso un verbo transitivo che mette in relazione un soggetto che è un essere amante e un complemento oggetto che è quello amato, «secondo una gratificante armonia tra la grammatica e il mondo». D’altro canto, però, ad altre lingue corrispondono soluzioni più elaborate: l’indonesiano usa una preposizione dopo il verbo (quindi, qualcosa del tipo «io amo verso te»), l’hindi ricorre a costruzioni più sofferte tipo «a me venendo da te amore è», il georgiano ha «a me tu mio amore sei». Ecco. Il dizionario innamorato di Claude Hagège non poteva che iniziare in questo modo, con i diversi modi di dire, nelle varie lingue, i propri sentimenti e in particolare il sentimento dell’amore. Inutile aggiungere che chi ha amore per le lingue troverà nella serie degli articoli di questo libretto molto e molto altro materiale. Bibliografia

Claude Hagège, Petit dictionnaire amoureux des langues, Paris, Pocket, 2014.

Top10 Libri

Top10 CD

1. Gianrico Carofoglio

1. Tiziano Ferro

La regola dell’equilibrio, Einaudi 2. Massimo Gramellini

Avrò cura di te, Longanesi 3. Jeff Kinney

Diario di una schiappa – Sfortuna nera, Castoro

TZN – Best of (2 CD) 2. Vasco Rossi

Sono innocente 3. Gianna Nannini

Hitalia 4. Modà

4. Wilbur Smith

Shakespeare, servito in salsa reality

Il secondo spettacolo, Molto rumore per nulla di W. Shakespeare con la regia di Laura Pasetti, ha debuttato al Teatro di Minusio, in quella che in origine è la sala oratoriale, oggi sede della compagnia Cambusa dopo il trasloco dalle

2004-2014 L’originale (2 CD)

Il Dio del deserto, Longanesi 5. AC/DC

5. Cattivi vicini

Z. Efron, S. Rogen / novità

5. Luciana Littizzetto

Rock Or Bust

L’incredibile Urka, Mondadori 6. Pink Floyd

6. Hercules – Il guerriero

D. Johnson, I. McShane / novità

6. John Grisham

I segreti di Gray Mountain Mondadori / novità 7. John Green

Colpa delle stelle, Rizzoli 8. Camilla Läckberg

Il guardiano del faro, Marsilio 9. Ken Follett

I giorni dell’eternità, Mondadori

10. David Guetta

Listen

10. Tutte contro di lui

C. Diaz, L. Mann

9. Fedez

Pop-Hoolista

9. 3 Days To Kill

K. Costner, A. Heard

8. Francesco De Gregori

Vivavoce (2 CD)

8. 22 Jump Street

J. Hill, C. Tatum

7. One Direction

Four

7. Mr Peabody e Sherman

Animazione

The Endless River

10. Benedetta Parodi

Molto bene, Rizzoli

La locandina di Molto rumore per nulla della Compagnia Cambusa.

ex-scuole di Locarno. Con questa produzione si può dire che è stato messo a segno un bel colpo per diversi fattori. Dapprima la personalità e l’esperienza di scuola strehleriana della Pasetti, poi la scelta di una commedia d’autore e infine la possibilità per gli attori di misurarsi con una recitazione classica immersa in una dimensione moderna con salti di registro, dalla straordinaria poetica del Bardo ai siparietti collaterali del programma televisivo che fa da sfondo immaginario alla vicenda. Sì perché l’idea registica è quella di immaginare di chiamare 5 attori uomini per far parte di un nuovo «reality show». Ecco che la commedia diventa subito un gioco tra realtà e finzione, dove il testo va a confondersi col mondo del super-finto, dell’artificiale, con vallette patinate, telefonate in diretta e scabrose trame amorose a cui il pubblico è invitato a partecipare. In questo circo umano la donna ideale è un manichino mentre gli uomini che si son presi gioco di lei verranno sbugiardati per lasciare spazio al lieto fine e al fervorino finale, perché tutti, uomini e donne, sono «volubili». Molto rumore per nulla è uno spettacolo riuscito dove emerge un’impalcatura drammaturgica solida nella lettura «trasversale» voluta dalla regia accanto all’ottima prova degli attori sul piano recitativo ma castigata nelle parti «cantate»: unico neo di una bella operazione. Repliche al Teatro Foce di Lugano dal 16 al 18 gennaio, al Teatro del Gatto il 12 e 13 marzo. Confessioni, solitudini e colpa

Allo Studio Foce di Lugano è andato in scena La colpa della Markus Zohner Arts Company, lo sviluppo di un progetto radiofonico creato nella prima metà del 2013 a cui è seguito Proust in Prison, uno spettacolo interattivo rappresentato circa un anno fa. Il filo che accomuna i tre momenti riconduce verso una ricerca di Zohner sulla fragilità e sulla fallibilità dell’animo umano a confronto con le questioni essenziali come la colpa. L’intero progetto trae linfa dai lavori della compagnia realizzati con i detenuti: persone che, secondo i parametri della giustizia, sono state giudicate colpevoli di aver infranto le regole e che, di conseguenza, sono state private della libertà. Le loro storie, le loro riflessioni sulla colpa, sulla solitudine, sull’abbandono della società sono le stesse che Markus Zohner riprende e sviluppa con modalità diverse chiamando ancora una volta la partecipazione del pubblico che, prima di prender posto, deve elencare tre colpe su un pezzo di carta da inserire in un’urna. Le testimonianze saranno lette via via (Camilla Delpero) in un contesto di rivelazioni freddamente anonime, una dimensione interiore avvolta da testi bisbigliati e citazioni, struggenti pagine di diario (David Matthäus Zurbuchen), suoni, onomatopee, rumori, note vocali stiracchiate e ritmi cardiaci (Gabriele Marangoni) che accompagnano sulla scena due attori in movimento (Andrea Baldassarri e Francesca Sproccati) lungo una scia di confessioni e turbamenti a cui la società è chiamata a rispondere. La colpa, ma forse è meglio parlare del «senso di colpa», è così una lunga spirale che avvolge e, a tratti, soffoca questa produzione in un labirinto fra performance e recitazione, fra stacchi danzati come slanci liberatori e profondità di contenuto. Momenti talvolta lunghi e insistiti dove le verbosità senza coupde-théâtre tendono a creare effetti ipnotici e catatonie pericolosamente soporifere. Ma il pubblico ha retto partecipando numeroso e applaudendo uno sforzo così carico di sostanza.


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Cultura e Spettacoli

Quando la Cina era ancora un grande impero

Downton e BBC, due anime lontane

Mostre Un’esposizione celebra i 50 anni delle Collections Baur di Ginevra

i segreti del successo della serie creata da Fellowes la scelta del canale

con reperti internazionali sui Qing

Visti in tivù Tra

Marco Horat Qualcuno ricorda L’ultimo imperatore di Bernardo Bertolucci con Peter O’Toole nei panni di Reginald Johnston, o forse ha letto lo straziante libro dal quale il film era stato tratto: Sono stato imperatore, autobiografia di Pu Yi (1906-1967), estremo rappresentante della Dinastia Qing. Siamo all’indomani di sconvolgimenti politici e militari che hanno proiettato l’Occidente dentro il tessuto vitale dell’impero cinese; per tutti le famose guerre dell’oppio e la rivolta dei Boxers della fine dell’800. Pu Yi sale al trono all’età di due anni, giusto in tempo per vedere la fine della storia, che avverrà nel 1911: nella sua tormentata vita dovrà fare i conti prima con i locali signori della guerra, poi con le invasioni straniere, l’impero giapponese, l’Unione sovietica, il comunismo di Mao e infine la Rivoluzione culturale che gli sarà fatale. La parabola di vita di un Paese e di un popolo.

La ricca mostra di Ginevra si concentra sul periodo dorato della Dinastia Qing tra il 1600 e il 1700 La Dinastia Qing era iniziata alla grande nel 1644, quando i Manchou, vassalli provenienti dalle steppe dell’Asia orientale, avevano conquistato il Paese sostituendosi ai Ming: i primi sovrani riescono ad allargare le frontiere del Paese fino praticamente ai confini moderni, compresi Tibet, Turkestan e regioni mongole. Si assiste a un grande sviluppo demografico ed economico grazie a un governo che ha bisogno di legittimità e che quindi si basa sugli stessi princìpi dei predecessori Ming. I nuovi sovrani proteggono le arti e le lettere integrando tradizione (letteratura e filosofia) e modernità, usano il

Antonella Rainoldi

Viaggio verso il sud dell’imperatore Kangxi (dettaglio) Wang Hui, Yang Jin, Gu Fang, Dinastia di Qing, periodo Kangxi, 1689. (© RMN)

pugno di ferro con chi fa resistenza ma anche ammettono a corte, con posti di responsabilità, personalità straniere e addirittura i missionari gesuiti, banditi dal vicino Giappone, che introducono ad esempio il nostro calendario. Un periodo di prosperità che dura dalla seconda metà del XVII alla fine del XVIII secolo. Per la verità non sappiamo molto di come vivevano le migliaia di contadini dell’epoca, ma lo possiamo facilmente immaginare. Poi sarà una corsa verso la fine, con un Paese stremato dalle spese folli dei regnanti e con una corte inetta e corrotta. È sul periodo dorato a cavallo tra 600 e 700 che si concentra la mostra allestita a Ginevra dalla direttrice della Fondazione Baur, Monique Crick. Nelle sale del museo che, lo ricordiamo, è dedicato alle arti dell’Estremo oriente, si possono ammirare pezzi di grande bellezza tratti essenzialmente dalle ricche collezioni del museo stesso e da quelle di alcune prestigiose istituzioni francesi quali il Musée national

des arts asiatiques-Guimet e i Musées des arts décoratifs di Parigi. Un viaggio nella storia della Cina antica a ben pensarci non poi così diversa (se non per l’ordine di grandezza dei fenomeni evocati) da quella più recente: boom demografico, straordinario sviluppo economico, distacco tra governanti e governati, problemi di ordine interno con le varie componenti etniche e via dicendo. Le vicende della Dinastia Qing all’apice della magnificenza sotto gli imperatori che hanno regnato tra il 1644 e il 1795 viene illustrata lungo quattro sale del museo ginevrino seguendo un filo conduttore: la fondazione dell’impero Manchou, il potere e i riti, le conquiste e infine i giardini segreti dell’imperatore. Ogni capitolo presentato con una messa in scena evocatrice, ricca di simboli, e con reperti che sono espressione della tradizione ancestrale ereditata dalle dinastie precedenti, ma anche frutto del lavoro di artigiani e artisti che lavoravano nelle

manifatture imperiali dell’epoca: rotoli dipinti che illustrano le visite dell’imperatore nelle province del sud, stampe di propaganda per la casa regnante non sempre ben accetta nelle zone lontane dalla capitale, giade, lacche, bronzi, vetri, porcellane, smalti, cloisonnés, testi manoscritti, abiti da cerimonia tra i quali spiccano i costumi riccamente decorati dell’imperatore Qianlong e della consorte. Il pensiero corre al povero Pu Yi, il quale, avendo negli occhi gli splendori di una corte secolare, ha poi finito i suoi giorni in un campo di rieducazione durante la Rivoluzione culturale, ad annaffiare l’orto del carcere e a rammendarsi le calze. Dove e quando

Ginevra, Collections Baur: Chine impériale, splendeurs de la Dynastie Qing (1644-1911). Fino al 4 gennaio 2015. Dalle 14.00 alle 18.00 (chiuso lunedì). www.fondationbaur.ch

Ancora due o tre cose su Downton Abbey, la cui quarta stagione va in onda su Retequattro (giovedì, ore 21.20, dall’11 dicembre) e su RTS un (venerdì, ore 22.50, dal 5 dicembre, due episodi da 60 minuti ciascuno). Se l’identità di una rete funziona per differenza, quanto conta una promessa chiara per assicurare il successo di una serie tv? Conta molto, come la collocazione in palinsesto. Lo dice lo stesso Julian Fellowes, nella prima e finora più importante intervista rilasciata a un giornale italiano, la Lettura del «Corriere della Sera» di domenica 7 dicembre. Questo scrittore straordinario dimostra con le sue parole come anche la motivazione di una scelta abbia una sua grandezza, da Gosford Park a Downton Abbey, la sua ultima creatura. L’idea di partenza era chiara: avere una vita autonoma dagli stereotipi degli anni Cinquanta con la famiglia gradevole e i servi simpatici, ma anche da quelli degli anni Novanta con i padroni orribili e la servitù in povertà. Ecco il motivo per cui la BBC ha rappresentato e continua a rappresentare l’estraneità: «Sapevamo da subito che non era il canale giusto. Volevamo raccontare la storia di un gruppo di persone che vive la propria vita. La BBC non sarebbe stata in grado di fare questo, hanno un’impostazione più polarizzata, ci avrebbero chiesto di scegliere un punto di vista». Uno dei segreti del successo di Downton sta proprio nel superamento di ogni apparente contraddizione. Qui siamo in un mondo in cui tutto si mescola e si intreccia, si fonde e si confonde, sen-

La geometria nascosta della democrazia Mostre Allestimento di Annaïk Lou Pitteloud all’ala est del Museo cantonale

fino al 1. febbraio 2015

Emanuela Burgazzoli Ci sono opere che devono essere prima di tutto guardate, altre invece devono essere soprattutto pensate. È il caso dell’allestimento creato dalla giovane artista nata a Losanna nel 1980 che ha trasformato gli spazi dell’Ala est in un «Esercizio sullo stato attuale», in cui lo spettatore si trova letteralmente a camminare in una misteriosa griglia geometrica: con quest’opera l’artista vodese chiede infatti al pubblico di entrare nelle sale trasformate in due solidi geometrici, due parallelepipedi, solcati da strisce adesive che seguono precisi criteri cromatici e formali. Uno schema che resterebbe senza significato se non ci fossero le spiegazioni dei testi-didascalia che svelano le intenzioni dell’artista; ovvero proporre una riflessione sulla rappresentazione e l’esercizio dei poteri nello Stato democratico. L’applicazione delle formule geometriche ideate da Pitteloud porta alla conclusione poco rassicurante dell’esistenza di una «minoranza dominante» dotata di uno smisurato potere sul resto della società.

Un esercizio condotto con un linguaggio che colpisce per la maturità del suo minimalismo, alla maniera di certa arte concettuale del secolo scorso, e che certo richiede un approccio tutto o quasi intellettuale – qualcuno direbbe fin troppo cerebrale – all’opera. Ma il solo fatto di percorrere lo spazio sospeso di questa sorta di «white cube», solcato da un vortice di

linee geometriche trasmette una sensazione di ordine oppressivo, lucido e cupo. Elementi e aspetti rispetto ai quali il progetto grafico del catalogo risulta se non fuorviante, quasi superfluo. Pitteloud – che da qualche anno risiede in Belgio – ha al suo attivo numerose collettive e personali e nel 2012 è stata premiata a Zurigo per un’ope-

ra (Transposition) analoga per stile e spirito a quella realizzata a Lugano; in quel caso lo spettatore era chiamato a decifrare le distanze che definiscono i rapporti sociali e affettivi fra esseri umani. Allora la giuria era stata colpita dai «propositi anti-estetici» dell’artista vodese che non sceglie certo la strada della seduzione visiva, ma piuttosto la modalità dell’esposizione razionale del «problema». Il procedimento si traduce così in un rigore formale che del resto si ritrova già nei lavori fotografici e nei video con i quali Annaïk Lou Pitteloud si è imposta all’attenzione del pubblico a metà degli anni Duemila, e che indagavano sulle ambiguità del rapporto fra finzione e documentazione. Dove e quando

Annaïk Lou Pitteloud. Lugano, Museo Cantonale d’arte Ala Est (Via Canova 10). Orari: ma 14.00-17.00 me-do, 10.00-17.00; lu chiuso. Fino al primo febbraio 2015. www.museo-cantonale-arte.ch Esercizio sullo stato attuale di Annaïk Lou Pitteloud.

Julian Fellowes, il creatore di Downton Abbey. (Wikipedia)

za lacci e lacciuoli. Per questo la serie, prodotta da Carnival Films, è molto lontana dall’immaginario BBC, più affine invece al network ITV, dove si è appena conclusa la quinta stagione (la sesta è in fase di lavorazione). Come spiega Fellowes, Downton riesce a «raccontare qualcosa che ha a che fare con la vita di tutti i giorni. I tormenti d’amore della sguattera Daisy hanno lo stesso peso di quelli di Lady Edith, la secondogenita di Lord Grantham. La storia tra la cameriera Anna e il valletto Bates è raccontata allo stesso modo di quella tra Mary e Matthew. Il che è inusuale per questo tipo di sceneggiato, almeno in Inghilterra con il lavaggio del cervello che ci ha fatto la BBC contrapponendo continuamente male e bene». No, l’identità di rete non può essere derogata.


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Idee e acquisti per la settimana

shopping Gonfiotto ai marroni, delizia senza tempo Attualità La pazienza è uno degli ingredienti principali nella produzione del pane dolce ai marrons glacés.

Gianfranco Cuoco ci spiega perché

Flavia Leuenberger

Nel suo laboratorio di Lostallo Gianfranco Cuoco ci accoglie davanti a file di gonfiotti che riposano a testa in giù, in attesa di essere confezionati prima della consegna a Migros Ticino. Ultima fase importante e necessaria perché il prodotto appena sfornato, un impasto a base di burro e tuorli d’uovo, non collassi su se stesso ma mantenga una cupola gonfia. Rispetto dei tempi di lavorazione e attento controllo delle fasi produttive sono fattori indispensabili per ottenere buoni lievitati, specialmente quando sono così delicati. Si parte dalle materie prime. La farina riveste vitale importanza in quanto uova e burro rendono l’impasto difficile da maneggiare. Indispensabile una farina di forza che regga lunghi tempi di lavorazione e lievitazione senza che si strappi o perda la forma. Dopo il primo impasto la massa riposa in una cella di lievitazione, una sorta di armadio che permette di mantenere temperatura ed umidità costanti. Per la prima lievitazione l’impasto è messo a 30 gradi per circa otto ore poi a 20 gradi per altre sei ore, mantenendo un’umidità costante del 90%. In questo modo la massa rimane umida ed elastica in superficie, facilitando la lievitazione. L’impasto triplicato di volume viene trasferito in un’impastatrice che lavora in maniera

Gianfranco Cuoco, pasticcere a Lostallo. (Giovanni Barberis)

lenta e delicata permettendo di conservare elasticità e struttura dell’impasto. Altra farina, zucchero, tuorli, burro e i marrons glacés, che rendono il gonfiotto tanto speciale, vengono incorporati in maniera uniforme in tutto l’impasto. Riposte le pezzature di 500 grammi nei pirottini, i gonfiotti lievitano per quattro ore a 30 gradi. Durante la lievitazione bisogna controllare continuamente gli impasti. La lentezza è fondamentale in questo lavoro. Una mezz’ora in più o in meno di maturazione è decisiva sul risultato finale e se il prodotto lievita troppo sarà acido. Sempre meglio che una sola persona curi la lavorazione dello stesso impasto dall’inizio alla fine, in modo da monitorare tutte le fasi cosicché eventuali problemi possano essere corretti più facilmente. Prima di infornare viene applicata una glassa a base di mandorle, armelline (che conferiscono alla glassa un buon sapore simile a quello degli amaretti), albume, zucchero e cosparsa di granella di zucchero. La cottura avviene a circa 190 gradi e appena sfornati i gonfiotti vengono appesi capovolti e lasciati raffreddare 12 ore. Il risultato è un soffice lievitato ideale sia per colazione sia per dessert durante le feste, dopotutto Natale è una volta l’anno! / Luisa Jane Rusconi

Gonfiotto ai marroni 500 g Fr. 19.–

Vuoi che i tuoi piatti di festa si trasformino in qualcosa di veramente esclusivo? In questo caso scegli il pregiato tartufo bianco d’Alba. Per le festività di fine anno di diamo la possibilità di riservare questo fungo dall’aroma unico anche via email; in seguito lo potrai comodamente ritirare il 23, 24, 30 o 31 dicembre presso i supermercati Migros di Serfontana,

Lugano, Agno, S. Antonino o Locarno. Le riservazioni vanno inoltrate entro giovedì 18 dicembre, ore 18.00, all’indirizzo tartufo@migrosticino.ch, indicando come oggetto «Ordinazione tartufo bianco d’Alba»; pezzi desiderati (pezzi da 12/15 g o 20/25 g); filiale per il ritiro; nome; cognome; indirizzo e recapito telefonico.

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Marka

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Idee e acquisti per la settimana

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Idee e acquisti per la settimana

Filetto Wellington

Filetto di manzo in crosta «alla Wellington»

Per 4 persone

Specialità Lo chef Davide Alberti del Ristorante Castelgrande di Bellinzona ha preparato per i lettori di Azione

uno straordinario filetto alla Wellington. I miglior filetto di manzo per realizzare questa prelibatezza lo potrete invece trovare presso la vostra macelleria Migros di fiducia Il taglio di carne bovino senz’altro più noto e pregiato per la sua indiscussa tenerezza è il filetto: gli esperti macellai dei supermercati Migros ve lo possono confermare. Due sono le caratteristiche di questa parte del bovino adulto che lo fanno apprezzare molto: è un insieme di muscoli che data la sua posizione lavora pochissimo e quindi povero di connettivo e con fibre poco esercitate. Il taglio del filetto è tenerissimo e magro, cioè ha il grasso poco infiltrato e facilmente separabile. Non tutti però sono convinti che sia il taglio bovino più saporito, ma è certamente quello più adattabile ai vari gusti e per questo molto amato. La preparazione del filetto non è difficile, ma richiede attenzione: è molto importante rimuovere le parti nervose, operazione di cui di solito s’incaricano i macellai. Molte sono le preparazioni culinarie con il filetto di manzo, ma per il vostro pranzo di Natale, vi consigliamo, per 4-6 persone, il nostro filetto in crosta più conosciuto: quello «alla Wellington». Il Wellington fu creato dallo Chef Charles Herman Seen, in onore di Arthur Wellesley, duca di Wellington, il vincitore a Waterloo di Napoleone Bonaparte (1815). Il duca di Wellington passò alla storia anche per la sua eleganza. Il filetto che porta il suo nome, è avvolto in una lucida pasta sfoglia che le spennellature con il rosso d’uovo colorano di marrone, proprio come i lucidissimi e impeccabili stivali del duca, i Wellington’s per l’appunto. / Davide Comoli

Davide Alberti, chef del Ristorante Castelgrande di Bellinzona. (Flavia Leuenberger)

Ingredienti 600 g cuore di filetto di manzo 25 g olio di girasole 150 g champignons 100 g porcini freschi 50 g scalogno 10 g aglio 80 g burro 40 g tuorlo (2 tuorli) 50 g pane grattugiato «mie de pain» 10 g senape 15 g timo 10 g prezzemolo liscio 100 g foie-gras «terrina o mi-cuit» 50 g prosciutto crudo ticinese o della mesolcina 400 g pasta sfoglia 1 uovo Lavori preliminari Parare il filetto di manzo (eliminare le parti grasse) Pulire i funghi e tagliarli a lamelle sottili Tritare aglio e scalogno Tritare le erbe aromatiche Preparazione Condire il filetto con sale e pepe e rosolarlo in olio da tutti i lati Lasciarlo raffreddare su di una griglia, quando è freddo praticare un intaglio di 2 cm di profondità per tutta la sua lunghezza.

Scaldare il burro, aggiungere lo scalogno e l’aglio tritati, far sudare per un attimo, aggiungere i funghi e far stufare sino a completa evaporazione di tutto il liquido di cottura, togliere da fuoco e lasciar raffreddare. Aggiungere ai funghi le erbe aromatiche, il tuorlo d’uovo, il pane grattugiato e la senape, preparare un impasto con l’ausilio del mixer e finire di gusto. Inserire nella fessura praticata al filetto il foie-gras tagliato regolarmente. Su di una pellicola alimentare sistemare le fette di prosciutto crudo (l’area da ricoprire è pari a quella di un foglio A4 circa) spianare il ripieno con l’ausilio di una spatola e adagiarvi il filetto, chiudere il filetto nella pellicola formando un cilindro. Avvolgere il filetto nella pasta sfoglia togliendo contemporaneamente la pellicola e assicurarsi che la parte con il foie-gras risulti sopra. Sigillare la sfoglia, «formare dei camini» di sfogo e decorare a piacere, pennellare con dell’uovo. Cuocere nel forno preriscaldato a 200°C abbassando gradualmente la temperatura sino a 160°C per circa 25-30 minuti, la temperatura a cuore dovrà essere di 50°C al massimo. Lasciar riposare per 10 minuti e servire con contorni e salsa profumata al Madeira.


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Idee e acquisti per la settimana

Panini apéro misti, varietà e allegria Attualità Bocconcini morbidi per dare

colore al vostro aperitivo natalizio

«Natale è oramai alle porte e da qualche giorno, calendario alla mano e pila di libri di cucina al mio fianco, mi sto organizzando per le varie cene ed aperitivi. Per non parlare dei vari sacchetti regalo contenenti biscotti e dolci fatti in casa! Quest’anno ho deciso di cimentarmi in un’impresa a dir poco epica, una piccola produzione di panettoni per famigliari e amici più stretti. Un’esperienza che sconsiglio vivamente a chi non ha già le mani bene in pasta e tanta tanta pazienza, dopotutto si parla di fare quasi due notti insonni tra cura del lievito madre e attento controllo della lievitazione degli impasti! Almeno per gli aperitivi in casa posso andare sul sicuro, ho già pensato bene di fare una scorta di panini apéro della Migros. Essendo precotti hanno il vantaggio di conservarsi una decina di giorni dall’acquisto, mi è sufficiente passarli cinque minuti nel forno e sono

Panini Apéro 240 g Fr. 3.80

Flavia Leuenberger

Luisa Jane Rusconi, food blogger (Flavia Leuenberger)

pronti per essere farciti. Più comodo di così! Il sacchetto contiene quattro varietà di mini michette: sils, integrali, bianche con semi di papavero e semi di sesamo. Mi piace avere un po’di varietà anche perché mi permette di giocare con i colori dei panini, per avere un vassoio assortito più stuzzicante. Il formato è geniale e divertente, qualcosa di diverso dal solito tramezzino! Il loro impasto morbido si sposa con tantissime farciture. Quelle che preferisco hanno come base un velo di formaggio spalmabile che accompagno spesso con fette di salmone affumicato (che mi piace guarnire con dell’aneto) oppure pomodorini, olive, formaggio tipo camembert e prosciutto cotto, salumi e carne secca. Variando le farciture vado a colpo sicuro e so che incontro i gusti di tutti i miei amici. Metto uno stuzzicadenti a chiuderli cosicché si possano prendere facilmente senza che si aprano. A volte può capitare di acquistare qualche sacchetto di troppo ma non è un problema, i panini per aperitivo si possono surgelare per 4 settimane. Ma capita davvero di rado, un boccone tira l’altro!» / Luisa Jane Rusconi

Il torrone secondo Sperlari Era il 1836 quando Enea Sperlari iniziò a produrre nel suo piccolo negozio nel centro di Cremona quello che sarebbe diventato uno dei dolci italiani più amati durante il periodo natalizio: il torrone. Oggi come allora il segreto di questo successo sta nella perfetta combinazione tra tradizione e innovazione e nell’utilizzo di ingredienti semplici e naturali quali zucchero, miele, albume, mandorle e nocciole. Accanto al classico torrone, Sperlari oggi produce altre irresistibili golosità a base del tradizionale dolce. Venite a scoprirle nel vostro supermercato Migros. Sperlari Torroncini alle mandorle e cioccolato duri 130 g Fr. 3.90 Sperlari Torroncini alle mandorle morbidi 130 g Fr. 3.50 Sperlari Torroncini al cioccolato 130 g Fr. 3.– Sperlari Torrone Classico tenero alle mandorle 150 g Fr. 3.90 Sperlari Torrone Classico tenero alle nocciole 150 g Fr. 3.30 Sperlari Granperle 130 g Fr. 3.80

Foto Flavia Leuenberger

Sperlari Morbidelli misti 130 g Fr. 3.–


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Idee e acquisti per la settimana

Il pollo di Bresse Novità Gustate la differenza e assaporate l’eccellenza Quest’anno, per Natale, i banchi macelleria Migros hanno introdotto una grande specialità gastronomica francese: il pollo di Bresse AOP. Questa prelibatezza della Francia orientale si caratterizza per la sua carne soda, ben marmorizzata e dal profumo inimitabile, nonché dalla pelle fine e perlata. Le sue origini vengono fatte risalire all’inizio del XVII secolo, con l’introduzione della coltivazione del mais nell’antica regione della Bresse. Viene allevato in piena libertà (ogni pollo di-

spone di almeno 10 mq), e un terzo della sua alimentazione se la procaccia da solo nutrendosi d’erba, larve e insetti. Il resto dell’alimentazione è costituito da mais, frumento e cereali, nonché prodotti lattieri quali latte e latticello (è l’unico pollo nutrito con latte). Tutte queste peculiarità fanno del pollo di Bresse un prodotto esclusivo apprezzato dai gastronomi più esigenti. Il pollo di Bresse è disponibile dal 23 dicembre nelle filiali Migros di Serfontana, Agno, Lugano, S. Antonino e Locarno.

Pollo di Bresse con spugnole Per 4 persone

15g di maizena

Preparazione Tagliate il pollo di Bresse in 8 pezzi. In una casseruola mettete il burro, l’olio d’oliva, e lo scalogno tritato. Fate rosolare a fuoco vivace per ca 30 minuti, coprendo la casseruola. Durante la cottura vogliate bagnare a più riprese con il vino bianco.Emulsionate la panna da cucina con la maizena e la senape, facendo attenzione affinché non si formino dei grumi. Versate quindi sul pollo e proseguite la cottura per altri 15 minuti a fuoco lento, sempre a casseruola coperta. Unite quindi le spugnole e finite di cuocere per altri 15 minuti senza il coperchio a fuoco lento. Prima di servire mescolare bene il tutto così da avere un migliore mix dei sapori.

Marka

Ingredienti 1 pollo di Bresse 200g spugnole pulite 1 scalogno 100g burro 2 cucchiai olio d’oliva 40cl di panna da cucina 2 bicchieri di vino bianco secco 2 cucchiaini di mostarda forte

Fondue di carne, l’imbarazzo della scelta

Flavia Leuenberger

Attualità Chinoise o Bourguignonne? Classici svizzeri perfetti per le feste da prenotare nelle macellerie Migros

È un tipico piatto festivo che tutti gli svizzeri amano gustare in compagnia e in famiglia. Se esiste un pasto prettamente svizzero, in effetti, è proprio la fonduta di carne Bourguignonne (anche se, a dire la verità, in questa ricetta niente si fonde). Il suo nome francese deriva dal fatto che all’origine per prepararla si usava la carne bovina della zona di Charolles, in Borgogna, un tipo di mucca comunque che si è diffusa in seguito in tutta Europa. E per tornare alla storia gastronomica, la Bourguignonne l’ha inventata un ristoratore vodese, tale Georges Esenwein, che verso la fine degli anni 40 si mise a fare delle sperimentazioni a Losanna, riscuotendo subito un grande successo. C’è chi afferma che il nome dipenda dalla senape di Borgogna, con cui si usa accompagnare la carne; oppure che celebri la vittoria degli svizzeri sul duca di Borgogna, Carlo il Temerario, nell’epica battaglia di Morat. Ma non vi sono certezze e noi preferiamo pensare che sia nata sulle rive del Lemano. La ricetta ha poi superato le frontiere,

subendo delle trasformazioni, seducendo soprattutto piemontesi e savoiardi. Che dire invece della fondue Chinoise? La storia è diversa. Anche qui non vi sono prove certe, ma c’è chi afferma che derivi da una tradizione nomade della Mongolia, anche se appare poco consona, visto l’equipaggiamento che necessita, a questo stile di vita. È invece più probabile, come suggerisce il nome, che tragga origine dalla Cina, pare dalla provincia del Sichuan, ispiratasi comunque alla tradizione mongola. In passato ogni regione cinese aveva la sua ricetta, il brodo veniva scaldato non con delle piastre a gas o elettriche, come oggi, ma sulla carbonella. E ora che le feste si avvicinano non vi resta che scegliere tra le due varianti e sbizzarrirvi con le deliziose salse a base di maionese già pronte oppure preparate da voi stessi. Che venga poi bollita nell’olio aromatizzato alle erbe o nel brodo, a bocconcini o a fettine, coi vari tipi di carne (manzo, vitello, pollo, tacchino, maiale) c’è soltanto l’imbarazzo della scelta. / Marco Jeitziner


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Idee e acquisti per la settimana

Le specialità di Arturo Vogliazzi Freschezza I raffinati antipasti freschi dell’apprezzato marchio italiano li trovate ai reparti

Un nome, una garanzia. Puntuali durante le occasioni più importanti, le creazioni di Arturo Vogliazzi conquistano il palato della nostra clientela grazie ad un’ampia scelta di specialità della grande tradizione italiana. Piatti raffinati, intramontabili, realizzati con materie prime scelte per dare il via con carattere ai banchetti festosi. La gamma, composta da una ventina di preparazioni, propone ad esempio il piatto di insalata russa con gamberi; le barchette cocktail ai gamberi; il gran piatto di insalata russa decorata; l’aragosta in Bellavista; le capesante gratinate o con gamberi; la cassata di insalata russa; i cubetti tartara salmone, uova e gamberi oppure ancora il polipo in gelatina.

Flavia Leuenberger

gastronomia dei principali supermercati Migros Ticino

Flavia Leuenberger

Christmas Specials

Mousse e Perle ai Porcini Fr. 28.– Mousse e Perle alla Soia Fr. 28.–

Dettagli di gusto Perfetti per valorizzare con stile i vostri piatti più gustosi, le mousse e le perle ai porcini e soia sono l’alleato indispensabile per tutti gli amanti della buona cucina. Grazie al loro aspetto simile al caviale, le perle sono un vero e proprio concentrato di aromi e profumi. Ne basta un cucchiaino per trasformare un semplice piatto in un’autentica gourmandise. Cremose e sfiziose, le mousse sono invece ottime su carpacci, carni arrosto, paste, risotti; ma sono ap-

prezzate anche su crostini tostati e formaggi stagionati. Entrambi i prodotti sono pure ideali per insaporire e abbellire antipasti, primi, pesci, carni, formaggi, insalate, verdure e molto altro. La base di questi innovativi prodotti è costituita dal miglior aceto balsamico di Modena, un prodotto dall’acetaia emiliana «Terra del Tuono», un’azienda famigliare fondata nel 1892 specializzata della produzione di aceti e condimenti balsamici di elevata qualità.

Nei Ristoranti e De Gustibus Migros troverete la soluzione ottimale per mettere in tavola i sapori delle feste. Piatti di grande qualità, freschissimi, sapientemente decorati e presentati, pronti per essere gustati in bella compagnia. Il delizioso piatto per 4 persone di paté in crosta è composto dalle varianti casalingo, royal e tartufato. D’effetto sono i mini vol-au-vent misti, ad esempio al tonno o alla mousse di salmone. Piatti di sicuro succes-

so sono costituiti dalle terrine e paté misti in gelatina oppure ancora dagli eleganti bicchierini fingerfood salati dai gusti particolarmente ricercati. Ordinate queste e molte altre prelibatezze presso i Ristoranti Migros, i De Gustibus Migros e i banchi pasticceria di Arbedo Castione, Biasca, Giubiasco, Grancia, Pregassona, Savosa e Taverne; per e-mail all’indirizzo party-service@migrosticino.ch oppure al numero 0848.848.018 .


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Idee e acquisti per la settimana

Profumi dei tropici Attualità Alla Migros una ricca

scelta di frutta esotica

Flavia Leuenberger

Grazie alla ricca scelta di frutti esotici presente nei supermercati Migros potrete fare il pieno di benessere e gusto e al contempo immergervi con la fantasia nella magica atmosfera dei paesi lontani. Questi frutti sorprendono inoltre per il loro alto contenuto di preziose vitamine e sostanze minerali, nonché per il basso tenore calorico. Tra le novità di quest’anno segnaliamo l’ananas pan di zucchero e la papaia formosa. L’ananas pan di zucchero o «ananas bottiglia» è una varietà rara. La sua particolarità è quella di restare verde anche quando è maturo. La sua polpa è bianca, molto succosa, profumata e zuccherina. Questo frutto originario del Benin si gusta da solo, nella macedonia oppure anche per accompagnare carni grasse in ricette della cucina creola, asiatica o caraibica. La papaia formosa è una delle varietà più grandi di papaia e può arrivare a pesare anche tre chilogrammi. Originario del Messico, il frutto si distingue per la sua polpa soda e il sapore piuttosto deciso. Una mezza papaia copre il fabbisogno quotidiano di vitamina C. Inoltre contiene un particolare enzima che favorisce la digestione. Prima di gustarne la polpa, dimezzatela ed eliminate i semini con un cucchiaio e spruzzatela con qualche goccia di lime.

Un tocco raffinato Tesori di dolcezza

Flavia Leuenberger

Il marchio piemontese Dolceria Alba ci propone due irresistibili dessert di alta pasticceria italiana. Il quadrotto al pistacchio è un delizioso semifreddo al pistacchio con granella di meringa al cacao e decorato con puro cioccolato fondente. La variante alla nocciola seduce invece per la sua base croccante di meringa alle nocciole tostate. Entrambi i prodotti sono preparati da appassionati professionisti con ingredienti accuratamente selezionati e non contengono né grassi idrogenati né conservanti. Sono congelati subito dopo la produzione per conservare intatte freschezza, genuinità e intensità di sapori.

Che sia all’aperitivo per stuzzicare l’appetito degli ospiti, oppure per chiudere nel modo giusto un banchetto, con un pezzetto di formaggio Beppino Occelli non dovrete mai preoccuparvi di sfigurare. Queste specialità casearie piemontesi infatti sorprenderanno i commensali per la loro genuinità e originalità. Buon latte delle Langhe, rispetto della tradizione e un’accurata lavorazione sono in segni distintivi del marchio Occelli. Per dare un tocco raffinato alle festività vi consigliamo di assaggiare per

esempio il Crutin di latte di vacca e capra arricchito con scaglie di tartufo estivo; l’Occelli al pepe nero e bacche rosa stagionato in cantina almeno quattro mesi; l’Occelli maturato un anno e mezzo e affinato in foglie di castagno; l’Occelli affinato due mesi in vinacce di vino Barolo oppure ancora l’Occelli Maggengo stagionato alcuni mesi avvolto nel fieno primaverile dei pascoli montani. L’assortimento completo di formaggi Beppino Occelli è in vendita nelle maggiori filiali Migros.

Quadrotto semifreddo al pistacchio 150 g Fr. 5.60 Quadrotto semifreddo alla nocciola 130 g Fr. 5.60 In vendita al reparto congelati delle maggiori filiali Migros.


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Idee e acquisti per la settimana

Festeggiare insieme, donare insieme Eventi Sebalter ospite del Centro S. Antonino giovedì 18 dicembre dalle 18.00 alle 20.00

Nell’ambito del progetto «Ensemble», attività di beneficenza promossa da Migros a livello nazionale, giovedì 18 dicembre il Centro S. Antonino ospiterà una delle 23 celebrità che hanno contribuito alla realizzazione della canzone di Natale Ensemble. E chi poteva essere, se non il rappresentante ticinese di questa grande iniziativa, il giubiaschese Sebastiano Paulessi in arte Sebalter? Sarà quindi l’occasione imperdibile per tutti i fans di incontrare uno fra i personaggi musicali più apprezzati del panorama nazionale. Sebalter ha mostrato grandi doti artistiche e esprime una carica di simpatia che sa coinvolgere un pubblico assai eterogeneo. Come dicevamo, l’incontro con il cantautore ticinese è un’occasione da non mancare, considerando che Sebalter in questo periodo è particolarmente impegnato a mettere a punto l’uscita del suo primo album, Day of Glory , disco che presenterà il prossimo 10 gennaio agli Swiss Awards. Ritorniamo al presente, raccontando dell’esperienza di Sebalter in Ensemble: lo sapevate che fino al prossimo 23 dicembre è aperta l’asta benefica online per aggiudicarsi il maglione invernale che ha indossato durante le riprese del video? Per conoscere l’ammontare delle offerte, basta collegarsi con www.migros.ch/asta dove si potranno visualizzare anche le offerte per il sassofono di Pepe Lienhard, il celebre direttore d’orchestra, oppure le scarpe con il tacco altissimo di Fabienne Louve, la vincitrice di Casting Show. Tra i premi messi in palio si potrà vincere anche uno show

della band svizzera Carousel, ma non in una sala da concerto: un’esibizione privata nel salotto del miglior offerente. Sebalter vi aspetta per un simpatico incontro al 1° piano del Centro S. Antonino, giovedì 18 dicembre dalle 18.00 alle 20.00. Firmerà e vi dedicherà le sue cartoline con il testo del brano Ensemble.

Donare insieme Chi scarica la canzone natalizia della Migros intitolata Ensemble sostiene alcuni progetti mirati di Caritas, Aiuto delle Chiese Evangeliche Svizzere (ACES), Pro Juventute e Soccorso d’inverno. Il download costa fr. 1.20 da ExLibris, fr. 1.10 su iTunes e 99 centesimi su Google Play. L’importo viene versato completamente ai progetti assistenziali. I consumatori, inoltre, possono comprare già dal 22 novembre alle casse della Migros dei «buoni donazione» del valore di 5, 10 o 15 franchi. Infine, si possono versare contributi per la colletta anche sul conto 30-620742-6 oppure inviando un SMS con il testo «MIGROS (offerta)» al numero 455. La somma incassata sarà devoluta ai progetti d’aiuto. L’importo totale raccolto con tutte queste attività sarà raddoppiato dalla Migros, fino a un massimo di un milione di franchi. La cifra raccolta verrà divisa in parti uguali tra Caritas, ACES, Pro Juventute e Soccorso d’inverno.

Mantiene morbida la lana Nella stagione più fredda dell’anno si torna volentieri a vestirsi di lana. Yvette Care, con proteine trattanti naturali, è l’deale per lana, seta e tutti i capi delicati. Il balsamo protegge le fibre e conferisce ai vostri capi preferiti un tocco di morbidezza che dura a lungo. Inoltre le fibre mantengono la loro forma e si impedisce la formazione degli antipatici pelucchi. Questo detersivo è adatto anche alla piuma. Tutti i prodotti Yvette sono testati dermatologicamente e ben biodegradabili.

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Idee e acquisti per la settimana

A tavola con la coscienza a posto Chi acquista pesce munito del marchio contribuisce a proteggere i mari e l’ambiente. Al banco del pesce fresco si può scegliere tranquillamente di tutto, perché l’offerta completa proviene da fonti sostenibili Chi per le Feste intende viziare i suoi familiari portando in tavola un piatto a base di pesce, farà bene a procurarsi la materia prima al banco del pesce fresco. Lì, oltre ai pratici consigli del personale specializzato su come cucinare il pesce, avrà la garanzia che l’offerta proviene esclusivamente da fonti sostenibili. Sono considerati sostenibili i pesci e i frutti di mare che recano i marchi Bio, MSC e ASC così come quelli che il WWF giudica raccomandabili o accettabili. Migros ha tolto dal suo assortimento le varietà di pesce che non corrispondono a questi criteri o sono addirittura minacciate di estinzione. Preoccuparsi per le acque che servono da spazio vitale ai pesci commestibili è giustificato. Secondo l’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura delle Nazioni Unite (FAO) il 30% dei patrimoni ittici è sottoposto a pesca eccessiva e il 60% di tutte le imprese di pesca gestite commercialmente sono sfruttate al massimo. Migros s’impegna per i mari e definisce obiettivi chiari

Per facilitare agli amanti del pesce la decisione da prendere in linea generale per un consumo responsabile, si distinguono i prodotti con l’indicazione dei marchi sopraccitati (vedi anche il riquadro «Tre marchi, un obiettivo»), facendo la distinzione fra pesce proveniente da pesca selvatica e pesce d’allevamento. Nel caso della pesca selvatica si tratta soprattutto di preservare il patrimonio ittico sano, mentre nell’allevamento si pone l’accento sulla protezione ambientale. Per contrastare la pesca eccessiva, il pesce d’allevamento è una buona alternativa. Le acquicolture devono però essere

gestite in modo responsabile. Gli allevamenti certificati Bio e ASC danno il buon esempio. Contribuiscono al mantenimento della biodiversità delle specie regionali, rispettando gli spazi vitali naturali. Ne fa parte anche l’utilizzo di alimenti provenienti da fonti sostenibili, così come il rispetto di criteri ambientali. La Migros prende sul serio la situazione precaria dei mari del mondo e ha già mantenuto quasi completamente la sua promessa fatta nell’ambito della campagna Generazione M – vendere entro il 2020 solo pesce proveniente da fonti sostenibili: il 94% dell’offerta di pesci e frutti di mari rispettano le linee direttive. Al banco del pesce fresco, la promessa è diventata realtà al 100% già dal febbraio di quest’anno. Il personale che vi lavora è informatissimo sul tema della sostenibilità e fornisce informazioni, su richiesta anche sulla preparazione. Ad esempio, di una fondue di pesce. José Teixeira, responsabile della pescheria di S. Antonino: «Per la fondue tagliamo volentieri i pezzi di pesce. Sono adatti pesci e frutti di mare di consistenza soda come salmone, tonno, capesante o gamberetti.» Sulla pagina seguente trovate ulteriori informazioni sul tema fondue di pesce quale menu delle feste. /Anna-Katharina Ris

Parte di

Tre marchi, un obiettivo

MSC (Marine Stewardship Council) è simbolo di una pesca certificata, sostenibile. I pesci e i frutti di mare provengono sempre da pesca selvatica. MSC dà un importante contributo al mantenimento delle risorse – dei pesci e del loro ambiente – nei mari del mondo.

Migros Bio è simbolo di un allevamento rispettoso della natura, sostenibile. I pesci e i frutti di mare ricevono alimenti biologici e vivono in ampie vasche di acqua dolce o salata. L’allevamento sottostà a controlli indipendenti e ha la certificazione per un’acquicoltura sostenibile, biologica.

ASC (Aquaculture Stewardship Council) è simbolo di un allevamento certificato, responsabile, che deve rispettare le linee direttive ecologiche e sociali.

José Teixeira, responsabile della pescheria di Migros S. Antonino.

Generazione M è simbolo dell’impegno sostenibile della Migros. Ne fa parte l’impegno di vendere solo pesce sostenibile entro il 2020.


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Idee e acquisti per la settimana

Fondue di pesce Filetto dorsale di merluzzo MSC pesca selvatica dall’Atlantico nordoccidentale. Si preserva il patrimonio ittico.– Questo delicato pesce d’acqua salata ha un sapore neutro. Affinché non si sfaldi, meglio intingerlo nel brodo con un piccolo colino. 1

2 Capesante MSC pesca selvatica certificata dall’Atlantico nordoccidentale. Si preserva il patrimonio ittico. Se necessario si taglia a pezzetti la carne delle capesante. Non dovrebbero cuocere troppo a lungo nel brodo e all’interno possono essere ancora trasparenti.

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Foto Paolo Dutto; Claudia Linsi

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3 Filetto di tonno dalle pinne gialle Pesca con la lenza dalle Maldive. Per preservare il patrimonio ittico, i pesci vengono catturati singolarmente con l’amo. Il tonno fresco va intinto solo brevemente nel brodo, in modo che all’interno rimanga crudo. Se lo si lascia cuocere del tutto diventa asciutto.

4 Filetto di salmone Allevamento bio dallIrlanda. Nel caso non fosse disponibile salmone senza pelle, il collaboratore al banco la toglie volentieri. Nella preparazione, occorre badare che tutte le lische siano state tolte.

5 Code di gamberi Allevamento bio dal Vietnam. Si toglie il guscio e si taglia la carne a pezzetti. Nel brodo bollente la carne diventa rossa.


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Idee e acquisti per la settimana

Raffinata selezione

Un regalo di classe per palati sopraffini: Sélection Cesto regalo grande* Fr. 145.–

Un cesto stracolmo di prelibatezze gastronomiche si presta perfettamente come regalo per l’Avvento o per il giorno di Natale. È il momento dei regali. Ma non bisogna aspettare il giorno di Natale per fare una bella sorpresa a parenti, amici del cuore, colleghi di lavoro o affezionati clienti. La gioia di un bel gesto si può, infatti, regalare anche in queste settimane dell’Avvento. Confezionato con grande stile, un cesto regalo di Sélection è proprio quel che ci vuole. A dipendenza di quanto si vuol spendere, si può scegliere tra varie composizioni. Tutte, però, hanno una cosa in comune: sono completamente farcite di specialità della linea Sélection. Un assortimento d’alta qualità che sorprende per varietà. Chi, ad esempio, riceve in regalo il cesto più grande vi scopre all’interno squisite prelibatezze come lo spumeggiante Moscato senz’alcool e i praliné Tentation Noire, oltre a raffinati ingredienti per una cucina sofisticata, come il fior di sale o i fiori di pepe, il pesto genovese, la senape ai fichi e il miele al rosmarino. Accluso vi è un opuscolo con alcune raffinate ricette natalizie. Naturalmente, anche gli altri cesti sono ripieni di leccornie. E dato che non sono solo belli da vedere ma anche molto robusti, un volta svuotati di tutte queste delizie si possono benissimo usare come contenitori per altri oggetti. Un regalo utile oltre che buono! / JV

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Rose, Fairtrade in diversi colori, gambo da 50 cm, mazzo da 15

Phalaenopsis con 3 steli in coprivaso, decorato, la pianta

Tutti i prodotti Cafino o Noblesse, UTZ per es. Cafino, in sacchetto, 550 g

Tutte le noci o le miscele di noci Sun Queen Premium Nuts, salate 20% di riduzione, per es. miscela di noci, 170 g

Capesante Pelican in conf. da 2, MSC surgelate, 2 x 200 g

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Tutti i pannolini Pampers (confezioni giganti escluse), offerta valida per 3 prodotti con lo stesso prezzo, per es. Baby-Dry 3, 3 x 48 pezzi

Diversi capi di calzetteria per bambini e bebè per es. calzamaglia per bambini in conf. da 2, viola, taglie 98/104–158/164

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Spaghetti, pennette, cravattine Agnesi con il 50% di contenuto in più, 500 g + 250 g, per es. cravattine, 750 g

Gamberetti Pelican crudi, sgusciati surgelati, 750 g

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30% 4.40 invece di 6.30 Diversi articoli di cartoleria per es. colla in stick in conf. da 3, 3 x 20 g

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Pantofole per piedi caldi Tutti i detergenti Potz a partire dall’acquisto di 2 prodotti, –.70 di riduzione per es. set di pantofole per ospiti l’uno, per es. disotturante per scarichi Power Gel Xpert, 1 l

6.70 invece di 8.40

4.15 invece di 5.20

Sugo di pomodoro al basilico Agnesi in conf. da 3 Tutti i birchermüesli Reddy 3 x 400 g, 20% di riduzione 20% di riduzione, per es. birchermüesli Fit, 700 g

NOVITÀ

50% 8.95 invece di 11.20

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Detersivo delicato Yvette 20% di riduzione, per es. Care, 2 l

Handymatic Supreme (sale rigeneratore escluso), per es. pastiglie Power Pearls Lemon, 44 pezzi

Salviettine cosmetiche e fazzoletti Linsoft in confezioni multiple 20% di riduzione, per es. scatola di salviettine cosmetiche in conf. da 3, FSC, 3 x 150 pezzi

* In vendita nelle maggiori filiali Migros. OFFERTE VALIDE SOLO DAL 16.12 AL 29.12.2014, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

29.– 2.– invece di 2.40

6.40 invece di 8.40

Tutte le tisane Klostergarten in bustina a partire dall’acquisto di 2 confezioni, –.40 di riduzione l’una, per es. Albertus, 20 bustine

Tutti i brodi Knorr in barattolo a partire dall’acquisto di 2 prodotti, 2.– di riduzione l’uno, per es. estratto di verdure, 250 g

Cardigan da bambino per es. kaki, taglie 98–128

In vendita nelle maggiori filiali Migros. OFFERTE VALIDE SOLO DAL 16.12 AL 29.12.2014, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK


FRUTTA E VERDURA

Insalata delle feste Anna’s Best, 250 g 3.25 invece di 4.10 20% Lattuga rossa Anna’s Best, 150 g + 30 g gratis, con il 20% contenuto in più, 180 g 2.90 Patate Amandine, Svizzera, busta da 1,5 kg 2.85 invece di 4.80 40% Ananas, Costa Rica, al pezzo 2.15 invece di 3.60 40%

PESCE, CARNE E POLLAME Lombatina d’agnello, Nuova Zelanda / Australia, per 100 g 3.75 invece di 5.40 30% Prosciutto cotto Puccini Rapelli, affettato, aha!, Svizzera, per 100 g 2.35 invece di 3.40 30% Pancetta da grigliare affettata, TerraSuisse, per 100 g 1.60 invece di 2.30 30% Paté natalizio con carne di vitello, Svizzera, 500 g 14.90 invece di 29.80 50% Terrina alle spugnole Rapelli in conf. da 2, Svizzera, 2 x 130 g 5.35 invece di 8.95 40% Filetto di maiale in crosta, Svizzera, 800 g 19.95 invece di 39.90 50% Fettine di pollo Optigal, Svizzera, per 100 g 2.70 invece di 3.30 15% Salmone affumicato dell’Atlantico, d’allevamento, Norvegia, 330 g 9.90 invece di 19.80 50%

PANE E LATTICINI Il Burro –.20 di riduzione, panetto da 250 g 2.95 invece di 3.15 Tutti gli yogurt Farmer, per es. al cioccolato, 225 g 1.55 invece di 1.95 20% Tutti gli yogurt Yogos in conf. da 4, 4 x 180 g, –.55 di riduzione, per es. ai fichi 3.25 invece di 3.80 Fondue Swiss-Style moitié-moitié e Tradition in conf. da 2, per es. Swiss-Style moitié-moitié, 2 x 800 g 22.40 invece di 28.– 20% Le Gruyère Surchoix, per 100 g 1.60 invece di 2.– 20% Raccard Tradition in blocco e a fette, per es. in blocco maxi, per 100 g 1.80 invece di 2.25 20%

FIORI E PIANTE Bouquet di rose, Fairtrade, lunghezza dello stelo 40 cm, mazzo da 30 13.50 invece di 19.50 30% Rose, Fairtrade, in diversi colori, gambo da 50 cm, mazzo da 15 14.90 Bouquet delle feste Olivia, il mazzo 19.90 Composizione delle feste con Cymbidium, la composizione 13.90 Quadrifoglio Oxalis decorato, al pezzo 3.90 Phalaenopsis con 3 steli, in coprivaso, decorato, la pianta 23.90 invece di 34.90 30% *In vendita nelle maggiori filiali Migros.

ALTRI ALIMENTI

Cioccolatini Frey assortiti in sacchetto da 1 kg, UTZ 10.50 invece di 21.05 50% Tutte le pastiglie per la gola in conf. da 2, con scatoletta in omaggio, per es. cassis, 2 x 220 g 8.60 invece di 10.80 20% Tutti i truffes Frey, UTZ, per es. Marc de Champagne, 220 g 12.95 invece di 16.20 20% offerta valida fino al 25.12 Tutti i biscotti Créa d’Or, a partire dall’acquisto di 2 prodotti, –.60 di riduzione l’uno, per es. bretzeli, 100 g 1.75 invece di 2.35 Tutte le miscele natalizie (esclusi gli articoli Sélection), 1.40 di riduzione, per es. miscela natalizia, 500 g 4.10 invece di 5.50 Tutti i prodotti Cafino o Noblesse, UTZ, per es. Cafino, in sacchetto, 550 g 7.55 invece di 10.80 30% Tutte le tisane Klostergarten in bustina, a partire dall’acquisto di 2 confezioni, –.40 di riduzione l’una, per es. Albertus, 20 bustine 2.– invece di 2.40 Tutti i tè e le tisane Tencha in bustine, per es. Love Me, 16 bustine 4.55 invece di 5.70 20% * Tutte le confetture Favorit, per es. confettura svizzera di albicocche, 350 g 2.80 invece di 3.50 20% Tutti i birchermüesli Reddy, per es. birchermüesli Fit, 700 g 4.15 invece di 5.20 20% Scatola assortita per l’aperitivo delle feste Happy Hour, surgelata, 1308 g 11.55 invece di 16.55 30% Lasagne alla bolognese Buon Gusto, surgelate, 20x 1 kg 8.30 NOVITÀ * Gamberetti Pelican crudi, sgusciati, surgelati, 750 g 13.20 invece di 18.90 30% Capesante Pelican in conf. da 2, MSC, surgelate, 2 x 200 g 11.60 invece di 16.60 30% Tutti i gelati Crème d’or in vaschette da 750 ml e 1000 ml, per es. vaniglia Bourbon, 1000 ml 7.80 invece di 9.80 20% Tutte le confezioni di Pepsi e Schwip Schwap in conf. da 6, 6 x 1,5 l, per es. Pepsi regular 5.50 invece di 11.– 50% Tutte le bevande per aperitivo (spumanti senza alcol esclusi), per es. Tonic Water, 6 x 50 cl 4.80 invece di 6.– 20% Tutti i succhi Sarasay, per es. succo d’arancia Florida, 1 l 2.35 invece di 2.95 20% San Pellegrino in conf. da 6, 6 x 1,5 l 4.– invece di 6.– 33% Sugo di pomodoro al basilico Agnesi in conf. da 3, 3 x 400 g 6.70 invece di 8.40 20%

NEAR FOOD / NON FOOD Prodotti per i capelli Garnier Fructis in confezioni multiple, per es. shampoo Goodbye Damage, in conf. da 3, 3 x 300 ml 9.45 invece di 13.50 30% Tutti i prodotti per i capelli Taft, Gliss, Syoss in conf. da 2, per es. Taft Ultra Hairspray, grado di tenuta 4, 2 x 250 ml 7.20 invece di 9.– 20% Docciaschiuma Nivea in confezioni multiple, per es. docciacrema Creme Care in conf. da 3, 3 x 250 ml 7.20 invece di 9.– 20% Salviettine cosmetiche e fazzoletti Linsoft in confezioni multiple, per es. scatola di salviettine cosmetiche in conf. da 3, FSC, 3 x 150 pezzi 4.55 invece di 5.70 20% Pantofole per piedi caldi, per es. set di pantofole per ospiti 14.90 Tutti i pannolini Pampers (confezioni giganti escluse), offerta valida per 3 prodotti con lo stesso prezzo, per es. Baby-Dry 3, 3 x 48 pezzi 37.60 invece di 56.40 3 per 2 Cardigan da bambino, per es. kaki, taglie 98–128 20x 29.– NOVITÀ * Diversi capi di calzetteria per bambini e bebè, per es. calzamaglia per bambini in conf. da 2, viola, taglie 98 / 104–158 / 164 8.90 Detersivi Total, da 1 l / 1 kg, per es. 1 for all, 3 x 2 l 31.80 invece di 47.70 3 per 2 Detersivo delicato Yvette, per es. Care, 2 l 8.95 invece di 11.20 20% Decalcificante in pastiglie Calgon in confezione risparmio, 54 pastiglie 16.90 invece di 20.40 15%

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Vanish Oxi Action igiene extra in polvere in conf. risparmio, 1,41 kg 19.90 invece di 29.85 33% Handymatic Supreme (sale rigeneratore escluso), per es. pastiglie Power Pearls Lemon, 44 pezzi 6.75 invece di 13.50 50% Manella Swiss Edition in conf. da 3, per es. Apple, 3 x 500 ml 7.40 invece di 9.30 20% Tutti i detergenti Potz, a partire dall’acquisto di 2 prodotti, –.70 di riduzione l’uno, per es. disotturante per scarichi Power Gel Xpert, 1 l 5.20 invece di 5.90 Carta igienica Soft in confezioni multiple, per es. Soft Deluxe, 24 rotoli 13.– invece di 18.60 30% Pentola a pressione Kuhn Rikon da 3,5 l o da 5 l, per es. pentola a pressione Duromatic, 5 l 72.50 invece di 145.– 50% Diversi articoli di cartoleria, per es. colla in stick in conf. da 3, 3 x 20 g 4.40 invece di 6.30 30% Bob con manubrio, Alpenspace 39.90 invece di 69.90 40%

Arance Tarocco, Italia, rete da 2 kg 3.90 invece di 5.30 25% Arrosto spalla di vitello, TerraSuisse, Svizzera, imballato, per 100 g 3.05 invece di 4.10 25% Carpaccio Rapelli surgelato, 330 g 14.– invece di 17.50 20% Costolette di maiale, Svizzera, imballate, in conf. da 4 pezzi, per 100 g –.90 invece di 1.85 50% Cuore di carciofo, Italia, in conf. da 4 pezzi 3.60 invece di 4.80 25% Entrecôte di manzo, TerraSuisse, Svizzera, imballato, per 100 g 4.80 invece di 6.90 30% Kiwi, Italia, in conf. da 6 pezzi 1.50 invece di 2.20 30% Pan dal Pepp, TerraSuisse, 400 g 2.45 invece di 2.90 Pane Tramezzino e Bruschetta Arte Bianca, 250 g, 300 g e 400 g, per es. pane per tramezzino, 250 g 2.40 invece di 3.– 20% Panettone, Pandoro e Panettone Sélection, 1 kg e 800 g in scatola, per es. Panettone Sélection, 1 kg 14.80 invece di 18.50 20% Parmigiano Reggiano DOP 24 mesi, al banco, al kg 16.– invece di 32.– 50% Pâté tartufato, prodotto in Svizzera, in conf. da 300 g 10.90 invece di 13.90 20% Pâté ticinese, Svizzera, al banco a servizio, per 100 g 2.– invece di 3.40 40% Prosciutto crudo di Parma Beretta, Italia, affettato, in vaschetta da 100 g 5.30 invece di 7.70 30% Salametti a pasta grossa, prodotti in Ticino, in conf. da 2 pezzi, per 100 g 2.95 invece di 3.85 20%

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Spaghetti, pennette, cravattine Agnesi, con il 50% di contenuto in più, 500 g + 250 g, per es. cravattine, 750 g 1.90 invece di 2.85 33% Monini Classico e Delicato in conf. da 2, per es. Classico, 2 x 1 l 19.05 invece di 25.40 25% Tutti i brodi Knorr in barattolo, a partire dall’acquisto di 2 prodotti, 2.– di riduzione l’uno, per es. estratto di verdure, 250 g 6.40 invece di 8.40 Tutte le noci o le miscele di noci Sun Queen Premium Nuts, salate, per es. miscela di noci, 170 g 3.50 invece di 4.40 20% Berliner, 6 x 70 g 3.90 invece di 5.85 6 per 4 Biberli finissimi da 220 g o da 500 g, per es. 500 g 5.25 invece di 6.60 20% Torta svedese ai lamponi, torta reale all’ananas e torta al nougat, intera e in conf. da 2, per es. torta svedese ai lamponi, 500 g 7.80 invece di 9.80 20% Dip per fondue chinoise Anna’s Best, 6 x 125 g 6.30 invece di 8.40 25% Family Pasta Anna’s Best, per es. grana, 750 g 9.90 Piatto di snack Asia, 640 g 11.90 invece di 14.90 20% Pizza Anna’s Best in conf. da 2, per es. margherita, 2 x 465 g 9.40 invece di 12.60 25%


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Idee e acquisti per la settimana

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Gli ananas vengono raccolti maturi. Nelle aziende di Del Monte la raccolta avviene a mano. Il periodo di maturazione dei frutti è di sei mesi. Non si moltiplicano mediante semi, ma tramite piantine. Per farlo si pianta nella terra la corona, da cui nasce una nuova pianta.

Ananas al pezzo al prezzo del giorno

Una coltura rispettosa Migros acquista i suoi ananas dalla Costa Rica. Nelle aziende del suo fornitore Del Monte l’apprezzato frutto è coltivato nel rispetto dell’ambiente Con la sua polpa succosa e la sua rinfrescante dolcezza, l’ananas è perfetto nelle macedonie, in torte e bevande e conferisce un nota delicatamente aspra ed esotica ai piatti piccanti a base di carne, pesce e pollame. Buono a sapersi: questo frutto tropicale in vendita alla Migros viene prodotto in Costa Rica in modo responsabile. Coltivazione responsabile

Fornitrice della Migros è l’azienda americana Del Monte, che coltiva i suoi ananas secondo le linee direttive internazionali per la pratica agricola corretta secondo GlobalGAP* e fa certificare le sue aziende in tal senso. Ma non è tutto: in fatto di protezione del terreno, delle piante delle acque, biodiversità e condizioni di lavoro socialmente sopportabili, Del Monte risponde alle mas-

sime esigenze. In Costa Rica le zone cuscinetto fra le acque e le superfici coltivate sono prescritte legalmente, quindi osservate anche nelle aziende Del Monte. Oltre a ciò, laggiù si bada che le fosse di drenaggio portino via meno terreno possibile. Per ridurre il trasporto di sedimenti, si erigono barriere naturali di piante, legno o pietre. La lotta ai parassiti avviene secondo i principi della protezione delle piante integrata, nella quale ha un ruolo importante l’impiego di organismi utili. Anche l’eliminazione a mano delle erbacce contribuisce a far sì che l’uso di prodotti fitosanitari sia ridotto al minimo. Superfici boschive per incentivare la biodiversità

Per Del Monte, anche la protezione de-

gli spazi vitali fa parte di una coltura rispettosa. Così, fra le coltivazioni di ananas si trovano superfici boschive compensatorie che servono in prima linea ad incentivare e preservare la diversità biologica delle specie. Raccolti a mano e due settimane in alto mare

Per quanto riguarda gli standard sociali, Del Monte paga ai suoi lavoratori più del salario minimo usuale nel paese e concede prestazioni supplementari, che vengono contrattate regolarmente coi sindacati. E come giungono in Svizzera gli ananas? Raccolti a mano, ripuliti e assortiti, i frutti vengono trasportati al porto. Dopo un viaggio in nave di circa due settimane in container raffreddati, sono disponibili alla Migros. / Dora Horvath

*GlobalGAP è un sistema privato utilizzato a livello mondiale per la garanzia di qualità e la certificazione per l’agricoltura, e il nome di un’organizzazione che definisce e gestisce questo sistema.


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Idee e acquisti per la settimana

Il caffè in veste natalizia Espresso, cappuccino e latte macchiato si adattano perfettamente a raffinate variazioni, trasformandosi in gradite sorprese da offrire agli ospiti o da gustare in famiglia

SERIE Cultura del caffè - Terza parte L’affascinante mondo del caffè, dalla sua coltivazione in Sudamerica fino allo Swiss Coffe Championship. Oggi: ricette a base di caffè

L’ESPERTO

Chahan Yeretzian, ZHAW, Wädenswil Da circa sette anni Chahan Yeretzian (54 anni) è professore di chimica analitica presso l’Alta scuola zurighese di scienze applicate (ZHAW). Sotto la sua egida si è sviluppato a Wädenswil un centro di competenza per il caffè, dove si concentrano le conoscenze del settore.

Caffè ai marshmallow e al cacao Latte macchiato al caramello e al popcorn Per 4 bicchieri di 2,5 dl Ingredienti 6 caramelle mou morbide, ad es. Micamu 8 dl di latte 4 caffè espresso 20 g di popcorn al caramello Preparazione Tritate grossolanamente le caramelle. Portate a ebollizione il latte. Distribuite le caramelle nei bicchieri e riempiteli per due terzi con il latte bollente. Mescolate con un cucchiaio finché le caramelle si sono sciolte. Fate schiumare il latte rimasto e versatelo nei bicchieri. Aspettate ca. 30 secondi, quindi versate lentamente 1 caffè espresso in ogni bicchiere. Distribuite la schiuma di latte nei bicchieri con un cucchiaio. Guarnite con i popcorn e servite subito.

Per 4 tazze di 2,5 dl Come si può definire un buon caffè? Ingredienti 30 g di marshmallow 6 cucchiai di cacao in polvere 8 dl di caffè Preparazione A seconda delle dimensioni dei marshmallow, tagliateli a pezzetti. Distribuite il cacao nelle tazze, lasciandone da parte un po’ per guarnire. Versate il caffè bollente e mescolate. Spargete sul caffè il cacao messo da parte e i marshmallow a pezzetti e servite subito.

Exquisito chicchi 500 g Fr. 7.50

Secondo me un buon caffè deve contribuire a un momento di massimo godimento. Ciò significa un espresso preparato appena tostato, corposo e con un intenso aroma di torrefazione. Magari con una leggerissima acidità dal rinfrescante aroma di agrumi o, a dipendenza del caffè, con una nota dolciastra di cacao. Per me è fondamentale soprattutto il profumo. Perché a volte il caffè ha un gusto amaro?

Tempo di preparazione ca. 10 minuti

Se il caffè viene tostato troppo e/o viene estratto troppo intensamente, gli accenti amarognoli emergono in modo più evidente e spesso molti li percepiscono come sgradevoli. Quali aromi deve evocare un buon caffè?

Tempo di preparazione ca. 10 minuti

Trovo molto adatti gli aromi di cacao e di tostatura, specialmente per i caffè con un forte corpo. Il caffè con un corpo leggero si abbina molto bene anche a un rinfrescante aroma di agrumi. Il sapore del caffè viene «alterato» se si aggiungono latte e zucchero?

Caffè Arabico Per 4 tazze di ca. 1 dl Ingredienti 8 capsule di cardamomo, nei negozi di specialità 8 chiodi di garofano 4 dl di caffè forte

Caffè al panpepato Per 4 tazze di ca. 2,5 dl Ingredienti 4 dl di panna semigrassa 4 cucchiaini di spezie per panpepato 4 dl di caffè Preparazione Montate non completamente la panna con la metà delle spezie per panpepato. Versate il caffè nelle tazze. Distribuite la panna sul caffè con un cucchiaio. Spargete le spezie per panpepato sulla panna e servite subito.

Preparazione Distribuite le capsule di cardamomo e i chiodi di garofano nelle tazze. Versate il caffè bollente e lasciatelo riposare brevemente. Togliete le spezie con un cucchiaio e servite subito il caffè. Suggerimenti Dolcificate con latte condensato Se usate una caffettiera (moka), macinate grossolanamente le spezie e aggiungetele al caffè macinato.

Café Royal Espresso Forte 10 capsule Fr. 3.80

Non necessariamente. Dipende dal contesto. Soprattutto le miscele ricche di caffè del tipo Robusta sono molto adatte per le bevande a base di latte, poiché il gusto forte e la corposità vengono attenuati, consentendo di evidenziare un carattere più pieno di qualche buon caffè Arabica. Intervista: Heidi Bacchilega www.zhaw.ch

Delizio Espresso Caramello 12 capsule Fr. 5.60

Tempo di preparazione ca. 5 minuti

Tempo di preparazione ca. 10 minuti Ricetta di

L’Industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui anche gran parte dell’assortimento di caffè.


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Idee e acquisti per la settimana

Dolce, fruttato e croccante Si può preparare un delizioso crumble anche senza frutta fresca. A patto che come alternativa si usi la composta di prugne Bischofszell Il crumble è un dolce natalizio per eccellenza. La cui preparazione non necessita di molto tempo. La sua ricetta è infatti semplice e veloce. Appena sfornato, questo croccante dolce alla frutta della tradizione inglese riscalda il corpo e lo spirito durante le gelide giornate invernali. Specie se lo si incorona con una pallina di gelato alla vaniglia! E non è un problema se in questi mesi non c’è frutta fresca a disposizione. Infatti, si può preparare un classico crumble anche con una composta della marca Bischofszell. Sono consigliate quelle con un’alta percentuale di frutta, ad esempio con il 90% di prugne e albicocche o con l’84% di rabarbaro. Tutte rigorosamente prodotte da frutta svizzera. Inoltre, non contengono né aromi artificiali né additivi esaltatori di sapidità. / AW

Bischofszell Composta di albicocche 310 g Fr. 3.–

Bischofszell Composta di prugne 310 g Fr. 2.90

Foto Claudia Linsi

Con la composta di prugne di Bischofszell si prepara un crumble di gran classe.

Crumble alle prugne Bischofszell Composta di rabarbaro 310 g Fr. 2.90

L’Industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui anche le composte dell’azienda Bischofszell Alimentari SA.

Dessert per 4 persone, per 4 pirofiline

Ingredienti 40 g di burro freddo 50 g di farina 40 g di zucchero greggio 1 presa di sale ½ cucchiaino di cannella 20 g di fiocchi d’avena 150 g di fondo per torta (pan di Spagna) o fette di treccia 1 dl di succo d’arancia 2 barattoli di composta di prugne da 310 g zucchero a velo per decorare 4 palline di gelato, ad es. vaniglia

Preparazione 1. Scaldate il forno a 200 °C. Lavorate il burro con la farina lo zucchero, il sale e la cannella in un mixer oppure sfregate con le mani tutti gli ingredienti fino a ottenere un composto di tante briciole. Incorporate i fiocchi d’avena. Dividete in pezzi grossolani il fondo di pan di Spagna e distribuitelo sul fondo delle pirofiline. Bucherellate i fondi più volte con una forchetta e irrorateli con il succo d’arancia. Distribuite prima la composta sui fondi, poi completate con il composto di briciole. Cuocete il dolce

nella parte superiore del forno per ca. 20 minuti. 2. Sfornate il crumble e fatelo intiepidire. Spolverizzate con lo zucchero a velo e servite con una pallina di gelato alla vaniglia. Tempo di preparazione ca. 15 minuti + cottura in forno ca. 20 minuti Per persona ca. 7 g di proteine, 13 g di grassi, 91 g di carboidrati, 2150 kJ/520 kcal


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Benvenuto Bambin Gesù La tavola è imbandita a festa. L’atmosfera natalizia e le scintillanti decorazioni fanno salire l’acquolina in bocca in attesa delle prelibatezze che la famiglia si è concessa in occasione di questo solenne momento

Bicchieri da vino rosso Superiore* set da 3 Fr. 14.80 Posate Empire* Coltello, 1 pezzo, Fr. 7.50 Forchetta, 1 pezzo, Fr. 6.50 Tovaglia Ornamente 140x260 cm, 100% Poliestere, rossa* e bianca, Fr. 24.80 Candelabro 10,5x13,75 cm, bianco*, Fr. 24.80 *nelle maggiori filiali

Foto Jorma Müller; Styling Monika Hansen; Foto (Food) Veronika Studer; Projektleitung Sonja Leissing

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Idee e acquisti per la settimana

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Idee e acquisti per la settimana

Secondo papà Bögli «il brasato è cosa da uomini». Pertanto si occupa lui della spalla di vitello arrosto con verdure di stagione. «Cavoletti di Bruxelles, barbabietole e pastinaca danno un sapore speciale al sugo».

Arrosto di spalla di vitello con verdure a radice Piatto principale per 4 persone Ingredienti 1,2 kg di spalla di vitello arrotolata 1 cucchiaino di sale pepe farina per cospargere 600 g di verdure (barbabietole crude, pastinache e cavolini di Bruxelles) 4 scalogni 1 cucchiaio di burro per arrostire 3 cucchiai di sciroppo d’acero 2 cucchiai d’aghi di rosmarino 4 dl di fondo bruno sale, pepe

Preparazione Scaldate il forno a 180 °C. Condite la carne con sale e pepe e cospargetela di farina. Tagliate le verdure a pezzi di ca. 3 cm. Dimezzate gli scalogni. Scaldate il burro per arrostire in una brasiera. Rosolatevi bene la carne per ca. 5 minuti. Unite le verdure e gli scalogni e rosolateli con la carne per ca. 5 minuti. Tritate finemente il rosmarino e mescolatelo con lo sciroppo d’acero. Versate sull’arrosto, bagnate con il fondo, coprite e cuocete nella metà inferiore del forno per ca. 80 minuti. Dopo 30 minuti togliete il coperchio. Ogni tanto bagnate la carne con la salsa di cottura. Estraete l’arrosto dalla salsa e tenetelo in caldo per 10 minuti. Condite le verdure e la salsa con sale e pepe. Tagliate l’arrosto e servite le fette di carne con le verdure e la salsa. Accompagnate con le polpette di pane e porri.

Tempo di preparazione ca. 30 minuti + cottura in forno ca. 80 minuti Per persona ca. 70 g di proteine, 15 g di grassi, 19 g di carboidrati, 2060 kJ/490 kcal

Nonna Bögli: «I miei canederli di porri con salsa ai funghi sono un raffinato contorno vegetariano».

Polpette di pane e porri con salsa panna e funghi Piatto principale per 4 persone Ingredienti 200 g di porri 1 cucchiaio di burro 150 g di pane bigio 2 uova 1 dl di latte 3 cucchiai di farina 50 g di sbrinz grattugiato ½ cucchiaino di sale pepe

Ingredienti per salsa panna e funghi 50 g di porcini secchi 2 cipollotti 1 spicchio d’aglio 1 cucchiaio di burro 250 g di champignon bruni 1 cucchiaino di sale pepe 1 cucchiaino di paprica ½ mazzetto di prezzemolo 1 dl di brodo di verdure 2 cucchiai di ketchup 1,8 dl di panna semigrassa per salse Preparazione 1. Tagliate finemente i porri, fateli appassire nel burro per ca. 4 minuti e lasciateli raffreddare. Tagliate il pane a dadini. Mescolate con le uova, il latte, la farina e il formaggio. Unite i porri. Condite con il sale e pepe e lasciate riposare la massa per ca. 15 minuti. Inumidite le mani e formate 12

polpette. Lessatele in acqua salata, sotto il punto d’ebollizione, per ca. 8 minuti. Scolatele bene e tenetele in caldo. 2. Per la salsa, ammollate i porcini in acqua fredda per ca. 5 minuti e lasciateli sgocciolare bene. Tagliate i cipollotti e le foglie a striscioline. Schiacciate l’aglio. Fate appassire i cipollotti e l’aglio nel burro. Tagliate gli champignon in quattro e uniteli ai porcini. Condite con il sale, pepe e la paprica e fate appassire brevemente. Tritate finemente il prezzemolo. Incorporatelo con il brodo, il ketchup e la panna. Portate brevemente a ebollizione. Distribuite la salsa nei piatti e completate con le polpette. Tempo di preparazione ca. 45 minuti + riposo ca. 15 minuti Per persona ca. 21 g di proteine, 25 g di grassi, 33 g di carboidrati, 1880 kJ/450 kcal


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 15 dicembre 2014 ¶ N. 51

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Idee e acquisti per la settimana

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Delizie per il giorno di Natale Mamma Bögli: «Per noi il massimo è il dessert al cioccolato con crema di noci. Ed è perfetto per il menu di Natale, perché si può preparare in anticipo».

Finissimo cioccolato per dolci momenti: Frey Suprême Noir Authentique 100 g Fr. 2.70

Come fatta in casa: Sélection Torta di cioccolato Fr. 8.60

Squisito sulla treccia al burro ma anche sull’insalata: Sélection Miele di fiori d’arancio 250 g Fr. 5.20

TerraSuisse Spalla di vitello per arrosto prezzo del giorno

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Semifreddo al cioccolato con salsa alle noci Dessert per 8 persone Ingredienti 150 g di cioccolato, ad es. Noir Special 72% 2 uova fresche 100 g di zucchero 3 dl di panna intera 50 g di noci miste 0,5 dl d’acqua 3 cucchiai di gelatina di cotogne

Preparazione 1. Spezzettate il cioccolato. Scioglietelo a bagnomaria in una scodella. Dividete i tuorli dagli albumi. Con lo sbattitore elettrico, montate a spuma i tuorli con la metà dello zucchero. Montate a neve separatamente gli albumi e la panna. Incorporate il cioccolato ai tuorli montati. Unite alla massa la panna montata e gli albumi montati. Trasferite la massa in una tasca da pasticciere con il beccuccio a stella e spruzzatela in 8 bicchieri. Coprite e mettete in congelatore per ca. 2 ore.

Come spuntino o per aperitivo: Sun Queen Premium Nuts noci miste 170 g Fr. 4.40

2. Tritate grossolanamente le noci. Fate caramellare lo zucchero restante in una padella antiaderente finché si dora. Togliete la padella dal fuoco. Unite le noci e rigiratele brevemente nel caramello. Versate l’acqua e portate brevemente a ebollizione il caramello, senza mescolare. Incorporate la gelatina di cotogne e lasciate raffreddare. Circa 15 minuti prima di servire togliete il semifreddo dal congelatore e decoratelo con la salsa di noci.

Scongelarle, friggerle leggermente, condirle con sale e pepe e sono pronte: Pelican, MSC Capesante surgelate 200 g Fr. 8.30 Indispensabile anche a Natale: Monini Olio d’oliva Extra Vergine 1 l Fr. 12.70

Tempo di preparazione ca. 35 minuti + congelamento ca. 2 ore Per persona ca. 6 g di proteine, 27 g di grassi, 23 g di carboidrati, 1500 kJ/360 kcal

Funghi svizzeri per salse, contorni e saporite zuppe: Funghi 100 g prezzo del giorno

Un tocco di classe per molti piatti: Sélection Fiori di pepe 35 g Fr. 5.–


Aperture e v i t s Fe Domenica 21 dicembre dalle 10 alle 18 dei negozi e ristoranti Migros: Centro Agno - Parco Commerciale Grancia Lugano-Centro (Via Pretorio 15) - Centro S. Antonino Centro Shopping Serfontana - Arbedo-Castione Bellinzona - Biasca - Taverne e Do it + Garden Locarno (Via S. Franscini 31) - Pregassona - Mendrisio Sud Losone Do it + Garden MercoledĂŹ 24 e 31 dicembre tutti i negozi e i ristoranti Migros saranno aperti fino alle 17.


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