Azione 50 dell' 8 dicembre 2014

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Un’iniziativa della Migros a favore di:


Donare insieme conviene: la Migros triplica tutte le donazioni effettuate nei giorni 12, 13 e 14 dicembre. Aiuta anche tu i bisognosi della Svizzera. Donare è semplicissimo:

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Desideri effettuare una donazione in occasione dei tuoi prossimi acquisti? Nessun problema: trovi gli appositi buoni a qualsiasi cassa di una filiale Migros, Micasa, SportXX, Melectronics o Do it + Garden. È sufficiente staccare il buono e consegnarlo direttamente alla cassa. Inoltre anche sull’ultima pagina di questo numero trovi tre buoni donazione.

Invia ora l’importo che desideri donare con la parola chiave «Migros» al numero 455. Riceverai subito una conferma. La donazione sarà addebitata direttamente sulla tua fattura telefonica.

Versa l’importo della tua donazione indicando come oggetto «Donazione di Natale della Migros» sul seguente conto:

Esempio: per una donazione di fr. 50.– invia un SMS con il testo «Migros 50». Vengono addebitati i costi dell’operatore telefonico in uso.

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXVII 9 dicembre 2014

Azione 50 -81 ping M shop ne 53-63 / 74 i alle pag

Società e Territorio Le attività della Fondazione Scienza e Gioventù a sostegno di giovani talenti

Ambiente e Benessere Intervista con la dottoressa Monika Raimondi, specialista in neurologia all’Ospedale regionale di Lugano e vicepresidente della neonata Associazione malattie genetiche rare della Svizzera italiana

Politica e Economia Il grande terremoto energetico ribalta il ruolo dei vecchi padroni del petrolio

Cultura e Spettacoli Il Museo Cantonale d’arte di Lugano celebra il Bramantino

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Di donne, amore e riti

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di Alessia Brughera pagina 41

Un’iniezione di fiducia di Peter Schiesser È stato un trionfo inatteso per governo e parlamento federali, l’esito della votazione popolare del 30 novembre. Con qualche dubbio su come interpretarlo, almeno per quel che concerne l’iniziativa Ecopop, che avrebbe limitato l’immigrazione ancora più severamente di quanto si propone di fare l’iniziativa dell’UDC contro l’immigrazione di massa accettata dal popolo lo scorso 9 febbraio. Una vittoria su tutti i fronti che comunque restituisce alla politica un po’ di quella credibilità che in questi anni è andata via via perdendo agli occhi degli elettori, i quali hanno, nel recente passato, non solo accolto l’iniziativa del 9 febbraio contro la libera circolazione delle persone, ma anche l’iniziativa per la limitazione delle residenze secondarie, l’iniziativa Minder contro gli eccessi nei salari dei manager e bocciato l’acquisto degli aerei militari Gripen, andando contro il parere di governo e parlamento. Se il no all’iniziativa sull’oro della Banca nazionale (77,3% di contrari) e il no all’abolizione della tassa forfettaria per ricchi contribuenti su scala federale (respinta dal 59,2%) possono essere interpretati come un segnale di fiducia in una politica pragmatica, il risultato della votazione

su Ecopop (respinta con un sorprendente 74,1% di voti) si presta a tante interpretazioni, anche di segno opposto: è il segnale che l’elettorato non ha voluto rischiare un peggioramento delle relazioni con l’Unione europea, implicitamente relativizzando il voto del 9 febbraio? O, piuttosto, l’esito è frutto del fatto che Christoph Blocher e gran parte dell’UDC non hanno appoggiato l’iniziativa? Una lettura più precisa sarà forse possibile quando conosceremo in dettaglio le motivazioni di voto di chi si è recato alle urne. Per intanto, il Consiglio federale ha prudentemente rinviato ogni interpretazione e per bocca della consigliera federale Simonetta Sommaruga ha dichiarato senza mezzi termini che il voto del 30 novembre su Ecopop non rimette in discussione l’esito della votazione del 9 febbraio e che il governo seguirà la via tracciata: a gennaio definirà il mandato negoziale con l’Ue per ridiscutere l’accordo sulla libera circolazione delle persone e, sul piano interno, metterà in consultazione il progetto di legge con le misure per limitare l’immigrazione dall’Ue – con l’obiettivo di pilotare in modo autonomo i flussi migratori, ma cercando al contempo di salvare l’accordo sulla libera circolazione delle persone. Per questo motivo, non ha riscosso simpatie nel mondo politico l’intenzione di un

gruppo di cittadini (fra cui Dimitri) di lanciare una nuova iniziativa popolare, che invalidi quella contro l’immigrazione di massa. A dire il vero, sono certo esagerati i toni e le dichiarazioni dei vincitori del voto del 9 febbraio, secondo i quali questo comitato è da criticare perché non rispetta la volontà popolare, poiché chiunque è in diritto di lanciare nuove iniziative, tantopiù che la stessa iniziativa dell’UDC accettata dal popolo in febbraio andava contro le precedenti decisioni popolari in favore della libera circolazione delle persone. Ma in questo momento sarebbe più saggio mantenere un profilo basso, evitare scontri frontali fra le due anime della Svizzera – una votata all’apertura verso l’Ue e una verso una chiusura –, per rendere meno accesi i toni dello scontro ideologico. In fondo, se una lezione si può trarre dal voto del 30 novembre è che in Svizzera è ancora possibile portare l’elettorato a compiere delle scelte pragmatiche, se il mondo politico riesce a rendersi credibile. Al contrario, una politica federale fortemente polarizzata non suscita fiducia nelle istituzioni. Forse, il ritorno ad una politica basata su compromessi costruttivi aiuterebbe a colmare i fossati apertisi da oltre 20 anni, anche verso l’Europa. Qualcuno vorrà tenerne conto?


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 9 dicembre 2014 ¶ N. 50

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Attualità Migros

M Chi se lo aggiudica? Ensemble Nell’ambito dell’azione di Natale di Migros, 23 artisti svizzeri mettono in palio

dei loro oggetti personali. Dall’11 dicembre saranno all’asta. Ne abbiamo parlato con Sebalter

Sebalter, cosa metterai in palio per l’asta online di Migros?

Come hai accolto la proposta di partecipare alla registrazione del brano Ensemble?

Sebalter sta terminando la realizzazione del suo primo album Day of Glory. (CdT - Scolari)

In modo molto positivo. Quando si parla di beneficenza, si parla generalmente di un’azione che per manifestarsi necessita di un contributo che sia il più possibile di ampio raggio e trasversale. In questo contesto un aiuto efficace e coerente è possibile

Partecipate all’asta online Su www.migros.ch/asta l’asta online inizierà il prossimo 11 dicembre dalle 8.30. Sul sito web saranno elencati tutti gli oggetti messi in palio dalle 23 celebrità. Dopo un semplice login ogni persona interessata potrà lascia-

Natale 2014 Scarica

la canzone, partecipa al progetto benefico

Ti interesserebbe il sassofono di Pepe Lienhard, il celebre direttore d’orchestra, oppure le scarpe con il tacco altissimo di Fabienne Louve, la vincitrice di Casting Show? Tra i premi messi in palio si potrà vincere anche uno show della band svizzera Carousel, ma non in una sala da concerto: un’esibizione privata nel salotto del miglior offerente. Il prossimo 11 dicembre nell’ambito della campagna natalizia di Migros si terrà una grande asta online. Le 23 celebrità che hanno contribuito alla realizzazione della canzone di Natale Ensemble offriranno alcuni oggetti personali, oppure si metteranno a disposizione per qualche azione speciale. Il ricavato dell’asta andrà, come per tutte le altre iniziative della campagna di raccolta fondi, a favore di progetti di aiuto della Caritas, ACES, Pro Juventute e Soccorso d’Inverno. Ne abbiamo parlato con il cantautore ticinese Sebalter, che insieme ai suoi 22 colleghi ha partecipato alla registrazione di Ensemble.

Ho deciso di mettere in palio un mio maglione invernale. Oltre ad essere molto natalizio, si tratta del capo di abbigliamento che ho indossato durante le riprese del video. Indossandolo, si percepisce ancora tutta l’energia positiva che ha caratterizzato le riprese.

Musica di solidarietà per le Feste

re la sua offerta, e in seguito eventualmente continuare ad aumentarla. L’asta si concluderà il 23 dicembre alle 16.00: lì si deciderà chi dei partecipanti sarà riuscito ad aggiudicarsi gli oggetti messi in palio.

secondo me se le persone coinvolte in un progetto di beneficenza possono esprimersi all’interno della loro sfera di attività e influenza. Per questo è stato bello partecipare a questo progetto di beneficenza all’interno della sfera musicale, trattandosi di una delle attività a me vicine, molto adatta a veicolare un messaggio positivo e importante come quello della solidarietà. Qualche ricordo divertente della registrazione?

Beh, chiaramente il fatto che, oltre alle parti in italiano, mi è stato chiesto di cantare il ritornello in svizzero tedesco rientra nel bagaglio di quelle esperienze epiche che non scorderò facilmente... Per quanto riguarda le riprese del video, è stato un momento bellissimo:

impegnativo ma anche molto naturale, trovo soprattutto grazie alla rara capacità del regista e dei vari partecipanti di riuscire a creare in pochissimo tempo, spontaneamente, un ambiente amichevole e un’attitudine affiatata.

Chi scarica la canzone natalizia della Migros intitolata Ensemble sostiene alcuni progetti mirati di Caritas, Aiuto delle Chiese Evangeliche Svizzere (ACES), Pro Juventute e Soccorso d’inverno. Il download costa fr. 1.20 da ExLibris, fr. 1.10 su iTunes e 99 centesimi su Google Play. L’importo viene versato completamente ai progetti assistenziali. I consumatori, inoltre, possono comprare già dal 22 novembre alle casse della Migros dei «buoni donazione» del valore di 5, 10 o 15 franchi. Infine, si possono versare contributi per la colletta anche sul conto 30-620742-6 oppure inviando un SMS con il testo «MIGROS (offerta)» al numero 455. Dal 12 dicembre su natale. migros. ch si terrà un’asta online: ognuna delle 23 celebrità che partecipano all’iniziativa della Migros, metterà all’asta un oggetto personale. La somma incassata sarà devoluta ai progetti d’aiuto. L’importo totale raccolto con tutte queste attività sarà raddoppiato dalla Migros, fino a un massimo di un milione di franchi. La cifra raccolta verrà divisa in parti uguali tra Caritas, ACES, Pro Juventute e Soccorso d’inverno.

Come trascorrerai le feste di Natale? In qualche impegno musicale?

Questo è per me un periodo musicalmente molto intenso: il 9 gennaio prossimo è prevista l’uscita del mio primo album Day of Glory, che presenterò il 10 gennaio 2015 agli Swiss Awards. Trascorrerò quindi il periodo natalizio tra la sala prove e le delizie della tavola (a cui non rinuncio facilmente, soprattutto a Natale), non disdegnando, per quanto possibile, qualche gita in ciaspole.

L’11 dicembre il cantautore ticinese metterà all’asta il suo pullover di scena.

Migros è nuovamente «Retailer of the Year»

Il Pandamobil è arrivato in Ticino!

Premi L’azienda per il commercio al dettaglio è in vetta alla classifica svizzera che misura il gradimento della clientela

dall’alba al tramonto: questa è l’avventura che sperimentano gli allievi sul Pandamobil

Migros si è nuovamente aggiudicata il titolo di «Retailer of the Year 2014» nella categoria «Generi alimentari». L’obiettivo del sondaggio effettuato dal Forschungsinstitut Öffentlichkeit und Gesellschaft dell’Università di Zurigo (fög) in collaborazione con l’istituto GfK Switzerland AG era quello di analizzare la valutazione dei consumatori svizzeri in merito a prezzi, servizio e organizzazione dell’assortimento di diversi commercianti al dettaglio. Tale ricerca è tra le più importanti in Europa. Quest’anno hanno partecipato all’ampio sondaggio circa 5000 consumatori e in totale sono state raccolte 8300 valutazioni. Le aziende sono state valutate analizzando i seguenti

criteri: rapporto qualità-prezzo, livello dei prezzi, azioni e offerte, assortimenti, servizio, innovazione, com-

Azione

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Quest’anno, per la seconda volta, prima in classifica.

La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

WWF Una giornata nella foresta tropicale

petenza specializzata del personale, orientamento al cliente e atmosfera. «Siamo particolarmente soddisfatti del riconoscimento ottenuto, soprattutto perché sono i clienti a deciderne l’esito ed è inoltre la seconda volta che otteniamo un tale successo. I risultati confermano inoltre il nostro impegno a favore del miglior rapporto qualità-prezzo e dimostrano che il buon servizio offerto quotidianamente dai nostri collaboratori è apprezzato» afferma il Presidente della Direzione generale della FCM, Herbert Bolliger. Già nello scorso aprile, infatti, un sondaggio effettuato dagli stessi istituti di ricerca aveva dimostrato che Migros vanta la migliore reputazione tra 52 aziende leader in Svizzera.

In un vecchio camion-negozio Migros, gli allievi si avventurano nel cuore della foresta tropicale grazie a una suggestiva scenografia: l’esposizione sul Pandamobil, che dal 2012 sta facendo il giro della Svizzera, è dedicata alle scimmie antropomorfe e al loro habitat. La tournée ticinese sarà animata da Sofia Mangili. Il Pandamobil ha cominciato il suo viaggio nelle scuole ticinesi con la prima tappa all’Istituto scolastico di Lumino, e fino al 19 dicembre visiterà altri sei istituti. L’esposizione potrà essere visitata anche dagli allievi della scuola dell’infanzia e da quelli del primo ciclo delle scuole elementari. Come l’anno scorso la tournée «Cugina scimmia!» vuole sensibilizzare i giovani sui problemi che minacciano le grandi scimmie e i loro

habitat. Durante l’animazione sul Pandamobil, gli allievi partecipano a una spedizione immaginaria sulle tracce delle scimmie antropomorfe. Dal 2001, Migros è lo sponsor principale del Pandamobil e dal 2009 dei programmi WWF per bambini e ragazzi. Grazie a questa collaborazione, il WWF può avvicinare numerosi giovani ai temi ambientali e sensibilizzarli a un uso sostenibile delle nostre risorse.

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

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Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch

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Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Calendario delle prossime visite

9.12-12.12.2014: Istituto scolastico di Canobbio 15.12-17.12.2014: Istituto scolastico di Croglio Monteggio 18.12-19.12.2014: Istituto scolastico di Ligornetto

Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 9 dicembre 2014 ¶ N. 50

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Società e Territorio La scuola in rosa Anche in Ticino la professione di insegnante è sempre più femminile. Una tendenza senza conseguenze?

Monteforno, la storia in un libro La ricerca di Mattia Pelli sulle vicende dell’acciaieria di Giornico è l’occasione per interrogarsi sul futuro della Leventina pagina 8

I Frontaliers e la lingua italiana RSI, DECS e Percento culturale di Migros Ticino uniti nella promozione dell’ultimo DVD prodotto dalla RSI, in nome della difesa della buona lingua pagina 11

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Giovani studenti svizzeri mentre presentano i loro progetti durante la scorsa edizione del Concorso nazionale di Scienza e Gioventù.

Scopri e coltiva i tuoi talenti Formazione L’offerta annuale della Fondazione Scienza e Gioventù nelle scuole superiori Loris Fedele «La Svizzera si piazza sempre bene nei concorsi internazionali per giovani. La nostra responsabilità è quella di rifornire sempre con nuove energie il mondo della ricerca scientifica e tecnologica, ma non solo. È un bel compito! Se dalle scuole svizzere arrivano ragazzi ben formati e ben motivati diventa un piacere fare un lavoro di selezione dei talenti e di promozione delle loro capacità». Così si esprime Ferdinando Lehmann, insegnante liceale e responsabile per la Svizzera italiana della Fondazione Scienza e Gioventù. Nelle sue parole praticamente c’è il manifesto della Fondazione. Lehmann era presente lo scorso 14 novembre al Liceo di Locarno nel primo TecDay tenutosi nel Canton Ticino. Scienza e Gioventù ha approfittato di questa giornata di studio per spiegare agli studenti la sua offerta. Lo ha fatto con la voce di alcuni ex-liceali che hanno descritto la loro esperienza passata. A Locarno per una intera giornata le abituali lezioni sono state sostituite da lezioni/esercitazioni condotte da ricercatori ed esperti esterni. Ben 640 allievi e 85 docenti dell’istituto sono stati coinvolti nell’operazione organizzata dal Liceo di Locarno in collaborazione

con la SATW, l’Accademia svizzera delle scienze tecniche. Non è una novità che la Svizzera abbia un forte bisogno di personale specializzato nel settore delle scienze matematiche, informatiche, naturali e tecniche (di solito identificate con l’acronimo tedesco MINT). Anche il Consiglio federale ha pubblicato nel 2010 un rapporto volto a spingere la formazione in questi ambiti. La giornata TecDay ha fatto incontrare i giovani con gente che opera nell’industria e nella ricerca, in ben 42 attività che esulano dal programma di studio liceale, ma potevano esserne una parte integrante. Non impariamo per la scuola ma per la vita, recitava un antico detto latino. Deve essere sempre così, ma gli scolari vanno stimolati e in questo il ruolo dei docenti è fondamentale. Scienza e Gioventù, che si allinea con questa visione, nacque nel 1970 a Basilea, dove l’affermato professore di biologia Adolf Portmann si accorse che mancava nel sistema formativo svizzero la possibilità di promuovere talenti, soprattutto in ambito scientifico, con delle iniziative private. È un problema che si avverte ancora oggi nella scuola, che giustamente cerca di trascinare e sostenere gli allievi più deboli ma, focalizzando l’at-

tenzione su di essi, spesso non riesce a dare ai giovani più dotati la possibilità di approfondire temi di loro interesse. Ciò succede soprattutto in ambito scientifico, meno in ambito artistico o sportivo. Portmann nel 1970 istituì un concorso nazionale per giovani ricercatori, pescati nelle scuole dell’insegnamento medio superiore, e poi nel 1974 ampliò l’offerta affiancando al concorso, voluto per premiare e sottolineare il merito dei migliori, anche le settimane di studio aperte a tutti. Le settimane diventarono una porta d’accesso e uno stimolo per far scoprire ai ragazzi che è bello fare scienza e ricerca. La parola scienza va per lo più intesa in senso metodologico, come approccio scientifico alla materia studiata. Da allora le settimane di studio vengono proposte annualmente più o meno nello stesso numero e negli stessi ambiti. Come si può vedere nel programma 2014/15 della Fondazione Scienza e Gioventù (www.sjf.ch) c’è una settimana tematica di studio in scienze umane e sociali che quest’anno è intitolata Networks, cioè reti. Networks si presenta con una declinazione del tema generale che spazia dalle reti di relazioni nel mondo classico romano a quelle sociali e familiari in un villaggio africano. L’istituto di etnogra-

fia dell’Università di Basilea è partner in questo insegnamento. C’è anche la biologia comportamentale (particolarmente adatta ai giovani dai 15 anni in poi) con l’osservazione diretta degli animali allo zoo di Zurigo, assistiti da biologi ed etologi. Nel febbraio 2015 un’esperienza nei laboratori di una ditta chimica o farmaceutica oppure di una università svizzera, per la settimana dedicata alla chimica e alla scienza dei materiali. La promuovono alcune industrie private che sostengono Scienza e Gioventù fin dall’inizio dell’avventura. Nel marzo prossimo c’è una settimana di biologia e medicina, con temi che vanno dai virus, ai batteri, alle applicazioni nella genetica e anche nell’alimentazione. Nell’estate la settimana International Wildlife Research Week, che si svolge in inglese ed è aperta anche a partecipanti provenienti dall’estero: di regola si tiene nel Parco nazionale svizzero. Il titolo Il fascino dell’informatica caratterizza invece la settimana che tradizionalmente si tiene nel settembre di ogni anno, con vari progetti legati alla programmazione e alle applicazioni, ovviamente seguiti da esperti del settore. Nel concorso nazionale 2015, le cui iscrizioni si sono appena chiuse, c’è di tutto e di più, perché sostanzialmente i

temi li decidono i ragazzi. Incoraggiati dai loro docenti, presentano quelli che di solito sono i loro lavori di maturità nelle diverse aree disciplinari. Nella Svizzera italiana quest’anno sono stati presentati una decina di progetti abbastanza ben distribuiti: c’è chimica, fisica, astronomia, matematica, sociologia e geografia. Ogni lavoro selezionato per il concorso nazionale si vede assegnato un esperto. Questo, anche se non si vincerà, è già un mezzo premio, perché per il ragazzo partecipante si apre un mondo: è affiancato da un ricercatore universitario specialista nel tema che ha scelto di svolgere, che lo segue, lo guida, lo consiglia. Il suo lavoro puramente scolastico fa un salto di qualità, cosa bella e gratificante. Anche il fatto di presentare poi in pubblico la propria ricerca, di poter incontrare coetanei che si sono confrontati con lavori simili e scambiare esperienze, può costituire un prezioso arricchimento personale. Infine, per chi eccelle nel concorso, ci sono piccoli premi in denaro e grandi premi con importanti soggiorni all’estero: le soddisfazioni extra-scolastiche sono tutte da cogliere. Informazioni

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 9 dicembre 2014 ¶ N. 50

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Società e Territorio

Scuola sempre più rosa Insegnanti Nella scuola ticinese la professione di insegnante sta diventando sempre più femminile,

ma alcuni esperti mettono in evidenza anche degli aspetti negativi di questa tendenza Marco Jeitziner Anche la scuola ticinese è sempre più «rosa»: il 60 per cento circa di tutti i docenti è composto da donne (dati 2011/2012). Stando al censimento dei docenti 2012/2013, l’educazione nelle scuole dell’infanzia (89 per cento di donne), elementari (69 per cento), speciali (80 per cento) non è più quindi la sola ad essere, storicamente, «monopolizzata» dalle donne. Da qualche anno anche alle medie le «prof» sono più numerose dei colleghi uomini: «oggi nella scuola media il numero di docenti-donne è superiore a quello dei docenti-uomini» conferma Francesco Vanetta (Ufficio insegnamento medio), ovvero oltre il 57 per cento. La percentuale aumenta tra i giovani docenti: «più di due docenti su tre sono donne (68,2 per cento)». In futuro si prevede una maggiore femminilizzazione della professione e la tendenza è identica in tutto l’Occidente. La «scomparsa» dei docenti maschi in questi livelli scolastici è un fenomeno ancora più marcato nel resto della Svizzera, soprattutto a causa della penuria strutturale, da cui al momento il Ticino è al riparo. «La Regione» nel 2010 ha riportato la notizia secondo cui in sei cantoni svizzero tedeschi da alcuni anni sono allo studio misure per addirittura «defemminilizzare» il mestiere. Peggio ancora in Italia, dove le donne sono in media oltre il 75 per cento della categoria e c’è chi, come l’insegnante e scrittore italiano Giuseppe Caliceti, nel suo libro Una scuola da rifare: lettera ai genitori, afferma ormai che l’istituzione è «infetta da una malattia: il mammismo». Forse il tono è un po’ provocatorio, ma si tratta di un dibattito di società importante che non riguarda solo la scuola. Il canton Ticino sembra al momento ignorarlo o, quantomeno, sottovalutarlo. La rivista di settore «Scuola ticinese» ad esempio non vi ha mai dedicato spazio, mentre il tema non appare nemmeno percepito allo stesso modo dallo Stato. Nel 2010 l’ex capo della Divisione della scuola, Diego Erba, a «La Regione» definì la questione come una «piccola difficoltà». Quest’anno, il suo successore Emanuele Berger ha detto al «Giornale del popolo» che invece «non è assolutamente un fatto negativo», ma piuttosto un problema «burocratico» per la «costruzione delle griglie orarie con l’inserimento di numerosi tempi parziali». Studi ed esperti ravvisano già delle controindicazioni, anche importanti, sia per gli allievi maschi (data l’età sensibile degli 11-15enni), sia per le docenti donne. Secondo lo psicana-

Da qualche anno in Ticino anche nelle scuole medie le insegnanti sono più numerose degli insegnanti. (Keystone)

lista Claudio Risé, citato nel libro Scuola di follia curato dal medico Vittorio Lodolo d’Oria, specialista del disagio mentale dei docenti, le conseguenze per lo sviluppo socio-cognitivo degli alunni sono «molto gravi». «C’è ormai una psicologia della scuola femminilizzata», spiega Risé, cioè «non è più dinamizzata dal confronto (a volte dal contrasto)» tra la figura della donnamadre e quella dell’uomo-padre, il cui aspetto psicologico fondamentale è «la trasmissione del significato della perdita». Perciò, afferma, «una scuola senza maschi-padri è una scuola che non insegna a perdere. E, quindi, non assicura nessuna vittoria». Le conseguenze sono «disastrose» per Barbara Mapelli, esperta di pedagogia delle differenze all’università Bicocca di Milano. «Vengono meno figure maschili autorevoli di riferimento che sarebbero importanti per i bambini e per i ragazzi, che in genere hanno come unico parametro il padre, spesso assente. Inoltre molti di loro vivono la scuola come un luogo di donne, dalle quali mantengono un certo distacco e diffidenza. (…) Il fenomeno ha conseguenze disastrose: gli uomini leggono meno, vanno meno a teatro, al cinema, rendono meno a scuola in termini di voti e si laureano meno delle donne» ha dichiarato in settembre a «Il fatto quotidiano».

Alessandra La Marca, docente universitaria di pedagogia e didattica a Palermo e Messina, nel suo libro L’educazione differenziata per le ragazze e per i ragazzi. Un modello di scuola per il XXI secolo, va ancora più lontano: «la femminilizzazione del corpo docente e delle professioni educative in generale tende a far adeguare i ragazzi ai comportamenti delle ragazze», quindi «i ragazzi trovano pochi educatori di sesso maschile da prendere come modello proprio mentre l’odierna crisi della figura paterna li richiederebbe». Sul fronte delle insegnanti il fenomeno tenderebbe ad accrescere il disagio personale. Lodolo d’Oria sostiene che la scuola «troppo rosa» «in parte alimenta e accresce la delega educativa famiglia/scuola» tra la madre (sempre più anche donna-lavoratrice) che affida i suoi figli alla docente (donna-insegnante), la quale spesso e volentieri, proprio perché donna, «non riesce a sfuggire al suo compito educativo». E proprio questa delega di responsabilità educativa, un tempo prerogativa della famiglia tradizionale, spesso fonte di conflitto coi genitori sempre più «sindacalisti» dei loro figli, è uno dei motivi principali del crescente malessere tra la categoria (gli altri sono la mole di lavoro e il disturbo da parte degli alunni problematici). Uno studio recente e rappresentativo dell’Alta scuola pedagogica del

nord-ovest della Svizzera che ha interpellato 600 insegnanti in tutto il Paese, afferma: «le donne e i docenti a tempo parziale con un’occupazione elevata da 22 a 25 lezioni a settimana sono toccati maggiormente» da varie problematiche, così riassunte: uno su cinque ha difficoltà sul lavoro, uno su tre soffre a volte di depressione, un altro terzo dice di essere al limite del burn-out (una sorta di apatia nei confronti di studenti, colleghi, genitori, dovuta a frustrazione con conseguenze psico-fisiche e sociali). Rallegra comunque il fatto che l’87 per cento di loro dice di amare il proprio mestiere. Un ultimo aspetto da indagare è quello a cui, ad esempio, ha accennato nel 2011 il docente Fabio Pusterla: quanto è attrattivo il mestiere e quanto un «ripiego»? Per Pusterla «la femminilizzazione della professione, che naturalmente è anche il segno positivo di una emancipazione culturale, può essere letta con un poco di preoccupazione: in molti casi, l’insegnamento sta forse diventando (...) la professione delle mogli, il cui marito o compagno si occupa di attività più remunerative e più socialmente considerate». Così ha detto al convegno dell’Associazione per la scuola pubblica del Cantone e dei Comuni. La preoccupazione è condivisa anche dal Movimento della Scuola e dai sindacati.

si alzano e continuano la conversazione ad un altro tavolo. Si comportano come si fa in un ufficio, con la differenza che qui si condivide lo spazio con altri, si ascolta musica, si incontra gente e c’è il wi-fi libero per tutti. Ad un altro tavolo due giovani architetti discutono del loro progetto, fanno delle telefonate, poi tornano a discutere. Ad un altro un giornalista fa un collegamento radiofonico, a quello accanto un professore corregge gli esercizi degli allievi. Internet ci ha dato il dono della mobilità, la possibilità di lavorare, di comunicare, di essere in ogni luogo. Ma anche possibilità di aggregazione, condivisione e conoscenza che vanno al di là del virtuale. Nel Settecento c’erano i salotti letterari e i caffè filosofici, era lì che ci si incontrava per intavolare discussioni, forgiare nuove

idee, discutere di questioni politiche. Oggi ci sono Starbucks e tutti quei luoghi che oltre al caffè, ad uno spazio accogliente con comode poltrone in cui sprofondare, tavolini, profumi di zucchero e cannella, ti offrono la connessione wi-fi gratuita, prese e cavetti per ricaricare il tuo cellulare, iPad o portatile, stazioni pc con applicazioni e news utili sulla città in cui ti trovi. A Berlino è possibile al Digital Eatery della Microsoft. All’entrata un’insegna ti dice tutto quello che puoi fare qui: «sederti, scoprire, migliorare, condividere, bere, ispirarti, rilassarti, mangiare, giocare, discutere, pensare, creare e sognare». Quello che non puoi fare: «procrastinare». Situato nel viale più famoso della città, Unter den Linden, la Digital Eatery è un punto di incontro, un luogo dove fare rete e far nasce-

Già, perché ad oggi, nonostante l’Alta scuola pedagogica e il Dipartimento formazione e apprendimento (Dfa) della Supsi, in Ticino nessuno sa quanto interesse reale suscita ancora l’insegnamento. C’è ancora una certa vocazione/passione o allettano di più le tante settimane di vacanza, uno stipendio buono, il «posto fisso», ecc.? È «fondamentale» saperlo, riconosce lo studio Supsi del 2010 Scuola a tutto campo. L’ipotesi che va per la maggiore per confermare l’attrattiva, è quella dell’alto numero di candidature ai concorsi scolastici e di iscrizioni al Dfa. Ma ciò non dimostra nulla, è una «ipotesi un po’ grossolana», riconosce lo studio Supsi, mentre «sarebbe però estremamente interessante discutere criticamente la procedura di selezione» dei docenti. In effetti nemmeno le molte iscrizioni nei licei o alle università significano che vi sia un risveglio delle vocazioni, anzi. Studi statunitensi del 2003, citati nel documento, affermano che «un fattore importante è quello delle condizioni di lavoro offerte, tra le quali ha un posto di riguardo il reddito». Studi francesi del 2005 indicano che il desiderio di educare/insegnare è invece preponderante. In Ticino (e in Svizzera) queste conoscenze appaiono ormai urgenti, a maggior ragione in un sistema nazionale che si vuole armonizzato («Harmos») dall’anno prossimo.

La società connessa di Natascha Fioretti C’erano una volta i salotti letterari, oggi c’è Starbucks

Trovarsi a Berlino, una delle città europee più attraenti, fresche e giovani del momento, ti porta a fare delle scoperte interessanti. O, meglio, ti confronta con situazioni che in un lampo ti mettono al centro di dinamiche sociali del nostro tempo. Qui la crisi sembra non esistere, uffici e startup crescono come funghi, giovani approdano da ogni dove sicuri di trovare opportunità, qualità di vita, un ambiente culturale moderno e aperto. In questa cornice, andare ogni mattina a bere il caffè da Starbucks è come fare un tuffo in profondità nel nostro tempo e nel nostro modo di vivere. La cornice e il contesto, a dire il vero, inducono anche ad un tuffo nel passato, perché lo Starbucks di cui parlo è

situato in uno dei luoghi più bohème della città, gli Hackesche Höfe ricchi di storia e di fascino. Poi però basta dare un’occhiata in giro, vedere le persone che ogni mattina, ogni giorno popolano questo luogo, per rendersi conto che siamo nella modernità liquida di Baumann. Prima ancora di individuare i volti dei giovani seduti ai diversi tavoli, si vedono gli schermi dei loro pc portatili, si sentono le loro voci mentre parlano al cellulare o si intravvedono le grandi cuffie per ascoltare la musica. Ad alcuni tavoli invece niente computer, un gruppo di ragazzi trentenni discutono di lavoro. Non così per caso, lo fanno per davvero, sono in un vero e proprio meeting. Mentre sei in fila per ordinare il tuo caffè, li senti parlare di siti web, applicazioni, budget del progetto. Uno prende appunti. Tre di loro

re conversazioni, nuove idee, dove si può ordinare stando seduti al proprio tavolo tramite una applicazione. Il caffè fa parte di un edificio più grande che ospita anche spazi per eventi e mostre nell’intento primario di dettare l’agenda digitale, di essere un hub dell’information technology e dell’innovazione. Si dice sempre che internet e le nuove tecnologie dividono, creano recinti e luoghi effimeri in cui dietro all’imperativo di fare rete prevale l’individualità. Non è così, creano anche nuovi luoghi e spazi di incontro e scambio reale, dove oltre a discutere e parlare amabilmente, si lavora, si crea, si conosce. Luoghi in cui le dinamiche sociali e professionali vengono riscritte e trovano nuove forme di sviluppo e interazione fuori dai canoni e dai confini tradizionali.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 9 dicembre 2014 ¶ N. 50

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Società e Territorio

C’era una volta la Monteforno Storie di acciaio Un libro di Mattia Pelli ricostruisce le vicende della Monteforno

di Giornico a vent’anni dalla sua definitiva chiusura. Un’occasione per interrogarsi su un possibile futuro industriale della Leventina

Migros Ticino Fino

al 31 gennaio 2015 è aperto il bando di concorso regionale

La Monteforno chiuse definitivamente nel 1994 tra le proteste dei lavoratori. (Keystone - Karl Mathis)

Fabio Dozio «È stata tutto per me – dice l’operaio D.A., per trent’anni in acciaieria – l’inizio della mia seconda patria, lì sono cresciuto, sono diventato uomo, mi ha dato e ho dato, magari se potevi lavoravi anche la domenica… Dopo il primo impatto non avrei lasciato per nessun motivo, ti entra nel sangue». Questa è una delle tante testimonianze raccolte da Mattia Pelli, storico e giornalista, in Monteforno. Storie di acciao, di uomini e di lotte. Una ricerca che si basa sulla storia orale, sui racconti dei protagonisti, operai e dirigenti, di questa parabola industriale. Ricostruire la vicenda della Monteforno significa rivedere il contesto dell’economia della Leventina e rilanciare la discussione sullo sviluppo (mancato) industriale delle zone periferiche del Canton Ticino.

Gli operai erano soprattutto italiani e a Bodio e Giornico si insediò un piccolo pezzo di Sardegna La Monteforno nasce nel 1946 grazie all’iniziativa dell’avvocato Alliata, già attivo in Piemonte nel settore siderurgico, e dell’ingegner Giussani. Dopo aver percorso il Ticino, partendo da Stabio arrivano a Bodio, perché sanno che lì c’è l’energia elettrica, e incontrano un lungimirante ingegnere del luogo, Cesare Giudici. Racconta l’ex vicedirettore Ettore Ambrosini: «E così, una domenica di ottobre del 1946, Alliata e Giussani arrivano a Bodio a cercare l’ingegner Giudici, zio dell’ex sindaco di Lugano. Sapevano che l’ingegner Giudici era al campo di football. A metà tempo si sono trovati, hanno espresso quello che avevano bisogno, quel dieci minuti o che, Giudici ha detto: – Sì, sì, va bene, io vi do l’energia, ci penso io –. Lui, patrizio di Giornico, ha provveduto a far avere il terreno necessario qui in territorio di Giornico. E così i tre hanno fondato la Monteforno; è nata per questo, perché c’era l’energia». Va così per l’aspetto imprenditoriale: ma è importante inquadrare anche il contributo del mondo politico. Lo storico Fabrizio Viscontini – nella sua prefazione – mette in luce il

ruolo del socialista Edoardo Zeli, che in una mozione del 1944, lancia l’idea «di introdurre nuove industrie nell’immediato dopoguerra e di creare le premesse necessarie atte a permettere una maggiore attività industriale anche in Ticino». Questa rivendicazione si concretizza due anni dopo, con un decreto che sancisce: «Il Consiglio di Stato, uditi i comuni interessati, ha la facoltà di esonerare, in tutto o in parte, dal pagamento delle imposte cantonali, le industrie di nuova creazione o che si trasferiscono in Ticino, interessanti in modo particolare l’economia del cantone. I comuni hanno facoltà di concedere esoneri temporanei per le imposte comunali». La Monteforno è il frutto del concorso di tutti questi fattori: imprenditori coraggiosi, disponibilità di energia elettrica sul posto, ferrovia, concessioni di facilitazioni fiscali da parte del comune e del cantone. Gli operai all’inizio sono una quarantina, ma nel momento di maggior sviluppo, negli anni Settanta, diventano un migliaio. La fortuna dell’acciaieria, che produce tondino per l’edilizia usando come materia prima i rottami, è la guerra di Corea, che determina una grande richiesta di metallo, anche speciale. Malgrado il confronto con il potente oligopolio svizzero della Von Roll e della Von Moos, l’azienda leventinese riesce a svilupparsi con successo. Gli operai sono soprattutto italiani e in particolare sardi. «L’acciaieria di Giornico – scrive Pelli – era la capofila di un grande gruppo industriale che comprendeva numerose consociate e consorelle, per un totale di 1750 salariati sparsi tra Svizzera, Italia e Stati Uniti, con un fatturato complessivo di 300 milioni di franchi». A Bodio e Giornico si insedia un piccolo pezzo di Sardegna. La fabbrica non è solo un posto di lavoro, ma rappresenta un forte legame identitario. Monteforno costruisce case d’appartamenti per gli operai, nascono il coro e il Gruppo sportivo, che organizza diverse competizioni, ma soprattutto crea la squadra di calcio. Anche la partecipazione sindacale è un fattore importante che connota questa realtà unica in Ticino. La comunità sarda fa riferimento all’OCST, sindacato cattolico che garantisce anche solidarietà e fratellanza. Gli operai del Norditalia e i ticinesi sono iscritti alla FOMO, poi FLMO. A metà degli anni Settanta, dopo

tanti successi, per la Monteforno inizia il declino. I fattori sono molteplici: la congiuntura mondiale, gli investimenti spregiudicati negli Stati Uniti che rappresentano una continua emorragia di capitali, la mancata diversificazione, la morte del fondatore Alliata. L’industria viene venduta alla Von Roll alla fine del 1977. L’economista Angelo Rossi, su «Libera Stampa» di quei giorni, è preveggente e definisce l’operazione di acquisto della Monteforno da parte della Von Roll «un matrimonio fra due malati. (…) Il ridimensionamento o la ristrutturazione dell’azienda di Bodio non potranno quindi essere evitate». La storia del fenomeno Monteforno finisce qui, quasi vent’anni prima della chiusura vera e propria. La gestione Von Roll rappresenta un periodo sofferto, soprattutto per le maestranze confrontate con il contenimento dei salari e con la drastica riduzione del numero di addetti. Gli ultimi anni si contraddistinguono per la vitalità degli operai, che in più di un’occasione si ribellano ai dettati dell’azienda, organizzando agitazioni spontanee e scioperi. È una morte inesorabile? Alcuni pensano di no, che con un’opportuna diversificazione e con un’altra proprietà la Monteforno potrebbe avere un futuro. Più realisticamente, la deindustrializzazione del Ticino, come quella dell’Europa, è ineluttabile. A Bodio e a Giornico, negli ultimi vent’anni del Novecento va perso il 71 per cento dei posti di lavoro. «Nella Bassa Leventina – scrive Angelo Rossi nel 2005 – l’industria è stata rasa al suolo, senza che, per il momento, si veda con quali attività la stessa possa essere sostituita». La Monteforno è morta, c’è un futuro per l’industria in Leventina? È la domanda cruciale che, in occasione della presentazione del libro di Mattia Pelli, è aleggiata nella sala del consiglio comunale di Bodio. Stefano Rizzi, direttore della Divisione dell’economia del DFE, si dice convinto che ci sono prospettive per un nuovo rilancio dell’industria nelle Tre Valli. A Biasca con la conclusione di Alptransit, si libera nuovo spazio che si può trasformare in zona industriale. Il sindacalista Giancarlo Nicoli, dell’OCST, è ancora più ottimista. Afferma che anche ad Ambrì Piotta si può immaginare un futuro industriale, considerando

Un premio alla ricerca storica locale

che c’è un aeroporto a disposizione. Rolando Lepori, sindacalista di UNIA, fa un confronto con l’Ente ospedaliero cantonale, per immaginare una possibilità d’intervento attivo dello Stato, o del parastato, nella promozione industriale. Molto ottimismo, molti sogni, forse troppi. L’aeroporto di Ambrì non è infatti utilizzabile a fini civili, la zona industriale di Biasca è ferma, o quasi, da vent’anni e non è una questione di spazi, immaginare un’azienda statale che possa investire è stimolante, ma con le finanze pubbliche in rosso, sembra utopistico. La cruda realtà è che la Leventina rischia, a breve, di essere definitivamente isolata. L’apertura di Alptransit la priverà del raccordo alla linea del San Gottardo. Non è ancora chiaro quale sarà il destino della vecchia ferrovia, ma se le FFS decidessero di chiuderla, per la Leventina sarebbe la fine, perlomeno di questo vagheggiato sviluppo industriale. Per questo motivo, il comune di Biasca e la Regione Tre Valli rivendicano due fermate al giorno dei treni veloci in transito. Accetteranno le FFS? Difficile dire ma, se pensiamo che oggi a Biasca non si fermano nemmeno gli Intercity, la richiesta appare molto ambiziosa. Intanto, il terreno della Monteforno dovrebbe essere risanato, perché ha subito quasi cinquant’anni d’inquinamento. L’operazione potrebbe costare una cinquantina di milioni di franchi. Chi paga? Il Cantone è disposto a investire questi soldi per la bonifica? Comprensibile l’ottimismo di sindacalisti e autorità, ma il realismo dovrebbe forse accendere nuove visioni. Invece di puntare su un’industrializzazione che sembra fantascienza, sarebbe più opportuno concentrarsi su piccoli o medi obiettivi più originali. Tanto per fare un esempio. A Newark, negli Stati Uniti, un’ex acciaieria sarà trasformata in un’immensa serra. AeroFarms, una start up che sfrutta il sistema di coltura aeroponico, che utilizza pochissima acqua, non ha bisogno di terra, ma approfitta della luce LED. In questo modo, l’ex acciaieria potrà produrre 700 tonnellate di ortaggi l’anno!

Nel 1983 in occasione del suo cinquantesimo anniversario di fondazione, la Cooperativa Migros Ticino ha costituito un fondo per ricerche di storia locale e regionale della Svizzera italiana. Mediante l’attribuzione del «Premio Migros Ticino per ricerche di storia locale e regionale della Svizzera italiana» il fondo si prefigge di favorire la pubblicazione di ricerche su argomenti di storia, arte, etnografia, linguistica e storia della letteratura relativi alla Svizzera italiana. Sono ammesse ricerche su argomenti riguardanti la Svizzera italiana e i seguenti ambiti: storia, arte, etnografia, linguistica, storia della letteratura, storia economica. Le ricerche devono essere inedite; devono inoltre essere redatte in lingua italiana. Il regolamento del Premio Migros Ticino può essere richiesto telefonando allo 091 821 71 50 oppure scrivendo all’indirizzo di posta elettronica percento.culturale@migrosticino.ch Per partecipare alla selezione gli interessati dovranno inoltrare: una copia cartacea del testo integrale della ricerca; un curriculum personale; l’elenco dei finanziamenti già percepiti, promessi o richiesti ad altri enti, pubblici o privati. I lavori di ricerca, corredati dai documenti indicati, dovranno pervenire alla Commissione entro il 31 gennaio 2015, all’indirizzo: Percento culturale Migros Ticino, via Pretorio 13, 6900 Lugano. Il Premio principale è dotato di 10’000 franchi; la Commissione può inoltre attribuire eventuali menzioni. Il contributo finanziario viene versato a condizione che l’autore si impegni a pubblicare la sua ricerca entro 12 mesi dall’attribuzione del Premio; sulla pagina accanto al frontespizio della pubblicazione dovrà apparire la dicitura «Premio Migros Ticino 2015 per ricerche di storia locale e regionale della Svizzera italiana», ripetuta anche su una fascetta asportabile in copertina. Ricordiamo che il Premio Migros Ticino 2013 era stato attribuito ex-aequo a due tesi di dottorato. La prima Dai boschi protetti alle foreste di protezione. Comunità locali, risorse e tutela dei boschi nella Svizzera italiana tra XVIII e XIX secolo, di Mark Bertogliati, tratta della gestione dei boschi nella Svizzera italiana nel Settecento e nell’Ottocento, ponendo l’accento sui cambiamenti politici, socio-economici ed ecologici intervenuti in questo ambito controverso. L’altra tesi premiata è stata Esiti di –A finale e armonia vocalica. I dialetti della Svizzera italiana in prospettiva romanza e generale, di Rachele Delucchi. La giuria aveva inoltre deciso di conferire una menzione speciale, del valore di 3000 franchi, a Patricia Lurati per la sua ricerca Che gran cosa il Purgatorio! La chiesa di S. Antonio Abate a Morcote.

Bibliografia

Mattia Pelli, Monteforno. Storie di acciaio, di uomini e di lotte, Fontana Edizioni 2014. Lo studio vincitore del premio nel 2011.


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Società e Territorio Rubriche

Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni A ritmo di carica Non ho simpatia per la musica rap, che mi pare un vociare incessante scandito da ritmi martellanti. Posso però capire che vada forte in discoteca: quando il corpo si muove sorretto da un ritmo ossessionante, dopo un po’ non avverte più la stanchezza: interviene uno stato simile alla trance (magari con l’aiuto di qualche sostanza dopaminergica) e si può andare avanti per ore prima di cadere sfiniti. Non l’abbiamo inventato noi: già i riti orgiastici dell’antichità usavano il ritmo come mezzo di induzione ipnotica. Le Baccanti – le seguaci del dio Dioniso – univano danze frenetiche e altrettanto frenetiche bevute fino a risultare ferocemente aggressive: così, nel mito, fecero a pezzi Orfeo piangente la perdita di Euridice. Il suonatore di lira dal dolce canto melodico fu smembrato dalle sacerdotesse del ritmo selvaggio. I ritmi sonori influenzano inevitabil-

mente quelli biologici: sarebbe impensabile mandare una truppa all’assalto con una fanfara che suona una ninnananna. Siamo sensibili ai ritmi perché siamo fatti di ritmi: il battito cardiaco, il ritmo del respiro, di veglia e sonno, di fame e sazietà, il ciclo femminile… Tutta la natura scandisce ritmi: il susseguirsi del giorno alla notte, il ciclo delle stagioni, il flusso e riflusso delle maree, le fasi della Luna… Anche il Natale che sta per tornare anticamente scandiva un ritmo: non certo quello del Babbo omonimo che porta doni una volta l’anno, ma quello del «Sole invitto», che sembra morire in prossimità del solstizio d’inverno e poi risorge. Oggi che abbandoniamo quel che è naturale per affidarci all’artificiale, anche i ritmi naturali risultano spesso sconvolti e molti ritengono che ci sia in questo qualcosa di non sano: perché l’adattamento biologico non procede

con i ritmi dell’evoluzione culturale, e forse lo stato d’ansia generalizzata che sembra oggi dilagare ha anche a che fare con l’innaturalezza dei nuovi ritmi di vita. L’accelerazione del tempo, la frenetica immersione nel rumore costante, la cancellazione di pause di riflessione farebbero pensare che la società d’oggi sia affetta da ipertiroidismo. Almeno, così probabilmente penserebbe Italo Svevo, se vivesse oggi. Nel suo romanzo La coscienza di Zeno, il protagonista viene ad apprendere del morbo di Basedow, che «implica il generosissimo, folle consumo della forza vitale a un ritmo precipitoso». Così Zeno, fantasticando su questa malattia, giunge a concepire l’umanità come attratta da due poli opposti: da una parte gli afflitti dal morbo di Basedow, sempre freneticamente immersi nell’azione; dall’altra «gli organismi immiseriti per avarizia organica,

destinati a perire di una malattia che sembrerebbe di esaurimento» (ma che, annota lo scrittore, più semplicemente è da chiamarsi «poltronaggine»). Ma, forse, oggi Zeno penserebbe che questo secondo tipo è una derivazione dal primo: esaurita l’energia vitale in una folle corsa al divertimento e agli impegni incessanti, i «poltroni» si accasciano, come le Baccanti dopo il delirio della danza orgiastica. Viene così a mancare il tempo del silenzio, del ripensamento: nella cascata ininterrotta degli stimoli sono eliminate le pause – ossia, quelle interruzioni che davvero scandiscono un ritmo. Il musicista Daniel Barenboim, scrivendo dell’interpretazione musicale, ha messo in rilievo che «il suono di per sé non è un fenomeno indipendente ma è in costante e imprescindibile relazione con il silenzio». Analogamente, il senso e il piacere dell’azione affiorano dal suo contrario, la quiete. È questo il

vero ritmo di una vita piena. E ci sono ritmi capaci di condurre a sublimi stati d’animo, come la quiete contemplativa che Rousseau provava al lago di Bienne, sull’isola di Saint-Pierre: «Al calar della sera scendevo dalla cima dell’isola e andavo a sedermi volentieri in riva al lago, sulla spiaggia, in qualche luogo nascosto; là il mormorio delle onde e il movimento dell’acqua avevano il potere di fermarmi i sensi, scacciandomi dall’animo ogni agitazione, di modo che m’immergevo in una fantasticheria deliziosa, e spesso la notte mi sorprendeva senza che me ne fossi neanche accorto. Il flusso e il riflusso dell’acqua, lo sciacquio continuo ma a intervalli più forte, giungendomi di continuo agli orecchi, erano sufficienti per darmi un senso piacevole dell’esistenza senza la fatica di pensare». Forse, senza questi momenti d’incanto, il filosofo ginevrino non avrebbe prodotto quei suoi pensieri così luminosi.

con coppi a scandole. Cerco il garage Peugeot, non lo vedo. Vado sul ponte, una placca di bronzo sull’obelisco dice cose che ho già detto. Tocco la ringhiera anti-suicidio, mi aspettavo qualcosa di più dissuadente. Se uno sale lì, su quella specie di piedistallo accanto all’obelisco, il gioco è fatto e salta giù tranquillamente. Nel 1980, sotto Natale, un certo Joël Albert – uno che si credeva Cristo ed è morto a trentottanni per una pancreatite fulminante – si accampa sul ponte con tenda e falò per condurre una sua personale crociata contro i candidati al suicidio. Dopo la sua scomparsa, altri volontari, durante il periodo delle feste, sembra abbiano preso il testimone per dirottare gli intenti suicidari. Oggi non c’è nessuno. È domenica, poche macchine, diversi pedoni. Sfioro con i polpastrelli gli steli del parapetto convesso in alluminio oxalizzato che nel 1972 ha rimpiazzato la balaustra in ferro forgiato. Cammino lungo il ponte iscritto nel

1987 nell’inventario dei monumenti storici, un minuto e mezzo circa, due se si contempla un po’ la vista sui tetti o cos’altro. Alla fine del ponte, sulla destra, una targhetta blu con su Pont Charles-Bessières e sotto: Philanthrope. Accanto, un negozio di orologi antichi, il tabac Bessières, e il p’tit bar. Bevo una spremuta d’arancia e zenzero e scendo i centotrentuno scalini a fianco del liceo ex ospedale per arrivare al livello stradale. Tre scuole di danza in pochi metri. La stazione di benzina è stata sostituita da un Aldi. Gettarsi giù a destra, venendo dalla cattedrale, determina uno spiaccicarsi sulla rue Central, a sinistra si muore su rue Saint-Martin. Là, sopra il ponte del metrò, si ammira la molassa selvaggia dove poggia il ponte Bessières. Su un muro, una scritta rossa molto nichilista ma poco originale. Al pianterreno di una palazzina rosa salmone con balconi vista ponte dei suicidi, c’è un Ethno tattoo piercing. Di fianco, un negozio di futon giapponesi.

di discussone e riflessione sul piano culturale, politico e umano. Proprio la figura dell’operatore finanziario, che persegue unicamente fini speculativi, ha ottenuto la particolare attenzione di uno studioso non a caso americano: Michael J. Sandel, docente di filosofia politica a Harvard, autore di saggi in cui denuncia la pericolosa svolta di un’economia che privilegia l’attività speculativa rispetto a quella produttiva. Con conseguenze deteriori per l’intera società, vittima delle imprese sconsiderate di speculatori, a loro volta vittime di un lavoro simile a un gioco d’azzardo: «Altera il carattere, confonde la fortuna con il merito. Sposta i valori. È il capitalismo da casinò». Così sostiene Sandel nel suo ultimo saggio Equity, tradotto in tedesco e prossimamente in italiano. È, dunque, all’ordine del giorno la preoccupazione per le disuguaglianze, che si accentuano proprio in società dove dovrebbe avvenire il contrario, fra cui la Svizzera. E sarà anche il tema

del prossimo incontro, fra politici ed economisti, di Davos. L’argomento di quest’illogica spaccatura viene affrontato, e può sorprendere, persino nell’ultimo numero di «Bilanz», dedicato, come vuole la tradizione, ai «300 più ricchi della Svizzera». Dove ci s’imbatte in vecchie e nuove conoscenze: il patron dell’Ikea, sempre in vetta, l’Hayek della Swatch, Bertarelli, Marchionne, i nostri concittadini Mantegazza, Tettamanti, Silvio Tarchini, Cornaro e, inattesa, la ridanciana Michelle Hunziker, e via enumerando questi privilegiati. Ai quali, però, dalle pagine di «Bilanz» si rivolge uno sguardo anche critico, citando l’economista socialista Thomas Piketty, che propone una discussa ricetta per eliminare le iniquità sociali. E non manca neppure l’ironia: quando si racconta del magnate americano che si è fatto un attico da 95 milioni di dollari, con vista su Central Park: dove, però, non si trova a suo agio. E adesso cerca casa.

Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf Il ponte Bessières a Losanna Correvano voci di questo posto, mi ricordo, in epoca adolescenziale. Ai tempi non ho indagato più di tanto, lasciando aperta l’ipotesi leggenda metropolitana. Eppure l’idea di Losanna come città da suicidio, scordandone con il tempo l’origine, mi è rimasta. Così, ogni volta che capitavo a Losanna, appena uscivo dalla stazione, mi veniva la nausea. Quest’anno, leggendo L’orco (1974) di Jacques Chessex – già incrociato per via della fontana dell’orco di Berna – ecco riaffiorare, a pagina centonovantatré, questo ponte tristemente famoso, con tanto di nome. Jean Calmet, il pernaggio principale, «s’inoltrò sul ponte Bessières che scavalcava, molto in alto, rue Saint-Martin. Era il ponte dei suicidi: varie volte a settimana, c’erano delle persone che si gettavano nel vuoto e si sfracellavano trenta metri più in basso, davanti alle pompe di benzina dell’autorimessa Peugeot». Il ponte dei suicidi di Losanna allora esiste: è il ponte Bessières. Eccome:

nel 2003 l’hanno persino dotato di una barriera anti-suicidi e sembra che i tentativi di suicidio, da lì, siano diminuiti da una media di 4,8 all’anno a 0,6. L’anno scorso, comunque, secondo la polizia cantonale, sui sette suicidi dall’alto a Losanna, due sono avvenuti dai ventitré metri del pont Bessières. Il pont Bessières prende il nome da Charles Bessières (18261901), banchiere e gioielliere losannese che sponsorizza con mezzo milione di franchi la costruzione di un ponte tra la collina della Cité e il quartiere Caroline. Il ponte, inaugurato il ventiquattro ottobre 1910, è opera di Eugène Jost (1865-1946), architetto tra l’altro autore del noto Palace (1906) di Montreux in stile Beauxarts. Dalla stazione di Losanna sono tre fermate di metrò, direzione Croisettes. C’è proprio la fermata Bessières e nell’ultimo tratto, per un attimo, si passa sotto le arcate verde oliva. Un paio di secondi nell’ascensore di vetro ed eccomi davanti, il ponte dei suicidi

di Losanna (500 m). Fine mattina d’inizio dicembre, cielo color beton, all’angolo l’insegna dell’hotel City. Di fianco, un negozio di fiori e uno di maroquinerie. Dall’altra parte del ponte, si staglia la famosa cattedrale gotica fatta di molassa. Due obelischi di undici metri in stile Louis XVI si accordano con l’ex ospedale neoclassico sempre al di là del ponte, ai piedi della cattedrale, oggi liceo. A sinistra, mastodontica casa di riposo. Tutto sommato, a prima vista, è un angolo felice di Losanna, penso, non troppo deprimente almeno; così sospeso e panoramico, in contrasto con la sua fama di luogo per mettere fine ai propri giorni. Non sono l’unico attratto da questo posto, molti mozziconi per terra e un collo rotto di bottiglia di birra sono indizi per un luogo di sosta. Da qui si può guardar giù bene ai fianchi delle arcate reticolari: color salvia direi ora, più che il verde oliva avvistato prima dal metrò, benché corretto. Fumo da un camino, tetti

Mode e modi di Luciana Caglio «Svegliare il danaro»: mestiere a rischio Si chiamavano Yuppie, acronimo di Young Urban Professional, giovane professionista urbano, e comparvero, agli inizi degli 80, anche nel nostro panorama sociale: dove hanno lasciato un segno rilevante, dagli effetti persistenti. La loro presenza, del resto, non era casuale. Coincideva con un’esigenza del momento: nel Ticino sempre più terziarizzato, la finanza offriva occasioni di lavoro allettanti, e non soltanto nelle banche tradizionali. Si stava, infatti, creando uno spazio aperto ad attività, sempre inerenti la gestione di capitali, ma in forme nuove, ispirate al motto in auge a Wall Street: «Il danaro non dorme», va invece svegliato per moltiplicarsi. E così questa materia prima, indispensabile quanto insidiosa, cambiò mani, passando da quelle prudenti di banchieri e bancari, rispettosi delle regole, a quelle intraprendenti di finanzieri capaci di affrontare il rischio, per dominarlo a proprio vantaggio. In quest’ambito, dovevano cimentarsi gli yuppie nostrani, dando vita a una

specializzazione locale, di cui si andava persino fieri. Eleganti, efficienti, disinvolti, sembravano protagonisti di una scelta vincente: sul piano professionale, sfruttando le opportunità di un paese di frontiera, e su quello dello stile di vita, circondandosi di lussi invidiabili.

Michael J. Sandel. (Wikipedia)

Se, sin qui, abbiamo usato verbi al passato, non è perché il fenomeno sia scomparso. Basta guardarsi attorno a Lugano: esiste sempre quella rete di broker, fiduciari, avvocati, impegnati in un settore, del resto, tipicamente svizzero qual è la gestione di capitali da proteggere, far fruttare, investire nel rispetto della legalità. Ma sono operazioni che devono fare i conti con controlli e leggi sempre più restrittivi, cui è giocoforza adeguarsi. Si rivelarono, invece, ostacoli fatali, per gli yuppie, messi alla prova da una situazione, troppo grande e complessa, in cui hanno perso la credibilità professionale e lo smalto mondano. Strada facendo, lungo un percorso costellato da crisi economiche, crolli in borsa, interventi statali, è venuta alla luce la loro incompetenza in un lavoro che, come ogni altro, chiede conoscenze, realismo, lucidità, non da ultimo senso morale. Ed è questo un aspetto inatteso, quando si parla di finanza. È salito, invece, recentemente alla ribalta dell’attualità come materia


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 9 dicembre 2014 ¶ N. 50

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Società e Territorio

L’italiano non sta bene Frontaliers A colloquio con il consigliere di Stato Manuele Bertoli

sui motivi che hanno spinto il DECS a promuovere il nuovo DVD prodotto dalla RSI Peter Schiesser DECS, RSI, Migros Ticino insieme per promuovere l’ultimo dvd dei Frontaliers. Che cosa l’ha convinta a sostenere questo progetto?

Il DVD dei Frontaliers è un bel prodotto per veicolare un messaggio non facile ad un pubblico allargato e soprattutto giovanile: la lingua va curata, perché – come si ripete nel DVD – chi parla bene pensa bene, ma soprattutto chi pensa bene alla fine vive meglio. Il DECS sente la necessità di difendere l’italiano. Perché, come sta l’italiano in Ticino?

Non sta benissimo. La cura della lingua non è ai massimi storici, a volte mi sembra che sia un po’ un optional. Lo vediamo in generale, a scuola, nei media, lo noto anche nelle lettere che ricevo, sia dall’esterno sia a volte in quelle che ricevo in bozza dai miei servizi. Sono convinto che la capacità di usare la lingua a un buon livello permette a tante cose di funzionare meglio, aiuta a far capire meglio le cose all’opinione pubblica, e in generale a presentarsi meglio in qualsiasi contesto, anche in quello lavorativo. Il DVD dei Frontaliers è un tassello di un progetto della RSI per la promozione della lingua italiana. Il DECS che visioni e progetti ha?

Abbiamo utilizzato questa occasione che ci è stata data dalla RSI e dalla collaborazione con Migros Ticino per fare un discorso ampio all’interno della nostra regione linguistica sulla necessità di curare l’italiano, e, attraverso i fondi che verranno raccolti con la vendita del DVD, per offrire a chi in Svizzera non conosce l’italiano l’occasione di apprenderlo durante un soggiorno sportivo al centro nazionale di Tenero, e a prezzi particolarmente attrattivi. Noi sappiamo che l’italiano non è molto gettonato al di là delle Alpi, ma se vogliamo insistere sulla questione del plurilinguismo nel nostro Paese, e vogliamo farlo, dobbiamo anche riuscire ad attirare ragazzi svizzero-tedeschi e romandi da noi. Grazie agli ottimi contatti che i nostri uffici hanno con le scuole d’Oltralpe abbiamo la possibilità di rivolgerci ad alunni di fine scuola media. Vi augurate che possano poi fungere da giovani ambasciatori dell’italiano Oltralpe?

Esattamente, questo per noi è determinante. Crediamo che, se questi ragazzi torneranno a casa contenti, questo aiuterà a diffondere l’idea che in Ticino si può passare un bel soggiorno imparando al contempo una lingua. L’italiano non è forse una delle lingue più ambite, almeno non come l’inglese che oggi è al vertice delle aspirazioni linguistiche dei ragazzi, ma se il soggiorno funzio-

na bene alla fine lascia dei segni per molto tempo. Tutti noi ricordiamo come esperienze importanti della nostra vita le prime uscite al di fuori della nostra regione linguistica, in un mondo un po’ diverso; sono ricordi che mettono radici a loro volta. C’è poi il lato istituzionale della difesa dell’italiano: si cerca di evitare che i cantoni elimino l’insegnamento dell’ italiano nei licei. La Conferenza dei direttori cantonali della pubblica educazione vuole difendere l’italiano nei licei d’Oltralpe. Ci si riuscirà?

Stiamo agendo su più fronti: quello che riguarda i licei è un fronte importante, perché qui esiste una norma effettiva, che è intercantonale e federale, una norma definita da un’ordinanza del Consiglio federale sulla quale possiamo appoggiarci. La battaglia è volta a far applicare effettivamente la norma esistente, dopo aver verificato che questa non viene applicata correttamente. Fondamentalmente, non dobbiamo solo condurre una battaglia per avere delle norme, ma anche perché vengano applicate. Credo che la battaglia in corso Oltralpe tra svizzero-tedeschi e romandi per l’insegnamento delle lingue nella scuola dell’obbligo in parte ci aiuti, perché se a prevalere, come io spero, sarà il concetto di coesione nazionale anche tramite la conoscenza reciproca delle lingue, evidentemente questo non può essere inteso solo in senso bilingue, ma nel nostro Paese deve essere perlomeno trilingue se non quadrilingue. Finché la questione riguardava solo l’italiano, veniva considerata un problema regionale, mentre adesso è diventato un problema svizzero, come noi abbiamo sempre sostenuto. Poi c’è il Concordato Harmos, di diritto intercantonale, che coinvolge quasi tutti i cantoni. Prevede l’insegnamento obbligatorio di due lingue seconde, una nazionale e l’inglese, nella scuola dell’obbligo, e l’insegnamento facoltativo della terza lingua. Questo significa che in un qualche modo la terza lingua dev’essere offerta. Anche qui le norme esistono, ma si tratta di farle applicare, verificando che i cantoni effettivamente offrano questa lingua. Che poi gli allievi la scelgano o meno, dipenderà anche dalla nostra capacità di promuovere l’italiano. Però, senza offerta non c’è facoltà di scelta. Infine, c’è il settore scolastico professionale. Qui il discorso si interseca con un lavoro più approfondito sulle competenze legate alle varie professioni. In questo caso la strada da percorrere è teoricamente meno ardua perché è materia di diritto federale, è la Confederazione che decide tutto. Su questi tre fronti bisogna agire in

maniera coerente, sinergica e logica all’interno del contesto del rispetto del plurilinguismo. Ma se taluni cantoni non applicano la norma sull’insegnamento dell’italiano nei licei, esistono strumenti per imporla?

Questo è uno dei grandi limiti del diritto intercantonale, che non prevede un’autorità di ricorso che possa imporre qualcosa. Da qui la difficoltà a dovere convincere e ribadire il problema. È una strada difficile, ma anche abbastanza pagante, poiché i miei colleghi della Svizzera tedesca e romanda non amano troppo sentirsi criticati di continuo. Alla fine un buon compromesso lo si trova. Devo dire che di persone sorde al concetto del plurilinguismo ne ho trovate poche. Bisogna però fare attenzione ai furbi, a chi ti dice «sì, hai ragione, faremo», ma poi non fa niente. Fondamentalmente, auspico che si possa davvero rivitalizzare il concetto di una Svizzera plurilingue, in cui ci sia un interesse reciproco per la lingua e per la cultura dell’altro. Se noi non coltiviamo questo elemento, che è un elemento fondante della Svizzera, il nostro Paese arrischia di diventare un condominio in cui ognuno sta per conto suo. Finché economicamente la Svizzera va bene, questo non pone problemi, ma se dovessimo avere problemi economici seri, questo diventa un rischio per la coesione nazionale. Anche con un certo spirito patriottico, dico che dobbiamo recuperare o quanto meno non abbandonare il plurilinguismo. Noto invece una tendenza a restare appiattiti sulla propria regione linguistica e credo che questo sia un po’ pericoloso.

Un occhio alla lingua e due al pubblico RSI, difesa dell’italiano come ragion d’essere Maurizio Canetta, direttore RSI Mi si chiede di sintetizzare in 3000 battute, spazi compresi, il rapporto fra la lingua italiana e la RSI. Subito percepisco, tra chi avrà la pazienza di leggermi, qualche sorriso o qualche battuta, in perfetto stile Frontaliers, che l’argomento, già di per sé, invoglia a fare. Ci chiamiamo Radiotelevisione svizzera di lingua italiana. Nella nostra ragione sociale sta dunque anche una delle ragioni esistenziali della RSI: promuovere – più che difendere – l’italiano (come lingua, ma anche come cultura in senso lato) non solo nella nostra regione di riferimento, ma anche nel resto del Paese e – grazie al web – ormai in tutto il mondo. Uso volutamente promuovere e non un altro verbo – difendere – che, in occasioni come questa, viene privilegiato. Si tratta di due posizioni diverse: se promuovere l’italiano è un’ottica moderna e positiva, difenderlo a me sembra un atteggiamento non solo conservatore, ma persino rinunciatario. Nessuna lingua – il romancio insegna – può essere difesa e salvata artificiosamente: occorre che sia carne viva di una comunità, specchio di una storia, di consuetudini, di valori condivisi. Ma quale italiano – mi chiederete – promuove la RSI? Quello che si parla in casa nostra, sulle nostre strade, nei nostri spazi pubblici: un italiano regionale, genericamente lombardo, che non sempre utilizza parole usate in altri territori italofoni né accentua, apre o chiude le vocali come in altre

Il nuovo DVD dei Frontaliers, da oggi in vendita nelle filiali di Migros Ticino (vedi anche a pagina 56).

regioni. E proprio su questo, sulle pronunce, sulle inflessioni, sulle cadenze i nostri animatori, le nostre conduttrici, i nostri giornalisti vengono da sempre ripresi. Da chi esige che parlino come suggeriscono di fare il DOP* o la Treccani a quanti, al contrario, provano fastidio al solo sentir pronunciare mèteo con la e aperta o stélle con la e chiusa. Da indua al/la végn quel/quela lì? è, in questi casi, la reazione più benevola. Di cui va tenuto conto, poiché la lingua, oltre al tono di voce e alla capacità di entrare in sintonia con ascoltatori e telespettatori, è strumento essenziale per chi fa il nostro mestiere. Al di là degli errori, di alcuni vezzi, scimmiottature e sciatterie – gramigna che io per primo non approvo, ma di cui sento parlare sin da quando sono entrato alla RSI, 40 anni fa, l’attenzione per la lingua italiana – intesa come elemento di coesione, di apertura e non soltanto creatore di identità (per questo, anche se in misura nettamente minore rispetto al passato, un ruolo importante lo mantiene invece il dialetto) è costante. Con rubriche radiofoniche specifiche, figlie o nipoti della storica Costa dei barbari (su Rete Uno Parole, parole, parole; Il salvalingua; su rete Tre Do You speak Italian; Badi come parla; il quiz Come si dice in italiano?). Ma anche con iniziative puntuali come l’invenzione dei Frontaliers – uno dei più grandi successi, in termini di impatto trasversale e intergenerazionale, nella storia della nostra azienda. A dimostrare che in ogni progetto, in ogni iniziativa contano anche il modo e i toni, il mediometraggio Frontaliers al cimena: qui si parla itagliano è, già pochi giorni dopo il suo lancio nelle sale, il film più visto della Svizzera italiana. Segnalo infine che la RSI è da poco diventata membro a pieno titolo del Forum per l’italiano in Svizzera http://www.forumperlitalianoinsvizzera.ch istituito dai Cantoni Ticino e Grigioni, al quale aderiscono associazioni ed enti interessati alla salvaguardia dell’italiano come lingua nazionale. Riassumendo, dunque, un triplice binario – di programma, di intrattenimento e di presenza istituzionale – deve condurre la RSI e la comunità di cui è specchio a fare il proprio dovere anche in questo campo: con attenzione, perseveranza, ma anche senza dogmi, con leggerezza e in sintonia con il suo pubblico, o meglio i tanti suoi pubblici. * Dizionario italiano multimediale e multilingue d’ortografia e pronunzia, Edizioni Rai-Eri, 2010, 2 voll.

Per valorizzare l’identità culturale della Svizzera italiana Una battuta che circolava qualche anno fa così definiva il quadrilinguismo svizzero: «Le quattro lingue svizzere sono tre: Züridütsch und englisch». Una battuta, ma negli ultimi anni la preoccupazione per le sorti dell’italiano è andata crescendo. La nostra lingua è in perdita di velocità, soprattutto Oltralpe. Se è certamente esagerato dire che in Svizzera l’italiano è seriamente minacciato, si può nondimeno affermare che la sua importanza e il suo prestigio si sono progressivamente ridotti. Le difficoltà che la nostra lingua attraversa e il suo progressivo indebolimento vanno di pari passo con un fenomeno pressoché inarrestabile: l’avanzata dell’inglese. In un contesto di crescente globalizzazione economica e culturale, la tendenza all’omogeneizzazione linguistica mette a rischio il ruolo delle lingue minoritarie e con esso il federa-

lismo plurilingue, uno dei cardini su cui si basa il modello elvetico. Gli sforzi per rafforzare la posizione della lingua italiana assumono perciò una rilevanza crescente, anche perché i benefici che ne derivano in termini di coesione sociale sono notevoli. La difesa di un idioma passa in primo luogo dalle politiche linguistiche. Ma questo compito non deve essere demandato unicamente alla politica, né può limitarsi alla formulazione di legittime rivendicazioni. Per questo il Percento culturale di Migros Ticino ha aderito con convinzione al progetto Italiano lingua di frontiera: perché è in gioco la nostra lingua, il vettore principale attraverso il quale vengono veicolate la nostra cultura e la nostra identità di svizzero italiani. Ogni lingua viene potenzialmente indebolita se non le si presta la dovuta attenzione: ad

esempio quando il proliferare degli anglicismi e dei tecnicismi, ma anche gli errori e le storpiature sono tali da impoverire il linguaggio dei parlanti madrelingua. Non si tratta di adottare un atteggiamento da puristi. Al contrario: parlare bene, saper leggere e scrivere senza difficoltà significa possedere gli strumenti per riuscire a comprendere appieno il linguaggio di una realtà complessa come quella in cui viviamo. Da oltre 50 anni Migros Ticino promuove la cultura e la formazione nella Svizzera italiana. Questo compito, iscritto negli statuti dal 1957, prevede che ogni anno la Cooperativa destini a questo scopo lo 0,5% della cifra d’affari. Oltre a sostenere un gran numero di progetti artistici e di manifestazioni culturali, il Percento culturale finanzia particolari progetti volti a valorizzare l’identità culturale e il territorio della

Svizzera italiana – tra cui ad esempio diverse iniziative a sostegno del dialetto e della cultura popolare. In questo quadro si iscriveva tra l’altro la trasmissione di Rete Tre Alla ricerca del dialetto perduto, nata dalla collaborazione tra la RSI, il Centro di dialettologia ed etnografia e il Percento culturale Migros Ticino. L’operazione Italiano lingua di frontiera ha obiettivi analoghi, anche se di segno opposto: e cioè la promozione della lingua italiana quale elemento fondante della nostra identità culturale. L’iniziativa vede coinvolti gli stessi partner: la RSI, la quale, proprio in virtù della sua popolarità e del suo ampio pubblico, in questa battaglia a difesa dell’italiano rappresenta il bastione e l’avamposto più significativo, e riveste pertanto un ruolo strategico. Il DECS, in grado di raggiungere e sensibiliz-

zare sul tema un gran numero di studenti. E il Percento culturale di Migros Ticino, che sostiene la produzione del DVD Qui si parla itagliano e la sua diffusione attraverso la rete dei supermercati Migros. E poi, naturalmente, ci sono loro, i mitici Frontaliers! Perfetti ambasciatori e scanzonati promotori della lingua italiana. Sono così bravi che per loro non vale l’adagio Nemo profeta in patria. Capaci, grazie alla loro verve e alla loro simpatia, di trasportare un messaggio di grande portata culturale senza salire in cattedra, senza pedanteria, ma con grande divertimento, leggerezza e ironia. Riusciranno i nostri eroi in questa ardimentosa e audace impresa? Ne siamo certi, perché sono davvero straordinari! / Yvonne Pesenti Salazar, Responsabile Dipartimento Cultura, Migros Ticino


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Ambiente e Benessere Il turismo di domani Secondo le previsioni, viaggiare sarà sempre meno un lusso e sempre più un aspetto irrinunciabile della quotidianità pagina 17

Spazio per tutti allo zoo A Zurigo persino il leone indiano, o l’orso dagli occhiali, o ancora il lupo della Mongolia non sembrano essere tenuti in cattività

Occhio ai nuovi arrivati Che sia un bimbo o un cucciolo, può rivoluzionare le abitudini di tutti, animali compresi

Riparte il Pre-Grand Prix Sono aperte le iscrizioni per partecipare all’appuntamento ticinese di Airolo, il 15 febbraio

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La dottoressa Monika Raimondi, specialista in neurologia all’Ospedale regionale di Lugano. (Vincenzo Cammarata)

Quando la malattia è «rara» Solidarietà medica La neonata Associazione malattie genetiche rare della Svizzera italiana promuove

e tutela la qualità di vita di questi pazienti Maria Grazia Buletti «Una madre si rende conto che il proprio bambino fatica a camminare e muove i suoi primi passi in modo strano, sulla punta dei piedi. Qualcosa non quadra, il pediatra lo visita, esegue gli esami del caso fra cui uno genetico che non lascia dubbi: il bambino soffre della distrofia di Duchenne, una malattia genetica rara che colpisce le cellule muscolari e non lascia lunga speranza di vita. Al medico, il compito di spiegare alla famiglia che il bambino faticherà progressivamente a camminare, si indebolirà fino a necessitare una carrozzella, visite periodiche e fisioterapia specifica fino a quando, verso i vent’anni, si presenteranno problemi di alimentazione e di respirazione», questa è una fra le più devastanti delle circa settemila malattie genetiche rare portata ad esempio dalla dottoressa Monika Raimondi, specialista in neurologia all’Ospedale regionale di Lugano. Raimondi ci spiega come la speranza di vita di chi soffre della distrofia di Duchenne si limita purtroppo a circa trent’anni e i genitori dovranno presto fare i conti con questa dura realtà, a cominciare dalla fase più sconvol-

gente che – secondo la dottoressa – è il momento in cui il bambino sta ancora piuttosto bene, nonostante si sappia già che non avrà un futuro come tutti gli altri suoi coetanei. «Esistono anche malattie genetiche meno gravi per le quali la patologia non riduce la speranza di vita, ma porta a complicazioni, sviluppo di handicap, così come ci potrebbero essere ripercussioni a livello di funzioni cognitive, visive o motorie», precisa la dottoressa Raimondi. Ci si rende quindi conto di quanto ampio sia il ventaglio delle manifestazioni di queste malattie, il cui comun denominatore è il decorso cronico e degenerativo. Inoltre – va da sé – che esse portano purtroppo grande sofferenza nelle persone ammalate e in tutta la loro cerchia famigliare. «Dal primo gennaio dell’anno prossimo sarà del tutto operativa la neonata Associazione malattie genetiche rare Svizzera italiana (Mgr) che andrà a colmare una lacuna a livello sociosanitario ticinese, attualmente orfano di un punto di riferimento in grado di intervenire a sostegno dei pazienti confrontati con queste devastanti patologie e dei loro famigliari» spiega Claudio Del Don, presidente

della neonata associazione sostenuta da Telethon e che in futuro sarà pure riconosciuta dall’Ufficio federale delle assicurazioni sociali (Ufas). La dottoressa Raimondi, che della neonata associazione è vice presidente, sostiene che le malattie genetiche rare non sono in fondo così poco frequenti, sebbene il Ticino non disponga della cosiddetta massa critica che giustificherebbe un’associazione per soddisfare i singoli bisogni di ciascuna di esse. «Perciò la Mgr (www.malattiegeneticherare.ch) ha fra i suoi obiettivi quello di orientarsi verso una rete di collaborazione con enti e altre associazioni già presenti sul territorio, evitando doppioni e garantendo ai malati un supporto continuo e di qualità», aggiunge Del Don. I numeri parlano chiaro: nel nostro territorio ci sono circa 600 persone affette da malattie genetiche rare, fra le quali più di 400 sono quelle colpite da patologie di tipo neuromuscolare, mentre gli altri 200 circa rappresentano i casi non miopatici: «Spesso i primi sintomi emergono già in età pediatrica; ad ogni modo, sia i bambini che gli adulti colpiti da malattie genetiche rare non miopatiche dal 2007 possono

contare sul centro Myosuisse per tutto quanto attiene agli aspetti sociosanitari» afferma la dottoressa Raimondi, alla quale fa eco il presidente di Mgr Del Don: «E proprio con il centro Myosuisse collaboreremo in modo complementare». Il ruolo dell’Associazione malattie genetiche rare della Svizzera italiana sarà poliedrico, spiegano i nostri due interlocutori: «Andremo a coprire diversi obiettivi legati al sostegno della ricerca clinica delle malattie genetiche rare, ci occuperemo di consulenza agli ammalati e alle loro famiglie, come pure del supporto finanziario laddove le assicurazioni sociali e i servizi pubblici non coprono le esigenze della situazione o non lo fanno nei tempi rapidi necessari». Restando in tema, l’aspetto finanziario non è certo cosa di poco peso nel caso di malattie che richiedono esami diagnostici genetici molto costosi, i quali spesso non sono rimborsati dalle Casse malati. D’altronde arrivare ad avere una diagnosi è molto importante per diversi aspetti, spiega la dottoressa Raimondi: «Innanzitutto è dalla diagnosi, dal sapere cosa uno ha, che il giovane può pianificare la propria vita e il proprio futuro. E solo una volta dia-

gnosticata la malattia si può procedere alla richiesta di riconoscimento da parte delle assicurazioni sociali». Inoltre, dal profilo scientifico e della ricerca sulle malattie genetiche rare, ogni diagnosi certa può essere inserita nei registri internazionali: «Questo aiuta sicuramente la ricerca a tutto beneficio di future scoperte per la cura di queste malattie complesse che per ora beneficiano di terapie non curative, ma di sostegno». L’Associazione malattie genetiche rare offre dunque supporto e consulenza alle persone confrontate con queste patologie e, puntualizza Del Don, «ci adopereremo affinché le persone e i loro famigliari si sentano meno soli e non abbandonati a se stessi». La dottoressa Raimondi ricorda invece l’importanza di favorire gli incontri e la conoscenza fra gli stessi pazienti, che spesso le chiedono quante altre persone hanno la loro stessa malattia e desiderano confrontarsi fra loro per condividere le proprie esperienze: «Una condivisione che permette loro di alleviare le proprie sofferenze e di sviluppare pure delle risorse personali interessanti, proficue alla loro qualità di vita».


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Ambiente e Benessere

Fu-Turismo 2050 Viaggiatori d’Occidente In attesa dell’ondata di turisti diversi rispetto a oggi

per provenienza, età e aspettative: si metteranno in movimento le masse dei Paesi emergenti?

Quello strano pianeta chiamato Berlino Bussole Inviti

a letture per viaggiare Claudio Visentin Gettare uno sguardo nel futuro è una tentazione irresistibile, anche se quasi sempre destinata a un inevitabile fallimento. Infatti, per quanto ci si sforzi di creare scenari sempre più complessi, flessibili e aperti al cambiamento, è impossibile prevedere le svolte improvvise della storia. Per fare solo qualche esempio, all’inizio del 1492 nessuno immaginava l’esistenza di un nuovo continente dall’altra parte dell’oceano; nella prima metà del 1914 pochi si aspettavano un evento devastante come la Prima guerra mondiale; e quale valore avranno avuto tutti i discorsi sulla comunicazione fatti poco prima che Internet cominciasse il suo irresistibile cammino? Al tempo di Jules Verne si potevano azzardare previsioni a lunga distanza, decenni e secoli, ma oggi quasi nessuno ha il coraggio di andare al di là di un orizzonte temporale di pochi anni. Immaginare il mondo che verrà è dunque prima di tutto un gioco intellettuale, che può comunque avere una sua utilità. Tra Udine e Napoli, in ottobre e novembre, Future Forum (www.futureforum.it) ha raccolto relatori di diversi Paesi, che hanno provato a spingere l’immaginazione sino a un più realistico 2030, e in alcuni casi a un più improbabile 2050. Si è parlato di globalizzazione, migrazioni, conflitti interetnici e religiosi, nuove tecnologie, modelli economici, gestione dei dati, lavoro, salute, alimentazione ecc. E, per quel che qui ci interessa, si è discusso molto anche di viaggi e turismo, nella consapevolezza che questo settore, il quale già oggi corrisponde a circa un decimo del prodotto interno lordo e dell’occupazione su scala mondiale, sarà sempre più importante nei decenni a venire.

Per il 2050 le previsioni del Future Forum parlano di 4,7 miliardi di turisti, dato che mette in evidenza il tema della sostenibilità ambientale Cominciamo dai numeri. Da parecchio tempo l’Organizzazione Mondiale del Turismo (OMT) ha diffuso una sua previsione per il 2020 che presume 1,6 miliardi di arrivi internazionali: nonostante tutte le vicende degli ultimi anni, a cominciare dalle tensioni internazionali seguite all’attentato alle Torri ge-

«Mi accingo a trascrivere qui di seguito il risultato di dodici mesi di Osservazione su questo Pianeta posto nella zona nord orientale della galassia che tutti chiamano – colloquialmente – Berlino. La Relazione si presenta al momento in forma di appunti di carattere storico, geografico e astronomico, e di registrazioni più strettamente etnologiche sugli usi e costumi locali…»

Turisti all’interno del Vaticano. (BjØrn Christian ThØrrissen)

melle, questa previsione è stata sin qui confermata, con oltre un miliardo di arrivi internazionali nel 2013. Il turismo insomma è sempre meno un lusso e sempre più un aspetto irrinunciabile della vita quotidiana. Per il 2050 le previsioni del Future Forum parlano però di 4,7 miliardi di turisti, ed è quindi inevitabile mettere in primo piano il tema della sostenibilità ambientale, senza la quale, molto semplicemente, il futuro non ci sarà. Le industrie turistiche dovranno trovare un nuovo modo di operare se non vogliono tagliare il ramo sul quale sono seduti: è un dato che pare indiscutibile. Appare sensata anche la convinzione di molti futurologi secondo cui questa crescita quantitativa cambierà la geografia del turismo: l’Europa, che oggi controlla la metà del movimento turistico mondiale, dovrà cedere il primato all’Asia e al Pacifico, accontentandosi di un quarto del movimento complessivo. Inutile tuttavia tentare di rincorrere gli altri sul piano del turismo di puro divertimento: la vera sfida per il nostro continente è piuttosto riuscire a ribadire la propria unicità

nel campo del turismo culturale, intercettando così i turisti con una migliore capacità di spesa e al tempo stesso riducendo l’impatto ambientale. Non si tratta necessariamente di trasformare il continente in un unico polveroso museo a cielo aperto per ricchi stranieri, come molti temono. La Grande bellezza dell’Europa ha invece bisogno di essere raccontata in forme nuove, partecipate, coinvolgenti, mobilitando le industrie creative, la tecnologia, l’arte contemporanea. Il Travel Design, che già oggi si affaccia timidamente, progetterà nuovi prodotti turistici, in un costante dialogo attraverso i Social Media con i propri clienti potenziali. I turisti, appunto. Anch’essi saranno diversi rispetto a oggi per provenienza, età, aspettative, e ciascun gruppo chiederà proposte diverse e su misura. Le classi medie dei Paesi emergenti (BRICS - Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) potrebbero dare un contributo decisivo alla crescita, con un’ampia presenza di giovani. I turisti occidentali saranno invece sempre più anziani, beninteso sempre ammesso che il sistema pensionistico consen-

ta loro di avere abbastanza risorse per viaggiare. I turisti più contesi, per la loro capacità di spesa, saranno però anche i single, in particolare donne, i figli unici e le coppie DINK (Dual Income No Kids, ovvero con doppio reddito e senza figli) sia eterosessuali sia omosessuali. Per parlare a questi turisti le vecchie forme di promozione (fiere, inserzioni ecc.) serviranno davvero a poco. La rete dominerà la comunicazione turistica, ma dovremo imparare a controllare meglio le informazioni provenienti dai motori di ricerca, solo apparentemente obiettive. Sarà comunque uno scambio di conoscenze tra industria, territori e turisti, piuttosto che un flusso univoco di informazioni dal centro verso la periferia. Questi gli aspetti più significativi. Nell’insieme, Future Forum si è mosso su una superficie scivolosa, tra azzardi e ovvietà, ma questo è il gioco, che ciascuno può portare avanti anche per conto proprio immaginando i possibili spazi d’azione per la Svizzera e il Ticino, pur sapendo che alla fine il futuro ci sorprenderà sempre: è la sua forza e la sua bellezza.

Quale strana situazione: un viaggiatore proveniente da un Paese (l’Italia) dove per il cibo si nutre un’autentica ossessione – tanto che prima di consumarlo si deve immaginarlo, raccontarlo, pregustarlo in mille modi – si misura con una città (Berlino) dove la questione è vissuta con discreta indifferenza, tanto che larga parte dell’alimentazione consiste in cilindri di carne marrone accompagnati da patate. Considerate queste premesse, è forse inevitabile che il tema venga presto abbandonato, dopo aver corrisposto in maniera puramente formale ai requisiti di una nuova e interessante collana editoriale (Allacarta) che racconta le città del mondo attraverso il cibo. Ma quel che viene dopo è assai più interessante di una guida gastronomica: è un racconto breve e curato di Berlino guardata con gli occhi ingenui e illuminanti di chi proviene da un altro pianeta, al quale tutto o quasi dev’essere spiegato: l’accettazione dei vuoti, il senso di colpa permanente, l’ossessione per un passato diviso da un Muro e colmo di infiniti altri orrori, ma anche una vita quotidiana creativa e conviviale. È un distacco che non banalizza, quanto piuttosto riporta ogni cosa alla sua ragion d’essere. D’altronde, come scrive Bajani, «È l’unico modo che conosco per stare dentro le cose, questo di fingere di esserne fuori». Bibliografia

Andrea Bajani (fotografie di Filippo Costanzo), È bellissimo il vostro pianeta, EDT, 2014, pp.112, € 7,90. Annuncio pubblicitario

Notizie scientifiche Medicina e dintorni Pale eoliche e alberi a vento Con un alito di vento le foglie degli alberi eolici si mettono in movimento e producono elettricità (da 2,5 a 3,5 kW), sufficiente a soddisfare i bisogni di quattro persone, riscaldamento a parte. L’idea, di una azienda francese, la New Wind, ha diversi vantaggi: estetica, silenziosità e sensibilità al minimo soffio d’aria. L’elettricità in eccedenza può essere accumulata in batterie esterne. I trucchi per imparare le lingue Linguisti e neuroscienziati sono d’accordo: a livello elementare si possono imparare le lingue anche da adulti. E suggeriscono trucchi per farcela. L’apprendimento è facilitato se le parole sono accompagnate dal movimento. Va bene guardare film con sottotitoli in lingua originale. Al contrario, i film con sottotitoli nella

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propria lingua sono controproducenti per l’apprendimento. Imparare giocando: facendo quiz e ascoltando racconti. Cantando le parole si apprendono più facilmente. Studiarne tante: più lingue si conoscono, più facile è impararne di nuove. Passaggi pedonali intelligenti Londra. Da quest’estate i pedoni londinesi stanno facendo da cavie a un interessante esperimento per fluidificare il traffico. Il sistema, detto Scoot (Split Cycle Offset Optimisation Technique), ha un funzionamento molto semplice: telecamere al bordo dei passaggi pedonali analizzano il numero di persone che devono attraversare e ottimizzano la durata del semaforo. Ora è allo studio una tecnologia che consentirà di verificare se i pedoni che hanno chiesto di passare, premendo un bottone, non abbiano cambiato strada nel frattempo.

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Ambiente e Benessere

La quasi libertà degli animali in gabbia Gite fuoricasa Lo zoo di Zurigo offre una varietà incredibile di ambienti, in cui vedere da vicino

oltre quattrocento specie animali di ogni continente

Elia Stampanoni Siamo a pochi passi dal centro di Zurigo, sulla collina del quartiere di Fluntern, il capolinea del tram numero 6 che, a chi ha vissuto nella città sulla Limmat, può rievocare molti ricordi. Le case e le costruzioni lasciano gradualmente spazio al bosco e alla natura, ma pure a molti animali. Non solo alla selvaggina e alle specie autoctone che vagano liberamente nella campana zurighese, ma pure a 404 specie animali (stato al 31.12.2013) provenienti da tutti i continenti e che vivono entro i recinti delle zoo di Zurigo. Il loro territorio è disperso su una superficie di circa 27 ettari, ossia quasi 60 campi da calcio. Diciamolo subito: le gabbie, le ramine e le recinzioni ci sono, ma visitando lo zoo, che si trasforma sempre più in parco, emerge subito un aspetto positivo. Molti dei quasi 4mila animali beneficiano di ampi spazi, dove vivere e trascorre le giornate in un modo che maggiormente si avvicina alle loro abitudini. Dimentichiamo le piccole gabbie in cemento dove le bestie attendono unicamente i pasti o qualche bocconcino gettato lì dai visitatori. La concezione moderna di queste strutture, e non solo di quella zurighese, è diversa. Certo la tigre della Siberia non potrà mai vivere come in natura, ma perlomeno la residenza elvetica gli

dà spazio per passeggiare, correre, arrampicarsi o nascondersi. Discorso analogo per il leone indiano, l’orso dagli occhiali o il lupo della Mongolia, che difficilmente possono trovare delle estensioni abbastanza grandi per espletare tutte le proprie necessità comportamentali. Comunque, a Zurigo, non sembra che siano «in cattività», ma più che altro in una condizione limitata con qualche alternativa. Più facile allestire le aree idonee a quegli animali più piccoli che, visto la loro mole, sono meno esigenti in termini di metri quadrati. Ne è un esempio l’isola di Pantanal, una zona creata all’interno del parco, dove diverse scimmie (ma non solo), possono girare quasi liberamente, saltando da un ramo all’altro sopra le teste dei visitatori increduli. Lo zoo, fondato nel 1929 come cooperativa (e dal 1999 Zoo Zürich Ag), è diviso per grandi regioni, nelle quali ogni animale trova un habitat che cerca di avvicinarsi il più possibile alle condizioni naturali. Troviamo per esempio ricostruzioni di savane e praterie, deserti e steppe, litorali marini, alta montagna, foreste umide montane, zone monsoniche dell’Asia oppure la foresta pluviale e tropicale. Quest’ultima, ricreata nell’area del Masoala, è una vera perla dello zoo zurighese e si estende su una superficie di 11 mila metri quadri. Grazie a un tetto permeabile alla luce,

Un gruppo di fenicotteri rosa. (Elia Stampanoni)

all’interno della struttura alta 30 metri e inaugurata nel 2003, si garantisce una temperatura tra i 20 e 30 gradi centigradi, con un’umidità di circa l’80 per cento. Grazie alle precipitazioni artificiali, che raggiungono gli 80mila litri al giorno, si crea questo clima particolare dove proliferano alcune centinaia di specie vegetali e circa 60 specie animali tipiche del Madagascar. Ciò che sorprende del Madagascar, isola dell’Oceano indiano al largo della costa orientale dell’Africa e di fronte al Mozambico, non è solo la straordinaria varietà di specie, ma soprattutto l’assenza di specie assai diffuse altrove. Mancano per esempio i grandi animali africani come elefanti, antilopi, giraffe o i felini. Inutile cercare scimmie antropomorfe, picchi e serpenti velenosi. In Madagascar, e quindi anche nel Masoala di Zurigo, la natura ha trovato un equilibrio del tutto diverso. L’isola è famosa per lemuri e proscimmie, ma anche per le oltre 150 specie di rane, 53 di camaleonti, oltre 250 di uccelli e 32 di tenrec (mammiferi simili a un riccio). La foresta pluviale, dove i visitatori possono avere un assaggio di Masoala camminando lungo i sentieri segnalati, è anche il fulcro della strategia di salvaguardia promossa dallo zoo che, con questo progetto, vuole mostrare le cause della scomparsa delle foreste, ma anche illustrare i progetti in grado di salvarle. Grazie a donazioni dirette, lo zoo contribuisce ai costi necessari per la conservazione a lungo termine del Parco Nazionale Masoala nel Madagascar. In quest’ottica rientra pure il supporto di Migros, uno degli sponsor principali dello zoo. Ogni anno, in maggio, Migros offre ai giovani visitatori una giornata d’intrattenimento con attività, giochi e un ricco programma didattico. Il nuovo parco degli elefanti Kaeng Krachan (deve il suo nome all’omonimo parco nazionale in Thailandia, dove lo zoo di Zurigo sostiene un progetto per la tutela degli elefanti asiatici) è invece stato aperto al pubblico nel giugno di quest’anno (2014). Su 11 mila metri

Uno scorcio della riproduzione dei monti africani del Semien. (Elia Stampanoni)

quadrati i pachidermi sono più liberi di muoversi, di intrecciare contatti sociali e persino di nuotare, mentre i visitatori possono avvicinarsi e osservare i possenti animali da molto vicino. Grazie a uno speciale schermo trasparente è addirittura possibile guardarli mentre nuotano. Gli elefanti si bagnano per regolare la temperatura corporea, per curare la pelle o, durante le migrazioni (qui decisamente limitate), quando devono attraversare i corsi d’acqua. La tettoia di 6800 metri quadrati, concepita come un’enorme ciotola di legno leggermente ricurva, presenta una struttura trasparente che rimanda

alla foresta e dalle 271 finestre penetra la luce naturale, riproducendo una vaga sensazione di naturalezza. Essendo un centro di tutela ambientale, lo zoo punta molto sulla salvaguardia degli ecosistemi e la tutela delle specie, investendo molto in progetti diversi in tutto il Globo. La prossima novità è prevista per il 2015, quando verrà inaugurata la steppa della Mongolia, mentre per il 2020 è già in agenda l’apertura di un’ampia savana. Informazioni

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Ambiente e Benessere

Sotto lo stesso tetto Mondoanimale Poche ma precise le regole di convivenza fra bambini (o nuovi cuccioli) e animali

Maria Grazia Buletti Un nuovo arrivo in casa può rivoluzionare le abitudini di tutti, animali compresi. Che si tratti di un nuovo cane o di un neonato, vale la pena di chiedersi come reagirà il nostro famigliare a quattro zampe che, fino a quel momento, era in un preciso punto della scala gerarchica. Di fatto, quello che noi consideriamo un «lieto evento», per i cani o i gatti di casa può essere uno stravolgimento delle proprie abitudini rassicuranti. Che si tratti di un neonato o di un nuovo cucciolo, non fa molta differenza.

Una new entry è a tutti gli effetti un nuovo elemento nel branco e porta un carico di odori mai sentiti Lo descrive bene Jsabel Balestra, vice presidente della Federazione cinofila ticinese (Fcti): «Una new entry è a tutti gli effetti un nuovo elemento nel branco e porta un carico di odori mai sentiti. L’animale di famiglia potrebbe reagire con aggressività o palesare gelosie, ma anche indifferenza». Pensiamo dapprima all’arrivo di un bambino: oltre al suo odore, poiché umano, si aggiungono quelli di creme, oli, pannolini. Un vero e proprio nuovo universo olfattivo per il nostro amico a quattro zampe!

Per non parlare dei nuovi orari, delle regole da seguire e del carico sonoro dovuto a vocalizzi, pianti e gridolini. Tutto questo va a oscurare quello che fino a quel momento era il mondo costruito e conosciuto nella relazione del cane già presente in casa: «Soprattutto se si tratta dell’arrivo di un nuovo cucciolo, il nostro coinquilino potrebbe voler difendere il suo territorio, magari non subito, ma quando il nuovo ospite avrà raggiunto la maturità sessuale». L’arrivo di un bambino invece cambia i tempi, ma non il concetto, perché se nei primi mesi di vita l’interazione fra il cane e il neonato sarà piuttosto limitata, con il tempo il bambino inizierà a scoprire il mondo, e l’animale di casa potrebbe diventare bersaglio della sua innata curiosità. Anche qui, per analogia, se da un lato il bambino vorrebbe assaggiare le orecchie del cane, come pure la sua pappa e giocare con i suoi giochi, altrettanto sarebbe portato a fare un cucciolo di cane: «Attenzione allora al veterano di famiglia: dobbiamo tener conto che esso potrebbe difendere il proprio giaciglio, le ciotole, i suoi giocattoli e il suo stato di animale unico nella gerarchia famigliare». Jsabel consiglia perciò di rispettare i bisogni del cane già presente in casa e soprattutto di farli rispettare anche dal nuovo cane. Aggiungiamo che questo vale anche per il bambino che cresce, al quale dobbiamo insegnare il rispetto dei propri e degli spazi altrui, così come pure della natura dell’animale che già

vive in casa e che non bisogna scambiare per un giocattolo o un peluche. Ricordiamoci pure di non far mancare le attenzioni che abbiamo sempre riservato al cane già presente in casa e che il nostro piccolo bipede non lo stressi. Leggermente diverso lo scenario opposto: l’adozione di un cane dopo

conviene acquistarne al minimo una coppia, come d’altronde riporta la legge sulla protezione degli animali OPAn». In merito al regolamento ticinese per i cani, che stabilisce regole e condizioni particolari per 30 razze e i loro incroci, Jsabel ricorda che prima di sceglierne uno bisogna informarsi bene su diritti e doveri che abbiamo nei confronti della legislazione in vigore: «Bisogna inoltre sapere che è obbligatorio frequentare un corso teori-

co, qualora non si abbia mai avuto un cane prima, e il corso pratico per tutti: dal Chihuahua all’Alano compreso». Si possono trovare i nominativi degli istruttori riconosciuti per la frequentazione dei corsi sul sito dell’Ufficio federale della sicurezza alimentare e veterinaria (Usav, www.blv.admin. ch/index.html?lang=it). La Federazione cinofila ticinese può essere un punto di riferimento per ogni ulteriore informazione: www.fcti.ch

Il nostro cane potrebbe diventare bersaglio dell’innata curiosità dei bambini. (Gmip)

Regali di Natale «Mai, mai e poi mai: un animale non è e non deve essere un regalo da mettere sotto l’albero di Natale!», perentoria nell’esprimerlo, Jsabel Balestra ricorda che adottare un animale, cane, gatto, criceto, porcellino d’India, furetto, pesciolino o altri, deve essere una scelta consapevole fatta con molta ponderazione: «E poiché la maggior parte di essi, come criceti e porcellini d’India, ad esempio, sono animali che vivono in gruppo,

l’arrivo di un bebé è una scelta sana e forse meno laboriosa, anche perché tutti oramai riconosciamo l’importanza della presenza di un compagno a quattro zampe, dotato sovente di buon carattere, per la crescita e l’apprendimento di un bambino. L’animale sarà in grado di creare stimoli e accrescere nel bambino il senso di responsabilità e sicurezza, inoltre può diventare certamente il suo migliore amico, sempre sotto l’occhio vigile dei genitori. Secondo la nostra interlocutrice, non vi sono razze più indicate di altre: «Ho appena saputo di un Bovaro bernese che ha aggredito una bambina ferendola in viso, ma è chiaro che il morso di un Chihuahua può essere molto meno grave di quello di un molossoide o cane da pastore, che hanno bocca e forza mascellare più grandi». Jsabel non dimentica di sottolineare che la maggior parte degli incidenti avviene con il cane di famiglia, perché il bambino non lo lascia in pace: «Ai genitori il compito di insegnarli che il

cane si deve lasciare stare quando riposa, che non gli si tirano le orecchie, che non si gioca con la sua coda…». I video che girano sui social network non aiutano in questo compito: «Si vedono bambini che si buttano letteralmente sui cani e i genitori, incoscienti, ridono e si divertono, mentre si vede chiaramente che il cane non gradisce un tale comportamento del bambino. Quando si arriva al morso, la colpa è imputata sempre al cane che diventa “cattivo” solo per aver espresso il proprio disagio in modo chiaro, ma non compreso da proprietari ignoranti». È perciò importante ricordare che sono necessarie regole chiare per entrambi: «E soprattutto farle rispettare! Il cane è un animale e l’unico modo che ha per difendersi può essere il morso, soprattutto se il suo linguaggio e i suoi avvertimenti che lo precedono non vengono compresi dall’essere umano». Superfluo, o forse no, ricordare infine che i bambini non vanno mai lasciati da soli con un cane, nemmeno quello di famiglia. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere Cucina di Stagione La ricetta della settimana

Pollo laccato con ripieno di pane e coriandolo Piatto principale Ingredienti per 4 persone: 1 pollo di 1,2 kg · sale, pepe · 100 g di pane bianco · 30 g di zenzero · 1 mazzetto di coriandolo · 3 cucchiai di burro · 1 testa d’aglio · 1 peperoncino · 3 cucchiai di miele liquido, ad esempio di acacia · 1 cucchiaio di salsa di soia · 4 anici stellati · 2 bastoncini di cannella · 3 dl di fondo di pollame. 1. Scaldate il forno a 200 °C. Sciacquate bene il pollo con acqua fredda dentro e fuori e asciugatelo. Conditelo bene con sale e pepe. Tagliate il pane a dadini. Tritate lo zenzero e il coriandolo. Fate soffriggere il pane, lo zenzero e il coriandolo nel burro per circa 2 minuti. Condite con sale e pepe, quindi riempite il pollo. Tagliate la testa d’aglio e il peperoncino a metà. Mescolate il miele e la salsa di soia. 2. Accomodate il pollo, il peperoncino, la testa d’aglio, l’anice e la cannella in una brasiera. Ungete il pollo con la marinata al miele. Rosolatelo al centro del forno per 20 minuti. Abbassate la temperatura a 160 °C. Aggiungete il fondo di pollame e continuate la cottura per circa 60 minuti. Di tanto in tanto ungete il pollo con il sugo formatosi nella brasiera. Prima di servire, tagliate a pezzi il pollo e accomodatelo nei piatti con la salsa e il ripieno.

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Ambiente e Benessere

Autunno infuocato Mondoverde Ultimi momenti per ammirare

i colori vivaci della Parrotia persica

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Anita Negretti Sarà colpa dell’estate mancata di quest’anno, ma in compenso la parte finale di quest’autunno ci sta regalando qualche giornata splendida, con un sole ancora caldo e un cielo terso, l’ideale per trascorrere ancora un po’ di tempo in giardino senza soffrire il freddo, anzi magari facendoci baciare da qualche raggio di sole di quelli persi nei mesi precedenti. Se molte piante tra poco andranno a riposo, altre si sono vestite con il loro miglior abito, proprio come nelle grandi occasioni, regalandoci colori e sfumature mozzafiato, come accade per la Parrotia persica, nota ai più come parrozia. Si presenta come una splendida pianta arbustiva (va potata con vigore i primi anni se la si vuole coltivare ad albero) e appartiene alla famiglia delle Hamamelidacee. Originaria dell’Iran settentrionale, è molto apprezzata alle nostre latitudini sia per la resistenza alle basse temperature, sia per la colorazione particolare che assume durante la stagione autunnale. Raggiunge solitamente i sei metri d’altezza, anche se nel Paese d’origine molti esemplari arrivano facilmente a dieci metri, con una chioma fitta e complessa di 6-7 metri, mentre se coltivata in vaso mantiene dimensioni contenute. La corteccia, decorativa quando la pianta è ormai adulta, si sfoglia sollevandosi in piccole placche, come succede nei platani. Ma l’aspetto più caratteristico è dato dalle foglie: ovali e leggermente dentate, verdi dalla loro comparsa primaverile fino all’estate, in autunno raggiungono il meglio della loro bellezza, passando dal violaceo allo scarlatto, dal giallo all’arancio al rosso. Ogni pianta però muta il colore delle foglie in base al suolo in cui viene messa a dimora: infatti il pH del terreno influisce notevolmente sulla tinta delle foglie, con colori rosso acceso in terre acide, mentre in presenza di suoli alcalini si otterranno colorazioni arancio.

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Rustica e resistente alle basse temperature (resiste fino ai –30°C), con il rischio però, in caso di gelate prolungate, di veder compromessa la comparsa dei boccioli fiorali, i quali si schiudono sul finire dell’inverno. Non troppo appariscenti, i fiori della parrozia si aprono prima dell’arrivo delle foglie, in febbraio, e sono riuniti in densi mazzetti. Senza petali, sono formati da soli stami rosa acceso e rosso corallo, circondati da brattee fuori marrone scuro e all’interno verdi. I frutti, solitamente in numero esiguo, sono delle capsule marroni lunghe circa un centimetro, contenenti semi dalla lunga germinazione: necessitano di ben 18 mesi prima di far capolino dalla terra. La Parrotia persica predilige l’esposizione in una zona luminosa o semi-ombreggiata del giardino, in modo che i raggi diretti del sole la possano colpire per diverse ore nel corso della giornata. Per quanto riguarda il terreno, questa bella pianta ama quelli fertili, umidi ma ben drenati, non sopportando assolutamente i ristagni idrici; mentre per la concimazione si consiglia di spargere sul terreno del letame maturo oppure in inverno un po’ di cornunghia o di farina d’ossa con un quantitativo di 50 grammi al metro quadrato per darle vigore in primavera. Come accennato prima, per allevarla come albero e non come cespuglio, si deve intervenire sulla pianta giovane, dove per i primi 4 o 5 anni si potano i rami laterali di quasi la metà, tenendo il ramo centrale come punto di riferimento per lo sviluppo. Un’altra soluzione per avere una parrozia in giardino dallo sviluppo non troppo vigoroso, è data dall’acquisto della varietà a forma fastigiata di Parrotia persica Vanessa: ha un fogliame molto simile alla specie madre, le stesse caratteristiche di rusticità, ma il suo portamento è a piramide, quasi a colonna, e le piante più grandi, alte 5-6 metri hanno un diametro della chioma che non supera il metro e mezzo e un aspetto molto elegante.

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Ambiente e Benessere

M Grand Prix Migros 2015 Sci Giovani sciatori: preparatevi! Le iscrizioni per la tappa di Airolo

del prossimo 15 febbraio sono aperte Renato Facchetti La stagione di Coppa del Mondo di sci è partita con l’esordio sul ghiacciaio di Sölden, seguito dalla trasferta in Finlandia e dalle recenti gare in nord America. In attesa delle prime «classiche» dell’arco Alpino, è il momento anche in Ticino di prepararsi per la stagione invernale. Le nevicate di metà novembre hanno già permesso di praticare le discipline di scivolamento sulla neve a due passi da casa. Fra le stazioni sciistiche ticinesi che hanno anticipato l’apertura della stagione, anche gli impianti di risalita di Airolo che, domenica 15 febbraio 2015, ospiteranno l’unica tappa al sud delle Alpi del Grand Prix Migros: la serie di gare a livello nazionale di Swiss-Ski che rappresentano la più grande competizione di sci alpino d’Europa dedicata ai bambini e ai ra-

Calendario 2015 Gennaio 4 11 17 18 25

Crans Montana Sörenberg Les Diablerets Schönried Riederalp

Febbraio 1 7 15 21

Grindelwald|Wengen Obersaxen Airolo Stoos

Marzo 1 8 15 21 28-29

Adelboden Wildhaus Lenzerheide Nendaz Finale a Les Crosets

wwww. ww Giovane concorrente in azione. (Swss-Ski)

gazzi. L’edizione 2014 ha registrato complessivamente la partecipazione di oltre 7mila appassionati. I giovani sciatori e le giovani sciatrici, con età compresa tra 8 e 16 anni, potranno sfrecciare tra le porte e sfidarsi con i propri coetanei. Per i bambini di 6-7 anni sarà invece nuovamente proposta la Minirace in cui, senza l’assillo del cronometro, potranno respirare l’atmosfera di un’importante manifestazione sciistica su percorsi più facili e sfoggiare le prime medaglie al collo. Spetterà nuovamente allo Sci Club Airolo l’onere e l’onore di organizzare questa manifestazione sotto il patrocinio di Swiss-Ski. Il debutto stagionale del Grand Prix Migros 2015 avverrà il 4 gennaio a Crans Montana. Successivamente, settimana dopo settimana, si svolgeranno le 13 gare di qualificazione in ogni angolo della Svizzera. I migliori tre di ogni categoria, di tutti gli appuntamenti in calendario, si qualificheranno automaticamente per il

gran finale di stagione, dal 27 al 29 marzo a Les Crosets. Non solo competizioni e confronti, ma soprattutto tanto divertimento presso il villaggio degli sponsor nell’area dell’arrivo; una moltitudine di giochi e concorsi e tanti omaggi per tutti. Grazie agli sforzi di Swiss-Ski e degli sponsor, la tassa d’iscrizione rimane fissata a soli 20.– franchi, e dà diritto oltre che a partecipare alla competizione, anche a confrontarsi con la fortuna nell’ambito di concorsi con in palio ricchi premi, il sempre apprezzato regalo ricordo, un buono pasto e la carta giornaliera a prezzo ridotto. Ad Airolo Pesciüm, in occasione della passata edizione, furono oltre 500 i giovanissimi sciatori giunti sia dalla Svizzera italiana sia da oltre Gottardo e dai Grigioni per cimentarsi sui tracciati delle varie categorie. Nelle maggiori filiali Migros e in particolare presso gli SportXX Migros di S. Antonino e Serfontana, sono disponibili gli stampati infor-

Nella foto sopra la partenza della Minirace. Sotto, divertimento al villaggio sponsor. (Mario Curti)

mativi di questa manifestazione le cui iscrizioni sono possibili da subito sul il sito: www.gp-migros.ch. Inoltre, invitiamo tutte le famiglie ticinesi che amano praticare lo sci a dare una sbirciata al sito: www.famigros-ski-day.ch per conoscere tutti i dettagli della favolosa iniziativa che offre giornate sugli sci a soli 85.– franchi (compresi: giornaliera, pranzo,

iscrizione gara amatoriale, medaglia e regalo sorpresa). In Ticino l’appuntamento è fissato per domenica 8 marzo sulle nevi di Bosco Gurin.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 9 dicembre 2014 ¶ N. 50

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Ambiente e Benessere

Lacrime e pasticcini: la Davis ti prende alla gola Sportivamente Due o tre cose ancora sullo storico trionfo della Svizzera in quello che si definisce anche

il Campionato del mondo di tennis Alcide Bernasconi Lacrime calde. Quella domenica pomeriggio Michelle piangeva senza sosta. Un filo di rimmel sotto gli occhi scorreva lungo le guance, mentre la padrona di casa abbracciava uno dopo l’altro i membri del suo fans club, quello dedicato a Roger Federer. Grazie al successo del basilese nella terza partita, la Svizzera aveva conquistato la sua prima, sospiratissima Coppa Davis battendo con estrema sicurezza e disinvoltura il malcapitato Richard Guasquet. Col successo nel primo singolare della giornata d’apertura a Lilla, in uno stadio di calcio trasformato per la bisogna – con uno strato di terra rossa che avrebbe dovuto favorire i padroni di casa francesi – il solido Stan Wawrinka aveva invece lanciato nel miglior modo la finale a favore dei rossocrociati (6-1, 3-6, 6-3, 6-2). I transalpini non se lo attendevano così, questo numero due rossocrociato, e Gaël Monfils era dunque costretto a cavare dal suo cilindro i colpi migliori e servizi precisi, al fulmicotone per rimettere le cose a posto. Chissà se Roger Federer aveva risolto il suo problema con la schiena? Il secco 1-6, 4-6, 3-6 era un risultato che apparentemente non lasciava dubbi, mettendo in evidenza i problemi dell’asso mondiale. Ma non era stata la schiena a frenare il basilese, bensì un campo con il quale non era ancora entrato in confidenza. «Le cose vanno meglio – disse Roger, sorprendendo tutti – e domani vinceremo il doppio. La schiena non mi duole più e ora so come muovermi su questa terra battuta». Parole inutili per l’inconsolabile Michelle. In quell’occasione la presidentessa del club di Via Collinetta non piangeva di gioia. Le sue erano lacrime

amare, il pianto, un singhiozzo che aveva preoccupato non poco Bello, il suo Labrador. Di rimmel neppure la traccia, cancellato dal volto con un fazzolettino, sin dal primo terrificante set. «La schiena e Marika», rifletteva Michelle, ma si guardava bene dall’esternare questo pensiero, che la tormentava sin da quell’infelice battuta della moglie del campione dei campioni. Quella detta durante la finale del Masters di Londra, disputato fra suo marito e Stan, sarebbe stato giudicato un paio di settimane dopo da una giuria quale match più avvincente della stagione. «Cry , baby, cry», aveva gridato Marika all’indirizzo di Stan che stava gettando via un successo ormai alla sua portata, sprecando ben quattro match ball. Wawrinka aveva frenato in tempo uno scatto d’ira rivolto alla spettatrice che aveva ben riconosciuto, anche grazie al pronto intervento del giudice arbitro («Calmo, Stan. Stai calmo»), sceso precipitevolissimevolmente dalla sua «torretta» per dare maggior peso alle sue parole. Per fortuna le cose si sono poi risolte, grazie anche alla diplomazia – dicono – di Federer e al fatto che entrambi sapevano di trovarsi a portata di mano l’insalatiera più ambita nel mondo dello sport. L’intesa tra i due sarebbe stata perfetta. Stan aveva portato la borsa di Roger negli spogliatoi dopo la sconfitta, pensando alla schiena del compagno. Donna Michelle, intanto, si era aggrappata, lasciando correre le lacrime in modo poco presidenziale, sulle mie spalle, doloranti per altri motivi, diciamo anagrafici. Per calmarla dissi esattamente l’opposto di ciò che pensavo. «Domani si vince il doppio e tutto si deciderà comunque nell’ultima giornata». Mentre lanciavo un’occhiata al grande tavolo coi pasticcini neppure

Federer e Wawrinka si dividono i meriti confermando reciproco rispetto e amicizia. (Keystone)

sfiorati dagli ospiti, i quali, senza pudore, se n’erano andati alla chetichella, scusandosi poiché avevano ancora mille impegni (tutti inventati lì per lì) da sbrigare, Michelle aveva deciso che le mie argomentazioni fossero buone. In realtà anch’io mentivo. Infatti, ero convinto che i francesi avrebbero fatto un sol boccone dei nostri nel doppio, dato che Roger e Stan non avevano più trovato l’intesa che li portò al trionfo ai Giochi di Pechino. E ancora, sempre abbracciato da Michelle, che ormai non mi mollava più, mi accorsi con uno sguardo… panoramico oltre la sua spalla, che i fans avevano fatto onore quasi soltanto alle bottiglie di bianco. «Senti, Michelle, domani Federer si riposa e lo vedrai in gran forma contro Tsonga, mentre Stan lo vendicherà affrontando Monfils. A questo punto i nostri due campioni non possono più sbagliare». Per l’ennesima volta avevo dimostrato di non capire molto di tennis, né di strategie, né di Federer che pure

ritenevo di conoscere perfettamente. Al contrario, l’uomo, il campione vero che egli è, ha stupito tutti. Dapprima ha convinto Stan che solo loro due potevano vincere il doppio e che questo era il loro dovere. Nel giro di ventiquattro ore i due sono diventati gli eroi di tutta una nazione imponendosi nel doppio contro Benneteau-Gasquet per 6-3, 7-5, 6-4. Quel sabato i pasticcini e le bottiglie di bianco e di rosso rischiavano di non bastare se i fans non si fossero presentati in villa appena dopo il pranzo. Stavolta gli occhi di Michelle erano bellissimi e mi lanciavano occhiate che temevo potessero essere male interpretate dagli astanti, non già dalla governante Victoria per la quale erano ormai una cosa scontata. Quanto a me, non m’azzardavo a chiedere nulla dell’ex presidente, marito di Michelle, sempre in viaggio, forse anche lui come migliaia di svizzeri a Lilla. Michelle era felice. Io, invece, un po’ meno: quel lungo abbraccio del «venerdì nero» di Roger era stata tutt’altra cosa

rispetto ai piccoli baci distribuiti sui volti sorridenti dei membri del nostro fans club, quasi in fila indiana per quello scambio di «smack-smack». E venne la domenica del trionfo. Ancora Roger, intrattabile, che piega il povero Richard Gasquet, sostituto dell’abbacchiato Tsonga (6-4, 6-2, 6-2) nel quarto match. La finale si chiude lì, alle tre del pomeriggio e i francesi accettano sportivamente il verdetto del campo davanti a oltre 27 mila spettatori, come nelle prime due giornate. Un cronista transalpino commenta la resa con una battuta: «Almeno la Coppa Davis rimane nella Francofonia…» Piangeva con ritegno Federer, l’unico della squadra con gli occhi lucidi alla premiazione. Era lui, per Michelle, il grande eroe. Io propendevo per Stan Wawrinka, pur di fronte a un magistrale Roger, intoccabile nelle due ultime giornate, come Stan lo era stato nelle prime due. Attorno a loro una squadra diretta da capitan Lüthi, con Marco Chiudinelli e Michael Lammer che hanno fatto la loro parte nel cammino di quest’avventura agevolata da alcune rinunce, come quella del serbo Djokovic. Così sono rimasto in villa fin che tutti non se n’erano andati, con i soliti convenevoli: «Ciao, e alla prossima». Michelle aveva deciso di riabbracciarmi, sfinita, mentre Victoria, senza perdere tempo, rigovernava in sala e mi consegnava una bottiglia di buon Merlot: «Prendila tu, te la sei meritata», mi disse accomiatandosi. Io non me la sentivo proprio di andarmene così, con due parole di ringraziamento, come gli altri. Sarebbe stato banale dopo questo storico successo. Allora, semplicemente, strinsi più forte la presidentessa, dedicando anche un paio di carezze a Bello, il fedele Labrador.

Giochi Cruciverba Trova il proverbio nascosto, risolvendo il cruciverba e leggendo nelle caselle evidenziate (Frasi: 4, 6, 2, 4, 11)

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33. Hanno detto il fatidico sì 34. Nel bel mezzo di aprile 36. Le iniziali di Arbore 37. Vezzo infantile 38. Pronome indefinito 40. Insenature della costa 41. Scopo, obiettivo VERTICALI 1. Ha l’oro in bocca 2. Rendono abitabile e confortevole la casa 3. Traslocare in centro 4. La fine degli inglesi 5. Ostenta atteggiamenti aristocratici 6. Sono uguali nell’insieme 7. Stato europeo 8. Inconsueto 9. Così si chiamava Tokyo

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Sudoku Livello medio Scopo del gioco

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ORIZZONTALI 1. Stato federale dell’Asia sudorientale 7. Impasto ceramico 11. Fratello di Mosè 12. Il terzo, si fa per sapere... 13. Un terzo di trenta 14. Precede il re 15. Residuo della coagulazione 16. Il nome di Teocoli 18. Altro nome del lago di Garda 21. Usato per evitare ripetizioni 23. Privi di disturbi 24. Nella botte e nel bicchiere 25. La risposta dell’indeciso 26. Figlio di Caino 28. Il soggiorno dei morti nella Bibbia 30. Stato federato degli U.S.A. 32. In un ballo è in coppia con tap

8

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36

Completare lo schema classico (81 caselle, 9 blocchi, 9 righe per 9 colonne) in modo che ogni colonna, ogni riga e ogni blocco contengano tutti i numeri da 1 a 9, nessuno escluso e senza ripetizioni.

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10. Sono senza cuore 12. Il Burrasca di un famoso giornalino 15. Uno spuntino inglese 17. Di nove vocali 19. Eccessivi, sproporzionati 20. Favo 22. Un frutto 24. Capitale del Libano 27. Si occupa di ricerca aerospaziale. Sigla 29. Pari nell’udito 30. Toro sacro agli egizi 31. Roberto scrittore e giornalista argentino 33. Suo a Parigi 35. Andate alla latina 37. Equivale a però 38. Rendono parenti i preti 39. Simbolo chimico del radon

Soluzione della settimana precedente

Gli indovinelli – Ho tre occhi e una sola gamba se non mi ubbidisci te ne pentirai: «il semaforo». Se mi hai, vuoi condividermi se lo fai, mi perdi: «il segreto».

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Politica e Economia La guerra del petrolio Chi sono i vincitori e i perdenti della rivoluzione energetica?

Mosca si prepara alla sfida La decisione di non tagliare la produzione del petrolio e di non ostacolarne la caduta dei prezzi colpisce Mosca molto di più delle sanzioni occidentali

Storie del narcotraffico Seconda puntata su un ex giudice venezuelano approdato con i suoi dollari a Miami:

Questioni fiscali Riflessioni attorno alla tassazione forfettaria e all’imposta federale diretta all’indomani del voto del 30 novembre pagina 34

pagina 31

pagina 29

AFP

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La maledizione di George W. Bush Afghanistan e Iraq Barack Obama si ritrova suo malgrado a ripercorrere i sentieri di guerra del suo precedessore.

Paradossalmente è la sua debolezza politica a ridargli forza sulla scena globale Lucio Caracciolo Chiamatela, se volete, la maledizione di George W. Fatto è che il suo successore, eletto anche per emancipare gli Stati Uniti d’America dalle ingloriose campagne militari in Iraq e in Afghanistan, si trova oggi a ripercorrerne i sentieri di guerra. Prima la sfida del «califfo», che ha riportato da settembre aerei americani a bombardare bersagli iracheni (e siriani) afferibili allo Stato Islamico. Subito dopo (novembre), l’annuncio che un corposo contingente di truppe da combattimento a stelle e strisce resterà in Afghanistan a tempo indeterminato. Il termine del dicembre 2014, più volte confermato dalla Casa Bianca, è improvvisamente saltato. La parola di Obama, una volta di più, si rivela poco credibile. Il leader che appena eletto fu insignito del Premio Nobel per la Pace

– un premio alle intenzioni, si disse – è oggi il comandante in capo di un esercito tuttora attivo nei teatri principali della «guerra al terrorismo» scatenata da Bush figlio dopo l’11 settembre. Come spiegare la retromarcia di un presidente ormai più che dimezzato? Quale legame è tracciabile fra la scelta di reintervenire, sia pure dall’aria, nell’Iraq in decomposizione e il mantenimento di una notevole capacità bellica nell’Afghanistan in perenne caos? A un tentativo di spiegazione contribuiscono motivi interni e internazionali. I primi sono decisivi. Obama ha ormai del tutto perso il controllo del Congresso e ha toccato tassi di impopolarità in casa propria paragonabili a quelli delle più sfortunate «anatre zoppe» – i presidenti in scadenza di secondo mandato senza più sostegno parlamentare e popolare – della sto-

ria nazionale. Questa straordinaria debolezza lo rende paradossalmente più attivo, specie sulla scena globale. Proprio perché libero da troppi condizionamenti politici o dalla ricerca della rielezione, può dedicarsi allo scopo principale della sua parabola finale: come passare alla storia? Obama non ha una risposta positiva, forse, ma certamente ne ha una negativa. Non intende essere classificato come il presidente che ha ceduto l’Afghanistan ai talebani e il Siraq – definizione corrente di ciò che resta dei due ex Stati siriano e iracheno, dilaniati dalle guerre civili – al «califfo» al-Baghdadi e alla sua banda di tagliagole. Certo Obama non intende rimettere gli stivali su terra in Mesopotamia. Per questo conta, finora, sui curdi e – estremo paradosso – sui pasdaran iraniani. Nell’attesa probabilmente vana che qualcuno dei

suoi «alleati regionali», come i turchi o i sauditi, decida di sporcarsi le mani combattendo davvero, non solo a parole e un giorno sì l’altro no, lo Stato Islamico che per il Pentagono rappresenta una minaccia strategica peggiore di alQaeda. Lo stesso vale per l’Afghanistan. Lo scopo strategico della guerra afghana era di distruggere quella piattaforma territoriale usata dai terroristi islamici, protetti dai talebani, per colpire l’America. Missione fallita. Se l’ultimo soldato americano sgombrasse oggi quel Paese, il giorno stesso gruppi di talebani e loro alleati ne prenderebbero il controllo almeno parziale. Un’onta insopportabile. L’ammissione di sconfitta nella guerra al terrorismo. Questo non significa che gli americani vinceranno, anzi. Ma almeno il cerino passa al prossimo presidente.

Il nesso fra i due macroscenari – il levantino-mesopotamico e il centroasiatico – è il timore che lo Stato Islamico o suoi emuli si installino contemporaneamente sia in Siraq che in Afghanistan, elevandoli a nucleo centrale di una rete terroristica contro i «crociati» occidentali. Ipotesi forse estrema, ma che nessuno fra i decisori americani considera impossibile, meno ancora accettabile. Quale potrebbe essere allora lo scenario positivo che permetterebbe a Obama di essere ricordato come qualcosa di meno di un totale disastro sulla scena geopolitica? L’umiliazione della Russia di Putin, forse. Ma questa è un’altra storia. Peccato però che per battere i terroristi islamici Obama di Putin avrebbe gran bisogno. La coerenza strategica, si sa, non è mai stata il suo forte.


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Politica e Economia

Un mondo alla rovescia La guerra del petrolio I padroni di una volta sono in ritirata, l’Opec non conta quasi più niente. Questa nuova

e turbolenta fase energetico-strategica vede indeboliti gli avversari dell’America, dall’Arabia Saudita alla Russia

Federico Rampini «L’Arabia Saudita sta rovinando deliberatamente Mosca, proprio come fece nel 1985». Sul «Washington Post», Charles Lane rievoca con queste parole l’analisi del defunto Yegor Gaidar, l’economista russo che fu consigliere di Boris Yeltsin. Gaidar sosteneva che il crollo dell’Unione sovietica fu determinato prevalentemente dalla caduta del prezzo del petrolio, frutto di una decisione saudita del 1985 per «castigare» l’invasione sovietica dell’Afghanistan. Nel 2007, poco prima di morire, Gaidar scrisse un saggio per dimostrare che la mossa saudita del settembre 1985 (un aumento della produzione di greggio) costò all’Urss 20 miliardi di dollari all’anno, «entrate senza le quali l’Unione sovietica non poteva semplicemente sopravvivere». Il seguito è noto: in effetti l’Urss si sgretolò, in una catena di eventi dipanatisi tra il 1989 e il 1991. Sotto il peso della sua inefficienza economica interna, della «perestrojka» di Mikhail Gorbaciov, delle spinte etniche centrifughe, delle mobilitazioni democratiche in Polonia ed altri paesi dell’Est. Tra i responsabili di quella dissoluzione dell’Urss sono stati additati di volta in volta Ronald Reagan e papa Wojtyla. Ma il ruolo della monarchia saudita non andrebbe sottovalutato. Gaidar era convinto che i sauditi avessero spinto deliberatamente il prezzo del greggio a un livello tale da rovinare le finanze di Mosca, che già allora dipendevano in modo decisivo dall’export energetico. (Poi la storia ha riservato altri scherzi visto che dall’Arabia Saudita partì un certo Osama Bin Laden, prima per combattere l’armata sovietica a fianco dei talebani armati dalla Cia in Afghanistan…)

Non vanno sottovalutati il ruolo della monarchia saudita e le teorie di un patto Washington-Riyad in chiave anti-russa Oggi alcuni esperti americani si chiedono se Vladimir Putin non stia per fare una fine analoga. L’economista Martin Feldstein di Harvard s’interroga se il regime di Putin, e altri regimi autoritari dall’Iran al Venezuela, «potranno sopravvivere ad un sostanziale e prolungato declino dei prezzi petroliferi». E sul «Wall Street Journal» ecco l’ultima previsione saudita: un petrolio a 60 dollari il barile. Di che far fallire molti concorrenti, e mettere nei guai seri non solo la Russia ma anche l’Iran. Di qui bisogna partire per capire quel che sta accadendo nel mondo, sotto l’impatto della «deflazione energetica». A che gioco gioca l’Arabia Saudita? Le dietrologie sono state rilanciate dall’ultimo vertice dell’Opec, il cartello dei produttori di petrolio. Quel summit a fine novembre si è risolto con un nulla di fatto. Cioè, niente tagli drastici

alla produzione. Lo status quo significa in realtà un incoraggiamento al ribasso dei prezzi. Solo una forte riduzione dell’estrazione di greggio, infatti, avrebbe potuto frenare la caduta delle quotazioni riequilibrando domanda e offerta. Ma il soggetto decisivo in seno all’Opec è da sempre l’Arabia Saudita, il più grosso produttore. E i sauditi non hanno fretta di bloccare i ribassi del greggio. Perché? In fondo pure loro ne sono danneggiati. Una spiegazione evoca un grande accordo geostrategico fra Washington e Riyad. Con un obiettivo principale: mettere in difficoltà Putin. In effetti le principali vittime di questa caduta del greggio sono la Russia e alcuni suoi amici come l’Iran e il Venezuela, cioè uno dei governi più anti-Usa dell’America Latina. A Washington sono convinti che Mosca abbia sofferto solo moderatamente per le sanzioni varate dall’Occidente dopo l’aggressione all’Ucraina; mentre ben più sostanziale è il danno inflitto all’economia russa dalla caduta delle entrate petrolifere. Il recente accordo Russia-Cina sulle forniture del gas ha solo in parte contenuto i danni; i cinesi non sono ingenui, e conoscendo la debolezza contrattuale di Putin hanno imposto il prezzo a loro più favorevole. Ma perché i sauditi accettano di subire a loro volta un calo delle entrate petrolifere pur di danneggiare Putin? Qui la «teoria del complotto» evoca una serie di contropartite politico-strategiche. Sullo scacchiere mediorientale c’è stato un riavvicinamento tra l’Amministrazione Obama e la monarchia saudita. I rapporti tra Washington e Riyad si erano molto raffreddati all’epoca delle «primavere arabe». Di recente invece americani e sauditi hanno ritrovato molti terreni d’interesse comune, e lo dimostra il ruolo di punta dell’Arabia nella coalizione contro lo Stato Islamico. Inoltre l’Arabia Saudita può avere dei benefici anche sul terreno economico, dal calo del greggio: i suoi giacimenti sono tra i meno costosi da sfruttare, la caduta del prezzo può rallentare l’esplorazione e l’estrazione da giacimenti più profondi e più costosi in altre aree del mondo. Bisogna ricordare una differenza sostanziale tra paesi del Golfo come l’Arabia Saudita, il Kuwait e il Qatar – che hanno piccole popolazioni da mantenere, infrastrutture petrolifere molto moderne, e giacimenti il cui sfruttamento è economico anche a prezzi molto inferiori agli attuali – e paesi come l’Iran che hanno invece una vasta popolazione da mantenere, e un petrolio più caro da estrarre o infrastrutture meno avanzate per sfruttarlo. Tra i sauditi e gli iraniani, va ricordato, si gioca da decenni una partita strategica decisiva, nella loro rivalità per esercitare un’egemonia in Medio Oriente. Il grande sisma energetico ha continuato a colpire ai primi di dicembre con l’annuncio a sorpresa di Putin che ha affondato definitivamente il progetto di gasdotto South Stream. Un’in-

Il ministro del Petrolio dell’Arabia Saudita Ali Ibrahim Al-Naimi. (AFP)

frastruttura gigantesca, un’opera cara a Vladimir Putin, appoggiata a suo tempo dal governo Berlusconi, osteggiato dagli Stati Uniti. Retroscena da ricordare: nello scandalo WikiLeaks, quando Julian Assange divulgò una massa sterminata di cable – comunicazioni interne riservate – tra le ambasciate Usa nel mondo e il Dipartimento di Stato, scoprimmo che l’ambasciata americana in Italia era ossessionata dall’amicizia Berlusconi-Putin e dalle sue ricadute in campo energetico, in particolare sul progetto South Stream. Con l’addio a South Stream, le forniture di gas russo non potranno aggirare l’Ucraina passando dal Mar Nero per raggiungere l’Europa occidentale; Kiev resterà un passaggio obbligato. L’annuncio Putin lo ha dato la scorsa settimana mentre era in visita in Turchia. Il presidente russo ha mostrato irritazione: «Gli europei non vogliono South Stream, e quindi non si farà». È un colpo duro per lui, tutta la strategia russa degli ultimi anni puntava ad accrescere la mono-dipendenza energetica dell’Europa occidentale. Più degli ostacoli antitrust frapposti dalla Commissione di Bruxelles, più ancora delle difficoltà di finanziamento provocate dalle sanzioni occidentali, South Stream non si farà perché appartiene a un’èra che non c’è più. Quella della scarsità, del caro-energia, dei ricatti da parte dei produttori. Putin minimizza la sua disfatta valorizzando i legami con altri clienti: dalla Turchia alla Cina. Ma per vendere il suo gas ai turchi ha già dovuto fargli un ribasso del 6%. È il mondo intero che si sta rovesciando. I padroni dell’energia di una volta sono in ritirata. L’Opec sa di essere ormai un attore piccolo e non determinante: appena un terzo della pro-

duzione mondiale di greggio. Com’è lontana l’epoca dell’embargo, il terribile 1973, quando gli sceicchi scatenarono sull’Occidente l’arma della penuria di benzina: per castigare chi aveva appoggiato Israele nella guerra del Kippur. Fu il primo shock energetico, con ripercussioni a catena, interi settori industriali in crisi (dall’auto all’acciaio), tempeste monetarie, iperinflazione. Oggi siamo in un’altra èra geologica. Golfo Persico e Medio Oriente contano sempre meno. L’America è vicina all’autosufficienza energetica, ha superato la Russia nella produzione di gas e sta per sorpassare l’Arabia in quella di petrolio. È una rivoluzione hi-tech: da una parte ha reso sempre più competitive le energie rinnovabili riducendone i costi; ma dall’altra ha rilanciato in grande l’energia fossile con l’estrazione di shale gas attraverso fracking e trivellazione orizzontale. La Silicon Valley applicata al North Dakota, insomma. Pochi riescono a capire l’immensa portata di questi cambiamenti; nessuno ne sarà immune. C’è la dimensione geopolitica del contro-shock energetico: in questa fase vede indeboliti soprattutto gli avversari dell’America: è quello che alimenta le teorie di un patto Usa-Arabia Saudita. Sta di fatto che le primavere arabe si sono chiuse «simbolicamente» con l’assoluzione di Mubarak, e insieme con esse si è chiusa la parentesi del grande dissidio fra Obama e la monarchia saudita. Back to business: si torna in affari insieme? E tuttavia i sauditi hanno un loro disegno strategico che non combacia in tutto con gli interessi Usa. Nel settore energetico, la caduta dei prezzi può rallentare il boom nello sfruttamento dei «petroli più cari», come sono alcu-

ni giacimenti nordamericani da rocce e sabbie bituminose; la storia degli ultimi anni però insegna che l’evoluzione tecnologica in questo settore ha spesso superato i vincoli dei prezzi. Tra i possibili perdenti nel gioco al ribasso non bisogna dimenticare le rinnovabili: solare ed eolico sono un po’ meno competitivi se l’energia fossile diventa troppo a buon mercato. Nella finanza, regge sempre la regola aurea: petrolio debole uguale dollaro forte. Tra i settori economici: qui in America dove il prezzo del greggio si trasmette subito dal distributore, è una spinta ai consumi perché aumenta il potere d’acquisto delle famiglie. Ci guadagnano anche tutti quei settori che sono forti consumatori di energia, dalle compagnie aeree ai big della logistica (Fedex, Ups), dall’agrobusiness alla chimica. Ma l’analisi del terremoto energetico non può ignorare quel che accade dal lato della domanda. L’eurozona in piena depressione; il Giappone ripiombato nella sua stagnazione secolare; ora la Cina che rallenta vistosamente. È la caduta dei consumi di tutte le materie prime, un effetto e un sintomo di questa glaciazione globale. L’America da sola teme di non riuscire a fare da locomotiva per il resto del mondo. Dalla Cina all’Europa tutti esportano deflazione: il petrolio è diventato vettore di questo contagio. Infine un dato non secondario per i consumatori dell’eurozona. In questa fase il dollaro forte riduce sensibilmente i benefici del calo del petrolio. Poiché il petrolio e le altre materie prime si pagano in dollari, la rivalutazione della moneta americana è una delle ragioni per cui dal distributore di benzina i ribassi non arrivano così generosamente come in America. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

Finisce anche il sogno russo? Guerra del petrolio L’indebolimento dei prezzi dell’oro nero che l’Opec ha deciso di non contrastare mette nei guai

molte economie legate al mercato mondiale degli idrocarburi, Stati Uniti in testa. E colpisce anche la Russia, ben più delle sanzioni occidentali imposte in seguito alla crisi ucraina Astrit Dakli Quando l’ultima riunione dell’Opec, la settimana passata a Vienna, si è chiusa con la decisione di lasciare inalterati i livelli di produzione del greggio e, conseguentemente, di non ostacolare la continua caduta dei prezzi, molti di coloro che in Russia seguono le vicende economiche nazionali devono essersi messi le mani nei capelli. Verrà da qui – si devono esser detti – la botta alla nostra economia che avrebbero voluto darci le sanzioni, e non ci hanno dato. Non si può dar loro torto. È vero infatti che le sanzioni occidentali e le controsanzioni commerciali russe non hanno finora inciso più di tanto sull’insieme dell’economia (caso mai sui modelli di consumo individuali), così come è vero che i previsti, astronomici costi dell’incorporazione della Crimea non si sono ancora visti; ma è vero anche che gli effetti di queste cause si avvertiranno nel tempo e intanto le previsioni sul Pil sono passate da una crescita dell’1,2 per cento a un calo dello 0,8; e con i prezzi del petrolio (e del gas, che a questi è legato da formule fisse) in caduta libera, ormai sotto i 70 dollari a barile contro i 100 e più dell’inverno scorso, e con il budget dello Stato che dipende per quasi la metà proprio dalle vendite di idrocarburi, è chiaro che per il carrozzone russo si prospetta uno scossone tremendo.

Nonostante le perdite Mosca spalleggia Riyad nella guerra dei prezzi lanciata contro lo shale oil Usa che ha rivoluzionato il mercato Le autorità russe, però, non fanno mostra di allarme, anzi. Vladimir Putin ha lanciato un guanto di sfida all’Unione Europea preannunciando la fine del maxiprogetto South Stream, che avrebbe dovuto portare gas russo all’Europa centro-meridionale attraversando il Mar Nero e che Bruxelles ha cercato di avversare in vario modo. «Useremo diversamente il nostro gas», ha detto il signore del Cremlino, rendendo così chiaro che i mercati europei non sono più tanto interessanti per il suo Paese. E su un altro fronte Aleksey Ulyukayev, ministro dello Sviluppo economico, è stato adamantino nel garantire che «la scelta dell’Opec non cambia nulla per noi, il bilancio dello Stato per il 2014 e il 2015 non verrà toccato – anzi è probabile che ci sia un avanzo in più con cui portare avanti ancor meglio i nostri programmi di sviluppo sociale». Questo, secondo lui, perché la contemporanea svalutazione del rublo che la Banca centrale sta portando avanti con gradualità e determinazione ormai da diversi mesi (da maggio la valuta russa ha perso quasi la metà del suo valore contro dollaro ed euro) compensa la caduta dei prezzi: «Il nostro bilancio è in rubli e con la svalutazione le entrate petrolifere restano le stesse». Il che è tecnicamente esatto, anche se non tiene conto del maggior costo di tutto ciò che la Russia acquista all’estero, in termini di prodotti e di tecnologie – il che non è poco, anche se paradossalmente proprio le sanzioni hanno contribuito a ridurre l’import dall’estero e quindi anche a stimolare la produzione nazionale. Come che sia, Mosca sembra fermamente intenzionata, nonostante le perdite, a spalleggiare l’Arabia Saudita

I prezzi del petrolio sono in caduta libera, sotto i 70 dollari al barile contro i 100 e più dell’anno scorso. (AFP)

nella guerra dei prezzi da questa lanciata contro i produttori di shale oil e shale gas negli Stati Uniti, che negli ultimi anni con la loro enorme produzione hanno rivoluzionato il mercato mondiale degli idrocarburi aprendo in prospettiva una crisi profondissima per i tradizionali Paesi esportatori. Anche al Cremlino, come a Riyad, sembrano convinti che un periodo prolungato con il petrolio intorno ai 60 dollari a barile potrebbe azzoppare in modo serio le aziende che negli Usa hanno pesantemente investito nella lavorazione degli scisti bituminosi: aziende che hanno raggiunto enormi e crescenti livelli di produzione ma a costi piuttosto elevati (superiori in genere ai 50 dollari a barile) e dunque non competitivi di fronte a un’offerta «tradizionale» molto elevata e a basso prezzo. Del resto molti grandi esportatori hanno costi di produzione bassissimi, che possono consentir loro di guadagnare anche a livelli di prezzo infimi: la Russia, ha sottolineato malignamente un comunicato del gruppo petrolifero Rosneft, il più grande del mondo, produce petrolio a circa 4 dollari a barile e dunque può reggere una guerra al ribasso senza troppi problemi – salvo una contrazione netta e pesante del budget statale, ovviamente, ma su questo il comunicato ha sorvolato. Per il Cremlino la questione è strategicamente cruciale. Mettere alle corde i produttori di shale oil e shale gas statunitensi significa indirettamente dare un colpo mortale alle ambizioni di alcuni Paesi europei di mettersi a loro volta sulla strada del fracking (o della costruzione di rigassificatori, che permettono di utilizzare gas importato via mare da Paesi lontani), mantenendo per i colossi energetici quali Gazprom e Rosneft una solida quota nel mercato mondiale, ben distribuita fra Oriente (Cina, Giappone e Corea) e Occidente (Unione europea e Turchia). In pratica, è un contrasto diretto e fortissimo alla linea che la Ue sta cercando di adottare tra mille difficoltà, quella della differenziazione delle fonti energetiche. A questo scopo Mosca non trascura altri mezzi, come le pressioni che sta esercitando sull’Azerbaigian – soprattutto usando il conflitto con l’Armenia – per rendere più difficili le sue esportazioni di gas verso l’Europa, un’idea complicata e costosa che per ora non ha fatto molti passi avanti.

Lo stop al progetto South Stream, peraltro, motivato con la resistenza opposta dalle strutture centrali della Ue nonché dagli Stati Uniti, che hanno reso difficile se non impossibile ri-

correre al mercato internazionale del credito, è anche un robusto segnale di sfiducia mandato ai Paesi europei, in modo particolare a Italia, Francia e Germania, che nel progetto hanno già

investito un bel po’ di soldi attraverso rispettivamente Eni/Saipem, Edf e Wintershall, partecipanti al 20 per cento per l’azienda italiana, al 15 ciascuna per le altre due. Governi poco seri, sembra dire Putin, che si lasciano imporre da altri scelte destinate a ripercuotersi negativamente sui loro stessi interessi. Ma al di là della ripicca, Mosca probabilmente comincia anche a realizzare che con la crescente pressione ambientalista e il ripetersi degli impegni per la riduzione delle emissioni, l’Europa dei prossimi anni tenderà in misura maggiore a ridurre i consumi di combustibili fossili e a privilegiare le fonti rinnovabili: dunque come mercato sarà certamente destinato a contrarsi e dunque appare velleitario e poco saggio progettare un’altra grande e costosa pipeline per rifornirlo. Tantopiù adesso che con la guerra dei prezzi che infuria sui mercati mondiali c’è bisogno di mobilitare tutte le risorse finanziarie per tener duro e arrivare a vincere. Ora la Russia cercherà di dirottare tutto il gas che avrebbe dovuto andare al sud Europa verso la Turchia, che sta sempre più diventando un Paese industriale in espansione e ha un forte bisogno di energia, non diversamente dal grande cliente orientale del Cremlino, la Cina. Ed è chiaro che il regno di Putin, tutt’altro che sconfitto, ha ancora molte carte importanti da giocare nella grande battaglia globale per l’energia. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

Miami vice 2 – Narcos connection Storia dell’ex giudice venezuelano Palmeri

che ha fatto i miliardi all’ombra della Revolución e li ha reinvestiti in Florida

Angela Nocioni Le vite di un generale venezuelano e quella di un ex giudice suo compatriota si intrecciano spesso nei faldoni della Dea, l’agenzia antidroga americana, che cerca di ricostruire e tenere aggiornata la geografia del pianeta del narcotraffico a cavallo tra l’America del Sud e quella del Nord. I due si chiamano Carvajal Barrios (vi abbiamo raccontato la sua storia nello scorso numero di «Azione») e Benny Palmeri Bacchi. Qui vi raccontiamo la rete di investimenti, secondo la Dea proveniente dal narcotraffico, che comodamente ha potuto realizzare l’ex giudice venezuelano a Miami e dintorni.

La connessione fra la costa della Florida e quella caraqueña è un grande classico della borghesia venezuelana Gli affari dell’ex giudice e la sua rocambolesca esistenza danno un’idea di quanto sottile sia la frontiera tra Nord e Sud America, quando a passare il confine sono milioni di dollari cash e quanto permeabili possano essere i confini per il potere narco. La notte del 18 luglio scorso, Benny Palmeri Bacchi stava andando a Disneyland con la famiglia quando, all’aeroporto di Miami, la Dea l’ha arrestato e portato davanti a un tribunale federale per i reati di traffico di cocaina, ostruzione della giustizia, lavaggio di denaro ed estorsione. Lo si accusa di aver impedito l’arresto di un narcotrafficante ricercatissimo dalla Dea tra il 2009 e il 2010, Jaime Alberto Marìn Zamora, alias «Beto Marìn», poi acciuffato alla Isla Margarita. Beto aveva preso il posto del «Jabòn», Sapone, nomignolo del narcotrafficante colombiano Wilber Varela, morto a Merida, nelle montagne venezuelane, nel 2008. Il giudice è accusato di averlo protetto con l’aiuto dell’allora capo dell’ufficio

dell’Interpol a Caracas, il commissario Rodolfo Mc Turk. Palmeri ha da poco lasciato la magistratura e si dedica all’import export di alimenti, settore bollente nella Caracas che compra tutto al nero, dove buona parte della merce sparisce prima di arrivare sugli scaffali dei supermercati. Non è un signor nessuno nel mondo dei super ricchi venezuelani. È uno dei principali dirigenti della Camera degli imprenditori del Mercosur ed è proprietario di mezza dozzina di imprese di successo nel sud della Florida e in Venezuela. È uno dei tanti «boliborghesi», i borghesi bolivariani che hanno fatto i miliardi all’ombra della Revolución gestendo contratti con lo Stato e che portano regolarmente e comodamente i soldi a Miami. L’ex ministro delle finanze venezuelane, Jorge Giordani, ha ammesso a gennaio, prima di rompere con il presidente Nicolas Maduro e andarsene dal governo con una polemicissima lettera pubblica di denuncia, che solo tra il 2012 e il 2013 lo Stato venezuelano ha dato 20 miliardi di dollari a imprese amiche per importazioni a prezzi preferenziali. Gran parte di questo denaro, come insegna la tradizione dei possidenti venezuelani, è finita in Florida. Si tratta di denaro cash, tanto denaro, talmente tanto da aver contribuito alla ripresa del mercato immobiliare locale a Miami. I soldi boliborghesi hanno attraversato il mare che separa Caracas dalla Florida ad ondate. Le più alte iniezioni di capitale venezuelano privato in Florida sono arrivate insieme agli ex banchieri e proprietari di agenzie di cambio valuta che hanno rotto con il governo durante le riforme del settore del credito nel 2009. Ma c’è anche l’ondata del 2011, quando militari e funzionari arricchitisi con la Rivoluzione, alla notizia del tumore che stava uccidendo Hugo Chávez, sono corsi a portare tutto il denaro fresco a Miami. La connessione tra la costa della Florida e quella caraqueña è un grande classico della borghesia venezuelana e gli arricchiti della Rivoluzione non fanno eccezioni. I grandi papaveri del chavismo, famiglia della moglie di Maduro compresa,

investono e vanno in vacanza solo in Florida come se non esistesse altro posto al mondo dove andare. Tanto che, lo scorso giugno, tentando di far approvare al Congresso statunitense sanzioni contro gli investimenti privati di alti dirigenti chavisti in Florida, il senatore repubblicano Marco Rubio, che di antichavismo vive nella sua carriera politica, ha detto: «Si tratta di persone che violano diritti umani in Venezuela e hanno i loro investimenti negli Stati Uniti. Quando rubano in Venezuela, lo fanno spesso con imprese di facciata e usando prestanome, poi vengono a investire nella nostra economia in Florida. Non c’è nessuna ragione per non perseguirli». Spesso invece operano alla luce del sole. Il banchiere Arné Chacón per esempio, ex tenente e fratello del potentissimo ex ministro dell’energia venezuelana, Jesse Chacón, ha avuto per anni una grande azienda agricola, dove allevava cavalli purosangue, la Gudu Racing Stable Corporation, a mezz’ora di auto da Miami. L’ha comprata pochi mesi prima che Chávez lo facesse arrestare per frode alla nazione, nel novembre del 2009 e l’ha venduto appena uscito in libertà condizionale, nel dicembre del 2012. Ora il proprietario è Ronald Sánchez, fratello del Superintendente nacional de valores de Venezuela, Tomás Sánchez, che diresse nel 2009 l’intervento governativo in sette gruppi finanziari, tra cui la banca di Arné Chacón. La sanzioni che richiedeva il senatore repubblicano al Congresso non sono state approvate, ma l’Amministrazione Obama ha annunciato il 30 luglio, unilateralmente, la revoca dei visti a un gruppo di dirigenti chavisti considerati «responsabili o complici» della repressione delle proteste contro Maduro iniziate il 12 febbraio, costate 43 morti nell’arco di tre mesi. Non sono stati resi pubblici i nomi dei funzionari rimasti senza visto, si tratterebbe di militari, consiglieri presidenziali e di un ministro. La decisione di Obama è arrivata due giorni dopo la liberazione del generale Carvajal, ex capo delle spie venezuelane, spedito da Maduro ad Aru-

La movida sull’Ocean Drive a Miami Beach. (A. Anghessa)

ba come diplomatico, fatto arrestare su richiesta americana, rimasto in galera poche ore, non estradato da Aruba, ma rispedito con tante scuse a Caracas. Gli arresti e la richiesta di estrazione per reati connessi al traffico internazionale di stupefacenti e le schermaglie diplomatiche si intrecciano costantemente tra Caracas e Washington. Dopo la vittoria risicata di Maduro ad aprile 2013, con un vantaggio di appena 280 mila voti sul candidato dell’opposizione, sarebbe convenuto politicamente ai chavisti non cercare guai con Washington, per non offrire argomenti di polemica all’opposizione già sul piede di guerra. Tanto intenzionato era il governo di Caracas a mantenere una posizione soft, da aver incaricato Roy Chaderton, rappresentante davanti alla Oea, fine diplomatico, vecchio amico di Chávez e di Fidel Castro, di facilitare il dialogo. Poi però, l’urgenza dettata dalla crisi economica (inflazione al 70%, indebitamento con la Cina che succhia i profitti del petrolio e mercato nero impazzito) hanno convinto Maduro della necessità di gesti plateali di propaganda antiamericana. Il petrolio, in questa commedia

delle parti, ha un ruolo fondamentale. Il Venezuela, che sul greggio galleggia, importa 100 mila barili di benzina e 100 mila di gasolio al giorno. Il petrolio venezuelano è tanto, ma è pesante, è sporco e va lavorato. Pdvsa, l’impresa pubblica del settore, ha perduto la sua capacità di raffinazione e compra dagli Stati Uniti parte della benzina che consuma. Dopo che Edward Alex Lee, il sottosegretario di stato per l’America latina dell’amministrazione Obama, aveva convocato Roy Chardeton, per chiedere di rinunciare all’arresto del leader più popolare della destra venezuelana, Leopoldo López, attualmente in galera, Maduro ha ordinato l’espulsione di tre funzionari consolari dall’ambasciata degli Stati Uniti, gli unici rimasti. Già era stata buttata fuori l’incaricata di affari Kelly Keiderling e altri due dirigenti. Nel grande palazzone color melanzana della rappresentanza statunitense a Caracas sono rimasti a lungo solo la bandiera a stelle e strisce e due giardinieri. Nel mezzo dell’estate è arrivato Lee McClenny, l’incaricato d’affari che farà le veci dell’ambasciatore. L’ordine è: basso profilo. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

Globalisti e imposta federale diretta Fiscalità Si può calcare la mano sui redditi imponibili dei globalisti, con il pericolo di allontanarli? Chi compensa

i minori gettiti dell’IFD, diventata sempre più sociale? Ignazio Bonoli La votazione federale dello scorso 30 novembre ha dato risultati, per certi versi, sorprendenti. Uno di questi può essere visto nel fatto che una larga fetta di elettori non ha voluto sopprimere la tassazione dei «globalisti». Si tratta di cittadini stranieri, che non esercitano attività lucrative in Svizzera, e che possono chiedere di essere tassati a forfait. Le amministrazioni fiscali cantonali – nei cantoni che lo permettono – eseguono quindi una tassazione sulla base «della spesa», cioè valutando quanto costa più o meno al cittadino straniero vivere in Svizzera. Normalmente questo cittadino si vede già tassare i redditi prodotti all’estero e anche per questo si giustifica una tassazione globale. Inoltre, molti Paesi non praticano nemmeno la tassazione della sostanza. Negli ultimi tempi, si sono però intensificate le pressioni politiche volte ad abolire questo tipo di tassazione in nome di una giustizia fiscale che esula spesso dalle competenze elvetiche e che, quindi, sarebbe di difficile applicazione, tanto più che altri Paesi sono disposti a concedere vantaggi fiscali più ampi di quelli svizzeri. Sorprende in questo il fatto che, anche nei cantoni che hanno soppresso la tassazione globale, l’iniziativa per abolirla a livello svizzero non sia stata accettata, con la sola eccezione del canton Sciaffusa. Le pressioni politiche di cui si diceva hanno avuto però l’effetto di rendere

più costosa questa tassazione. I minimi imponibili sono stati aumentati, ma la tassazione avviene in base alle aliquote dell’imposta ordinaria e non dà diritto alle deduzioni sociali. Così avviene che – soprattutto a livello delle imposte federali dirette – si cerchi di aumentare le basi imponibili ben oltre questi limiti. Il fisco, per valutare il reddito imponibile, si basa effettivamente sulle spese sostenute e tiene in considerazione anche i componenti la famiglia e il tenore di vita. Sia a livello federale che cantonale, il totale di queste spese deve essere al minimo cinque volte l’ammontare dell’affitto pagato o, in caso di proprietà, il valore locativo dell’alloggio occupato. Se il contribuente vive in albergo, si calcola almeno il doppio del costo della pensione. Questo in linea generale. Vi sono eccezioni in alcuni cantoni, ma il problema nasce talvolta nelle valutazioni che possono essere fatte: per esempio sul valore delle proprietà e quindi sul valore locativo per il calcolo del reddito. In questi casi, soprattutto a livello federale, si tende talvolta ad esagerare e quindi a scoraggiare l’arrivo di contribuenti facoltosi, nella linea degli inasprimenti, ma probabilmente contrariamente al voto espresso da popolo e cantoni in materia. Negli ultimi tempi, è circolata spesso – sotto varie forme – una vignetta che riprende un detto antico e che mostra il cittadino svizzero che sta segando il ramo su cui è seduto. Come

Il timore di un impoverimento della Svizzera ha fatto presa. (Keystone)

sempre in questa che possiamo definire «sintesi di una realtà latente» vi è una parte di verità che magari in occasione di certe votazioni non viene completamente recepita. È invece probabilmente avvenuto il 30 novembre scorso, il che può anche significare un certo ripensamento rispetto ai voti «di pancia» espressi in occasione di altre consultazioni popolari. Comunque, le iniziative su cui ci si esprime e che – di regola – vedono

l’opposizione del Consiglio federale e delle Camere, sono pure sintomo di situazioni che creano un certo malessere. Non è però il caso dell’imposta federale diretta, interessata questa volta dall’iniziativa contro la tassazione «globale». L’idea di un’imposta federale diretta (IFD come si chiama oggi) era nata già fra le due guerre mondiali. Essa doveva servire ad ammortizzare i debiti della prima e a finanziare l’armamento nel timore di una seconda

guerra mondiale, per di più in un periodo di profonda crisi mondiale. Negli anni successivi si radicò nella politica l’idea di un’imposta per la difesa nazionale (IDN) che però era sempre limitata nel tempo. L’imposta ordinaria diretta sul reddito era, infatti, riservata ai cantoni, mentre alla Confederazione spettavano le imposte indirette. Il principio, benché molto annacquato nel tempo, scomparve. Gli anni 70 sono ricchi di proposte di modifiche del regime fiscale, finché, a fine 1976, la nuova definizione di IFD (imposta federale diretta) sostituisce quella di IDN e sopprime i limiti di tempo. Grazie a varie modifiche, l’IFD diventa sempre più una specie di imposta sulla ricchezza (per la quale era pendente un’iniziativa), nel senso che i livelli bassi di reddito godono di ampie esenzioni, ma vi è un limite superiore alla progressività dell’aliquota. Infatti, oggi, il 46,3 per cento delle famiglie non paga più l’imposta federale diretta. Il totale dei contribuenti esenti nel 2011 (dati più recenti dell’Amministrazione federale delle contribuzioni) era di 1,37 milioni (26,6 per cento del totale), con un aumento annuale di 362’168. Dal 2011 sono, infatti, aumentate le deduzioni per figli, quella per cure da terzi e compensata la progressione a freddo. Di conseguenza, il suo gettito è pagato nella misura di oltre l’80 per cento dal 10 per cento dei contribuenti con i redditi più elevati. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 9 dicembre 2014 ¶ N. 50

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Politica e Economia Rubriche

In&outlet di Aldo Cazzullo Gli schemi della politica sono saltati Le ultime elezioni regionali, in Emilia Romagna e in Calabria, hanno confermato la novità emersa dalle precedenti amministrative e anche dalle elezioni europee: l’elettorato italiano si è scongelato. E l’Italia è diventato un Paese contendibile, dopo decenni in cui gli italiani votavano più o meno sempre allo stesso modo. Il dato che ha colpito di più i media è stato l’astensione. Renzi sbaglia a dire che è un problema secondario. Ma

sbagliano anche coloro che dell’astensione si stupiscono. Certo, due emiliani su tre che disertano l’elezione diretta del loro presidente fanno notizia. Ma come sorprendersi, dopo la vicenda giudiziaria che ha portato alla caduta di Errani e dopo lo scandalo mortificante dei rimborsi spese, con la vicenda del sex-toy finita sui siti di tutto il mondo? Gli elettori hanno avuto la sensazione di reggere il sacco a consiglieri regionali che hanno derubato i contribuenti.

Ha fatto bene quel 37% che ha vinto la tentazione di astenersi. Ma è difficile biasimare i due terzi degli emiliani che con il non-voto hanno detto, come Montale, «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Si è scritto molto sulla fine di un modello, sul crollo della roccaforte rossa. Ma non è un fenomeno inedito: Bologna elesse Guazzaloca nel lontano 1999; in Emilia è nato il caso Grillo; e in Emilia il rottamatore Renzi ottenne un consenso vasto nel 2013 ma anche nel 2012. Il fenomeno è profondo, ed esteso ben oltre i confini della regione. Quest’anno la sinistra ha perso Perugia, a favore della destra, e Livorno, la città dove nacque il Pci e – attorno ai portuali – il suo servizio d’ordine, a favore dei Cinque Stelle. In compenso, il partito democratico è diventato il primo partito in Veneto e in altre zone bianche del Nord, come il Cuneese, dove non aveva mai toccato palla. Ovviamente non si tratta di un dato acquisito per sempre. Già alle prossime regionali, ad esempio, Renzi faticherà

a conquistare il Veneto: la Lega è in salute, Zaia è l’unico politico di peso a non essere incappato nelle tangenti del Mose, e Alessandra Moretti è un peso leggero, incorsa in una lunga serie di gaffes. Ma oggi possiamo dire che il voto emiliano conferma una tendenza nazionale: gli schemi della politica sono saltati. Dopo decenni in cui gli italiani non cambiavano quasi mai idea, restando fedeli al partito o allo schieramento, passando al più dalla Dc e dal Psi a Forza Italia (e dal Pci ai Ds e poi al Pd), ora gli elettori si sentono liberi di cambiare. Il risultato può essere il caos, come certe partite di calcio in cui l’arbitro ha espulso tre giocatori per squadra, il portiere è andato a fare il centravanti e viceversa. Ma l’esito può anche essere positivo. Nessun voto è scontato, non lo è nessuna città, nessun territorio. I partiti, o quel che ne resta, devono ogni volta rimettersi in gioco, fare una proposta seria, scegliere uomini all’altezza della drammaticità dei tempi e della difficoltà delle sfide. Ma anche gli elettori devono fare la loro parte. Per restare in Emilia

Romagna, dopo anni in cui la politica italiana gravitava attorno a Bologna, oggi il capoluogo è finito ai margini: il sindaco Merola è del tutto assente dalla scena nazionale, il nuovo presidente della Regione Bonaccini è partito male, la destra non esprime leader credibili; per trovare una parola autorevole bisogna ancora telefonare a Prodi. Al Sud la situazione è ancora peggiore. Il degrado della vita pubblica ha allontanato dalla politica i giovani (con rare eccezioni come il nuovo sindaco di Reggio Calabria Giuseppe Falcomatà, 31 anni, figlio di Italo, rimpianto sindaco di centrosinistra e autore del rifacimento del lungomare), e ha aperto la strada alla commistione tra politica e affari, che non è certo un fenomeno nuovo ma ha subito in questo tempo un’ulteriore accelerazione. Il caso di Roma, la capitale che pare quasi essere stata amministrata negli ultimi anni da una cupola para-mafiosa guidata da un ex estremista neofascista, sta a indicare che la vittoria sulla crisi morale italiana è ancora di là da venire.

confinanti, a sud e a nord delle Alpi. Non sorprende perciò che quando si chiede se sono soddisfatti della propria vita, in generale, il 72,3% delle persone residenti in Svizzera rispondano in modo positivo. Naturalmente i valori medi non sono sufficienti per descrivere la situazione relativa a una data popolazione. Pur essendo nelle prime posizioni della classifica europea per quel che riguarda il potere di acquisto medio, la Svizzera conosce, come gli altri Paesi del continente, il problema della povertà. Stando ai dati forniti dall’UFS il 13,3% della popolazione è a rischio di povertà. Si tratta di persone che possiedono un reddito inferiore del 60% al reddito mediano. In altri termini, la persona che da noi dispone di un reddito pari a quello medio italiano è da considerare come una persona a rischio di povertà.

I gruppi di popolazione più esposti a questo rischio sono le persone che vivono in famiglie monoparentali, quelle che hanno terminato la loro formazione con la scuola dell’obbligo e gli stranieri di origine extra-europea. Notiamo da ultimo che se più del 70% delle persone residenti si dichiarano soddisfatte con la propria vita, solo il 55,1% sono contente della propria situazione finanziaria e solo il 55,3% con quanto guadagnano nell’impiego attuale. Come dire che quasi la metà delle persone residenti nel nostro Paese non si accontenta di quello che ha e vorrebbe disporre di più per poter consumare di più. Da sempre gli economisti ci spiegano che i bisogni sono infiniti. Le statistiche sulle condizioni di vita che abbiamo citato qui sopra ci dicono che hanno ragione.

i colori di fagioli, cavoli e meloni indiscutibilmente «a norma». Venendo a firme meno blasonate, ma sicuramente più votate al pratico di una realtà vicina alla nostra, ecco quanto scriveva lo scorso mese Gian Antonio Stella in un editoriale sul «Corriere della Sera» in cui criticava la guerra persa dei governanti italiani contro i burocrati: «Siamo condannati all’ergastolo dei commi? (…) Pare di sì a leggere la lettera del ministro della Semplificazione Marianna Madia (…) La prova del nove è il decreto “Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari”. Che, semplificando semplificando, firma leccornie come questa: “Art. 21 bis. Riorganizzazione del ministero dell’Interno). – 1. In conseguenza delle riduzioni previste dall’art. 2, comma 1, lettere a) e b), del decreto legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, da definire entro il 31 ottobre 2014, il Ministero dell’Interno provvede a

predisporre, entro il 31 dicembre 2014 il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri di cui all’art. 2, comma 7, del decreto legge 31 agosto 2014, n. 101, convertito con modificazioni dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125 e successive modificazioni…”». Chi spera, da extra comunitario, prima ancora che da svizzero, di vivere sonni tranquilli, e di non dover mai subire simili imposizioni burocratiche, ha poco di che rallegrarsi. Pur escludendo di veder emulata l’invadenza (e l’impudenza, vien da dire) della comunicazione ministeriale italiana che fa temere una burocrazia in grado di superare l’assurdo di una pièce di Jonesco, qualcosa di poco rassicurante c’è anche per noi: tra i dati forniti dall’Ue per la nuova norma sulle etichette per alimenti allergenici, come modello da seguire sul web viene presentato l’esempio adottato da una delle principali aziende catering mondiali, la svizzera Gate Gourmet, che già dal gennaio scorso si è adeguata alle nuove direttive Ue.

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Chi più ha, più desidera

A detta delle statistiche, le persone residenti in Svizzera stanno bene. Ma, a quanto pare, una parte significativa di loro vorrebbe stare ancora meglio. L’Ufficio federale di statistica ha reso noto, di recente, una statistica del reddito pro-capite, dalla quale risulta che la Svizzera, nel 2013, figurava al terzo posto in Europa, preceduta solo da Norvegia e Lussemburgo. La differenza tra il reddito pro-capite elvetico e quello della Norvegia, che capeggia la classifica, è del 6,4%, un’inezia insomma. La posizione preminente della Norvegia, in questa statistica, è dovuta, lo sappiamo, al petrolio; quella del Lussemburgo alla sua piccola dimensione. Non va dunque molto bene paragonare la situazione del nostro Paese, in termini di reddito, con quella di Norvegia e Lussemburgo. Maggiormente illustrativo, invece, è

il paragone con l’Austria, Paese che ci somiglia molto, per posizione geografica come per dimensione. L’Austria ci segue immediatamente nella classifica europea, ma, rispetto al nostro, il suo reddito pro-capite è inferiore del 18%. Va bene, diranno i lettori, ma gli svizzeri sono afflitti anche da prezzi molto più elevati. Si tratta di una critica fondata. Nei paragoni sul reddito, tra una nazione e un’altra, bisognerebbe utilizzare infatti dati che tengano conto del potere di acquisto effettivo e non solo del livello del reddito espresso in termini monetari. Dovremmo insomma avere a disposizione un dato di reddito che sia scontato per il livello medio dei prezzi in modo da consentire effettivamente una comparazione dei poteri di acquisto. È quanto fa la statistica alla quale abbiamo accennato qui sopra. Nella stes-

sa il reddito è misurato in «standard di potere di acquisto», cercando di eliminare le storture che derivano dal fatto che i prezzi per un dato prodotto possono variare in modo significativo da un Paese all’altro. Ovviamente utilizzando il potere d’acquisto per il paragone, le differenze nel reddito pro-capite sono più contenute. Tuttavia quello della Svizzera è non solo del 18% superiore a quello dell’Austria, ma anche del 31% superiore a quello della Germania e a quello della Francia. Il paragone con l’Italia, che è certamente quello che interessa maggiormente i ticinesi, rivela che il nostro reddito pro-capite è del 66% superiore. Materialmente parlando, quindi, la popolazione della Svizzera sta bene, non soltanto nel confronto con il resto dell’Europa, ma anche nel paragone diretto con quelle dei Paesi

Zig-Zag di Ovidio Biffi L’Europa dichiara guerra alle allergie A metà novembre sul palcoscenico mediatico è apparsa una delle ultime perle del burocratismo imperante a Bruxelles: una normativa, improvvisamente «scoperta» alla vigilia della sua entrata in vigore, subito definita «un’esagerazione da società dello spavento e della medicalizzazione preventiva», che dal 13 dicembre imporrà ai ristoranti – ma per estensione toccherà anche tutti i fornitori e i punti di vendita di alimentari intermedi, dal supermercato al bio-pizzicagnolo – una nuova regola: specificare sui menù l’eventuale presenza di ingredienti e prodotti che possono provocare disturbi a chi soffre di allergie o intolleranze (sono quattordici e li citiamo: cereali contenenti glutine, sedano, crostacei, uova, pesce, noci, lupini, latte, molluschi, senape, arachidi, soia, semi di sesamo e, dulcis in fundo, anidride solforosa e solfiti). Se il ristoratore decide di non adeguarsi dovrà assumere un «addetto agli allergenici», novello maître per la carta dei cibi, a disposizione degli avventori. Riflettendo sui progressi inarrestabili

della burocrazia, sono risalito sino alla primavera del 2011, al saggio Sanftes Monster Brüssel (Bruxelles: un mostro soft) in cui il poeta e scrittore tedesco Hans Magnus Enzensberger lanciava nuovi strali contro la politica autoritaria e autoreferenziale dei burocrati di Bruxelles, oltre che contro l’arroganza dei banchieri guidati dalla Banca centrale europea. Poca notorietà allora per Enzensberger: l’Europa culturale in quei giorni era in fregola per il più incendiario Indignatevi di Stéphane Hessel, pamphlet di sole 20 pagine in cui il 93enne scrittore francese invocava reazione e militanza contro le malefatte del capitalismo. Di Hessel, anche per la solita autocensura dettata dal «politicamente corretto», nessuno parla più, non perché nel frattempo è morto, ma perché usava un linguaggio «esagerato» come chiave per diffondere la sua dottrina fatta di indignazione. A prevalere oggi, per una strana coincidenza, è l’attualità del Sanftes Monster Brüssel, l’agile saggio che all’opposto stigmatizzava

il linguaggio autoritario usato dall’Ue come chiave per manipolare la realtà. Enzensberger stesso lo indicò come prova della mancanza di rispetto da parte di burocrati di Bruxelles, asserendo che, a suo avviso, l’acme del linguaggio autoritario comunitario va ricercato nelle 200 pagine del Trattato di Lisbona «Scritte col filo spinato per distruggere ogni senso civico nelle istituzioni». E faceva seguire esempi molto pratici a dimostrazione di come il linguaggio e non le idee siano la chiave che consente di capire la realtà, ma purtroppo (dalla parte del potere) anche di manipolarla. Oltre alla valanga di acronimi inventati dalla burocrazia europea (Fac, Ecofin, Envi, Comp, Gag, Gac, Raa, ecc.) citava le norme: dalla «curvatura massima (dieci millimetri su dieci centimetri)» dei cetrioli dettata all’epoca dello scandalo dei cetrioli tedeschi e spagnoli portatori di listeria, alla perla intima della lunghezza dei preservativi («Non meno di cento millimetri»), passando anche dalle 36 regole della tavolozza che fissa



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Cultura e Spettacoli Pink Floyd a metà Un ritorno atteso da migliaia di fan, molti dei quali però rimarranno delusi da The Endless River

Regalare per amore Le tappe della vita delle donne ricche nel Rinascimento: in mostra alla Pinacoteca Züst di Rancate pagina 41

Alla ricerca delle radici In Forse Esther (Adelphi) Katja Petrowskaja ripercorre la sua storia di famiglia

Illustrazioni d’arte A Sarmede la 32ma fiera internazionale dell’illustrazione: Paese ospite, la Scozia

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Bramantino a tutto tondo Mostre Interessante esposizione al Museo

cantonale d’arte di Lugano Gianluigi Bellei Bramantino arriva a Lugano. Dopo un precedente assaggio nella mostra di Rancate sul Rinascimento nelle terre ticinesi del 2010 e il Bramantino a Milano del 2012, ambedue curate da Giovanni Agosti, Jacopo Stoppa e Marco Tanzi, tocca a Lugano cimentarsi con l’artista e con alcuni colleghi quali Bernardo Zenale, Bernardino Luini e Gaudenzio Ferrari. Il momento sembra felice anche perché dal 4 dicembre la Pinacoteca di Brera a Milano propone un’esposizione su Donato Bramante, che in un certo senso è il suo maestro, dal quale prende pure il nome. Occasione duplice e ghiotta per un incontro ravvicinato. La mostra milanese di due anni fa esponeva solo opere ubicate in città. Questo per motivi finanziari. Diciamo subito che è stata molto criticata (perché fare una mostra di opere che si possono già vedere in città?) ma che, nonostante tutto, ha contribuito con le relative ricerche a svecchiare alcune posizioni relative alla documentazione su Bramantino. La mostra luganese è più corposa e si possono ammirare per esempio opere provenienti dagli Uffizi di Firenze, dal Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid o dal Museo of Fine Arts di Boston. Oltre ovviamente a quelle già viste a Milano e a Rancate. Si snoda così il corpus delle sue opere cercando di toglierle dalla nebbia in cui la storia le aveva relegate; anche perché per secoli di lui si sapeva pochissimo, complice probabilmente Giorgio Vasari che nelle sue Vite scrisse che di «costui non posso scrive la vita né l’opere particulari per essere andate male». Ma Bartolomeo Suardi, il vero nome del Bramantino, è famoso proprio grazie al Vasari per le sue lodi all’affresco, ora staccato e messo su tela, del Compianto su Cristo morto, conservato alla Pinacoteca Ambrosiana. Scrive Vasari, dopo averlo visto, che l’artista «nientedimanco nella brevità dello spazio ha voluto mostrare la lunghezza dello impossibile con la facilità e virtù dello ingegno suo». Per cercare di intuirne lo scorcio, ma non è la stessa cosa, si può guardare in mostra il Compianto su Cristo morto proveniente dal Museo nazionale di Bucarest. La mostra luganese presenta 23 opere del Bramantino che ruotano attorno al Cristo risorto proveniente dal Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid e che molti ricorderanno perché presente nella collezione di Castagnola fino al 1992. Opera imponente, questa, nella quale il Cristo a grandezza naturale mostra le ferite. Una delle prime realizzate dal Suardi che rivela l’influsso

del Bramante e una conoscenza dell’anatomia derivata probabilmente dallo studio delle tavole anatomiche, come si può notare dai muscoli del torso e dalle mani. Splendida la grande tavola appena restaurata della Madonna in trono con il bambino proveniente dalla Galleria degli Uffizi. Un’opera classica, rigorosa, con una composizione piramidale con qualche incongruenza nella realizzazione delle figure: come la testa del santo inginocchiato sulla sinistra che mal si appoggia sul dorso. Difficile da credersi per un artista che si suppone abbia studiato anatomia ma altresì tipica dell’iconografia di molti pittori minori che si tramandano i cartoni predisegnati. Possiamo in ogni caso assaporare gli sguardi sognanti, quasi assenti e un po’ imbambolati, astratti verrebbe da dire, tipici dell’artista. Il quadro è messo in relazione con la Fuga in Egitto proveniente dal Santuario dell’Orselina. La pittura dell’artista con gli anni si fa maggiormente fluida e liquida e le figure appaiono come congelate in un’aura di solenne misticità. Al contrario della Madonna in trono con il bambino la Fuga in Egitto appare mal conservata con evidenti segni di crettature e interventi posteriori. Quello che sembra in ogni caso subito evidente scorrendo i dipinti, posti cronologicamente lungo le sale, è il cambio di registro fra le prime opere e le ultime. Mauro Natale, il curatore della mostra, cerca di darne un’interpretazione. Partendo dal presupposto che la Crocifissione, oggi a Brera, sia stata dipinta per la chiesa gesuita di San Gerolamo di Porta Vercellina «in occasione del concilio convocato da un piccolo numero di prelati ostili a Giulio II» che fu l’espressione politica e militare dei francesi sul suolo italiano, oltreché «delle istanze riformiste di Girolamo Savonarola», arriva alla conclusione che il dipinto e quelli seguenti «siano lo specchio delle sue personali convinzioni religiose». Anche perché il cardinale di Santa Croce in Gerusalemme Bernardino Carvajal «fu il protagonista di questa rivolta» e nella chiesa della quale era titolare fu ritrovata la rara reliquia titulus cruci scritta in ebraico, latino e greco che appare in questa stessa Crocifissione. Insomma, se è vero che Savonarola invitava gli artisti «a dipingere le figure senza tratti individuali e senza fisionomie riconoscibili» se ne deduce che i volti fissi e anonimi dell’artista rivelino un suo avvicinamento alla riforma savonaroliana. Bramantino è un artista sfuggente che, come abbiamo visto, già dai tempi del Vasari è poco documentato. Questo fa sì che negli ultimi decenni le interpretazioni sul suo lavoro e la datazione

Bramantino, Cristo risorto, 1490 ca.

delle opere risultino particolarmente ballerine. Ogni nuovo catalogo ci pone di fronte diverse visioni e prospettive che continuano a generare ulteriore confusione sulla sua vicenda artistica. Difficile così individuare con sicurezza una linearità oggettiva ma solo singoli commenti dei vari storici dell’arte. Per questo non abbiamo dato nessuna indicazione per quel che riguarda le date di esecuzione dei dipinti che, a seconda dei casi, possono variare anche di un decennio; e non è poco considerato che la sua vicenda artistica è datata tra il 1480 e il 1550. Il catalogo luganese sembra la

summa degli studi pregressi ma le indicazioni conclusive risultano ugualmente soggettive. Bella mostra, comunque, raffinata, coraggiosa e suggestiva, come autorevolmente sottolineato in varie occasioni, con un limite però: la terribile illuminazione. Per completezza di informazioni, e soprattutto per rimarcare la litigiosità e l’idiosincrasia reciproca dei vari esperti culturali coinvolti, consigliamo la lettura della recensione della mostra da parte di Giovanni Agosti, Jacopo Stoppa e Marco Tanzi su storiedellarte.com.

Dove e quando

Bramantino. A cura di Mauro Natale. Museo cantonale d’arte, Lugano. Orari: ma 14-17; me-do 10-17; lu chiuso. Fino all’11 gennaio 2015. Catalogo Skira. www.museo-cantonalearte.ch In collaborazione con


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Cultura e Spettacoli

Chi disse donna disse dono Mostre A Rancate i preziosi regali d’amore del Rinascimento

Alessia Brughera Un proficuo fidanzamento, una fastosa cerimonia nuziale e il concepimento di tanti eredi belli e robusti, possibilmente maschi: era questo il percorso che in epoca rinascimentale dovevano seguire le fanciulle di rango elevato quando non erano destinate alla vita monastica. Spettava ai padri trovare loro il cosiddetto «buon partito», ossia un marito capace di garantire un vincolo di parentela prestigioso. Le unioni diventavano così un abile gioco di coalizioni politiche e di contrattazioni finanziarie con lo scopo di rafforzare patrimoni e perpetuare il lignaggio dei casati abbienti. Inutile dire che in tutto ciò il coinvolgimento sentimentale passava in secondo piano, tanto che i promessi sposi si incontravano solo dopo che il papabile consorte e il padre della donna concludevano vantaggiosamente le loro trattative. A questo punto la fanciulla si preparava a entrare a far parte della famiglia del futuro marito, portando con sé una rilevante porzione delle ricchezze paterne in forma di dote e augurandosi di avere la fortuna di riuscire a generare una folta e sana progenie. Il fidanzamento, il matrimonio e la nascita di un erede erano dunque circostanze particolarmente importanti per una donna, e venivano perciò degnamente celebrate dai doni dell’amato e delle persone care. La Pinacoteca Züst di Rancate dedica una mostra proprio agli oggetti che tra tardo Medioevo e Rinascimento venivano offerti alle fanciulle di ceto nobile in queste occasioni, facendo emergere così la storia della figura femminile e dei rituali che portavano la donna a essere moglie e madre, cerimonie spesso pompose che costituivano per le famiglie un’opportunità per esibire la propria agiatezza. I numerosi manufatti esposti non hanno solo una valenza artistica, ma danno conto di un quadro più ampio toccando la storia e il costume del periodo. Così ogni oggetto, oltre a svelarci il suo pregio, e quindi il potere economico di chi lo ha commissionato, ci

Paolo di Stefano Badaloni, detto Schiavo. Interno di coperchio di cassone con «Venere e Amore», circa 1440-1445. (Firenze, collezione privata Bellini)

racconta anche il valore simbolico che la società del tempo gli assegnava nel contesto in cui veniva realizzato: il materiale di cui era fatto, ad esempio, alludeva non di rado a significati nascosti, richiami erotici e messaggi benauguranti, mentre le iconografie scelte come decorazione, tratte perlopiù dalla storia antica, esaltavano virtù femminili quali purezza e fedeltà o inneggiavano al trionfo dell’amore, forse anche per cercare di dare una parvenza di sentimento al bieco opportunismo che stava dietro agli accordi matrimoniali. La prima delle tre sezioni in cui è suddivisa la mostra è dedicata al fidanzamento, che trovava compimento nel cosiddetto «giorno delle giure». Tra questo giorno e la cerimonia nuziale vera e propria, i futuri mariti erano tenuti a offrire alla fanciulla regali pregiati. La spesa per questi omaggi raggiungeva talvolta cifre da capogiro, tanto che nel XIV secolo vennero emanate delle leggi per disciplinarne il valore massimo concesso, così da arginare lo sperpero dei patrimoni familiari. Gli oggetti presenti a Rancate sono i tipici doni per questa circostanza: eleganti cofanetti in avorio che servivano per custodire gioielli e che nel candore

del materiale richiamavano l’incarnato muliebre, preziose cinture che evocavano la castità, arazzi con coppie di innamorati effigiati con sguardi ammiccanti in prati fioriti, pettini eburnei con raffigurazioni di storie di donne virtuose e custodie di specchio, come quella proveniente dal Museo del Bargello di Firenze, su cui venivano intagliate scene allusive al desiderio sessuale e alla conquista della verginità della moglie. La seconda sezione è consacrata al «giorno dell’anello». Il rito nuziale era piuttosto complesso e prevedeva una prima ristretta cerimonia a cui seguiva una sfarzosa celebrazione pubblica. La sposa sfilava a cavallo per le vie della città accompagnata da un corteo di parenti, di musici e di domestici che trasportavano la coppia di cassoni nuziali da sistemare nella camera da letto dei coniugi. Questi cofani erano inizialmente commissionati dal padre della donna ed erano utilizzati per riporre il suo corredo. A Rancate ne sono esposti alcuni esemplari, come quello particolarmente sontuoso proveniente dal Museo di Castelvecchio a Verona. Interessante anche l’interno del coperchio di baule che raffigura una Venere nuda e languidamente sdraiata che attrae a sé

Cupido attraverso una ghirlanda di fiori. Una scena, questa, destinata a essere ammirata nell’intimità dell’alcova. In mostra troviamo inoltre coppe in maiolica, capi di biancheria (tra cui un paio di rari calzoni femminili), anelli e, tra i numerosi dipinti, una bella tela cinquecentesca di Bernardino Licinio che illustra un’Allegoria dell’Amore. Per la donna, il passo successivo al matrimonio era partorire una nutrita discendenza in salute. Alla nascita è riservata l’ultima parte della rassegna; un evento, questo, non privo di reali pericoli sia per il bambino che per la madre, in un’epoca in cui la mortalità infantile era molto alta e le condizioni igieniche piuttosto scarse. Non stupisce allora che alla gestante venissero riservate attenzioni particolari e che la buona riuscita del parto fosse festeggiata con grande enfasi. Nel percorso espositivo ci sono maioliche con putti e amorini che fungevano da augurio per il concepimento di un erede maschio (l’arrivo di una femmina era considerato una vera e propria disgrazia) e deschi da parto su cui veniva servito il primo pasto dopo la nascita. Di particolare interesse sono una preziosa testa di zibellino in cristal-

lo di rocca, ritenuta una sorta di amuleto per aumentare la fertilità, e uno strumento in ferro utilizzato per imprimere lo stemma del casato sulle cialde da offrire ai parenti e agli amici che venivano a congratularsi. Autentici sfoggi di ricchezza ammantati di valenze simboliche, questi oggetti rievocano il fascino di un’epoca densa di usanze suggestive, di rituali sociali in cui la donna, a dispetto della posizione marginale che solitamente le veniva riconosciuta, diventava la vera protagonista. Dove e quando

Doni d’amore. Donne e rituali nel Rinascimento. Pinacoteca cantonale Giovanni Züst, Rancate. Fino all’11 gennaio 2015. A cura di Patricia Lurati. Orari: da ma a ve 9.00-12.00/14.0018.00; sa-do e festivi 10.00-12.00/14.0018.00; lu chiuso. www.ti.ch/zuest In collaborazione con

Comunque vada, morirai Arte Sotto la guida di Maurizio Cattelan a Torino non va in scena unicamente l’effimero,

ciò che resta alla fine è infatti l’intramontabile verità della caducità di tutti noi Eliana Bernasconi Rimane aperta sino all’11 gennaio Shit and Die One Torino, l’esposizione allestita nel centro di Torino che fa parte della 21ma Edizione di Artissima, la Fiera Internazionale d’Arte Contemporanea, durata 3 giorni e conclusasi poco tempo fa all’Oval Lingotto Fiera. Torino si riconferma città importante per l’arte, infatti è stata la prima in Italia a inaugurare un Museo d’arte contemporanea internazionale nel castello di Rivoli e a possedere una Galleria d’arte moderna. È noto come il mercato dell’arte viva il suo momento culminante nelle Fiere, basti citare Art Basel, Art Forum a Berlino, la nuova Frieze Art Fair a Londra, o la Fiera dell’arte a Bologna, mentre fiere minori si vanno moltiplicando. Ma Artissima, con 137 gallerie straniere e 57 italiane, con nomi noti del mercato internazionale provenienti da 34 Paesi, spicca per il suo carattere unico: alla dimensione commerciale unisce quella sperimentale, vuole essere una finestra aperta sul divenire dell’arte contemporanea, mettere in luce con una selezione severa nuovi protagonisti del mercato artistico. In apposite se-

zioni, gallerie giovani hanno proposto originali punti di vista e progetti inediti, stand monografici dedicati ad artisti emergenti si sono affiancati a gallerie di artisti consolidati. La vera innovazione di quest’anno è stata la nascita di Per4M, una sezione dedicata alle Performance, non considerate eventi collaterali gratuiti, ma riconosciute come manifestazioni acquistabili da musei o gallerie. Questa corrente artistica, nata dagli happening degli anni 60, negli ultimi decenni ha avuto rinnovata popolarità e riconoscimento da collezioni pubbliche e private. È quasi impossibile descrivere una performance se non vi si assiste, vi si usa la fisicità dello spazio e la temporalità in modi sempre imprevedibili, si vuole coinvolgere, si parla un linguaggio che esprime la continua mutazione di un’epoca. Con la presenza di noti artisti che la praticano, come Tom Johnson, Marcello Maloberti, Prinz Gholam e altri, in Fiera a orari prestabiliti avevano luogo le performance: la parola era usata in forma di monologo, mentre i corpi dei performer si sono esibiti in scene tratte dai capolavori della storia dell’arte, mentre strani cortei di artisti improvvisamente sfilavano con poco decifrabili bandiere. Un’altra operazio-

ne della Fiera è stata la rivalutazione di artisti innovatori degli anni 70-80 oggi poco considerati con una serie di conversazioni fra curatori internazionali e il pubblico: Daniel Baumann, nuovo direttore della Kunsthalle Zürich, ad esempio ha introdotto all’opera dell’americana Channa Horwitz, pioniera dell’arte minimal scomparsa ottantenne lo scorso anno, per la presentazione della sua opera, dove superfici di numeri da 1 a 8 e colori si corrispondono. Artissima è anche la sola Fiera a offrire una proposta culturale del tutto slegata dal contesto fieristico, sa essere internazionale ma nel contempo penetrare nel cuore della città e del territorio, come ha fatto con la manifestazione 2014 di One Torino, Shit and Die, a curare la quale è stato chiamato Maurizio Cattelan con le due giovani critiche Myriam Ben Salah e Marta Papini. Se Cattelan si è conquistato in passato una grande notorietà con interventi sorprendenti e provocatori che potevano anche far sospettare una componente di opportunistica furberia, quest’anno ha saputo stupire ma anche commuovere. La mostra, collocata nello storico palazzo barocco del centro di Torino dove Camillo Benso di Cavour pas-

sò gran parte della sua vita, non segue un percorso cronologico ma viaggia di stanza in stanza raccogliendo le tracce dell’immaginario collettivo di varie epoche, nella storia di quella che fu la capitale di un regno. Dallo studio di Cavour dove i suoi mobili autentici sono avvolti nel cellophane e dalle pareti ti guarda la cugina contessa di Castiglione, bellissima protagonista di ottocenteschi intrighi politico-amorosi, si passa in una stanza dove è stata rimontata la forca, assolutamente autentica, in funzione al tempo dei Savoia, prestata dal Museo antropologico Cesare Lombroso. Per riflettere sulla morte trovi anche lo scheletro sotto teca del Professor Giacomini, che lui stesso volle lasciare ai suoi studenti, prestato dal Museo di Anatomia umana di cui fu fondatore. Gli oggetti evocativi in mostra si uniscono alle testimonianze di utopie architettoniche e urbane radicate nel contesto industriale e si accompagnano a opere create per l’occasione da 60 artisti dove la pittura riappare sempre nel percorso espositivo. Al termine della mostra una macchina accidentata sta vicina a dei metronomi che segnano e ricordano il tempo. L’androne di ingresso è tappezzato di 40’000 biglietti

Un momento della mostra Shit and Die in corso a Torino. (Keystone)

da un dollaro, che si giura siano veri. Shit and Die deve il titolo all’opera del videoartista statunitense, scultore, fotografo e studioso della funzione comunicativa del linguaggio artistico Bruce Nauman: One Hundred Live and Die dove una scritta al Neon allude ai cento modi possibili, banali o tragici ma comunque reali, di vivere e morire, riflette sull’impotenza di fronte alla mortalità, sui paradossi della universale condizione umana. Dove e quando

Shit and Die, Torino, Palazzo Cavour (Via Camillo Benso Conte di Cavour, 8). Orari: ma-me-ve-sa-do, 11.0019.00; giovedì 15.00-21.00; lunedì chiuso. Fino all’11 gennaio 2015. www.artissima.it


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Cultura e Spettacoli

Umiliarsi per lavorare Cinemando I Dardenne: due cineasti belgi e una serie inimitabile di capolavori gio di fluidità esistenziale mostrato dai Dardenne a noi pare posseduto da una maestria registica che non concede un segno di troppo, non un solo dettaglio mancante all’osservazione. In tanta intelligenza e giustezza la ripetizione traduce l’irrimediabilità morale della situazione, l’emozione, e tutta la tensione drammatica di una meccanica ormai sfuggita al controllo.

Fabio Fumagalli **** Due giorni, una notte, di Jean-

Pierre et Luc Dardenne, con Marion Cotillard, Fabrizio Rongione, Pili Groyne (Belgio 2014) Prima di ogni altra cosa Deux jours, une nuit è qualcosa di raro, un thriller, oltre che psicologico, economico, sociale e politico. A completare la loro serie inimitabile di tutti i capolavori, iniziata nel 1999 con Rosetta, il film rappresenta un ulteriore e quasi impensabile passo innanzi (visto il proverbiale affinamento della parabola creativa di Jean-Pierre e Luc Dardenne) nella filmografia dei due fratelli. Con uno sguardo sempre più radicale sulla vita, ma altrettanto perspicace e generoso, i due cineasti belgi (ai quali va sommata una meravigliosa Marion Cotillard) in Due giorni, una notte riescono a ottenere da un documento preciso, da una di quelle loro tipiche trasposizioni della realtà colta nell’istante presente, la densità drammatica, la suspense ai confini del sopportabile che appartiene solitamente al film di finzione. Così, catturano l’attenzione dello spettatore verso il dramma quotidiano, autentico dell’individuo: quello che la nostra assuefazione al consumo bulimico, manipolato e distratto dell’informazione non ci permette ormai più di percepire. Con Sandra in primissimo piano, con quel suo giovane corpo esausto che rende la Cotillard indimenticabile, entriamo subito in simbiosi: mentre si sveglia, cuoce una torta, s’impone di non

**** Boyhood

Richard Linklater **** Timbuktu

Abderrahmane Sissako **** Si alza il vento

Hayao Miyazaki

Teatro In scena a Chiasso la riproposizione

della Serata futurista di un secolo fa

Massimiliano Finazzer Flory nei panni di Filippo Tommaso Marinetti.

Kaveh Bakhtiari *** Il giovane favoloso

Mario Martone *** Le meraviglie

Alice Rohrwacher *** Interstellar

piangere. Non è che una giovane operaia reduce da una depressione, madre di una piccola famiglia, in procinto di riprendere il lavoro: quando la telefonata di un’amica le comunica che i suoi colleghi hanno votato. Posti dalla direzione (in nome di quel termine insopportabile di spending review che dovrebbe servire a relativizzarne i traumi oltre che la comprensione) di fronte all’alternativa di votare l’approvazione al licenziamento della collega, oppure di ricevere ognuno un premio di 1000 euro, condizionati dalla precarietà della situazione lavorativa ed economica a soprassedere alle regole della solidarietà, non pos-

Un Marinetti quasi malinconico Forse era ingenuo aspettarsi uno spettacolo che ricostruisse l’ambiente infuocato e rissoso di quelle ormai mitiche serate al Teatro Costanzi di Roma, tenute il 20 febbraio e il 13 marzo del 1913. Nessuno di noi spettatori del resto era entrato a teatro armato di pomodori, carciofi e altri ortaggi, armi populiste che in quelle sere erano state lanciate a profusione sul palco per intimidire e punire Marinetti, Boccioni, Pratella e Papini. Nessuno scambio di insulti tra palco e platea, quindi, nella ricostruzione teatrale proposta da Massimiliano Finazzer Flory al Cinema Teatro di Chiasso. Il pubblico ha reagito con compostezza alle peggiori provocazioni marinettiane: «Noi vogliamo abolir gli applausi!» era forse la minaccia peggiore e anche la più controproducente. E comunque non si è realizzata. La rievocazione proposta da Fi-

***(*) L’escale

Marion Cotillard in una scena del film diretto dai fratelli Dardenne. (Keystone)

nazzer ha cercato di cucire tra loro i documenti più eloquenti e forse più conosciuti che riassumono la poetica futurista. Non potevano mancare, ad esempio, Adrianopoli assedio orchestra (poema guerresco conosciuto anche come come Zang tum tumb) e il bellissimo Elogio di Capri. La mise en scène proposta sembra però una versione beckettiana dell’evento che vuole far rivivere. Sul palco deserto, in penombra, tra due panchine e una catasta di sedie coperta da una bandiera italiana abbandonata, l’attore declama quei testi rivoluzionari con una recitazione contenuta, quasi sommessa. Accompagnano la narrazione le coreografie (su musiche di Strawinsky, Debussy e Sakamoto) di Michela Lucenti. Con i suoi movimenti quasi meccanici e marionettistici lei sì, riesce a introdurre elementi di durezza e di disarmonia che i futuristi certamente cercavano di evocare, in nome della modernità. Anticlassicisti per definizione, quei poeti, pittori e scultori volevano provocare e svegliare l’Italia dal suo sonno culturale. E qui il loro discorso ha forse, a distanza di cent’anni, ancora una sua attualità. Marinetti declamava «Vogliamo batterci contro l’arte industriale!» e forse qualcuno oggi può essere d’accordo con lui: qui Finazzer fa bene a ricordarcelo. Più difficile forse accettare il programmatico «Vogliamo distruggere le ricostruzioni storiche sul palcoscenico!». È esattamente ciò a cui abbiamo assistito… Uno spettacolo tutto sommato quasi malinconico: difficile ritrovare qui l’energia superomista e il dinamismo guerrafondaio. E forse, a distanza di tempo e con il senno di poi, è meglio così. /AZ

sono in pratica che accettare. Siamo di venerdì, e la decisione finale avverrà lunedì: la giovane donna avrà allora due giorni e una notte per tentare, in un porta a porta commovente oltre che segnato da un istinto di sopravvivenza nei confronti di una scadenza dalle prospettive mortali, di far loro cambiare d’idea. Di rinunciare a quel bonus che – è lei la prima a saperlo – è indispensabile alla loro esistenza. Di una essenzialità mai raggiunta, un’aderenza all’attualità dei problemi esistenziali, economici e sociali nei quali stiamo affondando, questo minuto, immenso film si fa allora riflessio-

ne filosofica e poetica di una giustezza toccante. Da una parte le ragioni di un meccanismo inesorabilmente in preda al cinismo, dall’altra gli ultimi ricorsi a una dignità e una solidarietà forse irrecuperabili da parte della politica. Abbassarsi, umiliarsi per lavorare: filmando la serie dei quattordici incontri che la protagonista deve affrontare, quattordici situazioni e argomenti simili, ma sempre diversi a dipendenza delle psicologie da affrontare, i due Dardenne sfidano il rischio dello schema, di una ripetitività che per alcuni è apparsa lasciar intravvedere il procedimento. Al contrario, questo ennesimo prodi-

Christopher Nolan **(*) Sils Maria

Olivier Assayas **(*) Anime nere

Francesco Munzi **(*) Maps to the stars

David Cronenberg **(*) Fuori mira

Erik Bernasconi *(*) Guardiani della galassia

James Gunn *(*) Lucy

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Cultura e Spettacoli

La musica e l’importanza che non c’è più (se non nei film) DVD Pubblicate in home video le ultime opere di Jarmusch e dei Coen, con la musica Zeno Gabaglio Per quelle cose che ci risultano davvero importanti siamo sempre disposti a pagare e magari a pagare ancora di più. È questo il dato di fondo – drammaticamente e inevitabilmente materialistico – per ogni ragionamento attorno all’uomo contemporaneo, alle sue abitudini, alla sua cultura, ai suoi valori. Un dato senz’altro crudo, che letto alla rovescia così suonerebbe: se non pagheresti mai per avere o esperire qualcosa, significa semplicemente che quella cosa per te non è importante. La musica – oggi più che mai strozzata dal crollo commerciale – è dunque da ritenersi sempre meno importante per l’uomo. Meno importante di quando – fino a pochi lustri fa – si aspettava con trepidazione l’uscita di un determinato disco per prenderlo e ascoltarlo con gli amici in religioso silenzio, di quando si risparmiava settimane per andare a vedere un concerto, di quando si rinunciava alle vacanze per comprarsi una chitarra con cui suonare e cantare in compagnia. Tutto questo non succede più perché la musica – che nel panorama sonoro quotidiano è paradossalmente onnipresente – è in definitiva meno importante, sempre meno decisiva nel definire la qualità di un’esistenza. È quindi curioso che due tra i registi di maggior culto della scena internazionale abbiano scelto per le loro ultime opere – da poco pubblicate in home video – proprio l’orizzonte musicale come tema o come scenario per lo svolgimento cinematografico. Tale curiosità non è però stupore, perché essendo nati negli anni 50 sia Jim Jarmusch sia i fratelli Coen hanno vissuto direttamente sulla propria pelle la stagione più calda – più adrenalinica, più idealistica, più mitologica – della musica

americana, subendo un inevitabile ed invidiabile imprinting soggettivo. Ma oggi i tempi per la musica sono cambiati, e il fatto che il loro parlare al mondo non sembri averne tenuto conto lascia emergere strane venature di nostalgia. Joel ed Ethan Coen, A proposito di Davis

Inside Llewyn Davis la questione musicale la prende di petto, raccontando qualche mese della storia esistenziale e artistica di un cantautore neofolk. Siamo nei primi anni Sessanta e in quello snodo della cultura americana che fu il Greenwich Village di New York e l’ispirazione nell’inventare il personaggio fittizio Llewyn Davis viene fatta risalire a Dave Van Ronk, cantante effettivamente esistito e che ha più volte incrociato sui palchi dei café-downtown – come l’ultima immagine del film lascia presagire, inquadrando di sfuggita un giovanissimo Bob Dylan – i più celebri protagonisti della stagione folk. E il contenuto forte del documentario è proprio quello di presentare una scena in sé estremamente diversificata – al netto delle semplificazioni che le storie del rock hanno voluto fare – dove i generi e le poetiche convivevano uno accanto all’altro, dove il problema del successo economico era già ben presente, dove una moltitudine di sconosciuti ha foraggiato la crescita di poche star. Ribadendo soprattutto una fondamentale verità: chi sceglie di passare la vita salendo su un palco a raccontare se stesso è fondamentalmente un pazzo egomaniaco. Jim Jarmusch, Solo gli amanti sopravvivono

Protagonisti nell’ultimo film di Jarmusch sono invece i vampiri. Ma il dato saliente è che uno di loro – Adam, impersonato da Tom Hiddleston ed

Oscar Isaac in A proposito di Davis dei fratelli Coen.

evidentemente immortale – avendo attraversato secoli di cultura occidentale e avendo potuto conoscere e praticare tutte le attività dello scibile umano si sia ritrovato nel nostro presente a passar le giornate registrando musica postrock. A Detroit, più precisamente, in uno studio nascosto nella decaduta periferia indu-

striale e arredato con un incredibile gusto per il vintage analogico: qui i suoni riflettono da vicino i gusti dello stesso Jarmusch, sviluppati nel tempo con la militanza nel gruppo SQÜRL accanto al vulcanico Jozef van Wissem, che è responsabile dell’intera colonna sonora. I vampiri di Solo gli amanti sopravvivono

non portano in scena essenziali riflessioni rispetto al tema-musica, ma già solo il fatto che molta della forza evocativa del film sia legata all’iconografia rock fa sorgere in tutti noi un po’ di nostalgia per quell’importanza che ormai non c’è più, e che alle nuove generazioni risulterà sempre meno comprensibile.

Repetita non sempre iuvant Musica Vent’anni dopo: la leggenda chiamata Pink Floyd pubblica un «post scriptum» all’ultimo album del 1994 –

senza riuscire a sfuggire alla sindrome del déjà-vu Benedicta Froelich Si sa, in arte le aspettative di lunga data possono essere pericolose, soprattutto quando si parla dei grandi nomi della musica rock – personaggi di tale rilievo da essere ormai da tempo assurti allo status di vere e proprie icone della scena internazionale, il cui nome è divenuto sinonimo di mitizzata eccellenza e irripetibili meraviglie sonore. A cinquant’anni dal suo esordio, la storica band inglese dei Pink Floyd costituisce uno dei massimi rappresentanti di

questa ristretta cerchia di «leggende», anche grazie all’alone di mistero che ne ha sempre circondato le attività: infatti, benché il gruppo non si sia mai ufficialmente sciolto, la pausa ventennale che ha seguito l’ultimo lavoro pubblicato sotto il nome «Pink Floyd» (The Division Bell, 1994) sembrava aver simbolicamente siglato la fine dell’avventura collettiva della formazione, già rimasta orfana di una significativa parte del proprio team creativo dopo la rancorosa defezione del songwriter e cantante Roger Waters (1985). A vent’anni

La copertina di The Endless River, realizzato dai due membri ancora attivi dei Pink Floyd, David Gilmour e Nick Mason.

di distanza, è quindi facile immaginare con quale emozione il mondo musicale abbia reagito all’annuncio, pochi mesi fa, che un nuovo album dei Pink Floyd stava infine per vedere la luce – anche perché, dopo la scomparsa di Richard Wright (2008), la band consta ormai di soltanto due dei suoi membri originali. The Endless River, questo il titolo del lavoro (presentato come l’album finale della band, nonché il «canto del cigno» di Wright), è appena giunto nei negozi, dimostrando, fin dal primo ascolto, come il fatto che la sua pubblicazione coincida con il ventennale dell’uscita di The Division Bell sia tutt’altro che casuale: il nuovo disco si potrebbe infatti definire come una sorta di «eredità» dell’album del ’94, in quanto gran parte delle tracce che lo compongono nascono direttamente dai numerosi demo incisi dalla band durante la lavorazione di quell’ultimo lavoro – un particolare confermato dal titolo del nuovo CD, citazione di un verso di High Hopes, la splendida ballata che chiudeva The Division Bell. Sfortunatamente, parte di The Endless River riprende quest’idea nel modo più scontato, giungendo ad apparire come una continua citazione del passato: basta infatti ascoltare l’efficace singolo di lancio, Louder Than Words, per trovarsi davanti a un vero e proprio facsimile delle suggestioni di The Division Bell

– una sensazione che ricorre in diverse tracce, anche a causa della scelta di dedicare la quasi totalità del disco a suite esclusivamente strumentali. Sì, perché, per quanto i Pink Floyd vantino illustri precedenti in quest’ambito, il rischio di «auto-citarsi» è sempre in agguato: lo dimostra un brano pur eccellente come It’s What We Do, che, per quanto intrigante, richiama da vicino le atmosfere di un tempo, stavolta addirittura dell’epoca di Wish You Were Here (1975) – laddove invece pezzi più «azzardati» come Ebb and Flow e lo psichedelico Skins mostrano una tendenza differente, orientata verso l’apertura a nuove sperimentazioni. Vero è che il songwriting di David Gilmour, rimasto principale motore creativo della band dopo l’abbandono di Waters, non ha mai posseduto il vigore a tratti rabbioso e disturbante dei lavori migliori a firma del collega (su tutti, The Wall, del 1979), preferendo piuttosto concentrarsi su armonie d’atmosfera e suggestivi assoli di chitarra. Ma ciò che a tratti sembra mancare in The Endless River sono la verve e l’originalità che da sempre hanno contraddistinto la band: elementi che Gilmour e il collega Nick Mason sembrano oggi tralasciare in favore di una malriposta sicurezza, quasi una concessione all’abitudinario, che certo non basta a soddisfare il pubblico di vecchia data – il quale, conoscen-

do a menadito i lavori precedenti del gruppo, non è insensibile al fatto che, a volte, le delicate tastiere e gli assoli di chitarra del vecchio David Gilmour sanno un po’ di manierismo. Tuttavia, le cose vanno decisamente meglio quando la band abbandona le atmosfere melliflue per dedicarsi a brani più movimentati, come il delicato Anisina, contraddistinto dall’uso del pianoforte in contrapposizione alla solita tastiera elettronica, o il piacevole Allons-y (1) (non a caso un outtake originale del 1993). Così, se è vero che la forza dei Pink Floyd è sempre stata in quel sound unico e personale che li ha resi istantaneamente riconoscibili, è anche vero che, forse, Endless River avrebbe potuto beneficiare di una maggiore sperimentazione creativa; anche se, in fondo, il problema principale sta semplicemente nel fatto che, in termini sonori, l’album risale ormai a un ventennio fa, e come tale non può che comportare un inevitabile sapore di déjà-vu sonoro. Certo, considerato come collezione di outtakes risalenti al 1993-94, The Endless River resta un meritevole e più che dignitoso documento del ciclo finale di una grande band; ma non si può reprimere un vago senso di rimpianto, al pensiero di come questo disco avrebbe potuto suonare (ed essere accolto) se solo fosse stato pubblicato all’epoca della sua incisione.


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Cultura e Spettacoli

Petrowskaja, la ricerca delle radici

Tim, l’inventore di Internet Cultura digitale Il Premio Gottlieb

Pubblicazioni Esce per i tipi di Adelphi Forse Esther,

storia di un viaggio realizzato per scongiurare ogni forma di oblìo

Duttweiler allo scienziato Tim Berners-Lee

Negli scorsi giorni è stata annunciata ufficialmente la decisione di assegnare a Sir Timothy Berners-Lee il dodicesimo premio Gottlieb Duttweiler. Il riconoscimento prende il nome dall’imprenditore zurighese che è stato fondatore di Migros e viene assegnato dal 1970 a personalità del mondo della cultura, dell’economia, della politica o della ricerca che si sono distinte per l’eccezionale operato a favore dell’umanità. Tra i premiati, nel corso degli anni, si annoverano infatti il fondatore di Wikipedia, Jimmy Wales, l’ex-Segretario generale dell’ONU e Premio Nobel per la pace Kofi A. Annan e l’ultimo presidente cecoslovacco Václav Havel. La scelta è caduta quest’anno invece sul fisico e ingegnere informatico britannico che sviluppò 25 anni fa al CERN di Ginevra il World Wide Web. Il Gottlieb Duttweiler Institut ha dunque deciso di onorare Berners-Lee per la sua scoperta pionieristica. Tim Berners-Lee sviluppò nel 1990 nel laboratorio di ricerca del CERN, nei pressi di Ginevra, le tecnologie determinanti che hanno portato alla creazione del maggior mezzo di comunicazione della storia umana; il World Wide Web. Un’opera che ha trasformato tutti gli aspetti della nostra vita; dall’informazione all’istruzione, dal lavoro al commercio, dalla salute alle relazioni interpersonali e alla distribuzione dei contenuti mediatici. Insignito del titolo di Baronetto

dalla Regina Elisabetta nel 2004, Berners-Lee ha sempre messo il suo operare al servizio della comunità. Si è dedicato al costante miglioramento della rete e si è impegnato affinché essa resti aperta e accessibile a tutti, lottando inoltre affinché i governi mondiali si adoperino concretamente per garantirne la trasparenza e la fruibilità da parte della maggior parte di persone. «Portare avanti la rete, per far progredire l’umanità» è il suo impegno, che considera come fondamentale il valore della rete quale esperienza democratica e comunitaria. Da una recente analisi sociologica effettuata in rete dal GDI (gdi.ch/vordenker2014), risulta che Berners-Lee è attualmente ritenuto il secondo più influente sostenitore del pensiero globale a livello mondiale. Tale risultato, che conferma la sua popolarità e la sua autorevolezza, non ha comunque influito sull’assegnazione di questo premio. L’ambito riconoscimento di 100’000 franchi svizzeri gli sarà conferito il prossimo 29 aprile 2015 a Rüschlikon (ZH), all’interno dell’Istituto Gottlieb Duttweiler, il centro di ricerca che lo stesso Duttweiler ha fondato nel 1962, con l’intenzione di promuovere una riflessione ad alto livello sui temi della ricerca scientifica nell’ambito del commercio. Sir Tim Berners-Lee sarà presente alla consegna del Premio Gottlieb Duttweiler, insieme a una prestigiosa cerchia di ospiti. Urs Gasser, professore ad Harvard, terrà l’elogio ufficiale.

Katja Petrowskaja alla Fiera del libro di Francoforte. (Keystone)

Luigi Forte Non c’è da stupirsi che nel viaggio di ricerca delle proprie radici familiari disseminate un po’ dovunque fra Russia, Polonia e Austria, l’ebrea ucraina Katja Petrowskaja abbia talvolta provato un senso di smarrimento. Come a Varsavia – racconta nel suo appassionato romanzo Forse Esther uscito da Adelphi nell’ottima traduzione di Ada Vigliani – visionando vecchie fotografie del ghetto per trovare la casa di Zygmunt, il figlio maggiore del bisnonno Ozjel e di Estera, la sua prima moglie sordomuta. Mentre il passato sbiadiva in quelle immagini, la sua identità sembrava vacillare: «Pensavo in russo, cercavo i miei parenti ebrei e scrivevo in tedesco».

La discesa agli inferi di Katja Petrowskaja è un atto d’amore e di riscatto, soprattutto verso le persone care Nata a Kiev nel 1970, Katja vive in realtà da anni a Berlino dove lavora come giornalista, e il suo percorso a ritroso nel tempo fra culture e lingue diverse, fra guerre, lager e gulag è un continuo viavai fra l’io e il non io, fra ieri e oggi, fra le rovine, l’orrore del passato e la memoria che scava nel tempo, cerca testimonianze, assordata da immani silenzi. È tuttavia una tensione ricca di promesse: «Avevo la fortuna – confessa – di potermi muovere nella fenditura dei linguaggi, nello scambio, nell’al-

ternanza dei ruoli e delle prospettive». Il suo sguardo attento e affettuoso interroga documenti, ravviva personaggi, evoca atmosfere di decenni lontani, talvolta con un tocco di malinconica ironia, mentre nel vuoto o nell’indifferenza del presente scopre segni indelebili, ferite mai rimarginate. La sua discesa agli inferi è un atto d’amore e di riscatto: sottrae all’oblio nomi e volti cari, e segue instancabile le tracce di una tragedia senza confini. È un tuffo nella storia per scongiurare ogni possibile forma di rimozione, percorso individuale che rivisita gli angoli più bui del Novecento, sul quale incombono la stella gialla di Davide a sei punte e quella rossa del Cremlino. Poco alla volta da documenti o testimonianze dirette (splendida quella della vecchia Mira sfuggita per miracolo all’Olocausto ed emigrata negli Stati Uniti) riemergono destini e vite spezzate accanto a ritratti di intensa vitalità come quello della nonna materna Rosa, l’amata babuška, generosa logopedista di Varsavia che salvò duecento bambini scampati all’assedio di Leningrado. In assenza del marito ucraino Vasilij prigioniero a Mauthausen, poi finito in un gulag da cui tornò solo anni dopo, Rosa crebbe da sola le due figliole. E proseguì la tradizione del padre Ozjel, originario di Vienna, che con i suoi fratelli a Varsavia si era occupato di orfani sordomuti e passava per un guaritore anche se era solo un maestro. Sulle tracce del bisnonno la realtà familiare si scompone in infiniti tasselli e Katja si addentra nella provincia polacca, a Kalisz, dove le strade sono lastricate con le pietre tombali del vec-

chio cimitero ebraico. Le sorprese non si fanno attendere anche quando, con fiuto invidiabile, la scrittrice si dedica al côté paterno della famiglia, che si guadagna, suo malgrado, un posto nei libri di storia, giacché il prozio Judas Stern sparò nel marzo del 1932 al consigliere dell’ambasciata tedesca Fritz von Tardowski nel centro di Mosca. Spunto ideale per un romanzo di Le Carré, l’attentato stimola fantasie inquietanti sui servizi segreti e sui rapporti fra Germania e Unione Sovietica proprio alla vigilia dell’ascesa di Hitler al potere. Katja Petrowskaja vuole scoprire, anzi evocare tracce specie là dove il potere ha occultato gli orrori della guerra che per quelli della sua generazione fu la più importante «propedeutica alla storia del mondo». Perciò visita Mauthausen alla ricerca quasi visionaria della figura del nonno Vasilij, e torna a Babij Jar, la forra dove furono gettati i cadaveri di migliaia di ebrei di Kiev uccisi dai tedeschi nel settembre del 1941 con il supporto della polizia ucraina. Più tardi Stalin mise a tacere tutto quanto, proibendo qualsiasi inchiesta sull’argomento. Proprio qui la bisnonna paterna venne freddata da due soldati tedeschi a cui aveva chiesto la strada per Babij Jar. Forse si chiamava Esther. E ora riprende a vivere in questa scrittura che non lascia requie all’oblio: nel ricordo delle vittime riscopre infatti il mondo di ieri.

Top10 DVD 1. Dragon Trainer 2

Animazione 2. Planes 2

Animazione 3. Transformers 4

M. Wahlberg, N. Peltz 4. 22 Jump Street

J. Hill, C. Tatum 5. Tutte contro di lui

C. Diaz, L. Mann 6. Mr Peabody e Sherman

Animazione

1. Wilbur Smith

Il Dio del deserto, Longanesi 2. Gianrico Carofoglio

La regola dell’equilibrio, Einaudi 3. Ken Follett

I giorni dell’eternità, Mondadori 4. Massimo Gramellini

Avrò cura di te, Longanesi 5. Alessandro D’Avenia

Ciò che inferno non è, Mondadori 6. Jeff Kinney

Diario di una schiappa Sfortuna nera, Castoro

7. Barbie e il regno segreto

Animazione

7. John Green

Colpa delle stelle, Rizzoli 8. 3 Days To Kill

K. Costner, A. Heard

8. Benedetta Parodi

Molto bene, Rizzoli 9. Anarchia - La notte del giudizio

F. Grillo, C. Ejogo

9. Antonella Clerici

La cucina di casa Clerici, Rizzoli

Bibliografia

Katja Petrowskaja, Forse Esther, trad. di Ada Vigliani, Adelphi, p. 241, Є 18,00.

Top10 Libri

10. Monster High - Fusioni mostruose

Animazione

10. Camilla Läckberg

Il guardiano del faro, Marsilio


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Cultura e Spettacoli

La soglia della manipolabilità Poesia Del Vecchio Editore dedica un nuovo volume alla poetessa Hilde Domin

Daniele Bernardi Proseguendo con estrema chiarezza e coerenza, la casa editrice Del Vecchio propone oggi il terzo volume dedicato all’opera della poetessa tedesca Hilde Domin (Colonia, 1909 – Heidelberg, 2006). Si tratta di Lettera su un altro continente (a cura di Paola Del Zoppo, traduzione di Ondina Granato), un tomo contenente quelle che sono considerate «le raccolte più mature» della grande scrittrice. Va sottolineato quanto le iniziative editoriali dei tipi della Del Vecchio siano, costantemente, rigorose e coraggiose: i poeti che, recentemente, l’editore ci ha fatto scoprire sono tutti interessanti e pressoché sconosciuti al lettore italiano – tra questi ricordiamo Hans Sahl, un nome non particolarmente noto, anche in Germania. E con quest’ultimo Hilde Domin ha molto a che spartire: infatti, la intellettuale nata «da una famiglia dell’alta borghesia, di religione ebraica», come Sahl, che fu esule per gran parte della sua vita negli Stati Uniti, con l’ascesa del nazionalsocialismo dovette ben presto lasciare il proprio Paese per cercare riparo altrove (dapprima in Italia, poi in Inghilterra e, successivamente, nella Repubblica Dominicana). Anche questo evidenzia come, attraverso la scelta di determinate opere, la Del Vecchio tenda alla formulazione di un preciso discorso culturale, che vede nella poesia la patria di chi è straniero e sopravvive, a fatica, alla violenta spinta verso una massificata uniformità.

Hilde Domin cominciò a scrivere nel momento in cui perse i suoi due luoghi d’origine Un altro aspetto interessante e, a mio avviso, commovente nella avventura umana di Hilde Domin è quello di una vocazione lirica piuttosto tardiva. Scopriamo, leggendo la sua biografia, che le sue prime composizioni risalgono al 1951 (l’anno in cui morì la madre) – vale a dire a quando la poetessa aveva

Un ritratto della poetessa Hilde Domin risalente agli anni Novanta. (Keystone)

quarantadue anni (cosa piuttosto insolita per una scrittrice di versi): «Quando, dopo la morte di mia madre, (...) mi trovai a un limite, ecco che all’improvviso avevo la lingua, che per molti anni avevo servito» (fino a quel momento, dopo aver studiato giurisprudenza, economia e sociologia, si era guadagnata da vivere come traduttrice, fotografa, insegnante e lettrice). Vediamo dunque che per la Domin quella della poesia, come molte delle cose più importanti nella vita di una persona, è stata una condizione pressoché inaspettata («Non era qualcosa di previsto. Non doveva accadere»). Questo coincidere della perdita dei due luoghi dell’origine (la carne materna e la terra natale) è, evidentemente, il tratto che contraddistingue, e da cui germoglia e si dirama, una scrittura venuta alla luce sotto il segno dello sradicamento: «Le mie parole sono uccelli / che mettono radici» leggiamo tra i versi

della Domin, dove vediamo, avanzando nella lettura, fino a che punto il linguaggio sia per lei l’unica casa in cui si possa cercare riparo e dove, miracolosamente e non senza sforzi, praticare una propria forma di resistenza (l’unica, probabilmente) contro le macchine della morte che imperversano lungo il corso della Storia (riferendosi all’arte della poesia, nel suo A cosa serve la lirica oggi, afferma: «chiedo: si tratta almeno di un innalzamento della soglia della manipolabilità?»). Sono molti, potremmo dire tutti, i testi su cui viene voglia di soffermarsi leggendo i componimenti raccolti in questa bella antologia (ricordiamo i titoli degli altri due tomi apparsi precedentemente: Con l’avvallo delle nuvole e Alla fine è la parola). Una sezione, a mio avviso, particolarmente bella è quella intitolata Figure rupestri (1968). È davvero toccante leggere versi come quelli de Il mio sesso trema, dove poche parole

sanno farci percepire pienamente, con quella strana semplicità che solo i poeti conoscono, il fiorire del desiderio amoroso nel corpo di una donna: «Il mio sesso trema / come un uccellino / nella presa dei tuoi occhi. / Le tue mani una brezza leggera / sul mio ventre. / Tutte le difese mi abbandonano. / Apri l’ultima porta. / Sono così spaventata / dalla gioia / che tutto il sonno si fa sottile / come un fazzoletto liso». Ma uno degli aspetti più importanti, come già accennato, è certamente quello della costruzione di una sorta di isola-trincea in cui trovare il rifugio che il mondo, in ogni epoca, nega alla vita minuta. In questo senso, ad esempio, leggiamo versi che denunciano la trasformazione dell’esistenza stessa in gelido sistema di stoccaggio (si veda la composizione Abolizione dell’obbligo di obbedienza agli ordini: un punto di vista, dove si narra di una colomba che aziona, inebetita, «la leva» in una fabbrica statu-

nitense). Oppure incontriamo la celebre poesia Ti voglio (scopriamo, consultando le note al testo, che questa «compare in tutte le antologie scolastiche tedesche») che, riprendendo le formule confuciane (così come fece un altro grande poeta del Novecento, Ezra Pound), mette a fuoco la pericolosità dell’uso arbitrario delle parole – da cui dipende lo svolgersi del destino della società umana. L’opera di Hilde Domin, così misconosciuta nelle nostre latitudini linguistiche, è, come nel caso di tutti i grandi lirici, una sorta di manuale di sopravvivenza per chi cerca, a fatica, di non lasciare che lo spirito soccomba. C’è da augurarsi davvero, come sperava la poetessa, che la ricezione e la pratica di questo «fare» che è l’abitare i versi siano davvero una possibilità di essere un po’ meno schiavi (o un po’ più coscienti di esserlo) e più capaci di conservare ciò che di prezioso, momentaneamente, c’è ancora in noi. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

A Sarmede fiabe e leggende dalla Scozia Illustrazione La Mostra Internazionale dà appuntamento per la 32ma volta

Piero Zanotto C’è un motivo in più per recarsi a Sarmede, il borgo trevigiano adagiato presso il Gran Bosco del Cansiglio, in occasione della sfilata all’interno del lindo nuovissimo razionale palazzetto ormai Casa delle «immagini della fantasia». Immagini disegnate con tutte le tecniche possibili destinate al libro per l’infanzia che questa volta tra tanto altro parlano della Scozia. Terra spazzata dai venti e travolta da onde impetuose, con le sue scogliere a picco sul mare, le dolci brughiere ricoperte d’erica e il cielo di immensa profonda luce cangiante. Gelosa delle proprie tradizioni «protette» dal resto del mondo. Riunite in lindi pannelli a cornice tutte a parlare di fiabe e leggende di radice celtica nel riassuntivo titolo (ch’è anche del libro, il decimo in tema fiabesco a firma dello specialista Luigi Dal Cin, pubblicato in collaborazione con l’evento veneto che compie 32 anni da Franco Cosimo Panini) Il Cantico delle Scogliere.

La Scozia, con le sue leggende e le sue tradizioni, rappresenta uno dei leitmotiv della mostra di Sarmede Il saluto viene in apposita sala dalla coloratissima pianta dell’isola: Wildlife of Scotland. Sulla cui superficie vediamo coabitare tra i fiordi sconfinanti l’azzurro del mare una ricchissima fauna, specie marine e di terra e cielo le più diverse. Di lato una serie di pannelli offrono, portati a Sarmede dell’Edinburgh College of Art, le raffigurazioni distinte create da dodici illustratori (li citiamo con merito: Alexander Jackson, Philip Longon, Amy Johnston, Eilidh Muldoon, Kate McLelland, Anine Bosenberg, Laura Darlimng, Kasia Matyjaszek, Laura Clark, Jonathan Gibbs, Hannah Foley, Cate James) le caratteristiche di vita

Una suggestiva illustrazione realizzata dall’italiano Marco Somà.

filtrate tra realtà e immaginazione dei dodici mesi dell’anno in Scozia. Con commento didascalico che ne aumenta il fascino spruzzato di poesia. Nei due giorni inaugurali per queste e le altre immagini ispirate alla Scozia dovute a figurinai di più Paesi, c’è stato un tocco di atmosfera in più: saliva dall’esterno col suono delle cornamuse dei piper in kilt Daniel James Forsyth McIntosh e Alex Scott di Earlston, città gemellata con Cappella Maggiore, paese confinante con Sarmede. Disseminati tra i «quadri» alcuni testi di sornione invito rivolti al visitatore col titolo «Indovina la rima». Eccone uno: Riesco a sbraitare come un maiale / come la brezza poi so bisbigliare / le mie gambe di legno ti fanno danzare / la mia pancia di capra ti fa ridacchiare / se usi bene le dita so fare le fusa / indovina la rima: sono la... Inutile scervellarsi. La risposta (detta sottovoce, manca infatti) dice essere la cornamusa.

Ospite d’onore alla Casa della Fantasia con una straordinaria sequenza di sue opere è l’acquarellista fiorentino di delicatissima vena Giovanni Manna. Affianca la panoramica delle opere e libri illustrati di 30 artisti di Paesi vicini e lontani: curioso il lavoro (testo e immagini di sostanza quasi onirica) divenuto libro col titolo Federico, della riminese Eva Montanari che evoca con infinita affettuosità l’infanzia e il cinema del suo concittadino Federico Fellini, fantasioso «bugiardo», miscelandone l’immagine col bugiardissimo Pinocchio, e l’universo sognato dello scomparso maestro praghese Stepan Zavrel cui si deve 32 anni fa l’«invenzione» della Mostra d’illustrazione per l’infanzia di Sarmede: di Stepan, che a Sarmede ha un proprio museo custode del suo universale mondo figurale, sono in mostra i rodoid del film d’animazione a collage di 50 anni fa La gazza ladra dalla partitura di Rossini, cui collaborò lavorando al fianco di Giulio Gianini e Lele Luzzati nel loro

atelier romano, ed è stato presentato come nuovo, finora inedito nella versione italiana curata da Bohem Press Italia, il simpaticissimo suo libro «dipinto» sui testi di Mafra Gagliardi Il ladro di colori edito nel lontano 1972 solo in lingua giapponese. È da aggiungere che Manna ha disegnato le copertine ispirate ai miti della Scozia, ovvero il suonatore di zampogna in tartan e il simbolico cardo, sia del libro Il Canto delle Scogliere sia del Catalogo della mostra, il cui ultimo giorno di visita (poi veleggerà come sempre verso altri lidi raggiungendo anche la Scozia) sarà il 18 gennaio 2015, lasciando però le porte aperte ai numerosi tradizionali corsi e laboratori creativi. Dove e quando

Le immagini della fantasia, Sarmede (Treviso) c/o Casa della Fantasia (Via Marconi, 2). Orari: Lu-ve 9.00-17.00; festivi e prefestivi 10.00-21.30. Info: www.sarmedemostra.it

Meridiani e paralleli A cinquant’anni dalla morte del grande poeta, qualche considerazione

sui giovani di oggi e sul valore della poesia

Il prossimo 4 di gennaio 2015 correrà il cinquantenario dalla morte di Thomas Stearns Eliot, (era nato nel 1888) che a me pare (pare: non vado oltre) il maggior poeta del Novecento. Cominciai a leggerlo, e amarlo, nel 1955, in un’edizione Guanda curata da Luigi Berti: non era la prima, era la quinta edizione: le cose, si vede, andavano meglio, per la poesia, nel 1955! Poi nel 1961 mi comprai, indovinatissima spesa, a Milano, «in taberna libraria Rizzoli», l’edizione Bompiani, a cura e con meravigliosa introduzione di Roberto Sanesi (Per una lettura di T.S. Eliot), della Harvard University: ottanta splendide pagine che aiutano anche a leggere bene due poeti come Dante Alighieri (il sommo) e il francese dell’Ottocento Jules Laforgue, molto cari e importanti per Eliot. E non solo per lui. Per capire un po’ di più come siamo, o possiamo essere, oltre che pieni, anche uomini vuoti. Divago qui con una «stupidaggine» con cui mi faccio chiamare in causa: scherzando. È che rileggendo una delle poesie di Eliot, Il canto d’amore di J. Al-

Visti in tivù

Dall’11 dicembre su Retequattro, quasi in contemporanea con RTS un

Antonella Rainoldi

Gli uomini vuoti di Eliot Giovanni Orelli

Con Downton a vincere è la qualità

fred Prufrock, che si apre, guarda caso!, con sei versi di Dante (Inferno XXVII, 61-66), al verso 18 incontro una parola che, nella traduzione italiana, non capisco. Amo, e vivo in parte della lingua italiana, ma non ho mai preteso di esserne uno «specialista» (titolo che non amo). La parola è gorelli. Istintivamente mi è venuta voglia di scherzare: g orelli = g(Giorgio) e/o g(Giovanni) Orelli. Ma perché, e rifaccio faccia seria, ma perché chi fa le antologie scolastiche non si preoccupa, o si preoccupa poco, di dire a un ragazzo di media (facciamo pure di liceo) che cosa vuol dire gorelli? Il Dizionario (utile, bello) del Devoto non nomina la parola. Il GDLI, Grande Dizionario della Lingua Italiana, la mania scellerata delle sigle, degli «specialisti», la nomina e la traduce: «rivolo d’acqua piovana». Ma voi, facitori di antologie acchiappasoldi (o è virtù dei vostri editori?) che cosa fate per aiutare, soprattutto lessicalmente, i vostri giovani lettori? Perché mettete nei vostri libri per ragazzi storie tutto sommato noiose (piaceranno a chi ce le ha messe, anche loro hanno i loro diritti!). Quanti sono i ragazzi (e i vecchi)

che non sanno che cosa sono i gorelli? Non è, propriamente parlando, il mio, un ragionamento; è (torno al difficile) una metafora. Ma ecco, finalmente, un frammento di una poesia di Eliot, che nella troppo piccola parte qui trascritta non presenta difficoltà di interpretazione. Gli uomini vuoti

Siamo gli uomini vuoti. Siamo gli uomini impagliati che appoggiano l’un l’altro la testa piena di paglia. Ahimè! Le nostre voci secche, quando noi insieme mormoriamo sono quiete e senza senso come vento nell’erba rinsecchita ..... Fra l’idea / e la realtà / fra l’impulso / e l’azione / cade l’Ombra... Fra la concezione / e la creazione / fra l’emozione / e la reazione / cade l’Ombra Ci sono uomini vuoti, uomini cattivi, ma anche uomini buoni. È ovvio che dica: scegliete i buoni.

Non quelli che vogliono sfruttarvi, sì quelli che vogliono aiutarvi per fare di voi NON degli uomini vuoti, ma uomini vivi, attivi, che «fanno». Alla vigilia del 2015, in forma di amichevole augurio per i giovani lettori di «Azione», aggiungo pochi versi da una poesia di Eliot, a cinquant’anni dalla sua morte: che vi aiuti a crescere bene.

Vedremo presto se in Italia la quarta stagione della serie tv più amata da inglesi e americani, trasmessa in prima visione assoluta da Retequattro, riuscirà a sollevarsi dal modesto 4% di share della terza, quella meno seguita in termini di ascolti. Quando abbiamo recensito per la prima volta Downton Abbey, la deliziosa serie inglese prodotta da Carnival Films per il network ITV, ideata e scritta da Julian Fellowes, lo sceneggiatore premio Oscar di Gosford Park, accennavamo a un errore principale: le vicende della famiglia Crawley e della sua servitù presuppongono un pubblico dai gusti raffinati, e il pubblico di Retequattro non è propriamente vocato alle raffinatezze televisive. Facile tracciare l’identikit dello spettatore tipo della terza rete di Mediaset, visto il successo di opere mirabili come Tempesta d’amore o Il segreto. Fin troppo facile. Alle accuse di una ibridazione del tutto sbagliata, il direttore Giuseppe Feyles ha risposto con fermezza: «È giusto mettere nel palinsesto anche la qualità alta. Noi dobbiamo offrire prodotti per ogni tipo di pubblico, non solo quelli ‘‘larghi’’, destinati a una platea più ampia. Gli ascolti non sono una sorpresa. Per un livello qualitativo così alto possiamo rinunciare a qualche punto di share. Il risultato è comunque ottimo». Ne prendiamo atto e ringraziamo, anche se il ragionamento ci appare insidioso. La quarta stagione di Downton Abbey arriva su Retequattro l’11 dicembre, a più di un anno dalla messa in onda inglese su ITV, dove è già stata trasmessa anche la quinta (giovedì, ore 21.20; da noi, su RTS un, è visibile in versione integrale il venerdì in seconda e terza serata). Alla ripresa dei nuovi episodi, c’è ancora una Downton sospesa tra cambiamento e paura, ma tutto finisce per ruotare attorno a Lady Mary: dopo la morte improvvisa di Matthew, la giovane vedova si abbandona al suo destino, decisa a combattere con i suoi drammi interiori. Come abbiamo già avuto modo di sottolineare, la serie è un gioiello che merita di essere onorato: per la perfezione della scrittura, per la finezza delle psicologie dei personaggi, per l’accuratezza nella ricostruzione di un mondo diviso tra piani alti e piani bassi, per l’intensa recitazione dei protagonisti (su tutti primeggia l’anziana contessa madre, Lady Violet, interpretata da una magnifica Maggie Smith).

Miss Nancy Ellicott fumava e ballava tutti i balli moderni; Le zie non erano affatto sicure di cosa doverne pensare, ma sapevano che quello era moderno. Sembrano futilità. Come osserva il Sanesi, si tratta di porre insieme oggetti famigliari e apparentemente estranei l’uno all’altro, riuscendo a mettere in evidenza, alla fine, i loro legami sotterranei e imprevisti. Non capita forse così nel «nostro» vivere? PS: Sono contento, e lo dico a chi, come me, ammira Eliot, di non aver cestinato le due pagine (senza data) che «la Repubblica» (Alfredo Giuliani, Guido Almansi, Romano Giachetti) gli dedicò (suppongo 26 settembre 1988).

Maggie Smith è Lady Violet in Downton Abbey.


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Cultura e Spettacoli Rubriche

In fin della fiera di Bruno Gambarotta Il pianista illusionista Il piccolo Mario è pronto da un’ora per andare alla festa di un suo compagno d’asilo che compie cinque anni. La sua mamma no, è indecisa su quale vestito indossare per non fare brutta figura e l’asticella che marca il livello del suo nervosismo ha uno scatto verso l’alto ogni volta che Marco entra in camera a domandarle: «Ma quando andiamo?». Alla fine, esasperata, per toglierselo di torno lo confina sul balcone che dà sul grande viale alberato dal quale sale il rombo incessante del traffico e lì, miracolosamente, Mario s’acquieta. Uno spettacolo emozionante attira la sua attenzione: un’immensa gru, impegnata di solito nei traslochi o nelle riparazioni sulle facciate delle case, sta sollevando lentamente un nero pianoforte a gran coda, destinato all’appartamento accanto a quello in cui vivono Mario e la sua mamma. Quando il maestoso strumento, avvolto in coperte di lana come un cavallo sudato, arriva all’altezza della porta finestra attraverso la quale deve essere fatto passare per entrare

in casa, gli addetti all’ardita manovra incontrano un ostacolo imprevisto; un artistico telaio rigido, con i riquadri di vetro colorati e le liste di legno avvolte da piante rampicanti, ostruisce in parte il passaggio. È impossibile rimuoverlo senza spezzare una parte dei legni e strappare i filamenti delle piante. Il piccolo Mario assiste all’arrivo della padrona di casa, Matilde De la Maison Cerruti contessa di Cocconato e di Trana, convocata per dare il suo benestare alla dolorosa ma necessaria rimozione. Lei va subito all’attacco del titolare della ditta di traslochi: «È colpa vostra, avete sbagliato a prendere le misure». «Da sotto non si vedeva. Ora l’unica cosa da fare è smontare in fretta il telaio e toglierlo di lì». «Lei sta forse dando i numeri? Si rende conto che per toglierlo di lì me lo rovinate?» «Quante storie per quest’obbrobrio!» Obbrobrio? Quell’opera d’arte un obbrobrio? Il titolare dell’impresa di trasporti ignora che la signora contessa lo ha realizzato con le sue mani dopo aver seguito con le amiche più care un

contessa: «Per favore faccia spostare subito la sua gru perché devo uscire con la mia macchina». La contessa De la Maison ha superato la soglia dell’umana sopportazione: «Tanto per cominciare quella non è la mia gru e poi adesso non può muoversi di lì». «Io chiamo i vigili, vedremo se non può muoversi». «Non potete per una volta prendere il tram?». «Il tram prendetelo lei e il suo pianoforte. Io ho il diritto di usare la mia auto». È proprio vero che le grandi idee arrivano nei momenti dello stress supremo. Vedendo il suo autista che si avvia verso l’aeroporto per andare a prelevare il maestro Mazzonis in arrivo da Parigi, la contessa gli ordina di accompagnare quella borghesuccia e il suo bambino pestifero dove vogliono andare. Alla mamma di Mario sorride l’idea che le altre madri la vedano arrivare alla festa su un’auto di lusso guidata da un autista in livrea e accetta la proposta: «Purché fra quattro ore venga a riprenderci». L’autista promette, li porta a destinazione e prosegue per l’aeroporto arrivando in

tempo per ascoltare un annuncio diffuso dagli altoparlanti: l’aereo in arrivo da Parigi ha solo quattro ore di ritardo «per l’indisponibilità dell’aeromobile dovuta a equipaggio in transito», che chissà cosa significa. Quando finalmente il grande virtuoso della tastiera sbarca, l’autista, ricordandosi dell’impegno preso, gli chiede il permesso, subito accordato, di passare a prendere lungo la strada il piccolo Mario e la sua mamma. Nel frattempo la contessa ha convocato il maestro giapponese il quale, con quella pazienza che solo i maestri giapponesi posseggono, sta smontando pezzo a pezzo il suo capolavoro. Ignora, la signora contessa, che il suo pianista, quando ha saputo che si stavano recando a una festa di bambini, è impazzito di felicità. Lui, fin da piccolo, sognava non di diventare un musicista ma un illusionista. Ignorando il ricevimento che l’attende e le sollecitazioni dell’autista, rimarrà per tutta la sera alla festa a deliziare i bambini con i suoi giochi di prestigio, uno più mirabolante dell’altro.

natalizio, e l’unica via appariva uno scheduling sulla lunga distanza. Con l’aiuto di discrete ma costanti ricerche sul web, la zia trovò siti dapprima affidabili, e non è poco. Tutti le dicevano che cinque euro sono troppo pochi per un vestito, ma lei ha voluto saggiare il sito e così ha perso i cinque euro, più la commissione tale e la tassa talaltra, e molto, troppo tempo. Comunque, tra gli affidabili la zia ha poi trascelto i convenienti, e seguito con passione le svendite autunnali di decorazioni e oggetti natalizi dell’anno prima, insomma lo svuotamento dei magazzini. Ha scoperto con entusiasmo prezzi stracciati per stelle comete, Babbi Natale di legno, centri tavola di organza illuminati da led, pupazzi di neve fluorescenti. Vado a memoria, dopo aver dato un’occhiata al cumulo dietro il divano. Già, Natale è sempre Natale, stelle, Babbi, luci andranno sempre bene, così come converrebbe comprare i coniglietti il martedì dopo Pasqua. Trascinata

dall’entusiasmo, la zia ha saccheggiato vari magazzini, se infatti il Natale è sempre il Natale, lo sarà quest’anno, come l’anno dopo, e quello dopo ancora. Lo zio consorte non è contento: nel cumulo informe di addobbi e regali si inciampa con facilità, quando cade una palla di vetro con la neve sembra che una granata abbia colpito il pavimento in rovere, quando scivola una carta dorata, è solo l’inizio di un lento deflagrare di carte e fiocchi sdrucciolevoli, ormai dotati di vita propria, allegramente rotolanti per i corridoi, pronti ad attentare al femore e alla vita dell’ignaro passante (lo zio, appunto). Cerca di consolarsi al pensiero del risparmio: da quest’anno non più salati conti del triste dicembre per la carta di credito. Magari spenderemo qualcosa di più per panettone e gallina ripiena, piccolezze. Povero zio. Egli infatti non sa che Bernard de Mandeville non aveva sempre ragione. Sì, Mandeville, non so se sia quello che ha dato

il nome alla mandevilla o dipladenia, rampicante equatoriale, felice decoro di molti balconi continentali. Intendo il Mandeville filosofo olandese, vissuto in Inghilterra e lì morto nel 1733. Mandeville viene ricordato per un apologo, intitolato La favola delle api, vizi privati e pubbliche virtù. Qui spiegava come la società umana segua le stesse regole di un alveare: le due realtà prosperano solo se a fronte della massa di lavoratori si trovano persone (o api) che si dedicano ai vizi e si fanno servire. Comunità morigerate hanno bisogno di poco, quindi producono poco indotto, mentre il vizioso abbandonarsi a crapule, orge, intrighi, crea la necessità di attività artigianali in gran numero e di gran costo. Come fargli sapere, ora, che in questo momento di austerità molti spendono il triplo del dovuto per la tensione a risparmiare e ad approfittare dell’occasione? Anzi, come farle sapere: Mandeville riposa in pace, la zia pare di no.

Francesco Pacifico (5½) rientra nella tipologia più diffusa e cioè la più patologica: «Io sono quel tipo di scrittore che viene esaltato dall’editore e dagli editor prima dell’uscita e poi abbandonato durante». Sa bene che se l’editore non ti telefona, significa che non hai venduto. «Odio perdere i capelli e avere pochi lettori». Racconta di aver passato per lo più a letto i due mesi che hanno seguito l’uscita del suo ultimo libro. E adesso: «L’idea di ritrovarmi a pubblicare un libro che non vende mi toglie il sonno». Nicola Lagioia (5+) va dritto al nocciolo: «Se trovassimo sconveniente vendere i nostri libri, li metteremmo on line a disposizione di chiunque, senza passare per le case editrici. Dunque, una volta uscito il libro, il mio desiderio è che raggiunga i lettori cui idealmente è destinato. Tutti quelli che – se sapessero che esiste – lo amerebbero o almeno lo troverebbero interessante». Veronica Raimo (5) racconta di avere tendenze paranoiche nell’imminenza dell’uscita: «Non mi fido di nessuno,

non credo a quello che mi dice la gente, se mi trovo in contesti letterari, vedo gli altri come dei mostri di insincerità. Mi sembra che niente abbia senso, che gli scrittori siano le peggiori creature esistenti, false, diplomatiche, narcisiste». Christian Fascella (4½): «Prima dell’uscita del libro faccio il conto alla rovescia dei giorni che mancano. E così sale la tensione. Quando poi sono passati circa due mesi, comincio a tirare il fiato. Ma arriva anche una sorta di malinconia, mi chiedo: è già tutto finito?». Roberto Saviano (4–): «Prima dell’uscita di un libro sono in ansia. Poi provo fastidio. Fastidio per una massa di azzannatori che senza alcuna buona fede tenteranno di vivere di luce riflessa, di diffamare, inventare, sputare». Altri rispondono che durante l’uscita del loro libro sono troppo distratti da altre cose per pensarci (sic!). Paolo Giordano confessa l’imbarazzo a parlare dei propri libri in pubblico: «c’è della meschina vanità in tutto ciò». Marco Missiroli dice che arrossisce sempre, anzi avvampa.

Ma per ritrovare un po’ di autenticità bisogna tornare a Cappelli. Il quale dice che gli piacerebbe azzeccare la ricetta per sfondare, ma sa bene che la ricetta del best seller non esiste, dunque non ci prova neanche e continua a vivere del tran tran dello scrittore medio. Non si vergogna, dice, di aver partecipato a presentazioni dei suoi libri con un pubblico molto ma molto sparuto che aspettava solo il prosecchino tiepido e la tartina avariata al termine dell’incontro. Ricorda di avere ceduto alle pressanti richieste del sindaco di Pusiano (Como), suo ammiratore «orgasmico» che lo trattava come fosse Kundera: mille chilometri di viaggio da Potenza, l’arrivo, l’accoglienza calorosa, il ristorante con pesce e bicchiere di barolo. E un pensiero fisso: «il sindaco ci ha tenuto tanto, avrà organizzato le cose alla grande, alla presentazione ci sarà almeno tutto il paese di Pusiano, senza calcolare i villici limitrofi…». Lo scrittore sale le scale della bella scala affrescata sotto la luce d’una telecamera: «Entro e, compreso i due della tivvù, siamo in sette».

corso di ikebana e di arte di servire il tè, durato sei mesi, a lezione da un giapponese che in Italia ha trovato l’America. «Se non vuole toccare quel capolavoro, l’unica cosa da fare è tornare indietro a noleggiare un pianoforte più piccolo» è la proposta del titolare. «Vuole scherzare? Il maestro Ludovico Mazzonis che ha accettato di allietare con la sua arte sublime il mio ricevimento di stasera suona solo su un gran coda come questo». Il piccolo Mario è deliziato da quel litigio in diretta a pochi metri dal suo balcone e ha dimenticato la festa; provvede a ricordargliela la mamma che finalmente ha deciso quale vestito indossare. Mario non vorrebbe più muoversi di lì ma la mamma lo strattona: «Con quello che è costato il regalo per il tuo amico voglio proprio vedere se non ti diverti alla sua festa». Mario si lascia trascinare via piagnucolando ma, giunti in strada, per madre e figlio si profila un altro intoppo: la gru che porta appeso il pianoforte blocca l’auto della mamma che si attacca al citofono della

Postille filosofiche di Maria Bettetini Spendere meno per spendere di più Anche voi avete fatto come mia zia Luisa? Regali già comprati, in questi giorni si impacchettano e via. No? Strano, con la crisi conviene portarsi avanti, non solo in vista di una improvvisa e totale povertà personale e nazionale (non si sa mai). Infatti, con la crisi tutti svendono ancora prima di vendere. Ieri sono stata a casa della zia, dove un cumulo, prima sospetto poi angosciante, è cresciuto nelle ultime settimane, solo in parte nascosto dal divano del soggiorno. La Luisa ha agito con metodo, nonostante non sia donna che non sappia come impegnare il tempo, lavora, accudisce i nipoti, si aggiorna. Da sempre aveva manifestato, ch’io ricordi, la perniciosa tendenza a praticare lo scheduling anche nelle attività più libere e gratuite. No, non è una nuova pratica erotica, si dovrebbe sapere che nell’erotismo da tempi lontani mai più nulla fu inventato, né lo potrà essere. Scheduling: programmazione, organizzazione, calendariz-

zazione. Quella che nell’agenda del 2015 ci fa già inserire le scadenze e le feste, le previsioni e le visite mediche. Quella che ci permette di sopravvivere nonostante la spesa settimanale, la palestra, le zie e i parenti tutti, l’assemblea di condominio e la funzione in ricordo della prozia. La tendenza allo scheduling da parte della zia Luisa emergeva in prenotazioni anticipate, puntualità degna di miglior causa nei pagamenti fiscali, perfino in auguri di compleanno puntualmente giunti alla vigilia del giorno del compleanno. In vista del Natale, la zia metteva da parte ciò che sarebbe potuto tornarle utile già a gennaio, ma non sembrava ci fosse niente di male nella raccolta di regalini, pigne e fiocchetti. Poi arrivò la crisi. L’imperativo del risparmio, la lealtà verso la patria che incominciava a far rima con austerità, la riscoperta delle toppe nei maglioni, delle torte salate fatte con gli avanzi, della ricucitura delle scarpe. Bisognava domare l’impennata del lusso

Voti d’aria di Paolo Di Stefano Paranoie da scrittori Mi piacerebbe sottoporre a chi di dovere una domanda semplicissima: perché solo il libro, e in particolare la letteratura, tra tutti gli articoli merceologici che esistono in commercio (lavatrici, automobili, saponi liquidi e solidi, caffè, abiti, liquori, occhiali, bibite, zainetti, scarpe da ginnastica, peluche, lampadari, divani, creme per le mani e per il corpo, dentifrici eccetera), perché solo il libro e soprattutto la letteratura sono soggetti alle classifiche di vendita? È una domanda che mi pongo da tanti anni e a cui non trovo alcuna risposta ragionevole. Gli editori considerano le classifiche una pubblicità gratuita, i giornali un divertimento, i lettori una guida. E gli scrittori? Per quasi tutti è un fattore ansiogeno. Ma immaginate che tutte le domeniche escano, su tutti i giornali nazionali, le liste delle auto più vendute in settimana: il mercato ne risulterebbe sconvolto, perché si sa che il consumatore tende a saltare sul carro dei vincitori creando quell’effetto volano per cui chi vende di più continuerà a vendere sempre di più e chi vende di meno conti-

nuerà a vendere sempre meno. Dunque, mai e poi mai sarebbero tollerate graduatorie di vendita dei computer, delle lavatrici, dei frigoriferi o delle macchine tagliaerba. Invece con le cosiddette opere dell’ingegno (paradossalmente le meno giudicabili con criteri quantitativi) si può fare di tutto. Semplicemente perché non contano nulla? Probabilmente. Io intanto darei 1½ a tutte le classifiche librarie che i giornali mandano in stampa. In un’inchiesta apparsa su rivistastudio. com (5+), lo scrittore Cristiano De Majo ha chiesto a diversi scrittori italiani: come vi sentite quando esce un vostro libro? Ecco la classifica delle risposte migliori (o almeno le più sincere). Gaetano Cappelli (6–) ammette l’inammissibile: «c’è poco da dire, anche il genio più di rottura e apocalittico integralista quando entra in classifica zomperà di gioia; ben attento a non farsi vedere. Ma se non vendi e nemmeno ti recensiscono, be’, sei fottuto. L’editore comincerà a evitarti e sarà facile ammalarsi anche gravemente».


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Idee e acquisti per la settimana

shopping Un tocco di raffinatezza Specialità Da questa settimana presso i supermercati Migros di Locarno, S. Antonino, Agno, Lugano e Serfontana

Marka

potrai ordinare il pregiato tartufo bianco d’Alba e quello nero

Il tartufo forse ha un magico potere arcano, con quel suo stupefacente profumo tale da creare atmosfere imprevedibili nelle sale conviviali e nelle cucine, sia in quelle del più accreditato ristorante sia alla semplice cucina di casa nostra. Si tratta di un frutto magico o stregato? Può darsi: il bianco d’Alba prospera nel sottosuolo delle selve, proprio dove la leggenda racconta che esercitano i loro sortilegi le «Masche» (streghe). Il tar-

tufo bianco d’Alba è uno dei miti della nostra tavola, sapore indimenticabile e profumo inconfondibile. È un fungo, anche se molti lo chiamano tubero, che cresce sottoterra (ipogeo), a profondità che variano dai 10 ai 40 cm. Troppi per il nostro odorato, così dobbiamo affidarci ad un cane, il «tabui», così in effetti viene chiamato il cane da tartufo. Il tartufo bianco vive in simbiosi con le radici di querce, tigli, pioppi e sali-

La passione per il buongusto Natale è la ricorrenza giusta per concedersi qualcosa di particolarmente raffinato. Come può essere un bel pezzo di foie gras, una delle più apprezzate specialità della cucina francese. Il foie gras d’anatra disponibile ora in diversi formati nei principali punti vendita di Migros Ticino, è ottenuto da animali nati e allevati del sud-ovest della Francia secondo criteri rispettosi della specie. Qualche consiglio per gustare appieno questa squisitezza? Prima di servirlo, lasciate il foie gras per una trentina di minuti a temperatura ambiente. Affettatelo solamente qualche minuto prima di portarlo in tavola con l’ausilio di un

coltello a lama fine, non dentellato. Lo spessore delle fette dovrebbe essere di ca. 1 cm. Dopo ogni taglio immergete la lama nell’acqua tiepida per poter ottenere delle fette sempre regolari. Il foie gras non va abbinato a bevande o alimenti dal gusto troppo pronunciato per non comprometterne la delicatezza. Non spalmatelo, ma appoggiatelo semplicemente su un pezzo di pane oppure gustatelo da solo lasciandolo sciogliere lentamente in bocca. Si sposa a meraviglia con dei crostini di pane leggermente grigliati, oppure, per chi preferisce abbinamenti più particolari, anche con del pane speziato.

ci; i tartufi di quercia hanno la superficie più scura, mentre quelli di tiglio presentano una polpa più rosata, che è invece bianco-crema tra gli esemplari cresciuti tra le radici del pioppo. Sulla qualità del singolo pezzo, però, influiscono pure la giacitura: meglio la collina che il fondovalle, la regolarità della superficie e soprattutto il carato. Proprio nella dimensione il tartufo bianco si distingue dai suoi fratelli meno pregiati,

può infatti superare i 10 cm di diametro e i 500 g di peso. Un’altra peculiarità è il profumo: intenso, fragrante, con qualche nota agliata. Lo stesso che impregna le vie di Alba in autunno durante la fiera, lo stesso che si sprigiona quando l’amico «trifolao» estrae dalla tasca un fazzoletto, lo apre e già prima che mostri il suo tesoro, il nostro naso l’ha indovinato. Lo stesso che emana da piatti semplici, rispettosi di un aroma distribuito in sottili

lamelle che si posano senza affondare su tajarin al burro, risotti, fondute e uova al tegamino. Suggerimenti: dopo l’acquisto tenete il tartufo in frigorifero per al massimo 4 giorni in un contenitore ben chiuso, avvolto in carta da cucina assorbente. Non conservarlo nel riso. Pulirlo con una spazzola o sotto l’acqua corrente solo poco prima del consumo. A proposito: in negozio trovate pure l’affettatartufi./ Davide Comoli


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Idee e acquisti per la settimana

Una soffice nuvola costellata di gocce di cioccolato Attualità Si scioglie in bocca ad ogni assaggio, la triestina

Flavia Leuenberger

al cioccolato del Laboratorio Poncini di Maggia è semplicemente irresistibile!

Triestina al cioccolato Poncini 500 g Fr. 19.–

Cosa succede quando un appassionato panettiere-pasticcere lavora al costante miglioramento di un prodotto? Dalla creatività di Luca Poncini sono nate diverse delizie, compresa la triestina al cioccolato distribuita da Migros durante il periodo natalizio. La sua scelta di introdurre nell’impasto base del panettone una quantità elevata di burro, il 60% sul totale della farina, è dettata dalla volontà di proporre ai clienti un prodotto di altissimo livello. Sperimentatore metodico, Luca Poncini cura tutti i dettagli della produzione. Tre le fasi più delicate, la prima è la cura del lievito madre. Ottenuto impastando acqua e farina, va nutrito quotidianamente con questi stessi ingredienti per mantenere l’equilibrio tra i diversi ceppi di lieviti presenti nell’impasto dimodoché abbia la forza per far lievitare le triestine. Burro e uova infatti rallentano la lievitazione, che avviene su tempi lunghi per ottenere un prodotto soffice e digeribile. La seconda fase critica è quella del secondo impasto, durante la quale si aggiungono farina, burro, tuorli, zucchero, gli aromi e le gocce di cioccolato. Una lavorazione eccessiva risulta in un impasto compatto e gommoso, mentre una lavorazione insufficiente non sviluppa la maglia glutinica, una guaina che trattiene i gas della lievitazione contribuendo allo sviluppo di una bella cupola. La terza fase, la cottura, avviene a 170°C per circa 30 minuti. Cotta a temperature alte, la

Luca Poncini presenta la sua Triestina al cioccolato. (Giovanni Barberis)

triestina sarà secca, mentre a temperature basse avrà una mollica compatta che non si scioglie in bocca. Giusta misura ed esperienza fanno la differenza nella produzione dei lievitati natalizi e la triestina si contraddistingue per morbidezza e delicatezza sul palato. La glassa al cacao e le gocce di cioccolato si sciolgono in bocca in un equilibratissimo connubio con l’impasto soffice e alveolato. Poncini è attento anche alla degustazione del prodotto finito. «Un giorno, assaggiando uno dei nostri grandi lievitati mi son accorto che

a 20 gradi le qualità organolettiche cambiano rispetto allo stesso prodotto gustato a 22-23 gradi. Da allora accompagniamo i prodotti con un’etichetta dove consigliamo ai clienti di portare i lievitati a 22 gradi circa prima di gustarli. Teneteli al fresco e qualche ora prima di gustarli metteteli, ancora nel sacchetto di confezionamento, in un locale a 22°C. In caso di utilizzo all’ultimo momento, tenete il lievitato qualche minuto vicino al riscaldamento o al forno appena caldo con la porta aperta». / Luisa Jane Rusconi

Idee regalo che piacciono I cestoni e le confezioni con granito ticinese sono un regalo particolarmente apprezzato dai buongustai che vogliono concedersi peccati di gola all’insegna della genuinità. La selezione include alcune chicche agroalimentari della

nostra regione abbinate a taglieri di granito prodotti dall’azienda Giannini di Lodrino e certificati dal Marchio Ticino; un ricco cestone dei Nostrani del Ticino come pure due cestoni composti da specialità della cucina italiana.

Cestone Gastronomico Fr. 43.– Cestone Nostrani del Ticino Fr. 59.–

Cestone Vespucci Fr. 81.–

Granito con Ra Crénga Dra Vâll da Brégn Fr. 29.–

Granito con Alpe Fortunei e Ra Crénga Dra Vâll da Brégn Fr. 36.–

Granito con Salamin al Merlot Fr. 23.–


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Idee e acquisti per la settimana

Il meglio dei salumi italiani La salumeria è di fatto il must durante i ricevimenti festivi, aperitivi informali e buffet in compagnia. Può essere preparata sui vassoi in anticipo evitando troppe preoccupazioni ai padroni di casa. Inoltre si presta bene a decorazioni originali: con un po’ di fantasia ci si può infatti tranquillamente sbizzarrire con sottaceti, uova sode, verdure crude, crostini di pane… per un risultato di grande effetto. Coloro che apprezzano gli affettati più ricercati sono i benvenuti nei reparti salumeria di Migros Ticino. Quest’anno per il periodo natalizio abbia-

Sinfonia di sapori locali

mo selezionato appositamente per voi alcune delle specialità di salumeria più sopraffine: dai salami con nocciole, tartufo e Felino al crudo Fiocco di Zibello e al lonzino di cinghiale; passando per il profumato prosciutto crudo di Parma 24 mesi fino al delicato crudo San Daniele stagionato per almeno 16 mesi (nella foto). Infine, vi segnaliamo la promozione «30% di riduzione» da venerdì 12 a domenica 14 dicembre su tutta la salumeria in vendita al banco e a libero servizio, comprendente anche le specialità citate in precedenza.

Finalmente è arrivato, ma affrettatevi a procurarvelo, perché è disponibile in quantità limitate. Stiamo parlando del ricercato violino di capra, da questa settimana in vendita nelle maggiori macellerie di Migros Ticino. Ottenuto con la parte più pregiata dell’animale, nella fattispecie la coscia, viene salato e aromatizzato con erbe e spezie prima di essere posto a stagionare per non meno di 60 giorni in apposite celle a temperatura e umidità costantemente controllate. Il suo nome deriva dal suo aspetto – che ricorda un violino – e anche dal modo di affettarlo: lo si taglia col coltello appoggiandolo sulla spalla, proprio come se si suonasse lo strumento musicale con l’archetto. I violini venduti alla Migros sono prodotti dalla Salumeria Femminis di Locarno e dalla Salumi Val Mara di Maroggia.

La settimana dei saltimbocca

Irresistibili creazioni Paté al tartufo, paté alle noci oppure varianti più classiche? Queste magnifiche creazioni non solo conquistano e appagano il palato degli invitati, ma anche l’occhio, e le trovate ora in innumerevoli versioni presso i reparti gastronomia di Migros Ticino. I paté sono conosciuti da moltissimo tempo. Ne sono state ritrovate ricette risalenti addirittura al

Questa settimana i banchi macelleria vi invitano a gustare i saltimbocca preparati freschissimi dagli specialisti della carne di Migros Ticino. Questa tradizionale preparazione di origini romane composta da una scaloppina guarnita con prosciutto e salvia, la potrete trovare a base della classica carne di vitello, oppure anche con carne di maiale o tacchino. Idea di preparazione per 4 persone: fondere del burro in una padella e rosolare i saltimbocca a

fuoco forte 1 minuto per lato. Salare, pepare e tenerli in caldo nel forno preriscaldato a 180 °C in una teglia foderata. Deglassare il fondo di cottura con 1 dl di Marsala e 1 dl di fondo bruno e farlo ridurre. Servire i saltimbocca in piatti caldi con il sugo e con il tradizionale risotto alla milanese. Curiosità: il nome saltimbocca deriva dalla sua sfiziosità che la farebbe letteralmente «saltare» dal piatto alla bocca.

1700 a.C. Tuttavia la loro maggiore diffusione si ebbe durante il Rinascimento, quando venivano preparati nelle cucine dei nobili e del clero con l’aggiunta di spezie e aromi particolarmente pregiati. I paté si gustano soprattutto nelle occasioni speciali, sia come complemento d’aperitivo, come pasto principale accompagnati da una croccante insalata oppure ancora come stuzzichino unico.


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Idee e acquisti per la settimana

I Frontaliers ospiti del Centro S. Antonino Eventi Sabato 13 dicembre dalle ore 10 alle 12

Oggi nei negozi Migros del Ticino è finalmente iniziata la vendita in esclusiva del 3° DVD dei Frontaliers, vendita che si protrarrà fino a esaurimento delle scorte. La grande attesa dei numerosissimi fans «dal Berna e dal Bussenghi» è terminata. Dopo il successo riscosso dal relativo film, passato in tutte le sale cinematografiche del Ticino dallo scorso 27 novembre (e in programmazione fino a ieri) è lecito aspettarsi un vero e proprio assal-

to per accaparrarsi uno o più DVD, da regalarsi o da regalare. Per coronare la collaborazione instaurata per la produzione di questo DVD tra RSI Rete Tre e Percento culturale di Migros Ticino, il Centro Migros S. Antonino è lieto di ospitare sabato 13 dicembre dalle ore 10 alle ore 12 circa i due amati protagonisti: la guardia di confine Loris Bernasconi, alias Paolo Guglielmoni, e il frontaliere Bussenghi, nella persona di Flavio Sala. I due animatori radiofonici

certamente non necessitano di ulteriori presentazioni, considerata la loro notorietà che da tempo ha varcato i confini della nostra regione. Questo appuntamento rappresenta un’occasione imperdibile per farsi autografare il DVD e per un simpatico selfie da mostrare agli amici. Per l’occasione, ai primi 200 clienti è assicurata la possibilità di acquistare il DVD al prezzo di 10 franchi. Occhio che il Bernasconi ora parla solo «itagliano»! Vi aspettiamo.

La colletta alimentare del «Tavolino Magico» Solidarietà Sabato 13 dicembre in alcuni punti vendita di Migros Ticino Come consuetudine degli ultimi anni, Migros Ticino ospita la colletta alimentare di dicembre del «Tavolino Magico» che rappresenta un’importante iniziativa basata sul volontariato e proveniente dall’economia privata; essa poggia su razionalità, professionalità e un grande impegno umanitario. Il «Tavolino Magico» recupera giornalmente nell’intera Svizzera generi alimentari e li distribuisce a persone in difficoltà economica. Migros Ticino collabora a livello della nostra regione con il «Tavolino Magico» e sull’arco di tutto l’anno; infatti le rimanenze di merce con data di vendita scaduta ma ancora entro la scadenza di consumo, vengono consegnate al «Tavolino Magico». I suoi furgoni passano regolarmente a ritirare nelle filiali di Migros Ticino i prodotti alimentari invenduti:

questi ultimi, lo ribadiamo, sono unicamente di alimenti di qualità ineccepibile sia dal punto di vista igienico che gustativo. Sabato prossimo 13 dicembre i volontari del «Tavolino Magico» saranno presenti dalle 09.00 alle 17.00 presso le filiali Migros di Agno, Biasca, ArbedoCastione, Giubiasco, Locarno, Lugano Centro (Via Pretorio), Mendrisio (Piazzale alla Valle), Pregassona, S. Antonino, Serfontana e Taverne. Per questa colletta alimentare, si prediligono prodotti a lunga conservazione. Siamo certi che anche in questa occasione i clienti Migros riconfermeranno la grande sensibilità solidale dimostrata in occasione delle passate collette alimentari organizzate dal «Tavolino Magico». Per saperne di più: www.tavolinomagico.ch.


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Idee e acquisti per la settimana

Non è Natale senza i marrons glacés firmati Sandro Vanini Attualità L’azienda di Rivera ci delizia

ad ogni ricorrenza con il raffinato dolce di castagne I marrons glacés Sandro Vanini sono, oggi come un tempo, prodotti in modo artigianale, seguendo ricette della tradizione. La lavorazione di questi marroni di classe è un procedimento molto meticoloso. I frutti idonei vengono dapprima sbucciati, controllati ad uno ad uno, quindi sottoposti ad una lenta cottura. Il passo successivo prevede la canditura per diversi giorni in una soluzione zuccherina. Prima del confezionamento, i dolcetti vengono nuovamente sottoposti ad un controllo qualitativo, quindi rivestiti di una raffinata glassa e infine confezionati accuratamente nella tradizionale scatola festiva firmata Sandro Vanini. Abbiamo chiesto a Fernanda Raas, responsabile vendite presso la Sandro Vanini, quando e come si gustano i marrons glacés: «L’abbinamento più tradizionale è quello con il caffè o il tè. Grazie alla

loro versatilità, possono tuttavia essere impiegati nelle decorazioni per dessert quali vermicelles e torte; oppure come ingrediente principe in «parfait» e dolci alle castagne».

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Le nuove mostarde purée

La Sandro Vanini è naturalmente nota anche per le sue mostarde di frutta. Sugli scaffali dei supermercati Migros, oltre a due tipi di mostarda di frutta, alla frutta candita e all’apprezzata mostarda di verdure dei Nostrani del Ticino, ora sono arrivate anche le mostarde purée, disponibili al gusto fichi, ananas-curry e pere. Lavorate con cura rifacendosi a procedure antiche dai mastri canditori con l’impiego della migliore frutta matura, sono l’abbinamento ideale per formaggi freschi e stagionati, raclette, carni bianche e rosse, grigliate, bolliti, pollame, pesce e insaccati.

Specialità al tartufo Da Acqualagna, nelle Marche, una delle capitali mondiali del tartufo, ci arrivano tre prodotti di alta gastronomia contenenti questo straordinario prodotto che trasformeranno i vostri piatti in qualcosa di eccezionale. Il Burro al Tartufo Bianco e la Crema di Formaggi e Tartufo Bianco sono due condimenti per primi ideali per insaporire con delicatezza paste, tortellini, crespelle, riso, carni oppure da spalmare su tartine e crostini caldi. Il Sale al Tartufo, a base di sale marino amalgamato con tartufo estivo, è ottimo utilizzato a fine cottura per conferire quel qualcosa in più a carni, pesci e verdure. Le tre specialità sono prodotte dall’azienda famigliare T&C Tentazioni, una delle ditte più antiche nel settore dei tartufi presenti in Italia.

Burro e Tartufo Bianco 45 g Fr. 12.40

Crema di Formaggi e Tartufo Bianco 45 g Fr. 10.90

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Idee e acquisti per la settimana

La Migros richiama Iscriviti al laboratorio il materassino da yoga creativo per bambini «Bodyshape Zebra»

La Migros richiama il materassino da yoga «Bodyshape Zebra» a causa di possibili rischi per la salute. Da controlli interni è risultato che il prodotto contiene una notevole quantità di solventi che possono causare disturbi, in particolare nausea o cefalea. Il materassino zebrato era in vendita dallo scorso ottobre presso SportXX. Il richiamo riguarda i materassini da

Non c’è niente di più bello e originale del creare i regali di Natale con le proprie mani. Se i vostri bimbi hanno confidenza con il bricolage allora non possono perdere i prossimi due appuntamenti con il laboratorio creativo natalizio Parisfamily riservato agli artisti in erba dai 5 ai 10 anni. L’evento, organizzato in collaborazione con ticinoperbambini. ch, è previsto i mercoledì 10 e 17 dicembre, presso il Centro S. Antonino, alla presenza di animatrici qualificate e saranno suddivisi in due gruppi, il primo dalle 14.30 alle 15.30; il secondo dalle 16.00 alle 17.00. Per iscriversi cliccare su www.ticinoperbambini.ch/atelier.

yoga Bodyshape Zebra (articolo n. 4719.649) venduti al prezzo di fr. 29.90. La Migros prega la clientela di astenersi da subito dall’utilizzare il materassino in questione. I clienti possono riconsegnare il materassino «Bodyshape Zebra» in qualsiasi filiale di SportXX dietro rimborso del prezzo d’acquisto. La M-Infoline è a disposizione per rispondere a eventuali domande.

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Idee e acquisti per la settimana

A tavola in compagnia Fettine di carne, tranci di pesce, salse piccanti e tutt’attorno tante golosità: una fondue chinoise è un evento gastronomico così variegato che soddisfa qualsiasi gusto

due chinoise n fo la r e p i im tt o : Suggerimento tacei come i gamberi o tranci sono anche i crosletti di sogliola e salmone. di pesce come i fi

Vitello per fondue chinoise, Fr. 8.30 per 100 g Manzo per fondue chinoise, Fr. 6.10 per 100 g Maiale per fondue chinoise, Fr. 4.20 per 100 g M-Classic Chips Paprica, 280 g, Fr. 4.20 Filetto di salmone, per 100 g, al prezzo del giorno

Brodo di manzo e brodo vegetale: ricette sulle prossime pagine

La fondue chinoise è considerata la regina delle fondue. Non c’è da meravigliarsene, visto che le sottili fettine di carne bollite nel saporito brodo speziato si sciolgono sulla lingua come fossero burro, che si tratti di manzo, vitello, maiale o pollame. Ma sono assolutamente eccellenti anche i gamberi e i tranci di pesce. Salse succulente, bocconcini di verdura e patate novelle conferiscono quel tocco in più alla tavolata. E, l’indomani si possono preparare squisite zuppe con quel che resta del brodo. Sulle prossime pagine troverete due ricette davvero speciali, mentre altri suggerimenti per piatti da preparare durante le feste natalizie si trovano su www.migros.ch/ricette


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Idee e acquisti per la settimana

Celestina in brodo con erba cipollina Antipasto per 4 persone Ingredienti 50 g di farina bianca 1 presa di sale 0,5 dl di latte 2 uova burro per dorare 1 l di brodo di manzo del giorno prima, filtrato, ev. allungato con un po’ di brodo di manzo ½ mazzetto d’erba cipollina

Brodo di manzo Portate a ebollizione 1,5 l di brodo di manzo saporito con 400 g di verdure tagliate a pezzetti (sedano rapa, carote, porri), 2 gambi di prezzemolo e 2 foglie d’alloro.

Preparazione 1. Mettete la farina e il sale in una scodella e formate una conca. Sbattete il latte e le uova. Versateli nella conca e mescolate il tutto con una frusta. Coprite la pastella e lasciatela riposare per ca. 10 minuti. 2. Sciogliete poco burro in una padella antiaderente. Versate la metà della pastella e distribuitela finemente sul fondo inclinando la padella. Dorate la crespella a fuoco medio per 2-3 minuti, voltatela e terminate la cottura per 2-3 minuti. Preparate la seconda crespella. Arrotolate le crespelle, tagliatele a striscioline e distribuitele nelle fondine. Portate a ebollizione il brodo e versatelo sulle crespelle. Tagliuzzate finemente l’erba cipollina e cospargetela sul brodo. Tempo di preparazione ca. 30 minuti + riposo ca. 10 minuti Per persona ca. 6 g di proteine, 5 g di grassi, 10 g di carboidrati, 470 kJ/110 kcal

Ricette di

Vermicelli cinesi e gamberi in brodo Antipasto per 4 persone Ingredienti 5 g d’orecchie di Giuda secche 1,2 l di brodo di verdura del giorno prima, filtrato, ev. allungato con un po’ di brodo di verdura 2 cucchiai di salsa di soia chiara 2 cucchiai di succo di limetta 2 cucchiaini di zucchero greggio 50 g di vermicelli cinesi 125 g di cavolo cinese 200 g di code di gamberi crude sgusciate 4 gambi di coriandolo fresco Preparazione 1. Ammollate le orecchie di Giuda in acqua fredda per ca. 10 minuti, sgocciolatele e tagliatele grossolanamente. 2. Portate a ebollizione il brodo con la salsa di soia, il succo di limetta e lo zucchero. Unite i vermicelli e le orecchie di Giuda e fate sobbollire a fuoco basso per ca. 3 minuti. Tagliate il cavolo cinese a striscioline, mescolatele con le code di gamberi e lasciate riposare per ca. 5 minuti. Distribuite il tutto in scodelle da minestra. Tritate finemente il coriandolo e cospargetelo sul brodo. Tempo di preparazione ca. 25 minuti Per persona ca. 10 g di proteine, 2 g di grassi, 18 g di carboidrati, 540 kJ/130 kcal

Brodo di verdura Portate a ebollizione 1,5 l di brodo di verdure saporito con 2 bastoncini di lemongrass schiacciati, 3 cm di zenzero tagliato a fettine, 1 peperoncino tagliato ad anelli e 2 anici stellati.


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Idee e acquisti per la settimana

Quel che ci vuole per una fondue in compagnia

Con semi di girasole e di lino, spelta e fiocchi di malto di frumento: Pain Création Pane rustico, 400 g, Fr. 3.80

Buona come fatta in casa: Gourmet Salsa Tartare, Fr. 2.40

Ideale per la Chinoise e la Bourguignonne: Set per fondue London, Fr. 49.80 Per arricchire la fondue di pesce: Gamberi bio precotti, per 100 g, Fr. 6.10

Il delicato sapore del curry si sposa perfettamente con pesce e gamberetti: Anna’s Best Fresh Dip Curry, Fr. 1.40 Spumeggia sul palato anche senz’alcool: Perldor Classic, 75 cl, Fr. 4.80

Per quando si deve fare in fretta: Bon Chef Brodo di manzo, 12 dadi, Fr. 3.–

Prodotto in Germania e Ungheria: Pollame per fondue chinoise, per 100 g, al prezzo del giorno al banco a servizio

Leggermente condita, l’insalata del re è un salutare contorno. Anna’s Best Insalata del re, Fr. 3.90


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Ingredienti: 1 pollo di ca. 1,3 kg, 1 mazzetto di timo, ½ cucchiaino di sale, un po’ di pepe, 1 cucchiaio di senape granulosa, 2 cucchiaini d’erbe secche, ad es. erbe di Provenza o lavanda, 2 cucchiai d’olio di colza HOLL. Preparazione: scaldate il forno a 180 °C. Sciacquate il pollo dentro e fuori sotto l’acqua fredda e tamponatelo. Infilate la metà dei rametti di timo nella cavità ventrale. Legate a piacere il pollo con lo spago da cucina e accomodatelo in una brasiera. Staccate le foglioline di timo restanti e mescolatele con il sale, il pepe, la senape, le erbe aromatiche e l’olio. Ungete bene il pollo con l’olio aromatizzato. Cuocetelo al centro del forno per ca. 70 minuti. Bagnatelo di tanto in tanto con il grasso di cottura. Lasciatelo riposare nel forno spento e leggermente aperto per 10 minuti. Trinciatelo e servitelo con il liquido di cottura. Tempo di preparazione ca. 15 minuti + cottura in forno ca. 70 minuti


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Detersivi Elan, per es. Pacific Dream, 2 l 6.95 invece di 13.90 50% Scatola per decorazioni natalizie, per 40 bocce 9.50 offerta valida fino al 29.12 Set per fondue bourguignonne/ chinoise Stockholm Cucina & Tavola, 23 pezzi 59.–


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OLTRE 4 MILIONI DI ACQUISTI DIMOSTRANO CHE LA MIGROS È PIÙ CONVENIENTE DELLA COOP. In collaborazione con l’Istituto di ricerche di mercato indipendente LP, dal 18 al 24 novembre 2014 abbiamo ripetuto il più grande confronto di prezzi nel settore del commercio al dettaglio svizzero, prendendo in considerazione oltre 5000 articoli. Nell’ambito di questo studio oltre 4 milioni di acquisti, realmente effettuati, sono stati messi a confronto con acquisti avvenuti alla Coop. Il risultato? Alla Migros si risparmia l’11.3%. È quindi dimostrato ciò che i nostri clienti sanno da sempre: LA MIGROS È SEMPRE PIÙ CONVENIENTE.

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Idee e acquisti per la settimana

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Idee e acquisti per la settimana

E la pasta è subito pronta

Voglia di un buon piatto di pasta e non c’è tempo per cucinare? Con Subito il problema non si pone, perché le penne bell’e pronte sono buone come quelle della mamma e si preparano in un battibaleno. Appena tre minuti nel microonde e sono già al dente! Questi piatti precotti sono assolutamente perfetti per pranzare in ufficio tra colleghi di lavoro, concedendosi una saporita pausa di mezzogiorno anche quando c’è poco tempo a disposizione. Come alternativa si possono riscaldare pasta e sugo in una padella, aggiungendo due o tre cucchiai d’acqua e mescolando di tanto in tanto. Queste deliziose specialità esistono con due sughi: alla bolognese e al basilico. Non contengono né additivi per esaltare il sapore né conservanti o coloranti. / AW

Subito Penne al basilico, 350 g, Fr. 4.70

Subito Penne alla bolognese, 350 g, Fr. 4.90 Basta servire le penne in un piatto per dare un tocco di stile anche al pranzo in ufficio.

L’Industria Migros produce molti prodotti apprezzati, tra i quali anche i piatti di pasta Subito.


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Idee e acquisti per la settimana

L’acquisto di carne è anche questione di fiducia Vale sempre la pena di fare una capatina al banco della carne, e non solo per pianificare i menu delle Feste. Perché quando si acquista carne fresca, poter usufruire di una consulenza personale è un valore aggiunto

Alberto Lucca è un macellaio esperto. Le sue competenze gli tornano molto utili nella sua qualità di capo macellaio della filiale Migros di Serfontana, perché chi acquista al banco desidera poter usufruire di una consulenza specifica. L’abbiamo interrogato sui temi più importanti.

lungo la carne, la mettiamo volentieri sottovuoto. In tal modo, la maggior parte dei pezzi possono essere conservati per 5 giorni. Si può congelare la carne?

Certo, la carne può essere congelata senza problemi. Così si può fare una pianificazione dei menu a lungo termine.

In qualità di macellaio esperto, Alberto Lucca può fornire informazioni competenti su ogni tema. I clienti lo apprezzano.

Signor Lucca, chi acquista al banco?

Che cos’ha di particolare la carne venduta al banco?

Quasi tutta l’offerta di carne proviene dalla Svizzera ed è prodotta ad esempio sotto il marchio di sostenibilità TerraSuisse. Inoltre abbiamo anche specialità regionali, che in altre filiali non ci sono. Un altro vantaggio del banco: possiamo lasciar riposare ancora un po’ ogni singolo pezzo, fin quando abbia raggiunto il perfetto grado di maturazione. Quali sono le domande più frequenti?

Prevalentemente ci vengono chiesti consigli per la preparazione. Spesso però si toccano anche i temi della conservazione e della conservabilità. Anche la provenienza e la sostenibilità suscitano grande interesse. Molti clienti sono insicuri perché non sanno bene che quantità serva per preparare il piatto desiderato. Quanto si può conservare la carne fresca?

Più piccolo è il pezzo, più breve è il periodo di conservabilità. La carne tritata solo fino al giorno dopo. Un arrosto può però benissimo essere tenuto in frigorifero da 2 a 3 giorni. La carne di maiale dovrebbe essere consumata rapidamente. Se qualcuno desidera conservare più a

Che cosa raccomanda per le Feste?

Si può quasi parlare di una tendenza: chinoise, tagliata un po’ grossa. O piccoli dadini di bourguignonne, che si possono anche cuocere nel brodo bollente. Il bello del banco è però che si può determinare personalmente le quantità e far tagliare anche solo poche fette di una certa varietà di carne. Foto Flavia Leuenberger

Chiunque abbia un desiderio speciale: anziani e persone sole per le quantità singole, padri di famiglia per il polpettone fatto in casa, i carnivori per un’entrecôte gigante o ambiziosi cuochi per hobby, che vogliono invitare gente a una grande tavolata. E naturalmente tutti quelli che vorrebbero portare in tavola qualcosa di particolare per le Feste.

Accetta ordinazioni?

Molto volentieri. Specialmente le quantità importanti è addirittura raccomandabile ordinarle in anticipo. La chinoise, ad esempio, solitamente non possiamo tagliarla subito. Con un’ordinazione preventiva, il cliente deve poi solo ritirare la carne senza aspettare. Anche gli arrosti lardellati e legati li prepariamo preferibilmente su ordinazione. Perché la gente si rivolge a lei personalmente?

Perché ha fiducia in me, e perché conosco i miei clienti. Mi piace dare consigli di cucina o addirittura ispirare un nuovo menu. Molti clienti mi raccontano poi come gli è riuscito l’ultimo piatto. Spesso nascono così discorsi molto interessanti. Raccomando anche ai clienti di rivolgersi sempre allo stesso macellaio.

Consiglio Togliere l’arrosto dal frigo mezz’ora prima della preparazione. Rosolare da tutti i lati e far cuocere in forno a 180-200° a seconda della grandezza da una a due ore.

1 Coprire l’arrosto con speck e rosmarino 2+3 Legare la carne con spago da cucina fissato da nodi distanti circa 2 cm l’uno dall’altro 4 L’arrosto rimane in questo modo ben compatto e può essere comodamente tagliato dopo la cottura.

Qual è la sua ricetta di carne preferita?

L’arista di vitello o di maiale. I miei figli l’adorano. Per noi, oltre alla qualità della carne, è molto importante anche l’allevamento degli animali rispettoso della loro specie. Siamo quindi attenti a un consumo di carne responsabile.

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Idee e acquisti per la settimana

Ed è subito aperitivo Chi ha in casa Blévita non avrà mai difficoltà ad improvvisare un ricevimento spontaneo per gli amici Spesso un evento spontaneo è molto più divertente di un incontro minuziosamente pianificato. Ma che fare quando si vorrebbe vestire velocemente i panni dell’ospite ma non si ha in casa l’occorrente per un bell’aperitivo? Fortunato chi ha in casa Blévita, perché questi gustosi cracker ai diversi cereali sono ben più di una semplice alternativa. Tanto più che esistono anche nel formato mini e in diverse varianti. Si può scegliere fra i gusti Paprika, Provençale e Cream & Onion. I minicracker a misura di boccone contengono abbondante farina di spelta, preziose fibre alimentari e olio di girasole di alta qualità. Grazie al pratico sacchetto richiudibile, i cracker rimangono a lungo freschi e croccanti. Se si è di fretta, basta guarnire semplicemente i cracker con qualche squisitezza tipo salmone affumicato, carne secca o saporito formaggio. Ma si può anche dar libero sfogo alla fantasia. Idea n. 1: vegetariano

Grattugiare molto finemente zucca e carote. Condire con olio di semi di zucca, sale, pepe, e aceto di mele. Sistemare sui Blévita e cospargere di semi di zucca. Sbriciolarvi sopra un po’ di formaggio di capra e servire. Idea n. 2: carne

Cuocere nel brodo dei fagioli bianchi. Schiacciarli con una forchetta. Aggiungervi basilico e dadini di pancetta e sistemare sui Blévita. Idea n. 3: frutti di mare

Schiacciare dell’avocado con una forchetta. Condire a piacere e bagnare con succo di limetta. Mescolare con panna acida e menta. Spalmare sui Blévita. Guarnire con gamberetti. / AW

Con un paio di saporite salsette e guarnizioni, i cracker Blévita sono perfetti per l’aperitivo.

Blévita Mini Paprika 130 g Fr. 2.75

Blévita alla spelta timo-sale marino 6 porzioni 228 g Fr. 3.55

Blévita ai 5 cereali 6 porzioni 228 g Fr. 3.35

Blévita ai 5 cereali con sesamo pacchetto 295 g Fr. 3.30

L’industria Migros produce numerosi prodotti Migros molto apprezzati, tra cui anche i cracker Blévita.


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Idee e acquisti per la settimana

LeChef Bouquet di pepe 56 g Fr. 5.50*

LeChef Bouquet per insalata 42 g Fr. 4.90*

LeChef Carne 65 g Fr. 3.50*

Con le spezie di LeChef ottenere un buon sapore non è un miracolo.

Un pizzico di chef Non bisogna essere dei cuochi provetti per essere in grado affinare la propria arte culinaria. Bastano le spezie della nuova linea LeChef

Le spezie devono dare alle pietanze una nota di sapore particolare e al contempo mettere in risalto il gusto di ogni singolo ingrediente. È un compito impegnativo, per il quale si consigliano le spezie della nuova linea LeChef. L’assortimento comprende dieci prodotti, che si possono combinare in una moltitudine di aromi. Oltre alle

dosi di singoli prodotti, come il pepe nero e il sale marino, ci sono combinazioni di miscele davvero uniche. Perfino un inesperto cuoco della domenica riesce facilmente a dare il tocco finale ai classici piatti a base di carne o di pollame, alla raclette o al gratin di patate, alla pizza o alla pasta o a una bella insalata mista.

LeChef Pizza & Pasta 56 g Fr. 3.50* *20 x Punti Cumulus sull’intera gamma di spezie dal 2 al 15 dicembre.

Ingredienti pregiati senza additivi

Per la gamma LeChef vengono utilizzati solo ingredienti di alta qualità, che non contengono additivi come gli esaltatori di sapidità o gli aromi artificiali. Sono disponibili nei tipici spargipepe di vetro oppure in un originale macinino di ceramica, molto adatto anche come regalo. / JV

L’Industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui anche le spezie LeChef.


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Idee e acquisti per la settimana

La linea trattante Bircal Expertise offre prodotti efficaci contro la formazione della forfora e la caduta dei capelli. Perché i capelli sani bisogna meritarseli.

Bircal Expertise Shampoo Classic Antiforfora 200 ml Fr. 5.80

Bircal Expertise Shampoo Doppio effetto 200 ml Fr. 7.90

Bircal Expertise Tonico Active Antiforfora 200 ml Fr. 5.60

Questione di testa La cura speciale di Bircal Expertise ha effetti duraturi contro la forfora e previene la caduta dei capelli

zera comprende numerosi prodotti, creati appositamente per quel genere di problemi. C’è ad esempio lo shampoo Classic Antiforfora, che fa veramente onore al suo nome e, se usato regolarmente, impedisce la formazione di nuova forfora. Chi vuol sconfiggere definitivamente la forfora e nel contempo combattere la caduta dei capelli, ricorrerà allo shampoo Doppio effetto. Come misura di sostegno si raccomanda la cura con Tonic Active, dal ph neutro per la pelle. La sua formula fa sì che il cuoio capellu-

to sia idratato a sufficienza, e ne calma percettibilmente l’irritazione. Cura di cellule fresche per pelle e capelli

In particolare contro la caduta dei capelli dovuta a cause genetiche è stato sviluppato il Tonico alla caffeina. La caffeina naturale e il coenzima Q10 favoriscono l’irrorazione sanguigna e stimolano la rigenerazione cellulare. In tal modo si aumenta la produzione di elementi costitutivi dei capelli e se ne favorisce la sana crescita. / JV

Foto iStock Photo

L’industria Migros produce numerosi prodotti Migros molto apprezzati, tra cui anche i prodotti per la cura dei capelli della linea Bircal Expertise.

Molte persone soffrono di forfora o di caduta dei capelli dovuta a cause genetiche, che specialmente negli uomini, a dipendenza della predisposizione, può anche apparire già in età giovanile. Con la cura professionale dei capelli e del cuoio capelluto è possibile attenuare entrambi i sintomi, se non addirittura – per lo meno nel caso della formazione di forfora – eliminarli completamente. Con i suoi prodotti trattanti, la cui efficacia è dimostrata scientificamente, in questi casi Bircal Expertise coglie nel segno. La linea trattante speciale sviz-

Bircal Expertise Tonico alla caffeina Antiforfora 200 ml Fr. 7.40


Aperture e v i t s Fe Domenica 14 e 21 dicembre dalle 10 alle 18 dei negozi e ristoranti Migros: Centro Agno - Parco Commerciale Grancia Lugano-Centro (Via Pretorio 15) - Centro S. Antonino Centro Shopping Serfontana - Arbedo-Castione Bellinzona - Biasca - Taverne e Do it + Garden Locarno (Via S. Franscini 31) - Pregassona - Mendrisio Sud Losone Do it + Garden


La scarpa di Luca Hänni, una maglia originale di Gilbert Gress o addirittura il sassofono di Pepe Lienhard: aggiudicati un oggetto personale del tuo beniamino o uno speciale evento con lui. Dall’11 dicembre su migros.ch/asta


5.-

10.-

15.-

Ogni franco di donazione si moltiplica per tre: la Migros triplica tutte le donazioni effettuate nei giorni 12, 13 e 14 dicembre. Ed è semplicissimo: stacca il buono con l’importo da te scelto e consegnalo, durante gli orari di apertura dei negozi, alla cassa della filiale Migros, Micasa, SportXX, Melectronics o Do it + Garden. Trovi altre possibilità di donare a pagina 2 di questo numero o su migros.ch/natale

S c a r ic a or a e ac q u i s don a: t a la c a n zo n « Ense e mble » E x Li b ris, Go su ogl e Pl ay o iTunes .


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