Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXIX 13 giugno 2016
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Azione 24
Società e Territorio Antenati con le radici: il progetto artistico del Teatro dei Fauni valorizza il verde urbano
Ambiente e Benessere In Svizzera, le diagnosi di Sindrome da deficit di attenzione nei bambini sono in aumento: ma quali sono le cause di questa malattia, e soprattutto le possibili terapie da seguire?
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Politica e Economia Il voto britannico del 23 giugno sulla permanenza in Europa cambierà gli assetti geopolitici
Cultura e Spettacoli A cent’anni dalla nascita del dadaismo Ascona presenta l’arte nata da questo movimento
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di Federico Rampini pagina 29
Keystone
Hillary for President?
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Accordo a portata di mano? di Peter Schiesser Il giorno della votazione sull’uscita o meno della Gran Bretagna dall’Unione Europea si avvicina e l’incertezza persiste, mentre crescono i timori che il fronte del Brexit possa vincere dopo aver generato nuove paure su un arrivo in massa di stranieri e in particolare di turchi, visto che l’accordo concluso dall’UE con la Turchia per fermare i migranti dal Medio Oriente facilita ai cittadini turchi l’ottenimento di un visto per l’Europa. A Londra e al 23 giugno guarda anche la Svizzera, poiché questa votazione si inserisce in uno dei momenti più delicati delle relazioni tra Berna e Bruxelles, sorto in seguito al sì popolare all’iniziativa contro l’immigrazione di massa, il 9 febbraio 2014. A seconda dell’esito del referendum britannico, Bruxelles può irrigidirsi o diventare più flessibile nei negoziati con Berna sulla libera circolazione delle persone. Ma intanto li ha sospesi, in attesa del 23 giugno, mettendo enormemente sotto pressione il Consiglio federale, che deve concretizzare l’iniziativa del 9 febbraio 2914 entro il febbraio del 2017. Il tempo stringe, per ottenere una soluzione condivisa con Bruxelles,
e il Consiglio federale intende a tutti i costi evitare di dover optare per il «piano B», ossia di dover introdurre una «clausola di salvaguardia» unilaterale. In cambio di questo periodo di sospensione dei negoziati (in cui però contatti e negoziati più informali sono continuati) e della disponibilità di Berna di astenersi da qualsiasi dichiarazione che possa servire ai sostenitori del Brexit, Bruxelles ha aderito alla richiesta svizzera di far ripartire i negoziati il 24 giugno mettendo il turbo. Scriveva il «Tages Anzeiger» il 21 maggio che a quella data si apre una finestra di tempo brevissima, ci saranno giusto 13 giorni per trovare un accordo sulla «clausola di salvaguardia» prima che Bruxelles chiuda per vacanze. Il segretario di Stato e negoziatore capo con Bruxelles Jacques de Watteville, intervenendo lo stesso giorno a Berna ad una conferenza indetta dall’Associazione svizzera di politica estera, dal think tank di politica estera Foraus e dalla Neue Helvetische Gesellschaft, è stato meno categorico: una soluzione va trovata entro la fine dell’estate, affinché il messaggio del Consiglio federale possa essere trattato dal Consiglio nazionale in settembre e dal Consiglio degli Stati in dicembre. Ovviamente, se poi contro la decisione delle Camere federali venisse lanciato
un referendum, la scadenza del febbraio 2017 non potrebbe essere rispettata e il Consiglio federale dovrebbe varare un decreto urgente. Jacques de Watteville, ad ogni modo, si è mostrato ottimista, con o senza Brexit, e così sembra esserlo anche il consigliere federale Didier Burkhalter. Entrambi non si sbottonano, ma l’impressione è che una soluzione condivisa sia possibile e in vista. Sarà poi davvero la necessaria quadratura del cerchio? Ossia, sarà possibile rispettare la libera circolazione come richiesto da Bruxelles e al contempo i dettami dell’iniziativa contro l’immigrazione di massa? Non pochi ne dubitano. Intanto, sembra che gli accordi bilaterali con l’UE godano oggi di maggiore consenso in Svizzera: secondo un sondaggio dell’istituto GfS, attualmente solo il 36 per cento degli intervistati voterebbe per l’iniziativa contro l’immigrazione di massa. L’importanza economica degli accordi bilaterali torna in primo piano, e così pure l’importanza di una partecipazione a pieno titolo ai programmi di ricerca europei «Horizon 2020», non solo per i fondi stanziati da Bruxelles e per le ricadute economiche, ma anche per conservare l’eccellenza della ricerca svizzera, che non può permettersi di restare tagliata fuori dal contesto internazionale.
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Attualità Migros
M La plastica giusta al posto giusto Riciclaggio Migros recupera ogni anno circa 10’000 tonnellate di bottiglie di PET: un record Thomas Tobler* Fra i dettaglianti svizzeri, Migros è l’azienda che ha messo in opera il maggior sistema di recupero autonomo per gli imballaggi vuoti e gli scarti. Ogni anno nei suoi negozi vengono così raccolte circa 16’000 tonnellate di materiali, di cui più della metà (9600 tonnellate) sono bottiglie di PET. In altre parole, Migros recupera più bottiglie di PET di qualsiasi altro dettagliante svizzero. Pioniera del riciclaggio, dal 2013 l’azienda riprende anche tutte le bottiglie di plastica, così come i CD e i DVD. Osservando da vicino il comparto specifico, possiamo notare che esistono diversi tipi di plastica. Le bottiglie di PET sono trasparenti e resistono all’anidride carbonica, mentre la maggior parte delle altre bottiglie sono di polietilene, una plastica dal colore lattiginoso, spesso colorato. Questo materiale viene utilizzato per le bottiglie del latte o dei detergenti. Le bottiglie di PET sono quindi recuperate separatamente per ottimizzare il loro circuito di riciclaggio e il PET così raccolto serve a fabbricare nuove bottiglie. La decisione di istituire due tipi di raccolta separata per PET e per polietilene è stata presa dopo aver analizzato i risultati di un progetto-pilota della Cooperativa Migros Lucerna e dopo uno studio sul futuro della raccolta separata nel nostro Paese. In due anni il nuovo concetto di separazione degli scarti ha permesso di raddoppiare il volume raccolto. Nel 2015 ne sono state recuperate non meno di 2500 tonnellate. Con i materiali recuperati si fabbricano rivestimenti di cavi e tubi di plastica destinati all’edilizia. Va notato che la raccolta separata avviene essenzialmente a partire dalla separazione effettuata dai clienti. Le bottiglie di plastica sono differenziate e raccolte separatamente, allo scopo di ottenere una miglior purezza del materiale. In Svizzera la popolazione prende molto sul serio la raccolta separata degli scarti, il che rende il sistema molto efficace. In tema di riciclaggio della plastica l’interesse della comunità, in effetti, è molto attivo. Alcuni cantoni e comuni hanno introdotto sacchi di riciclaggio misti che permettono di
In tutte le filiali Migros le «pareti del riciclaggio» offrono un comodo aiuto alla raccolta.
ricuperare tutti gli scarti di plastica diversi dalle bottiglie di PET. A prima vista, l’intenzione è buona in quanto si tratta di riciclare di più per proteggere l’ambiente. Ma occorre osservare concretamente che il risultato non sembra particolarmente efficace. In effetti, più del 70 per cento della plastica utilizzata dalle economie domestiche non è riciclabile, una conclusione corroborata da uno studio sostenuto dall’Ufficio federale dell’ambiente. Questo mostra
che il potenziale di riciclaggio supplementare della plastica proveniente da raccolte miste è molto debole. Questi nuovi sacchi permetterebbero di riciclare solo il 4 per cento di plastica in più. Il resto dovrebbe in ogni caso venir incenerito. Sarebbe quindi poco ragionevole rinunciare alla raccolta separata così come praticata attualmente – e che ha dato buona prova – per ottenere un guadagno così contenuto. Per questo motivo gli scarti di pla-
stica come i vasetti dello yogurt, le vaschette e i tubi non sono e non saranno recuperati nelle pareti di riciclaggio della Migros. Che importa è la purezza della materia prima recuperata. Per questa ragione tutti i negozi Migros propongono pareti di riciclaggio con sezioni separate per il PET e le bottiglie di plastica. Il recupero misto di plastiche rischierebbe di seminare il dubbio tra i consumatori, i quali potrebbero essere indotti a fare confusione sul tipo
di materiale da riportare. Migros teme di mettere in pericolo la raccolta del PET e delle bottiglie di plastica, che invece ha avuto una sua efficacia. Sarebbe un vero peccato vedere questi materiali finire nei sacchi degli scarti misti, mentre potrebbero essere riciclati mediante un circuito di recupero che ha oggi virtù ecologiche accertate e riconosciute. * Redattore di Migros Magazin
Novità alla noce Industria Migros Jowa in futuro utilizzerà le noci per la produzione delle sue specialità senza glutine.
Ciò aumenterà le possibilità di scelta dei consumatori e darà maggiori spunti agli sviluppatori di prodotti Thomas Tobler*
Azione Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Beat Schweizer
Sugli imballaggi del pane senza glutine appare da oggi un avvertimento speciale, indirizzato a coloro che sono allergici alle noci. Dietro a questa informazione precisa e utile si nasconde in realtà un processo di conversione della produzione durato 18 mesi e che è ancora in corso, messo in atto dalla Jowa, industria della Comunità Migros. Per la produzione di pane senza glutine e di altre specialità da forno, infatti, sono utilizzate oggi delle noci. In precedenza tali prodotti della panificazione ne erano esenti. Jowa stava inizialmente pensanSede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
do di dare l’avvio alla sua produzione di alimenti privi di glutine utilizzando ingredienti senza lattosio: un modo per acquisire una prima esperienza nel settore. «Con la conversione all’uso delle noci, invece, andiamo anche incontro al desiderio espresso dai nostri clienti di poter godere di un assortimento più ampio in prodotti senza glutine» ci spiega Sandra Burri, sviluppatrice di prodotti della Jowa. «Le noci hanno un ampio spettro di sapori che cambia molto a seconda del fatto che siano fresche o tostate. Oltre a ciò, le noci sono molto versatili nelle loro varie forme di preparazione». L’uso di questi semi servirà ad ampliare la gamma di pro-
dotti senza glutine. Tra le specialità interessate ci sono i muffins e i panini al cioccolato, o alla frutta. «Lavorare con le noci stimola l’inventiva; usandole si aprono molte possibilità di nuove ricette» spiega Sandra Burri. Dallo scorso mese di ottobre Jowa ha iniziato a contrassegnare preventivamente le proprie etichette di prodotti senza glutine menzionando la presenza di noci. La vera produzione inizierà però nella fabbrica di Huttwil solo nel momento in cui saranno esauriti gli stock attuali di prodotti senza noci. «Nel momento in cui si inizia una lavorazione che contiene le noci nemmeno una minuziosa pulizia sarà
una garanzia sufficiente a riportare i macchinari allo stato iniziale» spiega Sandra Burri. La conversione significa anche che in futuro coloro che sono allergici alle noci dovranno evitare di consumare i prodotti senza glutine. A medio termine Migros intende proporre in altri settori del suo assortimento specialità «aha!» destinate a chi soffre di allergia alle noci. I primi prodotti senza glutine alle noci, invece, saranno sugli scaffali entro la fine dell’anno e saranno provvisti di un adesivo informativo speciale.
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* Redattore di Migros Magazin
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Società e Territorio Chiesa di Mogno L’opera di Mario Botta festeggia i vent’anni: la sua costruzione animò un dibattito molto acceso
Il pensiero e le macchine Semiotica e informatica: le intuizioni del linguista russo Jurij Lotman che ha sviluppato il concetto di «semiosfera» pagina 6
Tempi moderni Una delle sfide della società contemporanea è la comunicazione tra i Millennials e le generazioni precedenti pagina 8
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Alberi spettacolari Antenati con le radici Un progetto artistico
del Teatro dei Fauni avvicina i cittadini agli spazi verdi urbani
Roberta Nicolò L’arte come strumento per conoscere il verde di prossimità, questa è la proposta del Teatro dei Fauni di Locarno che, con il progetto antenati con le radici, propone attraverso alcune performances una rivisitazione della città e dello spazio urbano e stimola la conoscenza del patrimonio verde. Una serie di artisti che si esibiscono in musica, teatro e danza attorno ad uno dei tanti alberi secolari del centro di Locarno. «Parliamo di verde di prossimità perché possiamo incontrare la natura anche nei luoghi all’aperto che frequentiamo tutti i giorni. La città non è fatta di soli palazzi e strade, ma è animata dalla presenza di alberi, alcuni di loro sono piante secolari che fanno parte della storia stessa di Locarno. L’incontro con la natura non deve essere perciò un evento eccezionale, ma fa parte dei nostri percorsi quotidiani, in quest’ottica la città assume una forma diversa e diventa il palcoscenico ideale per raccontare e riscoprire un rapporto nuovo e personale con il verde urbano. Alla base c’è l’idea di far conoscere ed apprezzare i monumentali alberi centenari disseminati nelle città attraverso un’esperienza vissuta in modo collettivo con una comunicazione emotiva mediata – racconta Santuzza Oberholzer, direttrice del Teatro dei Fauni – sono alberi che nel corso dei decenni hanno resistito ad intemperie e modificazioni del territorio, ma che oggi, a causa dell’inquinamento, sono spesso sofferenti. Il progetto vuole coniugare la diffusione di informazioni sul territorio, con un omaggio artistico a queste creature straordinarie a cui tanto dobbiamo. Per questo gli eventi sono gratuiti ed adatti a tutti. In ogni appuntamento ci si ritrova tutti insieme sotto uno dei grandi alberi cittadini mentre l’ingegnere forestale Pippo Giannoni, racconta in maniera interessante la storia, la morfologia e le caratteristiche di questi giganti della natura, presentan-
do a volte anche immagini del passato, in cui l’albero era presente e riflettendo così insieme sulle modificazioni del paesaggio urbano». Antenati con le radici vuole essere un tramite con cui l’arte si può riappropriare della valenza civica e attraverso il quale può riscoprire il legame con il territorio. «Sono momenti che sensibilizzano in maniera più profonda sulla necessità di una salvaguardia ambientale, ma soprattutto è un’esperienza che tocca i nostri sentimenti indicandoci quanto l’albero sia importante per il nostro equilibrio. È qualcosa di forte, che completa la coscienza ecologica e che crea appartenenza. Un racconto che interseca nozioni botaniche a episodi di vita, un racconto che ripercorre la storia della città, ma anche la storia del territorio e la nostra storia. Le immagini d’archivio, che ritraggono gli alberi nel tempo, danno la possibilità di seguire lo sviluppo della pianta e raccontare l’evoluzione urbana nel tempo. Inoltre, facendo un parallelismo con l’albero genealogico di ognuno di noi, possiamo creare un legame più personale sia con l’albero che con la città. I Platani del lungolago Motta, per esempio, sono stati piantati quando nasceva nostro nonno o quando si sposava la nostra bisnonna. In questo modo lo spettatore si colloca all’interno del contesto cittadino, ricordando che lo spazio pubblico gli appartiene intimamente. L’evento artistico ci distoglie per un momento dal nostro frenetico quotidiano per aprire uno spiraglio verso quello che Mircea Eliade ha definito il tempo mitico, ovvero il collegamento che strappa l’uomo al suo tempo individuale, cronologico e storico per proiettarlo simbolicamente nel tempo sacro, cerimoniale e collettivo in cui ognuno si può avvicinare all’essere primordiale. L’essere ancestrale che ha immaginato la vita stessa come un albero. La performance degli artisti è come un rituale che incantata e trasforma la pianta in un elemento
Ginkgo Biloba dei giardini Rusca a Locarno. (Ma.Ma. )
di ricordo. L’albero diventa il simbolo, il detentore, di quell’evento. Si costruisce un rapporto empatico che ci fa immaginare quel particolare Pioppo o quel Salice, come una parte del nostro vissuto e allora non passa più inosservato, ma viene riconosciuto come parte della nostra famiglia, diventa parte dei nostri affetti. È un modo per aprire gli occhi sulla realtà quotidiana che ci circonda. Per questo stiamo pensando di portare il progetto in altri Comuni e nelle scuole. I più giovani potranno essere sensibilizzati e godere così di un rapporto maggiormente rispettoso del verde di prossimità e della salvaguardia ambientale in generale» conclude Santuzza Oberholzer. Raccontare attraverso la storia degli alberi rappresenta anche un modo
per mettere a confronto tratti della nostra cultura con elementi di culture lontane. I due Ginkgo Biloba che si trovano ai giardini Rusca, per esempio, sono alberi che provengono dalla Cina, dove sono stati lungamente coltivati dai monaci, che ne apprezzavano le proprietà curative. Piante che hanno saputo adattarsi benissimo al clima delle sponde del Lago Maggiore, dove si sono radicati diventando parte integrante del nostro paesaggio. Locarno vanta la presenza di circa 400 alberi centenari, la maggior parte di essi sono protetti e alcuni di loro, come i due Ginkgo Biloba, fanno parte dell’elenco degli alberi monumentali svizzeri. Proprio per valorizzare al meglio il patrimonio della città, il progetto antenati con le radici, ha attivato una
collaborazione con la sezione parchi e giardini del Comune di Locarno. Una parte del progetto è sviluppato insieme alla fotografa Dona de Carli che, attraverso il suo taccuino fotografico, documenta in maniera artistica questi alberi centenari, immortalandoli nelle varie stagioni dell’anno. Il primo dei prossimi appuntamenti con antenati con le radici è previsto a Locarno in autunno, dove saranno omaggiati e raccontati proprio i due Ginkgo Biloba dei giardini Rusca con la presenza di una performance di percussioni, una delle prime arti dell’uomo che vuole richiamare l’antica origine dei due alberi. Il progetto antenati con le radici del Teatro dei Fauni può essere sostenuto sulla piattaforma progettiamo.ch
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Società e Territorio
Mogno: Botta e Tami a confronto Anniversari La chiesa di San Giovanni Battista progettata da Mario Botta festeggia i vent’anni. La sua costruzione
animò un dibattito molto acceso e, mentre le polemiche si moltiplicavano, Rino Tami creò un progetto alternativo Luciana Caglio Il tempo, a volte, è proprio galantuomo, come dice il proverbio, e riesce a saldare i debiti con il passato. A Mogno, ci sono voluti tre decenni per far piazza pulita dei timori e dei pregiudizi che avevano accompagnato il progetto e la costruzione dell’edificio più controverso del Cantone: la nuova chiesa di San Giovanni Battista, chiamata a sostituire quella del XVII secolo, spazzata via da una valanga, il 25 aprile 1986. A suscitare una disputa infinita, alimentata da umori e malumori più politici che culturali, era stata la decisione del «Comitato per la ricostruzione della chiesa» di affidare l’incarico a Mario Botta, poco più che quarantenne ma già figura emergente sul piano internazionale. Non aveva, prima di allora, affrontato il tema del sacro in architettura: «Ma mi ruotava nella mente» come confesserà, rievocando il suo incontro con quel luogo, aspro e solitario: «Che proponeva la lotta atavica fra l’uomo e la montagna». E chiedeva la risposta di «un progetto forte», una sorta di baluardo difensivo, nei confronti delle minacce naturali, da costruire con materiali locali: marmo bianco di Peccia, granito nero di Riveo. Ciò che si tradusse in un cilindro dai connotati anche simbolici: robusto e compatto, all’esterno, a indicare protezione, e, all’interno, sfaccettato dal contrasto chiaro-oscuro delle pietre e dal gioco della luce zenitale, a sollecitare intimità e riflessione. Il messaggio, però, non fu percepito. Anzi, quel disegno e quel plastico scatenarono un pandemonio, che si protrasse per un decennio.
La chiesa di Mogno è stato un progetto alquanto controverso, sui giornali la polemica continuò per anni e divise l’opinione pubblica. (CdT Demaldi)
ne in quel minuscolo villaggio» (CdT 27.5.87). E Franco Zambelloni denuncia un equivoco: «Non sarà una chiesa, sarà un monumento… gli abitanti non la vogliono, ma verranno i turisti con le macchine fotografiche». Ed ecco che, nel pieno di quest’inesauribile disputa, si delinea una svolta forse decisiva. La Commissione diocesana d’arte sacra, presieduta dall’architetto Giampiero Mina, «cautamente sfavorevole» al progetto Botta, avrebbe un asso nella manica: un progetto alternativo firmato Rino Tami. «Una botta… per Botta» si legge sull’«Eco di Locarno» (2.5.89), che lancia la notizia. Non era una bufala, del resto improbabile data l’importanza del personaggio in questione. E, guarda caso, ne ero personalmente al corrente. Infatti, agli inizi di settembre dell’89, Rino Tami, che cono-
L’Associazione ricostruzione chiesa di Mogno invita a una giornata commemorativa domenica 26 giugno per ricordare i 30 anni dalla caduta della valanga e i 20 dall’inaugurazione della nuova chiesa
ca ne recano un ampio campionario. Robi Ronza, sul «Giornale del Popolo» (21.5.87) si domanda se «l’edificio sia veramente una chiesa». Armando Dadò, sul «Popolo e Libertà» (22.6.89) sostiene che «la chiesa di Botta non può essere imposta alla gente». Tanto più che si tratta di un «Monumento allo spreco», o di un «Tempio laico», come scrive Augusto Cotti (GdP 5.7.89). E i toni s’inaspriscono. Il «Corriere del Ticino» (29.5.89) ospita un commento della Pro Ticino dal titolo perentorio: «Una pazzia umana la chiesa cilindrica col tetto di vetro». Per Cotti si tratta di «Una vergogna» (GdP 22.12.92). Anche gli intellettuali appaiono divisi e imbarazzati. Se Gerardo Broggini si schiera apertamente a favore, Renato Martinoni si dichiara «fra chi avversa, non il progetto in sé, ma la realizzazio-
Buon senso popolare, attaccamento alle tradizioni, vitalità civica, o, invece, personalismi, litigiosità, chiusura preconcetta al nuovo? Difficile decifrare le motivazioni più profonde di una polemica, a prima vista assurda: tanto rumore per una chiesetta in una località che non era neppure un villaggio, pochi cascinali abitati solo d’estate. Sta di fatto che la vicenda mobilitò l’intero Paese, dalla base ai vertici. Punto di partenza ufficiale, nel giugno 1987, la petizione contro il progetto Botta, lanciata da un gruppo di valmaggesi e firmata da 2852 cittadini: chiedeva l’intervento dello Stato per impedire «uno scempio». Volarono, infatti, parole grosse per definire un’opera-spauracchio. I giornali dell’epo-
All’interno marmo bianco di Peccia e granito nero di Riveo. (CdT - Demaldi)
sceva la mia curiosità per l’architettura, mi convoca nel suo studio, a Sorengo, annunciando «una grossa sorpresa». Mi trovo, così, di fronte a una parete, ricoperta da una tenda blu. Con un gesto, signorilmente teatrale com’era nel suo stile, la strappa e compare una nuova versione di Mogno. La illustra, leggendo, da un foglio scritto a mano, i connotati di un’opera, sobria, d’impianto razionalista, in voluta e dichiarata contrapposizione rispetto a quella di Botta. E, con voce baritonale, ne sottolinea le diversità: «La sua, un oggetto incombente, una sorta di meteorite caduto dal cielo, la mia una chiesetta che scaturisce orizzontalmente dal terreno inclinato, a fare da muretto protettivo e infine da campanile, a formare il triangolo equilatero della cappella e del sagrato, che si richiude con il cimitero e l’ossario…». Per, poi, toccare il tema caldo dei finanziamenti: «Costo totale del progetto, in scala adeguata alle modeste costruzioni esistenti, circa 700’000 franchi». Ben più dispendiosa, invece, l’opzione Botta, dove si parlava di svariati milioni. Tuttavia, divergenze a parte, Tami ci teneva a ribadire l’aspetto umano di un incontro, e mai di uno scontro, con Mario. Lo considerava un collega con cui misurarsi, da posizioni generazionali e culturali lontane, e anche un amico, con cui discutere, e anzi un figlio. Proprio quel foglio, ormai un cimelio storico, s’intitolava testualmente: «Mogno: il “padre” e il “figlio prodigio”». E stava a indicare una continuità fra due protagonisti, ammirati, discussi e fraintesi, come succede a chi lascia un segno personale sul territorio. Nel 1939, la Biblioteca cantonale di Tami era stata
messa all’indice: «Una gabioteca», l’aveva definita il «Corriere del Ticino». Mario Botta ricorda con affetto quel maestro che, guardando i suoi disegni di apprendista nello studio di Tita Carloni, diceva: «Bravo ragazzo». Sarebbe poi nata, fra loro, «quella sottile complicità» che suggella un’appartenenza comune, la passione per il lavoro, e i rischi che comporta. «Ci s’incontrava, il venerdì sera, in un’osteria a Caslano, per la partita a scopa. Rino mi voleva sempre come avversario. Insieme si parlava d’altro, sempre pensando all’architettura». Rievocando la vicenda Mogno, non fu certo il progetto Tami a lasciare l’amaro in bocca a Mario Botta: «Era stato un episodio marginale, forse uno sfizio intellettuale per l’autore stesso». Non si verificò, quindi, l’annunciata sfida fra presunti rivali. Con ciò, la tormentata realizzazione di quell’opera solleva interrogativi scomodi: «Non riesco ancora a capacitarmi, le ragioni di tanto astio. In quel decennio, i nostri giornali pubblicarono oltre 2000 articoli: attacchi, spesso, violenti e inspiegabili. Ho imparato, così, che la contestazione è proporzionale alla forza del progetto. Purtroppo, da tutto ciò si ricava l’immagine un paese lacerato, populista, ancorato allo status quo». Alla quale, come detto, il tempo ha rimediato. Il 23 giugno del ’96, dopo sei anni di lavori sotto la guida dell’architetto Giovan Luigi Dazio, s’inaugurava la chiesa di San Giovanni Battista: e il Ticino dovette arrendersi all’evidenza. Quell’edificio parlava da sé. Questo mese, il ventennale sarà celebrato con tutti i crismi dell’ufficialità. Annuncio pubblicitario
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Società e Territorio
Pensare con le macchine Mondo digitale Semiotica e informatica per una «mente collettiva»: le intuizioni del linguista russo Jurij Lotman
che ha sviluppato il concetto di «semiosfera» Lorenzo De Carli The Imitation Game, il film di Morten Tyldum dedicato alla figura di Alan Turing, è un titolo un po’ fuorviante perché non entra nel merito delle riflessioni che, nel 1950, condussero il matematico inglese ad immaginare quali dovrebbero essere le condizioni per asserire che una macchina pensa, ovverossia quel famoso «test di Turing» che prende ispirazione da un gioco definito «gioco dell’imitazione». Mentre nel gioco originale, due soggetti A e B – un uomo e una donna – debbono rispondere alle domande di C in modo da ingannarlo sull’identità sessuale dei primi due, il gioco di Turing serve per verificare se C è in grado di distinguere le risposte di una macchina da quelle di un umano. Nonostante il numero sterminato di articoli scritti sul test di Turing, fu lo stesso autore a dichiarare che la questione «se le macchine pensano» è «troppo priva di senso per meritare la discussione», affermandolo proprio nel saggio citato da molti, ma letto da pochi. Tra i lettori del celebre saggio di Turing vi fu anche il linguista russo Jurij Lotman, fondatore della semiotica della cultura. Lotman fa esplicito riferimento al test di Turing in un piccolo saggio intitolato La cultura come mente collettiva, dove si propone di affrontare «i problemi della intelligenza artificiale» da un punto di vista semiologico, vale a dire la scienza che studia i segni. Lotman, interessato a formulare una
Il film The Imitation Game è dedicato alla figura di Alan Turing, inventore del famoso test per determinare se una macchina sia in grado di pensare.
definizione soddisfacente di «comportamento mentale», accantona rapidamente concetti come «intelligente» o «simile all’uomo» indissolubilmente legati a situazioni immaginarie come il
«gioco dell’imitazione» perché ritiene che c’è tangibile presenza di un’attività mentale solo quando assistiamo alla produzione di un nuovo messaggio, «il nocciolo stesso dell’atto mentale».
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La posizione di Jurij Lotman è molto interessante perché, rispetto a quanto ci viene insegnato a scuola a proposito delle basi della comunicazione (vale a dire che un emittente produce un messaggio che viene decodificato da un destinatario), il semiologo russo ci dice che, in realtà, quando vediamo un quadro, quando leggiamo un testo, quando ascoltiamo una musica, quando risolviamo un’equazione, noi non stiamo «decodificando» un bel niente, stiamo invece facendo un’operazione che è molto più simile all’atto di tradurre. Secondo Lotman, ciascuno di noi è per così dire una enciclopedia ambulante. Per ognuno di noi, comprendere il significato dei messaggi significa trovare le corrispondenze tra le cose che leggiamo, vediamo e sentiamo e le cose che ci sono già note. Proseguendo nelle sue riflessioni, Lotman aveva maturato la persuasione che la cultura funziona come le nostre menti: è un processo di traduzione da un sistema semiotico all’altro, per esempio dal sistema verbale a quello iconico. Così come le nostre menti sono caratterizzate dal fatto che, senza interruzione, traducono nei termini dell’enciclopedia che ciascuno di noi si porta appresso i mille e mille messaggi che intercettiamo senza interruzione, nello stesso modo la cultura è un processo di traduzione da un codice all’altro, che genera nuova conoscenza. È in questo senso, che per Lotman la cultura è una «mente collettiva». Per la recente storia delle tecnologie della comunicazione è importante un altro concetto sviluppato da Jurij Lotman: quello di «semiosfera». Il semiologo russo conosceva bene la nozione di «biosfera» intesa «come strato sottile che avvolge il nostro pianeta» e nel quale vivono i nostri corpi. Per lui la semiosfera è lo spazio in cui dialogano le culture umane, lo spazio di tutti i testi, di tutti i segni che produciamo. Negli anni Ottanta del secolo scorso, la preoccupazione maggiore di Lotman mentre sviluppava la sua nozione di semiosfera era quella di studiare come, all’interno della semiosfera, le varie lingue e le varie culture si traducevano reciprocamente, producendo nuove informazioni, e come la semiosfera interagiva con il resto del mondo non ancora «tradotto», trasformandolo nei segni di un qualche linguaggio umano. Nello stesso tempo, si andavano diffondendo le reti di computer, e
quando Lotman morì, nel 1993, il web divenne tecnologia pubblica. Quanto accadde in seguito – la creazione di una pellicola di testi digitali che avvolge tutto il pianeta e che intercettiamo con computer, smartphone e tablet – sembra essere la realizzazione materiale della semiosfera teorizzata dal semiologo russo. Con lo sviluppo del web abbiamo assistito ad un fenomeno straordinario: la progressiva trasformazione in stringhe di numeri di tutte le forme di cultura umana: musica, pittura, testi di ogni genere. Il passaggio, tuttora in corso, dall’analogico al digitale sta seguendo le dinamiche descritte da Jurij Lotman quando spiega come i «segni» estendono il loro potere di descrizione del mondo, oppure quando culture o lingue diverse si traducono reciprocamente. È stata un’intuizione formidabile, che a lungo non cesserà di stimolare la riflessione sul mondo digitale come «mente collettiva». Come osservato, Turing riteneva priva di senso la domanda se le macchine possono pensare. La sua versione del «gioco dell’imitazione» potrebbe facilmente indurci a ritenere che, a giudicare dalle risposte in grado di fornirci, siamo già giunti a creare macchine in grado di pensare. Lotman ci suggerisce che «pensare» non significa rispondere in maniera persuasivamente umana, bensì significa produrre nuova informazione, passando da un codice all’altro, da una lingua all’altra, da una mente all’altra. Come già aveva ben osservato il grande antropologo inglese Gregory Bateson, è la «differenza» che produce informazione, che produce nuova conoscenza. L’orientamento di pensiero denominato «transumanismo» c’incoraggia a non chiederci se le macchine pensano ma a riflettere sulla nostra partnership con le reti informatiche. Osservando l’epoca che stiamo vivendo da questo punto di vista, dovremmo accettare il fatto che sta emergendo una mente collettiva alla creazione della quale stiamo contribuendo sia noi, sia le macchine – senza soluzione di continuità, perché ciò che attraversa i cervelli – artificiali e no – sono i testi, descrizioni sempre nuove del mondo. Il «gioco dell’imitazione» ha raggiunto un altro livello, quello in cui abbiamo accettato di pensare con le macchine che hanno contribuito a creare la semiosfera nella quale siamo costantemente immersi.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 13 giugno 2016 ¶ N. 24
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Società e Territorio
Come parlare ai «Millennials» Tempi moderni Una delle sfide della nostra società è il superamento del divario che ostacola la comunicazione
tra «Immigrati digitali» e «Nativi digitali» Ovidio Biffi A fine aprile sfiorando un link del «Corriere del Ticino» online si poteva leggere un articolo del servizio marketing di Ubs. Niente finanza, o quasi. Un po’ di economia, quella sì, legata però a sociologia e demografia. Abbastanza da percepire che anche da noi è presente un nuovo gap intergenerazionale, con l’ennesimo confronto giovani e anziani. «Googlando» un po’ si scopre che questo gap (cioè un divario che ostacola la comprensione o crea disagi) in America è sulle prime pagine sin da quando Facebook, il servizio di rete sociale, nell’agosto scorso aveva annunciato il miliardo di utilizzatori giornalieri (ora sono già 1,5 miliardi…). Scemato l’interesse sui profitti miliardari e gli ambiziosi progetti di sviluppo di Facebook, media e pubblico hanno rivolto l’attenzione, più in generale, ai dati della crescita rapida e dei comportamenti relativi all’uso di media sociali e applicazioni varie. E in questo sterminato campo la materia per prolungare le discussioni non manca di certo: solo lo scorso anno gli smartphone di tutto il mondo hanno scattato o scaricato duemila miliardi di fotografie (e tutti a chiedersi a cosa servono, dove vanno a finire…); ogni minuto i fruitori di YouTube scaricano in contemporanea circa 400 ore di video (e chi ne ricorda più di dieci è un genio); ogni ora gli utilizzatori di Instagram si preoccupano di assegnare circa 146 milioni di likes, mentre nello stesso spazio di tempo (sessanta minuti) chi predilige Twitter è alle prese con 21 milioni di tweets. Sono le principali palestre digitali usate dai «Millennials», tecnicamente definiti anche generazione Y, persone nate tra gli ultimi anni del vecchio e i primi anni del nuovo millennio. Poiché si tratta di giovani quasi tutti dotati di un dispositivo mobile (che abbina telefonia, internet e applicazioni social), il termine «Millennials» non ha un riferimento solo anagrafico, ormai in tutto il mondo definisce la generazione con la maggior familiarità con le tecnologie digitali. Per questo motivo, come spiega Wikipedia, mentre le altre generazioni sono «Immigrati digitali», i «Millennials» sono «Nativi digitali», giovani sempre collegati con internet e seguaci di una particolare filosofia: vivono in un mondo dove «non si perde» e in cui ognuno è convinto di ottenere quel che vuole «grazie alla partecipazione». Gli esperti dell’Ubs, elencando le «Caratteristiche chiave» nell’articolo citato, qualificano i «Millennials» come giovani «Scettici, politicamente indipendenti e molto istruiti – Ottimisti,
Oggi si affronta un nuovo gap intergenerazionale che si gioca tutto sulle tecnologie digitali. (Keystone)
eterogenei e leggermente egocentrici – Animali sociali, estremamente ben interconnessi e proprietari di vari dispositivi di comunicazione – Con una forte domanda di soluzioni personalizzate – Favoriscono i canali digitali, i social media e le comunicazioni mobili – Si aspettano l’integrazione dei servizi offline e online – Hanno un breve intervallo di attenzione, preferiscono l’uso di metafore e immagini – Amano scoprire cose nuove, ma solo da fonti di fiducia – Condividono le loro scoperte con gli amici (raccomandazioni tra pari) – Prediligono l’interazione legata alla domanda, a valore aggiunto e non promozionale». Quasi non bastasse, da questa radiografia fanno partire anche una minuziosa analisi che da una parte conferma le tesi americane sulla particolare filosofia di vita, dall’altra svela alcuni punti di forza dei «Millennials»: «Sono esperti di tecnologia, si trovano sui social media 24 ore su 24 e si fidano delle opinioni altrui, ma non delle grandi aziende. In realtà, non sono poi così diversi dai clienti esistenti: sono solo più bravi a distinguere ciò che è autentico da ciò che non lo è e a consumare solo
ciò che suscita davvero il loro interesse. Di per sé, ciò significa che stanno già modificando il nostro modo di acquistare e vendere, costringendo le aziende a esaminare il modo in cui lavoreranno in futuro e ad adottare approcci radicalmente diversi per conquistarli». In altre parole le generazioni più giovani hanno in dotazione maggior potere e capacità di interagire con il mondo, come pure una maggior influenza nei cambiamenti e nelle scelte. Nessuna meraviglia, quindi, che si sia prodotto un gap, definito anche digital divide, e disagio soprattutto nelle persone più anziane. La colpa ovviamente ricade su genitori o nonni dei «nativi digitali» per un semplice motivo: sono rimasti al palo, immaginando che le nuove tecnologie, benché importanti, fossero soltanto utili invenzioni che al massimo avrebbero migliorato un po’ le loro abitudini, senza intaccare modi di esistere o sconvolgere processi mentali. Invece il disagio esiste e non è passeggero. Lo confermano anche gli ultimi dati, diffusi di recente da MarketingCharts e Audiweb, riguardanti il consumo dei principali vecchi e nuovi media (su smartphone, pc, tablet, tv,
radio e giornali): dal 2011 a oggi, ha raggiunto le 12 ore al giorno per tutti gli adulti, con un’ora esatta di aumento. Il maggior consumo è stato favorito dal digitale (da 3.34 a 5.45 ore) a cui è corrisposta una diminuzione nell’utilizzo di tv e radio (assieme perdono circa 40 minuti al giorno rispetto alle 6 ore del 2011) e nella lettura di giornali e riviste (oggi è di 27 minuti contro i 47 di cinque anni fa). Ovviamente è soprattutto passando ai consumi digitali globali, estesi cioè alla telefonia, che si riscontrano maggiori consumi e differenze fra le varie generazioni. Ad esempio per cellulari e social network il consumo rasenta le 33 ore mensili dei giovani, mentre i «nonni» non arrivano a 16 ore. Le differenze diminuiscono se si passa ai dati riguardanti il consumo per portali web, motori di ricerca, video e quasi svanisce per l’utilizzo dell’e-commerce. Arriva persino un risultato antitetico dal consumo per le news: 22 minuti al mese per i «Millennials» contro i 100 raggiunti da adulti oltre i 35 anni. Proprio quest’ultimo dato è letto dagli esperti come una conferma che i «Millennials» continuano a vivere nel loro mondo, con passività e distacco, incu-
sovrapproduzione, e all’impatto ambientale. Per questo, diversi esperti, del settore vedono la sharing economy come una ideologia del consumo etica e intelligente. Per altri, invece, questo ideale romantico applicato a quelle aziende come Uber e Airbnb, che della condivisione hanno fatto un business lucrativo, non regge ed è piuttosto la pericolosa espressione di una economia capitalista senza regole. È notizia recente che Berlino, una delle città in cui Airbnb è più radicata e diffusa, ha deciso di vietare gli affitti fai da te con multe fino a 100mila euro per restituire ai berlinesi un mercato più equo degli affitti. Vien da chiedersi se queste aziende, mosse in principio da progetti collaborativi, ma in parte fortemente orientate al profitto, siano davvero in grado di risolvere i problemi del capitalismo globale con delle
semplici piattaforme web o applicazioni per cellulari smart. Del tema di recente si è occupato un simposio culturale internazionale che ha avuto luogo a Weimar. Patria di grandi letterati, città romantica immersa nel verde, è il luogo meno emblematico per un simposio sulla sharing economy in tempi di smart cities ma i grandi nomi non sono mancati. Due tra tutti, Tomáš Sedláček, economista ceco, autore del saggio L’economia del bene e del male, e Jeremy Rifkin, economista e attivista statunitense, si sono trovati d’accordo nell’affermare che la forma organizzativa basata sul principio di una azione collettiva volontaria costituirà il futuro della nostra economia e della nostra società: se persone di una stessa regione si uniscono per raggiungere uno scopo comune, la tecnologia permette
ranti del disagio, e che solo le altre generazioni sono disposte a cercare di superare il gap. Una testimonianza della sensibilità degli «over 65» l’ha fornita il collega Aldo Cazzullo che su «Io Donna» del «Corriere della Sera» ha riportato questa dichiarazione di un nonno, lettore della sua rubrica: «Questa generazione crescerà in questo mondo buttando le basi delle future generazioni. E noi che ne siamo ponte, siamo fuori del tempo. Quindi o ci adeguiamo e partecipiamo, cerniera per trasmettere certi valori antichi, o ce ne usciamo (...) Capire che abbiamo un ruolo importante, ci fa essere senza tempo». Oltre a questa generosa disponibilità degli «immigrati digitali» merita segnalazione anche un altro apporto essenziale reso noto dall’agenzia Bloomberg a inizio maggio: al posto del mirabolante +86% fatto segnare nel primo quadrimestre cinque anni fa (in pratica l’alba dell’era dei «Millennials») nelle vendite di smartphone nel mondo, nel corrispondente periodo del 2016 c’è un preoccupante –3%! Vuoi vedere che anche la mano invisibile di Adam Smith è già all’opera per mitigare il digital divide generazionale?
La società connessa di Natascha Fioretti Un modello misto per la sharing economy del futuro Nell’era postindustriale condividere conta più che avere, e l’accessibilità ai servizi e alle cose è più importante del loro possesso. La sharing economy, l’idea del consumo inteso come scambio, prestito, condivisione, affitto di oggetti, spazi, conoscenze, grazie a internet e alle applicazioni mobili si è notevolmente diffusa e promette di crescere ulteriormente. Secondo uno studio della Juniper Research, il mondo della sharing economy è in pieno sviluppo e piattaforme come Uber, Airbnb o Homeaway avranno un incremento di fatturato che vedrà tutto il settore incassare oltre i 20 miliardi di dollari entro il 2020 contro i 6,4 miliardi registrati nel 2015. In particolare la Juniper Research vede un progressivo successo di quelle piat-
taforme che offrono servizi personali come Taskrabbit o Tidybear. La prima, secondo il motto «Posso svolgere delle commissioni per te?» è un luogo in cui si incontrano domanda di servizi e offerta di lavoro. In altre parole, se hai bisogno di qualcuno che vada a fare la spesa per te, porti fuori il cane o ti monti i mobili dell’Ikea, Taskrabbit, nella tua stessa zona o città, trova la persona che fa al caso tuo. La parigina Tidybear è invece la prima piattaforma web specializzata nelle pulizie del giorno dopo e, in particolare, si rivolge ai giovani festaioli che dopo una serata di baldoria non se la sentono di pulire e mettere tutto a posto. I sostenitori di questa economia collaborativa partono dalla convinzione che essa sia in grado di dare la risposta giusta ai problemi del capitalismo e dunque allo spreco delle risorse, alla
loro di rendersi indipendenti dalle offerte e dai servizi delle grandi aziende multinazionali. Vedi i pannelli solari che permettono di auto produrre la propria energia o il car sharing o la creazione di una grande area di compostaggio comune per generare gas. In queste iniziative secondo Sedláček e Rifkin sta l’anima socialista della sharing economy. Ma c’è anche quella più capitalista per cui è nello spirito della sharing economy costruire piattaforme sulle quali la condivisione si offre in cambio di dati o di una commissione. Il modello di business del futuro sarà dunque misto e dovrà trovare un equilibrio tra le due componenti se vuole realizzare le aspettative di chi crede in una economia e in una società collaborativa che siano più eque e attente alle minoranze.
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Società e Territorio Rubriche
Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni L’abito e il monaco Tra i proverbi che un tempo non solo costituivano la saggezza popolare, ma insieme dettavano norme di comportamento corretto, c’era il famoso «L’abito non fa il monaco». Il senso è chiaro: non basta portare l’abito talare per essere un monaco come si deve; l’apparenza non basta a garantire la sostanza. È senz’altro vero, ieri come oggi. Ma è altrettanto vero che i codici d’abbigliamento, all’interno dell’organizzazione sociale, servivano un tempo a contrassegnare non solo un ruolo e un rango, ma una funzione. Il nobile, il ricco e l’alto clero esibivano negli abiti le loro ricchezze e poteri, e i «frati poverelli» seguivano la regola dell’ordine monastico e indossavano un saio di lana grezza e sandali: così, in una società gerarchica, era subito chiaro a chi dovevi inchinarti per evitare frustate e a chi rivolgerti per una parola di conforto. L’abito orientava dunque il comportamento sociale. Oggi, mi pare, questo
accade solo con i militari e i poliziotti in servizio: l’uniforme indica a chi rivolgersi in caso di bisogno e suggerisce anche di non infrangere regole quando la divisa è in vista. Poi, con l’avanzare dell’egualitarismo (non dell’eguaglianza, che è sacrosanta, ma dell’egualitarismo che ne è l’esasperazione e una forma di esibizionismo ideologico), le cose si sono in parte capovolte. Dopo il Sessantotto esplose la moda dei blue jeans: i pantaloni sdruciti di tela blu che erano la tenuta da lavoro dei marinai e degli scaricatori di porto di Genova divennero l’abito di moda dei giovani delle classi benestanti, che così livellavano le differenze sociali eguagliandosi agli operai – salvo, però, tornare a rimarcare la distanza balzando sulla loro Ferrari o sulla Porsche. Da allora, anche i jeans si sono evoluti: oggi, per essere alla moda, occorre portarli con strappi e smagliature. Come interpretare questa
svolta? Un tempo, anche le classi povere si vergognavano a mostrare in pubblico abiti logori e sdruciti; oggi questa moda tende a livellare, a negare le differenze. Detta così, può sembrare una bella cosa; ma che si tratti spesso di pura finzione è mostrato dal fatto che molti di questi indumenti logorati artificialmente esibiscono una griffe di grande marca; e si sa che una griffe basta, da sola, a far levitare il prezzo di un prodotto che, di per sé, costerebbe assai meno. Così, dietro la maschera dell’indigenza, trapela il volto del benessere. Ma è nell’abbigliamento femminile che si evidenzia maggiormente il cambiamento d’epoca e di mentalità. Non a caso Anatole France scrisse che, se gli fosse stato concesso di scegliere tra la moltitudine di pubblicazioni che sarebbero apparse cent’anni dopo la sua morte, non avrebbe scelto un romanzo, ma una rivista di moda, per
vedere come si sarebbero vestite le donne. E spiegava che le nuove mode «saprebbero dirmi sull’umanità futura più che tutti i filosofi, i romanzieri, i predicatori, i sapienti». Lo scrittore morì nel 1924: dunque, quasi ci siamo. Ma già ora si può trarre qualche conclusione. Per secoli i pantaloni sono stati appannaggio esclusivo dei maschi; ormai sono comunemente indossati anche dall’altro sesso. Le rivendicazioni d’uguaglianza e parità di diritti, l’indistinzione o la confusione tra i sessi hanno portato a questa conquista. Però, è curioso: le donne hanno conquistato i pantaloni, gli uomini non hanno rivendicato le gonne. Segno che qualche voglia di differenza ancora permane. Ma Anatole France sarebbe certamente colpito dall’aderenza dei pantaloni femminili, dalle minigonne, dalle trasparenze degli indumenti. Ai tempi suoi, anche le donne indossavano l’abito talare (da talus, tallone: fin
lì doveva scendere la sottana). Scarsa meraviglia lo scrittore proverebbe, invece, per le scollature: già nella Firenze di Dante erano generose – tanto che nel XXIII° canto del Purgatorio Forese Donati auspica, da buon moralista, che venga un tempo in cui sarà «interdetto / a le sfacciate donne fiorentine / l’andar mostrando con le poppe il petto». Ma il Boccaccio invece, che amava cantare i «pomi vaghi per mostranza tondi», ne difendeva l’esibizione pubblica: se la natura li avesse ritenuti vergognosi, perché li avrebbe messi così in evidenza? Cosa concludere? Che l’abbigliamento attuale da un lato tende all’uniformità conformistica, alla negazione delle diseguaglianze; dall’altro, vuole comunque rimarcare le doti fisiche – esaltandole quando ci sono o simulandole, magari, quando non ci sono. Così, resta pur sempre vero che l’abito non fa il monaco.
A due passi di Oliver Scharpf L’ex fabbrica di cioccolato Cima-Norma a Dangio-Torre La Cima-Norma per me è sempre stata circondata da un’aura fiabesca. Innanzitutto per via di uno dei primi libri che ho divorato e amato: La fabbrica di cioccolato (1964) di Roald Dahl. Poi per l’insolito contesto discosto in cui era posta: in valle, a ridosso del bosco, accanto a un torrente. Inoltre c’era il nostalgico sogno impossibile di provare quel cioccolato estinto da anni. Nasce nel 1904 come Fabrique de chocolat Cima, sul confine tra Dangio – frazione dell’ex comune di Aquila – e l’ex comune di Torre, entrambi confluiti in quello di Blenio. Fondata dai quattro fratelli Cima, emigranti cioccolatieri come centinaia di altri bleniesi, di ritorno da Nizza. Nel 1913 entra in scena Giuseppe Pagani che aveva fatto fortuna a Londra – il famoso Pagani’s al cinquantaquattro di Great Portland Street era frequentato tra gli altri da Caruso, Ciaikovski, Sarah Bernhardt – e risolleva le sorti della Cima, già sull’orlo del baratro. Compra anche i macchinari e il marchio della
fallita Norma di Zurigo, aggiungendo così al nome, un tocco operistico. Non ci sarebbe neanche bisogno di dirlo, ma mica tutti sono melomani, perciò mi riferisco alla Norma (1832) di Bellini. Sopravvissuta a una piena del torrente Soja nel 1908 e a un incendio nel 1915, la Cima-Norma, all’apice della sua storia, verso l’inizio degli anni Sessanta, conta trecentoquarantotto dipendenti, millecinquecento tonnellate di cioccolato all’anno declinate in ventidue varietà. La perdita però del suo migliore cliente, l’Unione Svizzera delle Cooperative che sceglie la concorrenza più conveniente, segna la fine: luglio 1968. Una ferita per tutta la valle. Almeno nelle valli un po’ ragionano ancora e non l’hanno tirata giù come l’indimenticata Villa Branca a Melide. Accantonamento militare, atelier, loft, carnevali, tombole, argomento per una tesi di laurea, e da maggio spazio culturale gestito dalla fondazione La Fabbrica del Cioccolato. La notizia è dell’autunno scorso: Donata
mezza Cima Norma titola il «Corriere del Ticino». Il proprietario, l’architetto Marino Venturini, ha donato infatti parte degli stabili a questa neonata fondazione che debutta con Foreignness: «progetto curatoriale multidisciplinare biennale sviluppato dalla direzione artistica di Franco Marinotti». L’ultima volta che l’ho vista l’anno scorso l’avevo mangiata con gli occhi, in curva, dai finestrini delle autolinee bleniesi. Adesso si mostra incartata di bianco e a prima vista mi scende la catena. Un mucchio di moto tipo harley fuori da un nuovo negozio lì in faccia, non aiuta. Scendo dal bus davanti alla chiesa di Dangio dove c’è un San Cristoforo gigante, opera di Attilio Balmelli ed Emilio Ferrazzini del 1953. M’incammino e scorgo presto la ciminiera. Fragoroso scorre il Soja che supero sopra il ponte. E così, a metà pomeriggio ai primi di giugno, mi trovo per la prima volta davanti all’ex fabbrica di cioccolato Cima-Norma (801 m). L’intervento artistico in situ di
Daniel González intitolato Paper Building incarta tutta la facciata del corpo principale un po’ come gli immobili imballati da Christo. A parte le finestre, dove la carta è stata spaccata dall’interno, al suono di un’ambulanza, il giorno dell’inaugurazione. Ma m’incanta di più il frontone triangolare lasciato libero su in alto, sul cui timpano verde oliva campeggia, in minuscolo, il nome dell’ex gloriosa fabbrica. In cima spicca lo stemma blu con una torre in rilievo sorvolata da un’aquila scultorea che ghermisce un drappo con su scritto il motto latino dei fratelli Cima: adversa coronant. Sopra, una croce svizzera in pietra coronata da quattordici lunghi raggi. In basso, in due punti, la carta si è già scollata, forse per le forti piogge di questi giorni. Salgo la strada che porta all’entrata sul fianco sinistro, in un angolo un gruppo di margherite diploidi, laggiù sullo stabile color gelato alla crema, un tempo officina meccanica, si legge una bella scritta slavata color
cioccolato: cioccolato Cima-Norma. Benché gli orari di visita siano dal mercoledì al venerdì, dalle due alle sette, non c’è anima viva; solo un plico di pieghevoli sul tavolo. Dentro sono posteggiate due macchine, degli aquattro spiegazzati indicano la direzione per la mostra di Anna Galtarossa: Kamchatka ’16. Kamchatka è «una penisola situata all’estremo oriente della Siberia a forte attività vulcanica; luogo dove cresce una vegetazione straordinaria, abitata da animali improbabili» si legge sul flyer a cura di Noah Stolz. Degni di nota, intanto, i quadratini romboidali bianchi e neri agli angoli delle vecchie piastrelle alle pareti. E meritorio è il corrimano originario di legno chiaro che sale le scale. La porta per Kamchatka ’16 è chiusa. Mi accontento di guardare fuori dagli strappi di carta, sul versante opposto, le casette di Largario tra prati e boschi. La missione ora è un’overdose di cioccolato finché non appaia danzando, una truppa di Umpa Lumpa.
giornali italiani. Qui, infatti, la sedicente noia svizzera serve da pretesto per coprire la superficialità di osservatori, magari illustri, ma distratti e sfottenti nei confronti di una nuova realtà, umana e culturale, tutta da scoprire. Si evita lo sforzo ricorrendo ai luoghi comuni, del tipo mediterranei allegri e nordici imbronciati. E, così, su «Panorama», tempo fa, Carlo Rossella descriveva una Zurigo dove la gente è immersa nel torpore e nella monotonia, contrapponendola a una Roma, dove regnano fantasia e vitalità. A sua volta, da una sponda ideologicamente diversa, l’architetto e urbanista Stefano Boeri, sul «Sole 24 ore», confessava che non avrebbe potuto vivere nelle città svizzere, premiate nelle graduatorie mondiali del benessere, e neppure a Monaco e Kopenhagen, «centri piatti e non solo in senso geografico». Monaco piatta, e le Alpi bavaresi? Svarioni a parte, quando si parla di luoghi comuni e pregiudizi, una precisazione è d’obbligo; come cittadini elvetici ne siamo vittime, e in pari
tempo, fruitori. Ci urta sentirci definire non soltanto noiosi ma anche chiusi, abitudinari, calcolatori, ultraconservatori, isolazionisti, secondo un abusato cliché. Ma, nei confronti degli altri, stranieri più o meno lontani, ricorriamo ad analoghi stereotipi. Sono, per dirla con lo psicologo Christian Fichter, «le eminenze grigie del nostro pensiero», che esonerano dalla fatica mentale di elaborare una propria opinione. Ciò che contribuirebbe a dimostrare che, sul piano individuale, noiosi non siamo. Mentre, va riconosciuto che, sul piano collettivo, ci si dà da fare per creare un ambiente vivace e sollecitante, almeno dal profilo quantitativo: in Ticino, 10mila eventi in un anno, soltanto nel settore culturale. Una cifra da primato. Che poi si riesca, effettivamente, a eliminare la noia è un altro discorso. Fa stato, in proposito, la battuta di Samuel Johnson, autore del primo dizionario inglese, nel 1755: «Chi si annoia a Londra, si annoia della vita». Come dire, si è, ognuno, responsabile della propria noia.
Mode e modi di Luciana Caglio La noia svizzera: proverbiale e invidiabile Dobbiamo farcene una ragione: nell’immaginario collettivo mondiale il nostro paese si abbina alla noia. È uno stereotipo sempre attuale, che continua a riaffacciarsi nelle cronache, attraverso episodi persino grotteschi. Come, recentemente, nel caso in cui era protagonista Edi Rama, presidente della Repubblica albanese: paese al quale ci legano nuovi rapporti, di tipo umano e soprattutto sportivo. È numerosa la collettività di emigranti d’origine albanese, e in particolare kossovara, ormai bene assimilati nella realtà elvetica, impegnati nell’ambito della sanità, e, non da ultimo, nello sport. Basti pensare alla loro presenza nella nostra nazionale di calcio. Proprio la partita Svizzera-Albania, agli Europei, è diventata un’occasione per incontrare Rama, premier che, nella stampa internazionale, si è conquistato la fama di «eccentrico», per non dire «pazzoide». Gli inviati del «Tages Anzeiger», Bruno Ziauddin e Mikael Krogerus, hanno preferito il termine neutrale di «insolito». Con ciò, l’intervista doveva
rivelare una figura di politico anomalo: diviso fra ambizioni atletiche, già campione di basket, e artistiche, con opere esposte in un’infinità di mostre, e poco incline a rispettare le regole del bon ton diplomatico. Ecco che, con interlocutori svizzeri a proposito della Svizzera, senza troppi riguardi, dichiara: «È un paese noioso, una noia
Edi Rama. (Wikipedia)
mortale. Lo visitai, quando ero sindaco di Tirana, e mi resi conto che, qui, non avrei mai voluto essere sindaco. Perché, qui, per un sindaco non c’è nulla da fare». Al che l’intervistatore osa replicare: «Però, la gente vive volentieri nei luoghi noiosi, che offrono sicurezza, fiducia e lavoro». L’osservazione sembra provocare un colpo di scena. Il premier annuisce: «Vuol dire che anche noi c’impegneremo per rendere noiosa anche l’Albania». Un ripensamento o una battuta ironica? Vallo a capire. Tanto più che sulla noia, prerogativa elvetica, Rama continua a insistere, parlando di turismo: «Se i viziati turisti svizzeri cercano la stessa noia, che godono in patria, è meglio che rimangano a casa loro». Da parte di un simile personaggio, più pittoresco che attendibile, qual è il presidente di un Paese che arranca, queste esternazioni non sorprendono neppure, anzi possono intenerire. Ben altre reazioni, di stupore e risentimento, meritano invece certi giudizi che capita, troppo spesso, di leggere sui
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Ambiente e Benessere Vecchio GPS? Torna in auge la cartina, preziosa compagna di molti viaggi
L’albero degli Dei L’ailanto, noto anche per essere un albero non proprio profumato, da noi crea alcuni problemi
Shrimp chips caserecce Impariamo come si preparano le nuvolette di drago, un antipasto a base di polpa di gamberetto adatto a ogni occasione
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Per il bene del bambino Cause, diagnosi e studio della Sindrome da deficit di attenzione
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Switzerland Tourism
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Agricoltura e turismo: assieme per nuovi obiettivi Progetti Il nuovo Centro di competenza agroalimentare: un’opportunità per i prodotti del territorio Elia Stampanoni È formalmente iniziata, lo scorso 28 aprile, con la costituzione della relativa Associazione, l’avventura del Centro di competenze agroalimentari Ticino (CCAT). Questo primo passo dà il via a un importante progetto, che si prefigge di promuovere e coordinare iniziative nel settore agroalimentare su tutto il territorio ticinese. Con la nascita dell’Associazione CCAT viene posto un tassello fondamentale per la continuazione di quanto fatto nella fase pilota (2012-2013) dalla piattaforma promossa da Gastro Ticino con la collaborazione dell’Unione contadini ticinesi e il sostegno finanziario dell’Ufficio per lo sviluppo economico. In questo primo stadio, protrattosi anche nel 2014 per volontà dei promotori, era stata posta particolare attenzione sul rafforzamento del legame tra produttori locali e ristorazione. Il piatto forte del programma è stata, infatti, l’iniziativa «Ticino a Tavola», grazie alla quale la gastronomia ha potuto integrare maggiormente i prodotti e le filiere regionali. Si è anche cercato di
rafforzare il livello di conoscenza del settore agroalimentare ticinese, sia per quanto riguarda l’assortimento sia per la sua qualità. «Ticino a Tavola» non è di fatto una rassegna, ma piuttosto un’iniziativa che vuole valorizzare in modo durevole i prodotti agroalimentari ticinesi e i ristoranti che li utilizzano. L’idea di base prevede che gli esercenti abbiano nella loro carta, ogni giorno dell’anno, almeno un piatto o un menu preparato principalmente con ingredienti ticinesi. I ristoranti o i grotti partecipanti sono riconoscibili dall’utilizzo del logo. Un marchio che testimonia quindi la presenza di pietanze della tradizione oppure proposte innovative dove gli ingredienti principali sono locali. Oltre all’utilizzo delle materie prime ticinesi, vengono considerati anche cibi o bevande lavorati in Ticino da ditte regionali, caratterizzati da un particolare procedimento di lavorazione e trasformazione. «Con il progetto “Ticino a Tavola” è già stato fatto molto – spiega Stefano Rizzi, direttore della Divisione economia – ma ora si vuole fare un salto di qualità. Il nuovo Centro di competen-
ze agroalimentari Ticino costituisce un anello fondamentale nella strategia agricola cantonale, grazie ai benefici che potrà portare proprio all’agricoltura locale e alla gastronomia, ma anche al turismo, settore pienamente coinvolto in quest’iniziativa. Il Centro di competenza – prosegue Rizzi – rappresenta, infatti, un’opportunità per dare dinamismo a questo settore e fungere da catalizzatore nel processo di valorizzazione dei prodotti locali». L’obiettivo dell’Associazione è di coordinare tutti gli attori coinvolti nella programmazione e nell’attuazione delle varie attività. Il Comitato, presentato al momento della costituzione dell’Associazione, sarà composto dai sei soci fondatori, in rappresentanza di diversi ambiti: l’Unione contadini ticinesi (per la produzione primaria) con Sem Genini quale presidente; la Sezione dell’agricoltura per il Cantone, con Loris Ferrari vice-presidente; la LATI (trasformazione e logistica) con Roberto Broglia; i Distributori ticinesi con il presidente della DISTI Enzo Lucibello; e la Federazione esercenti albergatori Ticino (ristorazione e settore alberghiero) con Alessandro Pesce di
GastroTicino. Per il turismo, l’Organizzazione turistica regionale del Mendrisiotto e Basso Ceresio rappresenterà l’intero settore, con la presenza di Nadia Fontana-Lupi in comitato. A questi attori si auspica potranno aggregarsi anche altri potenziali interessati che condividano gli obiettivi di fondo dell’Associazione. A livello operativo, invece, si prevede un pubblico concorso per il posto di coordinatore, che dovrà garantire le attività correnti e il funzionamento del CCAT. Il Centro di competenza, oltre a proseguire con l’attività attuale, intende ampliare il suo campo d’interesse, coinvolgendo i vari protagonisti che lavorano indirettamente o direttamente con il settore agroalimentare ticinese e dal quale traggono beneficio. «Lo scopo è di disporre a livello cantonale di un referente che possa assumere la direzione, il coordinamento e la promozione dei progetti in ambito agroalimentare che nascono sull’intero territorio, a favore di tutti i partner coinvolti», si legge sul messaggio governativo pubblicato lo scorso fine aprile. Per l’allestimento del progetto, sostenuto nella sua fase iniziale at-
traverso i fondi di politica economica regionale (1.3 milioni di franchi per il periodo 2016-2019, di cui 800mila franchi cantonali e 500mila franchi federali, approvati a fine 2015 dal Gran Consiglio), il gruppo di lavoro si è appoggiato anche sulle valutazioni dello Studio Flury&Giuliani, ditta zurighese specializzata in strategie di sviluppo sostenibile in ambito economico, rurale e regionale che ha definito gli obiettivi su cui concentrarsi. La nuova associazione dovrà innanzitutto rendere accessibile e fruibile a tutti la vasta gamma dei prodotti e servizi agroalimentari tipici, per esempio promuovendo i marchi già esistenti, in Ticino ma soprattutto al di fuori dei confini cantonali. Il settore turistico, alla pari dell’agricoltura, sarà particolarmente coinvolto nel progetto, che vorrà arricchire e potenziare la collaborazione tra i settori. Il Centro di competenza dovrà pure sviluppare e promuovere la Rete agroalimentare del Territorio, ossia una serie di luoghi dove i produttori e i consumatori possano incontrarsi per degustare, far conoscere e vendere i prodotti ticinesi.
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Ambiente e Benessere
Il ritorno della cartina Viaggiatori d’Occidente La carta geografica è ancora un’ottima compagna di itinerario
Il viaggio lento Bussole Inviti a
letture per viaggiare
Claudio Visentin Il navigatore ha resistito solo qualche anno sul cruscotto delle nostre auto e già sta per essere scalzato dagli smartphone. Questi ultimi infatti sono dotati di un modulo GPS che ne rileva la posizione in ogni istante e consente di avere gratis indicazioni stradali ragionevolmente precise e affidabili. Inoltre, dal giugno 2017 sarà eliminato il roaming per chi viaggia nei ventotto Paesi dell’Unione Europea (nonché in Svizzera, Norvegia, Islanda): la navigazione in rete avrà così lo stesso costo anche quando saremo in viaggio all’estero e questo potrebbe condurre alla definitiva scomparsa dei navigatori tradizionali. Sarebbero così vendicate le buone, vecchie cartine, utilizzate dai nostri genitori e poi sostituite appunto dai navigatori. In realtà il processo non è così lineare. Per cominciare diversi editori credono ancora nelle carte geografiche. Un buon esempio è la torinese EDT, che festeggia i suoi quarant’anni di attività anche con un’ampia offerta di cartine, prodotte in collaborazione con l’editore tedesco Marco Polo. E, quel che più conta, registra vendite in crescita per questi prodotti. Un recente sondaggio delle rivista «Motociclismo» ha rivelato che la cartina è preferita da poco più della metà dei loro lettori (contro un 40 per cento fedele al navigatore). E un altro sondaggio proposto da un portale ha sostanzialmente confermato questi dati: il 23 per cento dei viaggiatori consultati utilizza le cartine, magari integrandole con i cartelli stradali e con qualche consiglio chiesto a persone del luogo. Curiosamente, la cartina è spesso preferita dalle donne, mentre i loro compagni di viaggio maschi tendono ad affidarsi alla tecnologia con maggior fiducia. Su un piano più generale questa vicenda ci insegna che l’innovazione non è una semplice sostituzione meccanica di prodotti diversi: spesso il vecchio e il nuovo convivono a lungo affiancati. È successo in diversi momenti storici. Per esempio quando nella seconda metà del Quattrocento fu introdotta l’arte della stampa, ci vollero comunque parecchi decenni per veder scomparire i vecchi manoscritti, pazientemente copiati negli scriptorium dei monasteri. Questo avviene per abitudine o per pigrizia mentale, ma anche perché non sempre le nuove invenzioni hanno le stesse caratteristiche degli strumenti più antichi. Se la funzione svolta rimane più o meno la stessa, non tutti i dettagli però corrispondono.
«Come mai ci piace così tanto stabilire una meta e guadagnarla a passo d’uomo? Perché è bello stare nella natura e condividere la strada fra amici, certo. Ma non solo. Amiamo i viaggi a piedi perché ci permettono di rompere l’assedio della millimetrata vita di città, ritrovare il tempo perduto e assaporare sensazioni genuine. Perché solo camminando riusciamo a tornare in contatto coi ragazzini curiosi che siamo stati, impazienti di sapere che aspetto avesse il mondo dietro le colline che ci sbarravano lo sguardo...»
La cartina premette di tracciare fisicamente il proprio percorso. (Vincenzo Cammarata)
Questa riflessione spiega anche la sopravvivenza della cartina. Certo il GPS permette di stabilire il percorso verso la nostra meta; da questo punto di vista la carta geografica è senza dubbio meno efficiente, ma ha il vantaggio di mostrarci in ogni momento la nostra collocazione in uno spazio più vasto, mentre il GPS si limita sempre a collegare singoli punti. La cartina risulta preziosa, e forse insostituibile, soprattutto quando vogliamo pianificare un viaggio. Già da bambini cominciamo a sognare il viaggio seguendo col dito il disegno della grande carta geografica appesa sui muri delle scuole elementari o sfogliando le pagine degli atlanti. Come ha scritto Dino Buzzati, «la carta geografica … presuppone un’idea narrativa, è concepita in funzione d’un itinerario, è un’Odissea». Da sempre utilizzo con entusiasmo le nuove tecnologie, eppure immagino e costruisco i miei viaggi (per esempio il prossimo nelle Shetland) ancora sulla carta, distesa sul tavolo, con le sue dimensioni tanto maggiori di qualunque
schermo. E poi la carta non si scarica, non perde la connessione e soprattutto rende «fisicamente» tracciabile il proprio cammino. Ricordo un incontro siciliano con il grande scrittore di viaggi Paolo Rumiz. In quell’occasione mi mostrò una delle cartine sulle quali sono nati tutti i suoi viaggi. L’itinerario era chiaramente tracciato. Intorno a ogni luogo di sosta si accumulavano annotazioni scritte con un tratto sottile, sfruttando al massimo lo spazio: un elenco dettagliato di luoghi da visitare e di persone da incontrare, con indirizzi e numeri di telefono. Quando lo spazio non era sufficiente, Rumiz utilizzava la distesa blu dei mari, collegando poi con lunghe frecce ciascun appunto al luogo di riferimento. Insomma non è solo un’immagine letteraria convenzionale quando nel suo È oriente (Feltrinelli) leggiamo: «Metti una sera d’inverno a Berlino. Una locanda, una birra e una fantastica meta, Istanbul. Sul tavolo, una carta geografica con il percorso, uno zigzag fra isole chiamate Slovacchia, Ucraina, Carpazi, Moldavia, Bulgaria…».
Un altro elemento di superiorità della carta geografica: resta fisicamente presente nella vita del viaggiatore anche quando il viaggio è compiuto, ancora più bella e gloriosa quando le peripezie del cammino ne hanno consumato i bordi o provocato qualche strappo nelle giunzioni. A volte la cartina diventa quasi un oggetto magico per risvegliare i ricordi. Quando a distanza di molti decenni Patrick Leigh Fermor volle raccontare il suo meraviglioso viaggio a piedi del 1933-34 attraverso tutta l’Europa, dall’Olanda a Istanbul, non disponeva più dei suoi appunti, irrimediabilmente perduti. L’unico soccorso della memoria era una lacera cartina con l’itinerario tracciato a matita, attraversato da una barra obliqua per ogni pernottamento. Ma quell’umile oggetto bastò a far riemergere dall’oblio un filo sottile che poi, tirato e dipanato, restituì larga parte del tessuto del viaggio. Ecco perché il vostro viaggio della prossima estate potrebbe cominciare e finire su una cartina…
Jack Frusciante è uscito dal gruppo e si è messo a camminare per i sentieri d’Italia. O meglio il suo creatore, lo scrittore Enrico Brizzi, un tempo conosciuto per le sue storie di inquiete adolescenze urbane, crescendo si è appassionato ai viaggi a piedi. Negli anni ha percorso la Via Francigena da Canterbury a Roma, ha traversato l’Italia dal Tirreno all’Adriatico e l’ha poi percorsa in tutta la sua lunghezza dall’Alto Adige alla Sicilia. Brizzi si definisce uno psicoatleta e davvero queste nuove, agili guide «Weekend in cammino» combinano la precisione delle indicazioni pratiche con una scrittura curata e coinvolgente, attenta ai segni del paesaggio ma anche alle memorie storiche e letterarie. Si comincia dall’Altipiano di Asiago, con i suoi echi della Grande Guerra e del grande alpino Mario Rigoni Stern, per poi trasferirsi nel Levante ligure e in Toscana. Il 2016 è in Italia l’anno dei cammini e questi brevi itinerari di pochi giorni, senza particolari difficoltà, sono l’ideale per chi voglia misurarsi con un viaggio lento e profondo. Bibliografia
Enrico Brizzi, «Il giro dell’Altipiano di Asiago. Tre giorni da Valstagna a Passo Vezzena per Asiago e Roana», Giunti 2016, pp.128, € 15,00; «Il giro del Levante ligure. Quattro giorni dalle alture del Tigullio alle Cinque Terre», Giunti 2016, pp.160, € 15,00; «La Classica di Toscana. Cinque giorni dalla Versilia a Firenze per Lucca e San Miniato», Giunti 2016, pp.160, € 15,00.
Probabilità al cubo Giochi di parole Le possibilità di vittoria di Serse contro i Greci svelate, secondo l’oracolo di Delfi,
da un dado d’oro e di piombo
Dopo che fu sconfitto dai Greci, Serse andò dall’oracolo di Delfi portando in dono un cubo d’oro. Egli chiese quali possibilità avrebbe avuto se avesse affrontato il nemico ancora una volta.
A beneficio di chi non conoscesse (o non ricordasse) i concetti basilari del Calcolo delle probabilità, richiamo le seguenti sintetiche nozioni. Secondo la definizione più antica (detta classica), la probabilità di un determinato evento è uguale alla quantità dei casi favorevoli a quell’evento, diviso la quantità di tutti i casi possibili. Due (o più) eventi vengono detti
indipendenti, quando l’avverarsi di uno qualsiasi di essi non influenza l’avverarsi dell’altro (o degli altri). Se un determinato evento risulta dal concorso (simultaneo o successivo) di più eventi indipendenti, la sua probabilità (detta composta) è uguale al prodotto delle probabilità dei singoli eventi indipendenti. Due o più eventi vengono detti incompatibili, quando l’avverarsi di uno qualsiasi di essi esclude l’avverarsi dell’altro (o degli altri). Se un evento è costituito dall’unione di vari eventi incompatibili, la sua probabilità (detta totale) è uguale alla somma delle probabilità di tutti gli eventi di cui è composto. In genere, il ragionamento che viene più spontaneo effettuare, per affron-
tare la soluzione del problema in questione, è il seguente. Dei 27 cubetti ottenibili tagliando il cubo grande: 8 hanno tre facce dorate, 12 ne hanno due e 6 ne hanno una sola (un unico cubetto, quello interno, non presenta facce dorate). Di conseguenza: ■ la probabilità di estrarre un cubetto con tre facce dorate è uguale a: 8/27; se ciò accade, la probabilità di far uscire una faccia dorata, lanciando uno di questi cubetti, è data da: (8/27)(3/6) = (8/27)(1/2) = 4/27; ■ la probabilità di estrarre un cubetto con due facce dorate è uguale a:12/27; se ciò accade, la probabilità di far uscire una faccia dorata, lanciando uno di questi cubetti, è data da: (12/27)(2/6)= (12/27)(1/3) = 4/27;
■ la probabilità di estrarre un cubetto con una sola faccia dorata è 6/27; se ciò accade, la probabilità di far uscire una faccia dorata, lanciando uno di questi cubetti, è data da: (6/27)(1/6)=1/27; In definitiva, la probabilità totale, relativa all’estrazione di una faccia dorata, è data da: 4/27+4/27+1/27 = 9/27 = 1/3. Esiste, però, un’altra soluzione corretta, estremamente più sintetica di questa. Cercate di trovarla.
Soluzione
Come è noto, un’impostazione creativa della risoluzione di un problema consente non solo di ricavare la soluzione giusta, ma anche di ridurre al minimo il numero di operazioni da svolgere (o da affidare ad un computer). In questo modo, possono comprimersi sensibilmente sia i tempi di calcolo sia le probabilità di incorrere in un qualsiasi errore. A tale riguardo, è piuttosto significativo il seguente problema di natura probabilistica.
L’oracolo, sapendo che il cubo era di piombo rivestito d’oro, gli rispose: «Taglia il cubo in 27 piccole parti uguali e mettile in una borsa. Poi estrai un cubo a caso e fallo rotolare come un dado. Se si ferma con una faccia dorata verso l’alto, la tua prossima campagna avrà successo». Quante probabilità di vittoria aveva Serse?
Il taglio del cubo grande genera 27 cubetti; quindi, si hanno: 6x27 = 162 facce in tutto. Siccome, di queste, solo: 9x6 = 54 sono dorate, la probabilità di estrarre un cubetto con almeno una faccia dorata è uguale a: 54/162 = 1/3.
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Ambiente e Benessere
Il grande Jackpot dei formaggi
La riscossa del Merlot Editoria Un recente volume racconta
la tradizione vinicola ticinese
Mezzo secolo fa i contadini ticinesi producevano un vino aspro e semplice, forse con lo stesso procedimento usato nel Medioevo, e la vigna non si differenziava da qualsiasi altra coltivazione agricola. Ma mentre la civiltà contadina tramontava e l’industrializzazione e la cementificazione del territorio le sottraevano spazi vitali, il Ticino vitivinicolo, sorprendentemente, si faceva finalmente adulto. Oggi ottimi vini competono a tutti gli effetti con le migliori produzioni nazionali e internazionali delle altre regioni , e la privilegiata attenzione che in ogni angolo del territorio viene dedicata ai vigneti contribuisce a salvare non solo la storia, ma anche l’economia del Ticino, incontrando inoltre la curiosità l’interesse del turismo d’oltralpe. Bianco Rosso & Blu, Salvioni Edizioni, recentemente uscito, non è un libro qualsiasi: promosso dalla città di Mendrisio in collaborazione con Ticinowine, curato da Gaia Regazzoni Jäggli con progetto grafico di Alberto Bianda e fotografie di Oliviero Venturi, è scritto in 4 lingue, ha un grande formato e una notevole parte fotografica. I testi di Bruno Bergomi ripercorrono le origini della viticoltura nella Svizzera italiana e ci aggiornano su quella odierna, in un avvincente percorso che non tralascia nessun aspetto, spiegando l’evoluzione e la crescita della vinificazione, i suoi cicli, la storia e le trasformazioni della grande cultura della vite e del vino. Il progetto della pubblicazione era nato per la partecipazione a Expo 2015, ma dopo il «no» popolare si è comunque aperta un’altra strada. Nel 2006 è stato celebrato il secolo di vita del Merlot e i capitoli del libro raccontano la storia della riscossa di questo vino eccellente, che in Ticino costituisce l’85 per cento della produzione totale. Il Merlot ha impiegato più di 50 anni per avere un’affermazione, raggiunta grazie a molte persone che l’hanno fortemente voluta e favorita. Il padre storico di questo vino è stato l’ingegnere agronomo emiliano Alderigo Fantuzzi che, con altri personaggi, umanisti e innovatori oltre che tecnici – tra cui l’ingegner Giuseppe Paleari e il medico e consigliere di Stato Giovanni Rossi – agli inizi del 900 comprese l’importanza della selezione per migliorare l’agricoltura e la attuò. In molti hanno poi contribuito alla costruzione del settore vitivinicolo cantonale: lo Stato, le associazioni di categoria, le cantine sociali, la Federviti, e persone note come Cesare Valsangiacomo, patriarca della viticoltura e decano degli enologi svizzeri, i fratelli Matasci di Tenero o Armando Daldini e altri ancora che sarebbe qui troppo lungo elencare. L’Istituto agrario cantonale di Mezzana, che ha impartito insegnamenti
a generazioni di agricoltori, è oggi un centro professionale d’avanguardia che assicura un’ottima formazione nel settore del vino a circa 350 allievi. Il centro ha forti legami con la scuola di viticoltura ed enologia di Changins, nel canton Vaud, polo di eccellenza che ha formato più di 2000 tecnici, 111 dei quali ticinesi. 52’000 ettolitri sono oggi più o meno la produzione di un territorio di 1090-1300 ettari, dove 3265 viticoltori lavorano soprattutto la domenica. Anche soltanto curando la vite del giardino di casa propria, non pochi hanno saputo infatti trasformarsi in produttori, affiancandosi a chi produceva vino da sempre. Tutti i viticoltori sono molto legati ai loro terreni, anche se a volte si potrebbe tremare pensando al loro futuro, poiché molti vigneti ticinesi si trovano in zona edificabile... Il distretto che da solo racchiude un terzo di tutta la superficie viticola è il Mendrisiotto, dove accanto agli imprenditori si trovano una quarantina di aziende familiari, importanti tenute, nonché le antiche Cantine del Monte Generoso, un vero e proprio unicum architettonico. La viticoltura degli altri distretti del Ticino è legata alla grande varietà del territorio cantonale: un grande patrimonio naturalistico che si estende tra pianure, colline e zone montane, dalle regioni di Lugano, Bellinzona e Locarno fino alla viticoltura quasi alpina delle tre grandi Valli, dove a volte i vigneti sfidano la legge di gravità. Per documentarsi, Oliviero Venturi ha percorso per un anno tutto il Ticino, ne ha scoperto e fotografato gli aspetti più nascosti in suggestive immagini paesaggistiche in grandangolo. Le fotografie ritraggono per esempio i vigneti della Vallemaggia, che contendono lo spazio alle rocce, o quelli che sopravvivono contigui al traffico autostradale, fino agli interni di cantine con botti enormi, le barrique di quercia, oggi fabbricate anche con legno locale. La seconda parte di Bianco Rosso & Blu è un omaggio alle donne e agli uomini della vigna: sono stati infatti realizzati 20 ritratti in grande formato di questi personaggi e soprattutto dell’ultima generazione di giovani viticoltori. Tutti sono colti nel loro ambiente familiare di lavoro, all’aperto, o nelle cantine a fianco delle loro strumentazioni; sono persone singole, o più spesso ritratte in coppia o in gruppo. Oliviero Venturi ha utilizzato per loro un apposito fondale che li illumina, che rende il senso di una forte penetrazione psicologica e attraverso il quale ha differenziato e colto le caratteristiche uniche delle diverse personalità. Ciò che colpisce è però quello che le accomuna: una tranquilla serenità, un sorriso che sembra trasmettere la saggezza e l’orgoglio di chi ha scelto di restare fedele alla terra.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 13 giugno 2016 ¶ N. 24
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Ambiente e Benessere
Ambiente e Benessere
L’ailanto, un albero prepotente Biodiversità Per tentare di arginare le sue
invasioni sono stati stanziati 240mila franchi
Alessandro Focarile L’ailanto, l’albero degli Dei (Götterbaum, o albero del Paradiso). In lingua malese, l’albero che svetta verso il cielo, grazie alla sua rapidissima crescita (anche tre metri al giorno!), in virtù della quale può raggiungere in breve tempo 25-30 metri di altezza. Ma è anche «l’albero puzzolente» (bois puant per i francesi) a causa dello sgradevole e fetido odore che emana dalle foglie, ricche di peli e di ghiandole, e dal legno.
Le prime notizie documentate parlano di coltivazioni di ailanto nell’Orto Reale di Monza nel 1825 Tutto ebbe inizio in Italia nel 1760, quando nell’Orto botanico dell’Università di Padova vennero messe a dimora, con le cure del caso, le prime piante di ailanto. Da allora, l’albero rimase per un certo tempo confinato nei giardini e nei parchi privati; quando
nobili e benestanti si facevano un vanto di adornare le loro proprietà con alberi di esotica provenienza. Fu il trionfo di magnolie, cedri, tuie, palme e ippocastani. Qualche ailanto, però, cominciava già ad affermarsi anche al di fuori delle proprietà, occupando terreni ingrati, scarpate, terrapieni, e le massicciate delle prime linee ferroviarie. Le prime notizie documentate ci parlano di coltivazioni di ailanto nell’Orto Reale di Monza nel 1825. Fu naturalizzato almeno dal 1884 sulle mura (bastioni) di Milano, e nel Bresciano nel 1897. All’epoca, c’era una fiorente bachicoltura (l’allevamento del baco da seta, Bombyx mori), basata sulla coltivazione del gelso, la pianta nutrice esclusiva (monofagia) per i bruchi della farfalla originaria della Cina, e fonte di una fiorente attività economica per diversi Paesi dell’Europa meridionale, cantone Ticino compreso. Le periodiche e virulente patologie (mal calcino, giallume, flaccidezza) che affliggevano gli allevamenti del baco da seta inducevano gli imprenditori, che si occupavano dell’importante industria serica, a cercare soluzioni alterna-
Un giovane ailanto nella selva castanile di Caslasc (Biasca). ( Alessandro Focarile)
tive. Queste vennero trovate tentando di allevare un’altra farfalla, il bombice orientale (Philosamia cynthia) il cui bruco si ciba esclusivamente (un altro caso di monofagia) dell’ailanto. Questa farfalla, originaria anch’essa delle regioni dell’Asia orientale (Cina, Giappone, India, Malesia) poteva sembrare un ottimo succedaneo del baco da seta (Bombyx mori), che era fonte di tante preoccupazioni per le sue malattie, che compromettevano pesantemente la bachicoltura tradizionale. L’ailanto era ormai di casa, ma si trattava di procurarsi le uova della Philosamia. L’operazione ebbe tutti i connotati di un’avventura ad alto livello: furono coinvolti il Governo piemontese dell’epoca, che interveniva presso le autorità inglesi, che governavano allora l’India, per ottenere il prezioso «seme-bachi» dal Bengala. Grazie alla collaborazione di un naturalista maltese, Antonio Schembri (Malta era colonia inglese), alla fine le sospirate uova della Philosamia giungevano in Italia «via Malta». Efficienza dei servizi postali dell’epoca (1854): crisalidi vive e uova fertili della Cinzia giungevano a Pisa da Malta in cinque giorni! E da Pisa venivano distribuite a Firenze, a Bologna, e a Reggio Emilia a nobili terrieri e studiosi, i quali iniziavano i primi allevamenti sperimentali in vista di una auspicata e favorevole utilizzazione. Tra questi personaggi vi era anche il Conte Ginori di Firenze, allora proprietario dell’isoletta di Montecristo. Il quale vi impiantava i primi ailanti, ignaro del disastro ecologico futuro, che sarebbe stato creato immettendo un albero alieno in un contesto naturale vecchio di millenni. A Montecristo, l’alianto sta creando tutti i presupposti ecologici per la scomparsa dell’originaria macchia mediterranea, ricca di cisti, di eriche, di ginepri e rosmarini, a seguito della sua prorompente aggressività biologica a livello di radici. In ef-
fetti, l’ailanto sta creando seri problemi gestionali di difficile soluzione: dal cantone Ticino ad Alessandria (in Piemonte), dove le mura della storica Cittadella sono insidiate dagli ailanti, che si infiltrano nei tetti di questa fortezza unica in Europa (una delle più grandiose del diciottesimo secolo) compromettendone le strutture. Crepe, fessure e infiltrazioni delle radici hanno ormai intaccato l’intera struttura. L’ailanto si sta rivelando a livello europeo una pianta indomabile, che resiste agli attacchi di motoseghe e accette: ogni taglio radicale genera infiniti nuovi virgulti. È disdegnato da tutti gli insetti (eccettuata la Cinzia che, attraverso i millenni, si è assuefatta alle foglie nauseabonde), gli uccelli lo evitano per la loro nidificazione e persino l’endemica capra di Montecristo si guarda bene dal brucarne i getti e le foglie. Pianta estremamente rustica e adattabile alle più differenti situazioni pedo-climatiche, colonizza molto facilmente le zone marginali e incolte, dove forma ben presto vere e proprie macchie e boscaglie, data la sua caratteristica di emettere molti polloni. Nonostante essa sia tipica di areali caldi, manifesta un’ottima tolleranza al gelo. Nel cantone Ticino giunge fin oltre Faido in Leventina. È una pianta con elevata aggressività e capacità colonizzatrice. Essa crea un pesante impatto sulla biodiversità, il paesaggio e sui manufatti antropici: aree archeologiche, mura, marciapiedi. La sua presenza sta costituendo una delle più micidiali invasioni vegetali nell’Occidente europeo. Difatti, nelle regioni con clima temperato, è forse l’aliena arborea più competitiva e aggressiva, in grado di alterare il suolo, con i suoi alcaloidi allopatrici repulsivi per le altre specie vegetali, impedendo alle legnose autoctone di occupare i loro naturali e legittimi spazi. Il danno biologico ed ecologico procurato è di
Il bombice orientale: Philosamia cynthia. (Alessandro Focarile)
gran lunga superiore a quello della Robinia, altra aliena ormai acclimatata da noi (e persino considerata quale albero «utile»). Questo danno comporta una pesante alterazione del chimismo del suolo, e dei rapporti di competizione nelle comunità legnose. Infine, una banalizzazione del territorio. In occasione di un’indagine promossa dal Servizio forestale cantonale nella selva castanile di Caslasc, sopra l’abitato di Biasca, è stata controllata, a partire dal 1996, la prorompente espansione dell’ailanto. Attualmente, e dopo vent’anni, l’albero ha egemonicamente soppiantato i castagni in un’area di diversi ettari a monte del ponte sulla cascata di Santa Petronilla, come si può
agevolmente constatare dalla stazione FFS. Il colore verde chiaro della pianta infestante fa spicco sul fogliame verde scuro dei superstiti castagni. Un’altra area, dove l’ailanto si sta vigorosamente imponendo, è ubicata all’imbocco della Valle di Blenio a monte di Loderio. Allarmi tardivi giungono anche dalla bassa Mesolcina, a Roveredo e Lostallo. Per lungo tempo ignorato (o sottovalutato) per il suo insediamento dai forestali, sta creando attualmente seri problemi gestionali anche sul Monte di Caslano, dove per la lotta contro l’aliena sono stati stanziati ben 240mila franchi per cercare di arginare la sua virulenza nel bosco autoctono di questa pregiata area, tale per i suoi aspetti paesaggistici
e quindi turistici. Ma è molto probabile che la lotta sarà lunga e difficile, anche a causa dell’assenza di precedenti documentazioni su eventuali interventi di contenimento. Bibliografia
Enrico Banfi & Gabriele Galasso, La flora esotica della Lombardia, Editore Regione Lombardia (Milano), 2010, 271 pp, senza indice alfabetico dei nomi delle piante considerate. Luigi Fenaroli, Gli alberi d’Italia, Martello Editore (Milano), 1967, 320 pp. Marco Albino Ferrari, Montecristo. Dentro i segreti della Natura selvaggia, Editori Laterza (Bari), 2015, 194 pp. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Per antipasto, nuvole di drago Allan Bay Le patatine fritte sono buonissime, si sa. Ma anche le patatine di gamberetti lo sono! Però sono difficili da trovare, spesso conviene farsele a casa. Parliamone. Le shrimp chip, note anche come krupuk, kerupuk o, più comunemente «nuvole di drago», sono dei cracker fritti a base di polpa di gamberetto tritata mescolata a un amido chiamato sago, ricavato da una palma della Nuova Guinea. Spesso vengono colorati con tonalità vivaci, rosa, verdi o blu, anche se normalmente qui da noi sono di un bel bianco latte. Prepararli è semplice. Una volta pronta la pastella basterà versarla a cucchiaiate in una casseruola colma di olio di soia o di arachidi bollente e in un attimo i cracker semi trasparenti si gonfieranno diventando bianchi e croccanti.
Un’ottima alternativa alle più classiche patatine fritte, le «nuvole di drago» possono essere servite come contorno o come stuzzichino Ecco la ricetta per 8-10 persone. Anzitutto tagliate a tocchettini 500 g di gamberi (oppure di gamberoni o di scampi) già sgusciati. Poi mettete a bollire 2,4 dl di acqua, scioglietevi 1 cucchiaino di sale e 1 cucchiaino di pepe bianco e, quando ha preso bollore, versatela in una ciotola dove avrete già messo 28 g di farina di tapioca. Mescolate velocemente, con un cucchiaio di legno, e quindi aggiungete al composto i gamberi spezzettati. Impastate con le mani, allungando il composto, qualora si presentasse difficoltoso da amalgamare, con qualche cucchiaio di acqua calda. Alla fine, deve risultare alquanto sodo. A questo punto, servendovi sem-
pre delle mani, formate con l’impasto dei cilindretti di 2,5 cm di diametro e lunghi 8-10 cm. L’ideale, per cuocerli, sarebbe la vaporiera. Ma in mancanza di essa potete agevolmente e altrettanto efficacemente ricorrere a una normale pentola piuttosto larga piena a metà di acqua. Sovrapponete a essa un vassoietto di bambù, o una griglia per pasticceria, e stendetevi sopra un panno da cucina. Su di esso adagiate i cilindretti, ben distanziati l’uno dall’altro perché non rischino di appiccicarsi in fase di cottura, e ricopriteli con un altro panno da cucina. Cuocete quindi a fiamma alta per 4550 minuti. A cottura ultimata, togliete il panno che ricopre i cilindretti di impasto e poneteli con delicatezza su un’altra griglia, sulla quale devono essere lasciati ad asciugare, in luogo fresco e ben areato, per 2 o anche 3 giorni, oppure a 40° per 24 ore nell’essiccatore elettrico. Una volta che risultino perfettamente asciutti, poneteli su un asse e, con un coltello affilatissimo, tagliateli a fettine molto sottili (non più spesse di una moneta da 1 franco). Stendete quindi le vostre shrimp chip nuovamente sui ripiani dell’essiccatore e lasciatele fino a quando non risulteranno secche e croccanti (60° per 1 giorno). Per cucinarle, calcolate 2 o 3 «nuvolette» a persona e friggetele in abbondante olio di soia: non appena si presentano ben gonfiate, sono pronte. Basta lasciarle qualche momento a scolare l’olio in eccesso su un foglio di carta assorbente e possono essere portate, ancora fumanti, in tavola. Le shrimp chip si servono prevalentemente come contorno e decorazione del pollo fritto e dell’anatra, ma possono anche essere gustate da sole, come stuzzichino o antipasto. Se lasciati all’aria per più giorni, i cracker di gamberetti tendono a diventare morbidi e a perdere la loro croccantezza. Dunque vi consiglio di custodirli in un contenitore a chiusura ermetica, dove si conserveranno quasi come appena fatti per una settimana.
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Gastronomia Le shrimp chips sono un classico dei ristoranti cinesi, ma si possono facilmente preparare anche a casa
CSF (come si fa)
L’altro giorno, nella lista delle vivande di un ristorante ambizioso vedo scritto: in agrodolce. Adoro il gusto agrodolce, ordino: nella preparazione avevano aggiunto un cucchiaio di aceto balsamico e uno di zucchero di canna. Bah, succede. È stato comunque lo spunto per dare la «mia» ricetta di salsa agrodolce, universale (o quasi) nel senso che si abbina con tutto,
anche col pane tostato. È una (ampia) rivisitazione delle salse di frutta di Mastro Martino, mitico cuoco, il più grande che l’Italia (anche se era ticinese…) abbia mai avuto, vissuto nella seconda metà del XV secolo. Scrisse uno dei più moderni ricettari dell’epoca, il Libro de arte coquinaria: da leggere e rileggere, vi si trovano infiniti spunti. Per circa 200 g di salsa. Prendete 150 g di frutta essiccata (albicocche, datteri, prugne e uvetta sono canoniche, aggiungi quello che vuoi). Ammollate albicocche e uvetta in acqua tiepida per 20 minuti poi scolate, strizzate e tritate a pezzi più o meno grandi secondo il vostro gusto; prugne e datteri basta spezzettarli. Tostate in un padellino 20 g di pinoli e spezzettateli. Versate 40 g di zucchero di canna in un pentolino e fatelo caramellare a fuoco
bassissimo mescolando con una piccola frusta. Aggiungete 2 dl di aceto: io amo quello di cocco, poco intrusivo, voi usate quello che volete, ma meglio se delicato, e aggiungete qualche fettina di zenzero fresco. Proseguite fino ad avere un composto quasi sciropposo, poi unite la frutta tritata e i pinoli spezzettati. Cuocete ancora per 5 minuti, sempre mescolando: alla fine l’aceto deve essere quasi del tutto evaporato. Regolate infine di sale e aromatizzate con un pizzicone di garam masala, cioè una miscela di spezie non piccanti, altrimenti con noce moscata grattugiata, cannella in polvere, chiodi di garofano pestati. A piacere, potete trasformare la salsa agrodolce in una sorta di mostarda aggiungendo alla fine poche gocce di estratto di senape.
Ballando coi gusti Oggi due pizze facili facili. Do per scontato che abbiate la pasta da pizza, sia comprata sia fatta da voi.
Pizza alla pancetta
Pizza alle alici
Ingredienti per 4 pizze: impasto per pizza 800 g · pancetta affumicata in fette sottili
Ingredienti per 4 pizze: impasto per pizza 800 g · alici fresche 500 g · polpa di po-
200 g · scamorza affumicata 200 g · 1 porro · 6 cucchiai di polpa di pomodoro · olio di oliva · sale e pepe.
modoro 300 g · 2 spicchi di aglio · origano · farina · olio di oliva · sale.
In una padella rosolate a fuoco vivo, senza condimento, le fettine di pancetta affumicata sino a quando saranno croccanti. Sgocciolatele e tenetele da parte. Tagliate a fette sottili la scamorza affumicata. Mondate il porro, privatelo della parte verde e tagliatelo a rondelle sottili. Dividete l’impasto per la pizza in quattro parti e allargate ogni panetto con le mani, in modo da ottenere dei dischi sottili. Trasferite i dischi sulla placca del forno unta di olio e distribuite sulla superficie la polpa di pomodoro. Salate e lasciate nuovamente lievitare al caldo per 20 minuti. Completate le pizze distribuendovi le fette di scamorza e quelle di pancetta affumicata. Salate leggermente, quindi cospargete il tutto con gli anelli di porro e condite con un filo di olio e pepe. Cuocete in forno a 220° per circa 30’.
Pulite con cura le alici, apritele, diliscatele, privatele della testa, sciacquatele e lasciatele asciugare su un canovaccio. Stendete la pasta sulla spianatoia infarinata e trasferitela in una teglia larga e bassa (o sulla placca del forno) unta di olio. Bucherellate la superficie, condite con la salsa di pomodoro, salate e lasciate riposare in caldo per 20’. Fatela cuocere in forno già caldo a 220° per 15’ circa. Sfornate e completate la pizza con le alici, l’aglio tagliato a fettine sottili e dell’origano. Condite con un filo di olio e mettete nuovamente in forno per altri 15’.
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Ambiente e Benessere Cucina di Stagione La ricetta della settimana
Orata con finocchio Piatto principale per 4 persone Ingredienti: 1 finocchio di ca. 300 g · 2 limoni · 1,2 dl d’olio d’oliva, ad es. aromatizzato al limone · sale, pepe · 4 orate di ca. 500 g l’una, già pulite. 1. Dimezzate il finocchio, eliminate il torsolo e mettete da parte i ciuffi verdi. Affettate il finocchio a listarelle sottili con l’affettaverdure. Spremete la metà dei limoni. Tagliate i limoni restanti a fettine sottili. Mescolate il finocchio con il succo di limone e la metà dell’olio. Condite con sale e pepe. 2. Scaldate il forno a 200 °C. Sciacquate le orate sotto l’acqua fredda e tamponatele con carta da cucina. Condite bene con sale e pepe. Farcite le cavità ventrali con il finocchio marinato e le fettine di limone. Irrorate le orate con l’olio restante e accomodatele su una teglia foderata con carta da forno. Cuocete al centro del forno per ca. 30 minuti. Servite con i ciuffi verdi.
Un esemplare gratuito si può richiedere a: telefono 0848 877 869* fax 062 724 35 71 www.saison.ch * tariffa normale
Suggerimento: a piacere servite con striscioline di bresaola. Preparazione: ca. 15 minuti + cottura in forno ca. 30 minuti. Per persona: ca. 42 g di proteine, 34 g di grassi, 4 g di carboidrati, 2050 kJ/490
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 13 giugno 2016 ¶ N. 24
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Ambiente e Benessere
Bambini iperattivi, ma perché? Salute Sotto la lente diagnosi e terapia della sindrome da deficit di attenzione
Maria Grazia Buletti «Sono sempre stata una bambina molto agitata e i miei genitori non sapevano più che fare, mentre già alla scuola materna i maestri avevano gettato la spugna», esordisce A. (nome noto alla redazione). A. oggi ha trent’anni, conduce una vita normale di mamma con due bimbi piccoli, e ci parla della sua esperienza di adolescente a cui, una quindicina d’anni fa, fu diagnosticata la Sindrome da deficit di attenzione. «Non riuscivo a entrare in relazione con i compagni, ero molto irruente, a lezione faticavo ad ascoltare e a concentrarmi, dormivo poco e malgrado ciò ero sempre piena d’energia», racconta, ricordando che dapprima i docenti delle medie, poi quelli delle scuole professionali «erano molto preoccupati per me e non capivano come aiutarmi». Dopo una serie di test («Non ricordo molto se non che fossero scritti e soprattutto coinvolgevano i miei genitori più che me stessa»), il suo pediatra formula la diagnosi, in seguito alla quale per 5 anni le è somministrato il Ritalin, nome commerciale di uno psicofarmaco il cui principio attivo è il metilfenidato (MPH). «È un farmaco parente stretto dell’anfetamina che può essere prescritto ai bambini deconcentrati e iperattivi, affetti da Attention Deficit Hyperactivity Disorder (ADHD), con lo scopo di aiutarli a concentrarsi meglio», ci spiega il pediatra di Viganello dottor Andreas Wechsler, che ci ha illustrato i sintomi di questa sindrome e la sua incidenza nei bambini e negli adolescenti (pare che in Ticino sia 5 volte inferiore rispetto al resto della Svizzera). Il dottor Wechsler spiega che in alcuni casi la diagnosi comporta la scelta di somministrare un farmaco con cui c’è davvero poco da scherzare. A tal proposito, la nostra interlocutrice racconta: «Sapevo come dovevo dosare il farmaco, ma non sapevo che poi, quando mi si è detto di
L’agitazione si esprime in particolare a scuola. (Marka)
smettere, avrei avuto due sorprese: ho iniziato crisi di astinenza che mi hanno portata ad assumere sostanze stupefacenti (sono riuscita a guarire grazie al supporto di una brava psichiatra), e non avevo più gli amici di prima, quelli che mi pregavano di andare in farmacia a comprare il Ritalin perché lo volevano loro per “sballare”». Dal canto suo, il dottor Wechsler non ha nascosto di essere a conoscenza dell’uso improprio di questo farmaco da parte di alcuni giovani che lo assumevano come anfetamina, pur elencandone anche i pregi: «Si conosce da così tanto tempo che nell’ambito terapeutico sono perfettamente noti benefici ed effetti collaterali e la corretta prescrizione resta responsabilità del medico che la pondera al massimo, secondo la diagnosi accertata di ADHD. Si prescrive solo e solamente al momento in cui, dopo aver fallito altre strategie non medicamentose, il peso della sofferenza del giovane stesso, e non degli altri, è diventato alto». Anche A. conferma l’importanza della diagnosi corretta e della ricerca di
terapie alternative, nonché del sostegno in rete del ragazzo e della sua famiglia: «Lo so che questa è la mia storia e possono esservene altre diverse dalla mia, ma ciò non toglie che prima di tutto il bambino in difficoltà andrebbe valutato attentamente, sostenuto e coinvolto personalmente, coi genitori, in un percorso oggettivamente difficile». A. sostiene che la diagnosi andrebbe formulata con
basi scientifiche di terapia e di presa a carico di questi pazienti, coinvolgendo in prima persona i bambini stessi», spiega Sandra Hotz, portavoce del progetto per l’Università di Friborgo. «L’incremento dei bambini che negli ultimi dieci anni prendono questo farmaco è evidente; vogliamo capire se e perché sono aumentate le diagnosi di ADHD, visto che i nostri dati non coincidono con quelli di Germania, Francia e Italia dove non risulta che la malattia sia aumentata», riferisce la nostra interlocutrice, spiegando che lo studio «vuole ricostruire il processo che arriva alla diagnosi, per capire chi ha partecipato alla discussione, se è stato coinvolto il bambino, il cui ruolo è determinante, e la pertinenza della prescrizione del farmaco». Come A., Sandra Hotz insiste su quest’ultimo punto: «Prima di somministrare metilfenidato, si potrebbe pensare a praticare più sport, a un adeguamento della nutrizione, all’ausilio di terapie psicologiche mirate e soprattutto sempre al coinvolgimento del ragazzo stesso in ogni fase di supporto». Lo studio, che recluta volontari anche in Ticino (Vedi box), vuole fare luce su tutti questi aspetti, alla ricerca di soluzioni che pongano al centro del problema il benessere del bambino.
maggiore prudenza e, soprattutto «col senno del poi, ritengo che prima di somministrare un farmaco (qualsiasi farmaco, tanto più uno del genere, che crea dipendenza) bisognerebbe percorrere strade alternative». Strade da indagare scrupolosamente: «Oggi sappiamo che spesso i bambini iperattivi hanno nel corpo troppi metalli, oppure delle intolleranze alimentari che li disturbano e li rendono agitati». Indagini approfondite sulle cause e diagnosi puntuale sono quindi necessarie «prima di somministrare un farmaco con possibili effetti devastanti anche a posteriori». Fattori individuali, psicologici, medici e sociali che portano a una diagnosi di ADHD, al coinvolgimento del bambino stesso già nella fase di ricerca diagnostica, alla sua presa a carico con misure di accompagnamento adeguate e all’eventuale prescrizione del farmaco costituiscono proprio i fattori alla base del progetto di studio sull’iperattività e sul trattamento di ADHD promosso dall’Istituto di ricerca e consiglio nel dominio famigliare dell’Università di Friborgo, congiuntamente ad altri istituti di ricerca svizzeri. «In tutte e tre le regioni linguistiche nazionali stiamo reclutando famiglie che partecipino al nostro studio votato a evidenziare e comprendere le
Studio sull’approccio all’ADHA, cercansi partecipanti «Nell’ambito di uno studio scientifico sulla vita quotidiana dei bambini con una diagnosi di ADHD e della loro famiglia, cerchiamo bambini e bambine dagli 8 ai 14 anni (e un loro genitore) con una diagnosi di ADHD»: Università di Friborgo, Alta scuola di scienze applicate e Collegium Helveticum di Zurigo, in partenariato con l’ETH e l’Università di Zurigo, reclutano in tutte e tre le regioni linguistiche bam-
l’arco di 5 giorni, attraverso un’App (nel caso in cui fosse necessario, uno Smartphone viene messo a disposizione per tutta la durata della ricerca). Gli interessati possono annunciarsi all’Istituto di ricerca e consulenza nell’ambito della famiglia, Università di Friborgo, Rue de Faucigny 2, 1700 Fribourg, alla signora Jacqueline Esslinger (026 300 76 56), o scrivere a projektkinderfoerdern@unifr.ch
bini con i requisiti descritti. La ricerca indaga la vita quotidiana delle famiglie con un bambino con diagnosi di ADHD, il tipo di trattamento e gli effetti sul bambino e sulla famiglia. Lo studio non ha alcun beneficio medico, ma ha come scopo quello di studiare il benessere del bambino e della sua famiglia; esso dura un anno, durante il quale ogni 2 mesi verrà chiesto di rispondere ad alcune domande lungo
Giochi Cruciverba Nell’antichità l’ebreo per sancire un patto … e lo porgeva all’altro. Saprai di che si tratta risolvendo il cruciverba e leggendo nelle caselle evidenziate. (Frase: 2, 9, 2, 7)
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ORIZZONTALI 1. Le iniziali dell’attrice Seredova 3. La vita dei greci 7. Lago francese 9. Vanno in coppia 10. Non circola senza elettricità 12. Il male nel cuore 13. Cavità superiore del cuore 15. Come finisce comincia... 16. Lo stesso voto di tutti 22. Le iniziali del regista Avati 24. Un numero 25. Le iniziali della cantante Marrone 26. Le vicende dei romanzi 29. La Negri scrittrice 31. Salito verso l’alto 33. Ripieghi... marginali 35. Dopo una lunga assenza 36. Minuscolo arnese VERTICALI 1. Può esserlo la tensione 2. Creatori di moda 4. Le iniziali della conduttrice Spada 5. Ha molto fegato ma non coraggio 6. La scrittrice Giacobini 8. Sul dorso delle tartarughe 11. Nota musicale 14. Dove in francese 17. È nudo a Monte Carlo 18. Si percorre in nave 19. Pronome personale 20. Malvagio, crudele 21. Famoso personaggio dello spettacolo 23. Così sia 27. Sigla di radiotelevisione svizzera 28. L’Oriente 30. Altare pagano 32. Le iniziali del pittore Rosai 34. Le iniziali della giornalista Gruber
Sudoku Livello facile Scopo del gioco
Completare lo schema classico (81 caselle, 9 blocchi, 9 righe per 9 colonne) in modo che ogni colonna, ogni riga e ogni blocco contenga tutti in numeri da 1 a 9, nessuno escluso e senza ripetizioni.
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7 Soluzione della settimana precedente
CONSIGLI UTILI – Tampona il dolore al dente masticando...: CHIODI DI GAROFANO SUL PUNTO DOLORANTE.
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Politica e Economia Storica giornata Il voto di martedì scorso ha incoronato Hillary Clinton candidata del partito democratico nella corsa per la Casa Bianca: per la prima volta una donna è in gara per la presidenza degli Stati Uniti
Diplomazia al lavoro L’Organizzazione degli Stati Americani, Brasile e Argentina e gli Stati Uniti che osservano da fuori, premono affinché il presidente venezuelano Maduro se ne vada
Kiev, atto finale La guerra nel Donbass si avvia alla conclusione grazie anche ai ripensamenti di Mosca
FCZ calcio, pessimo affare I coniugi Canepa hanno investito, e perso, decine di milioni nel club calcistico
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La scheda di voto che osa mettere in discussione il tabù dei tabù. (AFP)
Leave or remain? Referendum inglese Il 23 giugno si saprà se l’azzardo di Cameron si rivelerà una carta vincente. Quel che è certo,
qualsiasi sarà l’esito del voto, è che gli assetti geopolitici del nostro Continente saranno diversi Lucio Caracciolo La sera del 23 giugno, quale che sia il risultato del referendum britannico sulla permanenza o meno del Regno Unito nell’Unione Europea, gli assetti geopolitici del nostro Continente saranno diversi. Gli esiti possibili sono infatti quattro: vittoria netta del partito del leave; successo di misura dello stesso; trionfo del remain; affermazione risicata dello stesso. Nessuno dei responsi delle urne potrà apparire come una conferma dello status quo. Vediamo. Ipotesi 1 – vittoria netta del leave (oltre il 55%). Conseguenza immediata: cade il governo Cameron, che aveva imprudentemente puntato sulla consultazione popolare per cementare il suo potere e il suo stesso partito, diviso fra pro europei moderati, euroscettici blu ed eurofobi. Al suo posto va quasi certamente l’ex sindaco di Londra Boris Johnson, alfiere del Brexit, il quale apre immediatamente il negoziato con Bruxelles per stabilire tempi, modi e forme dell’uscita del Regno Unito dalla famiglia comunitaria. Trattativa du-
rissima, destinata a durare molti mesi, forse un paio d’anni. Al termine della quale l’accordo sul Brexit potrebbe peraltro essere sottoposto a un nuovo referendum britannico (paradosso: il leave vincente non assicura la fuoriuscita di Londra dall’Ue, ma solo l’avvio del processo che dovrebbe portare alla secessione britannica). Nel più vasto orizzonte, la vittoria secca del Brexit produrrebbe uno shock sui mercati finanziari e conseguenze geopolitiche drastiche, tra cui la probabile richiesta di referendum analoghi in altri paesi membri dell’Ue. Inoltre, riaprirebbe in Gran Bretagna la questione scozzese, posto che la grande maggioranza dei cittadini della Scozia voteranno comunque per il remain. Ipotesi 2 – successo di misura del leave (meno del 55%). Anche in questo caso le dimissioni di Cameron sono scontate e l’accesso di Boris Johnson a Downing Street più che probabile. Valgono anche le altre considerazioni circa le conseguenze di geopolitica europea e interna, solo con minore virulenza e con qualche resistenza dei fautori del remain. Il negoziato fra Johnson e
gli altri leader europei sarebbero però molto più contestati, e destinati forse a durare ancora più a lungo. L’ipotesi di un referendum sull’eventuale accordo Londra-Bruxelles sarebbe meno improbabile, come pure possibile diverrebbe lo scenario di un voto opposto nella seconda ipotetica consultazione popolare, che lascerebbe quindi il Regno Unito nell’ambito Ue. Ipotesi 3 – trionfo del remain (oltre il 55%). Non solo Cameron resterebbe al suo posto, ma acquisterebbe una statura fino a oggi imprevedibile. Avrebbe vinto la sua scommessa. E avrebbe dimostrato che malgrado tutto – un popolo storicamente e istintivamente euroscettico, in un quadro europeo che più decadente e disastrato non si riesce a immaginare – la paura del vuoto, ovvero di «restare soli», alla fine può spingere a scommettere comunque sulla riformabilità dell’Unione Europea. Almeno come male minore. Ipotesi 4 – affermazione risicata del remain (meno del 55%). La crisi di governo sarebbe una eventualità plausibile, perché in questo caso la posizione di Cameron, che aveva scom-
messo inizialmente su un trionfo elettorale, sarebbe molto indebolita. Sul fronte continentale, alcuni paesi potrebbero comunque chiedere di rivedere le condizioni della loro partecipazione all’insieme comunitario. Viste le concessioni fatte agli inglesi, allo scopo – qui riuscito – di evitarne la secessione, altri paesi sarebbero tentati di minacciare un referendum per strappare a Bruxelles qualche vantaggio nella redistribuzione dei pesi e delle risorse nella famiglia Ue. È dunque un’Unione Europea in movimento, e in forte apprensione, quella che scandisce in questi giorni il countdown verso il voto britannico del 23 giugno. Il solo fatto che un Paese, per di più delle dimensioni del Regno Unito, osi mettere in discussione il tabù dei tabù – l’irreversibilità del processo di integrazione comunitario – è un evento sconvolgente. I Padri Fondatori e i loro epigoni hanno infatti allestito, passo dopo passo (qualcuno in avanti, recentemente anche molti all’indietro), un meccanismo fondato sul bel tempo permanente. Finché le cose vanno abbastanza bene, l’Europa va avanti. Ma
appena all’orizzonte si profila una crisi, le inconsistenze e le contraddizioni del sistema europeo vengono a galla. Qualità e coraggio dell’attuale classe politica continentale tendono poi a escludere l’emergere di leader europeisti in grado di guidare un movimento di riscossa, capace di far davvero avanzare l’Ue verso la mitica e sempre imprecisata «unione politica». Oggi il Regno Unito e i suoi 27 partner europei si trovano ad affrontare contemporaneamente quattro crisi di grande portata: quelle economicomonetaria, russo-ucraina, terroristica e migratoria. Specie quest’ultima avrà un effetto importante sull’esito del voto britannico, visto il clima di «invasione» che si respira nel Regno Unito e in diversi altri paesi europei, in particolare nel quadrante di Centro-Nord. Sapremo tra pochi giorni se l’azzardo di Cameron si sarà rivelato vincente. Di sicuro possiamo già stabilire che mai il premier britannico avrebbe pensato di mettere a tal punto in questione la sua leadership. E insieme ad essa l’intero assetto geopolitico europeo.
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Politica e Economia
Usa, si spezza il soffitto di vetro La nomination di Hillary Quella barriera invisibile e tenace, come lei stessa aveva definito la difficoltà delle donne
ad arrivare ai vertici delle carriere professionali, è finalmente caduta. Obama suggella la vittoria con il suo endorsement
Federico Rampini Otto anni dopo, Hillary Clinton ce l’ha fatta. Ha spezzato finalmente «il soffitto di vetro», come lei stessa ama definire quella barriera invisibile ma tenace che ostacola tante donne ai vertici delle carriere professionali, e aveva impedito a una di loro di conquistare la nomination per la presidenza. Il suo appuntamento con la storia è arrivato la sera del 7 giugno 2016 al termine delle votazioni nel New Jersey e in California, dopo che nel 2008 le era stato negato dalla vittoria di Barack Obama alle primarie democratiche. «Abbiamo fatto la storia – ha detto Hillary martedì scorso – e la vittoria di stasera appartiene a intere generazioni». Quella sera ha scelto di pronunciare il fatidico discorso a Brooklyn, proprio il quartiere dov’è nato il suo rivale di sinistra Bernie Sanders. Verso il quale lei ha subito teso un ramoscello d’ulivo, chiamando all’unità del partito, «per sconfiggere un Trump che è caratterialmente inadatto a dirigere il Paese».
Per vincere a novembre si dovrà convincere l’ala radicale che Hillary non è venduta a Wall Street solo per aver accettato i finanziamenti Il suggello finale alla vittoria di Hillary nelle primarie lo ha dato Obama giovedì sera con il suo endorsement ufficiale: «Per avere gareggiato con lei nelle primarie di otto anni fa, per avere lavorato con lei quando è stata segretario di Stato, so che non c’è una persona più qualificata di lei per essere il prossimo presidente degli Stati Uniti. La sua storica campagna ha ispirato milioni di cittadini, è il degno prolungamento della sua vita di impegno in favore delle famiglie, dei lavoratori, dei bambini. Non vedo l’ora di fare campagna per lei». Nello stesso messaggio di endorsement, affidato a Facebook, Obama ha reso un caloroso omaggio a Bernie Sanders. Poche ore prima c’era stato l’incontro tra Obama e Sanders nello Studio Ovale della Casa Bianca: un gesto di riguardo, il senatore socialista del Vermont è stato il primo a sapere dell’endorsement. Ma un ritiro formale di Sanders deve ancora avvenire. Nel rispetto della democrazia di base, il senatore del Vermont non ha voluto negare l’occasione di pronunciarsi agli elettori dell’ultimissima primaria: che si tiene questo martedì 14 giugno nel District of Columbia, il territorio (non uno Stato) che «contiene» la capitale Washington. Inoltre l’annuncio del ritiro e dell’endorsement a Hillary avverrà solo dopo un summit bilaterale tra i due, in cui Bernie porrà le sue condizioni. Relative soprattutto al programma di governo, la piattaforma elettorale che deve essere approvata alla convention democratica di Philadelphia a luglio. La Clinton comunque ha incassato una vittoria netta, «pulita», fatta di voti veri. La sua affermazione nell’ultimo Supermartedì, dal New Jersey alla California, è stata inequivocabile. Ha raggiunto con un margine abbondante la maggioranza assoluta dei delegati anche senza considerare quel pacchetto di superdelegati che non sono espressione della base bensì parlamentari e governatori, cioè ceto politico, l’establishment tante volte attaccato da Sanders. È sulla conta dei voti veri che lei ha vinto. La vittoria di Hillary è giunta in una settimana difficile per Donald Trump, le cui gaffes sembrano finalmente in grado di indebolirlo. Trump
Il senatore Bernie Sanders e il presidente Barack Obama si sono incontrati giovedì nello Studio Ovale della Casa Bianca. (Keystone)
è inseguito da una delle tante accuse di truffe: la frode ai danni degli studenti della Trump University, a cui estorceva alte rette in cambio di corsi inutili e diplomi-patacca. Di fronte al processo che incalza, l’affarista ha attaccato pesantemente il giudice federale della California. Appigliandosi al suo cognome ispanico, il tycoon ha detto: «È un messicano, ce l’ha con me, non può essere obiettivo». Le accuse di razzismo si sono levate da ogni parte, incluso il presidente della Camera Paul Ryan, repubblicano. Tanto più che il giudice in questione è nato nello Stato dell’Indiana, è cittadino degli Stati Uniti al 100%. I suoi genitori o antenati possono anche essere venuti dal Messico, ma se si cominciano ad aggredire e insultare le persone sulla base dell’albero genealogico, il collante sociale degli Stati Uniti si disintegra… Se questa è un’avvisaglia dei cinque mesi che ci aspettano, Trump potrebbe rivelarsi davvero vulnerabile. Gli immigrati in America diventano cittadini rapidamente, molti di loro solidarizzano con quei messicani che lui insulta, con quegli 11 milioni di clandestini che vuole deportare. Vincere senza i voti delle minoranze etniche è difficile. Hillary ha fatto la storia: almeno a metà. Ora l’attende la sfida finale. Per tornare alla Casa Bianca dove fu già First Lady, deve superare tre ostacoli. Il primo è la tradizione: non accade di frequente che lo stesso partito vinca tre volte di seguito l’elezione presidenziale. Solo due sono i precedenti nell’epoca contemporanea: Truman dopo Roosevelt e Bush padre dopo Reagan. In ambedue i casi la rielezione di un presidente dello stesso partito avvenne grazie a una straordinaria popolarità del leader uscente. In questo senso l’elezione diventa anche una sorta di referendum sul bilancio di Obama: che per fortuna di Hillary è risalito di recente al 50%
dei consensi, un livello alto per un presidente a fine mandato. Il secondo ostacolo è caratteriale. Hillary è competente, preparata, combattiva: ma non ha né carisma né ispira grandi simpatie. Anche tra quelli che l’hanno votata prevale il calcolo della ragione sull’emozione e sull’affetto. Non è una grande parlatrice. Sicuramente ha «studiato da presidente», ma non è ancora stata capace di formulare un’idea dell’America che faccia sognare. L’aiuterà in parte Obama, scendendo in campo col suo carisma, ma di certo Hillary farà fatica a liberarsi dall’immagine di una donna «calcolatrice».
Sanders lotterà fino alle ultime primarie di martedì prossimo nel District of Columbia e lavorerà con la Clinton per sconfiggere Trump Il terzo ostacolo è di natura etica. È la ragione per cui una parte dei sostenitori di Sanders dovranno superare molte resistenze per votarla. Hillary con il marito Bill è in politica da decenni, insieme i due hanno costruito una macchina di potere formidabile. Che come tale è anche una macchina da soldi. Attraverso la Clinton Foundation, o i super-Pac (Political Action Committee) hanno accettato finanziamenti un po’ da tutti: compresi i banchieri di Wall Street, e perfino governi stranieri tutt’altro che democratici (vedi l’Arabia saudita). In una stagione politica in cui sia Trump che Sanders hanno cavalcato la protesta anti-sistema, lei è un emblema dell’odiato establishment. Per fare il pieno di voti a sinistra, per portare alle urne i giovani, e tutti coloro che hanno seguito Sanders fino a ieri, dovrà dare
risposte nuove e convincenti sulla moralizzazione della politica. A cominciare dai finanziamenti della campagna elettorale: in una gara per la Casa Bianca che rischia di sfondare un altro mitico soffitto, quello dei due miliardi di dollari di spese pubblicitarie. Che cosa resterà di Bernie Sanders, ora che il sogno di «un socialista alla Casa Bianca» cede il passo a un altro tipo di svolta storica, la prima donna che conquista una nomination? Il 74enne senatore del Vermont, unico a proclamarsi socialista al Congresso di Washington, ha una preziosa «constituency» in comune con Obama: i giovani, che ambedue hanno portato a votare in massa. Il presidente ex-giovane e il «nonnino sessantottino» hanno fatto sognare la sinistra americana e mondiale. È un risultato del ruolo di Sanders su tre piani: la denuncia delle diseguaglianze e della «deriva oligarchica» negli Stati Uniti; la sua fermezza sulla questione morale e il finanziamento della politica; la sua capacità di mobilitare gli elettori. Sono ingredienti di cui avrà bisogno Hillary, deficitaria soprattutto sugli ultimi due. Ma non solo. Sanders è «l’altra faccia» del fenomeno Trump: un populismo di sinistra altrettanto viscerale e irriducibile nel suo odio contro le élite, l’establishment, i politici di professione. È l’erede diretto di Occupy Wall Street: contesta i fondamenti di questo modello economico, l’ipertrofìa della finanza, i decenni di tagli al Welfare, gli attacchi ai diritti dei lavoratori, una globalizzazione i cui benefici si sono concentrati in un’oligarchia di grandi azionisti e top manager. È un linguaggio simile alla sinistra radicale europea, anche se nei programmi si «accontenterebbe» di importare in America il modello sociale scandinavo (che fu in vigore anche negli Stati Uniti, da Franklin Roosevelt a Lyndon
Johnson). Sanders ci aggiunge un ideale di democrazia partecipativa: quella «rivoluzione politica» che ha attirato le folle entusiaste nei suoi comizi, è l’idea che le lobby si possono contrastare solo se i cittadini tornano ad essere attivi e vigilanti nella «polis». Qualcosa di simile lo diceva anche Obama, poi il sogno si è perso nella realpolitik quotidiana, e nella guerriglia con un Congresso presto riconquistato (2011) dai repubblicani. La sovranità del popolo che ha in mente Sanders è un ritorno alla democrazia partecipativa di Tocqueville adeguata all’èra dei social network. Obama e la Clinton sono approdati a una visione gradualista del cambiamento. Ma intanto hanno un imperativo immediato, stringente, drammatico. Per vincere a novembre, bisogna convincere l’ala radicale che Hillary non è venduta a Wall Street solo per averne accettato i finanziamenti. Bisogna convincere i rivoluzionari che non è il momento di giocare al «tanto peggio tanto meglio»: vizio antico di una sinistra pura e dura che adora perdere, se l’alternativa è un moderato riformista al governo. Sanders ha lasciato intendere che farà la sua parte. Dopo l’incontro con Obama allo Studio Ovale della Casa Bianca, giovedì scorso, ha annunciato che «lavorerà per impedire ad ogni costo che Trump diventi presidente degli Stati Uniti, perché sarebbe un disastro per il Paese». In cambio, cosa chiederà Sanders ai vertici del partito democratico? Che abbraccino le sue idee sull’aumento del salario minimo legale a 15 dollari l’ora, uno stop ai trattati di libero scambio, regole più severe per ridimensionare le banche di Wall Street. Sono tutte cose negoziabili, sulle quali Hillary ha mostrato disponibilità. Il «rivoluzionario» ha ottenuto nei mesi già un risultato evidente, quello di spostare la Clinton su posizioni più di sinistra.
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Politica e Economia
Maduro nel mirino Diplomazia L’Organizzazione degli Stati Americani, Unasur, e soprattutto Brasile ed Argentina, su posizioni opposte,
Angela Nocioni Grandi opere diplomatiche sono in corso tra Washington, Brasilia, l’Avana e Buenos Aires affinché la crisi politica in Venezuela sia risolta senza scontri di piazza. La partita è delicata. Dai suoi esiti dipenderanno non solo il futuro venezuelano, ma anche molti degli equilibri politici futuri del continente latinoamericano. Buenos Aires, governata dal liberale Mauricio Macri, spinge perché il presidente venezuelano Nicolas Maduro (nella foto con Obama), travolto dal precipitare di quel che resta della rivoluzione chavista, accetti di lasciare il potere con una formula che permetta a lui di salvare la faccia e all’opposizione di tentare di succedergli per via democratica. Il nuovo governo brasiliano, guidato da Michael Temer – ex vice della presidente Dilma Rousseff che ha preso temporaneamente il suo posto mentre lei è sotto procedura di impeachment – è visceralmente antichavista e teoricamente d’accordo con Macri. È però un governo zoppo, tutto rivolto nella gestione temporanea della crisi brasiliana (a sua volta drammatica) in attesa del verdetto finale sul destino politico della Rousseff. Non ha né i poteri formali, né l’autorevolezza politica e probabilmente nemmeno l’interesse immediato, per intervenire oltre i confini nazionali. L’iniziativa diplomatica brasilia-
na verso il Venezuela è ancora in mano al Partito dei lavoratori (Pt), il partito di Dilma, che con Caracas ha lavorato in asse negli ultimi dieci anni e che sta usando tutta la sua influenza per salvare almeno qualcosa dell’eredità delle politiche sociali chaviste. Washington osserva l’evolversi della crisi, riceve e consiglia gli emissari diplomatici del governo e dell’opposizione venezuelana, nell’intento di scongiurare un precipitare violento dello scontro a pochi mesi dalle elezioni presidenziali statunitensi. La situazione economica e sociale a Caracas è da tempo surreale. Il collasso del sistema di approvvigionamento e di distribuzione dei prodotti di consumo anche primari (il Venezuela, produttore di petrolio, è completamente dipendente dall’export di greggio e compra all’estero il 70 per cento di ciò che consuma) mostra anche ai più ostinati difensori del chavismo il fallimento del sistema socialisteggiante messo in piedi dal defunto presidente Hugo Chavez. Manca quasi tutto a Caracas, dallo zucchero alla farina. La situazione di penuria promette di eguagliare in tempi brevi quella che visse Cuba negli anni Novanta, in pieno periodo especial, quando la fine degli aiuti sovietici, da cui l’Avana dipendeva, lasciò l’isola a secco. I venezuelani però, a differenza dei cubani che con le ristrettezze convivono da decenni, sono abituati agli
AFP
si stanno muovendo per convincere il presidente venezuelano ad andarsene onde evitare scontri di piazza
shopping mall nello stile di Miami. Anche coloro che non possono permettersi di comprare quasi nulla sono cresciuti in un Paese ricco con i negozi strapieni di prodotti. È una sorpresa per tutti, ricchi e poveri, vedere gli scaffali dei supermercati vuoti. E mentre a Cuba, arcaica e rurale, le penurie
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socialiste non hanno obbligato la famiglia Castro a pagare politicamente il prezzo del periodo especial, tutto fa pensare che in Venezuela la rabbia sociale presenti rapidamente il conto al governo in carica. Ferve quindi la diplomazia continentale per evitare che chavisti e antichavisti misurino le rispettive forze in piazza. A sorpresa, il segretario generale dell’Organizzazione degli Stati Americani (Oea), Luis Almagro, uruguaiano, si è appellato alla Carta democratica americana, promulgata nel 2001, che impegna i firmatari a isolare qualsiasi Paese membro colpevole di gravi violazioni costituzionali. L’iniziativa di Almagro, accorso in passato a celebrare la rivoluzione chavista e il suo leader, ha ovviamente scatenato Maduro e compagni contro i voltagabbana, ma ha anche irritato il Dipartimento di Stato americano che la considera una manovra di disturbo da parte di chi pensa di guadagnare qualcosa da un esito violento della crisi, un passo falso utile soltanto a scucire la trama diplomatica faticosamente tessuta finora per far sedere le parti venezuelane a un tavolo di mediazione. Un tentativo di imbastire un dialogo tra chavisti e antichavisti è stato avviato dall’Unione delle nazioni sudamericane (Unasur), organismo multilaterale creato sotto la direzione politica di Hugo Chavez proprio per bilanciare l’azione della Oea considerata da Caracas uno strumento di Washington per interferire nella politica latinoamericana. Contro l’iniziativa di Unasur ha preso posizione la Conferenza episcopale venezuelana, fortemente antichavista, che considera l’Unasur «un attore non adeguato al dialogo perché il governo di Chavez ebbe molto a che vedere con la sua genesi». Maduro ha bisogno di bloccare, o perlomeno di ritardare di almeno un anno, il referendum revocatorio del suo mandato presidenziale, chiesto dall’opposizione. Se il referendum si realizzasse subito e Maduro, come pronosticano i sondaggi, perdesse, si convocherebbero nuove elezioni. Se invece il referendum di realizzasse nel 2017, in caso di sconfitta di Maduro la legge prevede che il mandato presidenziale sia comunque portato a termine fino al 2019 e il posto del presidente sia preso dal suo vice. In questo caso si tratterebbe dell’ex ministro Aristobulo Isturiz, un chavista della prima ora. Nel pericoloso stallo politico del momento si è inserita con una mossa abilissima l’Avana. Cuba, grande
alleata del Venezuela chavista che ha mantenuto economicamente l’isola sostituendo in parte il ruolo che fu dell’Unione sovietica, ha a sorpresa fatto da tramite per rendere possibile la visita nel carcere militare di Ramo dell’ex premier spagnolo José Luis Zapatero al leader radicale dell’opposizione venezuelana Leopoldo Lopez, detenuto dal febbraio del 2014. La liberazione di Lopez è una delle misure chieste dall’opposizione per sedersi a un tavolo con Maduro. Zapatero ha una buona relazione con il castrismo cubano. L’ha costruita quando era al governo della Spagna e aveva come ministro degli Esteri il socialista Miguel Angel Moratinos. Le relazioni tra Unione europea e Cuba erano a quei tempi congelate perché il precedente premier spagnolo, José Maria Aznar, era riuscito nel 1996 ad ottenere una politica europea di severità diplomatica verso Cuba, chiamata «Posizione comune». Prevedeva il congelamento di qualsiasi rapporto politico dei Paesi europei con l’isola se Cuba non si fosse prima aperta alla democrazia liberando i detenuti politici. Poiché Castro ufficialmente negava (e nega tuttora) l’esistenza di detenuti politici il muro contro muro voluto da Aznar fu totale. La linea morbida di Zapatero con Cuba portò agli unici risultati concreti sul piano del rispetto dei diritti umani mai ottenuti da una pressione internazionale su Castro. Moratinos e Zapatero riuscirono, attraverso una accorta politica dei piccoli passi, ad ottenere scarcerazioni di persone detenute per reati d’opinione e, piano piano, a ricostruire le premesse per uno scongelamento delle relazioni con Cuba. Tanto bene funzionò la strategia spagnola che Barack Obama, durante una riunione con Zapatero alla Casa Bianca il 13 ottobre del 2009, chiese allo spagnolo di poter utilizzare Moratinos come emissario presso il castrismo per garantire al regime cubano l’intenzione dell’Amministrazione americana di facilitare lo scongelamento delle relazioni diplomatiche. La convinzione di Zapatero è che chi vuole democrazia politica a Cuba non può forzare la mano (altrimenti il regime si chiude a riccio) ma piuttosto interloquire pazientemente con i Castro e trattare senza mai mollare la presa. Non è detto che non funzioni anche a Caracas. Un primo successo è stato ottenuto: Castro ha convinto Maduro a consentire all’ex premier spagnolo di andare a trovare Lopez in carcere. Un’apertura notevole, un risultato concreto. L’unico, finora.
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Politica e Economia
Putin scarica il Donbass
Fra i libri di Paolo A. Dossena
Ucraina Senza che nessuno se ne sia accorto la guerra a bassa intensità
nell’enclave filorussa è entrata nella fase finale. Troppo costosa per Mosca che restituisce a Kiev la pilota ucraina come gesto distensivo all’Ue nella speranza che venga accolto
Nadezha Savchenko è stata eletta in Parlamento nelle file del partito di Yulia Timoshenko (a sinistra). (AFP)
Anna Zafesova Nadezhda Savchenko si aggira per i corridoi della Rada, e assiste alle sedute rannicchiata nella sua poltrona di parlamentare, a piedi nudi. Un vezzo strano, che la pilota ucraina restituita da Mosca a Kiev in un gesto di «buona volontà» dopo essere stata condannata da un tribunale russo a 22 anni di prigione, ha sfoggiato appena scesa dall’aereo che la riportava in patria. Ma nessuno osa chiederle il perché: la donna che ha trascorso 709 giorni in un carcere russo, ed è tornata a casa con un’espressione di rabbia in netto contrasto con i suoi manifesti elettorali (pesantemente ritoccati per addolcire l’immagine della «G.I. Jane» ucraina), è una mina vagante della politica di Kiev. È la nuova «pasionaria» che sta sostituendo nel cuore dei nazionalisti l’ex premier Yulia Timoshenko, che infatti con grande astuzia ha fatto eleggere Savchenko in contumacia nelle liste del suo partito Batkivshina (patria). Yulia è affascinante, elegante, sottile, quanto Nadia è brusca, volutamente dimessa e aggressiva, una donna-soldato, che molti vedono già come simbolo della nazione, e suo futuro presidente. Un’eroina creata dai russi, con il suo arresto che assomiglia di più a un rapimento (è accusata di aver puntato l’artiglieria contro i civili, causando la morte anche di due giornalisti russi), il simbolo di un Paese che si sente in guerra. C’è chi dice che Vladimir Putin avesse graziato Savchenko proprio per mettere in difficoltà il suo collega ucraino Petro Poroshenko, che avrebbe preferito lasciare l’indomita l’eroina della nazione in una prigione russa. Per il Cremlino liberare l’elicotterista ucraina è stato un gesto difficile, ma obbligato. Non solo perché nello stesso giorno Poroshenko ha rilasciato due russi catturati nel Donbass, i famosi «omini verdi» che alimentano la guerra ibrida dalla Crimea all’Est ucraino. Nell’autoproclamata (2014) repubblica del Donbass dall’Ucraina prosegue quello che il gergo delle organizzazioni internazionali definisce un «conflitto a bassa intensità», scontri minori ma regolari, lungo una linea divisoria invariata, uno stillicidio di
vittime che però non riesce più ad attirare l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale. La partita strategica non si gioca più sul campo di battaglia, ma nella retroguardia della diplomazia, come in quella telefonata tra Putin, Poroshenko, Angela Merkel e François Hollande – il « quartetto di Normandia», come viene chiamato, anche se in realtà il ruolo di Barack Obama, con John Kerry che fa la spola tra Mosca e Washington, non è da meno – che ha preceduto la liberazione di Savchenko.
La guerra con la Russia ha dato identità a una nazione ancora in divenire, la pace rischia di far riemergere tutti i suoi disagi irrisolti I veri contenuti di questa telefonata, la notte del 23 maggio scorso, sono rimasti oscuri, e le parti ne riferiscono versioni contrastanti. Ma l’argomento principale, concordano tutti, era la missione della Osce che dovrebbe concludere la pacificazione del Donbass. Una missione «poliziesca», secondo Kiev, «di monitoraggio», secondo i russi, e si intuisce che lo scontro principale passa proprio da qui, e verte intorno ai poteri e alle armi di cui disporranno le centinaia di emissari europei che dovranno portare la pace nelle enclave ribelli dell’Est ucraino. Il negoziato sugli accordi di Minsk, «un progresso da lumaca» come l’ha definito all’inizio di maggio il ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier, sta però lentamente avviandosi alla fase finale. L’entrata in campo di una forza più o meno armata della Osce infatti significa che le truppe russe – regolari o «omini verdi» più o meno volontari – se ne dovranno andare, e si passa all’ultimo punto della road map: le elezioni locali nel Donbass e il ritorno della frontiera russo-ucraina sotto il controllo di Kiev. In altre parole, Putin ha «scaricato il Donbass», come si esprimono i nazionalisti russi. Il presidente russo non vuole continuare una guerra che
non ha potuto vincere in un blitz, e che gli sta costando sanzioni economiche ed isolamento internazionale. La Siria ha fatto dimenticare l’Ucraina sia all’opinione pubblica interna, avida di successi dell’esercito russo, sia alle cancellerie internazionali, molto più interessate ai potenziali scambi con Mosca nel Medio Oriente. La crisi economica – dovuta più al prezzo del petrolio dimezzato che alle sanzioni – ha comunque ristretto il margine di manovra del Cremlino, rendendo il Donbass un lusso insostenibile. E il ministro degli Esteri russo Serghey Lavrov ha appena riconfermato che la Russia non riconoscerà le «repubbliche popolari» di Donetsk e di Luhansk – quelli che a Kiev vengono chiamati «territori temporaneamente occupati» da riportare in Ucraina – a differenza di quanto ha fatto con le enclave sottratte alla Georgia, l’Ossezia del Sud e l’Abkhazia. Restano i termini dell’accordo da raggiungere. Mosca insiste per una forte autonomia delle due enclave ribelli, e ha presentato diversi progetti di legge elettorale che dovrebbero mantenere in vita i governi separatisti. Poroshenko non può permettersi di dover accogliere i leader guerriglieri a Kiev come governatori legittimi delle due regioni dell’Est. Anche perché il margine di manovra del presidente ucraino, eletto due anni fa, si sta restringendo sempre di più. Due anni dopo la rivoluzione del Maidan la corruzione e lo strapotere degli oligarchi (tra cui lo stesso Poroshenko, un magnate del cioccolato e dei media) non sembra essersi ridotto, le riforme non sono partite mentre il prezzo economico della guerra è stato molto pesante. Nel Paese girano migliaia di reduci della «operazione antiterroristica» nel Donbass, delusi e amareggiati dal modo disastroso in cui è stata gestita la guerra. La loro fiducia nel governo, scrive il politologo ucraino Taras Kuzio sul «Financial Times», è pari a zero, e «disprezzano Poroshenko esattamente quanto Putin». Per loro Savchenko, che pochi giorni dopo la liberazione si è precipitata al fronte ad abbracciare i suoi ex compagni di armi, è un’eroina, e a Kiev molti percepiscono umori da golpe, con l’esercito e i militanti del Maidan
che vorrebbero «portare a termine la rivoluzione», come dice Savchenko. Paure forse esagerate, ma certamente Poroshenko è ai minimi della popolarità, grazie anche alle rivelazioni dei Panama Papers, mentre Yulia Timoshenko risale nei sondaggi. Il tempo gioca sia contro Poroshenko che contro Putin. A settembre si vota per la Duma, e lo scontento sociale sta aumentando. Il presidente russo deve far abolire, o almeno allentare le sanzioni, e anche se al G7 in Giappone si è già detto che per il momento non se ne parla, il vero punto di svolta arriverà a luglio, quando toccherà all’Ue decidere. La condizione posta dai 28 è l’adempimento da parte della Russia agli accordi di Minsk, e la liberazione di Savchenko è stata presentata da Mosca come un passo in questa direzione. Ora si tratta di trovare un accordo per l’ultima fase, dopo che i separatisti hanno già cancellato nei mesi scorsi le elezioni che volevano condurre secondo le loro regole, chiaramente sotto la pressione dei russi. Molti governi europei non aspettano che un minimo gesto di Mosca per allentare le sanzioni, in quanto subiscono anche la pressione degli ambienti imprenditoriali nazionali, ansiosi di ritrovare un mercato russo piegato dalla svalutazione del rublo e dalla recessione che, secondo i dati appena pubblicati dall’Ocse, sarà più profonda e lunga del previsto. Un accordo finale per il ritorno del Donbass all’Ucraina porrebbe fine probabilmente all’isolamento della Russia, ma paradossalmente metterebbe in difficoltà Poroshenko. L’Europa alle prese con la crisi, i migranti, il terrorismo, il Brexit, non vede l’ora di archiviare il dossier ucraino. In assenza della minaccia militare russa, Kiev teme di venire lasciata da sola con i suoi enormi problemi, proprio mentre la fase romantica della rivoluzione del Maidan sta lasciando il posto alla delusione e alla rabbia. La guerra con la Russia ha dato identità a una nazione ancora in divenire, la pace rischia di far riemergere tutti i suoi disagi irrisolti, con in più il ritorno di una regione, il Donbass, devastata dalla guerra e carica di odio verso Kiev, una ferita che impiegherà decenni a rimarginarsi.
Marcello Flores, Il genocidio degli armeni, Il Mulino 2015 Il massacro degli armeni ad opera dei turchi ottomani fu «genocidio». Questa la risoluzione approvata dal governo tedesco lo scorso 2 giugno. Una decisione che «comprometterà seriamente i rapporti tra i due Paesi», ha replicato il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Ma altri venti Paesi, tra i quali Francia e Russia, hanno già riconosciuto ufficialmente lo status di genocidio al massacro degli armeni. Dunque, il detto secondo cui «la storia è sempre contemporanea» non potrebbe essere più vero: il genocidio degli armeni, risalente a un secolo fa, è di assoluta attualità e fa parte del dibattito politico quotidiano. Più che un episodio storico, sembra un fatto di cronaca, si propone all’attenzione pubblica con un’intensità ed una carica emotiva impressionanti per fatti accaduti nel 1915. La seconda edizione del libro di Marcello Flores si apre quindi con le vicende della Turchia attuale, imprescindibile premessa alla storia del massacro. Tutto incomincia con un omicidio: il giornalista di nazionalità turca e di etnia armena Hrant Dink viene assassinato a Instanbul nel 2007. L’omicidio, scrive Flores, «fu una tragica testimonianza di quanto il nazionalismo potesse scatenare scelte certamente individuali ma non per questo immuni da una responsabilità pubblica diretta». Due anni prima della sua morte, Hrant Dink «era stato condannato a sei mesi di carcere per gli articoli scritti sul genocidio armeno, in base all’articolo 301 del codice penale turco che condanna, lasciando ampia discrezionalità ai giudici, ogni offesa all’identità turca». Sempre a causa dell’articolo 301, subito dopo la condanna di Hrant Dink, venne istruito il processo contro lo scrittore turco Ohran Pamuk. Il funerale di Hrant Dink vide «reazioni inattese», scrive Flores. Al funerale «partecipò una folla immensa di turchi, oltre duecentomila persone, per lo più giovani, che gridavano “io sono armeno” e “siamo tutti Hrant Dink”, segnalarono a un’opinione pubblica distratta quale fosse stato il percorso che la società civile turca aveva fatto in pochi anni, su un tema fino a poco prima considerato non solo tabù ma punito, se veniva affrontato, con la prigione per l’oltraggio all’identità turca». Qual è dunque la verità sull’eccidio armeno? Questo centenario è segnato in tutto l’Occidente dall’apparizione di una valanga di saggi storici, molti dei quali di dubbia qualità. Qualche anno fa, per esempio, «Azione» ricordò la vicenda di autori come Bernard Lewis (che da sempre invocano una più stretta vicinanza strategica degli Stati Uniti e di Israele alla Turchia), storici che continuano a rifiutare l’idea che il massacro degli armeni possa essere definito «genocidio». Dall’altra parte ci sono studiosi armeni come Vahakn N. Dadrian che denunciano un complotto genocida turco (e anche un più vasto complotto tedesco-ottomano) che comincia con i massacri del 1894-96 («una specie di test») e che si chiude con la tragedia del 1915. Il libro di Marcello Flores giunge alle seguenti conclusioni. Primo: la tragedia armena fu un genocidio e non un semplice massacro. Secondo: nonostante i drammatici precedenti non ci fu nessun complotto turco di lungo periodo per sterminare gli armeni. E, soprattutto, non ci fu nessun complotto tedesco-ottomano. Per il suo equilibrio, per la sua distanza da tesi pre-confezionate (Lewis e Dadrian) il libro di Marcello Flores si impone per il suo equilibrio e per la sua lontananza da interessi politici. Per chiunque sia interessato all’argomento questa è una pietra miliare.
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Politica e Economia
Mai più un’altra Chernobyl Green Cross Svizzera A trent’anni di distanza dal maggiore
Luca Beti Ci sono alcuni eventi storici che si conficcano nella memoria come paletti e a cui, a volte, ci orientiamo per misurare lo scorrere del tempo. Tra questi ci sono l’attacco alle torri gemelli a New York, il crollo del Muro di Berlino, la catastrofe nucleare di Chernobyl. Era il 26 aprile 1986. Trent’anni fa eppure sembra ieri. Mia madre al lavello della cucina puliva l’insalata dell’orto con una spazzola per grattar via ciò che non si vedeva e che allora, ancora bambino, era troppo complicato da capire. Oggi, a trent’anni di distanza, le conseguenze si conoscono. «Finora, la catastrofe nucleare di Chernobyl è costata in totale 700 miliardi di dollari statunitensi e oltre 10 milioni di persone sono state esposte alle radiazioni», ci dice Nathalie Gysi, direttrice di Green Cross Svizzera. Sono le cifre esposte in un recente rapporto svolto dall’organizzazione ambientalista elvetica in collaborazione con il professore Jonathan Samet dell’Università di Southern California. Per la prima volta vengono presentati i costi economici complessivi diretti e indiretti sostenuti negli ultimi 30 anni a seguito della tragedia di Chernobyl; un calcolo che permette di inquadrare il reale peso finanziario e sociale dell’energia nucleare. Green Cross International è stata fondata nel 1993 dal premio Nobel per la pace ed ex presidente dell’Unione sovietica Michail Gorbaciov. È la «Croce Verde dell’ambiente», un’organizzazione che sostiene le vittime degli incidenti industriali o chimici e che si adopera per risolvere i problemi ambientali internazionali. La sezione svizzera viene creata nel 1994. Più della tragedia di Chernobyl, a segnare il vissuto di Nathalie Gysi è stata però la catastrofe chimica di Schweizerhalle, nel cantone di Basilea Campagna. Il 1° novembre 1986, tonnellate di insetticidi, fungicidi ed erbicidi finiscono nel Reno, tracciando una scia di veleno che raggiunge l’Olanda e che causa la morte di oltre 150mila pesci e di molte altre specie animali. Ancora scolara, Gysi abita nei pressi della sede dell’azienda chimica Sandoz. «Mi sembra ancora di sentire l’odore acre che infestò la regione, l’ordine imperativo di serrare porte e finestre e il divieto di uscire di casa», ricorda la direttrice di Green Cross Svizzera. L’incendio a un deposito della Sandoz l’ha scossa profondamente, tanto che quando il politecnico federale di Zurigo crea la catte-
dra di scienze naturali e ambientali vi si iscrive. Se oggi il Reno è ritornato ad essere un fiume vivo, non si può dire la stessa cosa delle zone contaminate dalle radiazioni della catastrofe di Chernobyl. Nei dieci giorni seguenti l’esplosione del quarto reattore vengono liberate enormi quantità di sostanze radioattive nell’area. Le correnti ascensionali le portano a oltre 1500 metri di altezza. Queste ultime si diffondono poi su un ampio territorio, soprattutto sull’Ucraina, sulla Bielorussia, sulla Moldavia e sulla Russia, ma anche sulla Scandinavia, sulla Germania e su alcune zone dei Balcani. La nube contaminata raggiunge anche la Svizzera. Ed è soprattutto il canton Ticino ad essere toccato dalla radioattività a causa delle piogge cadute in quei giorni. Nel terreno a sud del Gottardo si misura un tasso di cesio-137 fino a 100 volte superiore a quello rilevato sull’Altopiano. Intanto, in Ucraina l’area a un raggio di 30 chilometri dalla centrale viene suddivisa in tre zone: la prima fino a 4-5 chilometri di distanza dall’impianto viene dichiarata chiusa poiché si prevede che sarà inabitabile per i prossimi 100-200 anni; la seconda a 5-10 chilometri sarà utilizzabile ma in maniera ridotta; la terza area comprende un territorio di 10-30 chilometri dal reattore dove in futuro la gente potrà tornare a vivere e a coltivare la terra. Fino ad oggi, dalle zone maggiormente colpite sono state evacuate oltre 100mila persone. In Bielorussia e in Ucraina, 3,7 milioni di abitanti vivono in zone contaminate; un terzo sono bambini. «Nel 1995, a un anno dalla fondazione di Green Cross Svizzera abbiamo organizzato le prime colonie terapeutiche per questi bambini e giovani», racconta la direttrice Nathalie Gysi. «In 25 anni, 20mila ragazze e ragazzi hanno trascorso quattro settimane in un ambiente incontaminato, riducendo così l’esposizione alle radiazioni dal 30 all’80 per cento e rafforzando il loro sistema immunitario e la loro salute mentale, grazie anche all’assistenza sanitaria di un team di medici». Per raggiungere un numero maggiore di persone, l’organizzazione ambientalista punta anche sull’auto-aiuto. Attraverso corsi sull’alimentazione, le madri imparano a cucinare in maniera corretta gli alimenti contaminati, un sapere che trasmettono ad altre mamme del villaggio. «Green Cross Svizzera assegna anche dei microcrediti per favorire l’imprenditorialità e la creazione di posti di lavoro nei territori inquinati, dove
si registra un tasso di disoccupazione del 50 per cento», illustra Gysi. Oltre all’impegno per migliorare le condizioni di vita degli abitanti delle zone contaminate, Green Cross Svizzera si batte affinché si rinunci a livello mondiale all’energia nucleare a favore delle fonti rinnovabili. Per Nathalie Gysi è imperativo spegnere tutte le centrali in Svizzera entro il 2030, senza considerare il loro ciclo di vita. «Per il momento non è possibile produrre energia atomica a rischio zero. In uno studio, l’ingegnere nucleare russo Vladimir Kusnetsow ha dimostrato che le probabilità di un incidente nucleare sono molto maggiori rispetto a quanto sostenuto finora, anche perché non sempre i gestori degli impianti rispettano le norme di sicurezza», sostiene la laureata in scienze naturali. Stando a un calcolo dell’Ufficio federale dell’energia, il costo complessivo dell’abbandono graduale dell’energia nucleare in Svizzera ammonterebbe a circa 40 miliardi di franchi fino al 2050, un importo volto a promuovere le misure di risparmio energetico, la realizzazione di impianti per la produzione di energie rinnovabili e lo sviluppo della rete di approvvigionamento elettrico. «Se calcoliamo che nel nostro Paese ci sono quasi 5 milioni di economie domestiche si giunge a un costo di quasi 250 franchi all’anno per nucleo familiare per i prossimi 34 anni. L’uscita dal nucleare è finanziariamente possibile. Non è invece sostenibile un’ulteriore catastrofe nucleare dopo quelle di Chernobyl o di Fukushima, che hanno messo a rischio la vita di circa 42 milioni di persone e i cui costi economici e sociali sono incalcolabili», conclude la direttrice di Green Cross Svizzera. Cresciuta vicino agli impianti chimici della Sandoz, Nathalie Gysi lotta anche a favore della decontaminazione dei luoghi inquinati da pesticidi, da piombo, mercurio, cromo o da sostanze radioattive. Su scala mondiale, circa 9 milioni di persone muoiono ogni anno a causa di questi inquinanti; è un numero di morti superiore a quello provocato dalla malaria, dall’AIDS o dalla tubercolosi. Una causa abbracciata ora anche dalla comunità internazionale. La riduzione degli inquinanti ambientali chimici o dei rifiuti tossici è stata inserita nell’Agenda 2030 per uno sviluppo sostenibile adottata il settembre scorso dagli Stati membri delle Nazioni Unite. Il testo definisce la rotta verso un mondo migliore. Una visione per cui Green Cross Svizzera si batte da 22 anni.
Bambini bielorussi provenienti da regioni contaminate dalle radiazioni emesse da Chernobyl in vacanza in Svizzera nel 2002. (Keystone)
Keystone
incidente atomico della storia civile, l’organizzazione ambientalista si batte per l’abbandono dell’energia nucleare a livello mondiale e sostiene le popolazioni colpite dalle radiazioni
Calcio milionario: Zurigo in purgatorio Sport ed economia La gestione di Canepa
ha fallito su più fronti e ha rischiato anche il tracollo finanziario. Il prezzo da pagare si è rivelato molto alto e avrebbe potuto esserlo ancora di più
Ignazio Bonoli La relegazione in «Challenge League» (l’ex-serie B) della blasonata squadra del Football Club Zurigo ha sollevato una ridda di commenti – soprattutto oltralpe – anche al di fuori del puro ambito sportivo. La delusione è tanto più profonda in quanto il tocco finale a questa mini-tragedia è stato dato proprio dal neo-promosso Football Club Lugano, che si è conquistato quel punticino necessario per rimanere in Super League. La risicata vittoria nella finale di Coppa svizzera ha consolato solo in parte le delusioni di un campionato disastroso. Sotto un certo aspetto però – ed è quello finanziario che qui ci interessa – la vittoria in Coppa è quanto mai benvenuta, poiché permetterà allo Zurigo di disputare la Coppa europea per squadre di club, che significa l’entrata nelle casse dello Zurigo di qualche benvenuto milione di euro. Cosa nella quale sperava ovviamente anche il presidente del Lugano, il quale aveva già affondato il dito nella piaga dicendo «Noi ci salviamo con un budget di 100’000 franchi». Ben lontano quindi dalle disponibilità di uno Zurigo retto e diretto dai coniugi Ancillo ed Heliane Canepa (nella foto). I circa 30 milioni di franchi che i Canepa hanno investito nel FC Zurigo sono già scomparsi e l’avventura è costata anche il posto di manager della Nobel-Biocare alla moglie Heliane, la cui sostituzione era già prevista nel 2006. Sennonché, pochi giorni prima della decisione di sostituirla – scrive in proposito la «Handelszeitung» – il «Financial Times» classificava Heliane Canepa fra le 25 più importanti manager femminili d’Europa. Al che il Consiglio d’amministrazione, con alla testa Rolf Soiron, dovette rinviare l’operazione. Un anno dopo però la classifica del «Financial Times» era già dimenticata e la sostituzione di Heliane Canepa poté avvenire. L’operazione (o meglio la sua preparazione) non era nota al pubblico, ma al momento dell’annuncio il titolo della Nobel-Biocare subì un tracollo. La famiglia Canepa perdeva così la fonte di finanziamento che aveva permesso spese da capogiro per il FC Zurigo. I Canepa rivolsero quindi tutte le loro attenzioni alla società calcistica: il marito rimase presidente, membro della direzione e anche direttore sportivo, mentre la moglie, che è la maggior sostenitrice finanziaria del Club, entrava
nel Consiglio d’amministrazione, di cui diventava delegato, e membro della direzione. Durante i sette anni alla testa di Nobel-Biocare, Heliane Canepa ricevette uno stipendio di 15 milioni di franchi. Acquistò 320’000 azioni della Medtech, che valevano, nel 2006, 120 milioni di franchi, e venne perfino inserita nella lista dei più ricchi in Svizzera di «Bilanz». Vendette i titoli in un momento di difficoltà, recuperando ancora 70 milioni, mentre il suo investimento iniziale – con l’aiuto di una banca – era stato di 10 milioni. Ma a Zurigo, nel 2016, a causa delle pessime prestazioni della squadra, il pubblico è calato del 12% e sono mancati gli introiti delle Coppe europee. Secondo i calcoli della «Handelszeitung» ai Canepa dovrebbero rimanere ancora una quarantina di milioni. Con iniezioni regolari di capitali dovrebbero ora possedere il 90% del capitale del FC Zurigo. Il Club dei sostenitori sarebbe ormai scomparso e, grazie alle cessioni di giocatori, si sarebbe coperto un deficit strutturale di 4 o 5 milioni. Una situazione che ha permesso ad Ancillo Canepa, dopo la vittoria in Coppa svizzera, di non dar retta ai più accaniti tifosi che ne chiedevano le dimissioni. I principali errori che gli si rimproverano sono quelli di non essersi dotato di una struttura interna efficiente per una società che vuole primeggiare in Svizzera e farsi vedere anche nelle Coppe europee. Un settore che ormai non può più far a meno di professionisti con buona esperienza, sia nel campo organizzativo e finanziario, sia in quello sportivo. Per salvare le finanze, Canepa ha venduto giocatori che avrebbero fatto la forza dello Zurigo. Di questo ha sofferto molto anche il settore giovanile che finora era stato uno dei pilastri della squadra, utile tanto sul piano sportivo, quanto su quello finanziario. Un grosso errore è giudicata anche la cessione di Armando Sadiku (ex-Locarno e Lugano) al Vaduz. Sadiku non soltanto ha contribuito a salvare il Vaduz, ma anche indirettamente a condannare lo Zurigo. Riassumendo: strategia non ben definita, politica del personale senza visioni, conoscenze specifiche insufficienti, decisioni troppo emotive. Effettivamente quello che viene anche chiamato a Zurigo il «Football Club Canepa» così non può continuare. A dimostrazione che anche in Svizzera una società sportiva di professionisti deve essere gestita da professionisti. Un esempio su tutti il Basilea, eterno rivale proprio dello Zurigo.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 13 giugno 2016 ¶ N. 24
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 13 giugno 2016 ¶ N. 24
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Politica e Economia
Politica e Economia
Un settore cardine Il peso del turismo – 1 Gli autori dello studio secondo cui
in Ticino il comparto ha un valore paragonabile al 10% del PIL cantonale replicano all’articolo di «Azione» del 9 maggio Un valore paragonabile a quasi il 10% del prodotto interno lordo (PIL) del canton Ticino è generato dall’attività turistica sia in maniera diretta che indiretta. È quanto emerge dallo studio Impatto economico del turismo in Ticino che la nostra società, Rütter Soceco AG, unitamente alle ditte tiresia e Line@ soft, ha condotto sulla base di un modello già usato in diversi altri cantoni e regioni per determinare il peso del settore turistico. La metodologia utilizzata in Ticino permette perciò un confronto fra i diversi studi nazionali, ma anche internazionali (si vedano per esempio gli studi pubblicati dal World Travel & Tourism Council, WTTC, che prendono in considerazione l’impatto dell’attività turistica per diversi Paesi). Se, in generale, in un sistema economico, la somma del valore aggiunto (valore della produzione meno il valore dei beni intermedi) generato da ogni ramo economico determina il valore del PIL dello stesso sistema economico (per esempio per la Svizzera o per il canton Ticino), l’attività turistica non è classificata in uno specifico ramo economico, come lo è per esempio il ramo delle costruzioni/edilizia. Il carattere economico dell’attività turistica è considerato come trasversale in quanto va ad impattare, tramite la sua funzione di «causa», un numero rilevante di rami economici specifici (si pensi per esempio ai ristoranti, agli alberghi, agli impianti di risalita, ma anche al commercio al dettaglio o all’ingrosso, ecc. ecc.). Come si può ben capire, il processo economico messo in atto dall’attività turistica ha sia un effetto diretto a rete che anche un effetto indiretto a catena. Nel primo caso il processo economico inizia con la spesa diretta del turista in diversi rami economici (rete), per esempio un pernottamento in un albergo, un acquisto di 3 bottiglie di vino, e via di seguito. Nel secondo caso la spesa iniziale del turista si propaga poi anche ad altri rami economici (catena): la spesa del pernottamento nell’albergo avrà ricadute anche sui fornitori dell’albergo medesimo, in quanto esso dovrà acquistare dei beni alimentari per la colazione, pagare il giardiniere per la manutenzione del giardino, eccetera. Data questa funzione trasversale dell’attività turistica, il calcolo dell’impatto economico non è quindi un mero esercizio contabile, ma ha una funzione economica molto più ampia. Nello studio in questione sono state valutate tre tipologie di effetti economici generati dall’attività turistica: gli effetti diretti (che derivano dalla spesa diretta del turismo in vari rami economici), gli effetti indiretti (che derivano dall’acquisto di beni intermedi da parte delle aziende che hanno a che vedere con il turismo) e gli effetti indotti (che derivano dalla spesa di una quota dei salari e dei profitti da parte delle persone e aziende che hanno fornito un bene o un servizio all’attività turistica). L’effetto diretto è praticamente la quota di valore aggiunto generato dall’attività turistica in maniera diretta, cioè tramite la spesa del turista (circa 1,3 miliardi di franchi nel canton Ticino). Gli altri due effetti sono invece generati in maniera indiretta dall’attività turistica (circa 700 milioni di franchi). Nel primo caso si può perciò parlare di apporto al valore del PIL da parte dell’attività turistica. Nel secondo caso il valore aggiunto generato dall’attività turistica non va ad aumentare il PIL in quanto tale valore è già compreso nel valore aggiunto generato dai diversi rami economici. Se però l’attività turistica non ci fosse stata, in questi rami economici il valore aggiunto sarebbe stato inferiore e di conseguenza, essendo un’attività trasversale,
Eppure si continua a calcolare in doppio... Il peso del turismo – 2 La contro-replica: è
sbagliato sommare impatto diretto e indiretto, il PIL non può superare il 100 per cento
re il lavoro una volta sola. E quando in seguito scompaiono anche le banche, non possiamo trascurare che in realtà già avevano perso cifra d’affari quando sono scomparsi il turismo e poi l’edilizia: e alcuni bancari li abbiamo già contati due volte prima di questo stadio. Se è lecito calcolare gli effetti indiretti, è necessaria una enorme cautela nell’interpretare il risultato. Ed è proprio questa prudenza che manca nelle rivendicazioni secondo cui il turismo crea quasi il 10% del PIL ticinese. E que-
sto vale non solo per il turismo, ma per tutti i settori: di tutti si possono calcolare gli effetti indiretti, ma cosa diremmo se le banche, nell’esempio citato, rivendicassero il 12% del PIL anziché il 7% attribuito loro dall’Ufficio di Statistica? E se lo stesso facessero l’edilizia, gli ottici, i calzolai e tutti gli altri settori economici, portando il totale del PIL cantonale al 150% del PIL? Il mio articolo diceva proprio questo: se vogliamo comparare il peso del turismo a quello di altre attività economiche,
le dobbiamo porre tutte sul medesimo piano, stando attenti a calcolare tutto una volta e una volta sola, limitandoci cioè agli effetti diretti per non rischiare di includere alcune cose più e più volte. Non è dunque per nulla una questione contabile (anche se le norme contabili vanno comunque rispettate): è un requisito minimo per uno studio del significato economico del turismo (così come di qualunque altro settore economico) nelle sue interrelazioni con il resto dell’economia. / Daniele Besomi
Il riparto PIL ticinese Ramo di attività
Valore aggiunto, in milioni
Agricoltura, selvicoltura, pesca
Ogni turista porta anche introiti ad altre attività economiche. (Keystone)
una parte del valore aggiunto generato nei vari rami economici va a beneficio dell’attività turistica. In altre parole, continuando con l’esempio del pernottamento in un albergo: il turista che pernotta in un albergo aumenterà il fatturato del ramo economico «servizi di alloggio» e quindi una parte di questa spesa incrementerà il valore aggiunto di questo specifico ramo economico (tramite l’effetto diretto). A sua volta, l’albergo in questione si rivolgerà ad altre aziende attive in altri rami economici per far funzionare la sua attività (panetteria, giardiniere, impianti sanitari, manutenzione della piscina o del centro wellness, ecc.). Tutte queste aziende riceveranno perciò un reddito che deriva dall’attività turistica (se non ci fosse stato il turista nell’albergo queste aziende avrebbero perso una loro quota di fatturato in quanto l’albergo non avrebbe commissionato alcun lavoro). Naturalmente è vero che il valore aggiunto generato nel ramo economico degli idraulici è calcolato nel PIL come valore aggiunto generato dagli idraulici, ma se non vi fosse stata alcuna attività turistica, una parte del fatturato dell’idraulico verrebbe a mancare e di conseguenza anche il suo contributo al valore aggiunto del PIL sarebbe diminuito. Per questo motivo a livello economico (e non contabile) questo valore va ad iscriversi all’attività turistica che l’ha generato. L’attività del turismo va perciò vista da un’ottica della spesa e non tanto dall’ottica della produzione. Ma facciamo un altro esempio. Ammettiamo, ipotesi che non si verificherà, che nel 2017 tutto il ramo dell’edilizia privata andrà in crisi e in Ticino non sarà costruito alcun edificio. Cosa succederà al PIL cantonale? Sicuramente tutto il valore aggiunto generato dal ramo economico dell’edilizia privata verrebbe a mancare come valore aggiunto al PIL, ma oltre a ciò si perderanno dei valori anche in altri rami economici (pensiamo per esempio alle attività estrattive, agli idraulici, agli elettricisti, ecc.). In altre parole la perdita di valore del PIL sarà maggiore rispetto alla sola perdita del valore generata dal blocco delle costruzioni. Un esempio di non poco conto per il canton Ticino è quello delle banche: una diminuzione dell’attività delle banche a livello cantonale non ha ridotto soltanto il valore aggiunto all’interno del suo ramo economico, ma ha avuto un impatto negativo anche in altri rami economici che avevano a che fare direttamente con le banche (pensiamo per esempio alla sola diminuzione del gettito fiscale che è venuta a mancare in alcuni comuni e anche al cantone). Un cambiamento della spesa turistica, data la sua trasversalità eco-
nomica, interessa perciò molti rami economici all’interno di un sistema economico ed è proprio questo ad essere rilevante. Si tratta di una visione economica e non contabile ed è appunto la visione economica che dovrebbe interessare gli operatori del settore. Gli effetti diretti e quelli indiretti sul valore aggiunto, così come sull’occupazione, sono stati calcolati con l’ausilio di un modello d’impatto regionalizzato, che si basa sulla tabella input-output (IOT) della Svizzera e che permette di determinare i consumi intermedi, gli investimenti così come gli effetti di reddito (tramite la spesa di consumo). Oltre a ciò, nel modello, sono stati considerati sia gli effetti generati dalla domanda interregionale (effetti inter-regionali), sia il consumo intermedio (beni e servizi) effettuati dalle aziende ticinesi al di fuori dal cantone. In totale sono state intervistate oltre 18’000 persone tra turisti e residenti e circa 3500 proprietari di residenze secondarie. Per avere un ulteriore controllo sull’esattezza dei dati, sono state interpellate anche un migliaio di aziende. Non da ultimo, la definizione di turista che è stata utilizzata nello studio è applicata anche a livello internazionale (si vedano per esempio altri studi in altre nazioni) ed è il risultato di una definizione proposta dall’United Nations World Tourism Organization. Nel canton Ticino, è dunque corretto affermare che il turismo riveste un ruolo economico importante situandosi sopra il valore medio nazionale: in Ticino l’attività turistica genera direttamente e indirettamente un valore che è paragonabile al 9,6% del valore del PIL cantonale e un impatto del 12,0% sul totale dell’occupazione (ETP). Altrimenti detto, se tutta l’attività turistica nel canton Ticino venisse a mancare, la diminuzione del PIL sarebbe di circa 2 miliardi di franchi. Queste cifre, che sono superiori a quelle valutate per i cantoni di Berna e Vaud (9% occupazione e 7% valore aggiunto lordo), risultano però inferiori rispetto a quelle scaturite dall’analisi dei maggiori cantoni turistici della Svizzera, Grigioni e Vallese. In questi due cantoni, l’attività turistica riveste un ruolo ancora più importante rispetto a quella del Ticino e le percentuali sull’occupazione e sul valore aggiunto lo dimostrano: 30% nei Grigioni e circa il 25% nel Vallese. Per citare anche un paragone internazionale, per il 2015 il WTTC ha stimato un valore diretto dell’attività turistica in Italia del 4,2% del PIL che diventa del 10,2% se si aggiungono gli effetti indiretti e indotti dall’attività turistica (il 10,2% rappresenta il contributo totale dell’attività turistica alla creazione di valore aggiunto). / Consorzio Impac_Ti, Ursula Rütter
L’articolo a fianco, pur non dichiarandolo esplicitamente, è una replica ad un mio precedente articolo per «Azione» (9 maggio 2015). Non mi sembra tuttavia che risponda alla questione fondamentale, vale a dire: rivendicando come misura del peso del turismo nell’economia cantonale i suoi effetti diretti e indiretti, senza fare lo stesso anche per gli altri settori dell’economia cantonale, si privilegia il turismo senza motivo calcolando a suo beneficio le medesime cose più volte. Una premessa, prima di entrare nel dettaglio. I lettori di lunga data di «Azione» ricorderanno che il sottoscritto ha chiesto più volte a partire dal 2003 che il cantone facesse effettuare uno studio di impatto turistico con le metodologie correnti (si vedano gli articoli raccolti qui: http://www.danielebesomi.ch/turismo/articoli), e credo che la mia insistenza abbia un certo merito nell’aver fatto finalmente eseguire lo studio. Non ho nessun dubbio sulla competenza degli autori nel calcolare l’effetto diretto e indiretto del turismo sul PIL. Tuttavia ho due obiezioni al risultato come riassunto dalle due sole cifre relative all’impatto diretto + indiretto + indotto in termini di valore aggiunto e occupazione paragonati al totale di PIL e di posti di lavoro. La prima obiezione riguarda ciò che si è incluso. Anche se nel pieno rispetto delle regole metodologiche, nessuna persona sana di mente considererebbe parte dell’impatto turistico, come effetto economico concreto, il valore locativo delle «case secondarie ad uso proprio o gratuito». Si tratta di 334 milioni di franchi, dunque una fetta rilevante (oltre 25%) del totale: soldi che nessuno paga a sé stesso (se fa della casa un uso proprio) o chiede agli amici (essendone l’uso gratuito), quindi sono soldi che semplicemente non esistono, se non nei libri contabili. O nessuno considererebbe «turista» un abitante di Olivone che si recasse a Micasa ad acquistare un divano o a Lugano per un intervento chirurgico: eppure, per la definizione adottata (su indicazione delle Nazioni Unite), questo è classificato come turismo dello shopping e turismo medico. Se qualcuno volesse vantare i benefici del turismo in questo cantone, o anche solo capirne la funzione economica, dovrebbe rendersi conto che per svolgere un ragionamento corretto (senza il quale si può arrivare alle conclusioni più assurde) queste grandezze vanno depennate dal totale. La seconda ragione è metodologica, e nasce proprio portando a termine il ragionamento iniziato, ma non concluso, nell’articolo a fianco. Seguiamo l’argomentazione: se scomparisse il turismo, scomparirebbero anche tutte le attività dei fornitori delle imprese tu-
ristiche. Quindi l’effetto sarebbe maggiore di quello calcolato direttamente. Vero? Certo (anche se occorre ricordare – cosa che il ragionamento tramite le tavole input-output esclude dalle sue premesse – che liberando del capitale questo troverebbe usi alternativi. Per cui non ha molto senso ragionare in termini di scomparsa di un’intera attività produttiva come se non comportasse altri effetti). Allo stesso modo, se scomparisse l’edilizia l’effetto sarebbe maggiore di quello diretto. E lo stesso vale per le banche, continua l’articolo. E fin qui, se si ragiona settore per settore, o insieme di attività per insieme di attività, il ragionamento apparentemente fila. Ma non c’è nessuna ragione di non estendere esattamente il medesimo ragionamento a tutti i settori di attività. Dunque: il turismo pesa direttamente il 6% del PIL, cui dobbiamo aggiungere il 4% di effetti indiretti. Le banche (con le assicurazioni) pesano circa il 7% del PIL (dati sul PIL cantonale 2013), cui aggiungiamo un altro 5% di effetti indiretti (per fare un esempio). E l’edilizia contribuisce a creare un altro 7% del PIL direttamente, aggiungiamo un altro 6% di effetti indiretti (sempre per esemplificare). Facciamo la medesima operazione per tutti i rami di attività, come illustrato nella tabella. Se sommiamo tutti gli effetti diretti, il totale sarà il 100% del PIL: la ricchezza complessiva è la somma di quella prodotta da ciascun settore. Si può anche ragionare, come si fa nell’articolo a fianco, in termini di scomparsa dei settori: niente attività economiche, niente produzione e niente ricchezza. Ma se sommiamo anche gli effetti indiretti, il totale sarà maggiore del 100%, e di parecchio (150%, nell’esempio). È ora evidente che c’è un problema nella costruzione logica: se perdessimo tutte le attività economiche perderemmo tutto il PIL, ma non certo un PIL e mezzo! L’idea di «percentuale» qui perde completamente senso: il totale non vale più 100, ma 150. Questa non è una questione contabile, ma va al cuore della funzione economica delle varie attività produttive. La fallacia del ragionamento nasce dal fatto che le attività economiche sono interdipendenti. Supponiamo, seguendo l’articolo a fianco, che il turismo scompaia; con esso scomparirebbero, come indicato, tutte le attività dei fornitori (impatto indiretto). Tra i quali anche i muratori che riparano le case secondarie dei turisti, e pure i produttori di materiali per l’edilizia che hanno venduto loro cemento e di mattoni. Supponiamo che poi scompaia l’edilizia: non possiamo contare ancora una volta i medesimi muratori e fabbricanti di laterizi tra le vittime: li abbiamo già calcolati una volta, e possono perde-
Riparto percentuale
Peso accresciuto dagli effetti indiretti (esempio)
83
0,3
0,5
Industrie estrattive, manifattura, costruzioni
6968
26,1
37,0
Energia, insegnamento, salute
2610
9,8
16,0
Commercio e riparazioni di veicoli, trasporti, alloggio e ristorazione, informazione e comunicazioni
7195
26,9
40,5
Attività finanziarie e assicurazioni
1889
7,1
12,0
Attività immobiliari, scientifiche, tecniche, amministrative, culturali, ricreative, altri servizi
3204
12,0
18,0
Pubblica amministrazione
2222
8,3
12,0
Famiglie in quanto produttori
2532
9,5
14,0
26’701
100,0
150,0
TOTALE
Il PIL cantonale per il 2013, 26,7 miliardi di franchi, grezzamente scomposto in 8 rami di attività (dati UST). Il turismo non figura: si trova, per la sua trasversalità, in parte sotto trasporti, ristorazione, alloggio, cultura e ricreazione, ecc. La terza colonna riporta la ripartizione percentuale dei vari settori, cioè il loro peso economico. L’ultima colonna aumenta il peso diretto per includere quello indiretto, esprimendolo in «percentuale» come fatto da nell’articolo a fianco (i numeri sono ipotetici, semplicemente per illustrare il ragionamento). Fonte: Ufficio federale di statistica.
Se contassimo anche gli effetti indiretti, l’edilizia inciderebbe sul PIL in ragione del 37 per cento. (Keystone) Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 13 giugno 2016 ¶ N. 24
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Politica e Economia
Donald Trump & Co. – il comune denominatore dei voti di protesta La consulenza della Banca Migros Albert Steck La globalizzazione e la rivoluzione digitale stravolgono il nostro mondo del lavoro. Gli stipendi sono sotto pressione. Milioni di impieghi vengono delocalizzati. Ciò offre un terreno fertile alla diffusione di idee politiche radicali. Ma proprio la Svizzera è un esempio di come superare la trasformazione economica.
Albert Steck è responsabile delle analisi di mercato e dei prodotti presso la Banca Migros
Apple, Google, Microsoft e Facebook: le quattro società hanno totalizzato uno strepitoso utile annuo di 85 miliardi di dollari. Il loro bilancio è molto meno brillante quando si tratta di creare posti di lavoro: i quattro giganti della tecnologia occupano soltanto 300’000 dipendenti. Guardiamo al passato: alla fine degli anni 70 il primo gruppo industriale al mondo in termini di valore era General Motors. Il costruttore automobilistico occupava una schiera di 850’000 persone che generavano un utile annuo di 3 miliardi di dollari. Dal raffronto emerge un’evoluzione preoccupante: gli attuali gruppi lavorano in modo enormemente redditizio, ma hanno bisogno di sempre meno personale. Questa tendenza si rivela chiaramente anche nei dati macroeconomici: nella maggior parte dei Paesi la cosiddetta quota salariale (la quota delle retribuzioni sul reddito totale) ha subito un crollo (v. grafico), soprattutto per due motivi: con la globalizzazione i grandi gruppi industriali hanno sempre più delocalizzato la propria produzione per risparmiare costi. Sui mercati emer-
Tempi più duri per i lavoratori
% % %
Svizzera
USA
Francia
Italia
Germania
La quota delle retribuzioni sul reddito totale retrocede quasi in tutti i paesi. La Svizzera rappresenta una rara eccezione. (Dati: Ameco/KOF)
genti hanno potuto attingere a un’enorme riserva di manodopera a basso costo. A ciò si aggiunge la rivoluzione digitale, che fa sparire molte professioni diffuse. Questo terremoto che si è abbattuto sul mondo del lavoro spiega in gran parte perché i politici e i partiti affermati perdono voti in molti Paesi, mentre conquistano popolarità le voci radicali, come quelle di Donald Trump, Marine Le Pen, Beppe Grillo o Alexis Tsipras.
Ma neppure loro possono cancellare con un colpo di spugna la globalizzazione o il rapidissimo sviluppo tecnologico. A questo punto è interessante notare che in Svizzera si è riusciti da decenni a mantenere molto stabile la quota salariale (v. grafico). Esistono dunque modi e mezzi per salvaguardare lo status acquisito dai lavoratori nonostante la trasformazione economica. Un fattore determinante è l’eccellente sistema
formativo della Svizzera: la manodopera molto qualificata è difficile da sostituire con l’outsourcing e i robot. Ma il nostro Paese offre anche un quadro economico stabile, che in ultima istanza è più utile ai lavoratori delle radicali ostentazioni di forza – anche se in teoria possono sembrare allettanti. Dibattito su blog.bancamigros.ch: che cosa pensate dell’evoluzione della quota salariale? Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Ticino, meno disoccupazione perché i giovani emigrano? Un paio di settimane fa avevo discusso il curioso fenomeno del rapido riavvicinamento dei tassi di disoccupazione ticinese e svizzero, manifestatosi dopo l’abbandono da parte della Banca nazionale svizzera della soglia minima per il cambio con l’euro. Dopo aver parlato delle possibili spiegazioni di questa tendenza avevo concluso che, per il momento, il quesito restava aperto. Avevo presentato e commentato tre ipotesi di spiegazione. La prima sosteneva che, durante il 2015, i datori di lavoro avrebbero modificato la loro politica di assunzione privilegiando la manodopera residente. La si può scartare perché il contingente di frontalieri è aumentato anche l’anno scorso, anche se a un tasso più contenuto. La seconda accennava alla possibilità che il ciclo congiunturale ticinese sia in ritardo rispetto
a quello svizzero, di modo che gli effetti dell’abbandono della soglia minima con l’euro sulla disoccupazione non si erano ancora fatti sentire fin qui nella medesima misura che nel resto della Svizzera. Si tratta di una spiegazione che dovrebbe essere verificata. Stando alla terza ipotesi la disoccupazione in Ticino non era aumentata perché i rami della nostra economia sono più orientati verso il mercato interno, non toccato dal rincaro del franco, rispetto a quelli dell’economia svizzera in generale. Anche questa ipotesi resta da verificare. Elio Venturelli, che è stato per un lungo periodo di tempo direttore dell’USTAT, mi ha ora sottoposto una quarta ipotesi, che pure dovrebbe essere accertata. Secondo lui la diminuzione del tasso di disoccupazione ticinese, realizzatasi negli
scorsi 16 mesi è dovuta soprattutto alla diminuzione della disoccupazione giovanile. A sua volta questa diminuzione è la conseguenza di un forte aumento dell’emigrazione di giovani ticinesi verso i mercati del lavoro del resto della Svizzera. La statistica sulla disoccupazione conferma che nel 2015 (non ci sono dati mensili sulla disoccupazione per classi di età) la diminuzione della disoccupazione in Ticino è stata largamente influenzata dalla disoccupazione nella classe di lavoratori con meno di 30 anni. Questi, che rappresentavano nel 2014 il 25,9%, hanno infatti contribuito per il 44,8% alla diminuzione complessiva della disoccupazione realizzata nel corso dello scorso anno. In questa classe di lavoratori il tasso di diminuzione della disoccupazione è stato così dell’8,5%, mentre per i lavorato-
ri con 30 e più anni la diminuzione non è stata che del 3,7%. L’anno precedente, cioè nel 2014, i tassi di diminuzione della disoccupazione erano molto più vicini: –6,8% per i disoccupati con meno di 30 anni, –6% per quelli con 30 e più anni. Da questo punto di vista l’ipotesi di Venturelli non fa una grinza: l’accelerazione nella diminuzione della disoccupazione, realizzatasi nel 2015, è dovuta soprattutto alla diminuzione di quella giovanile. Questa constatazione dovrebbe rallegrarci perché se la disoccupazione giovanile diminuisce vuol dire che si sta risolvendo uno dei maggiori problemi del nostro mercato del lavoro. Ma Venturelli suggerisce che la diminuzione in questione sia dovuta praticamente solo all’aumento dell’emigrazione giovanile. Secondo lui, i giovani ticinesi, non
trovando una sistemazione in casa, sono costretti a emigrare per trovare un posto di lavoro o per continuare gli studi. In pubblicazioni recenti, Venturelli ha dimostrato che, nel corso degli ultimi 25 anni, il saldo migratorio degli svizzeri residenti in Ticino che, fino ad allora era largamente positivo, è diventato negativo. Anzi, dopo la crisi del 2009, il saldo negativo è addirittura raddoppiato. I dati disponibili descrivono purtroppo solo l’evoluzione fino al 2014. Ma la tendenza del saldo migratorio negativo dei giovani svizzeri residenti in Ticino è indubbiamente verso l’aumento. Se, nel 2015, questo saldo fosse peggiorato in misura significativa non c’è dubbio che l’ipotesi di Venturelli riceverebbe conferma. L’ultima parola spetta ora agli esperti del movimento della popolazione dell’USTAT.
mo lo Stato islamico, poi vedremo. Lo stesso schema vale anche a Fallujah: non importa chi siano gli alleati, quel che conta è espugnare la città e rosicchiare terreno allo Stato islamico. Ma qui la situazione è più complicata, per quanto i livelli di complicazione siano sempre piuttosto arbitrari: a guidare l’offensiva di Fallujah sono gli iraniani. Ora, non è la prima volta che gli americani si ritrovano alleati di fatto dell’Iran nella lotta al jihadismo di al Baghdadi, anzi questa collaborazione, mai esplicita, ha scandito molte azioni sul campo negli ultimi anni. I sauditi da tempo si lamentano con Washington per questa cooperazione, perché sanno – e lo sa anche l’Amministrazione Obama – che gli iraniani non lasceranno il terreno conquistato: la loro è un’opa sull’Iraq. Non è un caso che a farsi fotografare nella «war room» a Fallujah sia stato Qassem Suleimani, il generale iraniano che guida le forze
al Quds, che hanno come obiettivo primario l’espansione del potere iraniano-sciita nella regione. Suleimani ha deciso la strategia a Fallujah e l’esercito iracheno, mandato dal premier sciita al Abadi, risponde se pure non in modo ufficiale ai suoi ordini. L’opa infatti non è soltanto militare, è anche politica, e parte dalla garanzia che a Baghdad ci sia un governo che si attenga alle disposizioni iraniane più che a quelle di chiunque altro (e per chiunque altro s’intende in particolare l’America). Al momento l’accordo regge bene, ma la preoccupazione occidentale aumenta. Il «Wall Street Journal» ha pubblicato di recente un ritratto strepitoso di Abu Mahdi al Mohandes, «l’ingegnere» leader delle Popular Mobilization Forces (Pmf), l’esercito sciita parallelo a quello ufficiale di Baghdad: il racconto della sua vita spiega tutto. Dieci anni fa, gli americani cercarono a lungo l’ingegnere, che era già stato con-
dannato a morte in absentia da una corte del Kuwait che gli imputava la responsabilità degli attentati alle ambasciate americane e francesi negli anni Ottanta: l’ingegnere è nella lista del terrorismo di Washington. La sua è una storia di fughe dall’Iraq ai tempi di Saddam, di guerriglie contro gli americani, di esili più o meno forzati in Iran, nell’attesa del momento buono per tornare. Oggi l’ingegnere è una delle persone più importanti nella ripresa di Fallujah, si fa fotografare con Suleimani, e non scappa più. Anzi, gli americani hanno bisogno di lui. Gli abitanti di Fallujah, a prevalenza sunnita, non sanno più se restare fermi e rischiare di morire per mano dello Stato islamico sia peggio che aspettare la liberazione degli sciiti, che minacciano di far fuori tutti i sunniti che incontrano sulla loro strada. Ma per ora la loro paura resta inascoltata: combattiamo, cacciamo indietro il Califfato, poi vedremo.
dole infiltrazioni del nazi-fascismo. Zaugg si sofferma sull’inf luenza del nonno, Eduard, pastore protestante, germanofilo, fautore – alla vigilia della prima guerra mondiale – di un avvicinamento della Svizzera neutrale al grande Reich di Guglielmo II. Esplora poi una galleria di personaggi, politici storici letterati giuristi, che hanno scolpito nella roccia probabilmente il monumento al carattere elvetico («Schweizertum») più solido e duraturo: la difesa spirituale, un vallo granitico che esaltava il legame tra l’esercito e la società civile, tra l’élite politicoeconomica e i ceti subalterni (pace del lavoro), tra il popolo e gli intellettuali. Un dispositivo coordinato, imperniato su una concezione «organica» della vita collettiva che sopravvisse anche nel secondo dopoguerra, negli anni della contrapposizione Usa-Urss e della contestazione studentesca. È scendendo da questi rami che al principio degli anni 90, all’epoca
della votazione sullo Spazio economico europeo, il nazionalismo alpino riprese vigore per poi lanciarsi alla conquista del potere centrale. Il passaggio dal trattato di Maastricht (1992-93) all’introduzione della moneta unica (2002) permise alla «nuova Udc» guidata da Blocher di abbandonare lo spazio mediano (quel «centro» che nel nome tedesco del partito neppure è menzionato) per scivolare verso i bordi estremi dello schieramento. Un partito dunque non più moderato ma estremista, radicale, aggressivo nei metodi ma conservatore negli obiettivi. Per il saggista romando François Cherix, l’Udc è riuscita a colonizzare l’immaginario della maggioranza silenziosa attraverso campagne fondate sulla psicosi più che sul raziocinio. Qui sauvera la Suisse du populisme?, si chiede Cherix nel suo ultimo volume, edito da Slatkine (Ginevra). Già, chi la salverà? Per Cherix, autore qui di una diagnosi impietosa sui «senti-
menti politici della nazione», nessuna formazione concorrente è oggi in grado di opporsi con successo all’Udc. Non lo sono i partiti di centro, liberali e democristiani: troppo timidi e a fasi alterne addirittura sedotti dalle sirene nazional-populiste; non lo è il movimento socialista, forza non più percepita come fattore antagonista. Ancora meno combattivi appaiono i mass-media, molti dei quali al soldo dei nuovi poteri «xenofobi ed eurofobi», e il mondo intellettuale, frantumato al suo interno e spesso incapace di mobilitare il grande pubblico. Solo un ritorno alla ragione potrebbe, secondo Cherix, riportare la Svizzera nell’alveo delle sue tradizioni migliori, sociali e umanitarie, attente ai deboli, alle minoranze e al destino delle aree periferiche. Un programma che ricorda l’«Italia civile» propugnata da Norberto Bobbio negli anni in cui nella Penisola imperversavano la demagogia e il malgoverno.
Affari Esteri di Paola Peduzzi A Fallujah entra in gioco l’Iran L’offensiva occidentale contro lo Stato islamico si sta concentrando su due fronti: Raqqa, la «capitale» siriana del califfato, e Fallujah, città-simbolo dell’Iraq che negli anni Duemila è diventata una misura dell’andamento delle guerre al terrorismo. A Raqqa, gli americani non hanno fatto mistero del loro coinvolgimento: è la prima volta da quando è stata creata la coalizione internazionale anti Stato islamico (s’intende quella a guida occidentale, l’altra è quella a guida russa: la collaborazione tra le due è più una fantasia che altro) che Washington vuole mostrare la sua presenza, al punto che sono circolate foto di testimonianza. Qui – nei villaggi al nord di Raqqa, ancora si è lontani dalla città – gli americani combattono assieme ai curdi, anche se i turchi sono furiosi, perché li considerano dei terroristi – e anche gli americani contano il Pkk curdo nella loro lista del terrorismo. Dopo tante distin-
zioni e cautele, l’Amministrazione Obama ha deciso, o almeno così pare, di non occuparsi delle rimostranze locali e di fare qualcosa di decisivo contro quello Stato islamico che gli esperti descrivono molto indebolito (ma aggiungono: se dovesse crollare, si riformerà con un altro abito, non pensiate che sia possibile sconfiggere del tutto e per sempre questo jihadismo). Alle alleanze insomma si penserà dopo, anche se non cadono nel nulla le richieste dei sunniti – uniti con le forze democratiche siriane – che vogliono partecipare, e con visibilità, alla campagna contro il califfato. Il motivo è chiaro: una volta che il gruppo di al Baghdadi sarà cacciato, chi si prenderà i territori riconquistati? Parlare di ricostruzione e stabilizzazione è prematuro, ma gli americani non hanno mai brillato sui cosiddetti progetti per il dopo e al momento sembra che anche in questo caso non ce ne sia uno. Combattiamo, caccia-
Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Per una «Svizzera civile» Non sono numerosi, nel nostro Paese, i libri e i saggi che si prefiggono di promuovere la rif lessione politico-ideologica. Molte riviste non escono dagli scaffali delle accademie e delle biblioteche. Paese pragmatico per antonomasia, la Svizzera ha sempre diffidato delle grandi costruzioni teoriche e delle dispute sui massimi sistemi che tanto piacciono agli intellettuali delle nazioni confinanti. È un frutto della sua storia, ma anche di una mitologia sapientemente coltivata. La storia: qui, al centro delle Alpi, l’edificazione dell’impalcatura statale e amministrativa è andata avanti per gradi, dalla periferia verso il centro e dal basso verso l’alto, non in base ad un disegno precostituito ma secondo i bisogni (e le urgenze) del momento. La mitologia: su questa pretesa semplicità dei costumi e del buon senso è germinata una mentalità che ha fatto dell’unicità elvetica un principio sommo e intangibile, fuori del
tempo. Parole come «neutralità», «sovranità popolare», «indipendenza» sono assurti a concetti a-storici e dunque perpetui. È questo «Diskurs», questa narrazione, all’origine delle fortune elettorali di formazioni come l’Unione democratica di centro e la Lega dei ticinesi: partiti che hanno saputo piegare il passato alle esigenze della contesa elettorale, espungendo le contraddizioni e gli elementi disfunzionali. Una lucida ricostruzione di questo orientamento, di questa «ideologia», l’ha fornita un giovane pubblicista, Thomas Zaugg, in un saggio pubblicato nel 2004 dalle edizioni della Neue Zürcher Zeitung: Blochers Schweiz, La Svizzera di Blocher. Un testo efficace ed istruttivo, perché non demonizza la figura del rifondatore dell’Udc, ma lo colloca nel solco di una linea di pensiero, politica e teologica, il cui embrione risale agli anni Trenta, alla stagione in cui occorreva contrastare le sub-
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Cultura e Spettacoli Con Christo a Iseo A colloquio con Christo a pochi giorni dall’inaugurazione dell’opera The Floating Piers
Antiche antropologhe Euforia è un incredibile romanzo della statunitense Lily King sulle gioie e le sconfitte legate ai primi studi antropologici
Non-musei e non-mostre Le novità museali e di «lettura» del direttore della Pinacoteca di Brera James M. Bradburne
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Le passioni di Albertazzi Nelle scorse settimane è mancato uno dei protagonisti indiscussi del teatro italiano: un ritratto di Giorgio Albertazzi pagina 49
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Tra ironia e provocazione Mostre Il Museo Comunale d’Arte
Moderna di Ascona celebra il centenario del movimento dadaista
Alessia Brughera Cento anni sono trascorsi da quel 1916, quando, in pieno conflitto mondiale, a Zurigo un gruppo eterogeneo di artisti e intellettuali diede origine al movimento Dada. La neutrale Svizzera era un luogo pacifico nell’Europa martoriata dalla guerra, un rifugio sicuro per questo manipolo di ribelli che qui si riunì spontaneamente per reclamare a gran voce la propria disapprovazione nei confronti della società. Arroccati «sull’isola della vita in mezzo all’oceano di morte», i dadaisti avviarono una profonda riflessione sull’arte e sul ruolo dell’artista, approdando a esiti radicalmente innovativi che minarono le certezze su cui fino a quel momento si era basato il sistema artistico. Si ritrovavano al Cabaret Voltaire, locale notturno diretto dallo scrittore e filosofo Hugo Ball e dalla cantante e poetessa Emmy Hennings. Nelle caotiche e provocatorie serate messe in scena da Ball e dagli altri teorici e fondatori della corrente – ovvero Tristan Tzara, poeta e vera mente speculativa del gruppo, Richard Huelsenbeck, Hans Arp e Marcel Janco – i dadaisti esprimevano l’impossibilità per l’arte di avere qualsiasi rapporto con le ipocrite logiche del reale. «Il nostro Cabaret è un gesto. Ogni parola che qui viene detta o cantata significa perlomeno un fatto: che questo tempo mortificante non è riuscito a imporci rispetto», diceva Ball. Perché se di questo movimento, né gerarchicamente né ideologicamente organizzato, un programma c’è, è quello di essere deliberatamente antisociale: con atteggiamento beffardo e disincantato, Dada costruisce il proprio linguaggio sull’ironia, sul caos e sulla creatività senza limiti, allo scopo di contestare la società ormai arrivata alle soglie della distruzione. E sarà proprio
la sua vocazione anarcoide a consentirgli una diffusione, seppur con caratteristiche differenti, in varie città europee e a New York, a dimostrazione dell’esistenza di un sentire comune di grande insofferenza verso i valori del progresso civile e le credenze prestabilite dell’arte. Irriverente e dissacrante, Dada è libertà, è gioco, è non-sense, è rifiuto dei mezzi espressivi convenzionali, è sperimentazione spericolata. Dada sovverte le regole, demolisce le barriere tra le diverse arti e quelle tra arte e vita, aprendosi alle infinite possibilità estetiche che i materiali e gli eventi della quotidianità offrono. Tra le celebrazioni svizzere per il 100° anniversario della nascita di questo movimento, il Museo Comunale d’Arte Moderna di Ascona ospita una mostra che riunisce una selezione di opere di Marcel Duchamp, la più significativa voce del Dadaismo, accanto a lavori degli esponenti di Fluxus, che proprio nell’artista francese e nella corrente Dada hanno trovato le loro radici. Dadaista ante litteram, Duchamp, prima ancora che nascesse il gruppo di Zurigo, aveva già abbandonato la pittura per esperienze assolutamente spiazzanti come i ready-made, in cui con trasgressivo sarcasmo metteva in discussione gli assunti dell’arte tradizionale. Costituiti da oggetti di uso comune prelevati dal loro contesto e utilizzati così come sono, in essi l’artisticità si nascondeva nel gesto compiuto dall’autore, nella sua capacità di «scegliere» più che in quella di «eseguire». Va da sé che il valore estetico di un’opera non era più determinato dal procedimento tecnico ma dall’atto mentale che vi stava dietro. Con i suoi lavori ludici e scioccanti, Duchamp ha spostato l’attenzione del pubblico verso l’artista, inteso adesso come colui che è in grado di innescare
Ben Vautier, Parfois je crois, que..., 1988, Staatliches Museum Schwerin / Ludwigslust / Güstrow. (© 2015, ProLitteris, Zurich)
riflessioni sul senso dell’arte e sul suo ruolo nella società, rifiutando in primis l’idea che il manufatto artistico debba possedere una valenza economica. Basti pensare alla sua manipolazione della Gioconda di Leonardo dal titolo L.H.O.O.Q. (sequenza di lettere che in francese suona come «Elle a chaud au cul») presente nel percorso asconese, in cui ha oltraggiato una delle icone della storia dell’arte prendendo una stampa del dipinto e rettificandola con un leggero intervento che fa comparire barba e baffi sul volto della Monna Lisa, dimostrando quanto sia opinabile l’eccessiva devozione per certe opere del passato. Altro interessante lavoro di Duchamp è La boîte-en-valise, del 1941, una piccola scatola di cartone contenente riproduzioni e repliche in miniatura delle sue creazioni. È questa una delle trovate più curiose e geniali dell’artista, che apre a numerose considerazioni sui luoghi che custodiscono l’arte e sui concetti di «copia» e «originale». La carica eversiva di Duchamp verrà ripresa da molti artisti e movi-
menti dopo di lui. Il gruppo Fluxus, costituitosi nei primi anni Sessanta, è tra quelli che hanno raccolto con maggiore impeto l’eredità dadaista, sviluppandone molti dei principi fondanti: l’umorismo, la provocazione, la denuncia, la piena libertà di pensiero e di azione prima di tutto, e poi l’aspirazione a far confluire i molteplici linguaggi in un’arte totale, ibrida, indeterminata e in stretta relazione con l’esistenza, originando una fluidità vitale capace di mettere in moto ciò che nella società è fossilizzato. Nella mostra di Ascona troviamo opere di alcuni dei membri di questo movimento, a partire dal suo leader carismatico George Maciunas, che si riproponeva di «purgare il mondo dalle forme di vita borghese». Si tratta di lavori che traggono spunto e materia dal quotidiano per ricombinarlo in un nuova dimensione, spesso con risultati sorprendenti. Emblematiche in mostra sono le Optimistic Box di Robert Filliou, diretta derivazione delle boîtes duchampiane in cui l’artista racchiude oggetti e testi per lanciare messaggi tra l’ironico
e il drammatico, o la serie di variazioni sul tema della Venere realizzata da Al Hansen, che propone l’immagine della dea romana fatta di fiammiferi e animaletti di plastica, o ancora le opere di Ben Vautier, commistioni di pittura e parola pervase da una vena paradossale che non manca di sollecitare il nostro pensiero su questioni riguardanti il significato dell’arte. Il movimento Dada è servito soprattutto a questo. Ad attivare il nostro senso critico per farci guardare la realtà con disillusione, cercando di trovare appagamento non negli inalterabili preconcetti ma in quella mutevolezza delle cose che ben ci fa dubitare di tutto. Dove e quando
Marcel Duchamp. Dada e Neo-dada. Museo Comunale d’Arte Moderna, Ascona. Fino al 26 giugno 2016. Mostra organizzata in collaborazione con lo Staatliches Museum di Schwerin/Ludwigslust/Güstrow. Orari: ma-sa 10.00-12.00/14.00-17.00, do e festivi 10.30-12.30, lu chiuso. www. museoascona.ch
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Cultura e Spettacoli
Lo stupore di Christo Incontri L’artista, autore dell’installazione The Floating Piers sul Lago di Iseo, racconta l’idea
del suo progetto e le difficoltà di ordine pratico incontrate durante l’organizzazione
Ada Cattaneo Ci sono voluti circa 15 milioni di euro per realizzarla, un costo interamente sostenuto dall’artista. Eppure una volta pronta The Floating Piers, la nuova opera di Christo, sarà visibile al pubblico per soli 16 giorni, dal 18 giugno al 3 luglio 2016. Un intero territorio è stato rivoluzionato (anche se solo temporaneamente) da questo progetto che Christo e Jeanne-Claude hanno inseguito sin dal 1970, anno in cui tentarono di realizzarlo in Argentina senza riuscire ad ottenere i permessi necessari. Finalmente fra qualche giorno l’opera vedrà la luce sul Lago d’Iseo, a meno di due ore dal Ticino. In concreto, una superficie galleggiante larga 16 metri sarà percorribile a pelo d’acqua per tre chilometri, dalla sponda di Sulzano fino a Montisola e, ancora, attorno all’isoletta privata di San Paolo, in origine proprietà dell’ordine monastico di Cluny e oggi della famiglia Beretta. Non servirà nessun biglietto d’entrata e il soffice percorso ricoperto di tessuto arancione sarà accessibile giorno e notte, con l’oscillare delle onde. L’organizzazione logistica è ingente, fra treni speciali e squadre di bagnini: tutto il possibile per garantire che si tratti di un’esperienza incantevole per tutti i visitatori, che già si annunciano più che numerosi. Abbiamo avuto modo di incontrare l’artista e, per prima cosa, gli abbiamo chiesto cosa secondo lui attragga le migliaia di persone che accorrono per ogni suo nuovo progetto, sia esso nella campagna basilese o nel deserto del Colorado, sulle coste giapponesi o nelle valli del Nord Italia. «Credo che ciascuno di noi voglia a suo modo essere unico. Sette miliardi di persone nel mondo e ognuno di noi vuole essere unico. In effetti tutti siamo unici. E vogliamo essere presenti ad un avvenimento che non si ripeterà. Credo sia il motivo per cui attorno a questi progetti si sviluppa tanta energia. È un tipo molto particolare di energia, che andrà poi a dissolversi. Capita spesso, come nel caso di Berlino, con il Rei-
chstag [interamente avvolto da tessuto argentato per due settimane nel giugno del 1995, Ndr], che ci venga chiesto di rimanere una settimana in più. Ma no, noi dobbiamo andarcene, come previsto. E una volta via, tutto è finito per sempre». Si riferisce alle vostre opere parlando di un carattere nomadico che le contraddistingue. Può dirci qualcosa su questo aspetto?
Intendo dire che c’è una transizione, un aspetto effimero presente in ognuno dei progetti realizzati da Jeanne-Claude e me. Sono progetti che appaiono molto rapidamente, ma tutti sanno che scompariranno dopo qualche giorno. Questo crea una sorta di desiderio e allo stesso un rimpianto senza possibili soluzioni per qualcosa che non accadrà mai più. Si tratta probabilmente della ragione per cui i nostri progetti attraggono un numero così ingente di persone. Il punto di partenza di tutto questo sono i suoi disegni. Come si sviluppano?
All’inizio sono molto schematici. Ma, soprattutto per le grandi opere realizzate, è possibile vedere come i primi progetti siano molto diversi dagli ultimi, come succede per The Pont Neuf Wrapped (Parigi, 1975-1985). Ci sono molte cose da osservare. Questo è il motivo per cui mi piace che, durante le mostre, le opere siano allestite a un’altezza ridotta; si tratta di materiali reali che devono essere vicini agli occhi di chi li guarda, così che si possano tracciare dei collegamenti fra le diverse parti che compongono l’opera e leggere le scritte che descrivono ciò che è rappresentato. Non aggiungo dei testi semplicemente perché sono belli da vedere, ma perché sono parte integrante del lavoro. Sul fronte delle installazioni lei lavora con grandi team. Mentre, per quanto riguarda i disegni, i collages e gli schizzi sceglie di non chiedere il contributo di alcun assistente. Ciò comporta un grande impegno, an-
Un Christo divertito dondola su un pezzo di «Floating Pier» da lui allestito. (Wolfgang Voltz) che fisico, per lei. Come mai questa decisione?
Mi piace moltissimo occuparmene. Amo toccare fisicamente i materiali che utilizzo. Averli in mano e scegliere quello migliore. È una cosa estremamente sensuale. Spero che la gente capisca, guardando i miei disegni, che queste piccole opere sono gli studi per le grandi installazioni. Lo si può per esempio capire dalla griglia preparatoria e da molti altri elementi. Mi auguro che si capisca ciò che viene presentato. Forse qualcuno pensa che io faccia dei disegni per il semplice motivo che mi piace. Ma non è così: questi lavori grafici sanno riflettere l’evoluzione del progetto, presentando un percorso che porta da quanto vi era in origine a ciò che avviene alla fine. Per realizzare The Floating Piers sono state necessarie delle pro-
fessionalità decisamente specialistiche, inconsuete. Ci può fare un esempio?
Finora non ho mai avuto a che fare con persone che avessero ottenuto il massimo delle certificazioni per lavorare come subacquei e fossero specializzate nell’immersione in acqua profonde. Questo invece è stato necessario per l’opera sul Lago d’Iseo. Ed è molto emozionante vedere il gruppo francese che si occupa di questi aspetti nel momento dell’immersione, osservare il loro equipaggiamento, la squadra. Sono assolutamente lontani dal mondo di tutti i giorni, con le loro imbarcazioni, con gli strumenti che utilizzano e la tecnologia che gli è necessaria per installare i 180 ancoraggi di cinque tonnellate ciascuno che permettono alla passerella di rimanere stabile. Fanno un lavoro incredibile e tutto
sott’acqua. Mi emoziono osservando i nostri collaboratori, perché non ho mai visto in vita mia fare delle operazioni di questo tipo. Credo che questo valga anche per loro: non è un’opportunità di tutti i giorni prestare le proprie capacità per un’opera d’arte come questa.
Sì, allo stesso tempo per loro tutto ciò è fonte di emozione perché non sono abituati a vedere le cose in questo modo, dal punto di vista del progetto artistico. Vi sono poi questioni molto semplici, che i nostri costruttori e ingegneri riescono a risolvere, pur comportando invenzioni meravigliose... penso ad esempio a come fare galleggiare tonnellate di acciaio appena sotto il pelo dell’acqua in modo all’apparenza molto facile. Quindi dal punto di vista ingegneristico ci sono operazioni ad ogni livello.
Antiche pagine e antichi inchiostri raccontano Editoria Alla Biblioteca Salita dei Frati di Lugano una mostra di preziosi volumi a stampa del 500
usciti dai torchi delle tipografie di Basilea e conservati nella Svizzera italiana Alessandro Zanoli Iniziamo da una semplice considerazione: cosa vuol dire avere davanti agli occhi un volume stampato nel 1497? Se lo guardiamo con un occhio funzionale, non è poi molto diverso da un libro di quelli che conosciamo oggi. Sì, forse è un po’ troppo ingiallito, un po’ troppo impolverato. Eppure è ancora abbastanza
Ludovico Ricchieri, Lectionum Antiquarum, Ed. Johann Froben, 1571.
ben leggibile (per chi conosce la lingua in cui è stato scritto). Le sue illustrazioni poi, sono spesso ancora vivide e belle, nonostante i cinquecento anni d’eta. Già tutto questo è, di per sé, qualcosa di affascinante. Ma se confrontiamo queste vecchissime pagine con i pur vecchi libri che troviamo dai rigattieri o abbiamo ereditato dai nonni, ci rendiamo conto che un libro del XV secolo è una vera astronave, pronta a lanciarci in un viaggio nel tempo. Proviene da un mondo che a malapena possiamo immaginare: una realtà di cui non conosciamo più abitudini e costumi, momenti di vita quotidiana, discorsi, valori. Osservando da vicino queste pagine secolari, invece, possiamo scoprire elementi e indizi, anche minimi, che riescono a far rivivere il passato remoto. Possiamo osservare la nascita di passioni intellettuali e l’introduzione di scoperte della tecnica, movimenti di idee e contrasti ideologici, i cui effetti hanno un riverbero anche sulla nostra vita odierna. La mostra Edizioni di Basilea del XVI secolo a sud delle Alpi, che propone la Biblioteca dei Frati di Lugano fino al prossimo 12 agosto, non avrà forse lo smalto d’immagine di cui possono fregiarsi altri eventi culturali luganesi, ma sicuramente è un’occasione per
vivere un’esperienza rara e riconsiderare la nostra quotidianità con un occhio critico. Magari: e forse anche per dare una messa a punto ai nostri sistemi di valutazione su cosa possa essere un’«esperienza culturale». Ognuno dei numerosi volumi esposti, scelti nell’ampio panorama dei fondi bibliografici antichi conservati nella Svizzera italiana, ha un suo «peso specifico» di interesse, tale da meritargli almeno qualche minuto d’attenzione. La mostra non è grande: piuttosto è «densa», nella sua approfondita, anche inattesa proposta di stimoli alla riflessione. I libri sono macchine fascinose a molti livelli. Non sono soltanto contenitori di «parole» ma sono supporti per idee di varia forma: l’uso che l’uomo ne fa, concretamente, è anch’esso produttore di «storia» e di pensiero. Ragione per cui è più che legittimo pensare di esporre questi antichi tomi come veri reperti archeologici, da osservare, studiare e di cui meravigliarsi. Oggetti in cui riconoscere un significato primario, che è quello dato dal tipo di pubblicazione in sé (l’edizione delle Confessioni di Sant’Agostino o dei commenti al Nuovo Testamento di Erasmo da Rotterdam), ma anche in cui cercare di capire gli artifici tecnici che gli hanno
dato forma (tipo di carta, di rilegatura, di inchiostri) e ancora la struttura dell’edizione, la quantità e il senso delle illustrazioni. Un’ultima e non meno importante fonte di informazioni viene poi dall’osservare in che modo questi libri hanno interagito con gli esseri umani: le varie tracce di possesso, le annotazioni a margine, gli interventi di censura, strappi e mutilazioni aprono a tutta un’altra dimensione di significato e di importanza ognuno di questi tesori. La piccola mostra di Lugano va avvicinata con tempo e con pazienza. Le sue bacheche ci guidano alla scoperta di una tecnica antica ma anche di una rivoluzione culturale. A Basilea infatti, a cavallo del XVI secolo, la novità prodotta dall’introduzione della stampa a caratteri mobili diede luogo alla nascita di diverse botteghe in grado di proporre un’importante attività editoriale. Tra gli atelier più celebri, quelli di Johann Amerbach e di Johann Froben. I libri stampati a Basilea potevano diffondersi in tutta Europa grazie a un canale di distribuzione che sfruttava la navigazione sul Reno. Ma i preziosi volumi (in senso intellettuale ed economico) scesero anche verso sud, per confluire nelle biblioteche di chiese e conventi sul versante meridionale delle Alpi. Molti
sono stati ritrovati infatti nei fondi librari di istituzioni religiose nostrane dal «Centro di competenza per il libro antico», un’istituzione che si occupa di valorizzare questo prezioso patrimonio. Dal 2014 infatti il CCLA ha censito i fondi librari antichi della Svizzera italiana con l’obiettivo di catalogarli, digitalizzarli e metterli a disposizione di ricercatori e del pubblico tramite il Sistema bibliotecario ticinese. La mostra della Biblioteca Salita dei Frati è, in fondo, la prima occasione per la popolazione di prendere contatto con il lavoro «sul campo» messo in atto dal sodalizio bibliofilo. Se ne potrà dunque apprezzare il rigore scientifico ma anche scoprire quante sorprese possa riservare la ricerca attorno alle pagine antiche. L’ottimo apparato critico-esplicativo messo a disposizione dei visitatori fornisce una guida opportuna ed è capace davvero di incuriosire. Dove e quando
Edizioni di Basilea del XVI secolo a sud delle Alpi. Esposizione a cura del Centro di competenza per il libro antico. Biblioteca Salita dei Frati, Lugano. Fino al 12 agosto 2016. www.bibliotecafrati.ch
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Cultura e Spettacoli
Un duo poliziesco che annuncia l’estate
Pubblicazioni Euforia di Lily King
Cinemando Con gli scatenati Russell Crowe e Ryan Gosling
è un romanzo strepitoso sull’antropologia
Con eleganza sul fiume Sepik
non manca la sorpresa
Fabio Fumagalli
Mariarosa Mancuso
**(*) The Nice Guys, di Shane Black, con Russell Crowe, Ryan Gosling, Angourie Rice, Kim Basinger (USA 2016)
Nei primi decenni del secolo scorso gli antropologi partivano per studiare le tribù primitive in Polinesia e in nuova Guinea. Assistevano ai riti, studiavano le parentele, osservavano ornamenti e nudità, ritornavano carichi di appunti per scrivere libri scandalosi. Un titolo per tutti: L’adolescente in una società primitiva di Margaret Mead, anno 1928 (spiegava che la virtù delle giovinette non era dappertutto custodita gelosamente come negli Stati Uniti: da qui l’assenza a Samoa di certe paturnie adolescenziali tipiche del mondo occidentale). Oggi gli antropologi non viaggiano più in paesi lontani, hanno capito che anche vicino a noi c’è tanto da studiare. Assistono ai riti, studiano le nuove parentele (Genitore 1 e Genitore 2, cosa saranno mai?), prendono nota delle mode, osservano i tatuaggi, registrano la venerazione che tributiamo al cibo, e scrivono libri come Antropop di Duccio Canestrini. Son studi che fanno un po’ meno scandalo, ed erano già con grande lungimiranza parodiati nel Diario minimo di Umberto Eco, anno 1963: Industria e repressione sessuale in una società padana (così come appaiono agli occhi di uno studioso arrivato dalla Melanesia). Il primo divertimento, leggendo Euforia di Lily King (esce da Adelphi), sta tra questi due estremi. Siamo a Papua, sul fiume Sepik, quattro elegantoni in abito da sera son diretti a un festeggiamento natalizio (già è abbastanza spiazzante, considerati i luoghi: ma erano gli anni Trenta, il colonialismo non era ancora considerato il male del mondo, il Natale non era moribondo sotto i colpi della correttezza politica). Sulla stessa imbarcazione sale una coppia di antropologi, piuttosto malconci. La donna soprattutto: è ferita a una mano, ha una caviglia semidistrutta, indossa sudici abiti da uomo e soffre per un prurito sospetto, forse tigna. Non perde lo spirito di osservazione e la curiosità dimostrate in precedenza verso i popoli primitivi. E neppure l’invidia femminile. Le signore – una bionda e una bruna, chiacchieravano di uomini da sedurre, senza curarsi delle orecchie indiscrete – finiscono sul taccuino. Scrive l’antropologa: «Ornamentazione di collo, polsi, dita / pittura solo sul viso, labbra rosso scuro e nero agli occhi / fianchi messi in risalto dalla vita strizzata / conversazione competitiva: l’oggetto di valore è l’uomo, non necessariamente averlo ma saperlo attirare». Nell è il nome del personaggio, ispirato a Margaret Mead con tutte le licenze che una romanziera capace sa
Non proprio celebre, se non per gli addetti ai lavori, Shane Black è un esempio perfetto dell’immenso serbatoio che è andato formandosi nel tempo dal connubio fra talento, creatività e commercio all’interno di Hollywood. Dapprima sceneggiatore e soprattutto dialoghista superdotato, quindi attore e infine regista. Una parabola che conduce a garantire, se non la genialità, perlomeno la qualità di un prodotto. A 22 anni, Black già annunciava la sceneggiatura di Arma letale (1987) collaborando alle versioni seguenti che vedranno confermata una formula destinata a diventare un vero e proprio genere. Il buddy movie, ossia un film incentrato sulla coppia inizialmente mal assortita, ma destinata a diventare amica rappresenta un procedimento sempre più seguito nella commedia come nel film d’azione. Saranno soprattutto sceneggiatura e regia del sottovalutato Kiss Kiss Bang Bang a permettere a Shane Black non solo di rilanciare come attore Robert Downey Jr., ma di consolidare un filone fatto di ironia e dissacrazione all’interno del film d’azione anche violento. Reduce dalla direzione di Iron Man 3 (2013), il migliore di quella serie di blockbuster fortunati, Shane Black sforna ora The Nice Guys; un «divertimento poliziesco» che conferma una coerenza e una qualità. Le «storie» del cineasta sono spesso state strampalate per non dire confuse, e questa non lo è da meno: nella Los Angeles degli Anni 70 un investigatore apparentemente imbranato e un compare effettivamente manesco indagano su una giovane porno-attrice alla quale hanno ucciso il fidanzato, autore di cinema sperimentale, incendiandone le pellicole. Ma a contare, come sempre, è il «modo» con il quale il pasticcio è assemblato.
Ryan Gosling e Russell Crowe, improbabile coppia di agenti. (Keystone)
Contano gli attori: Russell Crowe e Ryan Gosling – con la libertà che i protagonisti di film «seri» si concedono quando capitano in divertissement ai confini del surrealismo – si scatenano nella pazza gioia. Tanto quanto è appesantito all’inverosimile il primo (seppur sempre pronto a svicolare sul commosso) si rivela paradossale il secondo, soprattutto a causa di quel suo allontanarsi dai ruoli drammatici precedenti per ispirarsi ai più celebri degli investigatori squinternati, primo fra tutti il mitico Clouseau della Pantera Rosa, o lo stesso Peter Sellers di The Party, il più esilarante dei capolavori di Blake Edwards (e della storia del cinema). Ma non basta. Black pesca una ragazzina per una volta non insoppor-
tabile: si tratta della tredicenne australiana Angourie Rice, che compie meraviglie di destrezza, ma anche di verità, nel riaggiustare i casini causati dai due dementi di cui sopra. Non tutto in questo film è spiccio. Se Kim Basinger interpreta la cattiva ispettrice non è un caso: lo spettatore memore di una delle sequenze più erotiche viste sullo schermo sobbalzerà nel ritrovarsi coinvolto in un nuovo faccia a faccia fra l’ancora splendida protagonista di L.A. Confidential e il massiccio ex Gladiatore. La trama non è da Coen o Tarantino? Ma la disco-funk del commento musicale è trascinante; e il montaggio delle diverse situazioni partecipa attivamente alla sapiente demenza generale. Salutare, prima dell’estate.
Un menu di successo Editoria Importante riconoscimento per il volume
che riunisce musica e gastronomia
Grande onore per il Canton Ticino, assurto agli onori della cronaca internazionale grazie a un libro di ricette molto particolare, edito da Dadò, che l’ha spuntata su ben 290 concorrenti. Menu per Orchestra – l’arte culinaria dagli antichi banchetti musicali ai moderni programmi radiotelevisivi (2015), volume curato dalla CORSI, è nato da una collaborazione multidisciplinare, come avviene sempre più spesso ai nostri giorni. Hanno messo a disposizione di questa pubblicazione il loro sapere la specialista di storia dell’alimentazione Marta Lenzi Repetto, la musicologa Anna Ciocca-Rossi e il giornalista radiotelevisivo Giacomo Newlin. Il lettore viene accompagnato in un affascinante viaggio nel tempo grazie al quale si sposta con agilità dalla corte sforzesca coccolata dalle doti culinarie del cuoco bleniese Maestro Martino, alle rivisitazioni di oggi ad opera dello
Il libro è edito da Dadò.
chef di Villa Principe Leopoldo Dario Ranza. Il leitmotiv di questi voli nel tempo è la musica, da che mondo
e mondo intimamente legata alle arti gastronomiche. A contrassegnare ulteriormente l’aspetto tutto ticinese di questa pubblicazione non poteva mancare la nostra OSI, che traduce in note i suggerimenti storico-culturali. La pubblicazione del libro è stata possibile anche grazie al sostegno di Migros Ticino. In occasione dei Gourmand World Cookbook Awards, riconoscimento ideato da Edouard Cointreau, presidente del Festival del libro di cucina di Parigi e della World Association of Food TV Producers, Menu per orchestra si è aggiudicato ben due premi – garantendosi così anche una presenza alla Fiera del libro di Francoforte – «Best TV Chef Book in Switzerland» e «Best Innovative Book in Switzerland». I Gourmand World Cookbook Awards sono il riconoscimento più importante nel settore dell’editoria enogastronomica da oltre vent’anni. / Red.
prendersi. E Lily King è strepitosa. Ha fatto ricerche sul lavoro e le vite private dei pionieri che studiavano le tribù sul campo (assieme all’americana Margaret Mead troviamo Leo Fortune, il neozelandese che fu il suo primo marito, e Gregory Bateson, l’inglese che fu il suo secondo marito). Li restituisce sulla pagina con tutti gli incidenti di percorso, personali e professionali. A partire dall’azzeccatissimo titolo: «euforia» è quel che prende dopo due mesi di lavoro con una nuova popolazione di interesse etnografico (popoli primitivi, si diceva semplicemente una volta). Quando si ha l’impressione di capire tutto sul funzionamento dell’esotico gruppo sociale, per poi scoprire – dopo qualche altro mese trascorso sul campo – che le cose importanti sono sfuggite, e il disegno non è chiaro come sembrava. Qualche anno fa uno studioso avanzò l’ipotesi che Margaret Mead fosse stata ingannata dagli abitanti di Samoa (una situazione del tipo: «arriva l’antropologa, adesso inventiamo qualcosa di bizzarro per prenderci gioco di lei»). Nel romanzo, lo smacco capita al collega Bankson. Finisce in mezzo a una tribù che si rifiuta di parlargli finché non ha imparato la lingua, e dopo che ha imparato la lingua nessuno gli parla comunque. Lo mandano da qualcuno che sta a mezza giornata di cammino, approfittano della sua assenza per tenere una cerimonia. Anche le genealogie restano oscure, per via dei tabù che impediscono di pronunciare i nomi di certi parenti. Non c’è da stupirsi che Bankson – alias Gregory Bateson, che ebbe il suo momento di celebrità con il saggio Verso un’ecologia della mente – sia sull’orlo del suicidio, quando incontra gli altri due antropologi (voleva annegarsi nel fiume con i sassi in tasca, come Virginia Woolf). Del resto non è che proprio avesse una gran vocazione: aveva lasciato l’Inghilterra dopo la morte dei suoi fratelli, uno in guerra e l’altro suicida, per sfuggire a una madre vedova e dispotica. Gli studiosi si scambiano informazioni, spiano i lavori degli altri, la sera elaborano teorie – tra cui la Griglia, adatta alle popolazioni e anche ai singoli individui. I quattro punti cardinali servono per classificare i tipi umani, a nord gli aggressivi, a ovest i pragmatici, a est i creativi, a sud gli amorevoli. Bellissime pagine in un romanzo che si legge di corsa, che ha momenti di intelligente comicità, e che un po’ di euforia la trasmette anche a noi. Per il ripasso – senza fatica – delle categorie che usiamo per conoscere gli Altri, e di conseguenza anche Noi Stessi.
Margaret Mead con il suo terzo marito, Gregory Bateson, circa a metà del secolo scorso. (Keystone)
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Cultura e Spettacoli
La prima delle non mostre Mostre Nuovo corso alla Pinacoteca di Brera a Milano, ora diretta da James M. Bradburne
Gianluigi Bellei Sono passati nove mesi dalla riforma voluta in Italia dal ministro Dario Franceschini per dare un nuovo assetto ai musei. Sono stati nominati, con un concorso internazionale, venti nuovi direttori per le principali sedi. Alcuni sono stranieri come Eike Schmidt per la Galleria degli Uffizi, Cecilie Hollberg per la Galleria dell’Accademia a Firenze, Peter Assman per Palazzo Ducale di Mantova, Peter Aufreiter per la Galleria Nazionale delle Marche di Urbino o James M. Bradburne per la Pinacoteca di Brera a Milano. A grandi linee la riforma ha separato le soprintendenze dai musei dando a quest’ultimi autonomia di bilancio, un consiglio di amministrazione e un comitato scientifico. Fra un malumore e l’altro, manifestazioni e sottoscrizioni varie, i nuovi direttori si sono messi subito all’opera. A Brera troviamo, appunto, Bradburne che, ricordiamolo, è stato per molto tempo direttore generale di Palazzo Strozzi a Firenze. Da quell’esperienza ha trasportato a Milano il suo bagaglio di conoscenze. Iniziando dal riallestimento delle trentotto sale. Per ora ne sono state riallestite quattro – esattamente la XX, la XXI, la XII e la XXIII – con tinte alle pareti di un bel rosso intenso, una nuova illuminazione mirata sui dipinti e didascalie più grandi delle precedenti. Tutto come a Firenze. Forse a Palazzo Strozzi le didascalie erano sì grandi ma più discrete perché posizionate in basso, abbastanza lontane dal dipinto. A Brera sono probabilmente un po’ troppo invadenti. Accanto è prevista una serie di nuove «letture» delle opere con brani di autori come Umberto Eco, Ingrid Rowland, Sarah Dunant… Ma la cosa maggiormente interessante è che i prestiti saranno ridotti a zero e non ci saranno più mostre temporanee esterne ma, come scrive lo stesso Bradburne, una serie di «non mostre» accompagnate da una pubblicazione ad hoc: un «non catalogo». Le prime in programma quest’an-
A sinistra, Raffaello Sanzio Sposalizio della Vergine, 1504 olio su tavola, Pinacoteca di Brera. A destra, Pietro Vannucci detto il Perugino, Sposalizio della Vergine, 1500-1504 olio su tavola Caen Musée des Beaux-Arts.
no sono dedicate a Raffaello e Perugino, Mantegna e infine Caravaggio. Fino al 27 giugno sono a confronto i due Sposalizi della Vergine rispettivamente di Raffaello e di Perugino. Il primo di stanza a Brera dal 1805 e il secondo proveniente dal Musée des Beaux-Arts di Caen. Occasione irripetibile per vedere assieme le opere dell’allievo e del maestro. La storia dello sposalizio è tratta dai Vangeli apocrifi in quanto quelli canonici non ne parlano. Fra quelli cosiddetti dell’infanzia, perché narrano della nascita e appunto della giovinezza di Gesù, il più conosciuto e usato dai poeti e dagli artisti è quello dello pseudoMatteo. Qui si racconta che Maria all’età di 14 anni ha le prime mestruazioni e non può quindi entrare nel Tempio di Dio essendo impura e non ancora maritata. I sacerdoti tirano a sorte fra le dodici tribù di Israele per cercare lo sposo. La sorte premia la tribù di Giuda. Allora il sacerdote dice: «Domani chiunque è senza moglie venga qui recando in mano una verga». Così avviene. Il sa-
cerdote offre un sacrificio a Dio e il Signore gli dice che il prescelto sarà quello alla cui estremità della verga uscirà una colomba. Quando il sacerdote si accorge che dalle verghe non esce nessuna colomba accende il fuoco del sacrificio. Gli appare un angelo che gli dice di cercare una verga molto corta che era stata dimenticata e di consegnarla al proprietario. Giuseppe la prende in mano e da essa esce una colomba bianca. (Qui si parla di una colomba, simbolo del consenso divino. Nei dipinti il prodigio si riferisce alla verga che germoglia come nell’episodio biblico della nomina di Aronne a sacerdote: Numeri, 17). Dopo l’apparizione della colomba tutti si congratulano con lui. Giuseppe si schermisce pieno di vergogna: «Io sono vecchio e ho dei figli; perché dunque consegnate a me questa bambina?». Ma non c’è nulla da fare: Giuseppe non può certo disprezzare la volontà del Signore. Fin qui il Vangelo apocrifo! Ma nei due dipinti in questione, come in altri, c’è di mezzo un anello che Giuseppe sta per infilare al dito di Maria. Da nessuna
parte si parla di un anello, ma la tradizione popolare va rispettata e fra le migliaia di reliquie di ogni genere, compresi innumerevoli prepuzi di Gesù, vi è pure il sacro anello che si trova nella Cappella del Sant’Anello della Cattedrale di Perugia. Questo cerchietto di calcedonio, sarebbe stato consegnato all’apostolo Giovanni da Maria prima di morire. Nel Medioevo è stato portato a Chiusi e da qui rubato nel 1473 da frate Winter di Magonza che lo ha portato a Perugia. In quell’anno in città non si parla d’altro, tanto che viene detto l’anno dell’anello. «Meglio perdere lo stato e li figlioli piuttosto che l’anello di Maria» sentenzia Braccio Baglioni, il signore della città. Poi Innocenzo VIII decreta che l’anello deve stare a Perugia. Viene costruita una cappella per ospitarlo dentro una cassa di legno ferrato chiusa da sette chiavi inserita in una gabbia di ferro chiusa a sua volta da altre quattro chiavi. E così viene dato al maestro Pietro Vannucci detto il Perugino l’incarico di dipingere il fatale momento dello sposalizio. L’impianto del dipinto è lo
stesso della Consegna delle chiavi che Perugino ha realizzato per la Cappella Sistina in Vaticano nel 1481-’82. Il gruppo di figure in primo piano è realizzato secondo uno schema orizzontale e lo sfondo è dominato da un tempio con la porta centrale aperta. Un anno dopo Raffaello, giovanissimo allievo del Perugino, si cimenta con lo stesso tema. L’impianto è simile anche se le figure sono disposte a semicerchio e a gruppi; il tempio non è ottagonale ma più moderno ed è dipinto nella sua intierezza. I due gruppi di persone sono maggiormente dinamici e bilanciati; la testa del sacerdote Simeone è leggermente inclinata verso destra per dare più movimento alla composizione. Il Giuseppe del Perugino, poi, sembra molto più vecchio e Maria tiene la mano sinistra sul ventre già leggermente gonfio. Ma la cosa che salta subito all’occhio è l’inversione dei due gruppi: quello maschile e quello femminile. Il dipinto del Perugino è stato requisito dai commissari napoleonici nel 1797 e portato prima a Parigi, poi a Caen. Al suo posto nel 1822 il conte Filippo degli Oddi ha commissionato a Jean-Baptiste Wicar, «pennello di prim’ordine», un nuovo sposalizio. Il quadro, anche lui in mostra a Brera accanto agli altri due, ha suscitato subito feroci polemiche: dalla posizione inginocchiata dei due sposi, alle braccia ignude e provocanti delle dame vestite troppo alla parigina, sino ai capelli di Giuseppe con corona di fiori, tanto da sembrare un «damerino». Bella iniziativa, che ricorda Le tableau du mois del Louvre; simpatico il non catalogo. Dove e quando
Raffaello e Perugino, Primo dialogo. Due sposalizi della Vergine. A cura di Emanuela Daffra. Milano, Pinacoteca di Brera, Sala XXIV. Fino al 27 giugno. Orario: 8.30-19.15. Lu chiuso. Catalogo Skira, euro 12. www.pinacotecabrera.org
Come New Orleans ma sul Verbano
E ora tocca ai Pooh!
JazzAscona Dal 23 giugno al 2 luglio
più atteso con la band storica del pop italiano: biglietti in palio
MoonAndStars Sabato 9 luglio in Piazza Grande il concerto
si rinnova l’appuntamento con la rassegna musicale: biglietti gratuiti in palio «Mi dispiace devo andare Il mio posto è là Il mio amore si potrebbe svegliare Chi la scalderà» Suoni e profumi di Lousiana, nell’ultima settimana di giugno, sul lungolago di Ascona. Dal 2015 i rapporti tra le due città si sono fatti ancora più istituzionali, visto che la stessa amministrazione della metropoli americana ha nominato Ascona come ambasciatrice della propria cultura musicale e gastronomica. L’investitura si riflette piacevolmente sulla fisionomia della rassegna, che offre un panorama di stili e di spunti musicali ampia e affascinante. Come negli scorsi anni però JazzAscona si offre anche quale vetrina d’eccezione per il jazz elvetico: grazie allo Swiss Jazz Award istituito con l’emittente Swiss Radio Jazz, e sostenuto dal Percento culturale di Migros, il pubblico asconese e quello radiofonico possono collaborare ed eleggere la band svizzera dell’anno. «Azione» offre ai suoi lettori 10 x 2 biglietti validi per le 5 serate a pagamento di venerdì 24, sabato 25, martedì 28 giugno, venerdì 1 e sabato 2 luglio. Va ricordato infatti che le serate infrasettimanali (escluso il 28 giugno) sono gratuite, ad eccezione di alcuni concer-
Alzi la mano chi non conosce questa canzone dei Pooh o chi non l’ha canticchiata almeno una volta nella vita. I Pooh hanno sicuramente contribuito a scrivere la storia musicale del Belpaese, basti pensare che ad oggi hanno venduto qualcosa come 100 milioni di dischi
Musica sul lungolago dalle 18.30 alle 01.30, su quattro palchi. (FotoPedrazzini)
ti a pagamento, inclusi nella rassegna Ascona Specials (www.jazzascona.ch). Per partecipare all’assegnazione dei biglietti, telefonare mercoledì 15 giugno dalle 11.00 alle 12.00 al numero 091 821 71 62. Buona fortuna!
(e questo potendo contare quasi esclusivamente su un pubblico italofono) e che esistono dal 1966 – insomma, stiamo parlando di mezzo secolo di musica. Con l’evolversi dei gusti musicali e delle vicende personali la formazione artistica ha subito diversi cambiamenti al proprio interno. Attualmente però la band è composta da elementi che sono sempre stati protagonisti della scena musicale italiana, si tratta di Roby Facchinetti, Red Canzian, Riccardo Fogli, Dodi Battaglia (considerato uno dei migliori chitarristi di tutta l’Europa) e Stefano D’Orazio. A chi ama un genere particolarmente romantico, che ha visto la propria apoteosi tra gli anni Settanta e gli Ottanta (quando, in altre parole, i vari festival ancora sfornavano canzoni che il giorno successivo tutti erano in grado di ripetere camminando per strada o facendosi una doccia) i Pooh hanno regalato pezzi indimenticabili e ormai appartenenti alla memoria collettiva di tutti gli italofoni della terra. Solo per citarne qualcuno, parliamo di Pensiero, Dammi solo un minuto, Uomini soli, Tanta voglia di lei, Piccola Katy, Pronto, buongiorno è la sveglia... Il concerto di sabato 9 luglio si prospetta sin d’ora come momento imper-
dibile per i nostalgici, ma anche per chi vuole vedere live questa formazione di artisti provenienti da regioni diverse dell’Italia. Piazza Grande, con le sue luci, la sua magica atmosfera, non a caso definita da alcuni artisti come il migliore palcoscenico del mondo, offrirà ai fan momenti di grande emozione, in cui l’accompagnamento canoro da parte del pubblico si trasformerà in un momento di collettività e condivisione.
MoonAndStars, dall’8 al 17 luglio, Piazza Grande, Locarno
Offerta speciale per i lettori di «Azione» Il nostro settimanale mette in palio ben 50 biglietti singoli per il concerto dei Pooh (Special Guest: Modà). Per vincerli basta telefonare al numero 091 840 12 61, martedì 14 giugno dalle 10.30 fino ad esaurimento dei biglietti. Buona fortuna!
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Cultura e Spettacoli
Exit Giorgio Albertazzi, il seduttore In memoriam È stato un grande interprete di autori antichi e contemporanei Giovanni Fattorini L’ho incontrato per la terzultima volta nel dicembre del 2003, al Piccolo Teatro di Milano, in via Rovello. Aveva compiuto ottant’anni in agosto ed era in tournée con un dramma di Arthur Miller, Il mondo di Mr Peters, in cui interpretava la parte di un uomo in età avanzata che tra sonno e veglia dialoga con i vivi e con i morti. Prendendo spunto da Mr Peters intendevo fargli delle domande sul diventare e sull’essere vecchi. Da principio mostrò una certa riluttanza a trattare l’argomento, ma quando gli chiesi che rapporto avesse con lo specchio, e gli citai due frasi di Flaubert – che a venticinque anni scriveva a Louise Colet: «Non mi faccio mai la barba senza ridere, tanto mi sembra stupido», e a trentatré: «Certe mattine faccio paura a me stesso, tanto mi vedo logoro e pieno di rughe» – commentò ridacchiando: «Già, si è guastato abbastanza presto». Aggiunse prontamente che non poche giovani donne andavano a trovarlo in camerino, al termine di uno spettacolo, per complimentarsi e dirgli che avrebbero avuto piacere di rivederlo, di conversare con lui vis-à-vis. Immaginai che fossero in prevalenza delle attrici, o aspiranti tali. E poiché proprio quell’anno era stato nominato (fra parecchie polemiche, per via dei suoi trascorsi repubblichini) direttore del Teatro Stabile di Roma, gli chiesi se non pensasse che quelle dichiarazioni femminili, in qualche misura, fossero legate al fatto che era diventato un uomo di
potere. Rispose senza esitare: «Certo, è anche una questione di potere; le donne ne sono quasi sempre affascinate». Quando gli pareva che l’interlocutore nutrisse un sospetto di millanteria, il suo narcisismo era in grado di fare rapide correzioni, misurati ritocchi, ironiche attenuazioni. Comunque non mi era difficile credere che il suo charme e il suo carisma potessero agire in modo sorprendente anche fuori del teatro. Era un parlatore di rara seduttività: colto, arguto, di un’asciuttezza elegante e nervosa, che a mio parere derivava in misura non piccola dall’essere nato e cresciuto a Firenze, dove si era laureato in architettura. Asciuttezza, garbo, «naturalezza» colloquiale (che era frutto, in parte, di uno studio assiduo) caratterizzavano anche la sua recitazione, capace di sfumature psicologiche sottili e di note drammatiche improvvise, penetranti. Una recitazione «moderna», che rifuggiva le convenzioni accademiche, i toni enfatici, gli atteggiamenti paludati. Il che spiega perché nel ’55, quando andò in onda la trasmissione da lui ideata che s’intitolava Appuntamento con la novella, milioni di spettatori sedessero settimanalmente e fedelmente davanti al televisore (si è tentati di dire: «la belle époque») per vederlo e ascoltarlo leggere i più bei racconti della letteratura italiana. Si capisce inoltre perché nel ’64, a Londra, il suo Amleto (regia di Franco Zeffirelli) riuscisse a tenere per due mesi la scena dell’Old Vic. È stato un cultore della bellezza femminile fin dagli anni della fanciul-
Un’intensa immagine di Giorgio Albertazzi risalente agli Anni Ottanta. (Marka)
lezza, quando il suo sguardo indugiava – come racconta nell’autobiografia intitolata Un perdente di successo – sull’«anca molle» e la «natica imperiosa» di zia Livia, o sulle bianche braccia di sua madre Lina, mentre stirava cantando. Negli anni tardi era solito dire – lui, ateo dichiarato – che le cosce delle donne costituivano un argomento a favore dell’esistenza di Dio. E dicendolo pa-
reva volesse contrapporre maliziosamente la sua «prova cosciologica» alla meno convincente prova ontologica di Anselmo d’Aosta. Ma non cercava solo la bellezza fisica, nelle donne. Basterà menzionare, come prova, le attrici con cui ebbe una relazione artistica e sentimentale: Bianca Toccafondi, Elisabetta Pozzi, Mariangela D’Abbraccio, e per più lungo tempo Anna Proclemer, che
gli fu compagna sulla scena e nella vita dal 1956 al ’74. Infine, estranea al mondo del teatro, e discendente di un’antica famiglia aristocratica, Pia de’ Tolomei, che sposò nel 2007. Al termine dell’incontro milanese di dodici anni fa citai una frase pronunciata – in una conferenza del ’54 successivamente edita col titolo Invecchiare: problema per artisti – dal sessantottenne Gottfried Benn: «Stanchezza, malinconia, marasma circondano la mia testa come una nube». Che cosa circondava la testa di Giorgio Albertazzi? «Una corona d’alloro per le poesie che sto scrivendo». Non ho avuto modo di leggere quei componimenti. Sospetto che fossero mediocri. Ma l’apprezzamento più antico delle sue straordinarie qualità di interprete è legato proprio a una poesia, non sua, che conobbi attraverso un disco – andato perso – che mio padre aveva acquistato nella seconda metà degli anni Cinquanta. La prima strofa diceva: «Coglierai sul nudo lito, / infinito / di notturna melodìa, / il maritimo narcisso / per le tue nuove corone, / tramontando nell’abisso / le Vergilie, / le sorelle oceanine / che ancor piangono per Ia / lacerato dal leone». Le strofe erano tre. Le avrò ascoltate un centinaio di volte. Ne ero letteralmente stregato. Non riuscivo a disgiungere i melodiosi versi di D’Annunzio dalla voce ammaliante che li pronunciava. Finché avrò memoria, il nome di Giorgio Albertazzi, per me, sarà legato soprattutto all’evanescente ricordo di quel lontano incantamento poetico e vocale. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta Uno specchio contro i problemi Ogni anno, con il ritorno della festa del 2 giugno e della sfilata delle Forze Armate ai Fori Imperiali di Roma, si rianima la ricorrente nostalgia di nonni e padri per il servizio militare obbligatorio. Si depreca il fatto che nipoti e figli ne siano esentati: la loro neghittosità di fronte ai doveri, la mancanza di puntualità, il disordine delle loro stanze, troverebbero un potente antidoto nella vita di caserma, là dove un bottone allentato o uno scarpone non lucidato, al controllo prima della libera uscita sarebbero costati il divieto di uscire dalla caserma, mentre il fucile in dotazione, non ingrassato a dovere valeva una consegna di cinque giorni. Per me il servizio di leva è stato una scuola pratica, mi ha insegnato a vivere, mi ha istruito a dovere sul mio paese e sui caratteri antropologici dei miei concittadini. Parlo di un’esperienza vissuta quasi sessanta anni or sono, perciò ignoro se il quadro sia nel frattempo mutato con l’avvento dell’esercito di mestiere. Nel mese di agosto del 1958 ho iniziato il corso di
allievo ufficiale di complemento alla scuola di Ascoli Piceno, armato dei preziosi consigli di mio padre che, essendo nato nel 1911, aveva dovuto indossare la divisa per ben sette anni, fino all’8 settembre del ’43 quando era riuscito fortunosamente a ritornare a casa. Un consiglio, in particolare, si era rivelato prezioso: «Nasconditi nella massa dei tuoi compagni. Fai in modo che i tuoi superiori non imparino mai il tuo nome o perlomeno che lo imparino più tardi possibile». Ne ho avuto la prova quando a mia volta sono stato ufficiale: dovendo assegnare un compito a un soldato, pronunciavo il primo nome che mi affiorava in mente. Era tutto un gioco, fin dalla prima adunata della compagnia in cortile. Il sergente domanda: «Chi di voi sa scrivere a macchina?». Diverse mani si alzano, da parte di reclute speranzose di essere assegnate a un comodo lavoro di ufficio. Il sergente li fa uscire dai ranghi e li spedisce in magazzino ad armarsi di scope per ramazzare l’immenso cortile. La caserma del XVII reggimento a Lodi
fare ai miei soldati; ancora oggi lo saprei fare ad occhi chiusi. Tra parentesi: erano già in funzione i missili terra-aria ma a noi non erano ancora stati assegnati. Il mio reggimento era di stanza a Lodi ma per i tiri di addestramento ci siamo trasferiti, su un treno tradotta dove la gloriosa bandiera del reggimento occupava da sola un intero scompartimento, al campo sul lido di Foceverde, nel Lazio. La batteria, composta da quattro cannoni da 90, era schierata sulla spiaggia e sparava in direzione del mare. Alle spalle dei cannoni, sulla terraferma, volavano i caccia che noi dovevamo cercare di colpire. Un grande specchio semiriflettente, posato in riva al mare e allineato rispetto all’asse di tiro, permetteva di osservare insieme le nuvolette dei colpi che esplodevano in aria e nello stesso tempo l’immagine degli aerei che scorrevano velocissimi alle nostre spalle. Se la nuvoletta dei colpi e l’immagine dell’aereo si sovrapponevano sullo specchio, era la prova che l’aereo era stato abbattuto; in caso
contrario bisognava introdurre nella centrale di tiro correzioni tali per cui al secondo o terzo passaggio avremmo potuto centrare il bersaglio. Poiché però si sparava per un solo giorno dei trenta trascorsi in un campo affollato di generali arrivati da Roma per constatare quanto eravamo stati bravi ad abbattere l’ala nemica, c’era l’ordine tassativo di non modificare i dati di tiro. Dopo il primo passaggio degli aerei, due artiglieri, guidati da un sottufficiale esperto, giravano due viti millimetriche poste alla base dello specchio e lo ruotavano di qual tanto che assicurasse al secondo passaggio degli aerei la certezza di colpire il bersaglio. Grazie a quell’istruttiva esperienza, ogni volta che, per risolvere qualche emergenza, ad esempio i rifiuti tossici nei terreni agricoli o il moltiplicarsi delle frane, viene annunciato un provvedimento legislativo, riesco a vedere un paio di funzionari guidati da un membro del governo, intenti a ruotare le viti dello specchio che riflette la soluzione definitiva dei problemi.
sostengono tesi opposte. Il primo, l’inquietante Il magico potere del riordino (Vallardi 2014), scritto da Marie Kondo, fanciulla giapponese che ci martella in testa «elimina il superfluo» e «tieni solo ciò che ti emoziona». Tra i milioni di lettori, alcuni la ringraziano per aver aperto loro nuovi orizzonti, altri la rifiutano, per aver trasformato uno degli aspetti della vita quotidiana nell’unico suo senso. Con toni da accanimento patologico: in una casa «non è normale», predica Kondo, «che si trovino più di trenta (30) libri», e altrettanto assurda sarebbe l’attività di ri-leggere un libro. E dopo questa sortita vogliamo ancora ascoltare la signora che consiglia di arrotolare i vestiti «verso l’alto»? Forse per i detti motivi ha avuto grande successo anche la parodia scritta da una fantomatica Anne Marie Canda, Il dolce piacere del disordine (Bompiani 2015). Il primo capitolo si apre con una citazione di John Lennon, che suona più o meno così: la vita è quella cosa
che scorre mentre noi siamo occupati a fare altro. Anche evitando la perfidia di affermare che, appunto, mettere in ordine è il classico «fare altro» rispetto al vivere, non possiamo non sentirci colpiti da questa idea. Così se Kondo dice di andare all’essenziale e di buttare tutto il resto (e i lettori europei dal cuore magnanimo si domandano perché buttare, non si potrebbe regalare?), ecco Canda invitarci a «fare» l’essenziale, quindi a sopravvivere anche nel disordine, anzi a viverci allegramente. Essendo l’intento di Canda più alto e difficile di quello di Kondo, maggiori sono le banalità e le ripetizioni, che comunque caratterizzano entrambe le opere. Kondo vuole insegnare a riappropiarsi degli spazi e del tempo, a non accumulare, a rompere le catene del possesso, quindi a trovare una libertà che deriva dalla libertà dalle cose. Canda si erge a maestra di vita, cattura l’attimo, non importa come si muore ma come si è vissuto, siamo noi a dare nome e forma
alle cose, quindi i nomi e le forme non possono dominarci. L’universo nasce dal caos e al caos ritorna. Insomma, temi che richiederebbero altro approfondimento scientifico e filosofico. Teniamo per buona la contrapposizione tra le due opere e l’interesse suscitato dal tema. Fare ordine, dentro e fuori di noi, è fatica, quindi saremmo interessati a trovare «il» metodo (Kondo) oppure a saper gestire sia il disordine sia l’ordine, come direbbe Canda, e in fondo come gli umani hanno sempre cercato di fare, ogni volta che un dolore, un’umiliazione, un limite è sembrato un’irruzione del caos, dell’imprevisto, nelle prevedibili pagine del nostro quotidiano. Siamo tutti Faust, disposti a tutto pur di essere noi gli «ordinatori» del mondo o di un suo aspetto. Come la musica, per la quale Adrian Leverkühn vende l’anima al diavolo, nel Doctor Faustus di Thomas Mann (da poco in una nuova traduzione di Luca Crescenzi nei Meridiani Mondadori, decisamente notevole).
svolgere. La preferenza dichiarata dal governo belga andava alla manodopera del Nord Italia, ritenendola «meno instabile» di quella meridionale, «più assidua e laboriosa», superiore sul piano delle capacità professionali, «più facile all’integrazione con la comunità locale». La Federazione Carbonifera Belga aveva una sede a Milano presso il Centro di Emigrazione di Piazza Sant’Ambrogio 3. Da lì i lavoratori, provenienti da tutte le regioni d’Italia, sarebbero stati trasferiti sotto la Stazione Centrale, dove i medici belgi avrebbero fatto le visite sanitarie necessarie per valutare la loro idoneità fisica al lavoro in miniera. Dalla stazione, i futuri operai sarebbero poi stati accompagnati sui convogli diretti ogni settimana nei diversi distretti carboniferi delle Fiandre e della Vallonia. Una volta giunti sui posti loro assegnati, senza alcun tipo di formazione professionale, gli ex contadini venivano mandati nel
sottosuolo a lavorare: la prima «discesa al fondo» era spesso uno choc, ma nonostante questo i minatori, avendo uno stipendio variabile a seconda dei metri cubi di carbone scavati, non si risparmiavano, il che aumentava i rischi di un’attività già in sé pericolosa anche per gente esperta. Dieci anni dopo, l’8 agosto 1956, quel patto avrebbe rivelato tutte le sue falsità e magagne: la mattina, verso le 8, al Bois du Cazier di Marcinelle un minatore molisano, inserendo male un carrello pieno di carbone dentro l’ascensore a 975 metri sottoterra, scatenò un incendio che in poco tempo si propagò a tutti i livelli di quella vecchia miniera dalle strutture di legno, dove i fili dell’alta tensione correvano attaccati alle tubature dell’olio (gli ingegneri avrebbero dichiarato in tribunale di non sapere che l’olio fosse combustibile). Quella mattina morirono 262 minatori (tra cui 136 italiani e 95 belgi), i soccorsi furono inutili,
così come i processi che ne seguirono (nessuno fu condannato). La sicurezza sul lavoro era poco più che nulla, il razzismo dei belgi contro i «macaronì» era all’ordine del giorno, le condizioni degli alloggi penose (le baracche dei prigionieri di guerra tedeschi), i carichi di lavoro insopportabili. Sarà banale, ma il mio pensiero va al decennio che separa il patto scellerato dalla catastrofe di Marcinelle ogni volta che sento sparlare dei migranti di oggi. Penso che certamente, frugando nel passato, si troverebbe un 23 giugno in cui almeno un lavoratore svizzero migrante (nell’Ottocento, nel Novecento…) sia stato offeso e disprezzato senza ragione trovandosi a lavorare in un paese non suo. E la stessa cosa vale per chissà quanti belgi, americani, inglesi, austriaci eccetera. Tutti cittadini di paesi in cui, dimenticata la propria miseria, spesso, per viltà o per ignoranza, si finisce per disprezzare quella degli altri.
dove ho vissuto per quasi un anno, era nel suo piccolo un modello dell’arte italiana di arrangiarsi. Quando, in sostituzione dei soldati che, terminata la leva, tornavano a casa, arrivavano i rincalzi dal CAR, Centro di Addestramento Reclute, si studiavano attentamente i loro profili; se c’era uno che da borghese faceva lo chef finiva dritto alla mensa ufficiali, con nostra grande gioia, e nessun servizio di guardia l’avrebbe sottratto ai fornelli. Un provetto ebanista costruì, un pezzo dopo l’altro, la camera da letto del nostro maggiore, andando a casa in licenza ogni fine settimana. In tutti i diciotto mesi trascorsi sotto le armi, prima come allievo di una scuola (che aveva come motto «Contro l’ala nemica mi addestro e tempro») e poi come sottotenente di artiglieria contraerea, ho sparato con i cannoni in dotazione al mio reggimento una sola volta, per mezza giornata. I colpi costavano uno sproposito, ci è stato spiegato; tutto il resto del tempo l’ho impiegato a smontare e rimontare i cannoni e facendolo
Postille filosofiche di Maria Bettetini Guerra al caos Di questi tempi veniamo tutti presi da un oscuro furore. Dopo aver trascinato tra aprile e maggio qualche scambio, scarpe leggere invece di scarponi, giacchette invece di piumini e cappotti, entrati nel mese dell’estate non ce la facciamo più. Non sopportiamo più la fatica di buttarci a peso morto nell’armadio per recuperare una maglietta di cotone, di svuotare la scarpiera per metter mano ai sandali. Un sacro furore ci possiede. A noi due, vile arredo, bara di legno dei miei acquisti, dispersi nelle tue vaste caverne, e quanto vaste: troppo poco quando si vuole aggiungere un fazzoletto, troppissimo quando ci serve quella cintura, quella che chissà in quale abisso si nasconde. Come Venere e Giunone che muovono gli elementi del cielo e della terra per aiutare o uccidere Enea, così noi si affronta il caos. Spenti i telefoni, allontanati i familiari, rimosso l’orologio, facciamo restituire all’armadio tutto ciò che si è rubato, che trasformeremo in un ordinato esercito
pronto al presentat-arm. Illusione, illusione che non risparmia nessuna delle età della vita. Hybris del demiurgo. Noi lo sappiamo che, secondo il cosiddetto «postulato» dell’entropia, in un sistema il disordine non può che aumentare, anzi aumenta con il movimento e la necessità spinge a ravanare negli appositi contenitori di abiti, scarpe, orpelli. D’altra parte rassegnarsi al crescente caos è una forma di suicidio spirituale. Arriva infatti il momento in cui qualcosa si darà per disperso, e noi non ricorderemo se avevamo una camicia rossa o l’abbiamo solo immaginata, e così col tempo compriamo cinque camicie rosse che daranno contezza di sé tutte insieme. Questo smacco e i tempi crescenti imposti al nostro vestire, oppure al contrario mettersi sempre le due cose che sono a portata di mano, ecco tutto ciò può mettere in grave pericolo la nostra vita, i nostri nervi. È un problema grave, che tocca tutti, altrimenti non si spiegherebbe il successo di due libri che
Voti d’aria di Paolo Di Stefano Migranti ieri e oggi Settant’anni fa, il 23 giugno 1946, venne siglato un patto tra il governo belga e quello italiano che prevedeva il trasferimento di 50 mila lavoratori dalla neo Repubblica verso i bacini minerari del Belgio. La campagna del primo ministro Achille Van Acker, avviata nel febbraio 1945 e nota come la «bataille du charbon», non aveva raccolto i frutti sperati: i belgi non volevano saperne di scendere nel sottosuolo a lavorare, e così le autorità di Bruxelles dovettero rivolgersi all’estero per arruolare manodopera. L’Italia annientata dalla guerra era il paese più adatto a cui attingere. Si trattò di uno scambio tra uomini e carbone: «Per ogni scaglione di mille operai italiani che lavoreranno nelle miniere, il Belgio esporterà verso l’Italia: tonn. 2500 mensili di carbone, se la produzione mensile sarà inferiore a tonn. 1’750’000; eccetera». Secondo gli accordi, quei lavoratori dovevano essere giovani (di età inferiore a 35 anni) e forti per affrontare
le miniere. I manifesti rosa affissi sui portoni delle chiese e dei comuni di ogni villaggio e città per il reclutamento parlavano di «lavoro sotterraneo» e di «condizioni particolarmente vantaggiose», quantificavano il salario minimo giornaliero, i premi previsti, il valore delle assicurazioni, l’ammontare degli assegni familiari. Precisavano che gli operai avrebbero ricevuto 4200 kg di carbone gratuito all’anno, che le assenze giustificate dal lavoro sarebbero state pagate e che i biglietti ferroviari nelle tratte italo-belghe sarebbero stati offerti gratuitamente. Inoltre calcolavano la quantità delle ferie e garantivano che i risparmi in denaro potevano essere inviati, come «rimesse», alle famiglie rimaste in Italia. Si soffermavano poi sugli alloggi, promettendo piccoli appartamenti messi a disposizione dall’Amministrazione mineraria. Nulla di più aggiungevano sul tipo di attività che quei giovani erano chiamati a
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shopping L’assalto delle fragole svizzere Attualità Nel nostro paese quest’anno la raccolta della regina delle bacche è particolarmente positiva
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Con il loro aroma intenso e la straordinaria versatilità le fragole sono sicuramente tra i frutti più amati da grandi e piccoli. Oltre alla loro bontà, le fragole sono tuttavia preziose anche per la nostra salute: sono ricche di vitamina C – ne contengono addirittura di più dei limoni e delle arance – e possono contare su un buon contenuto di importanti sali minerali, oligoelementi e acido folico. Inoltre le fragole fresche sono un ottimo alleato della linea, dal momento che il loro tenore calorico è di sole 33 calorie ogni 100 grammi di frutto. Chi è più attento alla provenienza dei prodotti, predilige le deliziose fragole svizzere coltivate nel rispetto dell’ambiente. Esse arrivano sugli scaffali dei negozi con tempi di trasporto brevi e a piena maturazione, pronte per essere consumate al momento giusto.
Quest’anno in Svizzera, grazie ad un clima favorevole, la stagione delle fragole è stata particolarmente generosa: si stima che sul mercato giungeranno all’incirca 7000 tonnellate di bacche. La superficie destinata alla loro coltivazione si estende su 520 ettari; la maggior parte della produzione si concentra nei cantoni di Zurigo, Turgovia e Altopiano bernese (fonte: Associazione Frutta Svizzera). Le fragole dalla Valle del Reno grigionese
Uno dei fornitori di Migros Ticino di fragole svizzere è l’azienda Beiner + Berther di Landquart, nel Canton Grigioni. Su una superficie di ca. 40 ettari l’azienda coltiva – secondo i criteri di SwissGAP – principalmente fragole e, in misura minore, anche lamponi e
prugne. Il suo raccolto annuale di fragole è di ca. 500 tonnellate. Le piantine di fragole vengono messe a dimora manualmente durante il mese di luglio in un terreno soffice e ben drenato onde evitare i ristagni d’acqua. Le annaffiature e le concimazioni vengono fatte regolarmente secondo i bisogni delle piante e tenendo conto delle condizioni climatiche. Per proteggere le piante da freddo, sporcizia e marciume, si fa ricorso alla pacciamatura con paglia. La paglia inoltre riduce l’essiccamento del terreno, ne incrementa la fertilità e viene trasformata dagli organismi del suolo in prezioso humus. La raccolta delle fragole ha inizio verso la fine di maggio e si protrae fino a fine giugno. Una volta raccolti, i frutti vengono accuratamente selezionati a mano, quindi refrigerati e dopo poche ore prendono la via dei negozi.
Jürg Beiner, titolare dell’azienda Beiner + Berther di Landquart, specializzata nella produzione di fragole.
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Bresaola di alta qualità Novità I banchi salumeria delle maggiori filiali Migros hanno introdotto una vera chicca gastronomica:
la Bresaola di Fassone Piemontese Per la qualità delle sue carni la razza bovina autoctona Fassone Piemontese è considerata una delle più pregiate non solo in Italia, ma anche a livello internazionale. Il Fassone possiede una caratteristica livrea bianca, un collo lungo e massiccio e una struttura muscolare robusta e importante. Il Fassone è allevato quasi esclusivamente per la produzione di carne, che spicca per i suoi valori gustativi e dietetici-nutrizionali. Povera di grassi e colesterolo, è addirittura più magra di alcune carni bianche e pesci. Inoltre si contraddistingue per una scarsa presenza di tessuto connettivo tra le fibre muscolari, aspetto che contribuisce a renderla particolarmente tenera alla masticazione. Con la Bresaola Gran Piemonte, il Salumificio piemontese Nino Galli, attivo da quattro generazioni in questa Regione, desidera valorizzare ulteriormente la pregiata carne bovina della Razza Piemontese. Le varie fasi di produzione prevedono l’accurata selezione dei tagli di carne da parte dei mastri salumieri, nella fattispecie la punta d’anca, la salatura e speziatura manuale a secco e la successiva lunga stagionatura in appositi locali arieggiati a temperatura e umidità controllate. L’intento è quello di mantenere invariate le particolari e uniche sensazioni che si percepiscono consumando questa varietà di carne. Alla degustazione la Bresaola Gran Piemonte conquista il palato dei buongustai per la sua delicata dolcezza e incomparabile tenerezza. Bresaola Gran Piemonte 100 g Fr. 9.50 In vendita nelle maggiori filiali Migros
Un gusto inimitabile da oltre cent’anni Novità La celebre Amarena Fabbri apporta
Flavia Leuenberger
creatività e bontà alla cucina di tutti i giorni. Lo storico prodotto è ora disponibile nei supermercati di Migros Ticino
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La storica Amarena Fabbri nell’inconfondibile vaso di ceramica di colore bianco e blu approda sugli scaffali dei supermercati di Migros Ticino. La specialità è prodotta sin dal 1905 in Emilia-Romagna seguendo la ricetta originale sviluppata dalla moglie del fondatore dell’azienda, Gennaro Fabbri. Da sempre viene venduta nel caratteristico vaso di vetro opalescente. Le migliori amarene di coltivazione locale sono denocciolate e candite in scirop-
po fatto con le amarene stesse. Grazie alla loro qualità e dolcezza, le amarene Fabbri sanno conferire quel tocco di bontà e creatività in più a moltissime ricette, non solo dolci, ma anche salate: dalle torte al gelato, dai dessert ai cupcake, passando per le bevande e i formaggi fino ai risotti e alle carni… non c’è praticamente limite al loro utilizzo. Per scoprire tante altre idee alternative d’uso dell’Amarena Fabbri vai su www.amarenafabbri.com.
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Carne Migros: la scelta degli chef Gastronomia Il ritratto dei ristoranti: Ristorante della Torre di Morcote
Il Ristorante della Torre di Morcote è gestito con grande attenzione e cura dalla famiglia Suter (nella foto sotto Massimo Suter). (Flavia Leuenberger)
Il Ristorante della Torre ha sede in un antico edificio sul lungolago di Morcote, accanto alla Torre del Capitano. La prima sensazione che si prova entrando è quella di essere in un’elegante casa; i locali sono stati completamente ristrutturati, ma gli arredi, i soffitti e i colori alle pareti rispettano la storica tradizione ticinese. Ogni tavolo ha un particolare che lo rende unico: la forma, le sedie, i colori di ognuno danno l’idea di un salotto accogliente e familiare. I clienti abituali chiedono spesso «il loro tavolo». Dal 2014 il locale è gestito da Monica e Massimo Suter e la lunga esperienza nel settore si percepisce da subito. Grande attenzione viene data ai prodotti locali, sia nel piatto che nel bicchiere, dove i vini ticinesi occupano circa il 97 per cento dell’offerta della carta. Il giovane chef, Salvatore San Filippo, interpreta con maestria i piatti della tradizione aggiungendovi un tocco di creatività. Da provare sono la Tartare di Fassona, il Polpo scottato, l’Ossobuco o il Brasato con polenta e funghi porcini e il Fegato d’oca. I piatti sono una gioia degli occhi, oltre che del palato: la mise en place è infatti chic e colorata.La filosofia del proprietario è di orientarsi a diversi tipi di pubblico, dai giovani alle famiglie, dai locali ai turisti che passano una giornata nella bella Morcote. Per questo, alle proposte più sofisticate del promettente chef, si affiancano le pizze e piatti semplici e veloci o deliziosi aperitivi nel bistrot adiacente, sempre arredato con piccoli salottini esterni, ognuno con il proprio stile e carattere. www.carnemigros.ch
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Optigal Con il taglio «butterfly» (a farfalla) il pollo si cuoce prima ed è più facile da dividere in porzioni.
Svizzero puro Da oltre mezzo secolo Optigal, il marchio di pollame della Migros, è sinonimo di qualità e rispetto degli animali. Tutte la catena produttiva si svolge in Svizzera, dall’allevamento alla vendita al dettaglio Testo Ursula Bickel, Thomas Tobler; Illustrazioni Olivia Aloisi; Foto Daniel Aeschlimann; Ricetta Regula Brodbeck
Incubazione e cova Ogni settimana a Grangesprès-Marnand, nel Canton Vaud, arrivano circa 440 000 uova. Nel vivaio vengono esaminate, inserite nelle incubatrici a 37,8 gradi e rigirate ogni ora. Dopo 18 giorni di incubazione, le uova vengono trasferite nelle postazioni di cova e dopo altri tre o quattro giorni nascono i pulcini.
Optigal Pollo intero, Svizzera al kg Fr. 7.60 invece di 9.50 Azione 20 % di sconto dal 14 al 20 giugno
Ambiente
Ecobilancio positivo Optigal possiede gli allevamenti di pollame più rispettosi del clima A tale conclusione è giunto un recente studio di Agroscope, il centro di competenza della Confederazione per la ricerca agronomica, che conferma come Optigal consumi una quantità significativamente minore d’energia rispetto alle aziende analoghe, sia svizzere che straniere. Da un anno solo soia dal Norditalia Rinunciando completamente alle importazioni di soia dal Brasile, si salvaguarda la foresta pluviale e si usano vie di trasporto più brevi. Ogni anno ciò comporta il 15 percento di emissioni di CO2 in meno sull’intera produzione di pollame, equivalente in media alle emissioni di CO2 annue di 3500 automobili. Inoltre, la produzione di soia in Norditalia necessita di meno superficie agricola destinata a mangime, con un risparmio di 1200 ettari (11%) di terreni coltivabili. Questa superficie corrisponde mediamente a 60 aziende agricole svizzere.
Optigal Petto di pollo, Svizzera per 100 g Fr. 2.60 invece di 3.30 Azione 20 % di sconto dal 14 al 20 giugno
Tracciabilità La carne di pollo viene lavorata per ottenere svariati prodotti. Dai centri di distribuzione della Migros, essi sono poi avviati verso le filiali e i relativi ristoranti. Sulla maggior parte degli imballaggi dei prodotti Optigal, come ad esempio il pollo intero, è segnalata la fattoria di provenienza.
Mangime I pulcini vengono allevati in diverse fattorie della Svizzera. Essi ricevono puro mangime vegetale composto da granaglie, crusca di semi di girasole, piselli, soia, sali minerali e vitamine. Queste sostanze di alta qualità provengono dalle nazioni vicine – ad esempio la soia è del Norditalia – e non contengono organismi geneticamente modificati. Il mangime è prodotto in Svizzera e sterilizzato a vapore.
Pollo alla griglia butterfly Piatto principale per 4 persone
Optigal Sminuzzato di pollo, Svizzera al kg Fr. 27.20 invece di 34.– Azione 20 % di sconto dal 14 al 20 giugno
Optigal Carne macinata di pollo, Svizzera vaschetta da 310 g Fr. 4.70 invece di 5.90 Azione 20 % di sconto dal 14 al 20 giugno. Nelle maggiori filiali Migros
Ingredienti 1 pollo di ca. 1 kg ½ mazzetto di rosmarino e di timo 2 cucchiai di crema per arrostire o burro per arrostire 1 cucchiaino di sale ½ cucchiaino di curry in polvere 1 cucchiaio di succo di limone 2 teste d’aglio sale marino, pepe
2. Scaldate il grill a 250 °C. Rosolate il pollo ca. 5 minuti per lato. Abbassate molto la fiamma e cuocete il pollo coperto per ca. 50 minuti, finché la carne non ha raggiunto una temperatura interna di 80 °C. Verso fine cottura, tagliate le teste d’aglio a metà in senso orizzontale, conditele con sale e pepe e grigliatele con il pollo. Prima di tranciarlo, fate riposare il pollo per ca. 5 minuti.
Preparazione 1. Posate il pollo sul tagliare con il petto rivolto verso il basso. Con un trinciapollo, tagliate lungo la colonna vertebrale da entrambi i lati e rimuovetela. Aprite il pollo a libro e schiacciatelo sulla superficie di lavoro. Staccate lo sterno con l’ausilio di un coltello affilato. Sciacquate il pollo con acqua fredda e asciugatelo con carta da cucina. Girate il pollo sull’altro lato e ripiegate le cosce verso l’interno, legandole insieme nella parte più fine con dello spago da cucina. Staccate gli aghi di rosmarino e le foglie di timo dai rametti e tritateli. Mescolate la crema per arrostire con il sale, il curry, il succo di limone e le erbe tritate. Spennellate il pollo con il condimento da entrambi i lati.
Suggerimento Il pollo può essere preparato anche in forno a 200 °C in una teglia. Tempo di preparazione ca. 20 minuti + cottura alla griglia ca. 55 minuti + riposo ca. 5 minuti Per persona ca. 45 g di proteine, 37 g di grassi, 5 g di carboidrati, 2200 kJ/530 kcal
Ricette di
www.saison.ch
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Idee e acquisti per la settimana
Léger
Cucina estiva leggera Léger French Dressing alle erbe 700 ml Fr. 2.80
Piatto estivo di polpette Piatto principale per 4 persone Ingredienti ½ peperone 300 g di carne macinata di manzo* ½ cucchiaino di senape sale, pepe 1 cucchiaio d’olio per rosolare 1 mozzarella di 150 g* sale alle erbe 250 g di pomodori cherry *In vendita come prodotto Léger Chips, burger, polpettine: coi prodotti Léger si banchetta senza rimorsi.
Preparazione Tagliate il peperone a dadini e mescolatelo bene con la carne macinata e la senape. Condite con sale e pepe e formate delle polpettine. Rosolatele bene nell’olio a fuoco medio-basso per 5-7 minuti. Tagliate la mozzarella in quattro e cospargetela con un pizzico di sale alle erbe. Servite le polpettine con la mozzarella e pomodori cherry. Suggerimento Accompagnate con una manciata di chips alla paprica*. Tempo di preparazione ca. 30 minuti Per persona ca. 40 g di proteine, 13 g di grassi, 3 g di carboidrati, 1200 kJ/300 kcal
Ricette di
www.saison.ch
Voglia di una leggera grigliata in bella compagnia? Di una cena che non resti per ore sullo stomaco? Con Léger, missione compiuta! Infatti i prodotti Léger, rispetto ai quelli convenzionali, contengono almeno il 30% in meno di grassi, calorie o carboidrati. Attualmente alla Migros sono disponibili oltre 90 prodotti con il marchio Léger, che senza troppa fatica permettono di preparare piatti estivi ricchi di gusto.
Léger Formaggio di pecora 150 g Fr. 3.– Léger Pane proteico 400 g Fr. 3.50
Léger Fit-Onnaise Classic 280 g Fr. 1.75
Léger Chips Paprika 200 g Fr. 3.90
Léger Macinata di manzo* 300 g Fr. 6.75 Nelle maggiori filiali Migros
Léger Mozzarella 150 g Fr. 1.75
Léger Hamburger di manzo* 230 g Fr. 6.10
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Idee e acquisti per la settimana
Farmer
Cremosi e croccanti
Farmer Joghurt Crunchy More & Mela Limited Edition 225 g Fr. 1.60* invece di 2.–
In un vasetto Farmer c’è tutto quello che serve per un piccolo pasto fuori casa: joghurt, müesli e cucchiaio.
Offerta speciale 20% di sconto su tutto l’assortimento di Joghurt Farmer dal 14 al 20.6 Per colazione a casa oppure come snack quando si è in giro: gli joghurt firmati Farmer sono un piccolo pasto ideale. Il croccante müesli contenuto nel coperchio va mischiato appena prima del consumo con il cremoso joghurt nature di latte svizzero, leggermente zuccherato. Il cucchiaio integrato permette di gustarlo ogniqualvolta la fame si fa sentire. Gli Joghurt Farmer sono disponibili in quattro varianti di gusto.
Farmer Joghurt Crunchy Choco 225 g Fr. 1.60* invece di 2.–
Farmer Joghurt Crunchy Bacche 225 g Fr. 1.60* invece di 2.–
Farmer Joghurt Crunchy Pecan 225 g Fr. 1.60* invece di 2.–
L’M-Industria produce numerosi prodotti Migros, tra cui anche gli Joghurt Farmer.
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Idee e acquisti per la settimana
Anna’s Best
Anche l’occhio vuole la sua parte Voglia di cambiamenti? Allora provate i tre nuovi gustosissimi sandwich di Anna’s Best. Il più spettacolare dal profilo ottico è senz’altro il nuovo panino tutto nero al prosciutto, guarnito di cetrioli, salsa cocktail e lattuga. Ovviamente, in occasione delle settimane dei Campionati europei di calcio, non può mancare il bretzel a forma di pallone. È farcito con salame, lattuga e pomodori e un tocco di salsa tartara per insaporirlo ulteriormente. Nella linea Vegi viene proposto un nuovo sandwich alla crema di formaggio con cetrioli, carote alla julienne e ravanelli.
Azione 20X Punti Cumulus per i tre nuovi sandwich di Ann’s Best dal 14 al 20 giugno
I nuovi panini di Anna’s Best fanno venir voglia di pranzare all’aria aperta.
* nelle maggiori filiali Migros
Il biochar è un colorante naturale, prodotto dalla combustione incompleta di materie vegetali come il legno o i gusci di noci di cocco. Per il suo sandwich Black Edition, Anna’s Best ha aggiunto alla farina da treccia una miscela di farina annerita. Il biochar è innocuo per la salute e non influenza minimamente il sapore. Anna’s Best Sandwich degli Europei al salame 135 g* Fr. 4.50
Anna’s Best Sandwich Black Edition al prosciutto 185 g* Fr. 4.90
Anna’s Best Vegi Sandwich crema di formaggio 210 g* Fr. 5.50
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Idee e acquisti per la settimana
Cascara Ice Tea
Un tè dal frutto del caffè Dolce, rinfrescante, con un leggero aroma di miele ed arancia: sono le caratteristiche di Ice Tea Pur, l’ultimo nato della gamma di tè freddi Cascara della Migros. Questa bevanda fredda dal colore ambrato viene prodotta con la buccia secca della drupa, il frutto del caffè. L’aggiunta di sciroppo di agave le conferisce un sapore delicatamente dolce. Chi predilige gusti più fruttati, li trova nelle varanti a base dei pregiati estratti vegetali di sambuco e camomilla, pitaya e matè, rabarbaro e finocchio.
Azione 20X Punti Cumulus
Cascara Ice Tea Sambuco & Camomilla 50 cl* Fr. 1.65
su tutti gli Ice Tea Cascara fino al 20 giugno
Cascara Ice Tea Pur 50 cl Fr. 1.65
Cascara Ice Tea Pitaya & matè 50 cl* Fr. 1.65
Cascara Ice Tea Rabarbaro & finocchio 50 cl* Fr. 1.65 *Nelle maggiori filiali
Con una fettina di limone, il gusto dei tè freddi Cascara è ancora più frizzante.
L’Industria Migros produce numerosi prodotti, tra i quali anche i tè freddi Cascara.
Azione 20%
40%
2.60 invece di 3.30
10.80 invece di 18.–
Fettine di pollo Optigal Svizzera, per 100 g
45% 2.70 invece di 4.95 Pesche noci gialle Spagna / Italia / Francia, al kg
Carne di manzo macinata M-Classic Svizzera, al kg
20% Azione assortimento
20% Azione assortimento
Tutto l’assortimento di spiedini di pesce fresco Tutto il caffè Chicco d’Oro per es. salmone / merluzzo, Atlantico nord-orientale, 250 g e 500 g (escluse capsule), per es. macinato, per 100 g, 3.45 invece di 4.45, fino al 18.6 500 g, 8.20 invece di 10.30
a partire da 2 pezzi
30% Azione assortimento Tutti i meloni interi (prodotti Migros Bio e Sélection esclusi), per es. Charentais, Spagna / Francia, il pezzo, 2.65 invece di 3.80
50% Azione assortimento Tutto l’assortimento Migros Topline per es. shaker, blu, 0,5 litro, il pezzo, 4.80 invece di 9.60, offerta valida fino al 27.6.2016
Migros Ticino Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli M-Budget e quelli già ridotti. OFFERTE VALIDE SOLO DAL 14.6 AL 20.6.2016, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
50% Azione assortimento Tutti i detersivi Total a partire da 2 pezzi, 50% di riduzione
20%
30%
4.10 invece di 5.15
2.10 invece di 3.–
Président Carré Gourmet 350 g
33% 1.95 invece di 3.20 Cetrioli Migros Bio Ticino, il pezzo
Patate novelle Ticino, sciolte, al kg
20% Azione assortimento Tutti gli yogurt Farmer per es. con noci di pecan, 225 g, 1.60 invece di 2.–
30%
25%
33%
3.75 invece di 5.40
4.40 invece di 5.90
2.50 invece di 3.90
Mozzarella Galbani in conf. da 3 3 x 150 g
Pomodori Cuore di bue Ticino, imballati, al kg
Peperoni Migros Bio Spagna, in busta da 400 g
20% 1.60 invece di 2.– Emmentaler Migros Bio per 100 g
20% Azione assortimento Tutto l’assortimento di Piadine e Cascioni Artigianpiada per es. prosciutto cotto e formaggio, 160 g, 2.80 invece di 3.60
25%
33%
25%
33%
3.65 invece di 4.90
3.95 invece di 5.90
2.15 invece di 2.90
3.95 invece di 5.90
Albicocche Migros Bio Spagna, in conf. da 500 g
Fragole Svizzera, in conf. da 500 g
Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DAL 14.6 AL 20.6.2016, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
Insalata ticinese Ticino, in conf. da 200 g
Mirtilli Migros Bio Spagna, vaschetta, 250 g
20% 19.20 invece di 24.– Formaggella Blenio «Ra Crénga dra Vâll da Brégn» prodotta in Ticino, in self-service, al kg
! re e c ia p ro e v n u è ì s o c a s e p Far la s
25% Prodotti Cornatur in conf. da 2 per es. fettine di quorn con mozzarella e pesto, 2 x 240 g, 9.70 invece di 13.–
20% Azione assortimento Tutti i succhi freschi Migros Bio per es. succo d’arancia, 75 cl, 2.70 invece di 3.40
2. –
di riduzione
10.90 invece di 12.90 Tutte le rose Fairtrade, mazzo da 20 disponibili in diversi colori, lunghezza dello stelo di 40 cm, per es. rosse
20% Creme dessert Tradition in conf. da 4 per es. alla vaniglia, 4 x 175 g, 4.15 invece di 5.20
– .4 0
di riduzione Tutte le corone del sole Migros Bio per es. pane fresco, 360 g, 2.50 invece di 2.90
OFFERTE VALIDE SOLO DAL 14.6 AL 20.6.2016, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
20% Pasta Migros Bio in conf. da 3 per es. agnolotti all’arrabbiata, 3 x 250 g, 11.70 invece di 14.70
20% 4.45 invece di 5.60 Lattuga rossa Anna’s Best in conf. da 2 2 x 150 g
20% Jumpy’s alla paprica, Flips o Popcorn Chips in conf. da 2 per es. Jumpy’s alla paprica, 2 x 100 g, 3.65 invece di 4.60
50% 3.80 invece di 7.60 Chicchi di mais M-Classic in conf. da 8 8 x 285 g
PUNTI
20x Azione assortimento Tutto l’assortimento Alnatura o Alnavit per es. chips di mais Alnatura, 125 g, 1.70, offerta valida fino al 27.6.2016
20% Azione assortimento Tutti i burger surgelati per es. hamburger M-Classic, 8 x 90 g, 8.30 invece di 10.40
a partire da 2 pezzi
20% Azione assortimento Tutti i piatti pronti Knorr a partire da 2 pezzi, 20% di riduzione
a partire da 2 confezioni
30% Azione assortimento Tutta la pasta M-Classic a partire da 2 confezioni, 30% di riduzione
20% 2.40 invece di 3.05 Peanuts Red & White M&M’s Special Edition, 220 g
20% Azione assortimento Tutte le bibite Limonada per es. Lemon & Lime, 1 l, 1.50 invece di 1.90
50%
50%
9.– invece di 18.–
Azione assortimento
MegaStar in conf. da 12 mandorla, vaniglia o cappuccino, per es. cappuccino, 12 x 120 ml
Hit
Tutto l’assortimento di tessili per la cucina o la tavola Cucina & Tavola per es. asciugapiatti, verde, in conf. da 2, 4.90 invece di 9.80, offerta valida fino al 27.6.2016
20%
6.95
Azione assortimento
Coca-Cola Classic in bottiglie di vetro, 6 x 250 ml
Tutta la frutta secca o tutte le noci Migros Bio per es. pinoli, 100 g, 5.80 invece di 7.30
50% 30%
Azione assortimento
Tutte le padelle Greenpan* in acciaio inox, indicate anche per i fornelli a Carta per uso domestico Twist in conf. speciale induzione, per es. padella a bordo basso Miami Style o Pure Quattro, per es. Style, FSC, 8 rotoli, 5.85 Marathon, Ø 28 cm, il pezzo, 29.50 invece di 59.–, invece di 8.40, offerta valida fino al 27.6.2016 offerta valida fino al 27.6.2016
a partire da 2 pezzi
– .5 0
di riduzione l’uno
Azione assortimento Tutti gli sciroppi in bottiglie di PET da 75 cl o da 1,5 l a partire da 2 pezzi, –.50 di riduzione l’uno, per es. al lampone, 1,5 l, 3.75 invece di 4.25
25% Tutti i succhi M-Classic in conf. da 8, 8 x 25 cl succo d’arancia, Fairtrade o succo di mele, per es. succo d’arancia, Fairtrade, 2.70 invece di 3.60
*In vendita nelle maggiori filiali Migros. OFFERTE VALIDE SOLO DAL 14.6 AL 20.6.2016, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
50% 2.85 invece di 5.70 Vittel in conf. da 6, 6 x 1,5 l
20% Azione assortimento Tutti i cereali Migros Bio per es. semi di zucca, 400 g, 4.95 invece di 6.20
50% Azione assortimento
50%
Tutte le caffettiere o tutti i montalatte Bialetti Pentola a pressione Duromatic Ergo Kuhn Rikon per es. caffettiera argento per 6 tazze, il pezzo, 14.90 3,5 o 5 litri, per es. 5 litri, il pezzo, 72.50 invece di invece di 29.80, offerta valida fino al 27.6.2016 145.–, offerta valida fino al 27.6.2016
Tutte le bevande Migros Bio, per es. tè freddo alle erbe delle Alpi svizzere, 1 l, 1.25 invece di 1.60 20%
Altre offerte. Pesce, carne e pollame
Tutto l’assortimento di dolciumi Migros Bio, per es. tavoletta di cioccolato Cremant, Fairtrade, 100 g, 1.45 invece di 1.85 20% ** Tutte le gallette di riso Migros Bio, per es. gallette di riso e mais, 200 g, 1.50 invece di 1.90 20%
Fiori e piante
Arrosto spalla di vitello TerraSuisse, Svizzera, imballato, per 100 g, 2.95 invece di 3.70 20%
Chips Migros Bio, al naturale o alla paprica, per es. al naturale, 140 g, 2.10 invece di 2.65 20%
Salame del mendrisiotto, prodotto in Ticino, pezzo da ca. 400 g, per 100 g, 3.25 invece di 4.10 20% Filetti di trota affumicati Migros Bio in conf. da 3, d’allevamento, Danimarca, 3 x 100 g, 10.50 invece di 15.– 30%
a partire da 2 pezzi
20% Azione assortimento Tutte le colorazioni L’Oréal o Garnier a partire da 2 pezzi, 20% di riduzione
25% Conf. da 2 in azione I am Natural Cosmetics in conf. da 2 per es. sapone liquido in conf. di ricarica, 2 x 300 ml, 4.50 invece di 6.–
a partire da 2 pezzi
Pane e latticini Millefoglie alla crema, escluso Léger, 288 g, 2/157 g, 220 g e 5/390 g, per es. Big M-Classic, 220 g, 2.30 invece di 2.90 20% Torta di pane nostrana 210 g, 3.80 invece di 4.80 20% Tutti i cake della nonna, per es. al cioccolato, 420 g, 4.– invece di 5.– 20%
Tutto l’assortimento di surgelati Migros Bio, per es. lamponi, 300 g, 3.45 invece di 4.35 20%
Tutto l’assortimento di riso Migros Bio, per es. riso integrale Natura, 1 kg, 2.60 invece di 3.30 20% Merendine Dal Colle, esclusi Iron Teg, Wonder Rella, Spider Milk e Captain Milk, per es. Bonn cioccolato, 252 g, 2.15 invece di 2.70 20% Cialde finissime ChocMidor in conf. da 3, Classico, Noir o Diplomat, per es. Classico, 3 x 165 g, 5.70 invece di 8.55 33% Soft Cake in conf. da 3, all’arancia o al lampone, per es. all’arancia, 3 x 150 g, 3.20 invece di 4.80 3 per 2
Treccia al burro, 700 g, 3.– invece di 4.50 33% Offerta valida dal 16.6 al 18.6.2016
Miscela per brownies in conf. da 2, 2 x 490 g, 8.50 invece di 12.20 30%
Leckerli finissimi, 1,5 kg, 12.70 Hit Latte intero Migros Bio, UHT, 4 x 1 l, 6.10 invece di 7.20 15% *
20%
Arachidi o noci miste Migros Bio, per es. arachidi, 250 g, 1.35 invece di 1.70 20%
Pomodori pugliese Polli, 535 g, 5.90
Brezel di Sils, 130 g, 1.20 invece di 1.50 20%
Tutte le pizze Anna’s Best, a partire da 2 pezzi, 2.– di riduzione, per es. prosciutto e mascarpone, 395 g, 4.90 invece di 6.90
20% Tutti i mascara, gli eyeliner o gli ombretti Manhattan a partire da 2 pezzi, 20% di riduzione
Phalaenopsis, 2 steli, in vaso da 12 cm, per es. di colore rosa, la pianta, 11.80 invece di 16.90 30%
Altri alimenti
Brezel alle mandorle, 110 g, –.50 di riduzione, 2.10 invece di 2.60
Azione assortimento
Tutti i brodi Knorr, per es. brodo di verdure, 109 g, 3.25 invece di 4.10 20%
Tutti i tipi di senape, maionese o ketchup bio (prodotti Alnatura esclusi), per es. maionese Migros Bio, 265 g, 1.75 invece di 2.20 20% Purea di patate, rösti o rösti al formaggio Mifloc Migros Bio, per es. rösti, 500 g, 1.95 invece di 2.45 20%
Ghiaccioli Ice Party, 980 ml, 7.55 invece di 10.80 30% ** Gamberetti tail-on Pelican cotti, ASC, surgelati, 750 g, 17.– invece di 24.30 30%
Near Food/Non Food
Tavolette di cioccolato Tourist Frey da 100 g in conf. da 6, UTZ, al latte, fondente o bianco, per es. al latte, 6 x 100 g, 9.45 invece di 13.50 30% Ammorbidente Exelia in flaconi da 3 l, per es. Lavender, Limited Edition, 7.80 invece di 13.– 40% **
50% 99.50 invece di 199.– Surftab breeze Trekstor display IPS da 9,6", processore Intel, memoria interna da 16 GB, Android 5.1.1, il pezzo
Fotocamera da 16 megapixel
Raggio d’azione di 12 m
Ora
Ora
Hit 19.90 Pigiama da donna Ellen Amber disponibile in fucsia, blu medio o viola e in diverse misure, per es. fucsia, tg. S, il pezzo
15% Conf. da 2 in azione Shampoo o balsamo Elseve in conf. da 2 per es. shampoo Color-Vive, 2 x 250 ml, 6.– invece di 7.10
Galaxy S5 neo nero Quadribanda, Android 5.1, LTE (4G), GPS, flash LED, schermo touch Super AMOLED Full HD da 5,1" – 7946.064
398.–
Aspirapolvere UltraOne ZUOORIGWR+ 800 W, 66 dB, con bocchetta per pavimenti duri, bocchetta Silent 3 in 1, bocchetta a lancia, bocchetta per poltrone e pennello per la polvere – 7171.599
IL MIGLIORE AL MONDO PER ME: ANCORA PIÙ CONVENIENTE Le offerte sono valide dal 13.6 al 27.6.2016 e fino a esaurimento dello stock. Trovi questi e molti altri prodotti nei punti vendita melectronics e nelle maggiori filiali Migros. Con riserva di errori di stampa e di altro tipo.
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Novità
PUNTI
20x
Gazpacho Andaluz Migros Bio, 500 ml, 4.90 Novità ** Fun Factory Vibrator Jam, il pezzo, 19.80 Novità ** Bagnoschiuma Herbs vitalizing, 400 ml, 5.50 Novità **
Sandwich al prosciutto Anna’s Best, Black Edition, 185 g, 4.90 Novità **
A
Finora 399.–
Reggiseno a bustino Ellen Amber in conf. da 2, disponibili in diversi colori e misure, per es. nero e bianconero a righe, tg. S, 17.90 Hit **
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Tutti i tipi di cereali in chicchi, di legumi o di quinoa Migros Bio, per es. quinoa bianca Fairtrade, 400 g, 3.95 invece di 4.95 20% Tutte le spezie bio (prodotti Alnatura esclusi), per es. Herbamare Original A. Vogel, 250 g, 3.40 invece di 4.25 20%
Tutti i tipi di spezie LeChef, a partire da 2 pezzi, 1.– di riduzione l’uno, per es. carne, 65 g, 2.50 invece di 3.50
Salviettine umide per bebè Milette in conf. da 4 per es. Ultra Soft & Care, 4 x 72 pezzi, 9.30 invece di 11.80
Tutte le conserve o tutti i piatti pronti Migros Bio, per es. purea di mele, 445 g, 1.35 invece di 1.70 20%
Passeggino Buggy London Up Black Chicco, il pezzo, 79.– Hit *,**
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Pasta per crostate aha!, 400 g, 5.70 Novità **
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Idee e acquisti per la settimana
Noi firmiamo. Noi garantiamo.
C’era una volta alla Migros Sono molti i ricordi d’infanzia che hanno come protagonista la Migros. Eccone una selezione corredata di immagini in bianco e nero. Troverete altri aneddoti sul sito www.momenti-migros.ch. Aspettiamo con gioia le vostre storie e fotografie… anche a colori!
Chi ha figli lo sa: i genitori devono mantenere assolutamente segreto il posto dove si conservano i dolciumi. Altrimenti succede quello che ci confessa Esther.
3
Di quella gita al porto sul Reno del 1961, Stephan non ricorda più nulla. Aveva solo nove mesi e scoppiò a piangere finché mamma Agnes non gli mise in mano due Margherite, i celebri biscotti della Migros.
5
Nell’estate del 1958, Margrit e la sua sorellina dovettero mangiare il loro gelato Migros così velocemente che quasi ebbero un malore. Il motivo lo scoprirete su www.momenti-migros.ch
1
Momenti Migros sotto forma di fumetto Raccontaci il tuo aneddoto Migros e potrai vincere un quadro autografo
«Quando papà riceve la paga, si mangia pollo»: è quanto veniva detto alla piccola Marianne di cinque anni. Il suo stupore fu poi grande, il giorno che alla Migros scoprì l’infinita varietà di pollo.
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6
Con un padre che faceva l’assicuratore, la famiglia della piccola Hilde doveva fare la spesa dai clienti di papà. Riuscivano, però, comunque a procurarsi i prodotti della Migros.
che ritrae la tua storia, oltre a una carta regalo Migros del valore di 100 franchi. Entro il 17 giugno, il pittore Alexey Cubas (in foto) sceglierà su www.momenti-migros.ch tre aneddoti fra tutti quelli inviati dai clienti e per ognuno rappresenterà il «momento Migros» in un dipinto.
Ecco come fare
Foto zVg
Via sito internet: raccontate il vostro momento Migros su www.momenti-migros.ch
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Un tempo si portava a casa la spesa con dei cestini. Il motivo per cui Heidi aveva anche una borsa ce lo racconta lei stessa.
Via social media: condividete i vostri momenti Migros su Instagram o Twitter. È sufficiente rendere pubblico il vostro profilo con il vostro testo, foto o video tramite l’hashtag #MomentiMigros. Ogni settimana vi sono in palio 10 carte regalo Migros del valore di 50 franchi ciascuna.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 13 giugno 2016 ¶ N. 24
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Idee e acquisti per la settimana
Cheeasy
Più che solo formaggio
Gli stick di formaggio Cheeasy sono facilmente porzionabili, dal momento che la pratica confezione è richiudibile.
Gli utenti di Migipedia sono entusiasti dei nuovi stick al formaggio per l’insalata. Citiamo: «Sono mega sfiziosi, soprattutto tra un pasto e l’altro. Ne vogliamo ancora!». I bastoncini di formaggio duro svizzero sono pronti all’uso, pertanto particolarmente pratici. La medesima cosa vale per il Cheeasy Cottage Cheese con bacche o noci, che nel coperchio contiene pure un cucchiaio. Uno snack delizioso e leggero per quando si è fuori casa.
Cheeasy Cottage Cheese Bacche & Noci 140 g* Fr. 2.80 *Nelle maggiori filiali Migros
Cheeasy Stick di formaggio per insalata 160 g* Fr. 4.40
L’M-Industria produce numerosi prodotti Migros, tra cui anche i prodotti a base di formaggio di Cheeasy.
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Idee e acquisti per la settimana
Mega Win
I primi Mega vincitori Il gioco a premi Mega Win sta procedendo con grande successo. Nessuno dei premi principali è stato per ora assegnato, mentre si registrano le prime vincite immediate. Ecco il racconto di due premiati
Sandra Roshardt (37) Infermiera specializzata, Zurigo Premio: un pallone da calcio ufficiale del valore di Fr. 159.–
Mega Win
Vinci ora! Mentre le squadre europee si affrontano per conquistare il titolo, anche voi potete vincere, con un po’ di fortuna e con minore impegno fisico: Mega Win è dotato di un monte premi di oltre 500’000 franchi, composto tra l’altro da televisori a schermo curvo Oled, da grill a gas Weber Premium. Ci sarà la possibilità anche di aggiudicarsi il mega-premio: un viaggio di sogno del valore di 10’000 franchi.
«Ho partecipato al concorso Mega Win solo per divertimento. Probabilmente regalerò il pallone che ho vinto a mio fratello, che sta per partire per assistere agli Europei in Francia. Così potrà andare al mio posto alla ricerca di autografi...Io seguirò sicuramente il campionato da casa, specialmente quando sarà in campo la mia squadra preferita, la Nazionale svizzera, e poi guarderò la finale. Un paio di prove con il pallone comunque le farò: magari in terrazza, giocando con i mio nipote. Non ho certo paura di farmi male: da giovane mi capitava di giocare qualche partita nei tornei di calcetto».
Nicolas Wynistorf (38) Informatico di Thun (BE) Premio: un buono di viaggio Hotelplan dal valore di Fr. 500.–
«La prima ad essere contenta di questo premio immediato è stata mia moglie. A me sarebbe piaciuto sicuramente di più il televisore con lo schermo curvo Oled: avrei potuto godermi in famiglia e con i migliori amici i campionati europei. Ma naturalmente anche il buono viaggio mi fa piacere. Lo utilizzerò in occasione delle prossime vacanze in famiglia. Non sappiamo ancora bene dove andremo, certamente da qualche parte sul Mediterraneo. Il mio sogno personale sarebbe comunque di potere compiere un giorno un lungo viaggio attraverso il Canada».
Ecco come procedere: fino all’11 luglio per ogni acquisto del valore di 20 franchi* i clienti riceveranno un set da due autocollanti e un «Win Code». Gli autocollanti andranno posizionati nelle caselle corrette della speciale tessera di partecipazione. Quando tutti e sei i simboli della vincita saranno incollati sopra le immagini giuste ecco che il premio sarà vostro. Per partecipare con il WinCode: inserite il codice della vincita sul sito www.migros.ch/megawin o nell’App gratuita e saprete subito se uno dei 375 premi immediati è vostro. Allo stesso indirizzo trovate ulteriori informazioni e set di autocollanti gratuiti.
* per ogni acquisto al massimo 10 set di autocollanti, fino a esaurimento della disponibilità.
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Idee e acquisti per la settimana
Le erbe aromatiche nostrane Le erbe aromatiche vendute da Migros Ticino sono coltivate dall’azienda Mäder di Sementina.
Aromi biologici
Sapori verdi
Trucchi & consigli
Gli aromi esaltano il gusto del cibo
Migros si è posta l’obiettivo di offrire soltanto erbe aromatiche fresche di qualità Bio. L’orticoltore bernese Stefan Egli ne è uno dei suoi fornitori di lunga data Migros-Bio Erbe per marintaura conf. da 20 g Fr. 2.20
Testo Andreas Dürrenverger, Heidi Bacchilega; Foto Marco Zanoni
Pochi chilometri a ovest di Berna c’è la contrada di Riedbach. Qui – circondata da prati in fiore e fertili campi – sorge la fattoria della famiglia Egli, che coltiva erbe aromatiche secondo le prescrizioni Bio-Suisse e ne fornisce anche alla Migros. «Già un decennio fa abbiamo convertito la nostra azienda all’agricoltura biologica», racconta Stefan Egli, che assieme al fratello Adrian dirige la «Egli’s frische Küchenkräuter AG». Il raffreddamento è fondamentale Migros-Bio Sedano di monte conf. da 20 g Fr. 2.20
Migros-Bio Maggiorana conf. da 20 g Fr. 2.20
Come conservare le erbe aromatiche Per mantenere inalterate le loro preziose proprietà, le erbe aromatiche dovrebbero essere lavorate ancora fresche e conservate con cura. La cosa migliore è di tagliare l’estremità degli steli prima di avvolgere le erbette in una pellicola trasparente o nella carta da cucina inumidita. In seguito vanno riposte nel cassetto della verdura del frigorifero, dove restano fresche per altri due o tre giorni.
Dell’assortimento fanno parte aromi classici come il basilico, l’erba cipollina e il cerfoglio, ma anche esotici come per esempio il coriandolo e il basilico thailandese. «Dopo la raccolta è fondamentale che le erbette vengano raffreddate il più presto possibile», spiega Egli. «Così si evita che successivamente si formi della condensa nell’imballaggio. In questo modo le erbe conservano la freschezza e l’aroma». Direttamente alla fattoria, i collaboratori inseriscono a mano il raccolto nelle bustine di cellophane che poi saranno esposte negli scaffali. Le erbe aromatiche sono un prodotto molto delicato. I requisiti per ottenere un prodotto di buona qualità sono elevati. Inoltre è stato anche impegnativo riuscire a mantenere sotto controllo l’utilizzo di prodotti fitosanitari. Per evitare questo problema, Migros ha deciso di puntare totalmente sulle erbe di produzione biologica. «Alcuni produttori svizzeri di aromi hanno già completamente convertito la loro azienda al bio, mentre altri lo stanno facendo. In considerazione della grande competenza e consapevolezza della qualità dei nostri fornitori, siamo convinti di poter offrire ai nostri clienti un prodotto molto buono di qualità bio allo stesso livello di prezzo», dichiara Linda Marugg,
Olio aromatizzato Un olio a base di erbe aromatiche è facile da preparare da sé. Basta mettere l’olio e gli aromi prescelti in una bottiglia di vetro e lasciar riposare la miscela da quattro a sei settimane. In seguito l’olio va filtrato e travasato in un’altra bottiglia. Conservato in un luogo fresco e al riapro dalla luce, mantiene la sua fragranza anche per un anno.
responsabile per il settore ortaggi della Federazione delle Cooperative Migros. D’inverno, però, quando non sono disponibili gli aromi svizzeri, la Migros li importa. «Procurarsi aromi biologici all’estero è una grandissima sfida», spiega Linda Marugg. «Con il nostri partner svizzeri siamo creando una rete di fornitori in Paesi europei come l’Italia e la Spagna». Nell’agricoltura biologica si possono utilizzare solo rimedi naturali. È vietato l’impiego di pesticidi chimici sintetici e di diserbanti. «Noi estirpiamo a mano o con il fuoco la maggior parte delle erbe infestanti», sottolinea Stefan Egli. Nella lotta contro i parassiti sono presi in considerazione solo mezzi approvati dall’Istituto di ricerche dell’agricoltura biologica (FiBL). «Ognuno di questi mezzi viene autorizzato specificamente per ogni singola coltura, vale a dire per ogni specie di pianta. Dato che il mercato della coltivazione di aromi è relativamente piccolo, la scelta degli antiparassitari adatti è ristretta», sottolinea Egli. «Se il clima è umido per un lungo periodo, le erbe aromatiche sono più vulnerabili ai funghi. E nel peggiore dei casi si ha un cattivo raccolto». Una certa sicurezza la fornisce la coltivazione in serre non riscaldate, che proteggono le piantine dalle intemperie e dai parassiti. Anche qui, come per la coltivazione all’aperto, la luce del sole e il caldo sono condizioni indispensabili per la prosperità delle erbette. Gli Egli dispongono di oltre 1,6 ettari di superficie coltivabile coperta, all’incirca la stessa di quella all’aperto. I restanti 9,7 ettari di superficie agricola resta inutilizzata durante un anno per dar luogo alla rotazione delle colture. In questo modo il suolo può rigenerarsi e restare fertile, così che l’anno seguente potrà fornire nuovamente erbe aromatiche biologiche della migliore qualità. MM
Sale aromatizzato Il sale si presta in modo eccellente per conservare freschi gli aromi. Tritate finemente le erbette, mischiatele al comune sale da cucina e mettete il tutto ad asciugare in forno. Il sale aromatizzato si conserva all’incirca per un anno.
Migros Bio è sinonimo di agricoltura in armonia con la natura. Il marchio Bio contrassegna oltre 1300 prodotti. Cerfoglio biologico appena raccolto: Stefan Egli produce a Riedbach (BE) diverse specie di erbe aromatiche in campo aperto e in serra. Migros-Bio Rosmarino conf. da 20 g Fr. 2.20
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Idee e acquisti per la settimana
Vegetariano e vegano
Il festival della grigliata vegetariana
Suggerimenti
Tutto certificato
Grigliate di verdure, tofu e formaggio
Chi preferisce una dieta vegetariana o vegana, alla Migros può scegliere tra circa 400 prodotti.
Non esiste quasi nessuna verdura che non si possa cuocere alla griglia. Mettete sulla brace tutto quel che vi piace: pomodorini, funghi (anche ripieni), melanzane, cipolle novelle, così come asparagi e patate, finocchi o cavoli. Prima d’essere grigliato, il tofu dovrebbe essere marinato. L’ingrediente di base di una marinata è l’olio vegetale. Per un tocco mediterraneo aggiungete rosmarino, timo, origano e aglio. Per una marinata asiatica ci vuole miele, zenzero, peperoncino e curry. Anche il formaggio è adatto alla grigliata. L’ideale è l’halloumi, che può essere posto direttamente sulla griglia. Tutti gli altri tipi di formaggio vanno avvolti nella carta alluminio. In generale vale la regola: attenti al fuoco! I cibi vegetariani sono sensibili al calore. È quindi meglio posizionare la griglia un po’ più in alto!
Parte di
Il fiore vegano contraddistingue i prodotti che si addicono all’alimentazione vegana.
È il gusto personale che decide cosa mettere sulla griglia. Così, oggi molti appassionati delle grigliate prediligono alimenti vegetariani o vegani. E non è per nulla difficile: ben 400 prodotti alimentari in vendita alla Migros sono oggi certificati come vegetariani o vegani. Inoltre, la Migros promette di ampliarne l’assortimento del 30% entro fine 2017.
Alnatura Cipollata vegetariana 250 g* Fr. 3.80 * in filiali selezionate
Migros Bio Tofu affumicato 200 g* Fr. 4.90
Migros Bio Tofu al naturale 200 g Fr. 3.80
Alnatura Chips di mais paprika 125 g Fr. 1.70
Alnatura Cetrioli alle erbe aromatiche 360 g* Fr. 2.90
Alnatura Cracker di spelta nature 100 g* Fr. 1.40
Alnatura Tè freddo lemongrass 500 ml* Fr. 1.30
Alnatura Succo puro di pompelmo rosa 750 ml* Fr. 2.90
Il marchio vegetariano europeo (V-Label) contraddistingue prodotti adatti a un’alimentazione vegetariana o vegana.
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Idee e acquisti per la settimana
Total
Questo si chiama pulito! Solo i detersivi giusti forniscono un risultato che può definirsi ottimale. Chi scommette sugli efficacissimi prodotti della marca svizzera Total – ed osserva alcune regole basilari durante il lavaggio – si garantisce un piacere duraturo quando indossa gli abiti
Un paio di consigli contribuiscono ad evitare gli inconvenienti del bucato.
*Azione 50% su tutti i detersivi Total a partire da due prodotti fino al 20 giugno
Breve lista di controllo
Per uno splendido bucato ˚ Rtcchuhcdsd h sdrrtsh odq shon+ bnknqd d indicazioni di lavaggio, quindi lavateli separatamente con programmi e detersivi specifici. ˚ Cnr‘sd h cdsdqrhuh rdbnmcn kd indicazioni sulla confezione e la durezza dell’acqua. ˚ Kd l‘bbghd u‘mmn rdloqd oqdsq‘ss‘sd˚ K‘ oqhl‘ unks‘ k‘u‘sd rdo‘q‘s‘ldmsd h capi colorati nuovi. ˚ Odq h b‘oh bnknq‘sh tshkhyy‘sd h o‘mmh Bnknq,Oqnsdbs ch Sns‘k bgd b‘sstq‘mn kn sporco proteggendo il colore. ˚ Rutns‘sd kd s‘rbgd+ bghtcdsd bdqmhdqd d bottoni, annodate eventuali lacci. ˚ Ldssdsd h qdffhrdmh bnm edqqdssn hm tm apposito sacchetto da lavatrice. ˚ Qhunks‘sd kd edcdqd ch ohtlhmh d btrbhmh˚ Mnm rnuq‘bb‘qhb‘sd k‘ k‘u‘sqhbd˚ K‘u‘sd ‘kkd sdlodq‘stqd oh` a‘rrd possibili. ˚ Shq‘sd etnqh rtahsn hk atb‘sn c‘kk‘ lavatrice, stendetelo o mettetelo nell’asciugatrice.
Per tessuti bianchi e chiari Il detersivo completo con rinforzante del bianco assicura un bucato splendente senza appannamento. La candeggina rimuove anche le macchie più ostinate.
Per tessuti colorati Il detersivo Color non contiene né candeggina né sbiancanti ottici. Rimuove le macchie, conservando la brillantezza e la lucentezza dei colori. Inoltre, protegge i tessuti dallo scolorimento.
Per le pelli sensibili Grazie al dosaggio ottimale delle sostanze contenute, il detersivo ipoallergico è particolarmente indicato per le pelli sensibili **. Sprigiona tutta la sua efficacia anche alle temperature più basse.
Total Polvere 2,475 kg Fr. 7.95* invece di 15.90
Total Color 2 l Fr. 7.95* invece di 15.90
Total Sensitive 2 l Fr. 7.95* invece di 15.90
Tutti i detersivi Total sono fabbricati in Svizzera.
** Tutti i detersivi delicati di Total recato la scritta «Dermatologicamente testato»
L’Industria Migros produce numerosi prodotti, tra i quali anche i detersivi Total.
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Idee e acquisti per la settimana
Exelia
Fresco profumo d’estate Exelia Ammorbidente Summer Fresh 1.5 l Fr. 6.50
L’intenso e durevole profumo dell’ammorbidente Exelia Summer Fresh si ispira alla freschezza di una soleggiata giornata estiva. Rimane nei vestiti asciutti quattro volte più a lungo rispetto al concentrato Exelia convenzionale. Ciò è possibile grazie alle speciali e microscopiche perle di freschezza che durante il processo di lavaggio si agganciano ai tessuti e liberano il loro profumo ad ogni movimento. Come tutti gli ammorbidenti di Exelia anche Summer Fresh protegge le fibre dall’usura e riduce le cariche elettrostatiche. In tal modo la biancheria risulterà incredibilmente morbida e facile da stirare.
L’M-Industria produce numerosi prodotti Migros, tra cui anche gli ammorbidenti di Exelia. Annuncio pubblicitario
Tutte le offerte sono valide dal 14.6 al 27.6.2016, fino a esaurimento dello stock.
30%
449.– Crosswave Bicicletta per uso quotidiano da donna Cruiser 28" Dimensioni del telaio 43/48 cm, disponibile anche come modello da uomo
20%
2159.– Crosswave Bicicletta elettrica Wave Pro Bosch 400 28" Dimensione del telaio 48 cm
sportxx.ch
40%
40%
599.–
599.– Crosswave Bicicletta da trekking da donna Country Amber 28" Dimensioni del telaio 40/44/48 cm
Crosswave Bicicletta da trekking da uomo Country Avalon 28" Dimensioni del telaio 48/52/56 cm
30%
30%
229.–
699.–
Crosswave Bicicletta per bambini Starlet 24" Dimensione del telaio 31 cm, disponibile anche come modello da bambino
Crosswave Mountain bike Rocky 27,5" Dimensioni del telaio 15"/17"/19"/21"
anni di 5 garanzia sui telai delle biciclette
9.80 Lampione solare a LED disponibile in diversi colori, per es. rosso, il pezzo
4.90
4.90
Forchette di plastica Cucina & Tavola assortite, 20 pezzi
Coltelli di plastica Cucina & Tavola assortiti, 20 pezzi
6.50 Candele party alla citronella in conf. da 4 disponibili in diversi colori, per es. blu
4.90
2.90
Brocca Cucina & Tavola, 1,5 l disponibile in diversi colori, il pezzo
Glow Sticks, 22 cm 15 pezzi
FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK