Azione 46 del 10 novembre 2014

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXVII 10 novembre 2014

Azione 46

Società e Territorio Fa discutere la proposta di riduzione dei contributi alle famiglie affidatarie ticinesi

Ambiente e Benessere In Ticino ogni anno nascono una trentina di bambini bisognosi di cure cardiologiche: ce ne parla Corinna Leoni Foglia, capoclinica di cardiologia al Kinderspital di Zurigo

Politica e Economia Seconde elezioni democratiche dopo la primavera tunisina

Cultura e Spettacoli Irriverente, impressionante: l’artista svizzero Not Vital in mostra a Mendrisio

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AFP

Il sipario che incombe su Obama

di Federico Rampini pagina 27

Lavorare gratis per Zuckerberg di Alessandro Zanoli Il discorso pronunciato da Jaron Lanier in occasione dell’attribuzione del Premio per l’editoria tedesca, nelle scorse settimane, sembra essere passato un po’ inosservato. Lanier, informatico americano che è uno dei più quotati specialisti nel settore, è noto per le sue riflessioni a carattere sociale e politico nel campo delle nuove tecnologie. La sua apparenza fisica, una corporatura imponente incorniciata da una matassa ingarbugliata di treccine rasta, lo inserisce nella schiera dei Guru, e lo fa sembrare quasi un saggio indiano. Lui forse ne approfitta un po’, ma la sua competenza nel campo è fuori discussione. A Berlino infatti veniva premiata proprio la sua attività di teorico e di pubblicista, che ha trovato nel suo libro La dignità ai tempi di Internet una sintesi efficace. Senza voler in nessun caso banalizzare la sua relazione, che è circostanziata e incisiva (ne ha pubblicato un estratto il «Tages Anzeiger» il 13 ottobre scorso), occorre però prendere atto di un assunto fondamentale del suo argomento. La società tecnologica in cui stiamo vivendo induce in noi comportamenti di cui abbiamo

una scarsa consapevolezza. Di fatto, dice Lanier, la differenza sociale che si sta creando, la frattura sempre più ampia tra una classe sociale di vertice che diventa sempre più ricca e una popolazione media sempre più povera è dovuta anche a una serie di comportamenti e valutazioni superficiali messi in atto proprio dai «più poveri». Pensiamo semplicemente a Facebook: chi scrive ha colleghi giornalisti che passano il tempo a postare sul «sito blu» le notizie più interessanti trovate in rete. Questo ad esclusivo beneficio dei loro amici. L’intenzione, buona, è quella di diffondere tasselli di coscienza critica nella loro cerchia di conoscenze. Creando una sorta di rassegna stampa, selezionata per qualità dei contenuti, si rende certamente un servizio ai partner della rete sociale. Ma guardiamo la cosa dalla prospettiva di Lanier. Il saggio americano ci rende attenti: ciò che stiamo facendo quando produciamo informazione gratuitamente, quando mettiamo online le foto del nostro gattino, quando cerchiamo di sedurre i nostri amici con i particolari gradevoli della nostra vita quotidiana, genera un indotto economico che va a finire direttamente nelle tasche del signor Zuckerberg, e fa di lui uno degli uomini più ricchi del mondo.

Il discorso sembrerà esagerato, ma purtroppo non lo è. La realtà è che tutti coloro che partecipano al grande gioco di società che è Facebook dedicano gratuitamente tempo della loro vita ad un’impresa commerciale. Non si tratta di volontariato, beninteso. Il tempo che impieghiamo, non retribuito, per il lavoro che svolgiamo magari come membri della società per il Carnevale, cantando nella corale parrocchiale o accompagnando i bambini a scuola con il PediBus, va a vantaggio della comunità in cui viviamo. Il tempo speso su Facebook va invece direttamente a rimpolpare le casse dei gestori telefonici e dell’azienda che gestisce il social network. Come suggerisce Lanier, se date un occhio ai listini di borsa, potete vederla arricchirsi giorno dopo giorno. E noi? Senza voler cadere nel catastrofismo, il monito dell’informatico americano (che è tra l’altro, felicemente, un ben retribuito impiegato della Microsoft) ci invita a pensare per primi a quanto vale la nostra vita e qual è il modo più rispettoso, soprattutto di noi stessi, per utilizzare le nuove tecnologie. Sembra importante capire dov’è il confine tra quello che è gratis e volontario e quello che invece in qualche modo «conta» sulla nostra creatività.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 10 novembre 2014 ¶ N. 46

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Attualità Migros

M Ecco il nuovo supermercato Mendrisio Sud Filiali Ha aperto al pubblico giovedì 6 novembre in via Campagna Adorna: anche in questo caso lo stabile

è realizzato applicando i parametri Minergie ed è dotato di un impianto fotovoltaico Su una superficie di vendita di 970 mq il supermercato propone un assortimento che conta complessivamente circa 10’000 articoli, indirizzato alle necessità quotidiane. Un’offerta focalizzata sui prodotti freschi e sui banchi a servizio per carne, salumi, formaggi e gastronomia, oltre a una selezione di cibi caldi pronti per l’asporto, cui si aggiunge il reparto non alimentari, che comprende in particolare articoli per l’igiene della persona e della casa. Nella mall trova inoltre spazio lo snack bar Cerutti, mentre, all’esterno, i posteggi a disposizione della clientela sono 72. Lo stabile è caratterizzato da un’importante isolazione termica, da impianti per la produzione di freddo per frigoriferi e congelatori a basso consumo che utilizzano gas neutri per l’ambiente (CO2) e il cui calore è recuperato con una termopompa per riscaldare lo stabile. Inoltre i congelatori e i frigoriferi sono dotati di sportelli che permettono di ridurre il consumo energetico del 45%, mentre gli impianti di illuminazione sono a tecnologia

LED, con un consumo elettrico inferiore del 50% rispetto agli impianti convenzionali. Sul tetto dell’edificio sono inoltre stati sistemati 439 pannelli fotovoltaici la cui produzione prevista è di 130 mila kilowattora per anno, corrispondenti al fabbisogno di circa 30 economie domestiche. È il primo impianto interamente realizzato da Migros Ticino, che ne è proprietaria e di cui si è assicurata il 100 per cento della produzione di energia elettrica. Va ad aggiungersi a quelli realizzati a partire dal 2012 a S. Antonino, Taverne e Losone e porta a una produzione totale di 910 mila kilowattora l’anno, pari al consumo di circa 210 economie domestiche. Il supermercato (il trentesimo di Migros Ticino, il quinto nel Mendrisiotto, assieme alle filiali di Boffalora, Piazzale alla Valle, Serfontana e Stabio), occupa 21 persone, 18 delle quali domiciliate in Ticino, sotto la guida della gerente Tindara Rano. Con questa apertura, che ha comportato un investimento di 6,5 milioni Nelle foto, l’esterno e l’interno della nuova filiale. (Ti-Press)

di franchi, per l’85% appaltato a ditte e artigiani della regione o svizzere, Migros Ticino conferma la sua volontà di sviluppare, migliorare e ammodernare regolarmente la sua rete di vendita in tutto il cantone – nei centri

commerciali, nei quartieri cittadini e nelle periferie – con infrastrutture a basso consumo energetico rispettose dell’ambiente, cercando di integrare impianti per la produzione di energia sostenibile, autonomamente o in col-

Giornata sugli sci per tutta la famiglia Famigros Lo Sky Day 2015 si terrà a Bosco Gurin il prossimo marzo: aperte le iscrizioni

laborazione con aziende ed enti pubblici ticinesi. Il supermercato Migros Mendrisio Sud è aperto dal lunedì al sabato dalle 8.00 alle 19.00, il giovedì alle 21.00.

Il segreto bancario svizzero Eventi Conferenza

Sostenere attivamente la promozione dello sci giovanile in Svizzera, significa in primis per Migros rivestire il ruolo di sponsor principale del «Grand Prix Migros» – la più grande gara di sci d’Europa per bambini e ragazzi. Questa manifestazione che debutterà il prossimo 4 gennaio a Crans Montana, ha in calendario 13 tappe di qualifica alla finale di «Les Crosets» (28-29 marzo 2015) nella rinomata regione delle «Portes du Soleil». Per tutti i giovanissimi sciatori della Svizzera italiana dagli 8 ai 16 anni, l’appuntamento è sulle nevi di Airolo Pesciüm

Azione Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

domenica 15 febbraio. Le iscrizioni sono già possibili mediante www. gp-migros.ch. Dedicheremo a questa manifestazione un approfondimento su queste pagine nel prossimo mese di dicembre. Oggettivamente, negli ultimi anni per molte famiglie praticare lo sci alpino, sport nazionale per eccellenza, significa anche confrontarsi con costi non indifferenti. «Famigros Ski Day» è l’iniziativa di Swiss-Ski sostenuta da Famigros in qualità di sponsor principale e dai co-sponsor SportXX Migros e Rivella che propone una giornata sugli sci per tutta la famiglia di 3-5 persone (giornaliera, pranzo con bevanda Rivella, iscrizione gara amatoriale per ogni membro della squadra famigliare, medaglia per tutti i bambini e regalo a sorpresa, giochi e divertimento allo Ski Day Village di Famibros) a soli 85.– per tutti i membri di Famigros e SwissSki. Il villaggio del «Famigros Ski Day» farà tappa domenica 8 marzo

Calendario Famigros Ski Day 2014-15 Dicembre 2014

Do, 14 dicembre: Flumserberg Gennaio 2015

Do, 4 gennaio: Wildhaus Do, 11 gennaio: Pizol Do, 18 gennaio: Marbachegg Do, 25 gennaio: Arosa Febbraio 2015

Do, 1. febbraio: Diemtigtal Do, 8 febbraio: Les Bugnenets-Savagnières Sa, 14 febbraio: Lenk Do, 22 febbraio: Sörenberg Marzo 2015

Do, 1. marzo: Stoos Do, 8 marzo: Bosco Gurin Sa, 14 marzo: Braunwald Do, 15 marzo: Col des Mosses Do, 22 marzo: Meiringen Do, 29 marzo: Morgins

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

sulle nevi della località Walzer di Bosco-Gurin. Le iscrizioni alle 15 tappe in programma in altrettante stazioni sciistiche di tutta la Svizzera dal prossimo mese di dicembre a fine marzo 2015, si possono effettuare su www. famigros-ski-day.ch. Pensando alle idee regalo natalizie, perchè non regalare la giornata sciistica Famigros ad una famiglia a vostra scelta; sul sito sopraccitato trovate il formulario per ottenere i necessari buoni. Per tutte le famiglie interessate che non fossero ancora registrate nel club Famigros, bastano pochi minuti per l’iscrizione gratuita tramite www. famigros.ch. A Bosco-Gurin domenica 8 marzo ci saremo anche noi di Azione e vi riferiremo con un ricco reportage fotografico.

Famigros Sky Day, 8 marzo 2015, Bosco Gurin Tiratura 98’645 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

organizzata all’USI da Banca Migros Lunedì 17 novembre alle 17.30, nell’Aula Magna dell’USI a Lugano, alcune personalità del mondo politico ed economico discuteranno del futuro del segreto bancario in Svizzera, in una conferenza organizzata da Banca Migros e il cui titolo è: Segreto bancario svizzero. Perché? Per chi? Al dibattito parteciperanno l’on. Marina Carobbio Guscetti, Consigliera nazionale PS, l’on. Pierre Rusconi, Consigliere nazionale UDC, l’avv. Emanuele Stauffer e Lino Terlizzi, vice direttore del Corriere del Ticino e corrispondente del «Sole 24 ore» per la Svizzera. Moderatore della serata sarà Corrado Bianchi Porro. Dato il limitato numero di posti è richiesta un’iscrizione telefonica entro il 14 novembre, chiamando il numero 091 911 08 31. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


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Società e Territorio Ridere con David Larible Intervista al famoso clown in tournée con il circo Knie

I trent’anni della Vox Blenii Il gruppo bleniese nato nel 1984 ha da poco pubblicato un nuovo cd intitolato E la mi manda

I sensi del silenzio Una rassegna a Bellinzona esplora le diverse dimensioni e valenze del silenzio

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In Ticino sono circa 140 i minorenni che vivono in una famiglia affidataria. (Keystone)

Una vita di condivisione

Famiglie affidatarie In Ticino fa discutere la misura di risparmio inserita dal governo nel preventivo 2015

che prevede un ridimensionamento dei contributi alle famiglie che ospitano bambini e ragazzi in difficoltà

Roberto Porta Aula magna dell’Università della Svizzera italiana, una decina di giorni fa. In agenda una conferenza sulle strategie in Svizzera e in Europa per preservare la coesione sociale e per migliorare la lotta contro la precarizzazione. Ad un certo punto prende la parola il professor Mauro Baranzini che parla di «un mondo pieno di pescicani» in riferimento agli appetiti, anche di gruppi di speculatori, innescati dalla recente messa in vendita della clinica Moncucco di Lugano. Poco dopo dalla sala c’è chi prende la parola per parlare anche dei previsti tagli nel sostegno finanziario alle famiglie affidatarie ticinesi, ricordando come il risparmio di 700mila franchi corrisponde più o meno al costo della costruzione di una rotonda stradale. Come a dire che si tratta di scegliere: contano di più gli incroci di due strisce d’asfalto o il destino di bambini e ragazzi a cui la vita ha riservato grosse difficoltà fin dal suo inizio? Nell’aula magna c’è anche il consigliere di Stato Paolo Beltraminelli. Il responsabile del Dipartimento della sanità e della socialità scuote visibilmente il capo, non apprezza il paragone tra i risparmi previsti e il costo di una rotonda. È un episodio, un semplice aneddo-

to che però riassume il difficile autunno 2014 della politica sanitaria e sociale ticinese. Prima le false fatture all’Ente ospedaliero cantonale, poi la messa in vendita della clinica di Moncucco e, in ambito sociale, i tagli delle rette versate alle famiglie che si prendono cura di ragazzi minorenni che per un motivo o per l’altro non possono più vivere con i loro genitori. E proprio di questi ultimi risparmi abbiamo successivamente parlato con il professor Baranzini. «Il lavoro che fanno questi genitori affidatari è senz’altro lodevole. Non conosco la materia nei dettagli ma immagino che il dipartimento competente ci abbia pensato bene prima di prendere una decisione del genere, valutandone tutte le possibili ricadute». La misura è inserita nel preventivo 2015, in cui non si parla né di tagli né di risparmi ma di «adeguamento dei compensi per le famiglie affidatarie ai costi riconosciuti». Nel dettaglio il governo prevede questa serie di misure. Per i parenti stretti la retta passerebbe dagli attuali 1800 franchi al mese a 900, l’importo è previsto oggi solo per i nonni ma verrebbe esteso anche agli zii. All’affidamento extra famigliare, solitamente di lunga durata, verrebbe garantito un compenso di 1200 franchi, con una riduzione di 600 franchi. Il collocamento

d’urgenza – garantito dalle cosiddette famiglie SOS, solitamente per un massimo di tre mesi – verrà sostenuto con 1650 franchi al mese, invece dei 2250 finora accordati. Questo almeno nei piani del governo e del dipartimento DSS. Il «Beltrataglio» – c’è chi lo chiama così – ha mandato su tutte le furie l’Associazione ticinese delle famiglie affidatarie (AFTA) che per bocca del suo presidente Jean-Pierre Bäschlin parla di «scandalo» perché se così sarà «le famiglie affidatarie dovranno in solo tre mesi adattarsi al calo delle rette. E questo è gravissimo, si cambiano le condizioni senza nemmeno il tempo per potersi preparare». Il presidente dell’AFTA ricorda come diverse famiglie affidatarie per poter meglio prendersi cura dei ragazzi che ospitano hanno preso in affitto appartamenti più grandi o hanno ridotto la loro presenza sul posto di lavoro, passando da un impiego a tempo pieno ad uno a tempo parziale. E lo hanno fatto proprio basandosi sull’aiuto finanziario del cantone, che ora rischia di essere ridotto. «Le difficoltà per le famiglie affidatarie mi sembrano evidenti – continua Bäschlin – anche se il recente incontro con il consigliere di Stato Paolo Beltraminelli e con gli alti funzionari del DSS ci lascia sperare in una riduzione meno doloro-

sa. Ci è stato detto che i calcoli verranno rifatti. Noi siamo pronti ad alcuni compromessi, vedremo se lo sarà anche la nostra controparte». A sostegno delle famiglie affidatarie si è mossa anche la commissione della gestione del Gran Consiglio, che a nome di tutti i partiti – cosa rara in campagna elettorale – ha sollecitato il governo a trovare misure alternative, anche perché la famiglia affidataria svolge un compito che altrimenti dovrebbe essere assunto da istituti specializzati, dai costi più elevati. Va detto che il Ticino offre a questo tipo di famiglie un sostegno finanziario che lo stesso Bäschlin definisce «medio-alto» se confrontato con la media nazionale, anche perché dal 2007 viene riconosciuto il cosiddetto «compenso educativo» che va oltre la copertura dei costi effettivi generati dal ragazzo in affido. Si tratta di un unicum svizzero. Il compenso educativo viene però parzialmente tassato, anche questo un caso unico in Svizzera. «E così questo compenso medio-alto finisce nella categoria medio-bassa», fa notare ancora Bäschlin. ll consigliere di Stato Beltraminelli ha in questi giorni voluto sottolineare l’importante ruolo svolto da queste famiglie, ricordando loro che la misura prevista non intaccherà i compensi ver-

sati per coprire le spese vive dell’affido. Il ministro ha pure sottolineato come il governo miri ad evitare una sorta di professionalizzazione della famiglia affidataria. Un compito che deve continuare a svolgersi su una base di volontariato. «Sono d’accordo – replica il presidente di ATFA, Jean-Pierre Bäschlin – Ma ricordo che il volontariato che facciamo noi è diverso da quello che svolge chi, in un’associazione ad esempio, si prende cura di giovani, invalidi o anziani. Compiti sicuramente lodevoli ma svolti per così dire a tempo parziale, il week end o un paio di sere alla settimana. Noi siamo volontari a tempo pieno, i ragazzi in affido sono sempre con noi e ci prendiamo cura di loro con un alto senso di responsabilità, 24 ore su 24. La nostra è una vita di condivisione, non un volontariato part-time». In Ticino sono attualmente circa 140 i giovani minorenni ospitati in famiglie affidatarie, con difficoltà crescenti nel trovare mamme e papà disposti a prendersi cura di ragazzi adolescenti. Il collocamento è più facile per i bambini più piccoli. Famiglie in attesa ora del «ricalcolo» promesso dal DSS e di sapere se a Bellinzona in qualche modo si potrà trovare una soluzione alternativa, magari rinunciando da qualche parte ad una nuova rotonda.


Ricetta e foto: www.saison.ch

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Ingredienti: 300 g di tagliatelle, sale, ½ limone, 12 gamberi tail-on, 4 rametti di dragoncello, 1 scalogno, 1 cucchiaino di burro, 1 dl di brodo di verdura o di fumetto di pesce, 1,5 dl di panna intera, pepe di Caienna Preparazione: cuocete al dente le tagliatelle in abbondante acqua salata. Scolatele, passatele sotto l’acqua fredda e mettetele da parte. Grattugiate finemente la scorza del limone e spremete il succo. Sciacquate i gamberi in acqua fredda e asciugateli. Mescolateli con la scorza e un po’ di succo di limone. Staccate le foglie di dragoncello dai rametti. Tritate lo scalogno e soffriggetelo nel burro. Bagnate con il brodo e unite la panna. Cuocete la salsa per ca. 5 minuti. Aggiungete alla salsa i gamberi, il dragoncello e le tagliatelle e fate scaldare bene. Condite con succo di limone, sale e pepe di Caienna.

Tempo di preparazione 25 minuti


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Società e Territorio

Ridi, se sei un uomo! Incontri Un pomeriggio con David Larible, clown dei clown, in tournée a Martigny con il Circo Knie,

che da sabato sarà in Ticino Sara Rossi Ma che pazzia! Siamo dietro al circo e vediamo i sederoni degli elefanti che entrano, tenendosi per la coda con il naso… c’è anche un cartello stradale, di quelli rotondi con il bordo rosso intorno che indica l’obbligo di mantenere una distanza di 2 metri tra uomini e elefanti. Poi entrano le zebre, i cavalli, sentiamo il pubblico che grida e ride, l’orchestra che suona…

«La risata che cerco è quella bella, non volgare né cinica, quella che ti fa stare bene, che nasce incontrollata e accomuna tutte le età, le religioni, le classi sociali, tutto il mondo» Quando è il turno dei numeri senza animali grossi, ci fanno entrare sempre da dietro, e stare fra le quinte del circo; aprono il tendone per farci passare e noi ci ritroviamo proprio sotto l’orchestra; ci separa dalla scena un’altro tendone, da cui artisti e animali entrano in scena e se ne tornano fuori. È abbastanza buio, l’aria sa di segatura e pop corn e bestie e tutti gli odori che ci ricordano il circo, da sempre e per sempre. Lo spazio non è grande e qui tutti sanno esattamente cosa fare: lo spettacolo è preparato come un meccanismo precisissimo di orologeria. Ora, gli operai, con giacca rossa e oro portano fuori il tappeto rotondo di plastica, lo dispiegano e lo puliscono, poi lo riportano dentro per il numero successivo. Adesso arrivano otto ragazze cinesi con un caschetto in testa dentro cui è conficcata una piuma lunghissima, più di un metro, dritta dritta che parte dal cranio; sono vestite un po’ come draghi bellissimi e si allenano ognuna con il suo diabolo, stanno una a un metro dall’altra ma è come se non si dessero fastidio ognuna facendo i suoi esercizi. Poi una arriva vicino a me e si appende a una sbarra… è sotto al pavimento su cui poggiano i piedi dei bambini, sopra di noi, che guardano lo spettacolo; noi siamo sotto il pubblico, nascosti. L’artista cinese si dondola per dieci secondi, poi va da una sua compagna, le dice qualcosa, si sdraia e questa le salta sulla schiena e comincia a massaggiarla con i talloni. Poi, sempre con gesti bruschi e sbrigativi (non c’è né tempo né movimento da perdere al circo) ritornano entrambe al proprio posto, scrollatina di spalle, tre giri del collo velocissimi e poi tutte e otto dentro a fare lo spettacolo. Siamo qui per David Larible, il clown dei clown. Ogni anno il Circo Knie ha un ospite speciale e quest’anno tocca a lui. Lo abbiamo conosciuto un’ora prima dello spettacolo, un paio di settimane fa a Martigny e lui ci ha portato nel suo camerino. La mattina è andato alla Fondazione Gianadda e al pomeriggio ha fatto ridere tutti, grandi e bam-

David Larible è figlio d’arte, la sua famiglia lavora nel circo da sette generazioni. (Andrea Guidicelli)

bini. Prima, però, ha parlato con noi. Parlava mentre beveva il caffè (al bar gli avevano chiesto se voleva un tè e lui ha fatto finta di indignarsi: «Perché volete darmi un tè? Non sono malato, non ho freddo, perché dovrei bere l’acqua calda?») e poi parlava mentre si pitturava la faccia con le dita: «Appena comincio non mi posso più fermare sai? Inizio a truccarmi e allora non posso smettere per parlare, devo andare avanti finché non sono… trasformato. E non ti stupire se mi trucco con le dita, a me piace il contatto fisico, quindi non potrei usare né pennelli né spugnette». David Larible è – come quasi tutti – figlio d’arte. La sua famiglia lavora nel circo da sette generazioni di acrobati, giocolieri, musicisti, pagliacci. Suo nonno, francese, è nato proprio a Martigny nel 1901, un giorno che erano in Svizzera in tournée, con il carrozzone e i cavalli e per la bisnonna era giunto il momento di partorire. Suo papà e lui stesso invece sono nati in Italia. «Anche tra il pubblico ci sono le varie generazioni», mi fa notare lui. «Guarda lì (indica con la mano): vengono le nonne con le loro figlie e i nipotini. Questo è bellissimo». Larible parla sei lingue molto bene e con noi naturalmente usa la sua lingua madre: l’italiano. È un clown, lui, che quando va in giro si porta qualche chilo di buona pasta italiana e gli ingredienti per cucinare i sughi che gli piacciono di più; si porta anche parecchi libri, perché legge un po’ di tutto, da Marquez a Hesse a Piran-

dello ai romanzi gialli; e la sua famiglia. Ha una moglie, trapezista messicana di nome America, e due figli grandi che già lavorano nel circo (è sua figlia Shirley Larible la splendida stella cometa che a un certo punto ci sfreccia sulla testa e di cui noi vediamo solo l’ombra sul tendone, mentre il pubblico si gode i suoi pericolosi ghirigori sulle cinghie aeree). È un clown, Larible, che lavora quasi tutti i giorni dell’anno, si allena il fisico, perché non basta avere talento comico, bisogna anche avere un corpo flessibile, agile, ballerino, una voce che sa cantare, conoscenze musicali, di giocoleria e altre competenze per ogni numero nuovo che gli salta per la testa. Viaggia sempre, si sposta, è in movimento, tiene anche corsi all’università quando glielo chiedono. «Oggi mi sveglio e vedo le montagne, ieri mattina ho visto il lago; domani l’altro magari sarò nel centro di Zurigo, tra qualche mese passo un semestre a Mosca e poi… chi lo sa». Nonostante la vita dei circensi si svolga in un mondo tutto a parte a lui interessa anche l’altra faccia della terra, quella della gente stanziale, della quotidianità più comune, che varia di paese in paese, e della politica. Per esempio gli interessano i giovani, perché spesso va nelle scuole a fare spettacolo. «A volte – dice – gli adolescenti fanno un po’ più fatica ad ascoltare un clown che li fa ridere come quando erano piccoli e come quando saranno grandi. Io vedo però che alla fine si arriva sempre a parlare anche con loro, e questo avviene quando

riconoscono i valori che gli sono propri. A volte i ragazzi sembrano persi oppure arroganti, ma è perché la nostra società non ha tempo per loro, per accompagnarli davvero in questa fase di passaggio da un’età all’altra. Allora sono soli e un po’ ostili. Ma basta che ritrovino quei valori ed ecco che ti ascoltano e si divertono anche loro come tutti!». Larible è un clown, un uomo, che la pensa così: siamo in un treno di montagna; da una parte ci sfila una parete rocciosa, che fa un po’ paura ed è piuttosto spoglia, dall’altra c’è la valle, i villaggi, il verde e la vista è gradevole. «Io non guardo mai il telegiornale – dice – perché ci fa sempre vedere la parete rocciosa, le guerre, i bambini uccisi, gli ospedali distrutti. Se invece qualcuno costruisce una scuola, nessuno ne parla. Io penso che siamo tutti su quello stesso treno di montagna e ognuno sceglie da che lato sedersi. Io ho scelto la valle». Gli chiediamo se è religioso: «Sono spirituale», risponde. «Credo che il divino sia ovunque (indica le montagne intorno a noi), ma non credo che possa essere divino quello che fa l’uomo. Può essere geniale, ma non divino. Quindi io mi sento in preghiera non in una chiesa, ma nella natura, senza bisogno di nessun altro uomo a farmi da intermediario». E cosa sono per lui il circo, la risata, il mestiere di clown? «Ognuno nel suo mestiere o nella sua vita, dà qualche cosa, tutti danno, ma ognuno a modo suo. Il cuoco con i sapori, lo scrittore con

le parole, il fotografo con le immagini. E io anche, con i miei spettacoli. Molte cose sono cambiate dai tempi dei miei bisnonni, nonni e genitori, ma lo spirito del circo, quello non cambia mai. Non si può bluffare, capisci? Io entro in scena e ci metto la faccia, la mia faccia da pagliaccio, la mia faccia e basta, non quella di un altro, non c’è trucco o artificio che mi possa salvare se non do il meglio di me. E poi c’è un’altra cosa che è universale e eterna. La risata. L’unico aspetto che ci distingue dagli altri animali: tutti nascono, crescono, si riproducono, si nutrono, soffrono, muoiono. Ma nessuno ride, soltanto l’uomo. Perché ride… lo hanno cercato di spiegare grandi studiosi. Io so che per me ci sono due risate, quelle brutte, che dopo ti lasciano un po’ di amarezza e di senso di colpa, e quelle belle, quelle che quando ridi sei semplicemente felice. Questa è la risata che cerco, quella bella, non volgare né cinica, quella che ti fa stare bene, che nasce incontrollata e accomuna tutte le età, le religioni, le classi sociali, tutto il mondo. Mi piace sapere che ridere ha un senso di comunione. Tu da solo al buio puoi piangere, ma di solito non ridi, se non sei matto. Quindi per ridere bisogna essere almeno in due. Ecco, questa è proprio una cosa che mi piace moltissimo…». Date del Circo Knie in Ticino:

Sa-do 15-16 novembre a Bellinzona, ma-me 18-19 novembre a Locarno, gio-do 20-23 novembre a Lugano. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 10 novembre 2014 ¶ N. 46

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Società e Territorio

Trent’anni di autentico canto popolare Anniversari La Vox Blenii compie trent’anni, pubblica un nuovo cd e non smette il suo viaggio di ricerca attraverso

i brani tradizionali della cultura orale del Ticino e del Grigioni italiano Mara Zanetti Maestrani Compie 30 anni il gruppo Vox Blenii e li compie in piena forma, con alle spalle sette cd (un centinaio di pezzi in totale) di cui l’ultimo, presentato lo scorso 27 settembre è intitolato E la mi manda. Il gruppo cultore della musica popolare e del canto «della gente comune» dell’area sudalpina oggi è composto da Aurelio Beretta (fisarmonica, percussioni e voce), Remo Gandolfi (violino, viola, chitarra, mandolino e voce), Gianni Guidicelli (chitarra e voce), Luisa Poggi (voce e percussioni), Francesco Toschini (contrabbasso e voce). Nei primi sette anni ne facevano parte Antonio Cima e Ivano Lanzetti. Nel corso di trent’anni di ricerca di canzoni popolari la Vox Blenii ha registrato 140 musicassette, tutte rigorosamente archiviate e ora digitalizzate, comprendenti oltre 200 ore di incisioni, dalle quali sono stati estratti canti e filastrocche a possibile uso del gruppo per più di 50 ore di ascolto. La prima importante cantora in assoluto fu Rosina Prospero di Malvaglia (1910-1995), registrata dal gruppo nel 1988, nata e vissuta nella «villa» di Anzano. Si tratta quindi di un grosso patrimonio di canti tradizionali popolari orali che altrimenti, col passare degli anni, rischierebbero di andare irrimediabilmente persi. Alcune testimonianze raccolte dagli informatori, quasi un centinaio, tutti pressoché ultraottantenni molti dei quali nel frattempo purtroppo deceduti – sono addirittura uniche. A cosa è dovuto, lungo gli anni, l’intramontabile successo della Vox Blenii, di questo gruppo spontaneo e «alla buona», che canta senza l’ausilio di microfoni o amplificatori e i cui componenti non leggono la musica? Lo abbiamo chiesto ad Aurelio Beretta. «Forse la ragione per la quale piacciamo al pubblico è da ricercare nella nostra semplicità d’esecuzione» ci risponde. «In altre parole, la gente sente che non cantiamo canzoni d’autore o commerciali, bensì canti che raccontano in modo diretto e veritiero storie di tutti i giorni della gente comune di un tempo, ma che con pochi accorgimenti potrebbero essere “molto attuali”. Storie di vita, di nascita, di morte, di lavoro e di grandi passioni, di disgrazie e di tradimenti. Storie che la gente sente essere state tramandate di bocca in bocca, da generazione a generazione. Si tratta di vicende che coinvolgono gli affetti e

Il gruppo bleniese è nato il 4 marzo del 1984 nel salone parrocchiale di Ponto Valentino.

che riescono ancora a toccare delle corde profonde in ogni persona, proposte diversamente da quanto oggi magari fanno i moderni mezzi di comunicazione». Oltre a questi fattori, quel che appare subito evidente al pubblico che ascolta e vede la Vox Blenii, è la sua autenticità, la maniera semplice e schietta di porsi e l’esecuzione dei brani fatta in modo il più possibile rispettoso della versione originale. Va detto infatti che per ogni brano presentato al pubblico, la Vox dispone della versione originale. E anche la voce di Luisa: è una di quelle che non si dimenticano facilmente. Ti entra dritta nel cuore e lo fa vibrare. Il gruppo, così come è ora autentico e spontaneo, altrettanto spontaneamente è nato trent’anni fa, più precisamente il 4 marzo del 1984 nel salone parrocchiale di Ponto Valentino. Era tempo di carnevale, un carnevale che a Ponto era ed è ancora molto sentito. Per questa occasione nacque l’idea di chiamarsi Vox Blenii, come allusione ironica in lingua latina al mensile «Voce di Blenio». Da allora la Vox di strada ne ha fatta molta e molta e minuziosa è stata la ricerca dei canti del suo repertorio, dove vi sono anche delle ballate arcaiche segnalate in Italia e tutta Europa già nel 1500 e arrivate poi in Ticino e nelle sue vallate più profonde portate da viandanti, pellegrini, mercanti o soldati, con le inevita-

bili trasformazioni e varianti locali. Un esempio di queste ballate medioevali è L’inglesa, la cui informatrice è stata Rosa Mandioni-Maestrani di Prugiasco (1912-2006). Poi ci sono i canti popolari, che risalgono più o meno alla fine del 1800 inizio 1900, cantati e raccolti dal gruppo nelle Tre Valli Ambrosiane (Riviera, Leventina e Blenio), in Valle Calanca e in altri luoghi del Ticino e del Grigioni italiano. Tante di queste testimonianze erano trasmesse da braccianti, artigiani, boscaioli e pastori presenti numerosi nelle nostre vallate. L’influsso proveniva specialmente dalla Valle d’Intelvi, da Bergamo e da Brescia. Ma come avviene il contatto con l’informatore o l’informatrice e la raccolta dell’originale del canto? Solitamente Aurelio e Luisa si recano presso persone da loro conosciute perché hanno già fornito delle canzoni o altrimenti su segnalazione di amici e parenti. «È una parte molto bella del nostro “lavoro”» ci spiega Aurelio. «Andiamo dai nostri cosiddetti informatori, generalmente anziani, sovente contadine-casalinghe o contadini-operai. Andiamo da loro col sorriso e con umiltà, una bottiglia di vino in mano, un registratore di quelli tradizionali e la fisarmonica. La persona deve sentirsi a proprio agio, questa è una condizione fondamentale». Parlando e discutendo con l’informa-

tore, a ruota libera, questo racconta ed evoca ricordi d’infanzia e gioventù. E allora si portano alla luce tracce di melodie e di parole. Canti che sono arrivati a noi come ultimi frammenti di una civiltà e di una cultura contadina e operaia ormai estinta. «Spesso siamo sorpresi nel constatare quanto gli informatori stessi non diano valore alle canzoni che riescono a ricordare; queste oggigiorno vengono invece apprezzate, valorizzate e studiate», osserva Aurelio. Dall’ascolto diretto dei cantori e quindi dal successivo ascolto con tutto il gruppo di queste prime fonti orali, inizia il lavoro vero e proprio: si «improvvisa» e si fanno arrangiamenti ricostruendo in modo il più fedele possibile al testo e alla melodia del brano. «Non inventiamo!» precisa Aurelio. «Gli interventi che facciamo sono minimi anche perché ci basiamo sulla fonte più completa, ma a volte piccoli ritocchi sono necessari per dare un corpo e una struttura alla canzone. Nell’esecuzione cerchiamo di riprodurre e trasmettere la melodia, il testo e soprattutto lo spirito originali». L’interpretazione musicale che ne segue è poi libera, dato che come detto, i componenti della Vox non leggono la musica. «Possiamo dire – ammette il nostro interlocutore – che dopo trent’anni ci siamo creati un nostro stile». Ogni anno la Vox Blenii tiene una decina di intrat-

mentale è che non piace sentirsi elencare i propri difetti dagli altri. Soprattutto se questi sono accademici, quelli che di solito si pensa vivano fuori dal mondo, bravi a criticare ma non a sporcarsi le mani. Qualche anno fa, tra i giornalisti, c’era chi definiva la ricerca del gruppo di ricercatori guidati da Kurt Imhof «boulevard scientifico», qualche altro che paragonava il sociologo dei media ad un critico gastronomico pasticcione che non ha ben chiaro che cosa sia e come si misuri la qualità dei media ai tempi di internet. Ma il punto non è criticarsi a vicenda. Il punto è che a volte bisogna anche spezzare una lancia a favore dei media. A favore di quelli che fanno bene. Di quelli che stanno cercando una strada, un modo per sopravvivere, per continuare a fare il loro mestiere e farlo bene, con passione, con amore per il giornalismo e con competenza. E con un terzo delle risorse di un

tempo. E se il campione scelto in una determinata settimana dell’anno attraverso un’analisi empirica dice che il trend è negativo, io lettore critico e assiduo, so riconoscere anche quelle volte, tutto il resto dell’anno, in cui comprare un giornale, cartaceo o digitale che sia, mi ricorda il piacere di leggere. Il piacere di imparare cose che non so. Di allargare gli orizzonti. Di rendermi conto che c’è un mondo al di fuori del mio. Mi ricorda l’importanza di essere informato, di formarmi una mia opinione personale sui fatti di politica e di economia. E mi porta alla mente le parole di Hegel «il giornale è la preghiera del mattino dell’uomo moderno». A me è successo qualche giorno fa sulla NZZ con due articoli complementari, uno sull’edizione cartacea e uno sul web. Si parlava di Erwin Naef, il soldato svizzero del Canton San Gallo inviato a presidiare il confine ticinese per im-

tenimenti e concerti, sia in Ticino che nella Svizzera tedesca come pure, sebbene più raramente, all’estero. Alla Vox Blenii si deve anche un bellissimo capitolo della vita culturale della Valle di Blenio, ossia l’organizzazione presso il Cinema-Teatro Blenio di Acquarossa della rassegna chiamata «La Tre Giorni di Musica popolare». Una rassegna che ha avuto luogo per oltre 20 anni sempre il secondo o il terzo fine settimana di ottobre. Le prime due serate di concerti, alle quali venivano invitati gruppi di musica popolare ticinesi, dalla vicina Italia o più lontano ancora, si svolgevano al Teatro, mentre la festa finale con pranzo e balli aveva luogo in diversi villaggi della valle. Nelle memorie di diversi lettori di queste righe, sicuramente ci sono i tanti «momenti magici» dei «dopo concerti» con i musicisti che si mescolavano agli spettatori e si improvvisavano canzoni e melodie, spesso – e come dimenticare? – trascinati dalla toccante e accorata voce di Isolina DelmuèRossetti (1911-2003) di Biasca, altra informatrice storica del gruppo. Da alcuni anni «La Tre Giorni» non si fa più. Era un evento impegnativo e che richiedeva molte energie e forze da parte del gruppo. «Ma non è detto che in futuro la si possa riproporre», ci dice Aurelio con un sorriso. «Intanto però – ci confessa – abbiamo ancora parecchio materiale registrato su cui lavorare». Come dire… si potrà ancora scrivere la storia di un altro cd! Per ora godiamoci l’ultimo disco E la mi manda, realizzato per i trent’anni del gruppo e a otto anni di distanza dal precedente Evviva chi g’ha i debiti. Questo nuovo album raccoglie 14 brani inediti, 4 tracce composte da una poesia in dialetto di Olivone, un pezzo live de Il barcaiolo e due versioni di canti eseguiti da chi ha condiviso con i componenti del gruppo i brani tradizionali della cultura orale del Ticino e del Grigioni italiano. Il cd è stato realizzato anche grazie al sostegno del Kunst-und KulturZentrum di Littau-Luzern e ai Comuni della Valle di Blenio. Assieme al cd è stato inserito un bel libretto di 140 pagine. Vi si trovano, con immagini e testi di archivio, la storia trentennale della Vox Blenii, i testi delle canzoni su dettagli di affreschi popolari, la traduzione in italiano dei brani dialettali e anche quella in tedesco quale omaggio ai numerosissimi estimatori della Svizzera tedesca. Il cd è ottenibile ordinandolo sul sito www.voxblenii.ch, o al n. 091 862 22 64.

La società connessa di Natascha Fioretti Spezziamo una lancia in favore dei media

In questi giorni, come accade ormai ogni anno dal 2010 a questa parte, nel panorama mediatico svizzero non si fa che parlare dei risultati dello studio «Qualità dei media» condotto e pubblicato dal fög – Forschungsbereich Öffentlichkeit und Gesellschaft – dell’Università di Zurigo. Una per tutti, esprime bene il concetto la «Sonntagszeitung»: «tutti gli anni la stessa storia. Un professore di sociologia riduce i media in poltiglia mentre questi si impermaliscono e rispondono a tono». Il trend, da anni lo stesso, è confermato: i media svizzeri raggiungono sempre meno il loro pubblico di riferimento e puntano sempre di più all’intrattenimento a discapito del giornalismo di informazione e di inchiesta mentre le notizie dall’estero, gli approfondimenti politici ed economici

trovano sempre meno spazio e rilevanza. Conquistano invece il primo piano lo sport, gli scandali, le storie dai risvolti umani e sentimentali. La qualità poi viene sempre meno in nome della corsa al grande pubblico e ai click di massa in Rete. A questo si aggiungono una crescente e preoccupante concentrazione di forze, potere e risorse nelle mani di pochi attori come Tamedia, Gruppo Ringier e NZZ Gruppe. È forse falso? No, è tutto vero. Ci vuole uno studio per venirne a conoscenza? No, i media lo sanno benissimo. Tra l’altro non sono tendenze che interessano solo il contesto svizzero ma il panorama mediatico internazionale. Certo però una ricerca empirica ha sempre il suo peso e poi permette ad ognuno di avere una panoramica, che sia allo stesso tempo più ampia ma anche più particolareggiata, sia del proprio orticello che di quello degli altri. Il problema fonda-

pedire ai profughi ebrei nel settembre del 1943 di passare in Svizzera. La sua storia personale, il conflitto interiore che ha vissuto tra il voler seguire la sua coscienza dando una mano a chi aveva bisogno e, dall’altro, il dover eseguire gli ordini impartiti, sono raccontati sul web attraverso un percorso multimediale, passando da una narrazione scritta e cartografica ad una narrazione video-audio con varie interviste e fotografie delle lettere originali scritte da Naef alla moglie. Contenuti gratuiti che chiunque può trovare sul sito. Mentre nell’edizione cartacea, due storici fanno il punto sulla politica svizzera nei confronti dei profughi durante la Seconda guerra mondiale. Questa è qualità e buon giornalismo tra l’altro coniugando vecchie e nuove tecnologie, formati narrativi tradizionali e moderni. E non ci vuole una ricerca per smentire o confermare. Basta leggere.



Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 10 novembre 2014 ¶ N. 46

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Società e Territorio

Ssst... ascolta Rassegne Una serie di eventi a Bellinzona ci guidano

alla scoperta dei Sensi del silenzio

La vita antica era costellata di silenzio. Con l’invenzione delle macchine, nel diciannovesimo secolo, il rumore divenne il sottofondo abituale della quotidianità. Oggi il rumore trionfa e domina sovrano nella società e sulla sensibilità degli uomini. La sua eco, se possibile in toni ancora più caotici, si riverbera costantemente nella nostra contemporaneità. E allora come trovare oasi al riparo da violenze acustiche per preservare mente e corpo? Sebastiano Caroni, 38 anni, docente di italiano e ricercatore in scienze umane, un’idea l’ha avuta e realizzata: organizzare una singolare quanto ampia rassegna, dal titolo Sensi del silenzio – esposizioni, conferenze, film, attività (fino al 20 dicembre 2014) – che ha come epicentro la biblioteca cantonale di Bellinzona e che gode del sostegno del Percento culturale Migros Ticino. Come è nato questo progetto? «Tutto è sorto da un incontro con Theo Mossi, animatore della biblioteca cantonale di Bellinzona, al quale avevo proposto di creare una “stanza del silenzio” all’interno della biblioteca. Lui accolse subito la mia iniziativa, invitandomi a mettere nero su bianco l’idea e così questo è stato il punto di partenza. In un primo momento l’idea di uno spazio dedicato al silenzio è stata sviluppata da un grup-

po di studenti del corso di architettura d’interni della Supsi. In seguito la stanza del silenzio è stata realizzata dall’architetto Erminia Mossi e all’interno si completa con una installazione di Olmo Cerri. Parallelamente all’idea di allestire uno spazio dedicato al silenzio, si è imposta l’esigenza di elaborare un programma più ampio, con conferenze, incontri e un ciclo di film. Abbiamo inoltre voluto completare questa riflessione inserendo nel programma alcune possibilità concrete di esperienza del silenzio. Da qui sono sorte proposte legate alla meditazione oppure a un fine settimana al Convento del Bigorio». Il calendario della rassegna (disponibile all’indirizzo www.sbt.ti.ch/ bcb/silenzio) è vasto e multiforme. Ma come è scaturita l’esigenza di incentrare il ciclo sul silenzio? «Due – risponde Sebastiano Caroni – sono le vie che mi hanno condotto al silenzio: da un canto il mio interesse personale per la meditazione buddhista, in cui silenzio è imprescindibile, e dall’altro la volontà di rielaborare la mia identità di studioso e ricercatore dopo aver concluso nel 2013 il dottorato a Londra, proponendo così un progetto tangibile, lontano dall’isolamento accademico. Un altro aspetto che vuole essere caratterizzante di questa rassegna è l’interdisciplinarità». Un silenzio, dunque, coniugato in tutti i suoi significati. «Esatto. Il silenzio non

possiede infatti solo valenze positive, bensì pure negative, pensiamo al silenzio che opprime alcuni popoli. Per questo motivo abbiamo voluto coinvolgere anche Amnesty International, dando spazio in occasione del quarantesimo anniversario dalla sua fondazione a un’esposizione di manifesti che sottolineano l’importanza di proteggere la dignità umana, dando voce al silenzio degli oppressi. L’esposizione si terrà dal 5 al 20 dicembre nell’atrio della biblioteca cantonale di Bellinzona. Sin dall’inizio ci siamo resi conto del pericolo di veicolare un’idea esclusivamente edificante del silenzio, così abbiamo inserito nella rassegna anche aspetti legati a quello che chiamiamo “silenzio negativo”. C’è inoltre tra i diversi film proposti il silenzio angoscioso di uno dei thriller più celebri, Shining. Infine un’idea in appendice potrebbe aggiungersi al termine della rassegna, sulla quale sto ancora lavorando e che non sono in grado di dire se si realizzerà: riguarda la possibilità di rilanciare la riflessione sul silenzio, attraverso il coinvolgimento degli studenti della Supsi e dell’Usi. Il silenzio non è solo assenza di rumore, è una realtà molto più complessa, che spesso e volentieri si definisce proprio in relazione al rumore e al suono, da cui si differenzia senza che vi si opponga in maniera rigida e radicale. Il silenzio è anche ascolto». Il 4 dicembre alle 18.30, la filoso-

La locandina della rassegna curata da Sebastiano Caroni e Theo Mossi.

fa e professoressa di scienze politiche, Francesca Rigotti, proporrà la conferenza Rompere il silenzio, un viaggio letterario, linguistico ed etimologico attraverso il sostantivo al centro della rassegna bellinzonese. Il progetto Sensi del silenzio nelle intenzioni dei suoi curatori Sebastiano Caroni e Theo Mossi

si propone dunque di indagare la polisemia del silenzio, facendone emergere l’esperienza percettiva, la forma del sentire umano, senza dimenticare la dimensione legata al tempo, alla cultura e alla tecnologia. Il pubblico potrà così scoprire, incontrare o ritrovare il proprio personale silenzio. Annuncio pubblicitario

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Società e Territorio Rubriche

Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni La vita dura dell’educatore Nelle regioni nord-occidentali della Svizzera, in base a uno studio ripreso brevemente anche dai nostri giornali, a quanto pare cresce il numero degli insegnanti sull’orlo dell’esaurimento, o in preda a depressione, o in crisi per la difficoltà di svolgere correttamente il loro compito. Non sono a conoscenza di studi analoghi per il Ticino, ma so che il fenomeno è conosciuto anche da noi – tanto che un anno fa il Consiglio di Stato ha approvato una serie di misure per affrontare e combattere il disagio dei docenti. Ripenso ad alcuni dipinti di Karel Anker, come Die Dorfschule (1896) esposto al Kunstmuseum di Basilea: in una povera stanza disadorna dalle pareti scrostate siedono su panche di legno più di trenta scolari; in piedi davanti a loro troneggia il maestro, che impugna lo strumento disciplinare, la bacchetta. Nella scuola del passato poteva mancare di tutto, perfino l’inchiostro e la lavagna – ma

non la bacchetta. Alessandro Manzoni, che fu allievo di Francesco Soave nel collegio luganese di Sant’Antonio, raccontava che il religioso teneva nella manica della tonaca una sottile bacchetta; «e quando alcuno di noi gli facesse scappar la pazienza, egli la impugnava e la vibrava terque quaterque verso la testa o le spalle del monello, senza toccarlo: poi la riponeva, e tornava in calma». Sia chiaro: non rimpiango i tempi del Soave e non esalto l’uso disciplinare della bacchetta. Rimpiango i tempi nei quali il maestro e la scuola godevano di autorità, perché a quei tempi si poteva ancora educare e insegnare; oggi è molto più difficile, ma farlo rimane il dovere del maestro. Come stupirsi del disagio degli insegnanti? Quello dell’insegnante sta diventando un mestiere pericoloso. Lo si desume dalle notizie di cronaca. Cito alcuni titoli di giornali: Espulso, fa strage a

della legalità: non ci si chiede se sia giusto fare una certa azione, ma si va dall’avvocato e gli si chiede quali scappatoie legali ci sono per farla comunque e impunemente. E i ragazzini imparano presto a trasgredire la legge e poi a usarla a proprio vantaggio. Si sa con certezza che la formazione morale deve avvenire già nell’infanzia e che l’introiezione delle norme deve accompagnare con coerenza la crescita del ragazzo: ma è possibile un siffatto processo formativo se per una trasgressione non è ammessa la minima punizione e se scuola e famiglia hanno codici educativi in conflitto tra loro? Nel dopoguerra cominciò a imporsi la pedagogia antiautoritaria: l’americano Benjamin Spock ne fu uno dei profeti. Poi ci si accorse che era un profeta di sciagura: molti anni dopo, quando furono evidenti gli effetti del permissivismo a oltranza, Spock

ritrattò molte delle sue tesi. E oggi, anche in Italia, è un pianto corale sull’autorità perduta (questo è, appunto, il titolo di un recente libro di Paolo Crepet); un altro psichiatra, Vittorino Andreoli, specialista di casi di devianza giovanile, pochi mesi fa ha pubblicato un libro in cui parla della difficoltà di educare in una «società senza padri». E ci sono poi i libri sulla scuola di insegnanti delusi e sconsolati, come Marco Lodoli o Paola Mastrocola. Il bilancio della prassi educativa – familiare e scolastica – è per lo meno inquietante: per usare le parole di Crepet, «bambini maleducati, adolescenti senza regole, ragazzi ubriachi e indifferenti, giovani senza occupazione che, invece di prendere in mano la propria vita, vegetano senza studiare né lavorare». L’educazione e la scuola, si dice sempre, sono investimenti per il futuro: ed è vero. Forse ora stiamo facendo un pessimo investimento.

svoltando a destra, ma già che ci sono, non resisto proprio a una digressione al café Remor, in place du Cirque. Altro luogo dell’anima nato nel 1921 di cui forse vi racconterò un giorno. Oggi mi siedo al solito posto e mi limito a mangiare una pallina di sorbetto al cassis, rara varietà Noir de Bourgogne coltivata alla Scuola di Orticoltura di Lullier. Dal Remor alla tomba di Borges, a passo serio da pellegrino, sono dieci minuti: Boulevard de Saint-Georges poi a destra, ecco rue des Rois. I re non c’entrano niente con questo prestigioso cimitero sorto nel 1482 per seppellire i morti di peste nera, ma deriva dal nome della via dove si trova, al numero dieci. A sua volta chiamata così per via degli archibugieri: il loro campo di allenamento si trovava lì vicino e il titolo di campione, dato dal 1509 al 1847, era Roi. Lasciando perdere i «sentieri che si biforcano» vado spedito sul viale di ghiaia verso il mio Aleph personale. «Uno dei punti dello spazio che

contengono tutti i punti» come scrive nel libro di racconti intitolato L’Aleph (1949) il favoloso scrittore argentino Jorge Luis Borges (1899-1986). Nato a Buenos Aires, adolescenza a Ginevra, poi ritornato a vivere qui gli ultimi anni, al ventotto della Grand Rue, su nella Vieille-Ville. La tomba di Borges a Ginevra (375 m), un mattino di estate indiana ai primi di novembre: lapide come un menhir, davanti un rettangolo di Buxus sempervirens. In cima, ad arco, il nome scolpito. Sotto, in un bassorilievo circolare stile runico dello scultore Eduardo Longato, ci sono sette guerrieri. In calce, il clou, una scritta sinclinale in gaelico: And ne forhtedon na. Traducibile con Non aver paura o Giammai con timore. È un frammento tratto da La Battaglia di Maldon, poema epico del X secolo tradotto dallo stesso Borges. In fondo, in piccolo, le date di nascita e morte. Accanto, se scostate il bosso, una minuscola croce celtica. Vado sul retro, due versi della Saga dei Völsungar di un

anonimo islandese che non vi cito, perché per numero di battute devo essere lapidario. Sotto un drakkar, la nave vichinga. In basso, una dedica-carezza di María Kodama: sua ex alunna, poi segretaria, infine moglie. C’è scritto Da Ulrica a Javier Otalora: che sono due personaggi, innamorati, del secondo racconto del Libro di sabbia (1975) che inizia con Borges e il suo doppio e due panchine: una a Cambridge nel 1969, sul fiume Charles e una qui nel 1914, a un passo dal Rodano. Finisco di annoiarvi con questo giro tombale di iscrizionigioco infinito di specchi e mi siedo sulla panchina tanto amata. Prego Borges di finire un giorno il mio romanzo ambientato a Ginevra e ormai arenato da anni. Un libro forse diventato sabbia. Da spargere al vento del Salève, altopiano roccioso sovrastante Ginevra che ho sempre associato al monte sacro degli aborigeni australiani, l’Uluru. Come hanno fatto con le ceneri di Robert Musil (1880-1942).

della pizza, della dieta mediterranea, da considerare simboli della cultura italiana. A sua volta, Parigi proponeva la haute cuisine française mentre per gli ambienti agricoli americani il titolo di patrimonio mondiale doveva spettare al latte di mucca. Oggi in pericolo, secondo i proponenti. Insomma, quest’apertura, imposta da un’ interpretazione allargata del concetto di cultura, si è rivelata sempre più insidiosa: a rischio persino di ridicolo. Come non bastassero le difficoltà che l’Unesco aveva già dovuto affrontare, in oltre 40 anni di vita, nell’esercizio di una funzione complessa e delicata: scegliere e tutelare «beni di eccezionale importanza culturale e naturale». Così era stato definito, nella carta di fondazione del novembre 1972, l’impegno di preservare «la memoria del mondo». Un ideale che, strada facendo, si scontrò con ostacoli inattesi: d’ordine politico, economico, e persino artistico. Se, nel 1979, l’Unesco era riuscita a salvare il tempio di Abu Simbel, in altri casi il suo intervento rimase lettera morta: basti

ricordare i Buddha di Bamiyan, vittime del fanatismo talebano. Negli ultimi anni, poi si è acuito un contrasto estetico e culturale fra i membri di comitati, schierati sul fronte della conservazione, e architetti, sostenitori del rinnovamento urbanistico. Se n’è fatto portavoce, l’«archistar» Rem Koolhaas: «Con simili mentalità ufficiali città dinamiche, come Londra, diventerebbero aree morte». E ha sollevato un polverone polemico anche la decisione di togliere a Dresda la qualifica di «patrimonio mondiale», colpevole di aver accettato un modernissimo ponte sull’Elba. Sono, poi, tesi anche i rapporti fra il comitato Unesco e Roma. L’Italia, che detiene il primato mondiale, con 50 siti e monumenti e luoghi qualificati «beni mondiali», pecca per disobbedienza. Oltre la metà dei suoi siti si trova in condizioni deplorevoli, a cominciare da Pompei, privi delle cure necessarie alla conservazione e all’agibilità. Al di là delle dispute, sta di fatto che il titolo di «patrimonio dell’umanità»

ha perso, visibilmente, autorevolezza e credibilità, nell’opinione pubblica. Sono troppi, si sente dire, e distribuiti a casaccio. Non poche attribuzioni fanno discutere e sollevano giustificati interrogativi sui criteri di selezione. È il caso, per esempio, del dialetto napoletano, entrato nella categoria dei cosiddetti «beni immateriali», coronati dall’Unesco. Nulla da eccepire sulla vitalità, anche letteraria, del linguaggio partenopeo. Ma, allora, il dialetto veneto non avrebbe le carte in regola per aspirare allo stesso riconoscimento? E perché no, lo Schwyzerdütsch? Passando all’ambito dei luoghi, dato che il Lario è stato promosso a «patrimonio» per le sue peculiarità di «paesaggio lacustre», potrebbero mettersi in lizza il Ceresio, il Verbano. Eccetera... Tutto ciò per dire che se, in partenza, gli intenti erano buoni, a contatto con la realtà, questa ricerca del «bene», rappresentativo della storia dell’umanità, si sta trasformando in un’operazione impossibile, o per lo meno illusoria, dagli effetti aleatori, anche sul piano turistico.

scuola (Giornale del popolo, aprile 2002); Vuole sequestrare cellulare allieva, multa a Prof (Corriere della Sera, febbraio 2005); Insulti, lancio di oggetti…, i docenti si ribellano al bullismo nelle aule (Il Caffè, dicembre 2012); Genitori aggressivi – Quando a scuola ci vuole la polizia (Corriere del Ticino, dicembre 2013); Genitori che ricorrono al Tar perché il figliolo è stato bocciato. Non c’è poi da meravigliarsi se l’ignoranza dilaga. (L’Espresso, luglio 2014); Mise in castigo la figlia minorenne. Padre alla sbarra (Corriere del Ticino, settembre 2014) (à suivre…) Si direbbe che la tanto deprecata bacchetta sia stata tolta dalle mani degli insegnanti per passarla a quelle degli allievi e dei genitori. Il ragazzino infrange le norme: però è prontissimo – o per lui lo sono i genitori – a sfruttare la legge per sanzionare gli educatori. Così la nostra epoca non vede il trionfo della morale, ma quello

Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf La tomba di Borges a Ginevra Alla tomba di Borges, quando vivevo a Ginevra, ci andavo spesso. Si trova al Cimetière des Rois a Plainpalais, la numero settecentotrentacinque, settore sette, giù in fondo. In faccia c’è una panchina, mi sedevo lì, in santa pace. Fumavo una sigaretta, leggevo un libro, o anche solo così. Il Cimetière des Rois non sembra neanche un cimitero, ma un parco con alberi secolari costellato di tombe curiose. Su «Newsweek» lo scrittore cileno Roberto Bolaño, appena entrato in cerca della tomba di Borges, lo aveva definito «cimitero perfetto». «Il tipo di posto per venire ogni pomeriggio a leggere un libro, seduto di fronte a qualche ministro del governo». Altro che quell’altro scrittorucolo cileno che lavora come traduttore alle Nazioni Unite: per farsi pubblicità, sulla copertina del suo libro, uscito nel 2011, si è fatto fotografare pisciando sulla tomba di Borges. Dopo le reazioni furenti degli intellettuali di mezzo mondo e del governo argentino – tale Eduardo

Labarca – ha detto in un’intervista a un giornale che ha usato una bottiglietta d’acqua. Meglio che io stia zitto, andava comunque data notizia, e che vada al diavolo. In questo pantheon ginevrino – dove oltre a Borges, sono sepolti Calvino (1509-1564), l’inventore dei fumetti: Rodolphe Töpffer (1799-1846), Horace-Bénédict de Saussure (17401799): papà dell’alpinismo, la prostitutascrittrice Grisélidis Réal (1929-2005), Sonja Dostoevskij (1868) – ricordo, che all’ora di pranzo, venivano gli impiegati del quartiere a mangiare scatolette di sushi. Passando sopra il ponte della Coulouvrenière, sopra il Rodano appena uscito dal Lemano, mi vengono su ricordi a fiotti di infinite passeggiate ginevrine, ma li seppelisco un po’. Il reporter non deve divagare troppo: dritto alla meta, fantastica e borgesiana in questo caso: uno dei miei luoghi dell’anima preferiti. Una volta di là dal ponte, all’incrocio con rue du Stand, fate prima a prendere questa strada

Mode e modi di Luciana Caglio Unesco: eccesso di patrimoni? Siamo, ormai, a quota 1007, cifra tutt’altro che definitiva. Continuano, infatti, ad affluire le candidature alla qualifica, ritenuta prestigiosa, di patrimonio dell’umanità, concessa dall’apposito comitato dell’Unesco, la World Heritage List. Anche la Svizzera, che nel 2008 aveva conquistato, con la ferrovia del Bernina il suo undicesimo riconoscimento, è di nuovo in lizza con due proposte: i trasparenti delle processioni di Mendrisio e i pifferi del carnevale di Basilea. Entrambe sostenibili, per carità. Si tratta di manifestazioni che, in ambiti ben diversi, rappresentano testimonianze storiche preziose, da proteggere. Ma, si deve parlare di manifestazioni, e quindi di una categoria di valori, entrata di recente nel novero delle candidature Unesco, con la denominazione di «patrimoni intangibili»: cose che non si possono toccare materialmente. Ciò che ha spalancato le porte alla musica, come pure ai rituali religiosi, alle tradizioni locali, alle lingue minoritarie, ai dialetti, persino alle abitudini alimentari.

Così, si è aperta una nuova era per le commissioni esaminatrici alle prese con una mole di lavoro, non soltanto debordante per quantità, ma soprattutto imbarazzante per qualità. Da gruppi e associazioni nazionali, regionali, locali sono arrivate candidature impensabili: come quelle a sostegno del caffè espresso,

I Buddha di Bamiyan, distrutti dai talebani nel 2001.


L’atmosfera festosa sta nel dettaglio 3 2 Cervo

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 10 novembre 2014 ¶ N. 46

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Attualità Migros

Un’area che guarda al futuro Piano di Magadino Elaborato il nuovo Piano regolatore per la zona industriale e commerciale

di Sant’Antonino-Cadenazzo. Intervista con Christian Vitta, sindaco di Sant’Antonino Il comparto industriale-commercialeartigianale a cavallo del confine tra i due comuni di Cadenazzo e S. Antonino ha appena concluso un iter di pianificazione che ne ha nuovamente definito le possibili future destinazioni. Discutiamo della situazione attuale e del destino di questo importante tassello territoriale con Christian Vitta, sindaco di Sant’Antonino. Signor Vitta, ci ricorda gli antefatti della situazione così come si configura attualmente?

Risalgono al 1966, quando Migros Ticino decise l’acquisto del sedime che ancora ospita le sue attività. Gli anni seguenti furono contraddistinti dalla progressiva realizzazione dell’attuale complesso, dapprima con l’edificazione della centrale amministrativa e logistica, in esercizio dal 1971 e che dal 1978 ospitò anche il primo supermercato, successivamente, nel 1986, con l’apertura del centro commerciale. La zona industriale-commerciale è servita da un’adeguata rete viaria interna, di giusto calibro, che suddivide in maniera ordinata i sedimi e ha un efficace allacciamento alla cantonale a due corsie, mediante un cavalcavia messo in funzione il 10 settembre 1977. Le realtà aziendali attualmente presenti sono numerose...

L’insediamento della Migros ha certamente fatto da catalizzatore per tutta una serie di altri insediamenti, sia ancora di tipo commerciale, sia di tipo logistico, sia di tipo artigianale e industriale: fra i grandi sono da citare la Interroll, leader mondiale nella trasmissione di materiali su rulli, la Gnosis Bioresearch, la SMB forgia di precisione e lavorazione meccanica. Per la logistica, accanto alla ditta Galliker l’insediamento più rilevante è sicuramente quello più recente della LGI, che ha occupato il sedime delle ormai fatiscenti soste per la raccolta e l’essiccazione del tabacco, riqualificando una zona in stato di abbandono. Complessivamente i posti di lavoro presenti nella zona sono più di 2’000, che in larga misura vanno a favore dei residenti, considerando che i frontalieri sono circa 300 e rappresentano il 13% della forza lavoro. La zona industrialecommerciale è balzata agli onori della cronaca grazie agli importanti impianti fotovoltaici inaugurati in questi ultimi anni, che fanno d i quest’area una delle più importanti in termini di produzione d’energia solare.

Dagli anni 60 si è assistito a un progressivo sviluppo. (Ti-Press) Quando è stata introdotta la pianificazione di quest’area e perché?

Il primo piano regolatore del Comune risale agli anni settanta. Lo stesso Comune aveva già delineato le basi per gli insediamenti di carattere industrialeartigianale e commerciale. Una nuova fase importante si è sviluppata dal 2004, con la revisione del Piano regolatore allora in vigore. Nel contesto di tale revisione, il Consiglio di Stato, in accordo con le autorità comunali di Cadenazzo e S. Antonino, ha adottato una zona di pianificazione cantonale che interessava l’area industriale-artigianalecommerciale a cavallo del confine dei due comuni. Ciò ha dato l’avvio allo studio di una pianificazione intercomunale che è stata approvata, in riunione contemporanea, dai due consigli comunali il 28 gennaio 2013. Si tratta di un esempio fra gli unici nel Cantone in cui due comuni hanno adottato una pianificazione intercomunale, che, al di là della possibilità data dalle aggregazioni (in molte delle quali peraltro continuano a restare in vigore i piani regolatori dei singoli comuni aggregati), costituisce un impiego coordinato,

razionale e ambientalmente sostenibile del territorio, in particolare di una zona chiave del Cantone anche per l’agricoltura come il Piano di Magadino. Quali sono state le fasi salienti di questi lavori di pianificazione?

possono notare altrove. Queste regole hanno portato sull’area insediamenti industriali e commerciali di una certa qualità, con marchi ed aziende conosciute in tutta la Svizzera e a livello internazionale.

Le più recenti sul piano normativo sono costituite appunto dal documento pianificatorio approvato dai due comuni di cui sopra, che permette di adottare nuove regole d’insediamento nell’area. Sul piano più operativo, vi è stata certamente la già citata realizzazione del cavalcavia per consentire un accesso fluido all’area dalla strada di transito e la realizzazione di una rete stradale di adeguato calibro all’interno della stessa. Importante, per un inserimento armonioso degli stabili industriali o commerciali nell’area, è stata la determinazione di adeguate linee di arretramento e di costruzione, che hanno portato a un’edificazione ordinata, con stabili armoniosamente orientati. Infine è contato molto porre dei limiti alle aree di vendita, così che c’è stato sì uno sviluppo importante degli insediamenti, ma non sfrenato a tal punto da arrivare agli eccessi che si

Il risultato della pianificazione del comparto industriale e commerciale di Cadenazzo e S. Antonino può essere verificato, sia pure con lo sguardo del non professionista, da tutti gli utenti, in particolare da chi frequenta i centri commerciali e ciò vale anche e soprattutto nel confronto con altre realtà del Cantone. Intanto l’accesso all’area di Cadenazzo e di S. Antonino non è quasi mai problematico: capita solo in qualche occasione di forte afflusso di turisti d’oltralpe verso il Locarnese, per eventi particolari, quando la «tirata», il rettilineo di Cadenazzo, si blocca a nord e quindi rende difficile l’accesso all’area industriale-commerciale. Anche la circolazione all’interno dell’area è ben regolata, con strade del giusto calibro, rotatorie, sovrappassi. I risultati ottenuti anche grazie agli strumenti pianificatori hanno permesso

Reinventarsi da grandi Scuola Club Migros Ticino La formazione continua, sempre:

tornare a scuola per scrivere il futuro Sono sempre più numerose le persone che desiderano riprendere a lavorare dopo un’interruzione di parecchi anni, oppure vogliono acquisire nuove competenze, sia per trovare un nuovo lavoro,

più soddisfacente e meglio retribuito, sia per fare in modo che un’attività praticata per passione diventi una vera e propria professione. La Scuola Club Migros Ticino, ac-

canto agli oltre 300 corsi proposti sotto forma di moduli brevi, continua ad ampliare il catalogo dei percorsi formativi con diploma, per dare al pubblico adulto la possibilità di aggiornare le proprie conoscenze e di seguire delle formazioni che offrano concrete possibilità sul piano professionale. Estremamente spendibile da questo punto di vista è ad esempio il corso che permette di ottenere il diploma di «Impiegato amministrativo», un percorso formativo composto da diversi moduli che vanno dalla contabilità, alla corrispondenza commerciale, dall’organizzazione del lavoro, alla comunicazione in azienda, all’informatica per l’ufficio. Il corso permette di acquisire le competenze indispensabili per svolgere un’attività amministrativa e commerciale con una preparazione solida e completa. Da quest’anno, i moduli che compongono la formazione sono frequentabili anche singolarmente, per dare la possibilità

E il risultato ottenuto?

di approfondire anche solo un aspetto di questa attività professionale, aggiornando le proprie conoscenze in un ambito specifico. Lo stesso principio è stato adottato per il corso di «Leadership», che già nella scorsa edizione ha avuto un ottima risposta di pubblico. L’attività di conduzione richiede, oltre alle conoscenze tecniche e di settore, nozioni e strumenti di organizzazione del lavoro, una fondata conoscenza di sé, nonché la capacità di motivare un team e di gestirne i conflitti. Il percorso è focalizzato su queste competenze e offre così una formazione a tutto tondo. Gli interessati possono però seguire anche singoli moduli, per migliorare determinati aspetti della propria professionalità. Nel settore del fitness e del benessere, accanto ai percorsi formativi già consolidati per acquisire i diplomi di «Istruttore Fitness», «Massaggiatore Salute e Benessere» e «Group Fitness Instructor», viene proposta per la prima volta una formazione per diventare «Massaggiatore Ayurvedico Abhyangam»; il diploma rilasciato al termine della formazione è riconosciuto dall’ASCA, la fondazione svizzera per il riconoscimento e lo sviluppo delle terapie alternative e complementari. Al termine della formazione i partecipanti sono abi-

uno sviluppo di qualità del comparto con l’insediamento di aziende rinomate. Questo si traduce, oltre che con la presenza già citata di oltre 2000 posti di lavoro, anche con un importante indotto fiscale che permette al Comune di poter contare su un moltiplicatore d’imposta comunale attrattivo e pari al 65%. Quali sono invece le aspettative per il futuro?

Le aspettative riguardano, se estendiamo la valutazione a tutti gli accessi all’area, la sistemazione dell’accesso all’abitato di S. Antonino, che serve anche al transito dei trasporti pubblici verso i centri commerciali. Certo che una soluzione finalmente globale del percorso rapido tra Bellinzona e Locarno, in una qualsiasi delle molte varianti proposte, risolverebbe quasi certamente ogni problema viario residuo. Inoltre, nei prossimi anni è prevista la realizzazione della nuova stazione ferroviaria che dopo l’apertura della Galleria del Monte Ceneri permetterà di raggiungere in tempi rapidi, non solo i centri di Locarno e Bellinzona, ma anche di Lugano che disterà a circa 10 minuti. / Red. litati a praticare il massaggio del corpo completo Abhyangam. Di prossima programmazione anche la formazione con diploma di «Coach in nutrizione», rivolta alle persone interessate al tema dell’alimentazione, sia per le innumerevoli applicazioni in ambito professionale, che per motivi personali. Queste formazioni sono spesso destinate a persone che già lavorano, e sono pertanto programmate prevalentemente di sabato, per permettere la frequenza anche a chi lavora a tempo pieno o ha impegni familiari.

Le prossime date Leadership con certificato SVF-ASFC 8 novembre 2014-20 giugno 2015. Massaggiatore Ayurvedico Abhyangam 22 novembre 2014-29 marzo 2015. Group Fitness Instructor con Diploma 29 novembre 2014-30 maggio 2015. Impiegato amministrativo con Diploma 30 gennaio 2015-19 giugno 2015.


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Ambiente e Benessere La potenza dei vulcani nipponici Da secoli l’uomo li teme e li ammira e più di recente ha cominciato anche a promuoverli come mete turistiche

Randagi in cerca di padrone Animali adottabili in Ticino ci sono, non è necessario andare a prenderli fuori cantone

Cattivi, cioè decisi La cattiveria è entrata a far parte del lessico sportivo specialmente quando si perde...

Marialuigia Bagni

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Curare piccoli cuori strategia terapeutica è importante riuscire a diagnosticare in tempo le cardiopatie congenite

chirurgici a tappe altamente specializzati, ma che non restituirà mai la vera conformazione cardiaca normale». Per fortuna, dopo la nascita, il problema cardiaco più frequente riguarda una patologia meno complessa: i difetti interventricolari: «Un’apertura fra i due ventricoli può avere varie dimensioni e non sempre richiede un intervento cardiochirurgico. I difetti piccoli presentano un’alta tendenza alla chiusura spontanea nel corso della vita: il bambino viene controllato periodicamente da un cardiologo pediatrico e si è consapevoli che il cuore non ne porta alcuna conseguenza, all’auscultazione si sente un cosiddetto soffio. In presenza di un difetto ampio, invece, compaiono segni di insufficienza cardiaca e il bambino necessiterà di una chiusura chirurgica, di regola entro i primi sei mesi di vita, dopodiché potrà condurre una vita pressoché normale, anche se non è consigliabile che segua la via dello sportivo professionista, per intenderci». Altre patologie necessitano in ogni caso della cardiochirurgia ma, in assenza di complicazioni, presentano una buona prognosi. Alla base della cardiologia pediatrica, e per riuscire a intervenire in modo adeguato e personalizzato per ogni piccolo paziente, la diagnosi prenatale rappresenta una possibilità molto efficace e decisiva per una serie di ragioni: «Innanzitutto, la diagnosi in utero dà ai genitori il tempo di prendere coscienza del problema cardiaco del nascituro, mentre per i medici significa poter eventualmente pianificare la nascita in un centro adeguato, soprattutto se il neonato richiederà un intervento chirurgico a breve termine. Allora lo staff medico potrà pianificare la migliore strategia terapeutica, i farmaci necessari, l’intervento chirurgico e tutta la presa a carico del bambino e dei suoi genitori. Ad esempio, posso dire che spesso a Zurigo sono annunciati neonati dei quali si conosce già una diagnosi prenatale che richiederà una presa a carico così complessa, spesso chirurgica, che non sarebbe possibile assicurare in un centro periferico». In questi grossi centri ospedalieri, come pure negli ospedali periferici, la presa a carico della famiglia riveste pure una grande importanza: «Il sostegno della famiglia è importante e richiede una rete ben strutturata di infermieri pediatrici, medici intensivisti,

La luna turba il sonno? Secondo studiosi svizzeri: sì. I risultati di una ricerca condotta da cronobiologi svizzeri confermano la credenza popolare. Ricercatori tedeschi del Max Planck tedesco invece la contestano. E sostengono che la ricerca elvetica, nel suo campione, include più anziani, che, notoriamente, hanno problemi di sonno. Dopo anni di silenzio i ricercatori, su questo tema, sembrano essersi risvegliati. «L’ornitorinco delle particelle» Lo zoo della fisica delle particelle al Cern di Ginevra ha fornito la prova definitiva dell’esistenza della particella Z (4430), una specie di ornitorinco della fisica, a cavallo cioè tra due diversi tipi di particelle. È la prova, secondo i fisici, che la materia «ordinaria», quella composta di particelle elementari note, riserva ancora molte sorprese.

Cardiologia pediatrica Per un’adeguata

Nell’immaginario collettivo, le malattie che colpiscono il cuore sono sempre fonte di grande ansia e preoccupazione perché riguardano l’organo senza il quale non è possibile vivere. È la pompa principale del nostro organismo e assicura l’apporto di una sufficiente quantità di sangue, dunque di ossigeno, a tutti gli organi. Batte circa 100mila volte al giorno: più di tre miliardi di volte in circa 80 anni di vita. Possiamo dunque riconoscere al cuore di essere un vero atleta che, però, potrebbe nascere già ammalato e non essere, di conseguenza, in grado di adempiere appieno il suo compito vitale, con il risultato di un’insufficiente irrorazione sanguigna di polmoni, cervello, reni, fegato, intestino, eccetera. «Ogni anno, in Ticino, avvengono all’incirca 2800 nascite: l’1 per cento di questi bambini viene al mondo con un problema al cuore e ciò significa che annualmente circa 28 nuovi bambini sono bisognosi di cure cardiologiche, un quarto dei quali comprende casi davvero critici che dovranno subire un intervento chirurgico entro il primo anno di vita», così esordisce la pediatra e cardiologa pediatrica Corinna Leoni Foglia, capoclinica di cardiologia al Kinderspital di Zurigo e medico aggiunto all’Ospedale regionale di Bellinzona, dove l’anno venturo si avvarranno della sua puntuale collaborazione. La dottoressa Leoni ci ricorda che il cuore è una struttura complessa della quale le affezioni più diffuse in età pediatrica sono i difetti congeniti: «Il ventaglio dei problemi cardiologici neonatali è ampio: alcuni esempi sono una comunicazione tra i due ventricoli o tra i due atrii, una valvola chiusa o non ben sviluppata, problemi dei grossi vasi e altre malformazioni, fino a patologie gravi come la presenza alla nascita di un solo ventricolo invece di due. Dunque, rispetto all’adulto, per il quale la cardiologia si occupa molto spesso di problemi alle arterie coronarie in un cuore strutturalmente normale, il paziente di cardiologia pediatrica presenta nella maggioranza dei casi una malformazione del cuore, con differenze che si distanziano poco o tanto dalla norma, la cui forma più grave è rappresentata dal ventricolo unico che ha bisogno di più interventi

Medicina e dintorni

pagine 18-19

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Maria Grazia Buletti

Notizie scientifiche

Contro il diabete, dormi al fresco Ricercatori svizzeri hanno trovato che dormire a una temperatura attorno ai 19 gradi aiuta l’organismo a formare il «grasso bruno», tessuto adiposo ritenuto benefico perché utilizza l’energia per mantenere la temperatura del corpo, in altri termini serve ad aumentare la sensibilità dell’organismo all’insulina e, potenzialmente, a diminuire il rischio di diabete. Dormire al fresco, dunque, contribuisce a mantenere in forma l’organismo, insieme a un regime alimentare sano e a un’attività fisica idonea. Il fulmine erode le montagne Colpendo le rocce, i fulmini avrebbero un ruolo di primo piano nell’erosione delle montagne. La scoperta è di un’équipe svizzera di Zurigo. Tradizionalmente, la formazione delle rocce acuminate sulle cime viene attribuita a fratture provocate dal gelo. Ma i ricercatori hanno calcolato che il fulmine può sbriciolare dieci metri cubi di roccia a ogni impatto. Per trovare il punto di collisione, hanno studiato le rocce: là dove colpisce il fulmine, i minerali magnetosensibili si riorientano in direzione del polo nord, perturbando il campo magnetico. Questa scoperta mette in questione la datazione dei periodi glaciali che viene stimata solamente sulla base dell’erosione delle montagne, avvenuta a causa del gelo. In arrivo il vaccino per l’asma Sensibile in modo anormale a sostanze presenti nell’ambiente, il sistema immunitario degli asmatici sviluppa un’infiammazione dei bronchi che altera la respirazione. Le cure di desensibilizzazione non sono ancora oggi risolutive. Un’équipe dell’Istituto di Pneumologia di Nantes, in Francia, sta studiando un vaccino, legato alla reazione ad uno degli acari più comuni, il dermatophagoides farinae. Il farmaco consente di dimezzare la reazione allergica e di diminuire i sintomi dell’asma.

La pediatra e cardiologa pediatrica Corinna Leoni Foglia, capoclinica di cardiologia al Kinderspital di Zurigo e medico aggiunto all’Ospedale regionale di Bellinzona. (Vincenzo Cammarata)

neonatologi e cardiologi che si prendano il tempo di spiegare in ogni dettaglio il problema cardiaco del bimbo e le opzioni terapeutiche». Anche la diagnosi precoce postnatale è uno strumento molto importante: «Non appena si scopre il problema, si individua la strategia terapeutica secondo la gravità del caso: vi sono patologie che vanno semplicemente controllate nel tempo e altre per le quali bisogna intervenire abbastanza velocemente in centri specializzati oltre Got-

tardo che hanno il pregio di avere una casistica sufficiente ad assicurare la migliore presa a carico dei piccoli pazienti cardiopatici». E se i casi più gravi richiedono una trasferta Oltralpe, nella cardiologia pediatrica gli Ospedali periferici possono comunque farsi carico di parecchio: «Come detto, una diagnosi precoce postnatale è molto importante, è auspicabile inoltre potenziare ulteriormente quella prenatale, perché conoscere prima possibile la cardiopatia congenita

del nascituro permetterà di offrire la migliore presa a carico del piccolo paziente, attraverso la pianificazione della più adeguata strategia terapeutica». Un campo molto complesso, quello della cardiologia pediatrica, che non può trascendere dalla forte carica emotiva dei genitori nella scoperta di queste patologie, mentre ha il compito di riuscire a trovare per ciascun bambino cardiopatico l’approccio correttivo più indicato e un’opportuna strategia di crescita.

Reni «coltivati» in laboratorio Presto avremo reni «coltivati» in laboratorio. Sono stati fabbricati da ricercatori del Salk Institute della California, che hanno condotto il lavoro in due tempi. Inizialmente hanno utilizzato molecole note per il loro ruolo nello sviluppo dei reni per trasformare gruppi di cellule in «germogli» dell’uretra; successivamente hanno coltivato queste cellule insieme ad altre cellule renali. Detto in termini molto semplificati, dall’assemblaggio è risultato un rene completo. Il cucchiaio contro il Parkinson Ideato per le persone con tremiti alle mani, questo cucchiaio Liftware com-

pensa i movimenti non voluti e limita perciò il rischio di rovesciare il contenuto della posata. L’apparecchio ha un largo manico, che contiene gli elementi elettronici e che si aggancia al cucchiaio vero e proprio. Quando il cucchiaio viene utilizzato, un «marchingegno» registra i movimenti per migliorarne l’uso.

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Mai lavare il pollo prima… …di metterlo nel forno. Sono le raccomandazioni dell’Agenzia sanitaria inglese pubblicate sulla rivista «FSA» del mese di giugno. Lavare il pollo o sue parti significa disseminare sul piano di lavoro e sull’abbigliamento di chi cucina alcuni batteri che sono all’origine della gastroenterite. Lavare è inutile, sostengono i ricercatori anglosassoni, anche perché la cottura elimina tutti i germi.

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Elogio del pompelmo Il pompelmo, in particolare la varietà rossa, secondo studi scientifici, avrebbe la capacità di ridurre il rischio di patologie cardiovascolari. Si ritiene che il pompelmo possa diminuire il colesterolo cattivo (LDL), i trigliceridi presenti nel sangue e l’arteriosclerosi. Ma attenzione ai farmaci: mai associarlo a Amiodarone (cordarone) e Artemether (antimalarico). Cautela inoltre con farmaci anti-colesterolo, antidepressivi e antiepilettici. Una lettera tra biondo e bruno Non c’è che una lettera tra il biondo e il bruno. Un’équipe dell’Università statunitense di Stanford ha scoperto che un gene che finora non aveva niente a che vedere con il colore dei capelli, perché implicato nella differenziazione delle cellule durante lo sviluppo, è invece responsabile del colore. Esperimenti su topi hanno dimostrato che una minima modificazione di geni provoca cambiamenti nel colore dei peli. Nella sequenza, ponendo una «G» al posto di una «A», l’animale diventava biondo.

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Gatti allergici al padrone Al momento è solo l’ipotesi di un’équipe veterinaria: come gli esseri umani sono allergici ai peli degli animali domestici, cani e gatti possono essere allergici alle squame umane. L’allergia si manifesta con affezioni cutanee come perdita di pelo, desquamazione e forte prurito. La teoria non può essere provata scientificamente, per ora, perché occorrerebbero grandi quantità di squame umane su cui fare sperimentazioni.

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Troppi stimoli sviano l’attenzione Un’aula troppo decorata distoglie l’attenzione degli allievi più giovani. La ricerca, pubblicata sulla rivista «Psycological Science» ha preso in considerazione 24 bambini dai 5 ai 6 anni per tre sedute consecutive di lettura in un’aula carica di decorazioni e altre tre in un’aula senza neutra. Nella prima gli allievi hanno passato oltre il 20 per cento del tempo a guardarsi attorno e hanno fatto il 10 per cento di errori in più. Una resina-recupera materiali Una resina permette il recupero dei metalli dalle acque industriali. Ecco quanto promette un’azienda francese. Il sistema prevede palline di resina (costituita da fosforo, ossigeno e zolfo) da 0,5 a 1 mm di diametro che, una volta disposte nel sistema filtrante, permettono di recuperare anche la minima quantità di metalli dissolti nell’acqua. Sulla base della chimica delle fosfine viene a crearsi un legame molto forte tra resina e metalli. Il composto della resina, infatti, lega naturalmente con i metalli.

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Musei: visitarli o no? Il giornalista di viaggio Oliver Smith, sul «Telegraph», ha elencato ventun ragioni per cui evitarli


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 10 novembre 2014 ¶ N. 46

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Ambiente e Benessere

Tutte le ragioni dei musei

Pedalar per fiumi

Viaggiatori d’Occidente Sia quelle per cui non li si dovrebbe visitare,

Bussole Inviti

sia i motivi invece per farlo

a letture per viaggiare «Pedalo da sempre, forse perché mio padre me lo ricordo in bicicletta, unico mezzo di trasporto domestico per tanti anni e pertanto da subito parte integrante della mia realtà familiare. E in un certo senso ho cominciato subito con i fiumi, anche se il termine è eccessivo. La Faloppia e il Roncaglia erano poco più che ruscelli alle porte di casa…»

Claudio Visentin Se mentire è male, a volte la buona educazione suggerisce di non dire quel che si pensa. Per questo ha fatto molto impressione la franchezza quasi irriverente con cui in Inghilterra il giornalista di viaggio Oliver Smith, sul prestigioso «Telegraph», ha snocciolato ventuno ragioni per non visitare i musei. Proviamo a sintetizzarle. Per cominciare si va nei musei soltanto perché lo fanno tutti, per sembrare viaggiatori sofisticati, per conformismo insomma, anche quando in realtà si preferirebbe fare altro; anche nelle indicazioni perentorie delle guide turistiche meravigliosi parchi, bar di tendenza e terme rilassanti devono cedere il passo ai musei più famosi. Ma se a casa non visitiamo mai o raramente un museo d’arte – si chiede Oliver Smith – perché dovremmo farlo in viaggio? Molti musei poi propongono infinite esposizioni di oggetti (porcellane per esempio) che stancano presto, mentre magari molti dei pezzi più interessanti sono in prestito all’estero per qualche mostra. E comunque anche una prestigiosa collezione rinascimentale diventa presto noiosa per chi non ha specifiche competenze di storia dell’arte, ovvero per la maggior parte delle persone. In genere – continua Oliver Smith – l’atmosfera è soporifera: lunghi corridoi come all’ospedale, luce fioca, guardiani annoiati ma sempre pronti a rimproverare chi alza la voce o ride. Anche i musei più innovativi hanno postazioni multimediali e interattive che spesso non funzionano, o sono pensate solo per i ragazzini, i quali, infatti, le prendono in ostaggio per un tempo infinito. Lo strapotere dei bambini, appunto, che corrono, gridano e s’infilano da tutte le parti, e sono appena un poco meglio dei loro genitori in versione pedagogica, rappresenterebbe un’altra ragione per stare alla larga dai musei. Senza contare che i musei più importanti (il Louvre, gli Uffizi) sono affollati e bisogna fare lunghe code per entrare; e le opere esposte si vedono a fatica mentre sono sempre più disponibili in rete riproduzioni con un’ottima

I lunghi corridoi del British Museum hanno molto da offrire ma possono anche... sfinire. (Andrew Dunn)

definizione che permettono di gustare ogni dettaglio (per esempio nel progetto Google Art). E nonostante i biglietti d’ingresso elevati, questi musei gravano pesantemente sui bilanci pubblici. Completano il quadro i caffè troppo cari e i negozi di souvenir con le loro improbabili proposte. Oliver Smith se la prende soprattutto con i troppi musei creati negli ultimi anni (per un certo periodo al ritmo di uno alla settimana in Gran Bretagna) per esporre gli oggetti più stravaganti e francamente inutili. Il museo della matita di Keswick (www.pencilmuseum. co.uk) ha magari un senso, molto meno il museo dei collari per cani a Leeds Castle, nel Kent, «il solo di questo genere» vanta il sito (www.leeds-castle.com), senza chiedersi il perché. Ma un rapido giro del mondo dei musei più strampalati rivelerebbe anche sontuose collezioni di tosaerba, lucchetti, oggetti in bachelite, teiere, saliere, mostarda, carne in scatola, tappi di sughero, cemento, ecc. Persino la fabbrica di mobili svedese Ikea pensa di ampliare il proprio museo aziendale

nella città di Älmhult, circa un centinaio di chilometri a nord di Malmö, la sua prima sede storica: con la speranza che non si debba montare i cimeli prima di poterli ammirare… Fin qui le accuse di Oliver Smith, certo volutamente eccessive, ma non prive di senso. Era forse inevitabile che qualcuno levasse la voce in difesa dell’onore dei musei e questo ruolo è toccato alla storica Claire Hayward, che ha avuto gioco altrettanto facile nel ricordare che i musei sono aperti a tutti, senza distinzioni di classe, genere, razza, religione; che sono porte spalancate sul passato in tutta la sua ricchezza e varietà; che offrono esperienze sempre nuove e diverse, tra cui innumerevoli eventi; che stabiliscono un collegamento con la comunità che vive intorno a loro. In ultima analisi i musei riportano in vita il passato: un luogo comune certo, ma basato su fondamenti reali. Personalmente, dopo un lungo mandato come direttore di un museo storico, sono incline ad amarli tutti e tutti perdonarli per le loro mancanze che spesso, di questi tempi, dipendono

anche da restrizioni di bilancio. E poi non c’è mai stato un museo, per quanto modesto, che non avesse una piccola rivelazione per me. A Marsala, in Sicilia, le scritte su di un pezzetto di coccio dall’apparenza insignificante mi hanno raccontato la storia dolorosa di una relazione d’amore finita male; in diverse città i musei di arti applicate, così spesso tralasciati, mi hanno svelato la bellezza dell’ingegnosità umana; e a Parigi il piccolo Museo Cernuschi, che spesso rimane nascosto nell’ombra del più famoso Museo Guimet di arte orientale, mi ha sorpreso con la sua immensa statua nera del Buddha di Meguro (XVIII secolo). Piuttosto che affidarsi completamente a meraviglie tecnologiche o alla realtà virtuale, strumenti comunque preziosi oggi tanto di moda, credo che se i musei vorranno continuare a essere amati dovranno coltivare sempre più la capacità di raccontare storie appassionanti che toccano nel profondo i visitatori, piuttosto che accumulare informazioni erudite e poco comprensibili. Così anche Oliver tornerà ad amarli.

Sarò inevitabilmente parziale: con l’autore condivido la passione di viaggiare lungo il corso dei fiumi, maturata nelle estati trascorse preparando documentari radiofonici per la Rete Due. E in bicicletta ho sceso il corso del Danubio da Passau a Vienna («Azione» no. 26 del 27 giugno 2011), l’itinerario principe del cicloturismo fluviale: non a caso ha ampio spazio anche in questo libro. Gli altri fiumi della mia vita li ho percorsi in vario modo: in auto, in treno, a piedi. Per Giuseppe Valli invece fiumi e bicicletta si sono saldati in un connubio indissolubile, che neanche le forature e le avversità climatiche sono riuscite a insidiare. E così, anno dopo anno, al Danubio si sono aggiunti la Drava, l’Adige e il Brenta, il Mincio e il Po. Valli è un insegnante ticinese e, in effetti, il cantone è sempre all’orizzonte: da Chiasso si parte, a Chiasso si torna, e la palestra per prepararsi a nuove imprese è la prosaica Breggia in Valle di Muggio, maltrattata dal progresso. Il libro è un poco guida, con molti sensati consigli pratici e dettagliati itinerari, un poco narrazione di viaggio, tra accensioni, dubbi e sconforti che sono il viatico del viaggiatore in bicicletta. Ma comunque sia andata la giornata, il tramonto di un giorno passato sui pedali lungo le rive di un fiume, a pochi metri dall’acqua che scorre verso il mare, porta sempre quella stanca serenità che è la grande ricompensa dei viaggiatori. Bibliografia

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 10 novembre 2014 ¶ N. 46

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Ambiente e Benessere

Ambiente e Benessere

Lo Zen e l’arte di vivere vicino al vulcano Reportage Alla scoperta delle montagne di fuoco del Giappone

Amanda Ronzoni, testo e foto Andate su internet. Digitate Giappone e vulcani. Scegliete un sito di vulcanologia a caso (tipo www.volcanodiscovery.com). Osservate la cartina e capirete al volo l’ossessione dei giapponesi per le loro montagne di fuoco (in giapponese kazan: ka, fuoco e san, montagna): ne conta circa duecento.

La tragedia abbattutasi sul monte Ontake di un paio di mesi fa era evitabile? Insistono a chiedersi i media. Ebbene, il paese è grande un po’ più dell’Italia, con il doppio abbondante della popolazione, e ospita il dieci per cento dei vulcani attivi del pianeta. È piantato alla congiunzione di quattro placche tettoniche: la Pacifica, quella delle Filippine, l’Eurasiatica e quella Norda-

mericana. È un po’ come quando chiedono se il Vesuvio tornerà a eruttare. La domanda corretta non è se, ma quando. Parlando di vulcani e terremoti, la memoria umana è troppo corta rispetto a quella del pianeta. Si va a statistiche. Le previsioni sono tentativi, utili, ma incerti. Le moderne tecnologie fanno di tutto per scongiurare il disastro.

Eppure… Eppure il monte Ontake, secondo vulcano più alto del Giappone, sorvegliato speciale, monitorato da 12 sismometri, 5 stazioni GPS e un clinometro, non ha dato alcun segnale di allarme. Niente livello 2 (non avvicinarsi al cratere), né livello 3 (non avvicinarsi al vulcano), o 4 (prepararsi all’evacuazione). È saltato direttamente al livello 5: evacuare immediatamente.

Ha colto di sorpresa tutti con un’eruzione freatica, un’esplosione di vapore superficiale formata da acqua e calore. Una nuvola di ceneri e detriti, inarrestabile, che si è mangiata una cinquantina di escursionisti e ha lasciato tutto sotto un morbido tappeto grigio. Questi sono i vulcani. Così è la Natura. E l’uomo è la ginestra del Leopardi. Da millenni continua a costruire «Qui su l’arida schiena / Del formidabil monteo». Da secoli ne sfrutta il terreno fertile. Più di recente ha cominciato anche a farvi del turismo. Non è incoscienza. È attrazione fatale. La necessità spinge alla convivenza forzata. Ci si ingegna. In onore del Dio dei vulcani, del Fuji in particolare, sono stati eretti 1300 santuari (Asama o Sengen Jinja) in tutto il Giappone. Il Fujisan, 3776 metri, la cima più alta del paese, è «Il» vulcano. Cono perfetto. Immenso. Lo vedevano dal mare, i rematori intenti a salvarsi dalla «Grande onda di Kanagawa» (la più celebre delle 36 vedute del monte Fuji di Hokusai), lo si vede oggi dall’autostrada e dal finestrino degli shinkansen (treni ad alta velocità) da chilometri di distanza. Secondo la tradizione, la cima custodisce l’elisir di lunga vita. Una leggenda che ossessionò Hokusai (1760-1849), celebre maestro dell’ukiyo-e (immagini dal mondo fluttuante), il quale intagliò in onore dell’icona giapponese per eccellenza altri cento ritratti. Il vulcano è un Giano bifronte. Ha un aspetto terribile. E un volto buono. Date un’occhiata alla città di Beppu, uno dei punti di massima attività vulcanica dell’arcipelago, nel Kyushu. Un girone dantesco. Colonne di fumo ovunque. Vapore che sale dai tombini. Beppu è famosa per i suoi nove «inferni» (jigoku) dai colori unici: pozze rosso sangue, azzurro cielo, blu mare. Acqua (più di 70mila m3 emessi ogni giorno) con temperature che vanno dai 37 ai 98°C. SPA (onsen) ovunque. Beppu è un paradiso infernale per i turisti. Più a sud, sempre in Kyushu, altro peso massimo: il monte Aso. È il più grande vulcano attivo del paese, una delle caldere più grandi al mondo, dallo scorso settembre nella lista dell’UNESCO Global Geopark Newtork. Anche qui, il via vai di turisti è intenso. Il suo cratere verde acido è facilmente accessibile grazie a una cabinovia. Ha ucciso diverse volte e oggi l’accesso è regolato a seconda di come tira il vento, mentre in quota si trovano diversi bunker dove riparare in caso cominci a sparacchiare bombe e detriti. Altro modello di convivenza, ancora in Kyushu, gestito secondo la prover-

biale efficienza giapponese, è la città di Kagoshima. 680mila abitanti, sorge di fronte al Sakurajima, l’Isola dei Ciliegi (sakura, ciliegio; shima, isola). Nome ingannevole. Nel 1914, in seguito a quella che fu definita la più potente eruzione vulcanica del secolo nel paese, l’isola si saldò alla terra ferma. Dal 1955 il vulcano ha intensificato la sua attività e gli abitanti della zona si sono rassegnati a spazzare le ceneri eruttate – dai 10 ai 30 milioni di tonnellate all’anno – e a smaltirle in punti di raccolta dedicati. I bambini circolano con il caschetto giallo nel tragitto tra casa e scuola. Mentre i ragazzi delle superiori possono tenerlo legato alle cartelle. Non è raro assistere a qualche sbuffata, ma qui reagiscono tutti con calma zen. Il problema si fa più serio quando la cima è innevata. La paura si chiama la-

har, mix di acqua e materiale piroclastico. Una colata che del cemento ha consistenza e viscosità. Ricopre e travolge tutto alla velocità della luce. Ecco perché il vulcano è imbrigliato da canali appositi che rallentano la corsa del fango verso il mare. Un’accortezza che permette di scongiurare così un secondo pericolo: lo tsunami. Insomma all’ombra dell’Isola dei Ciliegi sono sempre sul chi va là e fanno le prove generali di evacuazione. Regolarmente. (Fra l’altro, la somiglianza morfologica tra la baia di Kagoshima e quella di Napoli ha spinto le due città a gemellarsi. Speriamo bene). Per dimenticare il pericolo di sciagura incombente i ricchi della zona si riposano al Gajoen, il villaggio dell’oblio, lussuoso resort a 15 minuti di macchina da Kagoshima, in stile tradizionale. La

gente normale va a farsi un più economico pediluvio di acqua calda (ashiyu) vista vulcano in una delle tante stazioni termali lungo la baia. Calma assoluta anche sui visi dei turisti che a Ibusuki fanno i bagni di sabbia (sunamushi). Le teste spuntano come cavoli sulla spiaggia. Anziane signore munite di pale si aggirano premurose a controllare che gli ospiti siano sepolti a dovere e a loro agio. La sabbia nera beneficia dei vapori a 50°C provenienti dalle sorgenti sotterranee. Il caldo aumenta la sudorazione e accelera la circolazione, facilitando l’eliminazione delle tossine nel sangue, oltre a risolvere problemi di mal di testa, reumatismi e dolori vari. Una panacea. Insomma, come dice il saggio: «Keep calm and enjoy volcanoes» (mantieni la calma e goditi i vulcani). Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere Cucina di Stagione La ricetta della settimana

Sminuzzato d’agnello con nocciole e olive Piatto principale Igredienti per 4 persone: 1 carota · 2 gambi di sedano · 1 cipolla · 40 g di nocciole · 80 g di olive nere, ad esempio Kalamata · 480 g di sminuzzato d’agnello, ad esempio codino · sale, pepe · 4 cucchiai d’olio d’oliva · 5 dl di brodo di manzo o fondo · ¼ mazzetto di prezzemolo · 50 g di mascarpone. 1. Dimezzate la carota per il lungo e tagliatela a fette con il sedano. Tritate la cipolla. Tritate grossolanamente le nocciole. Dimezzate le olive e snocciolatele. Condite la carne con sale e pepe. Scaldate l’olio in una brasiera ampia e rosolate la carne a fuoco alto in due porzioni. Estraete la carne. Nella stessa brasiera rosolate la carota, il sedano, la cipolla, le nocciole e le olive per circa 5 minuti. Bagnate con il brodo e fate sobbollire per circa 15 minuti a fuoco medio. Lasciate che il liquido si riduca della metà. Aggiungete la carne e fatela scaldare nella salsa. Tritate il prezzemolo e aggiungetelo con il mascarpone alla carne. Servite lo sminuzzato con tagliatelle.

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Ambiente e Benessere In Ticino non mancano animali da sostenere o da adottare. (Nhandler)

Un’accademia per conoscere le api Apicoltura Nella regione del Seefeld in Tirolo

nasce un’iniziativa per promuovere e salvaguardare il mondo e il ruolo delle api Elia Stampanoni, testo e foto

Arrivano gli «Angeli» Mondoanimale In Ticino c’è chi opera a favore degli animali

indigeni meno fortunati o in difficoltà Maria Grazia Buletti Raphaela Vassalli è chiara nel ripetere più volte: «Ben vengano tutti coloro i quali operano in qualche modo a favore degli animali, perché perseguono uno stesso obiettivo: il benessere dei nostri amici a due o quattro zampe». Le chiediamo di parlarci della neonata associazione Angels4Animals, della quale è cofondatrice, e di contestualizzarla spiegandoci quali sono gli obiettivi del sodalizio e in cosa assomiglia o che cosa lo contraddistingue dalle tante altre associazioni che operano sempre a favore degli animali. «C’è tanto da fare – spiega Vassalli – per aiutare quelli in difficoltà o meno fortunati sul nostro territorio, dove Angels4Animals promuove e sostiene il loro recupero, la loro assistenza e l’affidamento di quelli adottabili da persone che sono accuratamente selezionate. Questo permette ad animali in difficoltà, con un proprio vissuto, con un punto di riferimento che viene loro a mancare, di ricostruire la propria vita in una nuova famiglia umana».

Un anziano potrebbe adottare un cane di sei o sette anni, già calmo, educato e tranquillo, per evitare i fastidi creati da un cucciolo Come tante altre persone, chi collabora con Raphaela e i suoi soci è mosso certamente dall’amore per gli animali e con la consapevolezza che spesso essi non ricevono l’aiuto di cui necessitano: «C’era bisogno di qualcuno che operasse anche qui in Ticino, dove non mancano animali da sostenere, da adottare e quant’altro». La nostra interlocutrice ricorda che «è molto più semplice importare cuccioli dall’estero, magari di razza e di piccola taglia, ma ciò porta via risorse al nostro Cantone in cui ci sono animali che corrono il rischio di essere soppressi, malgrado siano sani, ogni volta che non trovano una nuova sistemazione in tempo utile».

Succede spesso, infatti, che, per un motivo o per l’altro, non si possa più tenere il proprio animale domestico. In questi casi «noi cerchiamo di aiutare l’animale a trovare un’altra casa, con tutte le difficoltà del caso. Non è infatti facile trovare una nuova sistemazione a un cane o un gatto che ha già un vissuto, perché quasi tutti desiderano un cucciolo». Tendenza, questa, confermata dal vice veterinario cantonale Luca Bacciarini da noi interpellato: «Il problema è sempre lo stesso: fuori Nazione si va alla ricerca di cagnolini giovani e di taglia piccola, perché la domanda è sempre quella. Si evita di prendere un cagnolino in età e di taglia più grande, senza riflettere sul fatto che talvolta sarebbe auspicabile, e un vantaggio per tutti, trovare un compromesso. Penso a una persona anziana che potrebbe tranquillamente adottare un cane di sei o sette anni, già pacato, educato e tranquillo, che non necessiterebbe lo stesso movimento e attenzioni da dedicare invece a un cucciolo». Nell’affrontare l’argomento dell’importazione dei giovani esemplari, Bacciarini non può esimersi dal ricordare il rispetto delle regole sanitarie: «Bisogna stare molto attenti a chi importa questi cani dall’estero, bisogna verificare il rispetto delle regole sanitarie, la vaccinazione contro la rabbia, il microchip e il passaporto che devono essere in regola, insieme alle direttive di sdoganamento». Il suo consiglio, a chi si accinge ad adottare un cane, è quello di lasciarsi consigliare da esperti prima di rivolgere lo sguardo altrove, in ragione dell’aiuto che gli animali del nostro territorio necessitano. Dal canto suo, Raphaela Vassalli dice di comprendere la gente che desidera un cucciolo e lo va a cercare all’estero. Però, paradossalmente, ricorda che gli animali da loro recuperati e in attesa di una nuova adozione provengono proprio da fuori zona: «Si tratta di animali che hanno comunque un vissuto anche se cuccioli: un viaggio in condizioni spesso disagevoli, un percorso rocambolesco, proprietari che non li vogliono più perché non in grado di gestirli come avevano immaginato…

e che si ritrovano confrontati con il fatto che chi ha importato questi animali non li prende più in restituzione». Raphaela tiene a precisare che non tutti coloro i quali importano i cani sono così scaltri, ma purtroppo capita anche questo. «La soluzione non è comunque quella di portare qui da noi animali che vengono da fuori, perché il Ticino ne è stracolmo. Penso ad esempio alle colonie feline randagie, malgrado le castrazioni da noi effettuate per limitare questo problema». Luca Bacciarini, dal canto suo, conferma questa tendenza, senza però drammatizzare: «Vi sono colonie di gatti randagi, ma la situazione non è così grave come in Italia. Il problema nasce dal fatto che alcune persone danno loro cibo in modo incontrollato, sicuramente a fin di bene, ma il risultato è una proliferazione di queste colonie». Secondo lui: «Se i Municipi non tollerassero certe situazioni e intervenissero per tempo, quando i pochi animali sono ancora recuperabili, la faccenda sarebbe immediatamente più gestibile». Angels4Animals si occupa anche di gatti, oltre che di cani e altri animali come pappagalli, anatroccoli e tutti quelli che possono necessitare di un aiuto immediato: «Facciamo tutto quel che riusciamo, con le nostre forze, con l’aiuto di volontari che sono sempre benvenuti e il sostegno economico di chi non può mettere a disposizione tempo, ma vuole sostenerci in qualche modo: cibo e cure veterinarie sono costosi e cerchiamo di farvi fronte come possiamo». La nostra interlocutrice ci lascia con il sorriso e l’auspicio di aver invogliato chi cerca un animale a guardarsi attorno in Ticino, prima di recarsi all’estero: «Ce ne sono troppi che anche qui hanno bisogno di un essere umano che li ami. Chi si reca in un canile e non trova l’animale che corrisponde ai propri ideali, provi a guardare negli occhi senza pregiudizi quelli che sono lì, in attesa di una seconda possibilità. Essi sono altrettanto belli, buoni e in salute e meritano di avere in regalo una vita dignitosa per il tempo che rimane loro da vivere».

Gli apicoltori della regione di Seefeld, nel Tirolo austriaco, hanno deciso di unire le forze per far conoscere il mondo delle api, tanto affascinante per chi vi opera, tanto misterioso (e a volte timoroso) per il neofita. Recentemente è stata inaugurata un’accademia in tema, mentre già nel 2006 era stata aperta una «Via delle api» che, lungo dieci pannelli esplicativi permette di introdurre la tematica toccando gli aspetti più significativi di quest’attività. A completare l’offerta troviamo un Bienenhotel (hotel delle api) davvero interessante: situato lungo il percorso didattico, consente di avvicinarsi alle api grazie alla speciale struttura dotata di un vetro. A pochi passi troviamo pure un alveare selvatico, costruito all’interno di un tronco cavo e, anche qui, tramite una finestrella, si possono ammirare le api al lavoro, vedere le uova, le larve, le api che nascono, le scorte (di miele, di polline o di propoli) e le operaie indaffarate a costruire nuove celle. Con un po’ di fortuna e pazienza, soffermandosi davanti a queste arnie d’osservazione si può pure individuare l’ape regina, senza rischio di essere punti e senza disturbare troppo. Il tragitto e l’hotel sono sistemati sul comune di Reith, ma l’iniziativa è frutto dell’associazione apicola della regione di Seefeld (Imkereiverein), che ingloba pure i comuni di Mösern, Leutasch e Scharnitz. La visita non richiede un grande sforzo fisico ma, per chi conosce poco o nulla le api, sono davvero molte le nozioni che si possono apprendere lungo la via didattica. I cartelli (in tedesco) ci raccontano per esempio che in un’arnia contiamo fino a 70mila api in estate e circa 10mila in inverno. Si parla chiaramente dell’importanza dell’ape regina che, nutrita con pappa reale sin dallo stato larvale, si sviluppa e diverrà il punto di riferimento per tutta la grande famiglia, ritenuta come un super organismo. Di fatto, le api fanno tutto ciò che serve per il bene della grande famiglia: le operaie cominciano la loro vita con la mansione di spazzine, pulendo delle celle. Dopo pochi giorni, si occupano di regolare temperatura e umidità all’interno dell’alveare, poi accudiscono le larve, sorvegliano e proteggono l’alveare, quindi elaborano e immagazzinano il raccolto. Le bottinatrici sono molte e le vediamo volare assiduamente nelle belle giornate di sole: torneranno all’alveare con nettare (passando di fiore in fiore), melata (escrementi zuccherini di vari insetti omotteri), polline (dai fiori), propoli (sostanza resinosa raccolta dalle gemme e dalla corteccia delle piante) e acqua. Per produrne 500 grammi le api devono percorre più di 50mila chi-

lometri, visitando e raccogliendo il nettare di circa dieci milioni di fiori. Dati impressionanti che ci ricordano quanto possa essere prezioso e pregiato ogni grammo di questo dolce alimento, già noto nell’Antico Egitto oltre 4mila anni or sono. Le api maschio, i fuchi, più grossi e pelosi, hanno invece il compito principale di fecondare l’ape regina durante il volo nuziale. Il percorso didattico non è comunque indirizzato a promuovere o elogiare la produzione di miele, di polline, di pappa reale, di propoli o degli altri prodotti, ma tocca pure altri aspetti, come l’importanza di salvaguardare gli ambienti a favore di questi insetti, non solo le api mellifere, ma anche le api selvatiche o i bombi, parenti stretti delle api e che hanno pure un ruolo determinante nei nostri ecosistemi. Lungo il percorso troviamo una serie di piccole informazioni che introducono al mondo apicolo: la struttura sociale, il sistema di comunicazione, le origini, la storia, le proprietà del loro veleno oppure le tecniche di allevamento. Lo stesso concetto è poi stato ripreso anche nell’accademia delle api, inaugurata lo scorso 3 agosto a Seefeld. La regione, nota anche come Olympiaregion (nel 1964 e nel 1976 ha ospitato le prove di sci di fondo e di combinata nordica in occasione delle Olimpiadi invernali di Innsbruck) ha aggiunto un’ulteriore tassello alla proposta didattica in materia di api. La struttura è indirizzata soprattutto ai giovani o coloro che vogliono avvicinarsi all’apicoltura. Dall’accademia non si esce con un diploma, ma con molte conoscenze apprese da apicoltori esperti e formatori. L’associazione degli apicoltori vuole contribuire a migliorare la propria attività e avvicinare nuovi appassionati, ponendo l’accento su aspetti diversi. Non si mira solo alla produzione, ma si presta attenzione anche al semplice piacere di allevare dei popoli sani e contribuire al mantenimento della biodiversità e all’impollinazione di piante e fiori. All’accademia sono quindi garantite competenze e insegnamenti, ma poi, come sottolineano i promotori, «sta al singolo metterci la passione, il tempo a la determinazione». Un obiettivo è però anche quello di frenare la crescita selvaggia di pseudo-agricoltori che, non avendo le necessarie conoscenze, possono mettere in pericolo un intero settore, già messo a dura prova da diversi e a volte ancora poco noti influssi ambientali. Link utili

Via delle api di Reith: www.bienenhotel.at Società ticinese di apicoltura: www.apicoltura.ch


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 10 novembre 2014 ¶ N. 46

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Ambiente e Benessere

«Dobbiamo essere più cattivi» Sportivamente La frase sulla bocca di tutti nel mondo dello sport non significa nulla più che il desiderio

CdT - Scolari

di dimostrare una maggiore determinazione e più concentrazione, naturalmente a cominciare dalla prossima gara

Alcide Bernasconi «Dovremmo essere più cattivi». Ecco una frase con la quale giocatori e allenatori delle nostre squadre di hockey e di calcio si rifugiano, dopo una sconfitta, in una specie di fortino, e che ripetono regolarmente, ma senza fare il muso duro, come se stessero semplicemente ripassando una lezione.

Dirigenti, allenatori e giocatori ripetono di volersi dimostrare più risoluti in mille interviste a fine gara Succede anche all’estero, dove per cattiveria si intendono molte cose di un gioco che negli anni è diventato un mestiere. Per esempio: non guardare in faccia a nessuno. Se hai il disco o il pallone nei pressi della porta avversaria non lambiccarti il cervello a inventare un geroglifico per insaccare, ma tira, anzi spara in rete: può darsi che ne scaturisca un gol immediato oppure una mischia in cui guai a non lesinare i colpi duri. Come detto, non si guarda in faccia a nessuno, né al portiere avversario, né al compagno che si aspettava un appoggio, né all’arbitro che, per motivi a volte davvero inspiegabili, fischia e interrompe la manovra. No, assolutamente, bisogna essere «cattivi» se possibile dal primo all’ultimo minuto della partita, e questo a tutto campo: chi non lo è, finisce per soccombere, sia pure con un solo gol di scarto, sia pure nell’overtime o ai rigori in una gara di hockey su ghiaccio. Quindi? L’hockey deve ritrovare la violenza perduta nelle stagioni in un cui valeva la «tolleranza zero»? La risposta non potrebbe essere che ambigua: duri e decisi, sì! Fallosi: mai. A decidere dove si

colloca il confine fra questi due comportamenti sono evidentemente gli arbitri sul cui metro di giudizio non c’è purtroppo una linea di applicazione chiara e inequivocabile. Varia da arbitro ad arbitro, di gara in gara, esasperando più d’una volta i protagonisti del campionato i quali, va detto, volte dimenticano le più elementari regole del fairplay. Ma la cattiveria dichiarata da allenatori e giocatori non è solo questo. È prima di tutto il modo con cui si affronta una gara: quindi quella che da sempre abbiamo chiamato determinazione, la quale non deve mancare a chi lotta per la conquista di tre o due punti. Quelli che servono per portarsi ai primi posti della graduatoria o per risalire la classifica, e recuperare così le posizioni perse con una serie di sconfitte consecutive.

Per rimanere all’hockey, si possono citare da una parte il Lugano, che occupa il quarto posto della classifica grazie soprattutto ad alcune magistrali prestazioni dei suoi svedesi, in particolare del casco giallo (o top scorer) Fredrik Petterson, pur avendo perso in 19 partite finora disputate qualche punto qua e là. Dall’altra, l’Ambrì Piotta, il quale ha invece scialacquato punti su punti, rivelandosi innocuo e quasi del tutto «non cattivo». Passati, insomma, gli anni in cui si prendeva «partita dopo partita». Intendiamoci, il significato è sempre valido, tanto che anche l’ultimo dei giocatori di una squadra (se ce n’è uno) sa ciò che dice quando aggiunge che ora è meglio «concentrarsi sul prossimo impegno» perché il passato è da dimenticare.

Non meno cattivi vogliono essere i calciatori per vincere ma, prima di tutto, per non perdere. In Challenge League, il Lugano ha saputo tradurre sul campo quanto tutti hanno ripetuto dall’inizio della stagione, ossia giocare con la massima concentrazione e non fare cilecca in zona-gol. Un gruppetto di uruguayani ci ha messo del suo in questa trasformazione avvenuta cammin facendo e che ha portato i bianconeri a insidiare il capolista Wohlen. Ma oltre alla cattiveria, i calciatori usano la furbizia e – su tutti i campi, nella massima categoria e all’estero – soprattutto nel finale dei secondi tempi, i giocatori che stramazzano improvvisamente a terra, colpiti o meno dall’avversario, ormai non si contano più. È qui che pure i direttori di gara devono tirar fuori la loro

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Sudoku Livello medio

cattiveria mostrando inflessibilità, purtroppo in non pochi casi rinunciando però a «leggere» la partita che avrebbero potuto fischiare con maggiore autorità e sicurezza. Ma i cattivi – veri cattivi – ci sono, soprattutto, nella ristretta cerchia dei «tifosi» chiamati hooligans. Il loro comportamento costa carissimo ai club poiché impegna la polizia per diverse ore, con danni a infrastrutture per svariate migliaia di franchi e tafferugli che si risolvono con ferimenti anche gravi. Di questi tempi, con quel che di tragico accade fuori dal mondo dello sport, le trasmissioni soprattutto televisive sono come un pugno in un occhio. La radio dimostra in generale un maggior rigore nel giudicare l’importanza di dichiarazioni e descrizioni degli avvenimenti. Alla tv, per contro, giorno dopo giorno è un vero stillicidio di interviste che non dicono nulla e che al limite fanno rimpiangere le pause delle tv e dei giornali di un tempo, quando si andava allo stadio una volta ogni due settimane, salvo rarissime eccezioni. Il mondo soffre di mille mali. Le guerre si combattono poco più in là dei nostri confini, in paesi dove si fatica a vivere giorno dopo giorno, dove la morte miete le vittime, giovani vecchi e bambini, con proiettili e malattie. E noi a chiederci perché gli stranieri non segnano, perché gli arbitri fischiano di sproposito, perché si spendano tanti milioni per mettere insieme una squadra che non fa i gol bensì i debiti. Giocatori e manager chiedono cifre troppo alte se consideriamo l’effettivo calore di alcuni sportivi. Così i club affondano nelle cifre rosse, mentre le federazioni chiedono loro che provvedano a dotarsi di nuovi impianti sportivi che comportano cifre proibitive per le città, le quali hanno attualmente altri problemi più importanti da risolvere. Soldi, soldi, soldi: forse è il caso di essere sul serio, a ragion veduta, un po’ più cattivi e dire di no, così non va.

Giochi Cruciverba Sul giornale si legge: «Vendo pianoforte e vi assicuro che è come …» Trova il resto della frase leggendo, a soluzione ultimata, le lettere evidenziate. (Frase: 2, 5, 5, 3, 2, 6, 3)

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Scopo del gioco

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30. Detto di persona con grandi qualità 31. Le iniziali della conduttrice D’Amico 32. Condimento per la pasta 34. Altare pagano 35. Dei ganci sinistri 36. Elemento che unito ai metalli produce sali 37. Osso del bacino VERTICALI 1. Un vento 2. Diaframma dell’occhio 3. Articolo 4. È formato da ventisei ossa 5. Poggia sullo scalmo 6. Rafforza un sì

Completare lo schema classico (81 caselle, 9 blocchi, 9 righe per 9 colonne) in modo che ogni colonna, ogni riga e ogni blocco contengano tutti i numeri da 1 a 9, nessuno escluso e senza ripetizioni.

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ORIZZONTALI 1. Secreta dal fegato 4. Superiorità, supremazia 10. Il suo simbolo chimico è Au 11. Accanto alle cascine 12. Un profeta minore nella Bibbia 13. Riposa senza posa 14. Fior fiore 15. Fiume della Savoia 16. Un termine dell’addizione 18. Può essere pungente 19. Isole del Tirreno 20. Il padre di Sem e Cam 22. L’attrice Wasikowska 23. Capitale europea 25. Anagramma di gaio 27. Principe orientale 29. Unitamente

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7. Un frutto 8. Sacri nell’antico Egitto 9. Il nome dello scrittore Wilde 11. Cassetta con telai mobili 14. Uno dei sette colli di Roma 17. Un Placido tenore 18. Parte dal ventricolo sinistro del cuore 20. Preposizione articolata 21. Dedicata a Dio 23. Ingrediente di molti dolci 24. Traghettate da Caronte 26. Fa esplodere il tifo 27. L’attore Connery 28. Non si deve nutrire 33. Due lettere in fuga 35. Interpreta La signora in giallo (Iniz.)

Soluzione della settimana precedente

Buono a sapersi – Per piante malate spruzzatele con acqua nella quale avrete sciolto un…: cucchiaino di sapone per le mani.

C R U C C H E R I O I A N O N E C E D E M O R A T A P I N O E E G M N O C C

I O L A A S R I I S N E M E R A R I H I E

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Politica e Economia La disfatta Alle recenti elezioni di mid-term Obama perde anche il Senato

La rovente questione del Kashmir Fra India e Pakistan si sta consumando il conflitto più feroce dal 2003: è quello che riguarda la famosa regione di confine, al centro di scambi di accuse e violazioni del cessate il fuoco

La Tunisia dopo il voto Con le elezioni parlamentari del 26 ottobre la Tunisia ha ormai completato il suo processo di transizione democratica

Al voto su Ecopop Il 30 novembre saremo chiamati alle urne per un’altra iniziativa sull’immigrazione

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Kim Jong-un è riapparso in pubblico dopo un’assenza di 40 giorni. (AFP)

Cambio di strategia a Pyongyang? Corea del Nord Dopo la riapparizione in pubblico del leader Kim Jong-un, il regime sembra lanciare segnali di apertura Beniamino Natale Dopo più di quaranta giorni, il mistero della sparizione del giovane leader nordcoreano Kim Jong-un è stato risolto dai servizi segreti di Seul. Kim, secondo le fonti dei servizi, è stato operato di una ciste alla caviglia. Tutto chiaro? Difficile da credere. Prima di tutto è vero che dal 14 ottobre, giorno della «riapparizione», molte fotografie di Kim sono state pubblicate dai media nordcoreani. Ma non è stato diffuso alcun video. Nelle foto, Kim, che ha 30 o 31 anni, appare grasso e invecchiato e spesso appoggiato ad un bastone da passeggio. Nelle ultime immagini televisive diffuse prima della sparizione il numero uno nordcoreano zoppicava vistosamente ed era già evidente che il suo fisico era appesantito, circostanze che avevano fatto pensare alla gotta – una malattia diffusa nella sua famiglia – e alla sua smodata passione per il formaggio, un retaggio degli anni che ha trascorso in Svizzera da studente. Nel rapporto che hanno presentato al Parlamento della Corea del Sud i servizi di Seul – forse quelli più informati su quello che avviene oltre la «cortina di bambù» del 38mo parallelo – hanno precisato che Kim è stato operato in settembre o ottobre da «specialisti» venuti dall’Europa. I medici avrebbero avvertito che il problema potrebbe ripresentarsi,

se il leader nordcoreano non cambierà stile di vita. Secondo le informazioni fornite al dagli 007 di Seul al Parlamento, dall’inizio del 2014 è in corso nel vicino Paese una spietata purga degli avversari politici del leader. Circa 200 ufficiali del mastodontico esercito nordcoreano sono stati degradati o licenziati e 50 di questi sono stati mandati davanti al plotone di esecuzione. Si ritiene che le vittime fossero vicine al «traditore» Jang Soek-tak, zio e mentore del giovane Kim prima di cadere in disgrazia ed essere fucilato. Nel lungo atto d’accusa contro Jang, pubblicato dai media nordcoreani, vengono sottolineate due cose: la prima, evidentemente considerata la più grave, che aveva tentato di opporsi all’autorità di Kim; la seconda, più ambigua, riguarda la «sbagliata» politica economica che stava cercando di imporre. I lunghi documenti pubblicati in Corea del Nord, ispirati al prolisso stile degli inquisitori stalinisti degli anni trenta, non chiariscono quali sarebbero stati gli «sbagli» dello sfortunato Jang. John Everard, ex-Ambasciatore della Gran Bretagna a Pyongyang, ha spiegato che negli ultimi anni la situazione economica della Corea del Nord si è fatta estremamente problematica. Il Paese non si è mai ripreso in pieno dalla carestia degli anni Novanta, che secondo alcuni studiosi ha causato la morte di cir-

ca due milioni di persone (su un totale di 24 milioni) e ha lasciato come strascico una sottonutrizione diventata cronica e che ha ormai raggiunto la seconda generazione. La dinastia dei Kim non sembra infatti essere stata in grado di innescare una nuova fase di crescita che garantisca il benessere alla popolazione al di fuori della ristretta cerchia dei fedelissimi del regime. In questo quadro, gli aiuti della Cina, che fornisce all’alleato materie prime e investimenti, hanno assunto un’importanza fondamentale. Negli ultimi due anni, quegli aiuti si sono drasticamente ridotti. Solo nelle ultime settimane sembra che sia ripreso un consistente flusso di carburante dalla Cina verso la Corea del Nord. Rimane il fatto che il rapporto tra i due gruppi dirigenti «fratelli» non sono mai stati freddi come oggi. Il presidente e – carica forse più importante – segretario generale del Partito Comunista Cinese Xi Jinping è stato il primo leader cinese a visitare la Corea del Sud prima della Corea del Nord. La presidente sudcoreana Park Geun-hye è una sostenitrice del riavvicinamento con Pechino e ha preso decisamente le distanze dal premier giapponese Shinzo Abe, «nemico numero uno» di Xi Jinping, che lo sta incalzando sulla questione delle isole Senkaku/Diaoyu, controllate da Tokyo ma rivendicate dalla Cina. Da parte sua Kim, che è al potere

da quasi tre anni, non ha mai visitato la Cina, cosa che i suoi predecessori Kim Jong- il e Kim Il-sung (suo padre e suo nonno), hanno fatto con regolarità. Insomma, negli ultimi anni Pyongyang non ha potuto contare sull’aiuto del «grande fratello» cinese come in passato, anche se Pechino non mai voluto spingere la situazione fino al punto di portare al collasso il regime nordcoreano, cosa che provocherebbe una migrazione di massa verso la Cina e farebbe arrivare ai suoi confini gli alleati statunitensi di Seul. Pyongyang, prosegue l’ex-Ambasciatore britannico, ha cercato di assicurarsi cospicui investimenti dalla Russia – anch’essa un alleato di ferro prima del crollo del regime comunista – e da altri paesi europei senza ottenere grandi risultati. Eliminata la Cina, eliminata la Russia – almeno per il momento – e rimanendo in vigore le sanzioni imposte dall’Onu per il suo rifiuto a trattare sul programma nucleare, rimane solo la Corea del Sud alla quale poter chiedere una mano. Questo spiegherebbe l’improvviso arrivo in Corea del Sud, in ottobre, di una delegazione non annunciata e guidata dal generale Hwang Pyong-so, una delle figure più potenti del regime nordcoreano. L’ipotesi di Everard, sostenuta anche da alcuni transfughi nordcoreani, è che Kim Jong-un sia in realtà nulla più della «faccia» di una sorta di direzione collet-

tiva che avrebbe il suo centro nell’Organization and Guidance Department, l’organismo che dirige la vita quotidiana del Partito dei Lavoratori. Nel corso della loro inattesa visita – formalmente motivata dalla volontà di assistere alla cerimonia di chiusura degli Asian Games a Incheon – Hwang e i suoi accompagnatori si sono mostrati sorridenti e disponibili, un comportamento insolito per i nordcoreani, che di solito ci tengono ad apparire freddi, determinati e minacciosi. Dopo la ricomparsa del leader – forse «dimezzato» come sostiene Everard, forse semplicemente seriamente malato nonostante la giovane età – Pyongyang ha inviato segnali distensivi all’Onu. Forse per evitare un ulteriore isolamento l’Ambasciatore nordcoreano al Palazzo di Vetro, Kim Song, ha accettato di incontrare il responsabile per i diritti umani Marzuki Darusman, e lo ha addirittura invitato a visitare il Paese. Finora la visita non si è concretata ma gli esuli nordcoreani hanno già avvertito che il regime ha iniziato un’opera di occultamento dei campi di lavoro nei quali sono detenuti migliaia di dissidenti, un’indicazione che potrebbe andare avanti sulla via della distensione. Darusman ha sostenuto che Pyongyang sta «facendo progressi» nel campo dei diritti umani e che «forse (i nordcoreani) stanno cercando di uscire dal loro guscio».


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Politica e Economia

Repubblicani travolgenti Mid-term L’annunciata sconfitta democratica del 4 novembre si è puntualmente verificata. Ora i repubblicani

dovranno diventare più pragmatici e cercare punti d’intesa con Obama se non vogliono perdere il terreno guadagnato Federico Rampini Che tipo di Barack Obama avremo, in questo ultimo biennio? Dopo la débacle elettorale si guarda in avanti, l’attenzione si concentra sulla strategia del presidente, in parte già annunciata nella conferenza stampa di mercoledì scorso subito il risultato delle elezioni di midterm. «Obama punta a lavorare con, e senza, i repubblicani» è un titolo del «New York Times» che riassume bene la situazione. I terreni di accordi bipartisan possibili, ora che la destra controlla la totalità del Congresso (Camera e Senato) vanno da alcune riforme fiscali per alleggerire la pressione sulle imprese, ai trattati di libero scambio come quello in corso di negoziato con l’Europa. Invece Obama userà il potere esecutivo per andare avanti da solo sull’immigrazione: meno deportazioni, più regolarizzazioni. Altro terreno cruciale dove è possibile sia l’intesa sia lo scontro: l’ambiente. Nel decidere quando vorrà andare alla prova di forza, Obama avrà in mente due cose: il proprio lascito alla storia; e la strategia più adatta a preparare la riscossa democratica nel 2016. L’immigrazione, ad esempio, è il terreno ideale per sfidare la destra: nel 2016 andranno a votare molti più ispanici, e possono fare la differenza. Altro tema interessante è il salario minimo, dove si è avuta la prova nei referendum che anche la base repubblicana è preoccupata per l’impoverimento dei lavoratori. Molte analisi di questo voto vertono anche sul ruolo dei super-finanziatori: dietro la travolgente avanzata dei repubblicani c’è un trionfo per le grandi lobby, ormai libere di spendere a volontà per appoggiare i propri candidati, grazie alla Corte suprema. La regolamentazione dei finanziamenti elettorali è un altro dei cantieri fallimentari di Obama e di tutta la sinistra. Il capitalismo Usa è uno dei grandi vincitori di questa tornata elettorale. «Via col vento»: il ritorno del profondo Sud è un altro messaggio di questa elezione. Gli Stati ex-schiavisti sono ormai un compatto blocco monocolore repubblicano. Se Barack Obama aveva avuto la vita dura con una Camera che gli boicottava ogni riforma da quattro anni (i repubblicani la conquistarono nel novembre 2010), ora sarà peggio. Il Senato ha un potere aggiuntivo rispetto alla Camera, quello di confermare o bocciare le più importanti nomine del presidente: membri dell’esecutivo e giudici. La guerra dei repubblicani si estenderà anche alle nomine, quindi, privando il presidente di uno degli strumenti per cambiare gli equilibri di potere. Mitch Mc Connell, rieletto trionfalmente nel suo seggio di senatore del Kentucky, diventerà il leader della maggioranza al Senato. Insieme col suo collega John Boehner, lo Speaker of the House che da quattro anni guida la maggioranza repubblicana alla Camera, questi due devono decidere cosa fare dell’enorme potere che hanno a disposizione. Il sistema politico americano è «meno presidenziale» di quanto appaia al resto del mondo. Le leggi più impor-

Mitch Mc Connell, rieletto trionfalmente nel suo seggio di senatore nel Kentucky, diventerà il leader della maggioranza al Senato. (Keystone)

tanti, nuove tasse o nuove spese, non possono passare senza il sì del Congresso. La politica economica, con l’eccezione della leva monetaria controllata dalla Federal Reserve, non può essere decisa alla Casa Bianca da sola. Ora gli ottimisti sperano in un miracolo: che i repubblicani forti della loro vittoria diventino improvvisamente più pragmatici, più moderati, e comincino a cercare terreni d’intesa col presidente. I temi ci sarebbero. La riforma della normativa fiscale, per semplificare le tasse, ridurre le agevolazioni e i privilegi ingiustificati, chiudere gli spazi per l’elusione delle multinazionali e al tempo stesso ridurre la pressione fiscale complessiva: sugli obiettivi generali democratici e repubblicani potrebbero trovare punti di contatto. Un altro possibile accordo interessa da vicino gli europei, riguarda il nuovo trattato di libero scambio transatlantico. Obama lo vuole, convinto che farà bene alla crescita e all’occupazione. I repubblicani sono tradizionalmente liberoscambisti, potrebbero trovare qui un’occasione di cooperazione con la Casa Bianca. Ma vorranno farlo? Da una parte gli eletti della destra sentono il «richiamo della foresta», cioè la base più faziosa. Non bisogna dimenticare che molti di questi senatori e deputati repubblicani sono stati eletti al termine di una selezione particolare: prima hanno do-

vuto vincere le primarie di partito spesso dominate dal Tea Party e altre componenti della destra fondamentalista. C’è anche da pagare il debito con i grandi finanziatori, le lobby del petrolio o di Wall Street o del capitalismo sanitario privato. Per alcuni di questi parlamentari, accettare il dialogo con Obama è come parlare col diavolo in persona. Rischiano la propria sopravvivenza politica, in un partito alla deriva verso destra. Ma d’altra parte, seguire la tentazione del muro contro muro può comportare una disfatta nel 2016 quando si tornerà a votare: per il prossimo presidente e un’altra tornata legislativa. L’elettorato si pentirebbe rapidamente di aver dato la maggioranza ai repubblicani, se questi dovessero usarla solo per peggiorare lo stato di paralisi che attanaglia il sistema politico di Washington. Da oggi, questo dilemma del partito repubblicano s’intreccia con la ricerca di un valido candidato presidenziale. Le primarie sono ancora lontane, certo, ma il problema della destra è l’assenza di un leader autorevole della statura di Hillary Clinton. In quanto a Obama, al momento la sua presidenza si avvia a un crepuscolo mesto. I sondaggi misurano da molti mesi un tracollo di popolarità. Lo stesso presidente appare quasi demotivato, disilluso, consapevole di non essere riuscito a sfondare nella sua missione più

ardua: riformare il sistema politico stesso. Il blocco delle istituzioni peggiora, così come si aggrava la commistione tra denaro e politica: sono state le elezioni mid-term più costose della storia. Ma il presidente resterà pur sempre il dominus della politica estera nella superpotenza mondiale. Guerra e diplomazia restano essenzialmente delle prerogative della Casa Bianca, in quel campo l’influenza del Congresso è più modesta. Le grandi crisi del momento, dalla Siria all’Ucraina, continueranno ad assorbire molte energie e attenzione di Obama. A cominciare da subito: mentre scrivo, io sono di partenza con la stampa accreditata alla Casa Bianca per seguire due summit importanti, il primo test della strategia internazionale di questo presidente dopo la disfatta. Il primo appuntamento è a Pechino per il vertice Apec (Asia Pacifico) dove incontra anche Vladimir Putin. A seguire c’è Brisbane, in Australia, per il G20 dove si parlerà di (non) crescita globale. Con l’eurozona nei panni dell’imputato numero uno. È il paradosso di un’America che ha la crescita più robusta, e un presidente dimezzato. E ora… prepariamoci ad una bella sfida Clinton-Bush nel 2016? Non è fanta-politica. Mentre la destra celebra la sua storica vittoria e la maggioranza assoluta nei due rami del Congresso, di fatto si è già aperta una nuova fase poli-

tica. Tutti gli sguardi sono puntati verso la prossima sfida tra democratici e repubblicani, quella che fra due anni metterà in palio la Casa Bianca. Gli esperti cercano di valutare l’impatto di questo voto legislativo di mid-term sulle chance dei vari candidati. Ed è qui che lo scenario «dinastico» diventa attuale. La presa delle dinastie sulla politica americana non è proprio un fatto inedito e neppure recente: due presidenti di grande peso storico che portarono lo stesso cognome, Theodore e Franklin Roosevelt, erano cugini. John Kennedy fu seguito da Bob (assassinato cinque anni dopo il fratello maggiore) e dal senatore Ted. Ma oggi si direbbe che il fenomeno dinastico si stia rafforzando, a giudicare dai tanti cognomi illustri che affollano il ceto politico. È un dato singolare, quasi sconcertante, alla luce dell’altro fenomeno che è la disaffezione degli elettori dalla politica, la disistima o perfino il disprezzo che viene espresso nei sondaggi verso il ceto politico. Ma tant’è, anche in politica stiamo scivolando verso una «società patrimoniale», come direbbe Thomas Piketty: dove l’eredità fa la differenza. Per quanto riguarda il 2016, la candidatura di Hillary Clinton non è ancora stata dichiarata ufficialmente, ma pochi dubitano che lei abbia già deciso per il sì. Di fronte a lei non si può escludere che il candidato repubblicano sia Jeb Bush, fratello minore di George W., tutt’e due figli di un altro presidente. Il cognome dei Bush fa sobbalzare molti elettori di sinistra, e soprattutto in Europa. Ritengono che la dinastia si sia screditata definitivamente. Dopotutto, George W. ha lasciato le sue impronte digitali su due delle maggiori catastrofi che l’America sta pagando tuttora: l’invasione dell’Iraq nel 2003, e il tracollo di Wall Street nel 2008. E tuttavia il fratello Jeb viene visto come un potenziale cavallo vincente. Perché incarna l’anima moderata del partito repubblicano. Su un tema come l’immigrazione, la destra ha un disperato bisogno di emanciparsi dalle sue ali più estreme. Senza i voti degli ispanici è difficile vincere nel 2016. Jeb Bush è il personaggio adatto a riportare il partito nella tradizione conservatrice-moderata alla Ronald Reagan. In quanto a Hillary, l’impatto delle elezioni di mid-term su di lei viene letto in modi divergenti. Gli ottimisti pensano che questa disfatta democratica finirà per agevolarla. Soprattutto se nei prossimi due anni il Congresso continuerà a sabotare qualsiasi proposta di Obama, alla fine gli elettori castigheranno la maggioranza repubblicana. Scatterà la legge del pendolo, a una vittoria della destra farà seguito una rivincita della sinistra com’è già accaduto tante volte in passato. I pessimisti invece temono che la disfatta di questo 4 novembre sia un colpo duro per Hillary. Secondo questa tesi l’ex segretario di Stato affonda insieme con il suo presidente, non può rimanere indenne nella caduta di consensi che colpisce Obama, e dunque il suo partito farebbe bene ad abbandonare la «via dinastica» e a cercare un candidato meno legato al passato. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 10 novembre 2014 ¶ N. 46

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Politica e Economia

Questione esplosiva India-Pakistan Le due potenze nucleari si ritrovano

ai ferri corti per il controllo della regione del Kashmir dopo l’ultimo attentato al confine Francesca Marino Secondo alcuni analisti, Ahmed Rashid in testa, si tratta del «conflitto più feroce dal 2003» tra India e Pakistan. Da quando cioè le due nazioni sembravano sul punto di cominciare l’ennesima guerra sempre per la stessa, annosa ragione: la famosa, famigerata e annosa «questione del Kashmir». La questione, per fare un rapido riassunto della vicenda, risale al 1947, all’epoca della Partition. Quando un maharaja induista, che deteneva il potere su tutto il territorio kashmiri a maggioranza musulmano, decise per l’annessione dello Stato all’Unione indiana. Immediatamente, un contingente di truppe pakistane attraversò il confine con l’intento di annettere con la forza il territorio al neonato Stato islamico. Scoppiava così il primo conflitto indo-pakistano per la sovranità sul territorio del Kashmir, e si apriva uno dei conflitti più sanguinosi e duraturi della storia. Il cessate il fuoco imposto dalle Nazioni Unite nel 1948 riusciva a far cessare il primo conflitto imponendo la Line of Control (Loc), ordinando al Pakistan di ritirare le truppe dalle zone che aveva occupato e all’India di indire un referendum di autodeterminazione. Il Pakistan non si ritirava dalle posizioni conquistate e si annetteva invece anche i distretti del Gilgit e del Baltisan creando così il cosiddetto «Azad Kashmir». E l’India, di conseguenza, si rifiutava di indire il plebiscito. Da allora, per il Kashmir le due nazioni hanno combattuto tre guerre più il cosiddetto «conflitto di Kargil» e Srinagar e dintorni sono diventate terreno permanente di guerriglia e di scontri. Negli ultimi anni la questione sembrava divenuta, almeno all’apparenza, di secondaria importanza per la politica ufficiale pakistana. Non certo per l’esercito, l’Isi e gli integralisti, però. Che l’hanno sempre adoperata, e continuano a usarla, come mezzo per mantenere la loro presa sul governo e sulle strategie politiche di Islamabad. Per metterla in termini riduttivi ma comprensibili a

chiunque non sia addentro alle complicate questioni geopolitiche in ballo, fino a quando il Pakistan ha un nemico alle porte l’esercito e i servizi segreti sono di importanza vitale per il Paese. E possono fare il bello e il cattivo tempo. Così, la «questione del Kashmir» torna a farsi sentire ogni volta che a Islamabad c’è bisogno di distrarre l’attenzione della popolazione o della politica. Gli scontri sulla Loc, a parte le occasionali scaramucce che non sono mai cessate, sono ripresi in grande stile nel 2012 in vista delle imminenti elezioni pakistane: più di settanta violazioni del cessate il fuoco nel corso del 2012. Violazioni che hanno fatto da contraltare a infiltrazioni di terroristi islamici in territorio indiano e a un rinnovato interesse da parte degli integralisti pakistani per la cosiddetta «questione del Kashmir». Le elezioni politiche del 2013 in Pakistan si sono concluse con la vittoria di Nawaz Sharif e in seconda battuta del partito di Imran Khan: entrambi sostenuti da gruppi jihadi e partiti integralisti che hanno provveduto a far fuori gli avversari a suon di bombe e di mitra. Nawaz è diventato premier, Imran il capo dell’opposizione. E nell’ultimo anno è stato magistralmente manovrato dall’esercito e dai servizi segreti per distruggere politicamente Sharif e tutti i suoi tentativi di elaborare politiche e strategie invise ai militari. Intanto, mentre il Pakistan viveva una delle stagioni più sanguinose di tutta la sua storia recente, con un numero di vittime di attacchi terroristici di vario genere che nell’anno in corso ha già raggiunto quota 4.300, a Delhi vinceva a man bassa le elezioni politiche l’attuale premier Narendra Modi. Inviso a molti a causa del suo coinvolgimento nei massacri di musulmani in Gujarat avvenuti nel 2003 e sostenuto a sua volta da vari gruppi di integralisti hindu. Come previsto un po’ da tutti, gli scontri sulla Loc sono ricominciati dapprima in sordina e poi in grande stile e non solo. Il Pakistan si è affrettato a scrivere una lettera al segretario delle Na-

zioni Unite Ban-Ki Moon denunciando l’India per le violazioni del cessate il fuoco, chiedendo per l’ennesima volta che la «questione del Kashmir» venga in qualche modo internazionalizzata e che sia rafforzata la missione dell’Onu. L’India ha risposto imponendo pesanti restrizioni agli osservatori internazionali e ribadendo le sue storiche posizioni: il Kashmir non riguarda la comunità internazionale e l’India non ha alcuna intenzioni di intavolare trattative con Islamabad «all’ombra dei terroristi». Non solo: durante il suo recente viaggio negli Usa, Narendra Modi ha concertato con gli Stati Uniti una «strategia comune» contro il terrorismo di matrice pakistana e, soprattutto, contro gruppi come la Lashkar-i-Toiba e la Jamaat-u-Dawa colpevoli non solo di attentati in Kashmir ma anche dell’attacco di Bombay del 2008 e considerati invece da Islamabad «organizzazioni umanitarie». Niente di nuovo, in realtà, visto che si tratta sempre della solita vecchia strategia adoperata con successo da Islamabad fin dai tempi di Musharraf: creare tensioni in Kashmir per distogliere l’attenzione internazionale da faccende più importanti. Lo spettro di un conflitto tra due potenze nucleari come India e Pakistan non manca mai di sortire il suo effetto. Mentre intanto, al confine con l’Afghanistan, si giocano altre partite sempre seguendo la buona, vecchia ricetta Musharraf: lasciare mano libera ai terroristi facendo finta di bombardare le loro postazioni in Waziristan e ammazzando in realtà in gran parte civili o oppositori del governo. Come sanno ormai anche i sassi, i gruppi jihadi che contano non stanno in Waziristan o nelle Fata ma a Lahore e dintorni. Da dove hanno organizzato nei giorni scorsi uno spettacolare attentato a Wagah-Attari, al confine tra Pakistan e India. A Wagah ogni sera, al calar del sole, l’esercito delle guardie di frontiera che da una parte e dall’altra sorvegliano gli ingressi, chiudono ufficialmente il varco tra i due paesi. Con una cerimonia che negli anni è diventa-

L’industria dei sogni di Maduro Pasodoble Il chavismo, alle prese con crisi economica e tensione

politica, punta anche sul cinema Angela Nocioni Il cinema venezuelano è inferocito, ma con la crisi economica che è anche assenza di finanziamenti statali per le produzioni cinematografiche, non osa rivoltarsi. Nicolas Maduro (foto), presidente del Venezuela, ha nominato suo figlio ventitreenne direttore della Scuola nazionale di cinema del Venezuela. Si tratta del suo unico figlio, identico a lui anche nel nome: Nicolas, 23 anni, profitto scolastico scarso e curriculum vitae ignoto. Del tutto digiuno di cinema e dintorni, bocciato anche alle selezioni per entrare all’Istituto universitario di studi musicali a causa di una media voti troppo bassa, Nicolas junior risolve diventando il capo di una delle istituzioni culturali più prestigiose del Venezuela. «La magia del cinema fa miracoli» è stato il commento sgomento di Roberto Lamarca, uno dei più noti attori nazionali. Maduro deve avere una gran pena per questo figlio alto e paffuto che sembra la sua fotocopia, baffi compresi. Quando non gli riuscì di fargli studiare musica, nonostante un lungo periodo da flautista nel Sistema de orquestas de Venezuela (avanguardia planetaria

nelle orchestre giovanili, riconosciuta come tale in tutto il mondo) lo nominò Capo del degli ispettori speciali della presidenza della repubblica. Ma anche lì ha combinato pochino. Si trattava di andare in missione qua e là per il Paese a verificare illeciti amministrativi ed inefficienze. Non l’hanno mai visto da nessuna parte, tranne un paio di comparsate accanto al papà in eventi ufficiali. Dar lustro al cinema venezuelano era una grande ambizione e un vecchio progetto di Hugo Chavez, uno di quelli peggio riuscitigli in realtà. Nel 2006 inaugurò la Villa del cine, una Cinecittà tropicale spuntata grazie a una pioggia di petrodollari subito fuori Caracas. Studios immensi, sale di posa in abbondanza, apparecchiature da Hollywood. L’ospite d’onore all’inizio fu Danny Glover, l’ex pantera nera. A lui, militante nella lista dei difensori con glamour del chavismo negli Stati Uniti, Chavez affidò per il debutto degli Studios la regia di un lungometraggio su Francois Dominique Toussaint Louvertoure, leader della rivolta antischiavista di Haiti. Come lo seppe, René Preval, allora presidente di Haiti, grande amico di Chavez, chiese di veder girare il film

sull’isola, ma invano. La produzione dei film venezuelani per legge deve essere tutta venezuelana, così come i tecnici, i luoghi delle riprese e almeno il 60% degli attori. Poi fu la volta del Generale nel suo labirinto, film tratto dal romanzo di Garcia Marquez per portare gli ultimi mesi di Simon Bolivar, «el libertador», sul grande schermo. E della teleserie su un altro eroe rivoluzionario dei Caraibi: Francisco de Miranda. Miranda regresa, il ritorno di Miranda, trasmesso in sei puntate dalla tv pubblica, Tves, che ha sostituito la tv privata Radiocaracastelevision, la prima tv del Venezuela, fortemente antichavista a cui il

Un soldato indiano (a destra) e uno pakistano al check point di Wagah. (Keystone)

ta una vera e propria attrazione turistica che porta a Wagah ogni giorno migliaia di persone. Non soltanto coloro che aggrappati alle reti e al filo spinato cercano di salutare i parenti dall’altra parte del confine, non coloro che aspettano di passare la frontiera, ma veri e propri turisti che, dopo aver visitato Lahore o il tempio d’oro di Amritsar si recano ad ammirare la cerimonia. Cerimonia in cui gli eserciti dei due paesi suonano a tutto spiano i rispettivi inni nazionali, marciano in assetto di guerra, fanno sfoggio di muscoli e di equipaggiamento inscenando teatrini di reciproca aggressività e si scambiano anche una serie di coloriti insulti, supportati dai fan che siedono sulle gradinate ad ammirare lo spettacolo. L’attentatore si è fatto saltare da parte pakistana, a 500 metri dal confine indiano, provocando più di sessanta morti. L’attentato è stato rivendicato da ben tre gruppi jihadi di diversa matrice: il Tehreek-i-Taliban Pakistan Jamatul Ahrar, recentemente creato da separatisti del TTP principale; il Jundullah, il cui obiettivo sono in genere gli sciiti e,

infine, un’altra fazione separatista del TTP che fa capo a Mahar Mehsud. Ehasanullah Ehasan, portavoce del Jamatul Ahrar, ha scritto su Twitter: «Questo attacco è un messaggio a entrambi i governi (indiano e pakistano): se possiamo attaccare da un lato del confine possiamo farlo anche dall’altro». Aggiungendo che: «ci vendicheremo per i massacri di musulmani innocenti in Kashmir e in Gujarat». E mentre il Pakistan continua a discutere su eventuali «strategie per combattere il terrorismo» convocando l’ambasciatore Usa a Islamabad per protestare formalmente contro un rapporto della Casa Bianca che individua nel Paese uno dei santuari del terrorismo internazionale e accusa Islamabad di «usare i terrorismi come mezzo per contrastare la perdita di influenza sull’Afghanistan e la superiorità militare dell’India», New Delhi e dintorni sono in stato di massima allerta perché secondo analisti, esperti militari e i servizi segreti, l’India è a tutti gli effetti il bersaglio più grosso e più probabile dell’internazionale del terrore.

governo non rinnovò la concessione per andare in onda in chiaro. Poi però, tra soldi persi chissà dove e risultati non brillanti, le luci della Villa del cine si sono spente una a una. La Scuola di cinematografia doveva contribuire al rilancio. Chissà se si inventerà qualcosa Maduro junior, non si sa mai. Di una potente industria di sogni a nastro continuo avrebbe bisogno come mai prima il chavismo, al potere da 15, allo sbando dopo la morte del suo leader fondatore. La Rivoluzione annaspa nella crisi economica, con un mercato nero del dollaro alle stelle e le risorse petrolifere in gran parte ipotecate dal debito con la Cina che si fa pagare in barili di petrolio gli interessi sulle aperture di credito concesse ad ogni emergenza (50 miliardi di dollari finora). Si sta svolgendo infatti in un clima di grande tensione nel Paese il processo a Leopoldo Lopez, il leader della destra più estrema venezuelana, che punta a diventare il capo dell’opposizione. Maduro voleva far processare Lopez «per sedizione» perché lo accusa d’essere stato l’animatore delle rivolte studentesche contro il suo governo iniziate il 12 febbraio (43 morti in pochi mesi). Il pubblico ministero ha formalizzato l’imputazione del reato di istigazione pubblica, associazione per delinquere, danni alla proprietà e incendio. Quarantatré anni, molto ricco, una faccia da bambolotto e un master in economia negli Stati uniti, Lopez è il vero leader dell’opposizione venezuelana. La Mesa de unidad democratica, l’alleanza antichavista che non vince

un’elezione dal 1998, non l’ha voluto candidare alle presidenziali dell’anno scorso, le prime senza Chavez negli ultimi quindici anni, perché temeva che il suo estremismo di destra, da lui rivendicato e usato come brand, non funzionasse alle urne. Meglio, sperava, l’immagine di bravo ragazzo del coetaneo Henrique Capriles. A Lopez rispondevano – e rispondono politicamente tuttora – gli agenti della PoliChacao, un corpo di polizia ricchissimo, armato di AK 47 e moto di alta cilindrata, che è il terrore di qualsiasi mendicante sosti sui marciapiedi della parte non chavista della città. C’era anche la sua firma tra le 400 che il 12 aprile 2002 chiedevano l’immediata nomina di Carmona come presidente della repubblica. Era uno dei leader più esposti. Fu lui a guidare l’assalto, durante il golpe, alla tv di stato, Canal 8, e alla sede dell’ambasciata di Cuba. Lopez è odiato dai chavisti e non piace agli antichavisti che puntano a un’opposizione non violenta. Lopez rivendica la violenza come strumento d’azione politica e fa di questo la sua bandiera. Non è bravo a prendere molti voti, ma sa come tenere mobilitati i suoi. Nella polarizzazione politica estrema del Venezuela, dove il conflitto è sempre a un passo dal diventare scontro armato, è una preziosa risorsa per la destra la capacità di convocazione di militanti che continua ad avere Leopoldo Lopez, nonostante il carcere. Se riesce a sopravvivere politicamente al processo sarà lui il nuovo capo della destra in Venezuela.


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Politica e Economia

La Chiamata di Essebsi Tunisia La grande polarizzazione uscita dal voto del 26 ottobre è figlia di un certo disorientamento del dopo-dittatura,

ma è soprattutto la sconfessione della vecchia troika che ha fallito sul fronte economico e su quello della sicurezza

Marcella Emiliani Le elezioni parlamentari del 26 ottobre in Tunisia sono state universalmente salutate come una tappa importante per la transizione ad una democrazia completa nel Paese. Si è trattato infatti delle seconde elezioni libere per il parlamento, dopo quelle del 2011 che insediarono l’Assemblea costituente. E tutto è andato bene. L’affluenza è stata del 69 per cento degli aventi diritto, quando alla vigilia si temeva un forte astensionismo. Si temevano pure disordini, ma a parte un unico episodio di violenza, il voto è stato tranquillo e ordinato. Se tutto andrà altrettanto bene con le elezioni presidenziali del prossimo 23 novembre, la Tunisia potrà davvero essere additata come l’unico esempio di primavera araba finalmente riuscita. Eppure il risultato del 26 ottobre non ha mancato di creare qualche perplessità negli osservatori. Su 217 seggi in palio in parlamento, infatti, la maggioranza relativa, ovvero 85 seggi, è andata ad una new entry politica, il partito laico Nidaa Tounès (Chiamata della Tunisia), creata appena due anni fa, il 26 gennaio 2012 da un vegliardo di razza, l’ottantasettenne Bèji Caïd Essebsi, che ha ricoperto cariche politiche sia sotto il padre della patria, Habib Bourghiba, sia con Ben Ali, il dittatore costretto alla fuga il 14 febbraio 2011. Insomma un uomo che riassume tutta la storia politica della Tunisia dall’indipendenza ad oggi. Sarà un caso? Al secondo posto si è piazzato con 69 seggi Ennahdha, il Movimento della rinascita, guidato dal suo fondatore Rachid Ghannouchi – l’islamista moderato che crede nella democrazia – che alle elezioni per la Costituente del 2011 aveva portato a casa il 40 per cento dei voti e fino al dicembre del 2013 ha fatto parte della cosiddetta troika, ovvero il terzetto che ha governato il Paese assieme al Congresso per la Repubblica del presidente della repubblica uscente Moncef Marzouki e ad Ettakatol (il Forum democratico per il lavoro e le libertà). Vista l’affermazione di Ennahdha alle precedenti elezioni, la perdita di quasi metà del suo elettorato alle urne del 26 ottobre è suonata come una dura punizione per Ghannouchi e i suoi, ma questo non significa che il Movimento sia fuori gioco. Nidaa Tounès non ha i numeri per formare da solo il nuovo governo e sarà dunque costretto ad un esecutivo di coalizione di cui probabilmente farà parte anche Ennahdha. Al terzo posto troviamo ancora un

Bèji Caïd Essebsi: il suo partito ha guadagnato 85 seggi su 217. (Keystone)

partito nuovo, l’Unione patriottica libera con 16 seggi e al quarto, con 15, il Fronte popolare, una coalizione di partiti di sinistra che comprende anche le formazioni di Chokri Belaid e Mohammed Brahmi, assassinati nel 2013 con tutta probabilità dagli estremisti salafiti di Ansar al-Sharia. L’Unione patriottica libera è stata creata da Slim Riahi un uomo d’affari miliardario di grande notorietà visto che è il patron del Club Africain, la squadra di calcio più popolare in Tunisia. Riahi ha basato tutta la sua campagna elettorale sulla necessità per la Tunisia di modernizzarsi fino in fondo per poter competere sullo scenario internazionale globalizzato. Un appello condiviso da Afek Tounès (Orizzonti della Tunisia), un partito di giovani tecnocrati liberali che ha raddoppiato da 4 a 8 i seggi in parlamento, piazzandosi al quinto posto. I restanti 24 seggi sono andati a 14 piccole formazioni, in una selva di un centinaio di partitini. Stando ai risultati delle urne, dunque, l’elettorato tunisino è pluri-polarizzato: tra il vecchissimo e il nuovissimo (Nidaa Tounès-Unione patriottica libera/ Afek Tounès), tra laici e islamici

(Nidaa Tounès-Ennahdha), tra sinistre sopravvissute (Ettakatol-Congresso per la Repubblica-Fronte popolare). Ma questa pluri-polarizzazione, come il pluripartitismo assai affollato, rientra nella vivacità politica e nel disorientamento di ogni dopo-dittatura. Il vero problema non sta qui. Come ha commentato «La Presse», uno dei quotidiani tunisini più popolari: «I tunisini hanno votato perché si trovino soluzioni ai loro problemi senza perdere tempo e senza impantanarsi». Il che è come dire che i passati governi «primaverili» e soprattutto la troika, che ha governato fino alla fine del 2013, hanno pagato lo scotto dell’inesperienza e hanno commesso gravi errori nel tentare di far fronte alle due vere emergenze del Paese: l’economia e la sicurezza. Sul versante dell’economia, la Tunisia della Rivoluzione dei Gelsomini non è riuscita ad essere sufficientemente credibile da attirare il volume di investimenti necessari a rilanciare una crescita significativa. Non è solo questione di flussi di capitale ma anche della loro allocazione. Oltre al turismo e alle industrie orientate all’esportazione, il Paese ha bisogno di nuove

infrastrutture, di importanti investimenti nell’agricoltura e soprattutto di colmare l’enorme divario di sviluppo tra le regioni costiere e quelle centrooccidentali e meridionali, semidesertiche ed emarginate, che sono anche quelle in cui attecchisce di più l’estremismo islamico. La disoccupazione è ancora attestata al 15,3 per cento, ma tra i giovani colpisce ancora duramente col 35. Quanto all’inflazione non corre a due cifre solo perché il governo (anche quello tecnico transitorio guidato da Mehdi Jomaa, installatosi nel 2013 dopo l’uscita dalla troika di Ennahdha) continua a sovvenzionare i prezzi dei beni di prima necessità, pane e carburanti in testa. In un quadro economico così fragile gli scandali di cui si è macchiata la troika non sono certo passati inosservati, come quel milione di dollari regalato dai cinesi alla Tunisia e finito sul conto privato di un ministro vedi caso genero del presidente di Ennahdha. Corruzione, malversazioni e arroganza sono state denunciate dalla stampa che è entrata nel mirino dei politici e i giornalisti hanno visto restringersi – anno dopo anno – i propri diritti.

Ma il terreno veramente scottante su cui la vecchia troika e soprattutto Ennahdha sono state giudicate è quello della sicurezza, ovvero dell’atteggiamento nei confronti di un jihadismo sempre più aggressivo. Sotto questo profilo le elezioni del 26 ottobre hanno evidenziato un paradosso eclatante: da una parte la Tunisia è – come dicevamo – l’esempio meglio riuscito di transizione alla democrazia tra i paesi investiti dalle primavere arabe, ma dall’altra è anche lo Stato che «esporta» il maggior numero di terroristi islamici verso la Siria e l’Iraq dove vanno ad ingrossare le file dell’Isis et similia. Si parla di un numero di giovani che va dai 3000 ai 4000 a seconda delle fonti, ma tutte concordano nel dire che il maggior numero di estremisti che si arruolano nei ranghi di formazioni qaediste vecchie e nuove proviene dalla Tunisia. E passi per i giovani che vanno all’estero (ma se non muoiono, prima o poi torneranno a casa fin troppo addestrati al terrorismo). Il guaio è che già oggi creano nuove cellule terroristiche all’interno della Tunisia. Fino al 2013 la bestia nera dei governanti tunisini era Ansar al-Sharia, una formazione salafita estremista di ispirazione qaedista, che è stata tollerata dalla troika (e da un’Ennahdha imbarazzato) fino agli assassinii politici dei leader della sinistra Chokri Belaid e Mohammed Brahmi. Da allora è entrata in vigore una legge anti-terrorismo oggi severamente criticata sotto il profilo del rispetto dei diritti umani. Detto in parole povere, al permissivismo nei confronti dei salafiti estremisti, è seguito un tallone di ferro non solo deprecabile sotto il profilo giuridico ma anche causa di un’ulteriore radicalizzazione dei suddetti salafiti. Oggi non si parla più di Ansar al-Sharia, ma apertamente di al-Qaeda in Tunisia, nome provvisorio di un’organizzazione terroristica frutto della fusione all’inizio del 2014 tra quanto resta di Ansar al-Sharia e della Brigata Okba ibn Nafaa (altrimenti detta anche Katibat Uqbah ibn Nafi, non si sa comunque se si tratta della stessa organizzazione o di un’altra), tutte afferenti ad al-Qaeda nel Magreb. Hanno già ucciso decine di poliziotti e militari tunisini nella regione di confine con l’Algeria dove ingaggiano violenti scontri a fuoco anche con le forze dell’ordine algerine. Il compito per Bèji Caïd Essebsi non è dunque semplice. Probabilmente è stato votato anche per la sua grande esperienza, ma le sfide che è chiamato ad affrontare rimangono molto ardue. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 10 novembre 2014 ¶ N. 46

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Politica e Economia

Ecopop: un’utopia? Votazioni Il 30 novembre prossimo popolo e cantoni dovranno pronunciarsi su un testo che propone

un freno all’immigrazione molto più rigido di quello votato lo scorso 9 febbraio

Alessandro Carli Il problema dell’immigrazione non dà tregua all’elettorato svizzero, dopo aver accolto per il rotto della cuffia, a sorpresa e con uno strascico di polemiche, l’iniziativa popolare dell’UDC «contro l’immigrazione di massa». Se l’iniziativa denominata Ecopop fosse accolta – come ha ammonito la consigliera federale Simonetta Sommaruga – «sarebbe nocivo per l’economia e chiuderebbe definitivamente la via bilaterale con l’UE». Stando al primo sondaggio della SSR, l’iniziativa sarebbe bocciata dal 58 per cento delle persone interrogate. Tuttavia, la prudenza è d’obbligo: una smentita dei pronostici, soprattutto guardando ai risultati dei sondaggi che hanno preceduto il voto sull’iniziativa UDC, non può essere esclusa a priori. Intanto, in casa UDC vi è maretta sulle responsabilità del partito – contrario al progetto Ecopop – nel caso in cui dovesse prevalere il sì. L’iniziativa «Stop alla sovrappopolazione – sì alla conservazione delle basi naturali della vita» vuole limitare allo 0,2 per cento, nell’arco di tre anni, la crescita annuale della popolazione residente permanente. Attualmente, ciò corrisponderebbe a meno di 17’000 persone all’anno, rifugiati compresi. Costituirebbe un taglio drastico, se si pensa che nel 2013 il saldo migratorio ha raggiunto quota 87’000. Il 9 febbraio scorso, accettando l’iniziativa popolare «Contro l’immigrazione di massa», la maggioranza dei votanti si è pronunciata a favore di un cambiamento di sistema nella politica di immigrazione, che verrà limitata mediante contingenti da fissare. Secondo il Consiglio federale, un ulteriore inasprimento del sistema restringerebbe in maniera inammissibile il margine operativo dell’economia svizzera.

L’iniziativa riduce drasticamente il margine di manovra dell’economia e vuole intervenire nella pianificazione familiare volontaria all’estero Inoltre, l’iniziativa lanciata dall’associazione Ecologia e popolazione esige che il 10 per cento dei fondi destinati all’aiuto allo sviluppo, pari a circa 150 milioni di franchi all’anno, siano destinati alla pianificazione familiare volontaria nei Paesi in via di sviluppo. Questa seconda richiesta avrebbe potuto fare lo sgambetto al comitato d’iniziativa, visto che il Parlamento, per un certo momento, ha accarezzato l’idea – poi accantonata - di invalidare il testo per «mancanza di unità della materia». Non è certo compito della Svizzera contribuire alla pianificazione familiare in altri paesi, investendo centinaia di milioni di franchi per finanziare preservativi e pillole anticoncezionali. Secondo il Consiglio federale, l’esperienza insegna che misure isolate non sono efficaci. Perciò, nella cooperazione allo sviluppo la Svizzera adotta un approccio globale anche in termini di pianificazione familiare, incentivando la salute, la formazione e la promozione delle pari opportunità della donna. Vista l’«inaffidabilità» dei sondaggi, Governo, Parlamento, partiti, imprenditori e sindacati stanno trascorrendo notti insonni. In caso d’accettazione di Ecopop, temono conseguenze politiche, economiche e sociali «irreparabili per la Svizzera», come ha

L’iniziativa lega i propositi ecologisti a quelli del controllo dell’immigrazione. (Keystone)

sottolineato la ministra di giustizia e polizia Simonetta Sommaruga, in prima fila nel combattere questo progetto. Con un tasso fisso d’immigrazione, questa iniziativa si spinge nettamente più lontano di quella dell’UDC, accolta il 9 febbraio scorso. Quest’ultima, infatti, impone contingenti di stranieri, ma senza quantificarli. È dunque molto più flessibile e prende in considerazione i bisogni dell’economia. Gli avversari dell’iniziativa rilevano come, in caso di accettazione, il margine di manovra delle imprese sarebbe nettamente ridotto, dato che non potrebbero più attingere manodopera al di fuori delle frontiere e reagire in modo elastico alle fluttuazioni congiunturali. L’introduzione di quote d’immigrazione rigide metterebbe in pericolo decine di migliaia di impieghi, con ripercussioni dannose per l’intera economia nazionale. I sindacati temono poi il dumping salariale: i datori di lavoro sarebbero tentati di far capo a residenti di breve durata o a frontalieri, esercitando una forte pressione sulle condizioni di lavoro. Approvare l’iniziativa significa ostacolare gli sforzi del Consiglio federale nella preservazione di relazioni buone e stabili con l’Unione europea (UE), cui è destinata oltre la metà delle nostre esportazioni. «Pensare che, alla luce di Ecopop, si possa rinegoziare con Bruxelles - sostengono gli oppositori è pura utopia, viste le grosse difficoltà emerse con l’accettazione dell’iniziativa contro l’immigrazione di massa».

Per questi motivi, il comitato interpartitico contrario al progetto (che annovera esponenti di praticamente tutte le formazioni politiche) definisce l’iniziativa «assurda e dannosa». Per gli oppositori, l’iniziativa non risolve nemmeno i problemi ambientali. A prescindere dal suo titolo «Sì alla conservazione delle basi naturali della vita», non propone alcuna soluzione per lottare contro il consumo eccessivo di acqua, di terreno o di energia per persona. Se vogliamo proteggere l’ambiente – sostengono gli avversari – non occorre ridurre l’immigrazione, bensì diminuire questi consumi, che in Svizzera e in altri Paesi industrializzati è molto superiore a quello dei Paesi poveri. La politica ambientale svizzera ricorda il Governo - persegue con successo quest’obiettivo: l’inquinamento atmosferico, per esempio, è stato ridotto nonostante l’aumento della popolazione. I fautori dell’iniziativa vincolano invece il problema ecologico alla crescita della popolazione. «Addossando agli stranieri le colpe dei problemi ambientali – ha ancora sottolineato Simonetta Sommaruga – l’iniziativa è di fatto xenofoba». Nulla di tutto ciò: per Ecopop e i suoi fautori la popolazione non può aumentare all’infinito, perché le risorse non bastano. Occorre dunque intervenire a livello di pianificazione familiare. Essi vantano i pregi di una Svizzera di 9 milioni di abitanti e temono che entro il 2050 si raggiungano i 12 milioni, complice la libera circolazione delle persone.

La Svizzera diverrebbe un’enorme città, dalle conseguenze drammatiche: natura cementificata, ingorghi, treni affollati, affitti alle stelle e servizi sociali al collasso. Per i sostenitori di Ecopop, l’articolo costituzionale contro l’immigrazione di massa è insufficiente e il popolo deve ora fissare limiti precisi. Soltanto quattro deputati in Parlamento hanno sostenuto l’iniziativa. Tuttavia, i suoi fautori si riscontrano anche al di fuori dei ranghi dell’associazione Ecologia e popolazione. Sebbene solo una minoranza dell’UDC sostenga il progetto (i delegati l’hanno respinto con 298 voti contro 80), l’Associazione per una Svizzera neutrale e indipendente (ASNI) invita a votare «sì». Anche cinque sezioni cantonali dell’UDC (AG, BL, SZ, LU e SO) chiedono di votare il progetto. Secondo Benno Büeler, presidente del comitato promotore, molti deputati di destra come di sinistra hanno un atteggiamento ipocrita sull’iniziativa Ecopop. Sebbene ne condividano le preoccupazioni, intendono bocciarla per opportunismo politico. Nel frattempo, l’ex consigliere federale UDC Adolf Ogi ha dichiarato che, se l’iniziativa Ecopop dovesse essere accettata il 30 novembre, il suo partito avrà una parte di responsabilità. Infatti - ha proseguito – l’UDC, compreso Ueli Maurer, ha giocato col fuoco rivoltandosi continuamente contro il Consiglio federale. Ogi ha puntato soprattutto l’indice contro Christoph Blocher che «sembra un cocchiere che non riesce più a controllare i propri cavalli».

mitare la parte della popolazione straniera al 10 per cento: è stata respinta nel 1970 con una maggioranza del 54 per cento di no. Nel 1974, la seconda iniziativa Schwarzenbach è stata spazzata via dal 67 per cento dei votanti. Nel 1977, l’iniziativa del Movimento repubblicano, pure fondato da Schwarzenbach, è stata respinta con il 70,5 per cento di no. Alla stessa data, una maggioranza del 66,2 per cento ha anche bocciato l’altra iniziativa dell’Azione nazionale «Per una limitazione del numero annuale delle naturalizzazioni». Altra bocciatura nel maggio del 1984: con il 51,1 per cento dei voti è stata respinta l’iniziativa dell’Azione nazionale «contro la vendita della patria agli stranieri». Nel 1988, l’iniziativa – sempre dell’Azione nazionale – «per la

limitazione dell’immigrazione» è stata silurata dal 67,3 per cento di no. Le redini della lotta all’inforestierimento sono poi state assunte dall’UDC. La sua iniziativa «contro l’immigrazione clandestina» è stata bocciata da una maggioranza del 53,7 per cento. Nel settembre del 2000, l’iniziativa «per una regolamentazione dell’immigrazione», lanciata da un comitato condotto dall’attuale presidente del PLR Philipp Müller, è stata respinta con il 63,8 per cento di no. Altre iniziative sugli stranieri respinte: nel novembre del 2002 quella «contro gli abusi nel diritto d’asilo» (50,1 per cento di no) e quella dell’UDC in favore delle naturalizzazioni attraverso le urne (63,8 per cento di no). Inversione di tendenza il 29 novembre 2009: l’iniziativa dell’UDC e dell’U-

Per Blocher è invece il Consiglio federale a spingere i cittadini a votare sì all’iniziativa Ecopop. Il leader carismatico dell’UDC sostiene infatti che per convincere l’elettorato a bocciare l’iniziativa il governo deve finalmente affermare in modo chiaro che vuole applicare l’iniziativa UDC «contro l’immigrazione di massa», così come votata dal popolo. Secondo Blocher, l’iniziativa Ecopop è «pericolosa e nuocerebbe alla prosperità del Paese». A suo avviso, il testo limita l’immigrazione con mezzi insostenibili. Infine, Ueli Maurer afferma che è «troppo facile addossare la responsabilità all’UDC» in caso di approvazione di Ecopop. Per il consigliere federale, la tentazione di votare l’iniziativa è piuttosto dovuta al fatto che «i problemi legati all’immigrazione sono stati ignorati per anni e quindi molti cittadini ritengono di doverla approvare perché, in caso contrario, «non succederebbe nulla in materia di migrazione». Mentre in casa UDC ci si scambiano le accuse, dal primo sondaggio risulta che i favorevoli all’iniziativa (35 per cento delle persone interrogate) provengono proprio dai ranghi democentristi. I vertici del partito e la sua maggioranza, invece, vi si oppongono. Gli osservatori spiegano questa situazione con il fatto che, se accolta, Ecopop farebbe ombra alla loro iniziativa «contro l’immigrazione di massa», approvata in febbraio. Gli elettori degli altri partiti sono invece ampiamente contrari al testo.

Una lunga battaglia Dal Dopoguerra, la rapida espansione del settore industriale elvetico fece affluire centinaia di migliaia di lavoratori stranieri, soprattutto da Italia e Spagna. Il Consiglio federale tentò di arginare il fenomeno, ma con scarso successo. Tra il 1950 e il 1970, la proporzione di stranieri in Svizzera aumentò dal 6 per cento al 16 per cento. Nel 2013 raggiunse il 23,2 per cento, in seguito a flussi migratori anche da altre Nazioni. Così, da decenni il fenomeno dell’immigrazione è oggetto di iniziative popolari, in gran parte naufragate. Nel 1968, i Democratici di Zurigo ritirarono una prima iniziativa contro l’inforestierimento, alla luce delle garanzie del Consiglio federale. Poi vi è stata la prima iniziativa dell’Azione nazionale di James Schwarzenbach che voleva li-

nione democratica federale (UDF) contro la costruzione dei minareti è accolta a sorpresa da una maggioranza del 57,5 per cento. Un anno dopo, l’iniziativa dell’UDC per il rinvio di criminali stranieri è approvata dal 52,3 per cento dei votanti. Infine, una debole maggioranza del 50,3 per cento ha approvato il 9 febbraio scorso l’iniziativa UDC «contro l’immigrazione di massa», che ci ha messo in una scomoda posizione in Europa. Voler imprimere un nuovo e più poderoso giro di vite, come chiede l’iniziativa che voteremo a fine mese, è una mossa esagerata e controproducente, sia per l’immagine di una Svizzera che vuol’essere ospitale, sia per l’economia, sia ancora per le relazioni con l’UE, con la quale, nolenti o volenti, dobbiamo e vogliamo convivere. /AC


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Politica e Economia

La Svizzera aderisce all’accordo OCSE Fiscalità Entro il 2017 (2018 nelle intenzioni elvetiche) dovrebbe garantire lo scambio automatico di informazioni.

Rimangono però resistenze per le convenzioni e la reciprocità

Ignazio Bonoli A fine ottobre, a Berlino, il gruppo di una cinquantina di paesi – che fanno parte del «forum globale» che sorveglia, nell’ambito dell’OCSE, l’assistenza giudiziaria in materia fiscale – ha firmato un accordo per lo scambio automatico di informazioni. È così aperta la via della completa trasparenza in materia fiscale dei conti dei clienti delle banche. A partire dal 2017, dati bancari dettagliati di clienti esteri potranno essere trasmessi allo Stato di provenienza dei depositi. Questo presuppone però un secondo passo importante e cioè la conclusione di un accordo bilaterale in materia. Per il momento la Svizzera non ha ancora firmato, benché abbia annunciato l’intenzione di partecipare a questo gruppo. Per una volta – quindi – Berna non è stata oggetto di attacchi da parte di altri paesi. Anzi, il ministro tedesco delle finanze ha lodato, durante una conferenza stampa, la collaborazione offerta dalla Svizzera. In questo campo – ha detto – sono perfino stati fatti passi avanti in misura superiore a quanto i critici temevano. In realtà la Svizzera appartiene, con Singapore, a un secondo gruppo di paesi che di principio aderiscono allo scambio automatico di informazioni, che vorrebbero però introdurre un po’ più tardi. In particolare, il Consiglio federale vorrebbe poter creare le basi legali interne, in modo da poter fare entrare pienamente in vigore l’accordo, a partire dal 2018. Resta aperta comunque la questione del

Un momento dei lavori durante la riunione tenutasi a Berlino il 29 ottobre. (Keystone)

segreto bancario sul piano interno, che non dovrebbe sottostare all’accordo internazionale sullo scambio automatico di informazioni. Un’esigenza in direzione dell’introduzione dello scambio automatico era stata avanzata dai direttori cantonali delle finanze che chiedevano di avere qui un trattamento pari a quello dei loro colleghi all’estero. Contro tale tesi vi è però in Svizzera ancora parecchia resistenza. Tant’è vero che tra poco il Parlamento dovrà confrontarsi con un’iniziativa popolare che torna a chiedere l’inserimento del segreto bancario nella Costituzione federale. Sarà quindi impossibile – nel caso venisse accettato in votazione popolare – sopprimerlo sul piano interno e,

anche verso l’esterno, nascerebbero non pochi problemi. La situazione presenterebbe qualche analogia con quella che attualmente rende molto difficile l’applicazione dell’iniziativa sull’immigrazione di massa. La Svizzera è ormai inserita, anche a livello di regolamentazione, in un mercato finanziario che marcia a grandi passi verso una completa trasparenza. Il citato accordo nell’ambito dell’OCSE viene ormai firmato, oltre che da tutti i paesi dell’UE, da paesi quali Liechtenstein, Lussemburgo, Bermuda, le isole britanniche, le Cayman, cioè paesi finora ritenuti veri e propri paradisi fiscali. Dichiarando la sua disponibilità ad applicare l’accordo, la Svizzera ha così pa-

rato il colpo delle numerose critiche che solitamente le piovono addosso durante queste riunioni. Anzi, sia il ministro tedesco Schäuble, sia il segretario generale dell’OCSE hanno riconosciuto che il processo democratico svizzero richiede solitamente tempi lunghi per la firma di trattati internazionali. L’atteggiamento potrebbe però cambiare qualora da Berna non arrivassero segnali concreti nella direzione voluta. Ma qualche resistenza di peso la si può vedere anche altrove. Per esempio gli Stati Uniti non hanno firmato l’accordo, né hanno intenzione di farlo. Nessuno sembra però preoccuparsene, perché con il loro FATCA, gli USA hanno in pratica aperto le porte agli standard globali ora

proposti dall’OCSE. Con però un grosso ostacolo ancora da superare: gli USA avranno difficoltà a garantire la promessa reciprocità, del resto non prevista nell’accordo con la Svizzera. Quest’ultima ha invece sempre detto di aderire agli accordi, quando le regole saranno uguali per tutti. Nella stessa direzione si muoveranno anche i prossimi passi dell’OCSE nell’intento di appurare chi sia l’avente diritto economico, dietro costruzioni societarie quali ad esempio i trust anglosassoni, oppure mediante leggi che permettono a stranieri anonimi di costituire società, come nello Stato americano del Delaware, quando non trattano affari negli Stati Uniti. Problemi rimangono anche per le fondazioni ammesse nel Liechtenstein o per le azioni al portatore in Svizzera (per le quali si sta cercando una soluzione). Il passaggio allo scambio automatico di informazioni costituisce un passo molto importante, oltre l’assistenza amministrativa anche in campo fiscale, come applicata finora su richiesta. Ci si può chiedere se tutti i paesi (in realtà e non solo a parole) siano pronti a compierlo. Esso deve passare necessariamente attraverso un accordo (una convenzione) e paesi come l’Italia o la Francia non mostrano molta fretta nel concludere il patto con la Svizzera, né sembrano disposti ad applicare quello che poi dovrebbe diventare lo standard OCSE. Eppure questo passo è urgente se si vuole rispettare il termine del 2017 (o del 2018, come vorrebbe la Svizzera). Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi La Svizzera al centro dell’Europa Uno domanda: «Dove si trova la Svizzera?». L’altro risponde: «Al centro dell’Europa!». Molto banale, dirai, caro lettore? La centralità della Svizzera rispetto all’Europa ce la mostra la carta geografica. Ma possono indicarcelo anche i piani della rete ferroviaria, delle autostrade o dei trasporti aerei europei. Eppure la cosa non deve essere così evidente, se due autori, un diplomatico e uno storico, si sono sono presi la briga di pubblicare, questo autunno, due libri in cui il primo pone la domanda sul dove e il secondo gli dà, senza saperlo, la risposta. Per essere chiaro fino in fondo, sto parlando dei libri Wo liegt die Schweiz?, ossia, in italiano, «Dove si trova la Svizzera?», di Jakob Kellenberger, appena uscito dalle edizioni della Neue Zürcher Zeitung, e di Mitten in Europa, ossia «Al centro dell’Europa», dello storico André Holenstein, pubblicato dalle edizioni Hier und Jetzt di Baden. I due autori ci spiegano che quando dall’evi-

denza geografica si passa al piano della politica la posizione della Svizzera in Europa non è più cosi adamantina e questo perché, come si sa, il rapporto della Svizzera con l’Europa e, in particolare, con l’Unione Europea (U.E.) è un rapporto difficile. Holenstein, professore all’università di Berna, fa la storia dell’interdipendenza con e del distanziarsi della Svizzera dall’Europa, dal Quindicesimo secolo ad oggi. Kellenberger, il diplomatico che, per anni, ha condotto le trattative della Svizzera con l’Europa, si concentra invece su quanto è successo dal momento in cui si è avviato il processo di integrazione ad oggi e su cosa potrebbe succedere nel prossimo futuro. Vediamo dapprima che cosa dice lo storico. Ridotta ai minimi termini la tesi di Holenstein è la seguente: la storia di un paese può essere scritta focalizzandosi su una visione nazionale, ossia esaminando il decorso degli avvenimenti nel tempo come se il

mondo terminasse ai confini nazionali. È un po’ (scelgo questo esempio per facilitare la comprensione del concetto al lettore) quello che capita con le storie dei Cantoni svizzeri, nelle quali né gli avvenimenti internazionali, né quelli che capitano negli altri Cantoni, trovano molto spazio. Holenstein considera questo modo di scrivere la storia troppo parziale, troppo auto-celebrativo e spesso erroneo. Più promettente per lui è invece guardare alla storia con un approccio cosiddetto «incrociato» che tiene cioè conto dei rapporti che ogni paese ha almeno con i territori confinanti. Non dimentichiamo che la Svizzera intera o quasi, come affermava il prof. Biucchi una trentina di anni fa, è una regione di frontiera Se si adotta questa prospettiva ci si accorge che, per la storia del nostro paese, sono importanti non solo i concetti di federalismo, sovranità e neutralità, ma anche i rapporti economici, diplomatici, i movimenti

migratori e altri fenomeni che, nel corso degli ultimi sei secoli hanno contribuito alla costituzione, soprattutto a livello di immaginario collettivo, dei concetti di apertura e isolamento. Anche Kellenberger accenna al problema dell’identità collettiva per spiegare il prevalere nell’opinione pubblica di quella che lui definisce la « bramosia del Sonderfall» che, in Ticino, aggiungiamo noi, è diventata addirittura l’aspirazione incontenibile al Sonderfall nel Sonderfall. L’oggetto centrale delle sue attenzioni è però l’inventario della discussione sulla politica europea della Svizzera. Dopo aver presentato cosa è avvenuto sin qui, Kellenberger esamina, uno per uno, gli aspetti che rendono particolarmente complicata la situazione odierna. Parla del potere di concetti come sovranità, neutralità, indipendenza, via di mezzo, piccolo stato, giudici stranieri, Willennation e altri che ritornano sempre nelle argomentazioni dell’uno o dell’al-

tro partito quando si discute della relazione tra la Svizzera e l’U.E. Egli cerca poi anche di descrivere il futuro dell’U.E., la sua posizione nel mondo, il suo contributo al mantenimento della pace, la sua dinamica interna con la tendenza all’allargamento che sembra non finire mai, il problema dell’euro, il problema di definire la sua politica estera e quella di sicurezza. Nell’ultimo capitolo Kellenberger cerca di delineare il futuro delle relazioni tra Svizzera e U.E., sottolineando che nella definizione della posizione della Svizzera sono due gli aspetti che bisognerà sempre prendere in considerazione. Dapprima il modo nel quale la Svizzera riuscirà a definire, a livello contrattuale, i suoi rapporti con l’U.E. Ma poi anche quello come la Svizzera apprezzerà la collocazione dell’U.E., come pure il suo ruolo in Europa e nel mondo. Come dire che, se anche volessimo, dell’Europa non possiamo scordarci.

mi hanno molto colpito. E mi hanno confermato nell’idea che il legame – mai ammesso, anzi spesso disconosciuto – con la patria e con la sua storia, in particolare quando le vicende della nazione incrociano quelle delle varie famiglie – sia solido. E sia una buona base su cui costruire. Del resto, il successo dei 150 anni dell’unificazione risorgimentale aveva confermato che il legame che unisce ogni italiano alla sua «piccola patria» locale – il territorio, il dialetto, le radici – non è incompatibile con il legame che lo unisce alla patria comune, l’Italia. E – lo dico con rispetto, visto che parlo di una realtà che non è la mia – credo che questo a maggior ragione valga per la Svizzera. Una nazione ben più antica dell’Italia, ma articolata al suo interno su quattro ceppi linguistici diversi. Eppure, vista da questa parte delle Alpi, la Svizzera appare davvero

un tutt’uno, e non credo che un italiano pensi gli svizzeri come diversi a seconda della loro lingua madre (anche se ovviamente sentiamo i ticinesi come più vicini). Onestamente penso che questo nostro essere affezionati alle nostre radici non sia un problema né per l’Europa né per la comunità internazionale (cui la Svizzera guarda da posizione defilata, ma a cui non mi pare sia estranea). Essere diversi gli uni dagli altri, e avere legami comuni, mi pare una ricchezza. Il problema per l’Italia è che al legame con la patria non corrisponde un legame con lo Stato. Gli italiani continuano a sentire lo Stato come altro rispetto a sé. Come un estraneo, che spesso diventa un nemico. E lo Stato si comporta spesso in modo tale da confermare tutti i pregiudizi negativi che i cittadini (spesso trattati come sudditi) nutrono nei suoi confronti.

Cent’anni fa, lo Stato liberale, fragile e assente, all’improvviso si fa vivo, strappa milioni di fanti contadini alle loro terre e alle loro famiglie, li getta nel peggior massacro della storia europea, fa loro sparare nella schiena dai carabinieri se non vanno all’assalto, fa legare i soldati a un palo fuori dalla trincea esponendoli al fuoco nemico per una banale mancanza o per una rissa, ordina decimazioni e fucilazioni. Ovviamente tutto questo ha contribuito a scavare un fossato tra lo Stato e il popolo che il fascismo e il suo disastroso fallimento non hanno certo colmato. La Repubblica dei partiti e della corruzione ha fatto il resto. E ora l’Italia si scopre forte nelle coscienze private, e debole in quelle pubbliche. Non a caso è il Paese con la maggiore ricchezza privata e con un debito pubblico tra i più alti al mondo.

secolo, grazie all’appoggio delle potenze occidentali alla monarchia saudita ha potuto diffondersi in tutto il mondo musulmano, in particolare in Africa. Ma si è trovato a dover fare i conti con le sue ali più estreme, prima la rete di Al Quaeda e poi l’Isis che oggi combatte una doppia guerra (sul terreno e con il terrorismo) con il miraggio di ripristinare il califfato nelle terre di Irak e Siria. Sentenzia Ala as-Aswani: «L’Isis è il risultato degli errori del passato, gli Stati Uniti non possono dirlo ad alta voce perché ancora alleati degli sceicchi del Golfo, a causa del petrolio». Il riferimento dello scrittore egiziano mi ricorda un altro atto di accusa, un brano di discorso che trascrivo integralmente: «I wahabiti professano uno stile di vita di estrema austerità, e quello che praticano lo impongono rigorosamente agli altri. Ritengono che sia una questione di dovere, come di fede, uccidere tutti quelli che non condividono le loro opinioni e fare schiavi le proprie mogli e i propri

figli. Alcune donne sono state messe a morte nei villaggi wahabiti per il semplice fatto di apparire nelle strade. È un crimine penale indossare abiti in seta. Alcuni uomini sono stati uccisi per aver fumato una sigaretta, e per quanto riguarda il crimine dell’alcol, il più energico sostenitore della moderazione nel nostro paese si fa superare di molto da loro. Austeri, intolleranti, ben armati, assetati di sangue, nella loro regione i wahabiti sono un fattore distinto che va preso in considerazione; sono stati, e sono ancora, molto pericolosi per le città sante Mecca e Medina e per l’intera istituzione del pellegrinaggio, nel quale i nostri alleati e consudditi sono così profondamente coinvolti». Queste parole sono risuonate alla Camera dei comuni di Londra, non recentemente, ma il 14 giugno 1921, quasi un secolo fa. L’oratore che tracciava una così allarmante messa in guardia dall’ideologia wahabita era Winston Churchill, a quell’epoca un politico liberale inglese piuttosto

discusso per le sue simpatie. Churchill, tra il 1921 e il 1922 fu nominato ministro delle colonie e fra i suoi provvedimenti figura anche quello della costituzione di un mandato britannico sulla Palestina. Dev’essere in quell’ambito che Churchill ha fatto risuonare l’allarme contro l’ideologia wahabita, lo stesso che oggi ripete lo scrittore egiziano: «I vostri governi hanno sottovalutato il wahabismo, ovvero l’ideologia alla base del terrorismo: la maggior parte delle moschee europee sono finanziate dai wahabiti (…) che hanno l’ovvia pretesa di nominare gli iman. Quando i giovani europei si convertono incontrano questi predicatori da cui ricevono un insegnamento integralista». Anche Ala as-Aswani lancia un monito: «L’Isis è un’accozzaglia di barbari, bisogna fermare l’ideologia wahabita, ovvero quella macchina che, giorno dopo giorno, produce sempre più terroristi». Lasceremo trascorrere un altro secolo di indolenza compiacente?

In&outlet di Aldo Cazzullo L’amore universale per la patria Tutto mi sarei atteso dalla vita, tranne che un libro sull’argomento meno glamour del mondo – la Prima guerra mondiale – guadagnasse in Italia la testa della classifica dei saggi più venduti. La lezione che ne traggo è che il legame con la patria sia più diffuso di quello che si pensi. Patria intesa non come nazione vittoriosa e dominatrice (del resto mai l’Italia lo è stata), bensì in senso etimologico: la terra dei padri. Sono in particolare le donne a sentire questa appartenenza. In ogni famiglia c’è qualcuno che ha contribuito a fare la storia d’Italia: nelle guerre, nella ricostruzione, nel boom economico. Una memoria spesso confermata da un ritratto, una medaglia, una lettera, un cimelio. E questo frammento di memoria nazionale che ogni famiglia custodisce è spesso affidato alle donne. Non a caso, quando ho aperto una pagina Facebook

per chiedere ai lettori di raccontarmi la storia dei loro nonni nella Grande Guerra, sono state soprattutto donne a rispondere. Molte ragazze mi hanno raccontato vicende della Seconda guerra mondiale: i loro nonni hanno fatto quella guerra, che quindi per loro è diventata la Grande Guerra. Persone dalla mia età in su mi hanno invece parlato del conflitto 15-18, che per il resto d’Europa va invece dal 1914 al 1918. Alcuni mi hanno raccontato storie straordinarie, che ho raccolto nell’ultimo capitolo de La guerra dei nostri nonni. Altri mi hanno affidato storie più ordinarie. Ma tutti mi hanno pregato di nominare il loro nonno, o il loro padre, «non perché fosse un eroe, ma perché era una brava persona. Amava l’Italia. Credeva nell’Italia. Non si riconoscerebbe nell’Italia così com’è diventata». Devo ammettere che questi messaggi

Zig-Zag di Ovidio Biffi Un allarme ogni cento anni È dura tenersi aggiornati su frange terroristiche e nuovi estremismi religiosi del Medio Oriente. Mi aiuta la recensione, sul domenicale del «Sole 24 ore», di Cairo Automobile Club, romanzo dello scrittore egiziano Ala as-Aswani, edito in italiano da Feltrinelli: più che parlare del libro l’articolo riporta infatti importanti affermazioni dello scrittore su religione islamica e estremismo. Quell’estremismo che ormai ci viene servito in salotto: non passa giorno senza che si debba sorbire una o più pagine dell’attualità o orrende immaginiricatto decisamente difficili da addebitare all’islam tout court e di poco aiuto per chi sostiene che l’islam è religione di amore e fratellanza. Così, quando Ala as-Aswani dichiara che «il problema non è la religione ma la sua interpretazione», mi son subito detto: ecco un’altra anima bella che viene a dirci che l’islam è messaggio di pace e di uguaglianza. Sempre pronto a crederci. Ma le medesime parole dovrebbero essere

ripetute dagli iman in tutte le moschee, tutti i giorni a tutti (ma proprio tutti) i loro correligionari, compresi i fanatici ed i terroristi! La lettura dell’articolo mi convince però che Ala as-Aswani è uno scrittore coraggioso, costretto in patria a fare un secondo lavoro (al mattino scrive e nel pomeriggio è dentista) per sopravvivere. Il suo nome figura tra i fondatori di un movimento di opposizione egiziano e il complesso quadro che illustra all’intervistatore riflette il suo impegno politico e sociale e la sua onestà: «Il mondo arabo è afflitto da una doppia malattia: l’integralismo religioso da una parte, e dall’altra dittature corrotte e ipocrite sostenute da popoli che si sentono rassicurati da una figura paterna che decide tutto». Quanto al flagello dell’estremismo la sua analisi parte da lontano: «Il musulmano wahabita è una bomba innescata dai predicatori integralisti». Infatti il wahabismo, nato come corrente islamica sunnita nel diciottesimo


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Cultura e Spettacoli 50 prose di Tessa Delio Tessa amava molte cose, tra cui il Ticino e il genere umano, come rivela un suo libro

Antichità e marketing Augusto, primo imperatore romano, gustò il potere per oltre quarant’anni, dimostrando una pionieristica predisposizione al marketing

Suoni di casa nostra Silent Carnival e Guinnass, perché anche in Ticino si fa della buona musica

Il ritorno di Annie Lennox Un’altra star musicale ritorna dal passato, lontana dal mainstream e decisa a fare solo ciò che le piace pagina 46

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Il nomade dell’arte Mostre Mendrisio ospita una personale

dell’artista svizzero Not Vital

Alessia Brughera Visionario, audace, beffardo, talvolta persino macabro: può essere definito in molti modi l’artista svizzero Not Vital. Quel che è certo è che lo si può includere nella schiera degli scultori più innovativi e arguti presenti sulla scena mondiale a partire dagli anni Settanta. Sue sono le centinaia di riproduzioni bronzee di sterco di mucca realizzate e vendute per aiutare gli ustionati in Nepal, la grande copia in alluminio dei baffi di Nietzsche, l’imponente luna sferica in marmo di Carrara costellata di tanti piccoli crateri, l’irriverente ingrandimento in gesso dei testicoli del David di Michelangelo, la serie di ritratti di personaggi famosi creati con scatole in argento, le case in mattoni di fango nel deserto africano per ammirare il tramonto e la luna. In uno dei suoi progetti più ambiziosi, il Parco di Sent nei Grigioni, ha costruito una torre in legno alta dodici metri completamente rivestita di capelli artificiali e un edificio, chiamato Disappearing House, che poggia su pistoni telecomandati che salgono e scendono sottoterra facendo emergere o scomparire l’abitazione. È piuttosto chiaro che Vital non appartiene a scuole o correnti, che si muove come singolo pensatore perlustrando linguaggi differenti e variando anche in maniera molto evidente il suo stile. Certamente nei suoi lavori si possono trovare rimandi a molte delle esperienze degli ultimi decenni – dall’Astrattismo al Surrealismo, dall’Arte Povera al Minimalismo, dal Concettuale alla Pop Art, dall’Iperrealismo alla Land Art – ma la sua attitudine provocatoria e sagace lo conduce in un territorio autonomo in cui la coerenza formale viene sostituita dall’avida libertà di sperimentazione. Ci si accorge di tutto ciò visitando la mostra che il Museo d’Arte di Mendrisio dedica all’artista, in cui poche e significative opere testimoniano una raffinata produzione, molto variegata negli esiti ma costante nell’effetto sorpresa che riserva allo spettatore e nell’essere creativamente influenzata dall’incontro con diverse culture. Di origine grigionese (nasce a Sent nel 1948), Vital è infatti un animo nomade, un perenne viaggiatore che ha incominciato ad attraversare il globo in lungo e in largo a partire dagli anni Settanta, dopo aver concluso gli studi accademici a Parigi. Soggiorna a Roma, poi a New York, poi a Lucca,

poi nel Niger e via di seguito a Pechino, in Indonesia, in Patagonia. Luoghi non semplicemente visitati, ma vissuti con lo spirito di chi si armonizza con la cultura locale per carpirne l’essenza e trarne un ricco repertorio di immagini e simboli, sostanza vibrante da trasformare in arte. Luoghi da cui Vital emerge con un prezioso bagaglio di stimoli e da cui, nonostante possa sembrare un controsenso, esce rafforzato anche il suo rapporto con la terra natia, con l’Engadina che spesso viene richiamata in vari modi nelle sue opere e che lo ha condizionato fin dal principio favorendo la sua curiosità antropologica, il forte legame con la natura e il grande amore, quasi un vero e proprio culto, per i diversi tipi di materia. Pregiati o modesti, facili da plasmare o faticosamente modellabili, i materiali utilizzati da Vital sono un’infinità. Marmo, bronzo, legno, vetro, gesso, alluminio, oro e argento vengono sempre lavorati a mano, anche quando sarebbe molto più facile fare altrimenti, perché l’artista ama la fisicità, il contatto diretto con l’elemento per sfidarne i limiti spaziali, per esaltarne le superfici e per esibirne infine la perfezione formale. Non è un caso che per raggiungere risultati di alta qualità Vital si rivolga di frequente ad artigiani esperti, dai marmisti di Pietrasanta agli operai delle acciaierie di Pechino, dai soffiatori di vetro di Murano ai falegnami kenioti, dai cartai del Buthan agli orafi Tuareg. Ciò che ne nasce sono sculture, anche di grandi dimensioni, in cui la ricerca dell’eccellenza esecutiva va di pari passo con quella del sottile nonsenso. Le opere di Vital sono spesso rielaborazioni di un’immagine simbolo, di una forma archetipica presentata in chiave spiritosa o surreale o violenta. Come Tongue, l’imponente struttura in acciaio alta quasi otto metri che svetta maestosa nel cortile esterno del museo di Mendrisio quasi fosse una costruzione totemica, dando l’impressione di conficcarsi nel cielo. Liscia e luccicante, è una delle ultime versioni create dall’artista, che tratta il tema della lingua fin dal 1985, quando per la prima volta fa il calco di quella di un bovino comprata dal macellaio ricavandone una scultura in bronzo di poche decine di centimetri. Capita anche che le sue opere siano governate da illogiche combinazioni tra gli elementi, diventando strutture ambivalenti in cui si mescolano organico e inorganico, astrazione e

Not Vital, Herd, 1990 (bronzo, 8 elementi).

(Schaufler Collection, Schauwerk Sindelfingen, Germania) realtà, con evidenti contrasti tra l’oggetto stesso e il materiale che lo rappresenta. Il Toffus, ad esempio, è una scultura fatta di intonaco che da un lato raffigura la parte posteriore di uno strano mammifero con due solidi geometrici al posto degli zoccoli, dall’altro diventa un cono sottile da cui fuoriesce un tubo di plastica. Elusivi ed espliciti al tempo stesso, i lavori di Vital sembrano non di rado trovarsi in un costante stato di tensione e di equilibrio incerto. Ci si rende conto di questo guardando l’opera Herd, anch’essa presente in mostra, composta da otto teste di cammello in bronzo impalate su lunghe e possenti stanghe precariamente appoggiate alla parete, o la scultura Head 4, una gran-

de testa in acciaio dalla superficie levigata e rilucente che pare sorreggersi per miracolo. L’artista ci vuole svelare così le potenzialità dei suoi materiali, eleganti ma pericolosi, in un gioco in cui bellezza e aggressività ci attraggono e ci respingono. Percorrendo le sale espositive ci si imbatte anche in una serie di fotografie tra cui spicca quella di NotOna, un progetto concluso da poco che si trova su un’isola di roccia marmorea in Patagonia, acquistata da Vital nel 2008. Qui l’artista ha scavato un passaggio sotterraneo lungo cinquanta metri, ne ha levigato il pavimento e lo ha illuminato con poche fonti di luce facendolo diventare una sorta di faro naturale visibile nelle ore notturne.

Vital si muove tra diversi luoghi, tra diversi materiali, tra diversi temi. È un nomade fisico e mentale. Nel suo incessante vagabondare, ogni opera costituisce un transitorio approdo per meditare, per raccontare storie paradossali e sfuggenti che dibattono con la realtà, mettendola sempre in discussione con scaltra sfrontatezza. Dove e quando

Not Vital. Il pavimento della cucina di mia nonna. Museo d’Arte di Mendrisio. Fino all’11 gennaio 2014. A cura di Simone Soldini e Alma Zevi. Orari: ma-ve 10.00-12.00/14.00-17.00; sa e do 10.00-18.00; lu chiuso, tranne festivi. www.mendrisio.ch/museo


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Cultura e Spettacoli

Delio Tessa. La rava e la fava

Meridiani e paralleli Di recente pubblicazione (per i tipi di Giampiero Casagrande editore)

una raccolta di 50 brevi prose del bravo scrittore italiano

Visti in tivù

Con Report per una volta la moda non è pubblicità redazionale o marketta

Giovanni Orelli Spero (o è illusione?) che non sia necessario spiegare questa espressione dialettale un tempo molto diffusa nella Svizzera italiana che ha fatto anche da titolo per un libro molto bello di Delio Tessa. Ma traduciamolo pure: «di tutto un po’», «una cosa e l’altra», e simili. Il libro è: Delio Tessa, La rava e la fava. 50 prose disperse, a cura di Mauro Novelli, Giampiero Casagrande editore, Lugano – Milano, 2014. Complimenti all’editore, che è così al quarto libro per Tessa. Il quale Tessa, nato il 9 novembre (qualcuno dice il 18) del 1886 e morto nel 1939, è scrittore vivacissimo del nostro Novecento (nei suoi confronti fa quasi figuracce buona parte della narrativa italiana contemporanea che va anche per la maggiore). Fu molto amico del Ticino, di Lugano in particolare dove veniva molto spesso, milanese lui. All’inizio del libro c’è una mezza pagina affettuosa di Guido Calgari, seguita da una Introduzione di Mauro Novelli e dalle 50 prose di Tessa: racconti quasi tutti brevi (sempre improvvise le conclusioni) che il Novelli (della Statale di Milano) ha recuperato da periodici lombardi e ticinesi. Un Tessa che il Novelli chiama (bene) «uno Charlot pensieroso che si aggira nella Milano fine anni Trenta, lontano da camicie nere e tamburi di guerra».

Molti i temi cari a Tessa, fra questi il cinematografo, il genere umano e la musica Ma è impossibile dar conto di 50 racconti in 50 righe. Tessa è molto bravo nei ritratti. Molti sono per ragguardevoli milanesi di allora, che si trovavano al Bagutta a mangiar bene e a scambiarsi piacevoli conversazioni. Uomini e libri. Tra gli altri Thovez, Pea,

Gabanelli, un’inchiesta sconvolgente

Antonella Rainoldi

Aldo Carpi, Una serata a casa di Delio Tessa. (storiadimilano.it)

Pastonchi (qui eccessivamente lodato, oggi nessuno lo legge più, e non gli si può dare torto), Croce, Mondadori. (fu Delio Tessa a «combinare» la venuta a Lugano di Benedetto Croce per una conferenza alla RSI), De Marchi, la Mazzucchetti, il Belli. Tra i ritratti più riusciti quelli per Toscanini (il Tessa era un appassionato e competente di musica). Si veda in particolare il ritratto alle pagine 97-100, da cui ecco un frammento iniziale: «I progetti non si sono realizzati. Il maestro Arturo Toscanini avrebbe dovuto festeggiare il 50° anniversario di direzione orchestrale in una serie di concerti in una grande capitale europea. Avrebbe celebrato le sue nozze d’oro coll’arte, a fianco dei suoi due grandi padrini. Beethoven e Verdi. (…)». Salto a un altro filone molto caro al Tessa: il cinematografo (tredici pezzi, 103-141). In virtù di Olan, di cui non so nulla. Ecco alcune opinioni di Tessa:

«Generalmente si crede che un grande attore risalti meglio se è circondato da mediocrità: capita invece il contrario; la mediocrità è un pantano: inghiotte tutto (126)». «Sono angosciato da una domanda: si va avanti o si va indietro? Ci scommetto che se usassimo rivedere i vecchi films ormai passati in dimenticanza si troverebbe la risposta senza esitare: si va indietro (127, per Viva Villa!) (…) Così Viva Villa! Dà in pieno l’impressione dei moti rivoluzionari del Messico. (…) Questo è il compito degli artisti. Stortare le gambe alla verità in barba ai professori che le vogliono dritte! Così il borghese pretende il ritratto somigliante e il pittore glielo fa, sì un bel ritratto, ma non somiglia. E il committente muore e il quadro resta!» (129). Tantissime poi le battute, che provocano il lettore. «Lo strafare equivale al non far niente».

«A nessun pubblico è dato oggi di poter sognare ad occhi aperti davanti all’opera d’un artista. Se vuoi proprio sognare non c’è che il solito mezzo: andare a letto». «Come certi attori famosi, i quali erano più grandi quando tacevano che non quando parlavano, il Cappello di paglia di Firenze (René Clair) attesta la inutilità della parola. È ricco di doti ottocentesche, brioso, scettico, elegante ed è persino, e forse unicamente, un’amabile satira delle cerimonie nuziali dell’Ottocento; è leggerissimo e inconsistente come un abito da sera (…)». Una garanzia per la lettura del Tessa è che in anni passati se ne è occupato, con la sua abituale perizia e disciplina, il grande filologo Dante Isella. Dimenticavo quasi di avvertire che alle pagine 54-58 c’è Un giorno a Lugano nella Casa degli italiani. Con belle osservazioni sul paesaggio di qui.

Questo è giornalismo! Non saremo mai abbastanza grati a Milena Gabanelli per aver svelato il poco dorato retroscena dei grandi marchi del lusso, così stranamente propensi a sventolare il vessillo dei bilanci etici a ogni piè sospinto (Raitre, domenica, ore 21.45). Una settimana fa Report si è occupato finalmente di moda con un’inchiesta di Sabrina Giannini, partendo da questa domanda: perché i prestigiosi marchi italiani vanno spesso a produrre fuori dall’Italia? Perché si spingono al di là dei confini della Moldavia, in uno Stato non riconosciuto dalle Nazioni Unite come la Transnistria? La risposta è scontata: delocalizzazione produttiva nell’Europa dell’Est significa una massimizzazione dei profitti e una minimizzazione dei costi, dalle materie prime alla manodopera, ma significa anche un arretramento progressivo del sistema Paese. In Italia, solo negli ultimi sei anni, decine di grandi della moda sono diventati ancora più ricchi, grazie alle produzioni stracciate, mentre

Quell’«assidua incertezza» Mostre Opere su carta di Giulia Napoleone esposte alla Galleria Stellanove di Mendrisio

fino al 16 novembre Emanuela Burgazzoli

Una fluttuazione continua di ombre e luci, un intrico di fitte trame di linee e punti rigorosamente tracciati a matita o incisi con ostinata lentezza direttamente sulla lastra; che sia l’impalpabile superficie colorata dei pastelli o il mondo in bianco e nero delle incisioni, Giulia Napoleone persegue l’equilibrio (perfetto) fra le forze impreviste del caso e i tracciati scanditi dalla ragione, fra le immagini evocate dall’osservazione dei fenomeni naturali e il processo di astrazione mentale; il risultato – ci dice lei stessa – è una sorta di «caos controllato». Si spiega allora quella sottile tensione che sembra emanare dai suoi lavori, opere che sono il frutto del tempo lento della complessità tecnica richiesta dalla pratica dell’incisione, in particolare del bulino e del punzone. L’artista, nata a Pescara nel 1936 e trasferitasi giovanissima a Roma dove annovera tra i suoi maestri Mino Maccari, già nota al pubblico ticinese grazie a una mostra allestita nel 2001 a Villa dei Cedri, torna a esporre negli spazi della Galleria Stellanove proponendo alcune delle sue opere più recenti: alcuni pastelli di grande for-

Opera senza titolo di Giulia Napoleone, pastello su carta (1999).

mato e due libri d’artista, che confermano gli interessi letterari di Giulia Napoleone. In Nero l’artista presenta disegni a inchiostro che accompagna-

no testi dal De rerum natura di Lucrezio in un volume edito dallo stampatore Josef Weiss, mentre ne Il buio e il petalo sei incisioni accompagnano le

poesie inedite di Alberto Nessi per le edizioni romane Il Bulino. Le illuminazioni che accendono la quotidianità del poeta, fatta di incontri casuali durante un viaggio in treno, si accompagnano al mondo di astrazione pulviscolare dell’artista sempre capace di ricavare particelle di luce dall’ombra, di individuare la sottile linea di un cammino reale o immaginario, di tracciare il labile confine che segna un mutamento temporale o spaziale, di illustrare la compenetrazione degli opposti come il frangersi di un’onda sulla spiaggia. Giulia Napoleone sembra aver misteriosamente riconciliato nella sua opera forza e fragilità; la tenacia del rigore e della disciplina con cui conduce la sua ricerca artistica e la delicatezza con cui scompone e ricompone la materia o l’attenzione con la quale attinge alla memoria per restituire immagini interiori a un orizzonte di carta. I segni persistenti delle sue incisioni sembrano appartenere – citando Vittorio Sereni, altro poeta caro all’artista – a quel «progetto / sempre in divenire, sempre / “in fieri” di cui essere parte / per una volta senza umiltà né orgoglio / sapendo di non sapere».

La giornalista Milena Gabanelli.

centinaia di laboratori artigianali hanno abbassato la serranda e oltre 400 mila addetti del manifatturiero hanno perso il lavoro e la speranza. Nulla di nuovo sotto il sole, ma un conto è leggerlo, l’elenco del decadimento, e un conto è sentirlo raccontare dai protagonisti, con il corredo di tutte le immagini del caso. Per questo l’attesa ne valeva la pena. Oltre ad aver ricostruito la tracciabilità della filiera, Sabrina Giannini è volata in Ungheria per documentare la «spiumatura» sulle oche vive, una crudele pratica illegale diffusa nella Comunità europea. Le inquadrature non ci hanno risparmiato nulla, nemmeno le chiazze livide e la carne lacerata. Ma la piuma guida la corsa ai piumini imbottiti, specie quelli di Moncler, lo storico marchio francese acquistato dall’imprenditore italiano Remo Ruffini. E qui la rubrica delle cattive notizie si riempie di altre cattive notizie: miscela di alto e basso per le imbottiture, prezzo finale di un Moncler inferiore ai 50 euro, prezzo di vendita nelle boutiques superiore ai 1000. Ovviamente l’inchiesta di Report ha suscitato le più clamorose proteste, tanto da costringere la maison di Remo Ruffini a una replica. Per una volta, è emersa con più chiarezza una inscalfibile verità: per i marchi del lusso il marketing è tutto.



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Cultura e Spettacoli

Il marketing degli antichi Mostre Augusto e il suo tempo: duemila anni dopo rivivono alla Skulpturhalle di Basilea

Marco Horat «Ottenne magistrature ed onori prima del tempo: alcune furono create appositamente per lui o gli furono attribuite in modo perpetuo» scriveva Svetonio, suo biografo ufficiale, di Gaio Giulio Cesare Ottaviano Augusto, il primo Imperatore romano dopo secoli di Repubblica, colui che governò Roma per oltre quarant’anni e che avrebbe cambiato il corso della storia. Nato a Roma nel 63 a.C. era stato adottato da Cesare, che anche in questo dimostrò il suo straordinario acume politico; morì di morte naturale a Nola il 14 agosto, all’età di quasi 76 anni, dopo che alcuni presagi divini avevano annunciato la fine imminente: esattamente duemila anni or sono. Si racconta che prima di spirare tra le braccia della terza moglie, l’amatissima Livia, convocò gli amici dai quali si congedò dicendo: «Se la commedia della vita è stata di vostro gradimento applaudite e tutti insieme manifestate la vostra gioia». Dopo di lui salirà al trono Tiberio, a sua volta figlio adottivo prescelto dal sovrano. Con Augusto scompare uno dei personaggi più eminenti della storia (secondo solo all’irraggiungibile Alessandro); il suo nome riecheggia ancora nel nostro calendario estivo e in molti toponimi quali Kaiseraugst (Augusta Raurica) e Augssburg in Germania. Che cosa abbia rappresentato Augusto per il mondo allora conosciuto è materia di studi infiniti, che riempirebbero una biblioteca, dal momento che i cambia-

menti che si verificarono durante il suo principato, ispirati alla migliore tradizione di Roma, hanno toccato tutte le manifestazioni della vita di allora e per i secoli a venire, fino praticamente alla caduta dell’impero romano: politica, religione, ordinamento sociale, urbanistica, morale, finanza, agricoltura, cose militari, costumi, cultura e altro ancora. Come non ricordare questo straordinario personaggio a duemila anni dalla morte? Faccio notare tra parentesi come da poco sia possibile visitare la sua splendida dimora appena restaurata sul Palatino. La Skulpturhalle di Basilea lo fa presentando una mostra che vuole illustrare al grande pubblico aspetti della vicenda legata ad Augusto: da una parte la sua figura e l’ambito familiare; dall’altra l’aura del tempo e l’influenza esercitata da quell’epoca d’oro sull’arte, mettendo anche in risalto l’attenzione, estremamente moderna – oggi parleremmo di marketing a fini di propaganda politica – che l’imperatore riservò alla diffusione della sua augusta immagine ai quattro angoli dell’orbe attraverso statue, rilievi, iscrizioni, monete e naturalmente testi di autori famosi. La Skulpturhalle, affiliata all’Antikenmuseum, possiede da oltre 125 anni più di duemila copie di altissima qualità di statue e rilievi che ripercorrono la classicità greca e romana e che ne fanno una delle collezioni più prestigiose al mondo nel suo genere, particolarmente apprezzata dagli studiosi di arte

Busto dell’imperatore Augusto visto di profilo (realizzato tra il 4 e il 14 d.C.). (© Skulpturhalle Basilea)

antica. Riuniti sotto uno stesso tetto si ritrovano così i capolavori che hanno fatto la storia dell’arte classica (compresi elementi del Partenone in scala 1:20), gli originali dei quali sono sparsi nei musei e nelle collezioni del mondo intero. Ma per ricordare Augusto e il suo tempo si doveva operare una scelta. Ci ha pensato la curatrice Ella van der Meijden, proponendo una trentina di soggetti che ricreano il mondo di allora: il Giulio Cesare dei Musei capitolini,

la Cleopatra del Museo statale di Berlino, la testa di Pompeo della Carlsberg Glyptotek di Copenhagen, un busto di Cicerone, l’Augusto di Prima Porta insieme alle figure di Livia e di tanti altri personaggi illustri che hanno ruotato attorno alla figura dell’imperatore come satelliti intorno al sole. Una serie di rilievi, vasi ceramici dalle collezioni dell’Antikenmuseum e due preziosi servizi da tavola in argento ritrovati a Boscoreale presso Pompei e a Hil-

desheim in Sassonia, utilizzati durante banchetti importanti, completano il quadro espositivo. Se volete ammirare gli originali dovete invece visitare il Louvre o andare fino a Berlino. Basilea-Skulpturhalle

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 10 novembre 2014 ¶ N. 46

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Cultura e Spettacoli

Anche la musica è narrativa Premi letterari My bass guitar di Benedetta Bonfiglioli ha vinto

la 64ma edizione del premio Castello, rivolto ai giovani lettori

Piero Zanotto Scrivere per i ragazzi sembra una prerogativa coniugata al femminile. Un privilegiato «osservatorio» ci viene annualmente fornito dal Premio Castello voluto ormai da 64 anni dal Comune di Sanguinetto, piccolo paese della Bassa Veronese sul quale troneggia il ben conservato merlato maniero del 1200, scelto da Carlo Goldoni come ambiente d’una sua singolare severa commedia: Il feudatario. Commedia talora anche messa in scena nel suo rinnovato interno Teatro Zinetti che ospita tra eventi diversi la premiazione del concorso nazionale di narrativa per ragazzi. Il più longevo del genere non soltanto in Italia. Cui si deve la constatazione che spesso è appunto una firma femminile ad affermarsi nel giudizio d’una doppia giuria: presieduta la prima da Gian Paolo Marchi, fino all’altro ieri preside alla Università degli Studi scaligera e formata da insegnanti e scrittori; decisiva la seconda nell’assegnazione del Premio ad uno dei tre libri precedentemente scelti, della quale fanno parte 60 studentelli di Sanguinetto e Verona e di altre scuole del territorio. Questi i tre tomi finalisti, tutti di convincente, anzi ottimo, linguaggio narrativo capace di parlare al lettore preadolescente, quindi coinvolgerlo

emotivamente: L’estate in cui caddero le stelle (Mondadori) di Camilla Brambilla. Gastòn e la ricetta perfetta (Giunti Junior) di Anna Lavatelli. My bass guitar (San Paolo) di Benedetta Bonfiglioli. Ed è normale la curiosità della giuria diciamo tecnica, assieme a quella, ovvio, delle autrici aspiranti all’alloro, su quale delle tre opere i giovani lettori giudicanti abbiano riservata la loro preferenza. Con buona maggioranza il Premio Castello, unico e indivisibile, è stato guadagnato da My bass guitar, libro in verità che si rivolge a lettori già più «grandi», anche per l’uso di espressioni gergali esplicite, diciamo inaspettate da una editoria d’osservanza confessionale. Racconto che ruota intorno a Noah, diciassettenne da prendersi con le molle per il suo comportamento «da lotta» col mondo tutto. Un arrabbiato che vive e pulsa unicamente per la musica della band dei Black Hole nella quale è bassista. Conflitto soprattutto con sé stesso. Riesce Noah a superarlo a ostacoli, trovandosi Lisa, sua sopportata compagna di scuola, inaspettata cantante della stessa band. Li attende una importante audizione, su un pezzo inedito da lui stesso composto. Messaggio diretto con sicura intuizione da Benedetta Bonfiglioli ai giovanissimi d’oggi. Emiliana di nascita,

insegnante di inglese al liceo, «lettrice» editoriale, dice che «ama guardare nella mente e nel cuore dei ragazzi». Intenti che sono con evidenza pure di Cristina Brambilla e Anna Lavatelli nelle loro rispettive citate narrazioni. Pur affrontando altri temi, anche lontani tra loro. Di inedita scelta, originali. In qualche modo più introspettivi. Al centro di L’estate in cui caddero le stelle una ragazzina, Graziella, che coltiva una passione per le scienze e la matematica. Interessata alla affascinante realtà del cosmo. Incontra nel condominio dove abita un misterioso signore col viso «segnato» da una deturpante ustione che si rivela essere uno scienziato fuggito (ma ancora non al sicuro) da una dittatura. Le sarà prezioso maestro nel dare concretezza a quello ch’era per lei solo un sogno. Il suggello all’avvincente intreccio avvincente lo dà con una affettuosa introduzione l’astrofisica Margherita Hack. Confesso però la mia personale preferenza per il terzo libro: Gastòn e la ricetta perfetta di Anna Lavatelli, già insegnante di lettere alle medie. È ambientato in Sudamerica, tra Perù e Brasile. Protagonista un ragazzino, Gastòn, finito in un orfanotrofio pur essendo i suoi genitori vivi. Perdutisi nella ricerca di una affermazione di lavoro: la madre già cuoca sopraffina dal-

La copertina di My bass guitar, vincitore del Premio Castello.

la quale Gastòn ha imparato ad amare fornelli e cibo appetitoso. Perfeziona il ragazzo nella cucina dell’istituto grazie a un fra’ Pappina autore di un librone contenente proprie ricette da acquolina in bocca, che lo ha preso in simpatia. Uscito, diventa «aiuto» di un cuoco tiranno in un battello per facoltosi turisti. Qui viene rapito da pirati che cercano chi sappia cucinare a dovere per loro. Gastòn ci sta perché pensa che il viaggio fluviale gli consente di raccogliere notizie di mamma e papà. Avventura ricca di calore e di gustoso spessore umano. Che continua

arricchendosi di colpi di scena. Sorprese di tutta simpatia. Fino a lieta conclusione. La prosa trasmette colori e spande odori e sapori assieme a sentimenti anche rozzi e ingenui però genuini. Con ricette culinarie conclusive. Libro da raccomandare. Intermezzi musicali avevano intrattenuto il festoso pubblico foltamente rappresentato dai giovanissimi della giuria allargata. Esecutori due freschi «verdi» talenti: alla tastiera del digital piano Angelo Lucchini, al microfono la sicura profonda voce di Sonia Berardo, contralto. 27 e 22 anni… Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

I nomi in musica e i presagi mancati

Il tormento e i guardiani

Musica I nuovi dischi di The Guinnass e di Silent Carnival

di Giacomo Leopardi ai fortunati rinvii di Guerre Stellari

tra classicità e postmodernità del rock

Zeno Gabaglio

Concorsi

Nomen omen, dicevano un tempo gli antichi. Il nome è un presagio, un’anticipazione di quelli che potrebbero essere i contenuti – tangibili o meno – che vi stanno dietro. Mai affermazione fu però meno indicata per descrivere i fenomeni musicali, dove il rapporto tra nomi e suoni è qualcosa di ineluttabilmente labile. Una relazione contro natura, quella tra la logica della parola e la sensorialità acustica della musica, che nel corso dei secoli ha lasciato sul campo non pochi teorici, filosofi o compositori e che ha disorientato la percezione di tanti più ascoltatori. Attenti ricettori del prodotto musicale, questi ultimi, il cui unico peccato è stato quello di voler capire qualcosa che purtroppo non è mai stato logicamente capibile, e mai lo sarà. È forse quindi stato un bene che la popular music abbia portato con sé un po’ di leggerezza nella scelta dei nomi – fatto divertito tesoro della lezione nonsense di Erik Satie e dei suoi Morceaux en forme de poire – sdrammatizzando d’un colpo le tensioni concettuali accumulate per secoli. Così possiamo accettare a cuor leggero che i Grateful Dead si siano dati il nome «morto riconoscente» malgra-

do suonassero un genere (tutt’altro che macabro) condito di blues, rock, folk country. O che Syd Barrett abbia preso l’identità di due inconsapevoli bluesman – Pink Anderson e Floyd Council – per creare il nome senza significato preciso del suo nuovo gruppo psichedelico. O ancora che Frank Zappa abbia chiamato un suo pezzo – è pur vero: sospeso tra futurismo e musique concrète – Il megafono cromato del destino, o che gli Skiantos abbiano intitolato il loro album del 1978 (con l’ironia verso sé e verso gli altri poi divenuta celebre marchio poetico) Inascoltabile. Il tarlo però rimane. Cioè resta l’ostinazione nel cercare sempre e comunque una, anche minima, relazione tra le parole che compongono nomi di band, titoli di album o titoli di brani e la musica che vi sta dentro. Anche tra le recentissime produzioni di casa nostra.

chiassosa festosità di chi con la guinness ci si riempie le serate. E invece no perché, come la stessa band (nella foto) chiarisce, il genere di riferimento è quello del classic rock, riletto con un atteggiamento moderno «ottimista nel messaggio e dalle sonorità grintose». Semanticamente più neutrale – e per questo meno vincolante – è invece il titolo del nuovo album, prodotto con encomiabile accuratezza e pubblicato da Auditoria Records: la registrazione e la riproduzione musicali in stereofonia sono ormai un dato di fatto su ampia scala da più di cinquant’anni, e il ribadirlo in un titolo non è certo una dichiarazione di novità tecnologica quanto piuttosto un ulteriore riferimento a quella tradizione del classic rock che il gruppo fedelmente riproduce. Con quella pulizia, quella precisione e quello smussamento di angoli che perfettamente coincidono rispetto all’intento ottimistico del messaggio musicale. Silent Carnival – Silent Carnival

Se si prende il nome della band – che con una crasi unisce la più nota birra irlandese all’altrettanto celeberrimo fondoschiena detto con la lingua della regina – ci si aspetterebbero dei contenuti musicali di genere garage/ punk (per l’esplicito e provocante riferimento al sedere) o quantomeno goliardico-goderecci, in ossequio alla

Un ossimoro, nella sostanza, è quello contenuto nel nome del nuovo progetto del poliedrico artista siciliano Marco Giambrone, coprodotto dall’etichetta sopracenerina Old Bicycle (sì, proprio quella che ha abituato noi e mezzo mondo al revival della musicassetta). Il carnevale silenzioso nessuno l’ha mai sentito, e la forza degli ossimori è proprio quella di lasciare aperti sensi e significati: tra due estremi contrapposti si può nascondere il mondo intero. Così l’idea primordiale di spensierata festosità che il carnevale comunica, nel disco immediatamente si scontra con una cupezza di toni e di declamazioni che esclude qualsiasi relazione o rappresentazione. E proprio il procedere con ritmi rallentati, pattern tematici ripetuti, droni trasversali e sviluppi sul medio-lungo termine fa di Silent Carnival un disco dal grande impatto sensoriale, soprattutto per quegli animi forti che sappiano anche essere malinconici. E se a metà pezzo non fosse entrata una batteria antiquatamente postrock, l’ottava traccia Restless love avrebbe potuto aspirare ad essere l’inno ufficiale di questo (de) cadente 2014.

ArTransit Rassegna di scambi culturali Teatro San Materno, Ascona Dom. 16 novembre, ore 17.00

Orario per le telefonate 10.30-12.00

Fabio Fumagallii *** Il giovane favoloso, di Mario Martone, con Elio Germano, Michele Riondino, Valerio Binasco, (Italia 2014)

Artista prezioso e per molti aspetti unico all’interno della scena italiana, nell’avanguardia teatrale dapprima, quindi cineasta poco prolisso ma sempre raffinato a partire dal 1992 di Morte di un matematico napoletano, Mario Martone ha in seguito scavato nella sua Napoli in L’amore molesto (1995), è ritornato sui palcoscenici operistici e ha indagato come pochi il Risorgimento italiano con le tre ore e mezzo di Noi credevamo (2010) per poi affrontare una prima volta la figura immensa e difficile da circoscrivere di Leopardi, portando a teatro la prosa filosofica e radicale delle Operette morali. Martone ritorna con Il giovane favoloso a percorrere gli ardui itinerari leopardiani visualizzandoli pure, un po’ didatticamente, con L’infinito dell’inizio e La ginestra che conclude il film, presentato all’ultima Mostra di Venezia. I rischi dell’operazione gli erano noti, tanto da fargli premettere di non volere ricadere nel biopic sul poeta triste e malinconico dalla vita non particolarmente eccitante. Ma di volerne sottolineare la natura meno nota: quella del ribelle dall’anima ardente, bruciata al contatto con la vita. Da qui, allora, la scelta di uno stile che immediatamente colpisce: quasi in opposizione al distacco della visione «brechtiana», l’energia teatrale dei dialoghi, la forza disperata di qualcuno che vuole combattere con l’arma delle parole.

Il Leopardi che ci illustra Martone è un individuo prigioniero delle costrizioni. Ma è pure un ribelle, progressivamente sempre meno represso nei confronti degli ideali di quel primo Ottocento in cui vive. Un visionario profetico, quindi, oltre che sublime Poeta; un individuo a cavallo di due filosofie epocali come non sarebbe dispiaciuto a Luchino Visconti. È quanto incarna un Elio Germano febbrile, prigioniero sin dall’inizio di una infelicità che lo inchioda non solo nel proprio corpo gracile e ingobbito, ma anche nella favolosa biblioteca paterna, nell’odiata Recanati, nel solo conforto delle brevi incursioni nella natura, nell’attesa sfibrante di una fuga finalmente permessa dal suo rapporto epistolare con Pietro Giordani, il letterato illuminato che per primo ne aveva intuito il dramma e la statura profetica. Grazie agli attori e grazie alla luce sospesa nel tempo, donata al film da un Renato Berta particolarmente ispirato e all’autenticità autobiografica del materiale, il regista riesce a evitare gran parte dei rischi della ricreazione romantica da chincaglieria di genere. *(*) Guardiani della galassia, di James Gunn, con Benicio Del Toro, Bradley Cooper, Chris Pratt, Zoe Saldana, John C. Reilly, Glenn Close (Stati Uniti 2014)

Un irriconoscibile Benicio del Toro in Guardiani della galassia.

Enorme successo negli Stati Uniti, dove le entrate hanno già decuplicato i costi del film, adattato da un fumetto del 2008 della mitica produzione Marvel, il film – di un regista costruitosi a colpi di pellicole trash – deve probabilmente la propria fortuna ai momenti in cui riesce a sfuggire alla banalità del proprio statuto (stravisto) di battaglia galattica interplanetaria. Una banalità ormai esasperata dalla facilità, un tempo definita portentosa, dell’uso degli effetti speciali. Guardiani della galassia riesce però ad essere autodissacrante, se non proprio referenziale. E le sue citazioni, autoderisorie: dall’Indiana Jones caro a Steven Spielberg all’indimenticabile Chewbecca di Guerre stellari. Qui raffigurato dall’altrettanto esilarante e indistruttibile uomo-albero dall’unica esclamazione: «Io sono Groot». Poco o tanto che sia, pare basti a salvarci dalla noia.

Concerto per l’infanzia Serata di beneficenza Palazzetto FEVI, Locarno Sabato 22 novembre, ore 20.30

Tra jazz e nuove musiche Rassegna di Rete Due Cinema Teatro, Chiasso Dom. 23 novembre, ore 17.00

900Presente Rassegna di contemporanea Auditorio RSI, Lugano Dom. 23 novembre, ore 17.30

Gaezig - Focoso

Francesco De Gregori

Steve Swallow 5tet feat. Carla Bley

Swissness

Dalle alpi i corni e le trombe mescolati con la musica elettronica. Hans Kennel, voce, jodel, tromba, corno alpino, buchel, bukkehorn Christine Lauterburg, voce, jodel, fisarmonica, violino, viola Regina Steiner, voce, jodel, tromba, corno alpino, buchel, cornetta, bukkehorn Leo Bachmann, tuba.

Tappa ticinese del tour europeo 2014-2015. Evento per la promozione di azioni e progetti indirizzati all’infanzia e all’adolescenza in Ticino. Il ricavato della serata sarà totalmente devoluto in beneficenza a favore di: Associazione Famiglie Diurne del Mendrisiotto, Associazione Pro Juventute della Svizzera italiana, Associazione Ticinese Famiglie Affidatarie e Associazione Progetto Genitori.

Steve Swallow, basso Carla Bley, organo Hammond B3 Chris Cheek, sax tenore Steve Cardenas, chitarra Jorge Rossy batteria.

Klaus Huber, Tempora, per violino e orchestra. Giorgio Bernasconi, Riflessi per voce ed ensemble da camera, interpretato da Luisa Castellani. Carlo Florindo Semini, Tre poemi su testi di Hermann Hesse, per voce e sette strumenti.

www.rsi.ch/jazz

www.conservatorio.ch

The Guinnass – Stereophonic

www.sanmaterno.ch

091/821 71 62

Filmselezione Dalla malinconia sublime

Regolamento Migros Ticino offre ai lettori biglietti gratuiti per le manifestazioni sopra menzionate.

Massimo due biglietti per economia domestica. La partecipazione è riservata a chi non ha beneficiato di vincite in occasione di analoghe promozioni nel corso degli scorsi mesi.

Biglietti in palio per gli eventi sostenuti dal Percento culturale di Migros Ticino

Per aggiudicarsi i biglietti basta telefonare mercoledì 12 novembre al numero sulla sinistra nell’orario indicato. Buona fortuna!


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 10 novembre 2014 ¶ N. 46

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Cultura e Spettacoli

La nostalgia di Annie Lennox Musica L’insostenibile fascino della musica vintage: con il suo nuovo album, la cantante conferma

la rinnovata attrazione delle star verso i classici del Great American Songbook Benedicta Froelich Chiunque si prendesse la briga di dare anche solo una rapida scorsa alle uscite discografiche degli ultimi due-tre anni, concentrandosi in particolare sulle pubblicazioni dei grandi nomi del pop-rock internazionale, si renderebbe presto conto di una tendenza singolare – una marcata propensione verso le atmosfere vintage, evidenziata dal fatto che quello di dedicare interi album alle rivisitazioni di celebri quanto «datati» standard della musica popolare angloamericana sembra diventato l’hobby favorito della maggior parte degli artisti over 50. Tra le star che hanno ceduto alla tentazione, oggi troviamo nientemeno che Annie Lennox, incontestabilmente una delle migliori voci femminili che la scena pop degli anni 80 ci abbia lasciato: dopo il travolgente successo conosciuto con gli Eurythmics, Annie non ha avuto difficoltà a lanciare una carriera solista più che soddisfacente, costellata da dischi di buon livello e anche da qualche hit mondiale (si pensi al tormentone Why, dall’album Diva, del 1992). A ciò bisogna aggiungere che l’artista non è del tutto nuova alle sortite nel campo delle cover, avendo già pubblicato un album cult come Medusa (1995), interamente composto da personalissime versioni di brani storici del cantautorato anni 60-70. Le ottime recensioni dell’epoca sembrano oggi destinate a ripetersi con questo Nostalgia, che, come il titolo suggerisce, si concentra su brani

ben più datati – in effetti, veri e propri classici del repertorio di lingua inglese: non a caso, il disco è pubblicato dalla storica etichetta jazz Blue Note, quasi a voler «legittimare» la nuova veste da cantante confidenziale di Annie. La tracklist è così esclusivamente composta da celeberrimi standard del Great American Songbook degli anni d’oro, già campo d’azione di interpreti femminili del calibro di Ella Fitzgerald e Sarah Vaughan: e bisogna dire che la Lennox non mostra la minima esitazione nel reinterpretare i capisaldi del genere – brani che, proprio in quanto notissimi e già inflazionati da centinaia di versioni tra le più disparate, certo rappresentano, per una cantante pop, un banco di prova non da poco. Ecco quindi che Nostalgia offre pezzi irrinunciabili come Georgia On My Mind, eseguito da Annie nella migliore tradizione blues del periodo, e perfino un must immortale quale il gershwiniano Summertime, affrontato con una sorta di trattenuto timore reverenziale che forse imbriglia un po’ troppo l’abituale intensità interpretativa dell’artista. Forse più adatti allo stile della Lennox sono pezzi come I Put a Spell On You – che qui diviene una ballata nervosa e cadenzata, in cui la voce corposa e suadente di Annie offre il meglio di sé – e la vera gemma dell’album, ovvero la splendida quanto insidiosa Strange Fruit, leggendaria ballata «in chiave» con cui, nel 1939, Billie Holiday denunciò pubblicamente gli episodi di linciaggio di cui gli afroamericani con-

La più recente fatica dell’artista britannica.

tinuavano a essere vittime nel sud degli Stati Uniti. Un brano quantomeno impegnativo, dato che resta a tutt’oggi difficile competere con l’intensità vocale e la sofferta, sottile angoscia che contraddistinguono la versione originale di Lady Day; eppure, Annie riesce nella sfida, principalmente grazie

alla scelta di un’interpretazione misurata e mai sopra le righe, a tratti quasi sommessa, senza alcuna pretesa di rivoluzionare il brano o il suo arrangiamento. Lo stesso approccio onesto ed estremamente professionale che la cantante predilige per l’intera tracklist, riuscendo a dar vita a un prodotto ca-

ratterizzato da ammirevole maturità e sicurezza stilistiche, di cui troviamo conferma in ogni brano: dalle aggraziate inflessioni gospel di God Bless the Child fino alla delicatezza struggente di The Nearness of You, Nostalgia suona in tutto e per tutto come lo sforzo di un’interprete matura e appagata, che dimostra come, per realizzare delle cover version di classe, non ci sia alcun bisogno di effetti speciali o roboanti lanci pubblicitari (insegnamento senz’altro prezioso per una certa categoria di giovani performer femminili, che sembrano spesso anteporre l’apparenza alla sostanza). Certo, si tratta di un disco che non ci dice nulla di nuovo su Annie Lennox come interprete o come artista; e, per molti versi, potrebbe apparire al pubblico come una sorta di interludio, ovvero un’opera pubblicata con una certa autoindulgenza in un momento in cui la cantante non aveva la possibilità o il desiderio di realizzare un disco più personale. Tuttavia, pur con tutti i limiti che un lavoro di questo tipo inevitabilmente comporta, Nostalgia costituisce un’ottima prova interpretativa, contraddistinta dall’abile eleganza che la Lennox ha sempre mostrato nei suoi sforzi solisti: in questo senso, rappresenta forse il disco perfetto per un’artista che ha raggiunto la mezza età, e che desidera guardarsi indietro senza rimpianti, né presunzione – in una lezione di serietà e umiltà che certo non mancherà di essere apprezzata non solo dai suoi fan, ma dal pubblico in generale. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli Rubriche

In fin della fiera di Bruno Gambarotta Non esageriamo, siam torinesi! Il Piemonte è un’invenzione recente, non sono trascorsi neanche tre secoli dall’attuale definizione dei suoi confini. Non è facile descrivere il carattere dei piemontesi. Ci sono grandi differenze tra i biellesi e i langaroli, o tra i valsusini e i mandrogni, come vengono chiamati gli alessandrini. Ma non possiamo infliggere agli altri le nostre paranoie localistiche. Proviamo dunque, dopo aver chiesto scusa per le inevitabili approssimazioni, a definire il carattere dei piemontesi. La forza e la condanna di noi piemontesi è un mostruoso senso del dovere, che ci accompagna dalla culla alla tomba. Un motto che in origine era degli alpini, esteso a tutti, è: «Fà el to dover e cherpa!», traduco: «Comincia a compiere il tuo dovere e dopo puoi anche crepare». Al centro del nostro sistema di valori c’è il lavoro; solo il lavoro conferisce dignità e certifica la posizione sociale. I biellesi dicono, che Dio li perdoni: «Di troppo lavoro non è mai morto nessuno» e nel Battistero di Biella si trova un quadro, Il Cristo dei mestieri, nel quale Gesù

in croce è trafitto dagli strumenti di lavoro, impugnati da tutti coloro che non resistono alla tentazione di lavorare anche durante le feste comandate. Un secondo pilastro sorregge l’edificio dei valori dei piemontesi: la fedeltà. Un nomignolo venato di disprezzo che si usa per appellarci è «Bugia nen», letteralmente «Non muoverti». Usato come un’accusa di resistenza a muoversi, a cambiare idee, abitudini, mentalità, luogo di resistenza. Niente di più lontano dal vero; in Piemonte sono nati grandi esploratori, geniali inventori, audaci innovatori. Si pensi ai santi sociali, la visionaria e provvidenziale follia di san Giuseppe Cottolengo e di san Giovanni Bosco poteva sgorgare solo da questo ceppo. «Bugia nen!» era l’ordine che i nostri sergenti, chiamati all’ardua impresa di piemontesizzare l’esercito italiano dopo il conseguimento dell’unità, impartivano gridandolo alle reclute indisciplinate. Ancor prima «Bugia nen!», cioè «Non arretrate a nessun costo!», fu la consegna data dal generale Bricherasio ai suoi prima

mondo, la spiegazione sarà sempre la stessa: sono della stessa leva. Questo orgoglioso attaccamento al senso del dovere, della lealtà verso i compagni, della fedeltà, ha un peso e ha un costo che si rivelano nella segreta invidia che noi piemontesi nutriamo per coloro che hanno trovato il modo di sottrarsi alla condanna biblica di dover guadagnare la rispettabilità sociale sudando e soffrendo. Spia di quest’invidia è il nostro atteggiamento verso chi fa professione di artista. Se un piemontese vecchio stampo dice, parlando di un tale: «Quello lì è un artista» non è proprio come se dicesse «Quello lì è un assassino», ma quasi. Nel senso che talvolta l’assassino ha un movente che almeno in parte spiega il suo gesto. L’artista no. Un piemontese che scopre di avere un temperamento artistico lo deve tenere nascosto, per non sentirsi isolato dalla generale disistima. Il piemontese artista prima si costruisce una rispettabile carriera in una onesta professione e poi lascia affiorare le sue vere tendenze. Esempi insigni sono Paolo Conte, per

lunghi anni avvocato e Primo Levi, per tutta la vita chimico esperto di vernici. Il piemontese ha una doppia personalità, come spiega Augusto Monti nel romanzo I Sanssôssì, una grande saga famigliare nella quale, nel passaggio da padre a figlio, si alternano i realisti, ligi al senso del dovere, e i sanssôssì, i sognatori, gli sradicati, i perditempo. Norberto Bobbio divide i piemontesi in due categorie, riportandoli a due modelli ideali: Vittorio Alfieri, schiena diritta e odiatore dei tiranni, e Gianduja, la maschera del nostro carnevale. Gianduja è il contadino che nasconde la sua furbizia dietro la goffaggine; anima astuta e servile, pronto ai lazzi per divertire il padrone e ricavare il suo tornaconto. Suprema virtù dei piemontesi è l’understatement, la capacità di non darsi importanza, di sminuire i propri meriti, il disprezzo per chi si piange addosso o per chi si esalta e cammina sollevato un metro da terra. È ancora di Bobbio il motto da scrivere sulla bandiera del Piemonte: «Esageruma nen!», cioè «Non esageriamo!».

affollate di domenica, come le terme. La gita al mare o in montagna con il solito gruppo, che trasforma l’avventura in un dovere settimanale. Ecco, così l’anima non è nemmeno sfiorata dall’inquietudine che accompagna il mostruoso volto del tempo non impegnato, vuoto. Eppure, quanto vantaggio si avrebbe dall’affrontare il mostro. Si sarebbe costretti a guardarsi dentro, privi delle costrizioni e distrazioni del «fuori». Si darebbe così inizio a quel percorso che Plotino, nel secondo secolo dopo Cristo, invitava a compiere con l’atteggiamento del giovane che torna alla casa del padre dopo anni di dissolutezze. Non era cristiano, Plotino, quindi non faceva riferimento alla parabola del figliol prodigo, perlomeno non sappiamo di sue conoscenze delle Scritture. Si legge nella sesta Enneade di Plotino: «Essi fuggono da Lui, o meglio, da sé stessi», dove «Lui» è il primo principio, che è detto anche padre, nella cui contem-

plazione è la vera felicità. «Per questo motivo non riescono a raggiungere Colui dal quale sono fuggiti, e poiché hanno perduto persino sé stessi, non possono più cercare un altro io: un figlio che nella sua demenza sia uscito fuori di sé, non può riconoscere suo padre; ma chi conosca se stesso, saprà anche donde è nato». Conoscere sé stessi, entrare in sé stessi, è l’unica via che può portare a trovare la nostra origine, quindi la risposta alla domanda «Da dove vengo?», essenziale alla comprensione del «Perché sono qui?». Grandi temi che si possono affrontare solo se si è capaci di vivere il tempo con libertà. Sembra impossibile, forse che il tempo della storia non è un’onda che ci travolge, che porta tutto con sé? Uno «slancio vitale», diceva Henri Bergson, di cui abbiamo contezza solo salvando il ricordo del passato, che ci fa intuire il futuro, e ci mette in contatto col presente in quanto appena passato (cose in verità

già dette da sant’Agostino quindici secoli prima). Un flusso, che assume i contorni delle griglie della nostra agenda, del nostro godere nel sentirci eterodiretti, meno scelte, meno responsabilità. Bene, abbiamo scelto il planning contro la meditazione, il timing contro il raccoglimento. Ma, si sa, sia il diavolo che il Creatore sono nei dettagli. Provate a trascorrere due maledetti giorni festivi attaccati, quando, a partire dalla mattina del primo, l’iphone perde la rubrica, il tablet non si connette al quotidiano cui siete abbonati, il wi-fi è lento lento perché ancora non hanno sistemato la fibra ottica nella vostra scala, quando digitate le password ai diversi siti non venite riconosciuti, e addirittura vi si accusa di barare sulla data di nascita che avete trascritto per recuperare un ingresso. I giorni di festa trascorrono in estenuanti trattative con i call-center. Lunedì: ciao cara, che cosa hai fatto durante il ponte? Oh, io? Niente.

E non c’è neanche il grande Massimo Popolizio, il quale nel film incarna il padre, conte Monaldo, che esibisce in pubblico le virtù del figlio-prodigio ma poi vorrebbe che prendesse i voti. Ma se – come vorrebbe Martone – devono contare solo le parole di Leopardi, i suoi versi e i suoi pensieri, che bisogno c’era di portarlo al cinema? Resta in piedi l’ipotesi pedagogica: ovvio che i ragazzi non leggeranno mai Naldini, e che invece molti andranno a vedere Il giovane favoloso. Ma è proprio in questa prospettiva che i dubbi aumentano. C’è un carico simbolico eccessivo, a cominciare dalla statua di sabbia della Natura Matrigna… Perché spacciare ai giovani tutti questi risaputi cliché? Prendiamo Silvia, ovvero Teresa Fattorini: la figlia del cocchiere appare in versione angelico-sexy, bellissima, ammiccante, le spalle bianche e nude, sul letto di morte, ormai cadavere, apre gli occhi per fissare Giacomo, che fugge terrorizzato. E prendiamo la scena infernale del bordello in una Napoli

caravaggesca, dove esplodono tutti gli stereotipi più banali delle viscere oscure della città, della sua violenza e della sua cialtroneria. E che pena sentire e vedere recitare L’infinito da un Leopardi-Germano fin troppo ispirato, immerso tra gli sterpi, le siepi, le piante della sua altura, da dove l’orizzonte proprio non si vede neanche col binocolo: che bisogno c’era di metterlo proprio lì? Che bisogno c’era di far vedere i rami carichi di ginestre, mentre si sente declamare «Qui su l’arida schiena del formidabil monte…». Ecco, non c’è niente di spaesante, nel Giovane favoloso, niente di sorprendente, tutto previsto. Tranne alcune delle frasi che Martone trae dai testi e sceglie di mettere in bocca al suo Germano: «Non attribuite alle mie malattie ciò che è responsabilità del mio intelletto… Non scrivo di malinconia perché sono malato», risponde a chi lo accusa di essere troppo cupo e pessimista. E poi: «pessimismo e ottimismo… che parole vuote», «odio questa prudenza, questa

vile prudenza… ci rende impossibile ogni grande azione, padre», «io ho grandissimo, forse smoderato e insolente desiderio di gloria ma non credo di poter vincere la mia natura». E l’urlo disperato: «Il vero consiste del dubbio. È solo dubitando che ci si avvicina alla verità delle cose!». Il film di Martone ha avuto un merito indubbio: rilanciare l’editoria leopardiana. Si consiglia la corrispondenza epistolare tra Giacomo e la sorella Paolina (Il mondo non è bello se non veduto da lontano, a cura di Laura Barile e Antonio Prete, Nottetempo): è il vero «romanzo familiare» di Leopardi (5½). Leggerlo è un vero piacere dell’intelletto e del cuore, avvicina all’uomo e alla sua poesia più delle oleografie di Martone. Nel film a un certo punto, seduto in un salotto fiorentino, compare Niccolò Tommaseo, che velenosamente profetizza: «Nel Novecento, di Leopardi, non resterà neanche la gobba». Sbagliato: il timore è che sia rimasta solo quella.

della battaglia dell’Assietta (19 luglio 1747) che segna la nascita dell’attuale Piemonte. Antonio Gramsci, un sardo che trovò a Torino l’ambiente ideale per i suoi progetti di palingenesi sociale, tradusse questo imperativo nel motto: «Faccio quello che devo, avvenga quello che può». Fedeltà a tutto. Alla squadra del cuore, si nasce e si muore juventini o granata. Fedeltà ai compagni di scuola, ritrovati almeno una volta all’anno alla cena della maturità. Se ti presentano qualcuno, costui troverà modo di farti sapere in quale liceo ha studiato; e se per caso coincide con il tuo, nascerà tra voi un’immediata complicità, trascorrerete il resto della serata a rievocare nomi di insegnanti, di presidi e di bidelli. Nei piccoli centri al posto della classe di liceo c’è la «leva», composta da coloro che sono nati nello stesso anno; il pranzo annuale della leva è sacro, l’unica giustificazione valida per mancarlo è l’essere morti. Se in una piccola comunità ti stupisci di alleanze o di solidarietà tra due persone lontanissime per idee politiche e visione del

Postille filosofiche di Maria Bettetini Guardarsi dentro (se c’è tempo) È bello poter fare tante cose e così veloci, come è permesso dai nuovi e sempre più sorprendenti mezzi di comunicazione. Risparmiare tempo, la risorsa che si consuma senza chiederci il permesso, e che non ha ricambi né riavvii possibili. Tempo che stringiamo ogni lunedì nelle maglie strette del planning, dello scheduling, del timing. Che inseguiamo correndo, ma guai se si volta mostrando il terribile volto, quello del tempo fermo, del tempo vuoto. È come un’ombra che ci gira intorno, nei giorni «normali», quando capita di attendere un mezzo di trasporto, di trascorrere qualche minuto nell’apposita sala dedicata all’attesa, in uno studio professionale o un ufficio del comune. Ci strizza l’occhio quando un programma tv si interrompe per qualche minuto di pubblicità, ma in questo caso l’esperienza aiuta: è il momento di una telefonata, sparecchiare quel che resta della cena, lavarsi i denti. Eh, ne

abbiamo di trucchi, per fingere di non vederlo. Lo sa, e ride di noi nei fine settimana, quando ne avremmo di tempo per le mille cosette che lasciamo indietro, ma non ce la facciamo. Abituati a essere inseguiti dallo scoccare delle ore, non riusciamo a prendere di petto quelle «libere», di ore. Alcuni, per risolvere il problema in maniera definitiva, fanno sì che anche i giorni festivi siano strizzati da impegni che acquistano il valore costrittivo di quelli feriali. Si tratta di occupare, nel week-end, due pranzi e due cene, e non consola il brunch, perché prende sì anche una mezza mattina, ma poi finisce presto, prima di un pranzo domenicale. Si devono riempire anche almeno due pomeriggi e due dopocena, considerando che la mattina magari si dorme di più, si fa qualche mestiere casalingo, si va alla santa messa. Il cinema è banale, però qualcosa risolve. Teatri, concerti, conferenze. Le palestre: aperte e

Voti d’aria di Paolo Di Stefano La gobba di Leopardi Leopardi superstar. Il giovane favoloso di Mario Martone raggiunge i tre milioni di euro al box office. È il film italiano più visto della stagione, ha sbaragliato il Pasolini di Abel Ferrara. Sono andato a vederlo al Cinema Anteo di Milano: tutto occupato. Lo stesso succede a Roma, come ha raccontato Valerio Magrelli qualche giorno fa sulla «Repubblica»: insomma, Leopardi piace moltissimo. Magrelli paragona il poeta di Recanati a Spiderman, che come recita Wikipedia, è «uno scolaro attento e studioso, ma anche timido e impacciato», come lui rimane celibe, è un tipo solitario e ribelle contro l’ipocrisia della società del suo tempo. Tutto vero, ma non basta essere secchioni, brutti e timidi per riuscire a scrivere le Operette morali. Neanche basta essere storpi, nani o avere la gobba. Se così fosse, anche Andreotti avrebbe scritto La ginestra e Renato Brunetta avrebbe sicuramente prodotto «A Silvio»: «Silvio, rimembri ancora quel tempo…». Dirò subito che Il giovane favoloso non

mi è piaciuto (4–): mi è sembrato troppo didattico, scontato, pieno di luoghi comuni sull’artista romantico, sul rapporto tra genio e sregolatezza. Meglio evitare, ma se proprio lo si vuol fare, per affrontare nel cinema un personaggio come Leopardi bisogna avere più coraggio e non accontentarsi di un mero intento pedagogico-illustrativo. Apprezzabile che Martone costruisca i dialoghi solo con brani d’autore, apprezzabile il rispetto delle fonti, dei fatti, della cronologia. Ma a che scopo? Se voglio comprendere – ammesso che sia possibile – il rapporto tra il poeta-filosofo e l’uomo, tra la malattia e l’opera, preferisco la ricostruzione di Nico Naldini ne La vita e le lettere di Giacomo Leopardi (5+). Certo, nella biografia di Naldini non c’è il bravissimo Elio Germano (5), che è straordinariamente capace di storpiarsi e di deformarsi nel fisico via via che il film procede e che l’età di Giacomo avanza fino a farne una specie di Quasimodo (nel senso del gobbo di Notre Dame).


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 10 novembre 2014 ¶ N. 46

Idee e acquisti per la settimana

shopping Sapori della Mesolcina Novità Nei principali supermercati di Migros Ticino è stata introdotta la carne secca di manzo

della macelleria-salumeria Boldini di Roveredo. Abbiamo incontrato l’appassionato titolare Ivano Boldini

Signor Boldini, quando è nata la vostra attività?

La nostra azienda artigianale esiste dagli albori degli anni 30, quando il nonno aprì il primo piccolo laboratorio di salumeria. L’attività è stata quindi tramandata a mio padre e, successivamente, al sottoscritto. Quali sono le vostre peculiarità?

Fin dagli inizi, proponiamo specialità nel rispetto di antiche ricette e sistemi di lavorazione artigianali. Malgrado l’evoluzione della nostra professione, cerchiamo comunque di salvaguardare la tradizione scegliendo la qualità e non la produzione in grande stile. Il fiore all’occhiello della nostra produzione è rappresentato dalla salumeria più variegata. Come avviene la produzione della carne secca di manzo, specialità appena introdotta a Migros Ticino?

La nostra carne secca è preparata solo con tagli selezionati della coscia del bovino, nella fattispecie magatello, fesa francese e noce. I pezzi sono dapprima salati a secco con sale e aromi naturali

e lasciati riposare per alcuni giorni. Alla salagione viene quindi aggiunto il vino e, per una decina di giorni, i tagli vengono rigirati con cura quotidianamente per assicurare la corretta distribuzione del sale e delle spezie. A questo punto si passa all’essiccazionestagionatura, dove i pezzi, dopo essere stati lavati e ricoperti di un involucro protettivo, finiscono in speciali celle a temperatura e umidità controllate per un periodo di 15-25 giorni. Qui l’umidità si distribuisce in modo uniforme nel prodotto. In questo lasso di tempo il prodotto perde fino al 45% del peso iniziale. Come si gusta al meglio?

Affinché tutti gli aromi possano essere esaltati nel modo ideale, il più semplicemente possibile: affettata finemente e accompagnata da una noce di burro (se dell’alpe ancora meglio) e un pezzo di pane croccante. Un’altra possibilità è quella di servirla come carpaccio di carne secca con l’aggiunta di un filo d’olio di oliva, scaglie di formaggio a pasta dura e rucola.

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Il salumiere Ivano Boldini.

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La carne secca Boldini si caratterizza per la sua consistenza solida, il colore rosso acceso all’interno e l’aroma profumato e delicato. (Vincenzo Cammarata)

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Idee e acquisti per la settimana

Panettone o pandoro? Con Migros il Natale è per tutti i gusti!

Flavia Leuenberger

Attualità Specialità Jowa per tutti i palati

Come ogni anno, nel mese di novembre gli scaffali Migros si arricchiscono con prodotti tipici natalizi. Protagonisti della tavola imbandita a festa sono i grandi lievitati. La Jowa di S. Antonino si occupa dagli anni settanta della produzione di pandori e panettoni per Migros. Ad accomunare questi lievitati sono l’uso del lievito madre, ingrediente fondamentale per conferire ai prodotti una buona conservabilità e digeribilità, l’impiego di ingredienti di prima scelta e la massima cura e controllo di tutti i cicli di lavorazione. Per ottenere dei prodotti soffici e ben alveolati bisogna infatti rispettare diverse fasi che richiedono lunghi tempi di lavorazione, dalla preparazione del lievito madre alla doppia lievitazione dell’impasto finale. La maestria artigiana dei panettieri della Jowa fa sì che in tavola arrivino dolci ricchi di sapore e leggeri. Ma come nascono questi dolci? Il panettone, di origine milanese e tradizionalmente arricchito con uvette e canditi, e il pandoro, dall’impasto aromatico, in realtà si sono evoluti nel corso dei secoli per giungere sulle nostre tavole come li conosciamo oggi. Tra le ipotesi sull’origine del panettone, quella riconosciuta ufficialmente vuole che fu elaborato nel Natale del 1495 alla corte degli Sforza dal cuoco Antonio Toni, da cui il nome Pan di Toni. Originariamente un pane dolce basso, è solo alla metà dei primi del Novecento che grazie all’invenzione del pirottino di carta il panettone assume la forma che oggi conosciamo, caratterizzata dalla bella cupola sviluppata. Il pandoro invece è l’evoluzione del «nadalin», dolce tradizionale veronese a forma di stella reinterpretato nel duecento per festeggiare il primo Natale sotto la signoria della famiglia Scala. Questa brioche ricca, cui veniva data una forma di stella e ricoperta di glassa,

pare ispirata alla pasticceria viennese e trova finalmente la sua veste attuale verso la fine dell’Ottocento, quando acquista definitivamente il nome di Pandoro. Oltre le versioni tradizionali del panettone e pandoro San Antonio, la gamma delle specialità Jowa è ricca di sorprese e variazioni sul tema, come il pandoro all’arancia e il panettone all’amaretto, il panettone da 500 g senza canditi e le varianti Sélection, dall’impasto più ricco. / Luisa Jane Rusconi

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Pandoro San Antonio 800 g Fr. 11.50

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per l’organizzazione logistica, la scelta dell’intrattenimento, fino al nostro autentico fiore all’occhiello, la scelta dei manicaretti. In quest’ultimo caso non vi sono praticamente limiti alle possibilità: le nostre proposte gastronomiche artigianali sapranno conquistare anche i palati più raffinati. Affidatevi al Party Service Migros! Informazioni e riservazioni:

Tel. 0848 848 018 party-service@migrosticino.ch www.migrosticino.ch/party-service

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Il Party Service di Migros Ticino è il referente perfetto per l’organizzazione dei vostri party aziendali natalizi. Il successo di un evento non è il frutto del caso, bensì di un’adeguata e competente coordinazione. Noi del Party Service siamo al vostro completo servizio per far sì che possiate godere al massimo della vostra festa tra colleghi, senza preoccupazione alcuna. Insieme a voi, ci occupiamo di sviluppare l’avvenimento nei minimi particolari, sia che si tratti di un piccolo evento oppure di una festa in grande stile. A cominciare dalla selezione della location, passando


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Idee e acquisti per la settimana

Grandi sconti da Micasa Attualità Per questo Natale illumina il tuo comfort: al Micasa

di S. Antonino puoi approfittare dello sconto del 20% sulle lampade per tutto il mese di novembre e dello sconto «Happy Hour» del 20 per cento su tutti i mobili nei giovedì 13, 20 e 27 novembre dalle ore 19.00 alle 21.00

Questo mese, da Micasa S. Antonino, è l’occasione giusta per già pensare ai regali di Natale per sé o per i propri cari. Hai infatti la possibilità di approfittare di due incredibili offerte. La prima riguarda tutti i mobili del vastissimo assortimento e ti consente di risparmiare nientemeno che il 20 per cento. Ma attenzione: la validità è solo per i giovedì sera 13, 20 e 27 novembre, tra le ore 19.00 e 21.00. La seconda promozione è invece indirizzata a tutti i possessori della carta Cumulus, i quali fino al 30 novembre ricevono il 20 per cento di sconto su tutti i sistemi d’illuminazione. Portarsi

a casa la lampada dei propri sogni non è mai stato così conveniente. E se non hai la carta Cumulus, puoi richiederla in qualsiasi momento in ogni negozio Migros. Micasa è il tuo partner affidabile in fatto di mobili di tendenza di qualità a prezzi particolarmente concorrenziali, il tutto con un occhio di riguardo per la sostenibilità ambientale. Inoltre ti offriamo ottime condizioni sui servizi di consegna a domicilio e montaggio. Insomma, grazie alle nostre fantastiche idee potrai trasformare il tuo spazio abitativo un’accogliente oasi di benessere.

Il barometro dei prezzi

Sopraffino

Keystone

Informazioni sui cambiamenti di prezzo

Cosa c’è di meglio, dopo un pomeriggio dedicato agli acquisti, del concedersi una corroborante pausa caffè nel Ristorante Migros più vicino gustandosi un fumante cappuccino e, perché no, anche un goloso dolcetto quale accompagnamento? In questo caso, perché non regalarsi qualcosa di veramente speciale, nella fattispecie un finissimo

Marron Glacé? Questa preparazione di origini italo-francesi a base di marroni canditi è considerata una vera leccornia da tutti i buongustai, grandi e piccini. I Marrons Glacé sono disponibili, oltre che nei Ristoranti Migros, anche presso i De Gustibus e i banchi pasticceria artigianale; e possono essere acquistati singolarmente.

Il costo del caffè sul mercato delle materie prime è aumentato dallo scorso febbraio e Migros di conseguenza ha dovuto acquistare diverse qualità di caffè a un prezzo maggiorato. Per un certo numero di articoli purtroppo l’azienda non è in grado di sostenere l’aumento dei costi ed è costretta a riversarlo sui propri clienti. Le cause del rincaro sono da ricercare nella persistente siccità che colpisce il Brasile, che è il maggior produttore al mondo di caffè. La scarsità di precipitazioni registrata in gennaio e febbraio ha portato a una riduzione delle quantità raccolte in giugno. I prezzi si trovano da febbraio in permanenza su un livello chiaramente maggiore di quanto fossero nel momento precedente la siccità. Visto che l’industria Migros Delica acquista il caffè grezzo con un certo anticipo sui tempi, per evitare delle crisi di approvvigionamento, i prezzi non erano stati finora ritoccati.

Nei mesi scorsi, invece, Delica è stata costretta a mettere in lavorazione qualità di caffè che erano state comprate a prezzo chiaramente superiore. Un ulteriore fattore che ha contribuito all’aumento di prezzo internazionale del caffè è un fungo, che ha colpito soprattutto le piantagioni dell’America centrale. Il microrganismo ha causato in alcuni casi la distruzione di intere

Alcuni esempi:

coltivazioni. Oltre a questo ha influito sull’aumento anche l’incremento della richiesta di caffè delle nazioni in via di sviluppo, come il Brasile, il Messico, le Filippine e la Thailandia. Il caffè, che in precedenza veniva esportato in Europa o negli USA, rimane ora nelle nazioni produttrici, oppure viene esportato sui mercati asiatici. / Christoph Petermann

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Idee e acquisti per la settimana

Acquistare e vincere Fino al 29 dicembre ogni scontrino di cassa Migros reca sul retro un Win Code. Con ogni articolo acquistato aumenta la possibilità di sbancare il jackpot

I fortunati vincitori Azione si congratula con i primi vincitori. Il jackpot è stato finora* sbancato da:

Controllare subito i Win Code

Ramon I. di Oberönz BE vince: 1’037.50 franchi Claudia R. di Trogen AR vince: 10’819.40 franchi

Tramite l’app Migros gratuita: Chi ha installato l’app Migros gratuita sul suo smartphone può comodamente immettere il Win Code strada facendo e sapere subito se e quanto ha vinto.

*fino alla chiusura di questa edizione.

Tramite internet: Si può immettere il Win Code anche sul sito www.megajackpot.ch, dove inoltre si potranno trovare tutte le informazioni sul gioco a premi.

1 milione da distribuire

Foto: Jorma Müller; Styling: Mirjam Käser

Win Code sul retro dello scontrino di cassa Per ogni acquisto alla Migros ricevete uno scontrino di cassa col vostro Win Code personale sul retro. Con ogni Win Code aumenta la possibilità di sbancare il jackpot del giorno. È possibile anche partecipare gratuitamente: Win Codes gratuiti su www.megajackpot.ch.

Con l’app Migros gratuita per lo smartphone si possono immettere subito i Win Code, vedendo immediatamente se il jackpot è stato sbancato.

Il jackpot inizia sempre da 1’000 a 50’000 franchi. Con ogni Win Code immesso, il jackpot attuale aumenta di 10 centesimi. Può essere sbancato in ogni momento. Più numerose sono le persone che giocano, più velocemente aumenta la somma da vincere. Il pagamento avviene sottoforma di credito su carte regalo Migros. In totale Migros distribuisce 1 milione di franchi.


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Idee e acquisti per la settimana

Denny’s Rösti Fries 500 g, surgelate Fr. 4.60

Chi ama le specialità svizzere a base di patate, come pure le patatine fritte, trova il meglio nelle Rösti Fries

Dato che, com’è noto, l’amore passa anche attraverso lo stomaco, non sarebbe male conoscere il segreto per preparare dei rösti perfetti. Specie se c’è da conquistare un cuore svizzero. Chi però dubita delle proprie capacità, o è semplicemente spaventato dal grande impegno che ci vuole per ottenere degli ottimi rösti fatti in casa, si gioca il tutto per tutto puntando sulle

nuove Denny’s Rösti Fries. Queste non sono altro che la variante rustica delle tradizionali «pommes frites». Sono costituite da scaglie di rösti pressate e poi tagliate a forma di patatine. Al contrario però di queste ultime, che di solito sono morbide all’interno, vi sorprenderanno per la loro deliziosa consistenza sotto la crosta croccante. Proprio come i classici rösti…

Analogamente alla produzione di rösti, chips, pommes frites e fiocchi di purè di patate, anche per le Rösti Fries surgelate l’azienda alimentare Bischofszell Alimentari SA impiega patate di provenienza svizzera. Solo nel 2013 si trattava di 56’000 tonnellate. Suggerimento: servite con qualche raffinata salsina, le Rösti Fries sono ottime come spuntino o aperitivo. / AW

Foto: Claudia Linsi

I rösti sono un fatto di cuore

L’Industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui anche le Rösti Fries.


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Idee e acquisti per la settimana

Benedikt Dürr (50 anni) nella sua azienda agricola di Haag SG coltiva annualmente 50 tonnellate di broccoli per la Migros.

Freschi come appena raccolti dal campo

Foto: Daniel Kellenberger

Nell’ambito delle verdure surgelate Migros offre sempre più prodotti dell’orticoltura svizzera Il fatto che Migros, per il suo vasto assortimento di verdure surgelate, prediliga prodotti svizzeri, presenta innumerevoli vantaggi. Sia per la Migros, che riducendo le importazioni e grazie ai trasporti brevi migliora il proprio bilancio ecologico, come pure per l’agricoltura indigena, che copre questo smercio sicuro con la produzione di materie prime di alta qulità. Ma in particolare se ne rallegra il consumatore, il quale, grazie alla surgelazione, può disporre di verdure ricche di sostanze minerali e vitamine in qualsiasi momento dell’anno. Non è un segreto che le vitamine contenute nella verdura grazie al freddo si conservino a lungo, mentre alle temperature convenzionali del frigo si riducono già dopo pochi giorni. La perdita di vitamine è un processo naturale che

inizia già al momento della raccolta, che può però essere evitato con la surgelazione rapida. Con spinaci, broccoli, cavolfiori & co., tutti raccolti appositamente per Farmer’s Best, questo avviene entro pochissime ore. Verdure ricche di vitamine in qualsiasi momento dell’anno

Oltre all’aspetto dell’alimentazione consapevole, le verdure surgelate sono molto gettonate anche perché sono disponibili tutto l’anno. Il fatto poi di poterle facilmente porzionare è un altro punto in loro favore. Riguardo alla preparazione non c’è praticamente limite alla creatività. Chi è alla ricerca di ispirazione, può visitare il sito www.mgemuese.ch (anche in italiano) e sperimentare le ricette realizzate con i prodotti Farmer’s Best. / AW

Farmer’s Best rosette di broccoli 500 g Fr. 3.70

Farmer’s Best spinaci alla panna 500 g Fr. 2.95

Farmer’s Best verdura mista svizzera 240 g Fr. 2.40

L’industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui anche le verdure surgelate.


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Idee e acquisti per la settimana

I rösti al burro della marca Bischofszell sono buoni come quelli fatti in casa: qui anche il nonno si trasforma in uno chef.

La tradizione subito in tavola

Foto: Christian Dietrich; Styling: Linda Hemmi

Classici elvetici pronti in un baleno: con Bischofszell è possibile

Impossibile resistere di fronte ad un piatto di dorati e croccanti rösti al burro. Sono ottimi da soli con un’insalatina oppure come contorno accompagnati da pesce o carne. Tuttavia, come per altre specialità della tipica cucina svizzera, anche per preparare un piatto di rösti perfetto non è sempre facile trovare il tempo, la voglia e soprattutto l’abilità indispensabili. Non serve né un ricettario né la nonna

Chi vuole preparare un gustoso piatto, senza dover necessariamente consultare un ricettario oppure chiedere

consigli alla nonna, sceglie i prodotti pronti del ricco assortimento della marca Bischofszell. La loro preparazione è semplice e veloce. Questi prodotti si basano su ricette tradizionali e sono precotti molto delicatamente per preservarne tutto l’aroma. Le materie prime utilizzate sono accuratamente selezionate. Tutti gli ingredienti provengono possibilmente da coltivazione, rispettivamente produzione, svizzere. Ciò vale anche per le patate dei rösti al burro, come pure per la carne e le verdure utilizzate per i ripieni delle differenti varietà di ravioli e tortellini. / JV

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Bischofszell rösti al burro* 400 g Fr. 2.60

Bischofszell mousse di mele Jonagold* 300 g Fr. 2.50

Bischofszell ravioli Napoli* 430 g Fr. 3.10

Bischofszell tortellini verdure* 430 g Fr. 3.90

L’industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui anche i prodotti della Bischofszell Alimentari SA.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 10 novembre 2014 ¶ N. 46

Idee e acquisti per la settimana

Uno splendido scenario È una di quelle belle abitudini dell’Avvento che non devono andare perse: davanti alle finestre addobbate a festa si ritrovano amici, conoscenti e vicini, per vivere assieme l’atmosfera natalizia. Giorno dopo giorno, dal 1° al 24 dicembre

Foto: Jorma Müller; Styling: Monika Hansen; resp. progetto: Sonja Leissing

di o z z e p n au a d d : a e r f t i c a a d l te a i Fai l g a t i i r c e o t t a a l l s o n c e e in a r comp t s e n fi di lla e a l a e t r r a o N p i p a ed n i l l a p nti e e l l m e i r d e a g r g p su so i r t l A . o s colore rosolage su per il bric ros.ch/bricolage www.mig

Nella vostra Migros trovate ghirlande luminose, candele di diversi colori e molti altri oggetti. Maggiori informazioni su www.migros.ch/natale


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 10 novembre 2014 ¶ N. 46

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 10 novembre 2014 ¶ N. 46

Idee e acquisti per la settimana

poi succo d’uva, Riscaldate il fette di ice stellato e aggiungete an nato ffi ltato è un ra arancia. Il risu punch.

Grazie per l’i nvito: qualsias i padrona di ca sa è felice di ricevere un omaggio come un maz zo di rose Max Havelaa r o un pacco regalo «Italia» della linea Sélectio n.

Sempre molto apprezzati sono i calendari dell’Avvento «fatti in casa», che vengono riempiti di cioccolatini, biscotti e ogni genere di sorpresine. Ma in alcuni quartieri è tuttora ben radicata anche la tradizione dei calendari «viventi»: su una finestra o su una porta decorata con motivi natalizi si appende un numero da 1 a 24. La cifra funge da invito per vicini, amici e conoscenti ed indica la data in cui ci si ritroverà per socializzare. Ciò significa che ogni giorno di dicembre ci si dà appuntamento davanti a una diversa finestra dell’Avvento, ricreando l’atmosfera dall’imminente festività. Si cantano le canzoncine di Natale e si raccontano fiabe. I padroni di casa offrono bevande calde, dolci e a volte perfino una zuppa. In cambio ricevono regalini come biscotti o una stella di Natale. / SL

In due il bricolage è ancora più divertente. La corona dell’Avvento di legno in 3-D e le prime candele di cera sono già fatte. Adesso bisogna solo dipingere le tazze e rifinire vari elementi ornamentali. Una stella di Natale bianca è un pensiero sempre gradito dal padrone di casa.

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Idee e acquisti per la settimana

Per abbellire il periodo dell’Avvento

Le candele inserite in un vetro su cui si può scrivere sono dei fantastici segnaposti straordinari. Candele in vetro con gesso Fr. 4.90 La renna luminosa porta con sé l’atmosfera natalizia degli spazi aperti. Lampada decorativa, renna Fr. 9.80

Set di decorazioni naturali argentate con brillantini. Scritta X-MAS bianco-rossa Fr. 8.90

Le pigne argentate disposte in un vaso di vetro fanno una bellissima figura. Set di decorazioni naturali argentate con brillantini Fr. 7.90

Le mollette sono l’ideale per decorare le affettuose letterine di Natale. Set di 4 mollette di legno Fr. 4.90

I ciondoli di lana sono perfetti sull’albero di Natale e sui pacchetti dei regali. Ciondolo di lana bianco-rosso Fr. 2.90

, e l a n : i e g i t r o a o d t en v Fai v ’A l l e d a n ate r o r o o c c e d a n e u o r t pe ces n u e a n i r l l p a o p s , o t e t n o g , pi o i h girate s c s u m i n t o n c e e m i i r c e fi r g e g i su r t l la sup A . e l e d n ca di Natale e gros.ch/bricolage su www.mi

Le candele si accendono al sicuro Accendete le candele solo sopra una base ignifuga e non lasciatele mai incustodite. Non posatele vicino a tende o altri materiali incendiabili. Evitate di spostarle. Non lasciate mai i bambini soli con le candele accese. In caso d’emergenza soffocate le fiamme con una coperta, non spegnetele usando l’acqua.

Il lume di candela fa parte dell’Avvento come i biscotti fatti in casa Portalume a forma di stella Fr. 4.90 I portalume a forma di stella creano scenari affascinati. Portalume a forma di stella, disponibile in diversi colori Fr. 2.90

Se ci si appende la slitta ogni finestra attira gli sguardi. Set di due slitte di legno da appendere Fr. 3.90


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 10 novembre 2014 ¶ N. 46

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Idee e acquisti per la settimana

Le profumate saponette fatte in casa sono quasi troppo belle per essere adoperate. Set di stampi per sapone Fr. 24.80

Una tazza dipinta personalmente è un bel regalo per i vostri cari. 2 tazze da dipingere, pennarelli inclusi Fr. 9.80

Tutto quel che ci vuole per divertirsi col bricolage Corona dell’Avvento di legno in 3-D visibile a pagina 69. Corona dell’Avvento 3D Fr. 14.80

Per decorazioni scintillanti su scatole e custodie. Set di brillantini, 10 dosi Fr. 7.90

Con i colori per il vetro si dipingono vere e proprie opere d’arte. Set di decorazione per vetro, 13 colori Fr. 12.80

Una buona soluzione per fare delle candele profumate assieme alla mamma o alla madrina. Set di sapone colato Fr. 24.80

eatività Qui si richiede cr na 72). (vedi foto a pagi casa candele Set per fare in n 7 forme a nido d’ape, co Fr. 17.80

Con questo set si può dipingere la tazza personale di ogni membro della famiglia. 2 tazze da dipingere, pennarelli inclusi Fr. 9.80

Un regalo pieno di stile con un tocco personale. Naturalmente, il nastrino va tolto prima di accendere le candele. Set per modellare le candele a nido d’ape, 7 forme Fr. 17.80

nel punzonatore Basta introdurre sideri e Gesù la letterina dei de to a soddisfarli. Bambino è pron n 3 motivi Punzonatori co Fr. 8.50

Con gli stampini di legno si possono imprimere i cartoncini per indicare i posti a tavola. Set di stampi con diversi motivi Fr. 9.50 Affinché ogni pacco regalo sia un pezzo unico. Rotoli di nastro adesivo, 12 mm x 2 m, 6 pezzi Fr. 3.90



IL VERO PIACERE DEL CAFFÈ.

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Caffè in chicchi, bio, Fairtrade 500 g

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Noblesse Decaffeinato, UTZ 100 g, in bustina

Noblesse Oro, UTZ 200 g, in bustina

Espresso Classico macinato, UTZ 250 g

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Crocchette al cioccolato al latte finissimo in retina, UTZ 260 g

Cuoricini di cioccolato Frey rossi, UTZ 300 g

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Rosa di Natale in cesto decorato* la pianta

Stella di Natale* in vaso da 13 cm, la pianta, 25% di riduzione

5.90 invece di 7.90 6.90

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Candela a forma di stella Rustic disponibile in diversi colori, per es. rosso

Minirose, Fairtrade in diversi colori, gambo da 40 cm, mazzo da 20, 15% di riduzione

* In vendita nelle maggiori filiali Migros. OFFERTE VALIDE SOLO DALL’11.11 AL 17.11.2014, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

Stella di Natale* in vaso da 13 cm, la pianta, 25% di riduzione


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