Azione 45 del 10 novembre 2014

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXVII 3 novembre 2014

Ms alle hoppin pag g ine 57-6 8/

Azione 45

Società e Territorio Architettura dello spettacolo: i cinema storici ticinesi

Ambiente e Benessere Pubblichiamo il primo di due articoli dedicati al tema della sperimentazione dei farmaci sull’uomo e ai suoi aspetti etici

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Politica e Economia Jean-Claude Juncker, nuovo commissario dell’Ue

Cultura e Spettacoli Per gli inglesi Berlino fu anche capitale del libertinaggio

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Nuovo cinema dal Ticino

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di Fabio Fumagalli pagina 53

Pagine da riscoprire di Alessandro Zanoli Ci viene a trovare in redazione il signor D. Una persona davvero simpatica, colta e affabile, con cui condividiamo l’interesse per la storia della letteratura ticinese, soprattutto quella del passato. C’è tra noi una certa differenza anagrafica: grazie a una invidiabile forma fisica il signor D. ha da poco doppiato la boa dei 90 anni. La discussione con lui è quindi molto interessante e istruttiva perché la sua esperienza personale gli ha permesso di vivere da testimone oculare molti degli eventi che oggi dovrebbero essere registrati nei libri di storia, ma di cui, se va bene, si ritrovano tracce solo nelle vecchie edizioni dei giornali ticinesi o sul mitico «Cantonetto» di Mario Agliati. La domanda che ci pone il signor D. è di quelle per cui non è facile trovare una risposta: come mai i molti scrittori ticinesi che hanno pubblicato nella prima parte del 900 e nei primi anni del dopoguerra (i Laini, Calgari, Ortelli, Filippini, Castelli, Poma, Jenni e altri ancora) sono oggi così poco conosciuti? Una domanda specifica, settoriale, ma che riportiamo in questa sede di chiacchiera settimanale perché offre un ampio spunto di riflessione.

La risposta non è semplice né immediata, ma alcune idee vengono a galla continuando la discussione con il signor D., e in particolare parlando della sua vita. Libero professionista, si è laureato alla fine degli anni Quaranta e all’inizio dei Cinquanta è tornato in Ticino per esercitare la sua attività. Non erano tempi facili, ci racconta: Lugano era la città in cui c’erano persone che andavano sul monte Brè a raccogliere le violette per venderle al mercato in Piazza... Anni difficili, dunque: si veniva da una società rurale, e ci si trovava in un dopoguerra che aveva lasciato l’Europa nel pieno del dramma della ricostruzione, mentre la Svizzera cercava un suo nuovo assetto sociale. Piano piano, grazie alla lenta ripresa della congiuntura, il Ticino ritrova una sua nuova vocazione nel terziario e, negli anni Cinquanta, si assiste al suo decollo economico. Nel giro di dieci anni l’accelerazione è fulminante. Da società legata alla vita contadina, con qualche spazio pur importante alla vocazione turistica, ecco che il cantone si trasforma in un vivace polo finanziario. Mettiamoci nei panni dei giovani di allora. Il dopoguerra portava fin qui dall’Italia, giornali, riviste, libri, pieni di quel germe di rinnovamento che guardava all’America, ai suoi

scrittori, al mondo di Hollywood, e perché no, al jazz. Che interesse poteva avere per i ticinesi una cultura letteraria rivolta al passato, magari legata al mito della vita di montagna, Libro dell’Alpe e Tempo di marzo in testa... (solo alla fine degli anni Sessanta se ne è poi parlato in modo «moderno» con Bianconi e Martini). Ecco quindi che, forse, quell’accelerazione culturale ha lasciato indietro tutto quello che sapeva di polveroso, di culturalmente ritardatario, come potevano sembrare certe pagine dei nostri scrittori. Molti di loro, pur cresciuti in un clima intellettuale di prestigio e formatisi alla scuola dei migliori maestri, erano comunque considerati come portatori di un vecchio modo di guardare il mondo. Ora, i nostri lettori con maggiore esperienza, come il signor D. ci diranno che queste sono cose risapute, persino banali. Invece no. Molti di coloro che sono cresciuti dopo gli anni Sessanta non hanno una percezione di tutto questo: non sanno cosa si è perso e perché. Forse è inevitabile, ma forse è un peccato: i libri del passato sono una nostra eredità culturale che andrebbe quantomeno conosciuta e compresa, come ogni altro frammento della nostra storia.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 3 novembre 2014 ¶ N. 45

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Attualità Migros

Migros Ticino apre il primo centro ACTIV FITNESS Losone Lo stabile è a standard Minergie e sul suo tetto è installato un impianto

fotovoltaico progettato con la SES SA di Locarno

Apre venerdì 31 ottobre il primo centro ACTIV FITNESS di Migros Ticino in via dei Pioppi 2A a Losone. Su una superficie di 1100 mq propone postazioni per la muscolazione e la resistenza, sala per corsi di gruppo, sauna, bagno turco e servizio baby sitting a un prezzo competitivo e sotto la supervisione di personale altamente qualificato. L’obiettivo di Migros Ticino è di contribuire alla qualità della vita delle persone residenti nella Svizzera italiana: una strategia perseguita con l’offerta di prodotti e servizi di qualità a prezzi vantaggiosi nel commercio e nella ristorazione, il sostegno a un ricco cartellone di eventi culturali (Percento culturale), formazione continua per gli adulti (Scuola Club) e la pubblicazione di un settimanale di informazione e cultura (Azione), cui si aggiungono ora forma fisica e benessere, con l’apertura del primo centro ACTIV FITNESS in Ticino. La nuova attività è svolta in franchising ed è frutto di un accordo tra Migros Ticino e ACTIV FITNESS SA, società della Cooperativa Migros Zurigo, leader del settore, con 26 centri e oltre 60’000 soci in Svizzera tedesca e Romandia. In aggiunta a Losone, Migros Ticino aprirà un centro a Lugano nel corso dell’autunno 2015 e altri 3-4 nei prossimi anni nelle altre regioni del Cantone. Ubicato sopra il Do it + Garden recentemente inaugurato a Losone, il centro ACTIV FITNESS è equipaggiato con gli standard più moderni e propone un eccezionale rapporto tra prezzo e prestazioni. Il programma di fitness si basa su tre colonne: forza, resistenza e agilità. Su una superficie di 1100 mq è proposta un’offerta completa che comprende l’utilizzo di apparecchi di ultima generazione per la muscolazione, la resistenza, la coordinazione e la mobilità, per allenare le articolazioni in modo mirato, oltre a promuovere la forma fisica e il coordinamento; cyclet-

Azione Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Minergie e SES

te, stepper, tapis roulant, cross trainer e vogatori permettono invece l’esercizio cardio-vascolare. I corsi di gruppo presentano le ultimissime tendenze del fitness, tra cui Zumba e Bodytoning, così come Power Yoga, Pilates e M.A.X. L’abbonamento comprende sauna e bagno turco, per un completo relax, così come il servizio di baby sitting, con personale selezionato, che dà un’opportunità di divertimento ai bambini, ai genitori la possibilità di allenarsi in tutta tranquillità. Gli istruttori ricevono una formazione altamente qualificata, oltre all’aggiornamento continuo; con ogni socio viene elaborato un programma di allenamento personalizzato e vengono fissati gli obiettivi da perseguire, garantendo l’assistenza per l’intero periodo di validità dell’abbonamento. Il costo di iscrizione è assolutamente competitivo e in occasione dell’apertura, dal 31.10 al 30.11.2014, è prevista una promozione eccezionale, con l’abbonamento annuale a 590 franchi (anziché 740), mentre per studenti, apprendisti e beneficiari di AVS e AI a

490 franchi (anziché 640). L’abbonamento annuale comprende tutti i servizi – forza, resistenza, corsi di gruppo, sauna, bagno turco e spazio bambini, consulenza e assistenza illimitata e continua – così come l’accesso agli altri centri ACTIV FITNESS presenti in Svizzera. L’allestimento del centro ACTIV FITNESS ha richiesto un investimento di 2 milioni di franchi per installazioni, attrezzature, tecnica e mobili. Sotto la guida del gerente Nico Cice (primo da destra nella foto) e dalla vicegerente Desirée Bruno (seconda da sinistra), presso il centro ACTIV FITNESS Losone sono attivi 23 collaboratori, 5 istruttori fitness, altri 8 per i corsi di gruppo, 4 addetti alla cura dei bambini e 6 alle pulizie. ACTIV FITNESS, via dei Pioppi 2A, 6616 Losone, tel. 091 821 77 88, www.activfitness.ch/losone; è aperto 365 giorni all’anno, dal lunedì al venerdì dalle 8.00 alle 22.00, sabato, domenica e festivi dalle 9.00 alle 18.00; servizio baby sitting dal lunedì al venerdì dalle 8.45 alle 11.30. Corsi di gruppo da lunedì 10.11.2014.

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

Lo stabile, in cui sono presenti il centro ACTIV FITNESS, il negozio specializzato Do it + Garden, il bar «Caffè Chicco d’Oro», oltre a spazi destinati ad attività nel campo dei servizi e dell’artigianato, è edificato su un terreno di proprietà del Patriziato di Losone, con il quale Migros Ticino ha sottoscritto un diritto di superficie. L’edificio, la cui costruzione e i cui allestimenti hanno richiesto un investimento globale di 13 milioni di franchi, è stato realizzato considerando tecnologie avanzate nel campo del risparmio energetico e della protezione ambientale (materiali isolanti, pompe termiche, sistemi di illuminazione LED negli spazi commerciali, ecc.) ed è a standard Minergie. Si tratta del secondo stabile Minergie edificato da Migros Ticino, dopo il supermercato di Taverne, che ha ricevuto la certificazione lo scorso anno. Sul tetto dell’immobile – come già avvenuto in precedenza a Sant’Antonino e Taverne e in fase di realizzazione per il nuovo supermercato Mendrisio Sud – è inoltre stato installato un impianto fotovoltaico, composto da 842 pannelli, su una superficie di 2400 mq e una produzione annua stimata di 250 mila kilowattora, corrispondenti al fabbisogno di oltre 300 economie domestiche. L’impianto, di cui Migros Ticino si è assicurata circa la metà della produzione di energia elettrica, è stato realizzato in collaborazione con la Società Elettrica Sopracenerina SA (SES), che ne è proprietaria. Ad oggi la SES SA ha realizzato 15 impianti fotovoltaici nel proprio comprensorio di distribuzione, sia su stabili propri che di terzi, con una produzione annua di circa 1,5 mio di chilowattora.

Tiratura 98’645 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Migros News I prossimi appuntamenti di ForumElle La visita allo yoghurtificio AGROVAL di Airolo ha riscosso un grande successo e purtroppo, per ragioni di spazio, non è stato possibile dar seguito a tutte le adesioni pervenute. Il comitato inserirà nel prossimo programma di primavera/estate una nuova data per poter in questo modo soddisfare le richieste. Ricordiamo alle socie e alle simpatizzanti i prossimi appuntamenti, con l’invito a volersi iscrivere al più presto: ■ Mercoledì, 5 novembre, ore 15.00, Ristorante Migros Serfontana. Dedicato ai più piccoli: impariamo a fare la pizza! ■ Giovedì, 13 novembre, ore 18.30, Suitenhotel Parco Paradiso: «4 chiacchiere con…» Sara Rosso, donna, moglie, mamma e presidente della Planhotel Resorts di Lugano; ■ Giovedì, 15 gennaio 2015, ore 14.30, Visita alla Sandro Vanini SA di Rivera e conferenza di Beatrice Fasana Arnaboldi, managing director dell’azienda e ingegnere alimentare, sul tema «Chi dice zucchero, dice dessert? Non sempre». Info: www.forum-elle.ch, rubrica Ticino, oppure, telefonicamente, alla segretaria Simona Guenzani, tel. 091 923 82 02 (simona.guenzani@forumelle.ch) o a Francesca Vivian, tel. 091 224 87 72. Navigare gratis durante lo shopping Migros dà la possibilità ai suoi clienti di navigare liberamente sul web all’interno dei suoi negozi. Dalla fine dello scorso settembre l’accesso WiFi a Internet è possibile già in 560 filiali e negozi specializzati. Entro la fine dell’anno tutte le filiali verranno attrezzate con questo servizio. Sui dispositivi mobili la rete sarà indicata con il nome di «Migros WiFi». Anche i ristoranti Migros che offono già da tempo la connessione gratuita alla WLAN saranno convertiti allo stesso sistema. L’iscrizione al servizio è semplice: con Smartphone, tablet o computer portatile ci si annuncia alla pagina web apposita e dopo aver inserito il numero del proprio telefono cellulare si ottiene la password personale valida sei mesi. Trascorso tale periodo si dovrà ricorrere a una nuova iscrizione. Se sul proprio apparecchio è stata attivata l’opzione «Login automatico» la connessione sarà possibile in tutte le filiali Migros, automaticamente. Migros è il primo dettagliante che mette a disposizione dei propri clienti un servizio di questo tipo, realizzato in collaborazione con Swisscom.

Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 3 novembre 2014 ¶ N. 45

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Società e Territorio Spazi liberi da pianificare Parchi pubblici, piazze, strade a circolazione ridotta, parchi gioco, rive di fiumi e laghi: sono le aree a disposizione di tutti. Del loro futuro e della loro importanza si è parlato in un convegno ad Ascona

Anziani e povertà Cresce in Svizzera il numero di pensionati che devono ricorrere alle prestazioni complementari dell’AVS per riuscire a garantirsi il fabbisogno vitale pagina 8

Simone Mengani

Simone Mengani

Simone Mengani

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Durante il Festival sono tutti scienziati Cinema storici Esiste ancora uno spazio dove godersi pellicole indimenticabili e opere liriche comodamente seduti

nelle poltrone Pop Club Ascona: il cinema Otello – Terza puntata

Oliver Scharpf «Capri nordica» la chiama Montale in Satura (1971) per via dei motoscafi che non lo lasciano dormire. L’Ascona nottambula di quei tempi da jet set e night club non c’è più, eppure di quel viavai nautico montaliano, qui in via Bartolomeo Papio, qualcosa rimane. Seduto sul terzo gradino davanti al cinema Otello di Ascona, dall’altra parte della strada, tra le colonne di granito, scorgo un motoscafo Riva modello Iseo davanti a un’inconsueta boutique di motoscafi. Una locandina annuncia un film catastrofico intitolato Into the storm. Ecco che arriva la signora Beltrami con la quale ho appuntamento alle undici per scoprire questo cinema chiamato come il personaggio principale della tragedia omonima di Shakespeare scritta intorno al 1603 e dalla quale è stata tratta l’opera di Rossini (1816) e quella di Verdi (1887). Tanto marmo, di Verona, si nota appena entriamo dalla porta a vetri. L’impressione marmorea continua su per le scale che portano alla sala al primo piano, dove in un angolo c’è in

mostra un proiettore Philips con lanterna a carbone, in compagnia di una foto autografata di Alberto Sordi. Butto un occhio nella sala climatizzata di centossessanta posti, cattura il color vinaccia pimpante delle poltrone. Mi siedo un attimo, ultraconfortevoli. «Sono state costruite apposta per questo cinema dalla ditta Quinette, quando ho riaperto e rinnovato il cinema nel dicembre del novanta; le hanno chiamate poltrone Pop Club Ascona» mi dice Elisa Beltrami. E mi viene in mente: anche la Opel, sull’onda del richiamo esotico che possedeva il nome della cittadina sul lago Maggiore all’epoca, lanciò sul mercato il modello Opel Ascona (1970). La particolarità di queste poltrone cinematografiche risiede nello spazio disponibile tra le file: un metro e dieci. Le gambe possono essere così accavallate senza problemi o allungate con agio, ma anche le braccia hanno la loro libertà visto che anche i loro braccioli sono più larghi del normale. «È mio papà che ha costruito il cinema, nel 1955» mi dice ancora la signora Beltrami – attuale proprietaria

– nell’ufficio dove c’è anche la signora Felicita Duca: «il mio braccio destro». Il signor Paolo Poncini, architetto e sindaco di Ascona a quei tempi, inaugura il cinema Otello il sedici giugno del 1955, all’interno del palazzo anch’esso progettato da lui e pure chiamato Otello. Il nome è un’idea della figlia: «per via dell’opera e perché suona bene». Sul tavolo c’è una grande scatola con gli occhiali 3D e sul muro in faccia è incorniciato un poster di Luci della ribalta (1952): di spalle, il classico bastone da passeggio e lo sguardo sconsolato, Charlie Chaplin ci tiene d’occhio. Una stagione particolarmente cinefila per l’Otello – oltre alla collaborazione con il Festival del cinema di Locarno iniziata nel 1992 con Raimondo Rezzonico – è stata quella di Carta Bianca. Come c’è scritto in un dépliant dissepolto dalla solerte signora Duca: «Carta Bianca è uno spazio cinematografico riservato ad una personalità del mondo del cinema, della cultura o dell’arte per poter allestire nella più assoluta libertà nell’ambito dei film in distribuzione o disponibili, un cartellone diverso per qualità e contenuti del

solito». A scorrere i ventisette titoli delle quattro rassegne avvenute nei primi anni Novanta ai cinefili non possono non illuminarsi gli occhi. Il menu di Gino Buscaglia è un portentoso tuttoKubrick: Arancia Meccanica (1971), Barry Lyndon (1975), Orizzonti di gloria (1957), Spartacus (1960), 2001: Odissea nello spazio (1961), Full metal jacket (1987), Shining (1980). Un programma da ripetere in modo domestico le sere d’autunno, penso per un attimo, anche se il grande cinema al cinema, non c’è bisogno di dirlo, è un altra storia. Tra i film proposti da Augusto Orsi, ad esempio, c’era Drugstore Cowboy (1989) di Gus Van Sant e Taxi blues (1990) di Pavel Lungin. Quarto potere (1941) di Orson Welles e C’era una volta il West (1968) di Sergio Leone spiccano nella proposta di Mariano Morace. Una volta avevo pensato, per dieci minuti circa, di aprire un cinema – il cinema Rosebud – che proiettasse per trecentosessantacinque giorni esclusivamente Quarto potere: il film del secolo, capolavoro inarrivabile. L’ultima Carta Bianca è stata data nel marzo 1993 a Marco Müller che

ha racchiuso cinque film con il titolo Oltre il manierismo: l’ultimo quinquennio del cinema indipendente Usa (1988-1992). Tra i quali: In the soup (1992) di Alexandre Rockwell, Do the right thing (1989) di Spike Lee, Miller’s crossing (1989) dei fratelli Coen. Purtroppo, dice la signora Beltrami, queste rassegne non erano molto seguite, nonostante si fosse data da fare per promuoverle, perciò non c’è stato un seguito. «Durante il festival sono tutti scienziati». Poi gli spettatori per i film di qualità latitano, risucchiati dallo strapotere dei cinema multisala. Tra l’altro, notizia di questi giorni: la chiusura del cinema Ideal di Giubiasco. La morìa dei piccoli cinema continua. «Tempi duri per la lirica» come direbbe un mio amico giornalista di Roma. Comunque, in collaborazione con il signor Morandini – conosciuto in occasione della prima puntata di questo viaggio alla scoperta dei cinema storici ticinesi – qui al cinema Otello si può assistere, in diretta dal Covent Garden di Londra, a qualche opera lirica. Comodamente seduti sulle poltrone Pop Club Ascona color vinaccia pimpante.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 3 novembre 2014 ¶ N. 45

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Società e Territorio

Verso nuovi spazi liberi Aree pubbliche Lo scorso 21 ottobre l’Associazione svizzera per la pianificazione del territorio ha promosso

un convegno dedicato agli spazi pubblici. Un esempio è la riqualifica del lungolago di Ascona

Stefania Hubmann Parchi pubblici, piazze, ma anche strade a circolazione ridotta, parchi giochi, rive dei corsi d’acqua. Sono gli spazi liberi che negli agglomerati garantiscono aree verdi e di svago a disposizione di tutti. Nel tempo la loro funzione e la loro stessa natura sono cambiate. La forte urbanizzazione degli ultimi decenni in una prima fase li ha sicuramente messi in pericolo, mentre di recente maggiore sensibilità e attenzione permettono di riqualificare gli spazi esistenti e di creare zone di evasione corrispondenti alle mutate abitudini sociali. La densificazione edilizia e la moderazione del traffico sono due processi che offrono interessanti opportunità di concepire nuovi spazi liberi. Gli esempi in Ticino come nel resto della Svizzera non mancano. Sono interventi realizzati sulla base di indicazioni sempre più precise e coordinate. Quest’anno sono state pubblicate le Linee guida Sviluppo degli spazi liberi negli agglomerati, elaborate congiuntamente da sette Uffici federali. Il nuovo approccio globale della pianificazione degli spazi pubblici è stato oggetto di un convegno svoltosi lo scorso 21 ottobre ad Ascona. Il Comune sul lago Maggiore offre infatti un ottimo esempio al riguardo: la sistemazione del lungolago. Autorità comunali, collaboratori delle amministrazioni comunali e dei servizi cantonali, professionisti della pianificazione del territorio e dei settori affini, investitori e amministratori immobiliari, sono stati invitati a riflettere sulla necessità di stabilire una rete di spazi pubblici e di coordinarne lo sviluppo. In 35 hanno aderito all’iniziativa dell’Associazione svizzera per la pianificazione del territorio Vlp-Aspan che ha promosso l’incontro su mandato dell’Ufficio federale dello sviluppo territoriale. Presentazioni analoghe si sono svolte anche nella Svizzera romanda e tedesca. La necessità di garantire spazi liberi attrattivi, concepiti come tali e non identificati in superfici residue, coinvolge numerosi attori. Sono infatti da considerare gli aspetti funzionali, finanziari, realizzativi e di gestione di questi spazi. I professionisti che scendono in campo appartengono quindi al settore pubblico e a quello privato, spaziando dall’edilizia ai trasporti, dall’agricoltura allo sport, alla natura, al paesaggio. Le premesse per conce-

Il lungolago di Ascona dove la pavimentazione distingue tre aree. (Paolo Rosselli)

pire e attuare questo tipo d’intervento sono fornite dagli strumenti della pianificazione. Paolo Poggiati, capo della sezione dello sviluppo territoriale, spiega qual è il quadro a livello ticinese. «Conservare l’alternanza tra territorio edificato e spazi liberi nel fondovalle è uno dei punti più importanti fra gli indirizzi del Piano Direttore in questo ambito. Ciò significa contenere le zone edificabili, pianificare le infrastrutture tenendo conto degli spazi liberi, ma anche controllare le zone agricole, perché serre e tunnel sorgono pure a scapito di aree verdi». Queste misure sono il frutto di un nuovo approccio culturale con il territorio. «La sensibilità dell’opinione pubblica è molto cambiata. Partendo dagli anni Sessanta, quando ancora non c’erano regole riguardo alle costruzioni, si è assistito a un periodo di boom edilizio per giungere, da una decina d’anni a questa parte, a decisioni molto restrittive sulle zone edificabili, non più estensibili. Gli spazi liberi hanno acquisito una maggiore importanza e sono difesi sia attraverso gli indirizzi del Piano Direttore sia, in alcuni casi, con un ruolo attivo dell’autorità cantonale». Il Piano Direttore fornisce indicazioni anche sulla creazione di una rete di aree di svago di prossimità e sull’obiettivo di favorire l’accesso alle rive dei

laghi e ai fiumi. «Punto cruciale del territorio ticinese è il fondovalle, dove si concentrano la popolazione (9 residenti su 10) e le attività produttive. Malgrado la forte pressione sul territorio, gli spazi liberi in questa zona sono ancora pari al 53%. Considerati nel loro insieme, rappresentano più di quanto il singolo possa percepire. Cionondimeno è indispensabile identificarli, conservarli e valorizzarli attraverso progetti concreti: ne sono esempio il Parco del Piano di Magadino e della valle della Motta, oggetto di pianificazioni cantonali. Le visioni globali si situano infatti su scale diverse. Strumenti come i programmi d’agglomerato o i masterplan prendono in considerazione zone più limitate. Il progetto di rinaturazione della foce del fiume Cassarate, ad esempio, rientra in un masterplan che intende rivalorizzare l’intero corso d’acqua e creare una rete di spazi liberi nella città». La scala più piccola è quella locale, di competenza dell’autorità comunale. Ad Ascona per la sistemazione del lungolago, bene pubblico di particolare pregio, il Municipio nel 1999 ha indetto un concorso internazionale a invito vinto, al termine di diverse selezioni, dagli architetti Rolando Zuccolo e Paolo Canevascini. Il progetto è incentrato sulla definizione stessa della riva partendo dagli elementi che compon-

gono il fronte lago. La fase esecutiva è slittata di un decennio (la realizzazione è avvenuta negli anni 2010/2011) e ha comportato un ridimensionamento degli interventi. L’architetto Zuccolo ha rielaborato il progetto in consorzio con lo studio Meyer&Piattini suddividendolo in tre settori: zona porto, lungolago e zona parco degli Angioli. La riqualifica ha finora interessato solo la parte centrale corrispondente a Piazza Motta. «Il progetto mira a conferire dignità allo spazio esistente, senza modificarne l’immagine e la percezione», spiega l’architetto Zuccolo. «La piazza ha mantenuto le sue funzioni diventando però anche un parco a lago. L’eliminazione del marciapiede ha permesso di ristabilire una superficie piana e uniforme. Attraverso un nuovo disegno della pavimentazione suddiviso in tre fasce lineari – il selciato esistente in porfido, lastre di granito regolari e beole di taglio diverso – si distinguono visivamente tre aree: la superficie di limitato transito veicolare, l’area pedonale di camminamento e la fascia più vicina alla riva con elementi di arredo che invitano alla sosta. Il filare di platani è stato valorizzato da una nuova illuminazione, la cui elaborazione è stata affidata a uno studio specializzato. Colore e intensità della luce artificiale cambiano in sintonia con le variazioni

stagionali dell’illuminazione naturale. Uno spazio più ampio è inoltre stato ottenuto davanti al Municipio ripristinando una rampa veicolare più stretta». Attraverso una strutturazione discreta dello spazio, il lungolago di Ascona ha acquisito una nuova identità senza nulla perdere delle sue caratteristiche storiche. I lavori hanno permesso di coordinare anche opere di miglioria alle sottostrutture. L’investimento necessario, pari a circa 2,5 milioni di franchi, dimostra che è possibile riqualificare e valorizzare gli spazi pubblici con spese contenute. Il comparto adiacente (parco degli Angioli) con la relativa zona portuale è attualmente al vaglio delle autorità. I progettisti Rolando Zuccolo, Lukas Meyer e Ira Piattini sottolineano l’importanza di una visione globale del progetto, che nel caso di Ascona si realizza attraverso soluzioni di continuità fra i tre settori e una possibile estensione della nuova illuminazione alle strade perpendicolari alla piazza. Spesso sono i piccoli interventi frammentati, realizzati da altrettanti enti seguendo i rispettivi obiettivi, a deteriorare le aree pubbliche. Una buona organizzazione dello spazio scaturita da una visione d’insieme può invece trasformarle in spazi liberi qualificati, maggiormente godibili e apprezzati.

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Patrizia Rinaldi, Federico il Pazzo (disegni di Federico Appel), Sinnos. Da 11 anni. Sentirsi stranieri si può anche con un passaporto uguale a quello degli altri. Lo scopre a sue spese Angelo, il protagonista di questo romanzo, quando da Verona si trasferisce a Napoli. «La vita va da chi le vuole bene», sostiene ottimisticamente la mamma, ma se stai per entrare in terza media in una nuova scuola di periferia, dove gli altri ragazzi parlano una lingua che non capisci e ti prendono in giro per il tuo accento e perché studi, non è facile mantenere alto il morale. Per Angelo ci saranno, certo, dei nuovi amici, ma ci sarà anche l’antagonismo sprezzante e violento di un trio di bulli. Che forse non si redimeranno, eppure il lieto fine c’è, perché sarà Angelo a crescere e a diventare più sicuro. È molto efficace la scelta di usare la storica varietà regionale della lingua italiana per raccontare una storia di «diversità»: le frontiere linguistiche assumono un forte valore simbolico in questo romanzo, dove gli

inserti in napoletano (tutti comprensibilissimi anche ai lettori più giovani, perché sempre «tradotti» dallo stesso personaggio che li proferisce o dal contesto) aggiungono forza espressiva e mostrano ai ragazzi che l’italiano non è solo quello che si parla dalle loro parti, né quello piatto e sciatto di molti media. Un altro «diverso», nella classe di Angelo, è il ragazzo a cui è dedicato il titolo: lui in realtà si

chiama Francesco, ma si è creato il mito dell’imperatore Federico II, nel cui mondo medievale sembra essersi rinchiuso. Ma anche Francesco, grazie all’amicizia con Angelo, troverà la forza di crescere, e crescere «significa anche comprendere il limite» di questi modelli idealizzati. Un romanzo di formazione nel tessuto specifico di Napoli, che tuttavia, come di consueto nei romanzi della Rinaldi, assume un valore universale. Ronan Badel, Il bradipo dormiglione, Terre di Mezzo. Da 3 anni È un silent book, ossia un libro in cui la storia è raccontata esclusivamente con le illustrazioni. L’adulto che ne condivide la lettura con un bambino è chiamato a un ruolo attivo e prezioso, perché, se da una parte un racconto di sole immagini abbatte le frontiere linguistiche e sollecita la creatività del lettore, dall’altra parte richiede più lavoro di interpretazione narrativa. Ma è un lavoro fondamentale e carico di condivisioni affettive, che andrebbe

fatto con tutti i libri. In questa storia, un bradipo dorme tranquillamente appeso ad un ramo, mentre, poco più sotto, Serpente, Rana e Tucano si fanno una partitina a carte. Improvvisamente la scure del taglialegna abbatte proprio l’albero di Bradipo, che viene caricato su un camion con gli altri tronchi e con il suo ignaro ospite sempre addormentato. Il generoso serpente si lancerà allora al salvataggio

del bradipo, dapprima mimetizzandosi per salire a bordo del camion e poi affrontando mille pericoli: dalle acque impetuose del fiume, ai coccodrilli, alle rapide, Serpente ce la metterà tutta per trarre in salvo l’amico, sempre beatamente addormentato. L’umorismo scaturisce dal contrasto tra la soave imperturbabilità di Bradipo e le situazioni mozzafiato che attraversa, trascinato da uno stanchissimo Serpente; ed è in questo totale affidamento a un amico vero che ti «prende in cura» che risiede un altro valore del libro, tant’è vero che il titolo originale – L’ami paresseux – sottolinea proprio il tema dell’amicizia. Ogni dettaglio è armonicamente appropriato, fino alla penultima pagina, con Bradipo che apre un occhio nell’abbraccio del Tucano, mentre Rana si felicita con Serpente; e fino all’ultima, con la partita a carte che riprende, ma solo tra Rana e Tucano, perché Serpente è crollato dal sonno e appeso a lui, a mo’ di liana, ha ripreso a dormire, manco a dirlo, il suo amico pigrone.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 3 novembre 2014 ¶ N. 45

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Società e Territorio

Anziani più poveri Pensioni Un numero sempre maggiore di anziani deve ricorrere alle prestazioni complementari dell’AVS

per garantirsi il fabbisogno vitale

Fabio Dozio Uno su cinque non ce la fa! È questo il dato rivelato nelle scorse settimane da Pro Senectute: la disparità di reddito e di sostanza tra ricchi e poveri in Svizzera si accentua. Quasi il 20% degli anziani beneficiari di AVS in Ticino ricorre alle prestazioni complementari. In genere siamo abituati a pensare che nel nostro paese gli anziani siano mediamente benestanti. La generazione del baby boom, i nati tra gli anni cinquanta e sessanta, va in pensione a buone condizioni e ha potuto godere di una vita lavorativa relativamente tranquilla rispetto ai giovani di oggi. Dal dopoguerra l’economia svizzera ha vissuto una lunga fase di crescita continua, senza disoccupazione, con un alto tasso d’immigrati che hanno contribuito allo sviluppo del paese. Oggi non è più così. I giovani a volte faticano a trovare posti di lavoro, l’immigrazione può anche rappresentare una concorrenza (sleale), nell’economia globalizzata il profitto ha la supremazia sulle condizioni di lavoro. In questo scenario le fasce più deboli della società sono i giovani e meno giovani disoccupati, le famiglie monoparentali, i working poor, lavoratori precari che guadagnano il minimo vitale.

Secondo Pro Senectute nel 2013 in Svizzera 185mila pensionati non riuscivano a far quadrare il bilancio Ma nel mondo degli anziani, dei pensionati, e quindi fra coloro che hanno superato i 65 anni, non è tutto rose e fiori. E per capire qual è lo stato della terza età, bisogna dare la parola a chi conosce da vicino questa realtà. «La visione dominante del pensionato ricco è unilaterale e non trova riscontro nell’esperienza quotidiana di Pro Senectute», afferma Werner Schärer, direttore di questa organizzazione che dal 1917 si occupa di anziani. Secondo le analisi di Pro Senectute, nel 2013 i pensionati che in Svizzera non riuscivano a far quadrare il bilancio e dovevano quindi far ricorso alle prestazioni complementari erano 185

mila. Negli ultimi cinque anni l’incremento di chi chiede la complementare è continuo e rilevante: circa 5 mila persone all’anno, che vengono definiti «nuovi vecchi poveri». «Ma c’è anche chi non sa che ha diritto ai sussidi – ci dice Gabriele Fattorini, direttore di Pro Senectute Ticino e Moesa – o che non osa chiedere perché si vergogna. Perciò è importante informare su questi temi». In Ticino la situazione è poco confortante, il 19,4% dei pensionati beneficia della rendita complementare. È il cantone con il numero più alto, in termini percentuali, di anziani con la complementare. Negli ultimi 14 anni i costi complessivi a livello nazionale di questi sussidi sono passati da 2,3 a 4,5 miliardi di franchi. Il sistema pensionistico elvetico è uno dei migliori al mondo e si fonda su tre pilastri. Il primo è l’Assicurazione vecchiaia e superstiti (AVS) proposta dai socialisti e approvata dal popolo nel 1947; il secondo è la previdenza professionale, obbligatoria per legge dal 1985; il terzo è il risparmio privato. Teoricamente il sistema è perfetto, ma vi sono innumerevoli casi in cui i pilastri scricchiolano. Se una donna non ha sempre lavorato avrà una AVS minima (si va da 1170 a 2340 franchi al mese); un lavoratore nato nel 1950 può contare su una pensione aziendale che è iniziata solo all’età di 35 anni. E, soprattutto, è indubbio che non tutti i cittadini della ricca Svizzera possiedano sostanza o risparmio privato, vale a dire il terzo pilastro. Il 38% delle donne e il 13% degli uomini che percepiscono una rendita AVS non fruiscono di prestazioni di una cassa pensione né hanno entrate dal terzo pilastro. Questo è il dato più preoccupante, che rivela la fragilità del sistema, anche se con la rete dei contributi statali il disagio economico degli anziani viene alleviato. L’altra faccia della medaglia è data dal numero di milionari. Sempre secondo i dati annunciati da Pro Senectute, nella Confederazione i pensionati milionari sono circa 140 mila. Se la vecchiaia inducesse alla generosità oltre che alla saggezza (se c’è!), si potrebbe immaginare una solidarietà generazionale che renderebbe tutti benestanti… ma il divario tra ricchi e poveri si allarga sempre più. La qualità della vita dell’anziano in Svizzera è buona. Secondo Age Watch

«C’è anche chi non sa di aver diritto ai sussidi o che non osa chiedere perché si vergogna». (Keystone)

Report, che propone un confronto su scala mondiale, la Svizzera è al terzo posto in assoluto per qualità di vita dell’anziano, tenendo conto dei vari aspetti: ambiente, trasporti, relazioni, salute e cure, reddito, ecc. Per quanto riguarda il sistema sanitario siamo al secondo posto, mentre nella classifica dei trasporti, ambiente e sicurezza, al primo. Per ciò che riguarda il reddito ci troviamo invece al 29esimo posto: il 17,6% degli ultrasessantenni ha un’entrata inferiore alla media nazionale dei coetanei. Le statistiche vanno relativizzate ma, tenendo conto dell’alto numero di anziani milionari, indicano che in ambito economico la Svizzera non è fra i primi della classe. I fattori che determinano il disagio economico sono molteplici: precarietà del lavoro, disoccupazione in età matura, separazioni coniugali, malattie, ma anche passi falsi come l’acquisto di un’abitazione approfittando del capitale del secondo pilastro, che poi riduce nettamente la pensione. La rendita complementare, che si

ottiene dimostrando di non raggiungere il minimo vitale, permette al beneficiario di coprire tutte le spese, anche impreviste, e quindi, di sbarcare il lunario. Oltre ai motivi personali che possono indurre l’anziano in uno stato di bisogno, il punto cruciale è dato dall’invecchiamento della società. «Non siamo di fronte a una vera e propria povertà dell’anziano – ci dice Carlo Marazza, direttore dell’Istituto delle assicurazioni sociali del Canton Ticino – ma a un aumento delle spese per le cure dovute all’invecchiamento e alla perdita di autonomia. In queste situazioni i mezzi propri non sono più sufficienti e gli anziani devono ricorrere alla complementare. Questa prestazione diventa sempre più una presa a carico delle cure di lunga durata, un’assicurazione di cura». «Siamo coscienti che siano necessarie modifiche del sistema della previdenza – afferma il direttore di Pro Senectute Fattorini – importante è fare

in modo di non sfavorire chi oggi è già svantaggiato. E, soprattutto, è determinante che a discutere delle misure future vengano coinvolte tutte le parti in causa e coloro che sono attivi sul territorio». La palla passa ora alla politica. Il ministro dell’interno Alain Berset ha proposto una riforma: Previdenza per la vecchiaia 2020. Le donne potrebbero percepire le rendite AVS solo a 65 anni, tutti verrebbero incoraggiati a lavorare anche dopo i 65 anni, si pensa di abbassare l’età in cui i lavoratori cominciano a versare i contributi per il secondo pilastro, il tasso di conversione dei fondi delle casse pensioni potrebbe essere ritoccato verso il basso e l’IVA aumentata per raccogliere fondi. Non c’è dubbio che l’invecchiamento della popolazione sia una delle sfide epocali con cui saremo confrontati. L’aumento dell’aspettativa di vita determina costi enormi che potranno essere sopportati solo grazie alla solidarietà intergenerazionale.

Cyrano de Bergerac ai tempi di internet Appuntamenti online Cercate l’anima gemella sul web ma non avete tempo? Ora c’è Net Dating Assistant,

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Una volta si parlava di romanticismo oggi di profili. (Keystone)

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 3 novembre 2014 ¶ N. 45

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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Giuliano l’Apostata Una delle prerogative che contraddistinguono l’antropologia rispetto alle altre scienze umane è la sua inclinazione a cogliere problemi di ordine generale in quelli che altri approcci disciplinari ritengono aspetti secondari – se non addirittura trascurabili – dell’esperienza umana. In campo storiografico, in particolare, l’esigenza innegabile di cogliere il senso del divenire storico nei grandi flussi attraverso i quali le tendenze dominanti di un’epoca si fanno strada fino a diventare egemoni fa a volte dimenticare il fatto che la «Storia» con la «S» maiuscola è spesso figlia di una costellazione imprevedibile e del tutto accidentale di fatti di per sé minori ed in sé stessi poco significativi. E significativo in tal senso è proprio l’anniversario che cade oggi – 3 novembre 2014 – per la milleseicentocinquantatreesima volta. Il 3 novembre 361, infatti, moriva di febbri a Mopsuestia di Cilicia, nell’odierna Turchia sudorientale, l’Imperatore Costanzio II. Di fede ariana, l’imperatore chiese di essere battezzato sul letto di morte. Il batte-

simo in extremis era pratica comune al tempo: si riteneva infatti che ciò garantisse non solo la remissione dei peccati ai neo-battezzati, ma anche il fatto che – per motivi ovvii – il neofita si sarebbe presentato al tribunale dell’Eterno con una fedina penale immacolata, per così dire. Prima di morire, Costanzio designò il suo successore nella persona del cugino Giuliano. La scelta dovette apparire ad alcuni perlomeno sorprendente. Il caos istituzionale seguito alla morte di Costantino nel 337 era stato accompagnato dalla strage ordinata da Costanzio II di buona parte dei parenti maschi di Costantino. Di questi erano rimasti vivi solo i fratelli di Costanzio e due cugini – Giuliano e il fratellastro di questi Gallo. Con tutta probabilità Giuliano e Gallo avrebbero fatto anch’essi una brutta fine, non fosse stato per la protezione dell’imperatrice Eusebia. Cresciuto in esilio lontano da corte, Giuliano era cresciuto in Cappadocia in ambiente cristiano diventando Lettore, grado conferito a chi avesse una buona conoscenza delle

scritture. Più tardi aveva conosciuto le idee Neoplatoniche teurgiche nelle varianti più esoteriche – una sorta di New Age del tempo. Durante un altro soggiorno di studi ad Atene, Giuliano fu iniziato negli ormai desueti ed agonizzanti Misteri Eleusini di cui più tardi tentò, senza grande successo, di restaurare le antiche glorie. Ma la vita di Stato aveva in serbo per lui altro che non fossero gli amati studi filosofici. Nel 355 Costanzio, che nel frattempo si era in qualche modo fortunoso liberato di entrambi i fratelli, lo elesse Caesar, ovvero suo rappresentante in Gallia. Sperava così di tenerselo lontano in provincia. «Meglio primi in provincia che secondi a Roma»: le parole famose pronunciate da Giulio Cesare in Gallia si rivelarono profetiche anche per Giuliano. Invece di sparire nell’oscurità provinciale e per quanto del tutto analfabeta in materia militare, con una serie di brillanti campagne contro Alemanni e Franchi, Giuliano divenne così popolare presso le sue legioni da essere acclamato da queste Augusto, ovvero imperatore, a

Lutezia (Parigi) nel 360. Sarebbe stata guerra civile non fosse che la morte di Costanzio II l’anno successivo non gli avesse consegnato l’Impero senza colpo ferire. I ritratti di Giuliano ce lo consegnano con la barba degli «imperatori filosofi», i suoi modelli dichiarati Claudio e Marco Aurelio. Fermo sostenitore della «laicità» della carica imperiale («l’imperatore non è un dio, ma un “primus inter pares”») nello spirito di Marco Aurelio, si mise alacremente al lavoro per cercare di salvare l’Impero da quella che vedeva come una china di crisi inaugurata dalle dissennate politiche amministrative di Costantino e di Costanzio. Comandante militare, teosofo, uomo di lettere e riformatore, Giuliano vedeva in una profonda riforma culturale della compagine imperiale l’unica via d’uscita ad un declino che vedeva profeticamente terminare cupo all’orizzonte. Un ritorno alle forme di pensiero filosofico e di pietà religiosa del primo impero era, a suo avviso, l’unico modo per evitarlo. A questo fine, revocò lo status di religio-

ne di Stato al cristianesimo, restaurò i templi pagani e abolì i privilegi e gli stipendi del clero «galileo». La sua non fu una persecuzione attiva dei cristiani, tanto che nel 362 promulgò un editto a favore della libertà religiosa: tutte le religioni erano uguali di fronte allo Stato che avrebbe dovuto tornare a quell’ecletticismo religioso che ne aveva contrassegnato il periodo d’oro. Nella pratica, Giuliano – ormai tacciato del titolo di Apostata, rinnegato, traditore – tentava sottilmente di allontanare i cristiani dalle posizioni chiave dell’amministrazione alle quali li aveva elevati Costantino. Ma tant’è: le sue politiche di lungo periodo non erano da essere. Giuliano l’Apostata morì il 26 giugno del 363 per le conseguenze di una ferita contratta in modo banale durante una battaglia contro i Sassanidi di Persia a Maranga, in Mesopotamia. Aveva solo 31 o 32 anni e tanta voglia di fare. Cosa sarebbe successo se, invece di due, il suo impero fosse durato venti, trenta, quarant’anni? Vero: coi se non si fa la Storia. Ma ci si aiuta a pensarci sopra.

smo, metodi poco ortodossi su cui gli insegnanti spesso chiudono gli occhi, avendo loro stessi condiviso negli anni della formazione il riferimento normativo a quei canoni. Nel mondo della danza il corpo perfetto può costituire un ideale persecutorio cui adulti e adolescenti si sottomettono attraverso un’etica masochistica che considera la strada del successo lastricata di dolore e fatica» (p.169). Non a caso quell’ideale corrisponde alle caratteristiche del corpo anoressico, prodotto di una determinazione ferrea che lo vuole etereo, immateriale, disincarnato, «non materno». «Devo diventare una palla di luce», afferma con enfasi una giovane anoressica in lotta con il destino del suo genere. Ma non è solo questo: vi è, nel danzare, un piacere indescrivibile e, nella bellezza che ne consegue, una realizzazione di sé che solo l’arte può offrire. Anche se Francesca dovesse

interrompere il corso di danza, le rimarrà pur sempre la soddisfazione di aver vissuto una parte della vita in conformità ai suoi desideri e non è poco. Capita spesso, nel corso di molte esistenze, che il sogno si spezzi e un matrimonio splendidamente iniziato finisca in una brutta separazione, che un atleta perda vigore e un artista ispirazione, l’importante è saper andare avanti, ricominciare, risalire. Nel vostro caso, comunque vadano le cose, è essenziale che, come genitori, riusciate a mandare alla figlia che tanto amate un forte messaggio di fiducia e di speranza.

rischio degli equivoci e dei fanatismi. Ecco, per esempio, che dall’opzione vegetariana, legittimata anche sul piano medico, si passa all’assolutismo veganiano: una corrente, che comunque va di moda, in ristoranti frequentati da personaggi vip. Mentre, la notizia è degli ultimi giorni, sul fronte dell’ambientalismo alimentare, si registra una nuova presenza imbarazzante: i «locavori». Un neologismo in italiano, che però nell’originale inglese locavores, risale al 2005. Fu inventato da Jessica Prentice, fautrice del concetto di un cibo strettamente locale: a centimetro zero. Quindi, non più il difendibile impegno per valorizzare i sapori di casa propria ed evitare trasporti troppo lunghi, come auspicano i sostenitori del chilometro zero, ma un’esaperazione improbabile e punitiva. I «locavori», infatti, intendono consumare

unicamente prodotti dell’orto sotto casa o di un’eventuale vicina fattoria. E, allora, niente ananassi, banane, ma anche niente caffè, tè, zucchero, arance, limoni e, via enumerando alimenti che non appartengono alla sfera locale. Un’autolimitazione assurda che, a ben guardare, racchiude contenuti ideologici di stampo nazionalista e razzista. Per non parlare dei risvolti commerciali ed economici, altrettanto controproducenti, di una simile chiusura. Ma i fautori si giustificano e parlano di una nuova «filosofia a favore dei mercati della terra». Ora, proprio la parola filosofia deve insospettire. È diventata multiuso. Dalle zone alte del pensiero, come osserva il linguista Sebastiano Vassalli, è precipitata a quelle di basso profilo. Comparve nel 1985, quando per lanciare un imballaggio, si parlò di «filosofia della buccia». Il nostro SOS è più che legittimo.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Mai sottovalutare i sintomi anoressici Cara Silvia, la storia di nostra figlia Francesca non è facile da raccontare. È nata con un peso sopra la norma ma, dopo lo svezzamento, è diventata una piuma, «farfallina», «libellula» veniva chiamata da chi la osservava svolazzare leggiadra di qui e di là. Tanti complimenti e incoraggiamenti l’hanno convinta a diventare una ballerina classica. Noi avremmo preferito che si dedicasse alla ginnastica artistica ma abbiamo finito per accontentarla iscrivendola a una rinomata Scuola di danza, anche se molto costosa per i nostri redditi. Francesca è stata accettata subito perché rispondeva a tutti i requisiti fisici e psichici per cui ci sembrava di aver fatto una scelta onerosa ma giusta. Però ora, giunta all’età di dodici anni, sta mutando conformazione: i fianchi si arrotondano, il seno si allarga, le cosce aumentano di circonferenza. Tutto normale per l’età

ma lei è una ballerina e il cambiamento si configura come una catastrofe. Decisa a evitarla, sta riducendo la dieta ai limiti della sopravvivenza e si esercita oltre ogni orario nel tentativo di non disperdere sacrifici e fatiche di anni. Le insegnanti tacciono ma noi siamo molto preoccupati. Cosa possiamo fare? Cari genitori, comprendo la vostra preoccupazione, ma non disperate. Lo sviluppo puberale non procede in modo omogeneo. Le varie parti del corpo crescono separatamente e solo verso i diciotto anni si raggiunge l’armonia complessiva. Se le insegnanti non intervengono significa che è troppo presto per decidere il futuro di Francesca. Più urgente mi sembra invece riflettere sui sintomi anoressici. Quelli sì da prendere sul serio e affrontare tempestivamente. Tutte le ragazzi-

ne aspirano alla perfezione estetica proposta dai mass media che, con tecniche particolarmente suggestive, presentano come perfetto il corpo pre-pubere. Sono messaggi pericolosi perché inducono le adolescenti a fissarsi in questa fase evolutiva contrastando la normale evoluzione, anche a costo di compromettere la salute fisica e psichica. Il tentativo di restare «immature» diventa assoluto per le ballerine classiche che si trovano a intraprendere un percorso ad alto rischio di insuccesso. Dei caratteri prescritti al loro corpo, solo il peso può essere volontariamente controllato, ed è appunto sul peso che si concentra l’attenzione delle danzatrici in erba. «Non stupisce – scrive la psicologa Elena Riva ne Il mito della perfezione (Mimesis 2014) – che le future ballerine intervengano sul corpo con comportamenti al limite del masochismo e dell’autolesioni-

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Sos: anche il cibo diventa una filosofia Quanta strada ha fatto, e continua a fare, l’alimentazione, promossa a tema dominante nei media, dove ha conquistato spazio, autorevolezza e seguito, al pari dei grandi avvenimenti dell’attualità. Ne abbiamo sotto gli occhi, ogni giorno, le testimonianze. Pagine, paginate, su quotidiani e riviste importanti, dedicano all’argomento un’attenzione cosiddetta multidisciplinare. Il cibo non è più soltanto questione di alimenti, di ricette, di pentole. Appartiene, ormai, all’ambito sociale, definisce stili di vita, è una presenza culturale. In una parola, è di moda e fa notizia. E di conseguenza, anche chi lo produce, lo prepara, l’inventa, è uscito dalla sfera di un addetto ai lavori in cucina per assumere ben altri connotati. È diventato un protagonista, a volte un divo, persino una gloria nazionale. Insomma, da cuoco, relegato ai fornelli, a chef sugli schermi.

Tutto ciò è andato in fretta. Non sono poi lontani tempi in cui il tema cucina era una cenerentola del giornalismo, confinato fra le rubriche nella pagina della donna dei quotidiani o sui rotocalchi femminili. Si trattava di ricette, che facevano capo alla tradizione regionale. Per quel che ci concerne, arrosti, stufati, brasati, polpettoni, che esigevano cotture lunghe e sorvegliate. Un impegno che spettava a massaie diligenti e parsimoniose, ricompensate dalla buona riuscita di un piatto, gustato in famiglia. Ma nulla di più. Allora, cucinare era un’operazione prevalentemente domestica, senza riscontri esterni. Una svolta si delineò, fra gli anni 60 e 70, quando all’alimentazione furono assegnati nuovi ruoli che coinvolsero l’opinione pubblica. Si cominciò allora a parlare di diete, in senso allargato; non più imposte da una malattia dichiarata ma scelte per motivi

d’ordine estetico, questione di linea, individuale e in pari tempo collettiva. Ciò che modificò radicalmente le abitudini a tavola: meno grassi, meno carni, più verdure, pesce di mare, e la mitica dieta mediterranea. Più magri, più belli e soprattutto più sani: parte da qui l’era del cibo, affrontato in chiave terapeutica e scientifica. In proposito, dovevano scontrarsi tesi di segno opposto sui benefici, o no, di regimi alimentari che privilegiavano carboidrati o lipidi, mentre si diffuse l’uso degli integratori e delle vitamine, oggi in declino. Tappa successiva, nel percorso delle mode alimentari, l’avvento della concezione ecologica del cibo: con cui si puntava sulla genuinità, grazie alle coltivazioni bio, e alla rivalutazione dei prodotti nazionali, regionali, locali. A questo punto, il cibo assumeva anche una connotazione ideologica, esposta, come sempre succede, al


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 3 novembre 2014 ¶ N. 45

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Attualità Migros

M Agiamo insieme Riconoscimenti Migros Ticino riceverà il 10 novembre a Villa Negroni

il premio per la propria attività di reinserimento professionale

Barbara Manzoni «È corretto e doveroso riconoscere anche pubblicamente quelle aziende che si sono distinte particolarmente nella reintegrazione professionale di nostri assicurati tramite l’assunzione o il mantenimento del posto di lavoro». Spiega così l’avvocato Monica Maestri, capoufficio AI, l’idea che sta alla base di Agiamo Insieme. L’evento creato tre anni fa in collaborazione con la Camera di Commercio Industria e Artigianato del Canton Ticino (Cc-Ti) è nato proprio con questa filosofia perché «una reintegrazione riuscita è un momento da festeggiare insieme sia per chi ha trovato una soluzione professionale dopo un danno alla salute, sia per quei datori di lavoro che, tramite le misure AI, hanno potuto trovare validi collaboratori». «Non solo – aggiunge Gianluca Pagani, collaboratore di direzione della Camera di Commercio – Agiamo Insieme è l’occasione che abbiamo voluto creare per dare visibilità a esperienze che portano un valore aggiunto alle aziende, così da attirare l’attenzione di altri datori di lavoro. Dal nostro punto di vista in termini umani l’integrazione o la reintegrazione di un dipendente che ha sofferto o soffre di un danno alla salute porta a un arricchimento all’interno dei rapporti aziendali ed è un beneficio per tutti». Molte le esperienze di aziende ticinesi che nel corso degli anni si sono impegnate a favore dell’integrazione professionale, ogni anno tre sono prescelte da Agiamo

Insieme e quest’anno il riconoscimento sarà assegnato, il prossimo 10 novembre, anche alla Cooperativa Migros Ticino che da 25 anni collabora con la Fondazione Diamante, di cui alla sede di S. Antonino nel settore della logistica sono impiegati una decina di utenti.

Quanti assicurati sono alla ricerca di un’occupazione e quanti l’hanno trovata nel corso del 2013?

Nel corso del 2013, è stato fornito il sostegno per trovare un posto di lavoro o per il mantenimento al posto di lavoro a 1523 persone. Per 991 di loro l’intervento è andato a buon fine.

Monica Maestri, quale atteggiamento potete rilevare tra i datori di lavoro nei confronti della reintegrazione e dell’integrazione professionale?

Su quali aiuti può contare il datore di lavoro che volesse reintegrare un dipendente dopo un incidente o una malattia o che volesse assumere degli assicurati?

Sulla base dei cambiamenti avvenuti con la 5a revisione dell’AI, sono stati fatti grandi passi verso la reintegrazione di persone che hanno depositato una domanda ufficiale AI dopo infortunio o malattia. Per questo motivo, mi piace sottolineare come l’AI sta sempre più diventando un’assicurazione per la reintegrazione, più che per la rendita. E di questo se ne accorgono sia le assicurazioni sociali e private (disoccupazione, infortunio, militare e perdita di guadagno principalmente), sia le associazioni di settore e sia gli stessi datori di lavoro. Per questi ultimi, la situazione attuale parla di una decisa e ottima collaborazione con i consulenti dell’ufficio AI. Il contatto tuttavia può e deve ancora migliorare anche perché è fondamentale che tutti i datori di lavoro siano informati sulle opportunità di una collaborazione in vista di una reintegrazione efficace e duratura. E questo a tutto vantaggio del datore di lavoro, del dipendente come anche di tutto il sistema sociale.

È soprattutto grazie all’introduzione del rilevamento e l’intervento tempestivo che l’AI ha saputo diventare un partner affidabile e riconosciuto dal mondo del lavoro. L’AI, anche grazie a questi due nuovi strumenti, dispone infatti di mezzi flessibili e concreti che sanno evitare l’uscita dal mondo del lavoro ad assicurati che hanno subito un infortunio o una malattia che si presume di lunga durata. Il rilevamento tempestivo, in particolare, ha ridotto la distanza temporale fra l’inizio dell’inabilità lavorativa e un possibile intervento dell’AI grazie alla possibilità offerta a vari attori (medici curanti, familiari, datori di lavoro, assicurazioni coinvolte, ecc.) di poter segnalare persone che hanno accumulato ripetute assenze o che sono incapaci al lavoro da almeno 30 giorni. L’intervento tempestivo prevede la possibilità per l’assicurato in malattia e/o infortunio di essere accompagnato verso la reintegrazione nel mondo del lavoro da un esperto. Insieme al datore di lavoro si valutano

Monica Maestri, Capoufficio AI. (Ti-Press)

le possibilità per facilitare il rientro al lavoro attraverso adeguamenti del posto di lavoro, corsi di formazione specifici e altro ancora. Inoltre, qualora la persona in malattia o in infortunio non potesse più svolgere la sua professione e il datore di lavoro decidesse di mantenere le competenze del proprio dipendente in una nuova funzione (eventualmente anche presso un altro datore di lavoro), vi è possibilità che l’AI offra al dipendente una formazione breve o di lunga durata con versamento di indennità giornaliere direttamente a quest’ultimo. In questo caso, i costi per il datore di lavoro sarebbero unicamente legati alla copertura assicurativa.

rare nella propria professione – hanno bisogno di un periodo di introduzione. Inoltre qualora il datore di lavoro avesse l’interesse a testare le competenze e le capacità di un assicurato, l’AI prevede il lavoro a titolo di prova della durata massima di 180 giorni, durante i quali non vi è alcun obbligo contrattuale per l’azienda e quindi alcun costo. Tutte le misure citate sono molto flessibili e combinabili tra loro, in modo tale da avvantaggiare il reinserimento delle persone da una parte e dall’altra favorire le aziende nella selezione di dipendenti che possano vantare competenze sufficienti per il posto di lavoro specifico.

Esistono altre misure?

Dove e quando

Sì, ci sono gli incentivi all’assunzione che vengono offerti per favorire la firma di un contratto di lavoro a persone che non possono più svolgere il loro lavoro abituale e che – non potendo più lavo-

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Ambiente e Benessere Che fine faranno gli insetti? Quando si parla di animali in via di estinzione si tende sempre a parlare di quelli che piacciono

Nel giardino delle mele Ritrovare la strada ma anche il piacere di una passeggiata nella natura tra labirinti e dedali sulle colline zurighesi, sopra il lago di Pfäffikon

Mezzo secolo di successi Mario Matasci festeggia i 50 anni del suo Merlot Selezione d’Ottobre

In volo tra i grappoli Un recente studio ha dimostrato la ricchezza dell’avifauna tra i filari delle vigne

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Sperimentare i farmaci sull’uomo Etica medica La verifica clinica,

Sergio Sciancalepore Come si può sapere se un nuovo farmaco è migliore, peggiore o ha la stessa efficacia di un farmaco già in uso da tempo? Nella sperimentazione clinica – cioè quando si sperimenta un farmaco sull’uomo dopo averlo fatto in laboratorio, con gli animali – si ricorre al metodo del confronto che, in breve, funziona così. Si considera un determinato numero di persone con una certa malattia, volontari che accettano di partecipare alla sperimentazione e che hanno espresso, a tale proposito, un consenso informato, consapevole e scritto. Si suddividono i partecipanti in due gruppi: a uno si somministra il nuovo farmaco, all’altro quello già in uso e considerato (fino a quel momento) come il migliore contro quella malattia. Trascorso un certo tempo, per esempio un anno, si valuta – usando anche metodi matematici e statistici – come stanno i pazienti dei due gruppi: se quelli che hanno preso il nuovo farmaco stanno meglio o sono guariti, e quelli invece che hanno preso il farmaco già in uso non stanno altrettanto bene o non sono guariti, allora si può affermare – grazie a questo confronto – che il nuovo farmaco è migliore di quello «vecchio». Ovviamente, la sperimentazione può anche dare un risultato diverso: il nuovo farmaco può non essere migliore oppure è altrettanto efficace, ma determina effetti indesiderati più importanti del farmaco già utilizzato. Questo metodo di valutazione dei farmaci è utilizzato da oltre cinquant’anni in medicina sperimentale ed è il più affidabile. Nel linguaggio medico-scientifico, il metodo prende il nome di Randomized Controlled Trial (in sigla, RCT), cioè «esperimento controllato e randomizzato». Il termine esperimento è chiaro a tutti: «controllato», significa che il gruppo di persone che prende il farmaco già in

uso serve da confronto (controllo) rispetto all’altro gruppo. E «randomizzato»? Random, in inglese, significa «a caso» e indica che la decisione su chi prenderà il nuovo farmaco o quello già in uso non spetta al medico, ma al caso: è, infatti, un sorteggio (effettuato con metodi matematici che garantiscono la casualità) che decide a quale gruppo ciascuno dei partecipanti alla sperimentazione sarà assegnato. Perché la casualità, la «randomizzazione» è così importante, tanto che gli esperimenti che non la prevedono sono considerati poco attendibili? Il motivo è che per sapere se un farmaco è efficace, bisogna essere sicuri che l’effetto osservato nel malato dipenda solo dall’azione del farmaco: in altri termini, se il paziente guarisce o sta meglio, il merito è solo del farmaco. Ecco un esempio per capire meglio l’importanza della randomizzazione: tutti sappiamo che l’effetto di un farmaco può variare da individuo a individuo, per vari motivi, per esempio di carattere genetico. Se per far passare il mal di testa – poniamo – a sei persone su dieci basta una compressa di analgesico, per le altre due ci vogliono due o tre compresse, ad altre due ne basterà mezza. Supponiamo di sperimentare un nuovo analgesico: non potendo (per ovvi motivi) farlo su tutta la popolazione svizzera adulta, si prenderà un certo numero di volontari adulti (un campione, come si dice) che abbia il più possibile le stesse caratteristiche della popolazione svizzera generale, per poterla rappresentare. I due gruppi da confrontare (gruppo con analgesico nuovo, gruppo con analgesico già in uso) dovranno avere le caratteristiche ricordate prima, ovvero in ciascuno gruppo ci dovrà essere un sessanta per cento che reagisce «normalmente», un venti per cento che ha bisogno di dosi più elevate perché reagisce poco e un altro venti per cento che è particolarmente sensi-

Keystone

fondamentale per provare l’efficacia (o meno) di un medicamento, non è esente da critiche – Prima parte

bile agli analgesici. Naturalmente, non sapendo in anticipo la sensibilità di ciascuno dei partecipanti all’azione di un farmaco, si lascia decidere al caso se una persona prenderà l’analgesico nuovo o quello già in uso. Con la randomizzazione è possibile con un certo grado di sicurezza – certezze assolute in medicina, come del resto in ogni attività umana, non ce ne sono – ritenere che quei due gruppi di persone ben rappresentino la popolazione generale e che l’effetto del nuovo farmaco (se si manifesta) è dovuto solo alla sua azione e non ad altri motivi che con il farmaco non c’entrano affatto. Con la randomizzazione, per esempio, posso evitare che nel gruppo trattato col nuovo farmaco siano più numerosi – rispetto alla media della popolazione – quelli che sono molto sensibili agli analgesici: senza randomizzazione, il nuovo analgesico

si dimostrerebbe molto più efficace di quello vecchio, ma ciò non dipenderebbe dall’azione del nuovo farmaco ma dal fatto che nel gruppo «farmaco nuovo» ci sono più persone sensibili agli analgesici in generale. Negli RCT, inoltre si fa uso anche del sistema del cosiddetto «cieco», ovvero il paziente non sa a quale gruppo sarà assegnato, cioè se assumerà il nuovo farmaco o quello già in uso. Questo accorgimento ha lo scopo di eliminare l’effetto «suggestione» da parte dei pazienti: se chi prende il nuovo farmaco (potenzialmente migliore) lo sa, è possibile che solo o in gran parte per questo motivo, si senta meglio. È un fenomeno ben conosciuto in medicina, ed è noto come «effetto placebo del farmaco». Esso deve essere evitato perché può interferire con la valutazione del reale effetto di un farmaco. Per lo stesso motivo, i «ciechi» posso-

no essere due (metodo del «doppio cieco»), i pazienti e i medici sperimentatori: se questi sapessero quale dei due farmaci assumono i pazienti, potrebbero compiere (involontariamente) errori di valutazione circa l’effetto dei farmaci. Le RCT, come detto, sono il miglior metodo per valutare l’efficacia di una nuova terapia, ma non sono tuttavia esenti da critiche, come quelle espresse recentemente da una prestigiosa Fondazione scientifica italiana, la Fondazione Umberto Veronesi, che solleva dubbi circa il rispetto dei «principi di libertà e dei diritti primari» dei cittadini che volontariamente accettano di partecipare a queste sperimentazioni. Vedremo, in un prossimo articolo, quali sono i dubbi etici sollevati in proposito e quali sono state le reazioni a questa presa di posizione.


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Ambiente e Benessere

La sindrome di Noè Massimo Negrotti C’è una parola che, come tante altre nel linguaggio giornalistico e, in senso lato, politico contemporaneo, evoca immediatamente qualcosa di triste e persino di pericoloso: l’estinzione. Riferita a questa o quella specie animale (o vegetale), l’estinzione indica la sua progressiva scomparsa, senza speranza. Il processo di estinzione è, di per sé, naturale ma, si sostiene, esso è divenuto più rapido e massiccio a causa delle attività umane industriali e di manipolazione del territorio con la conseguenza di ridurre la biodiversità. Questa, a sua volta, è decisiva per l’equilibrio ecologico poiché opera come generatore di soluzioni biologiche di fronte a problemi di variazione più o meno improvvisa delle condizioni ambientali fisiche, chimiche ecc. Associazioni, fondazioni e gruppi vari in difesa delle specie in estinzione sono sorti ovunque nella seconda metà del secolo scorso e, come riferimento generale, si possono indicare come gruppi animalisti. La loro finalità ultima è, appunto, quella di premere sul potere politico per ottenere norme e interventi di vario ordine per salvaguardare questa o quella specie minacciata. Il caso dell’orsa Daniza, che ha occupato le cronache internazionali nei mesi scorsi, ha peraltro portato alla luce attitudini e aspetti umani che, con la difesa degli animali, hanno poco a che fare. Cortei, scontri con le forze dell’ordine, occupazione di uffici pubblici apparivano, per chi non fosse

al corrente delle ragioni di tutto questo, come episodi tipici posti in atto da gruppi rivoluzionari o di contestazione, talora persino violenta, nonché segnali di un evidente desiderio di protagonismo, spesso saccente e intollerante. Inutile dire, poi, che in Internet sono stati versati fiumi di bit per denunciare la «grettezza» delle autorità locali e del «sistema» in quanto tale, insensibile nei confronti di una specie in estinzione (anzi, in Alto Adige già estinta e, con l’introduzione di Daniza, in via di possibile ripopolamento). È chiaro che, al di là della simpatia che un’orsa madre di due cuccioli può indurre, anche se rea di aver ferito un uomo e ucciso vari ovini, le manifestazioni sopra ricordate non sono state di grande aiuto per promuovere ulteriori studi e serie discussioni sul tema delle estinzioni limitandosi a generare effimere correnti di emozioni collettive. In particolare, non hanno certo aiutato a porre quello che sembra essere il problema centrale: se è vero che le estinzioni si stanno intensificando con diminuzione progressiva della biodiversità, che cosa fare? La quantità di specie viventi è incerta e le valutazioni oscillano attorno ai 3-4 milioni (ma c’è chi parla di decine di milioni) e la sua modificazione nel tempo è continua, con o senza la complicità umana. Pare, inoltre, che circa l’86 per cento delle specie sia ancora da classificare. Una parte – largamente incognita – di estinzioni è sicuramente da considerarsi del tutto naturale mentre un’altra, – anch’essa incognita – ha certamente

HK Arun

Biodiversità Chi salvare? E per quale motivo? L’insetto o la tigre?

a che vedere con modificazioni ambientali prodotte dall’uomo o anche da altre specie. Tuttavia è impossibile affermare con sicurezza quali specie e in quale quantità (tigri o orsi, quaglie o lupi?) siano quelli «giusti» per un eventuale sforzo, immane e globale, di ripopolamento poiché, da un calcolo, ammesso

che sia plausibile, non perfetto finiremmo per assegnare più «forza» evolutiva a una specie rispetto all’altra dando luogo a un insieme di specie, e di interazioni fra loro, del tutto imprevedibile. E, poi, tale ripopolamento a quale stadio storico-evolutivo dovrebbe fare riferimento? Quello di 100 o quello di 1000 anni or sono? Non sembra razionale,

infatti, immaginare una sorta di epoca felice alla quale cercare di tornare anche perché, nel frattempo, le condizioni globali dei contesti in cui vivono gli animali (e i vegetali) sono radicalmente e irreversibilmente mutate. Infine, c’è una questione che potremmo definire di metodo o forse come la sindrome di Noè. Nel resoconto biblico, Noé mette in salvo molte specie animali ma, inesorabilmente, egli pone attenzione solo alle specie, per così dire, a misura d’uomo, cioè osservabili da un essere umano: quadrupedi e uccelli, per esempio. Tuttavia, da almeno due secoli, noi abbiamo individuato migliaia di specie di dimensioni minuscole e di altre dette appunto microscopiche e sappiamo molte cose sull’utilità di alcune, o la dannosità di altre, ma in un equilibrio d’insieme estremamente complesso e, come detto, dinamico. Salvare le specie osservabili, grandi e visibili, magari graziose e alle quali guardiamo con affetto, non ha alcun senso scientifico e, anzi, è sicuramente altamente rischioso perché esse costituiscono solo una piccola parte dell’insieme biologico che vive sulla Terra. Come in altri casi, insomma, il più grave pericolo che la specie umana potrebbe correre non è tanto quello dell’induzione di mutamenti biologici inopportuni (contro i quali è comunque necessario agire, laddove vi siano certezze definitive) ma quello derivante dalla corsa all’iper-razionalità sulla cui base si vorrebbe sistemare il mondo naturale nonostante noi si sia ben lungi dal conoscerlo a sufficienza. Annuncio pubblicitario renault.ch

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Ambiente e Benessere

Perdersi e ritrovarsi tra le mele Biodiversità e turismo Un labirinto e un dedalo di meli: nel canton Zurigo gli alberi diventano svago e ispirazione La fattoria Juckerhof (www.juckerfarm.ch), con il suo Giardino delle mele immerso nel verde e circondato da frutteti, prati, campi, vigneti, boschi e colline, è divenuto un luogo adatto per una gita e nel fine settimana i visitatori sono molti, soprattutto in autunno, quando anche le zucche sono mature. «Dal 2000 abbiamo iniziato a produrre grandi quantità e diverse varietà di questo ortaggio; l’iniziativa ha avuto un grande successo e tanta gente oggi viene per la stagione delle zucche sia il Giardino delle mele. Poi si ferma per mangiare, giocare, rilassarsi e anche visitare l’azienda», conclude Valérie Sauter, alla fine del nostro viaggio in questo suggestivo labirinto.

Elia Stampanoni Quasi seimila alberi di mele, oltre due chilometri di vie e molte sorprese. Questi alcuni numeri del Giardino delle mele (ÖpfelGarte), una struttura inaugurata nel 2011 a Seegräben, paesello di 333 ettari e 1300 abitanti sulle colline zurighesi, sopra il lago di Pfäffikon. Non si tratta di un giardino qualunque: i meli sono piantati a pochi centimetri di distanza l’uno dall’altro (circa 30-40) e secondo un criterio ben preciso, formando così un labirinto o un dedalo di sentieri. «L’idea – ci spiega Valérie Sauter, responsabile comunicazione e marketing – è nata dalla necessità di proporre una nuova formula di svago, di avvicinare la gente al frutteto e nel contempo migliorarne la resa». Gli alberi, innestati su portainnesti deboli, crescono molto poco (circa due metri di altezza), formando una struttura a colonna, con un tronco e pochi rametti laterali. Si sviluppano rapidamente e dopo un paio di anni creano un filare, una sorta di siepe, ideale per dare origine a vie, strade e quindi labirinti. Le varietà scelte dalla fattoria Juckerhof sono Rondo, Red Springs e Goldlane, tre tipi di mele con una maturazione scaglionata, in modo che i visitatori, da settembre a novembre, possano anche raccogliere e mangiare un frutto direttamente dall’albero: «Esatto, lo scopo del giardino è proprio quello di avvicinare la gente alla produzione – ci conferma la nostra guida –, permettendo loro anche di assaporare una mela direttamente sul posto. Lungo i vari percorsi proponiamo pure attività didattiche, adatte sia ai bambini sia agli adulti». Il Giardino delle mele è formato da tre distinti labirinti o dedali (vedi l’ultimo paragrafo): il primo, chiamato SaftGarten (giardino del succo) è costituito da 1550 alberi che formano oltre 500

Labirinto o dedalo?

I labirinti di mele visti dall’alto. (Jucker Farm)

metri di vie e percorsi, dove ci si può divertire e perdersi. Costruito secondo il modello del labirinto di Hampton Court, un palazzo reale di Londra, è arricchito da alcune tavole informative poste all’interno del intrico di vie. Si possono leggere delle brevi spiegazioni sulla frutta, sulle varietà, sull’aceto o sulla produzione di succo. Nel periodo giusto (settembre-ottobre) e secondo l’affluenza o la richiesta, la torchiatura delle mele avviene sul posto e la gente può assistere all’intero processo prima di degustare un succo a chilometro zero. Oltre ai tre giardini, che possono produrre 100 tonnellate di frutti, ci sono anche i quelli raccolti sul resto dell’azienda che conta in totale circa 20 ettari (oltre alle mele anche prugne, ciliegie e bacche). Il secondo appezzamento è invece

un labirinto meditativo: seguendo il percorso delimitato dai meli, si prosegue a spirale verso il centro e, dopo 500 metri di camminata, che si consiglia di effettuare a piedi nudi sulla soffice erba verde, si giunge presso un albero ad alto fusto. «È l’albero dei desideri» spiega Valérie Sauter. «Lungo il tragitto, le persone dovrebbero cercare di trovare pace e serenità e per questo troviamo sei frasi meditative dell’austriaco Gernot Candolini, un esperto di labirinti e di meditazione». Prima di entrare nella spirale si può anche apprendere la storia, il significato e l’importanza avuta dai labirinti nel passato, dal classico dell’antica Grecia a quello adottato nell’impero romano. La terza parte del Giardino è invece il Wundergarten (giardino delle meraviglie). Si tratta di un dedalo formato

da quasi 3000 piante che creano percorsi di oltre un chilometro. I viali sono arricchiti da un gioco adatto ai bambini, i quali raccogliendo gli Stempel (timbri) possono vincere un premio. Ogni anno nel giardino delle meraviglie viene inoltre proposto un tema d’approfondimento, sempre inerente il mondo della frutticoltura. Per il 2014 è stata presentata la fauna che ruota attorno a un albero di mele e nel groviglio troviamo una dozzina di pannelli didattici, dove sono presentati animali e insetti che vivono nell’habitat frutteto (ndr: a pagina 27 si parla dell’avifauna dei vigneti). Con simpatici disegni e semplici testi (in tedesco) si scoprono alcune peculiarità delle api, delle coccinelle, dei ricci, di alcuni uccelli, dei ragnetti e di altri insetti utili, ma anche di alcuni dannosi, all’albero delle mele.

Anticamente il labirinto era costituito per lo più da un unico percorso che conduceva inesorabilmente al suo centro. Oggi è invece anche sinonimo di tracciato multi-viario, pure definito dedalo. Il termine è nato dalla figura di Dedalo, il leggendario costruttore del labirinto di Creta per conto del re Minosse. Anche nella lingua tedesca si riesce a fare una distinzione: per definire un labirinto dove non ci sono vie da scegliere, ma solamente un percorso da seguire, più o meno complicato, si utilizza la parola Labyrinth. Per designare un percorso con vie alternative, in poche parole un dedalo dove si può anche sbagliare strada e ci si può perdere, si utilizza invece la parola Irrgarten (da Irren che significa sbagliare). Il Giardino delle Mele è aperto da maggio a inizio novembre. Nei giorni festivi è consigliabile raggiungere Seegräben in bicicletta o a piedi (20 minuti da Aathal), oppure sfruttando il servizio di trasporto dalla stazione ferroviaria di Aathal, organizzato in caso di necessità dalla fattoria Juckerhof per evitare un afflusso eccessivo di auto (parcheggi limitati).

Pergamene fiorite Arte e natura Pitture floreali dalle collezioni medicee e dai giardini segreti di Firenze

Blanche Greco Succede ancora, camminando per il centro di Firenze, su quei marciapiedi stretti come lingue di gatto, inadatti alla conversazione, di venire avvolti da profumi di fiori, dolci e inebrianti, eppure intorno non ci sono che palazzi di pietra grandi come fortezze. Sono i «paradisi», come venivano chiamati i giardini delle dimore patrizie nel 400, che in alcuni casi sono ancora lì, dietro ad alte mura sovrastate da enormi trionfi di fiori in terracotta. All’epoca ricchi mercanti, nobili e banchieri, radevano al suolo interi rioni fatiscenti per costruire case adatte al loro rango, che si aprivano da un lato sulla strada e dall’altro, su un giardino nascosto agli occhi altrui, creato con impegno e sfarzo di piante e fiori esotici. Fu una novità che diventò presto una moda e una dimostrazione di influenza e di potere. Il «paradiso» dei Gaddi, il cui palazzo a mensole sorge ancora in Via dell’Amorino (vicino alle Cappelle Medicee) è ormai sparito, ma la strada che lo costeggiava si chiama ancora Via del Melarancio in omaggio alle sue piante odorose. La «Villa del Paradiso» degli Alberti non c’è più, così come il giardino, che si favoleggia fosse ricolmo di fiori e piante rare oltre che di opere d’arte, e di cui resta una magnifica fontana, enorme, visibile solo in alcuni periodi dell’anno. Nel 400-500, ovvero negli anni del

Rinascimento, in nome di una moda diventata ben presto una passione e un affare economico (che s’impossessò di Firenze come di molte altre corti europee), si prese ad importare più varietà di piante possibili, rare ed esotiche, belle, e soprattutto strane, per creare i cosiddetti giardini «ludici», o «estetici». Cosimo I de’ Medici aveva una passione sfrenata per «il meraviglioso» e per le piante più stravaganti. Ben presto fu una vera e propria gara generale, come ci racconta

anche l’insolita mostra: Pergamene Fiorite, pitture floreali dalle collezioni medicee, aperta sino al 14 dicembre nella Villa Medicea di Poggio a Caiano (vicino a Firenze). Nel 1600, infatti, i fiori non popolano più solo i giardini, ma sono i soggetti di un’arte squisita: i «quadretti di miniatura». Erano questi, delle pergamene finemente dipinte, con quella pittura minuziosa che si usava tradizionalmente per ornare i manoscrit-

Luisa Maria Vitelli (suor Teresa Berenice) (Firenze, 16871738) . Uccellino con anemone, gelsomino, pesche e una farfalla. Tempera su pergamena. Firenze, Villa medicea di Poggio Imperiale.

ti, e che raffiguravano, con precisione scientifica, superbi mazzi di fiori, o delicati bouquet, alle volte accompagnati da frutti, o da uccellini pronti a spiccare il volo. Oggetti di arredo, ma anche di collezione, le «Pergamene Fiorite» sono state ritrovate in grande numero, infatti pare che solo i Medici ne possedessero più di duecento poste a rivestire i muri delle loro residenze e che, sino ad oggi, sono state conservate nelle diverse collezioni dei musei fiorentini, mai esposte perché troppo delicate. Adesso, ventisei di queste fanno parte della mostra, restaurate e studiate, sia per quanto riguarda gli artisti che le crearono tra il 600 e il 700; sia sotto il profilo scientifico per individuare le varie specie botaniche e le loro stravaganti ibridazioni; ma anche sotto l’aspetto simbolico che legava l’artista, o il committente a determinati fiori, come spiega il Dottor Paolo Luzzi, (uno dei curatori dell’Orto Botanico di Firenze) nel bel catalogo edito da Sillabe. Così sono molti gli anemoni raffigurati nelle «Pergamene fiorite», ma più grandi del normale, «doppi e stradoppi», due o tre fiori sullo stesso stelo, frutto di ibridazioni all’epoca molto in voga e che creavano piante sorprendenti e mostruose. Non mancano neppure i tulipani, quelli bianchi e rossi, denominati oggi genericamente Tulipa pergesneriana, mentre all’epoca le loro infinite screziature, attentamente contate, erano altrettante pregevoli qualità che le suddividevano in molte specie

diverse. Negli anni trenta del Seicento, la speculazione sui bulbi di tulipano raggiunse cifre molto elevate, tanto che le future spose alle volte portavano in dote, un solo, pregiato bulbo, chiamato appunto: mariage de ma fille. In Toscana oltre ai bulbi di tulipano diventò particolarmente prezioso il Jasminum Sambac detto «del Granduca di Toscana». Arrivò per sbaglio, in una partita di Gelsomini Officinali provenienti dall’India, da Goa, e fu messo a dimora nel giardino della Villa Medicea di Castello insieme agli altri. Il Jasminum Sambac si coprì di fiori più grossi e più spessi degli altri, tanto che si pensò fosse una pianta sconosciuta, perché mai si erano visti quei fiori, simili a piccole rose bianche e profumatissimi. Così fu subito considerato il «diamante» dei gelsomini e, i nobili, fecero a gara per portare un fiore del «gelsomino del Granduca» appuntato sull’abito. Se, alla fine del 400, Firenze contava già più di cento giardini, alla metà del 1500, per volere di Cosimo I, venne creato anche il Giardino dei Semplici, l’Orto Botanico (uno dei più antichi d’Europa), e poi nacque il grandioso Giardino di Boboli, parco affidato alla creatività di geniali artisti e architetti, modello per i grandi parchi europei come Versailles, e anche per quello altrettanto artistico e affascinante della villa di Pratolino, oggi villa Demidoff, appena fuori città. Tutti luoghi restaurati e attualmente visitabili.


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Ambiente e Benessere

Dal sushi al carpaccio di pesce L’onda d’urto di sushi e sashimi continua a dilagare. Praticamente tutti i ristoranti di pesce del mondo (salvo poche eccezioni tutelate dal WWF) propongono pesce crudo. Perché è di moda, perché soprattutto il sushi ha un food cost (il rapporto fra il costo della materia prima e il prezzo al quale il piatto può essere venduto) straordinario e per tanti altri motivi. Uno di quelli principali, che ben pochi patron dei ristoranti ammetteranno mai, è che il pesce crudo deve essere sì freschissimo ma va benissimo anche se allevato. Al contrario, se viene consumato dopo una cottura, potrà diventare facilmente meraviglioso solo quello pescato in mare – e a patto che chi cucina sia abbastanza bravo – mentre a rendere meraviglioso il pesce allevato può essere solo un cuoco semidio…

Se al ristorante si vuole ordinare pesce crudo bisognerebbe accertarsi che sia scongelato: altrimenti meglio cotto La pesca esiste da sempre, da prima della pastorizia e dell’agricoltura. Il pesce veniva pescato e mangiato in riva ai mari, laghi e fiumi, mentre nel resto dei paesi si trovavano solo gli stagni, con l’onnipresente carpa. Si conservava però male e degradava così rapidamente, da diventare pericolosa. Per prudenza veniva quindi cotta, anche a lungo, allo scopo di sanificarla più che per trasformarla. E quindi il pesce crudo è restato per secoli appannaggio solo dei pescatori in barca e, appena sbarcato, dei marinai. Dovunque nel mondo. La svolta avviene con un’invenzione epocale: i vagoni ferroviari refrigerati – ma siamo oramai dopo la Prima guerra mondiale. Il pesce appena pescato può essere mandato anche lontano dalla costa senza degradare. I primi a sfruttare l’opportunità sono i giapponesi che «in-

ventano» sushi e sashimi. Negli anni Sessanta del secolo scorso appaiono in Occidente i primi ristoranti giapponesi, che propongono il pesce crudo. Poi il diluvio. E in tanti cominciarono a studiare anche delle proposte di pesce rispettose della propria tradizione ma diliscato, crudo e pronto per essere mangiato. Nella cucina mediterranea, fu rapido il passaggio da un pre-esistente piatto, ovvero dal carpaccio inventato all’Harry’s Bar di Venezia negli anni Cinquanta del XX° secolo (a base di carne cruda condita con una salsina) al pesce crudo. Ha sempre fatto poca differenza la specie: vanno bene tutte le tipologie, il pesce bianco ma anche quello azzurro (qualcuno ha diffuso la credenza che il pesce azzurro non vada mangiato crudo, ma è una falsa convinzione) e poi i crostacei. Il tutto sempre condito, ma poco, con olio profumato, sale, magari usando uno dei super sali disponibili e poco più. Oggi il carpaccio di pesce lo propongono in tutto il mondo, sempre chiamandolo carpaccio. Poi c’era la tartara, anche se era una proposta del tutto francese, a base di dadini di carne riccamente conditi. Non si sa se il primo a condire in maniera comunque più lieve dei dadini di pesce sia stato un francese o un italiano, anche se questa seconda opzione è più probabile. Comunque è avvenuto, è piaciuto e anche in questo caso ha avuto un successo planetario. Ma non finisce qui. Ci sarebbero da elencare anche tante altre proposte nuove e anche di fusion Europa – Asia Orientale. Qualche problema? No, nessuno, anzi uno: la sanificazione, per combattere un subdolo vermetto, l’anisakis, che muore solo a contatto con molto caldo o molto freddo. Quindi il pesce, per poter essere mangiato crudo, deve essere prima congelato e poi decongelato. Per questo sarà importante, quando ordiniamo pesce crudo in un ristorante, verificare che non sia… fresco, ma decongelato. Se dicono di sì, bene. Se nicchiano con la risposta, vedete voi, ma sarebbe meglio ordinare un pesce cotto…

CSF (come si fa)

Sakurai Midori

Allan Bay

Schefferbird

Gastronomia Un paio di consigli fondamentali per gustarsi la crudezza del nostro pescato

Le polpette, da sempre in Europa, vengono o fritte (mi raccomando, non in un olio saporito come quello di oliva, soprattutto l’extravergine di oliva, non nel burro che ha un punto di fumo – che è la temperatura alla quale un grasso incomincia a degradare – troppo basso ma in olio di semi di arachide o di mais o burro chiarificato, tutti praticamente insapori, che rispettano quindi l’ingrediente che viene fritto

e che hanno un punto di fumo altissimo) o stufate (vanno benissimo col pomodoro, vanno altrettanto bene con qualsiasi verdura stufata e parzialmente frullata). Peraltro in Oriente vengono per lo più cotte a vapore. Vediamo come si fanno le polpette di pesce all’orientale, in questo caso arricchite con una salsa al limone che sostituisce meglio lo spicchio di limone da spremere sopra. Le polpettine: ingredienti per 4 persone. Prendete 800 g di pesce bianco (di mare o di acqua dolce) già tagliato a filetti e private i filetti di pesce dalle lische, se ce le hanno. Mondate e tritate grossolanamente un mazzetto di mentuccia. Sbucciate e grattugiate un pezzetto più o meno grande, a piacer vostro, di zenzero fresco. Mettete nel tritatutto il pesce, 1 cucchiaio di curry

dolce in pasta, la mentuccia, lo zenzero e un cucchiaio di fecola di patate. Frullate fino a ottenere un composto omogeneo e regolatelo poi di sale e di pepe. Con le mani umide formate delle polpettine della grandezza di una noce, passatele nella fecola e cuocetele a vapore per 8’. Per la salsa. Grattugiate lo zest di un limone. Mondate e tritate un ciuffo di erba cipollina. Mondate uno spicchio di aglio, tagliatelo a metà, privatelo del germoglio verde e da ultimo tritatelo finemente. Mescolate un vasetto di yogurt intero con lo zest del limone, l’erba cipollina, 1 cucchiaino di zucchero di canna, 1 pizzico di sale e 1 di pepe. Aggiungete infine l’aglio e mescolate. Servite le polpettine su un piatto da portata e accompagnatele con la salsa al limone.

Manuela Vanni

Oggi una classicissima quiche, qui proposta con spinaci e cavolfiori, e degli spiedini speziati cotti non su una classica griglia ma a vapore.

Manuela Vanni

Ballando coi gusti

Quiche di spinaci e cavolfiori

Spiedini di carne trita speziata

Ingredienti per 4 persone: 400 g di pasta brisée . 600 g di spinaci anche deconge-

Ingredienti per 4 persone: 750 g di carne macinata fine di manzo o di vitello o di

lati . 200 g di cimette di cavolfiori . 1 cipolla . 200 g di mozzarella . 200 g di panna da montare . 1 spicchio di aglio . olio di oliva . sale e pepe.

agnello o di qualsiasi altro tipo . 1 cipolla . cannella in polvere . paprika dolce . cumino in polvere . origano . timo secco . 10 g di sesamo . 1 ciuffo di coriandolo . prezzemolo, basilico . olio di oliva . sale e pepe.

Preparazione: Stendete la pasta brisée su carta da forno con l’aiuto di un mattarello e mettetela poi in una tortiera bucherellando il fondo. Tagliate a dadini la mozzarella e fatela scolare in un colino per 20’. Mondate la cipolla, tagliatela a fettine sottili. Mondate gli spinaci. Mettete in una casseruola la panna, gli spinaci e la cipolla e cuocete per 10’ con l’aglio mondato, pepe e sale. Fate raffreddare leggermente, mescolate la mozzarella e le cimette di cavolfiore e versate il composto nella tortiera, livellandolo. Ungete leggermente con l’olio la superficie della torta e cuocete in forno a 180° per circa 40’, fate attenzione che il fondo della torta si cuocia bene. Levatela dal forno, fatela raffreddare per 10’ e servite (anche se io vi consiglio di gustarla qualche ora dopo).

Preparazione: Lavate, mondate e tritate finemente il coriandolo, un po’ di

prezzemolo e un po’ di basilico. Mettete le erbe in una ciotola, aggiungete la carne, 1 cucchiaino di cannella, 1 cucchiaino di origano, 1 cucchiaio di paprika, 1 cucchiaio di cumino, 1 cucchiaino di timo, il sesamo, 1 pizzico di sale e 1 di pepe. Amalgamate bene il composto, poi formate delle polpettine allungate e infilzatele con gli spiedini. Alla fine la carne dovrà coprire quasi tutta la lunghezza dello spiedino. Cuocete a vapore gli spiedini per 10’. Metteteli nei piatti, conditeli con un filo di olio e serviteli subito accompagnandoli con un’insalata di pomodori e yogurt greco.


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Ambiente e Benessere

I 50 anni di Selezione D’Ottobre Vini senza frontiere Il vino bandiera della Matasci di Tenero

Grimod Frédy Girardet, il grande fra i grandi cuochi d’Europa, che aveva fatto del suo Hôtel de Ville di Crissier, uno dei templi dell’alta gastronomia, mi disse un giorno: «Sais-tu, mon ami, que pour réussir dans notre profession il faut être généreux!». Pranzare o cenare da lui costava molto: oltre che per i prodotti di altissima qualità si doveva pagare anche per il lavoro dei suoi collaboratori: tra cucina e sala aveva 35 impiegati. I vini di pregio che aveva in carta erano affissi con ricarichi assai modesti. Soleva dire che non bisogna «punire» con i prezzi di vendita dei vini le persone che sono disposte a spendere un piccolo capitale per mangiare bene. La ditta vinicola Matasci di Tenero, fondata nel lontano 1921, ha la sua bella generosità, fonte del suo successo. Generosità con i viticoltori che le conferiscono le uve, pagandole a prezzi remunerativi; generosità in vinificazione e in cantina, nonché nella vestizione delle bottiglie; generosità nei prezzi di vendita. Tra i vini di pregio che produce ve n’è uno battezzato «Vino generoso»; una sorta di autoritratto; certamente un vino storico della ditta. Quest’anno celebra il cinquantenario di un Merlot, grazie al quale ha conquistato ottima reputazione anche fuori dagli angusti confini del nostro cantone. In chiaro… si veda più avanti. A questo punto occorre parla-

re di Mario Matasci. Conversare con lui è molto piacevole. E non solo per la «fame di sapere» che ogni giornalista dovrebbe avere, ma per la semplicità, l’umiltà, la naturalezza con la quale racconta della sua intensa esperienza di vita. Come se, tutto sommato, la sua fosse una vita del tutto ordinaria. In questi spazi dovremo limitarci alle sue due imprese maggiori, quella che riguarda il Merlot, e in particolare di essere stato l’ideatore del famosissimo «Selezione d’Ottobre», e quella che riguarda l’arte, nella sua veste di attento e importante gallerista. Per l’impresa che riguarda il vino, si parla del 1964 quando Mario, enologo e anima creativa dell’azienda, ampiamente sostenuto dai fratelli Peppino e Lino, ideò il Merlot «Selezione d’Ottobre», in totale controtendenza rispetto al gusto corrente dei ticinesi. Allora erano gli inizi del Merlot, in Ticino si bevevano vini robusti, mentre nel resto della Svizzera si vinificava prettamente del Pinot, un vino più floreale. «Ho intuito le nuove tendenze di mercato – conferma Mario Matasci – ho appurato che la Svizzera Tedesca era una piazza importante da tenere in considerazione già che molti clienti che avevamo provenivano da lì, così ho creato un vino morbido, poco tannico, armonioso, un vino adatto a soddisfare i gusti di larga parte della clientela. Un vino che continua a piacere, dopo 50 anni, proprio per le sue caratteristiche e per la sua freschezza. Ho creato senza volerlo un Merlot a mia immagine e

Mario Matasci nella sua galleria d’arte mentre degusta il suo Merlot Selezione d’Ottobre che festeggia i 50 anni di produzione. (Ti-Press)

somiglianza – conclude Mario Matasci – un vino che non avrei mai pensato potesse conquistare tanto successo». Mentre me lo racconta durante l’intervista presso «Il Deposito» di Riazzino, dò un rapido sguardo al quadro posto sopra la libreria, quasi troppo in alto, che ho davanti a me. Si intitola Madre Coraggio e 45 anni fa Mario Matasci lo ha acquistato per 400 franchi da Erwin Saurer; il quadro dal qua-

le cominciò la sua passione per l’arte. Andate anche voi a guardare quel quadro e tutti gli altri, ma soprattutto andate a chiacchierare con Mario Matasci e fatevi raccontare le sue meravigliose storie… È un protagonista nel quale la generosità si riassume in una forma di quasi mecenatismo. Non mi sembra di esagerare se penso che nel 1999 ha investito una considerevole somma desti-

nata agli «amici dell’arte», ha pubblicato (Edizioni Matasci) un monumentale libro fuori commercio, in sole 400 copie, riservato agli amici intenditori e intitolato Arte a Tenero, incontri d’arte alla Galleria Matasci. È curato da Claudio Guarda, con diversi altri contributi. Consta di 350 pagine ed è riccamente illustrato – credo – da riproduzioni a colori di tutte le opere della sua inestimabile collezione. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

L’auto «mondiale» diventa ibrida Motori A 21 anni dall’inizio

della sua produzione, la Ford Mondeo diventa un po’ più verde

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Chi non conosce la Ford Mondeo? Lanciata nel 1993, nascondeva nel nome l’obiettivo ambizioso che il costruttore americano si era proposto all’inizio degli anni Novanta: realizzare un’automobile mondiale, condivisa nel pianale tra il mercato europeo e quello nord americano. La prima serie della Mondeo è stata prodotta dal 1993 al 2000. La seconda dal 2000 al 2007 e la terza dal 2007 al 2014. Oggi si appresta a fare il debutto nei mercati europei la nuova generazione di Mondeo, la quarta.

Nel frattempo, Toyota ha venduto oltre sette milioni di ibride a partire dal lancio del primo modello Per la prima volta in ventun anni di storia, sotto il cofano sarà possibile avere un propulsore ibrido. Il sistema è realizzato utilizzando un motore alimentato a benzina da 2000cc abbinato a due propulsori elettrici. Uno di questi ha il compito di trasferire potenza alle ruote, mentre l’altro viene utilizzato per ricaricare le batterie. Questa tecnologia si avvale di accumulatori a controllo software e di trasmissione variabile continua. La potenza complessiva erogata è pari a 187 cavalli. Il consumo medio è di 4,2 litri per 100 chilometri. E la velocità? Utilizzando esclusivamente il propulsore elettrico, Mondeo Hybrid è in grado di raggiungere i 135 km/h. Utilizzando entrambi i propulsori, la massima è superiore ai 180 orari. «La doppia propulsione, ibridoelettrica e a benzina, consente di ridurre i consumi senza doversi adattare a consuetudini differenti. Non ci sono problemi di autonomia né di rifornimenti. Insomma non è necessario collegarsi alla presa di corrente come sulle ibride plug-in. Rispetto a modelli tradizionali a benzina o diesel, l’auto si utilizza nello stesso modo», ha spiegato Thomas Zenner, Electrification Supervisor, Ford Europa. «L’unica cosa in cui differisce la nuova Hybrid è la nuova funzione di recupero dell’energia, che incentiva stili di guida più ecosostenibili».

Mondeo Hybrid viene prodotta insieme ai modelli diesel TDCi e benzina EcoBoost nello stabilimento Ford di Valencia, in Spagna. Va detto però che sarà disponibile esclusivamente nella versione berlina 4 porte. Per ora niente 5 porte e station wagon che restano appannaggio delle altre motorizzazioni. Continuando a parlare di automobili ibride, proprio in questi giorni il Gruppo Toyota ha tagliato un nuovo traguardo: oltre 7 milioni di esemplari ibridi immatricolati dal lancio del primo modello dotato di doppia alimentazione; avvio che risale già a diciassette anni or sono. Il costruttore giapponese ha venduto globalmente 7,053 milioni di ibride, tra cui 3,349 milioni in Giappone, 2,558 milioni in USA e oltre 772mila in Europa. Comprendendo quelli già lanciati nel corso del 2014, entro la fine del 2015, la casa orientale avrà lanciato sui mercati un totale di 15 nuove ibride tra Toyota e Lexus.

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Ambiente e Benessere

Nei vigneti con le ali Mondoanimale I vigneti possono costituire degli habitat invitanti per numerosi uccelli,

alcuni dei quali appartenenti alla Lista rossa delle specie minacciate

parte dell’uva: «Recentemente è arrivata la Drosophila suzuki che nel 2014 è stata un’ulteriore problema per i viticoltori. L’ipotesi che andremo a verificare è il ruolo degli uccelli insettivori su questi piccoli insetti: se all’interno del vigneto favoriamo la possibilità di avere tanti predatori (uccelli che se ne nutrono e ragni che imbrigliano gli insetti con le loro ragnatele), allora potrebbe esserci un aiuto da parte della stessa natura contro l’ospite venuto da lontano». Lardelli afferma che aumentando la biodiversità, per quanto sia possibile, tutto o quasi torna in equilibrio. Bisogna avere un po’ di pazienza e forse si può anche approfittare del valore aggiunto che un vigneto un po’ più ecologico porta ai prodotti. «Nell’ambito del progetto Upupa e del progetto Torcicollo (ndr: altra specie un tempo molto presente nel Sottoceneri) stiamo cercando la collaborazione dei viticoltori per la posa di cassette nido e la costruzione di nidi artificiali nei muri a secco all’interno dei vigneti e adiacenti a essi». L’ornitologo sostiene di fatto che, dove ci sono queste strutture all’interno del perimetro del vigneto, l’Upupa arriva a nidificare ed essa è un buon alleato per la lotta biologica ad alcune larve del terreno, in particolare al Fil di ferro: «Quest’ultimo è un parassita delle radici dei vigneti, ben noto ai viticoltori ed è anche un ottimo antagonista della Processionaria». Si tratterebbe dunque di favorire la naturale ripresa di queste e di altre specie pregiate e utili: «D’altronde, questi uccelli vi hanno dimorato da tempo: pensiamo al Torcicollo (nome dato nei secoli passati dai roccolatori, poiché quando veniva catturato, roteava la testa per intimorire e per difendersi dal pericolo incombente)». E guarda caso, per ricordare che questa specie dimorava nei vigneti, un viticoltore del Mendrisiotto gli ha recentemente dedicato uno dei suoi vini.

Maria Grazia Buletti In Svizzera abbiamo circa 150 chilometri quadrati di territorio coltivato a vigneti, di cui un terzo in Vallese. E proprio nella regione della Svizzera occidentale è stata condotta una ricerca sulla conservazione dell’avifauna nei vigneti. La Stazione ornitologica di Sempach considera il territorio coltivato a vigna come habitat ideale per alcune specie di uccelli a rischio di estinzione e per questo motivo vi sostiene la piantagione di aree e alberi isolati che ne permettono la rivitalizzazione. Secondo i risultati della ricerca condotta per lo più in Vallese, oggi a prima vista i vigneti sembrano essere un ambiente ostile per la maggior parte degli uccelli. Dal canto suo, invece, la stazione ornitologica di Sempach può dimostrare che è vero il contrario. Di fatto ha recensito l’avifauna presente in 13 diversi vigneti ubicati tra Martigny e Loèche, constatando «la presenza di quattro fino a undici specie di uccelli nidificanti per vigneto, fra i quali figurano tre specie minacciate e presenti sulla Lista rossa: Tottavilla, Ortolano e Zigolo nero». Si è capito che più i vigneti sono ricchi di terreno erboso e più gli

La riduzione delle coltivazioni intensive nei vigneti potrebbe giovare non solo alla biodiversità, ma anche alla produzione stessa uccelli vi si insediano volentieri. Quelli più ricchi sono risultati essere tra Salquenen e Varone: «Essi presentano aiuole, piccoli boschetti naturali così come parcelle erbose».

Un esemplare di Torcicollo. (Arnstein Rønning)

Quale sia la situazione su suolo ticinese, che pur vanta una grande tradizione di coltivazioni a vigneto, lo abbiamo chiesto all’ornitologo Roberto Lardelli, il quale ha avuto modo di seguire l’andamento dell’avifauna nei vigneti a partire dalla fine degli anni Ottanta: «Ho osservato un impoverimento, ma è pure vero che chi coltiva la vite non lo fa per passare il tempo, bensì per lo più per professione, e più il vigneto è a coltivazione intensiva, più rende e più vale la pena di produrre». E purtroppo le coltivazioni intensive non lasciano molto margine all’insediamento dell’avifauna. Secondo Lardelli, ogni ambiente ha la propria avifauna più o meno ricca e pure il Ticino dei vigneti è comunque ben rappresentato, anche se non tutti ospitano la stessa abbondanza di specie: «Ve ne sono di poverissimi,

ma pure di ben composti e inseriti in un contesto biogeografico particolare, con versanti con bosco adiacente, tanto spazio verde e coltivazione non troppo intensiva. Vi sono vigneti ubicati in zone molto calde, con qualche cespuglio interno che lo rende più ricco e invitante, ma troviamo pure quelli a coltivazione più industriale, dove non entrano quasi neppure gli insetti». Il nostro esperto, ad ogni modo, afferma di aver trovato, soprattutto negli ultimi anni, una maggiore sensibilità a questo tema da parte delle associazioni vitivinicole: «Dal canto nostro, abbiamo potuto tenere conferenze durante le quali abbiamo spiegato la situazione e l’interesse da parte dei viticoltori è stato grande; per questo confido di coinvolgerli per l’aumento del livello di biodiversità che non solo favorisca l’insediamento degli uccelli nei vigne-

ti, ma contribuisca anche a combattere in modo integrato alcuni nuovi flagelli delle coltivazioni d’uva oramai tristemente noti ai coltivatori». Fra le differenti specie di uccelli che prediligono i vigneti, Lardelli segnala l’Upupa (in alcune zone), il Torcicollo (seconda specie importante), lo Zigolo nero, il Codirosso comune, e via via altri ancora fino all’Averla piccola: «Quest’ultima un tempo era diffusissima, mentre ora la troviamo solo qua e là, perché ha patito della trasformazione dei vigneti tradizionali con i salici, in coltivazioni di tipo più industriale: anche la posa delle recinzioni necessarie contro cervi e cinghiali non li fanno più apparire come ambienti naturali per queste specie di uccelli». Peccato, giacché questi volatili potrebbero contribuire alla lotta integrata degli insetti che arrivano a distruggere anche gran

ORIZZONTALI 1. Dolore morale, afflizione 7. Possessivo inglese 8. Piccola rana verde 9. Due di noi 10. Anatra latina 11. Gravami 12. Infiltrazioni di liquidi organici nei tessuti 13. Con «opera» fa una telenovela 17. Pesce dalle carni pregiate 18. Pulito 19. Il cantante Daniele 20. Puro, semplice 21. Elettroencefalogramma 22. Si spostano con i monti 23. Le iniziali del comico Siani 24. Sul giornale e sulla giacca

Sudoku Livello facile

Giochi Cruciverba Le nostre piante sono malate? Un’alternativa agli insetticidi è spruzzarle con dell’acqua nella quale avremo sciolto un… Troverai il resto della frase risolvendo il cruciverba e leggendo nelle caselle evidenziate (Frase: 10, 2, 6, 3, 2, 4)

1

2

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4

7

5

10 11 12

13

17

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21

22 24

Completare lo schema classico (81 caselle, 9 blocchi, 9 righe per 9 colonne) in modo che ogni colonna, ogni riga e ogni blocco contengano tutti i numeri da 1 a 9, nessuno escluso e senza ripetizioni.

6

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9

Scopo del gioco

23

16

VERTICALI 1. Lo shock dei francesi 2. Hanno infranto il codice 3. La patria di Abramo 4. Sala per proiezioni 5. Tutt’altro che mesti 6. Pozze nel deserto 10. Pianta aromatica 11. Acconciatura giapponese che significa polpetta 12. Lago dell’America settentrionale 13. Successione ordinata e continua 14. Prefisso che vuol dire orecchio 15. Le iniziali della Tatangelo 16. Lo ha chi è energico e autorevole 17. È aperto per gli inglesi 18. Una Francesca attrice 20. Espressione che esprime incertezza, dubbio 22. Le iniziali del comico Crozza 23. Preposizione articolata

Soluzione della settimana precedente

La fastidiosa mosca – Una mosca vive: circa dieci giorni, e le uova che depone arrivano: fino a mille

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Politica e Economia L’ultimo biennio Obama affronta il rush finale della sua presidenza con le elezioni di mid-term

Il pugno di ferro di al-Sisi In Egitto sempre più persone iniziano gli scioperi della fame per chiedere l’annullamento della ferrea «legge antiproteste» e in solidarietà con le migliaia di oppositori arrestati

L’applicazione di Minder Nicoletta Sommaruga cerca di adattare alla legislazione i principi dell’iniziativa sui bonus

I consigli di Banca Migros Questa settimana parliamo del valore e dell’importanza degli strumenti finanziari pagina 36

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Jean-Claude Juncker saprà orientare l’Ue in una nuova direzione? (AFP)

È iniziata l’era Juncker Commissione europea Il lussemburghese ha ereditato un periodo molto opaco per l’integrazione europea

Marzio Rigonalli La nuova Commissione dell’Unione europea è entrata in funzione sotto la presidenza del lussemburghese Jean-Claude Juncker. I 28 commissari, uno per ogni stato membro, sono stati votati dall’Europarlamento, come vogliono le regole riunite nei trattati comunitari. C’è stata un po’ di opposizione nei confronti di alcune proposte iniziali, ma alla fine Juncker è riuscito a ottenere la fiducia, facendo poche concessioni. Ha dovuto rinunciare alla candidata slovena Alenka Bratusek, a vantaggio della connazionale Violeta Bule, ed ha modificato il contenuto del portafoglio di tre altri commissari. Si sono così conclusi i cinque anni della Commissione Barroso, un periodo decisamente opaco nella storia dell’integrazione europea. Certo, la Commissione non è l’unica istituzione comunitaria; la responsabilità di quanto è successo incombe anche al Consiglio, che riunisce i capi di stato e di governo, ed al parlamento. Per di più, la situazione in cui ha operato era particolarmente difficile, con una delle più gravi crisi economiche e finanziarie mai conosciute. La Com-

missione ha avuto il merito di aver contribuito ad impedire l’implosione della zona euro, ma il suo bilancio complessivo è chiaramente negativo. Innanzitutto, non si è imposta come un’istituzione autorevole, capace di iniziative politiche. Non è stata il motore europeo che molti aspettavano, bensì un organismo pallido, burocratico, spesso agli ordini dei governi nazionali, primi fra tutti quello tedesco. In secondo luogo, con la sua inerzia, ha allontanato ancor più i cittadini dall’Europa e dal suo progetto, ed ha dato linfa all’euroscetticismo e a tutti i populismi antieuropei. Jean-Claude Juncker saprà rompere con il periodo Barroso ed orientare l’Unione europea in un’altra direzione? La domanda è centrale e la risposta, ovviamente, non può ancora essere avallata da fatti concreti. Se guardiamo al passato europeo di Juncker, come rappresentante del Lussemburgo nelle istituzioni comunitarie e presidente dell’Eurogruppo, non intravediamo molto spazio per l’ottimismo. Il nuovo presidente della Commissione vanta una lunga esperienza e conosce perfettamente il funzionamento della Comunità, ma non è mai stato autore di iniziative audaci e riformiste.

Il suo passato porta a pensare al futuro nel segno della continuità e non caratterizzato da un percorso innovativo. La stessa impressione nasce osservando la composizione della Commissione, molto eterogenea e con poche personalità di spicco. Due grandi sfide attendono la nuova Commissione: il rilancio dell’economia europea e il riavvicinamento dei cittadini all’Europa e al suo progetto integrativo. La situazione economica è al centro delle preoccupazioni. La crescita si fa attendere e le code dei disoccupati s’ingrossano; in molti paesi la disciplina di bilancio vien rinviata alle calende greche ed il debito pubblico aumenta; le riforme strutturali, necessarie per aumentare la competitività e la crescita, si fanno attendere: alcuni governi li introducono parzialmente, altri preferiscono rinviarle, perché sono penalizzanti sul piano elettorale. La Commissione Juncker ha annunciato un piano d’investimenti di 300 miliardi di euro, una sorta di piano Marshall. È un buon inizio, una boccata d’ossigeno, ma non basta. In questo caso la Commissione deve essere assecondata dall’azione dei governi

nazionali. Ma quale azione? Da anni, soprattutto nell’Europa meridionale, si assiste alla pioggia quotidiana delle critiche contro l’austerità imposta da Bruxelles e simboleggiata dall’intransigenza della Germania e della sua cancelliera Angela Merkel. Ci vuole, si ripete, una politica che favorisca la crescita e l’occupazione. Senza entrare nel merito delle critiche, conviene ricordare che il cambiamento di politica in Europa può avvenire soltanto in virtù di un nuovo rapporto di forze e di nuove alleanze. Uno scenario che purtroppo non si vede all’orizzonte. Limitandoci ai paesi più importanti, si è parlato molto di un asse tra la Francia e l’Italia, due paesi con problemi simili, ma l’asse latino è sparito rapidamente nella nebbia. Parigi privilegia il rapporto con Berlino. Si sono anche ipotizzate alleanze con Londra, ma la Gran Bretagna è poco affidabile, visti l’euroscetticismo che vi regna e la possibilità che lasci l’Unione tra qualche anno. La Germania resta così la potenza dominante in Europa e un cambiamento di politica può avvenire soltanto con il suo consenso. La seconda sfida riguarda l’imma-

gine positiva che l’Europa riuscirà a dare di sé stessa. Un’immagine determinante ai fini del rapporto tra l’Ue e i suoi cittadini. Ci vorrà molta immaginazione. In questo caso, la Commissione può avere un ruolo centrale. Si tratta di legittimare e di rafforzare le istituzioni europee, di avvicinarle alla gente, di farle sentire utili e di renderle parte importante di un vasto progetto. I populismi europei si nutrono dell’immagine negativa che domina oggi nei confronti dell’Unione europea; vi costruiscono le loro tesi di abbandono del progetto comune e del ritorno allo stato nazionale di una volta. Senza la messa in discussione del ruolo e della strategia dell’Unione europea, senza scelte coraggiose, i sentimenti antieuropei non diminuiranno, anzi tenderanno ad estendersi. I prossimi cinque anni si annunciano difficili per Jean-Claude Juncker. L’azione della sua Commissione potrà deludere e rivelarsi una copia della presidenza Barroso, ma potrà anche sorprendere, soprattutto se riuscirà a rendere l’Europa più viva ed attraente, meno burocratica e arrugginita. I prossimi mesi ci offriranno già le prime indicazioni.


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Politica e Economia

L’amaro calice di mid-term Federico Rampini Nel gergo politico italiano verrebbe chiamato un «rimpasto». È quello che Barack Obama ha in serbo: un cambio soprattutto nella sua squadra di politica estera. Molti lo leggeranno in controluce, interpretandolo come una risposta del presidente al risultato delle elezioni legislative. La politica estera della Casa Bianca è sotto tiro da tutte le direzioni. Come non bastassero la Siria e l’Iraq, la Crimea e l’Ucraina, ci si mette pure il virus Ebola. Il clima rovente della campagna elettorale ha fatto sì che perfino le misure per isolare i malati e bloccare il contagio, sono state oggetto di accuse e polemiche a non finire. Per i repubblicani, Ebola è diventato l’ennesimo test a riprova dell’incompetenza di questa Amministrazione. Gli elettori, per lo meno quei pochi che vanno a votare nelle legislative, secondo i sondaggi non condividono le accuse su Ebola. Ma su tutti gli altri fronti, sono profondamente scontenti.

Queste elezioni di medio termine rappresentano anche il preludio possibile agli scenari del 2016 Il ritratto d’America che uscirà dalle urne può sembrare sconcertante, se visto da altre parti del mondo. Quelle, per esempio, dove Obama si recherà subito dopo la prova elettorale. Il 10 e 11 novembre a Pechino per il vertice Apec. Il 14 e il 15 a Brisbane, Australia, per il G20. Il calendario gioca strani scherzi a Obama, c’è dell’ironia e un po’ di paradosso dietro questi appuntamenti. Obama volerà in Cina e poi in Australia dopo avere incassato, molto probabilmente, una disfatta elettorale in casa propria. Il 4 novembre si vota per il mid-term – così chiamato perché lo scrutinio avviene a metà di ogni mandato presidenziale – e il partito democratico rischia di perdere la maggioranza anche al Senato (dopo averla persa alla Camera nel 2010). Anche se non è in gioco la Casa Bianca, l’ultimo biennio di presidenza Obama rischia di trasformarsi in un mesto crepuscolo. Di solito quando un presidente diventa un lame duck (anatra zoppa), come si suol dire nel gergo politico americano, si riduce anche la sua autorevolezza sulla scena internazionale. Eppure, ai due appuntamenti di novembre Obama arriva in una situa-

zione di oggettiva superiorità nei confronti dei suoi interlocutori. Nessuno escluso. Al vertice dell’Apec, che riunisce i paesi dell’area Asia-Pacifico, la Cina non arriva in buone condizioni. È vero, c’è stato il simbolico sorpasso sul Pil americano (misurato a parità di potere d’acquisto) secondo i calcoli fatti da Fmi e Banca mondiale. Ma queste sono soddisfazioni del tutto superficiali. Xi Jinping non ha ragione di gloriarsene. Da qui al 10 novembre forse non avrà risolto del tutto la «grana» di Hong Kong, le proteste pro-democrazia che turbano la più importante piazza finanziaria cinese. E soprattutto, la Cina soffre di un rallentamento nella sua crescita, probabilmente non raggiungerà gli obiettivi fissati dal governo. È pur sempre una crescita del 7 per cento annuo, ma per un paese emergente con vasti bisogni insoddisfatti, un rallentamento può alimentare altri focolai di disagio sociale. Inoltre dietro la frenata della crescita cinese affiorano problemi strutturali come la bolla del credito, un sistema bancario opaco, legato a doppio filo col potere politico, appesantito da crediti di dubbia solidità verso progetti d’investimenti faraonici nell’edilizia o nelle infrastrutture. Al G20 in Australia Obama incontrerà poi il «malato terminale» dell’economia mondiale cioè l’eurozona. Sono passati ormai cinque anni esatti dal G20 di Pittsburgh, quando Obama fece gli onori di casa: e sembra passato un secolo. Allora era l’America sul banco degli imputati, visto che la crisi l’aveva fabbricata la finanza tossica di Wall Street. Ma nell’autunno del 2009 Obama aveva messo in opera già da mesi gli interventi straordinari per uscirne, sul fronte degli investimenti pubblici; ai quali si aggiungeva la poderosa azione monetaria della Federal Reserve. Fu a Pittsburgh che venne formulata per la prima volta una «dottrina Obama» sui macro-squilibri planetari. Il presidente americano, allora all’apice della sua popolarità in patria e all’estero, spiegò che non è «virtuoso» accumulare risparmio e attivi commerciali come fanno la Germania e la Cina. Disse che l’America doveva smetterla di vivere al di sopra dei suoi mezzi, ma che per fare questo Germania e Cina dovevano smettere di vivere al di sotto dei loro mezzi. Verità elementare: gli squilibri sono reciproci, simmetrici, e si alimentano vicendevolmente. Da cinque anni la Merkel si sente ripetere queste cose, ma non vuole capire. A Brisbane, per la prima volta, la Germania si presenterà in una posizione di debolezza. Finalmente anche l’economia tedesca

AFP

4 novembre L’ultimo biennio di Barack Obama alla Casa Bianca rischia di trasformarsi in un triste crepuscolo

perde colpi, dopo avere affondato le economie dei propri vicini. Obama ha tutte le ragioni per tornare alla carica, dall’alto della sua performance: sotto il suo mandato l’America ha dimezzato il tasso di disoccupazione. Sarà pure un’anatra zoppa, ma a confronto dei leader europei rimane un gigante. E tuttavia non è questa la percezione dominante in casa sua. All’indomani del 4 novembre i democratici rischiano di svegliarsi di fronte a un panorama politico per loro desolante. Si rinnova l’intera Camera dei deputati, un terzo del Senato, più una serie di governatori in scadenza. Le ultime previsioni indicano che il partito di Barack Obama potrebbe perdere dai cinque ai dieci seggi alla Camera, consolidando così quella maggioranza repubblicana che dura dal novembre 2010. Ancora più grave è lo scenario che riguarda il Senato. Questo ramo del Congresso finora era rimasto in mano ai democratici, ma questa settimana potrebbero dirgli addio. Basta che la destra conquisti sei senatori, ed è fatta: avrà blindato il suo controllo sull’intero Congresso. I sondaggi attuali propendono per questo scenario: fra i seggi senatoriali in bilico le scommesse indicano un punteggio di 7 contro 5 a favore dei repubblicani. Per Obama gli ultimi due anni di mandato presidenziale a quel punto rischiano di somigliare ad un calvario. Già dalla fine del 2010 ad oggi molte iniziative di questo presidente – sul cambiamento climatico, sull’immi-

grazione, sul salario minimo – si sono infrante davanti ai veti della destra alla Camera. Perdere il Senato è perfino più grave perché questo ramo del Congresso ha poteri speciali ed esclusivi, ad esempio nella conferma delle nomine presidenziali. Che cosa giustifica il pessimismo delle scommesse? L’ultimo sondaggio Abc/«Washington Post» è più che sufficiente. Ecco il verdetto: «Il 68 per cento degli americani è convinto che l’economia vada male e che la nazione sia su una strada seriamente sbagliata; solo il 28 pensa che le cose stiano migliorando». Un’atmosfera così negativa avvolge il presidente e si ripercuote sul suo partito indebolendone molti candidati. Un dato aiuta a capire il paradosso per cui gli americani hanno l’economia più forte del pianeta ma la maggioranza di loro sono scontenti, e di conseguenza convinti che il loro presidente sia un disastro. Mentre i repubblicani sono i favoriti dei pronostici per le legislative, la destra si trova invece in difficoltà in quegli Stati dove il 4 novembre si vota anche per dei referendum sull’aumento del salario minimo. Quella è una bandiera di Obama, che però non ha potuto superare i veti al Congresso, sicché la battaglia del salario minimo si è trasferita a livello di singoli Stati. I sondaggi dicono che è popolarissima nella base democratica, e leggermente maggioritaria perfino tra i repubblicani. Il test sul salario minimo spiega la ragione per cui la ripresa Usa non aiuta i democratici: è una ripresa che si vede ovunque, fuorché nelle buste paga. Il

potere d’acquisto del ceto medio è fermo, non ha riguadagnato nulla dopo la crisi del 2008. Questo dato, che spiega i consensi bipartisan verso l’aumento del salario minimo, è la stessa ragione per cui oltre i due terzi degli americani esprimono un giudizio severo sulla situazione economica, e castigano il partito che controlla la Casa Bianca. Per i democratici che vogliono vedere il bicchiere mezzo pieno, le elezioni di mid-term sono una parentesi dolorosa in attesa della rivincita. Un Congresso tutto a destra, paradossalmente può aiutare Hillary Clinton a trascinare i suoi alla riscossa nel 2016. Se i prossimi due anni dovessero riprodurre al multiplo la strategia dell’ostruzionismo, con il Congresso capace solo di dire no a qualsiasi riforma di Obama, alla fine gli elettori se la prenderanno col partito che controlla le due Camere. Inoltre le elezioni presidenziali hanno sempre una dinamica diversa: mobilitano molto di più i giovani e le minoranze etniche, cioè le constituency più fedeli alla sinistra. Le mid-term in una certa misura sono uno specchio distorto del Paese: per il loro basso appeal, per il carattere frammentario e locale dei duelli tra candidati collegio per collegio, queste elezioni attirano alle urne prevalentemente elettori bianchi e anziani, cioè il nocciolo duro della destra, i più disciplinati e compatti nel votare in questo tipo di scadenze. Obama si prepara dunque a bere l’amaro calice, e sopportare un 2014-2016 che si preannuncia politicamente durissimo. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

Primavera affamata Sciopero della fame Lo hanno intrapreso molti egiziani dentro e fuori dalle carceri per chiedere l’annullamento

della ferrea legge anti-proteste voluta dal generale al-Sisi. Che ha portato in carcere già 40mila egiziani

Alessandro Accorsi Sono passati quasi 250 giorni dall’ultima volta che Mohamed Sultan ha toccato del cibo. Ben otto mesi da quando Mohamed, un cittadino egiziano-americano, ha deciso di entrare in sciopero della fame per protestare contro la sua detenzione e gli abusi subiti nel carcere di Tora, al Cairo. Mohamed, figlio di un famoso islamista, è stato arrestato il 26 agosto 2013 quando la polizia ha fatto irruzione nella sua casa in cerca del padre dopo lo sgombero del sit-in di Rabaa. Dopo otto mesi di sciopero della fame e continui rinvii nel processo a suo carico, le condizioni di salute di Sultan si stanno deteriorando sempre di più. Due settimane fa, è stato portato in ospedale semi incosciente mentre perdeva sangue dalla bocca. Dopo aver rifiutato l’alimentazione forzata, è stato ricondotto in isolamento nella sua cella.

Lo sciopero della fame rappresenta l’ultima spiaggia per protestare contro il regime delle Forze armate Per sostenere la sua lotta e quella di tutti i detenuti politici, indipendentemente dalla loro appartenenza politica, un gruppo di attivisti, prigionieri e membri di associazioni e sindacati si sono uniti allo sciopero della fame. Il loro obiettivo, è quello di ottenere il rilascio dei quasi 40.000 egiziani arrestati per motivi politici e di spingere il governo a cancellare la cosiddetta «legge antiproteste». Una norma che sostanzialmente vieta qualsiasi manifestazione anti-governativa e che è stata utilizzata negli ultimi mesi per arrestare e condannare ogni oppositore al regime, secolare o islamista che sia. A finire stipati in celle talmente gremite da avere meno di un metro quadro di spazio a testa, senza materassi, con condizioni igieniche precarie e senza assistenza medica, migliaia di

attivisti, studenti, lavoratori, ma anche semplici passanti arrestati nelle vicinanze di manifestazioni o prelevati in luoghi pubblici. Se il pugno di ferro delle forze di sicurezza aveva già parzialmente sgombrato le strade dai cortei, la legge anti-proteste insieme ad una estesa legislazione anti-terrorismo ha permesso a polizia, procure e tribunali di detenere un individuo senza accuse o prove per mesi in attesa di un processo tanto lungo quanto sommario. Per una protesta pacifica, ma non autorizzata, si rischiano fino a 15 anni di prigione. «In queste condizioni, dobbiamo adottare una strategia diversa. Lo sciopero della fame è una lotta partita da chi, in carcere, non ha altro modo di protestare e raccolta da chi, all’esterno, non può più scendere in piazza a manifestare», dice Amr Ali, coordinatore del Movimento 6 Aprile. «Se non possiamo più protestare in strada, allora lo faremo così», spiega Ahmed Mamdouh, studente di medicina in sciopero della fame da due settimane. Ahmed ogni giorno monitora le condizioni di salute di chi, come lui, ha deciso di bere solamente acqua o thè senza zucchero. Tra una sigaretta e l’altra fumata per non sentire i morsi della fame, controlla la pressione sanguigna e i livelli glicemici dei suoi compagni. Di tanto in tanto, somministra soluzioni saline e vitamine per evitare danni permanenti a nervi e organi. «Vogliamo dimostrare a chi ci ha criticato e ridotto al silenzio che non solo abbiamo una visione per il futuro, ma che siamo disposti a rischiare la nostra vita per combattere questo sistema». «La nostra lotta non è tanto rivolta alla gente comune quanto al governo, cui stiamo sottoponendo una serie di richieste», sostiene Zizo Abdu, dirigente del 6 Aprile. «Il regime è direttamente responsabile delle condizioni di salute dei prigionieri. Poiché ha paura che se qualcuno muore o ha problemi fisici sarà ritenuto colpevole, in molti casi, preferisce rilasciarli». Già da mesi, l’esempio e il successo di Abdallah al Shaamy – un giornalista di Al Jazeera arrestato al sit-in di Rabaa, entrato in sciopero della fame

Il pugno di ferro del presidente al-Sisi. (Keystone)

insieme a Mohamed Sultan e rilasciato dopo più di 100 giorni senza alimentarsi – aveva spinto molti altri detenuti a rifiutare il cibo. Il Ministero dell’interno e le autorità penitenziarie, però, avevano limitato l’adesione alla lotta punendo gli scioperanti con l’isolamento e negando il diffondersi delle notizie. Da quando attivisti famosi come Alaa Abd el Fattah, che continua lo sciopero anche dopo il suo recente rilascio, sua sorella Sanaa, Ahmed Douma e Mahienour el Massry hanno lanciato una nuova campagna, il governo fa fatica a contrastare il fenomeno. Basti pensare che quasi tutte le donne detenute con Mahienour el Massry hanno subito deciso di seguire l’esempio di quella loro carismatica compagna. Quando Mahienour ha chiesto alle più anziane di interrompere lo sciopero per non aggravare le loro già precarie condizioni di salute, loro si sono ostinatamente rifiutate, tanto da costringere Mahienour stessa a ricominciare a mangiare. Secondo Marwa Arafa, una delle coordinatrici della campagna, ci sarebbero almeno 170 scioperanti in carcere e un altro centinaio all’esterno. E la cifra è in crescita, nonostante le difficoltà nello stimare il numero esatto e

le smentite delle autorità penitenziarie. «Il governo non può tenere delle persone in carcere per un anno senza udienza o processo e poi negare che ci siano centinaia di detenuti in sciopero della fame», dice Marwa. «C’è un’infinità di motivi per cui lo stiamo facendo. Non è perché lo chiedono Alaa o gli altri attivisti. Lo facciamo soprattutto per pura umanità, perché sentiamo un dovere morale nei confronti degli altri scioperanti», aggiunge. Così, invece di diminuire, le ragioni della protesta non fanno altro che aumentare. «Sono in sciopero della fame perché siamo a conoscenza di violazioni nelle strutture penitenziarie, di epidemie, infezioni e di persone sottoposte a abusi o cui viene negata qualsiasi cura medica», spiega Amr el Shora, membro del comitato direttivo del sindacato dei dottori. La sua organizzazione, secondo la legge, è responsabile del monitoraggio della salute pubblica. «Ma ci viene costantemente negato l’accesso alle strutture detentive militari e civili». Inoltre, secondo lui, dallo scorso anno sono stati arrestati ben 270 dottori che prestavano servizio negli ospedali da campo per soccorrere i manifestanti. Solo 66 di loro sono stati rilasciati.

Chi aderisce allo sciopero, in fondo, è tanto galvanizzato dai primi parziali successi della campagna, quanto determinato a continuare. Per ogni prigioniero rilasciato, infatti, ci sono almeno dieci Mohamed Sultan ancora in carcere a rischiare la vita. E ogni promessa del governo di emendare la legge anti-proteste o di migliorare le condizioni dei detenuti incontra un muro di comprensibile diffidenza. «Non ci fidiamo del regime e continueremo ad oltranza finché la legge non verrà cancellata e i detenuti politici liberati», spiega Ahmed Mamdouh mentre i suoi compagni-pazienti annuiscono in segno di assenso dietro di lui, stesi su materassi buttati in terra nella stanza che condividono per sostenersi e darsi forza a vicenda. Alcuni di loro hanno superato la seconda o terza settimana di sciopero, altri hanno iniziato da pochi giorni. Qualcuno, logoro e a rischio di danni permanenti, si è concesso una piccola rottura dello sciopero dopo giorni senza cibo. Ma ha subito ripreso ed è più determinato di prima a continuare. «Quando senti che stai facendo qualcosa di buono, hai la forza per continuare», afferma Ahmed. D’altronde, nonostante la giovane età, quasi tutti loro hanno visto le sbarre di una cella almeno una volta. «Continuiamo e siamo determinati ad andare avanti. Questo sciopero è la nostra ultima spiaggia perché abbiamo esaurito tutti gli altri spazi di protesta. Questa è una questione di vita o di morte e non possiamo voltare le spalle a chi lotta», sostiene Marwa. Un cameriere si avvicina per prendere l’ordine durante l’intervista, lei spiega che non vuole nulla perché è in sciopero della fame. Lui la guarda perplessa, prova a ribattere qualcosa, ma poi stringe le spalle e desiste. Marwa lo segue con la coda dell’occhio e anticipa la prossima domanda. «Il resto della popolazione? Chi si è sempre interessato, continua a interessarsi. Le persone a cui non è mai interessato nulla, continuano a fregarsene. Ma quello che ha ottenuto questa campagna, è di unire le persone a cui importa».

Nessuna pietà per Reyhaneh Jabbari Iran La giovane è stata impiccata perché giudicata colpevole di aver ucciso l’uomo

che aveva tentato di stuprarla Luisa Betti «Fai del tuo meglio per dimenticare i miei giorni difficili. Lascia che il vento mi porti via». È con queste parole, contenute in una lunga lettera verbale lasciata prima della sua esecuzione, che Reyhaneh Jabbari (foto) ha salutato la madre prima di essere impiccata a 26 anni perché condannata a morte per essersi difesa da uno stupro in Iran. Una sentenza, arrivata dopo 7 anni di carcere, che né la tesi della legittima difesa né gli appelli internazionali, sono riusciti a fermare. Una vita, quella di Reyhaneh Jabbari arredatrice d’interni, che si ferma in verità quando lei ha solo 19 anni e viene invitata in un appartamento da Mortaza Abdolali Sarbandi, medico ex funzionario dell’intelligence, che le vorrebbe commissionare l’arredo del suo ufficio ma che in realtà l’aggredisce una volta sul posto. Un tentato stupro al quale la ragazza reagisce difendendosi con un coltello tascabile che, secondo la sua deposizione, non uccide l’uomo ma lo ferisce permettendole di fuggire. L’uomo però viene ritrovato senza vita,

e a nulla vale l’indicazione di Reyhaneh che dice di aver visto sul luogo dell’omicidio un misterioso terzo uomo di nome Sheikhy, giunto mentre lei scappava. Per la corte il suo è omicidio premeditato e la condanna a morte viene emessa per la giovane in un processo giudicato «viziato» da Amnesty International, e altre organizzazioni per i diritti umani, a causa di prove sparite, limitazioni a vedere l’avvocato, confessioni estorte in isolamento. «La mia Reyhaneh è stata impiccata. Aveva la febbre mentre danzava sul patibolo», ha dichiarato la mamma, Shole Pakravan, il giorno dell’esecuzione davanti a una sentenza che era stata sospesa prima ad aprile e poi a fine settembre. E anche se per Mahmood Amiry-Moghaddam – portavoce di Iran Human Rights (Ihr) – Reyhaneh poteva essere salvata da una mobilitazione internazionale più forte e determinata, gli unici che avrebbero potuto sospendere questa condanna erano la famiglia dell’uomo ucciso che avrebbe perdonato solo se la donna avesse ritrattato l’accusa infamante del tentato stupro: un punto su cui Reyhaneh non

ha mai voluto tornare indietro a costo della morte. Eppure «il vero responsabile di tutto questo – ha ribadito Shole Pakravan – è il potere giudiziario iraniano», un potere che non ha neanche voluto esaudire le ultime volontà della ventiseienne iraniana che aveva chiesto di poter donare i suoi organi e che invece è stata seppellita nella sezione 98 del cimitero di Behesht-e Zahra, vicino alla città santa di Qom, senza che fosse permesso di celebrare un funerale né di recitare preghiere. Un accanimento in sintonia con l’ultimo Rapporto delle Nazioni Unite sui diritti umani in Iran – uscito pochi giorni dopo l’esecuzione di Reyhaneh - in cui si legge che i più discriminati in quel territorio sono appunto donne e cristiani. Un documento dove il relatore speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nella Repubblica islamica, Ahmed Shaheed, afferma che qui in un anno sono state giustiziate 852 persone. Ma l’Iran non è il solo Paese in cui la condanna a morte viene esercitata. Come riporta Amnesty International

lo scorso anno le sentenze capitali sono state emesse in 57 paesi e sono state eseguite in 22: per la maggior parte in Cina, Iran, Iraq, Arabia Saudita, Stati Uniti d’America e Somalia, anche se l’80 per cento è stato totalizzato in Cina, Iran, Iraq e Arabia Saudita. I metodi d’esecuzione usati sono la decapitazione, scariche elettriche, fucilazione, impiccagione e iniezione letale, su persone messe a morte anche per crimini come rapina, droga, reati economici, reati politici, adulteri, stregoneria e blasfemia. Come Meriam Yahia Ibrahim Ishag che in Sudan era stata condannata a morte per apostasia e a 100 frustate per adulterio per aver sposato un cristiano, e che incarcerata con il figlio di 20 mesi è stata costretta a partorire il suo secondo figlio in condizioni disumane. O come Asia Bibi, che ancora oggi potrebbe morire sul patibolo, e che è stata condannata a morte per blasfemia in Pakistan. La condanna con decapitazione è stata invece eseguita il 9 gennaio 2013 in Arabia Saudita per Rizana Nafeek, una lavoratrice migrante dello Sri Lanka condannata a morte nel

2007 per l’omicidio di un neonato morto per soffocamento che la donna ha sempre sostenuto accidentale. Una situazione, quella delle migranti asiatiche che vanno a fare le domestiche in Medio Oriente, che rasenta la schiavitù per un numero di circa un milione e mezzo solo in Arabia Saudita: case in cui una buona parte viene sottoposta a violenza e tortura. Come Tuti Tursilawati binti Warjuki che dopo essere stata sottoposta a molestie sessuali ha ucciso il suo datore di lavoro mentre lui tentava di stuprarla (2010) e per questo condannata a morte; oppure Satinah hinti Jumad Ahmad, indonesiana, che uccise il suo padrone per legittima difesa mentre «il suo datore di lavoro le aveva afferrato i capelli cercando di sbatterle la testa contro il muro».


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Politica e Economia

La tassa sui bonus torna nella legge? Fiscalità L’approvazione dell’iniziativa Minder sui bonus milionari dei dirigenti aveva spazzato via un progetto

indiretto che prevedeva l’imposta. Ora Sommaruga sembra intenzionata a rimetterla in discussione Ignazio Bonoli L’iniziativa Minder, contro le remunerazioni eccessive dei dirigenti delle società quotate in borsa, aveva riscosso un notevole successo popolare. La sua applicazione pratica rischia però di rispondere solo parzialmente alle esigenze poste dall’iniziativa. Più volte gli ambienti economici si sono rimproverati di non aver visto per tempo gli effetti di un sostegno popolare a questa iniziativa, preludio ad altre che avrebbero potuto intaccare ulteriormente le libertà del mondo economico.

L’applicazione concreta del principio sancito dalla votazione non è così semplice e integra elementi imprevisti Ma già al momento della discussione parlamentare si era visto che forse sarebbe stato opportuno opporre un controprogetto a un testo piuttosto radicale nei suoi intenti. Controprogetto che però non ha fatto molta strada, anche se una delle sue idee principali poteva raccogliere un certo numero di consensi. In pratica esso proponeva di limitare la distribuzione di bonus mirabolanti tramite una tassa speciale su queste remunerazioni. Il controprogetto indiretto andava però anche un po’ oltre e proponeva la

restituzione di bonus percepiti indebitamente, il divieto di versare bonus superiori al milione di franchi in caso di perdite dell’azienda, dilazionare nel tempo i bonus superiori alla rimunerazione totale e, appunto, applicare una tassa ai bonus superiori ai 2 milioni di franchi. Quest’ultima idea torna prepotentemente alla ribalta nel progetto che la consigliera federale Simonetta Sommaruga presenterà nei prossimi giorni in Consiglio federale per la revisione del diritto azionario, in applicazione dell’iniziativa Minder. Il progetto non si limita però a questo solo aspetto, ma contempla anche alcune parti di precedenti revisioni, accanto ad alcuni temi nuovi, come la quota femminile del 30 o 33% nei consigli d’amministrazione, da raggiungere entro i prossimi 15 anni, facilitazioni per le denunce di azionisti contro responsabili dell’azienda, nonché doveri di trasparenza per le aziende del commercio di materie prime. Come detto, secondo alcune indiscrezioni, il progetto dovrebbe riprendere il concetto di imposta sui bonus, che il Parlamento aveva respinto di misura in occasione della discussione sull’iniziativa Minder. Il concetto di «imposta sui bonus» necessita comunque di alcune precisazioni. Secondo il progetto, tutte le remunerazioni (non solo i bonus) che superano i tre milioni di franchi, non potranno più essere detratti fiscalmente come spese dalle aziende. Un’idea che aveva perfino raccolto una di-

Il consigliere nazionale indipendente Thomas Minder è oggi diventato un sostenitore attivo dell’iniziativa Ecopop, in votazione il 30 novembre. (Keystone)

screta maggioranza nei due rami del Parlamento, ma che poi non era riuscita a superare lo scoglio del voto finale, a causa del cambiamento di posizione da parte dei Verdi liberali. Ora, vista la sconfitta del controprogetto e la vittoria dell’iniziativa in votazione popolare, ci si chiede come mai la consigliera federale socialista voglia recuperare l’argomento. Vi è chi vede l’appoggio a un tema molto caro ai socialisti, ma anche un argomento da usare nelle discussioni sulla revisione del diritto azionario, op-

pure da usare nel caso in cui i bonus dei dirigenti non venissero sensibilmente ridotti. In realtà, versamenti superiori ai 3 milioni di franchi possono essere considerati come distribuzioni di dividendo, più che complementi al salario, che non possono essere dedotti come spese. Un aspetto importante della discussione sull’applicazione dell’iniziativa Minder sarà anche la prevista legge che dovrà sostituire l’ordinanza attualmente in vigore. Sembra che il Dipartimento di giustizia voglia approfittare

dell’occasione per inasprire ancora i contenuti dell’ordinanza. Si tratterebbe di un allentamento delle regole per il divieto di concorrenza. Tale divieto, applicabile alla partenza di un dirigente di un’azienda, non dovrebbe durare più di un anno. Questo per evitare che il divieto di indennità di partenza possa venir aggirato mediante indennità per il divieto di concorrenza. Al progetto – non ancora presentato al Consiglio federale – si attribuiscono già alcuni difetti. Perché fissare – in sostanza – un salario massimo a 3 miliardi di franchi? Perché il limite concerne solo le SA e non le altre società? Problemi che conferiscono al progetto un forte carattere simbolico, tanto più che le limitazioni concernono oggi soltanto alcune centinaia di persone. In sé le proposte del Dipartimento potrebbero apparire perfino più «liberali» dell’iniziativa Minder. Per le società quotate in borsa l’impatto finanziario potrebbe infatti essere minore, ma questo si scontrerebbe con il testo dell’iniziativa. D’altro canto tutte le discussioni che si sono fatte e che si faranno avranno come risultato quello di cambiare molto poco alla sostanza delle cose. È stato infatti calcolato che, con il limite dei 3 milioni e considerato un bonus globale di 5 milioni di franchi, a conti fatti il manager in questione percepirebbe pur sempre 4,9 milioni di franchi. Un ulteriore segno delle difficoltà di portare sul piano delle realtà concrete le iniziative che sembrano voler «cambiare il mondo». Annuncio pubblicitario


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Politica e Economia

Una crisi di fiducia La consulenza della Banca Migros

Albert Steck La recente crisi ha aumentato il mio scetticismo nei confronti del sistema finanziario. Mi consenta una domanda di fondo: non è forse giunto il momento di cambiare radicalmente il nostro ordinamento economico?

Albert Steck è responsabile delle analisi di mercato e dei prodotti presso la Banca Migros

Sono in molti a nutrire un certo scetticismo nei confronti del sistema finanziario. A ragione: perché da un lato quasi tutto ciò che facciamo ha una qualche conseguenza finanziaria. Dall’altro, tuttavia, viviamo spesso il denaro, nonostante la sua imponente presenza nella nostra quotidianità, come un’entità misteriosa, che non comprendiamo fino in fondo: una banconota da mille franchi è solo un foglietto di carta, eppure ha un grande valore. La moneta elettronica non è neppure visibile. Il denaro esiste dunque in primo luogo come idea astratta nelle nostre teste. Per l’umanità il nostro sistema finanziario è un’enorme benedizione – e talvolta anche una maledizione. Il grafico illustra come il benessere è quasi esploso nelle società occidentali, soprattutto a partire dal XIX secolo con il processo di industrializzazione e l’affermazione dell’economia di mercato. Tuttavia in che modo il sistema finanziario ha contribuito a questa impennata? Le monete

esistevano già prima come strumento di pagamento. Il fattore determinante è l’accresciuta fiducia degli esseri umani nel sistema finanziario. Così si è ampliata repentinamente la cerchia delle persone, con le quali era possibile collaborare, indipendentemente dalle barriere linguistiche o culturali. Si è poi aggiunta l’accresciuta fiducia nel progresso: chi aveva una buona idea imprenditoriale riusciva a procurarsi il capitale necessario senza pagare interessi da strozzino, come succedeva nel Medioevo.

Il flusso di denaro come arteria pulsante dell’economia Tuttavia, guai se questa fiducia nel sistema finanziario si incrinasse! Se la circolazione del denaro si arresta, la nostra economia reagisce come un organismo, nel quale il sangue si congela. Lo ha dimostrato inequivocabilmente la crisi finanziaria. Le banche centrali sono riuscite a evitare il collasso soltanto con enormi iniezioni di liquidità. La crisi ha scatenato anche critiche di fondo al nostro sistema finanziario, che avrebbe scarsa considerazione di valori immateriali quali la lealtà, la morale o l’onore.

Impennata del benessere $ 20’000

$ 5’000

Inghilterra

$ 1’000

$ 400 Anno 1500

Giappone

1600

1700

1800

Cina

1900

2014

In Inghilterra e nell’Europa occidentale il benessere è cominciato molto prima rispetto all’Asia. Il grafico indica il reale prodotto interno lordo pro capite della popolazione. Dati: Maddison Project

Soprattutto dopo l’ultima crisi, per la nostra società è importante un dibattito vivace, costruttivo sui mercati finanziari, che non devono essere né glorificati né demonizzati. «Il capitale deve servire all’intero popolo», dichiarava già sessant’anni fa il fondatore della Migros Gottlieb Duttweiler. Se

ci sintonizziamo su questo principio, tornerà anche la fiducia nel sistema finanziario. Partecipate al dibattito su blog.bancamigros.ch: Come giudicate il nostro sistema finanziario? Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi L’importanza della ricerca applicata L’economia reale oggi si sviluppa solo o quasi grazie all’innovazione. Sappiamo che ci sono tre tipi di innovazione. L’innovazione di prodotto che crea nuovi mercati e permette quindi alle nuove aziende di affermarsi. Poi c’è l’innovazione di processo che è quella che consente a molte aziende, in perdita di velocità, di ridurre i costi e mantenersi così sul mercato. Infine c’è l’innovazione organizzativa che, molte volte, cambia di fatto la faccia dell’azienda e la fa ripartire su un nuovo percorso di crescita (pensate ai problemi della successione nelle aziende famigliari). Va bene, diranno i lettori, ma l’innovazione come arriva in azienda? Certo non piove dal cielo! Ci sono grosse aziende – le farmaceutiche per esempio – che dispongono di veri e propri eserciti di specialisti dell’innovazione. Giorno per giorno, anno per

anno, queste persone sono alla ricerca di nuovi prodotti che possano aprire alle loro aziende nuove possibilità di vendita e di profitto, almeno per il tempo in cui dura la protezione dei brevetti. Le piccole e medie aziende (PMA), però, non dispongono di solito di queste unità di ricerca e sviluppo. Non se le possono permettere. Per queste aziende è provvidenziale che lo Stato, attraverso istituzioni come le Scuole universitarie professionali e come la commissione federale per la tecnologia e l’innovazione (KTI), metta a disposizione persone e mezzi finanziari per sostenere la ricerca e l’innovazione. Nel bilancio nazionale della ricerca applicata, i mezzi messi a disposizione da Confederazione e Cantoni non rappresentano una grossa fetta. Sono però provvidenziali se visti dalla prospettiva delle PMA.

Questo discorso vale anche per il Ticino che dispone di un’economia nella quale il 95 per cento delle aziende sono PMA. Questo lungo fervorino sull’importanza dell’aiuto statale alle PMA nel campo della ricerca e dello sviluppo l’ho fatto per presentare ai lettori il Rapporto della Ricerca che la SUPSI ha distribuito un paio di settimane fa. Il documento contiene un inventario di quanto i dipartimenti della SUPSI hanno fatto, nel campo della ricerca applicata, nel corso degli ultimi 5 anni, cioè da quando la Scuola ha adottato una nuova strategia per la ricerca. Il clou di questa strategia è rappresentato dalla definizione di 8 assi sui quali concentrare la ricerca della Scuola. Prima dell’adozione di questa strategia, i ricercatori dei singoli dipartimenti e istituti erano liberi di scegliersi i temi su cui lavorare in

funzione delle loro competenze e delle loro preferenze. La concentrazione dello sforzo di ricerca attorno agli otto assi della nuova strategia ha, secondo me, avuto l’effetto di aprire uno spazio più largo alle possibilità di collaborazione interdisciplinare attorno ai progetti, da un lato, e, dall’altro, di venire maggiormente incontro alle esigenze di ricerca che emanano dall’economia e dalla società ticinese. Perché, è utile precisare, che la ricerca della SUPSI viene promossa e realizzata in accordo con partner esterni. In larga misura, con le PMA di cui si è parlato più sopra. Ma anche con le amministrazioni del settore pubblico e con gli enti del parapubblico, come pure con organizzazioni e associazioni del settore non profit. A questo punto sarebbe interessante poter entrare nel vivo del soggetto ed elencare alcuni dei proget-

ti di ricerca presentati nella pubblicazione della SUPSI. Ma come fare? Con quale criteri scegliere tra le centinaia di temi utili, originali e curiosi, quei tre o quattro che potrebbero suscitare l’interesse dei nostri lettori? Il compito è troppo arduo e rischierei, facendo una scelta, di inimicarmi molti dei ricercatori SUPSI che non arriverei a menzionare. Chiuderò quindi citando una statistica: quella dell’evoluzione dei ricavi provenienti dalla ricerca. Al netto di possibili contributi del Cantone, la cifra d’affari della SUPSI nel campo della ricerca applicata è salita, nel corso degli ultimi cinque anni, da 10,7 a 18,6 milioni di franchi, con un tasso di crescita annuale pari all’11,6%. Un bel successo, non c’è che dire! Peccato che la Scuola non sia una società anonima. Mi sarebbe piaciuto comprare qualche sua azione.

difende un pilota di droni che opera in una base militare in America quando sbaglia obiettivo dall’altra parte del mondo. Il drone è dappertutto, insomma, ma mentre le curve sugli attacchi dell’Amministrazione Obama che registrano l’utilizzo dei droni si abbassano significativamente a causa delle proteste e delle minacce internazionali dei leader dei paesi colpiti (il presidente Obama aveva promesso che non li avrebbe usati più se non dopo aver trovato un costrutto giuridico in cui inquadrarli, ma poi li ha utilizzati lo stesso), questo aereo dall’aspetto inquietante e dalla guida remota esce dall’esclusività militare ed entra nel mondo. Il nostro mondo. All’inizio del prossimo anno, si terrà a New York il primo festival cinematografico con filmati girati con i droni (fino a fine novembre sono aperte le iscrizioni, volendo). I «dronie» sono l’ultima, fighissima versione dei selfie, basta avere un drone con la telecamera a propria disposizione, e ormai non è

più un problema ottenerlo: su siti popolari come Amazon, sono in vendita i kit per costruirsi un drone in casa o, più comodamente, droni già funzionanti, con strumentazioni elettroniche sempre più avanzate (ci sono anche i droni giocattolo, a tre o quattro eliche, non sono a buon mercato ma nelle wishlist natalizie pare siano gettonatissimi). Del resto Amazon è anche stato il primo a lanciare l’idea su larga scala della consegna con i droni: un metodo veloce e preciso, anche se ancora da testare soprattutto quando si devono spedire pacchi di grandi dimensioni o prodotti deperibili. Da quando negli ultimi giorni i siti di news si sono riempiti della notizia dell’iniziativa da parte di alcune Ong di utilizzare i droni per consegnare aiuti alimentari in posti del mondo altrimenti inaccessibili, lo sdoganamento umanitario dell’aereo senza pilota è stato completo. Il «New York magazine» ha dedicato di recente la copertina ai droni, rappresentati con tratti fumettistici, come a

dire: non sono cattivi, è rimasto solo Obama a disegnarli così. Anzi, dietro al mostro volante c’è il tentativo, tutto umano e tutto utopico, di conquistare il cielo, quello spazio in cui le regole non esistono, ma il senso di libertà e di potere sì. Ecco allora che il drone si trasforma in un orologio (ancor più brutto di quello della Apple, se possibile) che ogni tanto si stacca per volare, fotografare e poi tornare sul polso. Intelligence a portata di mano, di quella che si fa, con altri metodi, con i social network o con le App. Il drone è l’evoluzione ultima e sorprendente di uno smartphone, con i suoi pericoli – siamo sicuri di voler sapere tutto tutto, di volerlo fotografare da un buchino della serratura aperto nel cielo? – e con in più però tutta una sua mistica. Perché i sostenitori dell’aereo senza pilota declinato nella vita di tutti i giorni dicono che la visuale del drone, a una distanza non così lontana ma comunque in alto, è quanto ci sia di più simile all’occhio di Dio.

l’economia elvetica (alcuni segnali di rallentamento sono già emersi). Folle e pericoloso, aggiungono, pensare di bandire dal dibattito politico ogni discussione su questo tema. E qui il Manifesto si rivolge soprattutto alle giovani generazioni, perché toccherà a loro cercare una via d’uscita allo stallo attuale. Nel recente saggio dell’ex ministro tedesco degli esteri Joschka Fischer sull’Europa e sull’eventualità di un suo fallimento come disegno politico, economico e monetario (Scheitert Europa?), molti hanno intravisto un encomio al sistema federalistico svizzero. E in effetti Fischer tesse le lodi del modello elvetico, che, a suo dire, sarebbe molto più adatto di quello americano a gestire i complessi rapporti intra-europei. Fin qui nulla di nuovo e di sensazionale, anche se fa piacere sentirlo dire da un tedesco. Una tesi simile l’aveva già sostenuta nel 1946 a Zurigo Winston Churchill nella sua celebre perorazione in favore della creazione degli Stati Uniti d’Europa. «Stati Uniti d’Europa»: una formula

risalente alla metà dell’Ottocento, prospettata tra gli altri anche dal «nostro» Carlo Cattaneo. Ma se l’Ue diventa come la Confederazione – scrive acutamente Fischer dopo aver riassunto l’evoluzione storica del modello – come faranno i confederati ad esibire orgogliosamente la loro diversità, il loro Sonderfall? «Probabilmente il rigetto dell’Ue da parte della maggioranza degli svizzeri dipende anche dal fatto che l’Europa comunitaria si è vieppiù posta sul cammino elvetico. Se questo cammino dovesse rivelarsi praticabile e percorribile fino in fondo, la Svizzera finirebbe per subire una pressione notevole, che la obbligherebbe a trasformarsi e adattarsi; una pressione tale che le farebbe perdere la sua esclusività, la diversità che la mantiene internamente coesa, perché al centro di uno stato federale europeo unito». Insomma, se l’Ue decidesse di assimilare e applicare coerentemente il modello elvetico, la Svizzera non avrebbe più motivo di inalberare la sua insularità, la sua alterità. Vedremo. Per ora un orizzonte simile non è alle viste…

Affari Esteri di Paola Peduzzi Drone, occhio divino I droni sono brutti e hanno l’aria pericolosa. Li abbiamo conosciuti, si fa per dire, in questi anni obamiani, in cui sono stati scelti come strumento principe della sua politica estera, i mostri del cielo il cui rumore, nelle valli del Pakistan e in quelle di molte parti dell’Africa, è per gli abitanti inconfondibile. Con i droni sono stati uccisi leader fondamentalisti e vittime innocenti, con i droni sono state raccolte informazioni cruciali, con i droni

L’ultima frontiera dei droni: tascabili.

le guerre terrene e sanguinose dell’era Bush sono salite nel cielo. Nella loro aerea brutalità, gli aerei senza pilota sono entrati nell’immaginario collettivo attraverso le serie televisive. Nell’ultima stagione di «24», lo 007 multi task Jack Bauer, scampato a ogni genere di tortura e pericolo, è alle prese con la vedova di un terrorista islamico che ha intercettato droni americani e li vuole far schiantare nel centro di Londra (il presidente incredulo dice al suo capo di stato maggiore: «Siamo davvero riusciti a creare un sistema di aerei senza pilota che non riusciamo più a controllare?»). In Homeland, la protagonista Carrie Mathison, di base nella stazione della Cia in Afghanistan, riceve nella prima puntata della stagione in corso una torta di compleanno dedicata a lei, soprannominata «la regina dei droni» (il drone lanciato quella stessa sera finirà per colpire in Pakistan decine di civili, ma questa è un’altra storia). In The good wife lo studio legale della protagonista, Alicia Florrick, deve capire come si

Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Se l’Ue diventasse una confederazione... Non ha sollevato ondate d’entusiasmo, nel Ticino, il Manifesto La Svizzera nell’Europa redatto da un gruppo di personalità attive nella politica, nell’economia e nella ricerca scientifica. Colpa anche degli estensori, che non hanno provveduto a tradurlo integralmente in italiano (succede spesso). Inadempienza a parte, il Manifesto non contiene nulla di dirompente o provocatorio. Anzi, tutto sommato, siamo di fronte ad un documento assai innocuo e generico, che evita di affrontare i contenziosi con l’Unione europea e di indicare vie d’uscita praticabili. Affermare che la Svizzera è parte dell’Europa («geograficamente, storicamente, politicamente, economicamente, culturalmente e socialmente…») è dire un’ovvietà; meno ovvia è la relazione che nel corso degli anni la Confederazione ha intrattenuto con l’Unione europea (in generale) e con i paesi appartenenti a Eurolandia (in particolare). Esordire con le idealità è lodevole, nobilita le intenzioni, ma non persuaderà mai gli scettici. Solo una ricostruzione puntuale della politica

estera, delle mosse dell’economia e dell’alta finanza, del governo del mercato del lavoro può aiutare a chiarire i termini della questione, di questa «guerra fredda» che si è creata nei rapporti bilaterali tra Berna e Bruxelles. Certo, non è sempre facile distinguere tra «Europa» e «Unione europea», tra il plurisecolare filone dell’europeismo e il concreto farsi dell’architettura istituzionale europea avviata a partire dal secondo dopoguerra, con la formazione delle varie piattaforme di collaborazione su questione d’interesse comune: carbone e acciaio, energia atomica, soppressione dei dazi interni sulle merci (Mec). La dissonanza elvetica emerse già in questa fase. Anziché aderire al mercato comune, di cui facevano parte i paesi confinanti (Italia, Francia, Germania federale), la Svizzera decise di imboccare una strada anomala, stringendo un patto di alleanza con l’Inghilterra (motore dell’operazione «libero scambio») e con paesi lontani dalle sue frontiere (Danimarca, Norvegia, Svezia, Portogallo), oppure piccoli o marginali come l’Austria e il

Liechtenstein. Tutte nazioni che poi abbandonarono l’Aels per confluire nella Comunità europea, lasciando sola la Confederazione nel cuore dell’Europa. Per alcuni anni, com’è noto, il Consiglio federale ha caldeggiato l’adesione all’Unione europea, ma senza mai raccogliere il consenso necessario, né nel parlamento, né tra la cittadinanza. L’ultima rilevante apertura è avvenuta nel 1992, con il progetto dello Spazio economico, una sorta di anticamera all’Unione (bocciata in votazione popolare il 6 dicembre). Da quel momento è iniziata la lunga stagione degli accordi bilaterali, l’unica via rimasta percorribile. E questo fino al giorno fatidico che tutti ricordiamo, il 9 febbraio 2014. Nel «Manifesto» citato, i firmatari non credono che la Svizzera possa continuare in questo modo, ossia campare sulle disgrazie e le difficoltà altrui, come se potesse vivere su un’isola, naufrago felice circondato da un mare in burrasca. È una visione miope, giacché le sventure europee finiranno presto o tardi per trascinare nel baratro anche


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Cultura e Spettacoli La mano e la mente Poesia e segno si possono incontrare, come testimonia una mostra dedicata a Ugo Carrega

Ritorno all’Africa Nel romanzo della scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie la storia di una ragazza che decide di lasciare gli Usa per tornare nel suo Paese

U2: quo vadis? Il tentativo del gruppo irlandese di ritornare ai fasti storici è riuscito solamente a metà

Ovunque, parolacce Sono entrate nella nostra quotidianità, senza risparmiare nessuno, nemmeno i politici pagina 55

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Lo scrittore Christopher Isherwood (1904-1986) e il poeta W.H. Auden (1907-1973), entrambi inglesi. (Keystone)

La capitale erotica del mondo Berlino, porta del mondo Per molti scrittori omosessuali all’inizio del Novecento la città tedesca rappresentò

una sorta di mecca sia per l’ispirazione letteraria sia per la possibilità di nuovi incontri

Luigi Forte Negli anni Venti Berlino si guadagna un posto d’onore nel Grand Tour europeo degli inglesi e la fama di capitale erotica del mondo e Mecca dei viaggiatori omosessuali tra cui i futuri romanzieri e poeti Isherwood, Auden e Spender. Anche l’irlandese Francis Bacon ci capitò appena diciottenne nel 1928, in compagnia di un parente, diplomatico di carriera, dopo un soggiorno parigino che gli fece scoprire Picasso. Le sue scorribande e iniziazioni partivano dal lussuoso Hotel Adlon spesso in direzione del borghese Westen. Con l’entusiasmo di quei giovani felicemente trasgressivi contrasta il giudizio di Virginia Woolf giunta nella capitale nel gennaio del 1929 col marito Leonard in visita ai coniugi Nicolson. Lui, Harold, era attaché presso l’Ambasciata inglese; lei, Vita Sackville-West, poetessa e scrittrice, ebbe una tempestosa relazione con Virginia di cui restano echi nel romanzo Orlando. Fulminanti sono le annotazioni della Woolf su Berlino: «La più orribile delle città, mi ha in un certo senso stremata». E come se non bastasse, aggiunge: «Mai più. Anche quel poco che posso vedere dalla mia fi-

nestra a Londra, possiede al confronto un’incredibile distinzione». Del resto in quel giro di amici del circolo intellettuale di Bloomsbury, la pensavano un po’ tutti allo stesso modo. Per loro i tedeschi mancavano appunto di distinzione: «Non hanno il senso della qualità», diceva Nicolson e il cugino di Vita Sackville, Eddy, sosteneva, con una buona dose di masochismo, di voler passare l’inverno a Berlino perché «la città è irrimediabilmente brutta e sporca», ma con caratteristiche analoghe alla Dublino descritta da Joyce: «La forza retorica (..), ma anche il caos, l’oscurità» e questo era per lui motivo di ispirazione. La pensava in tutt’altro modo il giovanissimo W.H. Auden nella capitale dall’ottobre del 1928 dopo studi letterari a Oxford e la pubblicazione di un’esile raccolta di poesie. Per lui la città era «il sogno a occhi aperti di ogni sodomita», come scrisse a un’amica un paio di mesi dopo aggiornandola sul suo nuovo boyfriend e sul numero incredibile di bordelli per uomini controllati dalla polizia. In poco tempo si era procurato una lista di ragazzi, per lo più proletari e disoccupati, che cercavano a modo loro di sbarcare il lunario, conosciuti in bar e club o in locali come il Cosy Corner nel

quartiere allora operaio intorno a Hallesches Tor, dove era cliente abituale con l’amico Christopher Isherwood, che a Berlino resterà fino alla primavera del 1933, testimone dell’ascesa del nazismo e delle metamorfosi della città. Auden alluderà alle sue esperienze nella poesia 1929 dal felice incipit narrativo («It was Easter as I walked in the public gardens»), dove affiora anche la figura del marinaio amburghese Gerhart Meyer di cui si era infatuato. È – come recita un verso – il vero uomo forte («the truly strong man»), una sorta di icona di cui Auden e compagni ammirano non la forza bruta, ma la sicurezza e l’equilibrio di chi sa affrontare le vicissitudini dell’esistenza. Isherwood, a sua volta, dà voce a quegli anni nei suoi romanzi Mr. Norris se ne va e Addio a Berlino, da cui il regista Bob Fosse trasse il famoso film Cabaret con Liza Minnelli. Proverbiale è rimasta la definizione della sua poetica: «Io sono un apparecchio fotografico con l’obiettivo aperto, riprendo solo, registro, non penso». In realtà lo scrittore non fu affatto un osservatore estraneo, ma un turista appassionato coinvolto più di altri nella vita quotidiana al punto da confessare più tardi: «Berlino aveva avuto

su di me lo stesso effetto di una festa alla fine della quale non si ha voglia di tornare a casa». Ma la situazione politica andò peggiorando e il terrore ancora disorganizzato e dilettantesco prese a funzionare veramente, com’egli scrisse, «in modo efficace e ordinato». Tale parabola è già prefigurata nel romanzo di Mr. Norris, la storia di un avventuriero e truffatore in una Berlino ormai sull’orlo della guerra civile, come sotto «l’influsso epidemico di una paura subdola e infettiva». Qui la scena si arricchisce di figure stravaganti: dal barone omosessuale von Pregnitz alla mezzana Olga che spaccia cocaina e fa la ricettatrice; dalla sinistra figura del segretario Schmidt al comunista Otto, e poi l’affittacamere Frau Schroeder, che riappare anche in Addio a Berlino, dove furoreggia Sally Bowles, la giovane e svagata ragazza inglese con molti amanti e poche chances come attrice. Isherwood gira in lungo e in largo per Berlino, tra le lussuose ville del quartiere di Grunewald e nel bosco del Tiergarten oppure s’inoltra nella giungla degli squallidi caseggiati popolari o in locali equivoci dove adesca ragazzi proletari perché in questo modo come disse l’amico Spender, forse con inconsapevole

ironia, chi era orientato a sinistra «poteva avere la sensazione di venire in stretto contatto con la classe operaia». Poi s’aggira per i grandi magazzini Landauer e Wertheim, proprietà di ebrei, di fronte a cui stazionano giovani nazisti che allontanano i clienti, e si convince di assistere alla «prova generale di un disastro» da cui, come recita il finale di Addio a Berlino, non c’è via di scampo: «Il sole brilla e Hitler è il padrone di questa città». Non gli restò che congedarsi dalla metropoli delle sue trasgressioni andando per il mondo con l’amico Auden: in Cina nel 1938 e l’anno dopo, alla vigilia della guerra, negli Stati Uniti dove si convertì all’induismo e divenne americano. Certo la città era stata per i due giovani scrittori, un tempo amanti, una tappa essenziale durante la quale forse per la prima volta, come ha scritto Mario Fortunato nel suo libro Le voci di Berlino, assunsero la condizione omosessuale non come fase di passaggio ma come un’identità e una via verso l’elaborazione del proprio io più autentico. Non diversamente da Stephen Spender che nell’autobiografia annotò: «Per me e Christopher la vita in Germania fu una specie di terapia per i nostri problemi personali».


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Cultura e Spettacoli

La mano e la mente Mostre L’archivio di Ugo Carrega alla Biblioteca cantonale di Lugano fino al 22 novembre Emanuela Burgazzoli «Io c’ero, ma non lo sapevo» / «La scrittura è materia, tutto è materia»: sono alcune delle frasi ricorrenti di Ugo Carrega che attirano l’attenzione del visitatore della mostra luganese dedicata a uno dei principali esponenti della Poesia visiva internazionale. L’artista genovese, nato nel 1935 e appena scomparso, forse poco noto al grande pubblico, figura fra i promotori più attivi di questo movimento che a partire dagli anni Sessanta teorizza e sperimenta nuove modalità di simbiosi fra segni verbali e segni grafici, fra parola e immagine. In un invito del 1982 si legge infatti che l’artescrittura «decreta la nascita di un nuovo atteggiamento in arte che congloba in sé il senso di fare poesia e il senso di fare pittura».

Il movimento della poesia visuale si è sviluppato in un contesto internazionale Ad aprire la rassegna, che segna una nuova collaborazione fra la biblioteca e il Mart di Rovereto, un esemplare del Libro errante di George Tudor – pseudonimo di Ugo Carrega –, un libro d’artista che enuncia già in copertina la sua capacità di accostare il segno grafico a una scrittura ermetica, che ricorda lo stile anti-descrittivo dell’haiku. Lo sperimentalismo della poe-

sia visuale ha radici che affondano nel Simbolismo passando per le Avanguardie storiche di primo Novecento – diretto per esempio il riferimento ai Calligrammes di Apollinaire di una delle grafiche realizzate da dodici artisti nel 1977 per interpretare il concetto di «Nuova scrittura» – e come queste ultime, anche questo movimento è caratterizzato da una forte carica ideologica e dalla volontà di opporsi ai linguaggi della comunicazione di massa e a un’imperante mercificazione dell’arte. Scopi e modalità di questa nuova poetica vengono ribaditi in manifesti puntuali, sulle pagine di bollettini e periodici che hanno durata effimera, esposti in nuovi spazi che non sono quelli dell’arte ufficiale: un percorso ben documentato dal ricco materiale fornito dall’archivio Nuova scrittura attraverso documenti originali e fotografie. Un materiale che documenta anche il contesto internazionale in cui si sviluppa il movimento della Poesia visuale e la fitta corrispondenza che Ugo Carrega instaura con molti artisti fra i quali figurano nomi noti dell’arte italiana e internazionale dell’epoca, da Bruno Munari a Mario Diacono, da Vincenzo Accame o Luciano Ori (e non manca un accenno a esponenti ticinesi del movimento, come l’artista e poeta Franco Beltrametti, con la sua «Minirivista»); Ben Vautier e David Zack sono fra gli artisti che firmano le cartoline appartenenti all’esposizione concepita da Carrega e intitolata Cards from the world. Una mostra che anticipa nel 1973 quella che sarà la Mail art; altrettanto visionarie le al-

Una delle schede in mostra. (facebook.com/ archiviodel900 )

tre due mostre allestite al centro Tool, uno dei tanti spazi espositivi aperti da Carrega a Milano, intitolate Bodies e Moments. Nella prima sono raccolti frammenti d’artista – dai capelli alle carte di credito – che documentano una riflessione ironica sull’identità; la seconda è costituita da attestati di artisti, che in un linguaggio burocraticoesistenziale, confermano quello che faranno nel momento preciso di un giorno indicato dallo stesso Carrega.

Brevi prose che mettono l’accento sul tempo sincronico della descrizione, ricordando per certi versi le modalità narrative sperimentali del «Nouveau Roman». All’attività di promotore, curatore e gallerista Carrega affianca sempre quella dell’artista, anch’essa documentata dalle carte dell’Archivio Nuova scrittura; ne sono un esempio la serie delle Sbrinciatine (1968), le poesie e i disegni di Scrittura simbiotica (19621965) o il Libro trasparente (1968), in

cui si fondono elementi fonetici, colore, forma e segno grafico. Un’esperienza che sul piano artistico resta in un certo senso marginale rispetto ai percorsi individuali di alcuni esponenti di quel movimento ma che attesta una realtà culturale e intellettuale estremamente vitale e uno slancio utopico teso a creare «una Nuova scrittura capace di alto significato e non di burlette pseudoumane». Del resto – scriveva ancora Carrega – «l’utopia modifica la realtà». Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Suoni mai uditi Pubblicazioni Un’antologia di cento anni di poesia della Svizzera tedesca curata da Annarosa Zweifel Azzone

Stefano Vassere «Ma il senso di una “limitatezza ossessiva e ossessionante” non può far dimenticare un’altra condizione essenziale del produrre artistico: la consapevolezza del confine; i confini della Svizzera non sono però soltanto quelli che la separano dagli stati adiacenti ma anche quelli che la intersecano all’interno».

Nonostante le apparenze, in un Paese come la Svizzera nulla è semplice da definire Che cosa sappiamo della poesia della Svizzera tedesca? Che cosa sa, un individuo svizzero italiano di media cultura, della produzione poetica in atto al di là delle Alpi più prossime? Non poco: ni-en-te! Ha un inizio manzoniano, questo rivelatore Cento anni di poesia nella Svizzera tedesca di Annarosa Zweifel Azzone, che esce nella prestigiosa casa editrice Crocetti di Milano (prestigiosa perché pubblica molta poesia e anche la santa rivista omonima). Dice la Azzone che ogni volta che per qualche motivo e a proposito di qualche argomento i giornali rappresentino gli stati d’Europa e le loro posizioni, i loro dati statistici o loro visioni del mondo, ecco «proprio nel centro dell’Europa,

Sagoma della Svizzera in metallo realizzata dall’azienda Georg Fischer, 2012. (Keystone)

appare una macchia bianca, amorfa, senza nome: quella è la Svizzera». L’introduzione ai Cento anni è molto ricca e densa, un saggio a pieno titolo, e ne trae molto profitto anche il lettore ticinese o grigionitaliano, che crede di conoscere la letteratura della Svizzera tedesca. Ne vengono mostrate per esempio alcune premesse storiche e sociali, nelle quali la letteratura e la poesia in particolare hanno scovato loro canoni particolari e originali. Di fronte alla «soverchiante madre Germania,

minacciata da un fascismo trionfante e circondata da un possente apparato ideologico e bellico, la Svizzera risponde mettendo in atto un sistema di difesa caratterizzato da un patriottismo arcaico ed emozionale e da una dedizione erotica e collettiva alla patria». Così, partendo dal difficile rapporto con la potenza tedesca nella prima parte del Novecento, la storia della poesia Svizzera tedesca si alimenta anche di altri fenomeni («nulla è semplice, in questo pacifico Paese»), come la consa-

pevolezza della nozione di confine, l’ogni tanto rimosso ma lì bello ricorrente problema della diglossia tra tedesco standard e svizzero tedesco, l’apporto condizionante e caratterizzante delle voci portate dall’esterno: migranti giunti per fame, necessità varie, per fuggire dalla guerra e dalle carestie, ma anche voci straniere portate nella Svizzera tedesca dai grandi movimenti culturali come il dadaismo e l’arte concreta o anche le nuove sensibilità di genere e i fuoriusciti italiani.

Per il dialetto svizzero tedesco, sono belle le liriche di Kurt Marti, bernese, come Kei angscht «niente paura» oppure Wo chiemte mer hi? «dove andremo a finire». E sul relativo ragionamento, sono vivide le pagine di Robert Walser, che «nel dialetto scopre una fonte inesauribile da cui attingere suoni mai uditi», o che, come dice Walter Benjamin, ci pone «davanti a una trascuratezza che presenta tutte le forme, dalla grazia fino all’amarezza» (non c’è ovviamente Benjamin, nella serie dei poeti; certo che con un’immagine del genere, un suo posto e una sua scheda…). Tra le voci dell’immigrazione, si impone, lieve e dolorosa, quella di Aglaja Veteranyi, romena in fuga nel nostro paese, che è stata analfabeta fino all’adolescenza ed è morta a nemmeno quaranta anni a Zurigo: «Una donna aveva il cuore pieno di vecchi uomini. / Ci vivevano dentro ammucchiati come patate. / In inverno ne tirava fuori uno e lo metteva nel forno. / Quando era caldo lo tirava fuori e ci si arrotolava intorno. / Dove viveva la donna l’inverno era così lungo che nessuno / si ricordava più della primavera, la neve schiacciava / sempre più a fondo le case nella terra. / Da quando era inverno, la donna lavorava a maglia un lungo / silenzio». Bibliografia

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Cultura e Spettacoli

Volevo le treccine Editoria Nel romanzo Americanah, il mondo dei nero americani

è visto da una nera non americana che sceglie di tornare in Africa Mariarosa Mancuso La scelta dà scandalo: «Chiudi il blog e vendi l’appartamento per tornare a Lagos e lavorare per una rivista che ti paga poco?» È scandalosa, in effetti, se la vediamo da fuori e se non abbiamo ancora letto il bellissimo romanzo di Chimamanda Ngozi Adichie uscito da Einaudi con il titolo Americanah. La protagonista, che si chiama Ifemelu ed è di origine nigeriana, vive da tredici anni negli Stati Uniti, dove ha studiato e gode di una borsa di studio a Princeton, «la città senza odore». Il confronto non è con il paese lasciato parecchi anni prima, ma alle altre città d’America: «New Haven sapeva di abbandono, Baltimora puzzava di salamoia, e Brooklyn d’immondizia scaldata al sole».

L’autrice condivide molte delle sue esperienze personali con la protagonista del libro, Ifemelu Il ritorno in patria per Ifemelu non è una sconfitta ma una scelta. Non le pesa neppure rinunciare al blog intitolato Razzabuglio, osservazioni sui Neri Americani da parte di una Nera non Americana. Lei lo alimenta ascoltando i bianchi con capelli rasta che sul treno sentenziano: «I neri americani do-

vrebbero andare oltre sé stessi, ormai è tutta una questione di classe sociale, di avere o non avere». Oppure manager dell’Ohio che in aereo cortesemente chiedono un post che li riguardi: «Ha mai affrontato il tema dell’adozione? Nessuno vuole bambini neri in questo paese. Neppure le famiglie di neri li vogliono. Io e mia moglie abbiamo adottato un bambino nero, e i vicini ci guardano come se avessimo scelto di immolarci per una dubbia causa». Viene in mente la Barbie nera, prodotta dalla Mattel in nome della correttezza politica e pochissimo venduta anche alle bambine nere, forse qualcosa è cambiato dopo la signorina color cioccolato in La principessa e il ranocchio. Americanah si fa amare dalle prime pagine (potete conservarlo per le vacanze di Natale, in tutto sono 472). Quando scopriamo che Ifemelu va a farsi fare le treccine a Trenton, la capitale del New Jersey assai meno snob di Princeton. Sei ore di lavoro in tutto, mentre spiega alla parrucchiera che non vuole saperne dei prodotti che lisciano i ricci. L’attenzione alle acconciature dura per tutto il romanzo, anche nei capitoli ambientati in Nigeria, dove trovare un negozio che sappia fare le treccine è più facile (ma resta la passione delle clienti per i prodotti che consentono la pettinatura sfoggiata da Michelle Obama). Non è una sconfitta, ma certo una stranezza. Ifemelu non sa bene come dirlo al fidanzato Blaine, un nero americano che insegna a Yale, e pensa a lei

come al grande amore della sua vita. Appare per la prima volta nel romanzo visto con gli occhi di Obinze, l’amore adolescenziale che nel frattempo – gli avevano negato il visto per gli Usa, dopo l’11 settembre, per un po’ ha vissuto da clandestino a Londra – è diventato ricco e ha preso moglie in Nigeria: «Trasudava superiorità intellettuale con quei jeans scoloriti e gli occhiali con la montatura nera». Obinze era «Ceiling» nelle chiacchiere amorose. «Ceiling» come «soffitto», da quando Ifemelu gli aveva detto, dopo un incontro: «avevo gli occhi aperti ma non vedevo il soffitto, non mi era mai successo». E «ceiling», stavolta minuscolo, sarà per loro quel che Swann e Odette, in Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust, intendevano con «faire cattleya». Si ritroveranno e avranno molte cose da dirsi, Americanah è anche una storia d’amore. Il lettore intanto si gode un colpo d’occhio sulla casa dell’imprenditore nigeriano di successo: cancello nero, colonnato marrone chiaro, portiere in caffetano, mobili importati dall’Italia, domestica fatta venire dal Benin, sugli schermi CNN e Cartoon Network. Chimamanda Ngozi Adichie, che vive tra gli Stati Uniti e la Nigeria, che non ha mai pensato di cambiarsi nome per vendere più copie e che con Americanah è entrata l’anno scorso nella classifica dei dieci migliori romanzi americani, confessa di avere prestato molte sue esperienze a Ifemelu. Ma come al

Chimamanda Ngozi Adichie è di origine nigeriana. (princeton.edu )

solito, l’esperienza non basta, e la scrittrice – di cui Einaudi aveva già tradotto nel 2008 Metà di un sole giallo, due sorelle durante la guerra del Biafra – ha il tono giusto per raccontare gli spaesamenti. Ifemelu appena arrivata negli Usa cercava di levarsi l’accento nigeriano, ora lo stesso accento lo esibisce (Adichie ha polemizzato con Zadie Smith, che invece alle sfumature giamaicane ha rinunciato senza rimpianti). I nigeriani che tornano a Lagos vanno in giro con la bottiglietta d’acqua come i newyorkesi. Perfino il genitore ha qualche

dubbio sul ritorno: «se ci ripensi hai sempre il passaporto americano». Tutto il mondo è paese, tutti si dibattono tra la voglia di essere come gli altri, nel luogo che li ospita, e la voglia di rimanere fedeli alle proprie radici. Lo si può fare senza rancore, perfino divertendosi, e ricordando Groucho Marx. Accettata finalmente come socia nel club dove sognava di entrare, una ragazza intelligente può anche dire «No, grazie. Ora che ce l’ho fatta voglio tornare a casa». Sapendo che a casa, in Nigeria, i club sono altrettanto esclusivi, e altre fatiche l’attendono. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Dentro o fuori l’accademia: dove vai, compositore? Intervista A colloquio con il giovane autore – ma anche improvvisatore – Alberto Barberis Zeno Gabaglio «Oggi il ruolo del compositore dev’essere quello di mantenere alto il livello della ricerca artistica, unica vera fonte di stupore e di progresso, cercando allo stesso tempo di assottigliare il divario formatosi negli ultimi cento anni tra pubblico e nuova musica “colta”». Non sono molte le persone che possono dare una simile risposta, anzi: non sono molte le persone cui oggi valga davvero la pena di chiedere «qual è il ruolo artistico e socioculturale cui la composizione può aspirare?».

Il musicista moderno si trova davanti alla necessità di saggiare le proprie doti nel modo più ampio Non tanto perché sia venuta a mancare una retorica sufficiente ad articolare risposte più o meno complesse, più o meno interessanti. Quanto piuttosto perché scarseggiano interlocutori credibili da cui attendersi una riflessione sincera, dal momento che il senso nel presente e le visioni sul futuro della composizione «colta» non possono certo essere stabiliti da chi intrattiene (pur legittimi) conflitti d’interesse, o da chi per generazione non può che avere or-

mai una visione marmorizzata, o da chi per proprio gusto non concepisce altro mondo sonoro rispetto a quello dell’accademia. Occorrerebbe dunque un giovane, che conosca bene la materia ma che abbia anche esperito il fascino di altre musiche, di altre idee, di altre vite. E a questo esclusivo identikit – che per rarità di indiziati quasi sembra la definizione del moderno panda musicale – risponde in pieno Alberto Barberis. Di formazione chitarrista classico – ma passato anche dagli studi ingegneristici presso il Politecnico di Torino – Barberis è al tempo stesso compositore e improvvisatore, studente «classico» al Conservatorio della Svizzera italiana (e pure già presente come autore in contesti quali Oggimusica o la rassegna Nachtstrom presso la Gare du Nord di Basilea) ma anche sperimentatore dell’estemporaneità con progetti quali Alberi – la cui recente pubblicazione discografica per Floating Forest ha raccolto ampi consensi di critica – e con frequentazioni che collegano l’underground al pop all’accademia. La persona giusta, quindi, per sentirsi dire che «non è più tempo di forzare le rotture e le distanze: oggi la consapevolezza storica e musicale del compositore deve essere messa al servizio dell’intera società in un gesto forte di apertura nei confronti della musica non scritta, delle nuove tecnologie e delle moderne forme di spettacolo. Mescolare le carte per prepararle a una nuova giocata».

È chitarrista classico ma ha studiato ingegneria.

E scopriamole, allora, queste carte. «Improvvisare è come suonare quello che ancora non si conosce pur sapendo di saperlo fare: una forma di composizione istintiva, in cui la mente e la tecnica devono fare un compromesso con il real time. Lo stesso compositore è prima di tutto un

improvvisatore, con però una differenza temporale: quando si compone ci si prende tutto il tempo necessario per creare relazioni profonde, mentre nell’improvvisazione libera la creazione è invece istantanea e le relazioni sono più limitate, dovendo nascere come per intuizione».

Dire – anche solo qualche anno fa – che compositore ed improvvisatore sono in nuce la stessa cosa avrebbe di sicuro valso il biasimo dell’accademia. «La verità è però che non sono mai stato un vero studente di Conservatorio, o meglio: lo sono diventato quando ero già stato formato come musicista, il che mi ha permesso di affrontare l’accademia con uno spirito sufficientemente critico e libero. Il mio primo insegnante organizzava i saggi durante i festival di strada, mentre con il secondo trascorrevo metà della lezione a improvvisare e a parlare di filosofia estetica. Posso dire che devo a loro, entrambi compositori ed entrambi esterni al Conservatorio, l’approccio creativo nei confronti della musica». E forse è proprio lì la chiave per non fare morire – in un’implosione tristemente sorda – l’idea di musica colta: nell’abitare diversamente (o più spontaneamente) le vecchie mura dell’edificio musicale europeo. «L’enorme ricchezza del mondo accademico è allo stesso tempo ciò che lo appesantisce. Così stracolmo di tradizioni, convenzioni, riti, metodi, modelli e prassi consolidate, che lo rendono spesso inadatto a seguire le repentine innovazioni del mondo musicale odierno. Se si affrontasse l’accademia con questa consapevolezza si sarebbe forse in grado di godere della sua ricchezza senza accettarne però la frequente pretesa di elitaria esclusività». Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

L’ultimo incontro di due artisti In scena W.H. Auden e Benjamin Britten personaggi di una commedia di Alan Bennet,

Il vizio dell’arte, in cui si immagina un avvenimento mai accaduto

Giovanni Fattorini Nel 1954, a Monaco di Baviera, Gottfried Benn tenne un’affascinante conferenza (in italiano l’ha pubblicata Garzanti, e poi Adelphi) intitolata Invecchiare: problema per artisti. È di questo problema che tratta la commedia di Alan Bennet Il vizio dell’arte (The Habit of Art), rappresentata per la prima volta a Londra nel 2009. Ne sono protagonisti un poeta e un musicista di fama mondiale: Wystan Hugh Auden (1907-1973) e Benjamin Britten (1913-1976). Bennet ha immaginato che i due si siano rivisti dopo molto tempo nel ’72, l’anno in cui Auden, lasciata New York (nel ’46 aveva preso la cittadinanza americana), si era trasferito in una dépendance del Christ Church College di Oxford, appositamente convertita in abitazione per l’illustre ex allievo, che faceva ritorno all’alma mater in qualità di insegnante di poesia. Poiché l’immaginario incontro dei due artisti rendeva necessario fornire preliminarmente una notevole quantità di informazioni – ricavate dalle biografie di Auden e Britten scritte da Humphrey Carpenter – Alan Bennet ha via via deciso di: 1) fare dell’incontro la scena principale di una commedia (del cui autore ci vien detto solo il nome: Neil) intitolata Il giorno di Calibano, con riferimento a Il mare e lo specchio, «commentary» in versi e in prosa su La tempesta di Shakespeare, pubblicato da Auden

nel ’44; 2) trasferire il disordinatissimo intérieur oxoniano del poeta in una sala prove del National Theatre («Le domande e le obiezioni sul testo potevano essere affidate agli attori che – assieme al pubblico – avrebbero ottenuto tutte risposte nel corso della prova»); 3) fare del biografo Humphrey Carpenter un personaggio che racconta e commenta, rivolgendosi a volte anche al pubblico (all’inizio è un giovane intervistatore della BBC che il poeta scambia, appena lo vede, per un marchettaro inviato dietro sua richiesta da un’agenzia); 4) dare la parola ad alcuni arredi dell’abitazione di Auden (lo specchio, la sedia portata da New York, il letto, l’orologio), e persino a due delle numerosissime e profonde rughe che gli solcano il volto: segni vistosi dalla sindrome di Touraine-Solente-Golé; 5) mettere in scena anche l’autore della commedia, Neil, che si lamenta soprattutto dei tagli operati sul testo dal regista, temporaneamente assente e sostituito dalla direttrice di scena, che non disponendo di due attori impegnati in una matinée impersona fra l’altro la donna delle pulizie, mentre l’attore che interpreta Britten sostiene anche la parte del domestico di Auden. Quanto agli altri interpreti – Fitz (Auden), Donald (Carpenter), Tim (Stuart, il marchettaroCalibano, l’outsider di cui Neil perora la causa) non di rado mettono da parte i loro personaggi per parlare anche di sé stessi. Insomma, un meccanismo metateatrale per certi aspetti risaputo, che

Ferdinando Bruni, nei panni di W.H. Auden. (elfo.org)

Alan Bennet manovra a tratti con qualche fatica, a tratti in modo inventivo e brillante. Coerentemente con la dichiarazione iniziale di Carpenter («Io dei grandi voglio conoscere i difetti»), prima della visita di Britten (al quale piacciono i ragazzini, e che viene a trovare l’ex collaboratore perché è in difficoltà con la composizione della sua nuova opera, Morte a Venezia,

che potrebbe creargli dei problemi con la committenza, il pubblico e la critica) lo spettatore viene informato del fatto che il vecchio Auden pisciava nel lavandino, indossava pantaloni puzzolenti, era un maniaco della puntualità, calzava le pantofole per via dei calli, ed era incline alla fellatio: ragguagli in cui fatico a vedere degli imprescindibili strumenti esegetici. Quale sia il peso che conviene

attribuire, nella valutazione e nell’interpretazione di un’opera d’arte, alla biografia dell’autore, è un argomento su cui si discute da gran tempo. Si vedano al riguardo – per menzionare solo due titoli – il Contro Sainte-Beuve di Proust e il recente Romanzi pieni di vita di Tim Parks. A un certo punto, comunque, Auden sentenzia giustamente: «Non lo si potrà mai ripetere abbastanza: quello che conta sono le opere». Dopo lo straordinario successo di The History Boys (spettacolo replicato per tre stagioni), il Teatro dell’Elfo allestisce un’altra commedia di Alan Bennet, a mio parere meno riuscita e di minore attrattiva per il pubblico giovanile che ha decretato il trionfo della prima. Un po’ arrancante nei punti in cui il testo pecca di eccessiva artificiosità, la messinscena firmata da Ferdinando Bruni e Francesco Frongia è prevalentemente agile e vivace. Alejandro Bruni Ocaña è Stuart, il marchettaro che verso la fine lamenta la propria condizione di escluso: bravo. Con un ventre finto e un cuscinetto che lo ingobbisce leggermente, Ferdinando Bruni è eccellente nei panni sdruciti del poeta. Elio De Capitani è un finissimo Benjamin Britten (il malcelato disgusto con cui tocca la tazza e il bicchiere offertigli da Auden è una vera delizia). Bene tutti gli altri. Dove e quando

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Cultura e Spettacoli

Déjà vu Musica Effetti collaterali dell’eccessiva notorietà: per quanto

formalmente dignitoso, il nuovo sforzo creativo degli U2 non può evitare di lasciare un po’ di amaro in bocca

Tre colpi di pistola che ci riguardano Filmselezione Al suo secondo film

lungometraggio Erik Bernasconi conferma impegno e talento

Benedicta Froelich

Concorsi

Potrà sembrare un paradosso, ma purtroppo si tratta di una regola ineccepibile: quando una rock band di fama internazionale assurge a picchi di notorietà tali da fare del suo frontman una sorta di leader mondiale, accade quasi sempre che la suddetta band subisca un radicale «livellamento» stilistico, primo segnale di una deriva via via più commerciale. La leggendaria formazione irlandese degli U2 purtroppo non fa eccezione: da quando Bono Vox è passato dal ruolo di guru della cultura pop a quello di simil-messia mediatico, impegnato in incontri ai vertici con presidenti e politici, la prima a rimetterci è stata la musica – tanto che oggi, se si escludono i fan più accaniti, pochi sono davvero disposti a scommettere su un nuovo album della band. Di ciò, Bono & Co. sono più che consapevoli; e tuttavia, in barba agli scettici, hanno appena pubblicato il nuovo Songs of Innocence, lavoro nel quale il gruppo crede a tal punto da avergli voluto garantire la massima visibilità possibile, anche a costo di scatenare un gran polverone mediatico. Non è nelle intenzioni di chi scrive dilungarsi sulle motivazioni più o meno giustificabili di una scelta estrema come quella di offrire un album gratuito su iTunes; ma non occorre certo essere degli esperti per rendersi conto che quanto può costituire un ottimo lancio pubblicitario per gli U2 si tradurrebbe quasi sicuramente in un suicidio economico per qualsiasi altro gruppo. Al di là di ciò – e del fatto che l’album è stato ascoltato da milioni di persone in pochi giorni – qualcosa sembra non funzionare nella miscela. È senz’altro vero, come Apple si affretta a comunicarci, che Songs of Innocence costituisce per gli U2 una sorta di «ritorno alle origini», ovvero un omaggio alle influenze musicali degli anni formativi della band; eppure, una volta premuto il tasto «play», si è costretti ad ammettere come anche stavolta non sia possibile scrollarsi di dosso la sensazione che ha già segnato l’ascolto degli ultimi album della formazione – ovvero, il sospetto che Bono e i suoi non abbiano più molto da dire, almeno a giudicare da alcuni dei brani di

091/821 71 62 Orario per le telefonate: dalle 10.00 alle 12.00

Alessio Boni (quasi Drugo), in un momento del film. (frenetic.ch)

gavano nell’arco temporale, concentrici verso un medesimo destino, ma ognuno con una propria ambientazione, un tono drammaturgico autonomo. Al contrario, in Fuori mira l’effetto «palla di neve», come lo definisce il regista, provocato in un quartiere periferico multietnico dall’immigrazione, dall’apparentemente riuscita integrazione, presto seguita però dalla destabilizzazione, da una di quelle strumentalizzazioni che ben conosciamo, e infine dal ricorso alla violenza, costituisce un tema forte: legato come pochi altri nelle sue ripercussioni sociali, morali, politiche all’epoca che attraversiamo. Tre colpi di pistola, un tassista benvoluto giunto da tempo dal Togo che viene colpito di striscio, il dilagare disordinato alla ricerca del colpevole, il puntuale «rimandiamoli tutti a casa» rivolto ai «diversi», perturbatori di una comunità esemplare nella convivenza e nel mantenimento rassicurante del benessere. Dal privato al pubblico, dalle disgregazioni dell’intimo a quelle della società, dalle scadenze dettate dal tempo e dal caso a quelle concrete e presenti della riflessione etica e dell’urgenza civica. Che si sviluppino in un largo respiro temporale o nell’imposizione dell’unità di tempo sulle 24 ore di un thriller tragicomico, le sceneggiature di Erik Bernasconi non nascono nella facilità e non riescono nella perfezione: ma a smussarle interviene la verità e la scioltezza dei dialoghi, la generosità e la naturalezza di uno sguardo che evita pedanterie e il sospetto di premeditazione. Complice la fotografia sempre più matura di Pietro Zürcher o il commento musicale freschissimo di Zeno Gabaglio e di Christian Gilardi è il tono instaurato dal regista, la facilità istintiva delle sue intuizioni registiche a facilitare l’incontro con gli attori (osservate la freschezza con la quale avvicina ai ragazzini), da Jean Christoph Folly a Roberto Citran, a un Lino Capolicchio sovrano. Non tutto quadra (la coppia dei testimoni di Geova, il finale un po’ sbrigativo) e forse mai quadrerà nel cinema di Erik Bernasconi. Ma poco importa, il suo è sempre un cinema che respira.

Tra jazz e nuove musiche Rassegna di Rete Due Teatro Cittadella, Lugano Sabato 8 novembre, ore 20.30

Tra jazz e nuove musiche Rassegna di Rete Due Studio 2 RSI, Lugano Mercoledì 12, ore 21.00

Minispettacoli Rassegna teatrale per l’infanzia Oratorio Don Bosco, Minusio Domenica 9, ore 15.00 e 17.00

Coro di Movimento

Michel Camilo e Tomatito

Tigran: Shadow Theater

Fiabe per sempre

Conferenze aperte al pubblico del Dr. Prof. Patrick Primavesi (D) e Dr. Valerie Preston-Dunlop (UK)

Un incontro ravvicinato tra due grandi esecutori che mettono a contatto la tradizione jazz, la musica latina e il flamenco. Michel Camilo, pianoforte Tomatito, chitarra Nell’ambito della rassegna Estival nights.

Tigran Hamasyan: piano, Fender Rhodes Sam Minaie: contrabbasso Arthur Hnatek: batteria

Compagnia Fantulin, Firenze Una storia fantastica con i personaggi delle fiabe più conosciuti, amati o temuti da tutti. Spettacolo con baracca e burattini per bambini dai 3 anni.

www.laban.ch

www.rsi.ch/jazz

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www.minispettacoli.ch

Fabio Fumagalli **(*) Fuori mira, di Erik Bernasconi, con Jean-Christophe Folly, Martina De Santis, Alessio Boni, Roberto Citran, Pia Engleberth (Svizzera 2014).

Gli U2 si sono ripresentati al mondo con risultati discutibili. (U2.com)

questo lavoro, che suonano piuttosto manierati e risaputi. Questo è purtroppo il caso di The Miracle (of Joey Ramone), traccia d’apertura nonché singolo apripista dell’album, e dello sdolcinato pop-rock di California (There is No End to Love), in cui il tentativo di riprodurre sonorità alla Beach Boys non convince del tutto; più riusciti risultano pezzi come Every Breaking Wave, il cui incipit sembra quasi richiamare i tempi di The Unforgettable Fire (1984), e una ballatona efficace quale Song for Someone. Proprio qui, tuttavia, sta il punto debole dell’album, poiché i pezzi migliori rimangono quelli che ricalcano il repertorio dei primi anni della band – non soltanto in quanto i brani di allora sono universalmente riconosciuti come i capolavori della formazione, ma anche perché appartengono a un tempo in cui Bono e i suoi non avevano ancora rivestito il lusinghiero quanto pericoloso ruolo di semidei del pop-rock mondiale, ed erano prima di tutto concentrati sulla qualità del proprio songwriting e sulla capacità comunicativa di una musica che, all’epoca, risultava davvero fresca e rinvigorente. Così, nonostante le ottime intenzioni che si celano dietro a un brano sfortunatamente insipido come Iris (Hold Me Close) – un omaggio alla madre di Bono – bisogna ammettere che assistere a questa sorta di «autoplagio» da parte degli U2 inizia a risultare noioso; tuttavia, parte di questo Songs of Innocence trascorre proprio tra tracce come il banale Volcano o

This is Where You Can Reach Me Now, che presentano un sapore nostalgico e un po’ indefinito, a tratti condito da un eccesso di assoli elettrici tendenti all’hard rock. Le cose migliorano quando una buona storia emerge dalle liriche per palesarsi all’orecchio dell’ascoltatore, come nella dura ballata Raised by Wolves o in Cedarwood Road, vivace immersione nei ricordi dell’infanzia dublinese di Bono; e benché la seconda parte dell’album presenti alcuni pezzi indubbiamente piacevoli, come l’ipnotico Sleep Like a Baby Tonight, la traccia che lascia davvero il segno è quella di chiusura, il lento The Troubles, valorizzato dal contributo della vocalist svedese Lykke Li. Proprio questo brano, in fondo, riassume efficacemente pregi e difetti di Songs of Innocence – un album che, pur rappresentando un miglioramento rispetto alle ultime produzioni della band, manca di quell’indefinibile magia che ha fatto la fortuna degli U2. Tuttavia, non si può evitare di apprezzare il tentativo del gruppo di effettuare un sano recupero delle sonorità del passato. In fondo, è proprio questo che salva Songs of Innocence dalla banalità, permettendogli comunque di rappresentare un esperimento più che dignitoso per una band di mezza età. Perlomeno fino a che Bono non imparerà a trascurare una parte dei propri doveri (e privilegi) di figura pubblica per tornare a dedicarsi soprattutto alla sua musica.

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Regolamento Migros Ticino offre ai lettori biglietti gratuiti per le manifestazioni sopra menzionate.

Quattro anni fa Erik Bernasconi aveva provocato una scossa nel piccolo mondo cinematografico della Svizzera Italiana. Sinestesia, il suo primo lungometraggio, nasceva da un’idea di sceneggiatura insolitamente ambiziosa, una stesura ammirevolmente complessa, non certo facile da condurre a termine (anche se poi, giudiziosamente diluita nell’edizione definitiva); e non fosse che per questo, foriera di stimoli per gli autori, e di curiosità per gli spettatori. Forse perché ogni cineasta sa quanto il secondo film rappresenti notoriamente l’ostacolo più arduo da affrontare, Fuori mira appare ora come qualcosa di altrettanto importante nelle finalità; ma semplificato negli itinerari per raggiungerle. Il che non è necessariamente un male. Ambedue film corali, Sinestesia si muoveva da un tema assolutamente normale: l’adulterio, la prospettiva della separazione, l’amicizia. Era la struttura sulla quale si costruiva a farne lievitare l’originalità: quattro destini paralleli, quattro episodi che si coniu-

Massimo due biglietti per economia domestica. La partecipazione è riservata a chi non ha beneficiato di vincite in occasione di analoghe promozioni nel corso degli scorsi mesi.

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.+ Rosolare e tenere in caldo lo smin499>2’+ =+ Fare appassire lo scalogn’+ 8+ Aggiungere il dragoncello, rimettere la carne nel teJ>%D+ K+ Bagnare con del vino bianc’+ 5+ $nsaporire di sale e pepe e lasciare cuocere a fuoco lento per =0 minut + <+ Mescolare la senape mi-forte THOMY con la panna, aggiungere e riscaldare il 2422’+ 5+ Cospargere di erba cip’"" &>+

Ingredienti # <00 g di sminuzzato di manzo # = scalogni # . rametto di dragoncello # = dl di vino bianco # 0ale, pepe # K C di senape mi-forte THOMY # = dl di panna # Drba cipollina tagliuzzata

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Cultura e Spettacoli

Passaparola(ccia)

Gabold, la qualità è danese

Costume Purtroppo il linguaggio odierno è caratterizzato

da un uso sempre maggiore del turpiloquio – senza inventiva alcuna

Visti in tivù Da The Killing a Borgen,

la buona fiction, capace di fidelizzare, è tutta sua Antonella Rainoldi In tanti anni di osservazione televisiva non ci era mai successo di prenderci una pausa e trovarci sommersi di email e messaggini allarmati. Chiariamo subito. La scorsa settimana abbiamo abbandonato questa rubrica e altre rubriche, ma non ci siamo distratti dai nostri compiti istituzionali. Da quando recensiamo serie tv, ci capita spesso di ricevere garbati biglietti da maestri e colleghi: ci invitano a partecipare a incontri, dibattiti, manifestazioni. Il meglio è là fuori e chi, come noi, si occupa della cosiddetta «Quality Tv», ha il dovere di frequentarlo e studiarlo. E così, dopo un convegno di studi a Londra, siamo partiti alla volta di Berlino, dove si è tenuto il Prix Europa, il più importante festival trimediale europeo presieduto dal direttore generale della SSR Roger de Weck. Lasciamo perdere i singoli responsi della giuria e concentriamoci su Ingolf Gabold, premio Lifetime Achievement Award alla carriera. Nella rubrica di oggi parliamo di serialità. Intanto, per i più distratti, chi è Ingolf Gabold? Classe 1942, è stato direttore della fiction DR, la tv pubblica

danese, e parallelamente si è costruito una solida esperienza nella produzione seriale. A lui si devono opere mirabili come The Killing (Forbrydelsen), un giallo trasmesso in Inghilterra da BBC e subito diventato di culto (al contrario del remake americano, deludente sul finale), e Borgen, una delle serie più interessanti delle ultime stagioni televisive, coperta di riconoscimenti e di attenzione internazionale (è venduta in settanta Paesi e ora va in onda anche su RSI La1 la domenica in seconda serata). Da un po’ di tempo le fiction danesi, per una duplice proprietà di transizione, stanno contribuendo a rafforzare il brand DR e a nobilitare le tv estere che le hanno acquistate e programmate. Lo stesso discorso vale per il catalogo di eccellenze british targate ITV e BBC, tanto per onorare la patria del Servizio pubblico. Ma il grande insegnamento di Gabold è questo: un prodotto raggiunge vette di qualità solo se vive della capacità delle persone di trasferire nelle cose di cui si occupano la propria qualità. Le persone senza qualità non hanno mai creato buona tv, ma solo promosso l’estetica del brutto. Gran parte della fiction italiana è lì a dimostrarlo.

C’è chi invece del sapone già propone l’acido muriatico. (Keystone)

Maria Bettetini Facciamo che per le prime righe di questo articolo mi sarà permesso il pudico e ipocrita uso delle x (sempre più sincero dei bip televisivi, che volutamente non si sovrappongono mai a ciò che dovrebbero coprire). È difficile altrimenti raccontare di una progressiva diffusione della volgarità che porta oggi le menti elette a implorare insulti più raffinati. Non andiamo subito nel Parlamento italiano, troppo facile, saliamo su un autobus nell’ora dell’uscita da scuola, o in un parco giochi familiare. Sei una testa di xxx, xxx mi sono dimenticato il pallone, speriamo che quella xxx di sua sorella non tiri il pacco… Chi usa queste brutte parole? Tutti. Uomini e donne (perché mai il genere dovrebbe impedire espressioni chiare come non rompere i xxx?), grandi e piccini. «Porca xxx, ho fame» geme la creatura di sette anni per attirare l’attenzione della madre crudele, intenta al gossip. Le conseguenze della diffusione democratica della – lo diciamo? – ma sì, della Parolaccia, sono gravissime. Infatti se tra amici si dice «sei proprio uno xxx», intendendo quel prodotto sgradevole, nessuno si offende, basta aggiungere un’occhiata bonaria, una amichevole pacca, sei proprio uno stronzo. Visto? Non sembra nemmeno una Parolaccia. Si è persa così, purtroppo, l’arte della invettiva o dell’offensiva, quel saper dosare con intelligenza i termini in modo da ottenere la massima resa con le minime sillabe. La serva Italia, di dolore ostello, non era donna di province, ma bordello (termine oggi utilizzato dalle maestre d’asilo per invitare i bimbi a non far confusione o casino o bordello). A quei cattivoni dei Pisani, poi, Dante augurava una tremenda morte per affogamento, dovuta al fantascientifico movimento delle isole Capraia e Gorgona, invitate a muoversi fino a ostruire l’Arno. «Vai a morire ammazzato», si diceva popolarmente. Ora

sublimato in «ti venga un cancro» (impossibile? No, sentito e più di una volta durante litigi altrui). Questa è però un’espressione poco corretta, politicamente, perché tocca ciò che riguarda tutti, la salute, e perché in fondo siamo anche superstiziosi. Quindi i governanti hanno ben pensato di fornirci di espressioni alternative. Qui non uso le x, perché riporto testi parlamentari, o comunque pubblici, dove chi parlava era rappresentante di parte del popolo: il nemico è assassino, infame, figlio di troika (grazioso giuoco di parole), smargiasso, fanfarone. Un buffone che merita la lupara bianca, un ebete, non merita la scorta quindi gli auguriamo morte violenta. Un inetto (riferimenti letterari a Svevo?), un omicida (a Dostoevskji?), è così grosso che per lui a Bruxelles dovranno allargare i bagni, è così grassa che la si può definire solo tramite il suo lato posteriore. Esagero? Ma no, per parlare meglio basterebbe solo «sciacquarsi la bocca con acido muriatico», come consigliato da un politico a un collega. Il numero 54 della rivista «Il Verri» è dedicato alle parole offensive, il saggio introduttivo di Paolo Fabbri rimanda a utili elenchi, citando Sterne che racconta con ammirazione di un gentiluomo provvisto di una riserva di insulti mirati. Costui «con tutto l’agio compose delle formule d’insulto adatte a qualunque provocazione e le tenne sempre a portata di mano sulla mensola del caminetto pronte all’uso». Gli elenchi pronti potrebbero essere come quelli costruiti da Oriana Fallaci quando si arrabbiò con gli islamici (scemi, barbari, grulli, cani mordaci, conigli etc.), con i politici italiani (gelosi, biliosi, beoti, squallidi, falliti etc.), infine, perché no, con gli italiani tutti, piccole iene, voltagabbana, molluschi, inetti, parassiti, cani bagnati etc. Sulla sponda opposta, Gadda aveva scritto di Mussolini, senza mai nominarlo, qualche decina di insulti di nuovo conio, da sanguinolento porcello a mascellone,

fezzone, super balano, naticone ottimo massimo e così via. Ottimi lavori, da destra e da sinistra, un po’ banali le espressioni della rabbia della signora. Paolo Fabbri chiede «più inventiva nell’invettiva». Per non ridursi a dare la Parolaccia, chiedere la Parolaccia, passare la Parolaccia, aggiungere infine solo una Parolaccia, scambiare due Parolacce tra amici, come si teme ormai si debba dire in qualunque assemblea, dal Parlamento alla tavolata estiva. Conservare le vere e proprie Parolacce per il loro scopo, ossia la manifestazione di uno stato d’animo così adirato o sconvolto da poter trovare espressione solo in metafore poco fini. Le cose più tremende accadono quando si usano termini che non sconfinano, Francesca si ritenne offesa dal «modo» con cui Paolo le fu tolto, a noi viene trasmesso il senso di un’offesa profonda e inguaribile. Per tornare alla politica, nel 1925 Mussolini si assunse la responsabilità del delitto Matteotti e proclamò di fatto la dittatura, senza uso di paroloni e parolacce: «Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!» e punto lì. Certo, non si può neanche esagerare in pudicizia, seguendo l’esilarante prova di Umberto Eco che ha ricostruito le versioni corrette di alcune espressioni non eleganti: «Taccia, Lei, il cui viso avrebbe potuto essere definito da un noto maresciallo dell’Impero nelle ultime ore della battaglia di Waterloo!»; «Ella ha una scatola cranica che più che alla speculazione sarebbe adatta alla riproduzione», e così via. Divertente, ma poco pratico. E se si attingesse alla ricchezza dialettale? Già fatto, tutti usano come Montalbano l’espressione che inizia per emme, di cui pochi sanno il significato. E ora non so più come xxx chiudere questo xxx di pezzo, e non ho detto niente degli altri contributi sul «Verri». Beh, mi avete xxx xxx, se volete leggeteli xxx, oppure xxx xxx xxx. Xxx!

Ingolf Gabold, premio alla carriera al Prix Europa di Berlino. (Wikimedia)

Top10 DVD 1. Mr Peabody e Sherman

Animazione 2. Maleficent

A. Jolie, E. Fanning 3. Monster High - Fusioni mostruose

Top10 Libri 1. Ken Follett

I giorni dell’eternità, Mondadori 2. John Green

Colpa delle stelle, Rizzoli 3. Wilbur Smith

Il Dio del deserto, Longanesi / Novità

Animazion 4. Benedetta Parodi 4. Rio 2

Molto bene, Rizzoli

Animazione 5. Alessandro D’Avenia 5. Anarchia - La notte del giudizio

F. Grillo, C. Ejogo / Novità 6. X-Men: Giorni di un futuro passato

Ciò che inferno non è, Mondadori Novità 6. Antonella Clerici

La cucina di casa Clerici, Rizzoli

H. Jackman, J. Lawrence 7. Camilla Läckberg 7. Barbie e il regno segreto

Il guardiano del faro, Marsilio

Animazione 8. Sveva Casati Mondignani 8. Brick Mansions

Il bacio di Giuda, Electa

P. Walker, D. Bell 9. Sophie Kinsella 9. Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve

I love shopping a Hollywood, Mondadori

R. Gustafsson, I. Wiklander 10. Stephen King 10. Free Birds - Tacchini in fuga

Animazione

Mr. Mercedes, Sperling


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In palio 50 fantastici alberi di Na tale!* Iscriviti e partecipa: ww w.famigros.ch/concorso

Aderire vale doppiamente la pena! Infatti solo i membri Famigros hanno la possibilità di vincere uno dei 50 alberi di Natale artificiali, addobbi natalizi inclusi, del valore di fr. 180.– ciascuno. Inoltre, in qualità di nuovo membro approfitti di un buono punti Cumulus moltiplicati per 10, per esempio sui tuoi prossimi acquisti natalizi. Che bel regalo di Natale, vero? *Trovi tutti i dettagli relativi al concorso su www.famigros.ch/concorso. Il termine ultimo di partecipazione è il 23.11.2014.


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shopping Una nuova Migros «momò» Attualità Giovedì 6 novembre apre i battenti il supermercato Migros Mendrisio Sud di Via Campagna Adorna

Il team del supermercato Mendrisio Sud con, in primo piano al centro, la gerente Tindara Rano. (Flavia Leuenberger)

La signora Tindara Rano, gerente del nuovo punto vendita mendrisiense, è entusiasta: «Il conto alla rovescia è cominciato, sia io che il mio team di vendita non vediamo l’ora di poter accogliere la clientela nel nuovo supermercato di Mendrisio Sud». Ad un anno dall’inizio dei lavori, giovedì 6 novembre dalle ore 8.00 i primi clienti potranno varcare la soglia e scoprire quella che sarà la quinta filiale Migros del Mendrisiotto. Con una superficie di ca. 900 metri quadrati, una costruzione all’avanguardia in fatto di sostenibilità ambientale ed energetica, Mendrisio Sud si caratterizzerà per l’assortimento indirizzato ai bisogni quotidiani. Grazie agli ampi spazi, muoversi tra i vari reparti del negozio risulterà particolarmente comodo e l’ambiente non mancherà di mettere a proprio agio la clien-

tela. Accanto a un vasto assortimento di prodotti alimentari e non, l’attenzione sarà focalizzata sulla freschezza. I banchi a servizio spiccano infatti per l’ottima proposta di carne, salumi, gastronomia e formaggi, mentre il reparto frutta e verdura attirerà subito l’attenzione grazie alla sua variegata scelta di prodotti. Inoltre vi sarà un corner riservato alle prelibate leccornie calde, pronte per il consumo immediato. Nel medesimo immobile è pure presente il bar Cerutti con la sua offerta di caffè, bevande, spuntini vari e croccanti insalate. All’esterno una settantina di parcheggi gratuiti saranno a disposizione durante gli orari d’apertura: dal lunedì al sabato dalle 8.00 alle 19.00; il giovedì dalle 8.00 alle 21.00. Maggiori informazioni sul nuovo supermercato di Mendrisio Sud saranno

contenute nel numero di Azione della prossima settimana.

Apertura in festa Per sottolineare l’inaugurazione di Mendrisio Sud, sono previste alcune promozioni rivolte a tutti i visitatori. A cominciare dal 10% di riduzione su tutto l’assortimento, in programma giovedì 6 e venerdì 7 novembre. Il giorno dell’apertura la gerente Tindara Rano renderà omaggio alle prime clienti con una bellissima rosa. Sabato 8 novembre, invece, sono previste simpatiche sorprese per tutti i bambini e un gustoso omaggio per gli adulti.


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Una gustosa pausa tra una sessione di studio e un’altra Freschezza Mini pane ticinese, per una pausa pranzo saziante o uno spuntino pomeridiano

Mini pane ticinese 90 g Fr. 1.– In vendita sciolto in tutti i supermercati di Migros Ticino.

Siamo sempre più di corsa tra studio, lavoro e tempo libero. A volte è difficile concedersi una pausa pranzo rilassante. Zeno Maspoli, studente Master of Science in Engineering presso la SUPSI, fa del suo meglio per ritagliarsi del tempo per mangiare un pasto che sazi senza appesantire. «Sono al secondo anno del Master e lo studio è impegnativo. Tra le materie principali del programma di studio spiccano matematica, fisica, elettronica, ed una specializzazione su un tema, nel

mio caso ho scelto lo studio dei microcontrollori, dispositivi elettronici progettati per controllare macchinari vari. Che sia in classe a seguire le lezioni oppure in laboratorio a lavorare su un progetto, per me è fondamentale essere sveglio, lucido e mangiare qualcosa di non troppo pesante». Per la pausa pranzo la sua scelta cade spesso sul mini pane ticinese, versione in dimensione ridotta del classico filone a micche. «Prima di raggiungere la stazione passo alla Migros di Men-

Zeno Maspoli si gode il suo mini pane ticinese imbottito durante la pausa pranzo. (Flavia Leuenberger)

drisio. Faccio veloce i miei acquisti, due mini panini ticinesi, carne secca, formaggio fresco al naturale e rucola. Spesso un paio di branches ed una mela per la pausa pomeridiana. Così sono tranquillo per la pausa pranzo e so che posso prendermela con comodo. In sede non c’è una mensa e l’alternativa sarebbe quella di andare al ristorante, soluzione troppo costosa, oppure in una paninoteca, ma dovrei fare delle corse e aspettare perché c’è spesso molta fila. Invece così posso prendermi il mio tempo e godermi la pausa pranzo». Il formato mini del pane ticinese è ideale per chi vuole gustare un boccone fuori casa. La forma a tre micche è versatile e permette al pane di essere spezzato in piccole porzioni. «Generalmente farcisco un panino, mentre dal secondo stacco una porzione da tenere per il pomeriggio, quando faccio una pausa con pane e cioccolato». Un pane morbido e versatile, dal gusto neutro che si presta bene per l’accompagnamento di carne secca, affettati vari, formaggi e verdura. «Mi è capitato spesso di portarmi il pane in treno, negli spostamenti per seguire alcuni corsi che si tengono a Sursee e Zurigo. Il formato è comodo, posso comprarlo al volo prima di partire senza preoccuparmi di preparare qualcosa a casa». Pratico e adatto ad ogni occasione, mini formato e massima comodità! / Luisa Jane Rusconi

Serate e pomeriggi in panetteria Adulti e bambini hanno la possibilità di prender parte ai due ultimi appuntamenti dell’anno nelle panetterie della casa di S. Antonino e Serfontana, nelle date di mercoledì 19 dalle 14.00 alle 17.00 (bambini 7-14 anni) e martedì 25 novembre dalle 18.30 alle 21.00 (adulti). I partecipanti avranno la possibilità

di preparare alcune classiche specialità natalizie. Gli interessati possono telefonare al numero 091 840 12 61, martedì 4 novembre a partire dalle ore 10.30. Posti limitati a 10 partecipanti per filiale ed evento. Valido per chi non ha ancora partecipato agli ultimi appuntamenti.

I partecipanti delle serate in panetteria avranno la possibilità di preparare il panettone.


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Calendario Nostrani 2015

Attualità Da sabato 8 novembre, presso i punti accoglienza clienti di ogni supermercato

Migros, potrai ritirare la tua copia omaggio del nuovo calendario dedicato ai Nostrani del Ticino. Affrettati a procurartelo, perché è disponibile solo fino ad esaurimento delle scorte

La fotografa locarnese Loredana Mutta.

Il nuovo calendario Migros dedicato ai prodotti della nostra regione raffigura i suggestivi scatti della fotografa locarnese Loredana Mutta. «La passione per la fotografia è nata in me all’età di 15 anni; alcuni anni dopo ho quindi intrapreso l’apprendistato specifico presso uno studio di Locarno. Adoro la fotografia in bianco e nero; ritengo che abbia un fascino ed un’eleganza del tutto particolari. Sovente amo isolarmi nel paesaggio e coglierne i dettagli più significativi, facendoli miei. In ogni mia singola immagine sono racchiuse le mie emozioni e il mio stato d’animo». Gli scatti di Loredana sono sempre semplici e puliti, proprio come quelli rappresentati nel calendario dei Nostrani. «Ho voluto conoscere le aziende coinvolte ed instaurare un dialogo col produttore. Volevo veder nascere ogni singolo prodotto esposto nel calendario e quindi estrapolarne un semplice dettaglio; senza nessun gioco di luce, ma proprio così genuinamente come lo vedevano i miei occhi. Il tutto rigorosamente in bianco e nero, ma con un piccolo tocco di colore per rendere l’immagine più dinamica».

La settimana del polpettone Attualità Un intramontabile secondo

questa settimana in primo piano ai banchi macelleria Migros La preparazione del polpettone era già nota agli antichi Romani. Una delle prime ricette è addirittura menzionata nel famoso ricettario Apicius. Un tempo si utilizzavano resti di carne già cotta, la quale veniva mischiata con altri ingredienti e quindi cotta nuovamente. In questo modo non solo si riutilizzavano le rimanenze di carne, ma si potevano anche sfamare molte più persone grazie appunto all’aggiunta di altri componenti quali ad esempio pane, riso o verdure. Oggi polpettoni e polpette sono preparati principalmente a partire da una base di carne fresca macinata. Alcune ricette utilizzano un solo tipo di carne, soprattutto manzo, ma se si desidera un risultato più saporito si usa mischiare fra di loro anche altre carni quali maiale, vitello, tacchino, pollo o agnello. Pangrattato, uova e farina sono usati come elementi leganti, mentre altri ingredienti tipo cipolle, prezzemolo, erbe aromatiche o aglio vengono usati per aromatizzare la carne. La settimana del polpettone nelle macellerie Migros

Gli amanti del polpettone questa settimana non possono lasciarsi sfuggire

le proposte dei banchi macelleria Migros, dove troveranno alcune specialità preparate freschissime dai nostri specialisti con l’impiego di una miscela di carni selezionate di manzo e maiale, nonché prosciutto cotto, mortadella e luganighetta. La gamma annovera, oltre al tradizionale polpettone, anche le polpettine, il tramezzino di carne con ripieno di formaggio e le girelle di carne farcite al formaggio. Ecco una ricetta semplice ma gustosa che conquisterà il palato di tutti commensali: accomodare il polpettone in una brasiera e rosolare al centro del forno preriscaldato a 220 °C per 20 minuti. Abbassare la temperatura a 180 °C. Sciogliere un dado di salsa arrosto in 2 dl d’acqua e versare nella brasiera insieme a 1 dl di vino rosso. Continuare la cottura per ca. 25 minuti. Tagliare alcuni gambi di sedano e due peperoni a pezzetti. Accomodare le verdure nella brasiera intorno al polpettone e completare la cottura per una ventina di minuti. Prima di tagliare la carne lasciarla riposare. Servire con le verdure, il fondo di cottura e una purea di patate.


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Un frutto virtuoso

Attualità Simbolo di forza e resistenza, il cachi è ricco di virtù salutari e naturali. Tra i frutti principi dell’autunno,

lo trovate in vendita da Migros nelle varietà Loto e Persimon

Non mangiate il cachi? Sbagliate, come è sbagliato dire «caco», siccome la parola non varia dal singolare al plurale. Sappiate che l’albero del cachi possiede ben sette virtù secondo la tradizionale religione giapponese. Ed è anche definito «albero della pace» perché 24 esemplari hanno resistito al bombardamento atomico di Nagasaki! La prima virtù è, appunto, la lunga vita, e soltanto questo dovrebbe bastare per cominciare a mangiare questo incredibile frutto di una stagione generosa come è l’autunno. Le altre virtù sono: fa ombra, gli uccelli vi nidificano volentieri, le sue grandi foglie sono utili per concimare e per far giocare i bambini, il suo legno produce un bel fuoco e, inoltre, se resiste ad un’esplosione figuriamoci se teme i tarli! Naturalmente anche la dolcezza dei suoi frutti è amata da moltissimi palati. Per cominciare a diventarne golosi, sap-

piate che attualmente nei supermercati Migros ve ne sono di due tipi. C’è quello tradizionale (chiamato anche «kaki» o «diòspiro» in italiano, dal greco «frumento di Giove», ma anche «pomo», «mela d’oriente» o «loto del Giappone»): proviene dalle regioni calde della Cina e oltre mille anni fa giunse in Giappone dove venne coltivato, e poi importato in Europa. È la specie tipica anche da noi, di colore giallo-arancio, polpa gialla, si forma senza fecondazione naturale, contiene dei semi ed è molto dolce. La varietà «cachi mela», «kaki persimon» o «cachi vaniglia» è leggermente meno dolce, non ha semi, ha la polpa soda e croccante come quella delle mele, e si mangia subito: si sbuccia, si taglia a fette e voilà! Ne trarranno giovamento nervi, fegato, stomaco ed intestino. Un piccolo consiglio: una volta acquistati, consumateli al più presto possibile. / Marco Jeitziner Il cachi Persimon ( a sinistra) e la varietà Loto. Questa settimana alla Migros i Persimon sono in offerta speciale. (Keystone)

Crema di cachi Dessert per 8 persone Ingredienti 2 cachi ben maturi 110 g di zucchero ½ limetta 2 dl di panna Preparazione Pelate i cachi e riducete la polpa e 100 g di zucchero in purea con il frullatore a immersione. Dalla scorza

della limetta prelevate qualche strisciolina. Passatele nello zucchero e mettetele da parte. Grattugiate la scorza di limetta rimasta e spremetene il succo. Incorporate scorza e succo alla purea di cachi. Montate la panna e unitela con cura alla purea. Servite nei bicchieri e mettete in fresco per almeno 20 minuti. Prima di servire guarnite con le zeste.

Buone nuove ai reparti gastronomia

Brasato con polenta presto in tavola grazie alle nuove specialità fresche dei banchi gastronomia.

Recentemente, presso i banchi gastronomia delle maggiori filiali Migros, sono state introdotte delle nuove specialità fresche pronte al consumo, tutte preparate artigianalmente con materie prime accuratamente selezionate ed assolutamente prive di conservanti o additivi. L’ampia gamma include, per quanto riguarda le carni, brasato di manzo,

sminuzzato di vitello ai funghi, tacchino ripieno e polpette di vitello al sugo; paste quali lasagne alle verdure, lasagne agli spinaci, cannelloni di vitello e verdure, crespelle ricotta/spinaci e al cotto, pizzoccheri; insalata di riso e salmone o capricciosa; nonché torte salate sotto forma di torta pasqualina e torta alle zucchine. Non mancate di assaggiare!



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Dolci stelline di Natale La nuova edizione limitata di palline stellate al caramel nougat è stata scelta lo scorso anno dagli utenti di Migipedia e completa l’assortimento natalizio di cioccolatini Frey. Oltre che squisite prelibatezze, le palline Frey sono delle perfette decorazioni Cioccolato al latte con ripieno di moca: Frey Palline Mocca* sacchetto da 200 g, Fr. 4.90 Disponibile anche in sacchetto da 500 g La nuova varietà di cioccolato al latte ripiena di cremoso caramel nougat e con un pizzico di sale marino: Frey Palline Caramel nougat-Seasalt, Limited Edition* sacchetto da 500 g, Fr. 10.80

Cioccolato al latte con cremoso ripieno alle nocciole: Frey Sfera di metallo piena di palline Pralinor* 200 g, Fr. 9.60

Delicate come la tavoletta di cioccolato: Frey Crocchette latte finissime in retina* 115 g, Fr. 3.80 Disponibili in diversi colori e in retina da 260 g

*nelle maggiori filiali (fino a esaurimento scorte)

Cioccolato al latte ripieno di croccante alla nocciola: Frey Palline Extra* sacchetto da 500 g, Fr. 10.80 Disponibile anche in sacchetto da 200 g

CONCORSO A PREMI

L’ESPERTA LETTRICE

Su ogni confezione di palline stellate trovate un codice di vincita, che dovete inserire sulla pagina online www.chocolatfrey.ch/xmas. Si possono vincere premi per un valore complessivo di 36 000 franchi. Scoprite quali sono direttamente sul sito Internet.

Anita Andres (51 anni), casalinga di Ostermundigen (BE) Gusto: nelle nuove palline stellate il dolce e il salato si abbinano in modo eccellente. In particolare mi piacciono le scaglie di caramello. Questa variante posso solo consigliarla. Dolcezza: per me è proprio giusta. Design: davvero bello con le stelline.

L’Industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui anche le palline stellate di Frey.


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Partecipare e vincere

i em r p nte re Moel valo ivo di d less p com chi n a r di f

1

Coloro che dal 4 novembre al 29 dicembre fanno gli acquisti alla Migros non devono assolutamente buttare il proprio scontrino. Questo perché è in corso il gioco a premi «Mega Jackpot», con il quale si possono vincere premi per un valore complessivo di 1 milione di franchi*. I codici vincenti si trovano sul retro dello scontrino di cassa. Più quest’ultimo è lungo, maggiori sono le possibilità di vincita. Per scoprire se si ha vinto oppure no, basta dare un’occhiata all’App Migros oppure sul sito: www.megajackpot.ch. La somma iniziale del Jackpot è di 1000 franchi. Per ogni codice vincente inserito, il Jackpot si arricchisce da 10 centesimi fino ad un massimo di 50 000 franchi e può essere sbancato in qualsiasi momento. Più sono le persone che prendono parte al gioco, più velocemente aumenta la somma da vincere.

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*Le somme vinte vengono elargite sotto forma di carte regalo Migros.


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Cake pops, i dolcetti variopinti Dolcetti come i brunsli o i discoletti sono un classico consolidato del periodo dell’Avvento. Quest’inverno, però, sono in arrivo dei concorrenti, che attirano l’attenzione con le loro decorazioni all’insegna della creatività: i cake pops. Qui di seguito un paio di ricette e altrettante idee regalo.

Cake pops avvolti in una glassa scura e spolverati di zucchero a velo oppure decorati con stelline di marzapane. La ricetta si trova su www.migros.ch/dolci

Foto: Jorma Müller; Styling: Monika Hansen; Foto (Food) Veronika Studer; resp. progetto: Sonja Leissing

Cuocere e decorare i cake pops tra amici e bambini è divertente e contribuisce all’atmosfera natalizia.

Non bisogna certamente entusiasmarsi per ogni nuova tendenza proveniente dal mondo anglosassone. Tuttavia, i cake pops – le variopinte palline di torta – ci hanno sedotto e si sono ormai insediati nei nostri forni natalizi. L’impasto si realizza in un battibaleno e le palline si cuociono in un attimo in una formina di silicone da dodici porzioni. Un volta raffreddati, i cake pops vengono infilati su bastoncini come se fossero dei leccalecca e decorati uno ad uno, per esempio ricoprendoli di glassa colorata o tempestandoli di stelline di marzapane o perline zuccherate. La creatività non ha limiti. Anche se è quasi un peccato mettersi a rosicchiare dei sorridenti angioletti con l’aureola o delle palline di cioccolato decorate con marzapane: confezionati in modo originale diventano un regalo molto personale… che in più fa venire l’acquolina in bocca. / SL

Idea regalo 1: Foderate una piccola teglia con della carta da forno e regalate questi sorridenti angioletti all’amica del cuore per il primo giorno dell’Avvento.

Idea regalo 2: Riempite alcuni vasetti con dello zucchero semolato e in ognuno infilarci una pallina di torta al cioccolato. Decorate con rametti di abete e figure natalizie.


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Cake pops a forma di angioletto

Abete natalizio di girelle di pasta lievitata

Per 24 pezzi

Per 11 porzioni

Ingredienti 2 rotoli di marzapane bianco burro per imburrare 100 g di burro morbido 100 g di zucchero 1 presa di sale 2 uova 125 g di farina 1 cucchiaino di lievito in polvere 1 limone

Ingredienti 300 g di farina 3 cucchiai di zucchero ½ cucchiaino di sale 50 g di burro, morbido 1 dl di latte, tiepido 20 g di lievito fresco 1 uovo 100 g di confettura di rosa canina 100 g di mandorle spellate, macinate 50 g di burro, morbido 25 g di zucchero 2 cucchiaini di cannella farina per spianare la pasta

Guarnitura 50 g di cioccolato bianco 24 spiedini di legno o bastoncini per lecca-lecca 1 pezzetto di polistirolo spesso ca. 5 cm 450 g di zucchero a velo ca. 6 cucchiai di succo di limone 24 gocce di colorante alimentare in gel (rosa) decorazioni di zucchero, a piacere 24 pirottini rosa per praline

Preparazione 1. Spianate i rotoli di marzapane in una sfoglia di ca. 2 mm di spessore. Ritagliate 24 cuori di ca. 6 cm. Accomodate i cuori su un foglio di carta da forno e lasciateli seccare per ca. 4 ore. Con il marzapane restante formate 24 piccoli anelli di ca. 1,5 cm di diametro. 2. Per i cake pops, scaldate il forno a 160 °C. Imburrate lo stampo per cake pops. Con lo sbattitore elettrico lavorate a spuma il burro con lo zucchero e il sale per ca. 5 minuti. Aggiungete le uova uno dopo l’altro e mescolate. Incorporate la farina e il lievito. Unite la scorza di limone grattugiata, spremete il succo e aggiungetene 1 cucchiaio all’impasto. Versate l’impasto in una tasca da pasticciere. Distribuite metà della massa negli incavi imburrati dello stampo, sigillate bene e cuocete al centro del forno per ca. 25 minuti. Estraete i cake pops dal forno e lasciateli intiepidire nello stampo per ca. 5 minuti, quindi sformateli. Ripetete lo stesso procedimento con l’impasto avanzato. 3. Per la guarnitura, spezzettate il cioccolato e fatelo fondere a bagnomaria. Immergete i bastoncini nel cioccolato fuso per ca. 1 cm e infilateli nei cake pops. Metteteli in frigo per ca. 30 minuti. Mescolate bene 400 g di zucchero a velo con il succo di limone e il colorante alimentare. Ricoprite i cake pops di glassa e fate sgocciolare bene. Distribuite un po’ di decorazioni di zucchero sui cake pops. Infilzate i bastoncini nel pezzo di polistirolo. Accomodate gli anelli di marzapane sui cake pops e guarniteli con le decorazioni di zucchero. Allungate la glassa di zucchero a velo con qualche goccia d’acqua in modo che diventi più fluida. Trasferitela in piccole tasche da pasticciere. Formate gli occhi e la bocca degli angioletti con la glassa. Per le ali, spruzzate poca glassa al centro dei cuori di marzapane e incollatele sul lato opposto del viso, fissate con uno stuzzicadenti e lasciate asciugare. Infilate i pirottini di carta sui bastoncini sotto le palline.

Tempo di preparazione ca. 70 minuti + cottura in forno ca. 50 minuti + riposo in frigo ca. 30 minuti + raffreddamento Un cake pop ca. 2 g di proteine, 6 g di grassi, 33 g di carboidrati, 820 kJ/200 kcal

Decorazione 100 g di zucchero a velo ca. 15 g di albume 1 cucchiaio di pistacchi tritati 80 g di marzapane bianco decorazioni di zucchero, a piacere zucchero a velo da cospargere

Preparazione 1. In una scodella mescolate la farina con lo zucchero e il sale e formate al centro un incavo. Fate sciogliere il lievito nel latte e versatelo nell’incavo con il burro e l’uovo. Impastate fino a ottenere una massa liscia e omogenea. Copritela e fatela lievitare finché raddoppia per ca. 1 ora. 2. Mescolate la confettura con le mandorle, il burro, lo zucchero e la cannella. Spianate la pasta su poca farina in una sfoglia rettangolare di 30 x 40 cm. Spalmate il ripieno sulla sfoglia, lasciando un bordo di ca. 1 cm su uno dei lati più lunghi. Arrotolate la pasta e tagliatela in 11 fette. Accomodate le girelle su una teglia foderata con carta da forno in modo da formare un abete. Infornate la teglia al centro del forno spento. Scaldate il forno a 180 °C e cuocete l’abete per ca. 30 minuti. Sfornate e lasciate raffreddare. 3. Per la decorazione, mescolate a spuma lo zucchero a velo con l’albume con lo sbattitore elettrico. Trasferite la massa in una tasca da pasticciere con beccuccio a stella (ca. 5 mm ø). Spruzzate la glassa sul bordo dell’abete e cospargete con pistacchi. Con il marzapane formate 9 palline. Passatele prima in poca glassa e poi nelle decorazioni di zucchero. Incollate le palline sull’abete usando un poco di glassa. Spolverizzate con lo zucchero a velo.

Suggerimento Disponete le girelle, una accanto all’altra, in modo tale che la parte finale della girella rimanga verso l’interno. Le palline di marzapane possono essere decorate, ad esempio, con pistacchi tritati, noce di cocco o mandorle grattugiate.

Tempo di preparazione ca. 45 minuti + cottura in forno ca. 30 minuti + raffreddamento Una porzione ca. 7 g di proteine, 14 g di grassi, 47 g di carboidrati, 1480 kJ/350 kcal

Ricetta di

Lumachine: Disporre le lumachine alle nocciole sulla carta da forno in modo che le code di pasta restino all’interno.

Palline di marzapane: Si possono decorare le palline di marzapane con pistacchi tritati (25 g, Fr. 2.80), mandorle, scaglie di cocco (M-Classic, 200 g, Fr. 1.–) o variopinte perline colorate.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 3 novembre 2014 ¶ N. 45

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Cevapcici M-Classic surgelati, 420 g

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Idee e acquisti per la settimana

Caruso Oro, macinato* 500 g Fr. 9.50 20% sul Caruso Oro chicchi e macinato nel triopack da 3 x 500 g + 1 scatola per caffè gratis dal 4 al 10.11.

Caruso Espresso, in chicchi* 500 g Fr. 8.–

Caruso Mocca, in chicchi* 500 g Fr. 9.50 *Nelle maggiori filiali Migros.

A casa oppure in giro bisognerebbe sempre concedersi il tempo per una buona tazza di caffè. La scatola per la scorta è disponibile gratuitamente nell’ambito dell’azione sul Caruso Oro.

Intensamente aromatico Gli amanti del caffè forte hanno ora un motivo in più per far scorte della loro bevanda preferita

L’industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui il caffè Caruso.

Voglia di un caffè all’italiana, intensamente aromatico? Nessun problema con Caruso, visto che la marca propria Migros è composta da preziose varietà e miscele, ideali per ogni preparazione e gusto. Caruso Mocca è al 100% a base di chicchi Arabica. Le varietà Oro, Imperiale

Crema, Ristretto ed Espresso sono prodotte con una miscela di chicchi Arabica e Robusta e si caratterizzano per la speciale tostatura. Un aspetto importante per poter gustare un buon caffè, oltre alla qualità dei chicchi e alla preparazione, è anche lo stoccaggio. Idealmente il caffè va conservato al fresco, al buio e chiuso

ermeticamente. Come per esempio nella scatola dorata, ottenibile ora gratuitamente nell’ambito dell’azione triopack sulla varietà Caruso Oro. Grazie ad una conservazione ottimale, i chicchi di Caruso preserveranno ancora più a lungo il loro aroma – per un piacere intenso in ogni momento e occasione. / CS


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Idee e acquisti per la settimana

La tavola è imbandita, gli ospiti si sono accomodati. Grandi e piccini pregustano già le lasagne, che oggi saranno servite in quattro varianti.

Come quelle della nonna

Le lasagne sono un classico intramontabile. Ed ora si possono gustare in ben quattro varianti surgelate: buon appetito! Preparare da sé le lasagne richiede un impegno non da poco. Molto più comodo, allora, puntare sulle specialità surgelate dell’assortimento Buon Gusto, pronte per essere gustate dopo soli 30 o 40 minuti. Per l’occasione sono state migliorate le ricette dell’ex

Buon Gusto Lasagne Bolognese 360 g Fr. 3.40

linea di lasagne M-Classic. Il nuovo marchio Buon Gusto è sinonimo di tipiche lasagne italiane confezionate con ingredienti d’alta qualità, come per esempio la carne di manzo svizzera. Pasta e sughi sono preparati freschi dall’azienda alimentare Bischofszell

Buon Gusto Lasagne Verdi Bolognese 600 g Fr. 5.20

AG, disposti a strati direttamente nelle teglie e congelati. Così la pasta rimane bella al dente anche dopo la cottura al forno. Le lasagne Buon Gusto sono proposte in quattro varietà: alla Bolognese, Verdi con pasta agli spinaci, alla Fiorentina con ricotta e spinaci e

Buon Gusto Lasagne Fiorentina 600 g Fr. 5.20

Le lasagne alla Bolognese di Buon Gusto sono fatte con pasta fresca e carne di manzo svizzero.

Mediterranee con pomodori, zucchine, peperoni e olive. Siccome sarebbe un vero peccato riservare queste prelibatezze solo al pranzo della domenica, Buon Gusto porta in tavola una porzione d’italianità per dare sapore anche alla quotidianità. / DH

Buon Gusto Lasagne Mediterranee 360 g Fr. 3.50

L’Industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui anche le lasagne Buon Gusto.


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Idee e acquisti per la settimana

Burro per ogni evenienza

«Bio è il massimo»

«Le perfette cotolette»

«Per ogni pietanza»

Sonja Mulitze (47 anni) di Illnau (ZH) propende per il burro per arrostire biologico: «I miei bambini adorano quando friggo in padella delle verdure o dei bei rösti croccanti con il burro biologico chiarificato». Generalmente, la redattrice fotografica si orienta su prodotti biologici svizzeri: «Bio è semplicemente il massimo». Bio burro per arrostire 250 g Fr. 6.90

Simi Simonet (51 anni) di Nussbaumen (AG) è un cuoco professionista. Per la sua azienda di catering utilizza solo gli ingredienti migliori «Tra le mie specialità ci sono Wienerschnitzel e Cordon bleu. Il burro chiarificato gli conferisce una splendida doratura. La perfezione! Apprezzo molto la confezione grande». Burro per arrostire 450 g Fr. 7.90

Madeleine Grabherr (52 anni) di Lommiswil (SO) ama cucinare per se stessa: «Praticamente per ogni pietanza uso il burro per arrostire, che si tratti di polpette, filetti di pesce, riso o verdure. Il burro chiarificato ha il sapore del burro puro e, secondo me, è fondamentale per una cucina raffinata». Burro per arrostire 250 g Fr. 4.85

Foto Christian Dietrich; styling Mirjam Käser

Alla Migros il burro per arrostire è disponibile in confezione grande o piccola, così come in qualità biologica

L’Industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra i quali anche il burro per arrostire.


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Idee e acquisti per la settimana

Più pratici da sgranocchiare Le confezioni di salatini Party hanno un nuovo sistema di chiusura. Sono più facili da aprire e mantengono fresco il prodotto più a lungo

Forbici e coltelli fanno ormai parte del passato: grazie alla linguetta sul bordo superiore dell’imballaggio, per aprire il sacchetto di salatini Party non c’è bisogno né di utensili né di una smisurata forza nelle dita. Inoltre, ogni confezione è provvista all’esterno di un adesivo. Basta staccarlo e richiudere il pacchetto già iniziato. E così, cracker e compagnia bella restano freschi e croccanti più a lungo. Non c’è più bisogno di conservarli in un contenitore separato. Ogni occasione è buona per divertirsi a sgranocchiare i salatini. Cosa sarebbe una serata

di giochi di società se, accanto al tabellone, ai dadi, ai gettoni e alle carte da gioco, non ci fosse anche qualche ciotola stracolma di cracker al gusto di pizza, di croccanti tartarughine o di brezel salati? I quali, tra l’altro, potrebbero addirittura essere integrati nel gioco: può mangiarseli solo chi fa un tiro valido o chi arriva al traguardo. O al massimo uno per ogni giro. Fa eccezione il Monopoli: chi finisce in prigione e deve saltare un turno, può sgranocchiarne a volontà. Naturalmente, le regole da inventare sono infinite. / AW

A chi tocca? Il gioco con i croccanti salatini Party non conosce né vinti né vincitori.

Grazie alla linguetta integrata (immagine al centro) il sacchetto può essere aperto facilmente e senza l’aiuto di utensili. Il pratico adesivo per richiuderlo si trova sul lato della confezione (destra). Party Pizza Crackers 150 g Fr. 2.40

Party Crackers salati 180 g Fr. 1.60

Party Brezel salati 230 g Fr. 1.50

Party Turtles 150 g Fr. 2.60 Nelle maggiori filiali.

L’Industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra i quali anche i salatini Party.


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Idee e acquisti per la settimana

I succhi di frutta di Anna’s Best arricchiscono non solo la tavola, ma anche l’alimentazione.

Anna’s Best succo d’arancia 75 cl Fr. 3.10

Anna’s Best succo di arance sanguigne 75 cl Fr. 3.10

Anna’s Best succo di bacche rosse 75 cl Fr. 3.70

Anna’s Best succo di mandarino 75 cl Fr. 4.–

Al 100 per cento naturali Quasi come appena spremuti: i succhi di frutta di Anna’s Best

Nella stagione fredda, i succhi di bacche rosse, arance e mandarini sono particolarmente apprezzati. Infatti è risaputo che la frutta, in particolare gli agrumi e le bacche, contengono preziose sostanze che arricchiscono la nostra alimentazione. Spremuti sul posto e lavorati delicatamente

Nel ricco assortimento di Anna’s Best si trova un’ampia scelta di succhi di frutta in formato grande e piccolo. Non sono

preparati a partire da concentrato, bensì al 100 per cento direttamente dal succo. Ciò significa che i frutti e le bacche sono spremuti già nel paese di produzione poco dopo la raccolta, imbottigliati senza l’aggiunta di zucchero e in seguito surgelati. Grazie a questa lavorazione delicata si preserva buona parte delle preziose sostanze contenute nella frutta. Il sapore dolce di alcuni succhi di frutta di Anna’s Best deriva unicamente dai tipi di zucchero propri della frutta. / NO; foto Claudia Linis

L’industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui anche i succhi di Anna’s Best.


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Idee e acquisti per la settimana

La mossa «balossa» Un quarto di giro verso l’alto, e il cartone delle bevande è sotto controllo

Piccolo gesto, grande risultato: i tappi a vite introdotti la scorsa estate per i cartoni da un litro di tè freddo, succo di frutta M-Classic e il succo d’arancia di Max Havelaar sono praticissimi, ma hanno anche un piccolo inconveniente tecnico. Quando si mesce, può accadere che il contenuto fuoriesca in modo incontrollato, trabocchi. Un problema di fisica, cui si può porre facilmente rimedio: se si tiene la confezione orizzontale invece che – come si fa solitamente – verticale e si posiziona l’apertura sulla parte superiore, si fa in modo che nell’imballaggio entri aria a sufficienza, così la bevanda fuoriesce in modo uniforme. A parte ciò, il nuovo tappo a vite convince assolutamente. È facile da aprire e si può sempre richiudere senza che sgoccioli. Ciò significa che non è indispensabile tenere in posizione verticale una confezione già iniziata. Anche in orizzontale, è garantito che non «perde». Questa caratteristica è molto positiva per la logistica individuale del frigorifero. E naturalmente i cartoni si possono trasportare tranquillamente anche nello zaino o nella borsa. / JV

Così funziona: se si tiene l’imballaggio orizzontale con l’apertura verso l’alto, nel cartone entra abbastanza aria. La bevanda può fuoriuscire uniformemente.

M-Classic succo d’arancia 1l Fr. 1.15 Ice Tea al limone 1l Fr. –.75

Illustrazioni Konrad Beck

Non così: in posizione verticale con l’apertura verso il basso, nell’imballaggio entra troppo poca aria. Conseguenza: la bevanda fuoriesce in modo incontrollato e trabocca.

L’industria Migros produce numerosi prodotti Migros molto apprezzati, tra cui anche le bevande della Bischofszell Prodotti Alimentari SA.



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Idee e acquisti per la settimana

Fruttatissimo, croccantissimo Buone notizie per chi ama il müesli bel croccante e particolarmente fruttato: i nuovi Crunchymüesli di Anna’s Best consistono per circa il 50 per cento di bacche fresche – a scelta fragole o more – aggiunte a jogurt, latte e panna svizzeri. Il Crunchymüesli è offerto separatamente nel coperchio. Se lo si aggiunge appena prima di consumarlo, è certo che rimarrà croccante. Nel coperchio della confezione è integrato anche un cucchiaio, così che si possa gustare tranquillamente la propria razione di müesli anche fuori casa.

Anna’s Best Crunchymüesli fragola 300 g Fr. 4.20 (Crunchymüesli more ottenibile solo regionalmente)

L’industria Migros produce numerosi prodotti Migros molto apprezzati, tra cui anche i Crunchymüesli di Anna’s Best. Annuncio pubblicitario


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