Azione 44 del 27 ottobre 2014

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXVII 27 ottobre 2014

Azione 44 g M shoppin 9-53 / 65-67 4 alle pagine

Società e Territorio All’osservatorio astronomico di Tradate si cercano segnali da forme di vita extraterrestri

Ambiente e Benessere Per combattere il tumore intestinale è fondamentale la prevenzione; ce ne parlano gli esperti

Politica e Economia Il modello tedesco entra in crisi e rischia la recessione

Cultura e Spettacoli Ancora Gustave Courbet: il grande artista omaggiato con una seconda mostra

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di Daisy Gilardini pagina 17

Daisy Gilardini

Curioso come un suricato

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La prospettiva del confine di Alessandro Zanoli «Li vede tutti quei negozi chiusi qui sul Corso? Qui una volta si stava bene. Erano tutti aperti. C’erano soldi e movimento di persone. Qui intorno c’erano un sacco di ditte di trasporto: arrivavano i camion, scaricavano la merce, si preparavano gli invii oltreconfine. C’erano le dogane che assicuravano il passaggio dall’altra parte. Ci lavoravano in tanti. C’erano anche delle industrie. Eravamo un crocevia commerciale importante. Poi è arrivata l’Europa. Le dogane non servivano più. E tutto, piano piano si è rallentato, si è bloccato. È il confine che ci condiziona. Dall’altra parte le cose costano meno. Tutti vanno a far la spesa di là. Io non so come faremo ad andare avanti: teniamo duro ma non c’è partita. Dicono che costiamo troppo. I politici ascoltano, rispondono che capiscono, ma non ci aiutano. Io glielo voglio dire a quelli lì: la sanità costa troppo? Decidete di chiudere i reparti degli ospedali per risparmiare? E allora volete che si vada dall’altra parte del confine anche a farci curare? Ditelo!». Luigi si è infervorato nella sua requisitoria e ora cerca di calmar-

si, di darsi un contegno. Però qui a Gorizia le cose sono davvero complicate. La sua drogheria si trova in una delle vie principali del centro storico ma ha un aspetto leggermente desolante. Fa un po’ venire in mente (ma non glielo diciamo) certi negozi visti nella exJugoslavia, qualche decennio fa. Mentre ci racconta il suo disagio (sa che veniamo dall’estero e quindi sente di poter trovare ascoltatori imparziali) si volta spesso a guardare il ritratto dell’Imperatore Francesco Giuseppe, appeso alle sue spalle. Qui il sentimento di appartenenza nazionale è piuttosto sfumato: gli abitanti di questa parte del Friuli, a ridosso del confine sloveno, vivono prima di tutto la loro identità regionale. Per quanto riguarda quella nazionale sembra che non vogliano sbilanciarsi: sono italiani, certo, ma non nascondono la simpatia per l’Austria. Il rapporto con la Slovenia invece è pratico, concreto: ci convivono da sempre. In passato la sentivano come una sorta di riserva naturale a cui attingere, magari per andarci a funghi o a caccia. Oggi escono perlomeno a far benzina, tutte le settimane («Risparmio 10 euro ogni pieno» dice Luigi, che qui un po’ si contraddice). «Come è possibile competere con loro? Le nazioni dell’Est vogliono

svilupparsi, avere una loro economia, benessere, e va bene. Ma le nostre fabbriche chiudono, qui. Come si fa a stare al passo, con i loro salari?». Luigi non è un economista, e vede le cose da una prospettiva parziale, ma in quattro parole ha descritto e fotografato un nodo irrisolto della situazione economica globale. In questa porzione di mondo la realtà economica creata dalla presenza del confine non produce flussi di frontalieri: produce la fuga delle aziende. Verrebbe da chiedergli: «Luigi ma se gli sloveni venissero qui a lavorare, come frontalieri, preferireste?». Cerchiamo di spiegargli come funzionano le cose in Ticino. «Chiasso!» si illumina. «Conoscete una certa Luisa B.? Sono stato da lei qualche settimana negli anni 70… Era la mia ragazza. Sono arrivato da qui con 250’000 lire e sono tornato a casa con un milione e mezzo. Andavamo avanti e indietro dal confine con accendini, pietrine sigarette. Anche le musicassette, ce le pagavano benissimo in Italia. Ah, bei tempi…». Luigi adesso è entusiasta e ci regala un etto e mezzo in più del suo prosciutto. Usciamo dal negozio provando un senso di solidarietà: vivere sul confine espone all’ambivalenza ma è perché ci costringe a fare i conti con dinamiche ed idee molto più grandi di noi.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 27 ottobre 2014 ¶ N. 44

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Società e Territorio Videogame e misoginia In aumento gli episodi di persecuzione e minacce ai danni di donne che lavorano nella game industry pagina 4

Incontro con Padre Mihai Arrivato in Ticino 20 anni fa per un dottorato in Teologia è il parroco della Comunità Ortodossa della Svizzera italiana pagina 6

Esposizioni universali in mostra Al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia di Milano si ripercorre la storia delle esposizioni, aspettando Expo 2015

Genitori e saggezza digitale Intervista La psicologa e psicoterapeuta Katia Provantini ha da poco pubblicato, insieme a Maria Longoni,

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il libro Generazione tablet sull’uso intelligente delle nuove tecnologie Laura Di Corcia

Il presidente di Foam 13 Roberto Crippa con il telescopio dedicato al progetto Oseti. (Vincenzo Cammarata)

Già per i nati negli anni Ottanta le cose erano diverse. Farsi vedere a scuola con un cellulare in mano attirava sguardi ricolmi di riprovazione, perché si passava per esibizionisti e spacconi. Chi avrebbe pensato, a quei tempi, che un giorno avremmo visto bambini delle elementari rispondere al cellulare durante la ricreazione? Ci saremmo mai aspettati che un giorno gli insegnanti avrebbero avuto il problema di verificare che i compiti in classe non fossero truccati da una puntatina on line, grazie all’immancabile telefonino? Insomma, le cose sono cambiate radicalmente ed ora il compito degli educatori è quello di venirci a patti e guidare i «nativi digitali», in modo che sfruttino il mare magnum della rete e della tecnologia senza perdere se stessi. Dovrebbe parlare di bambini, e invece paradossalmente parla di adulti il libro di divulgazione Generazione tablet di Katia Provantini a Maria Longoni (ed. Mondadori). Perché spetta agli adulti dare il buon esempio e accompagnare i più piccoli alla scoperta di un mondo dove la tecnologia è sempre più presente. A Katia Provantini, psicologa e psicoterapeuta, esperta inoltre di problematiche evolutive, abbiamo chiesto di dare qualche consiglio ai genitori. A bruciapelo: a che età è giusto dare il cellulare?

Guardando il cielo in cerca di segnali Extraterrestri A Tradate, all’osservatorio astronomico Foam 13, c’è il primo telescopio in Europa in grado di captare

raggi laser che potrebbero arrivare da altri pianeti. Una tecnologia all’avanguardia e open source Stefania Prandi A Tradate, nel mezzo dei boschi di pini, querce e castagni, si cercano segnali di forme di vita extraterrestre. Nel piccolo complesso, formato da tre edifici, dell’osservatorio astronomico Foam 13, nelle notti senza nuvole e senza nebbia gli astrofili stanno con il naso all’insù a guardare nel primo e unico telescopio europeo in grado di captare raggi laser che potrebbero arrivare da altri pianeti. Si tratta di uno strumento innovativo, realizzato con soli 20mila euro, pensato per essere replicato: una tecnologia open source. «Noi mettiamo a disposizione le istruzioni per costruirlo a chiunque sia interessato a lavorare in rete con noi. Più siamo e più probabilità abbiamo di ricevere dei segnali. Le nostre ricerche scientifiche si basano già sulla condivisione di dati con altri osservatori nel mondo. Così, infatti, studiamo le comete e gli asteroidi. Tra i centri con cui collaboriamo ci sono anche gli svizzeri Monte Lema e Monte Generoso» spiega Roberto Crippa, presidente di Foam 13. Alla base della ricerca di raggi laser che potrebbero venire dallo spazio c’è la convinzione che nella nostra galassia

esistano altri esseri intelligenti oltre a noi. Una congettura che può far storcere il naso a un buon numero di scettici ma che è alla base del lavoro di ricerca compiuto dai 60 volontari – astronomi, fisici, informatici, biologi, tecnici – che mandano avanti questo piccolo centro di eccellenza visitato ogni anno da circa 7mila studenti e famiglie del territorio. Secondo Crippa, «considerando la porzione di spazio che comprende i 1800 pianeti che ruotano attorno a stelle relativamente vicine a noi, ce ne sono 50 rocciosi, di dimensioni simili a quelle terrestri. Se pensiamo che le leggi della natura sono le stesse in tutto l’universo, su uno o più di questi pianeti potrebbero essersi verificati processi fisici e chimici capaci di dare origine a forme di vita intelligenti come quella umana». Seguendo questo ragionamento, quindi, non solo gli extraterrestri potrebbero esistere ma, contrariamente alla rappresentazione che viene fatta dalla fantascienza, ci assomiglierebbero. «Magari potrebbero avere tre occhi oppure avere una stazza diversa, questo dipende dalla forza di gravità – continua Crippa. – Comunque, è probabile che possano avere avuto uno sviluppo tec-

nologico come il nostro, se non superiore, e che quindi possano essere in grado di mandarci segnali laser». All’interno di questi raggi luminosi, esattamente come accade con la fibra ottica, potrebbero poi esserci dei messaggi che, secondo i sostenitori della vita aliena, dovrebbero poi essere decifrati e questo, certamente, sarebbe tutt’altro che facile. Crippa, che nelle scorse settimane è stato anche ospite di una trasmissione della Rai, non si scompone di fronte agli sguardi increduli di chi accetta con riserva il suo impianto teorico. Con voce calma e sicura dice che «scoprire che non siamo soli è soltanto una questione di tempo. Pensiamo ai progressi che sono stati fatti dall’epoca di Galileo. Sono passati appena 400 anni ed ecco fin dove siamo arrivati». Tra le garanzie di scientificità dell’approccio usato nell’osservatorio Foam 13 c’è la presenza di Claudio Maccone, astronomo, fisico e matematico di fama internazionale, capo della sezione Seti italiana. Il progetto Seti, acronimo per Search for Extraterrestrial Intelligence, va avanti da oltre 40 anni in diverse parti del mondo ed è basato sulla ricerca di onde radio da

forme di vita extraterrestri. Fino ad ora diversi segnali «strani» sono stati captati dal Seti ma è difficile considerarli attendibili. Il più famoso resta quello del 1977 chiamato Wow!, rilevato negli Usa, è durato 72 secondi. Il mondo scientifico è scettico su questi rilevamenti soprattutto perché sono rimasti episodici. «Per riuscire a considerare un segnale davvero valido servono caratteristiche specifiche ma soprattutto è necessario che si ripeta. Non si può prendere per buono un impulso singolo», spiega Marco Sala, astronomo professionista che per 12 anni ha lavorato all’Osservatorio di Merate e che ora fa parte del team di Foam 13. Dopo avere scoperchiato il tetto del piccolo padiglione, Sala mostra come funziona il telescopio, che fa parte dell’evoluzione del progetto Seti chiamato Oseti (Optical Search for Extraterrestrial Intelligence), e al quale ha contribuito personalmente con altri volontari. Per realizzare il prototipo ci sono voluti quattro anni. «Lo puntiamo per una ventina di minuti verso una delle stelle attorno alla quale sappiamo che ci sono dei pianeti potenzialmente abitati. Per sceglierle ci basiamo sulla lista di quelli

Non esiste un’età giusta in assoluto. Quello che fa la differenza è la coerenza del messaggio che i genitori passano ai bambini. Quando si regala un telefonino al proprio figlio, gli si mette in mano un oggetto che richiede una certa autonomia; a quel punto, quindi, è assurdo pretendere di averne il controllo totale. Tendenzialmente, oggi come oggi, la precocità riguarda gli anni delle elementari, mentre alle medie quasi tutti i ragazzi dispongono del cellulare.

Informazioni

www.foam13.it.

conto è che la la buona educazione in questo campo va impostata prima, già ai tempi delle elementari. Purtroppo quella che è stata definita «saggezza digitale» non è così diffusa oggigiorno. Dicono però che l’uso e soprattutto l’abuso di internet favorisca un mutamento antropologico che minerebbe la capacità di concentrazione fra i giovani.

Il digitale produce cambiamenti come qualsiasi attività facciamo in modo ripetitivo. Per esempio, è stato appurato che la rete spinge a prendere decisioni rapide, a rispondere più velocemente agli stimoli, a muoversi soprattutto in superficie, meno in profondità. Per quanto riguarda l’apprendimento, questo non dovrebbe costituire un problema, bisognerebbe solo gestire i vari modelli con consapevolezza.

Un esempio?

Quando io ero ragazza, le telefonate si facevano prima o dopo la cena, mai durante. Scrivere messaggi o mandare le email mentre si è a tavola equivale a dire che quel tipo di comunicazione ha la priorità rispetto al momento di condivisione. Bisognerebbe invece far capire ai nostri figli che si può rispondere in un secondo momento; solo in questo modo anche loro si sentiranno più liberi rispetto alla tecnologia.

Come dovrebbe svilupparsi un’educazione che integri queste novità?

Gli adulti dipendenti da internet e affini non sono un gran modello per i figli, effettivamente.

Anche il concetto di dipendenza da internet è cambiato nel tempo. Nelle prime valutazioni la soglia era molto bassa. Si chiedeva, per esempio: controlli la posta elettronica tutti i giorni? Al mattino la prima cosa che fai è guardare se ti sono arrivate nuove mail? Questo dà la misura di come la tecnologia sia entrata nelle nostre vite in modo prepotente.

L’importante non è vietare il tablet ma «integrare gli stimoli». (Keystone)

gli altri bambini come una risorsa, impegnandosi ad organizzare momenti di socializzazione sin dai tempi del nido, mentre una volta si riteneva che bambini così piccoli non avessero la necessità di condividere il tempo e le esperienze con gli altri. Quando i figli crescono, verso gli 11 o 12 anni, momento in cui le amicizie sono davvero importanti, le mamme e i papà si allarmano e vedono nei coetanei un elemento pericoloso, perché portano modi di vivere alternativi rispetto a quelli della famiglia, mode strane, trasgressioni.

All’adulto dà soddisfazione guardare il proprio bambino maneggiare con una certa abilità smartphone, iPad e computer questo lo porta a sottovalutare molto i pericoli insiti nella rete. La problematicità emerge quando i figli non sono più piccoli, perché la tecnologia è uno strumento che ti porta lontano, sottraendoti al controllo della famiglia stessa e avvicinandoti a luoghi potenzialmente pericolosi. Quello di cui spesso i genitori non si rendono

una lettera di protesta al colosso digitale, pubblicata anche sul «New York Times» (http://authorsunited.net/). Nell’intervista paragona il grande libraio digitale a Napoleone: «penso che Napoleone fosse un tipo incredibile prima che iniziasse a varcare i confini nazionali. Nel corso del tempo il suo temperamento cambiò e il suo comportamento divenne insensibile alle nazioni occupate». Amazon è arrivato ad avere una posizione di assoluto monopolio sul mercato, tanto da credere di potere fare a meno di chiunque non voglia stare alle sue regole. Per Wylie è «megalomania» ma soprattutto è un andare contro gli stessi interessi del libro e della cultura «Amazon non è altro che un camionista digitale, una grande ditta di logistica, trasporto e consegne. Se pretende di accaparrar-

si una percentuale spropositata dei profitti, bisogna dirgli di no». Dai frigoriferi alle scarpe ai cd, su Amazon, proprio come nei grandi ipermercati americani Walmart, si trova di tutto e a prezzi bassissimi rispetto alla concorrenza. La verità, come per altri giganti del nostro tempo come Google, è che la legge, le norme che regolano il mercato sono rimaste indietro di decenni creando un vacuum legislativo impressionante che ha favorito lo strapotere di nuovi attori digitali ingordi. E se occorre intervenire al più presto ascoltando il monito di Wylie, dall’altra, tornando a mio zio e al suo kindle, c’è un punto nell’intervista sul quale non sono d’accordo e che mi ricorda molto la visione miope di qualche anno fa, di alcuni editori di quotidiani i quali dicevano che in Rete si trovano solo notizie mordi e

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E i genitori vanno in ansia.

In realtà i campanelli d’allarme si attivano tardi. I genitori tendono prima di tutto a non analizzare il loro rapporto con la tecnologia e a non farne un cruccio per tutta l’infanzia. A un certo punto, però, internet e il cellulare diventano improvvisamente un problema. Quando, esattamente?

Durante l’adolescenza. Il rapporto con la tecnologia segue lo stesso destino di quello con gli amici. Oggi le mamme tendono a considerare le relazioni con

La tecnologia segue lo stesso destino?

Occorre focalizzare che le tecnologie sono strumenti e, se le controlliamo, diventano una risorsa. Non è un buon atteggiamento mettere nelle mani di bambini troppo piccoli strumenti potenzialmente pericolosi ma non è nemmeno sensato assumere atteggiamenti proibitivi. Il mondo in cui vivranno i nostri figli è questo, questo il mare che dovranno navigare, è intelligente quindi accompagnarli alla scoperta della tecnologia insegnando loro a gestirla e a schivare i pericoli. Alcuni giochi a disposizione su tablet e cellulari sono meravigliosi, aiutano a rinforzare la memoria e a potenziare le strategie d’apprendimento; perché rinunciarci? La ricetta, quindi?

Integrare gli stimoli. C’è il momento per il pc e l’iPad, l’altro per usare la carta e i colori, il pongo e le forbici andare a giocare a pallavolo o parlare con mamma e papà. Una cosa non vieta assolutamente l’altra.

La società connessa di Natascha Fioretti Bezos come Napoleone

scoperti dalla sonda Kepler. L’impulso luminoso entra nell’ottica che è collegata a un software e a un computer che conta i fotoni che provengono da quel sistema solare. Se il numero al millesimo di secondo dei fotoni supera lo standard che normalmente viene emanato da quella stella, e che noi conosciamo perché l’abbiamo studiata, allora vuol dire che ci si trova di fronte a qualcosa di anomalo che va indagato». Quando l’aria è tersa e scende la sera gli astrofili di Tradate si bardano con berretti, sciarpe, giacconi pesanti e calzini doppi e, senza essersi dati appuntamento, si ritrovano tutti a guardare il cielo. Con una tazza di caffè o di tè caldo trascorrono la notte così, ad osservare gli astri, come facevano i nostri antenati. «Qui recuperiamo un amore che nell’astronomia professionale si è perso – dice Sala – è cioè quello di osservare con i nostri occhi lo spazio in cui siamo immersi per conoscere sempre cose nuove e vedere la bellezza di quel che ci circonda».

Se ci pensiamo, la diffusione del telefonino va di pari passo con la quantità del tempo in cui stanno da soli: iniziano ad andare a scuola a piedi, vanno a fare sport e il mobile phone diventa una stampella che aiuta a gestire l’autonomia e i primi spostamenti in bus e in treno. Tocca agli adulti educare i ragazzi ad un uso intelligente della tecnologia, soprattutto mostrando atteggiamenti sani ed equlibrati.

Di recente sono stata all’Auditorium Parco della Musica di Roma per assistere ad un evento. Con me c’era anche mio zio, uomo di cultura, appassionato lettore, amante della musica, del teatro, con tutto il tempo per goderseli, visto che da qualche anno è in pensione. Eravamo in anticipo e per ingannare il tempo siamo entrati in libreria. Mi guardavo intorno curiosa, una libreria fornitissima, con tutte le ultime novità. Lui invece non prestava molta attenzione, anzi, aveva lo sguardo piuttosto disinteressato. Scelgo un libro, il vincitore del Premio Pulitzer 2014, Il cardellino di Donna Tartt. Mio zio si avvicina e mi dice «Sai mi vergogno a dirlo ma io i libri cartacei non li compro più. Leggo tutto sul mio kindle, scarico i libri da Amazon. Ultimamente erano in

Azione Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

offerta moltissimi classici, non costavano neanche un euro. È così comodo, ormai mi sono abituato». Queste sue parole mi sono tornate in mente proprio l’altro giorno leggendo su «la Repubblica» l’intervista a Andrew Wylie, il più famoso e potente agente letterario al mondo che vanta autori del calibro di Philip Roth, Salman Rushdie, Milan Kundera, V. S. Naipaul (http://www. repubblica.it/cultura/2014/10/09/ news/wylie_amazon_alla_fine_ti_ fermeremo-97681549/). Intervistato da Federico Rampini, l’agente si è pronunciato in particolare contro la feroce politica dei prezzi di Amazon facendo riferimento al boicottaggio di Hachette e di altri editori che non si piegano al colosso di Bezos. Se ne è parlato molto questa estate quando Wylie insieme a 900 autori ha inviato

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fuggi e che il giornalismo serio si fa solo sui giornali di carta. Wylie infatti sostiene che per quanto riguarda il libro «la lettura seria resterà di carta, non digitale». Significa che per lui i lettori leggeranno su kindle solo testi leggeri e superficiali, per tutto il resto continueranno ad affidarsi alla carta. Chi ha seguito e sta seguendo l’evoluzione del mercato dei quotidiani e dei giornali fa presto a capire quanto questo pensiero sia fragile. Un conto è voler difendere e preservare secoli di cultura e di tradizione libraria, favorire un mercato in cui ci siano spazio e regole eque per tutti; un altro è voler negare la portata del cambiamento tecnologico e di abitudine dei consumi che la nostra società sta vivendo. E non è più neanche solo un discorso di generazioni, basta guardare mio zio.

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Società e Territorio

Il preoccupante attacco dei gamer misogini Cybersessismo Per crescere, i videogiochi stanno cercando di cambiare

anche grazie al contributo femminile, ma qualcuno non ci sta

Filippo Zanoli Per Brianna Wu, realizzatrice di videogiochi per dispositivi mobili e capo dell’azienda videoludica Giant Spacekat, era una serata come tante altre. Era tornata a casa sua nei sobborghi di Boston e stava per mettersi a tavola con suo marito quando, «blip», ecco apparire sul suo smartphone una notifica di messaggio ricevuto. Inizialmente aveva pensato di trascurarla la cena era pronta e il suo partner, Frank, la stava aspettando per mangiare ma poi ha cambiato idea: «in fin dei conti è solo un tweet». Ed ecco la doccia gelata: «Spero che apprezzerai i tuoi ultimi momenti su questa terra visto che non hai fatto niente di utile nella tua vita», il nome dell’utente del social che le stava scrivendo era un altrettanto agghiacciante: DeathtoBrianna (morte a Brianna, ndr.). «Blip, blip, blip» le minacce continuavano in maniera semplicemente insostenibile, per quantità e per toni. Lo stalker cybernetico, oltretutto, conosceva il suo indirizzo: «So dove abiti maledetta, tu e Frank abitate in…» e qui Brianna non ce l’ha più fatta, ha chiamato la polizia che è subito accorsa e l’ha scortata via da casa sua. Questo succedeva sabato 11 ottobre e, la giovane donna, è rimasta sfollata per diversi giorni ospite di parenti e amici. Inter-

vistata dalla Cnn (in data 14 ottobre) ha dichiarato: «Il mio obiettivo, ora, è quello di rimanere al sicuro e di ritrovare una vita normale, aspettando che tutto questo cominci a placarsi». Quello nei suoi confronti, si è poi scoperto, è stato un cyber-attacco in piena regola: «Hanno tentato di violare il mio account Apple e anche di forzare con l’hacking l’e-banking della mia azienda». Quale la sua colpa? Quella di aver realizzato Revolution 60 un videogioco (disponibile per dispositivi iOS) con personaggi femminili forti e pensato per le videogiocatrici. L’epiteto «femminista», con evidente valore spregiativo era stato usato anche nei tweet velenosi da lei ricevuti quella sera. «Mi hanno bullizzata, perché sono una ragazza – ha spiegato Brianna Wu all’emittente americana – i videogiocatori sembrano non essere in grado di accettare il fatto che i videogame stiano diventando, sempre di più, qualcosa che riguarda anche noi donne. E reagiscono così, in maniera aggressiva». E quello della Wu, purtroppo, non è un caso isolato. Capostipite delle perseguitate dalla rete (ormai dal 2012) risulta essere Anita Sarkeesian, critica mediale e femminista dichiarata che ha realizzato una pregevolissima serie, finanziata dal basso tramite crowdfunding, su come le figure femminili siano

state trattate nella storia dei videogiochi. Una carrellata spietata per sagacia e capacità analitica che mette in imbarazzo anche i classici più intoccabili da Super Mario Bros. fino al blockbuster di Ubisoft, Assassin’s Creed. L’affronto, per una nutrita falange di gamer accaniti è troppo grande da sopportare, nasce una vera e propria task-force di nerd arrabbiati che, di fatto, le hanno reso (e le rendono) la vita impossibile. Fra minacce di morte, allarmi bomba, hacking di carte di credito e profili social, fotomontaggi osceni e video straripanti insulti su Youtube, la Sarkeesian diventa il capro espiatorio di un’inspiegabile e gigantesca frustrazione che risiede nei gamer e nel web in generale. Anche lei, come Brianna, recentemente ha dovuto abbandonare casa sua cercando riparo altrove visto che gli abusi verbali nei suoi confronti stavano assumendo toni veramente preoccupanti. La giovane programmatrice Zoe Quinn, anche lei designer di videogame ma di quelli indipendenti e particolari (il suo Depression Quest esplorava la vita dal punto di vista di una malata di depressione), è un’altra delle vittime più recenti. Pure lei, è stata vittima di un cyber-linciaggio a carattere nettamente misogino. Il suo peccato è stato quello di avere avuto una relazione

Anita Sarkeesian, critica mediale e femminista. (Wikimedia)

clandestina con un noto giornalista del settore, legato a una delle testate di punta. Appena il web l’ha scoperto, apriti cielo. Gli anonimi iracondi hanno subito pensato che si trattasse di un escamotage affinché i suoi giochi godessero di una maggiore visibilità, quando in realtà il suddetto reporter non ne aveva mai scritto nemmeno una volta. Oltre all’abominevole quantità di insulti e altro ad infestare Twitter, social vari e forum web, è nato anche un caso, quello chiamato #gamersgate relativo all’imparzialità della stampa specialistica videoludica, coruttibile e al soldo di chicchessia. Zoe, che vestiva troppo bene i panni della peccatrice, è diventata il bersaglio di un movimento «videogiochi puliti» del quale una falange spesso e volentieri dimostra un oltranzismo misogino assolutamente gratuito e a tratti preoccupante. «I videogiochi sono da sempre stati realizzati esclusivamente da maschi eterosessuali, e questi ne hanno plasmato l’immaginario, le forme» ha esposto Anita Sarkeesian durante una

conferenza (allo Xoxo festival, lo scorso 4 ottobre) dedicata al suo personalissimo calvario. «Oggi, quando donne ricoprono cariche a tutti i livelli nella game industry, si sentono minacciati e reagiscono rabbiosamente. Alcuni, seriamente, pensano che si tratti di una sorta di complotto femminista. A queste persone, sinceramente non so cosa dire. Si rassegnino perché ormai siamo qua». Pochi giorni dopo (il 14 ottobre) in seguito ad una terrificante minaccia via email minatoria la Sarkeesian ha dovuto rinunciare ad un seminario alla Utah State University, organizzato dal Centro di Studi di genere sulla misoginia e le molestie nel mondo dei videogioco. Un anonimo avrebbe infatti intimato «vendetta» e «una delle più sanguinose sparatorie scolastiche della storia degli Usa». Intervistato dal sito Polygon, il rettore dell’ateneo ha dichiarato: «Non è mai capitata una cosa del genere, lavoro qui da anni, è una cosa tremendamente seria». L’unità cybercrimini dell’Fbi sta indagando sull’accaduto. Annuncio pubblicitario renault.ch

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Società e Territorio

Padre Mihai e gli ortodossi del Ticino Incontri Le Chiese cristiano-ortodosse hanno origini nei Balcani, in Medio Oriente e in Africa;

7200 fedeli delle varie etnie compongono la comunità della Svizzera italiana

Sara Rossi Sorride sempre, perché ha ricevuto in dono una vita che è fatta per sorridere, dice, nonostante tutti i dolori. Spalanca le braccia all’altro, perché crede che il rispetto sia aperto a tutte le religioni e soprattutto a tutti gli esseri umani. Celebra matrimoni misti, perché si domanda: «Chi sono io per non benedire l’amore?». È Padre Mihai Mesesan, il parroco della Comunità Ortodossa della Svizzera Italiana, nata a Lugano il 21 maggio 1995. Eccetto il primo anno, Padre Mihai è quindi il parroco degli ortodossi ticinesi da sempre. Serbi, romeni, greci, russi, ucraini, eritrei: le Chiese ortodosse sono numerose e generalmente le comunità della diaspora fanno capo ciascuna alla propria Chiesa madre, ossia a una delle Chiese autocefale e autonome che formano il mondo ortodosso, strutturato secondo un sistema conciliare in base al quale la collegialità ha un’importanza incondizionata. Per vari anni, in Ticino, sono state unite dal loro parroco. Oggi invece quella serba, quella greca e quella russa hanno ognuna un prete proprio e i russi ortodossi addirittura hanno il loro tempio sacro a Melide dove celebrare la Messa. Padre Mihai invece la domenica compie il rito nella chiesa della Madonnetta a Lugano-Molino Nuovo. Mentre il Bollettino Parrocchiale della Comunità ortodossa è redatto in quattro lingue, italiano, serbo, greco e romeno, Padre Mihai celebra la messa in italiano.

«È la lingua italiana che unisce la nostra variegata comunità, lingua atipica per la religione ortodossa», dice. Le risposte del coro, previste nel rito bizantino, avvengono invece in slavo antico, in rumeno e in greco. Essere lontani da casa e vivere in un paese straniero, in cui si pratica una diversa religione, secondo Padre Mihai è una grande occasione di incontro e di ricchezza; è un modo di testimoniare la stessa fede di tutti i cristiani, di realizzare quell’unità che voleva Gesù Cristo e di arricchire se stessi e il posto in cui si abita. Padre Mihai, si sarà già capito, è molto attivo nel movimento ecumenico sia in Ticino che in Italia. «Nella Svizzera italiana vivono circa 7200 ortodossi (secondo un censimento di 15 anni fa)», spiega il sacerdote, «e provengono da varie etnie e culture dell’Europa orientale e balcanica. Alcuni sono arrivati come rifugiati politici durante il regime comunista e, i più numerosi, in seguito ai conflitti balcanici degli anni Novanta, nella ricerca di sicurezza e per rifarsi una vita. Molti di loro sono arrivati con le ferite subite durante i regimi comunisti atei». Poter ritrovare la propria fede e la libertà di professarla è allo stesso tempo un modo per mantenere le proprie radici, per trasmetterle meglio ai propri figli e anche per integrarsi. Sradicarsi e annullare la propria identità non sarebbero infatti i giusti passi verso l’integrazione, ma piuttosto verso un’assimilazione fasulla e un annullamento delle diverse culture che il mondo ha prodotto.

Padre Mihai ha un ruolo che va oltre quello di sacerdote, pastore di anime; tramite la religione si occupa del contatto con la terra d’origine di ognuno dei migranti che si rivolgono a lui e non fa differenza tra bisogni spirituali e bisogni materiali: che sia a domicilio, in ospedale o in carcere, Padre Mihai offre aiuto per le pratiche burocratiche, la ricerca di lavoro, la corrispondenza e l’orientamento in questo Paese ancora poco familiare per chi è appena arrivato. Egli è qui insieme a sua moglie da ormai 20 anni, giunto con una borsa di studio per conseguire un dottorato alla Facoltà di Teologia di Lugano e conosce molto bene il territorio. A casa sua c’è uno studio pieno di libri e una parete intera coperta di icone. Padre Mihai si illumina quando parla delle icone. «Esistono fin dai primi secoli», racconta. «Cioè da ben prima che ci fosse lo scisma tra Chiesa d’Oriente e Chiesa d’Occidente. La prima icona l’ha dipinta San Luca Apostolo e raffigura la madre di Dio. I dipinti sono simboli dell’incarnazione di Cristo, che è Dio nel momento in cui abbiamo potuto vederlo e toccarlo. Così l’icona è importante per noi per avvicinarci a Dio e a chi è rappresentato; ci aiuta a pregare e infine è un oggetto d’arte di enorme valore. Solo un uomo di fede può dipingere un’icona e non è usanza apporvi la propria firma: l’artista presta la sua mano per compiere un sacro disegno, non è il suo nome che ha importanza». La tecnica delle icone è altrettanto affascinante quanto il suo valore religioso: si usano

Padre Mihai Mesesan. (Stefano Spinelli)

tavole di legno stagionato levigate per accogliere la doratura e la pittura con tempera ottenuta mischiando i pigmenti colorati al tuorlo d’uovo, al fine di rendere i colori resistenti nei secoli. Ogni anno la Comunità Ortodossa organizza una o due mostre di icone e anche una bellissima festa internazionale, a cui partecipano pure centinaia di ticinesi, con concerti lirici e folkloristici. Padre Mihai si rallegra della presenza sempre più numerosa da parte

dei giovani che partecipano alle attività della sua parrocchia: oltre alla festa e alla mostra di icone, ci sono pellegrinaggi, incontri ecumenici, spettacoli teatrali, e altre manifestazioni artistiche e culturali. Sua speranza e priorità della sua Chiesa, ci riferisce, «è avere il diritto di organizzare l’istruzione religiosa nelle scuole, dove noi, come religione ortodossa, non abbiamo ancora accesso. È il desiderio di molti genitori e dei giovani stessi». Annuncio pubblicitario

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Società e Territorio

Aspettando EXPO 2015 Mostre Fin dalla loro nascita, avvenuta a metà dell’Ottocento,

le Esposizioni Universali sono state il simbolo della fiducia nel progresso e della diffusione delle conoscenze Loris Fedele Educazione dei popoli e innovazione, sono questi gli scopi dichiarati delle Grandi Esposizioni che si sono succedute a partire dalla metà dell’Ottocento. Simbolo di positivismo e della fiducia nel progresso queste manifestazioni furono per lo più dedicate all’industria, con ampi spazi che reclamizzavano la tecnologia. Un luogo d’incontro e di diffusione delle conoscenze, così lo volle il principe Alberto, consorte della celeberrima regina Vittoria che, insieme con un importante designer-imprenditore e con altri membri della Royal Society of Arts, promosse nel 1851 l’esposizione denominata «Grande Esposizione dei lavori dell’industria di tutte le nazioni». Quell’esposizione di Londra è la prima riconosciuta nell’elenco delle esposizioni universali redatto dal Bureau international des Expositions. Ebbe luogo ad Hyde Park e, per l’occasione, fu costruito il celebre Crystal Palace, progettato dall’architetto Joseph Paxton e realizzato in collaborazione con l’ingegnere Charles Fox. Era un enorme edificio di vetro montato su una intelaiatura di ferro, quasi come una elegante e gigantesca serra. All’interno statue e alberi a significare il trionfo dell’uomo sulla natura. Un design innovativo, tanto bello da essere giudicato la cosa più mozzafiato di tutta l’esposizione. Eppure era stato concepito così proprio per non durare. Avrebbe dovuto essere smantellato dopo l’esposizione. Giudicato da subito un capolavoro ingegneristico si decise di salvarlo e, dopo l’esposizione, fu trasferito da Hyde Park in una zona nel sud di Londra, che prese il suo nome. Purtroppo l’edificio fu distrutto da un incendio nel 1936. La regina Vittoria, che inaugurò l’Esposizione il 1° maggio 1851, la visitò spesso. I nobili e i ricchi godevano di una entrata separata e pagavano caro, mentre per la gente comune i prezzi erano popolari: solo uno scellino a testa. La cosa attirò persone di ogni ceto ed estra-

zione sociale: le ditte mandavano i propri impiegati, i proprietari terrieri pagavano viaggio e biglietto per i braccianti. Tutti i sabato mattina erano riservati agli invalidi. Anche le scuole accorsero numerose. La mostra durò fino all’11 ottobre. Contò sei milioni di visitatori e alla fine, invece del deficit che si era previsto, si ebbe un profitto di 186’000 sterline, che fu usato per fondare i grandi musei di South Kensington: il Victoria and Albert, il National History e il Science Museum.

Una mostra al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia di Milano ripercorre la storia delle esposizioni universali Il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci, di Milano, ha allestito una mostra interattiva per tutte le età, per ricordare alcune esposizioni universali del passato e far conoscere in anteprima l’Expo Milano 2015 soprattutto nella sua dimensione tecnologica. La mostra, che si chiama «EXPONENDO», dovrebbe rimanere aperta fino all’inaugurazione della prossima esposizione universale milanese che, come sapete, ha per tema «Nutrire il pianeta. Energia per la vita». Ricordare le esposizioni universali e i loro contenuti è come fare un viaggio storico attraverso la società e i prodotti che hanno condizionato il nostro modo di vivere, in quanto specchio di un’epoca. La prima esposizione universale fuori dall’Europa si tenne a Philadelphia nel 1876. Fu denominata la «Centennial Exhibition», perché voleva celebrare i 100 anni dall’indipendenza americana. La denominazione ufficiale era «Esposizione internazionale di arti, manifatture e prodotti della terra e delle mi-

niere». Anch’essa seguì il modello del Crystal Palace, ma molto più in grande. Tra le altre tecnologie esposte vi fu «The typewriter», la prima macchina da scrivere Remington, prodotta nel 1873. Rivoluzionerà la vita degli uffici di tutto il mondo. Tra le tecnologie alimentari la salsa tomato Ketchup, che viene esposta dalla Heinz come novità, nonostante fosse stata portata sul mercato qualche anno prima. Parigi è stata la città che ha ospitato più esposizioni universali, sei. Le due dell’800 sono tra le più importanti. In occasione di quella del 1889 venne costruita la Tour Eiffel, opera molto discussa all’epoca e criticata dal punto di vista estetico. Rischiò lo smantellamento ma si sarebbe poi imposta come l’emblema della città stessa. In quell’occasione nacque il mercato dei souvenir legati alla manifestazione, come per esempio le fiaschette di metallo con la forma della torre. Thomas Edison portò a quell’esposizione un esemplare del suo fonografo a cilindro. Era già stato brevettato nel 1878 ma stentava a decollare e, in più, cominciava a temere la concorrenza del grammofono, brevettato nel 1887 da Emile Berliner, un ingegnere tedesco che aveva lavorato nei laboratori Bell (quelli del telefono). Il mercato avrebbe premiato presto il sistema del grammofono con i dischi. L’esposizione universale di Parigi del 1900 fu ancora più importante perché fu la prima documentata dal cinema, nato da poco. Avrebbe fatto scuola per le rassegne mondiali successive. Nell’esposizione del 1900 vennero anche costruite architetture effimere: le costruzioni in ferro e vetro erano state soppiantate da un sistema costruttivo di padiglioni che arrivava dall’America e che utilizzava un materiale chiamato «staff», nient’altro che un rivestimento di gesso e stoppa, con un po’ di cemento, montato su un’intelaiatura di legno e dipinto di bianco. L’effetto era quello della muratura intonacata e venivano demoliti dopo la mostra. Quando le grandi architetture

resistevano era perché fin dal principio erano state concepite per durare e quindi progettate diversamente: vedi a Parigi il Grand Palais e il Petit Palais, nati apposta per l’esposizione del 1900. Tutte le esposizioni avevano una parte destinata al divertimento, con realizzazioni sorprendenti. All’esposizione universale di Chicago del 1893 vi fu la prima grande ruota panoramica e, sempre da quella esposizione, nel 1900 Parigi prese l’idea per un’attrazione mirabolante: la «rue de l’Avenir». Era un enorme «trottoir roulant», lungo 3,5 km, che si muoveva a due velocità, e sul quale la gente camminava lasciandosi trasportare. Sicuramente un antesignano delle scale mobili che oggi conosciamo. In seguito molte attrazioni si sarebbero separate dalle Esposizioni, differenziandosi nei Luna Park. Non mancava mai un palazzo delle belle arti, nel quale i Paesi esponevano l’arte appli-

Open Source, l’informatica idealista Alfabeto digitale Come una corrente di pensiero libertario potrebbe influenzare

l’uso dei computer casalinghi Ugo Wolf Per l’utente alle prime armi (che è il nostro interlocutore preferito) il termine open source è sicuramente enigmatico: un po’ per la sua origine inglese, un po’ per ciò che il concetto rappresenta nel settore della cultura digitale. Open source, letteralmente «sorgente aperta», indica quel tipo di applicazioni informatiche che non sono protette da un diritto di proprietà e quindi sono liberamente accessibili. Accessibili non significa soltanto «utilizzabili». Più precisamente si tratta di programmi il cui source code, «codice sorgente» (cioè il linguaggio di programmazione che li fa funzionare) non è «chiuso», secretato, ma è invece «aperto», modificabile. Per comprendere la questione può servire un po’ di storia: il mondo dei computer casalinghi è nato negli anni 80-90 come piattaforma tendenzialmente open. Alle aziende interessava vendere gli hardware, le macchine, e si preoccupavano relativamente meno dei programmi, i software, che le facevano funzionare. I primi Commodore, Spectrum, Amiga, IBM casalinghi, in genere, erano forniti con ampi manuali di istruzioni che avrebbero dovuto permettere ad ogni utente (più o meno...) di scriversi da solo i programmi. Con

Il linguaggio HTML è un esempio di codice «aperto».

il passare del tempo, però, la strategia è stata ripensata. Le grandi aziende hanno cominciato a vendere computer con una dotazione di programmi predefinita, protetta da copyright. Intervenire sul codice di programmazione è diventato impossibile, o perlomeno illegale. Il mondo informatico a quel punto ha subito una scissione ideologica. Da un lato gli idealisti che caldeggiano la

libertà di accesso «profondo» alle risorse informatiche. Dall’altro le aziende che fondano sulla vendita di software la propria fortuna. La nascita di Internet, negli anni 90, ha in qualche modo esasperato il confronto. Come piattaforma di incontro gratuita e ubiquitaria, la rete rispecchia di per sé l’immagine di una comunità «aperta», i cui prodotti sono liberamente e gratuitamente diffondibili. In rete sono nati gruppi di persone che hanno iniziato a sviluppare liberamente programmi e a scambiarseli. In opposizione al duopolio Microsoft-Apple ecco venire alla luce persino sistemi operativi open source. Il più famoso è Linux, diffuso in numerose versioni, a cui tutti gli utenti esperti possono apportare modifiche e migliorie. La comunità open (che molto spesso fa capo a programmi di ricerca nati all’interno dei corsi universitari – si veda il bell’articolo di Federico Rampini su «Azione» no. 22) è molto attiva e capace. Oggi propone sul mercato programmi sofisticati, come Open Office, Gimp, Scribus, Audacity e innumerevoli altri, in grado di fare concorrenza a quelli delle migliori aziende. Rappresentano infatti una seria alternativa ai vari MSOffice, Photoshop, QuarkExpress, ProTools, cioè i software professionali

più usati in ambito di elaborazione di testi e tabelle numeriche, nel fotoritocco, nell’editoria e nella registrazione musicale. Il loro vantaggio è che sono completamente gratuiti, scaricabili da internet, affidabili e multipiattaforma (funzionano cioè su Linux, Windows e Mac OS X). Il loro difetto, è che spesso non sono dotati di istruzioni chiare e accessibili. Chi li usa, insomma deve contare su un periodo di apprendistato «alla cieca», e fidarsi della documentazione, spesso in inglese. D’altro canto, il mercato dei corsi informatici proporrà più facilmente un seminario su Photoshop rispetto a uno dedicato a Gimp. Ma parlando di svantaggi, c’è di più. L’esperienza insegna che non bisogna mai credere alla gratuità garantita di un prodotto diffuso su internet. I programmi open, che oggi possiamo scaricare liberamente, potrebbero domani diventare a pagamento. Oppure sparire del tutto. È già successo. L’utente «aperto» sa che usando quel tipo di software le cose non sono mai definite per sempre. Nel caso peggiore, sa che dovrà sempre essere pronto a ricominciare da capo, con nuove tecniche e nuove condizioni d’uso. Nel mondo dell’open vige, in un certo senso, la legge della giungla digitale...

cata, come i mobili e altri oggetti d’uso, oltre a mostre di scultura e pittura su invito. Nel 1900 a Parigi Gustav Klimt ricevette il Grand Prix, presentando un grande pannello che gli era stato commissionato per un soffitto nell’Università di Vienna. La prima esposizione tenutasi a Milano nel 1906 celebrava il traforo ferroviario del Sempione, terminato l’anno prima. Anche in questa occasione un punto di svolta nella vita della gente e dei Paesi toccati dall’opera. La storia milanese avrà un nuovo pubblico e un banco di prova nell’Expo 2015. Siamo pronti a sorprenderci. Dove e quando

EXPONENDO, Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci, via San Vittore 21, Milano. Orari: ma-ve: 9.30-17.00, sa-do: 9.30-18.30. Fino ad aprile 2015.

Migros richiama un cavo HP di alimentazione

Il richiamo del cavo di alimentazione HP è stato annunciato settimana scorsa dall’Ispettorato federale degli impianti a corrente forte (ESTI). Il cavo in questione, che collega l’alimentatore con la presa di corrente e porta la sigla LS-15 sul connettore, può provocare un surriscaldamento ed è quindi a rischio di incendio o di combustione. Il cavo è stato venduto nel periodo compreso tra settembre 2010 e giugno 2012 anche da melectronics, insieme ai notebook e ai relativi accessori. Per ragioni di sicurezza, Migros prega i suoi clienti di non più utilizzare questo cavo a partire da subito. È possibile chiedere un cavo sostitutivo in Internet cliccando su www.hp.com/ support/PowerCordReplacement. Nel sito Internet si trovano maggiori ragguagli sul cavo e sulla sua sostituzione. HP sostituirà gratuitamente i cavi in questione.


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Società e Territorio Rubriche

Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni Che cos’è un uomo? Tra gli aneddoti più noti relativi ai filosofi dell’antichità classica c’è la storiella che racconta come Diogene, filosofo cinico, girasse in pieno giorno con una lanterna accesa: e a chi, perplesso, gli chiedeva cosa diavolo facesse con quel lumicino, rispondeva che cercava l’uomo, ma non lo trovava. La civiltà, a suo giudizio, aveva alterato la natura umana al punto da renderla irriconoscibile. Dopo d’allora, quante volte, nel corso della nostra cultura, i filosofi hanno sospirato e rimpianto la naturalità perduta? Quanti, come Rousseau, hanno sognato un ritorno alla natura originaria, senza i vizi, la corruzione, l’ipocrisia indotti dalla civiltà? I rimpianti, oggi, non sono finiti; è finita invece l’illusione di una natura umana specifica, al di fuori dell’ambiente culturale. Senza cultura, l’uomo non è tale. Lo spiega l’etologo Danilo Mainardi: per capire cosa sia un uomo,

basta privarlo della cultura. Quello che ne risulta è un animale che ha acquisito i comportamenti della specie animale dalla quale è stato allevato. Mainardi cita casi documentati di bambini-gazzella, bambini-lupo, bambini-scimmia: fanciulli abbandonati e allevati da un animale, che conseguentemente avevano plasmato il loro comportamento secondo il modello fornito dai loro «genitori adottivi». Quando poi venivano ritrovati, magari adolescenti, e ricondotti tra gli uomini, in tutti si manifestava, dopo la cattura, un totale rifiuto, o forse l’impossibilità, di un soddisfacente reinserimento nell’ambiente sociale umano. L’uomo è un essere plastico. Lo si può modellare come si vuole, se ne può fare un uomo o una bestia. Certo, ha una sua specificità morfologica, una dotazione biologica che fin dall’antichità i filosofi hanno cercato di definire. Tra le tante definizioni, quella di Plinio

il Vecchio è la più desolante – e forse anche la più veritiera: l’uomo è l’unico animale nudo e il solo che venga al mondo piangendo. Fisicamente indifeso, dunque: le sue risorse stanno nella configurazione cerebrale, che però sono solo predisposizioni. Ogni neonato, ad esempio, è predisposto ad acquisire un linguaggio umano, ad assumere un’andatura bipede, a stabilire relazioni sociali; ma perché queste competenze si sviluppino l’educazione è necessaria. L’ambiente in cui un bambino cresce modella l’adulto che sarà. Negli anni Settanta del secolo scorso prevaleva tra i pedagogisti la tesi secondo la quale l’ereditarietà genetica ha un’importanza poco rilevante rispetto all’ambiente nella formazione della persona; oggi, in base a studi recenti, questa tesi va ridimensionata: l’influenza ambientale e i geni concorrono insieme a costruire l’identità di un individuo. Ma è pur sempre

vero che senza un’adeguata educazione nessun talento innato e nessuna predisposizione possono giungere a maturazione. È dunque più calzante che mai l’etimologia latina del verbo «educare» (e-ducere): tirar fuori, portare alla luce quanto è racchiuso all’interno del bambino e attende di sbocciare. Almeno, così è per ora. Ma i rapidi progressi della genetica gettano interrogativi inquietanti sul domani. Già ora, con la fecondazione assistita, risultano tecnicamente possibili interventi di ingegneria genetica che, selezionando l’embrione, possono evitare che il nascituro sviluppi in seguito malattie come il morbo di Huntington o la distrofia muscolare; ma è anche teoricamente possibile selezionare l’embrione che farà nascere un bimbo con gli occhi azzurri e che da adulto sarà magro e alto. Le leggi, l’opinione pubblica e la Chiesa si oppongono, per ora, a questa

possibilità di produrre un «bambino su misura»: ma fino a quando? La Chiesa cattolica si oppone tuttora al suicidio assistito che in molti Paesi, compreso il nostro, è invece accettato; ma la stessa Chiesa fino a non molto tempo fa pretendeva l’accanimento terapeutico e solo recentemente vi ha rinunciato; fino al 1963 un fedele che scegliesse d’essere cremato dopo morto veniva scomunicato: oggi non più. I tempi cambiano, cambiano le mentalità e i confini del giusto: forse domani il bambino su misura sarà la regola. Ma anche lui, comunque, avrà bisogno di cultura e di educazione per essere davvero uomo: e lo sarà nella misura in cui avrà fatto sua la cultura che gli viene dal passato. L’ereditarietà genetica va integrata dall’eredità culturale, come ammonisce Goethe nel Faust: «Ciò che hai ereditato dai tuoi padri, devi conquistarlo con le tue forze per possederlo davvero».

Sono la trasformazione delle verghe usate per flagellarla durante il tremendo martirio perpetrato dal suo stesso padre, per due giorni: torturata inoltre con il fuoco, tagliati i seni, infine decapitata. Arriva il prosciutto cotto nell’asfalto che ormai fa parte del «Patrimonio culinario elvetico»: servito su un bel piatto demodé con gratin dauphinois e cornetti. Me lo serve Brigitte, un donnone energico che vola tra i tavoli di legno. È suo marito che immerge i prosciutti incartati nell’asfalto liquido. Niente di eccezionale forse, va detto, ma ottimo, perdipiù oggi ho una fame da lupi e le fette spesse otto millimetri vanno a nozze con il gratin. Vino consigliato: pinot noir neocastellano. La gerente, dopo il gran daffare, si siede a bere un caffè per darmi qualche notizia. Mi dice che servono quattro tonnellate di prosciutto all’anno. I maiali sono della regione e l’asfalto dove vengono immersi i prosciutti di otto chili circa ha una temperatura

di centosessanta gradi. Il prosciutto, disossato – mi spiega Marge – viene imballato con parecchi strati di carta da macellaio; questo pacchetto è a sua volta avvolto con un sacco da farina e immerso, attraverso un cestello di metallo, in quattrocento chili di asfalto fuso. Il tempo di cottura è di quattro ore e un quarto. Marge mi mostra alle mie spalle uno di questi imballaggi in esposizione. Penso per un attimo: scherza. Io l’avevo scambiato per una borsa nera della Freitag. Quando le chiedo se c’è un inventore in particolare del prosciutto cotto nell’asfalto, mi dice che è un’idea collettiva venuta ai minatori, ma è anche un’usanza degli operai stradali della zona. Il vero cibo da strada dunque. Prosciutto a parte, è pazzesco pensare che milioni di persone in tutto il mondo hanno passeggiato su strade asfaltate con l’asfalto naturale ricavato dai fianchi di questa valle trasversale, proprio qui, sotto i nostri piedi.

ritmo accelerato, sulla nostra società: un Ticino che doveva accogliere una popolazione sempre più diversificata di immigrati, giovani, prolifici, impegnati nella scalata sociale. E che, inevitabilmente, avrebbero invaso le aule delle nostre scuole. Le medie, ideate e gestite sulla base dell’integrazione, si rivelarono all’altezza dei compiti attuali. Da questo punto di vista, la scommessa è stata vinta. Da sfida, carica di incognite, si è trasformata ormai in un’istituzione, accettata e non al riparo dall’autocompiacimento. Come traspare dalle dichiarazioni degli addetti ai lavori, in occasione del quarantesimo, un’età cerniera, non solo per le persone: la gioventù è alle spalle, la maturità avanza. Ed è anche il momento dei bilanci, e quindi della consapevolezza e dell’autocritica, necessari per rendersi conto che la scelta della media unica conteneva una parte d’illusione. Tutti insieme per affrontare un insegna-

mento, il più possibile accessibile, non è un virtuoso automatismo che garantisce un buon esito generalizzato. La riuscita scolastica è anche questione di doti individuali, distribuite secondo criteri imperscrutabili che, a volte, smentiscono il fattore sociale e familiare. Capita, e come, che il primo della classe sia figlio di un immigrato kosovaro, un ragazzo con una voglia di conoscere, d’imparare, di fare affidate proprio alla scuola. E alle medie, in particolare, per le quali dovrebbe essere, del resto, il compito fondamentale. Ma, in pratica, così non è stato. Nei suoi primi 40 anni, la SMU ha rischiato di perdersi per strada, inseguendo ambizioni impossibili del tipo costruire il futuro cittadino a pieno titolo, scomodando, come succede, filosofi, sociologi, e persino esperti in affettività ( esistono pure quelli). Mentre basterebbe limitare, si fa per dire, il proprio campo a formare gli allievi di oggi.

Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf Il Café des Mines a Travers C’è solo un posto al mondo dove potete assaggiare il prosciutto cotto nell’asfalto: il Café des Mines, in Valde-Travers. Località La Presta, a metà strada tra Travers e Couvet, villaggi nel cuore di questa valle non lontana da Neuchâtel e nota come culla del mitico assenzio. È un ristorante atipico aperto solo a pranzo, ricavato dal deposito del legno delle vecchie miniere di asfalto attive dal 1717 al 1986. Questo raro e prezioso conglomerato bituminoso viene scoperto nel 1711, dentro l’anticlinale nord della valle, dall’enigmatico medico greco-ucraino Eirini d’Eirinis (1630-1730). In origine, prima dell’impiego stradale moderno, l’estrazione dell’asfalto aveva, strano a dirsi, intenti terapeutici. Alle 13.09 scendo dal treno regionale alla fermata su richiesta La Presta, mines d’asphalte. Sponda destra dell’Areuse intravista prima dal finestrino scorrere flemmatica, disinteressata, magica. Episodici banchi di bruma tra le pinete miste che accen-

nano, qua e là, ad accendersi con le prime tinte autunnali, tre pullman posteggiati. Due scritte in stampatello nero stemperato campeggiano, separate, sulle mura bianche dell’edificio con tre tetti tipo fabbrica: Mines, Café. Entro così al Café des Mines (733 m) un giorno di pioggia leggera a fine ottobre. È strapieno, lunghe tavolate, un grande camino in ferro battuto troneggia in fondo alla prima sala. Pareti di legno, foto in bianco e nero dei minatori tra le due lavagne con la lista dei vini. L’ambiente è più che conviviale e sfocia in un chiacchiericcio assordante: almeno un centinaio di turisti su di giri che non vedono l’ora di provare il famoso prosciutto. Specialità inconsueta e forse discutibile risalente agli anni Trenta, quando i minatori lo preparavano nel giorno di Santa Barbara: patrona dei minatori. Piatto della festa – che ricorre il quattro dicembre – strameritato per il duro lavoro nelle viscere della terra, tramutato all’inizio degli

anni Novanta, in attrazione turistica. Tutti quelli che vengono qui a visitare i chilometri del labirinto sotterraneo hanno in testa una cosa sola: questo benedetto prosciutto. Una tavolata di turisti svizzerotedeschi brinda non appena viene servito; il guidatore del pullman, non troppo felice, beve acqua e rimane un po’ in disparte dall’euforia collettiva. Qui potete anche degustare la birra Santa Barbara. Una birra studiata esclusivamente per le ex miniere dalla Brasserie des Franches-Montagnes di Saignelégier, nel Giura. Ambrata, non filtrata, gusto affumicato, niente male. Sull’etichetta c’è Santa Barbara con una torre in mano. Infatti, secondo la leggenda, è stata rinchiusa in una torre a Izmit, in Turchia, dal padre, per proteggerla dai suoi pretendenti. Nella sala grande di questo posto stile refettorio si ritrova invece l’altro elemento della sua iconografia. Rappresentata su un grande stendardo sottovetro, in mano, tiene delle piume di pavone.

Mode e modi di Luciana Caglio I 40 anni delle medie: da sfida a istituzione Sembrano appartenere alla preistoria del nostro costume gli umori, anzi i malumori, che accompagnarono la nascita della scuola media unica, decisa dal governo ticinese nel 1972 e operativa dal 1974. La riforma, che comportava l’abolizione delle maggiori e dei ginnasi, divise profondamente l’opinione pubblica, sempre sensibile a tutto ciò che tocca la scuola: un luogo e un periodo che, in modi diversi, hanno segnato la nostra esperienza, prima come allievi e poi come genitori o nonni di allievi o magari docenti. Fatto sta che quel cambiamento, proposto alla stregua di una primizia e di un progresso educativo e sociale, non mancò di allarmare e insospettire. Suscitando scontri intensi e dai risvolti persino spassosi, almeno visti a distanza. In proposito, fu significativa la serata che, nell’autunno del ’73 si svolse al Palazzo dei congressi di Lugano, da me, e chiedo venia, più volte rievocata. Ma a ragione. Proprio perché quella sala gremita

da un pubblico, chiaramente ripartito in gruppi, o addirittura, fazioni opposte, fotografava un momento, tipico di un’epoca, che recava le impronte del vicino ’68, insomma era ancora carica di ideologie e ideologismi. Oggetto del contendere l’avvento della scuola media, la SMU, come si chiamava: difesa dal professor Franco Lepori e avversata dal professor Salvini, oggi entrambi scomparsi. Ed entrambi animati dal cosiddetto fuoco sacro di una convinzione compatta, senza possibili sfumature. Il primo, esponente di un socialismo risanatore, vedeva nelle medie, uguali per tutti, lo strumento più efficace per assicurare pari opportunità veramente a tutti, e, indipendentemente dal ceto o dall’origine nazionale. Il secondo, persuaso invece dell’impossibilità di abbattere non tanto gli ostacoli sociali quanto quelli individuali. Cioè, ostacoli d’ordine naturale, perché come disse con una battuta rimasta famosa, «la natura non è democratica».

Ma al di là di questa memorabile serata, le due prese di posizione continuarono ad animare discussioni e polemiche, innanzi tutto politiche, offrendo, per fortuna, anche materia agli umoristi. La SMU («asinificio») diventò un cavallo di battaglia per Flavio Maspoli, cabarettista di talento, in tempi in cui la Lega era di là da venire. Con il passare degli anni, si sono smussati, per forza di cose, gli spigoli di una contrapposizione che ha perso i connotati partitici e ideologici dei primordi. Rimane, comunque, da chiedersi: chi ha avuto ragione in quella battaglia? Merita rimpianto il vecchio ginnasio, affidato a criteri selettivi e meritocratici? O ha ottenuto una giustificata fiducia generale la scuola media, capace di affrontare le incognite di una nuova società? Domande che possono sembrare retoriche e risposte scontate. Le medie, è fuori dubbio, hanno percepito, tempestivamente, i cambiamenti che incombevano, a


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Ambiente e Benessere Un cantone da ri-inventare Sguardo rivolto a futuro e passato del turismo in Ticino per capire il faticoso presente

Reportage dal Botswana Alla scoperta dei suricati: fanno parte della famiglia delle manguste, sono carnivori e vivono in gruppi

Uno strano viaggio a pedali Grazie a JunaProject tre biciclette d’epoca tornano a rivivere… in tutto il mondo

La Jack-o’-Lantern In tempo di Halloween la zucca è bella da vedere, ma anche buona da mangiare pagina 21

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Il dottor Claudio Gaia, gastroenterologo e la signora Alba Masullo, direttrice della Lega ticinese contro il cancro. (Stefano Spinelli)

La lotta al big killer intestinale Oncologia Lega ticinese contro il cancro e Associazione gastroenterologi della Svizzera italiana

nel gruppo promotore della campagna di prevenzione del tumore del colon-retto Maria Grazia Buletti Il cancro dell’intestino è uno dei tumori maligni più frequenti in Svizzera: ogni anno è diagnosticato a circa 4100 persone, mentre a causa delle conseguenze di questa malattia, nello stesso intervallo di tempo muoiono approssimativamente 1600 pazienti. I numeri della Lega svizzera contro il cancro sono confermati anche per il Ticino, dove ogni anno si manifestano circa 200 nuovi casi e si registrano da 80 a 90 decessi. «Il cancro del colon-retto è il terzo big killer fra i tumori: nell’uomo è al terzo posto dopo quello alla prostata e quello polmonare, mentre nella donna è secondo solo al tumore al seno», conferma il medico gastroenterologo Claudio Gaia. «Questo triste primato fa sì che il tumore del colon-retto sia tutt’oggi un’emergenza sanitaria di notevole rilevanza individuale, sociale ed economica», afferma la direttrice della Lega ticinese contro il cancro Alba Masullo. Nessun dubbio che si tratti di un tumore infausto, contro il quale si può

però agire efficacemente attraverso una diagnosi precoce, spiega il dottor Gaia: «Purtroppo, ancora in troppi casi il tumore intestinale è diagnosticato solo in uno stadio tardivo, poiché gli accertamenti sono spesso condotti dopo che si sono manifestati i sintomi della malattia, la quale, a quel punto, si trova ormai in uno stadio avanzato. Di fatto, si stima che siano necessari circa dieci anni prima che da un polipo benigno si sviluppi il cancro: un lungo periodo durante il quale polipi e tumori non causano per lo più alcun disturbo. Il tumore però avanza e sappiamo che la sua guarigione dipende fortemente dallo stadio in cui lo diagnostichiamo: un cancro del colon-retto trovato in fase precoce può essere guarito nel 90 per cento dei casi, mentre se individuato in fase avanzata o metastatica (ndr: con lesioni epatiche), la speranza di vita si riduce a meno del 5 per cento». La chiave della soluzione sta perciò nella diagnosi precoce di questo big killer: «Per una diagnosi tempestiva, abbiamo a disposizione esame occulto delle feci e colonscopia; quest’ultima risulta essere l’esame elettivo che per-

mette al gastroenterologo di intervenire in fase diagnostica già su eventuali polipi benigni e va ripetuta solo nell’arco di un decennio». Prevenzione attraverso l’esame colonscopico è la parola chiave per combattere questo tumore e, a questo proposito, Alba Masullo riassume gli eventi che hanno portato il nostro Cantone a favorire una campagna di informazione e di screening della popolazione: «Dal primo luglio 2013, il Dipartimento federale dell’interno ha deciso di inserire gli esami di riconoscimento precoce di questo tumore nel catalogo delle prestazioni dell’assicurazione obbligatoria delle cure medico sanitarie (LAMal) per le persone dai 50 ai 69 anni d’età; questa decisione è stata accolta con soddisfazione dalla Lega svizzera contro il cancro. In Ticino, grazie al sostegno della Lega ticinese contro il cancro, si è creato un gruppo di lavoro nel quale operano figure professionali di varie estrazioni (AGASI, oncologi, medici di famiglia e farmacisti) del settore pubblico e privato, con l’obiettivo di creare una cultura di prevenzione e promuovere lo screening del cancro colon-retto».

Secondo la signora Masullo, una piena e convinta partecipazione dei medici curanti è l’elemento vincente per incoraggiare la cittadinanza a sottoporsi ai test di riconoscimento precoce e, a supporto di ciò, il dottor Gaia porta un esempio indicativo: «Stamani, per un controllo a titolo preventivo, è arrivato nel mio studio un signore di 64 anni, inviato dal proprio medico curante. Sebbene il paziente non soffrisse di alcun sintomo, la sua colonscopia ha permesso di individuare un tumore del colon-retto e questo ci permette di attivarci immediatamente per le cure del caso». Per mezzo di questo chiaro esempio, il dottor Gaia ribadisce l’importanza della prevenzione attraverso la diagnosi precoce che la colonscopia offre. Dal canto suo, la signora Masullo spezza ancora una lancia a favore della campagna di prevenzione e informazione promossa dalla Lega ticinese contro il cancro: «Fra tutti i differenti tumori con cui ci troviamo a fare i conti, ve ne sono alcuni che si prestano a una diagnosi precoce; avremmo un atteggiamento «da struzzo» se non ci attivassimo nella prevenzione di questi tu-

mori, a tutto beneficio della prognosi e della guarigione, perché è appurato che scoprire prima possibile una neoplasia offre maggiori possibilità di guarigione, cure meno invasive per il paziente e una chiara riduzione dei costi». A questo proposito parlano i numeri portati dal dottor Gaia: «Un esame colonscopico ha un costo di circa 600 franchi, mentre le cure di un tumore in fase avanzata contemplano costi per centinaia di migliaia di franchi». Affermando la figura del medico di famiglia come punto di riferimento, la direttrice della Lega ticinese contro il cancro specifica la linea verde accessibile per ogni informazione: «Al nostro numero InfoCancro 0800 11 88 11 rispondono infermieri specializzati in grado di soddisfare le domande immediate, mentre per sottoporsi a colonscopia è necessario rivolgersi al medico di famiglia che opera in stretta collaborazione con il gastroenterologo che effettuerà l’esame». La campagna informativa e di prevenzione del tumore colon-retto è dunque iniziata sotto l’egida del motto che prevenire è sempre (molto) meglio che curare.


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Ambiente e Benessere

L’esercito che scende dal cielo 1914-1918 Il centesimo anniversario della Grande Guerra offre il pretesto per visitare

i luoghi della sua memoria, tra cui il grande Sacrario di Redipuglia Dei 650’000 soldati italiani che persero la vita nella Prima guerra mondiale nel Sacrario di Redipuglia, vicino a Trieste, ne sono stati raccolti 100’187. Il luogo non è casuale: queste due collinette, il monte Sei Busi e il colle Sant’Elia, oggi così innocue, erano una postazione di difesa importante. Lo attestano ranghi di trincee blindate, camminamenti a filo del terreno ricoperti di cemento, che sono stati conservati a futura memoria. Fronteggiavano le corrispondenti linee fortificate austriache, collocate sulla linea di colline del Carso, a pochi chilometri verso oriente. Oggi sono completamente inoffensive e pacifiche, ma su queste alture si sono tenuti alcuni degli scontri più cruenti. Era di stanza qui la 3a Armata dell’esercito italiano, al comando di Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta. Il parallelepipedo rosso, imponente della sua tomba è posto davanti ai ventidue giganteschi gradoni che costituiscono la struttura del monumento stesso. Il sacrario di Redipuglia è in effetti una sorta di enorme arena all’aperto, progettata dall’architetto milanese Giovanni Greppi nel 1928 e terminata 10 anni dopo. L’idea complessiva si ispira a uno stile metafisico tipico dell’architettura dell’epoca fascista: Greppi immagina un esercito che scende dal cielo, come in una parata soprannaturale, guidato dai propri comandanti e che viene sulla terra a ricordarci il sacrificio di tante giovani vite. Le schiere dei militi sono rappresentate da quarantamila loculi di bronzo, su cui è il nome di un

Le tombe dei generali sembrano guidare le loro truppe. (AZ)

militare caduto e in cui sono stati raccolti i suoi resti mortali. Sul bordo di ognuno di questi immensi gradoni, un fronte largo un centinaio di metri, è impressa venti volte la scritta perentoria «Presente». Il tutto crea una sorta di grido muto che aleggia sopra questo luogo e incute una profonda soggezione. Numerosi turisti arrivano qui e si avventurano in silenzio nell’ascesa: dopo aver superato lo spiazzo di accesso, aver costeggiato le cinque tombe dei generali italiani qui sepolti, iniziano a salire. Quarantaquattro brevi rampe di scale conducono fino alla cima della grande scalinata. Molti si fermano sulle varie terrazze, a leggere le piastre di

Sui nomi dei caduti le impronte di chi ritrova un suo caro. (AZ)

metallo. Commuove notare come sopra alcuni dei nomi siano visibili impronte di dita e di mani, stampate sulle lapidi. Sembra di poter immaginare l’emozione con cui qualcuno viene qui a ritrovare un proprio caro, in pellegrinaggio laico, a così tanti anni di distanza. Leggere questo elenco interminabile di nomi, cognomi, gradi militari e reparti di appartenenza potrebbe essere un esercizio, un deterrente alle pulsioni belliche: il senso di umanità sprecata, di sofferenza immane, suscitato nel visitatore è forte. Tutte queste vite perdute hanno ancora un peso palpabile, dopo un secolo, e l’ascesa verso la cima del monumento diventa davvero

una sorta di Calvario che le tre croci poste alla sommità sottolineano. Dalla terrazza superiore si abbraccia con la vista l’estensione di questo enorme promemoria alla vanità della guerra: lo sguardo corre verso la pianura all’orizzonte, verso quell’Italia apparentemente così lontana ma che qui ha mandato a morire il meglio delle sue giovani generazioni per la difesa della propria reputazione internazionale, per i propri interessi politici. Ai visitatori che si fermano a osservare questo enorme monumento, e che non riescono a non subirne il fascino, probabilmente sfuggono molti dei motivi che hanno scatenato quella guerra.

In questa regione, però, sembra che la conservazione della memoria storica sia diventato un compito morale. Che possiede non indifferenti risvolti turistici. Diversi «percorsi della memoria» sono stati disegnati nei dintorni: chi vuole può compiere escursioni e cercare di capire meglio come funziona una guerra e cos’è veramente. Più difficile indagare i motivi che l’hanno scatenata, il suo perché. Sono passati cent’anni ma le stesse opinioni degli storici non sono ancora concordi. Le tombe di Redipuglia, al contrario, sono dei fatti ben chiari e concreti, «presenti» senza dubbi di sorta. / AZ Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Fu-turismo

Luoghi sconosciuti alle porte di casa

Viaggiatori d’Occidente A Obiettivo Turismo, l’annuale momento di riflessione

dedicato a questo settore, si cerca di guardare avanti, voltandosi indietro

Bussole Inviti

a letture per viaggiare

Claudio Visentin

Il Ticino ha sempre modellato la sua immagine sui desideri e le aspettative dei potenziali ospiti Infine gli intervistati ci confermano che, con un lavoro paziente di decenni, il cantone ha saputo far conoscere anche le sue manifestazioni culturali – il cinema, i concerti, i festival – ma qui il vantaggio competitivo è minore e il resto della Confederazione ci incalza da vicino: tutti suonano questa musica ormai e sarà bene ricordarlo quando il LAC aprirà le porte. Dopo le luci, le ombre. Con il resto del Paese abbiamo in comune i prezzi elevati, per i quali evidentemente non c’è rimedio, se non insistendo quasi

«Sono nato in Pianura Padana ma non ho mai imparato ad amarla. Forse anche questo mi ha permesso di conoscerla e riconoscerla con uno sguardo oggettivo, privo di retorica. Quando mi chiedono: “Di dove sei?”, rispondo sempre citando la città più vicina al mio paese: Crema o Cremona. Cerco di aiutare il mio interlocutore ad orientarsi sulla mappa che si raffigura nella mente…»

Swissimages

Da qualche anno il turismo ticinese non smette d’interrogarsi, dinanzi a numeri che raramente danno soddisfazione, come se una strega malvagia avesse avvolto il nostro cantone in un malefico incantesimo: che ne è delle festose comitive di svizzero tedeschi che sognavano grandi avventure a sud delle Alpi? Che ne è degli alberghi al completo dei tempi andati? Per comprendere il faticoso presente Obiettivo turismo, l’annuale momento di riflessione del settore, ha guardato al tempo stesso al passato e al futuro di questo comparto; e in particolare ha chiesto una sorta di pagella a Jürg Schmid, direttore di Svizzera Turismo, che a sua volta ha girato la domanda a 750 visitatori del Ticino provenienti da 55 diversi mercati. La prima scoperta di questo sondaggio è che in un mondo dove anche la bellezza è globale si mantiene viva la meraviglia per i nostri laghi, incastonati tra le montagne: il nostro fondamento insomma è ancora ben solido. Anche la possibilità di fare acquisti in una terra che parla italiano, la lingua internazionale dell’eleganza, resta un punto di forza, ma la vicinanza con Milano, e in genere con la più conveniente e attrezzata penisola, fa temere che possa rivelarsi un’occasione perduta. E ancora con l’Italia, assai più che con la Svizzera, condividiamo la buona reputazione gastronomica, ma anche in questo caso non riusciamo a sfruttarla a pieno. La possibilità di fare escursioni nella natura già alle porte delle città ha poi pure un suo fascino.

ossessivamente sulla qualità dei servizi. Inoltre, fatichiamo ad attirare nuovi clienti, anche dall’Europa, al di fuori del tradizionale bacino di lingua tedesca che resta predominante. C’è bisogno di nuove idee, di nuovi prodotti e di una promozione coraggiosa; ma è altrettanto importante saper ascoltare i nostri visitatori e interpretare i loro desideri. Il traffico automobilistico poi cumula solo svantaggi: si può restare imbottigliati in coda per ore nel tentativo di arrivare in Ticino e le troppe auto riducono il piacere di chi vuole passeggiare in un giorno di sole. Al tempo stesso la facilità del collegamento autostradale invoglia i turisti a tirare dritto, saltando il cantone in favore dei laghi italiani. Un altro tasto dolente è l’ospitalità, un tema su cui Ticino Turismo insiste molto. Non che manchi naturalmente la cortesia professionale di albergatori e ristoratori, che è parte della loro cassetta degli attrezzi. Ma il turista, conteso da sempre più destinazioni, vuol sentire che la sua presenza desta un sincero interesse,

che il territorio è lieto di incontrare i visitatori, insomma che il rapporto con l’altro non è solo una questione di vantaggio economico ma un’autentica apertura della mente e del cuore. E qui la critica senza dubbio coglie nel segno: per troppo tempo da noi i turisti sono stati soprattutto un buon affare, ma la loro presenza è stata più tollerata che apprezzata. Sennonché il turismo, specie quello contemporaneo, va molto al di là della dimensione ambientale ed economica: ai visitatori non basta più la mitezza del clima e i buoni prezzi, ma chiedono di condividere la vita della comunità locale. Accogliere queste domanda di autenticità è una sfida difficile quanto appassionante e comunque necessaria e inevitabile. In margine all’incontro si è discusso anche dell’immagine complessiva del cantone. Per decenni il Ticino si è presentato come il «salotto soleggiato» (Sonnenstube) della Svizzera, un’anticipazione di Mediterraneo alle porte di casa, una regione tradizionale e rurale. Oggi però questa immagine corrisponde sempre meno all’effetti-

va realtà di un territorio che si è molto sviluppato e in particolare molto ha costruito; senza contare che chi cerca il sole mediterraneo può trovare quello vero – e non una pallida copia – a un paio d’ore di volo. Oltretutto questa insistenza sulla propria diversità, rispetto a un Paese che agli occhi del pubblico è riassunto nell’immagine delle sue montagne, può risultare pericolosa a livello di turismo internazionale, quasi che si possa dire d’aver visto la Svizzera anche se non si è messo piede in Ticino. Inoltre il Ticino ha sempre modellato la sua immagine sui desideri e le aspettative dei potenziali ospiti. Una scelta efficace e forse inevitabile quando si era più poveri, ma vien da pensare che forse oggi possiamo permetterci di esprimere con più convinzione quel che siamo e quel che vogliamo essere. Di certo il turismo è stato una parte importante della nostra storia, anche se tendiamo a dimenticarlo, e avrà un ruolo importante anche negli anni a venire, in forme nuove, da ricercare e costruire con il gusto della sfida e il piacere della novità.

Una delle chiavi di lettura del viaggio contemporaneo è la capacità di scoprire luoghi sconosciuti alle porte di casa. Chi direbbe per esempio che a una quarantina di chilometri da Milano ci sia spazio per genuine esplorazioni? Eppure è così: solo di rado un turista si spinge sino a Crema (Cremona è già più famosa per via dei violini) e praticamente nessuno attraversa campi di granoturco e fossi – quando la nebbia non nasconde tutto – per giungere sino ai piccoli paesi, come Offanengo, che pure di questi territori costituiscono l’ossatura. Qui il sindaco, il dottore e il prete sono ancora considerati le figure di riferimento e tra loro anche il maestro, come Alex Corlazzoli, che si è improvvisato cantore della terra padana. Curioso: questa regione che qualche politico sognava indipendente e orgogliosamente autosufficiente si è gradualmente spopolata e ha dimenticato tradizioni e mestieri, prestando i suoi abitanti alle città industriali. Molti grandi cascinali sono abbandonati, altri sono accuditi da mungitori indiani, mentre i cinesi tengono aperti con infinita pazienza piccoli negozi. Tra i banchi di scuola hanno fatto la loro comparsa bambini con i turbanti, ragazzine con il velo e volti con gli occhi a mandorla. Sono figure silenziose, ma proprio questa loro ritrosia a chiedere rende più urgente riattivare i circuiti della memoria, raccontare la lingua delle campane, che nella pianura padana non tacciono mai, le storie della stalla, le ricette di una cucina che sapeva essere al tempo stesso povera e opulenta. Bibliografia

Alex Corlazzoli, Gita in pianura. Una classe a spasso per la Bassa, Laterza, 2014, pp.140, € 12.

Nuovi consigli biblio-ludici Editoria Dalla ginnastica per la memoria alla nonna di Pitagora Ennio Peres Breve corso di ginnastica per la memoria. Di Angels Navarro

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il possesso di capacità paranormali. L’autore, considerato uno dei massimi esperti internazionali in materia, propone un metodo pratico, per impadronirsi dei principali segreti di questa particolare arte magica, articolato in sei livelli. A suo avviso, il prestigiatore che vuole esibirsi in performance di questo genere, deve dimostrare di essere un seduttore sopraffino, che padroneggia carisma, abilità narrativa, introspezione psicologica e comunicazione non verbale. Un mistero in bianco e nero. Di Giangiuseppe Pili (Le Due Torri, pp. 200, € 18,00). Un originale saggio che analizza gli aspetti filosofici e artistici, legati al millenario gioco degli scacchi. L’autore, un provetto scacchista, non a

caso laureato in filosofia, sostiene che il fascino degli scacchi segue molto da vicino il senso estetico presente in matematica e logica, dove la bellezza è il risultato dell’equilibrio, della precisione, della concisione incisiva. Una bella partita a scacchi ricorda l’armonia celeste della rotazione dei pianeti, attorno a una stella.

suggerimento casuale di un personaggio collaterale (una nonna, uno schiavo, una governante, e così via...) riesce a fargli cogliere lo spunto determinante. In questo modo, i due autori intendono dimostrare che la matematica è elaborata da esseri umani, anche se una tale banale verità sfugge a molti… Volando s’impara. Di Brian Clegg

La nonna di Pitagora. Di Bruno

D’Amore e Martha Isabel Fandiño Pinilla (Dedalo, pp. 192, € 15,00). Una raccolta di dieci storie di pura fantasia, con finalità didattiche, che hanno come protagonisti i più celebri matematici della storia (Pitagora, Archimede, Euclide, e così via). Ognuno di questi si trova alle prese con un problema che, nonostante il proprio sapere, non riesce a risolvere. Poi, però, il

(Zanichelli, pp. 232, € 12,20). Un originale volumetto che suggerisce di approfittare di un viaggio in aereo, per approfondire alcuni importanti concetti scientifici: «Come funzionano i metal detector?», «Come fa un aereo gigantesco ad alzarsi in volo?», «C’è vita a 10mila metri di quota?», «Perché ci sono tanti tipi diversi di nuvole?», e così via. I numerosi esperimenti proposti, per fornire una rispo-

sta a tali interrogativi, sono concepiti in modo da poter essere eseguiti, senza generare alcun rischio per gli altri passeggeri. L’istinto musicale. Di Philip Ball (Edizioni Dedalo, pp. 512, € 22,00). Un saggio rivolto sia agli appassionati di musica sia a chi deve ancora scoprirla e, in assoluto, a tutti coloro che si interessano al funzionamento della nostra mente. Ricorrendo a molti esempi, che spaziano da Bach a Jimi Hendrix, dalle filastrocche per bambini alle composizioni contemporanee, l’autore intende avvicinare i neofiti e gli appassionati, ai misteri di un’arte presente in tutte le culture, ponendo l’accento sul complesso lavoro che il nostro cervello deve compiere, per interpretare i messaggi sonori.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 27 ottobre 2014 ¶ N. 44

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Ambiente e Benessere

I suricati del Kalahari Il diario di Daisy Botswana: incontro ravvicinato con uno degli esseri più simpatici,

divertenti ed espressivi – Seconda parte

Daisy Gilardini, testo e foto Un viaggio in Botswana non è tale senza una capatina nel deserto del Kalahari che ricopre ben il 70 per cento dell’intero paese. Qui avviene l’incontro con uno degli esseri più simpatici ed espressivi che abbia mai fotografato: i suricati. Questi divertentissimi animali fanno parte della famiglia delle manguste, sono carnivori e vivono in gruppi che possono arrivare anche fino a diverse decine d’individui. Durante la notte si rifugiano in un complicato sistema di tunnel e tane sotterranee che li proteggono anche nelle ore più calde della giornata quando in estate le temperature possono facilmente raggiungere i 40°C. Ciò che li caratterizza maggiormente è la loro organizzazione sociale. Durante le ore diurne quando sono a caccia uno o due individui del gruppo, a turno, fungono da sentinella. Cercano i rispettivi punti più elevati, sia esso una piccola duna di

sabbia, o un tronco, e si mettono in posizione eretta sulle loro zampette utilizzando la coda come appoggio. Freneticamente scrutano cielo e orizzonte e al minimo segno di pericolo danno l’allarme. Sono le tre del mattino quando il suono della sveglia rimbomba brutalmente nella camera d’albergo. Apro gli occhi e mi ci vuole qualche secondo per realizzare dove mi trovo e il motivo per cui devo svegliarmi nel mezzo della notte. Con un sobbalzo e un grande sorriso ora ricordo: sono nel deserto del Kalahari e per raggiungere la tana dove presumibilmente troveremo i suricati ci vogliono circa tre ore di auto. Con i miei compagni di viaggio beviamo velocemente un caffè e ingurgitiamo di fretta un paio di biscotti prima di salire sulla jeep che, attraverso una pista tortuosa, ci porterà a destinazione. In perfetta sincronia con madre natura arriviamo ai primi chiarori dell’alba. Troviamo la tana e ci appostiamo in fervida attesa che non si rivelerà però lunga. Appena il sole è alto nel cielo, il primo musino appare curioso. Per niente intimorito dalla nostra presenza, l’animaletto si mette immediatamente in posa di sentinella, non per la foto, ma per scaldarsi ai raggi del sole. Un componente dopo l’altro ricompongono la famigliola che si allinea in posa perfetta! Dopo poco più di mezzora trascorsa a crogiolarsi al sole per i suricati arriva il momento di fare colazione. In un baleno tutti i membri del gruppo scompaiono nell’erba della savana. Cercare di seguirli non è impresa da poco. Sembrano delle piccole macchinette indiavolate, delle minuscole scavatrici che con le loro potenti zampette scavano alla ricerca di oro; un oro fatto d’insetti, scorpioni, millepiedi, ragni e serpenti… quasi quasi me ne porto uno a Ka-

sane (vedi articolo apparso su «Azione» 36)! Il sole ormai alto nel cielo comincia a scaldare. Tutta sudata per l’estenuante inseguimento mi siedo sfinita. Da dietro, la guida mi sussurra di stare tranquilla e immobile. Il sangue mi si gela nelle vene: non mi sarò mica seduta vicina a un serpente?! Rimango impietrita con il sudore grondante e impallidisco vedendo i compagni di viaggio girare l’obiettivo verso di me pronti a immortalare l’imminente tragedia. Pochi secondi dopo, che a me sembrano un’eternità, il cuore mi salta in gola nell’udire i pri-

mi scatti delle macchine fotografiche: come fossero delle mitragliatrici e io la condannata. Non posso restare immobile e, vinto il terrore, abbasso la testa per guardare al mio fianco: se devo morire, voglio almeno capire il motivo. Un gigantesco sorriso appare sul mio pallido viso. A qualche centimetro da me la sentinella di turno sta valutando la situazione. In piedi sulle sue zampe guarda a sinistra e poi a destra. Mi rivolge lo sguardo e, temerario decide: in un lampo è in equilibrio sull’obiettivo della macchina fotografica…


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Ambiente e Benessere

Junaproject: una fantasia sempre più reale EcoProgetto L’iniziativa del ticinese Lucas Realini volta a riavvicinare le persone alle «pedalate» domenicali

si sta trasformando in un evento globale

Jacek Pulawski, testo e foto La differenza tra le persone che realizzano i propri desideri e il resto del mondo non consiste nello spessore del portamonete. Il sottile divario motivazionale è da ricercare nel modo di vivere. Mentre gli uni trascorrono la vita in lettura di romanzi sognando numerose avventure, gli altri, a un certo punto, distolgono lo sguardo dal libro, si alzano dalla poltrona e vanno incontro alle proprie visioni.

A pochi mesi dall’avvio di Junaproject stanno giungendo numerose richieste di partecipazione da ogni parte del globo È proprio da un impeto simile che sboccia la peculiarità di Junaproject. Si tratta di una gag concepita da Lucas Realini, che ha rimesso uno dei suoi libri nella bacheca degli studenti per lasciare spazio a un’originale fiammata inventiva. Appassionato di biciclette e acuto osservatore del «progresso» offerto dai social network (Facebook, Twitter, ecc…), il trentaseienne ticinese ha ideato un progetto ibrido che accomuna entrambi gli interessi. Così il 4 maggio dell’anno in corso, Realini si è messo all’opera. Dopo aver acquistato tre biciclette pieghevoli d’epoca, ha deciso di condividerle in rete con la gente di tutti i giorni. La particolarità del suo proposito risulta nel compimento di cento missioni prestabilite, che i futuri utenti dovranno intraprendere, filmare e

scaricare su un portale internet appositamente congegnato. Intorno alla realizzazione del progetto non è mancato, talvolta, dello scetticismo. A molti, infatti, inizialmente era parsa un’idea fin troppo astratta. Tuttavia come spesso accade i metodi non convenzionali prediligono l’imprevedibilità, il proverbiale tiro mancino alla saggezza precauzionale. Partite originariamente dalle mani di famigliari e amici, le bici sono ora affidate a perfetti sconosciuti di cui si conosce soltanto la buona fede. Nel segno della fiducia, i tre mezzi stanno percorrendo migliaia di chilometri tracciando delle scie colorate sul mappamondo di Junaproject. Quelle vecchie ferraglie a due ruote, lasciate incustodite per decenni nelle cantine di collezionisti lombardi, stanno superando di gran lunga le aspettative iniziali. Passano di mano in mano, rammentando l’inerzia che spinse la sonda Voyager a scattare una fotografia grigiastra di una macchia rossa. Un paradosso condito dall’intuito di Lucas che sta conquistando gli amanti delle biciclette di tutto il mondo. Salvo imprevisti, il suo lavoro sembra essere destinato a diventare ampiamente conosciuto in ambiti molto ristretti. A pochi mesi dall’avvio di Junaproject stanno giungendo numerose richieste di pubblicazione da ogni parte del globo. La spontanea fiducia che il suo ideatore nutre per degli utenti sconosciuti, nonché l’originalità dell’esperimento stesso, sono gli aspetti maggiormente sottolineati nelle riviste del settore provenienti dal Giappone, Cina e Germania. Nel frattempo, le bici proseguono nella loro bizzarra avventura. Come quella finita in Svezia per partecipare a un allena-

mento di unihockey di una squadra femminile. Un’altra si è invece perfettamente ambientata nelle suggestive stradine londinesi del quartiere di Shoreditch, mentre la terza è appena stata impiegata da un moderatore televisivo tedesco in una complessa gara di rampichini. Niente male per un umile tentativo di riavvicinare le persone alle «pedalate» domenicali. Una passione che si era andata a perdere per strada e sempre meno considerata dallo spirito del nostro tempo. Chiunque volesse seguire gli sviluppi della simpatica iniziativa di Lucas potrà consultare il sito: www.Junaproject.ch


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Ambiente e Benessere Cucina di Stagione La ricetta della settimana

Risotto con dadolata di zucca Piatto principale Ingredienti per 4 persone: 2 cucchiai di semi di zucca · 1,2 l di brodo di verdura · 1 cipolla piccola · 2 cucchiai d’olio d’oliva · 320 g di riso per risotto · 1 dl di vino bianco · 750 g di zucca, ad esempio moscata · 40 g di parmigiano grattugiato · sale, pepe. 1. Fate tostare i semi di zucca in una padella antiaderente senza grassi. Mettete da parte. 2. Mettete da parte 1 dl di brodo per cuocere la zucca. Tritate la cipolla e fatela appassire nell’olio. Unite il riso e fatelo tostare finché diventa trasparente. Aggiungete il vino e fate ridurre. Versate 1/3 del brodo e fate ridurre di nuovo. Mescolando, unite il brodo rimasto poco alla volta. Fate sobbollire per circa 20 minuti, finché il riso risulta cremoso, ma ancora al dente. 3. Tagliate la zucca a dadini e fatela cuocere al dente nel brodo messo da parte per circa 10 minuti. 4. Mantecate con un po’ di parmigiano, regolate di sale e pepe. Servite il risotto con la dadolata di zucca, cospargete con i semi di zucca e il parmigiano rimasto.

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Ambiente e Benessere

In giro con la zucca in mano Allan Bay In questi anni ho scritto per «Azione» ventisei ricette contenenti la parola zucca nel nome della ricetta stessa e sessantanove volte l’ho citata in altri articoli. Lo dice il computer. Ed è giusto che sia così, perché è un sapore che amo. Non vi ho mai parlato però della zucca in genere: rimedio subito, dal momento che siamo in vista di Halloween. Fra le usanze di questa festa celtica, diventata americana ma oggi diffusa in tutto il mondo, vi è quella di intagliare zucche con volti minacciosi per poi mettervi una candela all’interno al fine di ottenere quella che viene chiamata la Jack-o’-Lantern, un nome bellissimo che perde un po’ di poesia in italiano, diventando, la lanterna di Jack. È una tradizione nata dalla convinzione che il defunto Jack vaghi ad Halloween per le strade della terra in cerca di un rifugio, perché scacciato dal Paradiso e non accolto nemmeno all’inferno, a causa di un precedente patto con il Diavolo. Il fuoco che arde nella zucca di Jack (che dovrebbe essere tradizionalmente una rapa, se non fosse stata sostituita dagli americani) di fatto sarebbe eterno, perché gli fu donato dagli inferi. Qualcuno sostiene anche che i morti intenti a vagare con i fuochi in mano cerchino di portarsi via i vivi… Quale che sia la verità, poco importa, sta di fatto che è comunque una grandissima pubblicità alla zucca, uno dei frutti (quella che chiamiamo zucche sono i frutti della pianta) più onnipresenti al mondo: il successo ubiquitario nasce, oltre che dalla sua bontà e flessibilità, dalla facilità e dallo scarso impegno richiesto per la coltivazione. Appartiene alla famiglia delle cucurbitacee ed è un dono dell’America Centrale. Se ne mangia la polpa ma anche i semi, in genere tostati; con i semi di alcuni tipi di zucca si produce il celebre olio, perfetto per condire le patate lesse. E la scorza, che in genere si getta, può essere mangiata se candita. Le zucche si raccolgono normalmente alla fine dell’estate e si conservano per tutto l’inverno. Dopo l’apertura,

però, vanno consumate rapidamente perché la polpa ossida. Vanta un primato difficilmente eguagliabile: è la frutta dalla forma e dal colore più eterogenei che ci sia. Può essere tonda, allungata o a forma di pera o di stella, la buccia liscia, costoluta o bitorzoluta, di colore bianco, rosso, giallo, verde o arancio, soprattutto può raggiungere grandi dimensioni, alcuni esemplari superano il quintale di peso (chissà come sono di sapore…). Esiste anche una grossa zucca ovale e giallina, detta degli spaghetti vegetali: messa a bollire intera in acqua, viene poi aperta e la polpa, ridotta in filamenti, viene servita come se fosse pasta. Ci sono poi zucche ornamentali come quella a turbante; la zuppa a fiasco, invece, veniva usata un tempo, dopo essere stata svuotata di polpa e semi, come bottiglia. Comunque sia la polpa, soda e in genere color arancio, è sempre dolciastra. Ha la caratteristica di potersi abbinare senza problemi con un’infinità di altri ingredienti. Se deve guarnire una preparazione, ci sono due precotture canoniche: la polpa tagliata a dadi può essere cotta a vapore per una ventina di minuti e poi utilizzata, oppure può essere arrotolata in alluminio e cotta sempre per venti minuti in forno a 200°. La polpa può anche essere tagliata a bastoncini e poi fritta come le patate. E come queste può diventare un puré, una vellutata e degli gnocchi. È ottima anche nelle torte, come ben sanno gli americani e chiunque abbia assaggiato la loro pumpkin pie. Si può gustare persino cruda. Tagliatela a fettine sottilissime o meglio a julienne, arricchitela con altre verdure a piacere, conditela con una vinaigrette profumata alla senape e godetevela. Per finire, non dimenticate: una volta eliminati semi e filamenti e svuotata dalla polpa, la zucca, quella tonda naturalmente, diventa una bellissima zuppiera. Riempitela con la preparazione a base di zucca che avete fatto e portatela in tavola.

Salvez Dodd

Gastronomia Vanta un primato difficilmente eguagliabile: è la frutta dalla forma e dal colore più eterogenei che ci sia

CSF (come si fa)

Oggi vediamo come si usa una polvere utilizzata da tanti cuochi ma poco a casa: la meat glue. È un’invenzione relativamente recente. Fu messa a punto nel 1987 dalla Ajinomoto Food Company di Tokyo. Ovvero dagli stessi che nel 1909 misero sul mercato il glutammato monosodico inventato da Kikunae Ikeda. L’enzima transglutaminasi, meglio noto, per l’appunto, come meat glue o colla per

la carne, è una di quelle sostanze naturali e un po’ magiche che consentono alla fantasia di sbizzarrirsi in cucina. La sostanza, estratta direttamente dal sangue animale o ricavata da un batterio, lo streptomyces, permette di dare maggior consistenza e compattezza a quegli alimenti ad alto contenuto proteico come la carne, il pesce e le uova. Nell’industria alimentare è molto usata per la produzione di wurst, prosciutti e bastoncini di pesce (surimi). In cucina si può adoperare anche per incollare tra loro carni o pesci diversi, per rimettere in forma dei ritagli di carne (bistecca ristrutturata), per rendere cremoso latte o yogurt, oppure ancora per rendere più consistente la pasta all’uovo. La meat glue viene venduta in polvere, dura circa 18 mesi ed è preferibile conservarla in congelatore, meglio se in

busta sottovuoto. Può essere usata così com’è, spolverizzandone una parte direttamente sui pezzi di carne (o di pesce) da unire. Ma sarebbe meglio diluirla con acqua (per 1 kg di carne servono 15 g di transglutaminasi e 25 g di acqua) fino a ottenere una crema che può essere spalmata sulla carne con un pennello. A questo punto si avvolge l’alimento trattato con della pellicola da cucina, dandogli la forma di un salsicciotto ben stretto, oppure lo si colloca in un qualsiasi stampo, se l’obiettivo è quello di conferirgli una determinata forma, e si lascia riposare in frigorifero per 24 ore. Alla fine quanto abbiamo preparato sarà l’impronta dello stampo utilizzato; un prodotto ben sodo di cui non si vedranno le giunture. A questo punto si potrà procedere con la cottura desiderata.

Ballando coi gusti

Manuela Vanni

Manuela Vanni

Oggi una ricetta a base di quinoa – una pianta erbacea andina che si consuma come fosse un cereale – e un riso arricchito con petto d’anatra

Quinoa, carciofi e gamberi

Riso con petto d’anatra

Ingredienti per 4 persone: 360 g di quinoa · 600 g di code di gambero · 1 cipolla · 3 carciofi · 1 bicchierino di vino bianco · 1 limone · 80 g di polpa di cocco · olio di oliva · sale e peperoncino.

Ingredienti per 4 persone: 360 g di riso a piacere · 500 g di petto d’anatra ·

Preparazione: Private le code di gambero del carapace e del budellino nero. Mondate i carciofi, divideteli a spicchi e passateli in acqua acidulata con il succo del limone. Poi estraete ogni spicchio e incideteli dal lato centrale con un coltellino per eliminare le pelurie interne. Rimetteteli nell’acqua fino al momento dell’uso. Scaldate 4 cucchiai d’olio in una pentola, unite la cipolla tritata e rosolatela per 1’. Unite la quinoa e mescolate per 2’. Sfumate con il vino sobbollito per 3’, unite i carciofi, cuocete coperto per 15’ (o secondo la confezione di quinoa) spegnete e lasciate riposare per 3’, regolate di sale e di peperoncino. Mettete nei piatti e servite nappando con le code di gambero saltate in padella con olio per 1’ e il loro fondo di cottura.

1 cucchiaino di amido di mais · 200 g di foglie di cavolo nero · 2 carote · 2 coste di sedano · 1 cipollotto · 50 g di mandorle tostate · brodo di pollo o vegetale · olio di oliva · sale e pepe. Preparazione: Pulite il petto d’anatra e tagliatelo a listarelle. Mondate il cavolo nero, le carote, il sedano e il cipollotto e tagliate tutto a listarelle. Fate scaldare 1 filo di olio in un largo tegame, unite l’anatra e fatela rosolare per qualche minuto a fiamma vivace, sempre mescolando. Aggiungete le verdure preparate e dopo 2’ un mestolo di brodo, l’amido e le mandorle tritate, quindi continuate la cottura a fuoco vivace per 8’, mescolando. Regolate infine di sale e di pepe. Cuocete il riso in abbondante acqua salata al bollore. Scolate il riso e conditelo con 4 cucchiai d’olio. Distribuite il riso nei piatti, disponete al centro l’anatra e le verdure e servite.


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Ambiente e Benessere

Purché Michelle non vada a Lilla… Sportivamente La finale di Coppa Davis si avvicina velocemente (21-23 novembre) con i francesi, che la vinsero

già nove volte, decisi a tenersela in casa Alcide Bernasconi Su, in Via Collinetta, negli accoglienti spazi della Villa del presidente fervono i preparativi per la tre giorni di Lilla, quando nello scintillante nuovo stadio Pierre Mauroy la Svizzera punterà alla sua prima conquista della Coppa Davis affrontando i padroni di casa francesi. È certamente un appuntamento storico, come tutti continuano a ripetere. A noi mette un po’ di mal di pancia, saperlo. Che non si perda occasione per ricordarcelo, però, ci rende indigeste le gialle palline che non mancheranno di creare qualche grattacapo ai nostri eroi, a cominciare da Stan Wawrinka. Noi del Fan Club di Via Collinetta facciamo gli scongiuri del caso, affinché il vodese se ne infischi bellamente dell’importanza del momento, non già per facilitare il compito all’avversario che gli toccherà nella prima giornata. Bensì ci auguriamo il contrario. Stan è infatti in grado di tenere il campo per ore, di battersi fino allo stremo e di uscire vincitore, basta che ritrovi quella carica e quella convinzione che gli hanno permesso di ottenere quest’anno il più grande successo della sua carriera, ossia la vittoria nell’Open d’Australia. Certo, al momento la Svizzera può mettere in campo un Roger Federer che sembra aver ritrovato buona parte dei colpi, della freschezza e della convinzione che hanno fatto di lui forse (qualcuno direbbe: senza forse) il più grande tennista di tutti i tempi. Ci sono, prima della finale, altri appuntamenti che potrebbero riportare il basilese sul trono più alto della classifica mondiale. E sarebbe la terza volta. Ma il Roger Nazionale ha detto chiaro e tondo che non intende parlare di ciò che l’attende e men che meno della grande finale. Anche lui, come tutti i competitori che ripetono insistentemente di volersi concentrare soltanto sulla prossima partita. Sarà il campo a dare le risposte

che i giornalisti e il pubblico si attendono con la solita sfrontata impazienza. Federer – chi più di lui? – ha imparato nel corso della carriera che qualcosa può sempre andare storto, anche ai grandi. Pur essendo il più forte tra i partecipanti – nessuno questo può metterlo in dubbio – è sempre possibile che Roger non riesca a colpire la pallina con la precisione necessaria per non mandarla in rete quando il punto sembra ormai fatto, oppure oltre le linee del campo in rossa terra battuta che i francesi hanno voluto fosse portata nel nuovissimo stadio per cercare di sfruttare tutti i vantaggi (piccoli o grandi) che sono consentiti a chi gioca in casa. Per questo Federer già s’allena nei ritagli di tempo sul rosso, che non è certo il fondo preferito dal renano. Ritroveremo il Federer geniale delle migliori partite? È quanto ci chiediamo mentre su, in cima a Via Collinetta, si rispolverano gli arredamenti delle grandi giornate. La governante Victoria avverte l’importanza del momento e si muove in villa con la rapidità di un ball boy: sa che il successo organizzativo dipenderà essenzialmente da lei. Donna Michelle, la presidentessa dell’esclusivo Federer Fans Club di Via Collinetta sta inviando gli inviti ai soci più fedeli e simpatici poiché i posti sono, purtroppo, limitati. Altri se ne andranno a Lilla per un finanziariamente dispendioso fine settimana in un albergo a cinque stelle e per rifocillamenti vari allo stadio, con la ristretta cerchia degli svizzeri che accompagneranno i nostri. Il tutto per sostenerli con un tifo comprendente canzonette e slogan da gridare nelle pause tra uno scambio e l’altro. Quanto a me, mi auguro dal più profondo del cuore che Michelle rinunci alla trasferta e svolga il suo ruolo di presidentessa fra i «suoi» più appassionati sostenitori, ai quali confesso di appartenere. Non avrò occhi che per

Federer e Wawrinka faranno il possibile per portarsi a casa il prestigioso trofeo che la Svizzera non ha mai vinto. (Keystone)

lei (come del resto Bello, il suo labrador che si accuccia ai suoi piedi, fingendo di sonnecchiare, poco importa se davanti a Roger o Stan), mentre gli altri soci saranno tutti presi dall’andamento della finale e fisseranno le immagini sul grande teleschermo in alta definizione. Saranno loro, infatti, i primi a urlare se la pallina è «dentro» o «fuori», prima che l’arbitro abbia consultato la speciale ripetizione del colpo senza appello, quella che inquadra unicamente la pallina nella sua traiettoria. Se fossi a casa mia, a seconda dell’andamento del match, avrei già cambiato chissà quante volte i canali, passando dal nostro a quello degli svizzeri tedeschi e dei romandi, per capire quale di questi poteva influenzare a nostro favore il gioco. Se Stan si metterà a fare il peggior Stan, che pure conosciamo, mi limiterò a seguire le reazioni di donna Michelle. Magari per sostenerla con un’occhiata. Se Roger farà il genio, anche in quel caso guarde-

rò la padrona di casa, augurandomi di vederla raggiante e, in fondo, di esserne ricambiato con un’occhiata, niente di più: lo sport, in effetti, non può ridursi a un semplice scambio di colpi, di servizi sparati come proiettili, di corse e frenate e pugni rivolti non si sa bene a chi, unicamente per caricarsi e affrontare la giocata successiva. Vedremo Roger e Stan nuovamente stretti nell’abbraccio come dopo la finale vinta nel doppio ai Giochi di Pechino? Continuo a chiedermelo, visto che ancora non è noto che cosa decidano i due, se giocarlo o no insieme un doppio che potrebbe essere decisivo non meno dei singolari, viste le ultime pessime esibizioni di entrambi in quella gara che regalò loro la massima soddisfazione olimpica qualche anno fa. A 33 anni, Roger Federer, vincitore di 17 slam, può ottenere quella vittoria che non dovrebbe mancare nell’albo delle sue vittorie quando deciderà di appendere la racchetta al fatidico chio-

ORIZZONTALI 1. Lo spadaccino dal naso prominente 6. Stretta insenatura costiera 9. Balena ... nella testa 10. Fanno il doppio gioco 12. Questi a Parigi 13. Un gioiello di Cornelia 14. Una consonante 15. Le iniziali del cancelliere Merkel 16. Si raccolgono nei boschi 17. Niente per Cicerone 18. Risultato a cui mira un’azione 19. Si dice all’amico 20. Regni nelle fiabe 23. Otri… rovesciati 24. Le iniziali dell’attore Argentero 25. Abbreviazione di titolo onorifico 26. Ha le caratteristiche di una cantina

Sudoku Livello per geni

do. La conquista di un grande slam (le quattro vittorie consecutive in tutti i più grandi tornei del mondo: Melbourne, Parigi, Wimbledon e New York) sembra ormai un sogno da tempo abbandonato. Quanto al nostro sogno di trovare via Collinetta come quando Federer imperversava su tutti i campi e contro quasi tutti gli avversari è l’auspicio che la Svizzera nello sport non si faccia mancare quasi nulla, America’s Cup nella vela (ma quella è ben altra storia) e Coppa Davis comprese, ossia titoli che nelle intenzioni di chi li aveva creati dovevano ribadire la forza degli Stati Uniti, vincitori appunto di ben 31 Davis. Il torneo si giocò la prima volta nel 1900. E fu, manco a dirlo, un giovane studente di Harvard, Dwight Davis, ad acquistare personalmente quella che a lungo fu definita un’insalatiera (ma non lo è) da mettere in palio nella sfida con i tennisti del Regno Unito. E ora lo «richiede» la Svizzera.

Giochi Cruciverba Per scoprire quanto tempo vive una mosca e quante uova può deporre, leggi a cruciverba ultimato le lettere nelle caselle evidenziate. (Frase: 5, 5, 6 - 4, 1, 5)

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VERTICALI 1. Segno particolare 2. Si usa per evitare ripetizioni 3. Cosa in latino 4. Le iniziali del politico Alfano 5. Tentare arditamente 6. Pronome dimostrativo 7. Le iniziali del fisico della relatività 8. C’è anche quello nido... 11. Timorose di Dio 13. Figure geometriche 14. Avverbio di tempo 16. Un attore che non studia dizione 17. Tredicesima lettera dell’alfabeto greco 18. Costruito, realizzato 21. Il... trasteverino 22. Fuoriesce da un… camino 24. Lago francese 25. Le iniziali dell’attore Eastwood

Scopo del gioco

Completare lo schema classico (81 caselle, 9 blocchi, 9 righe per 9 colonne) in modo che ogni colonna, ogni riga e ogni blocco contengano tutti i numeri da 1 a 9, nessuno escluso e senza ripetizioni.

Soluzione della settimana precedente

Partita di pallanuoto – Una squadra di pallanuoto è composta da: Sette giocatori e una partita dura: Quattro tempi.

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A T R A A P P P I

S A C C T O Q T A L M E

E T T I M L A N O I O R E O G R G R I G G U A D O R I T A U D I E A S I N

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 27 ottobre 2014 ¶ N. 44

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Politica e Economia Sinodo dei vescovi La Chiesa cattolica resta divisa sulla questione della comunione ai divorziati risposati e sul riconoscimento dei gay pagina 27

Evo Morales presidente Riconfermato con il 60 per cento dei consensi per un terzo mandato. Vincente si è dimostrata la sua politica di apertura a 360 gradi

Denaro resta latitante Fallita per un soffio la cattura dell’ultimo grande boss mafioso

Dopo il 9 febbraio Nominato il mediatore con l’UE si cerca ora una via praticabile per limitare l’immigrazione

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Nonostante il trend economico negativo tedesco Angela Merkel non sembra per ora voler rinunciare al rigore. (Keystone)

Un modello in crisi Germania Il governo di Berlino fa i conti con l’altra faccia del surplus tedesco: l’indebolimento

e l’impoverimento dei paesi che più assorbono merci germaniche Lucio Caracciolo La crisi è arrivata in Germania, anche se i tedeschi hanno difficoltà ad ammetterlo. I dati economici indicano che l’anno prossimo la Bundesrepublik rischia di stagnare, se non addirittura finire in recessione. L’allarme è scattato con la pubblicazione dei dati dello scorso agosto, quando gli ordinativi industriali sono calati del 5,7% rispetto al mese precedente. Sono seguiti da allora segnali preoccupanti, che indicano soprattutto uno stallo nella manifattura – l’orgoglio dell’economia germanica. Nulla di inatteso, se non per gli ideologi del Modello Germania e per chi crede alla propaganda di Berlino – fra cui molti tedeschi. Vengono al pettine nodi inestricabili, da anni ben visibili a chiunque volesse vederli. La Germania è un paese costruito sulle esportazioni, che valgono il 51% del Pil, ossia circa 1,7 trilioni di dollari (dati World Bank 2013). Per fare un paragone, negli Stati Uniti la percentuale dell’export sul Pil è a quota 14. In Germania la domanda interna resta modesta, sicché quando i

mercati di esportazione verso cui sono dirette le merci tedesche entrano in affanno, la loro crisi è destinata inevitabilmente a riflettersi sul paese da cui importano. Semplicemente non ci sono più tanti soldi in giro per comprare beni e servizi tedeschi. Questo vale in particolare per l’Eurozona e per l’Unione Europea in genere, ma in qualche misura anche per il resto del mondo. Fra i paesi europei, l’Italia e i paesi mediterranei, tradizionali mercati di sbocco per il Made in Germany, sono entrati in una fase particolarmente critica, con aspetti strutturali che non promettono soluzioni a breve. La tendenza della Federal Reserve americana a ridurre se non invertire la larga distribuzione di liquidità di questi ultimi anni impatta in modo negativo anche sulla zona euro, dove la lotta all’inflazione, compito statutario della Banca Centrale Europea, assume aspetti paradossali nel clima di stagnazione/recessione attuale. Il governo di Berlino fa i conti con l’altra faccia del surplus tedesco: l’indebolimento e l’impoverimento dei paesi

che più assorbono merci germaniche. Il peculiare sistema dell’area euro, privo di governo politico, financo di politiche fiscali coordinate, si rivela un boomerang anche per il suo Stato perno, strutturalmente vocato ad assorbire la liquidità di clienti sempre più squattrinati e poco fiduciosi riguardo al futuro. Si aggiungano il rallentamento della Cina, il fallimento dell’Abenomics in Giappone, la modestia del recupero americano e la crisi di alcuni Brics, a cominciare dal Brasile, e il quadro apparirà ancora meno promettente. Di più: la crisi ucraina ha incrinato i rapporti normalmente solidi fra Berlino e Mosca. Le sanzioni europee e occidentali alla Russia, cui Angela Merkel si è accodata dapprima poco convintamente, poi con un sovrappiù di retorica – che peraltro non sempre corrisponde ai fatti sul terreno – puniscono certo Putin, ma anche chi le ha imposte, Bundesrepublik non esclusa. Se la partita del gas ucraino non dovesse risolversi presto, i riflessi sulle economie europee, e quindi sulla stessa Germania, potrebbero rivelarsi drammatici.

Non per questo Merkel sembra disposta ad abdicare al «rigore». Contro ogni logica, la Germania propugna – e in qualche misura impone ai partner dell’Eurozona – una politica di rigore fiscale e insieme monetario, con effetti depressivi sulla crescita e sull’occupazione. C’è molto di ideologico in questo approccio, che si basa su una lezione largamente condivisa dall’establishment tedesco, codificata nelle teorie dell’ordoliberalismo. Se a questo si aggiunge la tendenza del governo di Berlino a «tenere la rotta» a ogni costo, anche quando gli iceberg sono in bella vista, non è del tutto insano prevedere che di qui a qualche mese si possa arrivare a una resa dei conti fra Germania e resto di Europa, forse anche all’interno della Bundesrepublik. Fra l’altro, la crisi economica incrocia una crisi politica. Il Partito liberale, tradizionale alleato della CDU-CSU, pare defunto. Nel prossimo parlamento minaccia invece di entrare l’Alternativa della Germania (AfD), partito dichiaratamente anti-euro. Ciò significa che per i cristiano-democra-

tici restare in cabina di pilotaggio implicherà qualche concessione all’AfD, se non in prospettiva un’alleanza con questa forza eurocritica, a meno di non voler continuare ancora nella grande coalizione con la SPD. Sta per ricorrere il venticinquesimo anniversario della caduta del Muro. Allora alcuni leader europei temevano che la Germania unita sarebbe diventata un Quarto Reich, con il marco al posto dei panzer. Per questo, fra l’altro, Francia e Italia convinsero Kohl a cedere la Deutsche Mark per la «moneta unica». Oggi la Bundesrepublik ha un ruolo dominante in Europa, ma è tutt’altro che egemone. Anzi, i sondaggi confermano che almeno due tedeschi su tre stanno bene in questa sorta di «Grande Svizzera». Ma se la Germania si sente una Confederazione elvetica in taglia extralarge, come può pretendere di esercitare quel compito di guida che l’economia le assegnerebbe? Questa contraddizione di fondo attende di essere sciolta. Nell’attesa, a sciogliersi come neve al sole sono le economie europee, italiana in testa.



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Politica e Economia

Il Sinodo frena il Papa Vaticano I vescovi della chiesa cattolica hanno approvato decine di mozioni, ma si sono divisi

Giorgio Bernardelli Hanno riempito per due settimane le pagine dei giornali con le loro dichiarazioni. Per poi arrivare sabato 18 ottobre a una conta finale, con una trasparenza decisamente nuova e inedita per i Sacri Palazzi. È stato questo l’esito decisamente sorprendente del Sinodo – l’assemblea dei vescovi di tutto il mondo – convocato da papa Francesco per discutere sul tema della famiglia. Era il primo Sinodo in assoluto dell’era Bergoglio. E già di per sé toccava un tema tradizionalmente caldo per la Chiesa cattolica: basta ricordare, ad esempio, il lungo e mai concluso dibattito sull’Humanae Vitae, l’enciclica pubblicata nel 1968 da papa Paolo VI che decretò il no alla pillola anticoncezionale. Ma è stato lo stesso papa Francesco a rendere l’incontro dell’autunno 2014 ancora più pirotecnico, facendolo precedere dall’invito a prevedere un’ampia consultazione tra i fedeli delle Chiese di tutto il mondo, compiuto attraverso un questionario. Un metodo, in realtà, messo in atto molto a macchia di leopardo dalle singole Conferenze episcopali (in alcuni casi estremamente prudenti nella diffusione delle domande); ma che è comunque bastato a far decollare un dibattito franco e aperto all’interno della comunità cattolica. E il Papa stesso lo ha poi ulteriormente incoraggiato con l’invito – rivolto ai vescovi in apertura dei lavori – a «sentirsi liberi di dire tutto».

Rispetto al mondo laico la posta in gioco per i cattolici è molto alta e non rappresenta una battaglia di retroguardia È per questo che in molti hanno scomodato per il Sinodo il paragone con il Concilio Vaticano II – il grande spartiacque per la Chiesa cattolica del Novecento. Probabilmente non a torto: stesso grande carisma da parte di chi l’ha convocato – Giovanni XXIII allora, papa Francesco oggi – stessa questione centrale (come porsi di fronte ai cambiamenti in atto nella società), stessa divisione profonda tra i vescovi più innovatori e i tradizionalisti, stesso utilizzo anche spregiudicato delle interviste ai giornali per dare peso alla propria posizione all’interno del dibattito. E soprattutto – proprio come accaduto per

il Concilio Vaticano II, svoltosi nell’arco di quattro diverse sessioni – anche ora arriva un lungo arco di tempo (addirittura un anno) prima che il Sinodo si riunisca di nuovo e prenda le sue decisioni, in particolare sulle questioni più calde. Come abbondantemente raccontato dalle cronache – infatti – durante il confronto in Vaticano sono stati soprattutto due gli argomenti che hanno acceso gli animi: il tema del divieto di accedere all’Eucaristia per i divorziati risposati e quello dell’atteggiamento da tenere nei confronti delle coppie omosessuali. Il primo è una questione che – non da oggi – suscita perplessità tra molti cattolici: in nome della riaffermazione del principio dell’indissolubilità del matrimonio finora la Chiesa ha sempre rifiutato di concedere i sacramenti a quelle che chiama le «coppie irregolari». Ma la diffusione del fenomeno oggi – non solo in Occidente – rende questa posizione sempre più dura da accettare da tanti divorziati risposati, che vi vedono una chiara contraddizione con quella misericordia che il Vangelo predica e che la stessa Chiesa non nega nemmeno a chi si macchia di gravissimi delitti. Per la prima volta, ora, con Papa Francesco questa regola – fino a ieri intoccabile – è messa apertamente in discussione. E nel testo della relazione finale votata dai vescovi (comunque provvisorio e destinato a essere discusso nei singoli Paesi) la maggioranza dei vescovi presenti ha votato favorevolmente a una modifica della norma canonica. Con una minoranza non insignificante e molto agguerrita – però – che ha dato battaglia, sostenendo che così si rinnega inevitabilmente l’idea del matrimonio come vincolo sacro e indissolubile. Capofila di questa posizione più rigida è il cardinale americano Leo Burke, mentre l’ala riformatrice ha il suo volto più rappresentativo nel cardinale tedesco Walter Kasper, la cui «teologia della misericordia» è stata pubblicamente lodata da papa Francesco stesso. Va aggiunto, comunque, che la stessa «linea Kasper» è più prudente di quanto sembri: prevede una riammissione all’Eucaristia non automatica, ma legata a un cammino penitenziale la cui autenticità dovrebbe essere il vescovo (o un suo delegato) a vagliare. Più discussa ancora la questione dell’atteggiamento nei confronti delle coppie omosessuali. Anche in questo caso non c’è stata nessuna apertura su

AFP

sulla comunione ai divorziati risposati e sul riconoscimento delle coppie gay

una benedizione della Chiesa ai matrimoni gay. Però in un testo intermedio – redatto dall’arcivescovo italiano bruno Forte, altro teologo molto legato a Papa Francesco – per la prima volta è stato sostenuto apertamente che occorre «prendere atto che vi sono casi in cui il mutuo sostegno fino al sacrificio costituisce un appoggio prezioso per la vita dei partner» omosessuali. Ricordando, inoltre, che nel caso in cui la coppia gay abbia anche dei figli «al primo posto vanno messi sempre le esigenze e i diritti dei piccoli». L’idea che ci possa essere da parte della Chiesa una «presa d’atto» di alcuni aspetti positivi anche nella relazione tra due persone omosessuali – posizione che, se non sui matrimoni, potrebbe preludere perlomeno a un’apertura sul tema delle unioni civili – ha generato un vero e proprio terremoto nell’aula del Sinodo. In questo caso le voci dei contrari sono state particolarmente forti e lo si è capito dal testo della relazione finale, dove il passaggio proposto dall’arcivescovo Forte è saltato ed è stata accentuata l’affermazione secondo cui «non esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia». Tra l’altro è venuto allo sco-

perto anche il problema delle Chiese africane, dove in alcuni contesti anche solo parlare di accettazione delle persone omosessuali rappresenta tuttora un problema. Come detto l’esito di questo dibattito è un risultato per ora provvisorio e c’è da stare certi che i diversi schieramenti all’interno dell’episcopato mondiale continueranno a confrontarsi a colpi di interviste (come ad esempio quella rilasciata all’indomani del Sinodo al «Corriere della Sera» dall’ex presidente della Cei, il cardinale Camillo Ruini, che esprimendosi contro ogni apertura ha parlato di «un’ondata libertaria che potrebbe deludere»). Può apparire singolare – e in parte effettivamente lo è – che nella Chiesa cattolica si continui a discutere in maniera così accanita su questioni come queste, che per ampi settori del mondo laico rappresentano una battaglia di retroguardia. Eppure la posta in gioco per il cattolicesimo è alta: si tratta, infatti, di ridefinire il rapporto tra un’antropologia come quella biblica – che evidentemente non può cambiare sull’onda dei mutamenti sociali – e le situazioni concrete della vita, fatte di ferite ma anche di confronto con visioni diverse. Sulla questione dell’omosessualità, inoltre, pesa l’accusa di ipocri-

sia legata ai gravi scandali venuti alla luce negli ultimi anni. Papa Francesco ha scelto di affrontare tutto questo senza diplomazie, percorrendo la strada di un confronto il più possibile aperto e trasparente. Nel discorso finale del Sinodo – molto gesuiticamente – ha definito come «tentazioni» tanto l’immobilismo di chi si limita a ribadire verità astratte, quanto il buonismo di chi in nome di un’idea riduttiva di misericordia si adegua allo spirito del tempo. Da quanto ha mostrato ormai ampiamente in questo anno e mezzo di pontificato, però, è difficile immaginare che alla fine lasci tutto come prima. Bergoglio con ogni probabilità traccerà per la Chiesa una sua strada, fatta di attenzione concreta alla persona molto più che di legalismi. Eppure non è affatto uomo da buttare a mare la visione cristiana della famiglia. In fondo quella che ha davanti è una sfida speculare rispetto a quella di Ratzinger: se Benedetto XVI metteva l’accento sulla verità correndo il rischio di rendere invisibile l’amore, Francesco deve fare i conti con chi gli chiede che fine faccia l’etica cristiana nella sua «Chiesa in uscita». E non è affatto detto che questa seconda sintesi sia più semplice e indolore per il cattolicesimo di oggi. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

Morales, l’erede di Chavez Terzo mandato Il modello di governo socialisteggiante della Bolivia, ispirato

al comunitarismo indigeno delle antiche comunità aymara, non si impone con la forza ma avanza con il consenso Angela Nocioni Negli orologi degli edifici pubblici le lancette girano al contrario, secondo le celebrazioni ufficiali siamo appena entrati nell’anno indio amazzonico 5522 e in alcuni villaggi la giustizia comunitaria indigena ha la precedenza sul diritto romano. È al potere un fanatico indigenista fuori dal mondo, tanto pazzo da cambiare il calendario? Al contrario. Governa un tandem di duttilissimi e pragmatici mediatori. Evo Morales, il primo presidente indigeno di un Paese abitato al 75 per cento da indios, e Alvaro Garcia Linera, il suo vice, ma sarebbe meglio dire, la sua metà. Loro due hanno portato al governo ormai nove anni fa il Mas, il Movimento al socialismo, che ha applicato una politica sociale tutta rivolta ai più poveri e una politica economica che tutto sommato non si è mai discostata dalle regole del liberalismo. La strana coppia è riuscita a portare la Bolivia a un tasso di crescita atteso dal Fondo monetario internazionale, per quest’anno, al 5,2 per cento. Il più alto dell’America latina, meglio del virtuoso Cile e del Perù in boom economico, molto meglio del gigantesco Brasile. La Paz, storica debitrice del Fmi, presta oggi denaro ai suoi vicini. Dieci anni fa i profitti dell’export del petrolio erano di 400 milioni di dollari, oggi sono di 6 miliardi. E sotto il deserto di sale di Uyuni, ai piedi del vulcano Tunapa, c’è un tesoro ancora da sfruttare di 10 milioni di tonnellate di litio. Prezioso per l’industria tecnologica, materia prima delle batterie dei cellulari, per esempio. Russi e cinesi sono sull’uscio col portafogli in mano, ma i boliviani dicono che stanno studiando come sfruttarlo e preferiscono fare da soli. Evo Morales & Alvaro Garcia Linera hanno stravinto. Le imprese nazionalizzate – gas, petrolio, elettricità, telefoni (ex Telecom) – funzionano. E il loro bacino di voti, dopo nove anni di potere ininterrotto, si allarga. Quel modello di governo socialisteggiante, ispirato al comunitarismo indigeno delle antiche comunità aymara, qualsiasi cosa sia, non si impone con la forza. Contratta. Non avanza come uno schiacciasassi. Anzi.

L’arma più affilata usata daMorales e dal suo vice Linera è la disponibilità alla trattativa e la totale assenza di arroganza I due hanno fatto della disponibilità alla trattativa l’arma più affilata del governo. Per questo vincono tutte le elezioni. E si è votato spesso, in Bolivia nell’ultimo decennio. Il 12 ottobre scorso Morales & Linera hanno vinto le presidenziali con oltre il 60 per cento dei voti. Da quando sono al governo si sono seduti a dialogare con tutti. Sono andati a cercare un accordo con i radicalissimi minatori di Potosì, in marcia su la Paz con candelotti di dinamite in mano, e con gli ustascia croati trapiantati nei latifondi di Santa Cruz che vogliono la secessione dell’Est boliviano. Con i gruppi armati indigeni che accusano Morales di «svendere la patria aymara» e con i governatori orientali che si rifiutano di stringere la mano al presidente indio perché, dicono, «noi non siamo Tarzan e non parliamo con le scimmie». Hanno trattato anche con i nostalgici del Terzo Reich scap-

Evo Morales alla recenti elezioni ha superato la soglia del 60 per cento dei consensi. (Keystone)

pati a Santa Cruz alla fine della Seconda guerra mondiale. E anche lì hanno vinto. La totale assenza di arroganza di Evo Morales – che è un tratto essenziale della cultura aymara, ma anche la cifra del suo personale successo politico – alle presidenziali del 12 ottobre gli ha fatto superare il 50 per cento per la prima volta anche a Santa Cruz, a Tarija e a Pando, le terre della «mezzaluna fertile» boliviana che fino a ieri volevano la secessione per diventare un minuscolo Kuwait bianco e ricchissimo, senza tasse e senza indigeni al governo. È stata inchiodata al 24,5 per cento l’opposizione del magnate del cemento Samuel Doria Medina, che dopo aver perso per la terza volta le elezioni ha annunciato di tornare a vivere negli Stati Uniti. Gli irriducibili di estrema destra sono in mano al terzo arrivato, l’ex presidente Jorge «Tuto» Quiroga, fermo al 9,5. L’estremismo armato dell’oriente boliviano, d’ora in poi, sarà in mano sua. Ma il serbatoio dei suoi voti è stato risucchiato dal governo. I leader politici di Santa Cruz sono apertamente razzisti e sono tradizionalmente sostenuti dalla stragrande maggioranza della popolazione orientale, per lo più meticcia. Il 73 per cento dei consensi ha ottenuto il prefetto locale nel referendum di revoca del mandato a cui Morales era riuscito a sottoporlo sei anni fa nel tentativo, fallito, di scalzarlo. Quei voti sono stati recuperati. Un miracolo politico. La trattativa è stata gestita interamente dal vicepresidente Linera, l’anima più radicale del governo e allo stesso tempo il suo più abile mediatore. È stato lui, il sociologo bianco marxista che cita Antonio Gramsci a memoria, ad aver accolto molte delle richieste della destra durante la riscrittura della Costituzione della Bolivia: riconoscimento di ampia autonomia amministrativa ai dipartimenti e sostanziose concessioni economiche alle oligarchie locali. Lui, dopo aver imposto la nazionalizzione del gas, è stato generoso nel dare ai separatisti quello che desideravano sul piano economico: terra e quattrini. La Bolivia è terra di latifondo e le oligarchie di Santa Cruz temono la riforma agraria molto più di

quanto hanno temuto gli effetti della nazionalizzazione degli idrocarburi. Poche famiglie sono proprietarie di terre sconfinate, occupate illegalmente da decenni. I nemici di Morales controllano con un forte radicamento territoriale i due terzi del Paese, con il 42 per cento del prodotto interno lordo nazionale e l’85 per cento delle riserve di idrocarburi. Era impossibile per il governo non trattare con loro. Linera ha lasciato nicchie di privilegio economico ai padroni dell’est boliviano e ha mantenuto intatto l’obiettivo di dare diritto di cittadinanza reale agli indigeni, restituire loro per legge il diritto di vivere nella terra in cui sono nati. Un salto avanti di secoli. Il governo è riuscito a conquistare voti nei dipartimenti di estrema destra senza perdere quelli del suo elettorato storico, gli indigeni e i movimenti sociali, dai raccoglitori di coca di Cochabamba, dove è nato come sindacalista Morales, ai minatori delle cave d’argento di Oruro. Oltre il 70 per cento dei voti confermati anche questa volta nello strategico e gigantesco sobborgo di El Alto, la città satellite della capitale che domina La Paz dall’alto. Lì c’è la culla storica della cultura politica insurrezionale del popolo boliviano, una miscela esplosiva nata dalla convivenza tra gli aymara, eredi dell’esercito indigeno che con l’assedio del 1781 affrontò la corona di Spagna, e i minatori espulsi da Potosì, l’ala più bellicosa del sindacalismo boliviano. Gli indigeni urbanizzati che hanno a El Alto il loro simbolico quartier generale, continuano a chiedere un cambiamento radicale della società. Sono la maggioranza della popolazione e hanno coscienza del loro potere. Non gli bastava nei primi anni Duemila la rappresentanza parlamentare del Mas, il partito di Morales, e non gli basta un indio presidente adesso. Sono costantemente mobilitati, solo apparentemente permeabili all’organizzazione partitica, perché hanno una organizzazione loro, antica, che funziona attraverso le vecchie norme del comunitarismo indigeno. Non gridano, non strepitano, gestiscono i rapporti con i narcotrafficanti che si sono stabiliti a El Alto, e quando c’è da

buttare giù un governo scendono a la Paz in file ordinate di migliaia di persone armate di machete e Tnt. Di solito ci riescono. Vogliono poter decidere. Hanno trovato un canale nell’esercizio di una pressione costante, sfinente, talmente radicale da poter apparire irragionevole, verso Evo Morales. Fino al 2005 avevano come unico strumento politico l’incendio delle barricate e la paralisi dei trasporti. Sembrava loro l’unico modo per ottenere qualcosa e la cronaca ha dimostrato che avevano ragione. Adesso costringono il vice presidente Alvaro Garcia Linera a trattare ogni centesimo. Vogliono accesso alla rete idrica, a quella fognaria, vogliono ridurre l’età pensionabile. Non sono disposti ad aspettare. Hanno minacciato Morales di farlo cadere da sinistra mille volte. Ma poiché con loro il governo tratta sempre, anche stavolta, a guardare i dati delle elezioni, si direbbe che pure i gruppi più duri dei minatori l’abbiano rivotato. Questo capitale politico è di inestimabile valore per Morales nel gioco delle alleanze continentali. Dalla morte del presidente venezuelano Hugo Chavez, un anno e mezzo fa, c’è una gran corsa dei personaggi politici di spicco latinoamericani a sostituirlo nella leadership continentale. Si tratta di un potere concreto perché sono numerose le organizzazioni multilaterali (dall’Alba, al Mercosur, all’Unasur...). Essere riconosciuto come leader al di fuori dei confini nazionali significa avere il potere d’inizitiva politica regionale in mano. Non è poco. Morales si sta candidando a farlo. Forte del suo ennesimo bottino di voti alle presidenziali sta rilasciando in questi giorni interviste a catena, anche alla Cnn, in cui detta le linee di quella che vorrebbe essere la politica estera continentale nel dopo-Chavez. «Attenzione all’Alleanza del Pacifico (patto economico di Cile, Messico, Colombia e Perù) – ripete ovunque – quell’alleanza economica è in realtà lo strumento del Dipartimento di stato statunitense per rimettere piede in America latina com’era abituato a fare trent’anni fa». Argentina, Brasile, Venezuela e (va da sé) Cuba, hanno applaudito l’iniziativa.

Notizie dal mondo Nigeria: rapite altre 60 ragazze Altre 60 ragazze sono state rapite in Nigeria dal gruppo islamico jihadista di Boko Haram. È successo nella regione di Adamawa nel nord est del Paese. Lo ha reso noto l’agenzia Misna specificando che 40 sono di Waga Mangoro e altre 20 di Grata. Fonti locali hanno confermato che l’area era da circa due mesi sotto il controllo dei ribelli. L’agenzia missionaria riferisce che «gli abitanti di Wagga hanno detto che un centinaio di Boko Haram fortemente armati sono entrati nel villaggio e hanno cominciato a sparare e poi hanno bruciando case e negozi. Hanno ucciso due uomini e portato via le ragazze». Questo ulteriore rapimento, sottolinea Misna, «mette in dubbio le trattative tra il governo di Abuja e i ribelli per il rilascio delle 200 ragazze di Chibok rapite lo scorso aprile. Le 60 ragazze rapite oggi si aggiungono dunque alle oltre 200 catturate dagli estremisti nella notte tra il 14 ed il 15 aprile a Chibok, nel nordest del Paese. Le studentesse hanno tra i 12 e i 17 anni e sono state catturate nel loro liceo dal gruppo fondamentalista e, trasportate a bordo di alcuni camion, sono state condotte nel cuore della foresta di Sambisa, uno dei quartieri generali dei jihadisti vicino al Camerun. Alcune ragazze sono riuscite a fuggire poche ore dopo il sequestro e nei giorni successivi al rapimento, ma della maggior parte di loro, circa 219, si sono oramai perse le tracce. In Messico divampa la protesta per gli studenti Il Messico di Enrique Pena si ribella e vive il momento più difficile e drammatico degli ultimi due anni. Nel piccolo e povero Stato di Guerrero, 200 chilometri a sudovest di Città del Messico, c’è un’intera città, Iguala, stretta nell’angoscia e decisa a ottenere giustizia. Stufi dell’arroganza dei narcos, delle complicità con i governanti locali, con i dirigenti della polizia, gli abitanti di Guerrero chiedono giustizia e soprattutto verità. Migliaia di manifestanti sono scesi in piazza a Iguala, dove a settembre è scomparso un gruppo di 43 studenti. I manifestanti hanno preso d’assalto la sede del Comune e incendiato il palazzo. Contro il sindaco, sua moglie e il comandante della polizia locale, latitanti, sono stati spiccati dei mandati di arresto. Si sospetta che i ragazzi siano stati consegnati dalla polizia a sicari dei narcos. Proteste in sostegno degli studenti desaparecidos anche in altre 50 città messicane. L’era Juncker dell’Europa La plenaria del Parlamento europeo ha approvato la nuova Commissione Europea guidata da Jean Claude Juncker: 423 sì, 209 no, 67 astenuti il risultato del voto elettronico. È «ridicolo che ci siano solo 9 donne su 28 commissari», ha detto Jean Claude Juncker presentando la sua nuova Commissione e ricordando le difficoltà per ottenere che i governi proponessero un minimo sufficiente di candidate donne nella sua nuova squadra. Jean Claude Juncker e Jyrki Katainen presenteranno «prima di Natale» il piano di investimenti da 300 miliardi di euro. «C’è fretta», aggiunge Juncker, specificando che il piano «non può essere finanziato con il debito». «Le regole di stabilità non si cambiano» ma «con i margini di flessibilità consentiti dai trattati», afferma Juncker aggiungendo che «non ci saranno svolte epocali» e che «la disciplina di bilancio, con la flessibilità e le riforme strutturali» sono necessari per «ridare slancio» all’economia europea.


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Politica e Economia

Inafferrabile Denaro Mafia Il superboss latitante, erede di una dinastia capace di segnare la cronaca più controversa di Cosa Nostra,

è sfuggito per miracolo a una caccia all’uomo fatta fallire con l’allontanamento del superpoliziotto Linares

Le voci di dentro della procura trapanese sostengono che in estate sia fallita per un soffio la cattura di Matteo Messina Denaro, l’ultimo dei grandi latitanti mafiosi, l’erede di una dinastia capace di segnare la cronaca più controversa di Cosa Nostra lì dove s’intrecciano potentati economici e massoneria, uomini delle Istituzioni disposti a tutto e agenti segreti pronti a servire più di un padrone. Per la silenziosa e tenacissima squadra di poliziotti, che da quindici anni gli dà la caccia è stata soltanto una delusione ulteriore dentro una storia, che già ne ha riservate in abbondanza: la più clamorosa il trasferimento un anno addietro di Giuseppe Linares il carismatico capo, che aveva prosciugato gran parte dell’acqua nella quale Messina Denaro sguazzava a piacimento. Linares puntava ad acchiapparlo isolandolo – oltre ai sottostanti sono stati ammanettati fratelli, sorelle, cognati, nipoti, cugini – e privandolo del sostegno economico: ai suoi prestanome hanno fin qui confiscato beni per circa 2 miliardi di euro. Il frutto di appalti pilotati, truffe, corruzioni realizzati con l’immancabile complicità di funzionari pubblici e politici, gli stessi che si sarebbero mossi per favorire la promozione e l’allontanamento di Linares. Come, per altro, aveva predetto il capo della «famiglia» trapanese, Francesco Pace in una telefonata intercettata. Tuttavia uno dei veterani della squadra ha garantito di sentirsi sempre più vicini alla preda. Una sensazione confortata dal comportamento dei mafiosi trapanesi: all’improvviso hanno abbandonato gli affari di sempre, hanno troncato quasi tutti i rapporti per inabissarsi dentro la folla dei tanti complici più o meno volenterosi. La vecchia tattica dell’immersione adottata soltanto nelle guerre interne di Cosa Nostra e ora usata per proteggere al meglio Matteo. Quasi che la libertà dell’ex latin lover, ormai alle prese con i problemi dell’età, costituisca il punto d’onore degli «uomini del disonore». Eppure Messina Denaro non rappresenta un trait d’union fra le cosche,

Keystone

Alfio Caruso

com’era accaduto con Riina e Provenzano. Su di lui, infatti, pesa da un paio d’anni l’anatema di Riina, che ci tiene a comportarsi da boss assoluto e indiscusso della mafia, benché sia difficile esercitare tale ruolo dietro le sbarre. Ha lanciato parole di fuoco contro l’ex protetto accusato d’ignorare chi langue in galera e di essere interessato soltanto ai propri traffici e ai propri capricci. Riina ha accennato all’enorme investimento compiuto da Messina Denaro nell’energia alternativa delle pale eoliche – addirittura ha esclamato che saprebbe bene lui dove ficcargli quelle pale – e alla comoda esistenza da viveur, mentre i compari sono costretti a misurarsi quotidianamente con le privazioni del carcere duro. La morsa dei poliziotti e dei carabinieri ha invece obbligato Messina Denaro, nato e cresciuto negli agi, a rinunciare a molte delle sue passioni: gli abiti Armani e Versace su misura, il vezzo di sfoggiare un Rolex Daytona al mese, la collezione di Mercedes, Porsche e Bmw, i pasti innaffiati esclusivamente dal Veuve Cliquot. Delle antiche manie, adesso che si deve accontentare di dormire anche in casolari sperduti, gli è forse rimasta la consolle dei videogiochi, il trastullo della giovinezza, da cui mai si è separato nel trascorrere delle stagioni. Ma l’influenza dei Messina Denaro è ancora così solida da aver consentito alla nipote di sposarsi

nella prestigiosissima Cappella Palatina all’interno del Palazzo dei Normanni, la sede della Regione Siciliana, invasa a metà settembre dagli esponenti di Cosa Nostra a piede libero. L’ospitalità è stata concessa dal vescovado palermitano. Il parroco celebrante le nozze si è difeso affermando d’ignorare le ingombranti parentele dei neo coniugi. La sposa è infatti figlia di Rosalia Messina Denaro e di Filippo Guttadauro. I Guttadauro sono figli e nipoti di Giuseppe Guttadauro deputato monarchico nel dopoguerra, indicato quale capo della «famiglia» di corso Calatafimi a Palermo. Insieme con i fratelli Giuseppe costruì un sistema di potere rappresentato ai giorni nostri dai figli Filippo, da Carlo, medico internista, e da Giuseppe jr, medico chirurgo, succedutisi nella guida del mandamento di Brancaccio. Dall’arresto di Giuseppe jr si è sviluppata l’inchiesta che ha travolto il presidente della regione Cuffaro e il più importante imprenditore dell’isola, Miche Aiello. A sposarne la nipote è stato un rampollo dei Sansone, da decenni inseriti nel Gotha di Cosa Nostra e affittuari della villa occupata da Riina nel complesso di via Bernini al momento della cattura. E nell’ultima dimora di «zu Totò» si è svolto il trattenimento di nozze a pochi passi dalla postazione dei carabinieri occupanti una delle

altre due ville confiscate ai Sansone. Al di là delle spiegazioni di comodo, rimane la dimostrazione di forza in un periodo nel quale le cosche vengono descritte allo sbando, non più in grado di dotarsi di un vertice unitario, alla mercé dei collaboratori di giustizia e degli infiltrati. Per Messina Denaro sono un ricordo gli anni beati, nei quali la rivista «Forbes» lo inseriva al quinto posto nella classifica dei wanted più ricchi: in testa vi era la buonanima di Bin Laden. A non cambiare è la sua autostima come trapela da una lettera finita in mano agli inquirenti: «Non amo parlare di me stesso e poi oramai è da anni che sono gli altri a parlare di me e magari ne sanno più di me medesimo; credo, mio malgrado, di essere diventato il Malaussène di tutti e di tutto, ma va bene così, sono un fatalista e penso che era tutto scritto, un uomo non può cambiare il proprio destino, l’importante è viverlo con dignità, io sono a posto con la mia coscienza e sono sereno. In fondo questo mondo non è mio e prima o poi passerà anche questa vita. So di aver vissuto da uomo vero e tanto mi basta per me, per chi mi ha educato e fatto da maestro e per la mia famiglia». Da sempre Messina Denaro è convinto di militare nel campo del giusto, di condurre una lotta inevitabile in nome di una causa, che il tempo s’incaricherà di convalidare. Risulta bene da un’altra lettera rinvenuta nel 1993 a casa di Sonia, uno dei tanti amori, poco prima di «buttarsi latitante»: «Devo andare via e non posso spiegarti ora le ragioni di questa scelta. In questo momento le cose depongono contro di me. Sto combattendo per una causa che oggi non può essere capita. Ma un giorno si saprà chi stava dalla parte della ragione...». Lo stile accettabile, la citazione del personaggio di Pennac, emblema di tutti i capri espiatori, raccontano che Messina Denaro ha riempito anche di tanti libri la lunghissima clandestinità. Lo dimostrano persino i soprannomi, che si è attribuito: a volte «Testa dell’acqua» (la fonte da cui attingono gli adepti), a volte «Diabolik», l’imprendibile e spietato ladro dei fumetti, il «re del terrore» animato da un suo parti-

colare senso morale: da lui ha copiato l’idea di montare sull’Alfa 164 dei mitra azionabili dal sedile di guida. Diventa pure «Alessio» nelle cinque lettere inviate a un ambiguo mafioso, prima aspirante assassino di Borsellino, in seguito al soldo dei servizi segreti con il compito di avvicinarlo. Da quelle righe emerge un uomo malinconico e pessimista, intento a interpretare il passato, senza soverchie speranze sul futuro. Forse nemmeno una volta Messina Denaro ha valutato l’ipotesi di sottrarsi a un destino che, secondo lui, era già scritto nelle stelle. Suo padre Ciccio veniva considerato sin dagli anni Settanta l’esponente di maggior spicco della mafia trapanese, l’uomo di fiducia dei D’Alì Staiti, il principale potentato della zona, capace per plurisecolare dimestichezza di barcamenarsi fra le stelle e le stalle: c’era un D’Alì, all’epoca di Cuccia, nel consiglio d’amministrazione di Mediobanca e c’era un D’Alì da cui dipendevano prima don Ciccio e in seguito il figlio Matteo, finché il suo nome non risultò fra gl’imputati di mafia. Segnò l’inizio di una carriera in ascesa verticale grazie al sostegno di Provenzano e inizialmente di Riina. Messina Denaro guidò la nazionale dei killer in trasferta a Roma per ammazzare Falcone, il conduttore televisivo Maurizio Costanzo e l’allora ministro di Grazia e Giustizia Claudio Martelli; fu tra i registi degli attentati e delle stragi del ’93 a Firenze, a Roma, a Milano; si adoperò per la nascita di una Lega meridionale in grado di aderire al progetto scissionistico di Bossi con la prospettiva di separare l’Italia in tre macroregioni e quella meridionale affidata a Cosa Nostra (esplicita ammissione del professor Miglio, l’ispiratore di Bossi). Tramontata questa possibilità, perseguì l’antico disegno del movimento indipendentista siciliano con l’isola cinquantunesima stella degli Stati Uniti. Quando ha capito che la Storia non torna indietro, si è completamente dedicato alla gestione del suo dominio e ad accumulare quattrini. Gli è andata bene fino all’avvento di Linares e dei suoi instancabili poliziotti.

Globale ma protezionista, i due volti della Cina Alibaba L’episodio più vistoso di globalizzazione che interessa molte società cinesi è il successo

del più grande sito di vendite online del mondo quotato a Wall Street Beniamino Natale Lo straordinario successo della IPO (Initial Public Offering) lanciata a Wall Street dalla cinese Alibaba, la compagnia informatica che ha aperto le infinite praterie del commercio online in Cina, è stata l’episodio più vistoso di un processo di globalizzazione che interessa molte grandi società cinesi. È la realtà economica della Cina, e del resto del mondo, a spingere i giganti cinesi nell’infida giungla del capitalismo internazionale. Finora, erano rimasti senza rimpianti dentro i confini del Celeste Impero, che conta centinaia di milioni di consumatori, alcuni dei quali si stanno avvicinando rapidamente agli standard internazionali. Ora, il rallentamento dell’economia – che secondo le previsioni, quest’anno crescerà a un tasso del 7% o di poco superiore – e la realizzazione che il mercato globale continua a essere dominato da brand americane (Apple, Google, Microsoft, ecc.), europee, giapponesi e sudcoreane, spinge gli imprenditori alla globalizzazione. Aggiungete che il mercato nordamericano sta dando seri segnali di ripresa e che quello giapponese potrebbe darli presto, mentre la stagnante Europa ri-

mane il principale sbocco per i prodotti cinesi, e il quadro sarà completo. Paradossalmente, questo processo avviene mentre la Cina è investita da un vento di ultrasinistra che nasconde, tra l’altro, una difesa ad oltranza del mercato interno, sempre più simile a una riserva di caccia delle imprese cinesi. A guidare la carica contro l’invadenza straniera è un organismo, la National Development and Reform Commission (NDRC) che il super-presidente Xi Jinping ha ridimensionato, trasformandola da super-Ministero dell’economia in cane da guardia del mercato interno cinese in nome della lotta ai monopoli. Un articolo dell’agenzia britannica Reuters che descrive il funzionamento della NDRC e che fornisce un profilo dei suoi principali dirigenti è diventato una sorta di Vangelo per gli stranieri che hanno attività economiche in Cina. Cominciamo con un po’ di cifre: dal 2008 al 2012, la NDRC ha lanciato 20 indagini su violazioni della legge anti-monopolio. Nel solo 2013, le indagini sono state 80. Sono state comminate multe astronomiche per un totale di 490 milioni di dollari, l’80% delle quali sono state pagate da aziende straniere. Ce n’è abbastanza per far dire alle in genere prudentissime

Camere di Commercio europea e americana in Cina che nel Grande Mercato Cinese non esiste una situazione di pari opportunità per stranieri e cinesi. L’articolo della Reuters, che ha intervistato decine di businessmen stranieri, di avvocati e di testimoni della sedute della NDRC, descrive il direttore dell’agenzia Xu Kunlin e il suo vice Xu Xinyu come due perfetti investigatori stalinisti tesi a ottenere «confessioni» dai manager che interroga. E c’è qualcuno che non se la cava con una multa, per quanto salata: è il caso di Mark Reilly, ex-numero uno della multinazionale GlaxoSmithKline (GSK) in Cina, che è stato condannato a tre anni di prigione per aver corrotto alcuni medici cinesi dopo un processo celebrato – come spesso in Cina – in tempo record e a porte chiuse. L’ascesa al potere di Xi Jinping ha coinciso con attacchi di una violenza e di una frequenza senza precedenti contro il Giappone, e guarda caso le imprese del Sol Levante sono quelle che hanno pagato il prezzo più alto alla «lotta antimonopolio»: tra quelle che sono state multate figurano Honda, Toyota, Nissan, Suzuki, Hitachi e Naji-Fujikoshi. Non che le multinazionali cinesi non abbiano le carte in regola per lanci-

arsi sul mercato globale. Semplicemente, come ha scritto la rivista «Forbes», finora non se ne sono preoccupate eccessivamente, per tutti i motivi che abbiamo indicato sopra e perché «they don’t need the flash, they have cash» (non hanno bisogno della fanfara, hanno i soldi). Oltre all’Alibaba – la cui supervalutazione, considerata fuori proporzione da alcuni analisti ma che comunque premia il suo fondatore Jack Ma, uno degli imprenditori più coraggiosi del Paese – altre imprese sono uscite negli ultimi anni dai confini della Cina. Alcune di queste sono conosciute e stimate, se non dal grande pubblico, sicuramente all’interno dei loro settori di specializzazione. È il caso della Lenovo che, dopo aver comprato la divisone computer

dell’IBM, ha lanciato con successo i suoi nuovi modelli, in tutto il mondo. L’Haier Group (elettrodomestici) ha offerto all’australiana Fisher&Paykel, nella quale ha dal 2009 una partecipazione del 20 per cento, circa 700 milioni di dollari per l’acquisto del rimanente 80 della compagnia. David Michael, un analista del Boston Consulting Group di Pechino, sostiene che «nel mondo industriale alcune compagnie cinesi sono molto rispettate, come la Trina Solar, per esempio, o la Huawei Technology nella comunità delle telecomunicazioni. Ancora non ci sono giganti come le coreane Samsung o Hyundai, ma la Lenovo, che non esisteva qualche anno fa ora è veramente una marca globale di computer». Tra le imprese cinesi che si stanno globalizzando quelle più accreditate sono la Vanke – edilizia – che è pronta a sbarcare in Europa tanto che avrà il suo Padiglione all’EXPO di Milano (uno dei tre della Cina, gli altri sono quello istituzionale e quello allestito da un gruppo di imprese di Shanghai), la Zoomlion (macchinari per l’edilizia, che ha già investito pesantemente in Europa, comprando l’italiana CIFA e la britannica Powermole) e la Mindray Medical International.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 27 ottobre 2014 ¶ N. 44

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Politica e Economia Blocher è un lottatore antieuropeo: tra i filoeuropeisti mancano invece leader carismatici. (Keystone)

Tassazione a forfait da sopprimere? Al voto I cantoni turistici si oppongono

all’iniziativa, che riguarda il reddito degli stranieri senza attività lucrativa in Svizzera

Ignazio Bonoli

Superare l’impasse CH-UE L’applicazione dei principi espressi nel voto del 9 febbraio

richiederà capacità negoziale e interlocutori disponibili

Marzio Rigonalli I nostri rapporti con l’Unione europea, in particolare il modo in cui conviene applicare l’iniziativa popolare contro l’immigrazione di massa, approvata dal popolo e dai cantoni lo scorso 9 febbraio, sono più che mai al centro del dibattito politico. Nelle ultime settimane, varie iniziative hanno dato nuova linfa agli argomenti degli uni e degli altri. La spinta centrale è venuta dal Consiglio federale, che ha approvato il progetto di mandato negoziale per trattare con Bruxelles la revisione della libera circolazione delle persone, con il doppio obiettivo di rispettare la volontà popolare che vuole il controllo dell’immigrazione e di preservare gli accordi bilaterali che, da anni, caratterizzano le relazioni tra la Svizzera e l’UE. Il mandato è stato inviato in consultazione alle commissioni della politica estera del Consiglio nazionale e del Consiglio degli stati, alla Conferenza dei governi cantonali ed ai partner sociali. Quando la consultazione sarà terminata, il Consiglio federale approverà il mandato definitivo. Il governo ha già deciso di affidare la responsabilità del negoziato a Mario Gattiker, direttore dell’Ufficio federale della migrazione. Non è certo, però, che Berna riceverà una risposta positiva da Bruxelles. Per trattare con la Svizzera, l’Unione europea deve anch’essa definire un mandato negoziale ed ottenere l’approvazione di tutti gli stati membri. È un esercizio difficile da portare a termine. L’UE ha già dichiarato che non intende discutere sulla libera circolazione; tutt’al più, accetta di verificare l’applicazione pratica di questo principio basilare dell’Unione.

Mentre Berna definisce chi si occuperà delle trattative, da più parti sono formulate proposte pratiche In parallelo con l’azione verso l’esterno, il Consiglio federale sta preparando il progetto di legge che applicherà sul piano interno il nuovo articolo costituzionale sull’immigrazione. Il progetto dovrebbe andare in consultazione entro la fine dell’anno. Intorno all’azione del governo sono sbocciate numerose iniziative, che suggeriscono possibili soluzioni per salvare la via bilaterale con l’Unione europea, per sottolineare l’importanza di una Svizzera aperta e non rinchiusa su sé stessa, e anche per contenere l’immigrazione, rispettando la libera cir-

colazione. Alcune di queste iniziative hanno provocato numerose reazioni e discussioni nel mondo politico ed economico. L’imprenditore miliardario bernese Hansjörg Wyss, ex presidente della Synthes, è uscito dal suo riserbo e si è schierato contro Blocher e l’UDC. Ha proposto di lanciare un’iniziativa popolare per preservare i rapporti bilaterali con l’UE e si è detto pronto a finanziare la campagna attraverso Economiesuisse. Il professor Thomas Cottier, direttore dell’Istituto di diritto europeo dell’università di Berna, ha proposto una consultazione popolare nel 2016 su di un nuovo articolo costituzionale, secondo il quale la Svizzera sosterrebbe il processo d’integrazione europea ed i valori difesi dall’Unione, e riaffermerebbe la sua partecipazione al grande mercato. Un modo per neutralizzare le conseguenze del voto del 9 febbraio. Michael Ambühl, ex segretario di stato, ex primo negoziatore elvetico ed oggi professore al Politecnico federale di Zurigo, ha proposto di prendere in considerazione l’immigrazione in tutti i paesi dell’Unione europea e dell’Associazione europea di libero scambio, e di farne la media. Ogni paese verrebbe autorizzato a limitare l’immigrazione, quando questa supererà la media fondata sui dati dei trentadue paesi europei. Reiner Eichenberger, professore di economia all’università di Friburgo, si è dichiarato favorevole ad una tassa percepita sugli immigrati. Una tassa che verrebbe pagata o dall’immigrante, o dal suo datore di lavoro. Costituirebbe un forte deterrente e, quindi, ridurrebbe l’afflusso di stranieri. La proposta è stata criticata dal mondo dell’imprenditoria, che già lamenta costi troppo elevati e che vorrebbe poter continuare ad assumere liberamente la mano d’opera di cui ha bisogno. Ed è finita sotto il fuoco della critica, anche perché viene ritenuta discriminatoria e contraria alla libera circolazione. Accanto alle iniziative individuali, ci sono state azioni promosse contemporaneamente da più persone. «Operation Libero», un nuovo movimento di giovani accademici è uscito allo scoperto ed intende battersi per una Svizzera aperta al mondo, liberale, moderna ed integrata sul piano internazionale. Il gruppo chiede alla Svizzera di tutelare il principio della libera circolazione con l’Unione europea e vede nella mobilità del lavoro il fondamento della nostra prosperità. L’appello intitolato «La Svizzera in Europa», lanciato da un centinaio di personalità, soprattutto del mondo politico ed economico, e firmato da migliaia di altre personali-

tà, chiede di salvare i rapporti con l’Unione europea, perché «solo un’ampia e dinamica cooperazione con l’Europa offre alla Svizzera una reale possibilità di assicurare il suo avvenire». Tra i firmatari, vi sono anche gli ex consiglieri federali Micheline Calmy-Rey e Pascal Couchepin. Qualcosa si muove anche tra gli scienziati. A Zurigo si è costituito un comitato in difesa della ricerca in una Svizzera aperta sul mondo. Tra gli obiettivi ricercati vi è anche quello di far conoscere l’importanza dei legami e dei rapporti internazionali per la ricerca elvetica. Questo fiorire di iniziative, al quale andrebbero aggiunti i dibattiti che si sono svolti all’interno dei partiti e le proposte che ne sono emerse, suggeriscono due riflessioni. La prima è che ci troviamo in una fase di grave incertezza. Nessuno sa quali saranno i contorni della legge d’applicazione dell’iniziativa popolare che abbiamo approvato e nessuno sa se l’Europa accetterà di sedersi ad un tavolo per trovare un accordo che consenta di limitare l’immigrazione e nello stesso tempo di salvare il principio della libera circolazione. Questa incertezza moltiplica i dubbi ed alimenta i timori sul futuro del nostro paese, sul suo benessere e sulla sua collocazione internazionale. Per di più, fra un mese,voteremo sull’iniziativa popolare Ecopop, «Stop alla sovrappopolazione – sì alla conservazione delle basi naturali della vita». Un’iniziativa che, se dovesse venir approvata, azzererebbe ogni tentativo in corso per salvare i rapporti con l’Unione europea. La seconda riflessione riguarda la lotta politica tra fautori ed avversari di stretti rapporti con l’Europa. Il fronte degli avversari è guidato dall’ex consigliere federale Christoph Blocher. Lo stratega dell’UDC si è ritirato dal Consiglio nazionale per potersi dedicare interamente alla sua lotta antiEuropa. Percorre il paese, tenendo ogni settimana più conferenze, nelle quali lancia le sue frecce soprattutto contro un possibile futuro accordo bilaterale istituzionale. La sua azione s’inserisce in una strategia ben definita, forte di esperienze passate, e mira a preparare l’opinione pubblica a nuove importanti decisioni. Sul fronte opposto non s’intravvede una personalità dello stesso calibro, né nel mondo politico né in quello economico. E nemmeno si riconosce una strategia studiata ed adeguata alla situazione. Ci sono molte persone di buona volontà, ma che agiscono in ordine sparso. E ciò non basta per convincere la maggioranza degli svizzeri ad orientarsi verso scelte che escludano il ripiego e la chiusura su sé stessi.

Il 30 novembre, il popolo svizzero è chiamato a pronunciarsi su un tema fiscale, a livello nazionale, che finora era di competenza cantonale. A parte il fatto che si tratta di una nuova erosione della sovranità fiscale dei cantoni, una soluzione a livello nazionale rischia – come spesso avviene in queste circostanze – di scontentare una buona parte dei cantoni, senza per questo necessariamente accontentarne un’altra. Si tratta in sostanza di decidere di codificare, a livello di Costituzione federale, la prassi cantonale di praticare la tassazione a forfait (o globale) per cittadini stranieri residenti in Svizzera, ma che non svolgono un’attività lucrativa nel nostro paese. L’iniziativa che chiede di sopprimere questi «privilegi» è stata lanciata dalla Sinistra Alternativa del canton Zurigo, che aveva fatto la stessa cosa a livello cantonale l’8 febbraio 2009. Pur contando questo partito soltanto l’1,26% dell’elettorato zurighese, l’iniziativa aveva ottenuto la maggioranza dei voti, di modo che il canton Zurigo ha dovuto sopprimere la possibilità di una tassazione globale per gli stranieri residenti, senza attività lucrativa. Forte di questo successo, l’iniziativa è stata ora prolungata a livello nazionale e, con l’appoggio del Partito socialista e dei sindacati, ha raccolto il numero di firme sufficiente per andare al voto popolare. Nel frattempo, oltre a Zurigo, anche i due semicantoni di Basilea, Sciaffusa e Appenzello esterno hanno abolito l’imposta globale. In altri cantoni, l’iniziativa analoga non ha superato lo scoglio del numero di firme sufficiente, mentre in altri sette è stata respinta dal popolo. Ginevra è in attesa del voto popolare, mentre altri cantoni, soprattutto turistici e di montagna continuano a praticare il sistema. A livello federale, sia il Governo, sia il Parlamento si sono pronunciati contro l’iniziativa, ma hanno apportato alcuni correttivi, tra cui un aumento del minimo imponibile a 400’000 franchi per l’imposta federale, invitando i cantoni a fare la stessa cosa. Inoltre, il minimo imponibile deve essere di almeno sette volte il costo dell’abitazione (affitto o valore locativo). Da notare che la tassazione globale è stata abolita dai cantoni della Svizzera nord-orientale, dove però non è molto importante. I cantoni «latini»,

cioè Ticino, Vallese, Vaud e Ginevra ospitano i tre quarti dei «globalisti» e il gettito dell’imposta copre buona parte dei circa 700 milioni di franchi incassati a livello nazionale. Nato 150 anni fa nel canton Vaud, questo metodo particolare di tassazione non era tanto volto a concedere privilegi, quanto a semplificare una procedura di per sé molto difficile: il contribuente vive, infatti, di redditi prodotti all’estero e di regola qui già tassati. Vivendo in Svizzera provoca però un indotto di notevole portata (22’000 posti di lavoro a tempo pieno). Inoltre, per alcuni cantoni turistici, il gettito dell’imposta è superiore all’1% del gettito totale. Diversa è ovviamente la situazione di un cantone come Zurigo, dove la partenza di quasi la metà dei globalisti non ha provocato cali di gettito, perché sostituiti da altri ricchi contribuenti, mentre gli exglobalisti rimasti pagano in gran parte meno imposte di prima. In Ticino (877 globalisti, 37 milioni di imposte cantonali e 29 milioni comunali) l’impatto potrebbe avere una portata ben diversa. In teoria, la tassazione forfettaria per lo straniero residente potrebbe provocare disparità di trattamento e non rispettare – ma, come visto, non in tutti i casi – il principio della tassazione secondo la capacità economica. Essa risponde, però, a un’esigenza pratica: risolvere la difficoltà di una tassazione normale su redditi provenienti dall’estero con la tassazione in base alla spesa, cioè al livello di vita del contribuente, mentre i suoi redditi sono di regola già tassati all’estero. Molti contribuenti possiedono anche una residenza all’estero. Infine, la tassazione forfettaria è un’alternativa a una tassazione normale, non è un accordo con il fisco (vietato in Svizzera) e, se fosse un privilegio, lo sarebbe di ben scarsa portata. Per molti cantoni – e non fra i più piccoli – è invece una benvenuta fonte di entrate supplementari dirette e indirette. Per questo, i cantoni di montagna l’hanno sempre difesa e anche dall’estero è stata tollerata. In realtà, è una specialità svizzera e del Liechtenstein. Altri paesi come Gran Bretagna, Belgio, Olanda e Lussemburgo offrono possibilità che producono gli stessi effetti. Solo negli accordi di doppia imposizione è soggetta a qualche limitazione. Quindi, anche in futuri accordi fiscali la tassazione in base alla spesa potrà essere tollerata.

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Quando la montagna rivendica dalle regioni urbane, in forza del loro potenziale demografico e economico. Esempi di questa dominanza dell’urbano sul rurale si ritrovano anche in recenti consultazioni popolari come, per citare un solo esempio, la votazione sull’iniziativa che proponeva di limitare la costruzione di residenze secondarie. Non è che le regioni rurali

Keystone

Il 74% della popolazione svizzera, cioè 6 milioni di abitanti, vive oggi in ambiente urbano, ossia in un ambiente nel quale il costruito trionfa sugli spazi verdi. Nelle zone rurali, ossia tra prati, campi, boschi e alpi, vive il resto, 2,1 milioni di abitanti. La popolazione delle regioni rurali gestisce però quasi la metà del territorio nazionale. Nelle decisioni politiche di portata nazionale, le regioni rurali, nonostante la loro estensione, rischiano sempre di essere superate dalle regioni urbane. Se i chilometri quadrati di territorio delle regioni rurali potessero esprimere, in un modo qualunque, la loro opinione, è certo che tra regioni urbane e regioni rurali del nostro Paese l’equilibrio sarebbe migliore. Per l’importanza della quota di territorio rurale, sembrerebbe che questa ipotetica rivendicazione possa essere rispettata soprattutto quando si concepiscono concetti e misure che concernono l’uso del territorio a livello nazionale. Purtroppo non è così, perché anche nell’urbanistica le proposte e le decisioni vengono quasi sempre prese

accettino volentieri queste imposizioni. Ma, fino a qualche tempo fa, le recriminazioni da parte dei loro rappresentanti negli organi politici cantonali e federali erano scarse. Ora però sembra che alla rassegnazione con cui, nel corso degli ultimi anni, si erano accettate le imposizioni della maggioranza urbana si stia sostituendo un atteggiamento rivendicatorio. Di recente, il gruppo dei cantoni alpini (Glarona, Grigioni, Nidvaldo, Obvaldo, Uri, Vallese e Ticino), ha presentato un concetto del territorio alpino che intende proporre come supplemento al concetto territoriale «Svizzera», presentato due anni fa dalla Confederazione. Il concetto federale è troppo concentrato sulle regioni urbane – sostengono i politici dei cantoni alpini – e trascura problemi legati all’uso del territorio nelle regioni di montagna. Il supplemento dei cantoni alpini mette perciò l’accento su quattro aspetti che dovrebbero essere maggiormente considerati. Il primo riguarda la protezione del paesaggio. I rappresentanti dei cantoni alpini sono favorevoli alla protezione

e a un uso prudente delle risorse naturali. Vorrebbero però che progetti importanti – per esempio nel settore turistico – potessero continuare ad essere realizzati anche fuori dalle zone di costruzione (leggi impianti di risalita). La seconda rivendicazione dei cantoni alpini riguarda le loro zone urbane che dovrebbero essere rafforzate. Il riferimento qui è in particolare alla regione di Coira, all’asse urbano della valle del Rodano e alla Città-regione ticinese. La terza rivendicazione riguarda le reti di trasporto e quelle delle telecomunicazioni. I cantoni alpini chiedono che anche in futuro sia mantenuto nelle loro regioni il livello di qualità attuale nelle comunicazioni. Infine i cantoni alpini vogliono trarre maggior profitto dall’uso delle loro risorse idriche. A leggerle così, le quattro rivendicazioni principali del concetto territoriale alternativo dei cantoni alpini non suscitano una grande impressione. Non è la prima volta che rappresentanti dei singoli cantoni o anche di associazioni dei cantoni alpini che perseguono scopi analoghi si sono pronunciati

in questo senso. In particolare si può ricordare, in relazione alla prima rivendicazione, con quale pertinacia i rappresentanti dei cantoni alpini nel parlamento federale si siano opposti sin qui alla firma, da parte della Svizzera, dei singoli trattati della Convenzione delle Alpi. Ciò nonostante, il documento supplementare al concetto territoriale Svizzera, presentato qualche settimana fa, va più in là della semplice opposizione. Il suo contenuto è infatti di carattere rivendicatorio. In questo documento i cantoni alpini non si oppongono a qualcosa; vogliono ottenere qualcosa di più. Osserviamo per finire che nelle rivendicazioni presentate sinora, il loro fronte si è sempre rotto, quando dalla dichiarazione di principio si è cercato di passare alla formulazione di una chiave di ripartizione, perché mai si è riusciti a trovare una soluzione che riuscisse a soddisfare tutti. Sarà così anche stavolta? Per ora si può constatare che il canton Berna, il cui territorio è in buona parte nella regione alpina, si è già fatto da parte.

di pericolosa rispetto all’attitudine dei laici di sinistra che «si appropriano di Francesco e ne strumentalizzano le parole in funzione anticattolica». Come a dire: meno peggio Socci di Scalfari. Resta un dato: i cardinali eleggendo Bergoglio si aspettavano una discontinuità rispetto a Ratzinger; ma Papa Francesco, fin dalla scelta del nome, si sta spingendo al di là delle aspettative di alcuni dei suoi «grandi elettori» al Conclave. Molti cardinali sono pur sempre «figli» di Wojtyla e di Ratzinger. Certo, sono anche uomini intelligenti, che hanno a cuore la forza della Chiesa, e non potevano non vedere la crisi in cui versava prima del conclave del 2013. Benedetto XVI, grande teologo, non ha mostrato grande attitudine al governo; o forse l’ha affidato alle persone sbagliate. Fatto sta che è stato indicato come primate

di Polonia un prelato che si è scoperto essere stato un collaboratore segreto del regime comunista, e i polacchi l’hanno rimandato subito indietro. Si sono riammessi i lefevriani proprio nel momento in cui uno di loro si professava antisemita e negazionista sulla Shoah. Si è aperta una frattura con l’Islam per una citazione. Prima ancora del disastro delle carte trafugate e dei continui ribaltoni allo Ior, era evidente che occorreva un segno di discontinuità. Questo desiderio di netto cambiamento, oltre alle divisioni interne al fronte italiano, ha sbarrato la strada al più autorevole tra i riformatori ratzingeriani, l’arcivescovo di Milano Angelo Scola, e ha aperto la via al primo Papa latinoamericano. Ora Bergoglio ha un anno di tempo per portare il sinodo sulla famiglia alla soluzione naturale: mantenere inalte-

rata la regola, che vieta la comunione ai risposati, e rendere un po’ più flessibile la prassi, per lasciare la possibilità di scelta caso per caso alle varie diocesi e alle varie parrocchie. Ma la reazione anche dura del prefetto della congregazione per la dottrina della fede (ruolo a lungo gestito da Ratzinger) e il coagularsi di posizioni di aperto dissenso e malumore verso il Papa indicano che Bergoglio non avrà vita facile. E probabilmente la sua volontà di riforma dovrà segnare il passo. Un conto è spostare l’accento dalla dottrina al sociale, dal depositum fidei all’evangelizzazione; un altro conto è riuscire a portare tutta la Chiesa sulla via dell’apertura al mondo moderno. Del resto, non fu facile neppure ai tempi del Vaticano II. Tempi che non basta l’elezione di un nuovo Papa a far tornare.

riguarda tutta l’immensa Cina, facendo così vacillare il capitalismo di stato su cui il regime comunista ha poggiato e continua a bilanciare i suoi straordinari progressi economici e il parallelo sviluppo di superpotenza. È piuttosto strano scoprire che il diritto di voto, mentre in Asia ora diventa arma contro il capitalismo di stato per ottenere ulteriori passi verso la democrazia, in Occidente viene usato come strumento di accusa contro i governi che, in nome del capitalismo, lo strumentalizzano o lo snaturano. Ed è proprio questa differenza, non facile da evidenziare, a consentire di tracciare una sottile linea fra l’igloo di neve di Davos e l’ombrello aperto di Hong Kong. L’evidenza ci dice che mentre da noi si protesta contro un capitalismo che ridistribuisce ricchezze verso l’alto, in Cina si manifesta invece contro un sistema politico ormai imbevuto di capitalismo, ma non ancora di democrazia e libertà. Se ne ricava un punto

in comune notando che ovunque, sia in Occidente che in Oriente, si sta cercando di combattere il delinearsi o l’affermarsi di democrazie scialbe che indeboliscono, e talvolta rendono obsolete, sia le istituzioni democratiche che le scelte popolari. E l’attualità sembra fornire ulteriori prove: nei giorni scorsi il Wef ha annunciato di voler aumentare le quote per le grandi imprese che desiderano interagire a Davos nel corso dei vari meeting (i vari Google, Nestlé, Goldman Sachs ecc. pagheranno 600’000 invece di 500’000 fr. come sinora); a Hong Kong invece le autorità, teleguidate da Pechino, hanno iniziato ad abbattere le barricate, rifiutato di incontrare i giovani come promesso e indurito il linguaggio accusatorio. Lo slogan sull’ombrello del giovane di Hong Kong, senza saperlo, forniva prove di quanto intendeva denunciare il militante di Davos: quando il voto serve a cambiare qualcosa, viene vietato. O snaturato, aggiungo io.

In&outlet di Aldo Cazzullo Una via difficile per il Papa Per la prima volta dall’elezione di Jorge Mario Bergoglio, in Vaticano è venuto alla scoperto un dissenso nei suoi confronti. Su tre risoluzioni del sinodo – sull’accesso all’eucarestia di divorziati e risposati e sull’atteggiamento della Chiesa nei confronti degli omosessuali – si è votato. Alla fine le posizioni sostenute dal Papa hanno prevalso. Ma è emersa una minoranza. Per non dire un’opposizione. C’è un’opposizione dottrinaria, che si può sintetizzare in due correnti: quelli che dicono apertamente che il Papa sbaglia, si sta spingendo troppo in là sul versante delle aperture e delle riforme, sta forzando le posizioni tradizionali della Chiesa; e quelli che formalmente concordano con il Papa, sostenendo che Bergoglio ha cambiato stile, linguaggio, sensibilità, ma non ha mutato la dottrina. E c’è un’opposizio-

ne culturale, quasi antropologica, che sta mettendo radici anche al di fuori del Vaticano. Il libro di Antonio Socci, Non è Francesco, che sostiene l’invalidità dell’elezione di Bergoglio, è un segno che una parte del mondo cattolico non si riconosce in questo papato. Al di là della tesi, che un cardinale non esattamente progressista come Camillo Ruini definisce «manifestamente infondata e abbastanza ridicola», è chiaro che tra i laici esiste una fronda che non sopporta il pauperismo di Bergoglio, che rimpiange il gusto di Ratzinger per i capi di vestiario, per la liturgia tradizionale, per una certa idea del papato; e anche le posizioni intransigenti del Papa tedesco sui cosiddetti «valori non negoziabili», espressione che il Papa argentino respinge. Ruini sostiene che questa opposizione «da destra» è molto meno forte e quin-

Zig-Zag di Ovidio Biffi Democrazia a geometria variabile In fatto di libertà, a far testo è arrivata anche Pippi Calzelunghe: il linguaggio scanzonato di trenta o quaranta anni fa della monella svedese non è più tollerabile e viene censurato dalla tv svedese che, nella riedizione delle serie televisive, prevede censure: il «politicamente corretto» ormai bacchetta e condanna anche ciò che esce dalle bocche dei bambini. Mi scuserete se preferisco andar dietro alla libertà su altri versanti, cioè laddove non sono i «psicoqualcosa» o i quaquaraquà del progressismo a proiettare i loro conflitti e a gestire le loro rivendicazioni, ma i giovani in prima persona. Pensando ai giovani e al loro mai sopito anelito di libertà tenterò di collegare due foto: una scattata a Davos nell’inverno di due anni fa e un’altra di Hong Kong che risale alla fine del mese scorso. Nella prima foto si vede una specie di igloo e sulla neve, vicino all’entrata, spicca un proclama «sprayato» in rosso fluorescente: «If voting could change anything, it would

be illegal» (Se votare servisse a cambiare qualcosa, sarebbe illegale). Quasi tre anni dopo, e a 12’000 km di distanza, ecco la foto di un giovane che dorme fra scatole di cartone e in primo piano ha lasciato un ombrello aperto che reca questa scritta: «We don’t need any tear gas, we’re already crying» (Non abbiamo bisogno di gas lacrimogeni, stiamo già piangendo). Le proteste di Davos e contro il Wef sono note a tutti, così come tutti ricordano l’impressionante sciame di giovani abitanti di Hong Kong, riuniti in piazze e strade per invocare da Pechino libertà da investire in diritti civili. Lascio ai politologi di indovinare quale peso queste dimostrazioni, come pure i successivi interventi delle autorità, potranno avere non solo per la Cina, ma anche per l’Occidente. Hong Kong è una città che ho amato sin dal mio primo viaggio in Oriente, quando ancora l’aereo della Swissair finiva la sua lunga corsa sul vecchio aeroporto

ricavato in un’ansa del mare, dopo aver sfiorato i tetti dei casermoni di Kowlon. Ogni volta che ci soggiornavo o ci passavo la città-colonia mi ha sempre trasmesso un’indicibile dose di fiducia, sin da quando lessi che in cinese significa «Porto Profumato». Le guide dicono per via dei boschi e dei giardini che un tempo accoglievano i naviganti; i cittadini di Hong Kong optano invece per un più maligno riferimento ai fumi dell’oppio che hanno reso ambito quel porto cinese, sino a farla diventare redditizia colonia inglese. L’iniezione più forte di fiducia l’avevo dai tantissimi giovani che durante il giorno e la sera riempivano di gioiosi richiami le strade, le piazze, i traghetti, i punti turistici e le hall dei grandi centri. Lo so: quelli che ora protestano non sono più gli stessi giovani che incontravo. Immagino siano i loro figli. Chiedono elezioni con candidati non imposti da Pechino, difendono aspirazioni di libertà che si irradiano su un futuro che


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Cultura e Spettacoli Un ricordo di Vinicio Salati Al carismatico giornalista e intellettuale il nostro Cantone e «Azione» devono molto

Cohen, il nuovo album A ottant’anni, il grande cantautore dimostra tutto il suo talento

Modi di fare teatro Si è appena conclusa la 23esima edizione del festival FIT, dove si è vista l’urgenza di un teatro attento all’attualità pagina 40

Economia in scena A Milano è imminente un’insolita pièce (scritta da Massini e diretta da Ronconi) su ascesa e crollo della dinastia dei Lehman Brothers pagina 46

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Rivoluzionario e distrutto Mostre Autunno Courbet. Seconda parte al Musée Rath di Ginevra

Gianluigi Bellei Gustave Courbet ha avuto molti nemici, ma fortunatamente altrettanti amici. Ne L’Atelier du peintre del 1855 li ha dipinti nella parte destra della tela. Nel 1977 Hélène Toussaint ha identificato quasi tutti i personaggi rappresentati in questa grande allegoria del Realismo e tra questi troviamo Alfred Bruyas, il suo mecenate, Baudelaire e Joseph Proudhon. Proprio quest’ultimo è una figura centrale del suo pensiero. Per molto tempo si è dedicato alla realizzazione del libro Du principe de l’art et de sa destination sociale che rimane uno dei cardini essenziali dell’apologia del Realismo e dello stesso Courbet. Pubblicato postumo nel 1865 il libro è suddiviso in venticinque capitoli; quindici scritti direttamente da Proudhon e gli altri da un gruppo di amici che seguono nella stesura le sue indicazioni. Petra ten-Doesschate Chu nel 1966 pubblica l’intera Correspondance de Courbet dalla quale si evince che l’artista è in contatto diretto con l’autore e lo aiuta nella stesura del testo. «In questo momento – scrive alla famiglia – sono in corrispondenza con Proudhon. Facciamo insieme un’opera importante che attacca la mia arte alla filosofia e la sua opera alla mia». All’amico Bouchon precisa: «Alla fine avremo un trattato di arte moderna compiuto… Scrivo ogni giorno a Proudhon le mie 8-10 pagine di estetica sull’arte che si fa e l’arte che si è fatta, e che io voglio fondare». Il saggio è da ritenersi perciò la summa del pensiero del filosofo anarchico e dell’artista. Riassumerlo è un po’ complicato, ma in linea di massima possiamo dire che per Proudhon l’arte si regge su tre elementi: il sentimento, la stima del sé e la facoltà d’imitazione. Il posto d’onore spetta all’idea che non è quella di Platone, che immagina dei prototipi per ogni oggetto e animale, ma che è immanente alle cose stesse. L’idea in sé però non porta a nulla se non si unisce alla morale. Celebre è la frase: «Io definisco dunque l’arte una rappresentazione idealistica della natura e di noi stessi, in vista del perfezionamento fisico e morale della nostra specie». Però riprodurre la realtà non basta; bisogna far pensare e di conseguenza che «l’idea sia bella e la bellezza intelligente». Dopo un’analisi dell’evoluzione storica dell’arte, dall’antico Egitto al diciannovesimo secolo, Proudhon dedica la parte centrale del libro a Courbet analizzandone alcune opere come la Fileuse, l’Enterrement à Ornans e la Beigneuse. Ritiene che l’arte di Courbet metta insieme reale e ideale, osservazione e immaginazione. Uno splendido elogio è dedicato ai Casseurs de pierres quando scrive: «Dei contadini che avevano avuto l’occasione di vedere il quadro

Le château de Chillon (1875) di Gustave Courbet. (© Studio Eureka, Jean-Loup Mathieu)

lo avrebbero voluto posizionare indovinate dove? Sull’altare maggiore della loro chiesa. I Casseurs de pierres valgono una parabola dei vangeli; è la morale in azione». Courbet nel 1871 accetta di diventare presidente della Commission des Arts de la Fédération des artistes della Comune e municipale del sesto arrondissement. La Fédération des artistes riprende, in un certo senso e con i dovuti distinguo relativi alle varie componenti della federazione stessa, il pensiero prudoniano come si evince dalle varie prese di posizione pubblicate dal Journal officiel sul rifiuto di mantenere delle gerarchie nelle arti per mettere sullo stesso piano l’artigiano e l’artista, come nelle corporazioni medievali. Dopo i brevi mesi di vita della Comune e il relativo sanguinoso epilogo, il 7 giugno Courbet viene arrestato e poi condannato a sei mesi di reclusione per l’abbattimento della Colonna Vendôme. Il 30 maggio 1873 l’Assemblea nazionale gli impone di pagarne la ricostruzione e gli confiscano i beni sia a Parigi che a Ornans. Il 23 luglio si trasferisce in Svizzera e in ottobre a La Tour-de-Peilz. Nel marzo del 1876 scrive ai deputati

e senatori delle assemblee nazionali sostenendo che non è responsabile materialmente della distruzione della colonna ma che ne «sono responsabile moralmente… alla stessa stregua e nella stessa misura di altri migliaia di cittadini». Il 4 maggio 1877 è condannato a pagare tutti i costi della ricostruzione ammontanti a 323’091,68 franchi. Il 31 dicembre muore di idropisia e cirrosi epatica, distrutto sia moralmente che fisicamente. Il Musée Rath di Ginevra dedica all’ultimo periodo svizzero di Courbet una toccante esposizione, probabilmente la più esaustiva, di quei sofferti anni di esilio. La prima sala presenta Portrait de l’artiste à SaintePélagie del 1872 nel quale con la sua immancabile pipa guarda sconsolato oltre le sbarre della cella. Poi troviamo le famose trote agonizzanti, simbolo di una vita, la sua, che se ne sta andando. Un’intera sala è piena di opere, scelte fra quelle che l’artista ha portato in Svizzera e che si sono salvate dalla confisca: tra le quali una copia della Danae del Tiziano del 1700 e di un autoritratto di Rembrandt dipinto da Courbet stesso nel 1869, a rimarcare i suoi interessi per l’arte del passato. Se-

guono diverse versioni del busto Helvetia, dedicato alla Svizzera. Da notare la versione con il cappello frigio e la croce confederata e quelle modificate, in seguito alle contestazioni dei conservatori, con una stella a cinque punte e denominata La Liberté e infine l’ultima chiamata Union, Amitié, Progrès con i simboli massonici. Anche lo Château de Chillon è un soggetto ideale di quegli anni, proprio perché gli ricorda il periodo carcerario, e lo dipinge per più di venti volte da diverse angolazioni, sempre più cupo e austero. In mostra anche l’imperscrutabile versione del Walraf-Richartz Museum. Courbet in ogni caso è ossessionato dal denaro da reperire per il pagamento della Colonna Vendôme e di conseguenza, assieme ai suoi mediocri collaboratori, sforna una serie di innumerevoli paesaggi: boschi, montagne, marine. Fra questi, e siamo nella parte più consistente dell’esposizione, spiccano le due versioni del Panorama des Alpes: quella grandiosa del Museo di Cleveland e quella maggiormente cupa e solitaria acquisita recentemente dal Musée d’Art et d’Histoire di Ginevra.

Una sala, infine, è dedicata alle lettere originali, ai documenti, alle fotografie, ai manifesti, relativi a quegli anni come l’inventario dell’8 maggio 1878 delle opere presenti nello studio dopo la morte e la sua Maschera mortuaria realizzata da Louis Niquet. L’amico comunardo Jules Vallès scriverà dall’esilio di Londra una delle orazioni funebri pubblicata il 6 gennaio 1878 sul «Réveil»: «Ha traversato le grandi correnti, si è tuffato nell’Oceano di folle, ha sentito battere, come colpi di cannone, il cuore di un popolo, ed ha finito nell’aperta natura, in mezzo agli alberi, respirando i profumi che avevano inebriato la sua giovinezza, sotto un cielo che non ha diradato il vapore dei grandi massacri…». Bel catalogo, con scritti di studiosi della sua opera e del periodo come Bertrand Tillier, Laurence des Cars e Petra ten-Doesschate Chu. Dove e quando

Gustave Courbet. Les années suisses. A cura di Laurence Madeline con Pierre Chessex. Musée Rath, Ginevra. Ore 11.00-18.00. Chiuso lunedì. Fino al 4 gennaio.


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Cultura e Spettacoli

Salati, spirito diverso e indipendente In memoriam Vent’anni or sono moriva Vinicio Salati, carismatico ed eccentrico esponente culturale

del Cantone con legami internazionali, nonché direttore di «Azione»

Carlo Piccardi «Ultima figura di cavaliere romantico e bizzarro» – così Luigi Santucci ricordò Vinicio Salati (1908-1994), cogliendo nella sua personalità una «goliardica discolaggine», un «gusto anarcoide della sfida», un «coraggio paladinesco», caratteri insoliti negli intellettuali ticinesi della sua generazione (ma non solo), generalmente indotti dal ruolo di rappresentanti di una minoranza a vestire i panni dell’ufficialità. La sua presenza in Ticino, in campo giornalistico, fu costante (e quindi rappresentativa) ma (deliberatamente) mai centrale, mai allineata, né al corso principale maggioritario né a quello di gruppi di opinione. Fu un battitore libero del pensiero, che sentiva responsabilmente il principio dell’impegno nella società, declinandolo tuttavia nella forma di un individualismo sciolto dai vincoli ideologici, affidando all’ironia e al gusto del paradosso la messa in discussione dell’esistente.

L’estro e l’indipendenza di Salati in qualche modo impedirono il riconoscimento che avrebbe meritato Fin dall’inizio la sua vita si svolse nel segno dell’avventura. Nato a Paradiso, portato dall’istinto ribelle ad abbandonare gli studi scolastici, a 20 anni lo troviamo già a Francoforte, dove, grazie al suo estro artistico – manifesto nella capacità di destreggiarsi alla tastiera – si guadagnava da vivere improvvisando l’accompagnamento dei film muti al pianoforte. Che non era certo un ripiego, considerando cosa sfilasse sugli schermi nella Germania di quegli anni. A Dresda, immerso nel ribollente clima culturale della Repubblica di Weimar, non gli sfuggirono le occasioni d’incontro che lo legarono a personalità quali Georg Grosz, Otto Dix, Otto Griebel, Wilhelm Lachnit, Kokoschka, Johnny Friedlaender, Lea

Langer, Hans Grundig (che lo raffigurò nel Bildnis des jungen italienischen Dichters Vinicio Salati, oggi conservato all’Ermitage di San Pietroburgo). Asceso al potere Hitler, calata sulla Germania una cappa di aria irrespirabile che gli costò due mesi di prigione per aver frequentato una cellula comunista, rientrò in Svizzera. Dopo una parentesi a Zurigo, tornò in Ticino, alla «malinconia dei nostri campanili che danno un senso di dolcezza triste» (com’ebbe a scrivere), al paese d’origine in fondo mai dimenticato e che lo vide sempre in prima linea a denunciarne i difetti (ma proprio in quanto fondamentalmente amato). Nel 1934 accolse l’invito di Guglielmo Canevascini ad assumere l’incarico di caporedattore di «Libera Stampa», alla quale in precedenza dalla Germania non aveva fatto mancare cronache di carattere politico e letterario; il giornale grazie a lui ebbe anche un ruolo culturale. In proposito è da ricordare la significativa pubblicazione a puntate da lui promossa di Fontamara, il romanzo d’esordio di Ignazio Silone, uscito nel 1933 in tedesco a Zurigo, nell’anno stesso in cui al Caffé Odeon Salati aveva fatto conoscenza dello scrittore. Nel 1936, allo scoppio della guerra civile, la sua militanza antifascista lo portò ad unirsi alle brigate internazionali accorse in Spagna in difesa della giovane repubblica. Vi rimase fino al 1938, inviando al suo giornale le cronache da quell’infuocato fronte. Rientrato in Ticino, nel 1939 accettò l’offerta di Gottlieb Duttweiler, fondatore della Migros, di curare la redazione del settimanale «Azione», compito che assunse non senza rinunciare a promuovere altre iniziative in questo campo. Salati è infatti da ricordare anche come fondatore della «Rivista ticinese», diventata poi «Illustrazione ticinese». Il suo attivismo giornalistico, sicuramente sollecitato dall’esperienza tedesca dove il nuovo mezzo si era notevolmente sviluppato, si dispiegò in particolare nel campo radiofonico. Fu infatti uno dei primi intellettuali ticinesi ad assicurare la sua collaborazione alla neonata Radio Monteceneri, che

L’intellettuale ticinese Vinicio Salati. (Hollander)

nella provinciale dimensione del paese si presentava come insperata palestra di modernità. Come autore di radiodrammi, di cronache e documentari, il suo apporto al nuovo ente fu notevole. Nella RSI Salati trovò quell’apertura al mondo che aveva cercato nella sua precoce fuga dalla famiglia buttandosi nell’avventura. Nel «porto di mare» di Radio Monteceneri egli coltivò significativi contatti con figure dell’arte e della cultura rimaste fondamentali. Al 1945 risale la sua collaborazione con Bernhard Paumgartner (venuto a stabilirsi a Carabietta), il grande musicologo e musicista che per un quinquen-

nio regalò alla RSI almeno sette cicli di trasmissioni dedicate a Händel, Bach, Mozart e ad autori italiani del ’600 e del ’700 da lui riscoperti ed eseguiti dal Coro e dalla Radiorchestra. Attraverso i relativi copioni, tradotti e adattati da Salati in italiano si è conservata la traccia di una modalità radiofonica capace di articolare in forma sceneggiata musica, testo, voci e suoni d’ambiente, sperimentando con finalità artistica e culturale le capacità del mezzo. Della primavera del 1947 è la sua intervista a Richard Strauss, a testimonianza dei tre mesi trascorsi dal grande compositore a Lugano culminati nel concerto

che l’11 giugno diresse allo studio del Campo Marzio. Nell’autunno dello stesso anno, in occasione del «festival» che la nostra radio riservò ad Arthur Honegger, dedicato a una vasta scelta di opere sue da lui dirette in pubblico insieme con Ernest Ansermet, egli si trovò in confidenza col compositore in virtù dell’amicizia con il di lui cognato Emil Hegetschwiler, attore del Cabaret Cornichon che aveva frequentato a Zurigo. In tale contesto si situa anche il contatto con Rolf Liebermann, che nei cabaret zurighesi accompagnava al pianoforte Liselotte Wilke e altri cantantiattori fuoriusciti della scena berlinese approdati allo Schauspielhaus, facendo conoscere al pubblico svizzero il corrosivo stile brechtiano. In un programma del 1942 troviamo infatti I disoccupati, un testo di Salati musicato da Liebermann nella forma di un «song», a testimoniare l’inedito connubio di poesia italiana e stile weimariano, possibile solo in quella singolare testimonianza venuta sorprendentemente ad arricchire la scena locale. In verità egli aveva già avuto occasione di conoscere Brecht nel 1933 quando il grande poeta-drammaturgo soggiornò a Carona in casa del comune amico Kurt Kläber, intellettuale fra i primi a lasciare la Germania per essere stato il fondatore della «Lega degli scrittori proletari rivoluzionari». Egli fu quindi uno dei pochi a non vedere nei forestieri tedescofoni la minaccia della colonizzazione culturale e linguistica, bensì un valore aggiunto. Tale sua diversità e indipendenza rispetto all’ingessato ambiente culturale ticinese è sicuramente all’origine del mancato riconoscimento del suo talento artistico, testimoniato dalla copiosa produzione poetica rimasta in massima parte inedita. Nonostante il Premio Schiller che gli fu assegnato nel 1938 per la raccolta La casa vuota, poca considerazione il proprio paese riservò al suo modo esistenziale di vivere la poesia, preso poco sul serio probabilmente a causa dell’atteggiamento apparentemente stravagante dei suoi interventi e di un polemismo vivacemente condotto nel segno di un’ironia arguta e spiazzante.

Port- Royal: il più gran libro che sia stato scritto? Meridiani e paralleli Secondo il critico Gianfranco Contini il libro dell’autore francese Charles Augustin

Sainte-Beuve è uno dei capolavori della storia della letteratura mondiale

Giovanni Orelli Ho l’impressione, e se sbaglio sbaglio nel generalizzare, che si diffonda sempre più, non solo nei giornali, la tendenza a occuparsi quasi solo di libri che possano esibire l’etichetta del vient de paraître, dell’appena usciti. Siamo nel ’14: quasi quasi si deve chiedere scusa a un lettore se ancora ci occupiamo di un libro del ’13. Meno grave (o sbaglio?) se si retrocede di molti anni (e faccio l’esempio di un sommo come il Guicciardini, 1483-1540, perché qualcuno insinua che non lo si legge più neanche al Liceo!). Sto leggendo, con grande profitto, un libro, due volumi per complessive 2300 pagine e oltre, note e indici compresi (indici utilissimi soprattutto per le «cose notevoli» che i due volumi contengono): stampati nel 2004 da Robert Laffont, Paris (ma l’edizione originale uscì in sei volumi tra 1840 e 1859). I due volumi hanno per titolo Port-Royal, autore un grande francese dell’Ottocento, Charles Augustin de Sainte-Beuve; so poco di un giudizio negativo di Proust sul

suo conto, ma conosco questo entusiastico giudizio di Gianfranco Contini, che alla domanda di Ludovica Ripa di Meana (in Diligenza e voluttà, Mondadori, Milano, 1989, p. 129 e sgg.) «E adesso, dopo tanta esperienza, qual è il libro che ama di più?», così risponde:

Charles Augustin Sainte-Beuve nel 1868. (Keystone)

«Ah, l’ho detto: è Port-Royal. Secondo me, incomparabilmente. È, per me, il più gran libro che sia stato scritto, il più nutriente per qualunque momento della mia vita». De gustibus…, con quel che segue. Port Royal fu fondato nel 1204 con un numero ridotto di religiose seguaci di san Benedetto, quando i monasteri seguivano certe regole: ai cistercensi le vallate, ai certosini le foreste, ai benedettini le colline, ai francescani le città fortificate, ai domenicani i centri universitari (Philippe Sellier è limpido nella sua Presentazione che ha per titolo Le Port Royal: une méditation sur le christianisme. Il libro (il lettore lo avrà già intuito) è in francese, il meraviglioso francese di Sainte-Beuve. «Forse era un personaggio antipatico, ma era squisito nel linguaggio, e penetrante in un modo…» (Contini). Non riassumerò qui la storia di Port-Royal, che ebbe il suo periodo di maggior gloria nel Seicento. Grazie alla ricostruzione del Sainte-Beuve, il libro diventa una

formidabile guida a una storia di un grandissimo periodo della spiritualità in Francia, attraverso il «conflitto» tra diversi movimenti religiosi: centrale lo scontro tra giansenisti (loro centro è Port Royal di Parigi) contro i gesuiti (Roma) (come dire – ma so di essere remotissimo dalla precisione del SainteBeuve – cattolicesimo francese e cattolicesimo romano). Con implicazioni di natura politica: un Luigi XIV vorrebbe pur ridurre la Francia, al pari della Spagna, con una religione sottomessa alla monarchia. Accanto ai «movimenti», la presenza di grandi personalità. Valga l’esempio dell’ammiratissimo Blaise Pascal, 1623-1662 (il laicissimo Voltaire, 1694-1798, vedrà in lui un misanthrope sublime), soprattutto in forza delle sue Lettres provinciales. Anche qui farò pochissimi nomi (spero proprio che altri leggano, sia pure in diagonale, il libro, e non si fermino alle mie povere righe.) La superiore civiltà della Francia, costruita attraverso i secoli, non si scopre solo attraverso i vari Pascal e, prima di lui, nel tempo, Montaigne, 1533-

1592: ho bisogno di fare nomi come quelli di Molière e La Bruyère? di un Saint-Cyran, 1581-1643, che non conoscevo per niente, come non conoscevo tanti altri, sì Racine, ma non Arnauld e altri, bravissimi. Non vorrei lasciar fuori da questa noticina le pagine, splendide per le Ecoles de Port-Royal, vol. 1, 795 e sgg. Port-Royal vuol dire soprattutto «che bisogna aiutare gli studenti al massimo che si può, per rendergli lo studio stesso, se ciò è possibile, più piacevole che giochi e divertimenti». Cosa che fa ricordare un grande studioso del Novecento, Leo Spitzer (austriaco, 1787-1960), al quale un ammiratore in visita dice «sempre al lavoro Maestro». Al che lo Spitzer, grande lettore anche di italiani, corregge: «non al lavoro, al piacere!». Oltre a capitoli densi come quelli sulla scuola, ci sono poi fulminanti «definizioni» per certe parole di largo uso, come bellezza, sciocchezze (sottises), pedanteria,… In pochissime parole: per Port- Royal l’uso della lingua conta più della grammatica.


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Cultura e Spettacoli

FIT o l’urgenza teatrale contemporanea

Meno semplice di quel che sembra

Teatro Si è appena conlcuso un festival che ha proposto

necessariamente da «fabbro»

17 rappresentazioni per ben 31 ore di spettacolo

Cognome mio Faverio non deriva

Ottavio Lurati

Lo spettacolo Solfatara della compagnia spagnola Atresbandes.

Giorgio Thoeni Da dieci a cinque. Tanti sono i giorni che hanno occupato la recente edizione del Festival Internazionale del Teatro (FIT), la 23esima per l’esattezza, organizzata da Vania Luraschi e Paola Tripoli e dislocata in 9 luoghi fra Lugano, Manno, Bellinzona e Ascona. Una rassegna più concentrata nella durata ma con lo stesso numero di spettacoli e ricca di quel mordente e di quelle sorprese che ne fanno un evento atteso che permette di scoprire spettacoli che altrimenti non riusciremmo a vedere. In tutto il cartellone ha proposto 17 rappresentazioni e repliche per 31 ore di spettacolo. Noi ne abbiamo visti solo alcuni e persi altri, ma l’idea che ci siamo fatti è quello di un caleidoscopio di opportunità creative per cogliere una parte dell’urgenza teatrale contemporanea. Iniziamo da 12parole7pentimenti, una «installazione teatrale di liquide parole» creata dall’Officina Orsi. Allestita all’Ex Macello, si parte da un filmato per poi proseguire lungo un breve itinerario a tappe: stazioni ravvicinate dove a gruppi di quattro si ascoltavano in cuffia dialoghi «rubati» attorno a temi come l’amore, il sesso, il

Questa 23esima edizione del FIT ha dimostrato ancora una volta quanto sia indispensabile portare in scena la contemporaneità denaro, la morte. Un’operazione creata da Rubidori Manshaft per riconquistare il piacere dell’ascolto di parole assortite, pescate dalla quotidianità, dialoghi talvolta sciocchi ma in ogni caso veraci; situazioni che potevano far riflettere oppure indurre all’im-

barazzo. Al termine del percorso tutti davanti a un video per conoscere la conclusione dei temi con un collage di frasi pronunciate da voci innocenti. Sempre in termini di «ascolto», all’Auditorio Stelio Molo della RSI abbiamo assistito a E Johnny prese il fucile, un adattamento e regia di Sergio Ferrentino tratto dal romanzo di Dalton Trumbo per «testa olofonica», un microfono speciale che cattura i suoni

Il teatro è fatto anche di sperimentazione, e spesso presenta il risultato di approcci diversi, sia stilistici sia tematici con una fedeltà impressionante e a 360 gradi. Tradotto in soldoni, anche in questo caso la platea si è immersa nell’ascolto in cuffia di una pièce radiofonica con protagonista Marco Baliani accompagnato da Alessandro Castellucci ed Eleni Molos. Di ben altro tenore è stato l’incontro con Tim Crouch, straordinario superpremiato drammaturgo-attore inglese che, sulla falsariga de La dodicesima notte di Shakespeare, con I, Malvolio visto al Cortile ha raccontato la vicenda immaginata dal Bardo vista con gli occhi di un «fool», di un perdente, di un uomo definito incapace. Un incontro con una «lucida follia» e bravura attoriale, dove il pubblico veniva anche tirato in ballo. A nostro avviso, fra gli spettacoli più significativi e originali visti è giusto ricordarne almeno due. Imitation Of Life dello svizzero Boris Nikitin e Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni, un progetto di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini. Due esempi di grande forza drammaturgica, ognuno dei quali merita

considerazioni differenti. Con Boris Nikitin il gioco, da sottilmente e apparentemente «noioso» alle sue prime mosse degli attori in scena (gli ottimi Beatrice Fleischlin e Malte Scholz) che raccontano vite vere o inventate, si apre a una dinamica interiore sorprendente e in un crescendo emozionante. Indubbiamente uno spettacolo non facile, che richiede attenzione (in tedesco, sopratitolato in italiano), che può lasciare interdetti proprio per la dinamica introspettiva sul vero e sul falso, sull’inganno e sui sentimenti, sulla manipolazione teatrale in bilico perennemente fra le sue certezze. Ecco però un modo per ripartire dalla parola «non-recitata» sulla nudità di un palcoscenico per comprendere la forza, l’urgenza del teatro quando sono rette da un progetto raffinato e intelligente. Un’altra forza, questa volta proposta da una delle compagnie più intriganti della nuova drammaturgia italiana, è quella della Tagliarini/Deflorian che ha messo in scena un progetto tratto dalle pagine iniziali de L’esattore di Petros Markaris ispirato dall’immagine drammatica del ritrovamento dei corpi di quattro donne anziane suicidatesi perché ridotte al lumicino dalla terribile crisi economica che ha messo in ginocchio la Grecia. Con Deflorian e Tagliarini, la scena è anche per Monica Piseddu e Valentino Villa per un’altalena sensibilissima di emozionanti immagini evocative, di testimonianze in prima persona e di quotidianità che entrano ed escono dal racconto-verità di ogni attore-persona per provocare nel pubblico lo sdegno civile, la responsabilità dei silenzi, la crudeltà dell’umiliazione, della vita vera a confronto con la finzione. Una lezione di teatro memorabile con quattro formidabili attori. Il FIT si è concluso anche con l’assegnazione del Premio della giuria dei giovani che all’unanimità è stato attribuito allo spettacolo Linea della Compagnia Giovani di Tiziana Arnaboldi.

Faverio è un cognome di etimo piuttosto impegnativo. Escludiamo intanto la solita (troppo facile) «spiegazione» dal latino faber «fabbro» che da noi ha dato fàvar; poi soprattutto di diceva e dice feree, l’uomo che sa plasmare il ferro. Sintetizzando al massimo, dobbiamo dire che si tratta di un cognome che proviene da un nome di luogo del Varesotto. Poi, nelle comunità di Cadorago, Cermenate, Minoprio, Limbiate eccetera, si indicarono quali Faverio coloro che provenivano da quella località. I tizi, magari un poco «frettolosi», che riconducono subito Favério a fàvar «fabbro» dimenticano il diverso accento e trascurano di immettere nell’analisi il fatto che tutto attorno, in zona, si susseguono i nomi di località che terminano in –erio. Cfr. Chiaverio, Daverio, Coldrerio, Genestrerio. Si potrebbero aggiungere casi quali Casserio e Camperio, in val di Blenio, che era la zona cui presiedeva un campee, un camparo, un controllore che badava a che gli abitanti rispettassero le norme agricole e i confini. E, appunto, favree era il terreno che era sottoposto a controllo comunitario affinché non venisse sfruttato in modo eccessivo: la prudenza dei nostri antenati... È un bel richiamo al latino fabula «parola», ma anche «divieto, bando», che dura nel nome di varie località. Per chi volesse conoscere un altro nome di famiglia che muove da un dato della natura si citerà Comerio, nome di luogo sul Lago di Varese (dal dialettale comb- «avvallamento, zona a forma di catino», cfr. O. Lurati, Nomi di luogo e di famiglie, ed. Dadò 2011, p. 211.). Poi, questo nome di luogo venne esteso alle famiglie che abitavano in zona: e si ebbero i Comerio. Sono invece, come ovvio, da i «fabbri» i Fàveri, il cui nome venne annotato con «de» sì che si ebbero i de Fàveri (persone che escono dalla famiglia dei fabbri); dal Veneto vennero

Top10 DVD 1. Rio 2

Animazione 2. Mr Peabody e Sherman

Animazione / Novità 3. Barbie e il regno segreto

Animazione 4. X-Men: Giorni di un futuro passato

Ogni nome una storia. (Keystone)

in Ticino verso il 1876 soprattutto per la galleria del san Gottardo (e nei cimitero di Mairengo vedi delle tombe de Faveri 1843-1870 e 1866-1938). Questo per dire che non si possono mettere insieme cose che sembrano uguali ma non lo sono. In tutta fretta altre due note. I Formica sono attestati come massari comaschi nel tardo Duecento. Di lì vennero anche i Formigoni. Per questo nome va menzionata anche la scheda sui formiconi scioperati «poveri, pitocchi» quali, a p. 31, accerta per il 1629 a Treviso il bel volume di Camporesi sul Pane selvaggio. Quanto ai Gabaglio, piace citare Catherina Gabalii di Lurate che abita a san Donnino fuori le Mura di Como e chiede nel 1464 dispensa matrimoniale. Anche qui un nome di famiglia che fa riferimento a un luogo: le gabaa come erano dette le piante che si potavano ogni anno per avere stanghe nuove per far rastrelli, intrecciare gerli eccetera.

Top10 Libri 1. Ken Follett

I giorni dell’eternità, Mondadori 2. John Green

Colpa delle stelle, Rizzoli 3. Marco Malvaldi

Il telefono senza fili, Sellerio 4. Benedetta Parodi

Molto bene, Rizzoli

H. Jackman, J. Lawrence 5. Sveva Casati Mondignani 5. Monster High - Fusioni mostruose

Animazione / Novità

Il bacio di Giuda, Electa 6. Antonella Clerici

La cucina di casa Clerici, Rizzoli 6. Maleficent

A. Jolie, E. Fanning

7. Camilla Läckberg

Il guardiano del faro, Marsilio 7. Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve

8. Glenn Cooper

R. Gustafsson, I. Wiklander

Dannati, Nord

8. Free Birds - Tacchini in fuga

9. Sophie Kinsella

Animazione

I love shopping a Hollywood, Mondadori

9. The Amazing Spider-Man 2

A. Garfield, E. Stone

10. Stephen King

Mr. Mercedes, Sperling 10. Brick Mansions

P. Walker, D. Bell


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Cultura e Spettacoli

La strada di Altman

NOVITÀ DEL MOMENTO.

Rassegne I cineclub ticinesi offrono

una retrospettiva del regista statunitense

«Sono fiero: da 21 anni riesco a lavorare lontano da Hollywood, quel ritrovo di tagliagole!» Così Robert Altman nel 1989, in uno dei momenti meno felici della sua carriera, quando tuttavia la sua graffiante zampata tra gli Studios e il Sunset Boulevard l’aveva già lasciata grazie a tutti i film realizzati negli anni 70 e oggi piatto forte dalla Retrospettiva che gli stanno dedicando i benemeriti Cineclub cantonali (programma e commenti sul sito www. cicibi.ch) e che durerà fino al maggio del 2015. Un percorso personale e artistico unico, quello di colui che veniva definito – con Woody Allen – «il più europeo dei cineasti statunitensi».

Nelle sale del cantone la produzione degli Anni Settanta di un autore poco conformista Nato nel 1925 a Kansas City (in quel Midwest che lo ha sempre snobbato…), compie studi superiori presso i Gesuiti e fa in tempo a dare il suo contributo alla Seconda guerra mondiale pilotando un B-24. Comincia a muoversi sul set quand’è ingaggiato da una società che si occupa di filmati industriali. L’esordio quale regista risale al 1955, quando firma I delinquenti e due anni dopo The James Dean Story, che non trovano l’accoglienza sperata. Altman si dirotta così verso la TV e realizza alcuni episodi dei serial Alfred Hitchcok Presents e il popolarissimo Bonanza. La prima incursione tra i generi cinematografici (che si divertirà per decenni a stravolgere) la compie nella fantascienza con Countdown, ma il successo arriva quando M.A.S.H. (secondo T. Kezich «collocabile tra il Kubrick del Dr. Stranamore e il gusto di Bunuel») non solo si aggiudica la Palma d’Oro a Cannes, ma segnala due giovani destinati a diventare autentiche star: Elliott Gould e Donald Sutherland. Proprio durante la guerra in Vietnam, Altman torna in maniera sfacciatamente farsesca su quella di Corea, cominciando così quel suo affresco degli USA nel quale, nel corso di anni, descrive il meglio e il peggio del suo Paese. Dimenticata la lunga tradizione di cow boy alla John Wayne con I compari, salvando solo il classico

duello finale, ci offre un western atipico che diventa «un severo apologo che demolisce la mitologia americana sulle sorti magnifiche e progressive della libera iniziativa» (P. Mereghetti). Nella colonna sonora vi sono le ballate di Leonard Cohen, (compie 80 anni, ne parliamo a p.45, ndr.). Il suo percorso trasgressivo continua con Anche gli uccelli uccidono, altro apologo – stavolta più ironico – sulla rivolta dei giovani in seno alla società americana e girato in quel gigantesco Astrodome di Huston che all’epoca – 1970 – sembrava l’ottava meraviglia del mondo. Con Il lungo addio incarica l’amico Elliott Gould di proporre un Philippe Marlowe «scanzonato e crepuscolare» e deve così difendersi dall’accusa di aver tradito Raymond Chandler: «Lo scrittore ci lascia negli Anni 50. La mia interpretazione ha la presunzione d’immaginare quel che Chandler avrebbe detto se fosse stato qui». Gran bel ruolo per Sterling Hayden (già interprete chandleriano con John Huston e Humphrey Bogart) e cameo per un giovane sconosciuto: Arnold Schwarzenegger... Superata la delusione per l’immeritato insuccesso di Gang, Altman si rifà alla grande con quello che molti considerano il suo capolavoro: Nashville, coacervo di personaggi e suoni in ampia libertà e in presa diretta. Una particolare tecnica di registrazione gli permette infatti un’incisiva fusione di voci, slogan e musica (siamo nella capitale della country music, indimenticabile il Keith Carradine di I am easy); per questo anche in Italia, fatto più unico che raro, uscì in versione originale. Il film ci offre altresì «qualche osservazione inquietante sui demoni politici della provincia: la grande destra è in marcia» (M. Del Vecchio), mentre per Irene Bignardi si tratta di «uno dei più grandi affreschi sull’America, i suoi sogni e le sue ossessioni». Altro western anomalo è Buffalo Bill e gli indiani e Altman sceglie Paul Newman quale protagonista: così bello, biondo e americano – spiegò il regista – che costruirgli addosso il mito diventa facile: Buffalo Bill è la prima star dello show business… Completano la retrospettiva l’intimistico Tre donne; un’altra opera corale come Un matrimonio (Vittorio Gassman e Gigi Proietti accanto a Lilian Gish!) e Quintet, dove c’è ancora Paul Newman, stavolta nei panni di un cacciatore di foche che si muove in un mondo futuribile coperto di ghiacci.

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Robert Altman nel 2006, poco prima della sua morte. (Keystone)

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Cultura e Spettacoli

La vita davanti ai nostri occhi Cinemando Per 12 anni Richard Linklater

ha filmato gli stessi attori, e di conseguenza l’inesorabile lavorìo del tempo

La locandina di Boyhood, di Richard Linklater.

***(*) Boyhood, di Richard Linklater, con Ellar Coltrane, Patricia Arquette, Ethan Hawke, Lorelei Linklater (Stati Uniti 2014).

Le 24 immagini al secondo nel riavvolgersi di una pellicola hanno creato da sempre un legame particolare tra il cinema e il tempo. Qualche cineasta, Alain Resnais uno fra tutti, ne ha fatto addirittura il segno del proprio linguaggio nel corso di una vita.

Nel film di Linklater il tempo diventa qualcosa di reale, mai visto in questo modo al cinema Così Richard Linklater. Boyhood (Orso d’Argento all’ultimo festival di Berlino) racconta infatti la storia di Mason (Ellar Coltrane) che ha 6 anni e vive in una modesta periferia texana con la madre (Patricia Arquette), la sorella maggiore (Lorelei Linklater) e un padre (Ethan Hawke) che riappare soltanto di tanto in tanto. Seguiremo la crescita (materialmente, come vedremo!) di Mason, della sua famiglia, del Texas quotidiano che sta loro attorno dalla prima inquadratura del film: con il ragazzino sdraiato nel prato, a seguire il tragitto delle nuvole e dei suoi sogni, fino alla sua partenza per il college. Fanno 12 anni: di una progressione banale, vista un’infinità di volte, con il bacon and eggs della colazione, accanto al padre infantile e alcolizzato, la madre che non ne può più, il campeggio estivo, il bowling del sabato sera. Ma dodici anni assolutamente straordinari, inediti, perlomeno in quel genere di fiction, nella storia del cinema: in quanto non rappresentati a colpi di occhiaie e stratificazioni di cerone, baffi ingrigiti e attori bambocci sostituiti progressivamente da adolescenti vagamente pelosi. Linklater, che è nato nella stessa Houston, e che già aveva affrontato con una medesima coppia di attori (Julie Delpy e Ethan Hawke) lo scorrere del tempo nella trilogia composta da Before Sunrise, Before Sunset e Before Midnight, si è buttato qui in una scommessa folle: girare Boyhood sull’arco di 12 anni, dal 2002 a oggi, riunendo ogni anno per una decina di giorni di riprese i medesimi attori, possibilmente con la stessa squadra

tecnica, congelando un budget di produzione, inventando una progressione drammatica che si aggiornasse, invecchiasse sulla pelle dei protagonisti, della vita e pure del cinema. Tutto ciò avrebbe potuto tradursi in una curiosità spettacolare ma fine a sé stessa, un procedimento che finisse per mostrare le corde, un compiacimento puramente aneddotico su un’America che invecchia assieme ai suoi abitanti durante gli anni della crisi, dall’Iraq di Bush a Osama, ripetutamente citati nel film. Al contrario, la progressione priva di stacchi, per non parlare di soprassalti, di Boyhood si traduce in un lento fluire del tempo che è destinato a sfociare in una sorta di vertiginosa poesia: il regista non forza mai i toni, non sottolinea gli aspetti esteriori e banali dei passaggi temporali, restando incollato all’intimità più semplice, infine commovente dei personaggi. Quasi che l’ambizione smisurata del progetto si ritrovasse a confrontarsi con l’umiltà, una volta giunto il momento di invadere la sfera privata dei personaggi. Il film opera dunque nei confronti dello spettatore come uno specchio davanti al quale ritrovarsi quotidianamente: senza permetterci di notare i mutamenti minimi in atto, ma identificandoci sempre più con quanto ci viene rimandato. Nella lentezza di una contemplazione permessa dalla materializzazione del tempo, dalla mutazione fisica dei corpi, dall’evoluzione impercettibile degli ambienti nasce allora la tenera normalità delle situazioni, la vicinanza comprensiva per i personaggi, l’affettuosa partecipazione agli avvenimenti. Come il suo ordinario protagonista Mason, il film ha impiegato dodici straordinari anni per farsi adulto; ma nel frattempo si è fatto di tutti, si è fatto semplicemente vero.

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Cultura e Spettacoli

Noemi e le eterne domande attorno alla cultura musicale Musica Debutto interlocutorio della stagione del Cinema Teatro di Chiasso, tra arte, costume e commercio

Zeno Gabaglio Cos’è e cosa non è cultura. E, una volta stabilita la precisa identità della cultura, in che modo l’ente pubblico deve sostenerla e finanziarla. Sono questioni eterne, queste, che molto probabilmente non troveranno mai una risposta definitiva. Ma non per questo è lecito smettere di porsele.

La scelta di invitare Noemi a Chiasso ha suscitato qualche plausibile e ovvia perplessità culturale Troppo spesso, infatti, si parla e ci si accapiglia attorno a tutto quello di cui la cultura è circondata – i contenitori più o meno grandi, gli slogan più o meno corretti, i testimonial più o meno graditi, i dirigenti più o meno necessari – ma ci si guarda bene dall’entrare nel merito della materia. Horror vacui rispetto a un terreno scivoloso su cui non ci si può che far male, perché nel trattare quell’argomento non ci sono dogmi inappellabili ma solo confronti d’idee. E nel puro confronto delle idee non c’è mai un vincitore univoco, quel trionfatore invece essenziale per guadagnare consenso e per utilizzare con chiarissima ragionevolezza le risorse per la cultura. Quindi è giusto star zitti? Nient’affatto. E un motivo per tornare volentieri a smuovere la terra attorno alla sequoia secolare è dato dal recente

concerto della cantante Noemi al Cinema Teatro di Chiasso – il 18 ottobre scorso – per l’apertura della stagione di Chiasso Cultura. Una stagione che sin dal nome chiarisce la propria natura: pubblica e culturalmente orientata. Noemi è dunque cultura? Fino a pochi anni fa non ci sarebbe voluto molto a rispondere un no categorico, scortati dalle rigide ideologie del progresso contenutistico-formale in arte che mai avrebbero accettato la «canzonetta» – definizione che era già tutto un programma – come un esito artistico degno di attenzione e di onore. Poi il cantautorato colto, ma anche il punk, il grunge e l’hip hop, hanno rimescolato tutte le carte, sorretti anche da una Wirkungsgeschichte – la storia degli effetti che misura la portata dell’arte non solo con i superlativi della critica ma anche con il reale effetto delle opere sull’evolversi della società – che sin qui ha squalificato (o riqualificato al ribasso) buona parte di quella cultura che per decenni era stata eletta come l’unica possibile. E allora Noemi è cultura? È presto per dirlo: potrebbe diventare cultura in un meccanismo valutabile solo a posteriori, qualora riuscisse a incidere sulla realtà contemporanea in un modo maggiore di quanto non stia riuscendo a farlo sull’originalità della produzione musicale o sull’estensione dei limiti espressivi dell’arte che per sé si è scelta. Noemi è senz’altro una buona performer, come di ottimi attorno a noi ce ne sono davvero molti: l’artista, non ce lo possiamo nascondere, dovrebbe però essere qualcosa di più. È pur vero che un certo effetto-Noemi sugli indirizzi della vita musicale

La cantante italiana Noemi, recentemente a Chiasso.

italiana già lo si è potuto misurare, ma X Factor, il Festival di Sanremo e The Voice of Italy sono da annoverare più tra i fenomeni di costume che non tra quelli di cultura, in quanto la musica in essi è troppo spesso pretesto per qualcos’altro. Ed è, purtroppo, proprio solo quel qualcos’altro – moda, gossip, polemiche artefatte – che sta andando ad incidere sulla superficie del sentire comune. Il problema perciò dove sta? Non è di certo in Noemi, che fa onestamente il proprio buon mestiere, quanto piut-

tosto in chi l’ha chiamata a suonare, prendendosi l’incauta responsabilità di qualificarla come valore culturale conclamato. È sicuramente facile riempire un teatro con un prodotto ben confezionato e dal grande battage mediatico: non è però culturalmente meritorio, perché l’ente pubblico dovrebbe attenersi al proprio ruolo, ad offrire solo quell’autentica cultura di cui si erge alfiere. E in virtù dell’alta commerciabilità del prodotto dovrebbero invece essere gli imprenditori privati dello spettacolo ad assumersi il

(relativo) rischio d’invitare Noemi in Ticino, qualora lo si ritenesse davvero irrinunciabile. Fare cultura è infatti un altro mestiere. È continua interrogazione e rischio, dialogo costruttivo con il mondo che ci sta attorno (quello presente ma anche quello passato) e volontà di comprensione della realtà in cui si vive, quella che ci caratterizza. E proprio questa sembra essere la grande assente ingiustificata nella programmazione musicale del Cinema Teatro di Chiasso.

Cohen, di voce e di grazia Musica Il nuovo album dell’ottantenne Leonard Cohen lo conferma a tutt’oggi come uno dei più grandi incantatori

che la scena musicale internazionale possa offrire

Benedicta Froelich È probabile che, per alcuni critici musicali, il fatto di ritrovarsi, alla vigilia del 2015, alle prese con il nuovo album di un artista ormai «di altri tempi» come Leonard Cohen suoni quasi incredibile, o addirittura noioso. Eppure, il sentimento che sorge più spontaneo in chi scrive è piuttosto quello di una sincera gioia nel constatare come, all’interno del caotico universo della grande musica internazionale, la branca del cantautorato di classe possa ancora offrire una ristretta rosa di «mostri sacri» che, da cinquant’anni a questa parte, allietano le nostre esistenze. Un sentimento rafforzato dal fatto che, fin dal primo ascolto, questo nuovo Popular Problems (13mo album dell’artista) si rivela una vera gemma; l’ennesimo, piccolo capolavoro targato Cohen. La formula è quella di sempre: bastano pochi, semplici accordi, un coro femminile mai troppo invadente – e, soprattutto, la voce nuda e ormai consumata dagli anni del vecchio Leonard – per ricreare una volta di più quella magia quasi primordiale, dal sapore commovente e perfino straziante, che da decenni contraddistingue le ballate dell’artista canadese. Sarebbero sufficienti brani come la suggestiva traccia d’apertura Slow – e, soprattutto, l’ottima Samson in New Orleans, terza canzone dell’al-

Leonard Cohen sulla copertina del suo ultimo CD.

bum – per convincere anche il più prevenuto dei critici; infatti, la sacralità quasi da inno religioso che caratterizza questi pezzi si estende all’intera tracklist di Popular Problems, pervasa da una lenta, quasi dogmatica atmosfera di sospesa attesa, che presto avvolge l’ascoltatore e lo conduce lungo i meandri delle vicende semplici ma toccanti narrate dal cantante. In effetti, in questo album ritroviamo molti dei temi da sempre cari a Cohen, a partire dai chiari riferimenti biblici di Born in Chains fino alle ci-

niche disillusioni romantiche di Did I Ever Love You – che, con il suo ritornello dai ritmi quasi country e i cori frizzanti, costituisce un interessante cambiamento di registro musicale. Senza dimenticare Almost Like the Blues, le cui velate denunce di orrori mai troppo espliciti richiamano la migliore tradizione del repertorio più duro e provocatorio di Cohen («…e ho lasciato che il mio cuore si congelasse / così da tenere lontano il marciume»). Tuttavia, ciò che più colpisce in questo disco è la capacità di Leonard

di reinventarsi continuamente, pur senza mai allontanarsi dai propri definiti canoni formali; cosicché, seppur da sempre il suo songwriting si muova soltanto su determinati schemi musicali, e il suo cantato sia ormai impostato quasi esclusivamente su un rigoroso recitativo, in realtà la precisa connotazione stilistica della sua musica muta e si adatta continuamente all’intensità sorprendente delle interpretazioni, facendo sì che ogni brano coinvolga ed emozioni profondamente l’ascoltatore. Si nota così che, sotto molti punti di vista, quest’album sembra costituire un ideale seguito del precedente lavoro di Cohen, l’eccellente Old Ideas (2012): quasi l’artista intendesse realizzare una serie di incisioni tuttora «in progress», impostate su sonorità e tematiche affini. Un’idea che pare trovare conferma nelle evidenti somiglianze tra le copertine dei due album, e in diversi dei brani di Popular Problems – come, ad esempio, il cadenzato blues Nevermind, la cui sottile inquietudine richiama le atmosfere disilluse di Old Ideas; o A Street, una ballata assai rigorosa e dall’assoluta precisione ritmica, in cui l’elegante vocalità di Leonard si alterna ai delicati intrecci dei cori femminili in un contrasto a dir poco suggestivo. Certo, Popular Problems è un disco più breve del solito (appena trentasei minuti di musica in tutto), e la

voce di Cohen appare, forse per la prima volta, un po’ arrochita e provata; eppure, l’immancabile e quasi ipnotica fascinazione che questo menestrello è tuttora in grado di esercitare non viene mai meno, confermando come, a ottant’anni suonati, egli non abbia perso nulla della sua maestria cantautorale. E per quanto Cohen non sia mai stato dotato di un’estensione vocale particolarmente potente, il suo vero talento, ciò che realmente lo distingue, risiede altrove: non soltanto nei testi, eccelsi da un punto di vista lirico e poetico, ma perfino in quella sua coerenza stilistica quasi «estremista» – una caratteristica che potrebbe perfino farlo risultare musicalmente ripetitivo, ma che è intimamente legata a capacità interpretative tali da ergersi al di sopra di qualsiasi considerazione tecnica o virtuosistica. Lo testimonia anche la traccia di chiusura, You Got Me Singing, che risuona come una sorta di meditato inno alla vita: un segnale che dopotutto, nonostante la struggente malinconia di molti dei brani dell’album, dietro l’angolo c’è sempre qualcosa di positivo a cui guardare. E il fatto che a trasmetterci un simile messaggio di speranza sia proprio un compassato signore ottantenne, da oltre cinquant’anni sulla breccia, è senz’altro un dettaglio prezioso, nonché un indubbio motivo di conforto per molti di noi.


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Cultura e Spettacoli

I Lehman Brothers di Stefano Massini Teatro Luca Ronconi metterà in scena la Lehman Trilogy

Giovanni Fattorini Nato a Firenze nel 1975, Stefano Massini è un drammaturgo eclettico, conosciuto anche fuori d’Italia grazie principalmente a un testo del 2007 intitolato Donna non rieducabile – Memorandum teatrale su Anna Politkovskaja. Una sua opera di notevole lunghezza, Lehman Trilogy – in via di traduzione o già tradotta in quattordici lingue – è stata rappresentata lo scorso novembre al Théâtre du Rond-Point di Parigi (regia di Arnaud Meunier). Nel marzo di quest’anno l’ha pubblicata Einaudi, con una prefazione acutamente elogiativa di Luca Ronconi, che la metterà in scena al Piccolo Teatro di Milano (lo spettacolo debutterà il 29 gennaio 2015). La prima parte della trilogia si apre con l’immagine del ventitreenne Heyum Lehmann, «figlio di un mercante di bestiame / ebreo circonciso / con una sola valigia al fianco», che appena sbarcato sul molo numero 4 del porto di New York – dove verrà registrato come Henry Lehman, proveniente da Rimpar, Germania – annota l’ora e la data del suo arrivo in America: le 7.25 antimeridiane dell’11 settembre 1844. Lo ritroviamo subito dopo in un piccolo negozio che si affaccia su una strada di Montgomery, capitale dell’Alabama (sul vetro della porta d’ingresso c’è scritto: HENRY LEHMAN STOFFE ABITI), dove lo raggiungeranno due suoi fratelli: nel 1847 Emanuel (23 anni), nel ’50 Mayer, ventenne. Ha così inizio il lungo e frammentato

racconto delle vicende – soprattutto economico-finanziarie – di una dinastia che ha operato in numerosi settori del mercato (cotone, caffè, ferro, stoffe, carbone, ferrovie, petrolio, sigarette, alcolici, automobili, radio, cinema, aerei, televisori, armi nucleari, elettronica), e realizzando enormi profitti (all’inizio con la compravendita di materie prime, poi con la fondazione di una banca e l’emissione di titoli obbligazionari, poi quotandosi in Borsa, poi anche grazie a una Divisione Trading decisamente priva di scrupoli) ha attraversato centosessant’anni di storia americana e mondiale: un capitolo importante della storia del capitalismo, che nel 2008 – trentanove anni dopo la morte di Robert, l’ultimo dei Lehman alla guida della società – si conclude bruscamente con il crack bancario (la trilogia finisce con l’annuncio di bancarotta dato per telefono ai fantasmi dei Lehman) che ha provocato la crisi internazionale tuttora in atto: crisi che a giudizio di alcuni è più grave di quella seguita al crollo borsistico del ’29. Lehman Trilogy non appartiene al genere «teatro-documento». E non è un atto d’accusa contro il capitalismo. Massini ci mostra con chiarezza che il pensiero dominante dei Lehman (Henry muore relativamente giovane, a 33 anni) è l’accrescimento illimitato delle loro ricchezze (ciò vale soprattutto per Emanuel, per suo figlio Philip e il di lui figlio Robert, morti rispettivamente a 79, 85 e 77 anni). E tuttavia non afferma l’intrinseca malignità del capitale, non asserisce – come papa Francesco e i pri-

Incisione raffigurante il banchiere statunitense Mayer Lehman (1830-1897). (Keystone)

mi Padri della Chiesa – che «il denaro è lo sterco del diavolo», non rinnova l’interrogativo del brechtiano Macheath: «Che cos’è l’effrazione di una banca di fronte alla fondazione di una banca?». Semmai, fa progressivamente emergere – ma senza discorsi di denuncia, senza apostrofi accusatorie – l’insostenibilità

di un sistema che – come osserva Ronconi, e come pensano in molti – necessita urgentemente di una riforma. Le tre parti dell’opera non sono divise in «scene», o in «quadri», ma in «capitoli». L’elemento strutturalmente più rilevante è infatti la voce di un narratore che in versi liberi – quasi sempre

brevi o brevissimi – racconta una storia e costruisce in modo non psicologistico dei personaggi collocati in un contesto storico e socio-politico sommariamente delineato. Ha una funzione strutturante (ma non solo) anche la ricorrenza di alcuni motivi (i sogni-incubi di Emanuel, Philip e Bobbie, ad esempio, o il modificarsi nel tempo delle insegne LEHMAN BROTHERS): ricorrenza che fa pensare, analogicamente, alla musica, al pari dell’uso frequentissimo di due figure retoriche: l’enumerazione e l’anafora. Giustamente Luca Ronconi ha definito Lehman Trilogy un’opera «ibrida» (e proprio per questo, ai suoi occhi, particolarmente interessante). Oltre che raccontare, infatti, la voce del narratore chiarisce e storicizza, ed è spesso interrotta da dialoghi e monologhi dei personaggi (e da altro ancora). Bisogna aggiungere che non sono poche le influenze avvertibili in quest’opera complessa. Il capitolo dedicato alla Divisione Trading diretta da Lew Glucksman, ad esempio, mi sembra palesemente ispirato dall’autobiografia di Jordan Belfort. E non di rado (nell’uso del montaggio, nelle esortazioni rivolte a Bobbie, nello stile a tratti epicizzante del narratore) mi pare evidente la suggestione esercitata da un grande romanzo di Alfred Döblin: Berlin Alexanderplatz. Lehman Trilogy è un’opera costruita con tale cura e abilità che sono quasi ansioso di vederla in scena. Bibliografia

Lehman Trilogy di Stefano Massini, Einaudi, pp. 332, euro 17,50. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli Rubriche

In fin della fiera di Bruno Gambarotta Giallisti di razza, venite a Torino È del 1951, ma pubblicato in Italia solo nel 1967, il saggio di Carlo Dionisotti Geografia e storia della letteratura italiana che ha ribaltato la prospettiva degli studi. Questo grande italianista, nato a Crescentino in provincia di Vercelli, dovette emigrare in Gran Bretagna per avere una cattedra. Fino ad allora la storia della letteratura italiana era stata studiata sotto un profilo unitario sulla scia del lavoro di Francesco De Sanctis, un altro che per insegnare aveva dovuto emigrare, nel suo caso al Politecnico di Zurigo. L’Italia si stava appena unificando, perciò lo sforzo del De Sanctis fu lodevolissimo. L’assunto di partenza di Dionisotti è semplice e rivoluzionario: si fa presto a dire Italia, il nostro è il paese dei mille campanili e delle città che, per un periodo più o meno lungo, sono state capitali. Per citare solo le maggiori: Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Parma, Firenze, Lucca, Roma, Napoli, Palermo, Bari, Cagliari. Ognuna di queste capitali ha una sua specifica storia politica, sociale e letteraria e solo collocandoli

in questo contesto si possono studiare correttamente gli autori e le loro opere. Questa impostazione ha permeato i lavori successivi, basti pensare all’opera collettiva in molti volumi, coordinata da Alberto Asor Rosa, Letteratura italiana, pubblicata dall’editore Einaudi. Dionisotti era un lettore inesauribile, capace di affrontare autori impervi come Vincenzo Gioberti, ma probabilmente non ha mai avuto il tempo e l’agio per leggere anche i romanzi gialli che si pubblicavano in Italia nei decenni in cui era ancora in vita. Peccato perché vi avrebbe trovato un’ulteriore conferma alle sue tesi. Sono nate le varie «scuole» di giallisti italiani: milanese, bolognese, romana, veneta, torinese, genovese, napoletana, pugliese, siciliana, sarda (Marcello Fois). Per non citare quella parmense (Valerio Varesi), e quella appenninica (Loriano Machiavelli). Possiamo collocare a metà degli anni 70 la trasformazione del giallo da elegante e asettico passatempo per un lettore in gara con l’autore per arrivare a scoprire il nome dell’assassino prima

spiegare la composizione di un consiglio di amministrazione o una nomina ai vertici delle istituzioni. Torino è la città ideale per covare rancori, frustrazioni, desideri di rivalsa e farli durare interi decenni. È la città dei tanti circoli esclusivi; dove, anche per diventare soci di una bocciofila, bisogna superare una votazione a scrutinio segreto. È la città dove se inviti qualcuno a cena e lo porti in un ristorante lui ti domanda stupito se per casa hai i muratori. È la città dove conta il non detto, dove le notizie taciute sono altrettanto o forse più importanti di quelle fatte circolare. Dove se un uomo di potere, temuto e rispettato da tutti, viene arrestato per aver commesso un’azione infame, nessuno si mostra meravigliato perché bisogna lasciar credere che «noi lo sapevamo da sempre che lui aveva quel vizietto». Per un altro verso a Torino il deviante può farsi gli affari suoi, purché li faccia di nascosto; così, se scoppia lo scandalo, i vicini, interpellati dai cronisti, potranno sembrare sinceri quando affermeranno: «chi l’avrebbe

detto, sembrava tanto una brava persona, tutte le mattine faceva la raccolta differenziata». Torino è la città dove tre persone estranee alla politica da più di venti anni si consultano ad ogni tornata elettorale per decidere chi sarà il prossimo sindaco. Se un giornalista, in vena di scoop, rivela che «il re è nudo», da quel momento diventa un appestato da non invitare più da nessuna parte, da evitare ad ogni costo. Torino premia la fedeltà. Qui un uomo sposato non ha un’amante ma caso mai si è formato una seconda famiglia; lo scopri dal necrologio: prima lo ricordano la moglie e i figli e poi, staccata da tre asterischi la frase: «Luciana piange il suo Giangi». Il maggiore elogio che si può fare di un torinese: è uno che sa stare al proprio posto. Cioè non scalpita, non cerca di uscire dalla condizione che la sorte gli ha assegnato. La maggiore preoccupazione per un torinese vecchio stampo è quella di fare bella figura e di non finire sul giornale nelle pagine della cronaca. Cosa c’è di meglio di Torino per un giallista di razza?

di tutti. Ecco che questo elemento per noi diventa una luce per comprendere l’oggi. La stretta correlazione tra colpa dell’uomo e malattia, addirittura epidemia, può essere accettabile solo se si pensa che questo mondo sia governato da leggi meccaniche. Tu compirai tale malefatta, anche se non ne avevi l’intenzione, per questo meriterai di essere punito e con te la tua intera famiglia o città. Si pensi a un’altra peste, quella mandata sempre da Apollo sui soldati achei, perché Agamennone aveva ridotto in schiavitù Criseide, la figlia di un sacerdote del dio. Anche da qui deriveranno morti e dolori, come nell’Edipo re che si conclude con il suicidio di Giocasta, moglie e madre di Edipo, e con l’autoaccecamento del re (dice ai suoi occhi: «non vedrete i mali che ha sofferto, né quelli che ha fatto soffrire»). Il vero autore del male però non è Edipo: «fu Apollo, amici, fu Apollo a portare a compimento il mio destino di dolore» – il

greco lo dice un destino «cattivo cattivo». In questa dimensione, dove gli dei sono esecutori di un capriccioso fato cui nessuno può sfuggire, allora è comprensibile che la malattia venga letta come segnale di un dio che è alterato o offeso: anche se non sapete perché, vi punisco tutti insieme, così poi vi impegnerete a rimettere in ordine la pedina impazzita, quella che sperava di poter fare di testa sua, nel rompicapo della vita. Nella peste raccontata da Alessandro Manzoni accade qualcosa di analogo, perché l’autore dei Promessi Sposi ha un’idea della Provvidenza non troppo distinta da quella greca, pensa infatti che già su questa terra i buoni siano premiati e i cattivi puniti. Muore di peste don Rodrigo, insieme al traditore «bravo» Griso, ne guarisce Renzo, ne escono infine tutti i buoni, purificati da un «provvidenziale», appunto, acquazzone. Il meccanismo colpa-malattia si è mantenuto ben lubrificato nei secoli. E

anche oggi, noi che a parole siamo aiutati dalla scienza, che è anche consapevolezza, anche oggi non rinunciamo a rintracciare colpe per ogni dove. Moltissimi (sì, moltissimi, non è cosa di donne solamente) facendo erroneo riferimento alle terapie naturali, danno la colpa a chi si ammala di essersi lasciato avvelenare dalle medicine tradizionali, dalle carni (se non vegani o vegetariani), dal glutammato del dado per il brodo, dalla tinta per i capelli. E non ultime sarebbero le cause psicologiche, se ti sarai ammalato sarà anche perché chissà che cosa covi dentro, tra rancori e inibizioni. Non è bastato un secolo di psicanalisi per togliere il malato dall’imbarazzante ruolo del colpevole. E ora con l’epidemia di Ebola: non sarà colpa delle ditte farmaceutiche? Dell’effetto serra? Ozono? Fukushima? Non lo sappiamo, per ora. Ma intanto cerchiamo di aiutare quelli che di certo sono senza colpa, i malati.

clowneria, a un corso sulla segnaletica dei sentieri dell’isola d’Elba, a una rassegna di auto e di moto d’epoca, a un corso professionale digital e social, a una sfida per la raccolta di carta e cartone, a una giornata di formazione gratuita sulle sindromi ossessivo-compulsive, a un seminario internazionale sul virus ebola, a una tavola rotonda sul congelamento degli ovuli. Un certo Giorgio mi ha contattato per illustrarmi nuove opportunità di guadagno per arrivare a fine mese. Sono stato informato da una tale Vera Fortuna che ci sono delle «rivelazioni estremamente importanti» per me a proposito di felicità e di benessere; sono stato coinvolto in un «Rapporto ombra» sulla parità di genere, in uno spettacolo sui giochi di carta illustrati, in una manifestazione di sedicenti stilisti intitolata «Come ti rivesto il marito»… La verità è che i pendagli profumati in auto (2) mi danno la nausea, non ho mai praticato sport di gruppo immerso nella natura (4½ di stima), mi trovo abbastanza bene con la mia compagnia assicu-

rativa (4+), non aspiro ad arricchirmi sfidando la fortuna (2, di solito ti frega), mi tengo serenamente le mie rughe e non ho mai pensato di ricorrere alla chirurgia estetica (3–, di solito ti frega anche quella), l’olio d’oliva mi viene fornito da un produttore pugliese (5) che non ho intenzione di sostituire, mi piace mangiare ma evito le sagre del cibo (2), memore di un bellissimo e angosciante racconto di David Foster Wallace (6–) sulla Fiera dell’Aragosta nel Maine. Non ho mai manifestato pubblico interesse sulle tecniche relative alla fertilità femminile, non credo di soffrire di malattie psichiatriche, non ho la passione dei giochi di carta e non ho un marito da rivestire, eccetera eccetera. Voglio dire che centinaia di messaggi (certamente rispettabili in sé) sono per me autentica spazzatura che mi viene rovesciata addosso quotidianamente, intralciando ogni momento della mia giornata, impedendomi spesso di individuare le comunicazioni importanti e magari urgenti. È questo, purtroppo,

il vero guaio della rete, bisogna sempre inoltrarsi nel fantastico mondo del web dotati di una specie di scimitarra che faccia strada tagliando gli sterpi, le gramigne e i rovi spinosi (travestiti da messaggi o da altro), come capitò al principe della Bella addormentata nel bosco quando decise di andare a baciare la sua amata per svegliarla dal lungo sonno. Da eroe di una fiaba, lui l’ha fatto una volta con successo, a noi tocca ripetere l’operazione di falciatura ogni giorno senza avere nessuna principessa da baciare e con il più modesto scopo di liberare lo schermo per raggiungere quel poco che a occhio ci interessa davvero. La tecnologia risparmia molte faticose incombenze quotidiane ma ha anche zavorrato le nostre giornate con tonnellate di letame da spazzare in continuazione pena il soffocamento da paralisi. Siamo diventati dei netturbini seriali del nostro orto informatico. Anche l’inquinamento digitale richiederebbe provvedimenti seri, come quello atmosferico e quello acustico.

dell’ultima pagina a strumento di conoscenza della variegata e controversa realtà italiana. Nel frattempo gli scrittori italiani che praticavano una narrativa senza aggettivi, recensita e premiata, si inoltravano sul terreno dell’introspezione, dello sperimentalismo, dell’analisi del malessere esistenziale dell’individuo e della coppia, con esiti talvolta ragguardevoli. Lasciando in tal modo scoperta la sterminata prateria della realtà italiana, con i suoi misteri irrisolti e che mai, almeno per via giudiziaria, lo saranno. Ad occuparla saranno i nuovi giallisti. La città di Torino ha molte doti per entrare a far parte della categoria delle capitali del giallo italiano e le ha in più d’una occasione dimostrate. La società torinese è statica e strutturata, la borghesia è fedele a riti e tradizioni che valicano le generazioni. I miei nipoti hanno studiato in una scuola elementare frequentata dalle loro madri, da una nonna e da una bisnonna. Torino è la città dove le amicizie di una vita si saldano sui banchi del liceo. La fotografia della classe scolastica può talvolta

Postille filosofiche di Maria Bettetini Malati senza colpa La peste ammorba Tebe, il re Edipo ha mandato il cognato Creonte a interrogare Apollo al santuario di Delfi. Il responso è immediato: «Apollo sovrano ci ordina chiaramente di scacciare il contagio che è stato nutrito in questa terra», «cacciare il colpevole o pagare morte con morte». Apollo chiede che sia cacciato l’assassino del re precedente, Laio. Non è prevista la pena di morte, ma l’esilio, pena forse peggiore per un cittadino greco, che fuori dalla sua polis perdeva ogni identità. Edipo ordina la caccia al colpevole, reo di regicidio e delle sue conseguenze, la peste che rende Tebe «nave troppo squassata dalle onde», città che «si estingue nei calici che racchiudono i frutti della terra, si estingue nelle mandrie di buoi e nei parti sterili delle donne». Un’intera città-stato è contagiata per l’impurità di uno solo, un assassino ancora non reo confesso. Edipo chiede la collaborazione di tutti: una ricompensa

e la gratitudine del re per chi denuncia il colpevole. Costui dallo stesso Edipo è maledetto, «misero, miserabilmente consumi una vita di sventura». Poi l’Edipo re di Sofocle prosegue secondo la nota e terribile trama: il veggente Tiresia non può fare a meno di vedere che è proprio Edipo, figlio inconsapevole di Laio, a esserne assassino e patricida. Alle parole di Tiresia si aggiungono i riscontri di altri testimoni, Edipo è proprio il bambino che fu abbandonato sul monte Citerone perché di lui Apollo aveva predetto che avrebbe ucciso il padre. Cresciuto alla corte di Corinto, credendosi figlio del re locale, e conosciuta da Apollo la sua sorte, Edipo fuggì da Corinto, pensando di allontanarsi dal padre, che invece trovò sulla strada e uccise per una questione di precedenze. Apollo sembra scherzare crudelmente con il genere umano, nessuno può sfuggire al suo destino, nemmeno il re, nemmeno con l’impegno

Voti d’aria di Paolo Di Stefano Siamo spazzini digitali La premessa è che non sto esagerando. Al netto delle decine di presentazioni di libri, di inaugurazioni di mostre e di convegni editoriali, letterari, paraletterari e culturali in genere; al netto delle offerte di viaggi transoceanici a prezzi stracciati, di messaggi con offerte di amicizia e incontri erotici e con suggerimenti medico-naturalistici per migliorare ogni tipo di prestazione, negli ultimi tre giorni la mia posta elettronica ha generosamente accolto di tutto. Un ricco repertorio di iniziative che darebbe il senso gioioso della variegata e instancabile attività umana, se la sua quantità, insistenza e invadenza non fosse intollerabile e a tratti angosciante. Dunque. Sono stato sollecitato al trattamento dimagrante chiamato «pallone gastrico vegetale», invitato a degustare dell’olio extra vergine e a fare tre diverse nuove assicurazioni automobilistiche che mi permetterebbero di risparmiare dal 30 al 50 per cento; sono stato convocato da un’azienda a ritirare 500 euro alla settimana per un lavoro

che non ho mai fatto (e non farò), sono stato chiamato ad aderire a un gruppo di camminatori piemontesi; mi è stato caldamente consigliato di calcolare la mia pensione per cogliere un’occasione di copertura straordinaria, di guardarmi allo specchio per capire se non sia il caso di sperimentare l’ultima versione di botulino e di mini-liposuzione; mi è stato suggerito l’acquisto di «comode ed eleganti» scarpe da ginnastica e di un nuovo profumatore per auto a cialde riutilizzabili, mi è stato segnalato un formidabile equipaggiamento per il «freeride» e il «carving»; mi è stato annunciato che sono fruitore di un «finanziamento flessibile» e che sono il fortunato vincitore di 250 mila euro nell’ambito della lotteria della Fondazione Bill Gates. Inoltre, sono stato invitato in un suggestivo centro massaggi degli Emirati Arabi, a una festa dell’olio e della castagna, a un festival nazionale del risotto e dell’agnolotto piemontese, a due saloni del gusto, a un evento sul colore del vino, a una fiera zootecnica, a una lezione di



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Idee e acquisti per la settimana

shopping Sciare che passione Attualità Igor Biolzi, responsabile dello SportXX di S. Antonino, ci parla delle novità più interessanti

dell’ormai imminente stagione invernale

Signor Biolzi, da SportXX è tutto pronto per la nuova stagione invernale?

Assolutamente sì. Da questa settimana il nostro negozio ha completato il suo ampio assortimento dedicato allo sport invernale più amato. Siamo pronti ad accogliere la clientela con la nostra consulenza professionale e competente. Quali sono le novità più importanti di quest’anno?

Per quanto riguarda l’abbigliamento da donna e uomo, gli sciatori più esigenti troveranno il marchio The North Face, uno dei nomi più prestigiosi nell’ambito dell’abbigliamento tecnico. A coloro che sono particolarmente sensibili al freddo, consigliamo invece i capi

del marchio Columbia che, grazie alla membrana riscaldante Omni Heat Thermal Reflective, assicurano un’ottima protezione dal freddo con un comfort straordinario. Gli snowboardisti potranno contare sui nuovi marchi d’abbigliamento Zimtstern, Roxy e Burton, brand che si caratterizzano per design moderno, comodità e protezione ottimale. Non manca ovviamente l’abbigliamento funzionale per tutta la famiglia, grazie alla nostra marca propria Trevolution, i capi tecnici performanti Odlo, nonché l’abbigliamento 100% naturale in lana merino firmato Icebreaker, leader in questo settore. Ci tengo ancora a segnalare le calze ergonomiche «Lenz heat sock 1.0» con elemento riscaldante integrato. Passando agli sci, una novità molto interessante è costituita dagli sci da donna Head Absolut Joy con tecnologia «Era 3.0» e soprattutto Graphene. Graphene, scoperto nel 2004, è il materiale più forte e leggero al mondo

grazie ad una tecnologia bidimensionale di atomi di carbonio. Gli sci realizzati con questo materiale, pur essendo leggerissimi, risultano essere perfettamente equilibrati e facilmen-

te controllabili. Tutte le tipologie di sciatori potranno inoltre trovare un vasto assortimento di sci All Mountain, Performance e Freestyle dei marchi leader Salomon, Rossignol, K2, Atomic e Head. Infine, consiglio ancora i nuovi scarponi Atomic Hawx 90 che, grazie al flex moderato, alla calzata precisa e alla particolare sensibilità, rappresentano lo scarpone ideale per principianti e sciatori di medio livello. E per quanto riguarda la sicurezza?

Igor Biolzi dello SportXX di S. Antonino. (Giovanni Barberis)

Il nuovo reparto dedicato alla sicurezza offre caschi, maschere e protezioni dorsali per ogni esigenza. Il nuovo casco con visiera integrata Uvex 300 visor protegge ottimamente testa e occhi grazie ad un guscio robusto ben areato e ad una visiera resistente ai graffi, antiappannante e antiriflesso. Il marchio di tendenza Evoc include protezioni di qualità sia dorsali che per il coccige per tutta la famiglia. Gli amanti delle racchette, dal canto loro, troveranno accessori indispensabili

quali sonde, pale, bastoni e sistemi di ricerca persone. SportXX offre pure un apprezzato servizio di noleggio sci e snowboard…

Siamo perfettamente equipaggiati con materiali di ottima qualità a prezzi molto vantaggiosi per un divertimento sulla neve in piena sicurezza. Offriamo sci, scarponi e snowboard delle marche top per tutta la stagione oppure anche solo per alcuni giorni. Tutti i prodotti sono ben preparati e soddisfano i più elevati standard di sicurezza e igiene. Le prenotazioni si possono inoltrare anche al sito www.sportxx.ch/rental. Inoltre, i membri di Famigros possono beneficiare di uno sconto del 10% sul noleggio stagionale. Infine, ricordo alla nostra clientela il nostro servizio sci e snowboard affinché possano preparare al meglio tutta l’attrezzatura. Su quest’ultimo fino al 10 novembre si potrà beneficiare di uno sconto del 30%.


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Idee e acquisti per la settimana

Crisantemi: i fiori d’oro

Attualità Oltre la festa di Ognissanti. Questa settimana trovate una vasta scelta di crisantemi al reparto fiori

Marka

del vostro supermercato Migros

ta intitolata per l’appunto «Giorno dei crisantemi» (Kiku no Sekku), viene celebrata il nono giorno del nono mese, il 9 settembre. In Corea ed in Cina viene utilizzato come le nostre rose: ampi fasci di crisantemi vengono regalati per festeggiare compleanni, nascite, ricorrenze e matrimoni. Volete portare un po’ di oriente a casa vostra e contemporaneamente avere ricche fioriere per tutto l’autunno? Vi consiglio di acquistare vasetti di media misura di crisantemi, dai colori più accesi, come il giallo oro, il rosso, l’arancio brillante da alternarli con altri di color bianco e piccoli tralci di edera a foglia piccola, magari screziata. Otterrete subito una bella composizione, in grado di durare fino ai primi freddi; le piantine sfiorite possono venir trapiantate in piena terra, magari accanto ad una siepe, la primavera successiva ed il prossimo autunno avrete splendide fioriture grazie a queste piante molto facili da coltivare che non hanno bisogno di cure. / Anita Negretti

Specialità per Ognissanti 1

Piccoli pasticceri cercansi

Loredana Mutta

2

Gli oss da mord sono i dolcetti tipici che si consumano abitualmente in occasione della ricorrenza dedicata alla commemorazione dei defunti. Sono prodotti utilizzando pochi ingredienti, quali farina, albume, zucchero, nocciole o mandorle. Per ciò che riguarda la storia del loro nome, gli esperti del Centro di Dialettologia ed Etnografia di Bellinzona ci spiegano che in origine erano chiamati òss da mòrt per la loro durezza

e il colore simile a quello delle ossa. Un tempo gli òss da mòrt si acquistavano alle bancarelle delle fiere paesane del Cantone, dove erano presenti assieme agli stracaganass, un dolce simile il cui nome in italiano significa «stanca-ganasce», perché per la loro durezza bisognava masticarli a lungo. Col passare del tempo venne a cadere il legame con la ricorrenza dei morti e per la vicinanza di pronuncia diventano oss da mord – ossa

1. Oss da Mord duri Savaris 150 g Fr. 2.– 2. Oss da Mord morbidi Poncini 350 g Fr. 9.50 Pane dei morti artigianale* 110 g Fr. 2.40

Natale è sinonimo di molte golose tentazioni, tra cui naturalmente i tradizionali biscotti preparati in casa. I pasticceri in erba possono già da questa settimana entrare nella magica atmosfera delle festività grazie a due giornate dedicate alla preparazione di biscotti. Infatti, giovedì

30 e venerdì 31 ottobre, il Centro S. Antonino organizza un evento rivolto ai bambini tra i 6 e 14 anni, durante il quale si potranno preparare profumati dolcetti natalizi partendo dalle deliziose paste fresche pronte della Jowa. I pasticceri in erba saranno seguiti per tutto il tempo da personale qualificato. Per partecipare è sufficiente presentarsi allo stand e annunciarsi, negli orari 9.30-11.30 e 14.0018.00. Vi aspettiamo numerosi!

*In vendita presso i banchi pasticceria Migros

da mordere – rifacendosi appunto alla loro consistenza compatta. Sugli scaffali dei reparti pasticceria Migros trovate due varianti di oss da mord di produzione artigianale ticinese: quelli morbidi della Panetteria Poncini di Maggia; nonché la variante più classica prodotta dalla Pasticceria Savaris di Cugnasco. Dal canto loro i banchi pasticceria artigianale fresca propongono ancora il pane dei morti.

Keystone

Belli, anzi bellissimi, con colori, sfumature e grandezze dei boccioli sempre diversi, i crisantemi, piante erbacee della famiglia delle Compositae, sbocciano – come le margherite - quando le altre essenze vanno a riposo. Oggigiorno esistono decine di varietà di crisantemo. Il loro nome in greco significa «fiore d’oro», anche se in Europa questi fiori assumono un significato triste: infatti sono associati alla celebrazione dei defunti, che coincide con la loro fioritura. In altre parti del mondo invece, il significato si capovolge: per gli indù il crisantemo significa «amore oltre la morte», quindi immortalità e nuova vita piena di gioia. Il Giappone lo ha adottato come fiore nazionale, tanto è vero che vi è addirittura una festa molto importante legata alla fioritura del crisantemo. Ogni anno infatti, l’Imperatore apre al pubblico i giardini della Reggia, presentando le più recenti varietà a tutti gli invitati. Questa particolare giorna-

Il 30 e 31 ottobre al Centro S. Antonino tutti i bambini potranno preparare i biscotti di Natale.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 27 ottobre 2014 ¶ N. 44

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Idee e acquisti per la settimana

Bontà da brivido

Attualità In occasione di Halloween, deliziose produzioni artigianali di pasticceria ispirate

alla festa più paurosa dell’anno La notte del 31 ottobre si celebra la festa di Halloween! Lo sapevate che questa festa di origini celtiche si celebra da più di 2000 anni? All’epoca i druidi usavano accendere dei grandi falò per scacciare gli spiriti maligni. Col tempo i falò furono sostituiti da zucche intagliate e illuminate. Negli Stati Uniti la tradizione vuole che la notte di Halloween i bambini si travestano in modo terrificante e vadano di abitazione in abitazione urlando «dolcetto o scherzetto», facendosi poi regalare caramelle e cioccolatini per evitare spiacevoli scherzi ai danni dei padroni di casa. Quale modo migliore per entrare nell’atmosfera di questa usanza se non quello di assaporare alcune specialità simpaticamente decorate, appositamente create per l’occasione dalla Pasticceria Migros? Lasciatevi prendere per la gola dalla torta di Halloween per 6 persone con pan di spagna e deliziosa crema al burro; dalla terrificante tarteletta al gusto di mirtilli e decorata con simpatiche zucchette di marzapane; oppure ancora dalla morbida fetta di torta «abitata» da Dracula, mummie o Frankenstein. Queste bontà sono in vendita solamente il 30 e 31 ottobre presso i Ristoranti Migros, i De Gustibus e i banchi pasticceria artigianale dei supermercati.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 27 ottobre 2014 ¶ N. 44

Idee e acquisti per la settimana

Non è solo il colore a far la differenza: Blond, la nuova creazione di cioccolato Frey, sorprende grazie alla consistenza cremosa e fondente. Frey Blond 100g, Fr. 2.10 20 x Punti Cumulus dal 28 ottobre al 10 novembre.

L’ESPERTO LETTORE Beat Schneckenburger (64 anni), pensionato

Gusto: Blond di Frey mi piace, benché io sia un appassionato del cioccolato nero fondente. Dolcezza: al punto giusto. Giudizio complessivo: buono. L’aroma di caramello è delicato. Consistenza: perfetta.

Arriva la bionda Frey lancia un nuovo gusto con una cioccolata dal colore insolito: Blond Il classico trio di cioccolato – al latte, nero e bianco – si arricchisce ora di un quarto colore: il biondo, che va ad aggiungersi all’assortimento di tavolette di cioccolata Frey. Blond è la scelta giusta per tutti coloro che ama-

no una delicata nota di caramello. Viene prodotto su una base di cioccolato bianco, ossia composta di un’alta percentuale di burro di cacao e senza polvere di cacao. Il preparato viene poi insaporito con dello zuc-

chero caramellato. Aromi di biscotto e vaniglia completano la nuova creazione. Una volta in bocca, questo biondo cioccolato si amalgama al palato con tutta la sua cremosa consistenza. / DH

L’Industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra i quali anche la cioccolata di Frey.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 27 ottobre 2014 ¶ N. 44

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Quando si tratta di pulizia, ci si aspetta un risultato sfavillante, anche per ciò che riguarda la sostenibilità ambientale. Migros Plus offre la soluzione adeguata, e il nome è un programma: i detergenti e detersivi di Migros Plus contengono sostanze naturali rinnovabili e sono

prevalentemente prodotti in Svizzera. Che si tratti di detergente per stoviglie a mano, detergente per bagno oppure detersivo: tutti gli articoli della linea sono biodegradabili almeno al 97 percento, alcuni addirittura al 100. La loro buona tollerabilità cutanea è stata testata der-

matologicamente. Anche la confezione è rispettosa dei parametri ecologici, dal momento che Migros Plus punta sulle confezioni ricaricabili. Inoltre il flacone del detergente per il bagno è prodotto al 100% con PET riciclato. Un scelta azzeccata per amore della natura.

L’industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra i quali anche i detergenti e detersivi Migros Plus.


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2.80 invece di 3.50 Les Compotes P.es Mela Lampone 4x100g

Nuovo 5.50 invece di 6.90 Les Compotes Pocket P.es Pocket Mela con o senza zuccheri aggiunti 8x100g

Nuovo 3.00 invece di 3.80 Les Desserts P.es Fragola Vellutata 4x97g

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 27 ottobre 2014 ¶ N. 44

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Idee e acquisti per la settimana

Pulizia e cura

Handymatic Supreme prodotto trattante 250 ml Fr. 6.90

Handymatic prodotto trattante elimina efficacemente calcare e residui di grasso nella lavastoviglie, assicura un’igiene impeccabile e migliora l’efficacia dell’elettrodomestico. Anche parti difficilmente raggiungibili restano ben pulite. L’utilizzo è semplice: togliere la pellicola protettiva dal tappo e inserire la bottiglia a testa in giù nel cestello delle posate. Avviare la lavastoviglie vuota selezionando un programma intensivo di 65 gradi. Per una cura efficace, con un utilizzo regolare della lavastoviglie, si consiglia di utilizzare il prodotto una volta al mese.

L’industria Migros produce numerosi prodotti Migros molto apprezzati, tra cui anche i prodotti trattanti per lavastoviglie. Annuncio pubblicitario

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Diam‘s Voile Galbé per una tinta unica e naturale, trasparente e resistente, valorizza le gambe

Opaque Velouté Collant classico opaco, per tutti i giorni

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7.70 Carpaccio di cervo con rucola e Parmigiano Reggiano prodotto in filiale con carne dalla Nuova Zelanda, imballato, per 100 g

3.10 invece di 4.20 Vitello tonnato prodotto in Ticino, in vaschetta, per 100 g

20% 3.20 invece di 4.10 Fettine fegato di vitello Svizzera, imballate, per 100 g

25% 3.25 invece di 4.35 Salame del Mendrisiotto prodotto in Ticino, pezzo ca. 400 g, per 100 g

30% 4.80 invece di 6.90

50% 9.– invece di 18.– Carne macinata di manzo Svizzera/Germania, conf. da 2x500 g

Cordon-bleu di vitello prodotto in filiale con carne Svizzera, al banco a servizio, per 100 g

In vendita nei maggiori supermercati di Migros Ticino. OFFERTE VALIDE DAL 28.10 AL 3.11.2014, FINO AD ESAURIMENTO DELLO STOCK.


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