Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXVII 20 ottobre 2014
Azione 43
Società e Territorio Ora anche il Ticino ha un’antenna per la tutela della salute sessuale
Ambiente e Benessere Statistiche alla mano, i meteorologi ci parlano del grande assente di quest’estate, ovvero l’Anticiclone delle Azzorre
Politica e Economia Il Nobel per la pace a due simboli dei diritti dei bambini
Cultura e Spettacoli Le città magiche di Ernesto Tavernari alla Galleria la Colomba di Viganello
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CdT - Maffi
De Gregori, tra pop e popolare
di Alessandro Zanoli pagina 39
Se si comunica ma non si ascolta di Peter Schiesser Non ricordo dove l’ho letto, ultimamente, nel mare di giornali e informazioni che inonda le giornate, ma è un’affermazione che fa riflettere: mai come oggi si comunica così tanto e si ascolta così poco. Una frase che illustra la promessa e l’inganno della moderna tecnologia, il bisogno, l’ansia di esprimersi, di sfuggire una solitudine interiore, e contemporaneamente l’incapacità di entrare in una comunicazione vera, che è arricchimento reciproco, comprensione e consapevolezza di sé e dell’altro, messa in discussione di sé e delle proprie convinzioni o supposizioni. Evitiamo rimpianti, di quando c’era tempo per riflettere, ascoltare, capire – perché è inutile mitizzare un passato che forse era migliore solo per il bisogno di crederlo tale, e perché se l’umanità ha materializzato il bisogno di una comunicazione di questo tipo una ragione evolutiva ci dev’essere, altrimenti non sarebbe stata sviluppata. Ma può essere utile provare a riflettere su talune conseguenze che la dinamica espressa sopra – facilità di comunicare e incapacità di ascoltare – può avere sulle nostre vite. In particolare in un momen-
to storico in cui vengono meno certezze collettive e l’individuo si ritrova disorientato. Partiamo da qui: la società occidentale moderna si caratterizza per un accentuato individualismo, il benessere dell’uno prevale sui bisogni della collettività o dell’altro; eppure la realtà ci mostra in innumerevoli esempi che l’individuo spesso non ha la maturità, la saggezza, la forza di far fronte da solo alle incertezze dell’odierno mondo instabile, si ritrova quindi a disagio ad affrontare la vita e le proprie ansie. Come ordina la sua realtà? Come la interpreta, che senso le dà? Quale stabilità riesce a costruire in un mondo in cui i valori di ieri si sono rivelati fallaci, ingannevoli, ipocriti, o calpestati, superati, inutili? Sono interrogativi seri, che consapevolmente o meno influenzano il nostro stato mentale e psicofisoco, giorno per giorno. Laddove l’individuo non trova risposte confortanti, che lo aiutino a trovare il suo posto nel mondo, si può aprire la via ad uno scompenso psichico, ad un rovesciamento di valori, ad una ricerca di senso che travalica ogni schema conosciuto. E se intimamente non si sente compreso, se le sue parole cadono nel vuoto, darà volentieri ascolto a qualcosa o a qualcuno che promette «senso di vita». È il
meccanismo che rende affascinanti le sette religiose e rende facile un «lavaggio del cervello», e oggi, a ben guardare, rende attraente pure la guerra santa islamica per giovani occidentali attratti dalla promessa di purezza, di senso e di appartenenza del califfato islamico. Che cosa c’entra tutto ciò con la facilità di comunicare e l’incapacità di ascoltare? C’entra, nel senso che aumentando la rapidità della comunicazione (peggio ancora se ansiogena) viene automaticamente meno la capacità di confrontarsi criticamente con ciò che esprimiamo e con ciò che sentiamo (comprendendo in questo verbo anche l’ascolto emotivo dell’altro e di sé). E se la vita quotidiana viene dettata costantemente da questo tipo di «comunicazione» a senso unico, rapida, di «pancia», si impara a muoversi fra una bolla emotiva e l’altra escludendo sempre più la fase riflessiva, che dovrebbe invece precedere, accompagnare e poi concludere la comunicazione. Certo, nel mondo della «comunicazione globale» non tutti finiremo in una setta religiosa, o a guerreggiare in Siria e in Iraq, ma l’abitudine di comunicare a tutti i costi senza bisogno di ascoltare l’altro e le ragioni più profonde di noi stessi non crea le condizioni per una società che possa offrire rimedio al vuoto di valori.
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Attualità Migros
Per il bene dei lavoratori Generazione M Nella provincia spagnola
di Almería, l’applicazione dell’iniziativa GRASP permette di proteggere meglio i lavoratori agricoli Andreas Dürrenberger In autunno, quando da noi il termometro comincia a scendere, l’offerta di verdure svizzere si fa più rara. Per rispondere alle aspettative di numerosi consumatori che non vogliono rinunciare ai pomodori o ai cetrioli nemmeno nella stagione più fredda, Migros propone verdure raccolte nel sud della Spagna, principalmente nella provincia di Almería. L’Andalusia gode infatti di un clima dolce, ideale per la coltivazione di verdura. Una delle coltivazioni più praticate è quella dei cetrioli. La loro crescita avviene in serra, al riparo quindi dalle incursioni dei parassiti. Ciò permette di ridurre il numero di pesticidi utilizzati. Vengono utilizzati anche insetti anta-
L’iniziativa GRASP in breve L’iniziativa GRASP («Global Gap Risk Assessment on Social Practice») è nata nel 2000. Essa estende lo standard globale di buona pratica agricola («Global Good Agricultural Practices», o GAP). Il rispetto delle disposizioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro nella produzione agricola è al centro delle preoccupazioni di questa iniziativa. Oltre alla Migros, altri dettaglianti europei hanno risposto a questa iniziativa su base volontaria.
gonisti, come gli acari. Questo consente una riduzione dell’uso degli insetticidi dell’80 per cento. Grazie alle temperature miti durante l’inverno l’Almeria, che è ai piedi della Sierra Nevada, sulla costa meridionale della Spagna, è il principale fornitore di frutta e verdura a tutta l’Europa. Ogni anno ne vengono raccolte circa tre milioni di tonnellate, su una superficie di serre di 350 km quadrati, paragonabile più o meno alla superficie del distretto di Blenio. Ci lavorano circa 80’000 persone: molti sono emigrati, in prevalenza dall’Africa e dall’Europa dell’Est. Le condizioni di lavoro nella regione sono state oggetto di critica, in particolare dopo l’inizio del secolo. Da allora sono molto migliorate grazie all’impegno dei dettaglianti, come Migros, che ha obbligato i suoi fornitori a rispettare le normative Grasp (vedi qui a lato). Il lavoro viene svolto d’estate in condizioni di grande calore, per cui l’attività si tiene al mattino presto e nel tardo pomeriggio. Lo smistamento dei prodotti viene gestito da alcune cooperative locali, a cui arrivano cetrioli, peperoni, pomodori che vengono lavati e disposti in casse di plastica. Migros collabora ad esempio con la cooperativa Murgiverde, che impiega 1200 collaboratori e riceve il raccolto di 420 aziende agricole. Una volta raccolte e imballate, le verdure vengono caricate su camion e avviate verso la Svizzera; appena tre o quattro giorni dopo essere state colte si ritrovano nei reparti della Migros. Nell’ambito della normativa Gra-
Nell’Almería, quasi 80’000 persone lavorano nell’agricoltura a condizioni eque. (Samuel
Trümpy) sp, controllori indipendenti verificano il rispetto di undici criteri diversi, che riguardano in particolare il rispetto del salario minimo e del tempo di lavoro. Anche il diritto dei lavoratori a essere difesi dai sindacati dev’essere garantito. Inoltre, i controllori negoziano coi delegati dei lavoratori. Si incoraggia anche il dialogo fra i diversi partner sociali. A tale scopo, Migros organizza ad esempio sul posto delle tavole rotonde alle quali produttori e sindacati sono invitati a prendere
parte. La collaborazione permette che si mantengano condizioni di lavoro rispettose delle norme. Vengono assicurate in particolare la sicurezza dei lavoratori e la protezione dai rumori. La durata del lavoro viene adattata a seconda dei periodi di produzione. Al centro dell’attenzione è anche il tema dell’ecologia. I produttori vengono sensibilizzati a operare in modo sostenibile. Ciò è una garanzia di qualità per i prodotti ma anche nell’interesse degli stessi lavoratori.
Nello specifico, Migros si è ad esempio interessata alla questione del consumo d’acqua. Nella provincia di Almería, la vicinanza della Sierra Nevada garantisce un approvvigionamento sufficiente. L’acqua proveniente dalle piogge e dallo scioglimento delle nevi si accumula nelle falde freatiche e viene recuperata in laghi artificiali e in serbatoi. Nuovi metodi come l’uso di nebulizzatori per innaffiare le coltivazioni permettono inoltre di ottimizzare il consumo.
M Gusto e tradizione, mondi lontani e Cooking Team Building Scuola Club Migros Ticino Vi aspetta a tavola con i suoi corsi C’è più gusto nel mangiare o nel cucinare? La cucina è cultura, è piacere, è lavorare insieme. La Scuola Club Migros Ticino, che negli anni ha ampliato la sua offerta di corsi concentrandosi in particolare su lingue e business, ha però sempre coltivato i principi della tradizione gastronomica e della cultura del buon vivere, proponendo un’ampia offerta di corsi di cucina. Negli anni il programma si è arricchito di nuovi trend che vanno ad aggiungersi ai corsi più tradizionali, come la pasta fatta in casa e i biscotti di Natale, corso, quest’ultimo, che ogni anno viene frequentato da un numero crescente di giovani donne che riprendono una tradizione svizzera da non perdere. Tra le proposte a catalogo, spiccano quelle dedicate alla cucina etnica, che vanno dal sushi alla cucina libanese, dai piatti spagnoli alla tavola thailandese, dall’indiana alla cinese. Per chi unisce la salute alla gola, ci sono i corsi di cucina naturale, vegetariana, vegana, o senza glutine, nonché i laboratori di produzione di latte vegetale, seitan e tofu.
Azione Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Per chi ama gli aperitivi ci sono i corsi di finger food, canapè e pasticceria salata. Grande spazio anche ai dolci, con il cioccolato interpretato e declinato in vari modi dallo chef pasticciere Giuseppe Piffaretti, i capcakes, la pasticceria mignon, i muffin le torte americane e anglossassoni. Non mancano inoltre i vini: anche i meno esperti possono avvicinarsi in due tappe al mondo
enologico mondiale, o scoprire i migliori vini del terroir locale, grazie al corso dedicato alle eccellenze ticinesi. In grande ascesa anche il Cooking Team Building, in cui ricette e corsi di cucina diventano vere e proprie palestre per i manager e i loro collaboratori. Tra pentole, mestoli e fornelli ci si esercita nelle dinamiche di gruppo, migliorando le tecniche di comunicazione,
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch
Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11
La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
e si impara a far buon uso del tempo e delle risorse. Sono sempre più numerose le aziende che si affidano a questi corsi per accrescere le competenze e le capacità gestionali dei propri collaboratori e dirigenti. In effetti, più di un aspetto avvicina la cucina all’arte del management: in entrambi i casi è necessario saper utilizzare al meglio le risorse, gestire con perizia il tempo, coordinare un gruppo di lavoro. Ogni sede della Scuola Club Migros Ticino propone un programma di cucina e gastronomia ricco e vario. Tra le novità di quest’anno, la moderna e funzionale cucina della nuova sede di Bellinzona, mentre Lugano ha inaugurato una nuova partnership con il Kitchen Store Ernesto Meda di Via Pelli 5. Un bellissimo spazio di due piani con una cucina attrezzata e ampia ospiterà i corsi durante tutto l’anno del temporaneo trasferimento, facendo convivere la preparazione di piatti e ricette con eleganza, buon gusto e accoglienza.
Aumentano sempre più, infine, le richieste di corsi chiusi, con gruppi di amici e colleghi che richiedono un corso a loro scelta per divertirsi a cucinare, gustando poi tutti insieme quanto preparato con gli chef della Scuola Club.
Tiratura 98’645 copie
Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch
Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
Porte aperte a Bellinzona! La Scuola Club Migros Ticino di Bellinzona invita il pubblico a conoscere i corsi di cucina, lingue, fitness e informatica il prossimo venerdì 24 ottobre. Dalle 17.00 alle 21.00 potete partecipare gratuitamente a classi di conversazione inglese e spagnolo, piccole ricette di finger food, lezioni di shiatsu e di zumba. Potete imparare a preparare dei saponi naturali o a rilassarvi con la sofrologia caycediana. Questo e tanto altro alla Scuola Club in Piazza Simen 8 in centro città. Vi aspettiamo!
Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
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Società e Territorio Tracce di donne Presentati in una mostra nel patio di Palazzo Civico a Lugano i primi risultati della ricerca storica promossa dall’Associazione Archivi Riuniti delle Donne Ticino pagina 4
Lugano dice addio ai Frati Dopo tre secoli di accoglienza, ascolto e formazione il Convento dei Cappuccini di Lugano si appresta a chiudere pagina 6
Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità la salute sessuale è uno stato di benessere fisico, emotivo, mentale e sociale. (Keystone)
La salute sessuale non è un tabù Prevenzione e consulenza Da quest’anno l’organizzazione Salute Sessuale Svizzera ha un’antenna anche in Ticino Stefania Hubmann L’informazione deve essere precisa, costante e sempre aggiornata, in modo da offrire a tutti le competenze necessarie per operare scelte responsabili nell’ambito della propria vita sessuale. Una sfera, quella dei diritti sessuali, intima e quindi particolarmente delicata, di cui si occupa l’organizzazione Salute Sessuale Svizzera. L’attività, incentrata anche sull’accesso alle prestazioni in salute sessuale e riproduttiva, vanta una lunga storia partita all’inizio degli anni Novanta. Il Ticino ha partecipato in modo attivo alla sua realizzazione e da quest’anno ospita un’antenna di cui è collaboratrice Stefania Maddalena, che abbiamo raggiunto nella sede di Locarno. Secondo la definizione dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) del 2006 «la salute sessuale è uno stato di benessere fisico, emotivo, mentale e sociale legato alla sessualità. La salute sessuale richiede un approccio positivo e rispettoso alla sessualità e alle relazioni sessuali, così come la possibilità di avere esperienze sessuali piacevoli e sicure, libere da coercizioni, discriminazioni e violenza. Per fare sì che la salute sessuale venga raggiunta e mantenuta, i diritti sessuali di ognuno devono essere rispettati, protetti e soddisfatti». Il campo in cui si muove Salute Sessuale
Svizzera è quindi molto ampio sia per i temi affrontati sia per il tipo di servizio proposto, che dalle campagne di sensibilizzazione e prevenzione di carattere nazionale giunge fin sul territorio sostenendo i centri di consulenza aperti al pubblico. Senza dimenticare l’attività di formazione per chi opera nell’ambito della salute sessuale e riproduttiva. I due segretariati hanno sede a Losanna e Berna e sono ora affiancati dall’antenna per la Svizzera italiana. L’evoluzione dell’attività di Salute Sessuale Svizzera è lo specchio dei mutamenti sociali degli ultimi decenni. Spiega Stefania Maddalena: «La Fondazione svizzera per la salute sessuale e riproduttiva, fondata nel 1993 come Associazione svizzera per la pianificazione familiare e l’educazione sessuale, è l’organizzazione mantello svizzera dei centri di pianificazione familiare e dei consultori sui temi della gravidanza, della sessualità e dell’educazione sessuale nonché delle associazioni professionali del settore. Accanto all’impegno in questi settori si è progressivamente occupata di altri temi legati alla salute sessuale secondo la definizione dell’OMS. Da rilevare, in particolare, il partenariato con l’Ufficio federale della sanità pubblica (Ufsp) per la realizzazione del programma nazionale 2011-2017 di prevenzione dell’HIV e di altre infezioni sessualmente trasmissibili». Il profilo professionale di
Stefania Maddalena, attiva dapprima nel consiglio di fondazione a Losanna e dall’anno scorso collaboratrice per la Svizzera italiana, riflette pure il nuovo corso. La collaboratrice ha seguito una formazione mirata conseguendo, dopo il Bachelor in lavoro sociale alla Supsi, il Diploma of Advanced Studies (Das) in Salute sessuale e riproduttiva a Losanna. L’impegno di Salute Sessuale Svizzera è intenso su più fronti con l’obiettivo di raggiungere tutte le fasce della popolazione, soprattutto quelle più deboli. Malgrado l’accesso all’informazione sia oggi più facile e immediato e il tema della sessualità liberato da molti tabù, diffondere informazioni di qualità è un’esigenza imprescindibile se si vogliono ottenere dei riscontri effettivi nei comportamenti del singolo. Grande attenzione viene prestata alla traduzione della documentazione destinata alla popolazione e ai professionisti. L’organizzazione è particolarmente attenta anche alla realtà della Svizzera italiana, come conferma Stefania Maddalena. «Proprio quest’anno abbiamo presentato la versione italiana del manuale pedagogico Non insistere! dedicato al tema della violenza sessuale. Il volume è destinato ai professionisti dell’educazione e del settore sociale nell’ambito della loro attività di prevenzione. Si tratta di uno strumento importante, perché nasce dalle necessità
emerse sul territorio». Il volume offre una riflessione teorica sulla prevenzione, la presentazione delle condizioni ritenute indispensabili per assicurare un buon svolgimento degli interventi vista la delicatezza del tema, mette a disposizione schede di lavoro, referenze bibliografiche e una lista di professionisti e servizi di riferimento. «Il manuale è uno strumento completo e flessibile. Oltre cento persone hanno partecipato alla presentazione, a dimostrazione di un interesse diffuso». La prevenzione è destinata soprattutto ai giovani, fascia d’età che ovviamente si vuole raggiungere anche attraverso le nuove tecnologie. Ecco quindi l’importanza del nuovo portale in lingua italiana (www. salute-sessuale.ch) messo in rete nel dicembre 2013. Stefania Maddalena evidenzia come il sito presenti informazioni corrette, precise e sempre aggiornate, oltre a indicazioni pratiche come l’elenco dei centri di consulenza presenti in Svizzera di cui quattro si trovano in Ticino. In fase di traduzione e di adattamento per altri sistemi operativi anche l’applicazione per iPhone Docalizr che offre ai giovani uomini informazioni sulle infezioni sessualmente trasmissibili. Creata nel 2013, sarà a disposizione in italiano la prossima primavera. Ricordare le regole di un comportamento responsabile per salvaguardare la propria salute resta il punto fermo
di ogni azione di sensibilizzazione nel campo della sessualità. Il messaggio è stato riproposto anche nell’annuale campagna Love Life contro l’HIV e le altre infezioni sessualmente trasmissibili, da poco terminata. Nessun rimpianto il titolo scelto, dopo aver constatato attraverso un’indagine che oltre un terzo delle persone intervistate prova dei rimpianti per i propri trascorsi sessuali, mentre una persona su cinque è pentita di non aver usato il preservativo. Promossa dall’Ufsp, Aiuto Aids Svizzero e Salute Sessuale Svizzera, l’iniziativa per la prima volta ha coinvolto direttamente la popolazione. Le cinque coppie protagoniste di spot e affissioni sono state selezionate attraverso un casting al quale hanno partecipato circa 300 persone. Una scelta pagante, poiché la campagna – incentrata sull’impegno personale nell’attenersi alle regole del sesso sicuro – ha raccolto oltre 100mila consensi sul sito internet www.lovelife.ch. Per Salute Sessuale Svizzera la via imboccata è quella giusta, malgrado le voci critiche che restano però minoritarie. L’impatto degli slogan è maggiore se i medesimi sono costruiti ascoltando la voce del pubblico e coinvolgendolo direttamente. Il messaggio va ripetuto, senza allarmismi, abbinando una vita sessuale appagante al senso di responsabilità.
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Società e Territorio
Donne fuori dal comune
Biografie Presentati a Lugano i primi risultati di una ricerca storica promossa
dall’Associazione Archivi Riuniti delle Donne Ticino
Un defà de pulin per Maria Teresa d’Austria Dialetto Tra i modi
di dire in disuso c’è qualche mistero
Elena Robert Hanno contribuito alla crescita dell’Ottocento e del Novecento ticinese, vengono ricordate per l’operato e la genialità e capita spesso di sentirle nominare, ma quanto si conoscono? La memoria del coraggio delle donne pioniere nella cultura, nell’educazione, nel lavoro, nella politica e nella salute ora ha anche una meritata visibilità, essendoci restituita dal web. Sul sito www.archividonneticino.ch l’avvicinamento a queste figure femminili fuori dal comune, scomparse ma sempre attuali, avviene attraverso le loro biografie essenziali, affiancate da alcune preziose video-testimonianze di donne in vita che se la sono sentita di raccontarsi. Sono noti i primi risultati, relativi al Luganese, di questa ricerca storica ad ampio raggio, ideata e promossa dall’Associazione Archivi Riuniti delle Donne Ticino (AARDT) con sede a Melano. Le biografie disponibili sono per ora una trentina: una selezione sarà presentata su pannelli a Lugano nel patio di Palazzo Civico da domani martedì 21 ottobre al 14 novembre (luve 7.30-17).
Pioniere nel campo dell’educazione, della politica e del lavoro: una selezione di biografie in esposizione a Lugano Tracce di donne è un progetto su scala cantonale concepito da un gruppo di lavoro AARDT formato dalla presidente dell’associazione Renata Raggi-Scala, dalla giornalista Lorenza Hofmann, coordinatrice, dalla storica Manuela Maffongelli e dalla giornalista Chiara Macconi, sviluppato con la supervisione scientifica di Lisa Fornara e Susanna Castelletti, storiche e docenti di storia. Operativamente l’AARDT si appoggia sulla collaborazione di storiche e storici, che stanno lavorando su materiali esistenti, memorie dimenticate, fonti anche inedite. La prima fase del Luganese, avviata nel 2012 è terminata, i dati del Mendrisiotto e Basso Ceresio saranno noti nel 2015, quelli del Bellinzonese e Valli nel 2016, del Locarnese e Valli l’anno successivo. L’interesse per approfondimenti ulteriori sul tema si è già tradotto o manifestato in forme diverse. Fondi permettendo potrà evolvere il progetto stesso Tracce di donne, ampliandosi col tempo. L’iniziativa ha potuto infatti essere avviata grazie a
Emilio Magni
Ragazze ticinesi a Bad Ragaz nel 1928. (AARDT, Fondo VicariMarcionelli)
contributi finanziari di enti pubblici e privati, tra i quali il Percento culturale Migros Ticino, che ha sostenuto la realizzazione dell’esposizione. Chi vorrà andare oltre biografie e testimonianze potrà consultare la raccolta documentaria di AARDT che da due anni si è arricchita proprio anche grazie al progetto. Ora che se ne parla, ci si attende che arrivino nuovi diari, lettere, fotografie, quaderni scolastici, in particolare dai privati. L’elenco di altre donne «da non dimenticare» si allunga: un capitolo, anche questo, tutto ancora da indagare. «Non mancano prospettive di studio – ci ricorda la capoprogetto Manuela Maffongelli – noi ci siamo focalizzati sulle singole persone, in futuro saranno forse i gruppi e le azioni comuni a interessare altri studiosi intenzionati a approfondire». Il vissuto delle donne ticinesi che si sono fatte sentire in un’epoca in cui erano escluse dai diritti civici (quello di voto e di eleggibilità furono ottenuti nel 1969 a livello cantonale e nel 1971 a livello federale) riesce ancora e, proprio per questo, a stupirci. «Emergono connessioni tra figure femminili, relazioni servite per portare avanti lotte e progetti. Le esistenze si intrecciano. Il quadro rimane però eterogeneo, animato da esperienze anche molto diverse – evidenzia la ricercatrice – Una classificazione è difficile: vi sono donne impegnatesi tanto per la società e in settori differenziati. Gran parte di loro è accomunata dalla formazione di maestra e una buona metà di quelle finora biogra-
fate non si è sposata: in molti casi la vita è diventata una missione da compiere e gli obiettivi sono stati raggiunti sacrificando il privato per avere più libertà d’azione. Chi si è sposato ha assunto invece un ruolo attivo fuori dalla famiglia in tempi in cui ciò non era scontato. Certamente il profilo di tutte è caratterizzato da spirito d’indipendenza, grinta, dinamismo e perseveranza, grande concretezza ed elevata operosità». Un percorso anche solo cronologico evidenzierebbe nell’Ottocento la comparsa di figure di benefattrici e fondatrici di istituti educativi e sociali tra le quali Angela Antonia Vanoni, Carolina Maraini Sommaruga, Giuseppina Morosini Negroni Prati, Marietta Crivelli-Torricelli, nota in Svizzera per l’aiuto concreto alle famiglie dei soldati della prima guerra mondiale. Parallelamente si segnalano le educatrici come Clelia Bariffi-Bertschy e Ines Bolla, impegnate anche nella valorizzazione del lavoro femminile e le intellettuali come Adriana Ramelli, direttrice della Biblioteca cantonale e la sua collaboratrice, l’economista Ilse Schneiderfranken. Nei primi decenni del Novecento si assiste ad una partecipazione attiva nel sociale e per la salute dell’infanzia con in prima linea Marta Vinassa, l’infermiera itinerante Alma Chiesa e Corinna Carloni, nella seconda metà Carla Balmelli. Negli anni Quaranta e Cinquanta s’impone la questione del suffragio femminile in Svizzera. Diverse donne si arruolano nel Servizio complementare femmini-
le, come Elsa Franconi Poretti e Ersilia Fossati. Nel sociale e nel progetto comune di una piccola casa per anziani a Loreto, Residenza Emmy nata nel 1972, si distinguono Maria Luisa Albrizzi, Emma Degoli e l’attivissima giornalista radiofonica Iva Cantoreggi, il cui impegno professionale nelle lotte femminili resta importante per un sessantennio fino al Duemila. L’attivismo politico si esprime nei vari partiti non senza difficoltà. Attraverso le dieci donne elette in Gran Consiglio per la prima volta nel 1971 (tra cui cinque luganesi) si veicolano i postulati femminili. Anche per la parità tra i sessi si mobilitano tra le altre Carla Bossi-Caroni e Alma Bacciarini, prima donna a occupare un seggio al Nazionale nel 1979, impegnata su molteplici fronti, come la cultura, la difesa delle minoranze e della lingua italiana. Comune alla stragrande maggioranza di donne è l’attività trasversale della partecipazione alle associazioni femminili (ad esempio il Lyceum, la Federazione ticinese delle Società femminili e l’ATTE): in seno all’ACSI combattono molte battaglie le aderenti al comitato fondatore Marili Terribilini-Fluck, Miranda Venturelli, Giulia Bonzanigo. Le tracce di donne riscoperte fino a questo momento da AARDT non finiscono qui. Molte altre figure femminili seguono percorsi più indipendenti e altrettanto affascinanti esprimendosi in altri campi, come le artiste Georgette Tentori-Klein e Rosetta Leins, la stilista Elsa Barberis, l’attrice teatrale Mariuccia Medici.
È bello leggere La storia de Milan dal princippi fin al di d’incoeu che il poeta milanese di origini ticinesi, Camillo Cima, detto Pinzo, scrisse oltre un secolo e mezzo fa, perché in ogni pagina si incontrano modi di dire caratteristici del vernacolo meneghino. Al piacere della scoperta si accompagna, però, subito la delusione di rendersi conto che gran parte di questo patrimonio non è più adoperato ed è diventato incomprensibile. Per questo motivo è stata, per me, assai gradita sorpresa ascoltare, qualche tempo fa nel bel mezzo del suo stupendo parlare milanese, un mio vecchio amico «tirar qua» la locuzione: «La g’ha avu un defà de pulin a mett a post i rob», per dire che una persona ha avuto il suo bel d’affare per sistemare alcune cose. Ebbene questo modo di dire è anche nella storia di Camillo Cima quando racconta che, nel 1740, morto Carlo VI, Maria Teresa d’Austria «la g’ha avu un de fa de pulin per fa varrì i so reson contra tucc…». Cima usa altre due volte «de fa de pulin», parlando di Carlo Prina e di Felice Cavallotti. Il significato del modo di dire è chiaro. Mette in evidenza un impegno così grande da essere addirittura inconcepibile. Cosa c’entrano, però, i pulin? Forse il paragone si rifà ai piocc pulin, i micidiali insetti che si infilavano tra le penne dei polli uccidendoli dopo breve malattia. Per combattere i piocc pulin occorrevano disinfestazioni che impegnavano più persone. Mia madre, che era di origini contadine, teneva molto al suo pollaio personale (mi ricordo la delizia dei suoi capponi arrosto e delle faraone alla creta) e quindi di sicuro conosceva a perfezione la minaccia dei pidocchi dei polli e soprattutto l’impegno per debellarli. Ma questa è soltanto una mia opinione che fino ad oggi non ha trovato riscontri. Il mistero rimane.
Maria Teresa d’Austria. (Wikipedia)
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Amy Krouse Rosenthal, Jen Corace, Piccolo Bubo, Zoolibri. Da 2 anni Nel solco molto battuto ma sempre gradito dei cuccioli controcorrente (lupetti paurosi, pinguini freddolosi, gufi che hanno paura del buio…) arriva baldanzoso il nuovo albo di Rosenthal e Corace (già apprezzate per Piccolo Pisello, che non a caso è in ristampa, a grande richiesta) ad arricchire il catalogo autunnale di Zoolibri, quest’anno dedicato in particolare ai primissimi lettori. Piacerà infatti ai piccoli tiratardi la divertente storia di Piccolo Bubo, gufetto anche lui controcorrente perché vorrebbe andare a letto quando fa buio e invece deve stare sveglio: «Quando sei un gufo, devi stare alzato fino a tardi. Molto tardi. Tardissimo». Lui però si ribella: «Tutti i miei amici possono andare a dormire prima di me! Perché devo sempre stare sveglio e giocare? Non è giusto!». E qui si scatena l’effetto
comico del mondo alla rovescia, di sicuro effetto sui bambini, che vedono sovvertite le regole base delle loro esperienze quotidiane, come già aveva fatto ad esempio Vivian Lamarque con le sue «storielle al contrario» (Mettete subito in disordine!, Einaudi Ragazzi) o come avviene nel mondo degli Olchi, di Erhard Dietl (Il Castoro): «Bambini! Potete darmi una mano? Il salotto è pulito in un modo tremendo!». Piccolo Bubo contratta l’orario della nanna con i genitori: «Stai sveglio ancora un’ora e poi andrai a dormire». «Un’ora intera?». Lui obbedisce ma
mugugna, gioca un po’ e poi torna alla carica: «Posso andare a letto adesso?». La storia scorre con grazia e l’umorismo si rinnova fino all’ultima pagina, sia nel testo, elegante e immediato, sia nelle illustrazioni, ricche di teneri dettagli: i codini della gufetta compagna di scuola, il pipistrello appeso al ponte del parco giochi mentre Bubo è costretto a giocare, il peluche fatto a gufo che lo accompagna nel sonno… Yaël Hassan, Albert il Toubab, Lapis. Da 9 anni Personaggi riusciti e un ritmo senza cedimenti per questa storia, allegra e commovente al contempo, che si snoda tra due scenari fondamentali: da una parte il casermone di immigrati in una banlieue francese, dall’altra l’appartamento in cui vive in scontrosa solitudine l’anziano vedovo Albert. La vita di Albert riceve un provvidenziale scossone quando nella sua quotidianità
irrompe Memouna, la figlia della sua domestica senegalese, che ha dovuto essere ricoverata d’urgenza. La piccola Memouna, un po’ come una Heidi postmoderna e dalle treccine afro, dapprima sconvolge e poi pian piano conquista, con la sua saggia e deliziosa impertinenza, il cuore del «nonno» adottivo. Albert, che all’inizio del romanzo è chiuso agli altri e impermeabile agli affetti, nonché burbero e sarcastico nei confronti degli «stranieri» («Avviamo la riqualificazione del quartiere.. e per che cosa? Perché gli diano fuoco? […] Delle prigioni, ecco
cosa bisognerebbe costruire per loro!»), grazie a Memouna si riappropria dei fili del passato, ripercorrendo la sua propria storia di immigrato portoghese di tanti anni prima, in condizioni durissime, ma con l’orgoglio di avercela fatta, e di essersi integrato. L’autrice ci offre, narrando con naturalezza, diversi temi su cui riflettere: il concetto di integrazione, quello di cittadinanza, quello di diversità. Temi attuali, che prendono vita grazie alle varie modalità con cui li esprimono i personaggi del romanzo: Albert e Memouna, ma anche la bella figura di sua madre Zaina e quella invece cupa di Babacar, che rivendica diritti paterni; gli amici dei protagonisti e persino – con il suo luminoso sorriso nella foto – Alicia, l’amatissima moglie di Albert. Albert è un toubab («bianco») ma è un immigrato, Memouna è nera ma è nata in Francia: la vita è sempre più ricca delle etichette, e quello che conta è che i loro due mondi si siano incontrati.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 20 ottobre 2014 ¶ N. 43
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Società e Territorio
Un luogo di ascolto in meno Cappuccini Dopo tre secoli di formazione, accoglienza e cultura, il convento di Lugano si appresta a chiudere
a causa dell’anzianità dei frati. Si auspica un riorientamento della sede
Marco Jeitziner Dopo il suo glorioso passato di educazione e cultura del popolo, la realtà dei cappuccini di Lugano sarà presto orfana di una presenza storica importante e ben radicata: il 3 novembre verrà chiuso il Convento e la Chiesa della Salita dei frati. Qui si erano insediati nel lontano 1653, dopo aver lasciato «di loro spontanea volontà e senza alcun giusto motivo» la sede originaria di Sorengo, si apprende da uno scritto dell’ex segretario comunale, Pierino Ermanni («Illustrazione ticinese», n. 33/1937). Insomma, dopo quel trasloco del 4 novembre di tre secoli fa, quando «i frati trasportarono processionalmente le ossa dei loro morti dal vecchio al nuovo convento», dice il sito dell’Associazione Biblioteca Salita dei Frati, ora un nuovo spostamento, dettato stavolta dal loro esiguo numero, sono in sei, dalla crescente anzianità e dalla necessità di concentrare le forze. I frati luganesi si sposteranno a Locarno, noto per il santuario, e a Bellinzona per le attività parrocchiali.
Il Convento ha sempre mantenuto un contatto forte con la popolazione attraverso l’accoglienza e le cappellanie Se in passato i frati andavano a piedi là dove c’era bisogno, ad esempio venivano invitati dai parroci per garantire le «quarant’ore» (si onorava Gesù Cristo per il tempo che rimase nel sepolcro durante la Settimana Santa), oppure a fare la predica durante la Festa patronale della parrocchia, oggi queste attività sono scomparse. Sono invece rimaste soprattutto quelle di accoglienza, ascolto e le opere di cappellanie. «Il convento viveva soprattutto dell’accoglienza di persone che bussavano alla nostra porta per incontrare un padre, avere un consiglio spirituale o una confessione» ha detto fra Boris Muther, responsabile della sede luganese, di recente alla trasmissione Strada regina della Rsi. Si tratta di persone di ogni tipo, gente di passaggio, uomini e donne che vivono un momento di crisi o di incertezza. «Facciamo la pastorale della casa, la chiesa, un po’ di ministero, le confessioni, l’ascolto e, di frequente c’è gente che viene per domandare consiglio e aiuto» ha detto alla Rsi fra Ugo Orelli, attuale guardiano del convento. Le cappellanie sono tuttora in vigore negli istituti religiosi, nelle case anziani, negli ospedali e, soprattutto, nelle carceri ticinesi, «perché noi amiamo veramente essere a contatto con la gente» ha affermato Muther, fedele all’intento dei cappuccini, e cioè di essere fratelli ai piedi di tutti quelli che servono (da qui la locuzione frati minori). Attualmente, ad esempio, fra Michele Ravetta, dopo l’esperienza parrocchiale in Valle Leventina e l’assistenza sociale presso l’Ente ospedaliero cantonale, è
Il Convento e la Chiesa della Salita dei Frati di Lugano dove i cappuccini si erano trasferiti nel 1653. (CdT - Gonnella)
cappellano al penitenziario cantonale La Stampa e La Farera, dove incontra ogni domenica uomini e donne detenuti, feriti dalla vita e dalle necessità. Ma è anche la società, quella in generale e luganese, che cambia. È in crisi la vocazione e l’età si fa sentire: quella media dei frati è attorno ai 68 anni. «Nelle nostre case si fa un po’ fatica, il passo è più pesante, interviene magari anche la malattia e questa estate sorella morte ha bussato alla nostra porta» ha dichiarato Muther alla Rsi, alludendo alla scomparsa di fra Callisto Caldelari, colui che gettò le basi, tra le altre cose, per la creazione della biblioteca. Nel 2010 fece scalpore l’offerta di un «lavoro a tempo pieno» da parte dei cappuccini svizzeri e indirizzato a «bancari, giornalisti, maestri, esperti della comunicazione». Inoltre diminuiscono e invecchiano i fedeli, lascia intendere Muther: «il nostro bacino era soprattutto composto da un pubblico amico del convento, c’era tanta gente che partecipava alle nostre celebrazioni, in settimana ma soprattutto la domenica, ma gli anni passano e anche le persone diventano più anziane». In sostanza, conclude, «fintanto che la comunità era piuttosto grande pote-
vamo svolgere varie attività, ma con la diminuzione dei frati non possiamo più far fronte a tutti i servizi che offrivamo». La decisione di chiudere è dunque stata sofferta e meditata a lungo: «il convento di Lugano è sempre stato un punto di riferimento per noi frati, per tanti anni un luogo di formazione dove generazioni di frati si sono formati, ma per continuare non abbiamo più le forze né la progettualità» ha detto il frate alla Rsi. Lugano perde non solo un riferimento assistenziale, ma rischia di dimenticare anche un pezzo di storia misterioso. Nella seconda metà dell’Ottocento imperversava nell’Europa Centrale il cosiddetto Kulturkampf, l’ondata di protesta laica contro la Chiesa. Nel 1848 il cantone decise di sopprimere quasi tutti i conventi sul territorio e cacciò via quasi tutti i cappuccini, poi inglobò le strutture nel patrimonio statale con l’intento di venderli e riparare alle disastrate finanze cantonali. Nei fatti però andò diversamente. Questa «corsa alla svendita», scrive lo storico Romano Broggini («Scuola ticinese», n.94/1981), «non giovò gran che al bilancio, perché i beni vennero venduti stentatamen-
te, (...) non all’istruzione popolare che non trovò immediato vantaggio», e persino «l’arte e la cultura non trassero gran giovamento perché opere d’arte e biblioteche andarono in gran parte disperse». Nel malandazzo vi furono delle «vendite simulate» che riguardarono proprio questo convento. In un libro del 1998 lo storico Stefano Barelli afferma che questo aspetto «presenta ancora dei lati oscuri» e che «probabilmente» il convento sopravvisse perché fu fatto figurare, «per un certo tempo» secondo Broggini, come proprietà privata di due personalità influenti del tempo: del primo vescovo del Ticino, Giovanni Fraschina, e poi di un omonimo avvocato in vista di allora, giudice e granconsigliere del partito conservatore. Da imprescindibile luogo di ascolto per chi ha bisogno, cosa diventeranno il convento e la chiesa? Una domanda più che legittima se guardiamo al destino di altri conventi ticinesi. Verrà convertito in albergo e poi in museo (il Lac) come sta accadendo a Lugano con l’ex convento degli Angioli? Oppure in mero magazzino e poi in una scuola (ex magistrale) come è avvenuto per quello di San Francesco a Locarno? Oppure ancora abbandonato e poi tra-
sformato in una casa per anziani come per quello di Santa Maria delle Grazie a Bellinzona? Anche noi abbiamo posto la domanda ai frati i quali però, con proverbiale calma, non si sbilanciano: dicono che è ancora prematuro esprimersi, anche se vi sarebbero delle trattative private in corso, lascia trapelare Muther. Staremo a vedere ma intanto non possiamo che rallegrarcene. Ciò che rimarrà – oltre al vigneto – è di sicuro la biblioteca, retta dall’omonima associazione e che, grazie agli sforzi di fra Callisto, ha reso più popolare il convento fino ad oggi. Si tratta del più importante e antico fondo librario privato e conventuale del cantone, con oltre 110mila volumi. Un luogo che dalla fine degli anni Sessanta dell’Ottocento, si legge nel sito dell’Associazione della biblioteca, ha vissuto una «lunga e felice operazione culturale». Nel 1979 l’architetto Mario Botta ha inoltre progettato la nuova sede e «Botta è stato geniale perché la biblioteca, interrata e ricavata con elementi estremamente semplici, è molto luminosa e rivolgendo gli occhi verso l’alto c’è un bellissimo lucernario che permette il contatto tra il cielo e la terra» ci dice entusiasta fra Muther. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 20 ottobre 2014 ¶ N. 43
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Società e Territorio Rubriche
L’altropologo di Cesare Poppi Calico Jack e il Jolly Roger Di tutti gli anniversari che celebra l’Altropologo in esclusiva quello che cade oggi, 20 ottobre è, anche per gli standard della vostra rubrica preferita, certo non uno dei più eclatanti. Era infatti il 20 ottobre del 1720 quando John Rackham, di nazionalità inglese, passato alla storia come Calico Jack a causa del vestiario in cotone (calicò era un cotone grezzo originario di Calicut, in India) che era solito indossare, fu catturato da Jonathan Barnet ad Harbour Bay, in Giamaica. Poco tempo prima Calico Jack era stato dichiarato ufficialmente «pirata» dal Governatore della Giamaica. Non si trattò invero di una resa eroica dopo un furioso combattimento, così come ad alcuni piacerebbe pensare. Jonathan Barnet conosceva i suoi polli: lui stesso era stato pirata prima di dover scegliere fra la forca e il passaggio nel campo avverso. Aveva giocato a guardie e ladri per un paio di settimane dentro e fuori le
piccole baie lungo le coste della Giamaica. Aveva atteso che Calico mettesse assieme un discreto bottino saccheggiando navi del piccolo commercio costiero. Informato della presa di un carico di rum attese la sera e colpì. Calico Jack era ubriaco fradicio assieme al suo equipaggio. La resistenza fu breve e sarebbe stata senza storia non fosse per il fatto che fu guidata da due donne – Anne Bonny e Mary Read a capo dei pochi che erano in grado di reggersi in piedi. Mary Read si era imbarcata con Calico Jack travestita da uomo quando Calico aveva già Anne Bonny a bordo come amante. Il terzetto divenne famoso in tutte le peggiori osterie dei Caraibi – per dirla nel gergo dei pirati. La fine di Calico Jack fu – come per tutti i pirati – ingloriosa a dir poco. Processato per direttissima, fu impiccato assieme a tutti i membri del suo equipaggio il 22 novembre dello stesso anno. Il suo cadavere venne poi chiuso in
una gabbia appesa ad uno scoglio all’ingresso del porto che ancor oggi porta il nome di Rackam Cay. Il vostro Altropologo ruminava sul fato di Calico Jack e dei suoi compagni venerdì mattina due settimane orsono mentre passeggiava sul corso principale di Chioggia, l’antica Clodiana, al limite sud della laguna di Venezia. Qui ci si era attraccati per la notte in rotta verso Ravenna, dove saremmo arrivati due giorni dopo vento permettendo sul piccolo sloop Aegis. Nei numerosi negozi che vendono paccottiglia per turisti campeggiavano immancabilmente, fra gondole luminose e vetri di Murano Made in China, Jolly Roger di tutte le grandezze possibili. Il Jolly Roger (inutile ricordarlo) è la bandiera dei pirati – nera con teschio e tibie incrociate. Secondo la leggenda, il Jolly Roger sarebbe stato inventato proprio da Calico Jack. La sua particolare versione, in verità, prevedeva due sciabole incrociate al po-
sto delle tibie, ma il dettaglio non cambia la sostanza del messaggio. La particolarità straordinaria del Jolly Roger – che suona in italiano un ben poco eccitante «Felice Ruggero» – è che in realtà come tale è esistito per un periodo brevissimo: la carriera di Calico Jack copre gli ultimi anni della pirateria «classica» e pare inoltre che l’usanza di dispiegare il macabro cencio fosse limitata a Calico. La fortuna del Jolly Roger va dunque ricercata altrove, oltre e al di là della sciagurata carriera del suo «inventore». L’oceano vasto e pericoloso nel quale naviga non è quello delle vicende «sanguesudoreemorte» delle res gestae piratesche, ma quello della cultura popolare che su quelle ha costruito romanzi, film, canzoni e quant’altro pertiene oggi all’industria culturale di massa. Interrogarsi oggi, a quasi tre secoli di distanza, sul perché un turista giapponese in visita ai capolavori dell’Occidente, si senta in dovere di
portarsi a casa una bandiera dei pirati formato maxi, implica un ripensamento delle condizioni di vita della borghesia agiata nella tarda modernità. Chi non ha coltivato in gioventù ovvero oggi e per sempre il desiderio di «farsi pirata»? Chi non ha associato quel nome al desiderio di riscatto robinuddiano dopo un sopruso subito da parte del capufficio? Così almeno rimuginava il vostro Altropologo, del quale si racconta ormai in tutte le peggiori taverne dell’Adriatico come Mastro Cassopipa (vedi web) mentre bolinava verso sud sfidando intrepido i bassifondi del Delta del Po. Là, tre secoli fa, i pirati uscocchi nascondevano le loro fuste pronti a scagliarsi sul naviglio di passaggio. Nessuna paura: pronto ad essere issato sul lato sinistro di Aegis stava il Jolly Roger acquistato sul corso di Chioggia quando nessuno guardava. Rigorosamente Made in China. Alla pugna!
con l’adolescente la domanda maieutica non dà per scontato che il genitore sappia tutto del figlio, evita lo stereotipo che si condensa nella frase «sei sempre il solito», ma cerca, con lui o con lei, di mettere a fuoco gli aspetti positivi e le capacità di cambiamento che ogni giovane possiede. Dinanzi alle pretese di autonomia che i ragazzi manifestano (è un compito dell’età!), meglio non rispondere subito con un divieto (ad esempio, no, non esci la sera!) ma aprire una trattativa, cercare una mediazione e raggiungere un accordo. Se poi il figlio non sta ai patti, sopraggiunge, inevitabile, la punizione. Ma perché è stata violata una regola, non un comando. Quanto alle carenze e agli errori, commessi più o meno volontariamente da Norma e Matteo, tenga conto che spesso i ragazzi sono frastornati dai troppi impegni (lezioni, compiti a casa, due o tre sport), da continui spostamenti e… da un eccesso di comunicazioni. Non è il caso che lei si lasci tiranneggiare ma neppure che li tiranneggi colpevolizzandoli per ogni errore. Non si cresce senza sbagliare e prestare la bici a un amico che ne approfitta scorrettamente non è una colpa ma una prova di fiducia
da valorizzare, seppure insegnando che le relazioni debbono essere condizionate. Anche l’infortunio di Norma rientra nella fisiologia dell’età perché la corteccia cerebrale, che segnala il pericolo e aiuta a fare le scelte giuste, completa lo sviluppo solo dopo i vent’anni. In conclusione, cara amica, non si polarizzi sulle colpe dei ragazzi, su quello che fanno o non fanno, ma si concentri piuttosto sulla vostra relazione, su come comunicare per favorire il loro viaggio verso l’età adulta. Se le chiedono di ascoltarli significa che hanno fiducia in lei, che desiderano seguire i suoi insegnamenti, anche se non lo ammettono. E così sarà, purché eviti di farsi prendere dallo sconforto. L’adolescenza è un’età difficile ma straordinariamente viva perché carica di potenzialità e di promesse. Peccato che spesso lo si riconosca solo a posteriori.
La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Due figli adolescenti e una mamma in crisi Gentile Silvia, sono mamma di due figli adolescenti, Norma di 15 anni e Matteo di 17. Il marito e padre c’è ma è quasi sempre lontano per lavoro. Il mio è, a dir poco, un impegno logorante. Premetto che, per fortuna, vanno bene a scuola, tutti e due. Ma le loro stanze sono discariche a cielo aperto, la connessione con gli amici ininterrotta, i disastri all’ordine del giorno. Matteo ha fatto il bagno in piscina con il cellulare in tasca, ha rotto la stampante e prestato la bici a un amico che non si decide a rendergliela. Norma ha perso i soldi che le avevo dato per comperarsi un paio di mocassini, ha litigato con la miglior amica, si è fatta uno strappo alla caviglia saltando da un muretto. Urlo tutto il giorno ma non mi ascoltano. Invece loro, quando hanno voglia di parlare, parlano. Ma è un dialogo a senso unico. Mi sento considerata come un fazzoletto di carta: usa e getta! / Una mamma in crisi Cara «mamma in crisi», è ormai accertato che all’adolescenza dei figli corrisponde quella dei genitori. Anche voi, investiti dal ciclone della
pubertà dei vostri ragazzi, vi sentite fragili, vulnerabili e insicuri. E, in questo periodo, la lontananza del padre non aiuta. Ma pensi che, per secoli, le donne hanno cresciuto i figli da sole perché i padri, in Svizzera in particolare, erano lontani per combattere come mercenari oppure per lavorare come emigranti o mercanti. Ciò che conta è l’atteggiamento della madre, la stima e la fiducia che mostra nei confronti del coniuge. Per i figli adolescenti è importante che il padre dia una testimonianza, concreta, non a parole, dei valori che dichiara: che sia leale, onesto, sincero, stimato da chi lo conosce e apprezzato dalla società in cui vive. Certo alla madre resta il compito più usurante: prendersi cura dei figli giorno per giorno, rispondere alle loro richieste, spesso contraddittorie, far fronte ai loro inevitabili errori e non pretendere comportamenti reciproci. «L’amore dei genitori è discendente», sostiene una persona saggia. Spesso, quando il bambino esce dall’infanzia, le mamme si disperano e, parlando tra di loro, usano frasi drammatiche come: «non lo riconosco più», «non so cosa fare», «sto impazzendo» ma poi, a ben vedere, non sta accadendo nulla
di drammatico, come nel vostro caso. I suoi figli si comportano, semplicemente, da adolescenti. Ciò non significa che si debba scusare ogni trasgressione, accettare l’indolenza, perdonare ogni mancanza. Ognuno faccia la sua parte e i genitori esercitino con autorevolezza il loro compito. Ho conosciuto molti genitori, soprattutto padri, che si dichiarano i migliori amici dei figli ma non ho mai sentito un figlio che si dichiari il miglior amico del padre. Per crescere i ragazzi hanno bisogno di sentirsi guidati, orientati, educati. Ma come fare? Ricordare le proprie esperienze non è più una risorsa perché il mondo è cambiato e ciò che funzionava ieri non va più bene oggi. Reagire alle provocazioni sgridando, urlando e imprecando non serve a niente. I ragazzi hanno la pelle dura e l’ascolto, intermittente, viene attivato o spento a piacimento. Meglio adottare altre strategie e un grande educatore, Daniele Novara, ne propone una non facile ma efficace. Recuperando i fondamenti della nostra tradizione culturale, l’insegnamento di Socrate, l’ha chiamata «maieutica». Il termine indica l’arte dell’ostetrica, cioè la capacità di far nascere. Nel dialogo
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di Luciana Caglio Bellinzona o Praga: confronto impossibile? Invece no, è una pratica diffusa, anche se con risultati a volte assurdi. Come nel caso di Bellinzona, cui recentemente è andato il titolo di città più interessante e attraente d’Europa, superando Praga, Firenze, addirittura Londra. Ora, un riconoscimento del genere, più che rallegrare i diretti interessati, cioè tutti noi ticinesi che vedono premiata la loro capitale, deve suscitare perplessità. Viene, insomma, naturale chiedersi con quali criteri si proclama il vincitore in una gara dove sono in lizza partecipanti assolutamente non paragonabili. Tanto da svuotare il verdetto di ogni significato. Un conto era stato il titolo di Patrimonio dell’umanità, concesso dall’UNESCO ai castelli, che indicava un valore identificato e concreto, un conto un primato europeo, vago e incomprensibile. Magari, a Bellinzona si vive meglio che a Londra. Ma, in
quanto a potere d’attrazione, meglio lasciar perdere un accostamento francamente impraticabile. Tuttavia, come detto, queste operazioni comparative sono di moda e affollano sempre più il nostro panorama quotidiano, offrendoci garanzie apparenti nella ricerca del migliore, in ogni ambito. A cominciare, appunto, dalle città che sono diventate oggetto di incessanti raffronti destinati a stabilire, innanzi tutto, la cosiddetta qualità di vita. Questo concetto, di matrice sociologica, fa capo a parametri standard: sicurezza, efficienza dei servizi pubblici e privati, prospettive professionali, condizioni abitative, attività culturali e svaghi, zone verdi. E via dicendo. Dalle valutazioni, ottenute nei diversi settori, dovrà poi scaturire la nota definitiva che assegnerà alle città esaminate un posto nella graduatoria internaziona-
le, un numero quindi. Ma a chi spetta il compito di trasformare la realtà complessa di una metropoli contemporanea in un’entità misurabile? E, poi, qual è il grado di attendibilità che spetta a questi Ranking per usare un termine ormai d’obbligo? Sono «Banali giochi di cifre» («Miese Zahlenspiele») si leggeva, giorni fa, sulla «Neue Zürcher Zeitung», in un servizio dedicato, appunto, a questa nuova ossessione delle classifiche e dei punteggi. Senza mezzi termini, si denunciavano i limiti e gli inganni di un meccanismo prefabbricato. Per poterle confrontare, le singole realtà vengono livellate. In tal modo, città diversissime sono guardate e giudicate attraverso la lente di un modello unico: quello di una vivibilità teorica. Questa visione, infatti, trascura aspetti, per altro difficili da documentare, del nostro benessere:
abitudini, gusti, affetti che appartengono alla sfera individuale. Sempre in teoria, qui la Svizzera se la cava bene. Zurigo e Ginevra si collocano ai primi posti, insieme a Monaco di Baviera e Stoccolma, distanziando Madrid e New York. In pratica, però, sono luoghi che continuano a farci sognare, grazie a un fascino non quantificabile. Si tratta, in definitiva, di dati da prendere con beneficio d’inventario. La cautela sarebbe d’obbligo anche nei confronti di altre graduatorie, in particolare quelle concernenti le università, allestite rispettando risaputi parametri: prestigio internazionale, numero di pubblicazioni specialistiche, presenza di Nobel nel passato e nel presente fra i docenti. Mentre sembrano contare meno fattori, oggi determinanti, quali la qualità dell’insegnamento e l’impegno nella
ricerca. Non manca poi di stupire, come fa osservare la NZZ, che ad allestire questo tipo di graduatorie sia, fra altri, l’università di Shanghai che, dal canto suo, non è certo in grado di assicurare un clima di libertà e indipendenza ai suoi studenti. E, per finire, eccoci ad affrontare il settore più consultato e discusso del Ranking a uso pratico: cioè le classifiche riguardanti compagnie aeree, alberghi, resort, centri wellness, ristoranti. Insomma tutto ciò che riguarda il turismo e il tempo libero. Proprio qui, più che altrove, si aspira infatti a ottenere il meglio affidandosi ai pareri di organizzazioni ad hoc. Le quali, tuttavia, sono costrette, pure loro, a operare confronti impossibili. Leggevo, giorni fa, che l’Hermitage di San Pietroburgo è meglio del Moma di New York, e che fra i migliori ristoranti di Lugano figura un Kebab.
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Dov’è finito l’Anticiclone delle Azzorre? Clima La pazza estate 2014 analizzata
con le risposte degli esperti
Loris Fedele Lo sentivamo nominare tutte le estati, nei bollettini meteorologici se ne parlava sempre, era per noi profani la certezza che in estate avremmo avuto bel tempo stabile a lungo: è l’Anticiclone delle Azzorre. Quest’anno o, meglio, questa estate 2014, che per molti aspetti ci ha sorpreso, non l’abbiamo mai sentito nominare dagli esperti. Perché? Dov’è finito? Noi ci sentiamo tutti un po’ meteorologi, e quest’anno ci è parso che le previsioni fossero poco azzeccate. Tuttavia gli esperti, statistiche alla mano, ci mostrano che, no, questo momento non è eccezionale come sembra, che le situazioni locali negative sono controbilanciate da altrettante situazioni favorevoli in questo o quel Paese vicino. Il clima sta cambiando, se ne accorgono tutti. Molti fenomeni stanno avvenendo a una velocità mai riscontrata prima: il riscaldamento dei bassi strati dell’atmosfera negli ultimi 150 anni, la diminuzione della superficie del ghiaccio artico, l’aumento del livello dei mari, lo scioglimento dei ghiacciai alpini e altro ancora. Per ottenere risposte corrette e autorevoli ai tanti interrogativi nati con questa per noi pazza estate ci siamo rivolti a MeteoSvizzera, nella persona di Marco Gaia, fisico dell’atmosfera ETHZ, responsabile di Meteo Locarno. L’esperto ha confermato che effettivamente l’anticiclone delle Azzorre la scorsa estate non si è praticamente fatto vedere dalle nostre parti. Per contro, condizioni anticicloniche hanno caratterizzato il nord dell’Europa: Norvegia, Svezia e Finlandia hanno registrato nuovi primati per quel che riguarda le temperature estive. La distribuzione delle pressioni su scala globale (nord America, Atlantico ed Europa) ha fatto sì che proprio la regione alpina sia stata oggetto di una serie quasi interminabile di perturbazioni, mentre sia le regioni del nord Europa sia quelle del bacino meridionale del Mediterraneo hanno
visto la presenza persistente di frequenti anticicloni. L’anticiclone delle Azzorre è un’area di alta pressione di origine subtropicale oceanica, generalmente sempre presente sull’oceano Atlantico e in particolare sull’arcipelago portoghese da cui prende il nome e dove raggiunge il suo massimo. Può espandersi sia orizzontalmente, verso il Mediterraneo, sia in senso latitudinale, verticalmente, verso il circolo polare artico. Diversi di noi ricorderanno che verso la fine di giugno iniziava ad affermare il suo predominio europeo estivo, regalandoci temperature e cieli decisamente gradevoli. L’alta pressione delle Azzorre non raggiungeva mai alti valori barici per cui i temporali non avevano quasi mai effetti estremi. Ci sembra che sia stato sempre così, ma le statistiche ci dicono che già a partire dagli anni Ottanta, per il sud delle Alpi e il nord Italia, queste affermazioni non trovano più riscontro nei fatti. È successo che l’alta pressione ha gradualmente smesso di instaurare il suo regime anticiclonico estivo sul bacino del Mediterraneo, lasciando così campo libero alla pressione nord africana e, in misura minore, alle correnti fredde provenienti dal nord Europa. Questo fatto ha creato un alternarsi di estati roventi sull’Italia – con un caldo solitamente accompagnato da un elevato tasso di umidità che lo rende mal sopportabile – con altre estati che per settimane presentavano temperature autunnali e frequenti rovesci, come è capitato nel 2002 e nel 2006. Quest’anno, ma la tendenza è già la stessa da 7-8 anni, l’anticiclone delle Azzorre è rimasto in pieno Atlantico, propagandosi con i propri elementi verso le alte latitudini. Perché il suo influsso si è spostato altrove? Marco Gaia pensa che nessuno sia in grado di dare una risposta precisa a questa domanda: dice che con l’aumento della concentrazione dei gas a effetto serra, aumenta l’energia che rimane intrappolata nell’atmosfera e quest’energia va
Il Monte Pico vanta la cima più alta dell’arcipelago delle Azzorre. (Björn Ehrlich)
a modificare la tradizionale disposizione delle zone di alta e bassa pressione su scala planetaria, proprio perché va a influenzare l’intensità delle correnti marine e aeree che sono poi all’origine di queste zone. Sull’Atlantico esiste la cosiddetta North Atlantic Oscillation. Alle sue oscillazioni naturali si ipotizza che si sovrappongano delle oscillazioni collegabili alla citata presenza di maggiore energia nell’atmosfera. Una curiosità: l’estate 2014 da noi è stata «pessima», ma siamo stati un’isola all’interno di un globo in costante riscaldamento. I dati raccolti dalle stazioni di misura di MeteoSvizzera testimoniano come l’estate 2014 sia stata la meno soleggiata dall’inizio delle misurazioni (più di 100 anni or sono) , alquanto piovosa e un po’ freddina (era da circa 25 anni che al Sud delle Alpi non si registrava un’estate così fresca). Ma in una prospettiva a lunga scala l’estate è stata, per quel che riguarda le
temperature, simile a quelle tipiche degli anni Sessanta/Settanta. Quanto alle situazioni meteorologiche estreme, i climatologi rispondono che se aumenta l’energia «intrappolata» nell’atmosfera terrestre ci si deve aspettare che questa energia vada poi a generare fenomeni estremi più intensi. «Con riferimento alla Svizzera italiana (ma anche alla Svizzera intera)» spiega Marco Gaia, «non è così facile mettere in mostra da un punto di vista statistico questa variazione degli eventi estremi perché, per nostra fortuna, sono anche rari. Al momento non abbiamo delle conferme statistiche solide che, per esempio, i temporali siano diventati più intensi. Anche perché spesso l’intensità di un evento estremo è messa in evidenza dall’impatto sul territorio. E negli ultimi anni il nostro territorio è sempre più antropizzato. «Non è da escludere che l’apparente aumento d’intensità sia dovuto
all’aumento del valore dei beni sul territorio, beni che poi si possono danneggiare». Il pericoloso influsso dell’effetto serra sui cambiamenti climatici appare oggi la teoria più consistente e l’intervento dell’uomo sull’ambiente fornisce il contributo maggiore al rinforzo dell’effetto serra naturale. La complessità dell’atmosfera terrestre è ben più grande di quello che s’immaginava qualche decennio fa e quando i climatologi, che ne stanno studiando a fondo i meccanismi, lanciano gli allarmi sanno quello che dicono. Quindi non meravigliamoci più di tanto se siamo usciti da un’estate che, nel canton Ticino, non ricorderemo volentieri. Gli scenari su come saranno le estati nel 2050 o nel 2100 danno indicazioni per estati torride e asciutte. In futuro dunque l’estate 2014 non dovrebbe essere la regola e, anche se le medie si spostano, ci saranno ancora degli anni «normali», però forse meno frequenti.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 20 ottobre 2014 ¶ N. 43
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Ambiente e Benessere
Ambiente e Benessere
Cinquemila e cinquecento cervi (e molte zecche) Biodiversità Complicati meccanismi ecologici originano la proliferazione dei parassiti
Sabrina Belloni
Alessandro Focarile
I sentieri dei cervi Mondoanimale Al via uno studio sul comportamento e sugli spostamenti degli ungulati fra Ticino e Mesolcina Maria Grazia Buletti Negli ultimi vent’anni è costantemente aumentata la presenza dei cervi sul territorio ticinese e in Mesolcina. «Questo sviluppo ha comportato un incremento delle notifiche di danni causati dagli ungulati al bosco, alle coltivazioni agricole e ai vigneti, soprattutto nel Bellinzonese e nella parte più meridionale della Mesolcina», afferma in un comunicato Giorgio Leoni, capoufficio dell’Ufficio della caccia e della pesca.
Per ora sono stati applicati 18 radiocollari ad altrettanti cervi che verranno seguiti per due anni Molte le domande legate a questa nuova realtà nella quale un numero maggiore di cervi e altri ungulati si trovano a convivere con l’essere umano in un territorio che diviene via via più esiguo per entrambi. Da dove provengono i cervi presenti nel Bellinzonese e nelle valli limitrofe e dove provocano crescenti danni al bosco e alle coltivazioni? Provengono forse da alcuni boschi di latifoglie della regione, dalla bandita federale di caccia di Trescolmen, da altre bandite o dall’Italia? Quali itinerari scelgono questi animali per spostarsi sul territorio in estate e in inverno? «A queste e ad altre domande proveremo a dare una risposta attraverso i dati che
raccoglieremo con il progetto TIGRA» spiega Fabio Croci, capo servizio guardie dell’Ufficio della caccia e della pesca da noi interpellato. «TIGRA non certo per qualche legame con i grandi predatori, ma perché si tratta di uno studio che sarà svolto in collaborazione fra i cantoni Ticino e Graubünden (ndr: Ti – Gra)», spiega Croci che osserva come questo progetto abbia da poco preso il via, illustrando la sua durata, le inevitabili difficoltà e la raccolta dei risultati che permetterà
di tracciare un quadro più chiaro della situazione. Difficoltà dovute in primo luogo alla cattura degli esemplari ai quali è stato applicato uno speciale radiocollare, che assicura quasi in tempo reale il segnale della loro reperibilità negli spostamenti: «Il lavoro più delicato e difficile è proprio questo perché richiede una grande ricerca degli esemplari indicativi durante il periodo invernale, quando sono più deboli e lenti, dunque poco reattivi e più facili da addormentare».
Una giusta equidistanza Poco dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando la popolazione di cervi si era drasticamente ridotta sull’isola giapponese di Miyajima, le persone hanno cominciato a dare da mangiare ai cervi rimasti che vagavano liberamente per la città. Inutile dire che ciò creò amicizia fra uomini e animali, attraendo poi numerosi turisti che a loro volta si divertivano a dare cibo ai cervi. Bello vero? Attenzione, però, ogni medaglia ha un suo rovescio che qui si è rivelato ben presto: la popolazione di ungulati è cresciuta a dismisura nel corso di decenni fino a creare problemi. Oltre all’affollamento in città, i loro escrementi riempiono le vie e con il loro numero stanno consumando la vegetazione delle foreste. Per questo le autorità hanno deciso di porre un freno
a questo incremento di cervi, vietando ad abitanti e turisti di dare loro il cibo. E qui è emerso un grosso problema: dopo decenni in cui essi sono stati alimentati praticamente solo dall’uomo, i cervi non sembrano più capaci di procacciarsi il cibo da soli e al massimo rovistano nella spazzatura, talvolta spinti dalla fame arrivano ad aggredire i turisti per rubare il cibo dal loro zaino. Agli animalisti che si sono appellati per la revoca del divieto di dare cibo a questi animali, le autorità hanno risposto che oramai il loro numero costituisce un pericolo concreto sia per gli uomini sia per l’ambiente naturale. Inevitabile la riflessione: a suo tempo, una giusta equidistanza con questi animali sarebbe stata saggia da parte dell’essere umano.
Ci viene spiegato che bisogna sceglierli anche in base al sesso: «I maschi manifestano un comportamento biologico diverso da femmine e piccoli». Inoltre essi vanno catturati in zone cosiddette comode: «Per la posa del radiocollare, non possiamo anestetizzare il cervo in una zona impervia, perché l’anestetico ci mette qualche momento ad agire e l’animale, mentre si addormenta, potrebbe accidentalmente scivolare da un dirupo o cadere male e ferirsi; bisogna perciò riuscire a individuarlo in luogo comodo e pianeggiante, per dare tempo all’anestetico di fare il suo effetto senza che il cervo si faccia male». In questo modo, sono stati applicati diciotto radiocollari ad altrettanti esemplari di cervi che verranno seguiti per due anni: «Solo diciotto perché i collari sono molto sofisticati e quindi molto costosi. Buona parte di essi ci è stata prestata dal canton Grigioni». Per ottenere dati il più possibile esaustivi, Croci spiega che dopo i primi due anni di monitoraggio, questi diciotto cervi vengono catturati nuovamente e liberati dopo aver tolto loro il radiocollare. Poi, altri nuovi esemplari saranno muniti degli stessi radiocollari che in questo modo e per ulteriori due anni indicheranno i propri spostamenti sul territorio. Lo studio avrà una durata di cinque anni, dunque, i quali permetteranno di ottenere buoni risultati: «Per il nostro cantone questa è una novità assoluta: i radiocollari ci permetteranno di accedere quasi in tempo reale ai dati
computerizzati degli spostamenti degli animali marcati e nel 2019, al termine del progetto TIGRA, avremo una visione molto più approfondita della realtà degli ungulati fra Ticino e Grigioni». L’Ufficio della caccia e della pesca si rivolge ai cacciatori, invitandoli a segnalare tramite un apposito formulario (scaricabile dal sito www.ti.ch/caccia) i dati relativi alle osservazioni sia dei cervi marcati sia degli esemplari che accompagnano gli individui muniti di radiocollare GPS o di marche auricolari e collari, in modo da stabilire la struttura e il numero di capi che compongono i branchi. Il formulario va poi spedito per posta ordinaria all’indirizzo dell’Ufficio della caccia e della pesca, Palazzo amministrativo 3, via Franco Zorzi 13 a Bellinzona. Croci puntualizza: «Naturalmente i capi marcati sono protetti e l’invito a segnalare il loro avvistamento è esteso pure a tutta la popolazione, sempre attraverso la compilazione del formulario. Ci siamo rivolti ai cacciatori perché essi conoscono bene la propria zona e hanno una buona idea degli animali che la abitano. Facciamo dunque leva sulla loro buona coscienza». Tutti sono comunque invitati a partecipare a questo censimento, con lo spirito sottolineato da Fabio Croci che ribadisce più volte quanto sia importante conoscere e tutelare la natura e i suoi abitanti: «Questo progetto intende approfondire la nostra conoscenza degli ungulati, del loro comportamento e dei loro spostamenti, con lo spirito di non solo uccidere, ma anche conoscere».
«Già nel sedicesimo secolo erano da noi praticamente scomparsi caprioli e cervi, e l’unico grosso selvatico ancora disponibile era il camoscio, con effettivi comunque ridotti rispetto agli attuali. Costretto a cercare nutrimento nei luoghi più alti e impervi della montagna, a causa della concorrenza di uno stuolo impressionante di capre e pecore censite nel 1833 (Franscini, 1837) in 75mila, rispettivamente 23mila capi» (Barelli, 2005). Secoli di cacce continuate, e necessarie per il sostentamento di tanta gente alle prese con problemi vitali di sussistenza, cacce in territori molto meno boscosi, perché trasformati in colture e prati, avevano avuto come risultato la totale scomparsa di cervi e caprioli, anche a causa dell’incisiva presenza dei grandi predatori: lupi e linci. Questi ungulati (insieme a daini, alci e renne) sono tipici animali di bosco, non fitto e con molte radure. Di molto antica origine fin dal Pliocene, alcuni milioni di anni or sono (Allaby 1992), essendosi diffusi nell’Eurasia, sono animali che hanno trovato ospitalità e condizioni di vita ideali nell’immensa foresta che ricopriva tutta la fascia terrestre climaticamente temperata a Nord del 45° parallelo. La penetrazione e la presenza del cervo e del capriolo, dopo la plurisecolare assenza in Svizzera, sono particolarmente vistose e recenti. In quanto, da una prima e timida comparsa in Mesolcina e nell’alta Leventina, si è verificata la quasi completa occupazione del territorio ticinese in appena 60 anni: 1930/1990. A una naturale espansione a sud delle Alpi dei due cervidi, si sono aggiunte e documentate le prime introduzioni (da parte di società venatorie) nella conca di Airolo del 1933/1935, in alta Leventina. Dai regolari censimenti annuali compilati dall’Ufficio caccia e pesca (Dipartimento del Territorio, Bellinzona) a partire dal 1990, risulta che le popolazioni dei due ungulati hanno avuto un aumento numerico esponenziale. Per quanto riguarda i cervi, l’incremento è stato rapido: dai 2 mila capi censiti nel 1990, ai 3800 nel 2000, e infine ai 5500 capi del 2013! A livello federale, il numero è aumentato da 23’400 a oltre 30mila (2014), nel corso di appena 14 anni. Questo incremento faunistico dei grossi selvatici, se da una parte può costituire motivo di soddisfazione per l’ambiente protezionistico, dall’altra sta creando seri e concreti problemi a livello sanitario, di sicurezza stradale, forestale e agricola. Problemi che in passato non esistevano. Difatti, oltre agli sporadici prelievi dell’uomo-cacciatore, la presenza dei grandi predatori limitava (con modalità del tutto naturali) i contingenti dei due cervidi. Il bosco non presentava gli attuali problemi
Una nidiata di Ixodes ricinus. (Alessandro Focarile)
di gestione, essendo considerato unicamente una fonte di procacciamento di combustibile, di legname da opera, di stramaglia per le stalle e, per quanto riguarda le selve castanili, una vitale fonte di cibo. Cervi e caprioli sono aumentati a dismisura durante gli ultimi vent’anni, pur essendo le risorse alimentari del territorio sempre più esigue per animali molto mobili e attivi. E poiché la superficie del cantone Ticino è pari al 6,8 per cento di quella nazionale, risulta molto evidente la palese sproporzione tra territorio cantonale e numero dei capi attualmente censiti. In concreto vi è una forte pressione faunistica rispetto alle risorse alimentari disponibili. Tale pressione si concretizza principalmente attraverso i danneggiamenti a livello forestale (come vedremo), delle colture: orti, giardini, vigneti, frutteti. Un’altra cifra è da tenere presente: cervi e caprioli gradiscono l’ambiente boschivo, e il 47 per cento del territorio ticinese ricade nella fascia altitudinale compresa tra 300 e 1800 metri (Billet, 1972), ovvero in quella potenzialmente e prevalentemente popolata dalle latifoglie. Un ulteriore fattore di disturbo è rappresentato dall’aumentata presenza umana sul territorio. Attività ricreative (o di competizione), come le corse di orientamento, le mountain bike, le passeggiate e, durante l’inverno, la presenza di motoslitte, le randonnées con le racchette (dette ciaspole), la pratica dello sci di fondo. La presenza più o meno diffusa e costante dell’uomo nel bosco, diminuisce vieppiù le aree dove gli animali selvatici potrebbero vivere e nutrirsi in tranquillità. Vie di comunicazione (ferrovie, strade, autostrade), insediamenti urbani sempre più fitti e continui, industriali e commerciali, hanno creato una frammentazione degli spazi naturali e la soppressione di una continuità territoriale per gli animali, costretti a popolare aree sempre più ristrette. Durante l’inverno, la mancata disponibilità di materia vegetale vivente (erba e fogliame), spinge i due cervidi a ricercare cibo di ripiego e di sussistenza, che trovano nella corteccia di diversi alberi particolarmente appetitosi: principalmente castagno, faggio e sorbo degli uccellatori (Sorbus aria) nel Sottoceneri, e abete bianco nel Sopraceneri. Molto spesso, gli alberi scortecciati sono votati a morte sicura. Durante la buona stagione, inoltre, sono particolarmente allettanti le plantule, cioè i giovani alberi in crescita, e i germogli. In sede di rimboschimenti, sia per agevolare la rinnovazione naturale, sia per nuovi impianti di boschi protettivi contro la caduta di materiali rocciosi e di valanghe, gli animali coinvolti provocano seri, onerosi e preoccupanti danni, ostacolando e ritardando le operazioni forestali di gestione e generando un notevole costo economico.
Dermacentor marginatus (scala millimetrica): una grossa specie di zecca di recente comparsa nel Cantone Ticino. (Alessandro Focarile)
Negli ultimi vent’anni cervi e caprioli sono aumentati a dismisura. (Mehmet Karatay)
Da alcuni millenni, il contatto tra uomo e animale ha configurato la storia delle patologie umane. Da quando l’uomo ha progressivamente addomesticato capre, pecore, bovini, cavalli, cani e gatti, è stata inevitabile l’eventualità di contrarre delle malattie a causa della promiscuità con animali da sempre vettori di organismi patogeni. Dalle renne che ruminano licheni nei paesi dell’aurora boreale ai gabbiani che sghignazzano sulle rive del Parco Ciani a Lugano, dai piccioni che vengono a becchettare qualcosa sul davanzale di casa al ramarro che prende il sole in un prato secco del Monte di Caslano, dalla cuccia del fido amico dell’uomo alle orecchie di un riccio nottambulo che trotterella furtivo lungo il muro del giardino: le zecche affamate di sangue sono dappertutto, con una particolare predilezione per i mammiferi, uomo compreso.
Scortecciamenti causati dai cervi. (Alessandro Focarile)
L’arpione pungente e succhiante della zecca più diffusa: Ixodes ricinus. (Alessandro Focarile)
Le zecche sono aracnidi, munite di otto zampe e parenti prossime di ragni e scorpioni. Conosciamo attualmente 900 specie a livello mondiale (40 in Italia e 20 in Svizzera). Ma solo 3-4 specie presentano un certo grado di «antropofilia», cioè con rapporti frequenti e talvolta molto pericolosi per l’uomo. Hanno un apparato boccale succhiante molto specializzato. Questo è a forma di arpione (foto), in cui scorre una sorta di tubo, che convoglia una sostanza anticoagulante del sangue, ed emette saliva e rigurgiti del pasto. La femmina fecondata, durante l’autunno, depone da 200 a 10 mila uova (a seconda della specie) nella lettiera dei boschi, di preferenza di latifoglie. Dalle uova si svilupperanno le larve (con 6 zampe), e successivamente la ninfa e quindi l’adulto, completando l’intero ciclo entro 2-4 anni. Questi esseri si arrampicano sulle erbe, sui cespugli e nel sottobosco. Particolarmente famelici attendono di trasferirsi su un ospite, in genere un piccolo roditore. In seguito, aspettano l’occasione per passare ad animali più grandi, come cani, gatti, volpi, cervi e caprioli, ovini, bovini e capre. I periodi dell’anno potenzialmente più pericolosi per l’uomo, sono la primavera e l’autunno: le stagioni più piovose nella regione insubrica. Tre sono le specie di zecche che, ai fini patologici, presentano un concreto fattore di rischio per chi percorre boschi di latifoglie e prati abbandonati. Innanzitutto l’Ixodes ricinus: è la classica zecca delle pecore, che è passata successivamente sui cervidi, estendendo quindi i suoi areali di popolamento e aumentando le possibilità di contatto con l’uomo. Questo grazie anche alla drastica diminuzione della pastorizia ovina. Ma vi sono tuttora paesi popolati da eserciti di pecore: 400 mila in Scozia, 130 milioni in Australia, dove il problema zecche assume aspetti clamorosi a livello di pubblici bilanci. L’incremento di Ixodes ricinus si osserva soprattutto su cervi e caprioli, suoi ospiti preferiti. Di conseguenza l’aumento di questi animali in parchi e aree protette, incrementa le popolazioni libere di questa zecca e rende spesso la frequentazione di queste aree altamente rischiosa per l’uomo. Ixodes ricinus, Dermacentor marginatus (foto) possono trasmettere due infezioni at-
traverso le loro punture. Un batterio (Borrelia burgdorferi) all’origine della borreliosi, e un virus che può provocare l’encefalite da morso di zecca. Entrambe le patologie sono di competenza del medico. Possiamo difenderci da sgradevoli incontri durante le nostre passeggiate? Sì, ad esempio, è consigliato non camminare (e nemmeno fermarsi per un picnic) nelle aree potenzialmente infestate dalle zecche indossando pantaloni corti e sandali: le zecche amano molto gambe e piedi nudi. Può essere anche utile cospargere indumenti e pelle con prodotti repellenti, tenendo presente che la loro efficacia è di gran lunga inferiore (in termini di tempo) a quella indicata dal fabbricante. Sudore, calore e ventilazione diminuiscono la proprietà repellente del prodotto utilizzato. Infine a casa, è bene controllare accuratamente tutta la superficie del proprio corpo. Le zone predilette dai parassiti sono le ascelle e il pube. La puntura della zecca provoca in alcuni casi un arrossamento della pelle, che tende lentamente a ingrandirsi. Esso si manifesta dopo un periodo che varia da 2 a 40 giorni, e può scomparire spontaneamente dopo alcune settimane, ma questo non significa che l’infezione sia risolta. La borreliosi si può curare con antibiotici, sotto controllo medico. È vero, è bella e salutare una passeggiata nei boschi, magari con il cane, ma l’ambiente naturale non presenta soltanto aspetti rilassanti, sereni e idilliaci, come vorrebbe far credere una certa scuola di pensiero. Esistono anche dei potenziali pericoli, che occorre conoscere per non andare incontro a spiacevoli disavventure. Bibliografia
Marzio Barelli. Lupi, orsi, linci e aquile. Una ricerca storica sulle taglie pagate nel Ticino per gli «animali feroci». Edizioni Jam (Prosito), 2005, 238 pp. Marco Salvioni & Alessandro Fossati. I mammiferi del Cantone Ticino. Pro Natura (Lugano), 1992, 103 pp. Albertina Iori et al. (serles editor Giuseppe Cringoli). Zecche d’Italia. Rolando Editore (Napoli), 2005, 199 pp. David Walter & Heather Proctor, Mites. Ecology, Evolution and Behaviour, CABI Publishing (New York), 1999, 313 pp.
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Ambiente e Benessere
Gli arrosti Medicei Bacco a tavola Molti piatti di carne con l’osso, come la bistecca
Davide Comoli A prima vista non è poi tanto difficile – se si ha un po’ di pratica – preparare una carne arrosto condendola semplicemente con un po’ d’alloro, rosmarino e una punta d’aglio. Un piatto che sarà sicuramente il miglior alleato di un grande vino rosso bevuto al suo apogeo. Sebbene sia invece difficile, per quest’ultimo, immaginare uno dei più bei matrimoni che non sia con un bell’arrosto di maiale, agnello o vitello. Cosa c’è di meglio di un gigôt per mettere in risalto le straordinarie qualità di un Brunello di Montalcino o di un Nobile di Montepulciano? Molto probabilmente l’abile Cosimo il Vecchio, capofamiglia dei Medici, aveva già intuito quanto fosse importante l’enogastronomia per tessere legami e accumulare capitali, in quel lontano 1430 quando, a Firenze, si tenne il concilio ecumenico della Chiesa Cristiana di Roma con la Chiesa Ortodossa di Costantinopoli. Per ordine di Cosimo il Vecchio, ai partecipanti di quel consiglio così importante per i Medici, dal quale dipendevano gli affari delle imprese famigliari, vennero elargiti ospitalità e piatti prelibati ai prelati orientali e occidentali. Tra tutte le prelibatezze culinarie, un piatto suscitò stupore più degli altri (così narra P. Artusi sull’origine di questo nome). Si trattava di un arrosto all’alloro, con aglio ed erbe aromatiche:
«Arista, ottima, arista ariston, eccellente il pranzo migliore» esclamarono ad alta voce all’unisono i vescovi greci e gli archimandriti, ingozzandosi letteralmente con l’arrosto toscano. Da quel giorno Cosimo e Firenze chiameranno quel piatto di carne di maiale con il nome greco arista, suggellando così la loro amicizia d’affari, basata sul vantaggio reciproco. A Firenze e ai Medici dobbiamo anche molti altri piatti di carne con l’osso, oltre l’arista, come la bistecca alla fiorentina cotta sulla brace, e i vari arrosti di maiale e di vitello. La stessa passione per il potere, l’arte e la buona tavola verrà ereditata anche dalle forti donne della famiglia de’ Medici come Caterina (1519-1589) che divenne sposa del francese Enrico II, il quale partì per la Francia con uno stuolo di dame, servi e il suo ricchissimo corredo; si dice inoltre che tra i suoi averi ci fossero i semi del prezzemolo (le persil d’Italie), le zampette degli asparagi, le punte dei carciofi, i fagioli cannellini bianchi, i bachi da seta e di sicuro il vitigno Trebbiano, che in Francia prenderà il nome di Ugni Blanc – è il vitigno più coltivato nella zona del Cognac – ma anche, come sostiene qualche maligno, un indumento femminile, fino ad allora sconosciuto in Francia, les culottes per le signore. Un’altra de’ Medici, Maria (1575-1642) seconda moglie di Enrico IV, fu reggente per il figlio Luigi XIII
e introdusse dalla natia Firenze, molti piatti alla corte francese. Ingaggiò, infatti, cuochi italiani, i quali – grazie al suo aiuto – influirono significativamente sulla gastronomia gallica di allora, la quale senza alcun dubbio iniziava ad avere una sua fisionomia. Molti piatti della cucina francese portano (o portavano) il nome dei Medici, una famiglia che ha segnato la storia italiana, influendo sugli avvenimenti in Europa, sia attraverso legami commerciali, famigliari e politici, ma anche attraverso l’arte, la cucina e il piacere di mangiare. Restando in tema di arrosti ricordiamo: «La Faraona alla Medici», «La sella di pre-salé Rinascimento» e lo «Stinco di vitello arrosto alla M. de Medici» da gustare abbinando al primo un Cru del Beaujolais, al secondo un grande Rosso del Pauillac e al terzo un ottimo Pinot Nero della Côte de Nuits. Oltre ad amare le creste e i rognoni di gallo saltati in padella con i carciofi, (a suo tempo ritenuti altamente afrodisiaci), Caterina adorava la carne di vitello – che era allora considerata come la migliore – e in particolare il fegato cotto su una piastra e aromatizzato con le spezie: non mancava quasi mai dalla sua mensa, che veniva arricchita da un profumato vino bianco proveniente da Vouvray (Chenin Blanc), una zona della Loira. Gli impieghi in cucina del vitello sono molti, proprio perché la sua carne ha un sapore decisamente più delicato
Louis Garden
alla fiorentina cotta sulla brace, le varie preparazioni di maiale e di vitello come l’arista, li dobbiamo a Firenze e ai Medici
rispetto a quella di un bovino adulto. Moltissime sono le ricette a base di questo animale. Partendo dagli arrosti, si passa a quelle in padella, fino al classico vitello tonnato. Il grande gastronomo Grimod de la Reynière, parlando del vitello lo definiva giustamente «il camaleonte» della cucina. Le carni di vitello possono offrire connotati sensoriali molto diversi, mitigati, ma più spesso rafforzati, da cotture lente o rapidissime, senza grassi o con l’aggiunta di salse, intingoli vari, spezie o erbe aromatiche. Ai classici staltimbocca, così come alle scaloppine al burro e salvia, oppure ancora alle scaloppine al vino bianco – che sono saporite combinazioni dai toni aromatici – abbinate un vino bianco di ottima struttura, sapido e caldo come uno Chablis. Un vino rosso dai tannini moderati come un Santa Maddalena dell’Alto Adige, potrebbe invece svolgere bene il suo compito con le classiche scaloppine ai funghi. L’intrigante combinazione di un vitello al curry, dove la speziatura e la
piccantezza vengono stemperate dal riso pilaf, maritatelo con un Soave Classico o con un mitico Viognier come il Ch. Grillet. Un giovane Dolcetto – ma corredato da una buona morbidezza, discreta struttura e sapidità – può sposare molto bene il carré di vitello al forno e un Rosso di San Colombano può certo combinarsi con un piatto unico che soddisfa l’intero pasto, come l’ossobuco alla milanese con il risotto allo zafferano. Scrivendo non m’accorgo che il tempo passa, mentre il timer del forno ci avverte che il nostro arrosto di vitello al profumo di rosmarino è pronto: aromatizzato, saporito, sapido al punto giusto, con quel velo di grassezza e una corretta tendenza dolce, dove l’untuosità è appena percettibile da un po’ di sugo di cottura, quale miglior compagno possiamo scegliere per la nostra cena se non un equilibrato, profumato e discretamente strutturato Merlot nostrano? Alziamo il bicchiere, ripensiamo a de’ Medici, ai loro banchetti, alle loro composizioni che esaltano la giovinezza, l’amore, le gioie del buon vivere. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 20 ottobre 2014 ¶ N. 43
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Sara Pellicoro
Ambiente e Benessere
«Dov’è il caravan?» Viaggiatori d’Occidente Ecco quali piccole avventure e grandi incontri possono capitare a chiunque
nei 8700 chilometri di viaggio fra Lombardia e Kurdistan turco
Guido Bosticco «Dov’è il caravan?». È la domanda che chiunque ti rivolge se ti trovi in un paese lontano con lo scooter. È normale. I turisti viaggiano in camper ed estraggono dai gavoni sul retro biciclette o motorini. Ma se parti via terra dalla Lombardia e raggiungi il Kurdistan turco con uno scooter da 200 cc. allora le cose cambiano. Ecco un elenco di piccole avventure e grandi incontri che possono capitare a chiunque durante 8700 chilometri di viaggio. Anzitutto lo scooter è sacro e va preservato. «Una moto? Quanto è grande?». Il concierge dell’Hotel Capital di Ankara, a pochi passi dal vecchio Parlamento, si sporge dal bancone per guardare oltre la strada trafficata. «Ok, può metterlo qui», conferma indicando il salotto con moquette a fiori cui si accede dalla hall principale. Poi fa un gesto al fattorino che apre la seconda anta del portone e ti invita a passare, motore acceso, proprio sul tappeto rosso dell’entrata. Un posteggio fra i divanetti, vicino al tavolo del buffet. A Konya, rientrando tardi da una passeggiata notturna, è facile ritrovare il tuo scooter dietro la saracinesca del ristorante, fra le vasche del self service e i tavoli. L’indomani, prima che ti svegli, lo ritroverai parcheggiato in strada, dove l’avevi lasciato. Una cortesia usuale in un Paese decisamente ospitale. Seconda lezione: lo scooter è un rompighiaccio. «Dove è il caravan?». È proprio Ibrahim il primo a farsi questa domanda. Lui se ne sta seduto vicino al frigo dei gelati, di fronte al magnifico caravanserraglio di Sultanhani, provincia di Askaray, Anatolia centrale. «Andate verso l’Iran? Ho fatto il soldato là». Impossibile non fermarsi a parlare di politica, proprio in quei giorni la Turchia è al voto. «A Est troverete qualche protesta per le strade, perché il candidato kurdo perderà».
E se chiedi qualcosa di questa piccola cittadina, scopri che ospita il più importante centro di restauro di tappeti della Turchia. L’anno prossimo apriranno anche una scuola. «I turisti qui si fermano dieci minuti per il caravanserraglio e all’undicesimo minuto ripartono», dice Ibrahim aprendo la porta del Sultansaray Hali, la ditta di restauro. Sull’uscio c’è Fahri Solak, che nel 1980 l’ha fondata. Da un paio di settimane è anche sindaco di Sultanhani. Parla di tappeti e di politica con la stessa passione: dei primi è innamorato e della seconda è orgoglioso. Al piano di sopra, una decina di uomini restaurano «il più grande tappeto del mondo», 130 metri quadri, che sta nel palazzo del Governo di Istanbul. Sei mesi di lavoro per dieci uomini, a tempo pieno: «Non ci guadagneremo molto, ma è un compito prestigioso» dice Fahri. Vicino c’è anche uno splendido tappeto persiano che viene da Windsor per essere riannodato. Vi sono poi dei kilim e dei sumak (i tappeti cosiddetti piatti, senza vello), quelli non si riparano altrimenti perdono valore, ma si fissano su un nuovo supporto che li stabilizzi. E ancora un esemplare iraniano, fatto a Isfahan, di proprietà del museo Topkapi, si trova nelle mani di un silenzioso artigiano. E mentre un nuovo bus scarica un gruppo di giapponesi, c’è il tempo per un tè e si riparte verso Est: destinazione Cappadocia. Terzo «comandamento»: lo scooter non rimane mai giù. Anche se non c’è posto, il posto si trova. Ogni battello, ogni chiatta è in grado di aggiungere uno scooter al suo carico. Se arrivate sull’Eufrate venendo dalla magnifica Nemrut Dagi, dovrete imbarcarvi per forza su un feribot, perché l’avveniristico ponte è ancora incompleto. A proposito di Nemrut Dagi, una delle attrazioni maggiori della Turchia: tutte le guide consigliano di andarci
all’alba o al tramonto per via della luce, ma se ci andate dopo le 9.30 di mattina vedrete scendere decine di autobus dalla vetta e potrete gustarvi in totale solitudine lo stupefacente monumento funebre di Antioco I. A volte disobbedire conviene. Al quarto posto si potrebbero mettere gli incontri…: Silvan, Batman e altri amici dello scooter. Viaggiando con una piccola moto è inevitabile fare spesso sosta. E capita quindi di fermarsi, magari per una notte, in paesi con strani nomi (Silvan, Batman…), di cui scopri la bellezza e l’accoglienza. Due esempi: a Silvan c’è una moschea del 1185, fra le più belle dell’Anatolia, del tutto ignorata dalle guide. A Tokat, a metà della diagonale fra Trabzon e Ankara, scopri invece il castello in cui fu imprigionato Dracula (o meglio il Principe Vlad III), provi il miglior hammam della Turchia, il più famoso kebab – il «Tokat Kebab» appunto – e apprendi che il governo ha investito più di venti milioni di lire turche per ristrutturare botteghe, monumenti e case ottomane. Cifra enorme qui, ma questa è la futura perla del turismo turco. Quinta regola: lo scooter non si ferma mai. Nella pancia della Turchia, dove tutto è sconosciuto, puoi ripartire una mattina dalla frontiera iraniana di Kapiköy, a est del lago di Van, e non trovare benzina per centinaia di chilometri fra gli altopiani. Allora magari ti addentri nel micro villaggio di Saray e chiedi se c’è un distributore. Non c’è. Ma c’è il sarto del paese, che chiede al suo avventore, il quale chiama il negoziante di casalinghi, che ti offre un tè e telefona al meccanico amico, il quale infine ti porta una tanica da tre litri. Quella non è solo benzina: è un modo di comunicare fra esseri umani. Un altro sorso di tè e ritorni in sella. Arrivederci, anzi güle güle!
Porta verde a Tokat. (Sara Pellicoro)
Cartelli stradali che non necessitano di altre spiegazioni. (Sara Pellicoro)
Fabbrica di tappeti nel caravanserraglio di Sultanhani. (Sara Pellicoro)
Il frontale del monumento Nemrut Dagi. (Sara Pellicoro)
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Ambiente e Benessere
Magico Capodanno in Lapponia
Tagliando d’iscrizione
Vacanze Per i lettori di «Azione», Hotelplan organizza un viaggio «fuori dal mondo»,
Desidero iscrivermi al viaggio dal 28 dicembre 2014 al 2 gennaio 2015
dal 28 dicembre 2014 al 2 gennaio 2015
Nome
La Lapponia è forse il posto più magico di tutta la Finlandia. Il sole non tramonta mai (almeno durante l’estate),
le aurore boreali illuminano le lunghe notti polari, gli allevamenti di renne incuriosiscono e poi ci sono le avventure
Prezzi Quota per persona in camera doppia: CHF 3195.–. Supplemento camera singola: CHF 255.–. Terzo letto bambino 2-13 anni in camera doppia: CHF 2295.–. Quarto letto bambino 2-13 anni in camera doppia: su richiesta. Spese di dossier: CHF 60.–. Escursioni facoltative prenotabili in agenzia, prezzi su richiesta. Safari con gli Husky, pesca nel ghiaccio, safari notturno in motoslitta, alla ricerca dell’Aurora Boreale con le racchette da neve, safari con le renne, museo Siida a Ivalo, museo dell’Oro, «smoked sauna» e dell’ice village, e altre ancora…
ll prezzo comprende Trasferta in torpedone all’aeroporto di Milano e ritorno; volo speciale diretto su Rovaniemi; trasferimenti a Saariselkä dall’aeroporto all’hotel e vicerversa; sistemazione in hotel 4**** in camera doppia con servizi privati a Saariselkä e Rovaniemi come da programma; trattamento di mezza pensione e Cenone di Capodanno; Assistente e guide parlante italiano durante le escursioni; escursione in torpedone al villaggio di Babbo Natale e al Santa Park; abbigliamento termico da usare durante le escursioni; accompagnatore dal Ticino. Il prezzo non comprende Bevande; escursioni facoltative; facchinaggio; assicurazione annullamento; gli extra in genere e tutto quello non espressamente indicato in programma.
immersi nella natura senza incontrare mai un uomo per settimane… Inoltre la Finlandia è forse uno degli unici posti al mondo dove i telefoni cellulari sono inutili visto che spesso non c’è campo. Nel cuore delle colline, vicino al Parco Nazionale di Urho Kekkonen, si trova la località di Saariselkä. L’ampia proposta di destinazioni che viene offerta da Hotelplan ai lettori di «Azione» durante Capodanno (dal 28 dicembre 2014 al 2 gennaio 2015) combina servizi di alta qualità con iniziative organizzate per trascorrere una vacanza indimenticabile in uno scenario di natura intatta, avvolti da un ambiente incontaminato e secondo la cultura Sami. Un viaggio unico per grandi e piccini
Secondo il programma, all’arrivo si verrà trasferiti a Saariselkä, villaggio polare a 120 km da Rovaniemi, dove si trova l’aeroporto. Il giorno dopo ci si potrà riposare oppure si potranno già fare delle escursioni nel magnifico villaggio. Martedì 30 dicembre è in programma invece un’escursione di 4 ore per visitare un allevamento, mentre dopo cena si partirà a caccia dell’aurora boreale. Inutile dire che sarà poi la volta del cenone di Capo-
Bellinzona
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Lugano
Viale Stazione 8a 6500 – Bellinzona T +41 91 820 25 25 bellinzona@hotelplan.ch
Centro Comm. Serfontana 6834 – Morbio Inferiore T +41 91 695 00 50 chiasso@hotelplan.ch
Via Pietro Peri 6 6900 – Lugano T +41 91 910 47 27 lugano@hotelplan.ch
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Cognome Via NAP Località Telefono e-mail
danno, per poi ripartire il 1. gennaio con piena energia, ma non prima di visitare Rovaniemi, dove si trova il Villaggio di Babbo Natale e il Santa Park.
Sarò accompagnato da … adulti e … bambini (2-13 anni)
Programma: viaggio in Finlandia Domenica 28 dicembre 2014 Ticino – Milano Malpensa – Rovaniemi Saariselkä Lunedì 29 dicembre 2014 Saariselkä - Giornata per visite ed escursioni facoltative Martedì 30 dicembre 2014 Saariselkä - Escursione Husky Safari e a caccia dell’Aurora Boreale, in serata Mercoledì 31 dicembre 2014 Saariselkä – Escursioni facoltative. E cenone di Capodanno.
Giovedì 1. gennaio 2015 Saariselkä – Rovaniemi. Visita al Villaggio di Babbo Natale e al Santa Park (3h) Venerdì 2 gennaio 2015 Rovaniemi – Milano Malpensa – Ticino.
ATTENZIONE: il programma è soggetto a possibili modifiche a dipendenza della situazione meteorologica!
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Ambiente e Benessere
Oltre ottanta anteprime mondiali Motori Sulla passerella dell’ultima edizione del salone automobilistico di Parigi
anche la nuova Volkswagen Passat GTE
Mario Alberto Cucchi L’edizione 2014 del Mondial de l’Automobile di Parigi ha chiuso i battenti lo scorso 19 ottobre. Oltre ottanta le anteprime mondiali. Dalla Bmw X6 alla Fiat 500X. Dalla Jaguar XE alla Land Rover Discovery Sport. Dalla Mazda MX5 alla Suzuki Vitara. Dalla Renault Espace alla Volkswagen Passat GTE. È quest’ultima la prima ibrida plug-in di sempre disponibile sulla gamma berlina e Variant della bestseller tedesca giunta all’ottava generazione.
I riflettori sono stati puntati anche sulla prima auto ibrida plug-in griffata Lamborghini che porta il nome del mitico minotauro Asterion Sulla Passat GTE le batterie collegate al motore elettrico sono ricaricabili utilizzando una normale presa di corrente in 4 ore e 15 minuti oppure in 2 ore e 30 minuti dal wallbox rapido che offre a richiesta la Casa. Questa innovativa Volkswagen è spinta da un motore 1.4 TSI da 156 cavalli a cui abbina uno elettrico da 116 cavalli per una potenza massima di sistema di ben 218 cavalli con una coppia massima di 400 Nm. Le batterie dotate di tecnologia agli ioni di litio consentono alla Passat GTE di percorrere fino a 50 km in modalità esclusivamente a zero emissioni. Da record i valori relativi a consumi ed emissioni di CO2, rispettivamente a meno di 2 litri/100 km e a meno di 45 g/km. Con il serbatoio pieno e la batteria completamente carica, la vettura vanta un’autonomia di oltre
mille chilometri, sufficienti a coprire il tragitto Parigi-Londra-Parigi senza rifornimento. Decisamente buone anche le prestazioni. Utilizzando esclusivamente la propulsione elettrica, E-Mode, si raggiunge una velocità massima di 130 chilometri orari che diventano oltre 220 utilizzando anche il motore termico 1.4 TSI. Lo 0-100, invece, viene coperto in 8,0 secondi. La trazione è sulle ruote anteriori e il nuovo cambio a sei rapporti DSG è a tripla frizione. Quattro le modalità di guida disponibili: solo elettrica, ibrida, ricarica della batteria in cui il motore termico funge da
generatore e sportiva chiamata GTE. In quest’ultima cambia l’erogazione dei motori, la risposta dello sterzo e dell’acceleratore: sono disponibili tutti i 218 cavalli dichiarati. La Passat GTE si riconosce subito per via dei dettagli blu che la distinguono da altri modelli, ma anche per i nuovi fari C-LED anteriori. Sono numerose le dotazioni tecnologiche specifiche della versione GTE: va citata l’app Car-Net eRemote, che oltre a fornire informazioni sulla vettura è in grado di attivare via smartphone la ricarica dalla presa di corrente e la climatizzazione dell’abitacolo. Non un sogno ecologico ma un’au-
tomobile per tutti. Il Mondial de l’Automobile di Parigi è però anche il salone dei prototipi e delle auto da sogno. Ecco allora che, sotto la tour Eiffel, i riflettori sono stati puntati sulla prima auto ibrida plug-in griffata Lamborghini che porta il nome del mitico minotauro, figura metà uomo e metà toro: Asterion. La Asterion LPI 910-4 è costruita intorno a una monoscocca realizzata in fibra di carbonio ed è equipaggiata con il motore dieci cilindri a V aspirato di 5,2 litri abbinato a tre propulsori elettrici per una potenza complessiva del sistema di 910 cavalli, sufficienti a consentire una velocità
ORIZZONTALI 1. Intervalli di sette gradi nella scala diatonica 7. Una razza canina 8. Pronome dimostrativo 9. La colpisce la legge 11. Li seguono in bilico 13. Le iniziali dell’inventore del diesel 14. Appartiene alla famiglia dei muridi 18. Né bianchi, né neri 20. Stato dell’Asia occidentale 21. Tratto di fiume percorribile a piedi 22. Con tip in un ballo 23. Ridotta in piccoli frammenti 25. Formate da acqua bassa e stagnante 27. Le iniziali del giornalista Mentana 28. Grasse 29. Lo è l’onagro VERTICALI 1. Si porta in spalla 2. Dio greco del Sole 3. Lo adoravano i cinesi 4. Torna se ora non c’è 5. Il pupo di Mascagni 6. L’arcipelago di Favignana 10. Dunque, perciò 12. Non ha prezzo! 14. Disposto verticalmente 15. Pappagallo americano 16. Servono a chiudere 17. Due lettere di Torquato 18. Punto di riferimento 19. Monte di Creta 21. Piccola costellazione australe 23. Dispari nel tulle 24. Prefisso che vuol dire somiglianza 26. Le iniziali dell’attrice Mastronardi 27. Preposizione francese
Sudoku Livello difficile
massima di 320 km/h e di accelerare da 0 a 100 orari in soli 3 secondi. Le emissioni di CO2 sono contenute ad appena 98 g/km, i consumi sono limitati a 4,1 litri/100 km e l’autonomia in modalità totalmente elettrica è di 50 km con una velocità massima di 125 chilometri orari. Pare che Lamborghini non sia ancora interessata alla produzione di auto ibride ma che Asterion sia «solo» una dimostrazione tecnologica. «Lamborghini – ha spiegato il Presidente, Stephan Winkelmann – ha sempre guardato avanti, investendo in nuove tecnologie, creando nuovi punti di riferimento e realizzando l’inaspettato».
Giochi Cruciverba Di quanti giocatori è composta una squadra di pallanuoto e quanto dura una partita? Scoprilo risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere nelle caselle evidenziate. (Frase: 5, 9, 7, 5)
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Scopo del gioco
Completare lo schema classico (81 caselle, 9 blocchi, 9 righe per 9 colonne) in modo che ogni colonna, ogni riga e ogni blocco contengano tutti i numeri da 1 a 9, nessuno escluso e senza ripetizioni.
Soluzione della settimana precedente
Tra coniugi – un miliardario ha lasciato tutto alla donna che rifiutava di sposarlo: «… la riconoscenza esiste ancora!» L A D R I O S E S B I A S I G R A P U E R G U I N E E L S A A O C A C L D I E O D I
C O N C E N A I L I A L S A N T A I E S T E L T O N O I N T O E D
I M O I N E
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Politica e Economia L’Uruguay alle urne Il piccolo Paese dell’America latina chiude il ciclo elettorale del 2014 in America latina scegliendo il successore di Mujica
Un libro e uno spettacolo L’economia spiegata attraverso il viaggio musicale della band inglese è l’originale chiave di lettura che il giornalista e scrittore Federico Rampini propone ai suoi lettori e al pubblico che andrà a vederlo in scena a Lugano
La consulenza finanziaria Un piano di risparmio in fondi, con l’investimento mensile di una somma costante, si rivela fra i più paganti
Salvare l’oro della BNS? Le conseguenze dell’iniziativa che vuole imporre alla Banca nazionale di conservare e accrescere le riserve di oro
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In Pakistan si festeggia il Nobel assegnato a Malala, 17 anni, che nel 2012 venne ferita quasi mortalmente da un talebano. (AFP)
Dalla parte dei bambini Nobel per la pace Il premio 2014 è stato assegnato a Malala Yousafzai e a Kailash Satyarthi «per il loro impegno
contro la sopraffazione nei confronti dei bambini e dei giovani e per il diritto di tutti i bambini all’istruzione» Luisa Betti La notizia le è arrivata a scuola, durante la lezione di chimica, ma lei non ha voluto interrompere le lezioni e ha concluso la mattinata con l’ora di fisica e d’inglese, per poi volare a Oslo. È Malala Yousafzai che a soli 17 anni ha ricevuto il premio Nobel per la pace ex equo con l’attivista indiano Kailash Satyarthi, da 25 anni impegnato contro lo sfruttamento e la riduzione in schiavitù di bambini e bambine. La più giovane Nobel della storia che però ha già un passato importante: a 11 anni Malala curava un blog per il sito della BBC in lingua urdu per documentare la difficile vita nel distretto dello Swat in Pakistan, dove viveva in piena offensiva talebana, schierandosi a favore dell’istruzione delle ragazze in un Paese, il suo, in cui 20 milioni di minori sono ancora oggi esclusi dall’accesso alla scuola. Una determinazione che le costò quasi la vita quando il 9 ottobre del 2012, qualcuno salì sul suo scuolabus chiedendo Malala Yousufzai sok daa? (Chi è Malala Youzufzai?) e sparando verso il suo volto per colpirla alla testa sopra l’occhio sinistro. Un attentato rivendicato da Ihsanullah Ihsan, portavoce dei talebani pakistani, perché la
ragazza era «il simbolo degli infedeli e dell’oscenità». «I talebani erano indaffarati a insediarsi nello Swat – aveva dichiarato in quei giorni Murtaza Haider, vice rettora di origine pakistana all’Università di Toronto – e avevano proibito la scuola per le femmine. Malala e le sue compagne erano andate lo stesso alle lezioni di nascosto e coi libri sotto i vestiti, rischiando aggressioni armate o con l’acido». Ragazze che sapevano di essere in pericolo, come tante altre, ma che hanno avuto il coraggio di continuare. Sopravvissuta ai talebani e curata in Gran Bretagna, dove ora vive e studia, Malala non si è fatta sopraffare dalla paura e sebbene ancora oggi sia minacciata di morte per il suo attivismo a favore del diritto all’istruzione, ha scritto un libro (I’m Malala), ha ricevuto il premio Sakharov per la libertà di pensiero, e ha parlato alle Nazioni Unite lo scorso anno dicendo che «un bambino, un insegnante, una penna e un libro possono cambiare il mondo». Un destino, quello di Malala, forse segnato da lei stessa quando un anno fa dichiarò, in un’intervista alla Cnn rilasciata a Christiane Amanpour, che le sarebbe piaciuto diventare un giorno prima ministra del suo Paese. Perché per la giovane pre-
mio Nobel, diventata il simbolo di milioni di bambine e ragazze che vivono violenze e ingiustizie su tutto il Pianeta, questo riconoscimento è in effetti solo un inizio che la fa sentire «più forte e più coraggiosa», in quanto «non è solo un pezzo di ferro, una medaglia che si usura con il tempo, o un premio da tenere nella propria cameretta, ma un forte incoraggiamento ad andare avanti» nella sua lotta affinché ogni ragazza abbia «il diritto di vivere la propria vita». Obiettivi enormi se si analizza la situazione delle sue coetanee nel mondo. D’altra parte la stessa Onu, in occasione della Giornata internazionale delle bambine celebrata l’11 ottobre, ha scelto come tema per quest’anno: «Empowerment delle bambine e delle ragazze per contrastare la violenza», mettendo come priorità il rafforzamento e il protagonismo delle giovanissime, a partire dall’istruzione, come strumento per contrastare la violenza sulle donne. A ridosso di questa giornata internazionale, l’Unicef ha infatti reso noto che nel mondo ci sono ancora 70 milioni di ragazze tra i 15 e i 19 anni (Cina esclusa) che hanno subito una forma di violenza fisica, 120 milioni costrette a subire rapporti sessuali forzati, 84 milioni vittime di violenza psicologica, fisica o sessuale
da parte del partner, e 700 milioni di spose sotto i 18 anni di cui 23 milioni sotto i 15 anni: una tendenza che non sembra bloccarsi. Cifre a cui Terre des Hommes, nel suo ultimo report, aggiunge a livello globale 515 milioni di bambine in condizioni di povertà, 100 milioni di mai nate per gli aborti selettivi (Cina, India, Paesi del Sud-Est asiatico e Caucaso), 68 milioni di baby lavoratrici e 125 milioni con mutilazioni genitali. Mentre nella sola Europa, secondo l’Agency for Fundamental Rights (FRA), vivono 21 milioni di donne che hanno subito una forma di abuso o atto sessuale da parte di un adulto prima dei 15 anni (12%). Ma la chiave per risolvere – e per questo, empowerment e istruzione sono tra gli obiettivi primari – è capire la situazione culturale in cui tutto ciò prolifera, perché ancora oggi in molti Paesi, anche occidentali, ragazze vittime di violenza (7 su 10) non hanno mai chiesto aiuto in quanto convinte che tutto ciò che accadeva loro fosse normale. Dati che mostrano una preoccupante percezione e accettazione della violenza da parte di adolescenti che a livello globale per circa la metà (tra i 15 e i 19 anni) crede che un uomo sia giustificato a picchiare la partner nel caso di rifiuto a un rapporto ses-
suale, se si esce senza permesso o in caso di litigio. «Questi dati parlano di una mentalità che tollera, perpetra e giustifica la violenza, e dovrebbero far suonare un campanello d’allarme in ognuno di noi, ovunque», ha detto Geeta Rao Gupta, Vice Direttore generale dell’Unicef. Un humus culturale che uccide circa 70 mila adolescenti per complicanze legate alla gravidanza, con 3,2 milioni gli aborti a rischio. In uno studio dell’Odi (Overseas Development Institute) si legge che ogni giorno nel mondo 39’000 bambine rischiano di essere costrette a sposarsi con sconosciuti: una situazione che non sembra migliorare in quanto, anche grazie alla crisi, sono sempre più frequenti i casi in cui genitori combinano il matrimonio della figlia ancora piccola, dietro il pagamento di una somma di denaro da parte del futuro marito. Un problema che non riguarda solo l’Africa, l’Asia o il Medio Oriente, ma anche i Paesi occidentali: come la Gran Bretagna, dove sarebbero più di 5000 (dati dell’Unità governativa britannica) le giovani costrette a un matrimonio contro la propria volontà e che per questo interrompono la scuola. O gli Stati Uniti e l’Europa, di cui però si preferisce non parlare.
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Politica e Economia
L’eredità di Pepe Mujica Presidenziali in Uruguay Il 2014 è stato un anno di elezioni in gran parte dell’America latina.
L’ultimo a essere designato sarà il successore dell’ex capo dei Tupamaros
con categorie europee non lo capirete mai. È un modello figlio della cultura uruguaiana, qui ci sono due dei più vecchi partiti della storia politica del continente. Centosettanta anni ciascuno. Grande duttilità di negoziazione: questo è l’elemento di cultura politica imprescindibile. Il gioco in fondo è semplice: decisione a maggioranza e unità d’azione. Se nessuno tenta il bluff c’è tutto da guadagnare». Pepe gira per Montevideo in ciabatte e in bicicletta. Vive in una casa modesta, coltiva rose e sostiene che «la grande ricchezza dell’uomo è il tempo, solo una società di pazzi può lavorare forsennatamente al fine di poter spendere e consumare di più rinunciando alla libertà del proprio tempo libero». La figura di Mujica è fondamentale per il Frente per vincere. È ancora lui che garantisce la fedeltà preziosa del sindacato nell’ora di andare alle urne. Il Segretario aggiunto del Sindacato operaio PIT-CNT, Gabriel Molina, ha riconosciuto che i governi del Frente Amplio, dal 2005 hanno sempre mostrato «attenzione e sensibilità» per le rivendicazioni del mondo operaio. Tra le altre cose, il segretario Molina ha ricor-
dato la recente approvazione della Ley de Responsabilidad penal empresarial, una delle più antiche rivendicazioni della classe operaia, approvata con i voti del Frente Amplio. «Mancano ancora molte cose da fare, però altre sono state realizzate: non riconoscerlo sarebbe un errore», ha dichiarato Molina. Sul fronte economico, notizie positive per le esportazioni, che sono cresciute del 3,6% nel primo quadrimestre dell’anno, circa 2,5 miliardi di dollari, concentrati soprattutto nel settore agroalimentare. Tra i principali temi che agitano la campagna elettorale, trionfa quello della sicurezza, legato al denunciato aumento dei delitti nel Paese. Grande oggetto di dibattito tra maggioranza ed opposizione, è ancora la liberalizzazione del consumo della cannabis. La discussione è sempre sul decreto attuativo che indica le prime norme per la legalizzazione della produzione e del commercio e che definiranno, tra l’altro, le zone coltivabili ed i limiti di consumo. L’Ente regolatore, Instituto de Regulación y Control de Cannabis (IRCCA), avrà il compito di controllare e definire il mercato, con un prezzo fissato a circa un dollaro al grammo. Ad ogni cittadino è riconosciuto il diritto alla coltivazione per uso personale di sei piante di cannabis. L’acquisto di «erba» sarà possibile fino ad un limite di 480 grammi all’anno, previa iscrizione ai «Club de membresia», veri e propri club di consumo, che potranno coltivare ciascuno fino a 99 piante. Il decreto individua, inoltre, le aree da coltivare, circa 10 ettari, nelle zone periferiche di Montevideo, e Canelones, per una produzione totale di circa 20 tonnellate, su cui vigilerà l’Esercito. «Un modo semplice da capire, ma difficile da realizzare, per togliere acqua all’oceano del traffico di stupefacenti che ingrossa i profitti delle mafie» spiega nel suo programma politico il Frente Amplio. Chissà se gli elettori gradiranno. Di certo grande successo d’immagine è stata per l’Uruguay di Mujica la disponibilità data ad accogliere alcuni detenuti di Guantànamo, secondo precisa richiesta del presidente americano Obama, e quella di ospitare profughi siriani che sono più dell’intera popolazione dell’Uruguay.
dove gli indios costituiscono l’ottanta per cento della popolazione, il condor è largamente favorito rispetto al toro, che è stato importato in Sud America dall’Europa e rappresenta, dunque, le potenze coloniali – Spagna soprattutto – dell’era postcolombiana. Il condor, al contrario, è nato sulle Ande, di cui rimane il simbolo più alto, e se avesse il dono della parola parlerebbe solo quechua, l’idioma degli indios. E vorrei concludere riagganciandomi alle riflessioni del prete, secondo cui Cotabambas è «una grossa croce che ogni giorno gronda dolori, sudori e disagi».
«Non saprei dirti – conclude l’anziano parroco – quale sia il problema più grave. Forse la promiscuità: vivono tutti ammucchiati in una stanza e i bambini perdono presto l’innocenza. Incesti, gravidanze precoci. L’altra piaga è l’alcolismo, perché bere costa meno che mangiare. È anche una società inesorabilmente machista, dove l’uomo ha tutti i diritti e nessun dovere. Una volta ho cercato di fermare un energumeno che picchiava la moglie per sentirmi dire, proprio da lei: «Ma reverendo, cosa fa? È mio marito, è un suo diritto bastonarmi».
Angela Nocioni Rischia di perdere le elezioni presidenziali del 26 ottobre la sinistra di Pepe Mujica in Uruguay. Non è detto, ma i sondaggi lasciano intravedere questa prospettiva. Grande rimonta della destra in corso. L’aumento del costo della vita (+10,72% secondo l’istituto nazionale di statistica) e la percezione di una delinquenza dilagante, stanno facendo passare una brutta primavera australe alla dirigenza del Frente Amplio, il governo di centrosinistra da dieci anni alla guida dell’Uruguay con una coalizione che tiene insieme la sinistra ex guerrigliera dei Tupamaros fino alle posizioni blairiane dell’ex presidente Tabaré Vazquez, candidato per dare il cambio a Mujica. Vola nei sondaggi Luis Lacalle Pou, candidato del Partido nacional, destra storica uruguaiana. «Per la prima volta negli ultimi quattro anni il candidato del Frente Amplio, l’ex presidente Tabaré Vazquez, non è in netto vantaggio al primo turno, l’elezione è aperta» annuncia l’Istituto di sondaggi Factum che dà il centrosinistra del Frente Amplio al 42%, Lacalle secondo, con il 32%, il Partido Colorado al 15%. Poiché per le opposizioni non è difficile accordarsi in vista di un ballottaggio, Tabaré Vazquez teme molto la prospettiva di un secondo turno che, in caso, si svolgerà il 30 novembre. Solo due mesi e mezzo fa la differenza tra il Frente Amplio e il Partido Nacional era di 25 punti. Quindi il timore a sinistra cresce. Luis Lacalle Pou è figlio di Luis Alberto Lacalle, presidente della Repubblica dal 1990 al 1995 e della ex senatrice Julia Pou. Suo nonno, Luis Alberto de Herrera, fu un caudillo nazionalista. Luisito, 41 anni, è rimasto famoso a Montevideo per aver sbattuto a 17 anni il portone di Suarez, residenza presidenziale, al grido: «Non sarò mai un politico e non farò mai l’avvocato, papà». Poi nel 2000 è entrato in Parlamento come supplente della mamma. La sua fortezza elettorale è ora il distretto di Canelones, amena località uruguaiana. Il primo disegno di legge per depenalizzare il consumo personale di marijuana, presentato nel 2010, porta la sua firma. È contrario, invece, alla legge sulla coltivazione regolamen-
Pepe Mujica (a sinistra) abbraccia l’ex presidente Tabaré Vazquez, candidato del Frente Amplio, in occasione di una cerimonia ufficale a Montevideo. (AFP)
tata dallo Stato approvata dal governo Mujica. Al timore per l’ascesa di Lacalle, nel Frente Amplio si somma la paura di perdere la maggioranza parlamentare. Per la prima volta in dieci anni i due partiti di destra (Partido nacional e Partido colorado) hanno insieme più voti del centrosinistra. Il Frente Amplio non può contare per quest’elezione sul carisma personale dell’attuale presidente Pepe Mujica, che rimarrà anche per questa legislatura un fulcro fondamentale della sinistra uruguaiana, ma non dall’ufficio della presidenza della repubblica. Quando le guardie carcerarie di Punta Carreta, la mattina del 6 settembre 1971, spalancarono le porte della cella di sicurezza e la trovarono incredibilmente vuota, seppero che tra i 111 Tupamaros scappati attraverso il tunnel sotto il muro della prigione, c’era Pepe Mujica, il capo della guerriglia urbana più temuta d’America. E scoprirono che non era solo leggenda la storia del minuscolo guerrigliero capace di muoversi nella rete fognaria della capitale come nella soffitta di casa sua. Ora che Punta Carreta è uno shopping center e il suo ex detenuto più noto è l’uo-
mo simbolo della politica uruguaiana, del mito latinoamericano, del Pepe Mujica degli anni Settanta si ricordano solo i vecchi. Eppure la personalità, non gradita a tutti, del vecchio Tupamaro con modi schietti da contadino e l’arte della trattativa politica nel sangue, ha esercitato un forte fascino personale anche fuori dai confini latinoamericani. L’«Economist» l’ha lodato con entusiasmo, e dire che lui è guevarista. Anche se non si candida per le elezioni è comunque ancora lui il garante del patto interno del Frente amplio, il fronte delle sinistre unite dell’Uruguay. Tabaré Vazquez, la prima volta che è stato eletto nel 2005 alla presidenza, sapeva che non avrebbe potuto mai governare davvero senza fare i conti con il 40% del Frente saldamente in mano a Pepe Mujica. Che diceva già allora: «La tattica è cambiata. Ma il fine è lo stesso». Ancora il socialismo? «Un mondo giusto. Un’unica America libera e sovrana». Lui il Frente amplio lo spiega così: «Non siamo uno schieramento che nasce da una congiuntura elettorale. Sono 45 anni che funzioniamo come gruppi distinti di sinistra uniti in unico fronte. Questo fenomeno se lo guardate
Cotabambas, croce degli indios Storie di viaggio Nel minuscolo villaggio delle Ande peruviane si
festeggia una volta all’anno dimenticando povertà e disagi sociali Ettore Mo, foto Luigi Baldelli Ogni anno a fine luglio, si celebra a Cotabambas, un minuscolo villaggio delle Ande peruviane, la Yamar Fiesta, la Festa del Sangue: quel giorno – precisamente il 28 del mese – ricorre l’anniversario dell’indipendenza del Perù, conseguita nel 1821 dopo un lungo conflitto tra il Potere Spagnolo e la popolazione degli indios, che gli era in gran parte ostile. Piatto forte dei festeggiamenti una Corrida nell’arena locale dove però la sfida delle «cinque della sera» non è fra il toro e l’uomo, cioè il tradizionale torero, bensì tra l’animale e il condor, uccello con grandi ali e un becco che non perdona, ingordo e vorace, cui tuttavia è stato affibbiato il titolo di «regale sparviero delle Ande». Alla fine, però, nessuno dei due muore e al tempo stesso né l’uno né l’altro, possono cantare vittoria. Ambedue escono esausti dall’arena, malconci, il manto e le piume, le corna e il becco im-
brattati di sangue che cola giù nella sabbia dalle ferite aperte. Uno spettacolo crudele, ma almeno per un paio d’ore – è l’amaro commento di un funzionario di Cotabambas – i campesinos hanno «ignorato i mugugni della pancia vuota». Durante la nostra escursione, ci è stato di grande aiuto, per capire il luogo e la gente, il prete missionario, da dieci anni padre di Cotabambas. Nella stalla parrocchiale ci sono quattro cavalli che la domenica gli consentono di raggiungere chiesuole disseminate nella valle per celebrare la messa. Ma il suo cavallo preferito è Napoleone, un quadrupede grosso e placido, di pelo bianco; la sua andatura lenta e un po’ solenne, da prelato. Dalla chiesa, fin dall’alba, cori polifonici e brani di musica sacra si diffondono nel Paese. Ma sulla piazza e nei vicoletti sono stati tre o quattro giorni di baldoria, con balli, canti, rituali folkloristici, frastuono di trombe, pifferi e tamburi, coautori di una spietata, straziante dodecafonia e, soprattutto, omeriche colossali
sbronze collettive. Nell’occasione la popolazione di Cotabambas è stata più che raddoppiata grazie all’arrivo degli abitanti dei paesi vicini: molti dei quali già ebbri di chicha e canazo, intrugli micidiali scaturiti dalla fermentazione del mais. E fatalmente quel chiasso infernale ha avuto la meglio sulla musica sacra. Ma niente suscita maggior sgomento della barbara operazione che viene eseguita per «impiantare» il condor in groppa al toro. I «chirurghi veterinari» incidono quattro fori nella pelle dell’animale, sulla schiena, attraverso cui far passare la corda che servirà a legare le zampe dell’uccello: ed eccoli, così avvinghiati, piombare nell’arena sotto un uragano di applausi. Olé. Tutto finisce in una decina di minuti. Poi, slegati, i due gladiatori vengono accompagnati nelle rispettive «infermerie». Al condor basteranno un paio di giorni per rinvigorirsi e riprendere il volo: decollo a cui assisterà l’intera popolazione di Cotabambas. Nelle tre province della Regione di Apurimac,
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Politica e Economia
L’economia oggi e «yesterday» Libri Riproduciamo un estratto del nuovo saggio di Federico Rampini, All you need is love,
in cui svela come i temi della crisi attuale siano già tutti nelle canzoni dei Fab Four
Federico Rampini Traversando l’universo
«Le parole scorrono Come pioggia in un bicchiere di carta Scivolano al passaggio, traversando l’universo Pozze di dolore, onde di gioia Alla deriva nella mia mente aperta Mi possiedono e mi accarezzano. Jai guru deva om». Nella grande confusione che regna sotto il cielo del 1968, i Beatles partono a cercare l’illuminazione molto, molto lontano. Dall’altra parte dell’universo… 46 anni fa l’Occidente si lascia conquistare da una «moda indiana» di segno diverso da quella attuale. Un viaggio del quartetto pop più celebre della storia cambia di colpo la percezione di quel paese. Intere generazioni s’innamorano di un’India immaginaria, partono sulle rive del Gange in cerca di nuovi valori e in fuga dal progresso che le disgusta. Across the Universe è un cantico alla saggezza orientale. «Jai guru deva om: gloria al maestro divino, al guru che scaccia le tenebre». Talmente cosmica che la Nasa, per celebrare il proprio 50esimo anniversario, il 4 febbraio 2008 trasmetterà nello spazio la canzone, «puntandola» in direzione della Stella Polare, insomma cercando letteralmente di farla sentire dall’altra parte dell’universo. Paul McCartney quel giorno invia un messaggio di congratulazioni all’ente spaziale americano: «Ben fatto, Nasa! Mandate tutto il mio affetto agli alieni. Baci. Paul». È dal febbraio all’aprile del ’68 che i Beatles vanno in ritiro a Rishikesh, cittadina sacra situata dove il fiume Gange scende a valle dalle vette dell’Himalaya, e quartier generale del loro guru Maharishi yogi. Sono ancora freschi i successi mondiali di Revolver, Magical Mistery Tour e Sgt. Pepper’s Lonely Hearts’ Club Band, quando si trasferiscono a meditare nell’ashram, rilanciando tra i giovani del mondo intero l’antica tradizione del viaggio iniziatico a Oriente.
Con la globalizzazione è iniziato un viaggio al contrario rispetto al pellegrinaggio dei Beatles: l’Asia ora ha fatto irruzione nel nostro mondo Assieme ai Beatles si trasferisce un variopinto caravanserraglio di loro amici che sono altrettante star dell’epoca: il cantante folk Donovan, Mike Love dei Beach Boys, l’attrice Mia Farrow con la sorella Prudence (a cui Lennon dedicherà una celebre canzone), la top model italiana Marisa Berenson, più varie mogli e amanti, e naturalmente un formidabile esercito di giornalisti e fotografi da cui il pianeta mondiale dei teen-ager attende con trepidazione la cronaca dell’«esilio indiano». Una volta in India, Harrison entra nella sua fase mistica, da cui non uscirà più. Comincia anche il suo genuino interessamento umanitario, che si tradurrà poi nel 1971 nel primo grande concerto a scopo di beneficenza, per il Bangladesh al Madison Square Garden di New York. Lennon, essendo il più «politico» dei Fab Four, accarezza il sogno di usare lo yoga e l’ascetismo indiano per promuovere la pace mondiale. Paul è attratto da ogni esperien-
L’album dei Beatles Abbey Road del 1969. (Keystone)
za eclettica capace di arricchire il suo repertorio musicale. Stanno studiando il sitar, con l’aiuto del grande Ravi Shankar. Il guru Maharishi promette miracoli in tutti i campi: seguendo i suoi insegnamenti i Beatles possono esaltare la propria creatività artistica e al tempo stesso aiutare i loro giovani fan di tutto il mondo ad «attingere alle sorgenti della pura energia» per liberarsi dell’infelicità. Con la globalizzazione è cominciato un viaggio in senso inverso, rispetto al pellegrinaggio dei Beatles: l’Asia è qui in mezzo a noi, una presenza che ci è impossibile ignorare. La globalizzazione nella sua accezione moderna ha ormai superato la soglia dei 20 anni. Prima ancora di «cooptare Cindia» dentro il sistema capitalistico occidentale, fece le sue prove generali altrove. «Il libero scambio significa occupazione, porterà più posti di lavoro agli americani, e saranno impieghi ben remunerati». Così parlò Bill Clinton. Era l’inizio del 1994. Il presidente degli Stati Uniti firmava allora un trattato che fu l’atto di nascita della globalizzazione contemporanea. Era l’avvio di un processo «rivoluzionario», che ha dato nuove regole all’economia mondiale, ha segnato il destino di interi popoli, ha sconvolto gerarchie secolari. Nel 1994 Clinton stava firmando per la precisione il North American Free Trade Agreement (Nafta) quando dichiarò con fiducia e orgoglio l’avvento di un’èra di prosperità per gli americani. Oggi il bilancio della globalizzazione, almeno nei nostri paesi occidentali di vecchia industrializzazione, è a dir poco controverso, oscilla tra l’ambivalente e il catastrofico. Per i suoi effetti sull’occupazione, sui redditi da lavoro, sulla giustizia sociale, sull’ambiente, è considerata più spesso una calamità che una manna. Al compimento dei suoi vent’anni questa globalizzazione si scopre orfana: non si organizzano celebrazioni, nessuno ne
rivendica la paternità. E se Bill Clinton ha a cuore le chance di sua moglie Hillary di conquistare la Casa Bianca nel 2016, la incoraggerà a schierarsi con quell’ampio fronte di forze (sindacati in testa) che chiedono limiti, vincoli e tutele «contro» la globalizzazione. Vent’anni dopo, la globalizzazione è sotto accusa anche nei «templi» che ne avevano celebrato la religione. Basta aprire il sito del Wto per trovarvi un lungo e approfondito studio dal titolo Delocalizzazioni, occupazione: come rendere la globalizzazione socialmente sostenibile? Il Fondo monetario internazionale, a lungo identificato con l’ortodossia liberista del «Washington consensus», nel suo sito ospita una lunga ricerca su questo tema: «La globalizzazione abbassa i salari e trasferisce all’estero i posti di lavoro?» Il premio Nobel Joseph Stiglitz invita Obama a non affrettare i tempi dei nuovi trattati di libero scambio. Ce ne sono due in gestazione, uno tra gli Usa e le economie del Pacifico, l’altro tra gli Usa e l’Unione europea. Un altro premio Nobel, Paul Krugman, fu uno dei primi teorici della globalizzazione ma oggi non esita a dichiarare che «è stata governata malissimo». Una tesi mette in diretta correlazione la stagnazione dei redditi da lavoro, e la concorrenza dei paesi senza sindacato come la Cina. Analisi più sofisticate indicano che la globalizzazione è solo una concausa, insieme con il progresso tecnologico che ha ridotto l’uso della forza lavoro soprattutto nelle mansioni meno qualificate. Tutto questo però non basta a spiegare la dilatazione delle diseguaglianze. La globalizzazione, nelle analisi raffinate di Daron Acemoglu, James Robinson e Chrystia Freeland, è usata dalle élite per costruire una «società estrattiva»: con una mobilità sociale bloccata, un potere politico influenzato dalle lobby, normative fiscali che accentuano le diseguaglianze garantendo l’elusione alle rendite finanziarie.
La storia della globalizzazione non finisce qui. «Nuovi patti di libero scambio vengono negoziati in gran segreto. Ne sappiamo poco. Siamo costretti a inseguire fughe di notizie». A lanciare l’allarme è stato Stiglitz. Tra i pericoli che denuncia, quello che ci riguarda ha una sigla altrettanto misteriosa dei suoi contenuti. Ttip, non è un acronimo entrato nel linguaggio corrente. Sta per Transatlantic Trade and Investment Partnership. Se va in porto, sarà il più ambizioso accordo di libero scambio della storia. Una fase due della globalizzazione. In Europa, del Ttip si parla a sprazzi, solo quando viene agitata una minaccia di «veto» per motivi che poco hanno a che vedere coi contenuti di quel patto. Angela Merkel ha evocato rappresaglie contro il Ttip, per protesta verso lo spionaggio della National Security Agency e della Cia in Germania. Ma che cosa ci sia dentro la «scatola nera» del Ttip, pochi lo sanno, perfino ai vertici dei governi. Dentro le cabine di regìa dei tecnocrati, i negoziati avanzano comunque, e le loro conseguenze si faranno sentire sulle economie nazionali, l’occupazione, il livello di tutela dei consumatori. La nuova intesa Usa-Ue su commerci e investimenti riguarda il più vasto mercato del mondo: 45% del Pil mondiale è racchiuso nelle due grandi economie dell’Occidente, l’americana e l’europea. Il vero nodo, è capire chi sarebbero i vincitori e i perdenti. Il Ttip interverrà non tanto sui dazi (già ridotti dalle liberalizzazioni precedenti) quanto sulle barriere non tariffarie. Cioè normative che ostacolano la libera circolazione delle merci. Un settore che ne ricaverebbe soprattutto vantaggi è l’automobile, dove troppi standard di sicurezza dissimili tra le due sponde dell’Atlantico frenano l’export. Tra quelli che rischiano di perderci, sempre nell’analisi di Novy, c’è l’agricoltura mediterranea almeno in quei settori che hanno goduto di sostegni.
Una partita molto delicata riguarda la sicurezza alimentare. Cioè la salute dei consumatori. Non solo ogm (organismi geneticamente modificati): in molti comparti dell’alimentazione ormai il consumatore europeo è protetto da regole più severe rispetto all’americano. Anche se in certi casi la salute diventa un alibi: tanti prodotti genuini della filiera «made in Italy» hanno sofferto «inique sanzioni» all’ingresso in America, per normative sanitarie che coprivano gli interessi dei produttori locali. Il Ttip può aprire il ricco mercato nordamericano a tanti prodotti italiani ancora in lista d’attesa. Ma chi garantisce che l’esito sarà davvero quello? Il problema del Ttip è che coincide con una fase di riflussi nazionalisti, e in particolare una diffusa «sfiducia nella delega» verso i tecnocrati europei.
Federico Rampini in scena Sul palco di LuganoInScena, il noto giornalista e scrittore terrà al Teatro Cittadella di Lugano giovedì 23 ottobre alle 20.30 un Lectio Magistralis dal titolo All you need is love. L’economia spiegata con i Beatles. I quattro ragazzi cresciuti nella Liverpool povera degli anni Cinquanta non solo hanno rivoluzionato la pop music, ma in alcuni brani hanno «intuito» drammi e sfide dell’economia contemporanea. In questo incontro-spettacolo, Federico Rampini (autore de Il secolo cinese, L’impero di Cindia, Occidente estremo, ecc.) dimostra come i Beatles avessero già detto tutto nelle loro canzoni su temi oggi di attualità, come il neoliberismo, l’austerity, le guerre del copyright, la manipolazione genetica. (www.luganoinscena.ch)
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Politica e Economia
Il mio consiglio da insider La consulenza della Banca Migros
scivoloni, che gli hanno fatto perdere oltre un terzo nel 2003 e nel 2009.
Albert Steck Mi può suggerire un’azione che nei prossimi dodici mesi andrà particolarmente bene?
Albert Steck è responsabile delle analisi di mercato e dei prodotti presso la Banca Migros
Anche nella sfera privata mi capita di sentirmi chiedere una «dritta» sugli investimenti. Devo ammettere che l’idea è allettante: sorseggiando tranquillamente uno Spritz con gli amici arriva la soffiata su come guadagnare, diciamo, il 20 percento nel prossimo anno. Ma quando rispondo puntualmente che, purtroppo, non possiedo la sfera di cristallo vedo sempre una certa delusione sul volto dei miei interlocutori. A dire il vero un consiglio personale per gli investimenti l’avrei. Però non si tratta del titolo «caldo», che molti vorrebbero sentirmi pronunciare, ma di qualcosa tutt’altro che spettacolare: il piano di risparmio in fondi. Prima di continuare a sfogliare senza entusiasmo, dia almeno uno sguardo al grafico qui a fianco. La riga blu in basso riporta l’andamento dello Swiss Performance Index (SPI): chi all’inizio del 2001 ha investito 100’000 franchi sul mercato azionario svizzero adesso si ritrova un guadagno di 47’000 franchi reinvestendo i dividendi. Per raggiungere questo rendimento, l’investitore ha comunque dovuto superare due pesanti
Il comportamento anticiclico conviene
La costanza paga 80% 67%
60% La linea rossa in alto raffigura la performance dell’SPI se l’investimento non fosse avvenuto in un’unica soluzione, bensì scaglionato con un piano di risparmio, distribuendo i 100’000 franchi in 164 rate mensili da 610 franchi l’una. Risultato: 67’000 franchi guadagnati, quindi un utile molto più elevato! E la perdita massima del marzo 2009, pari al 13 percento, era nettamente più contenuta. Come si spiega questa differenza? Il piano di risparmio in fondi si rivela particolarmente vantaggioso quando le quotazioni di borsa subiscono forti oscillazioni, come nell’ultimo decennio. È possibile grazie all’effetto del costo medio: dal momento che l’importo investito ogni mese rimane costante, quando le quotazioni sono elevate l’investitore acquista automaticamente un numero inferiore di quote. Viceversa, quando i prezzi scendono può acquistare un maggior numero di quote. Ciò produce un comportamento anticiclico. Conclusione: il piano di risparmio in fondi consente di beneficiare del poten-
investimento mensile regolare nell’SPI
47%
40% 20% 0% –20% –40%
investimento unico nell’SPI
–60%
01 02 03 04 05 06 07 08 09 10 11 12 13 14 Performance della borsa svizzera (SPI) dall’inizio del 2001: investendo in un’unica soluzione il guadagno è pari al 47 percento. Con un investimento regolare, invece, raggiunge il 67 percento.
ziale delle azioni a più lungo termine. E con l’investimento scaglionato si riduce contemporaneamente il rischio di acquistare in un momento poco favorevole. Anche i miei tre figli hanno un piano di risparmio in fondi da oltre sei anni. Ogni mese verso 50 franchi, indipendentemente da come va la bor-
sa. Lo so, è un po’ poco per essere una «dritta». Ma l’apprezzamento conseguito è tutt’altro che trascurabile. Da leggere su blog.bancamigros.ch: «Perché il piano di risparmio in fondi è particolarmente indicato nella situazione attuale».
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Politica e Economia
Occorre salvare «l’oro svizzero»? Politica monetaria Al voto l’iniziativa che chiede alla Banca Nazionale di modificare la politica delle riserve,
di privilegiare le riserve di oro fisico, e di tenerle solo in Svizzera Ignazio Bonoli A fine novembre, il popolo svizzero sarà chiamato ancora una volta ad esprimersi su un tema di difficile comprensione, ma, nel contempo, carico di emotività. Si tratta dell’iniziativa popolare inoltrata il 13 marzo 2013 dal titolo «Salvate l’oro della Svizzera» (detta anche iniziativa sull’oro). Questa proposta costituzionale aveva raccolto ben 106’052 firme valide. Lanciata da un gruppo di politici dell’UDC, l’iniziativa chiede tre cose: la Banca Nazionale non può vendere l’oro delle sue riserve, che inoltre devono essere conservate in Svizzera. Infine, gli attivi della banca devono essere tenuti in una parte importante in oro; in ogni caso questa quota non deve mai scendere sotto il 20%. L’elemento emotivo è più che mai presente: salvate l’oro della Svizzera e fatelo tornare in patria. Ma questo oro non deve essere salvato da ladri o terroristi, ma dai dirigenti della Banca Nazionale. Non a caso, l’iniziativa è partita quando la BNS ha venduto parte delle proprie riserve d’oro. E questo a seguito di un accordo concluso fra varie banche centrali, nell’ambito del Fondo monetario internazionale, in modo da togliere all’oro il ruolo di perno del sistema monetario che ancora rivestiva, nonostante le riforme degli anni Settanta. La nuova Costituzione federale del 1999, inoltre, glielo permetteva, poiché l’art. 99 non prevedeva più l’oro come riserva principale del sistema moneta-
rio, ma limitava a una «parte» soltanto le riserve da conservare in oro. Tra il 2000 e il 2008, la BNS ha così venduto oltre la metà delle sue riserve d’oro, che ammontavano allora a 2590 tonnellate, cioè le quinte maggiori riserve auree al mondo. Le riserve d’oro si sono così ridotte a 1550 tonnellate. Ma, subito dopo queste vendite, l’oro ha subito forti aumenti di prezzo di modo che si può rimproverare alla BNS di aver svenduto il proprio oro. Gli iniziativisti calcolano che la BNS avrebbe così sciupato circa 50 miliardi del patrimonio nazionale. D’altro canto, è vero che, durante la vertiginosa risalita dei prezzi dell’oro, vi è stato un certo ripensamento e le banche centrali hanno sospeso le vendite, mentre qualcuna ha ricominciato ad acquistare oro. Due atteggiamenti esattamente contrari allo scopo di togliere all’oro la funzione primordiale di riserva monetaria. Ora, l’iniziativa sull’oro va proprio nella stessa direzione e non tiene conto dei difetti principali delle riserve auree. Infatti, la politica monetaria e, con essa la stabilità della moneta, esige parecchia dinamicità nell’adattarsi alle evoluzioni congiunturali e strutturali. La riserva d’oro è invece un elemento statico, tanto più se accompagnata dal divieto di vendere e dall’imposizione di un minimo di riserve. Il testo dell’iniziativa pone indirettamente anche un altro tema di fondo: quale grado di indipendenza deve avere la Banca Nazionale? La Costi-
Nei sotterranei della BNS sono custodite ancora 1040 tonnellate di oro. (Keystone)
tuzione e la nuova legge pongono alla Banca Nazionale alcune condizioni di ordine generale, ma le lasciano la più ampia libertà nella formulazione della politica monetaria. Ora, la regola che vede un’importante e costante riserva d’oro nelle casse della Banca potrebbe essere d’intralcio al raggiungimento dei suoi obiettivi. Lo spazio di manovra della BNS verrebbe ridotto e la stessa fiducia nel franco svizzero potrebbe essere compromessa. Abbiamo poi già visto anche in un recente passato che un crollo dei prezzi dell’oro sul mercato è sempre possibile e potrebbe provocare
grosse perdite nelle riserve della Banca. Inoltre, in caso di crisi, il divieto di vendere oro ne farebbe perdere il valore e impedire così di esercitare una delle funzioni centrali delle riserve valutarie. Una forte riserva aurea, invece di un punto di forza, potrebbe costituire un inutile rischio pericoloso. Se dovesse seguire il testo dell’iniziativa, la Banca Nazionale dovrebbe oggi comprare oro per 60 miliardi circa di franchi. E questo per costituire una riserva bloccata che non potrebbe più usare. D’altro canto, essa possiede pur sempre 1040 tonnellate di oro, corrispondente a quasi il 10% degli attivi,
ma che potrebbe usare in caso di necessità. Solo sei Paesi al mondo possiedono una quota superiore di oro nelle loro riserve monetarie. Per abitante, la Svizzera risulta comunque sempre in testa alla classifica anche per le riserve d’oro. Vi è anche un altro aspetto della questione, che interessa in modo particolare i cantoni. Aumentando le riserve di oro, che poi diventano invendibili, si blocca un capitale notevole che non produce redditi. La Banca Nazionale deve invece distribuire i 2/3 degli utili ai cantoni, che sono i principali azionisti della Banca. Da qui la reazione unanime dei cantoni contro un così sensibile cambiamento della politica delle riserve della BNS. Infine, non è nemmeno logico chiedere che le riserve auree della Banca Nazionale siano tutte in Svizzera. Una politica di diversificazione in questo campo si è sempre rivelata utile. Oggi, il 20% delle riserve si trova presso la Banca d’Inghilterra, il 10% presso la Banca Centrale canadese e il rimanente 70% è in Svizzera. La BNS non ha più riserve negli Stati Uniti, da quando si sono affacciate minacce di sequestro già durante la disputa sugli averi depositati in Svizzera durante il nazismo, e non più reclamati, e poi nell’azione americana contro le banche svizzere per l’aiuto nelle frodi fiscali. Anche altri Paesi procedono in modo analogo: la Germania, per esempio, tiene la metà delle proprie riserve all’estero. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Un Nobel a chi studia i «monopoli virtuosi» Seguendo una tradizione, ormai affermata da anni, il premio Nobel di economia è stato assegnato, anche quest’anno, a uno studioso di microeconomia. Meno atteso era invece che il vincitore per il 2014 fosse un francese, anche se gli economisti francesi hanno sempre avuto rappresentanti di grido in questo campo. Basta ricordare i vari Malinvaud, Laffont, Ponsard, Kolm e altri matematici ed econometristi che, nel corso degli ultimi cinquant’anni si sono fatti un nome come innovatori in uno o nell’altro dei campi avanzati della microeconomia, teoria del benessere inclusa. Jean Tirole, questo è il nome del laureato, ha sessantun anni e possiede due lauree in ingegneria. Non lavora in una delle università affermate della regione parigina, ma a Tolosa. È il direttore della fondazione Jean-Jacques Laffont della Scuola di economia di
Tolosa, che riunisce più di 150 ricercatori di punta, ed è oggi uno dei migliori dipartimenti di economia del mondo. Stando alla motivazione ufficiale, Tirole ha ricevuto il premio «per i suoi studi su regolamentazione e potere di mercato», ovvero su come mantenere produttive le aziende più grandi in condizione di monopolio, ed evitare gli abusi che danneggiano la concorrenza. L’analisi delle forme di mercato, in particolare del monopolio e dell’oligopolio, è una delle specializzazioni forse più antiche della microeconomia. Negli anni tra il 1930 e il 1960, grazie soprattutto agli impulsi di autori come Chamberlin, Robinson, Schumpeter, e poi, più tardi Andrews, Bain, Baumol, Machlup, Galbraith, aveva dato vita a intensi dibattiti sull’influenza della forma di mercato sui prezzi, sull’innovazione tecnologica, e sullo sviluppo
delle singole industrie, svolti però senza l’aiuto di tecniche di analisi raffinate come quelle che oggi possono essere offerte dalla teoria dei giochi, dalla teoria dei rischi, o dalla statistica matematica avanzata. Anche nei manuali e nei corsi universitari di base degli economisti non mancava mai, in quei tempi, un accenno all’importanza delle diverse forme di mercato. Per noi studenti di allora era chiaro che la concorrenza era la forma desiderabile, ma l’oligopolio e il monopolio, per non parlare della concorrenza monopolistica, erano le forme di mercato prevalenti nella realtà. Poi, verso l’inizio degli anni Settanta, fu come se queste forme di mercato scomparissero per far posto, per qualche decennio, a una forma sola: la concorrenza. Allocazione delle risorse, costi, prezzi, salari, profitti e quant’altro si possa studiare in microeconomia
furono analizzati quasi unicamente nel quadro della concorrenza – addirittura della pura concorrenza – come se le altre forme di mercato fossero nient’altro che delle varianti spurie. Tuttavia, fuori dal quadro restava l’economia del settore pubblico per spiegare la quale non era possibile applicare, tale e quale, il modello concorrenziale dell’economia privata. È stato certamente uno dei grandi meriti di Jean-Jacques Laffont di approfondire lo studio dell’economia pubblica e di indicare in che modo la microeconomia tradizionale poteva essere modificata per tener conto delle caratteristiche della gestione pubblica. Lo studio delle forme di mercato monopolistiche, invece, restava ancora riserva di caccia di pochi dottorandi che volevano sviluppare le loro conoscenze in materia di teoria dei giochi. Di lì a qualche anno, questa analisi
doveva tornare di moda in seguito all’affermarsi, anche in Europa, delle politiche di privatizzazione di monopoli statali naturali come l’energia, le ferrovie e i bus, le poste e le telecomunicazioni, nonché l’approvvigionamento in acqua potabile. Come notano i commentatori, Jean Tirole ha dato un contributo notevole allo studio dei comportamenti delle aziende monopolistiche e a quello delle politiche di lotta contro i possibili effetti negativi del monopolio. A questo punto, per chiarire l’importanza del suo apporto teorico, sarebbe bello sviluppare un esempio, come quello delle barriere che l’azienda ex-monopolizzatrice può creare per impedire l’entrata sul mercato di nuovi concorrenti. Ma, dato che buona parte dell’argomentazione è formulata in termini matematici, forse non è il caso.
vieppiù contraddittori e pericolosi. Ma Assad conta, appunto, di farla franca. Ed è talmente convinto di potercela fare che nell’ultima settimana ha ricominciato a fare bombardamenti. Secondo i dati, il livello degli attacchi è tornato a quello precedente l’intervento arabo-americano. La martoriata città
di Idlib è stata colpita più volte e sono state pubblicate alcune foto tremende che rendono ancora più bizzarro e tristemente ironico il sorriso di Assad. Il manuale della repressione assadita viene rispettato anche questa volta: si comincia con piccoli bombardamenti, poi questi aumentano, diventano sempre più frequenti e feroci, fino a che non vengono introdotti anche agenti chimici, come dimostrano i ritrovamenti di bombe al cloro in alcune parti del Paese. La procedura potrebbe non trovare intoppi nemmeno in questa ondata: come dicono i ribelli, che aspettano di essere addestrati in maniera seria da qualcuno, presumibilmente dai turchi, mai ci saremmo aspettati che l’America attaccasse la Siria ma non il regime di Damasco. Anche negli Stati Uniti si respira aria di impasse. Il Pentagono dice di aver colpito tutti gli obiettivi e di averne pochi altri (e di aver anche impedito la conquista da parte dello Stato islamico della città di Kobane dove la resistenza curda sta dando una prova di coraggio e forza senza precedenti), ma il calif-
fato non pare affatto in ritirata, anzi. Se non riesce ad avanzare dalla parte di Kobane, sul confine con la Turchia, in compenso sta riconquistando tutta la zona di al Anbar, che non è soltanto strategica per questa guerra, ma è anche un simbolo forte del passato: era la città del «risveglio» durante la guerra in Iraq di George W. Bush, quella in cui i sunniti si erano alleati agli americani contro al Qaida. Ora lo Stato islamico la sta riportando sotto il suo controllo, e da lì prepara l’avanzata verso Baghdad. Gli air strike non sembrano sufficienti per contenere la minaccia, ma invece sembrano molto funzionali alla tenuta di Assad. Al punto che il sempre più enigmatico Recep Tayyip Erdogan, presidente turco, sottomette il suo aiuto nella guerra di Obama a un esplicito obiettivo, da parte degli Stati Uniti, di colpire anche Damasco. Assad deve sperare che l’accordo non ci sia mai, e a giudicare dai negoziati sempre più lunghi e difficili fra Turchia e Stati Uniti per le operazioni in Siria, può anche continuare a fare i suoi sorrisini.
Germania e Svizzera la via d’uscita da un fermento sempre più esplosivo, specie nel Mezzogiorno e nelle isole. L’immigrazione nei cantoni elvetici, allora alle prese con l’edificazione di grandiosi impianti idroelettrici e della rete autostradale, mutò di segno: non più piemontesi e lombardi, ma napoletani, pugliesi, calabresi, siciliani, sardi. La Monteforno di Bodio reclutò buona parte delle sue maestranze in Sardegna. Di nuovo nelle autorità politico-amministrative e nell’opinione pubblica scattò l’allarme: come affrontare un tale flusso senza farsi sommergere? Come calibrare l’ingresso e la distribuzione della manodopera, allora prevalentemente maschile e meridionale? Come regolamentare il complesso campo della previdenza sociale, dell’assicurazione malattia e infortuni, dell’alloggio, della formazione, della ricomposizione dei nuclei familiari, del trasferimento dei risparmi? Nel 1961, il Consiglio federale incaricò
una speciale commissione diretta dal professor Max Holzer di studiare «le problème de la main-d’œuvre étrangère» nelle sue numerose articolazioni, dalla demografia ai riflessi culturali. Ai lavori partecipò pure Guido Calgari, che sul plesso immigrazione-elvetismo-italianità era andato sviluppando una sua posizione originale. La commissione consegnò il suo rapporto nel 1964, anno in cui Italia e Svizzera riuscirono finalmente a siglare un protocollo d’intesa, passato alla storia come «Accordo relativo all’emigrazione dei lavoratori italiani in Svizzera». Quell’accordo, firmato cinquant’anni fa, fu ritenuto soddisfacente da entrambe le parti. Non però dai movimenti che già allora scorsero nell’atteggiamento del Consiglio federale un cedimento all’infiltrazione straniera, il segnale di uno snaturamento dello spirito elvetico. Prendeva così forma un altro fronte, che avrebbe fatto dell’«Überfremdung», dell’inforestierimento, il suo vessillo politico.
Sull’ultimo numero del magazine francese «Le Point» c’è un’immagine di Bashar el Assad che sorride, gli occhi stretti, la mano alzata per un saluto al popolo. Non è uno scatto originale, anzi, si potrebbe dire che è del tutto istituzionale, e il punto è proprio questo: perché Assad (nella foto) sorride con fare paternalistico? La risposta è in quel che sta accadendo nel suo Paese, la Siria, da quando è iniziata la guerra degli Stati Uniti e dei suoi alleati contro lo Stato islamico, che controlla un’area ormai senza confini a cavallo tra l’Iraq e la Siria: non essendo l’obiettivo dei bombardamenti, il dittatore siriano spera di cavarsela (anche questa volta). E ci sono buone possibilità che ce la faccia. Quando la campagna americana è iniziata, prima esclusivamente in Iraq e poi anche in Siria, Assad ha smesso di bombardare il suo popolo come ha fatto – quasi ininterrottamente – negli ultimi tre anni. E anzi, spaventato, ha messo in piedi una farsa diplomatica che più o meno suona così: grazie per averci avvisato degli attacchi sul nostro
territorio, siamo vostri alleati nella lotta allo Stato islamico. Naturalmente gli Stati Uniti non avevano avvertito Damasco – lo dimostra il fatto che i russi, alleati di Assad, si siano lamentati apertamente e abbiano ricordato a Washington che c’è un governo legittimo a Damasco la cui sovranità va rispettata – ma Assad aveva bisogno di accreditarsi presso la coalizione, per scongiurare il pericolo di finire anch’egli tra gli obiettivi degli strike (cosa che non è in programma, né mai lo è stato). Così la diplomazia siriana ha lavorato in modo da far sapere che c’è un sostanziale accordo sulla strategia contro il gruppo di al Baghdadi: più si indebolisce lo Stato islamico, nemico del regime di Assad, più si rafforza lo stesso Assad, quindi si può anche combattere insieme. Il gioco è abbastanza semplice, ed è a conoscenza di tutti: non è un caso che da tempo esperti e politici americani chiedono al presidente, Barack Obama, di definire la strategia in Iraq e Siria in modo più articolato rispetto al «distruggere lo Stato islamico» perché gli effetti collaterali di questa operazione sono
AFP
Affari Esteri di Paola Peduzzi Il sorriso di Assad
Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Immigrazione: un grattacapo secolare La traduzione legislativa dell’iniziativa contro l’immigrazione di massa, accettata dal popolo lo scorso 9 febbraio, è fonte di non pochi grattacapi. Non c’è giorno senza che un’importante testata giornalistica non riporti analisi, commenti e proposte. L’impresa assomiglia alla quadratura del cerchio: rispettare la volontà del sovrano senza smantellare i Bilaterali, sistema di accordi fondato largamente sulla libera circolazione delle persone. Missione impossibile dicono gli uni, scommessa politica replicano gli altri. Non è la prima volta che un’iniziativa sfida le leggi della geometria. Un altro caso recente e ben noto riguarda le norme d’applicazione sulle residenze secondarie. Anche qui si assiste ad un serrato tiro alla fune fra gli interessi in gioco. L’approvazione di princìpi che impongono provvedimenti drastici ha ridotto lo spazio di manovra del legislatore, finora abituato a mediare e a tener conto dei condizionamenti d’ordine esterno, come la compatibilità
europea. La strategia del compromesso, uno dei pilastri dell’architettura istituzionale elvetica, è sempre meno tollerata e praticata. Si diceva in apertura della quadratura del cerchio sulla questione degli stranieri. È più di un secolo che la Svizzera cerca di governare/disciplinare i flussi migratori attraverso norme e misure di polizia. Quest’anno – anno del centenario della «grande guerra – gli storici ricordano l’imponente, e per certi versi impetuoso, ritorno in patria di migliaia di lavoratori italiani indotto dalla mobilitazione degli eserciti e dal blocco delle frontiere continentali. Si chiudeva così la prima, grande ondata immigratoria nella Confederazione, un afflusso iniziato nella seconda metà dell’Ottocento in concomitanza con l’avvio della costruzione delle linee ferroviarie (massicciate, ponti, gallerie, tra cui quella del San Gottardo) e la ripresa dell’industrializzazione e dell’attività edilizia nelle città d’oltralpe: una fase arruffata, che spesso sfuggiva al
controllo delle autorità cantonali e comunali. Si verificarono anche gravi episodi, tumulti anti-italiani, improvvisi «pogrom» come quello scoppiato a Zurigo nel 1896 in cui si giunse alla devastazione di negozi e ristoranti gestiti da lombardi e piemontesi. Sul «regnicolo» italiano era calata la nomea di fomentatore di scioperi, di accoltellatore, di mangiapolenta («Maisfresser»). D’altra parte non si esitava a sfruttare questa varia umanità di derelitti che continuamente si rinnovava con salari da fame e condizioni di vita miserevoli. Nella pubblicistica iniziò a circolare l’espressione «Italienerfrage», la questione degli stranieri, una situazione vissuta come allarme sociale a cui andava posto rimedio. La seconda grande ondata s’innescò nel secondo dopoguerra, negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento. L’Italia, duramente provata dalle scelte del regime fascista e dal successivo conflitto, intravide nell’esodo di vaste fasce di ceti subalterni in Belgio,
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 20 ottobre 2014 ¶ N. 43
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 20 ottobre 2014 ¶ N. 43
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Cultura e Spettacoli Il centenario di Mario Luzi Una lettura della poesia Nel caffè e il ricordo delle critiche di Pasolini al poeta toscano
A scuola di letteratura A proposito del nuovo libro di Edoardo Albinati Oro colato, otto lezioni sulla materia della scrittura
Anima musicale In un cofanetto deluxe ripubblicato il celebre album Native del gruppo One Republic
Tokyo la notte Alla Galleria Job le immagini di Matteo Aroldi, scattate nella capitale giapponese
In viaggio per il piacere di cantare
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Intervista A colloquio con Francesco De Gregori che arriverà
a Locarno il 22 novembre in una tappa della sua tournée europea Alessandro Zanoli
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Francesco De Gregori, lei si sta preparando al suo tour europeo che toccherà Svizzera, Germania, Lussemburgo, Belgio, Olanda e Inghilterra, per poi riportarla in Italia il prossimo anno. Una musica come la sua, così importante per le parole, per i testi, come si presenta a un pubblico non italofono?
Un crocevia di culture
L’aspetto dei testi rischia per una parte del pubblico di rimanere un po’ misterioso, per quelli che non parlano bene l’italiano. Però io non vorrei preoccuparmene più di tanto. Penso anche a quando io andavo a sentire in Italia, tanti anni fa, i concerti degli americani che venivano qui. Non è che io capissi l’inglese così bene: nemmeno adesso, non sono così forte da capire tutto il testo di una canzone. Quindi io cerco di preoccuparmene poco... Però il valore musicale complessivo della performance, quello dovrebbe rimanere.
Berlino 1920 La città tedesca di inizio 900
era un polo d’attrazione per gli intellettuali di tutta l’Europa
Negli anni Venti Berlino era piena di negozi, caffè, cabaret e ristoranti russi. Ai chioschi o nelle librerie sparse fra Charlottenburg e Wilmersdorf c’erano quotidiani e riviste per gli emigrati e nelle vetrine facevano bella mostra di sé cartelli con la scritta: «Si parla russo». C’era aria di casa da quelle parti, eppure non svaniva il disagio di fondo di molti esuli. Ci pensa il disincantato Nabokov a ridare senso a quell’esilio in nome della libertà creativa. Il romanziere non si scontra con quel mondo di cui non imparò nemmeno la lingua, a parte pochi vocaboli indispensabili per la sopravvivenza. Egli si trincera nel suo dorato isolamento e vive fra le proprie pagine. Le biografie berlinesi della maggior parte dei suoi colleghi rimandano invece a un’intensa vita sociale: incontri e discussioni in caffè come il Prager Diele, dove Ilja Erenburg scriveva romanzi e articoli. Qui sedevano spesso Belyj e Marina Cvetaeva e lo stesso Majakovski eretto come un monumento vivente. Una sera apparve anche il poeta Esenin, un bel ragazzo di campagna con riccioli biondi: «Silenzioso. Modesto – lo definì la collega Lourié –. Bevve caffelatte e parlò di classici». Mentre lo scrittore Erenburg che la propaganda nazista bollò come «bolscevico giudeo», se ne stava in un angolo a mostrare «l’arte di fumare la pipa, scrivere romanzi e prendere il mondo con scetticismo». Non era un emigré, la natura lo aveva dotato generosamente, come disse con ironia Sklovskij: grazie a Bucharin possedeva un passaporto. A Berlino era arrivato nell’autunno del 1921 preceduto dall’annuncio del romanzo satirico scritto in Belgio, Le straordinarie avventure di Julio Jurenito, una sorta di Candide sull’Europa travolta dalla guerra e dalla rivoluzione. Per un osservatore come lui aperto alla politica e attento ai grandi squilibri del presente, Berlino era in quel momento la città ideale oltre che un’opportunità, come testimoniano le sue interessanti Lettere dal caffè. Del resto tutto il mondo guardava allora alla capitale tedesca: alcuni temendo – e non senza ragione – che di lì si scatenasse l’apocalisse europea, altri fiduciosi in quella modernità che parlava al futuro. Gli esuli russi avevano anche i loro
specifici spazi, come il Café Leon sul Nollendorfplatz, dove nacque un club degli scrittori, o il Café Landgraf, dove venivano organizzate letture e serate musicali. Qui ebbe luogo un entusiasmante incontro con Thomas Mann, che si intrattenne su Goethe e Tolstoj e lesse un suo racconto. Mentre le discussioni politiche si facevano sempre più accese, nel famoso cabaret Der blaue Vogel, che i russi avevano aperto nella Goltzstrasse, si cantava e ballava non senza qualche performance teatrale. Qui l’arte d’avanguardia non disdegnava il canto popolare sotto la guida del direttore J. Jushni, un divertente, socievole personaggio che sosteneva di essere morto a Mosca nel 1920 e rinato a Berlino l’anno dopo. Qui c’era vita, c’era entusiasmo non senza un pizzico di nostalgia. E la ballerina Julia Bekefi infiammava il pubblico con le sue danze travolgenti mentre i canti russi evocavano malinconie ma anche una gran gioia di vivere. Nella topografia sociale di Berlino c’erano mondi contrapposti, l’oriente e l’occidente, con cui gli immigrati russi dovevano confrontarsi. Bastava girare dalla parti dello Schlesischer Bahnhof, la stazione slesiana dove scendevano i passeggeri provenienti dall’est, per sentire che lì finiva un mondo e ne cominciava un altro: Asia ed Europa a diretto contatto nella stessa città. In quel quartiere si trovava un po’ di tutto: locali notturni, bordelli, hotel di infimo ordine. Era un luogo di desideri e istinti repressi; un mercato, dove «si compra e ci si vende. Per un piatto di minestra, un letto, forse anche per un paio di calze», dichiarò il drammaturgo Julius Berstl. Ma su quest’orizzonte plumbeo e scoraggiante si levano le parole di Erenburg, l’esule privilegiato, il Weltbürger che scorge, al di là della contrapposizione fra est e ovest, ben altra realtà: «Avvicinandoci a Berlino la si vede risplendere da lontano come un enorme quadrante; essa sospira con regolarità come un impeccabile cronometro. È il cuore della vecchia Europa. (…) In Russia nei primi anni della rivoluzione vivevamo nel ventunesimo secolo. Qui ho fatto la conoscenza con la mia epoca». Certo non tutti andavano in quella direzione: la storia russa di quegli ultimi anni accentuava le peculiarità
Ho la stessa band con cui ho girato in Italia l’ultima volta che sono stato in tournée, quindi l’anno scorso, quando sono stato tra l’altro a fare anche due concerti a Lucerna in un piccolo club e al Palacongressi di Lugano. È una band di 11 persone. Siamo in sette più tre fiati: quindi in realtà è una big band...
Sì, infatti, è così. Noi ci divertiamo molto a suonare insieme. Ho scoperto anni fa questi tre musicisti che suonano molto bene sassofono, tromba e trombone e li ho imbarcati. Gli ho detto «Fate anche voi parte della band» e non posso più farne a meno: quindi ce li portiamo anche all’estero. Per quello che riguarda i pezzi che suoneremo, so che ci sarà un equilibrio fra i brani più vecchi e quelli più recenti, non riesco mai a vedere le mie canzoni, a dividerle a seconda degli anni in cui le ho scritte. L’anno di nascita delle canzoni conta poco. All’estero lei forse arriva di più come musicista da antologia. Mentre noi qui siamo più attenti alle sue ultime produzioni.
Forse sì. Però questa è un’occasione per far sentire anche le ultime cose a un pubblico che non mi conosce, che non se le aspetta. Intendiamoci: tutto quello che io so che il pubblico vuole sentire, e quindi parliamo di «classici», quelli li farò, ma non per fare un piacere al pubblico. Se sono canzoni che sono diventate classici è perché sono comunque delle buone canzoni, e quindi le faccio perché piacciono anche a me. E poi, guardi, come è successo in Italia, soprattutto negli ultimi anni, ho visto che il pubblico, magari anche il pubblico più giovane, quelle nuove le ama molto. Così penso che anche il pubblico europeo potrà scoprirle e amarle...
Musica in aiuto all’infanzia La sesta edizione del «Concerto per l’infanzia» (sostenuta dal Percento Culturale di Migros Ticino) si terrà sabato 22 novembre 2014, alle ore 20.30 al Palazzetto Fevi di Locarno e avrà quest’anno, quale ospite d’eccezione, Francesco De Gregori. Si tratta di un evento benefico importante per la promozione di azioni e progetti indirizzati all’infanzia e all’adolescenza in Ticino. Il ricavato della serata sarà infatti totalmente devoluto in beneficenza a favore di: Associazione Famiglie Diur-
ne del Mendrisiotto, Associazione Pro Juventute della Svizzera italiana, Associazione Ticinese Famiglie Affidatarie e Associazione Progetto Genitori. Le prevendite sono già iniziate presso: Libreria Leggere a Chiasso; La Libreria dei ragazzi a Mendrisio; Libreria Voltapagina a Lugano; Mandrake Jazz & Comix a Lugano; By Pinguis a Bellinzona; Music City Soldini a Locarno; Eco Libro a Biasca. Prevendita online: SwissTicketNet. ch. Info allo 079 444 27 94.
L’ultima volta che l’abbiamo vista sul palco in Ticino era con Ambrogio Sparagna, sul palco di Festate (vedi foto) l’anno scorso: De Gregori entrava nel repertorio della musica popolare italiana... Che impressione le faceva essere in quel contesto?
Sicuramente era un contesto diverso dal solito perché la band non era la mia ma era l’Orchestra popolare di Sparagna. Quindi il tessuto sonoro era qualcosa che non gestivo io ma lo gestiva un musicista, un amico che stimo molto. In quel senso cambiava tutto. Però il mio rapporto con la musica popolare italiana è sempre esistito, dagli inizi della mia carriera, dunque non è stata una novità ma è stato un immergermi in una musica che ho sempre amato... In fondo c’è anche il suo bel disco con Giovanna Marini, in cui qualche sua canzone veniva recuperata in un contesto folk...
Sì, perché è una delle mie radici. La musica popolare italiana la frequento da quando avevo vent’anni, da quando cominciai a fare questo mestiere. Io ho cominciato tenendo presente i grandi cantautori italiani, tenendo presente anche la musica americana, Bob Dylan in particolare, ma apprezzando molto anche le canzoni popolari italiane. A proposito: c’è una cosa che ricordo di un’altra delle sue apparizioni in Ticino, tanti anni fa a Chiasso. Mi aveva stupito moltissimo il fatto che lei al momento del bis avesse proposto Anche per te di Lucio Battisti, un brano poco conosciuto ma molto bello. Qual è il suo rapporto con la canzone d’autore italiana?
Alcune cose sono state proprio basilari, agli inizi: De André, Jannacci, Endrigo, Gino Paoli, Luigi Tenco: i grandi cantautori, quando io ancora non pensavo e non sapevo che avrei fatto anch’io questo mestiere. Era la musica che mi piaceva: non mi piaceva la canzone da festival di Sanremo. Mi divertiva ma non ci correvo tanto appresso. Mentre invece le canzoni di questi autori mi coinvolgevano molto... C’era molta poesia, c’era molta ricerca linguistica, c’era un tentativo di sperimentare un linguaggio musicale non canonizzato, insomma... Devo dire che era stato un
po’ una cosa strana riproporre Battisti in quella serata, perché anche a me piace moltissimo quel testo, però Battisti da un punto di vista culturale è diverso da tutti questi altri cantautori che ho detto, perché era pop, a tutti gli effetti, o sembrava essere solo pop mentre in realtà è stato uno dei cantautori, dei musicisti vorrei dire, più importanti della musica italiana. Battisti forse scontava il pregiudizio che divideva i cantautori «impegnati» e quelli no. Questo mi fa venire in mente un’altra occasione in cui sarei voluto venire a sentirla, negli anni 70: un concerto in cui dovevate suonare lei e gli Area. Ma alla fine era stato annullato perché gli Autonomi avevano sfondato i cancelli, al grido di «La musica si ascolta, non si paga!». Come si stava dall’altra parte del palco, in quei tempi?
Molto male, glielo posso garantire, perché tutto quello che avveniva non faceva parte della musica, era un discorso che faceva parte della cronaca di quegli anni. Sa quale fu il risultato di queste cose? Che poi in Italia per pochi anni non si fecero più concerti. Nel 76, 77 e anche un po’ del 78 i grandi artisti internazionali smisero di venire in Italia perché c’erano state contestazioni molto violente in quei giorni.
Eh sì. Beh, però queste cose fecero sì che per tre anni i grandi concerti non si fecero più. Ricominciarono... ricominciammo più tardi io e Lucio Dalla nel 1979. Non perché fossimo più bravi, ma perché nel 79 il panorama politico culturale stava cambiando, da questo punto di vista, e quindi si ricominciò a fare concerti. Il tour Banana Republic infatti sembrava voler diffondere una nuova atmosfera musicale, più leggera.
Si era alleggerita non tanto la musica che proponevamo, perché credo che Dalla e io facessimo queste canzoni come quelle che avevamo fatto due o tre anni prima, ma era cambiata l’ideologia dell’ascolto. Non si chiedeva più al musicista di essere necessariamente portatore di un messaggio, gli si chiedeva di dare una musica che permettesse di stare insieme, di esser godibile, di essere interessante, di essere anche profonda, oltre le barriere e gli steccati dell’ideologia. (L’intervista completa è pubblicata su www.percento-culturale.ch) In collaborazione con
Lei stesso era stato protagonista di un episodio spiacevole a Milano...
La musica nera come le nuvole sui Caraibi Personaggi A colloquio con l’eclettico artista ticinese Elia Buletti
celebrato dalla rivista inglese «The Wire»
Keystone
Luigi Forte
Il suo spettacolo sarà uno spettacolo dall’impatto musicale speciale, o sarà simile a quelli che tiene normalmente?
Una specie di gruppo alla Bruce Springsteen...
CdT - Maffi
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nazionali tanto da indurre molti intellettuali, e fra questi Alexej Tolstoj che se ne fece promotore, a sostenere il ruolo specifico della cultura del suo paese e a ripensare, soprattutto dopo l’introduzione della NEP, la «nuova politica economica», alla possibilità di un ritorno in patria. Non era il solo. Anche Sklovskij non smette di sognare la madrepatria. «Per tutte le abitudini io sono legato alla Russia d’oggi. So lavorare solo per essa – egli scrive al Comitato esecutivo centrale panrusso –. (...) La rivoluzione
mi ha rigenerato, senza di essa mi manca l’aria». Ma al suo ritorno le cose non andarono come sognava: la sua stessa trilogia autobiografica, La terza fabbrica, fu oggetto di critiche e attacchi, così per anni praticò la «scrittura ellittica» come strategia della sopravvivenza. Mentre Belyj, rientrato a Mosca nell’autunno del 1923, è entusiasta della nuova realtà sovietica. Sui mezzi pubblici c’è più ordine che a Berlino, le stazioni sono pulite, perfino l’arredo urbano è più invitante, mentre davanti ai negozi non ci sono lunghe code come in Ger-
mania. Vista di qui, la capitale tedesca scivola, a suo parere, verso il proprio annientamento. Non c’è riconoscenza da parte di quell’esule che a Berlino aveva trovato un ambiente ricettivo per il suo stesso lavoro. Ora è finalmente Mosca la sorgente di vita: lo scrittore tende a enfatizzare l’ortodossia della modernità sovietica, mentre Berlino e i suoi abitanti sprofondano inesorabilmente nel regno delle ombre. È un triste, tragico sabba a cui però neanche Mosca, negli anni successivi, riuscirà a sottrarsi.
Zeno Gabaglio Le palme. Ecco l’unica – o forse l’unica esprimibile – cosa che a Elia Buletti manca del Ticino. Nato qui a metà degli anni Settanta, ha studiato, interrotto gli studi, viaggiato, fatto vari lavoretti estivi o epifanici. Nel 2002 si è trasferito a Ginevra, diplomandosi alla Haute École d’art et de design dove ha poi lavorato come assistente per tre anni, e dal 2011 vive e lavora a Berlino. «The Wire Magazine» la rivista di «musica strana» più celebre al mondo, quella che parlando o non parlando di un disco ne decreta il successo ha pubblicato nel numero 35 della sua serie di cd Wire Tapper il brano Furtivo, estratto
proprio dalla nuova produzione di Buletti, pubblicata con l’alias Delmore fx e intitolata Innumerevole. Un cd? No. Un vinile? No. Una cassetta, anzi due, a seconda che ci si riesca ad accaparrare l’edizione limitata (20 copie) oppure quella estesa (50 copie). Per spiegare l’exploit bisogna però ritornare a Berlino. «Dopo otto anni trascorsi a Ginevra – ci dice Buletti – avevo voglia di un cambiamento e sono arrivato a Berlino quasi per caso. Mi ci sono trasferito con la mia compagna all’inizio di febbraio, faceva un freddo incredibile, la notte uscivamo alla ricerca di oscuri locali da concerto nascosti negli antri dei palazzi di qualche via laterale. In questo modo, cioè perdendoci, abbiamo anche trova-
to l’appartamento in cui ora viviamo e lavoriamo a Das Andere Selbst: c’é uno studio per registrare, una sorta di ufficio (è un tavolo pieno di cose) e un divano letto per gli artisti che di tanto in tanto invitiamo in residenza, per un periodo di registrazioni che possono poi divenire nuove pubblicazioni per la nostra etichetta». «L’altro sé» è infatti l’etichetta con cui Buletti irradia verso il resto del mondo l’energia che riesce a captare nel «tessuto stratificato di agenti culturali spontanei» berlinese. Una casa discografica che produce «edizioni limitate su cassetta e vinile (tirature da 50 a 300 pezzi) sempre accompagnate da una versione digitale illimitata. Non c’è profitto economico, i guadagni ser-
vono interamente a finanziare le nuove pubblicazioni, il nostro salario è da calcolare in termini di incontri e collaborazioni che possono poi eventualmente svilupparsi in nuovi progetti. Ma il profitto resta comunque un effetto collaterale, quel che più ci importa è scovare e impreziosire la musica di alcune brillanti menti del creato». L’arte per l’arte, quindi, che è un po’ come dire l’arte per la vita. E se la si vede così è forse inevitabile che del Ticino a mancare siano quasi solo le palme. E cosa ne pensa Buletti di quelli che continuano a sbandierare la crisi musicale e discografica? «Penso: dài, un po’ di crisi vi fa bene». E per quelli che invece le crisi le hanno già superate rimane dasandereselbst.
Quello che manca del Ticino al musicista che oggi vive a Berlino.
org, per immergersi nella «ricerca che definirei di psichedelica offbeat. Dove la gamma delle influenze si allarga e combina elementi della musique concrète o del rumorismo novecentesco con frequenze basse – nere come nuvole sui Caraibi – e il gusto per l’errore e la sorpresa della musica improvvisata».
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 20 ottobre 2014 ¶ N. 43
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Cultura e Spettacoli
Tra le voci ferme il rumore del mondo Daniele Bernardi In una pagina del 1957 (riunita con altre, successivamente, nel volume Passione e ideologia, del 1960), Pier Paolo Pasolini, riferendosi alla raccolta Onore del vero, indicava al lettore quale fosse, a suo avviso, la principale problematica all’interno della poesia di Mario Luzi (Castello di Firenze, 1914 – Firenze, 2005): «Profondamente originale e profondamente ovvio, il suo messaggio poetico non è che un “memento mori”. Ed è qui, alla base della sua ispirazione (...) che noi indichiamo il limite e la limitatezza di Luzi: qui, in questa fede che è nell’irrelata luce che è in lui, noi avvertiamo una mancanza di luce – un’insensibilità di fronte ai fenomeni della vita umana e della storia (...) – da cui son minacciate anche le sue prove più alte». Pur riconoscendone la grandezza, il «poeta delle ceneri» mosse, verso l’autore fiorentino, una notevole accusa. Forse, la più pesante che egli potesse fare se pensiamo a quanta drammatica importanza ebbe, nell’opera di Pasolini, la parola «luce» – si veda, ad esempio, l’insistenza con cui il significante si presenta all’interno della sua produzione in versi. Passati degli anni, nel 1963 Mario Luzi diede alle stampe la prima edizione della nota silloge Nel magma (ampliata con altri componimenti in un secondo tempo). Ora, se è vero, come può certamente sembrare, che dalla lettura della poesia luziana si esca come passati attraverso un cunicolo costellato
di bagliori, oscurità e riflessi che tessono, attorno a noi, una sorta di crisalide sospesa, credo sia altrettanto vero che, con l’apparire di Nel magma (e forse anche da prima), questo budello di raggi viene sezionato dalla presenza di un altro tempo (non per nulla Giorgio Orelli, nei suoi Accertamenti verbali, ha indicato, all’interno dell’opera del poeta, la decisiva importanza della parola «mentre»). E forse questo altro tempo è proprio quello della Storia. Uno degli esempi più evidenti è certo la bellissima poesia Nel caffè, dove al protagonista, in un locale in cui «si stipa una moltitudine sorda che esala fumo», viene incontro come una presenza fantasmatica (come «l’ectoplasma di uno scampato» direbbe Montale) una conoscenza della giovinezza. La figura e la condizione sono fortemente dantesche, da antro sprofondato sotto le macerie della Terra: «“Perché non parlare un po’ tra noi” / mi dice uno forato nella gola / premendosi una garza sull’incavo / o poco sopra, e si siede al mio tavolo / nel posto dirimpetto rimasto vuoto». L’uomo tracheotomizzato che chiede la compagnia delle parole del poeta era, evidentemente, un vecchio compagno di scuola. Infatti, egli pietosamente aggiunge: «Sarà un modo di stare ancora l’uno / vicino all’altro, come un tempo, nello stesso banco» . La voce di quello che, una volta, era un «ragazzo un po’ femmina che turba un niente», è ora «rauca» e smuove l’aria «raspando» e «gorgogliando». L’immagine del giovane che fu, la si può solo «indovinare» cercando indizi «negli
occhi ancora vivi» – la sua fisicità è bucata, barrata da una angosciante corporeità. Il colloquio ha luogo e i due esseri, dopo essersi stretti «le nuche lanose e opache», nelle nebbie della stanza, si scambiano poche battute. Il conoscente malato, parlando, dice poco di sé e non «chiede conforto». Poi, rivela di aver seguito i «successi» del poeta e rammenta certi «tempi duri» in cui dovettero vivere e da cui, afferma, «siamo usciti un tantino empi». È allora che, con l’infittirsi dei silenzi fattisi densi come le folate di fumo che ristagnano tra le quattro pareti della bettola, a quella voce gracchiante, impastata di lacerti e stritolamenti del corpo, fa eco un altro suono, proveniente da un apparecchio. Siamo nell’Italia dei primi anni Sessanta, e il peso dei non troppo distanti coinvolgimenti e sconvolgimenti storici non può non gravare sui risvolti di qualsivoglia visione poetica: «Dicono a una radio di Eichmann», leggiamo, dopo uno spazio bianco che sembra posto come quelle soste che, per un istante, sospendono il brusio delle conversazioni facendo passare tra le voci ferme il rumore del mondo. Ora, anche la tragica dimensione dialogante della coppia è fisicamente perforata da un reale ingombrante, angoscioso quanto quello della carne mutilata – e questo si manifesta nella vocetta accartocciata di una radio (quasi fosse l’estensione di quella dell’uomo) che, annunciando la notizia della cattura (oppure del processo, o dell’esecuzione) del criminale nazista, da un
Gruppo2009.it
Ritratto Riflessioni attorno a una poesia di Mario Luzi nel 100.esimo anniversario della nascita
pertugio pare soffiare, come un gas velenoso, le miriadi di ombre dei morti della Grande Guerra e quelle dei milioni che furono annientati nei campi di sterminio. E quando queste sagome, senza essere state assolutamente nominate (il verso non dice altro che «Dicono a una radio di Eichmann»), cominciano ad affollare la mente di chi legge, ecco che qualcuno, da qualche parte nella pagina, comincia a danzare al ritmo di un disco. Allora, l’uomo dalla gola aperta («mentre guarda fuori, mentre l’ora si fa tarda») dirà, «con un sorriso divenuto blando», di non poter non udire «in questo scalpiccio un che di santo». Forse l’esplicitazione di questo punto di vista, così dichiaratamente
storico, può essere stata una risposta a chi vedeva nella poesia del cattolico Luzi un labirintico universo chiuso su sé, attraversato da piogge, freddi e nuvole plumbee. Oltre alle polemiche con Pasolini, comunque di certo non riassumibili in così poche righe (si pensi, tra l’altro, anche al suo epigramma A Luzi: «Questi servi (neanche pagati) che ti circondano, / chi sono? A che vera necessità rispondono? / Tu taci, dietro a loro, con la faccia di chi fa poesie: / ma essi non sono i tuoi apostoli, sono le tue spie»), ricordiamo anche i versi feroci del grande poeta operaio Luigi Di Ruscio: «mai avrò il premio carducciano che nel 2001 stanziò / al poeta di buona condotta e buona scrittura poetica Mario Luzi ben 12’000’000». Non c’è poesia che non si confronti con la Storia e con i drammi del suo tempo e, alle volte, forse è proprio quella meno dichiaratamente engagée a saper esprimere con maggiore sottigliezza i rapporti tra il microcosmo e il macrocosmo. Di fronte alla violenta morte di Pier Paolo Pasolini nel 1975, Mario Luzi, ricordando anche Lorca e Mandel’štam, in Poscritto scrisse: «A Granata, nel gulag, a Ostia – / una riprova superflua, una preordinata testimonianza / oppure sulla lunga controversia / un irrefutabile sigillo? – si chiede / lei depositaria inferma / di misura e di arte / mentre escono il poeta e l’assassino / l’uno e l’altro dalla metafora / e s’avviano al sanguinoso appuntamento / ciascuno certo di sé, ciascuno nella sua parte». Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Dalla realtà al sogno Mostra Alla Galleria d’Arte La Colomba di Viganello
Lezioni per lettori e scrittori
le opere di Ernesto Tavernari
Editoria Esce da Fandango l’ultimo libro
di Edoardo Albinati, Oro Colato Alessia Brughera
Mariarosa Mancuso
Case dalle forme strambe e dai tetti sgangherati, con finestrelle tonde e porticine ad arco appena accennate. Piazze come sghembe figure geometriche che delimitano superfici incerte. E poi automobili stravaganti dalle ruote minuscole che percorrono strade fatte di sottili linee ingarbugliate. Tutto fluttua in uno spazio senza regole, subordinato solo a un’amabile instabilità: sono le Città magiche di Ernesto Tavernari, luoghi affrancati da qualsiasi vincolo logico ma intrisi di colore e fantasia, dove la tridimensionalità non esiste e il tempo sembra essersi fermato. Questo ciclo di opere, ora esposto alla Galleria La Colomba di Viganello, ha preso vita negli anni Ottanta e Novanta, periodo in cui il pittore, di origini toscane ma milanese d’adozione, aveva già alle spalle una lunga carriera artistica. Nato nel 1911 a Lucca, Tavernari si era spostato ben presto nel capoluogo lombardo, dove aveva studiato all’Accademia di Brera seguendo le lezioni di Achille Funi. Dopo aver lavorato come scenografo per il Teatro alla Scala, aveva realizzato interventi pittorici per importanti edifici pubblici in tutta Italia ed era stato molto apprezzato e richiesto come autore di affreschi per numerose ville private in Ticino. Seppur vicino alle correnti avanguardistiche e ai fermenti culturali del Novecento (era amico di Lucio Fontana, Renato Birolli, Aligi Sassu, Arturo Martini e Giacomo Manzù), Tavernari aveva sempre mantenuto un certo distacco, una posizione appartata e individualista che si riscontra anche nella sua produzione. Perché ciò che lo interessava di più non era tanto la ricerca della modernità a tutti i costi o di strategie espressive riformatrici, bensì la sfera intimistica, il valore dato all’interiorità. Cosicché anche la sua arte, sebbene percorsa da molteplici spunti, ribadisce con forza la sua autonomia e non si fa etichettare con molta facilità. Per rappresentare la sua pittura che scaturisce dall’animo, Tavernari si è affidato a un linguaggio in cui la realtà si fonde con l’immaginazione, dimostrando come nel fantastico si possano trovare molte affinità con il vissuto. Basta aprire la mente e varcare la soglia che separa questi due mondi solo apparentemente inconciliabili.
Un altro? Sì, un altro. Un altro che spiega come i libri nascono e come i libri crescono. Un altro che si interroga su cosa leggono (o dovrebbero leggere) gli scrittori e come leggono (o come dovrebbero leggere) i lettori. Un altro che va a curiosare nelle biblioteche altrui e che racconta la sua. Un altro, ma non un altro qualunque. Conosciamo Edoardo Albinati, che ha appena pubblicato da Fandango Oro colato – Otto lezioni sulla materia della scrittura, per un bellissimo libro intitolato Orti di guerra. Perfetto titolo per un libro di frammenti: gli orti di guerra erano i piccoli appezzamenti di terreno coltivati tra le case (e oggi, con la loro economia di sussistenza, sono un modello per tutti gli attivisti verdi). Lo conosciamo per Tutt’al più muoio scritto nel 2006 con Filippo Timi (che nel frattempo è diventato attore di successo, allora era un giovanotto con poca arte e poca parte). Lo conosciamo per il romanzo in versi La comunione dei beni. E abbiamo letto il suo ultimo libro, piuttosto autobiografico, giacché l’ingegnere era suo padre: Morte di un ingegnere. Abbastanza per aver voglia di sapere cosa ha da dire «sulla materia della scrittura». Abbastanza per prevedere che non saranno i soliti luoghi comuni. Abbastanza per prevedere che non saremo d’accordo su tutto, e che anzi certe prese di posizione sembreranno un semplice ribaltamento dei luoghi
Particolare da Dimensione irreale, 1990.
Tavernari ci spinge allora a entrare in una dimensione dove il sensibile non è più subordinato alla contingenza ma trasfigurato e ripresentato nelle seducenti vesti del sogno. Non è un caso che in molti dei titoli delle opere esposte in galleria la parola realtà venga spesso affiancata da termini o aggettivi che sembrano contrastarne il significato: ne nascono ossimori lessicali che trovano riscontro nello spazio della tela, luogo in cui Tavernari ci prende per mano per condurci lentamente Dalla realtà al sogno attraverso Immaginifiche Visualità, Fantasticherie e Visioni metafisiche. Tavernari dipinge lo scorrere della vita, con i suoi simboli, le sue presenze, e compone un vocabolario di immagini sempre aggrappate al mondo concreto, mai avulse dall’esperienza vissuta. Per questo la sua pittura non è mai ermetica, ma mantiene sempre un alto grado di spontaneità e di schiettezza. Imbocca sì tragitti eccentrici, surreali, ma si affida prima di tutto a ricordi e sensibilità che sono semplici metafore dell’esistenza. Utilizza memorie, situazioni e stati d’animo come punto di partenza per creare delicate fiabe che solleticano lo stupore e regalano il piacere dell’inatteso. Le città di Tavernari sono scenari fantastici raccontati con dolce ironia attraverso colori brillanti e scelte compositive inaspettate. Qui troviamo edifici che affiorano isolati in un punto della superficie pittorica o che si accavallano e si sovrappongono, fuoriuscendo l’uno dall’altro come fossero
estratti da una scatola magica. Palazzi slanciati si addossano a corpulente costruzioni dalle forme mistilinee, qua e là compaiono torri, gallerie o archi sbilenchi nella più totale assenza delle norme prospettiche. Ogni cosa sembra sfidare la logica disponendosi sulla tela come se stesse svolazzando liberamente in un universo privo di coordinate. Case e macchine sono i simboli dell’uomo nella città, ma nei dipinti di Tavernari è raro trovare un essere umano e, quando lo si trova, compare alla guida di un’automobile, come fosse sempre in movimento, intento a spostarsi senza tregua da un punto all’altro di uno spazio senza mete. Nelle sue narrazioni Tavernari mescola l’ironia a una poetica malinconia. L’accumulazione immaginifica è vivace ilarità, è visione onirica, è libertà, ma è anche silenziosa riflessione sull’esistenza che nasce dalle emozioni più autentiche. Il pittore così scriveva: «amo raccontare, fantasticare, sognare. Amo la poesia; mi addolcisce l’orecchio e la percezione sensoriale. Amo la pittura, che con i suoi accordi colorati mi trasporta nell’affascinante mondo della gioia emotiva». Dove e quando
Ernesto Tavernari. Città magiche. Galleria d’Arte La Colomba, Lugano - Viganello. Fino al 26 ottobre 2014. Orari: da martedì a sabato dalle 14.00 alle 18.00, domenica e giorni festivi dalle 14.30 alle 17.30. Catalogo a cura di Rudy Chiappini. www.lacolomba.ch
Lo scrittore, nato a Roma nel 1956, è insegnante nel carcere di Rebibbia.
comuni, senza un pensiero forte che li regga. Da questa dispettosità, la voglia – qualche anno fa, quando gli scrittori italiani erano spesso accusati di «guardarsi l’ombelico» – di scrivere un saggio in difesa del buchetto sul pancino. Per esempio, il fatto che i romantici non siano a favore – come sembrerebbe e come sta scritto nei libri – ma contro il sentimento. Gli scrittori del romanticismo – sostiene Edoardo Albinati – fanno la parodia non solo del sentimentalismo, ma del sentimento tout court. Sul banco degli imputati c’è lo scrittore svizzero Gottfried Keller e il suo Romeo e Giulietta al villaggio, trasposizione contadina della tragica storia d’amore tra adolescenti. A Keller dobbiamo pure un ritratto dello scrittore realista, quello che si guarda in giro e prende appunti come faceva Emile Zola prima di scrivere «la sinfonia dei formaggi» nel Ventre di Parigi (o le sete, i taffetà, il gabardine, i pizzi in Il paradiso delle signore). Basta per essere un grande scrittore? Non basta, come per diventare un grande scrittore non basta – in tempi di auto fiction – parlare di sé e dei propri familiari, amici conoscenti. E non basta neppure saccheggiare le ricchezze della lingua italiana: non tutti sono Carlo Emilio Gadda, altri si limitano a spargere a caso parole desuete sulla pagina. Non bastasse, Edoardo Albinati imputa ai «nipotini di Gadda» un’altra colpa: sperpereranno il tesoretto ereditato dagli antenati, ottenuto senza particolare merito, e invece dovrebbero sforzarsi in proprio. Altre osservazioni sono più eccentriche e interessanti. «Chi compra libri sembra la persona meno adatta a leggerli», sostiene Edoardo Albinati. E subito spiega: l’acquirente sceglie con baldanza, mentre nella lettura dobbiamo lasciarci andare, passivamente. Il lettore ideale è uno a letto con la febbre. Ma guarda. C’erano venuti in mente, a sentire la parola passività, i videogiochi e tutte le diavolerie che adesso rovinano le nuove generazioni. Mentre noi, che fummo adolescenti imbesuiti da una montagna di romanzi che proprio non riuscivamo a mettere giù, e che ci impedivano di andare a tavola quando era giunta l’ora, siamo convinti di essere stati ragazzini particolarmente svegli. Grazie a questo libro di Albinati, abbiamo capito che si trattava di un’illusione narcisista. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Da classifica ma con l’anima CD L’edizione deluxe dell’ultimo album degli americani One Republic ci ricorda che a volte il pop-rock
commerciale non è soltanto musica d’intrattenimento Benedicta Froelich Per quanto, da un punto di vista stilistico, il pop-rock di matrice mainstream possa definirsi come un genere ormai altamente codificato, non è semplice, né scontato, trovare band che sappiano conferirgli una dignità e uno spessore convincenti, senza tuttavia rinunciare alle lusinghe commerciali tipiche della categoria. In questo senso, una delle poche formazioni attuali in grado di mantenere un alto standard qualitativo è quella degli One Republic, una giovane band salita alla ribalta nel 2007 grazie a un singolo di grande successo (Apologize), apripista di un album di buon livello come il debutto Dreaming Out Loud.
Il disco contiene tre nuove tracce che sono versioni acustiche dei brani contenuti nell’edizione del 2013 Certo, gli One Republic non possono definirsi un gruppo impegnato in sperimentazioni inedite, o dedito a rivoluzionarie contaminazioni stilistiche; eppure, è una band che opera nel più puro e onesto ambito del pop-rock targato stelle e strisce, in cui ottimi professionisti pubblicano musica di qualità e dall’indiscusso appeal commerciale.
Lo stile degli One Republic presenta pertanto un’impostazione fortemente radiofonica, dalle sonorità che ricordano da vicino un certo rock anni 90, con tanto di accenti elettronici e disco. I brani, firmati soprattutto dal cantante Ryan Tedder, sono perlopiù ritmati e vivaci, senza tuttavia che la band dimentichi di arricchire le tracklist degli album con qualche classica ballatona lenta, di sicura presa sui fans; e, nella vaga ripetitività stilistica che contraddistingue la maggior parte del loro lavoro, il pubblico degli One Republic (composto soprattutto da adolescenti e giovani) sembra trovare una certa, rassicurante grazia, ulteriormente enfatizzata da testi semplici quanto universali e liriche di effetto. Ciò spiega la parabola di questa band, passata da un successo all’altro e oggi nuovamente sotto i riflettori grazie alla pubblicazione della Deluxe Edition di Native, il suo terzo album (2013), già disco d’oro e ora ripresentato al pubblico con il pretesto dell’inclusione di tre nuove tracce, in realtà versioni acustiche di alcuni dei brani. In effetti, riascoltare questo lavoro fa saltare immediatamente agli occhi i motivi dell’ottima risposta di pubblico: gli ingredienti per soddisfare gli ascoltatori ci sono tutti, a partire da canzoni particolarmente ammiccanti e già definibili come veri e propri «tormentoni», quali l’azzeccata traccia di apertura Counting Stars, non a caso scelta come efficace singolo di lancio di Native; o l’interessante
Nel booklet: dietro ad ogni musicista del gruppo, un animale totemico.
Light It Up, la cui base ritmica ossessiva e martellante dà vita a un’atmosfera davvero intrigante, dal sapore quasi orientaleggiante. Ma ci sono anche brani più ricercati e riflessivi, come l’introspettiva e toccante ballata Au Revoir – senz’altro uno dei pezzi migliori del CD, in cui pianoforte e archi creano un tappeto sonoro funzionale quanto suadente per la voce di Tedder – e l’esuberante I Lived, le cui liriche si fondono con una linea melodica molto accattivante e orecchiabile («ho fatto mio ogni secondo che questa vita pote-
va offrire… / e giuro che ho vissuto»); per non parlare di un brano come The Preacher, che addirittura offre inflessioni gospel tutt’altro che disprezzabili. Allo stesso tempo, questo disco mostra la predilezione della band per le contaminazioni elettroniche dal sapore quasi techno, come dimostrato da brani quali If I Lose Myself (sicuramente un riempipista da discoteca dal successo assicurato), e l’efficace inno disco-rock Feel Again (With Heartbeats). E se questo dimostra una volta di più come il lavoro degli One Republic
rappresenti senz’altro il tipo di musica definibile come «da classifica» – termine normalmente impiegato dai puristi per denotare canzoni di facile consumo e dal sicuro riscontro commerciale – è anche vero che spesso il particolare connubio di pop, rock e perfino discomusic offerto dalla band stupisce piacevolmente l’ascoltatore grazie alla sua capacità di fondere liriche affatto scontate con arrangiamenti a tratti anche molto espressivi: come accade con brani del calibro di What You Wanted e Burning Bridges, esempi da manuale di songwriting pop, che rimangono impressi nella mente fin dal primo ascolto. Una qualità che si riscontra anche nelle tracce acustiche presenti in coda a quest’album – versioni perfino superiori a quelle «ufficiali» dei brani, in quanto prive dei consueti accenti commerciali: si vedano If I Lose Myself, qui senza l’enfasi elettronica dell’originale, e l’azzeccato accompagnamento d’archi di What You Wanted. In tal senso, la versione deluxe di Native conferma come quest’album di grande successo abbia effettivamente rappresentato un ottimo, nuovo capitolo nella storia e carriera degli ancor giovani One Republic; una tappa dalla quale la band potrà, se lo desidera, innalzare ulteriormente il proprio profilo artistico tramite sortite verso nuovi terreni stilistici – magari per osare di più, sia da un punto di vista musicale che lirico, e giungere così a conquistare un pubblico via via più ampio. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Una nuova storia Pubblicazioni L’ultimo libro di Tullio De
Mauro a cinquant’anni dalla sua memorabile Storia linguistica dell’Italia unita
Stefano Vassere «Il 14 ottobre 1943, Adolfo Omodeo, appena nominato rettore, così diceva ai pochi studenti raccolti per inaugurare l’anno accademico dell’Università di Napoli: “Verrà giorno che molti di voi si ricorderanno di questa malinconica riunione nell’atrio devastato come del grigio albore di una luminosa giornata”». È un sentimento di speranza e di affratellamento, che inaugura la stagione dell’italiano repubblicano indagata nell’ultimo e pieno di meraviglie libro del padrone della linguistica italiana Tullio De Mauro. Nato nel 1932, De Mauro è stato professore di Filosofia del linguaggio e Linguistica generale nell’Università La Sapienza di Roma. Poi è autore di alcune pietre angolari della linguistica italiana e generale: la Storia linguistica dell’Italia unita, l’edizione italiana e l’introduzione alla princeps francese del Corso di linguistica generale di Saussure, il Grande dizionario italiano dell’uso in otto volumi, detto Gradit, e molte, molte, molte altre cose di linguistica, linguistica teorica, semiotica, lessicografia, teoria dei linguaggi ecc. Questo Storia linguistica dell’Italia repubblicana dal 1946 ai nostri giorni, continua anche nell’assonanza del titolo l’ormai mitica Storia linguistica dell’Italia unita, che compie quest’anno cinquantuno anni ed è l’opera che ha avviato la sociolinguistica italiana e ha gettato le basi per filoni prioritari dei decenni a seguire, come lo studio delle varietà dell’italiano, le fasi dell’alfabetizzazione degli italiani,
i rapporti tra lingua e dialetto. Il libro parte dalle macerie della guerra e si occupa di passare in rassegna i destini del sistema linguistico italiano successivo (quindi l’italiano, i dialetti e le lingue minoritarie e di immigrazione), messo di fronte, come fanno i sociolinguisti, ai contesti sociali e geografici, alle norme culturali e situazionali. Si sa che è difficile applicare anche una poco ambiziosa prospettiva storica a cose linguistiche che stanno succedendo proprio ora, difficile è misurarne le possibilità di entrare stabilmente nel sistema. Chi lo sa se «piuttosto che» si affermerà nel significato di «nonché» che ormai quasi tutti usano? Ed è proprio vero che i dialetti hanno un futuro quasi assicurato nella condivisione di codici con l’italiano mentre sono destinati a diventare «memoria irrilevante» come codice esclusivo? Forse ce lo diranno i linguisti del 2030 e per ora non possiamo che registrare i fatti. Dopo i capitoli della trattazione principale, la nuova Storia di De Mauro propone, come quell’altra antica Storia, piccole monografie su aspetti curiosi e interessanti, trattati con responsabilità scientifica e piglio simpatico. Dopo i dati sul contesto industriale e sociale, sui mass media, sui dislivelli culturali, su quanto stiano morendo o non morendo i dialetti, su ruoli della scuola e della lettura, seguono bei capitoletti sul toponimo Italia, sull’inno di Mameli, sui linguaggi specialistici, su un’analisi testuale e del tasso di leggibilità della Costituzione del 1948. Ecco, a cinquant’anni dalla Storia linguistica dell’Italia unita questa nuova Storia linguistica dell’Italia repubblicana, scritta con lo stesso spirito ma con un metodo maturo e rinforzato dall’incalcolabile bibliografia uscita nel frattempo, è opera che intriga e quasi commuove; come si conviene ai monumenti dei maestri. Bibliografia
Tullio De Mauro, Storia linguistica dell’Italia repubblicana dal 1946 ai nostri giorni, Roma-Bari, Laterza, 2014. In copertina, l’albero dei dialetti italiani.
Top10 DVD & Blu Ray 1. Rio 2
Animazione / Novità 2. Noah
R. Crowe, E. Watson 3. 12 anni schiavo
M. Fassbender, C. Ejiofor / Novità 4. Divergent
S. Woodley, J. James 5. Captain America 2
C. Evans. S. Johansson 6. Storia di una ladra di libri
S. Nélisse, G. Rush
Top10 Libri 1. Ken Follett
I giorni dell’eternità, Mondadori 2. John Green
Colpa delle stelle, Rizzoli 3. Marco Malvaldi
Il telefono senza fili, Sellerio / Novità 4. Benedetta Parodi
Molto bene, Rizzoli 5. Sveva Casati Mondignani
Il bacio di Giuda, Electa 6. Antonella Clerici
La cucina di casa Clerici, Rizzoli Novità
7. 47 Ronin
K. Reeves, C. Tagawa 8. La Bella e la Bestia
7. Camilla Läckberg
Il guardiano del faro, Marsilio Novità
V. Cassel, L. Seydoux 8. Glenn Cooper 9. Supercondriaco
Dannati, Nord
D. Boon, K. Merad 9. Sophie Kinsella 10. Pompei
K. Harington, E. Browning
I love shopping a Hollywood, Mondadori / Novità 10. Stephen King
Mr. Mercedes, Sperling
Tokio, una megalopoli tra le acque
Ascolti bassi, il talk boccheggia
Fotografia Matteo Aroldi propone
problema principale è la formula, e anche i marchi forti diventano più deboli
un sorprendente ritratto della capitale giapponese
Visti in tivù Il
Antonella Rainoldi
Il fotografo è andato alla ricerca di immagini nella città notturna. (M. Aroldi)
Giovanni Medolago C’è un cerchio che si chiude per la Galleria Job di Giubiasco. Inaugurata giusto dieci anni orsono con una selezione d’immagini scattate a Tokyo da Massimo Pacciorini-Job, titolare con la moglie Nicoletta dello spazio giubiaschese, spazio che ha saputo nel frattempo tenere il buon ritmo di trequattro esposizioni l’anno, ospitando artisti figurativi, scultori, fotografi e performers. A dieci anni di distanza, ecco che la Galleria ci permette di tornare idealmente nella capitale nipponica presentando una serie d’immagini realizzate da Matteo Aroldi. S’intitola La città fra le acque ed è il secondo episodio del progetto fotografico iniziato ormai già qualche anno fa. Locarnese, classe 1964, Aroldi si è diplomato all’Istituto Europeo di Design di Milano nel 1987 e da allora svolge la sua attività professionale dedicandosi in particolare alla fotografia di architettura. L’idea del progetto The Tokyo Walker gli venne quando – al Festival di Locarno nel 2004 – restò affascinato dal film del regista canadese C.M. Smith The Snow Walker (sequenze girate nei paesaggi mozzafiato dei territori artici del Canada con temperature dai 30 ai 45° sottozero e troupe costretta a lavorare con la protezione di alcune guardie per la presenza di una fauna non proprio domestica). Certo, Aroldi non ha vissuto peripezie simili, ma è tuttavia andato incontro a un bell’impegno. Ha camminato di notte e per ore con due obiettivi principali; il primo scovare angoli insoliti, vicoli nascosti e bui, stradine discoste percorrendo itinerari inusuali alla ricerca di scorci che sfuggono al viandante distratto e soprattutto al turista. Il secondo: poter scattare il fatidico click senza che nessun essere umano rientrasse nelle sue inquadrature. Qualcuno però l’ha pur incontrato: «Qualche volta – racconta – c’è stato chi, vedendo la mia apparecchiatura e guardando verso dove avevo puntato la macchina fotografia mi chiedeva sorpreso: “ma cosa diavolo stai fotografando? Non vedi che non c’è nulla?!?”»
Ammetterete che sentirsi avanzare una domanda simile da un giapponese ha qualcosa di molto umoristico! Città tra le acque, recita il titolo della mostra e in effetti lo spettatore (colui che non l’ha mai visitata, of course) resterà sorpreso dalla Tokyo proposta da Aroldi, che a tratti fa pensare a una Venezia d’Oriente. Accanto all’immensa baia, ecco corsi d’acqua dove barconi attraccati offrono cibi a bevande ai passanti (e qui si pensa a Istanbul!), canali più piccoli «accompagnati» dal verde di una vegetazione spontanea e ricoperti da alghe e ninfee. Isole artificiali anche di notevoli dimensioni, create per accogliere una popolazione ormai straripante e attrezzature portuali di proporzioni gigantesche. Realizzate con un’apertura dell’obiettivo che va dai due ai cinque minuti, le immagini notturne di Aroldi (sempre lontane mille miglia dagli stereotipi) sono caratterizzate da colori sgargianti che talvolta si stemperano nelle tenebre e dai riflessi cromatici sovente si riflettono sull’acqua, creando scie simmetriche e, in un caso, altri riflessi che sembrano anguille... elettriche! Le foto sono qualitativamente ineccepibili e del resto sappiamo dell’interesse di Aroldi sia per l’utilizzo delle più recenti quanto sofisticate tecniche di ripresa, sia della sua attenzione riguardo il trattamento delle immagini. Risalta altresì l’occhio del fotografo appassionato di architettura e per l’occasione attratto da audaci costruzioni, quasi… futuribili. Non manca infine nemmeno qualche accenno poetico: quella nave ancorata laggiù in fondo in un porto delle nebbie sembra un omaggio al magico «Rex» nell’Amarcord di felliniana memoria…
Il talk show non porta aria fresca e arretra. Succede quando si punta il dito sul vecchio, ma poi si finisce per starci del tutto dentro. Il vecchio è la formula frusta, incapace di intercettare lo spirito del presente. A furia di copioni identici e riproposizioni, anche i marchi forti diventano deboli. La scorsa stagione Ballarò appassionava 3’245’000 spettatori, per uno share del 12,8%; ora, il martedì sera, ne porta a casa meno della metà (1’549’000 per la puntata del 7 ottobre, la più riuscita in termini puramente numerici, dopo quella d’esordio), per un modesto 6,63% (Raitre, ore 21.05). Il dato è ancora più sconfortante per DiMartedì. Dopo il magro bottino del 3,47% di share della prima puntata (755’000 spettatori), il «nuovo programma» firmato da Giovanni Floris continua a crescere fra il mezzo e il punto percentuale di share, ma la media complessiva supera di poco il 4% (La7, ore 21.10). Scivola in basso anche il maestro del genere. Il 9 ottobre Michele Santoro è riuscito addirittura a scendere al di sotto del suo peggior risultato di sempre, il 5,25% di share della settimana precedente: il suo Servizio Pubblico ha totalizzato poco più di un milione di spettatori, con uno share del 5,16% (La7, giovedì, ore 21.10). Naturalmente, come abbiamo già scritto, vanno tenute in considerazione la multicanalità, l’abbondanza dell’offerta e la progressiva frammentazione dei consumi. Ma questi elementi non spiegano, da soli, l’arretramento consistente del talk show in un lasso di tempo così breve. E qui torniamo al vecchio cui accennavamo in precedenza. Al proposito le cose più interessanti le abbiamo sentite a Tv Talk, la trasmissione del sabato pomeriggio di Raitre dedicata all’analisi dei principali programmi televisivi. Le abbiamo sentite non da Massimo Giannini e Corrado Formigli, ospiti in collegamento, ma dal più geniale dei direttori di rete, Carlo Freccero, presente in studio: «La rissa premia l’ascolto. Se manca il duello, lo scontro tra due fazioni, il pubblico si tiene alla larga, proprio come alle elezioni politiche. Ma la stagione del bipolarismo è morta, e se non si trova una nuova polarità l’unico talk dei grandi numeri resterà quello di Maria De Filippi». La prossima vera sfida è per tutti la stessa: ripensare la formula.
Dove e quando
The Tokyo Walker: la città tra le acque, fotografie di Matteo Aroldi, Galleria Job (Via Borghetto 10, Giubiasco), dal lunedì al venerdì dalle 8.45 alle 11.00, dalle 13.45 alle 18.30; sabato dalle 8.45 alle 12.00, dalle 13.45 alle 17.00. Fino all’8 novembre 2014, entrata libera.
Bassi ascolti anche per il maestro del genere, Michele Santoro.
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Idee e acquisti per la settimana
shopping Zucca grande protagonista Attualità Ortaggio tra i più antichi coltivati al mondo, la zucca è ricca di virtù salutari e culinarie.
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La zucca è una verdura autunnale che si presenta in tantissime qualità, oltre 800. È apprezzata oltre che per la polpa anche per i suoi semi, che tostati sono gustosi come spuntino o, leggermente salati, come aperitivo. I fiori sono pure consumati in pastella. A livello nutrizionale questa verdura riveste un particolare interesse grazie al suo contenuto in betacarotene (vitamina antiossidante che protegge le cellule e migliora le difese naturali del corpo) e al basso tenore calorico. La zucca intera si conserva fino ad 8 settimane. Una zucca aperta invece si conserva fino a una settimana in frigorifero. Si può sfruttare la congelazione per conservare la zucca a pezzetti oppure la minestra di zucca. La zucca si gusta cotta (si può consumare anche la buccia), in pietanze salate come zuppe, sformati, nei risotti, oppure in pietanze dolci come torte e muffin. Si può però gustare questa verdura anche cruda, ad esempio grattugiata nelle insalate. Tra le varietà commestibili più diffuse, possiamo citare per esempio la Moscata, con polpa arancione leggermente dolce; la Delicata, polpa giallo intenso con gusto di nocciole e mela; la Potimarron con polpa gialla dal sapore di castagna; la Acorn col suo sapore zuccherato e la Spaghetti, una varietà a polpa arancione che durante la cottura forma dei lunghi filamenti. Buona zucca a tutti! / Pamela Beltrametti, dietista diplomata S.S.S.
Vinci con le zucche! All’acquisto della zucca Moscata affettata potrai partecipare ad un concorso con in palio 1000 franchi di montepremi.
Muffin alla zucca per 8-10 muffin
Ingredienti 240 g di farina preferibilmente integrale Agente lievitante (bicarbonato): un cucchiaio da tè 50 ml di olio (oliva, riso) 60-100 ml di latte di soia o latte di cereali 80-100 g di zucchero di canna integrale o altro dolcificante (malto di cereali, sciroppo di acero) scorza di un limone, non trattato 150 g polpa di zucca, grattugiata 100 g nocciole macinate 50 g cioccolato fondente, tritato grossolanamente
Procedimento In una ciotola unire farina, zucchero, lievito. Aggiungere il latte di soia e l’olio e mescolare per ottenere un impasto denso. Aggiungere la zucca. Alla fine aggiungere le nocciole macinate e il cioccolato fondente tritato grossolanamente. Se l’impasto risulta asciutto aggiungere ancora un po’ di latte di soia fino ad ottenere un impasto di consistenza morbida. Versare la pasta per muffin negli appositi stampini da riempire per 2/3. Cottura Nel forno preriscaldato a 180°, cuocere per 25-30 minuti.
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Idee e acquisti per la settimana
Sapori e Saperi a Mendrisio Eventi Il Mercato Coperto di Mendrisio ospiterà dal 25 al 26 ottobre la tredicesima
Flavia Leuenberger
edizione della più importante rassegna dei prodotti agroalimentari ticinesi. Una manifestazione sostenuta per l’undicesimo anno consecutivo da Migros Ticino Il prossimo fine settimana, a Mendrisio, le specialità agroalimentari più rappresentative della nostra regione conquisteranno nuovamente il Mercato Coperto per la consolidata rassegna Sapori e Saperi. Promossa dal Dipartimento delle finanze e dell’economia del Cantone Ticino, anche quest’anno la rassegna prevede un ricco programma di iniziative ed eventi di sicuro richiamo per il pubblico. Migros Ticino, in qualità di sponsor principale della manifestazione, sarà presente con il suo stand dedicato ai «Nostrani del Ticino» (nella foto), dove i visitatori avranno l’occasione di scoprire, gustare e acquistare alcuni degli oltre 300 prodotti a chilometro zero presenti sugli scaffali dei supermercati della nostra regione. Inoltre, si potranno ammirare i suggestivi scatti fotografici che andranno a comporre il calendario 2015 dei «Nostrani del Ticino» Migros, del quale ognuno potrà ricevere in anteprima una copia omaggio.
Il programma di Sapori e Saperi 2014 Sabato 25 ottobre Ore 10.00 Apertura al pubblico e alle scuole Ore 10.35 Inaugurazione ufficiale della Rassegna alla presenza delle autorità cantonali e comunali Ore 11.00 Aperitivo aperto al pubblico preparato dal team di Piattoforte
Ore 18.00 Ore 21.00
Domenica 26 ottobre Ore 10.00 Apertura al pubblico Ore 11.00 Aperitivo dell’Associazione dei Ristoratori e Produttori vitivinicoli del Monte San Giorgio Ore 19.00 Chiusura
Comode bontà
Congratulazioni!
Flavia Leuenberger
In vendita nelle maggiori filiali Migros.
Giovanni Barberis
La frutta sciroppata non è solamente pratica perché permette di avere sempre a portata di mano un ingrediente principe per la preparazione di fantastici dessert, ma è anche un valido complemento alla frutta fresca quando quest’ultima è fuori stagione. Tra le bontà sotto sciroppo più apprezzate vi sono sicuramente i marroni e le pesche. I marroni canditi sotto sciroppo «Vis» sono preparati partendo dai migliori frutti del bosco, i quali sono lavorati successivamente nel rispetto delle ricette più tradizionali e naturali. Sono ottimi da soli, per arricchire torte o mousse, ma sono ideali anche per accompagnare genuini formaggi e affettati. Le pesche allo sciroppo «Le conserve della nonna» sono una di quelle specialità che non dovrebbero mai mancare nella credenza di casa. Sono prodotte con frutta fresca maturata al punto giusto, a cui viene semplicemente aggiunto zucchero e acqua. Marroni canditi sotto sciroppo 500 g Fr. 8.50 Pesche allo sciroppo 720 ml Fr. 3.20
Aperitivo CORSI e Piattoforte aperto al pubblico Chiusura
La signora Mara Togni di Bellinzona è la fortunata vincitrice del primo premio del grande concorso estivo “Jackpot dei formaggi” abbinato ai deliziosi formaggi quali p.es Tartare, Caprice des Dieux, Chavroux, Tendre Bûche e Fol Epi! Il premio, costituito da una carta regalo Migros del valore di ben Fr. 2.000.–, le è stato consegnato recentemente presso il Centro S. Antonino da Charles-André Robert
della “Ferme Bongrain” (a destra nella foto) e da Floriano Torino, responsabile marketing prodotti latticini per Migros Ticino. Altri 10 fortunati si sono aggiudicati a loro volta una carta regalo Migros del valore di Fr. 200.–: Lucia Donati, Angela Albertini, Patrizia Cantagalli, Augusta Frigerio, Nada Bernasconi, Sonja Righini, Rossana Tosello, Brigitte Haller, Gabriele Soldini e Adriano Gaia.
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Idee e acquisti per la settimana
Tutti al calduccio
Attualità Da OBI S. Antonino trovate una vasta scelta
di stufe-caminetto a legna. Approfittate fino al 31 ottobre anche del 20% di sconto sui modelli dei marchi Justus e Fireplace In inverno non c’è niente di più bello e rilassante dello stare in casa, al calduccio, davanti al fuoco di una stufacaminetto. Ma oltre all’aspetto «idillico», questo sistema di riscaldamento possiede diversi altri vantaggi. La legna è una materia prima rinnovabile che consente di riscaldare con efficienza ed a emissioni ridotte (riscaldare a legna è neutrale in termini di emissioni di CO2 e non contribuisce all’effetto serra). Grazie alle elevate prestazioni termiche, il calore viene accumulato e si sprigiona gradualmente nel locale, permettendo di risparmiare sull’utilizzo di altri combustibili. Solo durante la prima accensione è necessario tenere la stufa a legna alla massima potenza per una decina di minuti; in seguito essa non dovrà essere riaccesa in quanto la legna brucerà continuamente. Le stufe-caminetto a legna non richiedono corrente per il funzionamento, pertanto ogni eventuale panne del sistema elettrico non rischia di farci rimanere senza riscaldamento. L’umidità degli ambienti si mantiene costante durante la combustione. Infine, il calore della legna, rispetto ad altre fonti, si distingue per il suo effetto benefico e rilassante.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 20 ottobre 2014 ¶ N. 43
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Idee e acquisti per la settimana
Foto Claudia Linsi
Le cozze hanno poche calorie, ma molte vitamine e proteine.
Dure fuori, tenere dentro Un «sí» convinto ai frutti di mare provenienti dalla pesca sostenibile La Migros amplia regolarmente il suo assortimento di prodotti ittici provenienti dalla pesca sostenibile. Le novità del momento sono le cozze cotte in salsa all’aglio e quelle con verdure fresche, come sedano, porri e cipolle. I due piatti vanno riscaldati brevemente in padella o nel forno a microonde. A piacere si possono servire con patatine fritte o baguette. Le cozze della Migros sono certificate MSC (cfr. scheda). Gli oceani costituiscono un fragile ecosistema, che può essere reso instabile dallo sfruttamento selvaggio delle risorse ittiche. Per questo motivo è stato creato in Svizzera il WWF Seafood Group. Le aziende che fanno parte del Seafood Group apportano un contributo alla protezione dei mari. Le specie ittiche minacciate vengono tolte dall’assortimento e sostituite con alternative sostenibili provenenti da catture certificate MSC oppure da allevamenti biologici o da allevamenti responsabili certificati ASC. / SL
Parte di
Generazione M è il programma della Migros a favore della sostenibilità, al quale anche i marchi ittici MSC, ASC e Bio apportano un prezioso contributo.
Al momento dell’acquisto guardate l’etichetta: Novità: MSC Cozze cotte all’aglio 760 g Fr. 11.– MSC (Marine Stewardship Council) è una certificazione indipendente che contrassegna i prodotti ittici da cattura ecologicamente sostenibile.
Migros Bio significa che il pesce proviene da allevamento naturale sostenibile.
ASC (Aquacultur Stewardship Council) certifica il pesce da allevamento responsabile. Novità: MSC Cozze cotte con verdure fresche 750 g Fr. 11.–
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Mangiare bene.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 20 ottobre 2014 ¶ N. 43
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Idee e acquisti per la settimana
Foto Martin Hemmi; Styling Linda Hemmi
Chi apprezza la mazza secondo la tradizione, alla vista di questo piatto sentirà l’acquolina in bocca.
Banchetto autunnale Le specialità della mazza sono diventate un vero e proprio pezzo di storia culinaria della Svizzera In molte regioni della Svizzera attualmente è tempo di mazza, un’antica tradizione che gode sempre di grande popolarità. Un tempo, in occasione della mazza casalinga durante la stagione più fredda, si utilizzavano tutte le parti del maiale, dalla coda al muso. Naturalmente ne facevano parte anche il fegato e il sangue, che dovevano essere cotti al momento e poi venivano impiegati per preparare salsicce di fegato e sanguinacci, spesso consumati ancor prima che il maiale fosse completamente sezionato. Oggi la produzione delle salsicce è affidata prevalentemente alle abili mani degli specialisti della carne. Tuttavia, nella loro preparazione non è cambiato molto rispetto ad un tempo, e in fatto di qualità la freschezza degli ingredienti gioca un ruolo di fondamentale importanza. Per i prodotti TerraSuisse come pancetta e carré, che accanto ai sanguinacci e alla salsiccia di fegato vanno ad arricchire la gamma di specialità della mazza, vengono utilizzate solo materie prime fresche di origine svizzera. Queste specialità si servono tradizionalmente accompagnate da crauti, purea di mele, patate bollite oppure croccanti rösti. Il tutto da gustare con succo di mele o vino nuovo. / HB
TerraSuisse carré di maiale affumicato 100 g Fr. 2.90
TerraSuisse sminuzzato di maiale 100 g Fr. 2.60
Sanguinaccio alla panna 220 g o 320 g 100 g Fr. 1.20
TerraSuisse pancetta da cuocere affumicata al kg Fr. 9.90* invece di 20.50 *Azione fino al 27.10. Nelle maggiori filiali
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 20 ottobre 2014 ¶ N. 43
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Foto Rio Tinto
Idee e acquisti per la settimana
Sono finiti i tempi in cui era possibile distinguere solo dall’aspetto la frutta bio da quella coltivata con metodi convenzionali.
Baciate dal sole e coltivate con cura È tornata la stagione delle arance. E in Andalusia è iniziata la raccolta dell’agrume più popolare del mondo. Sono in arrivo frutti freschi e pieni d’aroma, che oltretutto sono coltivati biologicamente Andalusia: il profumo di arance mature aleggia nell’aria. La regione del sudovest della Spagna è baciata dal sole durante tutto l’anno, una condizione ideale per la coltivazione degli agrumi. Nella provincia di Huelva c’è la piantagione di agrumi Rio Tinto Fruit. Qui, a circa un’ora e mezzo a ovest di Siviglia e una settantina di chilometri dalla costa atlantica, regna un microclima che favorisce la crescita di aranci, mandarini, clementine, pompelmi e limoni di altissima qualità. Su uno sconfinato agrumeto di 300 ettari, separato dalle altre piantagioni, prosperano frutti coltivati secondo i più severi principi ecologici. La coltivazione di agrumi biologici è una vera e propria sfida, perché richiede cure molto sofisticate. Tra l’altro, si possono impiegare solo concimi organici, affinché le condizioni del suolo siano ideali per una crescita sana e naturale degli alberi da frutto.
Anche la lotta ai parassiti è più complessa che nell’agricoltura convenzionale, dato che non sono consentite sostanze chimiche sintetizzate. Anche verdi sono già dolci e saporite
La domanda dei consumatori si concentra soprattutto sull’arancia, che oggi è l’agrume più coltivato al mondo. Il suo nome scientifico latino «citrus sinensis» si riferisce al paese di provenienza. L’arancio, infatti, arrivò in Europa nel XV secolo importato dalla Cina («Sina» in latino), dove era coltivato già da millenni. In cima alla scala della popolarità si trova l’arancia bionda, la cui polpa dolce e rinfrescante è perfetta per le spremute. Il suo parente prossimo, l’arancia sanguigna chiamata Tarocco, si riconosce dalla buccia leggermente rossastra. Gli ibridi di arance bionde e sanguigne hanno una polpa dal sapore delicatamente aspro. Il colore del frutto, comunque, non comunica nulla circa il suo livello di matu-
razione. Infatti, la buccia resta verde fino all’arrivo dei primi freddi, ma la polpa possiede già un intenso aroma. La colorazione esterna e interna, infatti, è influenzata solo dall’escursione termica durante la notte. Pertanto le arance sanguigne hanno quel colore rosso intenso perché sono più esposte alle basse temperature notturne. Si possono, dunque, acquistare senza problemi agrumi dalla buccia verdastra o maculata di verde, perché è un segno che sono stati appena raccolti. È così del tutto naturale, che possa succedere che quando si va a far la spesa finisca nel carrello anche un frutto che non corrisponde al 100 percento alle aspettative estetiche. Dall’esterno non è neppure possibile capire se la polpa degli agrumi sia succosa o asciutta. Ad ogni modo, la dimensione dell’arancia non è assolutamente un marchio di qualità; i frutti più grossi non sono necessariamente i migliori. Una volta colte, le arance smettono di maturare. ▶ a pagina 54
Il marchio Bio è sinonimo di misure di controllo severissime nella coltivazione delle materie prime. Priorità assoluta è data al rispetto della natura, all’affidabilità di materie prime e prodotti alimentari, nonché al benessere degli animali.
Il clima soleggiato tutto l’anno dell’Andalusia è ideale per la coltivazione delle arance. Le fredde notti autunnali conferiscono ai frutti la loro accesa colorazione.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 20 ottobre 2014 ¶ N. 43
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Foto Rio Tinto
Idee e acquisti per la settimana
Il piacere della scelta sugli scaffali della Migros: frutta bio di diverse varietà.
Bio Arance sanguigne principale produttore: Italia (disponibili da dicembre)
Bio Clementine principale produttore: Spagna
Bio Arance bionde principale produttore: Spagna
Bio Tarocco principale produttore: Italia (disponibili da dicembre)
Bio Pompelmi principale produttore: Spagna
Bio Limoni principale produttore: Spagna
La provincia spagnola di Huelva offre eccellenti condizioni per la coltivazione delle arance. Su 300 ettari prosperano frutti biologici coltivati con estrema cura.
▶ da pagina 52 Se, però, si conservano troppo a lungo perdono aroma e vitamine. Pertanto: se si tengono le arance per qualche giorno si dovrebbe custodirle in un luogo fresco, ma che non sia troppo freddo. Comunque, la cosa migliore è di assaporarle subito. Bombe di vitamine e sostanze nutrienti
Le arance vengono sistemate all’interno di cassette e contrassegnate con il numero del produttore. Ciò garantisce in ogni momento la tracciabilità della provenienza del frutto.
Le arance sono vere e proprie bombe di vitamina C. Contengono, però, molte altre importanti sostanze nutritive: il potassio innanzitutto, che abbassa i livelli di zucchero nel sangue e sostiene la crescita cellulare, e poi il calcio, che rende ossa e denti forti e sani. Senza dimenticare le varie vitamine del gruppo B, che favoriscono la formazione di sangue e il metabolismo. A proposito: non si dovrebbe bere il succo d’arancia assieme al caffè, perché i tannini contenuti nel caffè bloccano la preziosa vitamina C. Ma le arance hanno molte altre virtù: ad esempio, emanano un bel profumo di fresco nell’armadio dei bambini o nel bagno. Basta riporne una metà tempestata di chiodi di garofano. Un’altra caratteristica della buccia d’arancia è quella di dissolvere i cattivi odori della cucina: è sufficiente scaldarla nel forno a 100° gradi. Oltre alla gamma completa di agrumi di produzione biologica, ora la Migros propone in qualità bio anche le clementine Lilibiggs. Un motivo in più per correre al reparto della frutta. / Heidi Bacchilega
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Generazione M è il programma della Migros a favore della sostenibilità, al quale anche il marchio Bio apporta un prezioso contributo.
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ALTRI ALIMENTI
Tutto l’assortimento di cioccolato Frey Tourist Swiss Chocolate, UTZ, per es. cioccolatini, 300 g 6.– invece di 7.50 20%
Filetti di merluzzo, MSC, pesca, Atlantico Nord-orientale, per 100 g 2.10 invece di 3.– 30% * fino al 25.10
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Pane Passione e Pane Passione Rustico, TerraSuisse, 420 g e 380 g, per es. Pane Passione, 420 g 2.95 invece di 3.50
Fettine di pollo Optigal, Svizzera, per 100 g 2.70 invece di 3.30 15%
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Le Gruyère semistagionato, bio, per 100 g 1.80 invece di 2.25 20%
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Salmone affumicato, bio, d’allevamento, Scozia, 260 g 15.– invece di 21.55 30% *
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Tutte le bevande Migros bio (succhi, Ice Tea, birre o sciroppi), per es. Ice Tea alle erbe alpine svizzere, 1 l 1.15 invece di 1.45 20%
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Tavolette di cioccolato fondente all’arancia, al gianduia e al latte e alle nocciole bio, Fairtrade, per es. al latte e alle nocciole, 20x 100 g 2.– NOVITÀ *,** Petit Beurre con cioccolato al latte in conf. da 4, 4 x 150 g 5.75 invece di 9.60 40% Tutti i prodotti Cafino e Noblesse, UTZ, per es. Cafino in sacchetto, 550 g 8.20 invece di 10.30 20% Tutti i prodotti Kellogg’s, per es. Choco Tresor, 600 g 5.40 invece di 6.80 20% Barrette di cereali Farmer in conf. da 2, per es. barrette Soft Choc alla mela, 2 x 290 g 7.20 invece di 9.– 20% Mandorle o nocciole macinate M-Classic, per es. nocciole macinate, 400 g 4.10 invece di 6.20 33% Zucchero a velo in conf. da 2, 2 x 500 g 2.90 invece di 3.40 Tutti i prodotti surgelati bio, per es. gamberetti cotti, sgusciati, 400 g 12.40 invece di 15.50 20% Crispy di pollo impanati Don Pollo, surgelati, 1,4 kg 12.– invece di 17.20 30% Tutta la frutta e le bacche, surgelate, per es. lamponi M-Classic, 500 g 6.20 invece di 7.80 20% Cornetti al burro M-Classic, surgelati, 24 pezzi circa, 1080 g 10.85 invece di 13.60 20%
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Idee e acquisti per la settimana
Maratona di Berlino: tutti e dieci al traguardo Berlino. Cielo cobalto, più di 40.000 partecipanti e qualcosa come 42,195 chilometri da percorrere. Era la situazione di partenza per i dieci corridori del concorso della birra senz’alcol Erdinger, che in primavera si erano aggiudicati uno degli ambitissimi pettorali per partecipare alla Maratona di Berlino. Si trattava quindi di prepararsi nel migliore dei modi a questa prestigiosa sfida. A questo proposito,
un’alimentazione equilibrata e un allenamento adeguato giocavano un ruolo molto importante. A Berlino l’atmosfera che si respirava era di gioia e divertimento, spettatori e cheerleader non si risparmiavano nel sostenere tutti i corridori. Ambiziosi e motivati a raggiungere la Porta di Brandenburgo, tutti sono riusciti a terminare la maratona. Tra i corridori della birra Erdinger
senz’alcol si è particolarmente distinto Eric Dumauthioz: giunto all’arrivo dopo 2 ore, 46 minuti e 29 secondi, piazzandosi al 345° posto è risultato il migliore del gruppo. Per la loro performance i partecipanti sono stati ricompensati con una rinfrescante birra senz’alcol Erdinger. Per tutto il gruppo la Maratona di Berlino è stata un’esperienza particolare di cui serberanno a lungo un bel ricordo.
I vincitori del concorso Erdinger senz’alcol alla partenza della maratona a Berlino: Bruno Albisetti, Eric Dumauthioz, Monica Roth, Philipp Läubli, Christa Dähler, Marcel Sewer, Andreas Klein, Alexa Moser, Philipp Rölli e Sami Götz.
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Idee e acquisti per la settimana
Ieri era sporco? Dopo un lavaggio con Total, l’orsetto di peluche con la sua morbida coperta da coccole è tornato candido e pulito.
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Contro l’efficacia di Total, anche lo sporco più ostinato non ha speranza Il duello Total contro sporco ha sempre lo stesso vincitore: Total. È sempre stato così, perché da quando un’ottantina d’anni fa questo detersivo è entrato per la prima volta nelle lavanderie svizzere, una biancheria impeccabile non è più frutto del caso. La formula attuale del successo è la seguente: ottima forza lavante a ogni temperatura. Da tempo ormai Total è in testa alla classifica dei detersivi più venduti in Svizzera, perché elimina con sicurezza e a fondo lo sporco proteggendo nel contempo non solo i tessuti, ma anche l’ambiente. Grazie a formule costante-
mente ottimizzate, le diverse polveri, i concentrati liquidi e le capsule esplicano la loro efficacia già a dosaggi limitati e a basse temperature. Sempre: che si tratti di capi bianchi o colorati, tessuti grossolani o fini, resistenti o delicati. Con Total Classic, Total Color o il detersivo universale 1 for all si eliminano le macchie senza che sulla biancheria appaia un velo grigio o il capo di vestiario perda la sua forma. La forza lavante delicata di Total si distingue però anche nel controllo dei colori, la cui brillantezza è preservata anche dopo ripetuti lavaggi. / JV
L’industria Migros produce numerosi prodotti Migros molto apprezzati, tra cui anche i detersivi di Total.
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Idee e acquisti per la settimana
Ecco i vincitori Non meno di 3.300 amici degli animali appassionati di fotografia hanno partecipato quest’anno al concorso fotografico organizzato in occasione della Giornata Mondiale degli Animali. Il tema era: «Qual è il luogo preferito dal tuo animale domestico?». Ora i vincitori sono stati selezionati. Il premio principale, una fotocamera reflex del valore di 2.500.– franchi, è andato a Oliver G. di Collombey (VS), la cui foto di un cane nel suo rimorchio per cani ha conquistato la giuria. Il
secondo e terzo posto se lo sono aggiudicati Bert I. di Schönried (BE) con la fotografia di un impertinente furetto nella brocca del latte, e Melanie M. di Wittenbach (SG) con il suo micio comodamente spaparanzato nel lavandino. Entrambi hanno vinto un iPad Mini. Altri dieci partecipanti vincono ognuno una carta regalo Migros del valore di 50.– franchi. Migros si congratula con tutti i vincitori e augura loro tanto divertimento con i propri cani, gatti & Co.
Migros è partner della Stazione Ornitologica di Sempach, della Protezione Svizzera degli Animali e dell’Associazione Cani da Terapia Svizzera. Migros sostiene queste organizzazioni con donazioni. Selina Ragout, volatile 300 g Fr. 1.– M-Classic alimento per conigli 1,6 kg Fr. 3.20 Annuncio pubblicitario
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Idee e acquisti per la settimana
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