Azione 42 del 13 ottobre 2014

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXVII 13 ottobre 2014

Azione 42 -71 ping M shop ne 45–54 / 64 i alle pag

Società e Territorio La Svizzera e la questione dell’insegnamento delle lingue nelle scuole elementari

Ambiente e Benessere Come evitare il mal di schiena ai ragazzi che vanno a scuola? Ne parliamo con il dottor Vincenzo De Rosa, chirurgo ortopedico pediatrico all’Ospedale San Giovanni di Bellinzona

Politica e Economia Fra poco meno di un mese negli Usa si vota per le elezioni di mid-term

Cultura e Spettacoli Gustave Courbet è protagonista indiscusso dell’autunno

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di Lucio Caracciolo e Costanza Spocci pagine 23 e 25

Keystone

La Questione curda

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Guerra di religione o di potere? di Peter Schiesser Beati gli storici, che possono provare a interpretare una realtà quando è compiuta e trascorsa. Potranno un giorno raccontare ai nostri figli o nipoti se quella deflagrata l’11 settembre del 2001 vada letta come una guerra dell’Islam contro l’Occidente ateo-cristiano, o se il terrorismo islamico, sublimatosi nel califfato dell’Isis, non debba piuttosto essere interpretato come ideologicamente e militarmente funzionale ad una presa di potere nelle terre dell’Islam stesso. Quindi, se si tratti di una guerra di religione o fra ideologie. A noi, nel presente, questa chiarezza è negata. Solo un esempio: il presidente americano ripete che l’Occidente non è in guerra con l’Islam, parallelamente frotte di persone, anche dall’Occidente, accorrono in Siria e Iraq per combattere e morire per la gloria del califfato, che dopo il Medio Oriente dovrà islamizzare l’Europa. Ernesto Galli della Loggia si era chiesto tempo fa sul «Corriere della Sera» quando si potesse parlare di guerra di religione: solo quando entrambe le parti la definiscono tale? O è sufficiente che uno dei due antagonisti lanci una guerra religiosa? Dipenderà anche dai numeri. Per quanto sanguinari, determinati

e ben armati, bastano 20-30 mila guerrieri per mettere in ginocchio il Medio Oriente e l’Occidente? Manteniamo le proporzioni: dei 400 mila musulmani che vivono in Svizzera, solo una ventina sono andati in Siria e Iraq per combattere tra le fila degli islamisti. E non è fra questi 400 mila che troviamo i gruppi di turisti arabi con le donne in burka, icone del nostro fastidio da laici verso un intollerante fondamentalismo religioso. Non credo che i musulmani che vivono in Svizzera si sentano in lotta contro l’Occidente, sta a noi – contrastando o meno l’islamofobia – decidere se ci vogliamo sentire in guerra contro tutti i musulmani, e quindi di assumerci la responsabilità di definirla «di religione». Tuttavia, sia che gli islamisti definiscano di religione la guerra che stanno conducendo, sia che noi vogliamo semplicemente definirla ideologica e di potere, non si può negare che la jihad oggi abbia un’incomparabile forza d’attrazione a livello planetario. Nel suo essere affermazione feroce di una purezza «religiosa» sull’empietà del materialismo occidentale, con il corollario di teste che rotolano nella sabbia, provoca paura, sconcerto, repulsione, chiusure e difese. Ma allo stesso tempo ci consegna un messaggio che l’Occidente non dovrebbe ignorare: quei giovani, alcuni giovanissimi, che si conver-

tono o che si radicalizzano, cercano un senso di vita e di appartenenza che non hanno trovato nel mondo occidentale del Ventunesimo secolo, atomizzato, materialista, consumista, svuotatosi di valori e punti fermi, vuoi perché emarginati in ghetti di periferia, vuoi per individuali costellazioni psicologiche. Perché costoro, fra le tante forme di lavaggio del cervello, si lascino attrarre da un fanatismo che più sanguinario è difficile, resta ancora da capire. Tolta quella percentuale «fisiologica» dell’umanità che prova gusto a torturare e uccidere, resta un numero importante di giovani fino a ieri pacifici, oggi disposti ad uccidere in nome di un dio. Questo è un problema che non può restare ignorato né irrisolto. Ma se questa fosse anche una guerra per la supremazia ideologica all’interno dell’Islam, non è sufficiente che l’Occidente non si senta in guerra con l’Islam. È necessario che l’Islam – inteso come cultura, filosofia, modo di vivere – ritrovi un suo posto nel mondo del Ventunesimo secolo. Forme di vita e di pensiero, impianti di valori come le impongono salafismo e wahabismo, sono fuori luogo, o meglio fuori tempo. La risposta all’islamismo, da parte del mondo islamico, non può essere che una riforma che allontani l’Islam dalla tentazione di una purezza imposta con la scimitarra.


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Attualità Migros

Al lavoro per preservare i prati secchi del Generoso Generazione M Migros sostiene un’iniziativa del WWF, fornendo un aiuto concreto

ai contadini e promuovendo la sensibilizzazione dei suoi collaboratori I prati secchi del Monte Generoso sono tra gli spazi vitali più ricchi di specie. Il suolo povero di nutrienti rappresenta un habitat ideale per numerose piante che sopravvivono solamente in ambienti di questo tipo. Queste superfici sono, ad esempio, tra gli ultimi luoghi in Svizzera in cui si trovano allo stato selvatico la Peonia e l’Asfodelo montano. Inoltre, questa flora particolare favorisce la presenza di specie indigene di farfalle, cavallette, api selvatiche e uccelli. Purtroppo prati e pascoli secchi sono minacciati perché gli agricoltori non li lavorano più a causa della loro posizione discosta e della resa scarsa. Dal 2009, grazie ad un progetto del WWF in collaborazione con le auto-

rità ed i contadini, la tendenza all’abbandono è stata invertita e alcune superfici, che si stavano rimboschendo, sono già state recuperate. Attualmente il totale delle superfici ripristinate è di circa 12 ettari. Nel corso dei prossimi anni altri prati verranno recuperati. L’importanza del progetto è accresciuta dal valore del territorio. Il Generoso si trova infatti nell’area denominata «Regione dei Laghi Insubrici» che comprende il Sottoceneri, l’Alto Lario e le Valli di Varese. Questa regione si inserisce in una delle aree prioritarie per la tutela della biodiversità alpina. Migros collabora attivamente a questo progetto nell’ambito della campagna legata alla sostenibilità Generazione M: in quel contesto ha infatti

elaborato una delle sue promesse alle giovani generazioni: «Promettiamo che entro il 2015 convinceremo almeno 1000 collaboratori a partecipare ad un’azione del WWF a favore della natura». Migros Ticino infatti già da tre

anni organizza questa giornata al Monte Generoso, cui partecipano normalmente una ventina di collaboratori (vedi foto), mentre a livello nazionale quest’anno sono state organizzate 7 giornate analoghe, per un totale di 190 collaboratori.

M Giovani inventori cercansi Bugnplay.ch Un concorso per ragazzi e giovani appassionati di robotica e nuovi media Bugnplay.ch, il concorso indetto dal Percento culturale Migros, invita ragazze e ragazzi dagli 8 ai 20 anni a realizzare e presentare progetti legati ai media digitali e alle nuove tecnologie. Dominik Landwehr, responsabile del settore Pop e Nuovi Media, ci racconta i retroscena di questa originale iniziativa. Il concorso bugnplay.ch è alla nona edizione. Come si è sviluppato il progetto in questi anni?

Ogni anno bugnplay.ch si sviluppa, assumendo forme nuove e diverse: non solo per il tipo di progetti presentati dai partecipanti, ma anche grazie ai nostri partner. La nostra vita quotidiana è sempre più caratterizzata dalla digitalizzazione e dalla presenza dilagante dei gadget elettronici e di nuovi media. Il concorso promuove un approccio critico e consapevole alle nuove tecnologie, e fornisce nel contempo ai giovani idee e spunti, anche in vista della scelta della professione futura. I lavori inoltrati a bugnplay. ch costituiscono spesso un valore aggiunto in un dossier di candidatura, per un apprendistato o un esame d’ammissione. Un bell’esempio in

Azione Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

questo senso è il video realizzato da Lea Hofer, una ragazza di 18 anni, che ha creato un commovente filmato d’animazione a partire da immagini del pittore Paul Klee, aggiudicandosi così nel 2014 il Gold Award della categoria Senior (17-20 anni). Si possono identificare delle tendenze che si sono affermate negli ultimi anni?

Da diversi anni si è imposta in modo chiaro una tendenza: l’aumento significativo di progetti legati al settore audiovideo. I video d’animazione sono particolarmente gettonati. Sono molto amati anche i progetti di robotica. In questo ambito riceviamo spesso simpatiche e originali invenzioni: un partecipante ha ad esempio trasformato una vecchia macchina da scrivere a testina rotante in un Plotter, ossia un dispositivo per disegni tecnici.

viata una collaborazione con il Robotics & Perception Group dell’Università di Zurigo. Anche i progetti legati alla biologia diventano sempre più importanti: in questo ambito il nostro partner principale è il Plant Science Lab, cui partecipano il Politecnico di Zurigo e le Università di Zurigo e Basilea. Nel settore culturale, tra i contatti più significativi vi sono quelli con la Haus für Elektronische Künste HEK di Basilea o con il Festival

di Animazione Fantoche di Baden. bugnplay.ch è un concorso che vuole incentivare i ragazzi a sperimentare in prima persona: un obiettivo che accomuna il nostro progetto alla Swiss Mechatronic Art Society, o i Tüftel-Labors, presenti in diverse città svizzere. Dal 2015 inizieremo anche a collaborare con la Frame 11 di Zurigo, una casa di produzione di film d’animazione che vanta oltre 20 anni di esperienza nel settore.

Dalla Thailandia a Taverne Generazione M Un

film documentario racconta la storia del riso Andreas Dürrenberger Secondo le statistiche internazionali sull’alimentazione metà della popolazione mondiale mangia riso almeno una volta al giorno. In Svizzera le cose vanno diversamente: questo cereale pregiato arriva sulle nostre tavole sì e no una volta alla settimana, anche se la tendenza generale mostra un progressivo aumento nel consumo. Di recente il ruolo sociale ed economico che il riso gioca a livello internazionale è stato persino «fotografato» da un documentario: il film, presentato nelle scorse settimane a Zurigo, si intitola Riso, il chicco che nutre il mondo ed è stato realizzato dalla giornalista Katharina Deuber e dal cameraman Paul Rigert. I due sono partiti in viaggio sulle tracce del riso: le varie tappe del loro percorso hanno toccato le Filippine, con le sue coltivazioni a terrazze, la Thailandia, da cui arriva la varietà Jasmin, e il Ticino, che fa parlare di sé per essere la regione agricola in cui esistono le risaie più a nord del mondo. Grazie alla Riseria di Taverne, in Ticino si trova anche il più grande mulino per il riso della Svizzera. Daniel Feldmann dirige questa industria Migros ed è il responsabile sia degli acquisti delle partite di riso, sia della loro elaborazione. I realizzatori del documentario l’hanno seguito sul suo luogo di lavoro e poi l’hanno accompagnato nella visita agli agricoltori nella Thailandia nordorientale. Feldmann aveva visitato la regione un anno fa, alla ricerca di fornitori. «Arrivando in una risaia abbiamo incontrato un contadino che lavorava lì e abbiamo cominciato a discutere» ricorda Feldmann. Samai Maribut è uno di quei contadini che producono riso secondo le regole tradizionali, senza usare concimi né pesticidi. «Mentre discutevamo ho raccolto alcune spighe, per assaggiarne i chicchi» dice Feldmann. Maribut l’aveva rimproverato per questo, ricordandogli che lo stava privando di una parte del suo guadagno. Ripensandoci oggi, i due ridono di quell’episodio. Perché nel frattempo Samai Maribut è entrato a far parte dei fornitori di riso Jasmin di Migros: c’è addirittura una sua fotografia sulla nuova scatola della linea Mister Rice.

Informazioni

Al concorso bugnplay.ch, organizzato dal Percento culturale Migros, possono partecipare ragazzi e ragazze dagli 8 ai 20 anni. Sono ammessi anche progetti realizzati in gruppo o dalle scuole, nonché lavori di maturità e di fine studio. Tre le categorie previste: Web/Words/Games, Audio/Video, Installazioni/Robotica. Termine per l’iscrizione: 31 gennaio 2015. I lavori vanno inoltrati entro il 31 marzo 2015. La premiazione si terrà a Zurigo in giugno del 2015. Informazioni dettagliate relative al progetto, al regolamento e alle condizioni di partecipazione sul sito: www.bugnplay.ch

Sul sito internet di bugnplay.ch c’è la lista dei partner con cui collaborate. Che ruolo giocano questi partenariati?

Grazie a questi partenariati il Percento culturale Migros può allacciare nuovi contatti e percorrere nuove strade. Per quanto riguarda la robotica è stata avSede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

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Samai Maribut, coltivatore e testimonial per Migros. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


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Società e Territorio Gli ospedali in Ticino Il dibattito sulla pianificazione ospedaliera è aperto e vivace. La parola ora è al Parlamento pagina 4

Valle di Blenio Una gita sui sentieri storici della Valle del Sole è l’occasione per scoprire e apprezzare testimonianze del nostro passato

Città intelligenti Tanta tecnologia ma anche un nuovo modo di concepire la cittadinanza: ecco le smart city del futuro

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L’insegnamento dell’inglese avrà una corsia preferenziale a scapito del francese e dell’italiano? (Keystone)

Ritrovare la pace delle lingue Scuola Alcuni cantoni svizzero tedeschi hanno messo in discussione l’insegnamento del francese nelle scuole

elementari preferendogli l’inglese. La question du français riscalda gli animi; e se in Ticino scegliessimo il tedesco? Roberto Porta Nella piccola torre di Babele svizzera – con i suoi quattro piani e un locale multiuso, occupato dalla lingua inglese – regna al momento una diffusa tensione. Questo perché uno dei quattro idiomi ufficiali, il francese, ritiene di non avere lo spazio che merita. Diversi cantoni svizzero tedeschi si stanno infatti muovendo per escluderlo dal programma d’insegnamento nelle loro scuole elementari. A Turgovia, Sciaffusa, Nidwaldo e Lucerna ci sono state decisioni parlamentari o iniziative popolari – comunque ancora da sottomettere al popolo – che chiedono di rimandare alle scuole medie lo studio della lingua di Molière. A tutto vantaggio dell’inglese che in questi cantoni rimarrebbe l’unica lingua «non madre» ad essere insegnata alle elementari, di fianco ovviamente al tedesco. «Dobbiamo cominciare a considerare l’inglese come una sorta di nostra quinta lingua nazionale», è stato detto da più parti, persino da deputati federali. Malgrado l’indiscussa predominanza internazionale dell’inglese, questo scenario preoccupa non solo chi ha a cuore i destini del francese ma anche chi ritiene che la coesione nazionale non

debba essere indebolita da scelte politiche che rischiano di dare la priorità ad una lingua straniera. Su questo fronte si è mosso persino il ministro dell’interno Alain Berset che la primavera scorsa ha fatto capire di non tollerare la discriminazione del francese e di essere pronto ad intervenire in questo ambito, seppur la politica scolastica sia di stretta competenza cantonale. Un’ingerenza federale a cui anche il Parlamento potrebbe dar seguito, se i ventisei ministri cantonali della scuola non dovessero riuscire a trovare un’intesa che riaffermi il ruolo del francese, confermandolo nel programma delle scuole elementari svizzero tedesche. In questo ambito una decisione da parte dei cantoni è attesa alla fine di ottobre, solo allora sapremo se nella Babele elvetica tornerà la quiete oppure se il «custode» federale interverrà per riportare un po’ d’ordine. In tutto questo tourbillon sono in molti a ritenere che l’italiano stia correndo il rischio di passare ancora più in secondo piano, anche se da Bellinzona Manuele Bertoli, direttore del Dipartimento dell’educazione, non si stanca di ripetere che le scuole d’Oltralpe devono rispettare i patti e continuare ad offrire nei loro piani di studi anche l’insegna-

mento dell’italiano. «Tocca a noi vigilare affinché questo principio venga rispettato», fa notare Bertoli. Una volta di più l’italiano e il francese si ritrovano a doversi difendere da chi non vede l’ora di vedere l’inglese sfrecciare sulla corsia di sorpasso. L’insegnamento delle lingue vive dunque un momento particolare. Ma proprio per questa ragione non varrebbe la pena cogliere l’occasione di questo confronto nazionale per porsi domande o spunti di riflessione sull’insegnamento degli altri idiomi nazionali anche in Ticino? Nel nostro cantone la priorità al francese è ormai una tradizione storica. A partire dalla terza elementare gli allievi cominciano ad entrare in contatto con questa lingua, per quelle che vengono chiamate tre «unità didattiche» alla settimana, l’equivalente di tre lezioni di 45 minuti. Ma al di là di questa consolidata preferenza per il francese, la domanda, o forse la provocazione, suona più o meno così: nelle scuole elementari ticinesi non sarebbe meglio passare al tedesco? «Non credo che sia una buona soluzione – replica il consigliere di Stato Manuele Bertoli – Il francese in quanto lingua romanza è più vicino all’italiano. Sebbene non sia una lingua facile è meglio iniziare la dimensione di una seconda lingua

con qualcosa di non troppo distante dal proprio idioma. Per l’apprendimento del tedesco c’è tempo. Quando ero ragazzo io si iniziava con questa materia due anni più tardi di quanto si faccia oggi. Non dobbiamo partire dall’idea secondo cui l’apprendimento delle lingue finisca con la scuola dell’obbligo – continua Bertoli – Tre anni di tedesco alla scuola media e il suo approfondimento nel quadro del settore post-obbligatorio, magari con stages o soggiorni linguistici, rappresentano di certo una prospettiva ragionevole». Più possibilista il responsabile del Dicastero cultura e scuola della città di Bellinzona. «A ben pensarci potrei anche vedere di buon occhio il passaggio dall’insegnamento del francese a quello del tedesco già alle elementari – ci dice il municipale Roberto Malacrida – In fondo è importante avere una facilità di contatto con chi è maggioritario nel nostro Paese. Per chi sarà poi uno studente o un apprendista sarebbe importante disporre di buone conoscenze in tedesco. Questo nella teoria, nella pratica vedo però una grande difficoltà, alle elementari non abbiamo gli insegnanti necessari per concretizzare questo obiettivo». Oggi nelle scuole ticinesi le lezioni di francese sono impartite dai maestri di classe, che

hanno ricevuto una formazione linguistica e pedagogica specifica. «Certamente ci sarebbe un problema per i docenti – conferma Bertoli – nel senso che alle scuole elementari si tratterebbe di formarli e di allestire piani di studio e materiali didattici che oggi non ci sono». Anche per una questione di costi e a meno di iniziative politiche incisive, il francese rimarrà dunque la seconda lingua di insegnamento in Ticino. Seguito dal tedesco, a partire dalla seconda media, e dall’inglese, in terza. Questo quanto stabilisce il concordato Harmos, con cui i cantoni mirano ad avvicinare i diversi programmi scolastici dei ventisei cantoni svizzeri. In questo senso il Ticino ha ottenuto una deroga, dovendo gli allievi del nostro cantone affrontare l’apprendimento di tre lingue «non madri» negli anni della scuola dell’obbligo. Gli altri cantoni si fermano a due e possono liberalmente stabilire se iniziare già alle elementari con una lingua nazionale o con l’inglese. L’italiano rimane facoltativo, lassù quasi in soffitta, al terzo e penultimo piano della torre di Babele svizzera oggi alle prese con la question du français. I prossimi mesi dovrebbero portare le risposte che in questo ambito molti si attendono. Ne va della pace delle lingue in Svizzera.


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Società e Territorio

Futuro incerto per gli ospedali Sanità La pianificazione ospedaliera ticinese è un parto difficile e rischia di non veder la luce

nel 2015 come previsto. La parola al Parlamento

Fabio Dozio Gli ospedali in Svizzera sono troppi. È una conseguenza del federalismo e della libertà dei cantoni. I costi della sanità esplodono, perciò Berna ha deciso di intervenire imponendo ai cantoni di pianificare la loro offerta di strutture sanitarie. La pianificazione ospedaliera, che il Governo ticinese ha annunciato alla fine del maggio scorso, è imposta dalla Legge federale sull’assicurazione malattia (LAMal) e prevede di togliere 250 letti agli ospedali per trasformarli in letti di istituti di cura, per la convalescenza. Il nostro cantone parte con un paio di peculiarità che non facilitano il compito. Le cliniche private rappresentano il 41 per cento dell’offerta di letti, rispetto a una media svizzera del 19. Il numero degli anziani, che più facilmente ricorrono alle cure, è maggiore rispetto al resto del paese. E, infine, la pianificazione deve essere votata dal Parlamento, ciò che a pochi mesi dalle elezioni politiche complica le cose, mentre in altri cantoni è decisione governativa o dipartimentale. Per contrastare l’aumento dei costi sarebbe necessaria una rivoluzione centralista, con una pianificazione nazionale di tutte le strutture ospedaliere. Ma si tratta di pura utopia, il federalismo svizzero è sacro, anche se non sempre utile al cittadino, e ogni cantone ha interessi specifici da difendere.

In Ticino le cliniche private rappresentano il 41 per cento dell’offerta di letti, rispetto a una media svizzera del 19 L’obiettivo della pianificazione è razionalizzare e contenere l’esplosione dei costi, ma il messaggio del Governo ticinese sottolinea che «le scelte sono fondate sui bisogni dei pazienti e sulle qualità delle cure. L’obiettivo principale rimane quello di garantire una distribuzione equa delle cure di base e, nel contempo, una maggior concentrazione delle specialità». Contenere le spese garantendo la migliore qualità delle cure rimane un’impresa ardua, considerando che la popolazione invecchia e che le tecnologie si rinnovano in continuazione, fattori che aumentano i costi. Che cosa propone la pianificazione annunciata dal Governo? Gli ospedali più importanti sono due, l’Ospedale regionale di Lugano e il San Giovanni di Bellinzona, che «vengono valorizzati nei loro contenuti e risultano ben complementari». Gli attuali ospedali di Faido, di Acqua-

L’Ospedale di Acquarossa: in sua difesa sono state raccolte 5948 firme. (CdT Fiorenzo Maffi)

rossa, di Castelrotto, così come le cliniche Varini di Orselina e San Rocco di Lugano vengono declassati, o, come dice il messaggio, «riorientano il loro reparto di medicina di base verso la presa in carico di pazienti subacuti», pazienti che in sostanza hanno necessità di trascorrere una convalescenza. L’altra novità fondamentale è che viene confermato il finanziamento delle cliniche private che sono riconosciute nella pianificazione allo stesso titolo degli istituti pubblici. Inoltre si prevede che tra pubblico e privato si realizzino progetti di collaborazione, per esempio nell’ambito della maternità con la clinica Santa Chiara di Locarno e Sant’Anna di Sorengo. «La collaborazione tra pubblico e privato già esiste e sarà sempre più estesa – afferma Mimi Lepori Bonetti, presidente dell’Associazione cliniche private – per quanto concerne Sant’Anna, storicamente è la clinica dove nascono più bambini in Ticino. Ritengo quindi giusto che in questa Clinica si crei il vero polo del progetto donna bambino». «L’apertura ai privati va bene – ci dice Franco Denti, presidente dell’Ordine dei medici del Canton Ticino – a patto che siano date le garanzie di qualità delle cure, come nel pubblico. Ma se paragoniamo, per esempio, Sant’Anna al San Giovanni, la clinica di Sorengo non può sostenere il confronto». Per gli altri ospedali dell’ente, Beata Vergine di Men-

drisio e La Carità di Locarno, così come per la Clinica luganese non cambia niente, «restano poli di riferimento regionali – dice il Governo – con tutte le specialità necessarie per garantire una medicina di prossimità di buon livello». Le altre cliniche private del luganese, Ars Medica di Gravesano e Cardiocentro di Lugano si rafforzano nelle loro specialità, ortopedia, cardiologia e cardiochirurgia. Altra novità è la fissazione di un massimo di prestazioni fornito da ogni ospedale. D’accordo contenere i costi, ma non è facile capire che cosa possa accadere fissando dei numeri massimi di pazienti da curare. «La pianificazione per volumi è inaccettabile – ci dice Bruno Cereghetti, membro della Commissione che sta discutendo la pianificazione – siamo l’unico cantone a proporla. È una camicia di forza che può pregiudicare la qualità delle cure». Il presidente della commissione parlamentare per la pianificazione Bixio Caprara smussa e sottolinea che «il tetto massimo va considerato come un fattore economico, uno strumento di controllo della spesa, non porterà a una limitazione delle cure». Intanto, negli ospedali serpeggia l’incertezza e nel paese cresce il malcontento. Ad Acquarossa sono state raccolte 5948 firme per difendere l’Ospedale. A consegnare la petizione al presidente del Gran Consiglio Gianrico Corti c’erano i sindaci dei tre comuni bleniesi assieme

ai due deputati della valle al Parlamento cantonale, Gianni Guidicelli e Walter Gianora. A Faido altra raccolta di firme. Alla Cancelleria cantonale sono state consegnate duemila sottoscrizioni per chiedere di non smantellare il reparto di medicina interna che porterebbe a un ridimensionamento del nosocomio leventinese. A Bellinzona ci si preoccupa per il futuro del San Giovanni. La pianificazione prevede una riduzione degli interventi ortopedici e questa proposta ha indotto alle dimissioni il primario di ortopedia e altri tre medici. «L’impressione – ha dichiarato il sindaco Mario Branda – è che si stiano precorrendo i tempi politici per attuare la pianificazione ospedaliera. Noi sosteniamo un ospedale cantonale multi-sito, ma bisogna tener conto della nostra regione». Che fine farà la proposta di pianificazione? Caprara si augura di poter presentare un rapporto al Parlamento in novembre: «Si tratta di trovare una soluzione che possa essere accolta dal Parlamento, cerchiamo la quadratura del cerchio!». Denti bacchetta: «È un messaggio pasticciato che forse merita di essere rimandato al mittente». Cereghetti è più possibilista: «Si tratta di una pianificazione spezzettata, non si può pianificare a tavolino senza tener conto di ciò che già funziona, come l’ortopedia a Bellinzona, ma penso che si potrebbe andare in

lettori. Ed ecco a fine settembre la prima edizione resa possibile grazie alla Fondazione Corriere della Sera, Io Donna, ValoreD e Women for Expo 2015. L’idea alla base l’ha ben spiegata la vicedirettrice del quotidiano italiano Barbara Stefanelli: «Quello fin qui ideato, prodotto e messo in scena è un percorso che ha cercato di raccontare come stanno le donne nel nostro tempo. E, soprattutto, come vorrebbero stare». Per leggere qualche resoconto dell’evento, per capire di che cosa stiamo parlando basta andare sul blog del «Corriere della Sera» «La 27Ora» (http://27esimaora.corriere. it). Soprattutto si sono messe a tema questioni concrete come il reinserimento sul lavoro di una mamma al ritorno dal periodo di maternità. Gli ambienti di lavoro, specialmente quando le donne occupano posizioni

importanti, sono un buon termometro per capire quanto gli stereotipi di genere continuino ad essere profondamente radicati. Nel post si legge di «Laura, un’amica pubblicitaria» che racconta «di una riunione in cui, tra le altre cose, si doveva organizzare il lavoro in vista del prossimo rientro di una collega dalla maternità. Bisognava decidere in quale progetto inserirla e la questione è stata posta dal capo più o meno con queste parole: “E adesso chi se la piglia che avrà la testa solo su biberon e pannolini”» (andate qui per leggere tutta la storia http://27esimaora.corriere.it/articolo/ sono-matti-metteranno-in-consiglioparecchie-donnegli-stereotipi-da-combattere-ancora/#more-28648). È evidente come dice la Stefanelli «che qualcosa stia cambiando e che questo cambiamento possa essere accelerato,

Gran Consiglio con un progetto corretto e condiviso: una soluzione concordata transitoria che poi potrà essere migliorata». Mimi Lepori Bonetti ci dice che «nel messaggio i criteri di economicità e di qualità dovevano giocare un ruolo maggiore. Alcuni capisaldi della pianificazione, come la trasformazione da ospedali in istituti di cura, sono già stati criticati e il Dipartimento della sanità e della socialità dovrà trovare nuove soluzioni». «La verità è che questo cantone ha dormito e dorme – sostiene Bixio Caprara – È dal 2010 che il Ticino deve preparare la pianificazione. Zurigo nel 2012 ha votato. Qui si sono persi quattro anni e ora la nostra commissione lotta contro il tempo». Insomma, il dibattito è più aperto e vivo che mai, la pianificazione ospedaliera sembra un parto difficile, ma siamo solo all’inizio. Nei prossimi mesi il Ticino sarà confrontato con altre decisioni importanti. La significativa proposta di creare una facoltà di medicina, la decisione sul futuro ospedale cantonale («una o due strutture per le cure specialistiche» afferma senza sbilanciarsi l’Eoc) e, infine, la competizione a livello svizzero per aggiudicarsi alcuni centri di medicina altamente specializzata. Tanti temi caldi che si sovrappongono e che meriterebbero di essere discussi, valutati e ponderati simultaneamente, e non a spizzichi, nell’interesse dei cittadini e dei pazienti di questo Cantone.

La società connessa di Natascha Fioretti Il tempo delle donne

È arrivato il tempo delle donne. È arrivato il tempo dell’attenzione, di mettere al centro le questioni femminili, di puntare il faro su ciò che ancora le ostacola nel poter realizzare tutto ciò che vogliono. «Tutto ciò che vogliono»... non sarà un po’ troppo ambizioso penserà qualcuno? No, non lo è. Le donne, proprio come gli uomini, devono poter avere la medesima possibilità di scelta, le medesime opportunità di lavoro. Se non vogliono fare carriera, bene. Ma se vogliono arrivare in alto e avere una famiglia devono poterlo fare. Devono vivere in una società, in un contesto politico e professionale che non vedono la maternità come una spina nel fianco, ma come una risorsa, un valore aggiunto, attivandosi per creare un sistema ed un’infrastruttura virtuosi che sostengono ed

incentivano la donna nel suo percorso. Una realtà ancora lontana ma, la direzione intrapresa al momento, sembra essere quella giusta. Qualche settimana fa a Berlino si è tenuta la più prestigiosa conferenza internazionale sulle donne, la WIN (Women International Network) Conference. Novecento presenze femminili provenienti da ogni parte del mondo con un 5 per cento maschile. A Milano invece, a fine settembre, «Il tempo delle donne. Storie, idee azioni per partecipare al cambiamento», tre giorni di eventi con oltre cento appuntamenti in programma. Un progetto del «Corriere della Sera» nato un anno fa con l’obiettivo di creare sulle donne e con le donne una grande inchiesta, accogliendo e raccogliendo le voci di personalità pubbliche, giornaliste, artiste, esperte, ma anche di lettrici e

curato, diffuso da quanti hanno una possibilità di aiutare la riflessione tra le persone e poi di sostenere azioni, piccole e grandi, per costruire un vivere migliore più autentico, aggiornato alle nostre capacità e inclinazioni». Tra chi può contribuire ci sono in prima istanza i media, sono loro che possono e devono assumersi la responsabilità e l’impegno di mettere sul tavolo i problemi e di provare a trovare delle soluzioni, sono loro che possono creare il giusto dibattito, il confronto, il terreno fertile per il cambiamento. In Inghilterra da tempo lo fa il «Guardian» con tutta una sezione dedicata alle donne e pure un blog (http://www. theguardian.com/lifeandstyle/womens-blog), in Italia il «Corriere della Sera». Esempi ai quali guardare da oltre confine.


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Società e Territorio

La storia lungo i sentieri Valle di Blenio Da Acquarossa a Malvaglia, un sentiero storico conduce tra chiese, ghiacciaie, ponti, vecchie strade,

grotti e altre testimonianze di un passato da ricordare

Elia Stampanoni Valle di Blenio, la valle del Sole, degli alpeggi, dei formaggi, del Lucomagno, del Giro Media Blenio e di tante altre tappe che meritano una sosta. Chi è di transito forse non si accorge neppure che, lì a pochi passi, esistono dei luoghi meritevoli di una visita. Molti di essi, sicuramente non tutti, sono stati allacciati tra loro con i sentieri storici, voluti da Blenio Turismo e inaugurati a tappe, i primi nel 2006 e gli altri l’anno scorso (2013). Si tratta di quattro percorsi differenti, con una lunghezza variabile tra 4,5 e 14 chilometri, quindi con percorrenze variabili tra un paio fino a cinque ore.

I sentieri storici sono un progetto sviluppato da Blenio Turismo, inaugurati a tappe sono quattro percorsi con lunghezze e percorrenze variabili Gli opuscoli, disponibili anche sul sito di Blenio Turismo (www.blenio.com) introducono la passeggiata e sono un aiuto per intraprendere la gita con maggior consapevolezza. Come leggiamo nell’introduzione di questi due pieghevoli (ognuno con due percorsi), «Percorrendo i sentieri della Valle di Blenio ci si avvicina ai capolavori del romanico rurale. È un susseguirsi di campanili, chiese, oratori, cappelle, affreschi, ponti e palazzi, testimonianze artistiche e architettoniche degne di particolare rilievo che, affiancate al patrimonio naturalistico, hanno favorito e accresciuto l’attrattiva turistica della Valle di Blenio». Gli itinerari s’inseriscono parzial-

Molti i grotti che si incontrano durante la gita. (Elia Stampanoni)

mente nella rete dei sentieri già esistenti e sono segnalati in modo uniforme, con cartelli e frecce, mentre sul terreno troviamo pure delle tavole tematiche o esplicative. Il primo percorso proposto (il numero tre, aperto nel 2013) è tra i più semplici dal punto di vista fisico, essendo abbastanza breve (7 km) e praticamente tutto in discesa. Come gli altri itinerari parte dal sedime della vecchia

stazione ferroviaria di Acquarossa, per poi seguire il versante sinistro del fiume Brenno, transitando da Dongio, Motto e terminare a Malvaglia, presso la Chiesa di San Martino con il campanile romanico, tra i più alti del Ticino con i suoi 37,5 metri. La citata stazione fu inaugurata nel 1911 e restò attiva fino al 1973, quando i trasporti su strada presero

il sopravvento. Da notare che originariamente era previsto un secondo troncone da Acquarossa a Olivone ma, nel 1914, il fallimento delle banche e la prima guerra mondiale, bloccarono il progetto e la realizzazione. Il tragitto prende comunque la direzione opposta, verso sud, verso Dongio, percorrendo la vecchia strada del Satro, realizzata nel 1819. Oggi, a quasi duecento anni di distanza, si presenta come un ampio e largo (tre metri) sentiero di 1,6 chilometri da percorrere spensierati nella quiete. La strada del Satro permise di evitare la costruzione dei due ponti sul Brenno, che oggi (e dal 1891) permettono invece alla cantonale di scorrere dal lato opposto. Giunti a Dongio il percorso penetra nel nucleo, incontrando subito la giazzéra (la ghiacciaia). Si tratta di un edificio con un atrio e un pozzo cilindrico, utilizzato fino agli anni Sessanta per la conservazione degli alimenti. D’inverno veniva riempita di neve che, bagnata, si trasformava in ghiaccio e garantiva il refrigerio fino a fine estate. Il successo della ghiacciaia (nel Sottoceneri nota come nevèra) era garantito pure dalle fessure delle rocce, dove spirava l’aria fredda. Veniva utilizzata per conservare latte, formaggio e, nel caso specifico, soprattutto per la carne. Continuando il cammino s’incontrano il torchio a Leva di Dongio, un bene culturale d’importanza cantonale, e poi una serie di grotti. Alcuni sono stati riattati, ma altri sono trascurati o in vendita, segnale di un abbandono graduale non ancora ultimato. La Chiesa dei Santi Luca e Fiorenzo nel nucleo di Crespogno (frazione di Dongio) ricorda invece il periodo tardo barocco con le decorazioni in stile rococò risalenti al 1760. La chiesa originaria fu travolta nel 1758 da una frana, sotto la quale morirono 34 persone e furono distrutte 54 case e

120 stalle. I sopravvissuti ricostruirono più a nord e dagli scavi del 1958 emerse un frammento della campana, conservato presso il Museo di Blenio a Lottigna. Il sentiero transita di seguito sotto le case dei Pagani, incastonate sulle pendici della montagna e con molte leggende legate al loro passato. A Marogno il piccolo nucleo di case riserva molte sorprese, tra cui una ventina di grotti con le fresche cantine per conservare vini, formaggi e salumi. Anche questa frazione aveva il suo torchio, mentre a monte s’intravede la casa di famiglia dei Gatti, tra i quali si ricorda Carlo, che fece fortuna a Londra, iniziando come gelataio. A Motto spicca l’oratorio della Natività di Maria, una costruzione a navata unica risalente al XVI e XVII secolo. Sempre costeggiando il lato sinistro del fiume Brenno, il sentiero scende a Malvaglia per le ultime quattro postazioni. La casa dei Landfogti è una casa signorile con tetto a due spioventi, mentre l’Atelier Titta Ratti, centro culturale polifunzionale, ricorda l’emigrazione dei Malvagliesi, spesso come marronai, negozianti, garzoni o, come il Gatti, gelatai. I ponti sul fiume Orino sono invece una testimonianza del carattere agricolo e rurale delle attività degli abitanti che, per spostarsi verso gli alpeggi in Val Malvaglia, costruirono mulattiere, ponti, scalinate e sentieri. Malvaglia fu anche un’importante località di transito, trovandosi sulla via che da Milano portava a nord attraverso il Lucomagno. Il Ponte di Orino, che si trova su questa strada, fu rifatto in pietra prima del 1800 e poi allargato per le diligenze, sostituendo quello medievale situato più all’interno della gola. Lo spettacolare ponte di Laù (risalente al 1600), si trova su una via storica d’importanza nazionale, mentre a pochi passi troviamo un altro ponte, quello di Canè.

si illuminasse di nuovo e gli viene in mente quel piccolo alpe abbandonato, osservato dalla strada, sul quale proietta volentieri le storie che conosce, sempre pronte ad accendersi e ad animarsi, analogamente a quanto succede nei presepi delle chiese a Natale. Si racconta tra l’altro di un’usanza sugli alpi della Bavona: prima di coricarsi si mandavano dei segnali luminosi da corte a corte, uno scambio di saluti per dire, «ci siamo anche noi». «L’odore della brace spenta vuole proprio mandare dei segnali d’inchiostro a chi li vuole raccogliere, per pensare assieme alla montagna, a quel che è stato, a chi c’è stato». Capirla vuol dire aver partecipato al rito della mazza del maiale, alla difesa del territorio e alla guerra a volpi e tassi che finivano in padella come marmotte e gatti. Il riso arrivava col contrabbando, il caffè era prepa-

rato col pentolino anche se alla Costa Delio gustava il suo caffè alle ghiande di rovere, le castagne si raccoglievano a Veglia, perché a mille metri non crescevano i castagni. I campi di segale erano già scomparsi e quelli di patate molto rari. Dal canto nostro riusciamo a immedesimarci nel giovane Martino che si lasciava incantare dal funzionamento della prodigiosa macchina da caffè Cimbali nell’osteria di suo padre e che sognava a occhi aperti sfogliando il catalogo Jelmoli.

Segnali luminosi di montagna Pubblicazioni Martino Giovanettina nel suo libro ripercorre gli anni

Elena Robert Nel fazzoletto del Ticino alpino del dopoguerra raccontato da Martino Giovanettina si riconosceranno in molti, anche se con la Bavona e la Lavizzara non hanno niente a che fare. Perché la montagna accomuna, come l’odore della brace spenta preso in prestito per il titolo del suo nuovo libro: quell’odore intenso, evocatore di luoghi, persone e cose, le cui tracce sono ancora vive nella memoria e nel territorio dell’autore. Mettere nero su bianco gli anni Sessanta e Settanta vissuti lassù ha significato per il giornalista tornato a vivere in valle e che intraprende il mestiere di oste come il padre e il nonno, un profondo atto d’amore per la sua terra e le sue origini: un viaggio di ritorno che coinvolge emotivamente anche chi legge, e non si limita a essere un’immersione nel passato, perché la cultura del piano di allora e la contemporaneità di oggi sono sempre presenti rimanendo saldi punti di riferimento. Doveva essere una raccolta di testi sull’alimentazione tradizionale, poi L’odore della brace spenta è diventato altro e forse la ricerca dell’altrove. «Non c’è nostalgia dolciastra nel raccontare le tante storie di una Heimat alpina che ogni anno un po’ svanisce»: «Non rimpiango – ribadisce l’autore –

ma mi pongo il problema di cosa si riesce ancora a trasmettere al bambino che viene quassù». Il modo di sentire la montagna è diventato quello indotto dalla pianura, fa intendere l’autore. Il libro assume così la valenza di «interfaccia» ma anche, come rileva Giovanettina, di quell’identità che è difficile far capire a un ampio numero di persone. «Tutti noi abbiamo una brace spenta, mi auguro che possiate sentirne l’odore per tornare in luoghi dove si è già stati e di cui si è smarrita la strada». Le storie sono ambientate tra San Carlo in Val di Peccia (Törn), dove chi scrive, oggi cinquantatreenne, ha vissuto fino a undici anni, «il luogo dell’anima dove riconosce più segni del passato»; Cavergno all’imbocco della Lavizzara e della Bavona, dove si è stabilito da molti anni in una casa d’inizio Novecento costruita da cavergnesi emigrati in Olanda, e che lo fa sentire «due volte a casa»; Foroglio in Val Bavona, il suo «approdo alpino», la sua «unica montagna possibile», dove da vent’anni è contitolare dell’Osteria alpina La Froda. Ancora oggi questo locale pubblico è un crocevia di gente diversa che viene anche da lontano e «una commistione tra locale e universale, mai una senza (almeno) la prospettiva dell’altra», quella che Giovanettina ha sempre cercato.

Altre comunità di montagna vivono le esperienze della gente di San Carlo, Cavergno e Foroglio, per questo si è scelto, nel libro, di non indicare i cognomi delle tante persone che vengono ricordate. È come se facessero parte di una realtà che supera il locale. E trapela anche una dimensione di apertura da questo angolo alpino del Ticino, a cominciare dalle origini olandesi del ramo materno dell’autore che portarono un vento del Nord nella sua famiglia: «…a tavola, assieme al cibo, si mescolavano piccoli pezzi d’Europa». Si aveva fame e si viveva in povertà nell’alta Valle Maggia, ma si respiravano anche serenità e spontaneità. La montagna cupa e severa non traspare nel libro. E ci si meraviglia che a San Carlo la vita pulsava negli anni Sessanta: settantacinque abitanti, due ristoranti, uno dei quali fu il Bar Centro di suo padre Aurelio, tre negozi, una scuola con trenta bambini, un prete residente, una chiesa affollata, una latteria, un salone per godersi gli spettacoli. I testi restituiscono una grande vitalità, grazie anche a poche significative testimonianze dirette. Nel libro le foto scattate da Lorena Pini esprimono invece per scelta il vuoto di oggi. «Sulla montagna che abbiamo vissuto – dice Giovanettina con amarezza – è già notte». Vorrebbe che

Lorena Pini

Sessanta e Settanta dell’alta Valle Maggia

Informazioni

L’odore della brace spenta di Martino Giovanettina, foto e grafica di Lorena Pini, Agenzia Kay edizioni, Cavergno 2014. Per l’edizione in tedesco la traduzione è curata da Pia Redaelli Todorovic


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino Âś 13 ottobre 2014 Âś N. 42

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SocietĂ e Territorio

La cittĂ diventa intelligente Smart city Le tecnologie intelligenti possono aiutare a risolvere problemi legati al traffico, al consumo di acqua

o all’illuminazione pubblica. Tra gli esempi internazionali piÚ famosi ci sono Seoul e Rio de Janeiro, ma quali sono le vere sfide politiche e sociali da affrontare?

Natascha Fioretti Se volete sapere che cos’è una cittĂ intelligente andate a Seoul, oppure a Rio de Janeiro. La prima è la capitale di una delle nazioni tecnologicamente piĂš avanzate, tra le prime a investire nella smart technology. La seconda, nell’ambito dell’ultima edizione di World Expo, è stata eletta la migliore smart city del 2013. La cittĂ di Seoul per anni ha investito milioni di dollari in sensori integrati nell’infrastruttura stradale e ora cerca di catturare il traffico dati in tempo reale; un esperimento non facile e molto dispendioso. Intanto però, i 25’000 taxi della cittĂ si sono dotati di un pagamento touchcard, con sistema GPS integrato, in grado di comunicare informazioni in tempo reale sul traffico. Ăˆ uno degli aspetti positivi, le tecnologie intelligenti possono risolvere i problemi della cittĂ senza modificarne l’infrastruttura. Resta il fatto che, per un’industria del genere, costo 400 miliardi di dollari, si fanno piĂš soldi integrando sensori che analizzando set di dati esistenti. Sono però proprio i dati forniti, passivamente o attivamente, dai cittadini utilizzatori di cellulari, a rappresentare il piĂš importante sviluppo degli ultimi anni e una delle risorse piĂš preziose. La sfida è capire come sfruttarli e impiegarli al meglio. Dall’altra parte del globo, a Rio de Janeiro, ci stanno provando con un centro di operazioni, un hub che conta uno staff di 400 persone, miriadi di screen distribuiti in cittĂ . Secondo il direttore Pedro Paulo Carvalho, ÂŤil primo passo per una smart city è avere un’infrastruttura centrale di baseÂť.

Un approccio olistico alla pianificazione di cittĂ intelligenti necessita il coinvolgimento dei cittadini non solo nel fornire dati ma anche nel capire il loro utilizzo e in tutti i processi decisionali seguenti ÂŤMa la vera sfida è integrare questi sistemi nella vita quotidiana, aprire i dati ai cittadini in modo che possano riutilizzarli. Il concetto di un cittadino intelligente è di essere coinvolto nel processo decisionaleÂť conclude. La visione delle cittĂ intelligenti va dunque al di lĂ della tecnologia. Kevin Ashton, fondatore del MIT’s Auto-ID Center, ha dato l’esempio con il progetto smart water meters, capace di misurare e quantificare l’utilizzo e lo spreco di acqua domestica ÂŤin casa si spreca il 40 per cento del consumo di acqua. Se solo riuscissimo a catturare questi dati e mostrarli alle persone che la consumano, renden-

Le città intelligenti si basano non solo su tecnologie all’avanguardia ma anche su un nuovo concetto di benessere e comunità per una realtà urbana migliore.

dole attente, consumerebbero molto menoÂť. L’evoluzione e lo sviluppo delle cittĂ intelligenti è un work in progress e comprende tutta una serie di variabili. PerchĂŠ un approccio olistico, alla pianificazione di cittĂ intelligenti, sia davvero possibile, è necessario, da un lato, comprendere come coinvolgere i cittadini, dall’altro, gli stessi cittadini devono essere parte attiva, chiedere chiarimenti sulle politiche vigenti, il funzionamento e l’utilizzo dei dati, essere disposti a fornirli. E non è solo una questione di tecnologie all’avanguardia, ma di una mentalitĂ e di una infrastruttura politica adeguata. Lo dice chiaramente Alex Mestre, direttore marketing di Abertis Telecom ÂŤle maggiori sfide non sono quelle tecnologiche. La grande sfida si gioca sul suolo politico, quello di cui abbiamo bisogno è una chiara linea politica da parte della municipalitĂ di quello che è necessario fare, le barriere nei diversi dipartimenti devono essere spezzate e abbiamo bisogno di un mandato politico prima di mettere in gioco tutto. Altrimenti, saranno solo degli esperimentiÂť. In altre parole la tecnologia è disponibile, tutto sta a saperla usare in maniera intelligente. Siamo in grado di farlo? Vicente Guallart, architetto, direttore dell’urbanistica della cittĂ di Barcellona, ha spiegato come un sistema centrale di operazioni sia cruciale anche per il suo modello di illumina-

zione cittadina: ÂŤstiamo creando delle fibre ottiche per dare piĂš energia ad ogni lampione della cittĂ in modo da avere sensori e wifi ovunque. Sensori in grado di monitorare ogni cosa, dal livello dei rumori, alle emissioni di CO2, oppure l’utilizzo della strada – se nessuno la percorre l’illuminazione si spegne. Questo utilizzo intelligente potrebbe far risparmiare alle cittĂ l’80 per cento sulle bollette della luceÂť. Il concetto di Smart City prevede la convergenza delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione per migliorare l’efficienza e l’efficacia dei sistemi e dei servizi urbani. Ma esiste anche una visione parallela in cui le amministrazioni coinvolgono i cittadini e si lasciano coinvolgere, sostengono la co-creazione di processi di innovazione attraverso relazioni fondate su fiducia e collaborazione. Ăˆ la cittĂ umana. E le due possono essere una cosa sola, un ambiente in cui le persone, i cittadini e la comunitĂ , diventano gli agenti fondamentali della smartness. Una cittĂ intelligente e umana allo stesso tempo, adotta servizi pensati in risposta ai bisogni reali dei cittadini e co-disegnati all’interno di processi dialogici, collaborativi e interattivi. In un contesto simile, le persone non sono costrette ad adottare le tecnologie selezionate e acquistate per loro, piuttosto sono incoraggiate a disegnare i propri servizi in soluzioni semplici uti-

lizzando le tecnologie di cui dispongono. Le Human Smart Cities, attraverso una governance adeguata dell’innovazione sociale e tecnologica, mirano a sviluppare un nuovo senso di appartenenza e identità , un nuovo concetto di benessere e comunità per una realtà urbana migliore. In questa prospettiva, le città sono chiamate a sviluppare nuove abilità nella costruzione di politiche per integrare nei propri piani e scenari, forme innovative di democrazia e di economia. Douglas Schuler, ricercatore e professionista, specializzato nelle relazioni tra società e tecnologia, spiega come il legame tra una città intelligente e una città umana debba passare per il coinvolgimento civico e per una intelligenza civica. Sarebbe a questo livello, infatti, che si forma l’opinione pubblica, si prendono e si influenzano decisioni. Secondo lui l’intelligenza civica si applica a tutti i gruppi, formali ed informali, che stanno lavorando per raggiungere obiettivi civici come il miglioramento ambientale o la non violenza sulle persone. Una visione legata a molti altri concetti, come l’intelligenza collettiva, l’intelligenza distribuita, la democrazia partecipativa, i nuovi movimenti sociali, ecc.. In una intervista pubblicata sul sito Smart Civic exhibition 2014 rivela come l’intelligenza civica sia un tema generale ma vitale per le città perchÊ

il sistema urbano si presenta come particolarmente critico, soprattutto ora che molte piĂš persone vivono in cittĂ e non piĂš nelle campagne; con l’urbanizzazione i cambiamenti sono stati tanti ed è cambiato anche il modo con cui osservare le cittĂ . Occorre valutare le politiche che le cittĂ adottano rispetto a determinati problemi e metterle a confronto con le soluzioni adottate da altre cittĂ del resto del mondo, in modo da creare un circolo virtuoso di suggerimenti che consenta di evitare errori che altri hanno giĂ commesso. Alcuni esempi si possono individuare nelle decisioni riguardanti le foreste (disboscamenti), gli oceani (l’inquinamento) e tanti altri. L’obiettivo principale della Civic Intelligence è far sĂŹ che ognuno si senta significativo e che giochi un ruolo importante nelle scelte che riguardano il proprio territorio, in modo che non siano soltanto i sindaci o, piĂš in generale le istituzioni, a prendere le decisioniÂť. Secondo le ultime statistiche piĂš della metĂ della popolazione del mondo vive nei centri urbani e il numero di residenti sale ogni anno di 60 milioni. Una crescita vertiginosa e costante che vedrĂ oltre il 70 per cento della popolazione mondiale vivere nelle aree urbane entro il 2050. Vale dunque la pena riflettere sul futuro delle nostre cittĂ in una ottica che sia al tempo stesso intelligente e umana. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 13 ottobre 2014 ¶ N. 42

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Società e Territorio Rubriche

Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni L’identità problematica Si discute molto, da anni, sul tema dell’identità: quella nazionale e quella cantonale. E questo è un segnale significativo: se di un tema si parla tanto, è perché è divenuto problematico. Nell’era della globalizzazione, non solo il Ticino e la Svizzera avvertono una crisi nella coscienza identitaria: ogni Paese è invaso dal mondo intero, con le immagini, le notizie, le mode, le lingue e i costumi diversi. Ultimamente, sul tema è tornata una pubblicazione di tutto rispetto – dal titolo Evoluzione dell’immaginario nella Svizzera italiana – che compone l’ultimo dei «Quaderni di Coscienza Svizzera», da poco apparso. Il «Quaderno» prende spunto dalla mostra «Ticino Tessin. Fiera Svizzera di Lugano 1933-1953», che si è chiusa lo scorso febbraio e viene ora riproposta al Padiglione Conza. Quella fiera ha costituito, nel ventennio in cui è durata, un emblema identitario per il

Ticino d’allora e ha contribuito a dare un’immagine del nostro Cantone in uno dei periodi più travagliati della storia europea, quando i nazionalismi dirompenti esaltavano il primato di due nazioni, la germanica e l’italiana, e conducevano al disastro della Seconda Guerra Mondiale. Il Ticino, dunque, volle affermare lungo vent’anni la sua identità e il suo patriottismo anche con la Fiera di Lugano: e i saggi storici di Orazio Martinetti e di Carlo Piccardi illustrano bene la volontà, gli scopi, e anche gli ondeggiamenti e le incertezze di questa azione propagandistica. Anche le incertezze, certo: perché è ovvio, in primo luogo, che non ci potesse essere un’assoluta unità d’intenti in tutta la popolazione; e in secondo luogo, e forse soprattutto, perché un’identità è un rapporto dialettico – non qualcosa di statico come una bandiera o uno stemma araldico, ma una

rappresentazione mentale ed emotiva. Per dirla con Hegel, nel rapporto tra Signore e Servo il Signore è tale solo perché ha un Servo, e viceversa l’identità servile può essere avvertita solo in rapporto a un Signore; in modo analogo, sentirsi Svizzeri, Italiani, Spagnoli ecc. è possibile solo quando si avverte un fattore di distinzione, una differenza che permetta una relativa separazione da chi non è membro della stessa comunità. Ora, nel caso del Ticino (ma la considerazione vale per le altre regioni linguistiche elvetiche), questo fattore di distinzione è reso più fragile dal fatto che la lingua e gran parte della cultura sono condivise con il Paese al di là della frontiera. Non è certo un caso che l’opposizione al nazifascismo e poi la neutralità durante il conflitto mondiale abbiano rafforzato negli Svizzeri il senso e la volontà di appartenenza alla Confederazione: è

ben noto alla psicologia sociale che, se si vuole compattare un gruppo, basta opporgli un nemico; e una simile strategia può essere sfruttata anche oggi da tendenze politiche populiste. Ma oggi, come giustamente osserva Carlo Piccardi, voler dimenticare o trascurare l’italianità del Cantone significa indebolire quella coscienza identitaria con la quale un Ticinese riconosce di appartenere alla comunità elvetica, ma con una caratteristica peculiare. E però, all’opposto, anche il volgere fissamente lo sguardo all’Italia, assumendola come punto di riferimento prevalente sulla Confederazione, significa indebolire quel legame federale che è il cardine dell’identità ticinese: e qui le considerazioni di Antonio Gili nel primo saggio del «Quaderno» meritano di essere valutate attentamente. Un’ultima considerazione. Esiste un parallelo tra l’identità comunitaria e quella individuale. Ogni identità si ra-

dica nella memoria: se voglio rappresentare me stesso e dare un’idea di chi sono mi metto a raccontare della mia vita. In maniera analoga, l’identità di una nazione è affidata anche alla sua storia: per sentirsi ticinesi e svizzeri è necessario conoscere, almeno sommariamente, il percorso temporale che ha costruito il Paese, la sua cultura, la sua organizzazione socio-politica. Perciò iniziative come la mostra sulla Fiera di Lugano e gli studi storici relativi sono un po’ come allestire un album di famiglia, ritrovare il passato dal quale veniamo. La memoria comune – la memoria storica – deve entrare a far parte di quella del singolo cittadino, se si vuole che la cittadinanza sia una componente della persona e non solo un attestato burocratico: ed è compito primario della scuola iniziare a trasmettere questo complemento d’identità. La scuola ci riesce? Be’, per lo meno ci prova…

larini ottenuti con spalmate disinvolte di beton bianco. Ma allo stesso tempo, questi buchi in tre ordini geometrici di cinque, mi riportano alle tradizionali case engadinesi. In lontananza si vedono dondolare le seggiole della prima seggiovia d’Europa (1947), qui in faccia c’è una macelleria. Sulla panchina di fianco alla casa una ragazza mangia un panino. La casa gialla è aperta, a parte il lunedì, dalle due alle sei e fino al diciannove ottobre espone centotré manifesti pubblicitari svizzeri. L’entrata, un tempo sulla strada, ora è di lato, sette gradini con sfondo una stalla imbrunita. L’interno è più che spartano: tutto bianco con parquet grezzo. La casa gialla è stata sgusciata: si ammirano così a meraviglia i manifesti appesi. È la collezione dell’imprenditore zurighese Thomas A. Rüegg, ereditata dalla figlia grafica Brigitte Rüegg che è anche curatrice dell’aereo allestimento assieme ad Ariana Pradal. I manifesti, dalle località turistiche come Flims,

Davos eccetera, ai prodotti alimentari come gli Zwieback Hug, la Pepita, Ovomaltina, Vivi-Kola, ad esempio, vanno dal 1911 al 1964. Percorro così i tre piani di questo universo grafico sospeso. All’ultimo piano, oltre alla travatura del soffitto e al particolare pilastro ligneo fuori asse di Olgiati, alzando gli occhi, ecco il notevole manifesto (Kunz, 1947) dell’Elmer Citro: attorniata da una genziana e altri fiori alpini, l’acqua sgorga in una fontana a forma di bottiglia. Il timido tetto di pietra, se caso, va visto da una certa distanza. Da vicino c’è l’illusione del tetto piano. Ora, in cielo, ci sono un sacco di mongolfiere. Mi soffermo ancora sulle mura escoriate di questa casa riattata con brutale grazia mantenendo magistralmente intatta la cubatura e conferendole un che di nevoso, irreale, irriverente, tipo fatamorgana. Vado: a poche centinaia di metri da qui c’è lo studio-capolavoro (2007) di Olgiati mimetizzato come una stalla.

Ecco la parola chiave: per proprio conto. Ciò che ha comportato la fine del televisore unico, a disposizione anche di altri, che esigeva una presenza collettiva e disciplinata, in uno stesso luogo a orari inderogabili. È stata, innegabilmente, una conquista di libertà, dagli effetti però ambigui. Certo, sul piano tecnologico, fornisce strumenti al servizio della nostra comodità. Grazie a streaming, qualsiasi programma può essere veduto, quando e dove meglio ci garba, con il rischio tuttavia di rimandare la visione a chissà quando. Paradossalmente, i tanti schermi, sempre a portata di mano, che sostituiscono lo schermo casalingo unico, hanno finito per intrappolare l’utente nella confusione e nella dipendenza: la figura del sempre connesso ne è l’emblematica caricatura. In definitiva, si tratta di un isolato dalla realtà vera, cui preferisce quella fittizia. E qui si ritorna all’aspetto forse più inquietante di un cambiamento rivoluzionario: quel focolare domestico, raccolto davanti al televisore, è sempre

più disertato. Persino l’appuntamento, un tempo canonico, con il Tg serale vede diradarsi il seguito dei suoi fedelissimi: calato di un quarto, negli ultimi anni, secondo le statistiche. A parte i mondiali di calcio, non ci sono più programmi in grado di mobilitare l’intera platea nazionale. Una perdita che allarma i responsabili delle emittenti pubbliche cosiddette di servizio, alle prese con le incognite di un avvenire fuori controllo. A Berna, come a Comano, si cerca di reagire: «Siamo parte della realtà e della coscienza del Paese, dichiarava Ruedi Matter, direttore della Tv svizzerotedesca, «Siamo parte del tuo mondo», ribadisce uno slogan rivolto agli spettatori ticinesi. Ci s’impegna, insomma, per sottolineare l’importanza di un legame che è anche d’ordine affettivo. Difficile, però, da ristabilire. Un tempo, simpatie o critiche erano dirette a un solo diffusore di programmi, la TSI o semmai la Rai, rivolgendosi ad amici. Oggi, il multiconnesso divide le sue reazioni fra innumerevoli canali, muovendosi fra sconosciuti.

Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf La casa gialla di Olgiati a Flims La casa gialla di Flims, va detto subito, senza muoversi da casa, è bianca. Questa casa borghese dell’Ottocento trasformata radicalmente in museo nel 1999 da Valerio Olgiati – architetto grigionese classe 1958 affacciatosi sulla scena internazionale proprio grazie a questo lavoro – conserva però ancora nel nome, il colore della facciata precedente. In Das Gelbe Haus (2000), libretto in tela a cura del Kunsthaus di Bregenz, lo stesso Valerio Olgiati dice: «La casa doveva essere pitturata in bianco e avere un tetto di pietra. Mio padre ha stabilito questo in un accordo con il comune di Flims prima della sua morte». Rudolf Olgiati (1910-1995) è anche lui architetto – tra l’altro di gran classe: costruzioni bianche con intermezzi di legno frutto di un mix di regionalismo, Le Corbusier, un pizzico isolano di architettura greca o eoliana – e proprietario della casa gialla. Con questa clausola dunque, la casa gialla viene donata al comune di Flims assie-

me a parte della sua collezione di beni culturali alpini. E così, per riconvertire in uno spazio espositivo questa casa d’abitazione vuota per decenni con una parentesi come negozietto di verdure, viene incaricato il figlio. E lui lascia tutti di stucco: se alcuni critici usano l’aggettivo «irritante» e certi giornalisti locali la parola «stupro», la riattazione della casa gialla di Flims riceve vari premi ed elogiata in lungo e in largo sulle più importanti riviste di architettura. A guardare le foto della vecchia casa gialla e l’attuale, non ne rimane traccia, se non nel nome: coraggiosamente cancellata senza raderla al suolo. Una specie di gioco-congelazione di prestigio. Parto entusiasta per vederla da vicino; perdipiù, nei Grigioni, mi sento sempre, misteriosamente, a casa. Alle 15.21 scendo dalla posta in questa nota località sciistica dal toponimo-anagramma filmico. Flims, venti chilometri da Coira, è situato su un terrazzo a nord della

gola del Reno Anteriore – la Ruinalta, nota come «il Grand Canyon svizzero» – e ammalia subito per la sacrale Flimserstein o Crap da Flem: altopiano roccioso costellato da maestosi pecci. Pochi passi lungo la via Nova, via principale che taglia in due Flims Dorf, e adocchio il biancheggiare d’angolo del blocco etereo. Da vicino, nella luce pomeridiana di questa giornata da incorniciare ai primi di ottobre, al numero sessanta, la superficie irregolare dei sassi a vista misti al beton in situ imbiancato della casa gialla di Olgiati a Flims (1072 m), è gioia pura. Facciata materica, frastagliata dalle pietre riemerse dall’operazione di spellatura che porta fuori dal tempo e dallo spazio. Collocando l’inconscio faccia a faccia ai templi Maya mai visitati o al grumo delle case di Matera, contemplando anche le colombaie cicladiche. Lo straniamento è accentuato dall’esagerata profondità delle quindici finestre, bucature attorno alle quali ci sono col-

Mode e modi di Luciana Caglio Insieme davanti alla tv: oggi non più Un gruppo familiare, genitori e figli, riunito nel soggiorno di casa, con gli occhi puntati sul piccolo schermo di un televisore-scatolone, dove lo speaker sta leggendo il notiziario della sera: la foto, apparsa recentemente sul «Tages Anzeiger», coglieva un momento di vita quotidiana che, ormai, appartiene al passato, è un pezzo di storia. Risale a fine anni 50 o inizio 60. Lo si desume dallo stile dell’arredamento e dal vestiario delle persone ma, soprattutto, dalla situazione stessa: il fatto che la diffusione del Tg rappresentasse un appuntamento fisso e insostituibile, da non perdere. Tanto da diventare un rito, e per il pubblico svizzero persino patriottico. Magari, per lo svago, ci si lasciava tentare dai canali esteri, più brillanti, ma per l’informazione ci si affidava alla TSI, sinonimo di serietà elvetica. Comunque, ed è l’aspetto centrale di questo rito, la televisione si consumava insieme, in famiglia, in casa di amici, al bar, o in un club sportivo, e insieme si commentava, si discuteva, si criticava. Tutto ciò, grazie

e intorno a un apparecchio, capace di creare, in luoghi e in tempi condivisibili, occasioni d’incontro, diventando così il nuovo focolare, come ironicamente veniva chiamato. La definizione era calzante. Al pari del camino di una volta, il focolare elettronico svolgeva una funzione socialmente utile. Di questo merito, però, ci si sta rendendo conto a posteriori, mentre lo schermo televisivo ha perso dominio e centralità. È il caso, adesso, di rifletterci.

Ma, allora, nei decenni dal 70 al 90, di fronte allo sviluppo invadente di reti televisive pubbliche e private d’ogni genere, l’intellighenzia e i critici si mobilitarono per denunciarne i vizi e i pericoli. Era «la cattiva maestra», da cui Karl Popper metteva giustamente in guardia. Ignaro, per forza di cose, che forme di dipendenza ben più capillari e sconvolgenti sarebbero arrivate, e in tempi brevi. L’allarme del filosofo viennese risale al 1994 e si era alla vigilia dell’era della telefonia mobile. Poi, in una successione a ritmi sempre più veloci, fu la volta di internet, dei social network, dei tablet, e via enumerando le tante possibilità non solo di usufruire di mezzi d’informazione, di comunicazione e di svago, ma anche di diventarne protagonisti. L’esempio dei selfie è rivelatore, in proposito. Se, con la televisione tradizionale, poteva capitare di essere invitati a comparire sul video, con un preciso motivo, adesso si era in grado di autopromuoversi per apparire su uno schermo, per proprio conto.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 13 ottobre 2014 ¶ N. 42

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 13 ottobre 2014 ¶ N. 42

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Ambiente e Benessere Dalla Bosnia-Erzegovina Il lato oscuro dell’interessante multiculturalismo, che spesso rimane nascosto ai viaggiatori

Fare giusta informazione Qualche riflessione su come la stampa tende a confrontarsi con le notizie scientifiche

Il lucioperca Inizia una serie di reportage fotografici dedicata alla nostra fauna acquatica locale

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Un lutto da non sottovalutare Anche la scomparsa di un animale domestico può significare la perdita di una relazione di amore, affetto e protezione

Lezioni balcaniche sul filo della storia Viaggiatori d’Occidente Appunti di viaggio da Sarajevo e Mostar

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Claudio Visentin, testo e foto

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Il dottor Vincenzo De Rosa, chirurgo ortopedico pediatrico all’Ospedale San Giovanni di Bellinzona. (Vincenzo Cammarata)

I danni degli zaini pesanti

Da tempo la mia immaginazione guarda verso Oriente. Sogno «la grande diagonale», come era chiamato nel Medioevo il viaggio attraverso i Balcani, indicativamente da Trieste a Istanbul. Per intanto mantengo vivo il desiderio con rapide puntate, prima a Dubrovnik in Croazia («Azione» del 18 agosto 2014, n. 34), ora a Sarajevo e Mostar, in Bosnia-Erzegovina. Sarajevo, cent’anni dopo. Qui, il 28 giugno 1914, una scintilla incendiò l’Europa, quando la morte del principe ereditario Francesco Ferdinando e della moglie Sofia, avvenuta per mano di Gavrilo Princip che li assassinò, mise in moto una concatenazione di eventi che si rivelò inarrestabile e sfociò nella Prima guerra mondiale. Quella vicenda è stata raccontata infinite volte: l’attentato fallito nella mattina per l’inesperienza dei giovani terroristi (o eroi? Molto se ne discute); l’auto di Francesco Ferdinando che riparte lungo il fiume dopo la cerimonia in Municipio (oggi Biblioteca nazionale, vedi sotto); la svolta a destra sbagliata al ponte Latino perché l’autista non era stato informato del cambio di programma; la difficoltà a innestare la retromarcia nelle auto di quel tempo; il giovane Princip che si trova casualmente a quell’angolo di strada, ancora incerto e confuso dopo le vicende precedenti, e coglie l’occasione per sparare due colpi di pistola di involontaria, micidiale precisione che, come ha scritto lo storico Emilio Gentile, provocarono dieci milioni di morti e la fine di un mondo. Intorno a quei fatti, infiniti libri sono stati pubblicati, il web trabocca di fotografie e piantine, eppure nulla può sostituire l’impressione e la comprensione dei fatti che consente l’essere esattamente in quel luogo, soli nel silenzio della sera. La strada è sorprendentemente stretta, la distanza tra i protagonisti sarà stata minima, eppure la scena ha qualcosa di epico. La grande storia è passata

di qui e ancora si avverte il suo soffio. Mi confermo nella convinzione che il viaggio conserva sempre un suo significato insostituibile: andare e vedere, in prima persona, pur con tutte le possibilità d’errore, pur con tutti i suoi limiti e le sue ingenuità, resta un’esperienza fondamentale. È la prima lezione di questo viaggio balcanico. La seconda lezione è un elogio della mescolanza. Senza dubbio i Paesi multiculturali sono più interessanti per i viaggiatori rispetto a quelli con un’identità più compatta e lineare. Un ottimo esempio è proprio la Bosnia Erzegovina, dove da secoli convivono diverse etnie e religioni: musulmani, cattolici, ortodossi, ebrei, ciascuno con i propri edifici di culto e le proprie tradizioni. Nonostante tutte le opposizioni, i matrimoni misti sono stati la premessa per vivaci contaminazioni di idee e spazi (per esempio nella cuci-

Consigli medici Cartelle leggere, giusta postura e moderata attività fisica sono la ricetta di una buona salute

per la schiena dei giovani studenti

Maria Grazia Buletti La scuola è ricominciata da qualche settimana. Per bambini e giovani studenti si ripresenta il problema degli zaini pesanti, spesso portati sulle spalle in modo non adeguato. Senza dimenticare le giornate sedentarie fra banchi e pomeriggi di studio. Ne parliamo con il dottor Vincenzo De Rosa, chirurgo ortopedico pediatrico all’Ospedale San Giovanni di Bellinzona: «Le numerose ricerche, e le relative pubblicazioni scientifiche nei giornali di ortopedia pediatrica, convergono tutte sul fatto che la pesantezza dello zaino deve essere adeguata alla mole e alla statura del ragazzo: una cartella troppo pesante, portata a lungo da chi non possiede ancora un buon sviluppo muscolare, può essere un fattore di rischio per il mal di schiena». Secondo le regole, il peso dello zaino di uno studente non deve superare il 10 per cento di quello corporeo: ciò significa che per un bimbo di sei/ otto anni, non può essere oltre i 3 chilogrammi. Il dottor De Rosa, però, osserva che «non è sempre facile riuscire a mettere in pratica questa teoria e non si fa ancora a sufficienza per alleggerire il peso delle cartelle di bambini e adole-

scenti, sebbene qualcosa si muova. Ad esempio, alcune scuole mettono a disposizione armadietti nei quali lasciare il materiale, altre usano un sistema di raccoglitori che permette di portare a casa solo i fogli necessari allo studio di volta in volta». In Olanda, per analogia, la maggior parte delle scuole ha sostituito i libri con dei tablet: «Sarebbe un’ottima soluzione anche da noi e ci sono produttori di computer che offrono un sistema di sconti riservati agli studenti per favorire questa interessante alternativa». Anche quando si sta al computer o si studia alla scrivania bisogna però attenersi a determinate regole: «Con o senza tablet, la postura deve essere adeguata». Studiare a letto o sul divano è assolutamente fuori luogo: «Tutto questo deve essere evitato: fa parte delle cattive posture che evidenziamo durante le sedute di fisioterapia pediatrica, nelle quali mostriamo anche le immagini di come ci si deve sedere e quali sono i movimenti da evitare, come ci si allaccia le scarpe, come si tiene la cartella e quant’altro». Per la salute della schiena dei nostri ragazzi qualcosa si fa anche da noi, ma secondo il nostro interlocutore è anco-

ra poco: «Si dovrebbe insistere in modo più sistematico e far sì che la salute degli studenti sia tutelata uniformemente in tutte le scuole, anche dal punto di vista ortopedico». Di fatto, il nostro interlocutore afferma che «uno zaino troppo pesante, portato costantemente sulle spalle, potrebbe accentuare una patologia ortopedica in un giovane già predisposto, con la morfologia della colonna vertebrale che si presta a deformità». Purtroppo, quando lo specialista lo vede, il problema è oramai conclamato: «I giovani che accusano questo problema, infatti, sono poco ascoltati da parte del servizio scolastico che, eventualmente tramite le autorità preposte come il medico cantonale, dovrebbe chinarsi maggiormente sul problema e cercare soluzioni anche a livello preventivo. Ad esempio, quando c’era la ginnastica correttiva, tutti gli adolescenti erano controllati a tappeto e queste problematiche erano individuate sul nascere». Non è però detto che uno zainetto troppo pesante o la postura sbagliata sui banchi di scuola siano i principali indiziati dello sviluppo della scoliosi: «Dobbiamo distinguere due tipi di scoliosi: l’atteggiamento scoliotico, che si manifesta come deformità benigna im-

putabile a cattiva postura o asimmetria del tono muscolare, e la scoliosi, con la gobba, che è invece una vera e propria patologia complessa. Quest’ultima colpisce l’adolescente in prevalenza di sesso femminile, fra i 10 e i 13 anni d’età, in quella fase delicata che è la pubertà». Il dottor De Rosa spiega che la scoliosi ha eziologia sconosciuta ancora oggi, non può essere migliorata né dalla postura, né dalla fisioterapia, ma solo da un busto ortopedico o da un intervento chirurgico nella peggiore delle ipotesi: «In ogni caso, la scoliosi non può essere causata da zaini pesanti o postura scorretta ed è asintomatica: non è mai dolorosa e per questo viene scoperta tardi». Se un bambino lamenta dolori, dunque, bisogna presupporre che il problema sia da ricercare altrove: «I dolori alla schiena manifestati dal bambino o dall’adolescente non devono mai essere sottovalutati e bisogna cercare una diagnosi con tutti i mezzi a nostra disposizione: un’anamnesi accurata ed eventualmente gli esami diagnostici del caso». Allora, attraverso un’accurata diagnosi, si potrebbe scoprire che zaino e postura a scuola possono essere causa dei dolori di schiena del giovane studente e, se si giunge a questa conclu-

sione, si può correre ai ripari: «Prescriviamo lezioni di fisioterapia durante le quali insegniamo la postura corretta: come ci si abbassa, come prendere un peso e portarlo sulla schiena, come stare seduti e tutte quelle situazioni da evitare per diminuire il rischio di dolori. In parallelo, ai bambini sedentari si consiglia di praticare un’attività fisica sportiva». Attività sportiva che va modulata in base all’età e al tipo di sport prescelto, ma che non deve assolutamente sfociare in un’iperattività, la quale sarebbe altrettanto se non più nociva della sedentarietà: «Qualche ora a settimana è più che sufficiente per far divertire il bambino, mantenerlo in forma e prevenire i difetti di postura. Il surmenage sportivo dei ragazzi, spesso spinti da genitori e allenatori, può sfociare in patologie ortopediche che provocano lesioni ossee irreversibili. I bambini hanno limiti che devono essere rispettati da chi gli sta attorno. Non si deve proiettare su di loro le proprie ambizioni sportive». L’irreversibilità delle lesioni che l’attività sportiva esagerata può causare è dunque ancora più dannosa della sedentarietà e ci fa comprendere, ancora una volta, che la misura sta nel giusto equilibrio.

na). La storia di Romeo e Giulietta ha avuto infinite riproposizioni a Sarajevo, anche tragiche: nel maggio 1993 la bosniaca Admira Ismić e il suo compagno serbo Boško Brkić furono uccisi dai cecchini sul ponte Vrbanja, come racconta il documentario Romeo and Juliet in Sarajevo. Dopo i drammi della guerra civile nel ricordare il passato si propone un quadro forse troppo idilliaco, ma certo per secoli i diversi gruppi riuscirono a convivere ragionevolmente bene sotto il tollerante dominio ottomano, anche se alcuni gruppi erano considerati cittadini di serie B. Prima della guerra civile diverse famiglie si riunivano per festeggiare tutte assieme le ricorrenze ora dell’una ora dell’altra religione: i musulmani condividevano il Natale coi cristiani che a loro volta partecipavano alla fine del Ramadan. Il Ponte sulla Drina, cantato nel 1945 dal Premio Nobel per la letteratura Ivo Andric, è la migliore celebrazione di questa convivenza. Ma proprio in occasione della guerra civile è emerso anche il lato oscuro del multiculturalismo, che spesso rimane nascosto ai viaggiatori. Soprattutto tra il 1992 e il 1993, anche grazie a sollecitazioni esterne, l’antica e secolare convivenza andò rapidamente in pezzi con una facilità sconcertante, lasciando tracimare odi e violenze inaudite. Sarajevo subì un assedio interminabile: le forze serbe appostate sulle colline che circondano la città poterono colpirla con facilità irrisoria e il rogo della Biblioteca nazionale fu l’evento simbolico di quella tragedia. L’impossibilità di raggiungere il principale cimitero cittadino – anche i cortei funebri erano bersagliati dai

franchi tiratori – costrinse a riaprire i piccoli cimiteri storici all’interno della città, che crebbero a dismisura: lo si nota facilmente attraversandoli in una normale passeggiata pomeridiana. Oggi si cerca di recuperare quell’antico spirito di convivenza, ma molte lezioni non furono probabilmente bene apprese. Ad esempio, quando gli ottomani conquistarono la Bosnia-Erzegovina nel XV secolo per-

misero ai frati francescani di restare in tre conventi e di prendersi cura dei cattolici; posero come sola condizione che i loro campanili non superassero mai l’altezza dei minareti e così fu per secoli. Ma ora a Mostar, caduto l’antico vincolo, nel ricostruire la chiesa distrutta durante la guerra si è voluto affiancarle un campanile in cemento armato di oltre cento metri, il più alto del Paese, che svetta sopra tutti i minareti (vedi foto qui sopra). Il problema è che il campanile non è solo arrogante ma, con la sua altezza eccessiva, anche francamente brutto, come uno sgraziato adolescente cresciuto troppo in fretta. Anche la bellezza richiede equilibrio e senso del limite: e questa è forse l’ultima lezione di questo viaggio.

Un viaggio tra le foglie d’autunno «È antica e agricola usanza indicare l’autunno come l’ultima stagione dell’anno: non per nulla, verso la metà di novembre, il giorno di San Martino, era stato scelto, secondo la tradizione delle nostre campagne, come data di fine e di inizio dei contratti agricoli. Erano e sono giorni che normalmente corrispondono sia all’esaurimento della produzione sia all’inizio della coltivazione. Qui in giardino, proprio per San Martino, anche le foglie caparbie e lente a cascare della quercia sono normalmente già tutte a terra, creando sulle sue radici e sul terreno circostante uno spesso e soffice coltrone.…» Il viaggio è scoprire un significato nascosto nelle cose: quel che sino a poco prima giaceva trascurato acquista rilievo per chi sa guardare con occhi nuovi. Chi fu il primo che osservò la meraviglia delle foglie d’autunno, con la loro varietà di colori, dal verde al giallo oro, per poi virare verso l’arancione denso e spegnersi infine nel rosso, dapprima scuro poi color vinaccia e ruggine? Chi

fu il primo che gustò il piacere di camminare tra i rumori crocchianti di un letto di foglie, senza pensare al fastidio di doverle spazzare? E soprattutto chi fu il primo a pensare che valesse la pena di viaggiare per godere di tanta bellezza? Negli ultimi anni il viaggio nell’estate indiana (quella che noi chiamiamo estate di San Martino) per ammirare il cangiante colore delle foglie (foliage) ha preso piede e in alcuni Paesi, come il Massachusetts, è diventato la principale motivazione. Ora questo libro piccolo e raffinato propone itinerari nei giardini delle più belle ville italiane, accompagnati come un viatico da versi di poeti sensibili a ciò ch’è leggero eppure essenziale: «In tenue luce l’autunno si spoglia (…) L’autunno è quel che resta d’una foglia» (Diego Valeri). / CV Bibliografia

Paolo Pejrone (fotografie di Diego Fusaro), Le foglie d’autunno, Electa, 2014, pp.160, € 29,00.

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Ambiente e Benessere

«Ricerche scientifiche sostengono che…» Informazione I mass media offrono largo spazio all’informazione su salute e alimentazione,

ma spesso fanno «notizia» solo le mezze verità Lorenzo De Carli La rivista «Cell Metabolism» ha pubblicato di recente un articolo scritto da numerosi autori, i quali osservano che un’alimentazione eccessivamente proteica nella fascia di età tra i 50 e i 65 anni è correlata a un aumento di malattie di natura cardiovascolare, mentre la situazione si inverte dopo i 65 anni, quando un’alimentazione più ricca di proteine è correlata a una miglior salute e a una maggior longevità. Nelle settimane successive, giornali e riviste di tutto il mondo hanno dichiarato che è stato «scientificamente confermato» che il consumo eccessivo di proteine porta alla morte e che fanno male come le sigarette. La vicenda è interessante per fare qualche riflessione su come la stampa tende a confrontarsi con le notizie che provengono dal mondo della scienza. In questo caso, lo studio ha avuto una larghissima eco perché molte diete, oggi di moda, sono del tipo «iperproteiche», sicché poter sostenere che è «scientificamente provato» che esse fanno male è un’occasione ghiotta per destare l’attenzione del pubblico, mettendo assieme un argomento molto discusso con il richiamo all’autorità scientifica. Ciò che la stampa non ha fatto notare è l’eterogeneità dei dati riportati nell’articolo. L’articolo, infatti, non documenta propriamente parlando uno studio, ma incrocia tre fonti di dati provenienti da due distinti studi, uno dei quali dedicato ai topi. In estrema sintesi, gli autori dell’articolo hanno osservato che, non solo tra i 50 e i 65 anni, avere una dieta, il cui apporto calorico è di origine proteica in una proporzione maggiore del 20 per cento, è correlato a un maggior rischio di morte (in particolare se le proteine sono di origine animale), ma che anche gli alti livelli di IGF-1 (il fattore di crescita insulino-simile, ormone che diminuisce con l’avanzare dell’età) presenti nei consumatori di carne sono correlati nello stesso modo.

Una dieta il cui apporto calorico è in particolare di origine proteica porta davvero a un maggior rischio di morte? L’articolo è di ottima qualità ma la stampa non si è soffermata né sulla natura epidemiologica dello studio, né sul concetto di «correlazione». Uno studio epidemiologico non può stabilire delle relazioni di causa-effetto. È una tipologia di studio che individua delle correlazioni, che elabora delle ipotesi, e che è utile per indicare strade di ricerca. Quanto alla «correlazione», essa non è una relazione che dichiara A essere causa di B, ma indica una relazione apparentemente significativa, che chiede di essere investigata. Quando si parla di sostanze assunte con l’alimentazione, la parola «correlazione» genera spesso fraintendimenti. È fin troppo facile trovare correlazioni che messe su un foglio Excel sembrano «scientifiche» ma che possono essere poco sensate. Per esempio: possiamo trovare una correlazione tra l’incremento della temperatura del pianeta e la diminuzione del numero di pirati, ciò che effettivamente è avvenuto dall’inizio dell’Ottocento ad oggi. Ma ha senso?

Carne e pesce sono i principali fornitori di proteine nella nostra dieta.

Inoltre, quando si parla di «correlazione» si rischia spesso di essere fuorviati perché ci sono tranelli logici, ai quali difficilmente sfuggiamo. È il caso delle cosiddette «correlazioni indirette»: «una “ricerca” ha mostrato che chi si lava i denti almeno tre volte al giorno ha una vita media più lunga». Dovrebbe essere chiaro che non è possibile contrastare gli effetti di alcol, fumo, sedentarietà e sovrappeso, semplicemente lavandosi i denti tre volte al giorno. È invece più probabile che chi si lava regolarmente i denti pratichi uno stile di vita che riduce i fattori di rischio cardiovascolare o l’esposizione a sostanze nocive. Tornando al nostro studio sulle proteine, i giornali che le hanno dichiarate dannose come il fumo hanno cercato d’impressionare i lettori, perché in realtà nell’articolo tanto commentato si legge che l’aumento della mortalità correlato all’assunzione di proteine è da 2 a 4 volte maggiore rispetto a una dieta ipoproteica, ciò che è molto inferiore al rischio di morte per cancro ai polmoni, che aumenta almeno di 20 volte nei fumatori. In questo caso, anche se la fonte dell’informazione è «scientifica», il lavoro giornalistico non lo è. Ma anche la fonte «scientifica» dell’informazione richiede di essere criticamente esaminata. Nel nostro caso, gli estensori dell’articolo hanno seguito un protocollo preciso e non hanno mai dichiarato nulla, che non potesse essere riferito ai dati esposti. Ciò nondimeno, prima di annunciare nei titoli dei giornali che le proteine fanno male come il fumo, i giornalisti potrebbero porre domande utili a circoscrivere la pertinenza dei risultati acquisiti, evitando in tal modo generalizzazioni fuorvianti. Per esempio, ci si potrebbe chiedere se – anche nell’età compresa tra i

50 e i 65 anni – l’esercizio fisico esercita una funzione protettiva, perché lo studio non lo menziona. Che dire, poi, della sorgente proteica? Lo studio distingue solo, genericamente, tra proteine di origine animale e di origine vegetale; tuttavia, dal punto di vista salutistico, c’è differenza tra un petto di pollo alla piastra e un insaccato come il salame, o un hamburger al fast food. La fascia di età dai 50 ai 65 anni è un po’ troppo ristretta per sostenere affermazioni generalizzabili in ordine al consumo di proteine. Lo studio, inoltre, non tiene in considerazione gli effetti del consumo di frutta e verdura, distingue solo tre macronutrienti: proteine, carboidrati e grassi. Oltretutto, a questo proposito, lo studio non dice con quale fonte calorica i soggetti appartenenti al sottogruppo di chi consumava poche proteine compensava la scarsità di queste ultime: con carboidrati o grassi, e di che tipo? Ponendoci domande come queste rendiamo evidente la parzialità della ricerca scientifica, che per sua natura deve essere circoscritta a un oggetto d’indagine ben definito, replicabile e falsificabile. Nel nostro caso il problema è che siamo organismi troppo complessi per poter semplicemente dichiarare che tante proteine fanno male e poche proteine fanno bene. L’articolo di «Cell Metabolism» è anche un’occasione per attirare l’attenzione sulle trappole che, sempre, sono poste lungo il cammino della ricerca scientifica, in modo particolare quella orientata a cercare gli effetti dannosi o benefici di questa o quella sostanza sulla nostra salute. In generale, bisogna ricordare che gli studi più seri sono quelli condotti «in doppio cieco» – dove, cioè, né il paziente, né il somministratore conoscono la natura della sostanza somministra-

La copertina della rivista citata.

ta. Sono esperimenti costosi, che richiedono rigidi protocolli e parecchio tempo, tanto più se aspirano a una significativa importanza statistica e se la sostanza è confrontata a un placebo; ma sono gli unici che hanno i crismi della «scientificità». Ma ogni procedura, per quanto rigorosa, comporta sempre la presenza di noi osservatori, e ciascuno di noi – scienziato o no che sia – è esposto a fallaci cognitive. Un primo fattore che induce a fuorviare i ricercatori è l’Observer Bias: si tende a osservare ciò che si aspetta di vedere. È normale, ciascuno di noi lo fa: ci prefiguriamo il futuro in base alle nostre conoscenze, le quali generano aspettative. Il ricercatore può anche essere soggetto al Rosenthal Effect, detto anche Effetto Pigmalione. È un tipo particolare di «profezia che si autorealizza», che si vede spesso in funzione a scuola: penso, anche inconsciamente, che quell’alunno sia meno dotato degli altri, mi comporto come se lo fosse, e non passerà molto tempo prima che l’alunno si convincerà anch’egli di essere poco dotato: quello

che io penso a proposito di un soggetto produce un effetto oggettivo nel soggetto. Altra insidia è la «Dissonanza cognitiva», un concetto introdotto da Leon Festinger nel 1957 in psicologia sociale ma usato anche in ambito clinico: occorre quando credenze, nozioni e opinioni di un soggetto si trovano a contrastare funzionalmente tra loro, e per venire a capo di questa contraddizione tendiamo a ritenere vero ciò che ci piace credere tale. Il marketing di sostanze supposte benefiche (ma anche quello dei medicinali) cita regolarmente i risultati della ricerca scientifica, e per usarli a supporto di questa o quella sostanza ricorre frequentemente a dei trucchetti. Il più usato è quello delle percentuali relative. Per esempio: un certo farmaco ha ridotto del 50 per cento il rischio di metastasi al polmone. Analizzando il dato assoluto, si scopre che il rischio è sceso dal 3 all’1,5 per cento. Parlare di una riduzione del 50 per cento (relativa) è molto più d’impatto rispetto al dire che la riduzione è stata dell’1,5 per cento (assoluta). È un trucco usato con grande frequenza, ma con un po’ di vigilanza critica è facile smascherarlo. Senza ricerca scientifica non faremmo nessun progresso. Quando se ne devono divulgare i risultati, però, occorre tener innanzitutto conto che la ricerca è un punto di partenza e non un punto d’arrivo. Poi occorre porsi domande utili a comprendere bene quali sono i confini dell’oggetto studiato, verificare la presenza di effetti che possano aver distorto i risultati, verificare i conflitti d’interesse degli autori, e quindi smontare i dispositivi retorici del marketing. Alla fine otterremmo probabilmente risultati utili per un progresso che non coincide solo con la carriera dei ricercatori, o con la vendita di prodotti, ma con una miglior conoscenza di noi stessi.


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Ambiente e Benessere

Il nottambulo lucioperca Ittiologia Un «barracuda» d’acqua dolce

Franco Banfi, testo e foto Con questo primo articolo prende avvio una serie di reportage fotografici sulla fauna acquatica locale; ogni specie sarà corredata da un testo che comprenderà la sintesi di una scheda di presentazione. L’uscita degli articoli sarà occasionale. «Il barracuda del Verbano». Così titolavano i nostri quotidiani nel luglio del 2009, per riportare una notizia che riguardava semplicemente un lucioperca (Stizostedion lucioperca o Sander l.) di otto chili, il quale con molta probabilità era stato visto a difendere il suo territorio; atteggiamento non poi così strano per un pesce che si trova nel suo ambiente. Per esperienza di fotografo subacqueo mi è capitato raramente di essere attaccato da un pesce, nemmeno dai così temuti squali, salvo questi non fossero stati attirati con del cibo. Normalmente i pesci, quando ci vedono, scappano. Il nostro «barracuda d’acqua dolce» era comunque riuscito a fare diverse «vittime», mandando due turisti al pronto soccorso e bucando addirittura la muta del sub che voleva fiocinarlo. Sorrido al pensiero, perché vorrei vedere voi che cosa avreste fatto al posto del lucioperca! Il Sander lucioperca, conosciuto comunemente come lucioperca, luccioperca o sandra, è un pesce d’acqua dolce della famiglia Percidae. Originario dell’Europa centrosettentrionale e di quella orientale (Svezia, Finlandia, Germania, Polonia ed ex URSS) nonché dell’Asia occiden-

tale, è stato introdotto in molti Paesi europei agli inizi del XIX secolo, tra i quali la Svizzera, dove si è diffuso, naturalizzandosi, specialmente in bacini lacustri minori. Predilige acque ferme o a debole corrente, con poca vegetazione, abbastanza pulite con fondo ghiaioso o sabbioso. Ha corpo snello e affusolato. La pinna dorsale anteriore ha 13-15 raggi spinosi. La bocca è provvista di piccoli denti e qualcuno più grande sparso. Il maschio presenta una concavità nel dorso, fra la testa e la pinna dorsale anteriore; nella femmina questo punto è invece convesso. La livrea è di una colorazione bruno verdastra su testa, dorso e fianchi; più chiara sul ventre. Alcune strisce verticali nere scendono dal dorso fino ai fianchi. Le pinne sono verdastre chiazzate di nero. I soggetti più longevi raggiungono l’età di 20 anni, 130 cm di lunghezza per un peso di 15 kg. A Porlezza, nelle acque del Ceresio – era l’agosto del 2009 – Marco Giudici ha catturato un lucioperca da record. Il pesce superava il metro di lunghezza per un peso superiore ai 15 chilogrammi. Della sensazionale cattura fatta dal pescatore di 29 anni, ne ha parlato anche l’«Angler’s Mail» il maggior giornale inglese in materia di pesca. Inoltre è stato definito dai più grandi esperti il nuovo record del mondo e senza dubbio il più grande perca pescato con la canna da pesca di cui si è a conoscenza. Da notare che il grande predatore è stato rilasciato illeso subito dopo le foto di rito, no-

«Qualcuno lo ritiene pericoloso, ma normalmente i pesci, quando ci vedono, scappano!»

nostante il lucioperca sia considerato uno dei migliori pesci d’acqua dolce e viene intensamente allevato e commercializzato perché le sue carni sono ottime, di colore bianco e dal sapore delicato. Questa specie ha tendenze prevalentemente notturne. Quando è giovane vive in piccoli branchi, mentre appena diventa adulto si isola prendendo la

via solitaria. Già al termine del primo anno di vita la sua dieta è composta prevalentemente da pesci come alborelle, scardole, persici sole e cobiti mentre solo nella fase iniziale di sviluppo si ciba anche di invertebrati. L’alimentazione è ridotta durante l’inverno. La deposizione delle uova avviene a circa 12 °C tra aprile e giugno su fondali sassosi o coperti da radici di piante.

I maschi già maturi al termine del primo anno scavano un «nido» fra la vegetazione per poi attirarvi la femmina che depone in un’unica volta tutte le uova (fino a 200mila per kg di peso), dopo la fecondazione, i maschi si occupano di ventilare e proteggere le uova. Negli stadi giovanili il lucioperca ha vita gregaria; in seguito gli adulti divengono solitari.


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«È solo un gatto»

il momento difficile. Segue un capitolo molto interessante che parla di come spiegare ai bambini la morte di un animale da compagnia e, infine, si trova una parte scritta da una veterinaria che sviluppa il delicatissimo tema dell’eutanasia. Elena Angeli dedica il proprio scritto ai suoi animali: «Ai miei tesori che non ci sono più, ma è come se fossero ancora qui con me». E chi legge potrà trovare, insieme alle parole consolatorie, anche alcuni spunti per imparare a convivere con i ricordi dei momenti belli che gli animali sanno sempre, e per sempre, regalarci.

Mondoanimale Un piccolo ebook per far sentire meno sole le persone che perdono il loro animale domestico

Maria Grazia Buletti «È solo un criceto!», «È solo un cane!», «È solo un gatto»: si tratta della tipica frase che ti senti dire quando anche per il tuo amico a due o quattro zampe è giunta l’ora. E tu soffri. Soffri perché quello che ora è definito con l’essere «solo un animale» ti ha accompagnato lungo qualche anno della tua vita. Insieme avete condiviso sole e nuvole, giorni grigi e giornate più serene, giochi e regole di convivenza. Siete riusciti a trovare un punto d’incontro fra due codici comunicativi differenti: lui ha imparato a interpretare i tuoi umori, i tuoi desideri, le tue reazioni, e tu hai provato a instaurare una relazione di amore, affetto e protezione. Non sempre tutto è andato per il verso giusto o come desideravi, ma lui, l’animaletto, ti è sempre rimasto al fianco senza chiedere molto in cambio se non vitto, alloggio e affetto. Quest’ultimo, peraltro, te lo ha ampiamente ricambiato. Avete costruito un pezzo di vita in comune che hai la consapevolezza di non poter archiviare con un riduttivo «È soltanto…». Perché – siamo onesti – seppur non paragonabile alla morte di una persona, la dipartita di un animale domestico è comunque sempre un evento che comporta sofferenza. Lo testimoniano i racconti di tutte le persone che, confrontate con la morte di un loro animale domestico, concordano con il fatto che si tratta pur sempre di un lutto da elaborare. «È successo pure a me! Avevo un

di vita: «Quando vanno via lasciano in noi un vuoto pari a quello di un essere umano e per superarlo bisogna farci i conti».

Israele , Haifa – Scultura dal titolo L’uomo e il gatto di nome Yates, presso il Technion di Haifa, dell’autore Shore Robert (2004). Ritrae il dottor Robert Shillman del Massachusetts che trascorse un’estate alla Facoltà Technion di Fisica e divenne amico di uno dei gatti randagi di nome Yates. Nella pagina a fianco, la statua del cane fedele di Waagya Shivaji al forte Raigarh di Shivaji.

Pastore tedesco che era la mia ombra: tanto affetto e coccole accompagnati da una fedeltà commovente. Gli mancava la parola. È morto a 14 anni con una paralisi alle zampe posteriori per la quale non c’è stato nulla da fare. Un dispiacere immenso e oggi, a distanza di dieci anni, lo ricordo sempre con tanta nostalgia. Non scorderò mai Yhago: è stato per me un affetto sincero e profondo come fosse stata una persona cara», è il racconto di Giovan-

Sono diverse le strategie utili a elaborare il lutto di un nostro amico a due o quattro zampe, come piangere o scrivere

ni che oggi vive con un Golden retriever senza però dimenticare gli anni passati con il Pastore tedesco. «Non paragonerei la morte di un animale a quella di una persona, tuttavia non reputo un’esagerazione lo stare male quando lo perdi: dipende dalla persona o dall’animale di cui parliamo. Ad esempio, il mio gatto Felix mi aiuta a sopportare la difficile situazione che vivo in casa: i miei genitori sono separati, mia madre ha un sacco

di preoccupazioni per tirare avanti e non può occuparsi più di tanto di me e di mia sorella… ma Felix, lui è qui…», ci confida Alessia, un’adolescente sedicenne che parla accarezzando il suo micio, il quale la ricambia con un «ron ron» inconfondibile. Abbiamo chiesto anche a Luigi se reputa la morte di un animale pari a quella di una persona e lui ci ha risposto di non possedere animali. Malgrado ciò, egli riconosce ad essi il ruolo di veri e propri compagni

Per elaborare il lutto della perdita di un animale domestico ognuno attua le proprie strategie, fra le tante che si possono mettere in pratica. Chi piange e così facendo permette alle emozioni di fluire, e chi prova sollievo nell’organizzare un vero e proprio funerale (a questo proposito, ad esempio, si fa sempre più largo la consuetudine della loro cremazione). Taluni creano un album dei ricordi con le foto più significative dei momenti belli trascorsi insieme. E c’è chi, come una bimba di San Antonio in Texas, scrive a Dio dopo la morte della sua cagnolina: storia riportata lo scorso mese di luglio da Snopes.com e YouAnimal.it, dove la madre della piccola Meredith (4 anni) racconta della morte del loro cane Abbey, di 14 anni, e di come Meredith le chiese piangendo di aiutarla a scrivere una lettera a Dio per spiegargli che Abbey sarebbe arrivata in Paradiso e così lui avrebbe potuto riconoscerla: «Caro Dio, per favore puoi prenderti cura del mio cane? È morto

La risposta a Meredith

ieri ed è lì con te, in Paradiso. Mi manca molto… spero che tu giocherai con lei: le piace nuotare e giocare con la palla. Ti mando una sua foto così, quando la vedrai, saprai che lei è il mio cane che mi manca veramente tanto». Qualcuno non si è stupito della lettera scritta dalla piccola per la perdita del suo cane e, per aiutarla a rasserenarsi, ha pensato di inviarle una risposta (vedi riquadro). La perdita del proprio gatto è stata la molla che ha spinto la psicologa Ele-

na Angeli a fondare a Firenze l’associazione Amici di Chicco, e a scrivere un ebook dal titolo, per l’appunto, È solo un gatto: la frase che in quella circostanza si è sentita ripetere più volte. Il piccolo libro (ndr: si trova su Amazon al prezzo simbolico di 99 centesimi di euro) parla proprio dell’elaborazione del lutto quando ci viene a mancare un animale domestico. Esso riporta molte testimonianze dirette, insieme a tanti consigli per cercare di superare

Qualche tempo più tardi, nella buca delle lettere, la piccola Meredith ha trovato un pacchettino con un libro all’interno del quale c’era la fotografia da lei inviata a Dio, insieme a questa nota: «Cara Meredith, Abbey è arrivata sana e salva in Paradiso. Avere la foto è stato di grande aiuto e l’ho riconosciuta subito. Abbey non è più malata. Il suo spirito è qui con me proprio come è nel tuo cuore. Ad Abbey è piaciuto essere il tuo cane. Poiché non abbiamo bisogno dei nostri corpi in Paradiso, non ho nessuna tasca per metterci la tua foto, così te la mando indietro in questo piccolo libro per te, per tenerla e avere qualcosa che ti ricordi Abbey. Grazie per la bella lettera e grazie a tua madre per averti aiutata a scriverla e a inviarmela. (…) A proposito, è facile trovarmi. Io sono ovunque ci sia amore. Con amore, Dio». Chiunque abbia scritto questa risposta, ha permesso alla piccola Meredith di sentirsi meno triste per la morte del proprio cane.

Notizie scientifiche Medicina e dintorni Marialuigia Bagni Dalla Svizzera novità sull’asma Benjamin Marsland e la sua équipe del Centro ospedaliero del Canton Vaud hanno scoperto che la presenza di batteri nei polmoni dei neonati, nel corso delle prime settimane di vita, è determinante per combattere l’insorgere dell’asma. Esperimenti condotti su cavie hanno dimostrato che la colonizzazione precoce dei polmoni da parte di batteri inoffensivi rinforza l’azione di alcune cellule immunitarie che, nell’età adulta, proteggeranno dall’asma. Fenomeno che non si manifesta negli animali tenuti in ambiente sterile, cioè senza batteri. Il primo telefono solare Viene dalla Svizzera il primo telefono completamente solare. Si chiama «Meridiist Infinite» ed è sufficiente lasciarlo qualche minuto al sole o sotto luce artificiale perché si ricarichi. Il Meridiist, inoltre, può essere dotato di uno schermo a cristalli di zaffiro e di un rivestimento in titanio, carbonato e caucciù, ma, per ora, di quest’ultimo, ci sono pochi esemplari in commercio. Il prezzo è di poco inferiore ai 10mila euro. È tempo dei nano-dispositivi Dal pacemaker ai nano-dispositivi che si autoalimentano. Si apre una nuova frontiera per i cardiopatici che potranno così superare la limitazione legata alla necessità di sostituire periodicamente le batterie del pacemaker. Lo sostiene, in uno studio pubblicato sui Proceedings of the National Academy, un team di ingegneri dell’Università di Stanford, negli Stati Uniti. I nuo-

vi dispositivi che si autoalimentano sfruttano il movimento del flusso sanguigno, la contrazione e il rilassamento muscolare. Un metallo liquido per i nervi Ricoprire un nervo troncato applicando del metallo liquido migliorerebbe la rigenerazione dello stesso, secondo un’équipe di ricercatori cinesi. Attualmente le due estremità del nervo tranciato vengono unite dal chirurgo, ma la ripresa è lentissima: un millimetro al giorno. Il che significa sei mesi per arrivare dal gomito all’estremità del dito. Elisir di giovinezza per il cervello Ricercatori dell’Università americana di Harvard sostengono che GDF11, un fattore di sviluppo presente nel sangue dei topi giovani, «rinfrescherebbe» le funzioni cognitive degli adulti, provocando un «rimodellamento» della vascolarizzazione cerebrale e incrementando la formazione dei neuroni. Questa ricerca valorizza quella condotta a Stanford: la trasfusione di plasma del sangue prelevato da topi di tre mesi ridonerebbe a quelli anziani la capacità di apprendimento e di memorizzazione della loro gioventù. Volti modellati… a pugni Curiosità: il nostro volto è stato «modellato» a forza di pugni. La ricerca, pubblicata sulla rivista «Biological Review», sostiene che il volto dei nostri antenati australopitechi si sarebbe evoluto per minimizzare i danni da colluttazioni durante i combattimenti tra maschi. L’ipotesi mette in discussione la teoria che attribuisce l’evoluzione alla necessità di masticare cibi resistenti e duri.

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Hibiscus: quale scegliere? Mondoverde Ne esistono di molte specie,

di diverse grandezze e svariati colori, caratterizzati dal tipico fiore imbutiforme

Alle Hawaii, in segno di benvenuto, usano donare questo fiore ai turisti, intrecciandolo in colorate ghirlande Una prima, grossa divisione può essere fatta tra gli ibischi tropicali (originati da H. rosa-sinensis) e gli ibischi rustici (originati da H. syriacus). I primi, chiamati anche «Ibischi della Cina», si suddividono in oltre mille varietà, tra cui quelle coltivate dal nostro lettore. La specie è costituita da incroci molto complessi, per cui sarebbe forse più corretto indicarla come Hibiscus x rosa- sinensis. Appartenenti alla famiglia delle Malvaceae, hanno origine incerta – tra Cina e India – raggiungono nei paesi d’origine anche gli otto metri e il fiore è tra i più grandi fra quelli delle piante ornamentali: il diametro misura da 10 a 25 cm, con petali che raggiungono facilmente i 12 cm di lunghezza. Presenti da giugno a settembre, i fiori hanno un’effimera durata: come capita quasi a tutti gli ibischi, durano solo un giorno, per lasciare subito dopo lo spazio a un nuovo fiore. Hanno colori magnifici, carichi di luce che

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Pochi giorni fa un lettore ci ha inviato le fotografie di alcuni suoi nuovi acquisti floreali: si tratta di tre varietà insolite di Hibiscus rosa-sinensis, fatte arrivare da lontano, finalmente in suo possesso e che sicuramente verranno coltivate con religiosa venerazione fino al momento della fioritura. Tanto entusiasmo è uno dei piacevoli effetti collaterali dati dalla vicinanza di queste belle piante, che possono venir coltivate sia in terrazzo sia in piena terra, in base alle varietà. In cambio offrono magnifici fiori grossi, coloratissimi, in grado di richiamare atmosfere tropicali, calde ed esotiche. Sono ben trecento le varietà di ibischi fino ad ora coltivate e conosciute: possono essere arbusti, piante erbacee o piccoli alberi; sempreverdi o caducifoglie, perenni oppure annuali, molto rustici e resistenti al gelo o, al contrario, delicati e bisognosi di protezioni per l’inverno. Ad accomunarli tutti, una caratteristica evidente: i fiori, che compaiono all’ascella delle foglie o all’apice dei rami, sono imbutiformi.

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variano dal bianco fino al rosso cupo, passando per varie sfumature di rosa, giallo e arancio. Un’altra caratteristica è data dal tubo staminale che racchiude lo stilo del pistillo e protende fuori dalla corolla. Esso, infatti, risulta molto evidente in tutte le varietà. L’Hibiscus syriacus è invece un arbusto a foglie caduche che fiorisce da luglio fino a ottobre. Molto diffuso, viene coltivato come pianta ornamentale in parchi, giardini e come arredo urbano. Rustico e resistente al freddo, ha foglie decidue, una fioritura estiva con fiori colorati di bianco, rosa, viola e lilla, e spesso viene coltivato anche ad alberello. Originario, non della Siria, come potrebbe suggerire il nome, ma dalla Cina e da Taiwan, si compone di varietà veramente belle, come Caeleste dai fiori azzurri, Marina viola-lilla con l’occhio centrale porpora, Red Heart dai fiori bianchi con una macchia rossa centrale, Totus Albus completamente bianco latte. Se queste appena descritte hanno fiori semplici, i seguenti presentano più petali, come Jeanne d’Arc dai fiori doppi di colore bianco, Duca di Brabante varietà molto vigorosa dal colore blu malva con macchia centrale rossa o Lavander Chiffon dai grandi fiori semidoppi color azzurro lavanda. Indecisi su quale acquistare? Per complicare maggiormente la scelta, potete orientarvi anche su specie più rare, come ad esempio H. pentacarpos, originario dell’Italia, dalle dimensioni ridotte e produce fiori piccoli di color malva; H. trionum, specie annuale ed erbacea, originaria del continente africano; H. militaris, americana, con fiori fra il rosa e il rosso intenso; H. mutabilis, dalle zone meridionali della Cina, deve il suo nome al fatto che con il passare del tempo le sue fioriture tendono a divenire sempre più scure. Infine, per gli amanti della storia, ecco l’Hibiscus sabdariffa, originario dell’Africa orientale ma coltivato anche in America e in India, dal quale si ottiene la famosa bevanda karkadè, ottenuta dai calici carnosi del fiore e caratterizzata dal sapore acidulo dell’acido citrico e dell’acido tartarico. Il karkadè era una bevanda molto in voga durante il periodo fascista, il suo consumo era notevole in Italia, tanto da meritarsi il nome di «tè degli italiani», poiché prodotta in Abissinia, nell’Africa Orientale Italiana e veniva proposta come sostituto italiano del tè, disprezzata bevanda inglese.

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Ambiente e Benessere Cucina di Stagione La ricetta della settimana

Cinghiale in salsa alla grappa Piatto principale Ingredienti per 4 persone: 80 g d’uva bianca senza semi · 3 cucchiai d’olio, ad

esempio d’oliva · 12 fettine di cinghiale di circa 50 g · 12 fette di prosciutto crudo di cinghiale · 80 g di formaggio fresco, ad esempio Philadelphia al naturale · pepe, sale · 1 cucchiaio di farina · 0,5 dl di grappa · 2,5 dl di fondo di selvaggina · 30 g di burro freddo 1. Tagliate gli acini in otto pezzi. Soffriggeteli in poco olio a fuoco medio per circa due minuti. Fate raffreddare. Scaldate il forno insieme alla teglia a 80 °C. 2. Battete le fettine tra due fogli di pellicola trasparente. Adagiatele sul piano di lavoro. Su ogni fettina stendete una fetta di prosciutto e spalmate circa 1 cucchiaino di formaggio. Distribuite l’uva e pepate. Arrotolate le fettine, fissatele con uno stuzzicadenti e salate un poco. 3. Infarinate gli involtini e rosolateli da ogni lato nell’olio restante per 2 minuti. Trasferiteli sulla teglia preriscaldata e tenete in caldo nel forno. Deglassate il fondo di cottura con la grappa e fate ridurre. Unite il fondo e fate sobbollire finché la salsa si addensa. Salate e pepate. Togliete la padella dal fuoco e incorporate il burro a fiocchi. Servite la salsa alla grappa con gli involtini

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Ambiente e Benessere

Vecchio tifoso non è in gran forma Sportivamente Soffre e impreca contro tutti: arbitri in primo luogo, allenatori e giocatori. Questo è il destino

dello spettatore anziano di cose sportive

«Gliene avrei dette quattro, fossi stato lì. Lo giuro, perché non si può arbitrare così». Questa confidenza fatta a un drappello di tifosi che annuivano muovendo il capo in su e in giù, al nostro amico era costata un po’ di reputazione. Lui era uno che di partite ne aveva forse viste più di quante non ne avesse giocate la sua squadra del cuore sin dagli inizi. Infatti, non era il solito fan scalmanato, bensì un intenditore di regolamenti, uno che di solito raccomanda la calma e tutto il resto. Ora però, con gli anni che cominciavano a pesargli, non era più disposto ad accettare simili errori da nessuno dei direttori di gara. Gli sembrava, anzi, che il fischietto facesse apposta a chiudere un occhio sulle palesi scorrettezze degli avversari e a inventarsi per contro punizioni che i giocatori della sua squadra non meritavano. «Per fortuna c’era anche l’altro arbitro principale, sì, lo svedese che, in mezzo alla pista, aveva visto quel fallo grande come una casa, commesso dallo zughese proprio sotto gli occhi di quello lì (evitò di pronunciarne il nome) altrimenti non ci sarebbe stata espulsione. Ero pronto a saltare in pista… Dico sul serio». Troppo tardi, comunque, per dirgliene quattro. L’arbitro «maledetto» aveva già lasciato la pista, scortato da alcuni marcantoni, gli disse un amico. Meglio così, pensò allora il nostro che stava ritrovando un colorito normale dopo essere uscito dallo stadiolo quasi terreo e con le palpitazioni. Anche lo sport non praticato, a una certa età, comporta dei rischi che non è proprio il caso di correre. Difficile definire il nostro, ormai, uno spettatore «passivo». Una gara normale gli fa perdere mezzo chilo di peso in tribuna, anche se ciò non si vede, per via della ragguardevole stazza. Cinquecento grammi che vengono subito recuperati con una ce-

Shanghai dicono che Stan ha commesso 66 errori diretti, il che non stupisce più di tanto avendolo visto numerose volte alle prese con questo problema. Tutto sembrava risolto dopo la meritatissima vittoria nell’Open d’Australia. Invece, ecco il viziaccio che salta fuori di nuovo sul più bello. A batterlo, stavolta, è stato proprio un francese, come un campanello d’allarme in vista della finale di Davis, sennonché l’avversario, Gilles Simon, impostosi in tre set, non sembra figurare tra i giocatori che la Francia metterà in campo nella finale. A rendere più inquieto il nostro tifoso c’è la forma non proprio brillante di Roger Federer, passato in tre set al tie-break contro il 27enne argentino Leonardo Mayer, dopo aver annullato ben cinque palle di match con un avversario che affrontava per la prima volta. C’è da sperare che le nostre due racchette d’oro ritrovino la concentrazione e la sicurezza delle migliori giornate, altrimenti la vedo brutta per l’amico che fra poche settimane si accomoderà in poltrona in salotto (dice di possedere la «tessera stagionale»), con tanto di bandierina rossocrociata da sventolare, quella un po’ smunta già esposta sul balcone di casa in occasione dei Mondiali in Brasile, quando la Svizzera del calcio sembrava promettere un’impresa dopo essere partita col piede giusto. Mi scuso per aver tediato sicuramente gli eventuali lettori del nostro appuntamento quindicinale con il racconto di vicende sportive. Pure stavolta ci è toccato soffermarci su appuntamenti molto attesi prima di conoscerne l’andamento, mentre chi legge saprà ormai come sono andate le cose. Molti di loro potranno però consolarsi non essendo gli unici a dover soffrire tanto quando scendono in campo i loro «eroi», tanto quelli con pattini e bastone, quanto quelli con le scarpe bullonate o con la racchetta. E la stagione, come si dice, tennis a parte, è appena cominciata.

netta insieme al gruppetto di aficionado che, come lui, non potrebbe mai rinunciare alla partita. Anche i suoi amici s’arrabbiano, ma sembrano comunque averci fatto il callo con arbitraggi che gridano vendetta.

Vecchio tifoso dice di possedere una tessera stagionale per la poltrona del salotto, dalla quale osserva tutti gli incontri Il nostro tifoso è atteso da una settimana impegnativa, visto che c’è pure la nazionale di calcio pronta ad affrontare due incontri per le qualificazioni ai prossimi Europei. Col nuovo allenatore Petkovic non c’è ancora quel feeling che gli pare indispensabile anche per vivere la partita nel salotto di casa. Dapprima la trasferta a Maribor, per l’incontro con la Slovenia nel quale i rossocrociati dovranno cancellare il ricordo della sconfitta all’esordio casalingo contro l’Inghilterra. Poi San Marino, per affrontare un avversario che non sembra vero, tanto che da quelle parti si respira sempre, anche in ottobre, aria di vacanze sulla riviera adriatica. Il vecchio tifoso dice che, almeno quanto all’arbitro, non c’è da temere, visto che il peggiore – come lo ritiene lui – può fischiare soltanto sui pattini. Il peggiore è lui, quello riesce a rodergli il fegato solo sentendo pronunciarne il nome. No, in questo caso i rossocrociati del pallone non dovranno preoccuparsi: dovranno soltanto giocare come sanno fare, mostrando gli attributi. Così si usa dire ad ogni occasione, anche da parte di radio e telecronisti, per non dire della stampa scritta: ormai si va sul pesante, anche nei commenti sportivi. Non ci sono più fasce d’età da rispettare, che si giochi nel

Keystone

Alcide Bernasconi

pomeriggio oppure quasi a tarda notte. Se un bimbo chiede che cosa sono gli attributi, un padre e pure un nonno, devono essere schietti e dire la verità, salvo aggiungere che si tratta di un linguaggio figurato, come quando una squadra commette uno sfracello: assolutamente queste cose non accadono mica. Inutile dire che il nostro sta già vivendo con ansia sempre maggiore la prossima finale di Coppa Davis, alla quale la Svizzera è approdata stavolta con relativa facilità. Attenti però, perché a Lilla (21-23 novembre) l’attende una Francia che ha i numeri per mette-

re a tacere i pochi tifosi elvetici ai quali è stato concesso un posto nello stadio coperto. Qui sarà approntato un campo in terra battuta, per cercare di offrire le migliori condizioni di gara ai giocatori di casa contro Federer e Wawrinka. Come spesso accade, il vodese non sta vivendo bene l’approccio al grande appuntamento. Stavolta non si tratta unicamente di vincere un titolo, di imporsi in un torneo dove la gloria è personale. No, in questo caso si tratta della partita che offre alla Svizzera la possibilità di scrivere una pagina indelebile nella storia del tennis. Le cronache dal torneo di

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Sudoku Livello medio

Giochi Cruciverba La moglie al marito: «Ho letto sul giornale che un miliardario ha lasciato tutti i suoi averi a una donna che ha sempre rifiutato di sposarlo!» – «Vedi cara che…» Termina la frase leggendo a soluzione ultimata le lettere nelle caselle evidenziate. (Frase: 2, 12, 6, 6)

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29. Privo di accento 30. In coda al gruppo 31. Preposizione 32. Il nome dell’attore Eastwood 33. Cosa in latino 34. Non si deve nutrire 35. Si arrampica sui muri VERTICALI 1. Sono spesso bucati 2. Gli dei di Sigfrido 3. Antico prefisso nobiliare 4. Sollevare, alzare 5. Scompartimento dell’alveare 6. Creature mitologiche giapponesi 7. Simbolo chimico del sodio 8. Introduce un chiarimento

Completare lo schema classico (81 caselle, 9 blocchi, 9 righe per 9 colonne) in modo che ogni colonna, ogni riga e ogni blocco contengano tutti i numeri da 1 a 9, nessuno escluso e senza ripetizioni.

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Scopo del gioco

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ORIZZONTALI 1. Lavorano in punta di piedi 5. Possono essere pieni di gelato 9. Spinto... 10. Chi la fa muta... tace 12. Le ali di Zeus 13. Ne ha diverse il babbo 14. Frequentati dai più piccini 15. Mie a Monte-Carlo 16. Leggendario calice 17. Aderiscono ad un sodalizio 18. Il bambino di Cicerone 19. Cosa appartenente al passato 21. Stato dell’Africa Occidentale 23. Ha la criniera sulla schiena 24. Difende la mano dello schermitore 25. Lastra di pietra con iscrizione 28. Palmipede

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33 35

11. A est della Francia... 12. Un acaro 14. Stadio d’altri tempi 15. Gesti leziosi 16. Maniera, modo 17. Fusto delle piante erbacee 18. Sono parassiti 20. Quantità inesistente 21. Cavità della roccia tappezzata di cristalli 22. Avversione rancorosa 26. Unità di misura inglese 27. Fiume europeo 29. Le spiegava l’Ippogrifo 30. Si scrive tra due fattori 32. Si introduce nel computer 33. Nota... sovrana

Soluzione della settimana precedente

Scrutando il cielo – Giove gira su se stesso in: 9 ore e 55 minuti

N A D I A

O V E C E R A N T A L I C

R O C I R N A E S E N R E M A

R E T I O A Q R U T E R G A M I N S O O I R M S U I Z E N

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Politica e Economia Reportage dal confine I curdi in fuga da Kobane, vittime dell’avanzata dell’Isis

L’America verso il voto Il 4 novembre si dovrà rinnovare la quasi totalità della Camera e un terzo del Senato. Per il partito del presidente, in caduta libera nei sondaggi, i pronostici sono pessimi

Brasile dopo il primo turno A sorpresa la presidente uscente Dilma Rousseff andrà al ballottaggio con lo sfidante della destra Aecio Neves pagina 28

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Keystone

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Un popolo senza uno Stato

Questione curda Dagli Stati in cui sono ospitati – Turchia, Siria, Iraq e Iran, i principali protagonisti del conflitto

che ruota attorno allo Stato Islamico – sono visti più come una minaccia che come una risorsa

Lucio Caracciolo La guerra allo Stato Islamico ha riportato all’attenzione internazionale la questione curda. Un popolo senza Stato, visto dagli Stati in cui è attualmente ospitato più come una minaccia che come una risorsa. Si tratta in particolare di Turchia, Siria, Iraq e Iran, ossia di quattro dei principali protagonisti del conflitto che ruota intorno all’emergere del «califfato» di Abu Bakr al-Baghdadi, catalizzatore e insieme rivelatore delle dinamiche geopolitiche fra Mediterraneo e Golfo. In quei territori, geograficamente contigui, vivono almeno 25 milioni di curdi, molti dei quali sognano tuttora il Kurdistan unito e indipendente. La destabilizzazione provocata dall’irrompere sulla scena geopolitica dei jihadisti del «califfo» potrebbe ridare sostanza a questo obiettivo. Tanto che, nelle pieghe del conflitto, le milizie curde hanno rimesso piede nella loro «Gerusalemme», la città nord-irachena di Kirkuk. Il nesso curdi-Stato Islamico ha però avuto due grandi, tragici amplifica-

tori mediatici. Il villaggio di Amerli, in Iraq, e la città di Kobane, in Siria, al confine con la Turchia. Il primo, situato tra il Kurdistan iracheno e Baghdad, è il luogo della prima sconfitta tattica subìta dall’Isis. Qui una coalizione imperniata sui peshmerga (guerriglieri) fedeli al governo del Kurdistan iracheno – entità autonoma, di fatto indipendente – ha sbarrato la strada alle brigate mobili del «califfo». Una singolare convergenza di forze ha contribuito a questo successo: con i curdi si sono ritrovati uniti nella battaglia anti-Isis nientemeno che iraniani (erano presenti sul terreno reparti di pasdaran) e americani (forze speciali e appoggio dall’aria), milizie sciite inquadrate nell’esercito di Baghdad o autonome e volontari locali. Dopo la vittoria – o meglio, la ritirata del «califfo» – i soldati di Baghdad hanno invitato i miliziani curdi ad andarsene, perché quello era territorio loro. Così è stato, almeno per ora. Il secondo è un centro strategico di alcune decine di migliaia di abitanti, in ciò che resta della Siria curda. Kobane è collocata nel distretto di Aleppo,

nel settentrione di un Paese atterrato da un massacro che in quasi tre anni ha già stroncato oltre 200 mila vite, mentre milioni di siriani hanno lasciato le loro case. Qui gli uomini del califfo hanno accerchiato e in parte conquistato, malgrado i bombardamenti americani, quella che è la porta girevole che connette Turchia e Siria. A farne le spese la popolazione curda, in buona parte fuggita, in altra parte caduta vittima di un assedio spietato. Mentre i soldati dell’Isis colpivano i curdi, i carri armati turchi, schierati al confine con la Siria, restavano fermi. Malgrado le promesse della Turchia e l’adesione di Ankara alla coalizione anti-Isis, si confermava così la paura dei curdi: quella di essere usati come carne da cannone, salvo poi finire soli e abbandonati, nonostante le promesse di armi e sostegno logistico da parte dell’Occidente e della coalizione messa in piedi in fretta e furia da Obama per mostrare i muscoli contro la nuova/ vecchia idra jihadista. Fatto è che per Erdogan, il presidente/sultano di Ankara, Stato Islamico e militanti curdi del PKK, il Partito dei la-

voratori curdo, anima della lotta armata contro lo Stato turco, sono la stessa cosa. «È sbagliato considerarli differentemente, dobbiamo affrontarli contestualmente». Il leader turco spiega che in realtà si tratta in entrambi i casi di «organizzazioni terroristiche». Ma al di là delle definizioni, sempre discutibili e comunque strumentali, resta che per la Turchia l’ordine delle priorità nella mischia siroirachena è il seguente: primo, abbattere al-Assad (e per questo serve anche lo Stato Islamico); secondo, contenere i curdi e impedire che si installino come soggetto indipendente in Siria, instillando strane ambizioni ai loro confratelli che vivono in Turchia; terzo – forse – sconfiggere lo Stato Islamico. La battaglia di Kobane contiene in realtà le tre dimensioni. Soprattutto, ha un significato geopolitico particolare in vista dell’aggregazione di un Kurdistan indipendente. Essa si trova in un territorio segnato da villaggi e cittadine curde contigue, tra il cantone di al-Jazira, nella Siria nord-orientale, e il municipio curdo-siriano di Afrin, a sud-ovest. I curdi combattono a Kobane per impedire che

lo Stato islamico, come prima l’esercito regolare di al-Assad, possa spezzare questa catena curda. Per i turchi, invece, è tutto sommato preferibile che le truppe di al-Baghdadi si interpongano nella linea di continuità curda come fattore di disturbo. Questa crisi sta rimettendo fra l’altro in questione il dialogo sotterraneo fra Erdogan e il leader del PKK, Abdullah Ocalan (nella foto il suo ritratto compare su una bandiera tenuta da un curdo in protesta contro l’Isis), imprigionato nell’isola turca di Imrali. Nelle intenzioni del leader di Ankara, la trattativa avrebbe dovuto stemperare la questione curda, attraverso la concessione di una certa autonomia all’Anatolia del Sud-Est, dove sono insediati milioni di curdi, in cambio della rinuncia alla lotta armata. La guerra in corso sembra aver radicalizzato le posizioni su entrambi i fronti. Non sarebbe sorprendente se, alla fine, emergessero nuove formazioni di militanti curdi, persino più estremiste del PKK. Per chi, come il «califfato», nuota nel caos come i pesci nell’acqua, un regalo davvero prezioso.


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Politica e Economia

Curdi in fuga dall’Isis Reportage dal confine La città turca di Suruç ha triplicato la sua popolazione per accogliere i curdi siriani in fuga

da Kobane dove si sta combattendo ferocemente l’avanzata del Califfato islamico Costanza Spocci e Giulia Bertoluzzi È un confine incandescente quello fra Turchia e Siria. In poco più di due settimane la città turca di Suruç ha triplicato la sua popolazione. Ora i marciapiedi della via principale – sovraffollati dai 100 mila profughi scappati da Kobane, l’enclave curda in Siria sul confine turco dove si combatte contro l’avanzata dell’Isis – sono pattugliati dalla polizia turca e da carri carichi di materassi. Tutti gli spazi pubblici, dalle piazze ai campetti giochi per bambini, sono stati riallestiti a tendopoli, principalmente finanziati direttamente da Suruç e dai comuni vicini che hanno attivato una rete di soccorso alimentata dalle casse comunali e dai civili stessi. Decine di volontari sono accorsi per far fronte a questo disastro umanitario, «il governo non ci ha aiutato» spiega Faruk Tatli, responsabile della municipalità e membro attivo di Rojava, con due cellulari in mano che squillano in continuazione. Molte famiglie erano divise tra Turchia e Siria; cugini, fratelli, zii cresciuti a Suruç si sono presto arrangiati per accogliere i loro familiari, tanto che dei 160 mila profughi ufficialmente registrati solo 80 mila sono ancora nelle tende di Suruç. Tra tende e carri carichi di persone, materassi e cibo, si apre un piazzale con due grandi magazzini. Qui Tatli, circondato da decine di persone, gesticola a un camion pieno di riso e farina che deve essere scaricato per poi ripartire al più presto. «L’Isis esisteva anche un anno fa e aveva già attaccato Kobane» commenta Faruk mentre i volontari caricano e scaricano i camion in modo coordinato. «In quel periodo negli Stati Uniti e in Europa nessuno aveva idea di cosa fosse l’Isis. Com’è possibile che ora sia all’ordine del giorno?». In un solo giorno una fiumana di 100 mila persone ha camminato verso la frontiera turca. Una scena apocalittica. «Diversamente da quanto accaduto a Sanjar in Iraq dove i Peshmerga sono scappati lasciando i civili al loro destino», puntualizza Faruk, «la strategia del YPG (Unità e Protezione del Popolo), ala armata del PYD (Unione Democratica del Kurdistan), è quella di evacuare i civili prima che qualsiasi tipo di battaglia si avvicini ad un centro urbano».

Per migliaia di curdi è viva la speranza di veder realizzato il progetto del leader del PKK Ocalan Nei 7 chilometri che dividono Kobane e Suruç oltre a pick-up carichi di persone, la strada è percorsa da veicoli militari e camionette della polizia. L’ultimo check-point militare delimita il «Point Zero», una striscia larga poco più di un chilometro prima del confine. Qui gli abitanti sussultano per le esplosioni e, arrampicati su alberi e muri si passano i binocoli per vedere in volto i combattenti dell’Isis che accerchiano la collina di Kobane. Poco lontano da loro, a ridosso delle rotaie dismesse e dal filo spinato che delimitano il confine con la Siria, alcuni militari turchi dall’alto di un carro armato osservano Kobane cadere. «Dobbiamo convivere giorno e notte con queste esplosioni» lamenta Egid, che vive proprio all’interno del «Point Zero». Nel suo giardino, un gruppo di persone si sono appollaiate sul tetto dell’aia osservando ansiosamente al binocolo l’assedio. Le bombe

Decine di volontari sono accorsi al confine per far fronte al disastro umanitario. (Keystone)

esplodono ormai in pieno centro città. Egid è la persona di riferimento per la comunità, ogni sera racconta che «più di 40 persone si radunano qui per scambiare idee, informazioni e per cercare di trovare soluzioni rapide ai problemi delle nostre famiglie scappate da Kobane». Nel suo giardino troviamo i resti dei candelotti lacrimogeni con cui le forze di polizia turche puntualmente disperdono le manifestazioni in solidarietà con Kobane. Le ostilità si accendono quando qualcuno da Suruç cerca di passare dalla parte di Kobane per unirsi alla resistenza. «Nel villaggio qui vicino mi hanno raccontato che Isis è passata indisturbata dalla parte turca per rubare delle macchine, proprio sotto il naso dei militari, mentre noi non possiamo passare» racconta Egdi, «ci tirano lacrimogeni e ci minacciano, capito? Aprono il confine a loro e lo chiudono a noi!». E non è nemmeno un segreto che jihadisti e militanti dell’Isis stranieri siano passati anche in senso contrario, per entrare in Siria proprio dal confine turco. «Avete sentito del gruppo di Isis che era su un treno ad Antakia?» racconta Kamal Oskan, giornalista siriano ora residente a Gaziantep «una volta vicino al confine, quando il treno ha rallentato, sono saltati giù e sono entrati attraverso un passaggio nel filo spinato in Siria. Hanno anche lanciato dei razzi in Turchia ma senza alcuna risposta». Come racconta Oskan, e diversi cittadini di Gaziantep confermano, tutto il sud-est della Turchia è pieno di Isis «anche a Gaziantep hanno il loro quartiere, con le loro case sicure». A casa di Egdi, un signore alto e distinto si fa notare per il suo sguardo perforante che trasmette la sensazione dell’inferno che ha dovuto passare nell’ultimo mese. Stringendo la mano

con forza, aggrotta la fronte indicando la sua vecchia casa a Kobane, visibile a occhio nudo. I mortai cadono anche lì vicino. Anche Kamiran Mdirs è il focal point di Kobane, la persona di riferimento della città e dei villaggi confinanti, ma da due settimane vive con tutta la sua famiglia a casa del cugino, nato e cresciuto a Suruç. Trenta persone vivono oggi sotto lo stesso tetto, «siamo scappati il 19 settembre alle 16.30» dice con memoria vivida Naze al Hussein, nipote ventisettenne di Kamiran – «erano 16 giorni che non dormivamo a causa delle bombe. Quando ci hanno detto di evacuare perché l’Isis era vicino siamo scappati così com’eravamo vestiti». Il ricordo di quel giorno fa rabbrividire l’intera famiglia ma Kamiran tenendo tra le braccia il nipote continua a raccontare: «Kobane è sempre stata una città multi-culturale e multiconfessionale, abbiamo sempre avuto buoni rapporti con i nostri vicini arabi e abbiamo tutti ospitato nelle nostre case famiglie che scappavano da Aleppo ma ora molti dei nostri stessi vicini sono entrati nell’Isis!». Nel novembre 2013, le enclavi curde di Kobane, Afrin e Al Jazeera hanno costituito la regione autonoma di Rojava nel Kurdistan siriano, capeggiata dal PYD. Da quel momento il YPG, si è imposto come forza militare in quasi tutte le aree popolate da curdi nelle province di Aleppo, Harassakah e Raqqa. Nonostante gli attacchi dell’Isis, mai mancati sin dai primi momenti della sua costituzione, Rojava sembra resistere. Continua a rappresentare la speranza di migliaia di curdi di vedere concretato il progetto politico di Ocalan, il leader del PKK, il Partito dei lavoratori del Kurdistan che da 30 anni combatte per l’indipendenza dal-

la Turchia: «autonomia democratica» e «auto-amministrazione» locale. «Il territorio di Rojava si estende su tutto il confine turco a sud», spiega Faruk che continua contemporaneamente a rispondere al telefono e dare indicazioni per i lavori «e se la Turchia vuole questa zona cuscinetto è proprio per digerire le conquiste di Rojava!». La zona cuscinetto, infatti, non servirà solo a dispiegare l’esercito turco in territorio siriano, come dichiarato da Ankara, ma verrà utilizzata anche per sistemarvi i rifugiati siriani attualmente in Turchia. La mossa è percepita da PYD e PKK come una strategia demografica: un milione di arabi per separare geograficamente i curdi e, soprattutto, i due stessi partiti. Secondo Kamal Oskan «è chiaro come il sole che Ankara non vuole una forza curda unita e forte sui suoi confini!». Nonostante Erdogan abbia riconosciuto ufficialmente il Kurdistan iracheno e il suo leader Barzani, con cui intrattiene oggi anche proficui scambi commerciali, lo stesso riconoscimento non è avvenuto per il PYD né per la regione di Rojava. «E questo per due motivi» spiega Oskan: «per il patto di non belligeranza con Assad e per la sua affiliazione con il PKK». Ed è proprio a Kobane che la strategia turca si svela: «Ankara attende con pazienza tattica, aspettando che l’YPG sia indebolito dagli attacchi dell’Isis al punto tale da dover far ricorso ad un “aiuto” militare turco», spiega Mehmet Gurses, professore curdo di scienze politiche della Florida University. «In questo modo Erdogan può guadagnare potere negoziale e tentare di spingere il PYD ad entrare nella coalizione anti-Assad, un obiettivo strategico che la Turchia fortemente condivide con gli Stati Uniti».

Perché questo avvenga, però, Erdogan non può prescindere da un accordo con il PKK, con cui il PYD non solo condivide una visione politica di lungo termine, ma è anche l’unico attore in questo momento a sostenere PYD e YPG a Kobane. «Sebbene idealmente la Turchia non voglia una regione curda autonoma proprio sui suoi confini, nella realtà dei fatti», secondo Gurses, «sarà difficile impedirlo». La resistenza riesce ad entrare a Kobane per combattere «anche sotto il naso dei militari turchi», conferma Tatli che aggiunge «in questa guerra dobbiamo considerare i membri del PKK che entrano a Kobane come parti integranti delle milizie dell’YPG». Mentre le forze turche girano le spalle al confine e si concentrano a sparare e lanciare lacrimogeni contro gli abitanti di Suruç, poche migliaia di combattenti sono rimasti i soli a resistere all’assedio di Isis che si fa sempre più intenso. Una bandiera dell’Isis è già stata innalzata su un edificio nella parte est della città, ma la guerrilla urbana non è ancora finita. Erdogan stesso ha riconosciuto che Kobane sta per cadere, ma non interverrà se non avrà garanzie di una futura rimozione di Assad. «Un accordo sarà raggiunto», ne è sicuro il professor Gurses. «Che Assad sopravviva o meno, i curdi non possono essere ignorati. E in questo la Turchia non ha molta scelta». Faruk Tatli è convinto: «Kobane rimane una vittoria politica per i curdi, ora noi curdi turchi e curdi siriani siamo ancora più uniti di prima». E aggiunge speranzoso «se il progetto di Rojava resisterà a tutto questo, potremo applicarlo ed estenderlo anche in altre parti». Ivi compresa la Turchia, proprio quello di cui Erdogan ha più timore.


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Politica e Economia

Obama abbandonato dal partito Elezioni di metà mandato Il 4 novembre si vota per rinnovare la quasi totalità della Camera, in mano

alla maggioranza repubblicana, e un terzo del Senato del quale i democratici rischiano di perdere il controllo

Federico Rampini Un presidente democratico in crisi nei sondaggi subisce una débacle nelle elezioni di mid-term. La destra travolge il suo partito, e conquista la maggioranza nei due rami del Congresso: Camera e Senato. Il presidente si avvia a diventare per il resto del suo mandato un lame-duck, un’anatra zoppa. Gli esperti sono pressoché unanimi nel giudicarlo un leader fallito, che la storia giudicherà con severità. Questo accade nell’anno di grazia 1994. Alla Casa Bianca c’è Bill Clinton, a guidare l’avanzata travolgente dei repubblicani è Newt Gingrich. In seguito le cose andranno perfino peggio per Clinton, che subirà l’onta dell’impeachment in uno dei due rami del Congresso. Vent’anni dopo, però, Clinton si prende una bella rivincita. Oggi la sua popolarità è alle stelle, molti americani considerano la sua presidenza come l’ultima Età dell’Oro: boom economico e piena occupazione. E sua moglie potrebbe conquistare la Casa Bianca nel 2016. Insomma, tra i verdetti della storia e quelli dei talkshow politici nel breve termine, lo scarto può essere notevole. Questa forse è l’unica consolazione che resta oggi a Barack Obama. Perché anche lui è in caduta libera nei sondaggi, poco sopra il 40% dei consensi. E anche lui, vent’anni dopo Clinton, si appresta a subire una disfatta elettorale. Cioè, non lui personalmente, ma il suo partito democratico. Il 4 novembre si vota per le elezioni di mid-term, nelle quali come di consueto gli elettori americani vanno a rinnovare la totalità della Camera e un terzo dei seggi del Senato, più diversi governatori di Stati. Le previsioni sono pessime: il partito del presidente potrebbe perdere anche il controllo del Senato, oltre alla Camera che è già finita in mano a una maggioranza repubblicana nel novembre 2010. Obama ha le sue responsabilità, tant’è che la maggioranza dei suoi compagni di partito ha chiesto alla Casa Bianca che il presidente non si faccia vedere nei comizi elettorali: la sua presenza rischia di far perdere voti ai candidati locali. Obama si è affacciato di recente nella sua roccaforte elettorale di Chicago, ha partecipato ad alcune cene per la raccolta di fondi a New York, Los Angeles e San Francisco, tutti bastioni democratici. Per il resto è stato alla larga dalla mischia, consapevole di essere diventato un handicap. Bisogna anche ricordare, però, alcuni paradossi di questo appuntamento elettorale. Se Obama ha toccato i minimi nei sondaggi, i repubblicani non stanno meglio di lui. Se la Casa Bianca è il parafulmine di molto malcontento, l’americano medio ha un’opinione ancora più negativa del Congresso. Eppure molti senatori e deputati uscenti, soprattutto di destra, hanno la quasi certezza di essere rieletti. Questo si spiega in parte con una vera e propria degenerazione della democrazia

Michelle Obama, che rispetto al marito gode di forte popolarità, è scesa in campo prendendo parte a diversi comizi. (Keystone)

americana. È il fenomeno del gerrymandering o re-districting: da qualche decennio la geografia dei collegi elettorali viene manipolata spudoratamente, i confini delle circoscrizioni sono stati disegnati appositamente per «blindare» i parlamentari in carica. In molte zone d’America è quasi inutile andare a votare perché già si sa chi vincerà. Questo ha due conseguenze negative. Da una parte i collegi blindati favoriscono l’emergere di candidati sempre più estremisti: il vero scontro politico avviene nelle elezioni primarie di partito, dove partecipa la fazione più radicale. D’altra parte questa democrazia «truccata» disincentiva la partecipazione al voto. Non a caso le legislative appassionano poco, molto meno dell’elezione presidenziale. E l’affluenza alle urne, già bassa nell’elezione presidenziale se paragonata con quel che accade in altre nazioni (solo «l’effetto Obama» fece salire al 60% la partecipazione al voto nel 2008) scende molto più giù alle elezioni di midterm. Questo danneggia soprattutto la sinistra. Proprio quelle categorie che furono decisive nelle due vittorie di Obama – donne, giovani, neri, ispanici – rischiano di disertare in massa l’appuntamento di novembre. Non a caso gli sforzi dei democratici in queste ultime settimane di campagna elettorale puntano soprattutto a far risalire l’affluenza. La macchina del partito democratico le sta provando tutte in quest’ultimo sforzo per scongiurare il disastro. Hanno mobilitato Eva Longoria, la star di Desperate Housewives che ha

un seguito notevole tra gli elettori di origine ispanica (oltre che un sex symbol, l’attrice è politicamente impegnata in favore degli immigrati, ed è una filantropa molto attiva). L’ultima trovata è una serie di spot satirici contro i candidati repubblicani più guerrafondai, sessisti, negazionisti del cambiamento climatico, che vanno in onda sulle tv e i social media più frequentati dai giovani: Comedy Central, YouTube, Facebook, la radio Pandora. Perfino Michelle Obama, solitamente riluttante a esporsi troppo nella mischia politica, ha accettato di partecipare ad alcuni comizi in favore di candidati democratici traballanti. A differenza di suo marito, Michelle continua a godere di una forte popolarità. Può richiamare donne e afroamericani, perché non stiano a casa il 4 novembre. Su questa differenza di appeal tra i due coniugi ha scherzato il presidente: «Sulle schede di novembre non c’è il mio nome. E Michelle ne è ben contenta». Eppure lui sa che il resto della sua presidenza può essere condizionato, o addirittura irrimediabilmente compromesso, da questo risultato. L’ultimo biennio del suo secondo mandato è «appeso» a quel che accadrà in sei Stati dove sono in bilico i seggi dei senatori: Kansas, Colorado, Iowa, Alaska, Louisiana, Arkansas. Gli ultimi tre di questa lista, secondo i sondaggi più recenti starebbero scivolando a favore dei candidati repubblicani. La potenza del denaro è dalla loro parte. I cosiddetti Super-Pac (abbreviazione di Political Action Committee), conteni-

tori di finanziamenti per le campagne elettorali, hanno raccolto 113 milioni per sostenere politici di destra, contro 77 milioni per i democratici. Oltre ai tradizionali potentati della destra economica come i fratelli Koch (quarta fortuna d’America, legati al petrolchimico, nemici giurati di Obama e degli ambientalisti) è sceso in campo anche un magnate hi-tech della Silicon Valley, Larry Ellison di Oracle, per finanziare i repubblicani.

La macchina del partito democratico le sta provando tutte per scongiurare il disastro L’ultimo biennio di Obama alla Casa Bianca ha una serie di riforme incompiute, sulle quali il presidente spera ancora di sfondare e di lasciare al Paese un’eredità positiva. Nell’ordine: aumento del salario minimo obbligatorio; riforma dell’immigrazione per accelerare l’integrazione dei giovani irregolari; lotta all’elusione fiscale delle multinazionali; nuovi limiti alle emissioni di CO2. Tutti questi obiettivi saranno irraggiungibili se il Congresso passa alla destra. Con Camera e Senato nelle loro mani, i repubblicani potrebbero tentare uno sfondamento strategico. Cancellare la riforma sanitaria di Obama, per esempio. O addirittura tentare l’impeachment del presidente, trovando il pretesto giusto

(con Clinton ci fu la provvidenziale Monica Lewinski). Vista dal resto del mondo questa campagna elettorale americana è difficilmente comprensibile. Un osservatore europeo, latinoamericano o asiatico, forse boccia Obama in politica estera: ma non è questo il tema che conta davvero nel voto americano. In compenso qualsiasi governante d’Europa invidia a Obama la sua performance economica: cinque anni di ripresa, un tasso di disoccupazione dimezzato al 5,9%. Perfino il Brasile in recessione, la Cina con una crescita che rallenta, guardano l’economia Usa come una locomotiva. Ma la percezione qui è diversa. La «ripresa di Obama» è reale ma squilibrata, segnata dalla persistenza di quelle diseguaglianze che affliggono l’America da trent’anni. Dalla fine della recessione (2009), l’1% degli americani più privilegiati si è accaparrato il 95% della nuova ricchezza creata. Le maggiori società quotate a Wall Street, quelle che compaiono nel listino Standard&Poor’s 500, siedono su una montagna di cash senza precedenti: 3.600 miliardi di dollari di liquidità. In compenso il reddito della famiglia media è fermo agli stessi livelli del 1999. In questa fascia media, dove si concentra la maggioranza degli elettori di Obama, la ripresa è deludente. Il sentimento di questi elettori è catturato in una battuta dell’esperto democratico di sondaggi, Peter Hart: «Il governo continua a dirmi che il livello dell’acqua nella mia cantina è sceso di un terzo, ma io continuo ad avere la cantina allagata». Un interrogativo inevitabile, riguarda l’impatto del risultato elettorale sulla corsa alla Casa Bianca nel 2016. A nessuno sfugge che Hillary Clinton in questi giorni si fa vedere nei comizi dei candidati democratici molto più di Obama. La sua popolarità è in ascesa. E tutto sommato lei è in una situazione invidiabile. Se la presidenza Obama dovesse finire in risalita, cioè se gli effetti della ripresa economica dovessero cambiare in meglio la percezione degli elettori, la Clinton potrebbe fare campagna nel 2016 come l’erede naturale del presidente democratico che la nominò segretario di Stato. Ma se il 4 novembre il partito repubblicano fa l’en plein, conquista la maggioranza assoluta nei due rami del Congresso, e usa questo potere legislativo per paralizzare la presidenza Obama fino al 2016, la Clinton potrebbe comunque ricavarne un vantaggio. Un Congresso che si dedica all’ostruzionismo e al sabotaggio del presidente, irrita gli elettori e peggiora ulteriormente la propria immagine. È esattamente quel che accadde dopo la vittoria del 1994. In tal caso il 2016 potrebbe essere l’anno del «pentimento» degli elettori, cioè un castigo della destra. In quel caso sarebbe Hillary a fare l’en plein, facendosi eleggere alla presidenza e al tempo stesso guidando il partito democratico verso una riscossa al Congresso. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

Neves a sorpresa

Dilma al ballottaggio La propaganda anti-Marina, orchestrata

in rincorsa, ha raccolto i frutti in favore del rivale tradizionale della destra Angela Nocioni Dura la vita per Dilma Rousseff. Ottenere il secondo mandato alla presidenza del Brasile è una corsa in salita. Al ballottaggio del 26 ottobre è passato il rivale di destra per lei più facile (nella foto), Aecio Neves (33,5%), del Partito socialdemocratico, il Psdb dell’ex presidente Fernando Henrique Cardoso. Dilma ha ottenuto il 41,50% al primo turno di domenica 5 ottobre. È prima, ma con sette punti in meno del previsto. Meno di quanti ne aveva quando andò al ballottaggio nel 2010, molti meno di quanti ne raccolse l’ex presidente Lula, suo mentore, nel 2002 e nel 2006. Non dovrà affrontare la pericolosa guerra a sinistra con Marina Silva, candidata del Partito socialista che non ha visto trasformato in voti veri il successo nei sondaggi ed è rimasta al terzo posto con il 21,5%. Si tratterà quindi per Dilma di vedersela contro l’avversario tradizionale del Partito dei lavoratori (Pt), meno insidioso di Marina ma con alle spalle una macchina organizzativa assai più potente. Se il margine di distanza fosse ampio, vincere sarebbe per Dilma e Lula (comanda ancora lui nel Pt) una passeggiata. Sono vent’anni che il Pt e il Psdb si contendono la guida del Paese. E i termini del confronto sono chiari: da una parte la sinistra di governo di Lula e dall’altra la politica liberale di Cardoso. La sinistra e la destra, «os petistas contra os tucanos». Niente di inedito. Ma con la destra in rimonta, ringalluzzita da un risultato molto più roseo dei pronostici della vigilia che davano Neves travolto dal fenomeno Silva, sarà una battaglia tutta da combattere. Le inchieste sulle intenzioni di voto danno Dilma vincitrice al 48% e Aecio al 41%, ma mancano giorni di fuoco prima del voto e per Aecio Neves è più facile che per Dilma chiedere

i voti degli elettori di Marina perché il Psdb già aveva promesso di dare alla leader ecologista il suo sostegno se al ballottaggio ci fosse andata lei. Lula si prepara a trattare per Dilma. Bisogna chiedere appoggio al Partito socialista dopo avergli scatenato addosso una guerra feroce nell’ultimo mese, ma domenica sera l’ex presidente già avvisava: «Il Partito socialista è nostro alleato naturale, governiamo insieme molti Stati». In fin dei conti Lula è ancora l’uomo politico più potente del Brasile e ha a disposizione la gigantesca rete di potere del governo, oltre al serbatoio di elettori sicuri del poverissimo e fedele nordest. Il punto è che la maggioranza dei voti andati a Marina non vengono dal Partito socialista, sono voti suoi. Non è merce che i socialisti possono con credibilità proporsi di vendere al miglior offerente perché non ne dispongono, se non in minima parte. Quegli elettori vanno conquistati uno a uno, non basta contrattare posti con i dirigenti socialisti più ambiziosi. E Lula ha un gran problema. Per far vincere Dilma deve recuperare consensi nella città per lui più ostica: San Paolo. Lì c’è il governatore Geraldo Alckmin, potente e molto amato dagli industriali paulisti, già al lavoro per far piacere agli elettori Aecio Neves. Neves, 54 anni, ex playboy, liberista in economia e liberale in politica, accompagnato ovunque in campagna elettorale da Ronaldo, il calciatore, era considerato il principale avversario della presidente Dilma Rousseff (Pt) finché l’incidente aereo in cui ha perso la vita il candidato socialista Eduardo Campos, ad agosto, ha catapultato in prima linea Marina Silva, ecologista radicale che lasciò il primo governo Lula a fine 2008 in polemica per la deforestazione dell’Amazzonia. Mentre Campos appariva innocuo per Dilma, destinato a un terzo

posto nel campo degli alleati del Pt, Marina ha stravolto la campagna elettorale obbligando l’erede di Lula a lottare per non farsi sfilare voti a sinistra. Una clamorosa «onda Marina», capace di sommare su di sé i voti antiPt di destra e di sinistra, ha sommerso Neves e le sue promesse di maggiore autonomia alla Banca centrale, minore inflazione e presa di distanza dai governi di sinistra latinoamericani in favore di un riavvicinamento a Washington. Scavalcato nettamente da Marina, Neves è scomparso dal radar durante la campagna elettorale. Per riaffacciarcisi negli ultimi due giorni prima del voto. La propaganda anti-Marina orchestrata in rincorsa, ma col massimo dello sforzo dalla macchina raccatta voti del Pt, ha raccolto in fretta i suoi frutti facendo sgonfiare il fenomeno Marina in favore del rivale tradizionale, il Psdb. Neves è figlio d’arte. Suo nonno fu il primo presidente eletto in Brasile, nel 1985, dopo 21 anni di dittatura. Si ammalò e morì prima di assumere l’incarico. Anche il padre di Aecio è un politico molto influente. È stato deputato dal ’63 all’87. Fu lui a convincere il figlio a dedicarsi alla politica. Aecio allora aveva fama di sorridente playboy, di continuare la tradizione familiare sembrava non avere intenzione. Invece poi è finita che è entrato in Parlamento, c’è restato per quattro mandati consecutivi e nel 2001 ha anche presieduto la Camera. Il grande exploit l’ha avuto però quando l’hanno candidato al governo di Minas Gerais, grande stato del Brasile, dove s’è rivelato un buon amministratore. Quando è arrivato, Minas Gerais era in bancarotta. La rivista britannica «The Economist», che ha sempre avuto un occhio di riguardo per il Psdb di Fernando Cardoso, ha molto elogiato in passato Neves per

aver inaugurato una «politica shock» sui conti. In sintesi, Neves ha tagliato le spese e distribuito meglio le tasse. L’hanno soprannominato «la Medicina di Minas». È vero che a Minas i dati sulla povertà sono migliorati molto più rapidamente che nel resto del Brasile ed è vero che lì, ma non da poco, sono concentrate le migliori scuole del Paese. Nell’ultimo dibattito televisivo prima del voto, Neves si è scagliato contro Dilma. L’ha incolpata della fine del sogno del boom economico del Brasile, le ha ricordato che il Paese è per la prima volta in recessione (ma il boom c’è stato dopo il 2003, con il governo del Pt, non con quello del Psdb). Ha menato duro ricordando quanto pesi sul portafogli dei non ricchi l’inflazione in crescita. L’ha poi rimproverata per lo scandalo corruzione in Petrobras, grande industria statale del petrolio. Un ex direttore dei rifornimenti di Petrobras, Paulo Roberto Costa – al momento detenuto in attesa di una riduzione della condanna in cambio di un accordo di collaborazione con la polizia federale e con la magistratura

– ha raccontato un sistema di tangenti pagate dalle imprese esterne per lavorare con Petrobras. L’accusa ha travolto molti dirigenti e politici del partito di Dilma. «Le denunce fioccano una dietro l’altra – ha incalzato in tv Aecio Neves – io rappresento l’indignazione dei brasiliani, non mi sembra invece di vedere la presidente indignata». Dilma ha difeso sé stessa, senza entrare nei dettagli delle denunce puntuali rivolte al suo partito. «Nella mia vita ho avuto sempre tolleranza zero con la corruzione – ha detto – ho dato autonomia totale alla polizia federale per arrestare Costa e non ho mai cercato di nascondere lo scandalo sotto il tappeto. Difendo l’inchiesta per difendere la nostra industria del petrolio». Dilma al primo turno ha goduto di molto più spazio televisivo degli altri. Dodici minuti al giorno di spot diretti contro i 120 secondi di Marina, per esempio. La legge brasiliana prevede uno spazio tv proporzionale ai seggi di cui ciascun partito dispone in Parlamento. Ma al ballottaggio i due candidati hanno diritto agli stessi tempi in tv. E lì la musica cambia.

Riforma ad ampio raggio Fiscalità Il Dipartimento federale delle finanze ha posto in consultazione il progetto di riforma della tassazione

delle imprese III, che prevede tra l’altro un’imposta sugli utili in capitale, finora esenti Ignazio Bonoli Come promesso, entro il mese di settembre, il Dipartimento federale delle finanze ha posto in consultazione il progetto di riforma della tassazione delle imprese III. Molti dei suoi possibili contenuti erano già noti e quindi anche le critiche che da più parti si andavano formulando (vedi «Azione» dell’11.8.2014) verranno rivedute e magari in parte corrette nella fase di consultazione. Come noto, il progetto prende avvio dalle promesse, più o meno esplicite, fatte all’Unione Europea, anche

nell’ambito delle proposte OCSE, di rivedere i privilegi fiscali che alcuni cantoni concedono alle imprese insediate sul loro territorio. Le proposte in consultazione vanno però molto più lontano e riprendono anche idee (come ad esempio quella di un’imposta sui guadagni in capitale) che sembravano accantonate per almeno qualche tempo. Ma uno dei grossi problemi da risolvere affinché si possa ottenere l’accordo dei cantoni (ed eventualmente anche del popolo in caso di referendum) è quello della compensazione delle perdite fiscali che i cantoni potrebbero subire con la nuova legge. I negoziatori dell’Ue e della Svizzera, Heinz Zourek e Jacques de Watteville, soddisfatti dopo aver parafato l’accordo sulla tassazione delle imprese, il 1. luglio 2014 a Berna: un accordo che ora si ripercuote sulla riforma delle imprese III. (Keystone)

Il progetto in discussione contiene un vasto catalogo di misure e, di solito, questo non è un passo sicuro verso una generale accettazione. Il Consiglio federale è però preso fra i due fuochi delle esigenze internazionali da un lato e della sovranità fiscale cantonale dall’altro. Brevemente, il «catalogo» si compone essenzialmente delle misure seguenti: – Nuovi privilegi ai cantoni per la tassazione dei redditi della proprietà intellettuale, in genere brevetti (licensebox); – Nuove deduzioni fiscali sul capitale proprio in eccedenza (interessi deducibili fino al 2 per cento); – Possibilità di deduzioni fiscali sul capitale proprio in rapporto ad alcuni attivi mobili anche a livello cantonale; – Al momento del cambiamento di regime fiscale, le imprese possono sciogliere le riserve accumulate nel regime precedente senza aggravi fiscali (questo permetterà un aumento degli ammortamenti che equivale in pratica a un prolungamento di 5 / 10 anni del regime fiscale); – Soppressione della tassa di emissione sul capitale proprio; – Prolungamento a tempo indeterminato (oggi 7 anni) della deducibilità di perdite nella dichiarazione fiscale, salvo un minimo del 20 per cento dell’utile dell’anno di computo; – Redditi da partecipazioni possono essere conteggiati a parte (non più nel calcolo dell’aliquota fiscale). Questo com-

prende anche piccole partecipazioni, ad eccezione delle banche; – La riduzione dell’imposta sui dividendi viene estesa oltre le partecipazioni minime dal 10 per cento a tutte le azioni e buoni di partecipazione, limitati però al 30 per cantoni e Confederazione; – I guadagni in capitale privati vengono ora assoggettati all’imposta ordinaria sul reddito; – Assunzione di 75 nuovi ispettori fiscali per indagini a campione (entrate stimate 250 milioni all’anno). Non sono comprese in questo pacchetto eventuali riduzioni dell’imposta sugli utili nei cantoni. Dodici cantoni hanno annunciato che la soppressione degli attuali privilegi li costringe a ridurre le aliquote d’imposta sugli utili. La Confederazione stima che l’imposizione degli utili a livello cantonale e federale scenderebbe dalla media attuale del 22 per cento al 16. La Confederazione è però disposta ad assumersi almeno la metà degli oneri provocati nei primi anni della riforma. Il Consiglio federale calcola che gli oneri globali per la Confederazione potrebbero raggiungere 1,7 miliardi di franchi, di cui 500 milioni dovuti a minori entrate e 1,2 miliardi per compensazioni da attribuire ai cantoni. Se queste cifre sono verosimili, si può stimare che l’onere globale della riforma potrebbe ammontare, per Confederazione, cantoni e comuni, a circa 3 miliardi di franchi all’anno. La minore

entrata più importante per i cantoni sarebbe dovuta alla prevista diminuzione delle aliquote cantonali sugli utili. Il calcolo è riferito alla situazione attuale. È però evidente che la Svizzera non potrà non sopprimere gli attuali privilegi per holdings e società di tipo speciale. Una soppressione senza compensazioni provocherebbe un sensibile aumento dell’onere fiscale per le imprese (tra l’8 e il 12 per cento) con tasse che salirebbero tra il 12 e il 24 per cento. Questo comporta il pericolo che grandi imprese possano lasciare la Svizzera, alla ricerca di lidi fiscali più accoglienti. Il pericolo è particolarmente elevato per il tipo di impresa (holding e società finanziaria) che è particolarmente mobile, cioè facile da spostare, rispetto a un’azienda con luogo di produzione in Svizzera. Senza contare che questo comporterebbe anche la partenza di personale generalmente ben rimunerato, nonché la scomparsa di una notevole parte di indotto economico. Se generalmente i cantoni concordano con la riforma, sul piano politico le critiche sono parecchie e tengono conto oltre che delle conseguenze sul piano interno (perdita di sovranità fiscale cantonale), anche di quelle sul piano esterno (per esempio moneta di scambio con l’iniziativa sull’immigrazione massiccia). Sta di fatto però che il prolungamento della fase di incertezza crea altrettanti pericoli.


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Politica e Economia Rubriche

In&outlet di Aldo Cazzullo Recuperare la fiducia non basta I numeri della prossima legge di stabilità sono del tutto insufficienti a rilanciare l’economia italiana. Vent’anni fa, durante la tempesta finanziaria del ’92, Giuliano Amato varava una finanziaria da 90 mila miliardi di lire, per risanare il bilancio pubblico, rassicurare i mercati, frenare il crollo della moneta. Ora l’esigenza è quella opposta: l’Italia e l’Europa hanno una moneta sin troppo forte. Si tratta di immettere liquidità nel sistema, per far scendere l’euro e far ripartire l’inflazione e soprattutto la crescita. Ma le cifre di cui si parla sono un decimo di quelle di cui ci sarebbe bisogno. Cosa significa annunciare un miliardo per la scuola, con centinaia di migliaia di precari in attesa di essere assunti e migliaia di edifici ai limiti dell’inagibilità? Un miliardo per i Comuni, quando moltissimi cantieri sono bloccati dalla mancanza di risorse? Un miliardo e mezzo per gli ammortizzatori sociali,

vale a dire poche centinaia di euro l’anno per ogni disoccupato? Renzi dice giustamente che la crisi italiana è anche una crisi di fiducia. E cita un dato oggettivo: l’Italia è il Paese con la maggior ricchezza pro capite al mondo (in altre classifiche è seconda dietro la Francia). Ma è un dato che non deve stupire. Molti italiani non pagano le tasse perché non credono nello Stato, e privatizzano la ricchezza che dovrebbe essere pubblica. Citare questi dati con i partner europei non aiuta, anzi indispone i tedeschi, che producono molta più ricchezza degli italiani ma ne hanno accumulata meno. Il problema è che l’Italia di oggi rischia di assomigliare alla Repubblica veneta del Settecento: un Paese dove si viveva bene, ma che non contava più nulla; perché la ricchezza non veniva più creata, ma estratta. La vecchia aristocrazia esangue si manteneva grazie al lavoro delle classi popolari, alla politica

dei matrimoni, alle rendite dei latifondi di terraferma o degli antichi patrimoni finanziari e immobiliari accumulati da mercanti e conquistatori. Recuperare la fiducia è importante. Ma non basta. Perché l’Italia ha accumulato un ritardo di infrastrutture, tecnologia, formazione. E ha smarrito quella disponibilità al sacrificio e quel coraggio che hanno segnato le generazioni precedenti. La riforma del mercato del lavoro, e l’abolizione dell’articolo 18, va collocata in questo quadro. Negli ultimi vent’anni c’è stato uno scambio non dichiarato tra imprenditori e lavoratori: basso salario in cambio di bassa produttività. Superare questo assetto significa assumere ognuno le proprie responsabilità. I lavoratori non avranno più il posto fisso (autentico miraggio per i giovani), e dovranno lavorare di più e meglio. Ma anche i tanti imprenditori che finora si sono accontentati della pace sociale,

di assumere i figli dei dipendenti che andavano in pensione, di promuovere il sindacalista per tenerlo buono, saranno costretti o almeno indotti a puntare sulla meritocrazia, l’innovazione, la ricerca, insomma la competitività. La minoranza del Pd non ha realizzato tutto questo. Si è semplicemente piegata all’imposizione di Renzi, che ha posto la fiducia sulla legge delega in tema di lavoro. Di fronte alla prospettiva delle elezioni anticipate, e quindi del proprio azzeramento, la sinistra interna ha ceduto, in cambio di qualche modesto cambiamento alla delega stessa. Al momento, di scissione non si parla più. È vero però che il renzismo presuppone un partito alla sinistra del Pd. Non che il premier voglia la frattura; anzi, è tendenzialmente bipartitista. Ma è nella sostanza un uomo di centro. È normale che gli ex comunisti, i movimentisti, i vendoliani, i nostalgici, gli esponenti

vicini alla Cgil non si ritrovino nel partito di Renzi, e pensino di riunificarsi alla sua sinistra. Forse è anche questo il motivo che frena l’ipotesi delle elezioni anticipate. Renzi non ha alcuna voglia di negoziare un’alleanza con una forza di sinistra radicale. Preferisce tenersi Alfano, che è un alleato docile, disposto a tutto pur di non tornare tra le braccia di Berlusconi. Il quale continua a vedere Renzi di buon occhio, e a ordinare all’impero mediatico di cui ancora dispone di trattare il premier con i guanti. Il giorno in cui Berlusconi decidesse di ritirare il tacito appoggio esterno al governo (Forza Italia ha deciso di non votare la fiducia solo dopo aver verificato che l’esecutivo non aveva bisogno dei suoi voti) allora Renzi sarà davvero costretto ad accelerare. E a verificare nelle urne se l’andamento stagnante dell’economia italiana non avrà logorato l’ampio consenso di cui ancora gode.

di partito, dai presidenti cantonali ai segretari delle sezioni locali degli stessi. La lotta tra i corrispondenti per conquistarsi un piccolo spazio per la propria notizia era intensa e, come ricorda Morresi, non andava certamente a favore della qualità di quanto veniva allora stampato sui nostri quotidiani. Concorrenziati da una radio e una televisione che diventavano, grazie anche al progresso tecnologico, sempre più professionali, da un lato, ma anche favoriti dall’aumento delle tirature e dalla gerarchizzazione dei titoli, finanziati da una pubblicità sempre in aumento, i maggiori quotidiani del cantone («Corriere del Ticino», «Giornale del Popolo», «Il Dovere») durante gli anni Sessanta dello scorso secolo, cominciarono ad assumere nuovi collaboratori. Chi poteva contare su un aumento delle pagine di pubblicità riuscì anche ad aumentare il numero delle pagine di testo. E i giornalisti seppero conquistarsi il loro contratto collettivo. Sempre in questo periodo si manifestarono, anche

nella stampa, grosse trasformazioni tecnologiche che fecero scomparire compositori, tipografi e correttori di bozze dalle tipografie e consentirono di moltiplicare la capacità di stampa delle rotative. Non c’è che dire: la qualità dei giornali e del giornalismo ticinese, durante il periodo esaminato nel primo volume sul giornalismo di Morresi, migliorarono di molto. Per strada si persero però le testate dei giornali di partito. Ma sembra di capire che quello di spoliticizzare il giornale fu un sacrificio che si doveva fare per ingraziarsi la pubblicità e tener testa alla concorrenza di radio e televisione. Chi ha vissuto, almeno in parte, il periodo analizzato leggerà il primo volume di questa storia del giornalismo della Svizzera italiana tutto d’un fiato. Ovviamente non sono solo i fatti e le persone che vi sono evocati a rendere il testo così avvincente: sono anche la grande capacità di scrivere di chi lo ha redatto e – come avrebbe precisato Tacito – la sua insostituibile qualità di testimone dei tempi presenti.

sere incantate dal dividere con tutta la famiglia un tozzo di pane e dall’attesa che le candele fossero consumate». Questo confronto suggerisce all’intervistatore una domanda più precisa: ma allora siamo inadatti al «non far niente», siamo incapaci di trarre benefici dal «tempo liberato» dalle moderne tecnologie? Nella sua risposta Hasler fa una sottile distinzione che mi ha molto colpito: mentre i nostri antenati erano felici di sopravvivere e si preoccupavano per l’Aldilà, per essere felici noi vogliamo avere il paradiso adesso: una vita perfetta, asettica, senza contraddizioni. Il lettore attento noterà che il pubblicista zurighese non fa critica, si limita a mettere in evidenza le contrastanti spinte che, quasi alimentandosi a vicenda, convivono in tutti noi: da una parte la frenesia e il turbinio delle nuove tecnologie, dall’altra la nostalgia verso i tempi lenti delle precedenti generazioni. Volendo trovare una critica dobbiamo ricorrere a Leon Wieseltier, capo del

settore cultura della rivista americana «The New Republic» e a un suo da noi già citato discorso ai neo-laureati di una università: «Tutti i dispositivi che ci portiamo in giro come se ne fossimo dipendenti stanno deturpando le nostre vite mentali (…) e le trasformano in una cultura di dati, in un culto dei dati, nel quale nessuna attività umana e nessuna espressione umana è immune dalla quantificazione (…) lasciandoci con nuove illusioni di chiarezza e nuove illusioni di controllo». Abbiamo così un’ulteriore prova che il rapporto con le nuove tecnologie continua a essere un conflitto aperto, difficile da arbitrare e assolutamente imprevedibile nelle sue future evoluzioni e implicazioni. L’auspicio che mi sento di allegare è che in questo contesto i nostri figli e nipoti non debbano limitarsi a «spaccare pietre» o anche solo a «guadagnarsi il pane», ma trovino il tempo per tendere, e sperare di partecipare, a «edificare una magnifica nuova cattedrale».

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Com’era la stampa in Ticino Terminata la scuola obbligatoria, Enrico Morresi entrò verso la metà degli anni Cinquanta dello scorso secolo nella redazione del Corriere del Ticino per iniziare una carriera di giornalista, abbastanza fuori del comune, che lo doveva portare, più tardi anche alla RSI nonché ai vertici delle organizzazioni della sua categoria. Valendosi dei suoi ricordi personali, di documenti raccolti pazientemente durante la sua lunga carriera, ma anche di documenti di archivio e di interviste, Morresi ha portato a termine, di recente, il primo di due volumi che intende dedicare all’evoluzione del giornalismo nella Svizzera italiana negli ultimi decenni (Giornalismo nella Svizzera italiana 1950-2000, Armando Dadò editore). In questo primo volume l’attenzione dell’autore si concentra sul periodo 1950-2000 che, come in altri settori della nostra economia e della nostra società, è stato anche per il giornalismo e i giornalisti un periodo di importanti trasformazioni. Cominciamo

dai mezzi. Morresi inizia a lavorare quando appare la televisione e quando alla radio comincia ad acquistare importanza non solo la diffusione, ma anche il commento delle notizie, magari con servizi e interviste realizzate in proprio da corrispondenti localizzati nei quattro angoli del globo. Nonostante questa nuova concorrenza nell’informazione e nel commento, nel periodo passato in rassegna in questa pubblicazione, la tiratura dei giornali ticinesi continua ad aumentare. Per l’autore di questa storia del giornalismo sembra che il fattore determinante, nello sviluppo delle tirature, sia stato la professionalizzazione della carriera di giornalista. Fino a metà anni Sessanta, infatti, nelle redazioni dei quotidiani nostrani – è bene ricordare che se ne contavano allora almeno sei – i giornalisti che vivevano della professione si contavano sulle dita di una mano. Non c’erano corrispondenti da Berna, non c’erano specialisti della cronaca politica cantonale, non c’erano corrispondenti

locali nelle quattro zone urbane del cantone, non c’erano, o quasi, giornalisti sportivi. Vi erano invece mille e più collaborazioni provvisorie, anche non sollecitate, che potevano andare dalla penna illustre del «Corriere della Sera» al maestro delle scuole professionali di Bellinzona oppure, nel caso dei giornali

I giornali in Ticino: una storia degna di essere raccontata. (CdT - Nicola Demaldi)

Zig-Zag di Ovidio Biffi Spaccare pietre e costruire cattedrali Dieci anni fa il giornalista Danny O’Brien coniava il termine «life hacking», uno tra i più curiosi neologismi scaturiti dalla Silicon Valley. Il «life hacking», spiega nella versione online l’Oxford Dictionary, è «una strategia o tecnica per gestire in modo più efficiente il proprio tempo e le attività quotidiane». Idea nobile, oltre che attraente, poiché finalizzata a consentire di fare le cose in modo più efficiente e avere così più tempo libero. Ma Evgeny Morozov, studioso di newmedia e docente alla Stanford University, ha smontato tutto, dimostrando che buona parte del tempo liberato delle nuove tecnologie lo si trascorre poi impegnati a sistemare, aggiornare o sostituire proprio gli strumenti e i programmi che avrebbero reso possibile… il «life hacking». Conclude lo studioso russo/americano: «Cosa c’è di più frustrante dell’usare la tecnologia per avere più tempo libero e poi impiegarlo per cercare di essere ancora più efficienti?».

Mi ha riportato a Morozov e al «life hacking» la lettura di una lunga intervista sul «Tages Anzeiger» in cui Ludwig Hasler, filosofo e pubblicista svizzero-tedesco, rievoca una leggenda medioevale, intrigante per quanto spiega, come pure per le domande che schiude. L’apologo ricordato da Hasler è incentrato sulle risposte di tre scalpellini, impegnati a rompere sassi, alla domanda su cosa stessero facendo. «Io spacco pietre», dice il primo. «Io mi guadagno il pane» risponde il secondo. «Io contribuisco a edificare una magnifica nuova cattedrale nella nostra città» è la risposta del terzo. A prima vista la leggenda non ha nulla a che vedere con il tempo libero evocato e tantomeno con le nuove tecnologie. Ma è lo stesso filosofo zurighese che dalle differenti visioni dei tre scalpellini approda ai giorni nostri, quindi alle nostre attività che usiamo per spaccare pietre, per guadagnare o per costruire cattedrali. Prendendo il sentiero più lungo, Hasler inizia pro-

ponendo un confronto: mentre oggi ci si preoccupa per lo stress moderno e si rimpiangono i tempi andati, solo due generazioni fa le preoccupazioni erano ben altre, se si tiene conto che agli inizi del secolo scorso l’uomo di 40 anni perdeva già i denti e entrava nella vecchiaia, mentre oggi ha davanti altri 40 anni di salute e vita. E non è tutto: oggi a disposizione ci sono anche un sacco di macchine e motori (dai treni agli aerei, dall’aspirapolvere a internet) che ci permettono di risparmiare tempo e energie in molteplici attività. Eppure, osserva Hasler, noi non sappiamo usare il tempo libero o vuoto che abbiamo conquistato: ce ne accorgiamo durante le attese negli aeroporti o nei noiosi pomeriggi o nelle lunghe sere della domenica. Riempiamo i tempi vuoti con televisione, internet, cellulari, ma al tempo stesso «continuiamo ad avere nostalgia dei romantici tempi lenti delle famiglie contadine di 200 anni fa, quando nel pomeriggio si faceva la siesta sdraiati in un capo di grano, e le


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Cultura e Spettacoli Bellezza imperfetta In mostra i corpi rivisitati nelle opere di Stéphane Zaech e di Fabian Vogler

Venezia assediata La città lagunare non fu risparmiata dai bombardamenti del primo conflitto mondiale, come rivela una serie di impressionanti immagini

Smashing Pumpkins È di recente uscita un cofanetto deluxe che non deluderà i fan di questa formazione statunitense

Il jazz come classica Un gruppo americano «risuona» Kind of Blue di Miles Davis: un’incisione che farà discutere pagina 41

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Scandaloso e realista Mostre «Autunno Courbet». Prima parte

alla Fondation Beyeler di Basilea Gianluigi Bellei In questi mesi possiamo ammirare due esposizioni concomitanti dedicate a Gustave Courbet denominate «Autunno Courbet» che affrontano, da una parte, il periodo rivoluzionario e postrealistico alla Fondation Beyeler di Basilea e, dall’altra, quello relativo agli avvenimenti susseguenti la Comune di Parigi del 1871 e l’esilio svizzero dell’artista al Musée Rath di Ginevra. Una bella occasione per chi si fosse persa l’imponente, e per certi versi esaustiva, retrospettiva al Grand Palais nel 2008 e quella dedicata alla Comune al Musée d’Orsay, sempre a Parigi, nel 2000 e curate da Laurence des Cars. Molti i punti di discussione e soprattutto ambivalenti i risultati. Per comodità suddividiamo le relative suggestioni nei rispettivi articoli che affrontano le singole mostre. Tenendo presente che in ogni caso non si tratta di esposizioni cronologiche ma, in un certo senso, tematiche e che i temi da affrontare non possono essere per forza di cose isolati e consequenziali. Da una parte, quindi, il Courbet scandaloso e dall’altra quello rivoluzionario. Due temi che si intrecciano, ma che possono per comodità essere trattati separatamente.

In diversi dipinti di Gustave Courbet si assiste a una sorta di femminilizzazione del paesaggio Iniziamo con la Fondation Beyeler. Courbet è un artista scandaloso per molti versi: perché il suo realismo rompe con la tradizione accademica e mette in primo piano i volti e i fatti della gente comune e dei poveri ma soprattutto perché mediante i suoi atteggiamenti si pone al di fuori del generale ossequio dei colleghi verso i potenti. Nel primo caso con Un enterrement à Ornans del 1849-50 desta scandalo per la rappresentazione della sepoltura di uno sconosciuto attorniato dai suoi concittadini, tra donne piangenti, becchini e preti indifferenti, nel secondo perché, per esempio, rifiuta nel 1870 la nomina a cavaliere della Legione d’onore. Nella sua lettera aperta del 23 giugno indirizzata al Ministro delle belle arti nelle vesti di Maurice Richard, Courbet scrive che «l’onore non è né in un titolo, né in un nastrino; è negli atti e nel movente degli atti. Il rispetto di sé stessi e delle proprie idee ne costituisce la parte fondamentale… Ho cinquant’anni –

termina – e sono sempre vissuto libero; lasciate che chiuda libero la mia esistenza; quando sarò morto si dovrà dire di me: ecco uno che non ha appartenuto a nessuna scuola, a nessuna chiesa, a nessuna istituzione, a nessuna accademia». Rifiuta gli onori, quindi, ma non le situazioni controverse e sicuramente perdenti come quando nel 1871 accetta la nomina di presidente della Commissione artistica della Comune. Certo l’uomo era particolarmente borioso e pieno di sé. Ludovic Halévy, nel suo Trois dîners avec Gambetta pubblicato nel 1929, riferisce che il 28 maggio 1882 durante una cena Léon Gambetta rammenta che di fronte all’Origine du monde Courbet abbia esclamato: «Lo trovate bello e avete ragione. Sì, è bello anzi bellissimo. E pensate, Tiziano, Veronese, il loro Raffaello, io stesso, non abbiamo mai fatto nulla di più bello». Ma a parte questo i suoi lavori trasgressivi non si contano. Nel 1863 dipinge Le retour de la conference – acquistata da un cattolico fervente per distruggerlo – che rappresenta una comitiva di ecclesiastici mezzi ubriachi che camminano senza meta; l’anno dopo è la volta di Vénus et Psyché, opera scomparsa, rifiutata dal Salon per indecenza e nel 1866 de L’Origine du monde, commissionatagli dal diplomatico turco-egiziano Khalil-Bey. Proprio quest’ultimo dipinto è al centro dell’esposizione alla Fondation Beyeler di Basilea. Il dipinto, accettato nel 1995 come dazione in pagamento dei diritti di successione dai Musée nationaux, è esposto al Musée d’Orsay dopo essere stato tenuto nascosto fino ad allora dai vari proprietari: ultimo Jacques Lacan. Da allora è uscito poche volte dalla Francia: due volte a New York nel 1988 e nel 2008 e poche altre a Ornans e a Parigi. La tela di circa 40x50 centimetri rappresenta l’organo genitale femminile posto al centro delle due diagonali del rettangolo. Un’opera rivoluzionaria per la composizione e il realismo che la caratterizzano. Ritenuta simbolo di disordine politico e di oscenità il quadro rappresenta il «punto estremo della conquista realista». Courbet, oramai è assodato, assieme a modelle in carne ed ossa, rare per la verità, si ispirava a soggetti fotografici. Nel 1855 la Prefettura di polizia di Parigi aveva redatto un rapporto sulla produzione di fotografie oscene. Lo studio del fotografo Auguste Belloc era stato perquisito e ve ne erano state trovate più di quattromila. Alcune di queste, rappresentanti solamente gli organi genitali femminili, erano presenti nell’atelier di Courbet, come in quelli di molti altri artisti. La mostra parigina del 2008

Di Gustave Courbet, La source (1868). (Musée d’Orsay)

le ha riproposte in una sala buia alla quale era vietato l’accesso ai minori. Quasi come introduzione a L’Origine du monde a Basilea troviamo tre nudi femminili degli anni 1866-1868. Si tratta de La Jeune Baigneuse, Les Trois Baigneuses e La Source. Qui appare più chiaro il rapporto fra elemento femminile e natura inteso come un meraviglioso intreccio fra acqua, vegetazione e, appunto, la donna. Si tratta di un mondo incantato nel quale bellezza e realismo si fondono portando lo spettatore in un sogno dove si uniscono realtà e ideale, fra calma e mitologia. Ma è nella Jeune Baigneuse che il corpo formoso e sensuale della bagnante si appresta ad entrare con cautela nell’acqua limpida che appena più in là si mostra come una macchia scura e profonda. Questo ci porta ai dipinti delle grotte come la Source de la Loue del 1863 o La Grotte del 1874 o le Puits-Noir del 1860, dove l’impenetrabile squarcio nero nel-

la roccia richiama per allusione forse il sesso femminile; non a caso le grotte del Jura sono chiamate dalla popolazione locale «les dames». La femminilizzazione del paesaggio diventa così metafora dell’universo. Qui siamo già lontani dal primo realismo dei grandi manifesti quali Un enterrement à Ornans del 1850 e L’Atelier du peintre del 1855 ed entriamo direttamente in un universo moderno pieno di rigoglioso turgore. Si è già consumato il distacco con Champfleury, il primo compagno di viaggio che lo ha sostenuto nella battaglia fra realismo e democrazia, avvenuto nel 1865 dopo il ritratto postumo che Courbet dedica all’amico Joseph Proudhon il quale sicuramente anche da morto lo aiuterà nell’ultima avventura della Comune. La mostra basilese si apre con una serie di autoritratti fra i quali spicca La Rencontre del 1854 dove l’artista illustra il primo incontro con il suo mece-

nate Alfred Bruyas a Montpellier. Bruyas, raffigurato più in piccolo, si toglie il cappello in segno di deferenza, mentre Courbet, giovane e insolente, si dipinge come un vagabondo indipendente che porta sulle spalle uno zaino pieno di oggetti che servono a difendere la sua missione: il realismo. Dopo una nutrita serie di paesaggi l’ultima sala ci propone Le bord de mer à Palavas nel quale la silhouette di un minuscolo Courbet saluta con il cappello in mano la distesa infinita di mare e cielo in segno di ammirazione panteista verso la natura. Dove e quando

Gustave Courbet, a cura di Ulf Küster Fondation Beyeler, Basilea Ore 10.00-18.00, mercoledì 10-20 Fino al 18 gennaio Catalogo Hatje Cantz Verlag, tedesco o inglese con un tiré à part in francese, CHF 62.50


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Cultura e Spettacoli

Tre artisti per un solo ritratto

Pubblicazioni Maggia nel mirino di Giosanna Crivelli, Roberto Buzzini e Roberto Pellegrini

Alice nel paese delle meraviglie Filmselezione Alice

Giovanni Medolago Dieci anni orsono sette villaggi della Bassa Vallemaggia decisero una fusione che diede vita al nuovo Comune di Maggia. Per sottolineare la ricorrenza, le autorità hanno rinunciato a festeggiamenti effimeri, puntando bensì su una tripla iniziativa socio-culturale (sostenuta, con altri sponsor, anche da Migros Ticino) che lasciasse un segno, tangibile anche nei prossimi decenni. Hanno così invitato tre fotografi ticinesi (Giosanna Crivelli, Roberto Buzzini e Roberto Pellegrini) a riflettere sul tema «Maggia, paesaggi di vita quotidiana». Una scelta oculata che ha permesso di evitare qualsiasi doppione, poiché i «nostri» tre professionisti mettono a frutto il loro talento in ambiti specifici quanto diversi.

Un volume realizzato per i dieci anni dalla fusione dei sette comuni della bassa valle Dopo mesi d’impegno, il loro lavoro (prima iniziativa) è sfociato nella mostra allestita al Centro Scolastico di Aurigeno, dove sono pure proposte le immagini scattate da giovani e no che hanno partecipato al concorso lanciato, con lo stesso tema, alla popolazione locale. E come sempre accade in questi casi, le foto dei fotografi della domenica denotano un’accattivante spontaneità, affiancata da inventiva e ironia. La terza iniziativa è stata quella di realizzare un libro. Non il semplice catalogo della mostra, poiché – dopo la classica introduzione del sindaco Aaron Piezzi – vi si trovano gli esaustivi saggi di Dalmazio Ambrosioni e Bruno Donati. Il primo riflette sul tema del paesaggio, nella fotografia ma non solo; mentre il secondo (già curatore del Museo Etnografico di Vallemaggia) scrive delle trasformazioni registrate nella re-

e Alba Rohrbacher, unite in un film autobiografico

Nostalgia, Someo. (Roberto Buzzini)

Fabio Fumagalli *** Le meraviglie, di Alice Rohrwacher, con Maria Alexandra

Lungu, Alba Rohrwacher, Sam Louwyck, Monica Bellucci, Sabine Timoteo (Italia 2014)

gione negli ultimi secoli. Da notare che, pensando a turisti e vacanzieri, il volume è stato tradotto in tedesco. Ma torniamo alla mostra. Giosanna Crivelli, si può dire, giocava in casa: ben conosciamo la sua passione per le escursioni e la montagna, nonché i suoi lavori sul territorio, inteso come natura che deve fare i conti con l’intervento (sovente purtroppo scellerato) dell’uomo. Ha lavorato nella brutta stagione, quell’inverno che, spiega, «svela le pieghe della terra, finemente disegnata dalla neve, e che rivela l’essenza di un luogo». Giosanna affianca non solo il b&n al colore, bensì pure l’asprezza dei pendii rocciosi alla dolcezza del lento scorrere del fiume. Ecco poi file di alberi spogli, montagne che incombono sui villaggi, terreni aridi e sassosi: tutto ciò sembra un omaggio al duro «quotidiano» delle generazioni che ci hanno preceduto. Se la natura è assoluta protagonista del lavoro di Giosanna, Roberto Buzzini ha viceversa puntato tutto sulla figura umana, superando «l’inquietudine di

non poter presentare, in sole 25 immagini, l’immediatezza e l’onestà degli attori, disposti a esibirsi scoperti e naturali nel loro operare». Sono immagini davvero «al naturale», scattate con l’intento di avvicinarsi con discrezione agli attori: panettieri, artigiani, apicoltori, la modista, la cameriera, ecc. Non solo lavoro, però: e qui spicca l’immagine dei bambini, bardatissimi per affrontare il freddo, impegnati nel tradizionale corteo «Bandii sgianée» (scacciare gennaio). Infine, Roberto Pellegrini, il quale ancora una volta ha brillantemente rivolto il proprio interesse verso quegli «spazi interni» che caratterizzano la sua ricerca artistica. Un paesaggio domestico, dunque: «È stato affascinante – confessa – scoprire un microcosmo in uno spazio personale, che ho potuto ritrarre con la persona che l’ha creato, dietro ogni porta che mi è stata aperta». Solo un soggetto (Pierre Casé!) riesce a sfuggire a quel camera look particolarmente amato da Pellegrini. Gli altri, col loro sguardo fisso nell’obiettivo ri-

velano orgoglio per collezioni alquanto particolari; compiacimento per la ricca dimora (o forse per l’intera esistenza); disincanto per lo scorrere del tempo e, ma forse è solo una nostra impressione, disappunto per l’intrusione del fotografo. Spicca chi ha una viva attrazione per i colori sgargianti e c’è pure un ritratto nei ritratti: lo scopriamo nel salotto della pittrice/gallerista Eva Lautenbach, la quale – tra centinaia di libri e decine di quadri – tiene in bella mostra una foto, quasi una mise en abîme. Informazioni

Maggia, Paesaggi di vita quotidiana, Fotografie di Giosanna Crivelli, Roberto Buzzini, Roberto Pellegrini In collaborazione con

Danza, teatro, performance: labili confini In scena Quello appena iniziato è un autunno ricco di spettacoli stimolanti

e spesso fuori dai canoni tradizionali Giorgio Thoeni In una settimana la nostra regione è stata attraversata da un vento di creatività. Dapprima l’importante e atteso debutto di Bianco su Bianco di Daniele Finzi Pasca, di cui abbiamo riferito su queste pagine. Poi è stata la volta della quinta edizione del Performa Festival (1-5 ottobre) curato da Filippo Armati. Infine a Locarno abbiamo assistito a un lavoro di Master in Teatro di Movimento. La nostra percezione, con l’entusiasmo ormai alle stelle, si è dunque avventurata in una serie di visite teatrali – ahinoi, limitata nel numero – come una sorta di nutrimento dell’anima. Cominciamo da Performa. La rassegna, sostenuta dal Percento culturale di Migros Ticino, s’inserisce in alcune proposte del programma ViaVai (contrabbando culturale fra Lombardia e Ticino patrocinato da Pro Helvetia) e sta crescendo. Sia chiaro, non sempre si fa a pugni per assistere agli spettacoli del festival che si muove fra Lugano, Bellinzona e Losone. È però ammirevole l’impegno degli organizzatori nel cercare di alzare sempre più l’asticella del tono e delle novità artistiche portando al pubblico del territorio «performance» alle quali altrimenti non avrebbero accesso. E dove abbiamo visto finalmente

giovani spettatori. Due sono gli appuntamenti di cui riferiamo. Il primo è con Ivo Dimchev (nella foto) allo Studio Foce di Lugano. Bulgaro trentottenne, Dimchev è un coreografo e performer pluripremiato, un «freelance» eclettico e originale che unisce arte, danza, teatro, musica, pittura e fotografia. A Lugano ha presentato P Project, un’azione scenica in cui si presenta truccato al femminile e appena coperto da un perizoma. Pacatamente coinvolge il pubblico nel creare frasi poetiche battute al computer da due volontari che lui poi legge e canta improvvisando alle tastiere mentre al centro della scena altri volontari (tutti reclutati sul momento e remunerati) si producono simulando chi il tip-tap, chi un bacio, chi un accoppiamento in nudelook. Al termine la platea viene invitata a

criticare la performance. Anche in quel caso è lo stesso danaro a circolare, con la differenza che il pubblico decide quanto apprezzare. Una formula interessante e decisamente originale. Un altro registro performativo e interattivo lo si è avuto con Un acte sérieux di Nicole Seiler. La danzatrice e coreografa romanda di origini zurighesi uscita dalla Scuola di Teatro Dimitri è ormai una delle esponenti più autorevoli della danza contemporanea svizzera e che si muove sul fronte della multimedialità. Con il suo «atto serio», la Seiler s’interroga dapprima sul significato della danza e sull’incapacità delle parole di poterla descrivere. L’azione si è svolta nella deliziosa sala parrocchiale della chiesa di S. Biagio a Bellinzona (poi replicata a Verscio) e ha visto in scena la brava Manuela

Bernasconi con Jonas Fürrer proiettato su uno schermo da una videocamera trasmessa via Skype: un divertente pas de deux a distanza in cui i danzatori devono lasciarsi guidare nei movimenti dalle parole di alcuni spettatori. Un linguaggio di movimenti articolati, dunque, la cui somma produce una coreografica finale eseguita sulle note di Dueling Banjos. Divertente e molto intrigante. La nostra settimana si è conclusa con Matrioska, un progetto di «Master Of Arts in Physical Theater», in linea con il sapore artistico della settimana. Autrice e protagonista di quanto abbiamo visto al Rivellino di Locarno è Raissa Avilés, giovane cantante e attrice ticinese di origine messicana formatasi a Barcellona che, con questo lavoro, conclude un percorso formativo superiore nelle arti sceniche. A differenza di una classica «performance», come suggerisce il titolo la Matrioska di Raissa si apre a più interpretazioni: c’è il canto sacro legato all’iconografica sacra da cui l’artista si stacca drammaturgicamente, c’è l’immoralità di un mondo corrotto da suoni spersonalizzati dove si annidano animalità, ci sono gli istinti violenti che cedono il passo a desideri di pace. Un percorso appassionato sul quale l’artista avrà ancora modo di riflettere per fare una scelta di campo: fra danza, teatro e performance.

Il titolo del secondo film di Alice Rohrwacher si presta a tanti giochi di parole, l’omonimia della regista con la mitica protagonista del celebre romanzo di Lewis Carroll essendo forse stata la prima, delicata tentazione nella genesi di un’opera dalle molte connotazioni autobiografiche. Anche se, figlia di un padre tedesco addetto all’apicoltura e cresciuta in una masseria di campagna simile a quella del film l’autrice, come sempre accade in questi casi, ovviamente lo nega. Questa non è però che la prima coincidenza fra le tante di un film che vive innanzitutto come atto di fede in quel paese delle meraviglie che costituisce per ognuno di noi il passaggio dall’infanzia all’adolescenza. È l’universo di questa storia di Gelsomina e delle sue tre sorelle. Di un loro padre, apicoltore scorbutico ma determinato nell’imporre le proprie intuizioni, che tenterà disperatamente di proteggerle. Confinandole in uno spazio ancora agreste, duro e faticoso, ma bucolico e incantato; anche se assediato fino alla disgregazione che indoviniamo vicina da tutto quanto incombe ormai dall’esterno, speculazione, urbanizzazione, fine-civiltà, burocrazia, globalizzazione. Ma da altre meraviglie, millantate e quindi ancora più subdole, la famiglia e l’inquieta Gelsomina andrebbero protette. Come quelle improvvisamente promesse dalla trasmissione televisiva a premi che sbarca nei paraggi; con le sue riprese su sfondo di cartapesta, il miraggio dei soldi, e l’illusione di una fuga in un’Italia intitolata come il telequiz Il Paese delle Meraviglie. Raccontato così, il film parrebbe costruito su delle tesi non proprio inedite. Ma, una volta ancora, è il meraviglioso a esaltare Alice e la sorella Alba: regista la prima, attrice affermata la seconda, qui nel ruolo soffuso di una mamma disincantata. E uno degli incanti di Le meraviglie nasce allora proprio dall’armonia tutta istintiva di questo incontro fra le due sorelle: dalla straordinaria semplicità, la naturalezza quasi da filmino in famiglia, la facoltà mai costruita nel cogliere la verità dei personaggi e delle situazioni da parte della visione di Alice e del muoversi di Alba. Lo sguardo di Alice, l’interpretazione di Alba e della giovane rivelazione Maria Alexandra Lungu s’incollano perfettamente alla realtà, colgono l’autenticità delle cose non dette: ma si impreziosiscono ulteriormente quando se ne allontanano. La cronaca così puntigliosa da apparire banalmente naturalista di un’estate campagnola si affina all’improvviso rifugiandosi nel fantastico. Allora le api sbucano fra le labbra delle ragazzo, un cammello è portato in dono: la straordinaria freschezza con la quale sono colti i rapporti fra i protagonisti diventano un viaggio più allusivo, uno specchio di intimità più segrete. Nel suo continuo rinvio fra realtà e fantasia, non è che tutto scorra liscio. Il film talvolta forza un po’ la mano, come in quella figura di padre padrone da in definitiva amare, che l’attore fiammingo Sam Louwyck restituisce talvolta con un impeto così truce da apparire caricaturale. Ma il cinema nasce dalla qualità di uno sguardo; e quello della poco più che trentenne Alice Rohrwacher è fatto per continuare a incantare.


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Cultura e Spettacoli

Canone inverso

Mostre La bellezza imperfetta nelle opere di Stéphane Zaech e di Fabian Vogler

Alessia Brughera C’erano una volta, nell’arte, la bellezza e la perfezione. Quelle classiche, quelle cristallizzate nelle impeccabili proporzioni di corpi armoniosi dalle pose aggraziate subordinati a rigidi canoni di simmetrie ed equilibri. Ma è da molto tempo, ormai, che le cose sono cambiate. Quei valori che in passato sembravano intramontabili sono stati lentamente abbandonati perché non erano più in grado di rispecchiare la complessità della realtà circostante. Fin dagli albori, infatti, l’uomo ha cercato le forme e le rispondenze ideali con cui rappresentare sé stesso, e il modo di ritrarre la figura umana è diventato sempre più un indicatore esemplare del sentire comune e dell’indole della società. A partire dalla sofferta analisi novecentesca dell’identità personale, la riproduzione del corpo si è fatta provocatoria e ambigua. I parametri di bellezza sono stati riconsiderati e riadattati ogni volta al contesto contingente. Il corpo umano nell’arte è stato così scomposto, distorto, imbruttito, ostentato, dissolto, persino maltrattato per generare ripugnanza e fastidio, diventando l’emblema delle inquietudini dell’individuo. Il difforme e il deforme sembrano essere così gli attuali canoni applicati all’immagine umana. Per alcuni artisti contemporanei, però, questa prassi convive con l’esigenza di contaminare

Vogler plasma le sue sculture con l’argilla e con il gesso per poi immergerle nel bronzo e nell’acciaio inox. Di recente ha incominciato anche a sperimentare alcuni materiali quali palloni gonfiabili, pneumatici di auto o gomme di biciclette utilizzandoli come armatura interna delle opere. Crea così i suoi Idoli, le sue Veneri, i suoi Titani dalle forme arrotondate sottoposte a frammentazioni, alterazioni e danneggiamenti. Sospesi tra austero primitivismo e ironica modernità, i lavori di Vogler esprimono una visione della bellezza strettamente legata a un’idea archetipica del corpo umano. Una bellezza che ne preserva l’autenticità primordiale, ma che è al contempo protesa verso la ricerca di nuovi strumenti per rappresentare l’incorreggibile imperfezione dell’uomo.

le proprie opere con riferimenti alle epoche trascorse e ai maestri del passato. Ne nascono inedite visioni in cui i nuovi criteri espressivi si fondono con suggestioni antiche. Anomale bellezze

Corpi alla El Greco, abiti alla Velázquez e profili picassiani caratterizzano le tele dell’artista svizzero Sthéphane Zaech, che ama prelevare modelli dalla storia dell’arte per sovvertirli e sconvolgerli creando rappresentazioni paradossali. I suoi dipinti sono complicate scenografie popolate di soggetti bizzarri e malformati, appositamente scelti per imporci uno spettacolo disorientante. Nello spazio della tela l’artista concentra molteplici luoghi e momenti storici: passato e presente, vecchia Europa e Nuovo Mondo vanno insolitamente a braccetto originando scenari contraddittori in cui trovano posto elementi inattesi che scompigliano la linearità temporale e partecipano alla creazione di uno strano mondo che spiazza l’osservatore. Ecco allora che individui in abiti rinascimentali o barocchi si mescolano ad altri personaggi vestiti con succinti indumenti contemporanei; corsetti e pizzi inamidati si mischiano a jeans e giacchette in pelle. È soprattutto la figura femminile a essere sottoposta a un’illogica anatomia che la rende deforme: gambe, occhi e braccia si moltiplicano, il busto si contorce, gli arti si ingarbugliano tra loro. E a fare da cornice è una natura esotica lussureggiante che contribuisce ancor

Afflux di Stéphane Zaech. (Courtesy Katz Contemporary Zürich) Dove e quando

più a creare un universo pittorico spettacolare e incongruente dall’atmosfera un po’ crepuscolare, intriso però di libertà e umorismo. Le composizioni di Zaech rivelano le contraddizioni di una realtà divisa tra conformismo e volontà di evasione, di una società in cui l’artista non rinuncia tuttavia a cercare una nuova bellezza seppur nella discordanza e nella complessità. Arcaiche imperfezioni

Alla ricerca di un’immagine dell’uomo al passo coi tempi è anche l’artista tedesco Fabian Vogler, che per i suoi lavori trae ispirazione dall’epoca preistorica,

dal mondo egizio, dalla mitologia greca, dall’arte delle civiltà precolombiane così come dal Rinascimento e dal Barocco, per dare vita a sculture in cui gli elementi essenziali sono le forme del corpo umano. Queste vengono esagerate, ingrossate, dilatate (seppur nelle dimensioni generali piuttosto ridotte delle opere) fino a diventare delle «super-forme», come le definisce l’artista stesso, a richiamare da un lato una sorta di arcaismo perduto, quello delle statuette primitive dalle fattezze prosperose, e a creare dall’altro un nuovo linguaggio in cui la sproporzione di volume tra le parti diventa espressione dei difetti dell’uomo.

Stéphane Zaech. Bellezza e decostruzione. MACT/CACT Arte Contemporanea Ticino, Bellinzona. Fino al 9 novembre 2014. Orari: venerdì, sabato e domenica dalle 14:00 alle 18:00. www.cacticino.net. Fabian Vogler. Perfezione imperfetta. Galleria Arté al Lago del Grand Hotel di Villa Castagnola, Lugano Cassarate. Fino al 22 novembre 2014. Orari: la visita alla mostra è possibile dal martedì al sabato durante l’orario di apertura del Ristorante Galleria Arté al Lago oppure su appuntamento. www.villacastagnola.com/galleria_arte Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Laguna sotto assedio Mostre Anche Venezia nel corso della Prima guerra mondiale si trovò costretta a una drammatica difesa

della popolazione e del patrimonio mondiale rappresentato dalla città stessa Piero Zanotto La casa veneziana, di novecentesca architettura neogotica, alla Giudecca chiamata dei Tre Oci guarda (è proprio il caso di dirlo: oci in dialetto significa occhi, e si tratta di grandi finestre ogivali cui è legata una storia di affezione famigliare) il largo canale che divide l’isola dalle Zattere allungandosi sul Bacino di San Marco fino al Lido. Ospita nelle sue sale di recente razionale restauro due mostre fotografiche di indubbio significato emotivo assieme a quello storico-evocativo. Ovviamente importantissimo. Quella allestita dal piano stradale al primo piano da Claudio Franzini, che ne è il curatore, si intitola Venezia si difende 1915-1918 ed è progetto d’intesa tra la Fondazione di Venezia e la Fondazione Musei Civici di Venezia. La sua chiave di lettura può trovarsi nella frase per essa coniata «Il dovere della memoria».

Venezia fu l’obiettivo di 42 incursioni durante le quali sulla città furono scaricate in tutto 1029 bombe Racconta attraverso 350 fotografie originali in stampe alla gelatina provenienti dall’Archivio Storico dei citati Musei Civici, in tre capitoli distinti ma cuciti con lo stesso filo (Venezia si difende, Vita cittadina, Cerimonie e celebrazioni) la drammatica realtà vissuta dalla città lagunare nei quattro anni del primo conflitto mondiale. In un secolo, il Novecento appunto, che aveva manifestata tutta la fragilità della millenaria, «dominante» Repubblica Serenissima impegnata in una strategia militare marittima per proteggere i territori adriatici al di là del Mediterraneo e quindi i suoi vitali commerci: evento simbolico il crollo improvviso nel 1902 del Campanile di San Marco, detto con espressione popolare «el paròn de casa». Poi riedificato con sollecitazione collettiva, com’era e dov’era. La guerra imposta dal governo

Venezia, soldati di vedetta su un’altana , stampa alla gelatina, 1915-1918. (© Fondazione Musei Civici di Venezia)

italiano col nemico oltre frontiera austro-ungarico trovò Venezia del tutto impreparata. Disorientata dovendo essa, per secoli solidamente adusa alle battaglie sul mare, guardarsi dagli attacchi aerei. Il primo brusco risveglio avvenne all’alba del 24 maggio 1915. Furono nel totale 42 incursioni che vi scaricarono 1029 bombe (300 solo nella notte tra il 26 e il 27 febbraio 1918) con ingentissimi danni a edifici, e si cita il bombardamento destinato alla stazione ferroviaria che colpì la vicina chiesa degli Scalzi con la irrimediabile distruzione del soffitto e quindi dell’affresco opera di Giambattista Tiepolo. Si contarono 52 vittime e 84 feriti tra la popolazione. La mostra viene appunto come ricordo depurato dalla retorica a cento anni dall’inizio del conflitto, con la primaria intenzione di non disperderne la prospettiva storiografica assieme a quella sedimentata nella memoria collettiva. Ed è emozione intensissima vedere, in una delle quattro sezioni che virtualmente segnano il percorso espositivo, le ferite inferte dai bombardamenti al tessuto urbano, senza riguardo per il patrimonio artistico

monumentale. Macerie alla Riva del Ferro a Rialto, al Cotonificio a Santa Marta poco distante dal gasometro, alla zona della Tana in area Arsenale, in Campo dei Mori, presso l’Ospedale Civile ai Ss. Giovanni e Paolo, al Palazzo Marcello, alla chiesa Santa Maria Formosa, in Calle della Regina. E ancora in altri siti: una cadde, per fortuna senza danni, in piazza San Marco, vicinissima alla Basilica. Non fu risparmiato nessuno dei «sestieri» che compongono Venezia insieme storica e «minore». Quasi un accanimento: l’Austria fino al 1866, quindi soltanto 49 anni prima, aveva avuta la città in... donazione dalla Francia di Napoleone, l’aveva dominata con pugno d’acciaio, costruendovi però opere importanti come il ponte ferroviario translagunare che la unì alla terraferma, e i due ponti a cavallo del Canal Grande, degli Scalzi e dell’Accademia. V’è da dire, come ricorda nell’accurato bel catalogo Camillo Tonini, che «una mal riposta fiducia che mai alcuno avrebbe osato violare militarmente, avevano convinto gli alti comandi italiani a scegliere proprio la città lagunare come essenziale perno logistico e

strategico sul quale contare per i prossimi eventuali conflitti». In altre parole al suo interno, vedi l’Arsenale e fornite caserme, s’era provveduto a convogliare la fabbricazione e il deposito di armi e ordigni offensivi. Non vi sono però in mostra immagini di impegno bellico. In ampie sequenze si ha la documentazione di come si provvide a «proteggere» dagli attacchi aerei la preziosa antica monumentalità cittadina. Da varie prospettive, una sorta di «corazza» fatta di rinforzi in muratura, di tettoie e pareti di sacchi di sabbia, che cambiarono volto alla Basilica marciana, a Palazzo Ducale, alla Loggetta del Sansovino situata a ridosso del Campanile e altre analoghe iniziative. Vi è documentata la rimozione dei cavalli, ritornati dalla Francia dopo il «furto» napoleonico, dal fronte della Basilica e del monumento equestre al condottiero Bartolomeo Colleoni in campo Ss. Giovanni e Paolo e così la protezione esterna e interna della locale gotica chiesa. Da questa e da altri edifici religiosi e laici (San Rocco e Palazzo Ducale, per citare) la rimozione delle opere d’arte, e di pregiate «vere

da pozzo». Visioni di angosciosa e infine spettrale speranza che tutto questo potesse servire al futuro di Venezia col ritorno della normalità. Salvo in un paio di eccezioni, come l’aereo austriaco abbattuto nella laguna nord dalla contraerea permanente improvvisata, formata da fucilieri della Marina sulle «altane» della città, ovvero le caratteristiche terrazzine in legno appunto posizionate su molti tetti, punti permanenti inoltre di avvistamento, e i palloni frenanti che venivano innalzati per ostruire lo spazio aereo, tutto della mostra parla di una realtà stordita e ferita, con la popolazione disorientata dalla paura. Gli oscuramenti notturni. Gli esodi verso la terraferma ritenuta più sicura dai bombardamenti che si intensificarono dopo la disfatta italiana a Caporetto. Vengono in successione le celebrazioni ufficiali di fine conflitto. La posa della prima pietra di quello che sarebbe diventato al Lido il Tempio Votivo, sacrario delle salme dei soldati. Tra i due capitoli, un pannello con le riassuntive xilografie di Guido Cadorin dei momenti cruciali vissuti dalla antica città negli anni dell’assedio dal cielo. Infine cartoline e spiritose poesie e «stornelli» ironici apparsi nei giornali dell’epoca, di contenuto popolare irridente a Checco Beppe imperatore d’Austria, in schietto dialetto, di autori veneziani. Nel 1915 e 1916 cercavano di esorcizzare col sorriso l’angoscioso presente. Uno di quei poeti fu Eugenio Genero, nonno materno di Hugo Pratt che lo cita nel romanzo disegnato Fiaba di Venezia, facendo recitare mentalmente a Corto Maltese la poesia che inizia col verso Quando Venexia mia… Dove e quando

Venezia si difende 1915-1918. Venezia, Casa dei Tre Oci (da Piazzale Roma e dalla Ferrovia con le linee 4.1 motoscafo e 2 vaporetto). Orari: 10 – 18, chiuso il martedì. Tel. 0039/041/2412332. www.civitatrevenezie.it/gestione-mostre-musei-organizzazione/mostre/ venezia-si-difende-1915-1918. Fino all’8 dicembre 2014. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Pumpkins Deluxe Musica Malinconie rock di fine millennio: un curatissimo box set appena uscito permette di riscoprire

la grazia di Adore, album cruciale nella storia dei nichilisti Smashing Pumpkins Benedicta Froelich All’interno del variegato panorama delle giovani rock band «arrabbiate» emerse nei primi anni ’90, gli statunitensi Smashing Pumpkins occupano senz’altro un posto di riguardo. Il gruppo, nato nel 1988 a Chicago, sembrava destinato a uscire di scena con l’improvviso scioglimento del 2000, ma è oggi nuovamente attivo per volontà dell’unico membro originale rimasto, il leader e songwriter Billy Corgan; e, grazie soprattutto al successo planetario del monumentale doppio album Mellon Collie and the Infinite Sadness (1995), si può dire che la formazione abbia, a suo tempo, portato una vera ventata di freschezza in una scena musicale a tratti oppressa dalla dominazione della corrente grunge. In questo senso, l’album Adore (1998) merita particolare attenzione: non solo perché si tratta di un lavoro baciato da grande maturità e grazia stilistica ed espressiva, ma anche perché, a differenza di molta della musica prodotta in quegli anni, è «invecchiato» molto bene, dimostrandosi a tutt’oggi molto gradito anche dai giovanissimi. Forse è questo il motivo per il quale oggi, a sedici anni di distanza dalla sua pubblicazione, a questo capitolo della storia della band viene dedicato un lussuoso cofanetto celebrativo – un prodotto di solito riservato agli anniversari trentennali o quarantennali di album storici della musica rock, e stavolta destinato a chi desideri saperne di più sul

processo creativo dietro la creazione di Adore. L’Adore Super Deluxe Box Set, che beneficia di un packaging lussuoso e di un corposo libretto riccamente illustrato, contiene infatti ben sei CD più un DVD, e propone, oltre all’immancabile versione rimasterizzata dell’album originale, anche alcune gemme davvero preziose e inaspettate.

Nonostante siano trascorsi diversi anni, la musica degli Smashing Pumpkins sa ancora incantare In effetti, come solitamente accade solo con dischi registrati in tempi in cui la tecnologia delle sale di registrazione era assai differente, Billy Corgan ha voluto che il cofanetto contenesse addirittura due versioni tecnicamente diverse dell’album – la prima dal suono stereo, e la seconda nella più «datata» versione mono, riservata all’ampia schiera di cultori che prediligono un’esperienza di ascolto il più possibile fedele a quella di un tempo. E ci sono buoni motivi per essere tanto pignoli, poiché ciò che più colpisce l’ascoltatore di Adore (oggi, come all’epoca della sua uscita) è la notevole intensità interpretativa, nonché la capacità di Corgan e compagni di unire e amalgamare tra loro registri stilistici alquanto differenti – il che, in fondo, ha costituito anche la differenza

Billy Corgan, leader degli Smashing Pumpkins, durante un concerto al Paleo di Nyon nel 2013. (Keystone)

cruciale tra questo e molti altri album del periodo, facendo sì che un disco tanto struggente e malinconico potesse conservare a tutt’oggi un gusto così moderno e gradevole. Basta infatti riascoltarlo per rendersi conto della sua varietà, confrontando la tormentata, perfino commovente delicatezza di un brano d’apertura come To Sheila (dedicato alla madre di Corgan) con la rabbiosa e tagliente anima rock della successiva traccia Ava Adore, non a caso scelta come primo singolo tratto dal

disco. E poiché l’intero album è giocato proprio su tali contrasti, l’ascolto del box set non fa che confermare quanto tale contrapposizione fosse cruciale per la sua riuscita: il cofanetto offre infatti ben tre CD di outtakes, remix, b-sides e versioni demo, che permettono di seguire dall’interno la genesi creativa di Adore. Ecco quindi che ballate malinconiche come Pug e For Martha si alternano a brani dal respiro disilluso, quasi nichilista (Shame e la roca e lacrimosa Annie-Dog), evidenziando

come la scelta di una strumentazione prevalentemente elettronica abbia reso l’atmosfera generale del disco ancora più cupa e apocalittica del solito; tanto che viene da chiedersi se tale decisione sia stata frutto di un processo consapevole e mirato da parte della band, o piuttosto di un espediente dovuto alla necessità del momento (nello specifico, il licenziamento del batterista Jim Chamberlin, sostituito da una semplice drum machine). L’intrigante panoramica «dietro le quinte» offerta dal box set culmina infine nell’analisi del versante live del lavoro della band: il sesto CD contiene infatti un vero e proprio tripudio di rarità dal vivo, mentre il succoso DVD che completa il pacchetto offre nientemeno che il filmato integrale del concerto tenutosi al Fox Theater di Atlanta nel ’98 – un vero e proprio showcase dell’appena pubblicato Adore, in cui la band propose dal vivo l’intero album, traccia per traccia. E non c’è bisogno di essere degli esperti per rendersi conto che questo cofanetto, preparato con estrema cura e attenzione dallo stesso Billy Corgan, riesce alla perfezione nel difficile compito di rappresentare per il pubblico un efficace viaggio nel passato – ricordando agli ascoltatori vecchi e nuovi quale davvero fosse la magia di una band elusiva e sfuggente come la formazione degli Smashing Pumpkins, qui ritratti al loro meglio in un esempio di freschezza musicale dal quale molte giovani band attuali avrebbero davvero molto da imparare. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Dolan, tra eleganza ed effervescenza pop Cinema Lo straordinario percorso artistico del giovane regista canadese Xavier Dolan Muriel Del Don Quest’anno Xavier Dolan, giovane prodigio(so) regista canadese è riuscito ad emozionare persino il grande serraglio del festival di Cannes dimostrando, grazie alla sua ultima fatica Mommy, che il gran premio della critica non è certo esclusivamente riservato ai grandi nomi. Il Festival di Cannes è sicuramente un’arma a doppio taglio: se da un lato può essere un formidabile trampolino di lancio, dall’altro può facilmente trasformarsi in una trappola per chi osa avventurarvisi con troppa disinvoltura dimenticandosi che i passi falsi sono raramente perdonati. Ma Dolan ce l’ha fatta, passando il test a pieni voti e dimostrando di meritare ampiamente un posto nell’olimpo dei grandi. Xavier Dolan non è certo un regista facile da catalogare. Dietro a un viso apparentemente ingenuo si nasconde un personaggio eccentrico dal fascino un po’ «retrò» che sa dosare con maestria elementi propri di quello che potremmo chiamare cinema «underground» e un’enfasi narrativa che ricorda film epici della cinematografia mainstream quali Titanic (referenza rivendicata per il film Laurence Anyways). Il nostro regista canadese è un vero e proprio alieno capace di fluttuare sul panorama cinematografico mondiale con un candore pressoché adolescenziale, restando però sempre

cosciente della forza e del potere delle immagini. I suoi primi tre lungometraggi: J’ai tué ma mère, Les amours imaginaires e Laurence Anyways sono stati tutti presentati a Cannes, un onore dato a pochi che dimostra quanto i suoi film siano segnati fin dall’inizio da una volontà quasi ossessiva di superare i propri limiti, artistici ma anche e soprattutto personali. Malgrado la sua giovane età, Dolan possiede la capacità di «giudicare» il mondo degli adulti con una maturità rara, una lucidità che normalmente si acquista dopo lunghi anni di osservazioni «sociologiche».

A contraddistinguere il regista vi sono un candore un poco adolescenziale mescolato alla maturità Il suo tema prediletto è la differenza, l’emarginazione dovuta a un’ipotetica anomalia che spinge i suoi personaggi a lottare per trovare un posto in una società spesso ostile. Laurence Anyways è un esempio perfetto di questa tendenza, un film umanista che affronta il tema delicato della transessualità con coraggio e sensibilità. Laurence (un fantastico Melvil Poupaud) è una guerriera che affronta le avversità a testa alta, cosciente dello

Xavier Dolan con l’attrice Suzanne Clement a Cannes lo scorso maggio. (Keystone)

sguardo spesso indignato della gente che la circonda, ma allo stesso tempo orgogliosa della propria diversità. Dolan mette in scena un personaggio a fior di pelle che non ha paura di mostrare il suo corpo in mutazione, un corpo diverso dai canoni di bellezza imposti da una società che vuole compulsivamente tenere tutto sotto controllo. L’universo artistico di Dolan è estremamente personale, spesso impregnato del suo stesso vissuto, frutto di elementi autobiografici che si insinuano nella linea narrativa come rimandi ad un passato dal quale è difficile fuggire. Siamo di fronte a un tipico caso di psicanalisi attraverso l’arte, come se il cinema per-

mettesse al regista di domare i propri demoni portandolo, attraverso l’immagine, sul cammino della redenzione. Nei film di Dolan La finzione si mischia con la realtà in un valzer emotivo che tocca direttamente il cuore del pubblico. Forse è giustamente questa franchezza, questo coraggio di mettersi a nudo, a rendere i suoi film incredibilmente onesti e toccanti malgrado la stravaganza estetica che li caratterizza. Mommy mette in risalto i temi già trattati nel suo film di debutto (J’ai tué ma mère): l’antagonismo a tratti violento con la figura materna e la codipendenza maniacale e fusionale tra madre e figlio. Questi temi sono però affrontati in

Mummy con uno sguardo nuovo e rinvigorente che mette in evidenza un lato forse ancora nascosto della personalità del giovane regista canadese. A differenza di J’ai tué ma mère che (s)cade quasi in un risentimento angosciante, Mommy si distingue invece per la sua fresca ingenuità. Dolan è alla ricerca di una nuova via che gli permetta di comunicare con il suo pubblico in maniera più diretta, onesta ed emotiva. Con Mommy Dolan sembra aver volontariamente dimenticato tutto quello che l’ha cinematograficamente nutrito nel passato per trovare il suo proprio stile. Attraverso il suo ultimo film il regista riesce a mettere in scena i pericoli di una situazione psicologica ingarbugliata con una forza ed un’energia vitale dai toni pop estremamente rigeneranti. Uno degli elementi che rende questo «miracolo» possibile è la colonna sonora contraddistinta da musica pop acidulata, tratto distintivo che caratterizza tutti i suoi film. Un insieme musicale a tratti kitsch ma mai banale che sgorga direttamente dal suo bagaglio emotivo. Questo saper dosare cultura popolare e ricercatezza estetica ricorda registi del calibro di Christophe Honoré o Harmony Korine. Xavier Dolan possiede una sincerità rara e una freschezza ingenua che lo spingono ad affrontare la realtà di petto, senza paura del ridicolo e senza cadere nella facilità di un’ottica elitaria che osanna l’essenziale a scapito delle emozioni. Un vero guerriero dei tempi moderni. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 13 ottobre 2014 ¶ N. 42

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Cultura e Spettacoli

Davis come Bach

Jazz Un nuovo album che segna un evento storico: la riproposizione nota per nota

del celebre Kind of Blue, uno dei capolavori della musica neroamericana

Gran peccato tenere Borgen ai margini Visti in tivù La

Alessandro Zanoli

Concorsi

Prima o poi doveva succedere. E tutto si iscrive nella corrente della progressiva trasformazione del jazz in una forma di musica classica. La notizia è recentissima. Un gruppo di jazz moderno americano, Mostly Other People Do The Killing, conosciuto per la sua attitudine dissacratoria, ha lanciato quella che si può considerare la provocazione assoluta: la riproposizione nota per nota del più famoso album jazz di sempre, Kind of blue di Miles Davis. L’idea ha di per sé qualcosa di assolutamente inusitato, quasi di repellente. Kind of Blue è il monumento indiscusso del jazz moderno, la pagina iniziale della storia del jazz «modale», quello che si suona ancora oggi, che si insegna nelle scuole come Alfa e Omega del lessico jazzistico. Da un punto di vista tecnico infatti l’album è un vero manuale di jazz e propone varie forme di improvvisazione non più articolate soltanto sugli schemi dell’armonia occidentale ma aperte a modelli antichi, etnomusicali: i «modi» pentatonici. Da un punto di vista culturale Kind of Blue è importante anche per un altro motivo. Al momento della sua uscita, nel 1959, segnò una svolta, morbida ma radicale: un modo diverso di guardare alla storia della musica neroamericana. Permetteva al retaggio tutto sommato marginale e minoritario dello stile blues di entrare in scena nell’immaginario del jazz che, invece, in quegli anni sembrava fare di tutto per diventare bianco, per svincolarsi dallo stereotipo di «musica per neri». Kind of blue, in inglese può significare anche «modi di suonare il blues». La sua scaletta rappresenta un variato campionario di strutture armoniche stilizzate ispirate al blues, ma arricchite da un magistrale lavoro «interno» di esplorazione, elaborazione e interpretazione. La storia di quel disco ce la racconta in modo circostanziato e appassionante il bel libro di Ashley Kahn, The making of Kind of Blue (in italiano semplicemente Kind of Blue, Ed. Il Saggiatore, 2003). Il testo cerca in qualche modo di smentire, ridimensionare gli aneddoti che circondano quelle sessioni di registrazione, tenute nello studio della Columbia, il 2 marzo e il 22 aprile del 1959. Ma ci riesce solo in parte, perché la bufala dell’album registrato

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bella serie danese pluripremiata apre il ciclo RSI «Made in Europe»

Mostly Other People Do The Killing è una delle band più eccentriche del panorama attuale. Il loro ultimo disco si intitola Blue.

Antonella Rainoldi

in poche ore, con i temi scritti su pezzetti di carta, resiste. La caratteristica delle grandi opere d’arte forse è proprio quella di sapere costruire attorno a sé una mitologia apocrifa, più adatta della verità stessa a raccontare il miracolo della loro esistenza. Ma per tornare al disco Blue dei MOPDTK, uscito in un bellissimo cofanetto blu elettrico edito dalla Hot Cup, occorre dire che i suoi realizzatori sono perfettamente coscienti del sacrilegio. In modo un po’ provocatorio, inseriscono quale nota di copertina lo splendido racconto di J.L.Borges sulla riscrittura del Don Chisciotte ad opera del fantomatico Pierre Quenard. Il riferimento all’apparentemente assurdo lavoro di riscrivere un libro che esiste già, il ricorso alla vertigine borgesiana, qui sembra un po’ esagerato ma quantomeno dimostra che il gruppo, guidato dal trombettista Peter Evans e dal bassista Moppa Elliott possiede un retroterra culturale solido e uno spiccato senso dello humour. Un’operazione del genere infatti espone a una serie di interrogativi e di dubbi non trascurabili. I quali prendono corpo e si sostanziano decisamente passando alla fase d’ascolto del disco. Mentre si accinge all’opera, l’appassionato medio di jazz, che reputiamo abbia ascoltato Kind of Blue almeno 20 volte nel corso della sua vita, si chiederà: «Chissà se è proprio uguale...». Bastano 30 secondi di ascolto a con-

fermarlo. È proprio uguale. Se per un ulteriore test «al buio» lo si volesse fare ascoltare come musica di sottofondo ad un gruppo di amici jazzofili, dopo la celebre, misteriosa introduzione di pianoforte a So What tutti inizieranno, come da programma, a schioccare le dita in sincrono con il tema esposto dal basso. Il disco è così uguale all’originale da provocare disagio: sono riprodotte persino le incertezze nell’attacco a cui Davis andava soggetto ogni tanto. L’impressione suscitata dalla somiglianza potrebbe consigliare anche esperienze estreme, una follia a cui il critico musicale è tuttavia obbligato a sottoporsi per necessità deontologica. Attivando due lettori musicali contemporaneamente si può procedere a un ascolto simultaneo dei due dischi. Prevedendo un ritardo nella riproduzione di circa un secondo rispetto all’originale per l’album dei MOPDTK, in modo da distinguerlo dall’altro, il confronto diretto è perfettamente possibile (e forse inevitabile). L’esercizio schizofrenico è riservato a un pubblico di soli ascoltatori adulti, ma è folgorante. E conferma la cura maniacale impiegata. Persino quegli elementi dell’esecuzione jazz che sembrano più imprevedibili e discreti, come gli interventi sui piatti della batteria, o la scansione degli accordi sulla tastiera del pianoforte. Per non parlare del contrappunto del basso all’interno delle sezioni di improvvisazione.

Dal riconoscimento di questa assoluta somiglianza (che riguarda anche aspetti fonici come la ricostruzione del sound d’ambiente nella sala d’incisione e la distribuzione del suono nei canali sinistro e destro della stereofonia) l’appassionato ricava l’intuizione che si apra davanti a lui una nuova idea del jazz, un nuovo continente da esplorare: quello dell’esecuzione filologica. Una strada che non è certo del tutto originale nel mondo jazzistico ma che raramente, o mai, aveva raggiunto livelli di accanimento come questi. Indubbiamente Evans e Moppa, non si sa quanto consciamente, hanno esposto il repertorio del jazz a una sua totale «classicizzazione». D’ora in avanti sarà possibile eseguire Miles Davis come si esegue Bach, magari interpretarlo con strumenti d’epoca, ma suonandolo rigorosamente da partitura. E se già orchestre jazz attualmente in attività come la Duke Ellington Orchestra mantengono una rigorosa fedeltà alle scritture orchestrali conservando e privilegiando però il contributo creativo dei singoli solisti nelle parti improvvisate, Evans, Moppa e compagni arrivano ben oltre. Piegano alla rigorosa riproduzione ciò che, invece, è il frutto della libertà interpretativa, ciò che si ritiene comunemente il nucleo artistico e la vera marca di originalità del jazz. Il solco è tracciato. Attendiamo, timorosi, gli sviluppi.

Donne nella pittura Mostra Pinacoteca Züst, Rancate Fino all’11 gennaio 2015

Rinascimento lombardo Mostra Museo Cant. d’Arte, Lugano Fino all’11 gennaio 2015

In ricordo di Vinicio Salati Serata musicale e di poesia Auditorio RSI, Lugano Venerdì 31 ottobre, ore 20.30

Donne e rituali in epoca tardogotica e rinascimentale

Bramantino e le arti nella Lombardia francese

Un ticinese irrequieto

La mostra è un excursus interdisciplinare di storia, storia dell’arte e storia del costume, tra Tardo Medioevo e Rinascimento che suggella i tre eventi importanti nella vita di una donna della classe più agiata: il fidanzamento,il matrimonio e la nascita di un figlio.

In occasione del restauro del capolavoro di Bramantino appartenente alla Chiesa del Sasso di Locarno la tela sarà esposta insieme a numerosi quadri della National Gallery di Londra, della Galleria degli Uffizi di Firenze, del Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid e della Pinacoteca di Brera di Milano.

Per commemorare i vent’anni dalla scomparsa di Vinicio Salati (19081994) poeta, scrittore e giornalista.

Regolamento Migros Ticino offre ai lettori biglietti gratuiti per le manifestazioni sopra menzionate.

Massimo due biglietti per economia domestica. La partecipazione è riservata a chi non ha beneficiato di vincite in occasione di analoghe promozioni nel corso degli scorsi mesi.

Per aggiudicarsi i biglietti basta telefonare mercoledì 15 ottobre al numero sulla sinistra nell’orario indicato. Buona fortuna!

Biglietti in palio per gli eventi sostenuti dal Percento culturale di Migros Ticino

Con proiezioni, letture di testi, registrazioni audio ed esecuzioni musicali dal vivo di Rocco e Cosimo Filippini.

Difficile dire qualcosa di nuovo sulle serie televisive, più facile ripetersi. Per non peccare di monotonia, evidenziamo una sola cosa importante: in generale, la differenza di scrittura e di recitazione tra fiction americana e fiction europea è ancora grande, ma quest’ultima cresce, e molto. Ne abbiamo parlato poco più di una settimana fa a Londra, in un incontro tra produttori e giornalisti del settore. Ne riparleremo in questa sede, confortati dal successo di capolavori come Downton Abbey e Luther, Misfits e Sherlock, solo per citare quattro titoli di provenienza british. Per intanto, dopo molto tempo, abbiamo rivisto le prime puntate di Borgen, serie danese pluripremiata, già trasmessa il venerdì su RTS un nella seconda serata dedicata al ciclo

L’attrice Sidse Babett Knudsen.

«Made in Europe». Nella Svizzera romanda, Borgen è già arrivata alla sua terza stagione conclusa. In Ticino siamo fermi alla messa in onda della prima, ma non è mai troppo tardi per la scoperta della migliore fiction europea, quella più capace di superare i confini nazionali e affermarsi anche all’estero (RSI La 1, domenica, ore 22.35, due episodi da 60 minuti ciascuno). Borgen (letteralmente: «il castello», nome con cui è chiamato il Christiansborg Palace di Copenhagen, sede di Parlamento, governo e tribunale, unico edificio al mondo a ospitare tutti e tre i poteri supremi di una nazione) si apre con una citazione di Machiavelli: «Un principe non deve avere altro obiettivo, altro pensiero e altro fondamentale dovere se non quello di prepararsi alla guerra e a tutto ciò che essa comporta». Infatti la serie, ideata e scritta da Adam Price, racconta il potere politico, i negoziati e i compromessi, i ricatti e le macchinazioni, la lotta tra il bene e il male, il peccato dell’assuefazione ai mali esistenti, con tutte le conseguenze del caso. E lo fa attraverso la storia della politica carismatica Birgitte Nyborg (Sidse Babett Knudsen), assurta a primo ministro contro ogni previsione. Birgitte è la prima donna danese a ricoprire la più alta carica del Paese, e allo stesso tempo è moglie e madre. Borgen merita di essere onorata, ma la collocazione oraria del tutto infelice rischia di attrarre il solo pubblico dei tiratardi. Qualche volta bisogna avere il coraggio di mettere in campo un pensiero lungo.


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Cultura e Spettacoli Rubriche

In fin della fiera di Bruno Gambarotta Lontano dagli occhi (e dal cuore) A Torino i ricchi abitano nelle ville in collina, al di là del Po. Sono edifici arretrati rispetto alle strade che si inerpicano, nascosti dagli alberi del giardino. Un tempo quelle strade d’inverno diventavano impraticabili per la neve che veniva spazzata solo dopo aver liberato le vie del centro. Sono quasi trent’anni che non nevica più o, se succede, si tratta solo di un velo sottile che si scioglie in poche ore. Con la scusa della neve, gli abitanti della collina continuano a viaggiare su fuoristrada sempre più arroganti. A Torino c’è anche un quartiere signorile abitato dalle famiglie dei professionisti, dei manager, dei professori universitari. È conosciuto come «la Crocetta» e si aggrega attorno alla chiesa di Santa Maria delle Grazie. Gli amici del liceo D’Azeglio che diedero vita nel 1933 alla casa editrice Einaudi provenivano tutti dalla Crocetta, Massimo Mila, Leone Ginzburg, Cesare Pavese fra gli altri. Benedetto Croce aveva sposato una torinese e quando veniva a Torino abitava dai suoi parenti alla Crocet-

ta. Grazie alla munificenza di mio suocero, anch’io, con la mia famiglia, abito in questo quartiere. Se mi affaccio al balcone, posso intravedere alla mia sinistra attraverso le fronde degli ippocastani, la casa dove, al numero 75 di corso Re Umberto, è nato, è vissuto ed è morto tragicamente Primo Levi. Se guardo di fronte a me posso vedere, al di là del corso, uno spiazzo quadrato con un giardino ben tenuto, dotato di scivoli, altalene, casette di legno, reti a maglie larghe per permettere l’arrampicata. Lì hanno giocato prima i miei figli e poi i miei nipoti finché erano piccoli. Il più giovane ha sei anni e potrebbe ancora frequentarli ma abita dall’altra parte della città. Al di là del recinto che isola e protegge l’area dei giochi, sono disposte tutto attorno delle panchine sulle quali siedono i nonni e le bambinaie che tengono sott’occhio i piccoli. Sul lato verso il corso erano disposti, fino a un mese fa, i contenitori della raccolta differenziata, carta, plastica e vetro. Allo scopo di perfezionare e affinare il sistema li hanno tolti, sosti-

gli altri sensi, è selettiva, cerca di scartare tutto quello che potrebbe darci noia o generare pensieri molesti. Alla signora che aveva chiesto il mio intervento ho risposto che a mio parere quell’uomo non commetteva nessun reato. Non chiedeva l’elemosina, non importunava i passanti, non si comportava in modo da generare scandalo. Stava lì, seduto, fermo. Secondo lei qualcuno del quartiere aveva sollecitato l’intervento di un’associazione benefica che cerca di trovare un rifugio per la notte ai senzatetto ma lui avrebbe risposto ai volontari che preferiva rimanere lì dov’era. Qualche giorno dopo il quotidiano «La Stampa» parlava del caso in un riquadro della cronaca, con una fotografia e un testo con poche informazioni: l’uomo era un rumeno che aveva perso un figlio e forse anche il lavoro. Un dolore così grande può fiaccare un uomo e sottrargli la forza di reagire. Ma lui apparentemente non cercava il nostro conforto, stava lì, sulla panchina e non chiedeva niente a nessuno. Dopo che la signora me l’aveva fatto notare è entrato

nei pensieri miei e di tutti coloro che avvertono la sua presenza e non ne è più uscito. E sono pensieri che generano una sorta di inquietudine e un senso di impotenza. Attorno a quell’uomo che non chiede si è creata una rete di timidi gesti di aiuto; il titolare di un bar non lontano gli permette di usare la toilette all’alba quando apre e alla sera quando sta per chiudere. Un mattino ho visto una signora che gli portava la colazione su un vassoio, come si fa con un malato costretto a letto. Se era stato un giorno di pioggia, la sera, chiudendo le imposte prima di andare a letto mi domandavo se quell’uomo aveva trovato il modo di ripararsi. Ogni volta che passo di lì non posso fare a meno di controllare se c’è ancora. Quando una mattina ho visto che la panchina era vuota, ho provato un senso di sollievo che è durato il tempo di scoprire che era andato a sedersi lì vicino perché sulla prima il sole gli dava fastidio. Non siamo insensibili all’indigenza e al dolore altrui, vorremmo solo delegare altri a occuparsene e a tenerli lontano dai nostri occhi.

damentale, è uno dei modi più comuni e universali per creare relazioni umane (o per creare ponti con il divino, a volte, secondo alcune teorie sul significato del sacrificio). Il dono, addirittura, diventa un aspetto specifico di una cultura che è in relazione con tutti gli altri e pertanto, attraverso la sua analisi, rende possibile leggere per estensione le diverse componenti della società. Mauss suppone che il meccanismo del dono si articoli in tre momenti fondamentali basati sul principio della reciprocità: dare; ricevere – l’oggetto deve essere accettato; ricambiare. Ci offrono un servizio di piatti se compriamo tre bottiglie di limoncello, dobbiamo accettare (per noi significa cadere nella trappola), quanto a ricambiare nel nostro caso è un atto che paradossalmente viene prima del dono, ne è condizione: se compro, ricevo il regalo. Mentre nel dono «libero» modi e tempi per la restituzione non sono rigidi e in ogni caso si tratta di un obbligo morale, non perseguibile per

legge, né sanzionabile. Ancora, il valore del dono sta nell’assenza di garanzie per il donatore. Un’assenza che presuppone una grande fiducia negli altri (saprà apprezzare? Ricambierà, se non materialmente, con maggior affetto e attenzione nei miei confronti?). La teoria del dono è oggi ripresa da Jean-Luc Marion, docente di filosofia alla Sorbona di Parigi e all’Università di Chicago. Marion scrive che «l’amore non si dona se non abbandonandosi, trasgredendo continuamente i limiti del proprio dono, sino a trapiantarsi fuori di sé. È tipica dell’essenza dell’amore la capacità di sommergere, così come un’ondata sommerge i muraglioni di una diga, ogni limitazione. L’amore, infatti, non si riserva nulla per sé, né sé stesso, né la propria rappresentazione». Parole alte per definire una fenomenologia e un’etica del dono, un invito a essere generosi in senso pieno quando si dona (siamo a ottobre, già pensato cosa riciclare per il prossimo Natale?). Ma, ancora una

volta, i doni che chiediamo attraverso un acquisto, sono una realtà diversa, pur dando grande gratificazione a chi li riceve. Sono infatti doni che noi facciamo a noi stessi, come se durante l’acquisto una mano comprasse e l’altra premiasse. Non è molto diverso, a dire il vero, dalla moglie che compra da sé il proprio regalo di compleanno da parte del marito, stanca dell’ennesimo cappellino che mai indosserà. O dalle richieste mirate sotto le Feste. Non vogliamo rischiare la delusione, non siamo in grado di sopportarla, guidiamo con precisione chi ci vuole dimostrare amore o gratitudine con un regalo. Così, per essere più sicuri di un piacere senza macchie, ci facciamo fare regali da sconosciuti commercianti. Ma ora basta parlare d’amore, se non compilo in fretta il coupon con almeno cinque acquisti di biancheria per la casa posso dire addio alla lampada solare a forma di scoiattolo. Non ho il giardino? La userò sul davanzale, è tanto carina.

chinotto doppio. 3. Double Cheeseburger Imperial alla Capricciosa con rondelle di sanguinaccio di pecora croata, due uova al tegamino, mozzarella blu fritta, rognoncini trifolati, parmigiana di melanzane, caponatina alla trapanese, un cetriolino sott’aceto, sushi. Energetico, adatto agli sportivi prima della performance. Bibita consigliata Coca Light per non esagerare con il carico calorico. Insomma, gli avvoltoi internazionali della forchetta si sono già buttati sul cadavere eccellente di Sua Maestà la Pizza. Pare che, dopo aver distrutto la tazzina di caffè (pare che sia in genere di pessima qualità), Milena Gabanelli (6-) andrà all’assalto della pastasciutta, del vino, del pane, insomma degli elementi fondamentali della nostra tavola. Probabilmente troverà l’antinfiammatorio nei maccheroni e

nello sfilatino i microchip dei cellulari gettati al macero. Il tema cibo, del resto, è all’ordine del giorno. Gli chef sostituiscono gli opinionisti da talk show in televisione. Cracco, Bastianich, Barbieri, Oldani (4+ cumulativo), protagonisti dei reality, parlano di cotechino e di riforma elettorale, di tortelli e di spending review con la stessa competenza: sono loro i maître-à-penser, gli Zola e i Sartre del nostro tempo. I pensatori delle cozze e vongole, i teorici del cacio e pepe hanno sostituito i filosofi del pensiero debole, l’ermeneutica di Hans-Georg Gadamer cede il passo alla fenomenologia di Oscar Farinetti (4-), il patron di Eataly che si è schierato con Renzi e spadroneggia con potenti idee strutturali, auspicando, per esempio, che il Sud Italia diventi una enorme Sharm El Sheik. E se non c’è la Barriera corallina, non fa niente, la portiamo noi, non c’è nulla che non

si possa creare sui fornelli… I libri di cucina impazzano: La cucina etica, Mangiato bene?, La dieta di Eva, In cucina comando io, Il genio del gusto, Solo crudo, Solo cotto, Solo crudo e cotto, Le cento domande a tavola… Nascono intere collane sulla gastronomia, collane letterarie come quella di Slow Food con racconti sulle pecore di Pasqua, sulla zuppa di latte, sulle minestrine, sullo zafferano, sulla focaccia, sull’arrosto argentino… Va da sé che anche la pizza impazza in libreria: L’arte della pizza, Passione pizza, Il gioco della pizza, Fantasie di pizza… «Che pizza!» non c’è ma sarebbe un bel titolo. Ai bei libri sulla pizza preferisco una buona Margherita, ma buona davvero però e senza scatole da asporto. E spero che l’umanità non debba essere mai ridotta all’umiliazione di assaggiare un Double Cheeseburger Imperial Capricciosa in un villaggio siciliano simil-Sharm.

tuendoli con quelli più piccoli sistemati nel cortile delle case. Una mattina alla fine della scorsa estate, mentre stavo diligentemente collocando i miei rifiuti nei vari contenitori, sono stato interpellato da una signora con un tono di voce eccitato: «Lei che collabora alla “Stampa” segnali al suo giornale questa situazione. È qui da più di un mese, non si può andare avanti così!» Dovevo aver fatto la faccia di uno che non capiva a cosa si riferissero le sue parole, perché ha fatto il gesto di puntare il dito in una direzione ma fermandolo a metà, quasi avesse paura di suscitare delle reazioni. «Là, su quella panchina, l’ultima a destra, non lo vede?». Effettivamente qualcosa c’era, sembrava un fagotto di stracci; invece era un uomo, immobile, raggomitolato, la testa china in avanti come se dormisse; guardando meglio si notava che di fianco, poggiati sulla panchina, teneva dei sacchi di plastica gonfi; era facile presumere che contenessero tutto il suo bagaglio. Passavo di lì più volte al giorno, come avevo fatto a non notarlo? La nostra vista, come tutti

Postille filosofiche di Maria Bettetini L’insidia del dono Compra due coppie di lenzuola e ti regalo un servizio da tavola per sei. Oppure dieci bottiglie di vino per una cassetta degli attrezzi superaccessoriata. Cinque calzini, e avrai un tablet. La crisi ha abbassato le vendite, ma l’ingegno dei venditori si è fatto più sottile, quasi diabolico. Grazie al basso prezzo di oggetti provenienti quasi sempre dalla Cina, si riesce a creare la situazione psicologica di chi si sente premiato per l’acquisto, addirittura autore di un colpaccio, ottenendo in regalo oggetti magari desiderati ma troppo cari (nella versione non cinese), oppure inutili ma non si sa mai. Si sa, fare il furbo è fonte di autostima, anche davanti agli altri è bello dire che questo l’ho avuto in regalo, pensa solo comprando dodici bottiglie d’olio. E pazienza se le ho pagate il doppio del prezzo del supermercato, e l’olio non è un granché. Presi dal successo personale per aver onestamente derubato il venditore, tralasciamo alcuni particolari: la cassetta degli

attrezzi è in plastica e non si chiude bene? La tovaglia in cotone sembra uno strofinaccio da cucina sia per fattura che per disegno? Il portacucito è adatto agli arnesi da cucito della Barbie? Non importa, quasi non ce ne accorgiamo, perché ciò che noi abbiamo comprato non è l’oggetto con annesso il furfantesco omaggio, ma è una doppia sensazione positiva. Siamo gratificati dall’aver fatto i furbi e insieme da quella gioia primitiva che viene con l’arrivo di un qualsivoglia regalo. Ricordate l’attesa dei bambini alla Vigilia di Natale? L’emozione alla festa di compleanno? Non siamo cambiati, diventando adulti. Ci piace essere oggetto di un dono, sia quello che sia, anche qualcosa di cui non sentivamo il bisogno e che non useremo mai. Del dono hanno scritto e stanno scrivendo numerosi filosofi contemporanei, primo fra tutti Marcel Mauss negli anni Venti del secolo scorso. Secondo Mauss, lo scambio dei beni, anche se di valore intrinseco non fon-

Voti d’aria di Paolo Di Stefano Che pizza! L’allarme pizza, dopo il servizio di «Report», il programma di Milena Gabanelli della domenica sera su RaiTre, ha precipitato nella disperazione milioni di persone. L’inchiesta ha denunciato varie magagne: pizzaioli impreparati, uso di olio di semi al posto dell’olio extravergine d’oliva, uso di farina doppio zero e cottura bruciacchiata per via dei forni non puliti. Dunque, la pizza, analizzata in un laboratorio specializzato in idrocarburi negli alimenti, sarebbe indigeribile e spesso cancerogena. Inoltre, le scatole da asporto sarebbero per lo più illegali. L’opinione pubblica si è divisa sul prodotto italiano più diffuso nel mondo: da una parte chi difende la pizza a prescindere, anche quella carbonizzata e nociva, anche quella petrolchimica, radioattiva e nucleare; dall’altra chi ha deciso di rinunciare per sempre alla Margherita e alle sue sorelle optando

per soluzioni meno pericolose per la salute. Di conseguenza, le grandi catene alimentari stanno pensando a prodotti ad hoc per i transfughi della pizza: secondo le prime indiscrezioni, ne nasceranno straordinarie alternative esotiche. Tre esempi: 1. Big Mac Sette Stagioni con hamburger, tonno, gamberetti, capperi, olive, fughi, carciofini, salsa tartara, patatine fritte, cipolle, sushi. Digeribilissimo e leggero, assicurano, combatte l’obesità, l’ulcera duodenale e la colite spastica. Bibita consigliata Spritz Hugo. 2. Kebab Ottoformaggi con strati (nell’ordine) di: gruyère, taleggio, emmental, pecorino romano, caciocavallo siciliano, appenzeller, mozzarella di bufala, gorgonzola, sovrastati da panna montata dolce e da accompagnare preferibilmente con rösti e sushi. Abbastanza saporito e auspicato per i cardiopatici. Bibita consigliata


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Idee e acquisti per la settimana

shopping Pane di patate con noci, irresistibile morbidezza

Attualità Mollica soffice e croccante fragranza delle noci per un pane unico nel suo genere

Da anni siamo abituati a vedere alle stazioni di benzina macchine con targhe italiane, una sorta di turismo del carburante, mentre si parla meno del fenomeno che vede cittadini italiani varcare il confine per fare la spesa in Svizzera. Eppure non sono pochi. Anche i prodotti dell’assortimento Migros riscuotono un grande successo tra i consumatori d’oltre frontiera. Anna Bonera, madre di famiglia e casalinga di Varese, regolarmente fa i suoi acquisti alla filiale del centro commerciale Serfontana. Diversi sono i prodotti a cui è affezionata, tra cui spicca il pane di patate con noci. Ma cosa la spinge a venire a fare la spesa in Svizzera? «Soprattutto la varietà della scelta, l’alta qualità e la facile reperibilità dei prodotti. Nel caso specifico del pane di patate con noci, è un prodotto disponibile anche in alcune panetterie di Varese, il problema è che non sempre lo trovo mentre da Migros ho la certezza di trovarlo mentre faccio la spesa anche per altri generi alimentari. Insomma, per me è molto più comodo venire qui e trovare tutti i prodotti in un solo supermercato piuttosto che dover fare diversi giri per negozi rischiando

di non trovare alcuni articoli». Facile farsi tentare dai diversi prodotti nostrani in assortimento, e Anna ci rivela che spesso acquista prodotti ticinesi da accompagnare al suo pane preferito. «Quando acquisto il pane di patate con noci in genere metto nel carrello anche una varietà di formaggi. Spesso la scelta cade sul formaggio d’alpe ticinese DOP, il quadratino e il robiolino erborinato. Mi piace servire il pane come accompagnamento all’aperitivo, variando gli accostamenti di sapore e consistenza dei diversi formaggi. Il sapore dolce del pane poi si presta molto bene ad essere gustato con diversi prodotti, come le marmellate. A volte lo gusto la mattina a colazione con una buona composta di mele e cannella fatta in casa. La sua consistenza morbida mi piace particolarmente, si scioglie letteralmente in bocca mentre le noci deliziano il palato con la loro consistenza croccante. Inoltre è un pane che si conserva fresco per più giorni, cosa non da poco». Un pane versatile, gustoso e morbido capace di soddisfare i palati più esigenti. E voi l’avete già comprata la vostra pagnotta? / Luisa Jane Rusconi

Pane di patate con noci 300 g Fr. 2.30 350 g Fr. 2.80* *In vendita presso Migros S. Antonino e Serfontana.

Flavia Leuenberger

Anna Bonera acquista regolarmente il pane di patate con noci della Migros.


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Idee e acquisti per la settimana

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La sella di capriolo Attualità Lo chef Stefano Lafranchi dell’Osteria Lafranchi di Robasacco ha cucinato per i lettori

di Azione quello che è uno dei piatti più apprezzati dagli amanti della selvaggina. A proposito: la sella di capriolo fresca è disponibile presso il vostro banco macelleria Migros. Correte a riservarla

Sella di capriolo

Le guarnizioni

Per 4 persone

Stefano e Akko Lafranchi nella loro Osteria di Robasacco propongono una cucina curata, particolarmente attenta alla qualità e stagionalità dei prodotti. (Flavia Leuenberger)

Il capriolo è un mammifero ungulato, appartenente alla famiglia dei cervidi, che vive in gruppi nelle regioni temperate del continente europeo. La sua alimentazione è costituita da tenere erbe dei pascoli alpini, da frutti selvatici e bacche di bosco. Questa particolarità ha incidenza molto felice sulla qualità delle sue carni, e fa del capriolo una delle migliori se non la migliore varietà di selvaggina da pelo, grazie alla tenerezza e delicatezza delle sue carni. Il capriolo non necessita di essere marinato a lungo; si può fare una corta marinatura, di regola un paio di giorni, magari usando del vino bianco dopo aver massaggiato i vari cosciotti, selle o i carré con spezie e un filo d’olio, tenendolo in fresco. La marinatura sarà pefetta se vi si aggiunge un bicchierotto di grappa nostrana. I piatti di capriolo, come ad esempio la sella, vengono serviti accompagnati dal cavolo rosso, dalle immancabili castagne caramellate, dagli spätzli, da mele e uva e dalla confettura di ribes. La confettura si riallaccia alla tradizione della cucina classica che sposa le carni dal sapore accentuato a guarnizioni dolci. Infine, per la preparazione di questo succulento piatto bisognerà prestare attenzione alla cottura: la carne dovrà essere rosata. / Davide Comoli

Ingredienti 1.2-1.5 kg di sella di capriolo* sale pepe *Disponibile ai banchi macelleria di Migros Ticino. Provenienza Austria/ Germania

Cavolo rosso Ingredienti 1 cavolo rosso 1 cipolla 250 g mele grattugiate 2 dl vino rosso 50 g di gelatina di ribes

Preparazione Pulire la sella eliminando la pellicina (è possibile richiedere questa operazione al vostro macellaio Migros). Incidere le parti vicino all’osso, facendo attenzione a non staccare la carne. Salare e pepare la carne. Preriscaldare il forno a 220 gradi. Versare dell’olio in una padella ben calda e dorare la sella. Proseguire la cottura nel forno per una ventina di minuti. Togliere la teglia dal forno e fare riposare per qualche minuto la sella coprendola con un foglio d’alluminio. Con l’aiuto di un coltello procedere a staccare la carne dall’osso. Tagliarla a fettine. Servire posando l’osso su un piatto di portata, quindi la carne tagliata a fette e tutte le sue tradizionali guarnizioni: spätzli, pere al vino rosso, mele con confettura di ribes, castagne caramellate. Accompagnare anche con una salsa ai funghi porcini.

Tagliare il cavolo a listarelle sottili e farlo marinare per circa 3 ore mescolando tutti gli ingredienti. In una casseruola rosolare la cipolla nel burro, aggiungere il cavolo rosso con un po’ d’acqua salata e lasciare cuocere a fuoco lento fino a che il cavolo diventerà morbido (ca. 1 ora). Spätzli Ingredienti 500 g di farina bianca 3 uova 75 ml di latte 75 ml di acqua sale noce moscata olio Preparazione Per preparare gli spätzli setacciare la farina in una ciotola e unire le uova intere, il sale, il pepe e la noce moscata. Aggiungete poco olio, l’acqua e il latte e con l’aiuto di una

frusta amalgamate il tutto fino ad ottenere un impasto liscio. Prendere l’apposito attrezzo per spätzli e posizionarlo sopra una pentola d’acqua in ebollizione facendo fuoriuscire l’impasto. Quando gli spätzli vengono a galla sono pronti per essere scolati. Scaldare del burro in una padella e dorare brevemente gli spätzli. Castagne caramellate Ingredienti 200 g di castagne 100 g di zucchero 1dl di succo d’ananas burro Preparazione Sbucciare le castagne con l’aiuto di un coltellino e sciacquarle sotto l’acqua fredda corrente. Sbollentarle brevemente, poi eliminare con cura la pellicina che le riveste. Portare a ebollizione abbondante acqua e versare le castagne. Lasciare cuocere per circa 20 minuti fino a quando diventeranno tenere. Scolare. Far sciogliere del burro in una padella antiaderente, aggiungere le castagne, lo zucchero e il succo d’ananas e cuocere per 2-3 minuti a fuoco vivace lasciando caramellare il tutto. Servire le castagne ben calde.


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Idee e acquisti per la settimana

La Furmagèla Novità La formaggella della Leventina

anche al libero servizio

crosta di color grigio chiaro, la pasta paglierina di consistenza morbida, con leggere occhiature, nonché per il sapore delicatamente dolce ed erbaceo. È un ottimo formaggio da tavola che va ad arricchire qualsiasi piatto di formaggi misti e si accosta bene a del pane piuttosto rustico. Grazie al suo profumo aromatico, la formaggella si presta bene anche per la preparazione di torte salate – provare per credere. Curiosità: un tempo la formaggella era prodotta solamente prima del carico dell’alpe, in primavera; e anche al ritorno dagli stessi, nel mese di settembre.

Flavia Leuenberger

Avviso agli aficionado della formaggella leventinese: il delizioso formaggio lo possono trovare anche al reparto refrigerati di tutti i supermercati di Migros Ticino. Prodotta ad Airolo dal caseificio Agroval SA di proprietà della famiglia Lombardi secondo un’antica ricetta locale, è fatta con latte intero di montagna della regione del Gottardo proveniente da mucche foraggiate senza insilati. L’affinamento, della durata di una ventina di giorni, avviene in una cantina di pietra naturale situata nel nucleo di Airolo. La formaggella della Leventina si contraddistingue per la

Furmagèla 100 g Fr. 2.50 In vendita al libero servizio in tutte le filiali di Migros Ticino.

Porte aperte alla Sicas di Chiasso

Lo scorso 4 ottobre, presso il Centro Shopping Serfontana, sono stati consegnati i premi principali della lotteria legata alla «Rassegna autunnale sui prodotti ticinesi», evento che ha riscosso un ottimo successo di pubblico. In totale sono stati consegnati 60 premi, messi in palio dai partner della rassegna, tra cui Migros Ticino.

Flavia Leuenberger

Fondata nel 1962, la Sicas SA di Chiasso è un’azienda a conduzione familiare condotta oggi, alla terza generazione, da Renzo Nespoli. L’azienda è specializzata nella produzione di succhi di frutta a base di frutta fresca e bibite varie, tra cui spicca l’aromatica gazosa dei Nostrani del Ticino Migros. Per produrre quest’ultima la Sicas si rifà ad antiche ricette della tradizione mendrisiense. L’impiego di ingredienti esclusivamente naturali e l’assenza di conservanti hanno decretato il successo della gazosa nostrana in tutto il Cantone, e non solo. Gli aromi disponibili sono sette, e vanno dai classici limone e mandarino, passando per i fruttati lampone e mirtillo fino ai gusti più particolari come sambuco, uva americana e castagne. Sei interessato a scoprire come si produce la famosa gazosa dei Nostrani del Ticino? In questo caso corri ad iscriverti alla giornata delle porte aperte (vedi box).

Vincitori al Serfontana

Iscrizione alle porte aperte Data: mercoledì 29 ottobre 2014 Orari: ore 10.00 (20 persone) e ore 14.30 (20 persone) Durata: ca. 1 ora, con degustazione finale Ritrovo: direttamente presso l’azienda Gli interessati possono iscriversi telefonando al numero 091 840 12 61, mercoledì 15 ottobre, tra le ore 10.30 e 11.30.

I vincitori principali si sono aggiudicati un premio in buoni acquisto del valore di Fr. 1.000.– e uno da Fr. 500.–; un buono da Fr. 50.– della Rassegna Gastronomica del Mendrisiotto e un buono per il Grotto Castelgrande di Bellinzona. Nella foto: lo stand nei Nostrani del Ticino Migros durante la rassegna.


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Idee e acquisti per la settimana

Sorprendere i propri Il barometro dei prezzi ospiti è un gioco da ragazzi Informazioni sui cambiamenti di prezzo

Grazie alle proposte artigianali da asporto dolci e salate di Migros Ticino, potrai festeggiare insieme ai tuoi ospiti in tutta calma, senza dover preoccuparti dei preparativi. Cosa ne diresti di un aromatico piatto di affettati nostrani, di una sfiziosa sinfonia di formaggi, di un aperitivo tutto vegetariano oppure di una selezione di proposte tipicamente asiatiche? Voglia di sapori classici che fanno scena? La soluzione è sicuramente il pain surprise: morbido pane bianco o integrale con variegate farciture di affettati e formaggi oppure pesce. Ma perché non stuzzicare gli ospiti anche con un maxi bretzel oppure ancora un aperitivo «freestyle» composto da fingerfood a base di pesce, carne e verdure in bicchierini monoporzione? Infine, per concludere in bellezza, immancabili le proposte dolci per un dessert coi fiocchi: pasticceria mignon, dolcetti di stagione come torta di castagne e vermicelles, intramontabili classici come Foresta nera o torta Pan di Spagna alla

Migros riduce i prezzi dello zucchero cristallizzato, come pure delle zollette di zucchero e degli sticks. A causa di un eccesso di offerta a breve termine, i prezzi dello zucchero all’interno dell’UE negli ultimi mesi sono stati oggetto di una forte spinta al ribasso. Le dinamiche dei frutta. Queste e molte altre idee le trovi sul sito www.migrosticino.ch/partyservice oppure le puoi ordinare direttamente al banco pasticceria di ArbedoCastione, Giubiasco, Biasca, Crocifisso, Grancia, Pregassona e S. Antonino; nei De Gustibus di Bellinzona, Locarno, Cassarate, Lugano, Agno e Serfontana; nei quattro Ristoranti Migros; nonché al numero 0848 848 018 e all’indirizzo e-mail party-service@migrosticino. ch. Che la festa abbia inizio!

Alcuni esempi:

prezzi nell’UE hanno un impatto diretto sull’industria alimentare della lavorazione dello zucchero svizzera: negli accordi bilaterali II è definito che i prezzi dello zucchero nell’UE e in Svizzera debbano essere sullo stesso livello. Ciò permette quindi a Migros di abbassarne i prezzi.

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Foto René Ruis

Idee e acquisti per la settimana

Anche il Globi veste bio I capi d’abbigliamento Bio Cotton con il motivo del Globi sono comodi e rappresentano un contributo per una natura intatta Il nuovo libro per bambini del Globi porta in fattoria il personaggio immaginario svizzero di maggior successo: l’84° volume della serie, intitolato «Globi, der schlaue Bauer» ( ndt: Globi, il contadino furbo*) è infatti ambientato in campagna. Da buon agricoltore biologico, il Globi usa come carburante il gas ottenuto dalla biomassa, coltiva patate e condivide il suo costoso tosaerba con il vicino. Come il Globi, anche la Migros punta sulla sostenibilità. La produzione sostenibile di cotone tutela l’ambiente e la salute delle persone nelle zone di coltivazione. Nei campi di cotone biologico, infatti, i parassiti vengono combattuti tramite l’impiego di estratti vegetali naturali. In questo modo, oltre a garantire la salute dei lavoratori nelle piantagioni, si proteggono anche gli uccelli e le

Il marchio Bio Cotton è garanzia di produzione biologica nel rispetto delle persone e della natura. I tessuti vengono prodotti secondo le direttive ECO, vale a dire in modo ecologicamente pulito e senza sostanze inquinanti lungo l’intera catena di produzione.

coccinelle, i quali servono da nemici naturali per una lotta ai parassiti completamente priva di sostanze nocive. Così facendo, la natura resta intatta e il terreno rimane fertile a lungo. È particolarmente importante che la delicata pelle dei bambini venga a contatto unicamente con materiali naturali. Dal momento che i bambini non riescono ancora a regolare in modo adeguato la propria temperatura corporea, i tessuti in fibre naturali come cotone, lana, seta, o i rispettivi tessuti misti, rappresentano una scelta particolarmente appropriata. Con lo standard Eco, la Migros garantisce una produzione ecocompatibile e condizioni di lavoro sicure. Scegliete quindi i nuovi capi della linea del Globi e regalate loro anche qualche bel sorriso con il suo ultimo libro. / Heidi Bacchilega

Parte di

Generazione M è il programma di sostenibilità della Migros, al quale anche Bio Cotton apporta un prezioso contributo.

«Globi, der schlaue Bauer» (ndt: Globi, il contadino furbo*) è pubblicato dalla Orell Füssli Verlag in occasione dell’Anno internazionale dell’Agricoltura familiare proclamato dall’ONU. (Disponibile in tedesco)

Natura pura: è davvero divertente dormire all’aperto indossando i capi di cotone biologico con l’effige del Globi. www.mais-hotel.ch

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Body per bambine e bambini 100% cotone bio celeste taglie 50/56-98 Fr. 9.90

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Body per bambine e bambini 100% cotone bio, grigio scuro taglie 50/56–98 Fr. 9.90


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Idee e acquisti per la settimana

Bio per il bebè I prodotti per bebè e bimbi firmati Alnatura sono tanto gusto in formato bio. L’assortimento, da poco in vendita alla Migros, propone 30 alimenti I più piccoli non sono certamente i più pazienti e quando hanno fame desiderano gustare subito il loro pasto. E qui entrano in scena i prodotti Alnatura. Preparati con tanti buoni ingredienti, forniti prevalentemente da contadini che coltivano secondo le severe direttive biologiche Demeter, gli omogeneizzati Alnatura sono i perfetti alleati di mamme e papà. E per rispettare al meglio le esigenze alimentari dei bimbi, non contengono né sale né zucchero cristallino aggiunto. Gli alimenti per i piccolini Alnatura sono, inoltre, privi di aromi, coloranti e conservanti, ma ricchi di verdura e frutta fresche, cucinate nel rispetto delle so-

Cosa acquistare? Oltre all’assortimento di alimenti per bebè e bimbi, Alnatura propone in Svizzera anche i seguenti generi alimentari: prodotti da forno e a base di cereali, riso, legumi, bevande come succhi e alternative al latte, surrogati della carne, dolcificanti e aromatizzanti, dolci e stuzzichini. Cosa c’è dentro? Alnatura non risponde solo alle esigenze più elevate in fatto di ingredienti biologici, ma anche dal punto di vista dell’essenzialità delle ricette realizzate con la massima delicatezza è imbattibile. E la sua affidabilità è confermata dalle seguenti direttive, valide per tutti i prodotti. - Produzione biologica al 100% - Composizioni semplici - Preparazioni delicate - Senza coloranti né conservanti - Senza aggiunta di aromi artificiali - Succhi non da concentrati - Nessun grasso idrogenato, solo oli pressati a freddo - Materie prime e composizioni severamente controllate

stanze nutritive e confezionati con delicatezza nei vasetti di vetro. 18 anni di esperienza al servizio dei giovani buongustai

Un consiglio di esperti indipendente assicura la semplicità delle ricette e la sicurezza dei prodotti Alnatura, garantendo alimenti per bimbi della migliore qualità, risultato di 18 anni di esperienza, al servizio dei più piccoli. L’assortimento di questi prodotti speciali, dall’ottimo rapporto prestazioni-prezzo, è disponibile nelle maggiori filiali Migros o su LeShop.ch in tutta la Svizzera. / Anna-Katharina Ris

Parte di

Dove acquistare? I prodotti per bebè e bimbi (pappe, snack, ecc.) sono in vendita in tutta la Svizzera nelle maggiori filiali. Circa altri 300 prodotti Alnatura sono disponibili in filiali scelte della Svizzera tedesca, elencate su www.alnatura.ch

Generazione M è il nome del programma testimone dell’impegno Migros a favore della sostenibilità.

Lo shop online della Migros www.LeShop.ch consegna direttamente a casa l’intero assortimento di prodotti Alnatura in tutta la Svizzera.

Foto René Ruis; Styling Esther Egli

Alnatura è sinonimo di gusto e affidabilità. Sono infatti preparati solo con ingredienti biologici e componenti indispensabili.

Alnatura alla Migros I prodotti per bebè e bimbi della marca biologica Alnatura, come le pappe alla frutta e le cialde di riso sono perfetti anche fuori casa.

Olio per alimenti per bebè Alnatura* 250 ml Fr. 5.90

*in vendita nelle maggiori filiali Migros

Biscotti al farro bio Alnatura* 150 g Fr. 2.40

Pappa al latte e al miglio bio Alnatura* 250 g Fr. 4.40

Pera pura bio Alnatura* 125 g Fr. 1.30

Verdura e miglio bio Alnatura* 220 g Fr. 2.–

Zucca, riso e pollo bio Alnatura* 220 g Fr. 2.–

Verdura e polenta bio Alnatura* 220 g Fr. 2.–

Müesli prugne e pere bio Alnatura* 190 g Fr 1.70


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Idee e acquisti per la settimana

Tutta la purezza dello yogurt Di base la ricetta è assolutamente semplice: si prende dello yogurt al naturale fresco, frutta ben matura e un po’ di zucchero: ecco pronto lo yogurt alla frutta. Certo, se non fosse per il fattore tempo, perché al mattino si va sempre di fretta. E la frutta? Ci si è proprio scordati di acquistarla. Ma per fortuna esiste un’alternativa, fatta soltanto con tre ingredienti di qualità biologica: Yogurt Naturel.

Foto Veronika Studer

La linea Naturel è fatta soltanto con tre ingredienti, e tutti di qualità bio

Un processo speciale per far evaporare il latte bio

Yogurt, frutta, zucchero – nessun altro additivo per addensare lo yogurt, niente aromi. La loro consistenza e cremosità sono dovute ad uno speciale processo mediante il quale il latte svizzero bio viene fatto evaporare. Un contenuto di frutta del 13% nelle varietà fragole e lamponi rende superflua l’aggiunta di aromi. Con il vasetto da 150 grammi Naturel segue il trend delle confezioni piccole, sempre più apprezzate dalla clientela. Insomma, come spesso si dice, tre è il numero perfetto. E per gli Yogurt Naturel il detto è proprio azzeccato. / CS

Bio Yogurt Naturel Fragole 150 g Fr. –.95

Bio Yogurt Naturel Mocca 150 g Fr. –.95 Nelle maggiori filiali

Bio Yogurt Naturel Lamponi 150 g Fr. –.95

L’industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui gli yogurt Naturel.

Solo tre ingredienti compongono gli yogurt Naturel: una bontà del tutto genuina.


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Raccard Tradition in blocco maxi, per 100 g 1.55 invece di 2.25 30%

Zucca a fette, bio, Svizzera, imballata, al kg 4.90

Emmentaler, bio, per 100 g 1.60 invece di 2.– 20% Tutto l’assortimento di formaggi Auricchio, per es. dolce a fette, in conf. da 100 g 1.50 invece di 2.50 40%

9.80 invece di 12.40

37.60 invece di 56.40

Salviettine umide per bebè Milette in conf. da 4 20% di riduzione, per es. Ultra Soft & Care Quattro, 4 x 72 pezzi, offerta valida fino al 27.10

Tutti i pannolini Pampers (confezioni giganti escluse), offerta valida per 3 prodotti con lo stesso prezzo, per es. Baby-Dry 3, 3 x 48 pezzi

Uva Italia, Italia, sciolta, al kg 2.40 Ananas, bio, Fairtrade, Costa Rica, al pezzo 3.60 invece di 4.50 20%

PESCE, CARNE E POLLAME Carne di manzo macinata, Svizzera, al kg 10.80 invece di 18.– 40% Salsiccia di maiale M-Classic in conf. da 3, Svizzera, 3 x 4 pezzi, 600 g 6.30 invece di 12.60 50% Salame, bio, e prosciutto cotto arrosto, bio, per es. salame, Italia, per 100 g 4.15 invece di 5.20 20% * Prosciutto crudo San Pietro Rapelli, Svizzera, per 100 g 5.25 invece di 7.55 30%

12.90

9.90

Carta per uso domestico Twist in confezione multipla per es. Classic, FSC, 16 rotoli, offerta valida fino al 27.10

Calzini sportivi da uomo in conf. da 5 disponibili in diversi colori, per es. antracite, offerta valida fino al 27.10

Calzini termici da donna in conf. da 3 e leggings termici da donna per es. leggings, offerta valida fino al 27.10

Cosce di pollo Optigal al naturale e speziate, Svizzera, 4 pezzi, per es. cosce di pollo al naturale, al kg 9.– invece di 13.– 30% Gamberetti tail-on cotti, bio, d’allevamento, Ecuador, per 100 g 3.75 invece di 6.25 40% * Affettato di vitello, TerraSuisse, Svizzera, affettato finemente in vaschetta, per 100 g 1.60 invece di 2.80 40% Bratwurst di vitello, TerraSuisse, Svizzera, in conf. da 6 x 140 g, 840 g 9.50 invece di 16.20 40% Minipic, Svizzera, in conf. da 3 x 90 g 6.90 invece di 10.20 30%

7.65 invece di 9.60

Contenitori trasparenti per es. a 4 rotelle, offerta valida fino al 27.10

Tutti i prodotti meglio venduti Kneipp Spugnette in conf. da 3 in confezioni multiple 25% di riduzione, per es. spugnette sintetiche 20% di riduzione, per es. tisana per ristabilire Strong Miobrill, 3 x 3 pezzi, offerta valida fino al 27.10 l’equilibrio acido-basico in conf. da 2, 2 x 20 bustine, offerta valida fino al 27.10

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Fettine e arrosto coscia di maiale, TerraSuisse, Svizzera, imballati, per 100 g 1.70 invece di 2.70 35%

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Drink allo yogurt moka Bifidus, 500 ml 1.55 invece di 1.95 20%

Carote, bio, Svizzera, sacchetto da 1 kg 2.50

Detersivi Total per es. Color, 2 l, offerta valida fino al 27.10

7.55 invece di 12.60

Tutto il pane a lunga conservazione bio, per es. pane di segale integrale rotondo, 500 g 2.70 invece di 3.40 20%

Minestrone alla ticinese, Svizzera, imballato, al kg 4.95 invece di 7.20 30%

7.95 invece di 15.90

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PANE E LATTICINI

Tutti gli yogurt bio (yogurt di latte di pecora esclusi), per es. Naturel ai lamponi, 150 g –.75 invece di –.95 20%

Castagne, Francia / Italia, imballate, 500 g 4.20 invece di 6.20 30%

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Tutti i müesli Crunchy Actilife in conf. da 2, per es. Crunchy Mix Plus, 2 x 600 g 9.10 invece di 11.40 20% Pizza Toscana M-Classic in conf. da 2, surgelate, 2 x 360 g 5.30 invece di 7.60 30%

Mele Gala dolci, Svizzera, al kg 2.10 invece di 3.50 40%

50%

Tutti i tipi di miele Fairtrade, per es. miele di fiori cremoso, 500 g 4.75 invece di 6.20 20%

Racks d’agnello, Nuova Zelanda / Australia, imballati, per 100 g 3.75 invece di 5.40 30% Branzino 300–600 g, Grecia, per 100 g 1.75 invece di 2.50 30% fino al 18.10 Filetto di merluzzo salato, MSC, prodotto in Danimarca, per 100 g 2.40 invece di 3.10 20% fino al 18.10

*In vendita nelle maggiori filiali Migros.

Bouquet autunnale Fiona, il mazzo 12.90 Tutti i tipi di Calluna ed Erica, diverse misure, per es. Calluna in vaso da 11 cm, la pianta 3.10 invece di 3.90 20%

ALTRI ALIMENTI

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Tavoletta di cioccolato Frey Suprême Amandes & Myrtilles, UTZ, 100 g 20x 2.90 NOVITÀ *,** Tutte le caramelle per la gola Bonherba in conf. da 3, per es. alle erbe senza zuccheri, 3 x 150 g 8.60 invece di 12.30 30% Caramelle per bambini Frambini, 220 g 5.40 NOVITÀ *,**

20x

Pastiglie al lichene islandico, 40 g 2.10 NOVITÀ *,**

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Tutti i biscotti Créa d’Or, a partire dall’acquisto di 2 prodotti, –.60 di riduzione l’uno, per es. bretzeli, 100 g 1.75 invece di 2.35 Tutte le capsule Café Royal, UTZ, per es. Espresso, 10x 10 capsule 3.80 10x PUNTI Tutti i tipi di caffè e le bevande al cacao bio, Fairtrade, per es. caffè macinato, 500 g 7.05 invece di 8.30 15% * Tutte le tisane Yogi bio, a partire dall’acquisto di 2 confezioni, 1.– di riduzione l’una, per es. allo zenzero e al limone, 17 bustine 4.– invece di 5.– * Confetture autunnali, per es. ai mirtilli neri e rossi, 350 g 2.90 NOVITÀ *,**

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Tutte le confetture e le varietà di miele Migros bio, per es. confettura di mirtilli, 350 g 2.35 invece di 2.95 20% *

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Tutti i prodotti a base di castagne M-Classic e bio, surgelati, per es. castagne intere M-Classic, 500 g 4.80 invece di 6.– 20% Succo multivitaminico M-Classic in conf. da 12, 12 x 1 l 8.10 invece di 16.20 50% Tutti i tipi di riso Fairtrade da 1 kg, per es. riso Basmati 4.70 invece di 5.90 20% Tutti i tipi di quinoa bio, Fairtrade, per es. bianca, 400 g 4.45 invece di 5.60 20% Tutti i prodotti Mifloc e rösti bio, per es. rösti, 500 g 2.– invece di 2.55 20% Spaghetti M-Classic in conf. da 3 rossa o blu, per es. spaghetti in conf. rossa, pasta all’uovo, 3 x 750 g 4.50 invece di 6.75 33%

FIORI E PIANTE

Palline ai vermicelles Frey Suprême, UTZ, edizione limitata, 200 g 7.70 NOVITÀ *,**

Scatola con antipasti per le feste Happy Hour, surgelati, 1308 g 11.55 invece di 16.55 30%

Pasta, bio, per es. spaghetti, 500 g 2.60 NOVITÀ **

20x

Tutti i tipi di aceto, di olio e di burro per arrostire bio (prodotti Alnatura esclusi), per es. aceto di mele, bio, 0,5 l 1.75 invece di 2.20 20% French Dressing, Migros bio, 450 ml 2.85 invece di 3.60 20% Tutti i tipi di senape, maionese e ketchup bio, per es. maionese, bio, 265 g 1.75 invece di 2.20 20% Peperoni misti, 285 g 3.95 NOVITÀ *,**

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Cipolline borettane, 300 g 3.60 NOVITÀ *,**

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Minestra per bambini Bon Chef in bustina, 70 g 1.50 NOVITÀ *,**

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Tutte le salse in bustina Bon Chef, a partire dall’acquisto di 2 pezzi, –.30 di riduzione l’uno, per es. salsa legata per arrosto, 30 g 1.20 invece di 1.50 Ripieni per vol-au-vent M-Classic in conf. da 3, 3 x 500 g o 3 x 400 g, per es. ripieno per vol-au-vent, 3 x 500 g 8.10 invece di 12.15 33% Tutte le noci e le noci miste salate bio, per es. arachidi, 250 g 1.35 invece di 1.70 20% Chips Zweifel in busta XXL, per es. alla paprica, 380 g 5.95 invece di 7.75 20% Tutte le barbabietole intere cotte al vapore Anna’s Best e bio, per es. barbabietole cotte al vapore, bio 1 kg 4.15 invece di 4.90 15% Fiori o agnolotti, bio, in conf. da 3, per es. fiori con ricotta e spinaci, 3 x 250 g 11.70 invece di 14.70 20% La Pizza in conf. da 2, per es. pizza Margherita, 2 x 330 g 10.20 invece di 13.60 25%

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Salmì di capriolo o chicken satay Anna’s Best in conf. da 2, per es. salmì di capriolo, 2 x 430 g 14.70 invece di 19.60 25% Tofu affumicato, bio, 200 g 4.90 NOVITÀ *,**

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Minestrone 15 verdure Orogel, 450 g 3.10 invece di 3.90 20% Funghi misti, porcini interi e affettati, surgelati Valtaro, per es. funghi porcini affettati, 300 g 7.80 invece di 9.80 20% Tutti i cakes della nonna Grosis, per es. cake al cioccolato, 420 g 3.90 invece di 4.90 20%

NEAR FOOD / NON FOOD Tutto l’assortimento Belherbal (escluse confezioni multiple), per es. shampoo per capelli sensibili, 250 ml 20x 3.85 NOVITÀ *,** Tutti i prodotti Nivea Hair Care in confezioni multiple, per es. shampoo Diamond Gloss in conf. da 3, 3 x 250 ml 7.90 invece di 11.85 33% ** Dentifricio anticarie Elmex in conf. da 3, 3 x 75 ml 9.90 invece di 11.85 15% ** Tutto l’assortimento Rexona (escluse confezioni multiple), a partire dall’acquisto di 2 prodotti, 1.– di riduzione l’uno, per es. deodorante roll-on Cotton, 50 ml 1.95 invece di 2.95 ** Deodorante roll-on o spray Nivea Pure & Natural, per es. 20x spray, 150 ml 4.– NOVITÀ ** Calzini da donna in tinta unita con comodo bordo, bio, in conf. da 5, disponibili in diversi colori, per es. marrone scuro 12.90 ** Calzini da uomo sportivi e per il tempo libero in conf. da 3, disponibili in diversi colori, per es. calzini sportivi, color antracite 9.90 ** Additivi per il bucato e decalcificanti Total, per es. Oxi Booster Color, 1,5 kg 14.50 invece di 20.85 30% ** Pentole a pressione Kuhn Rikon, 3,5 litri e 5 litri, per es. pentola a pressione Duromatic, 5 l 72.50 invece di 145.– 50% **


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NOVITÀ 2.10 Pastiglie al lichene islandico 40 g



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Idee e acquisti per la settimana

Chi si prende il tesoro?

Ma quanto sono fotogenici questi Captors e i loro seguaci! Il grande concorso fotografico della Captormania è in pieno svolgimento. I primi premi sono già stati incamerati Davanti alla macchina fotografica si scatenano letteralmente: con il gattino o il bambino, sotto la doccia o nella vigna… i turisti venuti da Aquantis sono veri e propri fotomodelli che folleggiano per tutto il Paese. Nel frattempo il concorso fotografico di Captormania si sta svolgendo a pieno ritmo. Nelle ultime settimane sono già stati premiati una trentina di scatti. E per coloro che finora sono rimasti a mani vuote, il treno non è ancora definitivamente passato. Nelle prossime due settimane, infatti, saranno selezionati altri vincitori tra tutte le foto che sono caricate sulla pagina Internet di Captormania. E, infine, ci sarà ancora il gran finale con il recupero dagli

Riflettori sui primi vincitori del giorno

Ma quanto è cresciuto il piccolo, sembra pensare Silarov. Vincitrice: Nahari Suzan Z. Wabern (BE). Tra i vigneti invece che nei campi di anemoni: Wino si dà alla vendemmia. Vincitore: Julian M., Mauren (FL)

abissi subacquei del tesoro di Captormania e la sua consegna al supervincitore: oro e gioielli sottoforma di carte regalo Migros per un valore di 10’000 franchi. Partecipare è molto semplice: si scarica l’app Captormaia gratuita, si scansionano le figurine o i sottomarini dall’album della raccolta e si riportano in vita le simpatiche creature acquatiche. Poi, con un po’ di fantasia, si fanno loro assumere le pose più strampalate, che si possono subito immortalare grazie alla funzione inclusa nell’app. Infine, si caricano le istantanee sul sito www.captormania.ch e… si incrociano le dita, sperando che la propria foto sia la migliore! / Nicole Ochsenbein

Anche sulla terraferma Spex trova delle viti allentate. Vincitrice: Trime V., Au (SG)

Niente squali nella Limmat? E chi l’ha detto? Vincitore: Christian S., Zurigo

La signora Wanda dei Wibbi ha forse un po’ di nostalgia di casa? Vincitrice: Lara H., Münchringen (BE)

IL CONCORSO Si vince tre volte! «Grazie, ma preferisco bere dal mio biberon», sembra pensare Waldo. Vincitrice: Sulma F., Lugano

1. Chiunque si registra su captormania. ch partecipa al sorteggio di una carta regalo Migros del valore di 5.200 franchi.

Un bacetto per il micetto: c’è forse qualcuno che si è innamorato? Vincitrice: Andrea R., Bolligen (BE) Che secchiona! Asa va in biblioteca perfino quando è in vacanza. Vincitore: Antoine B.

Lancia il Captor!

Foto zvg

Nel coperchio della Captorbox si cela un bersaglio, verso il quale si possono lanciare i Captor magnetici proprio come in un tiro al bersaglio con le freccette. Molti altri giochi si trovano nell’album della raccolta Captormania e su www.captormania.ch.

Allora, chi ha le zanne più aguzze? Tabo o i bimbetti? Vincitrice: Julia E., Urswil (LU)

Una giornataccia? Anche la selvaggia criniera di Awel va lavata ogni tanto. Vincitrice: Daniela W., Zurigo

2. Nell’ambito del concorso fotografico una giuria sceglie ogni giorno un vincitore, che riceve una carta regalo Migros del valore di 200 franchi. 3. Il gran finale: tra tutti i vincitori quotidiani il 29 ottobre sarà nominato il supervincitore, che si aggiudicherà il tesoro di Captormania: carte regalo Migros del valore di 10.000 franchi.

Neanche Aristota l’avrebbe immaginato: il suo sottomarino può anche volare! Vincitrice: Sophie C., Grandevent (VD)


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Idee e acquisti per la settimana

Cucinare in modo sostenibile è facile

Riso fritto con ananas e noci miste Piatto principale per 4 persone Ingredienti: 250 g di riso Basmati* 8 dl d’acqua sale 1 ananas* 1 peperone rosso 1 mazzetto di cipollotti 30 g di zenzero 3 cucchiai d’olio di colza HOLL 2 uova pepe 2 limette Miscela di noci: 1 peperoncino 50 g di noci di acagiù* 25 g di noci del Brasile* ½ mazzetto di coriandolo

È sempre più facile ottenere molto senza troppi sforzi. Si comincia dall’acquisto consapevole di prodotti Fairtrade Max Havelaar per poi cucinare in modo sostenibile a casa propria Molte persone, quando acquistano generi alimentari non si limitano più a considerare principalmente il fattore gusto. Per loro è altrettanto importante l’origine socialmente sostenibile dei prodotti. Il marchio Fairtrade Max Havelaar permette di orientarsi al meglio in questo campo. Esso contrassegna i prodotti coltivati e commercializzati in modo responsabile ed equo. Chi sceglie questi prodotti dimostra senso di responsabilità, nei confronti di sé stesso e di tutti coloro che sono coinvolti nella produzione e lavorazione dei prodotti. Fairtrade sostiene piccole famiglie di agricoltori e lavoratori in Asia, Africa e America Latina a migliorare con le proprie forze le loro condizioni di vita e di lavoro. Migros propone già un’ampia of-

Il marchio Fairtrade, per prodotti coltivati e in modo sostenibile e commercializzati in modo equo, rende possibili migliori condizioni di vita alle piccole economie domestiche contadine e ai lavoratori e alle lavoratrici nelle nazioni in via di sviluppo ed emergenti. Altre informazioni: migros.ch/maxhavelaar

Bio Fairtrade Max Havelaar cioccolato Crémant 100 g Fr. 1.80

Preparazione: 1. Per la miscela di noci miste, dimezzate il peperoncino, privatelo dei semi e tagliatelo a pezzetti. Mescolatelo con le noci e il coriandolo, trasferite il tutto in un cutter e tritate grossolanamente.

ferta di prodotti Fairtrade e la incrementa costantemente. La scelta va dall’ananas alla cannella, passando per frutta, miele, riso, cioccolato e noci fino allo zucchero. Quanto semplice sia cucinare gustosi piatti con prodotti commercializzati in modo equo ve lo dimostrano le due ricette qui pubblicate. Il riso fritto con ananas fresco e noci è un piatto principale vegetariano leggero. Con l’aggiunta di strisce di pollo arrostite, sarà apprezzato anche dai carnivori. I cookies alla banana e cioccolato sono perfetti come croccante dessert. Ma questi piccoli dolcetti accompagnano benissimo anche il caffè o il tè. Semplicemente facendo la spesa quotidiana in modo consapevole si possono ottenere effetti collaterali di cui beneficiano l’uomo e la natura. / JV

Parte di

2. Sciacquate il riso con l’acqua fredda. Fatelo sobbollire nell’acqua con poco sale per 8-10 minuti, finché è cotto al dente. Scolatelo, passatelo sotto l’acqua fredda e fatelo sgocciolare. Nel frattempo sbucciate l’ananas e privatelo degli occhi. Tagliate l’ananas in otto spicchi ed eliminate il cuore legnoso. Tagliate il peperone in quattro pezzi e privatelo dei semi. Affettate gli spicchi d’ananas, tagliate i pezzi di peperone a strisce e le foglie verdi dei cipollotti ad anelli. Tritate le cipolle dei cipollotti e lo zenzero. 3. Scaldate l’olio in una padella ampia. Rosolatevi le cipolle con il peperone, lo zenzero e l’ananas. Aggiungete il riso e rosolatelo a fuoco forte finché diventa leggermente croccante. Sbattete le uova, incorporatele e cuocetele con il riso, mescolando. Unite le foglie verdi dei cipollotti e mescolate. Condite con sale e pepe. Servite il riso fritto. Guarnitelo con la miscela di noci miste e servitelo con spicchi di limetta.

Generazione M è il programma della Migros a favore della sostenibilità, al quale anche i prodotti Bio e quelli certificati dal Fairtrade Max Havelaar apportano un prezioso contributo.

Cookies alla banana e al cioccolato Per ca. 16 pezzi Ingredienti: 100 g di cioccolato fondente*, ad es. Crémant 75 g di noci del Brasile* 100 g di farina 150 g di fiocchi ai 5 cereali 1½ cucchiaini di cannella macinata* 30 g di zucchero greggio* 1 presa di sale 100 g di banane mature* 50 g di burro freddo 1 tuorlo 25 g di miele liquido*

Tempo di preparazione: ca. 40 minuti

Preparazione: 1. Spezzettate il cioccolato. Tritate grossolanamente le noci del Brasile. Versate la farina, i fiocchi, la cannella, lo zucchero e il sale in una scodella. Unite la banana e il burro tagliati a pezzetti. Sfregate gli ingredienti tra le dita fino a ottenere una massa friabile. Incorporate il tuorlo e il miele e mescolate bene, poi unite il cioccolato e le noci. 2. Scaldate il forno a 180 °C. Con l’ausilio di un cucchiaio, distribuite sulle teglie foderate con carta da forno dei mucchietti di pasta e appiattiteli leggermente in modo da formare dei dischi. Lasciate almeno 3 cm di spazio tra un biscotto e l’altro, perché durante la cottura la massa si allarga lievemente. Cuocete i cookies al centro del forno per ca. 12 minuti. Sfornate e lasciate raffreddare. Tempo di preparazione: ca. 20 minuti + cottura ca. 12 minuti per teglia.

Per persona: ca. 14 g di proteine, 22 g di grassi, 77 g di carboidrati, 2400 kJ/570 kcal

Un pezzo: ca. 3 g di proteine, 9 g di grassi, 18 g di carboidrati, 700 kJ/170 kcal

Ricetta di: *Disponibile con certificazione Fairtrade

Bio Fairtrade Max Havelaar zucchero greggio 600 g Fr. 2.30

Bio Fairtrade Max Havelaar riso Basmati lungo 1 kg Fr. 5.90

Bio Fairtrade Max Havelaar noci del Brasile 150 g Fr. 4.90

Bio Fairtrade Max Havelaar noci di Acagiù 100 g Fr. 2.90 Nelle maggiori filiali

Bio Fairtrade Max Havelaar cannella 27 g Fr. 1.25

Fairtrade Max Havelaar miele di fiori liquido 500 g Fr. 5.60 Nelle maggiori filiali

Bio Fairtrade Max Havelaar banane al kg Fr. 3.20


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Idee e acquisti per la settimana

Foto Simone Vogel

Una saporita miscela di succo di arancia, mela e fragola, vitamina C e acidi grassi omega-3.

Una miscela di salute

Durante i pasti le bevande Actilife completano l’alimentazione con vitamine, minerali e acidi grassi omega-3

Le bevande da tavola Actilife rientrano nei cosiddetti alimenti funzionali. Esse, infatti, completano l’alimentazione quotidiana con vitamine, sali minerali e altre importanti sostanze essenziali. E oltretutto hanno un buon sapore! Ne è un esempio la bevanda Omega 3 con succo di arance, mele, fragole e svariati acidi grassi saturi omega-3. Due di questi sono particolarmente preziosi, l’EPA (acido eicosapentaenoico) e il DHA (acido docosaesaenoico) che sono contenuti soprattutto nei pesci ricchi di grasso che vivono in acque fredde, come salmoni, sgombri o aringhe. Essi contribuiscono alla normale funzione cardiaca. I nutrizionisti consigliano una dose giornaliera di 250 mg di EPA e DHA, che corrisponde all’incirca a due pasti settimanali a base di pesce. Chi, però, mangia poco pesce o non ne mangia affatto, può assumere queste sostanze tramite i prodotti a base di omega-3. Infatti, un bicchiere di succo Actlife Omega-3 ne contiene già 100 mg, vale a dire circa il 40 percento della dose giornaliera consigliata. Come alternativa, nel suo assortimento Actilive propone anche le capsule a base di olio di alghe contenenti acidi grassi omega-3. / NO

Actilife Omega 3 Actilife Breakfast Actilife Vital Actilife Bun Di

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LO STILE GIUSTO CONTRO IL FREDDO. 14.80 Cuffia color petrolio

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Idee e acquisti per la settimana

Naturale e dolce

Gli estratti vegetali sono l’ideale per una cura dei capelli delicata. La linea svizzera Belherbal offre i prodotti adatti Swissness e genuinità: c’è un buon motivo per cui, per lo sviluppo dei suoi prodotti, la linea svizzera per la cura dei capelli Belherbal punta sull’efficacia di componenti dolci e di estratti naturali. Gli shampoo e i balsami puliscono e curano i capelli in modoo particolarmente delicato e sono quindi adatti anche ai lavaggi frequenti. Hanno un pH neutro per la pelle, sono testati dermatologicamente e ora si presentano sugli scaffali in una nuova veste e con una pratica chiusura fliptop.

Belherbal, la cura svizzera per i capelli: shampoo Volume e Antigrasso 250 ml ciascuno Fr. 3.85

Shampoo certificato aha! per il cuoio capelluto sensibile

Foto Yves Roth; Styling Karin Aregger

La linea Belherbal comprende prodotti trattanti per ogni tipo di capelli: uno shampoo Antigrasso con ortica e melissa, uno shampoo Volume con malva e luppolo nonché uno shampoo Ultraristrutturante e un balsamo che contengono estratti di bambù e di frumento, raccomandati per la cura dei capelli strapazzati e fragili. Quale novità, pensata specialmente per il cuoio capelluto e i capelli sensibili, è stato sviluppato lo shampoo Sensitive certificato aha! con semi di cardiospermum e cotone. In linea generale, per ottimizzare la cura del cuoio capelluto gli esperti consigliano di massaggiare la cute il più dolcemente possibile quando si lavano i capelli. Anche in tal modo si previene un’eccessiva produzione di sebo da parte delle ghiandole sebacee, sebo che è la causa principale dei capelli grassi. In ogni caso, occorre sempre risciacquare scrupolosamente shampoo e balsamo. / NO

L’industria Migros produce numerosi prodotti Migros molto apprezzati, tra cui anche Belherbal.

Novità: Belherbal shampoo Idratante aloe vera & olio di camelia 250 ml Fr. 3.85

Novità: Novità: Belherbal shampoo Erbe 250 ml Fr. 3.85

Belherbal Balsamo Ultraristrutturante bambù e frumento 250 ml Fr. 4.35

Novità: Belherbal shampoo Sensitive aha! 250 ml Fr. 3.85

I prodotti aha! sono adatti alle persone con allergie e intolleranze.


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1.90 invece di 3.20

Spezzatino di manzo Svizzera, imballato, in conf. da ca. 1 kg, per 100 g

Arrosto punta di vitello arrotolato Svizzera, imballato, per 100 g

33% 1.70 invece di 2.70 Fettine e arrosto coscia di maiale, TerraSuisse Svizzera, imballati, per 100 g

25% 5.90 invece di 7.90 Filetto di cervo Nuova Zelanda, imballato, per 100 g

30% 6.90 Cordon-bleu di vitello prodotto in filiale con carne svizzera, al banco a servizio, per 100 g

In vendita nei maggiori supermercati di Migros Ticino. OFFERTE VALIDE DAL 14.10 AL 20.10.2014, FINO AD ESAURIMENTO DELLO STOCK.

6.90 invece di 10.20 Minipic Svizzera, imballati, in conf. da 3x90 g


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