Azione 41 del 16 agosto 2015

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXVII 6 ottobre 2014

M sh alle p opping agin e 49 -57

Azione 41

Società e Territorio Liceo: introdotta l’opzione specifica Musica, un primo passo per rafforzare il settore delle Arti

Ambiente e Benessere La Fondazione svizzera per il clima a sostegno delle Piccole e medie imprese, pochi i progetti provenienti dal Ticino

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Politica e Economia A Hong Kong la protesta degli studenti per la democrazia

Cultura e Spettacoli A Berlino vissero molti letterati russi tra cui Boris Pasternak

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Stefano Spinelli

Luigi Zanini e l’arte del Merlot

di Sara Rossi pagina 3

Un piccolo bastimento sul mare in tempesta di Peter Schiesser Ha questo suono il declino di un impero? Impercettibile a lungo, ad un certo momento emerge con schianti improvvisi che fanno scricchiolare una, due colonne del palazzo del potere, e in un lento poi spasmodico crescendo di colpi secchi scuote tutte le mura del castello e impaurisce l’animo dei suoi abitanti? È questa la fine della Pax Americana nel mondo, evocata da tempo e sempre esorcizzata? Medio Oriente, terrorismo, Russia-Ucraina, globalizzazione e crisi economica con conseguenti rivolgimenti sociali (la fragilizzazione della classe media, le nuove povertà), contraddizioni del libero mercato, emergenza clima, crisi di valori, democrazie in pericolo, Stati nazionali in dissoluzione, razzismi ed egoismi... Sono tempi difficili, non c’è dubbio, e per i problemi elencati non si vedono soluzioni all’orizzonte. Anzi, l’abbondanza di informazioni e immagini veicolate dai media tradizionali e tanto più quelle non mediate, immesse da chiunque nelle reti sociali, acuiscono ansie, urgenze, senso d’impotenza. La rapidità con cui si torna a guerreggiare (è la terza guerra mondiale, come suggerisce papa Francesco?) conferma la gravità del momento.

Tuttavia: non è uscita da crisi altrettanto gravi se non peggiori, l’umanità in passato? Erano meno gravi delle decapitazioni dell’Isis le atrocità commesse nel Novecento, dalle guerre mondiali alle numerose guerre regionali condotte in Asia, in Africa, ad altri genocidi e dittature? Non sono stati calpestati per secoli diritti e dignità delle persone, fino a schiavizzarle e disumanizzarle? La storia delle sofferenze dell’umanità è lunga quanto la sua esistenza. Ci eravamo semplicemente illusi che la nostra stabilità politica e materiale dei decenni scorsi fosse per sempre. E la disillusione ha sempre qualcosa di paralizzante, lascia una sensazione d’impotenza di fronte ad una realtà che si irrigidisce e poi si sgretola. Proprio in questi momenti servono energie e persone che reagiscano alla depressione collettiva, che contrastino il riflesso di chiusura verso il prossimo e il mondo. Di fronte al «non si può far nulla» si erge il «si può fare qualcosa». Chi può lo fa in grande, altri lo fanno in piccolo, con un lavoro sulle coscienze. Come ha contribuito a fare a fine settembre il (primo) Forum e Festival del film sui diritti umani di Lugano, per fare un esempio di casa nostra. Tredici film e undici dibattiti (il primo giorno alla Franklin University, poi al Cinestar) per tematizzare le violazioni e la difesa dei diritti

umani. Sono stati quattro giorni di immagini forti, temi impegnativi, quesiti irrisolti, che hanno toccato l’animo delle centinaia di frequentatori. Un festival di qualità, con presenze qualificanti: il regista mauritano Abderrahmane Sissako, a Lugano con il suo recentissimo Timbuktu, una splendida narrazione su come si va affermando il fondamentalismo islamico nel Mali; Carla del Ponte, da tre anni a capo della commissione d’inchiesta indipendente sulla Siria, intervistata da Aldo Sofia dopo la proiezione di Silvered Water, Syria Self-Protrait. Orgogliosi, gli organizzatori sono stati di aver portato in sala centinaia di alunni delle scuole professionali: per una volta il loro mondo non si è fermato alle frontiere e lo straniero non è colui che lo minaccia ma colui che è minacciato e tanto ci assomiglia nella sua umanità. Certo, il Festival non ha potuto offrire soluzioni ai drammi dell’umanità. Ma, attraverso immagini e dibattiti, nei presenti si è fatta largo una maggiore consapevolezza del destino dei nostri simili. Come scriveva Rabindranath Tagore, scrittore e poeta bengalese: «Questa vita è la traversata d’un mare dove c’incontriamo nello stesso piccolo bastimento». Basta questo per far nascere un senso di solidarietà verso il prossimo e ridare speranza.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 6 ottobre 2014 ¶ N. 41

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Attualità Migros

M Un posto nel mondo Migros Ticino Si è tenuta a Lugano una giornata di studio dedicata al tema dell’inclusione sociale e professionale,

in occasione dei 25 anni di collaborazione della Cooperativa con la Fondazione Diamante Barbara Manzoni È un «lavoro normale», lo dice Loris impiegato in un’azienda ticinese, la Fieme, da più di due anni in un filmato realizzato dal Laboratorio Laser della Fondazione Diamante e presentato lunedì scorso all’Auditorio dell’Università della Svizzera italiana. Il numeroso pubblico in sala sorride per la semplicità delle parole che racchiudono tutto il senso della serata intitolata «Società inclusiva e lavoro: un dialogo costruttivo» organizzata in occasione dei 25 anni di collaborazione tra la Fondazione Diamante e Migros Ticino. Sì, perché Loris è un giovane disabile e il suo «lavoro normale» è frutto della preziosa collaborazione tra istituzioni socio-educative e aziende private. L’intento della serata era quello

di «far conoscere questa realtà nella speranza di risvegliare l’interesse di altre aziende», ha esordito Lorenzo Emma, direttore di Migros Ticino che ha spiegato come dal 1989 nella sede di S. Antonino lavorino una decina di utenti della Fondazione Diamante impiegati nel settore della logistica. Un esempio concreto di responsabilità sociale dell’impresa che ha scelto anche una seconda via per sostenere il lavoro delle persone disabili. Migros Ticino aiuta infatti a commercializzare prodotti provenienti da laboratori protetti ai quali poi è destinato il ricavato della vendita. La tavola rotonda moderata da Marcello Foa ha visto protagonisti personalità appartenenti al mondo della politica, dell’economia e della socialità che si sono confrontate sul

Indirizzi utili Nel sito web www.f-diamante.ch/interviste/mov.html è disponibile il filmato «Testimonianze – Società inclusiva e lavoro: un dialogo costruttivo», trasmesso in apertura della tavola rotonda e realizzato dal laboratorio Laser della Fondazione Diamante, con interviste a utenti, a rappresentanti di associazioni sociali e di aziende pubbliche e private che hanno scelto di dare vita a progetti di inclusione professionale. Aziende interessate a realizzare un progetto di inclusione professionale o a ricevere maggiori informazioni possono rivolgersi a: - Servizio cantonale dell’integrazione professionale dell’assicurazione invalidità, capiservizio: per il sopraceneri Andrea Torrisi 091 821 94 64; per il sottoceneri Sergio Belotti 091

821 93 58; integrazione@ti.oai.ch - Servizio inserimento lavorativo della Fondazione Diamante: Bellinzonese 091 825 37 07, Locarnese 091 751 21 25, Luganese 091 972 13 28, Mendrisiotto 091 646 44 92, Tre Valli 091 862 42 24; info@f-diamante.ch - Fondazione OTAF, Servizio di integrazione professionale, Marco Canonico, 091 985 33 50, marco.canonico@otaf.ch, www.otaf.ch - Fondazione la Fonte, Servizio di integrazione professionale, Nicolas Spiller, 091 604 58 54, nspiller@lafonte.ch, www.lafonte.ch - FTIA, Federazione ticinese integrazione andicap, 091 850 90 90, info@ftia.ch, www.ftia.ch - Direzione Società cooperativa Area, 091 825 85 69, direzione@area. ch, www.area.ch

tema dell’integrazione nel mondo del lavoro delle persone con disabilità ma anche della reintegrazione di dipendenti con invalidità. Sergio Rossi, professore di economia all’Università di Friburgo, ha ricordato che il diritto al lavoro è iscritto nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo, un diritto umano fondamentale dunque che, se rispettato, permette non solo la realizzazione dell’individuo e la sua inclusione economica ma che ha ricadute positive per tutta la società: un’economia stabile, maggior benessere e sicurezza sociale. In concreto, muovendosi all’interno di quello che il professor Rossi ha definito il «triangolo magico formato da società, economia e ambiente», l’integrazione lavorativa deve attuarsi su un terreno di obiettivi condivisi da Stato e mercato e, ad esempio, su proposte di politiche fiscali volte a sostenere chi crea posti di lavoro sul territorio. E proprio sulla situazione delle imprese sul nostro territorio si è chinato Gianluca Pagani, membro di direzione della Camera di commercio, dell’industria, dell’artigianato e dei servizi, che ha sottolineato come tante aziende ticinesi abbiano avuto esperienze positive e umanamente molto gratificanti nel campo dell’integrazione e della reintegrazione professionale. «È chiaro che in un cantone come il nostro – ha continuato Pagani – la maggior difficoltà deriva dal fatto che molte imprese sono di piccole, se non piccolissime, dimensioni». «In un’azienda grande – ha confermato Monica Duca Widmer, presidente del Consiglio di amministrazione della Coopertiva Migros Ticino – è più facile trovare il posto giusto per un dipendente con difficoltà e nel caso di Migros si è potuto contare su una predisposizione innata della cooperativa a una presenza sociale e culturale sul territorio, ma anche le aziende piccole possono tentare perché

Da sinistra: Michele Passardi, Monica Duca Widmer, Sergio Rossi, Marcello Foa, Laura Sadis e Gianluca Pagani. (Stefano Spinelli)

le esperienze di integrazione offrono un valore aggiunto a tutti i collaboratori, è l’ambiente di lavoro intero a guadagnarci». «Gli strumenti e la volontà politica – ha continuato Monica Duca Widmer – esistono, manca un po’ di coordinazione fra i vari attori. Sarebbe inoltre auspicabile che il Cantone si impegnasse ancora di più nel dare il buon esempio aumentando la presenza di persone disabili fra i propri dipendenti». La società inclusiva è un obiettivo che richiede non solo delle politiche e dei moduli di sostegno adeguati ma anche un cambiamento culturale, perché la diversità non è un fantasma ma si incarna nella realtà e colpisce il 10% delle persone in età lavorativa. La direttrice del Dipartimento finanze ed economia, Laura Sadis, ha precisato nel suo intervento che sono un’ottantina i dipendenti cantonali con disabilità (un numero che si vorrebbe incrementare) e che nel corso degli anni

si è riscontrata certamente una sensibilità crescente delle aziende sul tema ma anche dei potenziali non ancora sfruttati. Durante la serata inoltre è stato da più parti ribadito come in epoca di crisi e di intensificazione dei ritmi di lavoro l’integrazione si trovi inevitabilmente ad affrontare nuovi ostacoli, ma Michele Passardi, presidente del Consiglio di fondazione della Fondazione Diamante, ha evidenziato che «la società oggi è più attenta a quei cittadini che partono con opportunità diverse, l’inclusione dei quali non ha né regole né ricette ma si basa sulla lettura attenta delle capacità e delle aspettative di tutte le parti coinvolte. La soluzione è sempre individuale e molto spesso è affidata alla creatività dei singoli e alle competenze maturate da chi si occupa da molti anni di questi progetti; in particolare la Fondazione si avvale di 8 operatori che assicurano all’azienda e all’utente un fondamentale accompagnamento».

La sostenibilità alimentare fa tappa in Capriasca Generazione M Grande successo per le giornate Scuola Natura: oltre 1500 i ragazzi coinvolti in tutta la Svizzera,

24 le classi in Ticino, con 443 allievi

Nel torchio vengono pressati frutti per la produzione di succo di mela. (Elia Stampanoni)

Elia Stampanoni Le giornate Scuola Natura del Wwf, organizzate con il sostegno di Migros nell’ambito della campagna «Generazione M», hanno festeggiato il quinto anno. In Svizzera sono oltre 1’500 gli allievi che nel 2014 hanno aderito alla proposta. Dopo biodiversità (2010 e 2011) e acqua (2012 e 2013), il tema della sostenibilità alimentare ha fornito utili e interessanti spunti per giochi, attività e riflessioni. Gli incontri, abilmente coordinati nella Svizzera italiana da Nadia Klemm del Wwf Svizzera, erano destinati alle classi dalla terza alla quinta elementare e in Ticino si sono svolti a Mezzana (quattro giornate) e in Capriasca (due giornate). Sui prati di Tesserete, Sala e Vaglio, lo scorso 25 e 26 settembre un bel sole autunnale ha accolto le otto classi provenienti dalle scuole di Bedigliora, Croglio-Monteggio, Minusio, Lugano -Monte Brè e Pregassona. I 158 ragazzi si sono goduti le quattro attività gestite dagli animatori del Wwf e da ProFrut-

Azione Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

teti, un gruppo di lavoro dell’Associazione Capriasca Ambiente che ha collaborato a questa edizione e che si prefigge di salvaguardare e valorizzare le antiche varietà di mele. Nella «postazione torchio» (vedi foto) i bambini hanno potuto vedere da vicino la produzione del succo, un progetto di successo nato nel 2008. La gente della Pieve ha infatti imparato di nuovo ad apprezzare questi frutti presenti sul territorio, dove si contano almeno 70 diverse varietà e oltre 200 alberi ad alto fusto. Ed è proprio tra queste piante che la terza attività ha affrontato la problematica degli sprechi alimentari. I ragazzi hanno visto come nei nostri rifiuti finiscano ancora troppi alimenti mangiabili che, oltre a uno spreco di risorse, sono un chiaro sperpero di denaro. Si stima che in Svizzera, nel percorso tra il campo e la tavola, circa un terzo delle derrate alimentari prodotte vengano sciupate, di cui ben la metà gettate nella spazzatura dal consumatore. Tiratura 98’645 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Oltre ad evitare lo spreco, importante è pure scegliere cibi di stagione e locali. Il gioco di abbinare il frutto alla sua stagione sembrerebbe una banalità, ma in un mondo così globalizzato e connesso, a volte è necessario (re)imparare anche che ogni periodo dell’anno ha i suoi prodotti e che la fragola, frutto simbolo della problematica, purtroppo non possiamo mangiarla in tutte le stagioni. Gli scopi di queste giornate sono soprattutto di motivare i docenti alle lezioni all’aperto, di avvicinare gli allievi al tema dell’alimentazione sostenibile e degli sprechi alimentari, vivendo nel contempo esperienze positive nella natura. Il successo è confermato anche dagli apprezzamenti dei bambini. Le iscrizioni per le Giornate Scuola del 2015, gratuite grazie al sostegno di Migros, apriranno nel corso della prossima primavera. Informazioni

www.wwf.ch/scuolanatura.

Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


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Società e Territorio Movimento AvaEva Vecchiaia al femminile: un convegno a Lugano si rivolge alle donne oltre i 60 anni pagina 4

Videogiochi Destiny, l’ultimo nato di Activision, è un titolo da record non solo per quanto riguarda il budget da mezzo miliardo di dollari pagina 5

Luigi Zanini iniziò la sua attività nel 1964 insieme alla moglie Liliana: «non ho mai trovato interessante andare a visitare un’azienda senza storia né bellezza». (Stefano Spinelli)

L’incantesimo dell’uva

Incontri Il viticoltore Luigi Zanini ha fondato la Vinattieri Ticinesi nel 1985 ed è importatore di vini da 50 anni Sara Rossi Questa è una bella storia. Parla di un bambino che ha conosciuto la vendemmia grazie ai suoi nonni, che lo chiamavano per pigiare l’uva, e che adesso, da grande, festeggia il mezzo secolo di attività nel mondo vitivinicolo. Quel bambino è Luigi Zanini e, dal suo meraviglioso impero del vino a Ligornetto, ci racconta come ha sviluppato la sua passione: «Deve avermi punto un raspo d’uva quando ero dai miei nonni», sorride. 50 anni fa quel bambino che pigiava l’uva era diventato un ragazzo giovane e intraprendente, che lavorava a Cureglia dai produttori di gazzose Martinenghi, e che un bel giorno prese il coraggio di iniziare un’attività in proprio. Lo fece acquistando una Cantina di vini a Capolago e insieme cercando di individuare, nel vasto panorama enologico italiano, i vini qualitativamente più significativi per essere distribuiti in Svizzera. È iniziato un viaggio che non si è mai interrotto, alla ricerca di aziende agricole e vitivinicole prestigiose, belle e ricche di storia. Ecco perché lo slogan della società Zanini è «L’Aristocrazia dei Vini»: «Quando nel 1964 ho iniziato la mia attività insieme a mia moglie, in Ticino c’era già chi si occupava di questo settore e io in qual-

che modo mi dovevo distinguere; per gusto e per inclinazione personale ho scelto di cercare in Italia vini di qualità che fossero prodotti in tenute o castelli. Non ho mai trovato interessante andare a visitare un’azienda senza né storia né bellezza, per quanto grande o efficiente essa sia». Questo è stato e continua a essere l’atteggiamento di Luigi Zanini: se si parla di piaceri, tutto deve essere coerente. Se bevo un buon vino, l’etichetta deve essere bella, il nome, la cantina, la vigna; se lo bevo accompagnato da un pasto devo curare le pietanze, la tavola, il decoro; se ho mangiato e bevuto bene, allora devo anche dormire bene... «Quando oggi organizzo una degustazione, voglio che si svolga in un bel posto dove potervi trascorrere la notte, se si trova lontano, in modo da potersi godere di quel bel momento sotto tutti i punti di vista». Il bicchiere di vino per lui rappresenta la più grande gioia e stappare una bottiglia in onore di qualcuno è sinonimo di «regalargli un sogno». Zanini degusta 3000-4000 vini l’anno per conoscerli e per trovare quelli che possono essere in grado di donargli la sensazione più intensa. Quando racconta di una degustazione verticale (stesso vino e stesso produttore ma appartenente ad annate diverse) è

come sentirlo parlare di un viaggio, di una mostra d’arte, di un libro in cui ci si è immersi all’inizio e se ne è usciti solo alla fine. Il vino più antico che ha mai assaggiato? «Fuori nevicava. Molti avevano desistito e ci siamo ritrovati in pochi a quella degustazione. C’era un Sauternes Yquem del 1874... il colore aveva assunto una tonalità scura, abbandonando il suo oro e i suoi aromi di gioventù, fico e mandarino. Era diventato più simile a un Madera ma prima di trovare le parole per descriverlo avremmo voluto inginocchiarci e piangere...». Negli anni il giovane imprenditore si è allargato in termini di ettari coltivati a vite e si è formato nelle migliori università del vino, in particolare a Bordeaux. Piano piano è diventato proprietario e viticoltore tra i più importanti in Svizzera gestendo quasi 100 ettari (in Ticino la superficie vignata è di 1076 ettari); inoltre oggi è rappresentante di 42 eccellenze imbottigliate in Italia e in Francia che distribuisce in esclusiva a tutta la Svizzera. È proprietario e creatore delle enoteche Vinarte. Nel 1975 si è trasferito a Ligornetto, dove oggi noi lo abbiamo incontrato nel suo ufficio. Oltre al punto di distribuzione, ci sono anche le cantine e i macchinari che proprio nelle scorse settimane si stavano preparando ad ac-

cogliere il momento della vendemmia. Infatti, trenta anni fa (l’anniversario ricorrerà nel 2015) Zanini ha avuto il desiderio di produrre anche lui del vino: «Volevo dare qualche cosa al Ticino» e così ha fondato la Vinattieri Ticinesi, che produce un Merlot distintosi più volte nel confronto con i maggiori Merlot del mondo; tra l’altro, è stato uno dei primi a impiegare le barriques per l’invecchiamento del vino nel nostro cantone. La cantina che ha costruito per vinificare è bellissima ma quando entriamo nell’altra, quella dove la Vinattieri fa invecchiare il suo meraviglioso nettare d’uva, sembra un Teatro dell’Opera Lirica e rimaniamo per un attimo in silenzio. Vinattiere, ci spiega poi, era l’antico termine popolare toscano per designare chi sa fare il vino, prima che arrivasse la dotta parola tratta dal greco enologo. «Il vinattiere è un artigiano che fa il suo lavoro con passione, va nella vite a guardare come cresce l’uva, ne prende un acino, lo tocca e lo assaggia per vedere se è maturo e che gusto ha; questa professione è bello svolgerla così, da vicino, con le mani». L’amore di Zanini per la materia si estende anche alla conservazione delle antiche varietà di uva; egli ha infatti piantato un vigneto sperimentale, ampelografico, con

400 differenti qualità di vitigni, trovati all’Università di Montpellier: è una biblioteca di frutta, un archivio che conserva un patrimonio storico. Oggi, nei giorni del grande traguardo (le nozze d’oro con il proprio mestiere) il fondatore ci racconta che la continuità e la familiarità dell’azienda è garantita dal figlio, Luigi Jr. Zanini. Già nel 1992, terminati gli studi e le formazioni commerciali e in enologia, il giovane era entrato in azienda insieme al padre; ora, da alcuni anni, è diventato lui il conduttore dell’impresa familiare e anche sua moglie Raffaella è entrata a far parte dell’attività. Saranno stati pure loro punti da un raspo di vite? Sicuramente Luigi Jr. ha avuto modo fin da piccolo di seguire il ciclo della vigna e di respirare l’amore che necessita la produzione di vino... così come succede alla piccola erede, di nome Luna, la figlia di Luigi Jr. e Raffaella, ancora lontana dal poter assaggiare il vino, ma che ne conosce già il rispetto e il profumo. Finiamo il giro di visita tra le cantine. Prima di salutarci, Zanini (senior) lancia un ultimo ringraziamento: «Non dimentichiamolo mai: dietro a un uomo che ha successo c’è sempre una grande donna... Nel mio caso si chiama Liliana».


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Società e Territorio

Le donne e la vecchiaia

Convegno Il Movimento AvaEva organizza il 9 ottobre una giornata di confronto e scambio di idee

destinata alle donne oltre i 60 anni ma aperta a tutti gli interessati Laura Di Corcia Il preavviso c’è, perché teoricamente ne siamo tutti perfettamente consapevoli. Ma poi, quando si entra nell’ultima fase della vita, la tanto temuta vecchiaia, lo scivolone è improvviso e si ha l’impressione di non essere mai preparati. In una società fifona come la nostra, dove la patina è tutto e la verità del corpo si nasconde in un angolino remoto e lontano (per carità!), l’anzianità è spesso vissuta come una punizione ingiusta, dimenticando di coglierne opportunità e vantaggi. Che dire poi della donna, che già ha tanto faticato a riconoscere e definire la sua identità in gioventù? In occasione del convegno organizzato dal Movimento AvaEva (progetto promosso dal Percento Culturale Migros) che si svolgerà il 9 ottobre all’albergo Pestalozzi di Lugano, dalle 9 alle 17, abbiamo intervistato una delle due relatrici, la filosofa e saggista Francesca Rigotti, che insieme a Silvia Vegetti Finzi proporrà alcune riflessioni sul tema delle donne over sessanta. Professoressa Rigotti, quando si parla di anzianità, si parla inevitabilmente anche di morte. Credo che le donne si approccino a questa fase della vita in una maniera diversa rispetto agli uomini. Esiste quindi una letteratura filosofica o sociologica che affronti il tema della vecchiaia femminile?

La risposta è inequivocabilmente no. Non pretendo di essere un’enciclopedia

mestruazioni. Altre la avvertono come una barriera e vivono come una battaglia perduta l’estinguersi della capacità riproduttiva: fine della fase fertile della vita, fine delle occasioni per concepire e figliare. Tempo scaduto.

La filosofa Francesca Rigotti. (Ti-Press)

Ma la vita continua. Quali strategie adottare, quindi, per riprendere il contatto con sé stesse e lasciare che l’energia fluisca liberamente? Esiste davvero solo il bisturi?

ambulante e di conoscere tutto, ma direi che davvero non esiste. Anche perché le donne non muoiono, almeno stando agli annunci funebri presenti sui giornali. Ci sono sempre nomi di uomini! In generale questi temi fan paura e si evitano, al di là dei generi.

Soprattutto in Italia c’è questo paradosso: da una parte si dice che la società pecchi di gerontocrazia, a danno dei giovani, dall’altra, però, i vecchi non vengono trattati col dovuto rispetto e sono addirittura trascurati. Per le donne esiste un appuntamento che fa da spartiacque fra un prima e

un dopo. Si chiama menopausa.

È un argomento tabù, di cui non si parla praticamente mai, se non nell’ambito di qualche rivista particolarmente coraggiosa. Eppure è un evento importantissimo nella vita di una donna. Gli uomini, volendo, possono continuare a fare figli anche da anziani. Per le donne è diverso: si tratta di una cesura improvvisa che non tutte prendono allo stesso modo. Alcune donne scivolano dentro la menopausa e ne escono fuori senza quasi accorgersene e senza rifletterci sopra: i figli ci sono stati quando era naturale che ci fossero, la vita continua anche senza

Anna Magnani diceva: «lasciatemi tutte le rughe, c’ho messo una vita a farmele!». Io non saprei, direi che ogni posizione moralistica lascia il tempo che trova e che se una donna vuole andare dal chirurgo per preservare la sua bellezza, non fa nulla di male. Ma rimango con una visione positiva della vecchiaia, una visione ciceroniana. Cicerone diceva che gli anziani, pur perdendo alcune qualità tipiche della gioventù, come la velocità, ne acquisivano altre, per esempio il giudizio. Autori più vicini alla nostra epoca, invece, sono denigratori o perlomeno critici rispetto alla vecchiaia, presentata come qualcosa di sgradevole. Secondo me invece bisognerebbe recuperare un altro modo di accostarsi alla terza età, che tenga conto anche degli aspetti positivi. Che sarebbero?

I ricordi, per esempio. Sono molto importanti e non riguardano solo la memoria collettiva. Ma c’è anche il presente e la ricetta vincente è saper mescolare le due dimensioni. La vecchiaia può essere vista non come una botola in cui si precipita impotenti, ma come un’oppor-

tunità: molte donne, una volta raggiunta la terza età, hanno finalmente il tempo di coltivare e far prosperare quella creatività che durante gli anni precedenti è stata messa da parte e soffocata, proprio per la mancanza di tempo a causa del turbinio della vita, tra lavoro, vita coniugale e figli da accudire. Vengono meno gli impegni e si entra in una fase che la parola italiana «ozio» non descrive fino in fondo; meglio usare il termine tedesco Muße, ovvero l’agio, il comodo, la calma. Il lavoro, quando piace, quando è soddisfacente, è però fonte di nutrimento sia per uomini che per donne.

Esatto. Per questo io non sono per nulla d’accordo che il pensionamento sia così standardizzato e imposto a tutti nella stessa maniera. Lo trovo addirittura lesivo dei diritti degli uomini e delle donne. Perché non distribuiamo dei formulari, non chiediamo alla gente quando vuole smettere di lavorare? Ci sarà chi preferisce lasciare il proprio mestiere appena possibile, chi vuole andare avanti fino a settant’anni. Magari ci sono insegnanti che possono continuare nella loro professione a lungo, perché toglier loro questa opportunità? Fra le donne che hanno saputo plasmare in maniera creativa la loro anzianità, mi saprebbe indicare un modello che ha carattere iconico?

Margherita Hack. Chi altri, se no? Lei è stata veramente un esempio per tutte. È andata in pensione dal suo Osservatorio astronomico, ma ha continuato a scrivere, a promuovere l’amore per l’astrofisica tra le ragazze. Annuncio pubblicitario

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Società e Territorio

Un Icaro da mezzo miliardo Tutto per la vostra salute.

Videogiochi Sviluppato dallo studio

che ha inventato la serie Halo lo sparatutto di massa Destiny è un titolo da record, non solo per quanto riguarda il budget

Filippo Zanoli Se solo qualche anno fa qualcuno avesse detto che il budget per la creazione e il lancio di un videogioco sarebbe arrivato così in alto, nessuno ci avrebbe creduto. Eppure, per questo Destiny che è un gioco speciale, la super-azienda Activision ha sborsato ben oltre il mezzo miliardo di dollari. Un investimento, a detta dei vertici dell’azienda, «dovuto, se ci si aspetta di dominare il settore». E il gioco dei record è qualcosa di speciale, anche solo a partire dalla storia del suo concepimento: Bungie, studio pioniere per quanto riguarda gli sparatutto fantascientifici che ha fornito anno dopo anno a Microsoft blockbuster di successo, inventando la veneratissima serie Halo (che è un po’ il simbolo di Xbox) ha deciso, probabilmente incentivata dalla sonante moneta verde, di lasciare la sicurezza per gettarsi nell’ignoto dello spazio siderale. Ad accogliere queste sue velleità icaresche ci ha pensato, come già accennato, Activision che è uno dei due-tre Gargantua veri dell’industria. L’idea di Bungie era ambiziosa: creare un ibrido mai visto prima che fosse sparatutto, gioco di ruolo e mondi online persistenti. Ambientazione, manco a scherzarci, post-atomica e fantaspaziale; i nemici, indovinate un po’, tremendi alieni. La storia? Complessa e stratificata, così come la cura nella progettazione artistica e concettuale. Insomma, Destiny – che già dal nome riprende in chiave epica e positiva il nome di uno dei videogame più visionari e innovativi di sempre, Doom – mirava più in alto di quanto qualsiasi altro abbia mai osato. Dei 500 milioni di dollari, molti sono stati usati per la realizzazione tec-

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nica vera e propria e il risultato è uno strepitoso universo di gioco (anche se in molti hanno sussurrato: «Si poteva fare di più») ma altrettanti sono stati impiegati in una delle campagne marketing più martellanti della storia del videoludere. Il risultato? Un’attesa spasmodica, senza precedenti. Anche alle nostre latitudini, solitamente più composte, dietro le casse dei reparti di elettronica se ne potevano scorgere pile di copie prenotate. E quando il gioco è uscito ha venduto un gran bene tanto che 325 milioni di dollari sarebbero già rientrati dopo cinque giorni sugli scaffali. Sì, ma il gioco? Qual è l’opinione dei videogiocatori e dei critici? Divisa, perché un mostro come Destiny non può far altro che separare, proprio per la sua voglia di essere un ibrido, quindi un qualcosa di diverso fatto con parti di cose già note. In lui non vi è nessuna traccia di voler provare ad essere qualcosa di più di un «semplice» videogioco: imperfetto, indiosincrasico, forse anche un po’ puerile, ma supremamente divertente. L’imperfezione, proprio per via della sua natura online e liquida, verrà limata patch dopo patch, l’idiosincrasia invece semplicemente passerà inosservata, resterà (se tutto va bene) il divertimento. Questo piccolo grande gioiello di Activision e Bungie è disponibile per Playstation 4, Playstation 3, Xbox One e Xbox 360. Fra le versioni l’unica differenza è cosmetica: il gioco in sé è praticamente identico ma (ovviamente) risulta più bello, scintillante e dettagliato sulle console di ultima generazione. Destiny forse non sarà il futuro dei videogiochi ma vale senz’altro un po’ del vostro tempo, a patto che abbiate compiuto almeno 16 anni di età [PEGI 16+].

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 6 ottobre 2014 ¶ N. 41

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Società e Territorio

La maturità diventa anche musicale Liceo È stata introdotta in via sperimentale da quest’anno negli istituti cantonali di Lugano 1 e Bellinzona

l’opzione specifica Musica, primo passo per rafforzare il settore delle Arti

Sono 18 i primi allievi degli istituti di Lugano 1 e Bellinzona ad essersi iscritti all’opzione specifica Musica. (CdT - Fiorenzo Maffi)

Stefania Hubmann Sono i primi studenti a beneficiare di una nuova opportunità di formazione liceale offerta dal Cantone Ticino nel settore delle Arti e introdotta quest’anno in via sperimentale. Diciotto allievi suddivisi fra gli istituti di Lugano 1 e Bellinzona si sono iscritti all’opzione specifica (OS) Musica, corso che di fatto inizierà con l’anno scolastico 2015/2016 quando al secondo anno di liceo saranno chiamati a scegliere in modo definitivo il rispettivo indirizzo di studio. Senza clamore ma con molta determinazione il Gruppo di lavoro ad hoc, istituito dalla Divisione della Scuola nel maggio 2013 per approfondire questa possibilità, in meno di un anno ha elaborato un percorso formativo di qualità, perfettamente integrato negli obiettivi di cultura generale propri del Liceo e di sicuro interesse per chi possiede un profilo scolastico solido. «La Musica è un’esperienza umana fondamentale e universalmente condivisa. Le virtù cognitive ed espressive proprie dell’educazione musicale abbracciano e talvolta superano, per l’ampiezza dei settori che il fenomeno musicale coinvolge, quelle di molti altri campi della formazione generale di base».

Il gruppo di lavoro coordinato dal professor Giampaolo Cereghetti si è confrontato con l’esperienza dei licei romandi: in futuro si vorrebbero proporre anche le opzioni Arti visive e Filosofia, Pedagogia, Psicologia Così scrive il Gruppo di lavoro, coordinato dal prof. Giampaolo Cereghetti, direttore del Liceo cantonale di Lugano 1, nel rapporto preliminare presentato al Dipartimento dell’educazione della cultura e dello sport (Decs) nel dicembre 2013 (la relazione conclusiva è stata consegnata nel marzo 2014). La nuova opzione specifica è quindi in grado di costruire numerosi ponti con altre discipline fondamentali, quali ad esempio Matematica, Fisica, Italiano e Storia. La formazione, si legge ancora nel rapporto, intende fornire agli studenti strumenti e competenze negli ambiti della storia

della musica, della teoria e della pratica musicale che non vengono affrontati, o lo sono con un minor grado di approfondimento, nell’ambito del corso di Musica previsto in prima e seconda Liceo. La maturità federale con opzione specifica Musica rappresenta la base ideale per chi ambisce a proseguire gli studi musicali, senza per questo precludere l’accesso ad altre facoltà universitarie. A elaborare nel dettaglio il programma d’insegnamento della nuova opzione specifica saranno i docenti di Musica Carlo Frigerio e Matteo Bronz con la supervisione di Giuliano Castellani, esperto per l’insegnamento della Musica nei Licei cantonali, tutti membri del Gruppo di lavoro. Il piano orario settimanale prevede 3 ore in seconda, 4 in terza e 5 in quarta più 1 ora di musica

strumentale o canto da svolgere in istituto o in forma privata. Nelle sedi di Lugano e Bellinzona i due insegnanti seguono rispettivamente undici e sette allievi. Nel Liceo di Lugano 1 sono raggruppati in un’unica classe di cui fa parte anche un gruppo di studenti di indirizzo scientifico, mentre nel Liceo di Bellinzona sono suddivisi in più classi. Tutti hanno alle spalle conoscenze musicali legate alla pratica strumentale o vocale. Suonano in prevalenza pianoforte, violino e chitarra. L’OS Musica è però aperta anche agli studenti che intendono iniziare tale pratica in prima Liceo. Una possibilità in sintonia con lo spirito della scuola, come precisa il prof. Cereghetti. «Il Liceo offre una formazione di cultura generale. L’obiettivo è quindi diverso rispetto a quello delle scuole di musica, prima fra tutte il

Conservatorio. I due percorsi possono essere visti come complementari, soprattutto per chi ha già raggiunto un livello preprofessionale in ambito musicale. La nascita e la crescita del Conservatorio della Svizzera italiana hanno contribuito a diffondere la pratica della musica sul nostro territorio creando, unitamente ai progetti musicali sviluppati all’interno dei Licei, le premesse per l’introduzione della nuova opzione specifica». L’OS Musica è una proposta avanzata direttamente dal direttore del Liceo cantonale di Lugano 1 che, oltre ad apprezzare negli anni il talento musicale di alcuni allievi del suo istituto, si è confrontato con l’esperienza dei licei romandi, dove l’indirizzo musicale dà ottimi risultati. In Ticino l’opzione specifica Musica contribuisce a colmare una lacuna nel settore delle

Arti, la cui percentuale d’insegnamento nel curricolo liceale è ridotta al minimo. Parallelamente a questa iniziativa è stato promosso lo studio per l’OS Arti visive, disciplina che rappresenta l’alternativa a Musica nella griglia oraria del primo biennio. Pure all’esame l’introduzione di un’altra nuova opzione specifica: Filosofia, Pedagogia, Psicologia. A tutti gli allievi dei Licei cantonali, oltre alle ore d’insegnamento, sono offerte diverse possibilità di praticare musica d’insieme in cori ed ensemble strumentali. «Nel nostro Cantone – spiega il prof. Carlo Frigerio – non possiamo contare su una tradizione musicale così forte come nelle altre regioni svizzere. Da diversi anni si assiste però a un progressivo aumento degli allievi che frequentano corsi musicali privati con ripercussioni positive anche sull’attività dei gruppi scolastici. Nel 2013 per la prima volta è stato organizzato un concerto che ha riunito i cori e le orchestre dei cinque Licei cantonali. Inoltre, da alcuni anni partecipiamo a Ecolades, il festival musicale delle scuole romande e ticinesi che si svolge ogni tre anni a La Chaux-deFonds/Le Locle». La musica d’insieme è un’attività che favorisce la crescita a tutti i livelli. Lo ribadisce anche il prof. Matteo Bronz, rilevando il valore della musica come scuola di vita. «Impegno, costanza, collaborazione, attenzione agli altri, sono comportamenti paganti anche al di fuori dell’ambito musicale. L’OS Musica è un’opportunità per chi segue una formazione al Conservatorio come pure per chi si è avvicinato alla musica attraverso un altro approccio, ad esempio quello bandistico». Senza dimenticare che oggi musica significa anche tecnologia. Il programma in fase di allestimento tiene conto di questi aspetti innovativi, in particolare per quanto riguarda le tecniche di amplificazione e registrazione del suono. Per i docenti di Musica si aprono così nuove sfide e al contempo interessanti opportunità. L’opzione specifica permette infatti alla Musica di entrare nel secondo biennio del Liceo, giungendo fino all’esame di maturità. Agli studenti orientati verso questa disciplina si chiede motivazione, applicazione, curiosità e creatività. «Sono attitudini che devono permettere loro di emergere quali leader a livello scolastico e nelle attività musicali di gruppo organizzate dall’istituto», conclude il direttore del Liceo cantonale di Lugano 1. «Dovranno rappresentare uno stimolo per i compagni favorendone la crescita a beneficio di tutti, perché questo tipo di collaborazione giova anche a chi è bravo».

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Samir Senoussi e Henri Fellner, Tutti a scuola!, Edizioni Il Castoro. Da 4 anni Il titolo si staglia in stampatello bianco, come fosse scritto col gesso sulla lavagna, lo sfondo della copertina è di un bel verde acceso, e sul verde fanno capolino i musetti degli animali più diversi, dal procione alla farfalla, perché, appunto, «tutti» vanno «a scuola»! In questo albo di due autori francesi su un tema tipico della letteratura per l’infanzia – i primi approcci con la scuola – la cosa interessante è che le illustrazioni aggiungono moltissimi elementi narrativi ed espressivi alle vicende. Sin dalla prima doppia pagina, in cui il testo si limita ad enunciare «oggi è il primo giorno di scuola per la classe degli animali», possiamo immaginare le più diverse modalità di vivere questo primo giorno, a partire dalle espressioni dei vari cuccioli: preoccupato l’orsetto, serio il topino, ansioso l’uccellino, zelante il serpente… E poi,

nel susseguirsi delle attività, il dialogo tra i testi chiari e sobri di Senoussi e l’umorismo delle illustrazioni di Fellner, dà vita a pagine dalle grandi potenzialità narrative per il piccolo lettore, che potrà immaginare tante ulteriori storie: il camaleonte diventa di tutti i colori se si mette davanti ai tubetti delle tempere, il polipo lavora con più pennelli, mentre lo scoiattolo fa un bel collage con foglie e nocciole. Ognuno ha poi abilità diverse: che brava la scimmia in ginnastica, e

come è bravo l’uccellino a lezione di musica, però il castoro riesce bene nelle costruzioni! E non tutti socializzano subito, per qualcuno – ad esempio l’istrice – è più difficile farsi degli amici. In altri momenti l’ironia lascia il posto alla tenerezza – come le pagine dedicate al pisolino, o alla nostalgia di mamma – e anche alla sorpresa, come nel finale in esterno notte, con la scuola «vuota»… Elena Arévalo Melville, Niente Principe Ranocchio, Donzelli Editore. Da 6 anni Va bene «da 6 anni», ma è un libro che potrà trovare risonanze in età adolescenziale, e anche in età adulta. Perché è una bellissima storia d’amore. Che oltretutto riesce in un’impresa pressoché impossibile, ossia rivisitare per l’ennesima volta la fiaba del Principe Ranocchio e uscirne in una veste vivificata e originale. C’è Lei, che è una fanciulla; e c’è Tucano, che è un tucano. Tutto qui.

Vivono in una foresta, immersi in un’atmosfera arcaica e indefinita, come nelle fiabe, appunto. «Lei viveva con Tucano», recita il potente ed essenziale incipit. Giocano insieme, cercano bacche, lui le insegna a cantare, lei gli legge delle storie. «Per tante stagioni si spartirono risate, parole, silenzi e frutti». E poi «un martedì, passate le piogge, Lei sentì d’essere cambiata»: qui testo e illustrazione si fanno delicate metafore del passaggio di Lei da bambina a donna. «È tempo che io mi trovi un principe». Ma non

avendo ancora accettato sé stessa, farà dei tentativi destinati a fallire. Finché si limiterà ostinatamente a cercare un ranocchio da trasformare in principe, la delusione sarà inevitabile; ma quando, sporgendosi sullo stagno, vedrà la sua immagine e prenderà atto di sé, sarà pronta per trovare il vero amore. Che c’è sempre stato, ma ora è tempo di vederlo con occhi nuovi. E occhi nuovi avrà anche il lettore, dopo essersi soffermato sulle pagine di quest’albo, dove la leggerezza – e a volte l’ironia – del testo, si armonizzano con l’intensità delle immagini. Il motivo fiabesco dello «Sposo Animale» viene qui declinato nel Tucano, animale presente in Sud America (l’autrice è nata in Guatemala), il quale nel rituale di corteggiamento offre una bacca alla femmina, e questo suo tratto reale viene con sensibilità adattato alla storia, per costruire un finale intenso che tocca corde profonde nell’animo di ognuno di noi.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 6 ottobre 2014 ¶ N. 41

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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Il giorno che non ci fu Se mai vi fosse capitato di fare il check-in in un hotel di certe parti d’Italia, o in Spagna, in Portogallo o nel Granducato di Polonia e di Livonia il 6 ottobre 1582 e aveste chiesto, la mattina dopo, quale fosse la data per poter mettere a punto il vostro orologio, vi avrebbero risposto che era il 16 ottobre. Immaginate la confusione: dieci interi giorni persi. Di lavoro, di stipendio, di appuntamenti, di vita. Sì, perché il 6 ottobre 1582 non è mai esistito. Succedeva che il 1582 era stato un anno normale fino al 5 ottobre. Il 6 ottobre fu invece dichiarato essere il 15 ottobre. Era quello infatti il giorno deciso da Papa Gregorio XIII per mettere in essere la riforma del calendario da lui voluta con la Bolla Inter Gravissimas del 24 febbraio di quell’anno. La necessità di «saltare» ben dieci giorni era derivata dal fatto che dopo accurate ricerche di matematici, filosofi ed astrologi spesso in disputa fra di loro, si era convenuto di apportare una modifica alla lunghezza dell’anno pari allo 0,0002% al fine di

riportare la data per la celebrazione della Pasqua in linea con quella concordata al Concilio di Nicea nel 325. L’esatto calcolo al quale si giunse dopo la modifica della proposta-base di Aloysius Lilius è materia troppo complicata per le deboli competenze matematiche dell’Altropologo e dunque ce le risparmiamo. Ma provate a pensare la confusione che dovette regnare almeno fino a quando non si accettò il fatto che – improvvisamente – metà Europa viveva dieci giorni prima dell’altra metà: ammetterete che nell’epoca nella quale tutti viviamo col tempo globale che fa funzionare i computer qualche problema deve esserci stato. Sì, perché l’Europa protestante e quella ortodossa continuarono a funzionare col precedente calendario Giuliano fino ad epoche abbastanza recenti: la Grecia, ultima e resistere al diktat romano, modificò il calendario solo nel 1923 – e le chiese ortodosse ancora celebrano Natale e Pasqua con un notevole ritardo rispetto al resto dell’orbe. Sul calcolo del

derati, ma sono sicuro che nemmeno un precisissimo referendum riuscirebbe a dare una risposta. Alla domanda di cosa fosse il tempo, Sant’Agostino rispondeva nelle confessioni: «Io so cosa sia il tempo, ma quando mi chiedono di spiegarlo già non lo so più». Più tranchant Emmanuel Kant, il grande filosofo dell’Illuminismo: per lui il tempo (e lo spazio) era condizione trascendentale dell’esistenza, parolone impegnativo che altro non vuol dire che è meglio non cercare di definirlo perché è invece lui – il tempo – che definisce noi come esseri finiti e transeunti – amen. E meglio non se la cavano gli amici Gurunsi dell’Altropologo nel Nord del Ghana che invece calcolano il calendario sulla base di settimane che non sono settimane bensì quadrimane nel senso che durano solo quattro giorni. Questi corrispondono all’intervallo che intercorre fra un mercato e l’altro: da qui, per alcuni, l’origine del calcolo calendariale per esigenze di commercio. Immaginate, se non ci

credete, come sarebbe andare al mercato e non trovarci nessuno perché è il giorno sbagliato. E il calcolo dei mesi? Beh, per quello c’è la stagione delle piogge, o quando si piantano gli ignami o quando ricompaiono certi uccelli migratori. O – per quanto riguarda gli anni – «quando morì XY» (prima o dopo) o «quando non ci saremo più» (per indicare molto tempo nel futuro). Un po’ poco direte. Beh, forse, in confronto alle formule di Aloysius Lilius. Però concludo con una storia: un giorno venne a trovarmi uno degli anziani del villaggio. Mi mostrò un vecchio, scassatissimo orologio e mi chiese che ore fossero perché non sapeva leggerlo. «Non è possibile dirlo», gli rispose l’Altropologo, «è rotto». Ci rimase un po’ male e se ne andò mogio mogio. Dopo due settimane me lo rividi tornare trionfante agitando il suo orologio: «Sarà anche rotto» – dichiarò – «ma due volte al giorno continua a dirmi l’ora giusta!». Genialità che neanche Aloysius Lilius…

cambiano: i giovani, impossessandosi del loro futuro, decidono che cosa vale la pena di desiderare e di ottenere. Invece di diventare una replica perfezionata dei genitori, danno fiato all’immaginazione elaborando un’utopia collettiva, un murales grande come il mondo, in grado di orientare il cammino di tutti. Come sono andate le cose, lo sappiamo fin troppo bene e ora assistiamo sgomenti al collasso di quell’orizzonte. Quegli anni, carichi si speranze e di promesse, ci appaiono il contrario di quelli che stiamo vivendo. Per certi aspetti i ragazzi sono quelli di sempre e fanno le stesse cose dei loro genitori – vanno a scuola, studiano, praticano degli sport, si trovano tra di loro, talvolta sballano – ma nello stesso tempo tutto è cambiato. Il mondo virtuale tende a prevalere su quello reale e cresce il numero di quelli che, gettata la spugna, non chiedono niente e non fanno nulla, infliggendosi una morte a piccole dosi. Pochi, sorretti dal talento o dalla passione, procedono, da soli, verso un futuro personale. Allo smarrimento, alla fragilità e all’apatia dei figli sopperiscono allora i genitori che, angosciati per il possibile fallimento della loro fun-

zione, si riappropriano del futuro dei ragazzi inserendoli, come quando erano piccoli, nel loro, personale, orizzonte di attesa. In questi anni sono soprattutto gli adulti a decidere che cosa i giovani devono fare. Programmano gli studi, lo sport, le vacanze, gli amici – spesso senza interpellarli, senza coinvolgerli, come se i giovani non avessero alcun sapere e potere decisionale. Indubbiamente i genitori amano i loro figli e vogliono per loro un futuro felice. Ma quando li sostituiscono impedendogli di tentare, di rischiare e di sbagliare, quando gestiscono l’attesa del loro domani come se fosse il proprio, compiono un vero e proprio sequestro di libertà. La crisi economica (dove la disoccupazione colpisce innanzitutto i giovani e i lavoretti tendono a sostituire il lavoro) riattiva una funzione genitoriale arcaica, difensiva, introiettiva. Per gareggiare nell’arena della vita, per farcela, per sopravvivere socialmente (il «successo», mito degli anni 80, è ormai archiviato), i genitori s’impegnano a equipaggiare bambini e ragazzi di numerose e complesse competenze. Dopo la scuola, tutti i pomeriggi sono impegnati da sport, lezioni di

lingue straniere, informatica, musica, varie attività espressive. Ma vivere nel futuro degli altri, nel loro orizzonte d’attesa, impedisce ai giovani di scorgere quanto hanno in comune, come il loro destino sia condiviso dai coetanei, e come il vero soggetto sia «noi», non «io». In fondo ogni generazione ha trovato in sé le risorse per affrontare le difficoltà che la storia le ha posto. È giusto amare i propri figli, difenderli dal male, propiziare il loro bene, ma non a costo di rinchiuderli nella nostra testa impedendogli di usare la loro, anche se la libertà ha sempre un costo e fa paura. Solo con un atto di fiducia e di speranza verso chi è destinato a sopravviverci è possibile rompere la stagnazione del tempo e rimettere in moto la storia, che nonostante questo lungo indugio, non è finita.

il congiuntivo, che tutt’al più sopravvive nei fantozziani «vadi e facci pure»? E che ne sarà di un linguaggio in cui «cazzo», secondo una curiosa indagine, figura fra le 722 parole più pronunciate nelle conversazioni correnti? In proposito, una risposta sorprendente è arrivata, recentemente, dal saggio di un autorevole linguista, Giuseppe Antonelli, che si presenta con un titolo irriverente: Comunque anche Leopardi diceva le parolacce (Mondadori). L’ autore lo dimostra citando scritti del poeta in cui compaiono termini come «coglione» e «puttana», rivolto, quest’ultimo, a una donna che l’aveva rifiutato. Ma persino il sommo Dante non è al riparo da svarioni grammaticali («perché non ti facci meraviglia») e da parolacce («col capo sì di merda lordo»). Tutto ciò per dire che, come osserva Antonelli, «un’età dell’oro in cui tutti

parlavano (o scrivevano) bene non c’è mai stata». Si tratta di un’illusione passatista che fa capo anche alla difficoltà di accettare cambiamenti irreversibili della nostra realtà che si ripercuotono nella lingua, un corpo vivo, che si sviluppa adeguandosi a condizioni diverse. Il che non significa accettare, a occhi chiusi, aggiornamenti persino ridicoli. Si pensi, tanto per citare un caso, al «Long Lake» luganese che, chissà perché, ha sostituito l’equivalente lungolago. Ma avevano avuto effetti altrettanto ridicoli gli sforzi di segno opposto, quando il fascismo tentò di italianizzare termini inglesi ormai universali: invece di tennis, pallacorda, invece di ring, parco, invece di pullover, corpetto. E via enumerando amenità di stampo patriottico. E qui si tocca, infine, un altro aspetto ancora della lingua: quale espressione di identità nazionale, e in particolare

regionale. Il caso del Ticino è rivelatore. Già nel 1976, Ottavio Lurati aveva legittimato la specificità di un italiano regionale, tipico del Cantone al sud delle Alpi dove l’appartenenza elvetica aveva creato vocaboli propri: sedime, frazioni (per gruppo parlamentare) organizzazione mantello, attinente (originario di) eccetera. In pari tempo, la vicinanza con il tedesco e il francese doveva lasciare tracce evidenti nella parlata ticinese: comanda (per ordinazione), corteggio (per corteo) e avantutto (per innanzitutto) e, peggio ancora, quel «a sapere» (invece di cioè) che ritorna, spesso, nei discorsi dei politici. Ma, peggio del peggio, proprio ai politici spetta l’uso insistente di «colpo di mano», alludendo al loro impegno per risolvere i problemi del Paese. Ignari, però, che, con quella parola, promettono nientemeno che un colpo di Stato, un attacco, un blitz.

calendario e su quello associato della misura del tempo si sono formate dinastie – e parimenti dinastie sono crollate. Si suppone che il primo calcolo calendariale sia stato basato sul calendario lunare, intuitivamente tracciabile per via della relativa facilità di riconoscere le fasi del nostro satellite. Ma la scoperta del calcolo del calendario basato sul ciclo solare ha definito – probabilmente – il passaggio fra forme di aggregazione sociale sostanzialmente egalitarie basate per alcuni su culti di divinità femminili legate alla Luna ed agli Inferi (per tutte Ecate, la notturna dea di origini anatoliche della Grecia antica) a forme gerarchicamente più strutturate dove prevalevano caste sacerdotali maschili il cui compito precipuo era il calcolo del calendario su base solare: il culto di Amon-Ra ad Eliopoli in Egitto per tutti. Cosa si facesse ai tempi in cui non c’erano né treni né computer del calcolo esatto del calendario e della misura esatta del tempo forse lo sanno solo i Confe-

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Il futuro dei giovani Cara Silvia, quando io e mio marito riflettiamo su nostro figlio, che ha quasi diciotto anni, e sui suoi amici, non possiamo non confrontarli con la nostra giovinezza. Noi eravamo carichi di rimproveri nei confronti dei nostri genitori ma anche ricchi di promesse e di speranze. Volevamo un mondo più giusto e più felice, avevamo fiducia nelle nostre capacità di cambiare le cose, ci sentivamo innovativi e creativi. Ora, anche i migliori, ci sembrano spenti. Si aspettano che qualcuno provveda al loro presente e progetti il loro futuro. Per attrezzarli a un domani sempre più competitivo abbiamo cercato, sin dai primi anni, di dargli il meglio in campo scolastico ed extrascolastico e loro si sono adeguati passivamente, come se non ci fossero alternative. Sono bravissimi ragazzi eppure manca qualcosa per dar senso alla loro età: il profumo della giovinezza. / Genitori inquieti Cari «genitori inquieti», vi siete accorti che la vostra definizione spetterebbe piuttosto alla generazione di vostro figlio? Invece il mondo procede alla rovescia e i giovani sembrano più stanchi dei vecchi. Forse abbiamo esa-

gerato nel farci carico della loro vita. Fin dalla nascita, i parenti si chinano sulla culla dei nuovi bambini ipotizzando che cosa faranno da grandi: l’avvocato come il nonno? L’insegnante come la zia? La ballerina, come quella pazza della cugina? Ma in ogni biografia viene sempre il momento di affrontare un passaggio fondamentale: dall’essere parlato all’essere parlante. L’orgoglio di dire «io», di definirsi in prima persona assumendo la responsabilità dei propri atti fa parte di ogni crescita, di ogni percorso per diventare adulti. Non solo nelle società tradizionali ma anche da noi, sino a qualche generazione fa, soltanto ai maschi era consentito disegnare il proprio futuro, diventare sé stessi sottraendosi, non senza ostacoli, alle attese parentali. Per le femmine, salvo eccezioni, la strada era quella di sempre: figlie, sorelle, mogli e madri. Cui si aggiungeva, nei casi più fortunati, una professione femminile purché subalterna. Solo dalla vostra generazione diventare protagonisti della propria storia, assumersi la responsabilità della realizzazione di sé, è diventata una possibilità offerta a entrambi i sessi. Con la contestazione studentesca le cose

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio La lingua peggiora? No, cambia Per dirla con un luogo comune, anche l’italiano non è più quello che era. Al pari del cibo, dell’aria, delle stagioni, dei politici, il nostro linguaggio sembra aver perso affidabilità diventando un oggetto di rimpianto da parte dei nostalgici del bel tempo andato. E sono tanti, mossi dalla convinzione che, una volta, si parlava e si scriveva meglio. Per risaputi motivi: si rispettavano le regole della grammatica e dell’ortografia, si evitavano le parolacce, come voleva la buona educazione, e si limitava l’uso di termini stranieri, per salvaguardare l’integrità della lingua, considerata un bene stabile e intoccabile. Oggi, invece, appare fragile e degradato. Tanto da provocare i continui allarmi nei confronti di un italiano, contaminato da esotismi e tecnicismi, insomma un malato grave, addirittura in fase terminale. Ma è poi vero? Fino a che punto si giustifica la dif-

fusa percezione di una lingua perdente rispetto al passato? Domande non nuove. Anzi, si riaffacciano, periodicamente, sul filo di avvenimenti e fenomeni che si succedono sempre più rapidamente suscitando nuovi timori. Ancora pochi decenni fa, per quel che concerne l’italiano in Ticino, incombeva la minaccia della germanizzazione, poi sostituita dall’avanzata travolgente dell’anglomania, mentre di pari passo cresceva la pressione della terminologia scientifica, tecnologica, informatica. Ed è stato, del resto, il neolinguaggio dei messaggi in rete, sms, e-mail, tweet, post, e via dicendo, a suscitare l’ultima ondata di allarmi. Che ne sarà mai di un italiano che accetta libertà ortografiche del tipo «xk» al posto di perché o «8bre» per ottobre, «un pò» invece di un po’, e che, in nome della semplificazione, vede scomparire



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Attualità Migros

M «Importa la salute pubblica» Intervista Il presidente della FCM Andrea Broggini a tutto campo sull’azienda e sugli obblighi derivanti dal suo

statuto di cooperativa

risparmiare energia. Investiamo anche in progetti sostenibili all’estero. Ad esempio, Migros partecipa ad iniziative pionieristiche nel settore del benessere degli animali o dell’agricoltura equa ed ecologica.

Daniel Sidler Signor Broggini, Migros si lancia nell’orticoltura con la costruzione di una serra in Vallese. Presto produrrete in proprio tutti i prodotti?

Non abbiamo l’obiettivo di sviluppare un’attività agricola, ma questo progetto si inserisce nella nostra filosofia. Così, invece di importare dei peperoni come fatto finora, li coltiveremo in Svizzera con metodi ecologici. Infatti, ricorrendo al calore a distanza, non emetteremo CO2 nell’atmosfera. Inoltre, questa iniziativa ci permetterà di creare fino a 120 impieghi a tempo pieno una volta che la struttura sarà completata.

Il fatto che Migros sia una cooperativa facilita tutte queste iniziative?

L’efficacia del nostro modello – una federazione di cooperative – non va più dimostrata. Il gruppo poggia su basi finanziarie sane. Le vendite sono buone e continuiamo a guadagnare quote di mercato. Tuttavia, Gottlieb Duttweiler avrebbe anche potuto benissimo decidere di creare una fondazione. La nostra struttura presenta un vantaggio certo: in quanto membri di cooperative, lavoriamo per i nostri consumatori. Sono loro che approfittano della nostra attività.

Migros è leader sul mercato svizzero della grande distribuzione. Come pensate di conservare questa posizione?

Siamo capaci di adattarci continuamente all’evoluzione delle esigenze e delle abitudini dei consumatori. Noi sappiamo quel che vogliono i clienti. E cosa vogliono?

Sanno che facendo la spesa alla Migros ricevono il giusto per i loro soldi. Infatti, proponiamo il miglior rapporto prezzo/qualità. Inoltre, la gente è in cerca di articoli prodotti in modo ecologicamente sostenibile e socialmente responsabile. E ormai la possibilità di fare semplicemente gli acquisti in negozio non le basta più: desidera consultare il catalogo su Internet prima di andare a far la spesa sul posto. O, viceversa, identifica qualcosa sugli scaffali e poi la ordina online, una volta tornata a casa. I programmi fedeltà come Cumulus, i sondaggi tra i clienti e tanti altri metodi per raccogliere dati sono indispensabili per conoscere i consumatori. Si tratta di un ambito in cui la fiducia è la chiave di tutto.

È un aspetto essenziale per noi. Prendiamo molto sul serio la questione della vita privata e garantiamo un trattamento scrupoloso ed un utilizzo pertinente delle informazioni personali dei nostri clienti. Così facendo, cerchiamo di conciliare una domanda reale, come lo sviluppo di prodotti, servizi e promozioni ritagliati su misura, con l’indispensabile protezione dei dati. Per farlo, è fondamentale che le persone contattate ci accordino la loro fiducia. Migros dispone ancora di un potenziale di crescita in Svizzera?

Certamente, ma è limitato. La Commissione della concorrenza non accetterà più alcuna acquisizione importante nella grande distribuzione. Il settore dei cosiddetti «convenience store», invece, è molto promettente. Nel luglio scorso, abbiamo inaugurato il 250mo Migrolino e prevediamo di aprire altri negozi come questi in tutto il Paese. Ma

Migros è impegnata in numerosi progetti a favore dell’ambiente e della società. Il ticinese Andrea Broggini è alla testa del Consiglio d’amministrazione della Federazione delle cooperative Migros da poco più di due anni.

puntiamo anche sullo sviluppo dell’ecommerce. È probabile che in futuro i supermercati saranno meno frequentati, ma questo calo sarà compensato dagli acquisti su Internet. Per quanto riguarda, infine, la nostra espansione direttamente tra i consumatori, essa si svolge tramite i piccoli negozi della catena VOI. Non siete i soli a percorrere questa strada; la concorrenza è aspra.

Sicuramente, ma siamo comunque il numero uno svizzero in questo settore. Nell’e-commerce realizziamo un fatturato annuo superiore al miliardo di franchi, senza contare la partecipazione in Digitec / Galaxus. Va anche detto che controlliamo l’intera catena della produzione di valore: a livello tecnologico ci troviamo in prima linea ormai da anni con ExLibris, LeShop.ch, Melectronics oppure Hotelplan. Disponiamo inoltre di un sistema logistico efficiente e moderno. E siccome siamo vicini ai clienti, possiamo proporre loro beni e servizi di cui hanno bisogno. Migros conosce anche un’espansione all’estero?

Sì, sebbene il nostro mercato principale resti in Svizzera. Le nostre industrie di produzione già presenti all’estero dispongono di un confortante mar-

Una comunità articolata tra commercio al dettaglio, industria e servizi La struttura di Migros, meglio che con il termine «gruppo» viene definita come «comunità», perché non è caratterizzata da una struttura verticale/centralizzata. Alla testa della Comunità vi sono infatti le 10 cooperative regionali autonome. Pur collaborando con le altre cooperative regionali e di concerto con la Federazione delle cooperative Migros, ogni singola cooperativa gode di propria autonomia, è proprietà dei suoi clienti, i soci. Migros Ticino ne conta oltre 89’000 e ha un proprio Consiglio di amministrazione e una direzione interamente composti da persone residenti nella regione. Le singole cooperative sono proprietarie della Federazione delle cooperative Migros (FCM). Questa società funge da centrale per gli acquisti e fornisce

i servizi comuni alle 10 cooperative; funge da Holding per le attività industriali della Comunità (per esempio le aziende di produzione quali Frey, Jowa), e gestisce aziende commerciali non a marchio Migros (Globus, Denner, Ex Libris,...), la Banca Migros e l’agenzia viaggi Hotelplan. Il suo Consiglio di amministrazione (nel quale siedono i rappresentanti delle cooperative regionali) ha il compito di gestire queste attività, e di definire la strategia globale della Comunità. La Comunità Migros è quindi una confederazione di cooperative regionali che collaborano per essere più efficienti; nel suo insieme raggruppa più di 50 aziende, che danno lavoro a oltre 94’000 persone e genera un fatturato annuo che raggiunge circa 26,7 miliardi di franchi.

gine di crescita. Per esempio, Mibelle possiede una catena di produzione in Inghilterra e Chocolat Frey gestisce diversi impianti negli Stati Uniti. Il nostro successo in queste nazioni ci rende competitivi su scala internazionale. Ne risulta che i nostri costi di produzione diminuiscono, a tutto profitto dei consumatori elvetici sotto forma di riduzioni di prezzo. Tuttavia, dobbiamo mostrarci prudenti perché abbiamo poca esperienza all’estero. La nostra priorità resta quella per cui tutto ciò che intraprendiamo deve, in fin dei conti, servire gli interessi della nostra clientela elvetica. Quali difficoltà incontrate?

Esistono svariati fattori sui quali non abbiamo assolutamente alcun influsso. Ad esempio, attualmente UE e Stati Uniti stanno negoziando un accordo di libero scambio che, se andrà a buon fine, dovrebbe avere conseguenze significative sulla nostra agricoltura e sulla nostra industria. Infatti, non siamo tagliati fuori dal resto del mondo. Ci troviamo nel cuore dell’Europa e siamo circondati dai nostri principali partner commerciali. Ma il nostro Paese sembra isolarsi deliberatamente, come testimonia il voto sull’immigrazione di massa.

Tramite quel voto una parte della popolazione ha inteso esprimere la sua inquietudine nei confronti di un avvenire incerto. Dobbiamo prendere molto sul serio queste preoccupazioni. Spetta ai nostri responsabili politici trovare una soluzione che soddisfi sia i nostri cittadini sia la nostra economia, preservando al contempo le nostre relazioni con l’UE.

Invece, per quanto riguarda gli orari d’apertura dei negozi non potete fare quel che volete. Esiste una normativa che differisce da un cantone all’altro.

Noi appoggiamo il progetto di legge del Consiglio federale che prevede orari più duttili. Ci permetterebbe di tenere aperti i negozi un po’ più a lungo in settimana e il sabato. In effetti, gli orari restrittivi degli spazi commerciali sono una delle ragioni che spingono una buona metà dei consumatori svizzeri ad andare ad approvvigionarsi nei paesi vicini, a intervalli più o meno regolari. Un fenomeno che fa perdere 5 miliardi di franchi l’anno ai dettaglianti elvetici. Comunque, anche la differenza di prezzo gioca un ruolo in questo turismo degli acquisti.

Nei settori in cui lo Stato sostiene il mercato, ad esempio quello dei prodotti agricoli, le nostre tariffe sono effettivamente più alte di quelle dei nostri vicini. Migros, inoltre, deve comprare determinati articoli di marca stranieri, come ad esempio Nivea, a un prezzo più alto di quanto sono venduti nelle zone di frontiera. Non possiamo, però, vendere a prezzi stracciati mantenendo al contempo l’alto livello di vita e dei salari degli Svizzeri. E non sarà certo isolandoci ancora di più dagli altri Paesi che i prezzi caleranno. Lei sta dicendo che questa situazione è il risultato anche di talune condotte nocive.

Ora che il Parlamento ha respinto la revisione della legge sui cartelli, spetta alla Commissione della concorrenza di impedire che certi articoli stranieri siano venduti in Svizzera a prezzi eccessivi.

Migros deve anche fare i conti con un numero crescente di leggi, disposizioni e regolamenti in tutti i campi.

I consumatori sono pronti a sborsare di più per dei prodotti sostenibili?

Questa evoluzione, che osserviamo ovunque nel mondo, ha come inevitabile corollario un aumento dei costi. E siamo noi, in veste di contribuenti o di consumatori, che dobbiamo pagare il conto. Prendiamo ad esempio la cosiddetta economia verde: Migros ha attribuito sempre grande importanza a questo progetto e, di sua iniziativa, applica numerose misure in questo senso (in particolare è pioniera nel campo del riciclaggio). Noi privilegiamo sempre delle soluzioni favorevoli alla clientela, a patto che siano ragionevoli e sostenibili economicamente.

Il fatturato realizzato dai marchi BIO, TerraSuisse, UTZ oppure Max Havelaar progredisce di anno in anno. I clienti sanno bene che le risorse sono limitate. Oggi la popolazione mondiale aumenta di quasi 80 milioni di individui all’anno, l’equivalente di una nazione come la Germania. Parallelamente, i terreni agricoli si restringono. Detto in altre parole: siamo costretti a produrre di più su territori più piccoli. Mi consenta di citare nuovamente l’esempio della serra che prevediamo di costruire in Vallese: dovrebbe essere riscaldata a distanza, permettendoci di

Non siamo un’organizzazione a scopo di lucro. Dobbiamo servire gli interessi economici dei nostri membri, pur rispettando un certo numero di obblighi derivanti dal nostro statuto di cooperativa. I nostri profitti sono perciò meno elevati di quelli, per intenderci, di una società anonima quotata in borsa. Dobbiamo incessantemente vigilare per preservare l’equilibrio tra la nostra redditività, la nostra efficienza commerciale e il nostro contributo al bene comune: non è una cosa da poco! Quando lei parla di contributo al bene comune, suppongo che faccia allusione al «Percento culturale».

Infatti, è un importante pilastro del nostro impegno al servizio della società. Permette a Migros di versare ogni anno oltre 100 milioni di franchi a progetti educativi, culturali e sociali. E con il fondo di sostengo Engagement Migros, lanciato nel 2012, devolviamo ogni anno 10 milioni supplementari a iniziative di interesse generale. Migros si interessa anche di questioni inerenti alla sanità pubblica: vendiamo prodotti sani e proseguiamo nella costruzione di centri fitness in tutto il Paese. Siamo anche associati con Medbase per proporre servizi medici e paramedici, inoltre organizziamo o sponsorizziamo la maggior parte delle corse podistiche nazionali. E abbiamo la ferma intenzione di proseguire su questa strada. Lei è presidente del Consiglio di amministrazione della FCM da oltre due anni. Come impiega il suo tempo quando è a Zurigo?

Non ci sono sempre, essendo regolarmente in visita alle dieci cooperative regionali. In sintesi, il mio posto comporta tre mansioni: dirigo l’amministrazione che, tra l’altro, definisce la strategia del gruppo e vigila sull’efficienza delle sue strutture. Sono anche in contatto con i principali organi decisionali della comunità Migros. Infine, ho anche il compito di collegamento con la Direzione generale e mi incontro regolarmente con Herbert Bolliger. Lei è un cliente Migros?

Sì, vado a farci la spesa ogni sabato. Mi soffermo sempre davanti al reparto degli yogurt, particolarmente ben fornito. In questo periodo ho un debole per gli yogurt alla fragola della linea Léger.

Andrea Broggini Dal marzo del 2012, l’avvocato ticinese specializzato in diritto societario è presidente del Consiglio di amministrazione della FCM, di cui in precedenza è stato membro per otto anni. Broggini presiede anche una società di gestione patrimoniale ed una banca d’investimento attiva nel settore della sanità.


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Ambiente e Benessere Un po’ di Ticino a Pechino In Formula E, anche Jarno Trulli, ex campione di F1, da tempo residente nel nostro cantone pagina 16

Record alla StraLugano La nona edizione della più importante corsa podistica popolare ticinese ha registrato un numero di partecipanti da record

L’incontaminata Danimarca Viaggio tra le principali località danesi nel pieno rispetto dell’ambiente

Un altro giorno per loro Giornata mondiale dedicata agli animali: parola a chi li ama tutto l’anno

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Poche aziende ticinesi hanno fatto capo al sostegno della Fondazione svizzera per il clima, in questi anni: i 10 milioni previsti per il Ticino sono quindi stati destinati quasi interamente a progetti Oltralpe. (Keystone)

Insieme per l’ecosostenibilità Energia Fondazione svizzera per il clima: un sostegno al risparmio energetico delle piccole e medie industrie Elia Stampanoni «Proteggere il clima. Sostenere le Piccole e medie industrie (Pmi)». Questo il motto della Fondazione svizzera per il clima che dalla sua nascita, nel 2008, ha sostenuto circa 550 progetti di piccole e medie imprese a favore dell’ambiente. Dal Ticino sono per ora giunte pochissime richieste e i circa dieci milioni di franchi sono dunque andati quasi interamente Oltralpe, destinati a progetti innovativi e con lo scopo di ridurre le emissioni di CO2. Tra i vari progetti, ad esempio, si annoverano le sostituzioni di riscaldamenti a gasolio con pompe di calore, le soluzioni per una mobilità individuale sostenibile tramite l’uso di mini

auto elettriche, oppure anche i sistemi di raffreddamento con acque piovane. Energia verde dai rifiuti, riduzione delle emissioni di metano nell’agricoltura, installazione di schermi energetici nelle serre, valvole per tubi di scarico, eccetera. Gli esempi non mancano, a dimostrazione dell’avanguardia di molte Pmi della Svizzera e del Principato del Liechtenstein, che possono beneficiare di questo fondo. Le condizioni per accedervi sono di certo la volontà di contribuite alla protezione del clima, risparmiando costi ed energia. Le aziende devono inoltre avere un organico inferiore alle 250 unità e i progetti o investimenti devono essere realizzati ed effettuati entro i confini elvetici o del Principato.

Una volta accettate, le idee vengono sostenute dal Fondo, finanziato grazie al contributo delle grandi imprese, che versano parte del rimborso ricevuto per le tasse sul CO2. Dal 2008 la legge sul CO2 impone, infatti, il pagamento di una tassa sui combustibili e parte dei proventi confluisce nuovamente nell’economia. Le grandi società di servizi ricevono sovente un rimborso superiore a quanto versato e le aziende partner della Fondazione svizzera per il clima cedono tale differenza a favore delle misure di tutela climatica promosse dalle Pmi. Attualmente sono 24 le aziende associate che, unendo i propri fondi, incentivano in maniera efficiente e non complicata le Piccole medie imprese, proteggendo l’ambiente.

L’appoggio fornito dalla Fondazione può essere un contributo, fino al 50 per cento, sui costi a carico delle Pmi per la valutazione della propria azienda da parte degli specialisti dell’Agenzia per l’energia dell’economia (AEnEC), che esaminano e propongono dei possibili risparmi. Alcuni incentivi vengono pure elargiti per progetti innovativi, esaminati due volte all’anno da parte del comitato consultivo onorario che, composto da esperti nominati dalle aziende partner, formula un giudizio preliminare all’attenzione del Consiglio di Fondazione. Per il pianificato risparmio energetico in azienda, le Pmi possono poi ricevere 30 centesimi per ogni tonnellata di CO2 risparmiata o 10 centesimi per

ogni megawattora di energia elettrica risparmiata. Le domande devono essere inoltrare prima di intraprendere le misure di risparmio e il sito www.klimastiftung.ch (anche in italiano), illustra i passi da seguire e tutte le indicazioni necessarie per annunciarsi, sia come azienda partner, sia come Pmi per nuovi progetti a tutela dell’ecosistema. Secondo la Fondazione svizzera per il clima «le aziende associate sono convinte che un’economia florida vada di pari passo con un ambiente sano e, nel contempo, le Pmi sono la base per costruire una piazza economica all’avanguardia». Ecco perché unire le forze al servizio della protezione del clima significa ottenere un grande effetto con il minimo della spesa.


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Ambiente e Benessere

Gran Premio di Formula E Motori Tanto grintose quanto silenziose, le auto elettriche in corsa hanno lasciato tutti estasiati

Corsa sfortunata a Pechino per Jarno Trulli, ex campione di Formula 1, residente da anni in Ticino.

Mario Alberto Cucchi A Pechino, sabato 13 settembre, si è acceso il semaforo verde per la Formula E. Sulla griglia di partenza erano schierati silenziosi bolidi spinti da motori elettrici che hanno partecipato al primo Gran Premio del nuovo campionato ideato dalla Federazione Internazionale dell’Automobile. La stessa FIA che sino ad oggi ha organizzato i GP di Formula 1.

Si è trattato della prima di dieci gare, la quale si è svolta sotto il sole della Cina e con le tribune al completo I telai forniti da Dallara sono di base uguali per tutti i partecipanti, così come i propulsori, prodotti dalla McLaren Electronic System che fornisce pure l’elettronica e il cambio. Sono esemplari tutti uguali prodotti da Spark-Renault SRT 01E, la prima società ad aver ottenuto dalla FIA l’omologazione per costruire un’automobile da corsa a trazione elettrica utilizzando la tecnologia più avanzata del settore. Se le auto sono identiche o quasi, la differenza è quindi fatta dal pilota, dagli accorgimenti e dai settaggi che gli ingegneri di pista di ogni squadra sono in grado di realizzare. Tre, due, uno, via. Le aspettative

erano alte, ma la realtà le ha superate sia in termine d’interesse mediatico, sia di pubblico, ma anche in quanto emozioni per gli appassionati di quattroruote. Rettilinei, chicane e curve a 90° si sono avvicendati su una bella pista disegnata attorno allo stadio costruito in occasione delle olimpiadi del 2008. Vedere le grintose Formula E scattare in silenzio sulla griglia di par-

tenza ha lasciato tutti a bocca aperta. Disputata su venticinque giri, la corsa si è rivelata emozionante per duelli, sorpassi e incidenti di gara all’ultima curva. Nicolas Prost, figlio del famosissimo Alain, dopo aver condotto gran parte della corsa al volante di un e.dams Reanult è rimasto coinvolto in un incidente con Nick Heidfeld proprio nell’ultimo giro, la-

sciando la vittoria a Lucas Grassi a bordo di una Audi Sport ABT. Il podio è stato completato da Franck Montagny (Andretti) e da Sam Bird (Virgin Racing). La prima di dieci gare si è svolta sotto il sole della Cina e con le tribune al completo. Quasi tutte le venti auto impegnate hanno attraversato il traguardo. «Il team di Renault Sport che è

stato coinvolto fin dall’inizio del progetto nel 2012, è particolarmente orgoglioso di aver gestito questa sfida per l’architettura e la sicurezza delle automobili» ha affermato il portavoce della Renault in una nota. «La validità delle scelte tecniche ha consentito a tutte le vetture iscritte di essere efficienti, affidabili e sicure». Debutto amaro invece per l’italiano Jarno Trulli. L’ex campione di Formula Uno è stato tradito dalla sua monoposto al via. L’abruzzese è stato costretto al ritiro per problemi alla sua vettura. Trulli, da anni residente in Ticino, ai primi di settembre è stato ospite del Municipio di Lugano dove ha presentato la sua scuderia di Formula E: «In Formula 1 si passava il tempo a pigiare sull’acceleratore con il rombo dei motori sulla schiena, – ha spiegato Trulli – in questa nuova categoria a impatto zero si tratta di essere bravi a dosare l’energia del motore elettrico». Nella stessa occasione il sindaco di Lugano Marco Borradori ha dichiarato che «una città sensibile alle energie rinnovabili non può che rallegrarsi della presenza di un team svizzero con sede operativa a Lucerna e Lugano in questo nuovo format della Formula». La prima gara è andata com’è andata, ma sicuramente il team di Trulli ha molte frecce al suo arco per risultare vincente. Ricordiamoci che Jarno ha disputato ben 256 GP in Formula 1. La stagione appena aperta si concluderà nel mese di giugno 2015 a Londra. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

La festa della corsa popolare StraLugano Registrato il record di partecipanti durante la nona edizione della grande manifestazione

City è stata vinta da due corridori tesserati in Ticino. In campo femminile Emily Collinge di Meride e in quello maschile Abraham Eshak, portacolori del Gruppo Atletico Bellinzona. I protagonisti di questa grande festa della corsa popolare non sono certamente stati solo coloro che sono riusciti a salire sul podio, ma bensì tutti coloro che hanno tagliato il traguardo, in particolare i circa 490 bambini e ragazzi che hanno dato vita alla Kids Run del pomeriggio e gli oltre 70 atleti della Handbike. Ad ogni modo, le classifiche complete sono consultabili su www.stralugano.ch. Nell’ambito della corsa per bambini, per la prima volta, è stata proposta la categoria per team I’M fit promossa da Migros a livello nazionale. Questa competizione di gruppo ha

permesso alle prime cinque squadre della StraLugano di qualificarsi per la finale svizzera in programma il prossimo 15 marzo a Kerzers. StraLugano è, sì, corsa e festa ma anche solidarietà. In effetti il Charity Programm di questa edizione ha considerato ben sette Associazioni attive nella regione: Sclerosi Multipla, Il Gabbiano, Gruppo Sportivo Gli Insuperabili, GreenHope, Adgabbes e Triangolo. L’appuntamento da non perdere con la decima edizione è fissato per il fine settimana 26/27 settembre 2015. Noi di «Azione» ci saremo!

Mario Curti

StraLugano, il 27-28 settembre, a Lugano

Mario Curti

piacere molti iscritti raggiungere con i mezzi pubblici il nuovo «quartier generale» del Centro Esposizioni grazie alla collaborazione con le Ferrovie Federali Svizzere e l’iniziativa «Arcobaleno». Puntualmente alle 10.00 è stato dato il via agli oltre 1300 atleti della 30 km Panoramic. A seguire, la partenza certamente più impressionante in quanto colpo d’occhio, ovvero quella della 10 km City con oltre 2200 podisti al nastro di partenza su Viale Castagnola. Starter ufficiale, il sindaco Marco Borradori che quest’anno, dopo il classico colpo di pistola, riposta l’arma, si è confrontato per la preannunciata sfida con il municipale Michele Bertini, il quale nei panni di membro del Comitato, per molti anni l’ha anche organizzata, la StraLugano. Poche centinaia di metri e il plotone era già sgranato, permettendo a tutti di apprezzare il piacere di correre in centro sulle strade chiuse al traffico. Piacere condito dalle caratteristiche del nuovo percorso, che ha accompagnato i corridori fino al pittoresco attraversamento del Parco Ciani e via via sul lungolago affollato di pubblico che ha fatto da degna cornice alla manifestazione. Le cronache sportive hanno già ampiamente riferito dei vincitori delle varie categorie; considerando la forte schiera di atleti provenienti dalla vicina penisola e da oltre Gottardo, ci tenevamo a sottolineare che la 10 km

Mario Curti

mattino, grazie all’impegno di molti uomini, il capitale umano più prezioso che rende possibile lo svolgimento della StraLugano. Sotto la guida del Comitato d’Organizzazione presieduto dall’infaticabile Vanni Merzari, infatti, circa 150 volontari coadiuvati da 130 militi della Protezione Civile si sono messi subito al lavoro per garantire che tutto fosse pronto per l’ora «x». Dalle 7.00 abbiamo osservato con

Mario Curti

Ben 4500 partecipanti, sabato 27 e domenica 28 settembre, si sono cimentati in una delle quattro principali competizioni in programma: la 30 km Panoramic, la 10 km City, la 3 x 10 km Relay, la Kids Run e la Handbike. Sono questi i numeri da record registrati durante la nona edizione della più importante corsa podistica popolare ticinese. L’arrivo nelle settimane precedenti del tanto atteso anticiclone delle Azzorre, che alle nostre latitudini era latitante da parecchi mesi, ha generato in tantissimi una gran voglia di correre e di condividere questo piacere che sta conquistando sempre più estimatori. Senza l’assillo del riscontro cronometrico, la festa era già iniziata sabato pomeriggio con varie animazioni che si sono susseguite sul palco di Piazza Riforma in attesa della partenza della divertente Fluo Run. Questa prima corsa ha attirato circa 900 coloratissimi podisti, i quali hanno dapprima corso nelle vie del centro per 45 minuti e in seguito si sono dati appuntamento per il primo dei tre Pasta Party Migros. Party che si è poi trasformato in una serata musicale dando il via a una simpatica festa. Il tutto ha avuto luogo negli spazi del Centro Esposizioni che, sin dalle 14.00 come da programma, ha visto un continuo afflusso di iscritti e accompagnatori. Il ritiro del ricco «pacco gara» ha dato la possibilità ai partecipanti di visitare anche la prima edizione di «TicinoSport», una dinamica vetrina di espositori e di animazioni che hanno incuriosito migliaia di visitatori. Domenica, il grande giorno! La macchina organizzativa si è messa subito in moto sin dalle prime ore del

Qui a fianco, la partenza della 10 km; in senso orario: giovanissimi in piena azione; Chelangat Sang, vincitrice della 30 km Panoramic; atleti Handbike pronti al via; uno dei cinque team I’M fit; Abraham Ehak del Gruppo Atletico Bellinzona. (Mario Curti)

StraLugano

Renato Facchetti


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Ambiente e Benessere

Ambiente e Benessere carrellino per scarrozzare i bimbi, il cane o la spesa, oltre a far bene al portafoglio dei danesi, li tiene anche quasi tutti in forma. Sulle ampie ciclabili e attraverso i ponti dedicati alla mobilità dolce, si raggiungono i diversi quartieri della città, dove edifici storici si alternano ad architetture ultramoderne con una naturalezza tipicamente scandinava. Quartieri riqualificati, vecchie strutture recuperate, le acque del porto bonificate. Alla faccia della posizione geografica – Copenhagen si trova più o meno alla stessa latitudine di Mosca – la città ha ben quattro spiagge: Islands Brygge, Svanemøllen, i bagni corallini di Sluseholmen e Copencabana. Ci vuole un fisico bestiale per tuffarsi. Ma anche no. Complice il riscaldamento globale, d’estate c’è il pienone. E gli stranieri sono sempre di più.

C’è del verde in Danimarca Reportage La forte spinta ecosostenibile nello Stato più felice del mondo

Amanda Ronzoni, testo e foto Archiviati gli umori tetri di Amleto, oggi la Danimarca è lo Stato più felice del mondo. Almeno secondo il World Happiness Report dell’anno scorso. Non è un paese per giraffe, obietterà qualcuno, ma a quanto pare i suoi abitanti hanno più motivi di sorridere che altrove. C’è tanta voglia di «verde» per imprimere sostenibilità allo stile di vita locale e salvaguardare il futuro delle prossime generazioni. Da tempo lavora per promuovere viaggi a impatto zero e lasciare impronte ecologiche più leggere possibili. Itinerari in bicicletta, carbon credit per compensare l’inquinamento aereo, auto ecologiche a noleggio, recupero delle tradizioni gastronomiche locali, prodotti a chilometro zero, energie rinnovabili. L’ultimo grido è il progetto ReFood (www. refood.dk), per combattere gli sprechi alimentari. Viva la doggybag, e quel che resta viene destinato alla produzione di biogas e biodiesel. Una buona pratica da copiare. Negli ultimi cinque anni, l’organizzazione di volontari locale Stop Spild Af Mad (Stop agli Sprechi Alimentari), promotrice del progetto, è passata da piccolo gruppo di Facebook a massima ONG danese che collabora con EU e UN nella battaglia per la riduzione dei rifiuti alimentari. Ed è gara tra gli esercenti per ottenere la certificazione ReFood: cucine ecologiche, meno scarti e un accordo per il loro riciclo così da attirare i clienti sensibili in materia (ben il 45 per cento secondo

Copenhagen vuole diventare entro il 2025 la prima capitale a registrare un CO2 neutrale: il traffico non manca, ma aumentano i pendolari in bicicletta

un sondaggio). A casa, ognuno cerca di fare la propria parte: si ri-cucinano gli avanzi, si fa la spesa in modo più consapevole e magari si porta il cibo in più alle organizzazioni che si occupa-

no dei senzatetto. A Copenhagen l’aria è decisamente buona. La città vuol diventare entro il 2025 la prima capitale CO2 neutrale. E le cose sembrano andare proprio in quella direzione, a

giudicare dalla coppia di cigni che ha nidificato in pieno centro, bordo canale, incurante di tutto. Il traffico non manca, ma sempre più persone si spostano in bicicletta. Persino i membri

del governo raggiungono le sedi parlamentari su due ruote, e senza scorta. Comprare un’auto in Danimarca è particolarmente costoso così come mantenerla. La bici, invece, dotata di

Ai danesi piacciono le sfide. Sfruttando i venti hanno fatto dell’energia eolica una delle risorse energetiche principali del paese e puntano a liberarsi dei combustibili fossili entro il 2050. In partnership strategica con le vicine Svezia e Germania, nell’area di Kriegers Flank, nel Mar Baltico, si sta avviando la costruzione della prima fattoria del vento offshore. Dovrebbe erogare energia entro il 2020. Si calcola che a pieno regime coprirà il fabbisogno di 600 mila case.

Anche il resto del paese tende al verde. A Skagen, punta estrema dello Jutland, conoscono da tempo immemorabile la straordinaria potenza del vento. Una lingua di sabbia, chiamata Grenen, cambia forma e posizione regolarmente da secoli. Testimoni silenziosi di queste forze della natura sono il campanile di Tilsandede Kirke (la Chiesa Sepolta), costruita a metà del XIV secolo, inghiottita dalle dune già nel XVI secolo, e i fari, costruiti a pochi chilometri uno dall’altro, cercando di seguire le bizzarre variazioni della linea di costa, senza successo. Pale eoliche giganti punteggiano non solo le aperte e piatte campagne, ma crescono anche in mare, come boschi di ferro. Persino la vecchia cittadina di Ribe, nello Jutland, che vanta più di 1300 anni di storia, non guarda solo al passato. Le strade sono pavimentate a ciottoli, le case mantenute nello stile originale. I proprietari hanno l’obbligo di residenza per scongiurare il declino tipico delle città-museo. Si aggira ancora per i vicoli, la vecchia guardia armata di bastone e lanterna, che un tempo scandiva le ore vigilando contro il crimine, le alluvioni e gli incendi. Oggi è un signore dalla barba bianca che accompagna i turisti per un giro notturno. E gli edifici storici ospitano fattorie bio, micro birrifici e ristoranti che servono menù a chilometro zero. Le isole di Langeland, Lolland e Falster sono un susseguirsi di campi verdi, distese di girasoli e narcisi, case a graticcio con i tipici tetti di canne e mulini a vento tradizionali. Seguite i cartelli con la Margherita, simbolo dell’omonima strada, voluta negli anni 80 dalla regina Margrethe, lunga 3 mila km. Sono i panorami migliori di tutto il paese. Approfittando delle scarse pendenze, un viaggio in bici è alla portata di tutti. Una vera perla è

Tra i vari progetti, quartieri riqualificati, vecchie strutture recuperate e le acque del porto bonificate.

l’isola di Møn, sul Mar Baltico, con le bianche scogliere di Møns Klint. Un muro di gesso candido, fragile. Alto quasi 120 metri e lungo circa 6 chilometri, sorge da un mare dai colori caraibici. La spiaggia è accessibile da due rampe di scale di 468 e 494 scalini rispettivamente. Sulla scogliera c’è una coppia di falchi pellegrini, mentre tra gli strati di gesso si possono trovare fossili vecchi di milioni d’anni. Risalendo, s’incontra il GeoCenter (http://moensklint.dk), centro visitatori dedicato ai fossili locali e alla natura, dove è possibile calcolare la propria impronta ecologica. Un esercizio che andrebbe fatto più spesso, non solo in Danimarca, utile a noi e al nostro pianeta.

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Ambiente e Benessere

Champagnes americani e australiani Vini senza frontiere I poderi «esteri» di due reputate case

francesi: la Moët & Chandon e la Deutz & Geldermann

Tra i numerosi e pregevoli vini prodotti in California e in Australia bisogna annoverare anche qualche champagne di buona qualità. Forse con plausibile recriminazione da Reims e contrade che rivendicano l’esclusività del vino a bollicine. Il fatto è che almeno due reputate case francesi, la Moët & Chandon e la Deutz & Geldermann hanno da alcuni decenni acquistato e coltivato poderi in Australia, dalle cui uve vinificano e producono notevoli spumanti brut. Le ragioni sono almeno due. Quella di eliminare i costi di trasporto dall’Europa, credo sia la prima. La seconda è sicuramente quella di sfuggire alle elevate tasse d’importazione, particolarmente «proibitive» sui prodotti di lusso. Chandon è la marca prodotta e commercializzata agli antipodi. Ho avuto occasione di degustarne un paio di sorsi a Perth intorno al Natale del 2012 e riconosco volentieri di averne avuto ottima impressione. Ma è negli Stati Uniti che si trova una delle più antiche (circa 1850), poco note, produzioni di champagne fuori dalla Francia. In effetti, la Guilde Vinery di Lodi in California è la casa della Cooks Imperial Champa-

gne, la cui storia è una delle più affascinanti e intriganti che «anima» il vino dell’America del Nord. In una cantina dai muri in pietra ed arcate nel centro di Saint Louis, Missouri, fondata nel 1832, il primo Cooks Imperial Champagne è stato prodotto nel 1859 da Isaac Cook, importante figura politica, e intenditore, dell’epoca. Dopo un certo numero di anni, vittima anche del proibizionismo, la cantina dovette chiudere. Ma la compagnia vinicola americana, molto interessata allo champagne, riuscì a rinascere grazie a uno «Champagne Master» alsaziano, tale Adolf Heck, che si trasferì più tardi in California. Una ditta svizzera contribuì al necessario e segreto appoggio finanziario nel 1939. Il segreto venne svelato qualche tempo dopo dal ministro degli esteri von Ribbentrop nel nefasto periodo della Germania nazista. Dopo diverse antipatiche dispute con il governo e alcuni cambiamenti di proprietà, la Guilde Vinery si riassestò e cambiò per dedicarsi alla prima produzione della Lodi Vinery. Cook Imperial è uno degli «American champagnes» più venduti e rappresenta un’istituzione ed è, senza dubbi, centro di future celebrazioni. Roederer U.S. Inc. si è impiantata negli anni Settanta nella Anderson

Valley, Mendocino County, 150 km a nord di San Francisco. L’iniziativa è attribuita a Jean-Claude Rouzard, discendente della famiglia dei fondatori, allora direttore e gran manager della Louis Roederer Champagne. Uno dei suoi più riveriti e tutt’oggi ricercati champagne è il Cristal brut, in epoche remote diventato il favorito dello zar Alessandro II. La Roederer è una delle poche celebri marche di Reims e dintorni rimasta sotto il controllo della famiglia e, ancor oggi (secondo i meglio informati), una delle poche che vinifica uve coltivate nei propri vigneti. Quelli coltivati negli Stati Uniti (all’incirca 562 ettari) godono di condizioni climatiche ideali che, alle frescure nebbiose notturne alternano mattine e pomeriggi soleggiati che favoriscono pregevoli maturazioni dei grappoli e conferiscono, tra l’altro, quella buona acidità tanto importante per la vinificazione alla champenoise. Jean-Claude Rouzard cura personalmente le composizioni delle sue cuvées con l’assistenza di Michel Salgues, champagne Master, già professore all’Université di Montpellier. Il primo champagne Roederer statunitense è stato presentato nel 1988. Altra marca di alta classe, la Moët & Chandon, stabilitasi negli USA prima ancora che in Australia con il Do-

Moet and glass

Grimod

maine Chandon nel quale, dal 1973 ad oggi, si coltivano 230 ettari di Pinot blanc, Pinot noir, Pinot meunier e Chardonnay, ossia i vitigni tipici della Champagne. Accanto ad alcune piccole aziende tipo Hanns Kornell Champagne e Paul Masson altre grandi case francesi si sono impiantate negli US verso la fine degli anni Settanta: Domaine Mumm, che produce un Brut

Prestige, sotto la celebre etichetta del Cordon Rouge, Cuvée Napa: Maison Deutz e via discorrendo. Bibliografia

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Ambiente e Benessere

Bontà del piatto o gentilezza dell’oste? Una domanda che spesso mi viene fatta, in merito al mio mestiere di critico gastronomico, è: perché ci sono spesso discrepanze fra quello che dice un critico rispetto a quello che pensano tanti utenti appassionati, quelli che amano la cucina e vanno nei ristoranti per mangiare bene? La risposta non è facile. Permettetemi una premessa: a mio avviso non esiste un unico e generalizzabile «parere degli utenti». Basta leggere TripAdvisor per capire quanto i giudizi degli appassionati possano essere i più disparati: qualcuno osanna un locale che altri stroncano del tutto. Non c’è nulla di male in questo, sia chiaro, se tutti la pensassimo allo stesso modo sarebbe una cosa tristissima.

«Se ti pagano, ricorda che devi, sì, assaggiare, ma soprattutto devi capire come funziona il locale» Quanto a come assaggia un critico, dalla sua ha tre vantaggi che gli utenti non hanno, o hanno di meno. Il primo è che il gastronomo si reca in un ristorante per lavoro e non per piacere, e questo, credetemi, cambia moltissimo la percezione. Se lavori e ti pagano per farlo, sai che non devi mai dimenticare una cosa: devi, sì, assaggiare ma soprattutto devi capire come un locale funziona, per poi trasmetterlo nel miglior modo possibile ai tuoi lettori. Quindi devi essere freddo. So bene che molti critici usano dire: buono, cattivo, mi è piaciuto, non mi è piaciuto, ma è una cosa secondo me insufficiente, se non sbagliata. L’essenza del nostro lavoro è, deve essere, quella di cercare di spiegare il meglio possibile ai lettori cosa un locale è e come si mangia, e per fare questo il critico deve dimenticare il suo gusto

personale. Un esempio. Io mangio pochissimo salato e quindi quando assaggio formaggi e salumi salati «come si è sempre fatto», la maggioranza, proprio non mi piacciono. Ma se devo giudicarli, dimentico, o meglio devo dimenticare il fatto che a me il sale non piace. Il secondo vantaggio è l’esperienza. Anni e anni di assaggi, di incontri con produttori di materie prime buone, ma anche non, e di appunti ben archiviati ti danno un vantaggio enorme nel giudicare. Non certo assoluto, ma di certo enorme. Sono pochi gli appassionati dotati di questo bagaglio di esperienze. Terzo: se poi il critico sa anche cucinare – ahimé non avviene sempre, anche se dovrebbe essere invece sempre così – riesce a capire di più i piatti e come gli chef lavorano. Ma questo è condiviso con moltissimi appassionati. Poi c’è l’assaggio: e qui critici e cultori sono altrettanto nudi davanti ai piatti. Però al di là di piccoli errori che possono esserci (se un piatto è un po’ troppo crudo o troppo cotto chi se ne importa, ha sbagliato il cuoco, succede, – ovviamente se tutti i piatti sono troppo crudi o cotti cambia…) di fatto sia il critico sia il cliente devono decidere non se un piatto è buono, un concetto astratto, ma se quel pasto in quel ristorante li ha soddisfatti, un concetto molto più terra-terra. In tanti anni di discussioni con amici appassionati, un’idea me la sono fatta: in linea di massima il critico cerca di giudicare i piatti in sé, il resto, ambiente e servizio sono a parte. Mentre l’utente tende a giudicare il pasto come un’esperienza organica, dove il livello dei piatti conta anche di meno di ambiente e soprattutto di servizio. I locali più di successo, infatti, sono quelli dove un bravo oste riesce a interagire alla grande coi suoi clienti: il semplice riconoscerli, una parola giusta, una scusa intelligente se qualcosa è andato storto e il cliente è felice. Il bravo oste vince sulla bontà del piatto.

CSF (come si fa)

DC

Allan Bay

Ego di Ratatouille - Disney

Gastronomia Il mestiere del critico gastronomico a confronto con il gusto dei clienti

La pasta cacio e pepe è un piatto super tradizionale della cucina romana. Anzi, si può tranquillamente dire che ne è quasi l’emblema o uno dei sommi emblemi. Vediamo come si fa. Premessa. Come pasta a suo tempo si usavano e molti usano ancora i tonnarelli, che sono dei maccheroni alla chitarra. Questa ricetta però, a mio parere, va benissimo anche se fatta con i maccheroni, ovvero pasta a forma di tubo, lunghi o corti che siano, ma anche con spaghetti e affini.

Insomma, va bene con tutti i formati di pasta: allarghiamoci, anche quella all’uovo. Il pecorino è fondamentale. In linea di massima quello stagionato è sempre troppo salato e quindi io uso – anatema! – un pecorino dei Pirenei, l’Ossau-Iraty, che salato è di meno. Non è facile trovarlo, però. Quindi suggerisco di assaggiare sempre il pecorino prima di usarlo, così sarà possibile modulare il sale che si mette nell’acqua in funzione di quanto è salato. State molto attenti a questo aspetto. Il pepe deve essere buono. Io amo il pepe di Sichuan e quindi lo suggerisco. Poi ognuno utilizzi il pepe che più gli piace. Quanto al grasso da usare, il mio parere, che tradizionalista non sono, è che burro e olio sono alla pari, quindi: decidete voi.

Per 4 persone. Pestate 1 pugnetto di pepe nero in grani del tipo di Sichuan in un mortaio, altrimenti macinate il pepe che userete. Portate al bollore abbondante acqua, salatela in funzione di quanto è salato il pecorino e gettate 320 g della pasta che avete scelto di usare. Mentre quest’ultima inizia a cuocere, emulsionate in una casseruola 40 g di burro o altrettanto olio extravergine di oliva con 1 bicchiere dell’acqua di cottura. Scolate la pasta dopo cinque minuti – tenendo l’acqua di cottura – e calatela nella casseruola. Portatela a cottura unendo l’acqua necessaria da quella tenuta da parte, mestolo dopo mestolo. Spegnete e unite a fuoco spento 100 g di pecorino grattugiato, 1 noce di burro o 1 filo di olio e il pepe pestato, quindi mescolate bene e servite subito.

Ballando coi gusti

Manuela Vanni

Manuela Vanni

Oggi vi proponiamo due secondi piatti leggeri: saporite polpette fatte con il pesce e quaglie profumate con il frutto della passione.

Polpette di pesce

Quaglie al frutto della passione

Ingredienti per 4 persone: 800 g di polpa di pesce a piacere, di un solo tipo o mista

Ingredienti per 4 persone: 8 quaglie già pulite · 3 cipollotti · 4 frutti della passione

· pancarrè · pasta di acciughe · 1 uovo · farina · purè di patate · latte · olio per friggere · sale e pepe.

maturi · whisky · brodo vegetale · burro · olio d’oliva · sale e pepe.

Sminuzzate la polpa di pesce con 4 fette di pancarré ammollato nel latte (scolate e strizzate) e 1 punta di pasta di acciughe stemperata in poca acqua. In una ciotola amalgamate il trito con l’uovo, unendo un po’ di farina se risultasse troppo molle. Regolate di pepe e fate riposare il composto in frigorifero per 30’. Formate le polpette facendo rotolare piccole porzioni di impasto tra le mani umide e passatele nella farina. In una padella scaldate abbondante olio e friggetevi le polpette in modo uniforme. Scolatele, tamponatele su carta assorbente e servitele subito spolverizzate di sale. Accompagnate con purè di patate.

Scaldate 1 filo d’olio in una casseruola e rosolate le quaglie uniformemente, da tutti i lati. Flambate con 1 bicchierino di whisky. Versate 1 mestolino di brodo bollente, unite i cipollotti mondati e spezzettati, coprite e cuocete a fuoco basso per 15’, pennellandole di tanto in tanto con il fondo di cottura. Levate le quaglie e tenetele in caldo. Frullate il fondo di cottura, se necessario aggiungete poco brodo bollente. Unite la polpa dei frutti della passione e legate la salsa con 30 g di burro freddo di frigorifero ridotto in piccoli fiocchetti. Distribuite le quaglie sui piatti da portata e servitele nappate con il fondo di cottura.


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Ambiente e Benessere

Un giorno speciale per loro Mondoanimale La giornata mondiale accende le luci sul rispetto della dignità animale

e sull’affetto che l’uomo dovrebbe sempre dimostrare ai suoi compagni d’esistenza Maria Grazia Buletti Come ogni anno da quasi un secolo a questa parte, il 4 ottobre scorso si è celebrata la giornata mondiale dedicata agli animali. L’evento è concomitante con i festeggiamenti per San Francesco, proverbialmente legato ad essi e probabilmente fra i primi a tesserne il poetico e profondo elogio con il suo Cantico delle Creature. Dovrebbe dunque essere una giornata dedicata interamente ai nostri coinquilini sulla Terra, domestici e no, votata a restituire loro un po’ del prodigo amore incondizionato che spesso essi dimostrano nei nostri confronti.

Le opinioni di alcuni amanti degli animali sulla necessità di questa ricorrenza Questa iniziativa nasce a Firenze nel 1931, quando un gruppo di ecologisti decide di istituire una giornata mondiale dedicata agli animali, con lo scopo di creare un canale di sensibilizzazione popolare sulle sole specie in via di estinzione. Con il passare del tempo, la ricorrenza diviene un momento di riflessione esteso a tutti gli animali in generale, con l’intento di porre l’attenzione sulla loro tutela e sul loro benessere. Per questo, ogni 4 ottobre, in tutto il mondo è possibile aderire a un grande ventaglio di iniziative organizzate dalle differenti associazioni ecologiste e da tutti coloro i quali si premurano di tutelare ogni sorta di animale. La riflessione sta nel chiedersi se sia necessaria una giornata mondiale perché l’essere umano si ricordi di proteggere ciò che di unico c’è al mondo: l’ambiente e le creature che lo po-

polano. Per questo abbiamo rivolto la domanda ad alcune persone, le quali ci hanno permesso di aggiungere ulteriori interessanti spunti all’argomento che si ricongiunge sempre con il rapporto fra homo sapiens e animali. Così, anche se con qualche giorno di ritardo, per sottolineare l’evento di quest’anno abbiamo riportato questi punti di vista, a cominciare da Juliana Mordasini che esordisce con la ben nota perla di saggezza attribuita a Gandhi: «La civiltà di un popolo si vede bene da come tratta gli animali. Senza di essi non ci saremmo nemmeno noi e forse sarebbe ora che gli umani lo capissero». Juliana dice di non festeggiare la ricorrenza in modo particolare, sebbene ne riconosca l’importanza: «Purtroppo, alcuni animali servono anche alla nostra alimentazione; spero che si giunga a trattare questi ultimi con allevamenti rispettosi in tutto il mondo e mi attendo grandi passi dell’essere umano in questa direzione. Ecco: se la giornata mondiale ha questo scopo, allora ben venga!». D’altronde, lei come gli altri nostri interlocutori, racconta come gli animali siano parte integrante della sua famiglia e, quindi, di come si occupi di loro durante tutto l’arco dell’anno: «Mi piace osservarli nel loro ambiente, cercare di capire i loro bisogni e desideri, corrispondere l’affetto che mi danno, che mi insegna molte cose. Rispetto le loro caratteristiche, perché non trovo giusto umanizzarli troppo come il mondo occidentale sta facendo». Anche Valerio non ha festeggiato il 4 ottobre perché dice che tutti i giorni sono una festa: «Se decidi di vivere con un animale, devi essere consapevole che dovrai dedicargli molto tempo e se non sei disposto a investire qualche ora tutti i giorni, tanto vale non averne uno». Egli sostiene che chi decide di avere un animale avrà il privilegio di condividere momenti speciali di vita comune giorno dopo giorno, anche se

Un quadro del pittore fiammingo Roelant Savery intitolato The Paradise.

trova comunque giusto mantenere la data dedicata a loro: «Una giornata degli animali permette di sensibilizzare le persone che non ne hanno e far sapere loro che purtroppo ci sono anche animali che sono maltrattati». Analogamente, Brigitte Hegnauer e Lisa Mordasini Pinto non festeggiano l’evento di per sé, ma si occupano di animali giorno per giorno: Brigitte ha pure scelto di impegnarsi nell’ambito dell’educazione cinofila «perché sono convinta che un cane educato sia più felice». Inoltre, sostiene finanziariamente diverse associazioni che si adoperano tutto l’anno a favore degli animali e acquista prodotti d’origine animale

provenienti dal nostro Paese e da fattorie ticinesi. Lisa, dal canto suo, è certa dell’importanza di trasmettere sani valori alle future generazioni: «Insegno a mio figlio a rispettare gli animali, perché i bambini rappresentano il nostro futuro e loro dovranno continuare il nostro operato sulla strada da noi tracciata». Anche lei cerca di comprare carne a chilometro zero, da allevamenti biologici e rispettosi. La maniera di Tania Forni per dimostrare coerenza e amore verso gli animali si focalizza invece sul sostegno ad associazioni o fondazioni, svizzere ed estere, che promuovono una gestione sostenibile e integrata degli animali

ORIZZONTALI 1. Gruppo complesso di cose o persone 6. Sinonimo di Internet 9. Aspro in latino 10. Pronome dimostrativo 12. Diede i natali al Petrarca (Sigla) 13. Un figlio di Giacobbe 14. Richiesta interrotta in informatica 15. Strada francese 16. Lago etiopico 18. Fiume della Catalogna 19. Nome femminile 20. Riproduzione sessuale mediante gameti 22. Significato di un’espressione 24. Pronome personale 25. Sono in mezzo alla strada 26. Una fase del sonno 27. Usa le bombole 28. Amido di mais VERTICALI 1. L’attrice Rinaldi 2. Corre ad ali aperte 3. Spirano ma non muoiono 4. Il... trasteverino 5. Colore giallo-rossiccio 6. Mettono fine al lavoro 7. Catena montuosa dell’Austria meridionale 8. Durano millenni 11. Due di cinque 14. Fu amata da Vasco de Gama 15. Lo allattò una lupa 17. Le iniziali del noto Carrisi 18. Tassa sui Servizi Indivisibili 20. Piccoli barbuti 21. Porto principale della Giordania 23. Figlio di Anchise e Afrodite 25. Una corsa a Londra 26. Le iniziali dell’attore Memphis 27. Introduce un’ipotesi

Sudoku Livello facile

randagi nel loro ambiente o in strutture adeguate: «Ho scelto un’alimentazione vegetariana per sostenere la dignità animale e nel contempo cerco di fare vivere bene ogni giornata ai miei animali». Tania esprime qualche perplessità sulla necessità di indire una giornata mondiale: «Ce ne sono troppe di ogni genere e i messaggi si disperdono al vento». Nello stesso tempo, però, ne riconosce anche l’utilità: «Se in quest’occasione ci si soffermasse a riflettere un momento, allora sarebbe già un buon risultato! Certo che se qualche principio fondamentale di San Francesco d’Assisi fosse applicato, tutti ne trarrebbero dei vantaggi, anche gli animali».

Giochi Cruciverba Giove è mille e trecento volte più grande della Terra ed è il pianeta che gira più veloce. Sai quanto impiega per fare un giro su sé stesso? Scoprilo risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 4, 3, 1, 15)

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Scopo del gioco

Completare lo schema classico (81 caselle, 9 blocchi, 9 righe per 9 colonne) in modo che ogni colonna, ogni riga e ogni blocco contengano tutti i numeri da 1 a 9, nessuno escluso e senza ripetizioni.

Soluzione del numero 39

Un po’ di zoologia – L’orso bianco assorbe il calore dei raggi solari grazie al: …colore nero della sua pelle.

C A R I S S I M A

O R A L L M E N U A I E I E S S R R O C A U O L A N N O P I D L E A I O L

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Politica e Economia Putin in cerca di consenso Il presidente russo ha deciso l’annessione della Crimea per motivi interni

Boccata d’ossigeno La Conferenza Onu sul Clima 2014, ospitata recentemente dalla città di New York, si è conclusa tra proteste e buoni propositi sul futuro del Pianeta

Jobs Act Il piano di riforme sull’articolo 18 varato da Renzi fa montare lo scontro all’interno del Pd

Voglia di Svizzera Numerose regioni di Stati limitrofi manifestano il desiderio di un’annessione alla Svizzera: solo utopia? pagina 31

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Hong Kong non è Tiananmen

Rivendicazione democratica Il movimento «Occupy Central» chiede le dimissioni dell’attuale capo del governo

dell’ex colonia britannica. Pechino prende tempo ma non ci sono le condizioni del 1989 per l’uso dei carri armati Beniamino Natale È comprensibile che lo spettacolo offerto da decine di migliaia di giovani seduti jeans e maglietta in mezzo alla strada nel centro dell’isola di Hong Kong faccia venire in mente l’occupazione di piazza Tiananmen, a Pechino, da parte di altri giovani, 25 anni fa. Tutti ricordiamo com’è finita quella vicenda, coi carri armati nel centro di Pechino e centinaia, forse migliaia di morti. Le analogie ci sono, ma ci sono anche delle fondamentali differenze. Prima di tutto, Hong Kong non è Pechino. È un’importante piazza finanziaria internazionale, fondamentale per l’economia cinese e sede di una delle Borse più importanti del mondo. Ma non è la capitale della Cina. È una Speciale Regione Amministrativa, periferica geograficamente e politicamente. A Central e ad Admiralty – i quartieri del business presi di mira dai giovani contestatori – non c’è la Città Proibita. E non c’è, pochi metri più a ovest, l’ingresso di Zhongnanhai, il centro residenziale dove vivono i dirigenti del Partito Comunista Cinese. I capi di Stato stranieri in visita in Cina non passano da Central, mentre nel 1989 Mikahil Gorbaciov, che aveva da poco lanciato

la sua «perestrojka», fu bloccato a Tiananmen dagli studenti che lo acclamavano come riformatore mentre si recava ad incontrare i dirigenti cinesi nella Sala dell’Assemblea del Popolo, il mastodontico edificio stalinista che domina la piazza . È stato addirittura, e più volte, evocato un possibile intervento contro gli studenti dell’Esercito di Liberazione Popolare (Pla), la cui guarnigione di Hong Kong ha la sua sede ad Admiralty. Come dicono i cartelli innalzati dagli studenti hongkonghesi, «nulla è impossibile» ma sicuramente è difficile. Negli ultimi anni, la Cina ha gradualmente smantellato l’«esercito del popolo» creato da Mao Zedong, imbottito di una fanteria male armata e inutile nelle guerre di oggi, e l’ha trasformato in una moderna forza di combattimento, puntando sulla tecnologia e sull’informatica. Non è un esercito fatto per mantenere l’ordine pubblico. L’esercito non è intervenuto per bloccare la rivolta tibetana del 2008; l’esercito non combatte nel Xinjiang contro i ribelli uiguri. In queste situazioni – e quella del Xinjiang è veramente drammatica, con attacchi contro civili, rappresaglie spietate, condanne annunciate in pubblico ed esecuzioni capitali – è la polizia armata (Wujing in cinese)

a occuparsi della repressione. Mentre l’esercito veniva snellito e modernizzato, la polizia armata ha accolto molti degli ex-soldati, ed è stata rafforzata proprio con l’idea di metterla in grado di affrontare le situazioni di ordine pubblico più drammatiche. Tornando al 1989 c’è un bellissimo libro, The Tiananmen Papers, curato da Perry Link ed Andrew Nathan, forse i due più grandi sinologi viventi, che documenta come l’allora gruppo dirigente cinese raggiunse la decisione di far intervenire l’esercito. Fu l’ultima risorsa, la mossa della disperazione decisa quando tutto il resto aveva fallito. Il massacro di Tiananmen fu il risultato di una spietata battaglia interna al Partito Comunista, tra i riformisti guidati da Zhao Ziyang e i conservatori seguaci di Deng Xiaoping e del premier Li Peng, che si assunse la responsabilità della strage su ordine del suo leader. Nessuna di queste condizioni esiste oggi ad Hong Kong. Secondo indiscrezioni sarebbe stata proprio Pechino ad ordinare al chief executive Chunying Leung di rinunciare alla prova di forza tentata dal movimento Occupy Central. Con il risultato che i contestatori si sono rafforzati e ora sono appoggiati da tutta la città – o quasi. Il

governo centrale avrebbe consigliato a Leung di aspettare che la popolazione si stanchi degli indubbi disagi provocata dall’occupazione di alcuni aree centrali della metropoli – oltre a Central/Admiralty, ci sono presidi degli studenti a Causeway Bay e a Mongkok, nella penisola di Kowloon – e si rivolti contro i giovani che oggi sostiene con entusiasmo. Gli stessi contestatori, col tempo potrebbero stancarsi sia fisicamente che politicamente, dato che difficilmente le loro richieste verranno accolte. Potrebbe non essere vero ma certo «l’imperatore» di Pechino ha dato in questi giorni l’impressione di voler lasciare sulle spalle del «governatore della provincia» di Hong Kong la responsabilità di disinnescare la bomba politica di questi giorni. Tutto ciò non significa che non sia possibile una conclusione violenta, drammatica, della vicenda. Al momento non sembra che ci siano soluzioni possibili. I giovani non mollano, Leung nemmeno, Pechino men che meno. Occupy Central chiede che venga annullata la decisione – presa in agosto dal Comitato Permanente dell’Assemblea Nazionale del Popolo – sulle modalità di scelta dei candidati alle elezioni del prossimo chief executive, che per la pri-

ma volta saranno a suffragio universale (i candidati saranno al massimo tre e dovranno essere approvati da un collegio elettorale di 1200 persone scelte da Pechino). Il governo centrale afferma che si tratta di una decisione «definitiva». Fonti vicine a Leung dicono che il chief executive non ha alcuna intenzione di dimettersi. Eppure, le sue dimissioni rappresenterebbero una conveniente via d’uscita per tutti: per Occupy Central e per gli studenti, che hanno accumulato in questi giorni un capitale politico che potrà essere usato con profitto in altre battaglie. Per Pechino, perché potrebbe mettere al suo posto una figura meno impopolare. La decisione di agosto dovrà poi essere approvata dal Consiglio Legislativo (Legco), un Parlamento solo in minima parte elettivo ma nel quale i gruppi democratici hanno i voti sufficienti per respingerla. Il governo centrale ha ricordato in questi giorni che in questo caso si tornerebbe allo status quo, nel quale il comitato elettorale sceglie direttamente il chief executive. Insomma, la contestazione si sarebbe sconfitta da sola. Il pericolo del muro contro muro rimane forte, anche se lo spettro di Tiananmen è più lontano di quanto non sia apparso in questi giorni.


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Politica e Economia

L’altro volto di Putin Russia I media occidentali insistono in giudizi unilaterali

Astrit Dakli Nelle ultime settimane si sono svolte in varie città della Federazione russa elezioni suppletive, tutte conclusesi con la vittoria nettissima del partito del presidente, Russia unita, a riprova del largo consenso che in tutto il Paese circonda l’operato di Vladimir Putin riguardo la grave crisi ucraina. Ma per quanto chiarissimi, questi risultati non hanno scalfito la convinzione dei media occidentali mainstream circa l’inevitabile sconfitta strategica del presidente russo: a parte il fatto che, secondo questa corrente di pensiero, le elezioni in Russia sono sempre e comunque truccate e prive di valore, si sostiene anche che un largo consenso oggi non possa che essere la premessa di una futura radicale disillusione, inevitabilmente provocata dalle sanzioni economiche occidentali, dalla quale verrà la rivolta che finalmente spazzerà via il regime putiniano. Sarà anche così, ma si fa sempre più forte la sensazione che un simile modo di pensare non porti da nessuna parte, perlomeno a breve termine. La realtà dei fatti dice che oggi il consenso intorno a Putin è più largo e compatto di quanto non sia mai stato, che le difficoltà provocate dalle sanzioni per ora sono state accolte dalla stragrande maggioranza dei russi come una sfida da affrontare senza lagnarsi, che la voce dell’opposizione liberale sembra completamente scomparsa, sostituita da un generico movimento contro la guerra – che peraltro, mentre la tregua

in Ucraina si consolida, sta rapidamente perdendo gli obiettivi e la consistenza acquistati mentre si diffondevano le voci, pur mai confermate, di gravi perdite umane tra i soldati spediti clandestinamente oltre frontiera. Tutto bene per il leader del Cremlino, allora? Ovviamente no: la situazione in cui Putin si è venuto a trovare con le vicende ucraine è tutt’altro che rosea, ma per motivi sostanzialmente opposti a quelli che alimentano la narrazione occidentale, e cioè che il suo regime sarà pure autoritario e non democratico, ma è largamente dipendente dall’opinione pubblica del Paese, persino più di quanto non siano i regimi occidentali. È stato per recuperare consenso che il Cremlino ha deciso l’annessione della Crimea, pur sapendo che questo avrebbe comportato seri problemi e costi colossali anche a prescindere dalle reazioni/sanzioni di Europa e Stati Uniti; ed è stato per non perdere questo consenso che Putin si è lasciato trascinare, controvoglia e con molte resistenze, nel sostegno – politico ben più che militare – ai separatisti russofoni in Ucraina. I quali ultimi, con ogni evidenza, non sono affatto i fedeli e ubbidienti esecutori delle volontà di Mosca ma ne determinano invece le mosse sfruttando il peso e l’influenza che la destra nazionalista, con cui hanno uno stretto rapporto, ha tra la popolazione e nelle alte sfere della politica russa. Da qui l’impressione che oggi Putin e i circoli dirigenti russi siano di fatto prigionieri di una situazione che

non controllano e sulla quale possono intervenire solo con grande pena e difficoltà. Hanno perduto gli interlocutori amici che avevano a Kiev, sostituiti da personaggi che come minimo non vogliono essere sospettati di connivenza con Mosca e dunque mantengono un profilo estremamente ostile, quando non esplicitamente aggressivo; non sono in grado di dettar legge ai separatisti, rispetto ai quali si pongono piuttosto come mediatori; non possono usare direttamente la forza militare per non perdere consenso in patria (la frase di Putin, «se volessimo potremmo prendere Kiev in due giorni» non è una sbruffonata minacciosa, ma un modo per ammettere la propria effettiva impotenza) e per lo stesso motivo non possono nemmeno cedere e tirarsi fuori dalla vicenda. Per questo, per mostrare cioè il proprio impegno senza muovere i carri armati, la Russia ha voluto pubblicizzare al massimo l’invio di diversi grandi convogli di aiuti umanitari per limitare i danni ai civili nelle regioni separatiste ucraine; aiuti che nessun altro si è premurato di garantire, né gli occidentali (che hanno invece manifestato sciocchi dubbi sulla natura umanitaria di tali aiuti) né il governo ucraino che pure avrebbe dovuto per primo porsi il problema di quelli che considera suoi cittadini. Sempre per questo motivo, quindi l’accordo di tregua raggiunto a Minsk tra governo ucraino e separatisti è soprattutto un respiro di sollievo per la Russia, che ha fatto di tutto per otte-

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Keystone

sul presidente russo e non sembrano avere colto la sua vera strategia

nerlo. Il successo completo per Mosca sarebbe ora l’instaurazione di un regime federale in Ucraina, con larga autonomia (ma niente indipendenza) per le regioni russofone; in mancanza di un accordo su questo – accordo che le autorità di Kiev potrebbero anche accettare, ma l’estremismo nazionalista ucraino e i suoi «padrini» occidentali no – la Russia cercherà quantomeno di congelare lo stato di cose presente, appoggiando la semi-indipendenza delle regioni di Lugansk e Donetsk al di fuori di ogni riconoscimento internazionale. I governi occidentali e appresso a loro i maggiori media, sempre più lontani dall’avere o anche solo cercare un punto di vista indipendente, non sembrano voler capire questa situazione e insistono a credere ciecamente che colpendo Putin e i suoi collaboratori, nonché imponendo a tutta la Russia una sorta di isolamento economico, otterranno il risultato di convincere il leader del Cremlino a fare marcia indietro, restituire la Crimea a Kiev e lasciare al loro destino i separatisti russofoni dell’est. Pura (e pericolosa) illusione, figlia della tradizionale concezione moralistica che gli statunitensi hanno della politica estera: buoni (che sono sempre gli stessi e parlano inglese) contro cattivi (che vanno puniti in tutti i modi). E non fa niente se anche la tragedia dell’aereo malese abbattuto alla fine – a quanto pare – non potrà essere addossata a Putin: basterà il sospetto ad alimentare l’idea che Mosca è comunque «cattiva». Ma chi conosce la Russia e il suo popolo sa bene che coesione e determinazione, storicamente, vi maturano

proprio con le difficoltà e le pressioni dall’esterno. Quindi il proseguire a oltranza di questa politica non può che portare, come sta in effetti avvenendo, a una sempre peggior tensione in Europa con pessimi riflessi sulla politica energetica, sui trasporti e in generale sulla cooperazione economica e politica internazionale, a partire dal ruolo chiave di Mosca nelle trattative con l’Iran e nella nuova guerra all’estremismo islamico del califfato. A medio termine inoltre, gradualmente ma inevitabilmente, Mosca entrerà sempre più nell’orbita cinese: il che rappresenterebbe una débacle strategica per gli Stati Uniti (non parliamo della Ue, che di strategie planetarie non ne ha nessuna), in chiara crisi di fronte alla crescente assertività della politica estera e militare di Pechino. Che questa sia la tendenza, alimentata proprio dalle sanzioni occidentali, lo si è visto quest’estate con l’improvvisa firma dello storico accordo energetico tra Mosca e Pechino, che ha ottenuto dai russi le condizioni di estremo favore inutilmente perseguite per anni (era da oltre dieci anni che le trattative per il maxicontratto del gas andavano avanti, ogni volta gelate dal rifiuto russo di dare ai cinesi condizioni migliori di quelle riservate agli europei). La Cina, in cambio di vent’anni di gas a basso prezzo, si è impegnata a investire molti soldi nelle infrastrutture energetiche russe e, di fatto, sul piano internazionale sostiene in modo aperto le posizioni di Mosca. E intanto, nelle sfortunate regioni dell’Ucraina orientale, migliaia di vittime civili e oltre un milione di sfollati aspettano, inutilmente, che qualcuno oltre a Putin si ricordi di loro.

Notizie dal mondo Parigi sfida la Ue: no all’austerity La Francia stima di chiudere il 2015 con un deficit in lieve calo al 4,3% del Pil, rispetto al 4,4% previsto per quest’anno, e di ottenere risparmi di spesa complessivi per 21 miliardi di euro. È quanto emerge dal progetto di legge di bilancio presentato dal governo. Il disavanzo dovrebbe attestarsi al 3,8% del Pil nel 2016 per rientrare sotto il limite del 3% fissato da Bruxelles nel 2017 (2,8%). Il governo ha confermato il suo obiettivo di realizzare 21 miliardi di euro di risparmi nel 2015 e 50 miliardi di euro nel triennio 2015-2017 con tagli al bilancio dello Stato, agli enti locali e ai servizi sociali. Dal budget statale in senso stretto i risparmi si attesteranno a 7,7 miliardi di euro. Il debito pubblico, nelle stime del governo francese, dovrebbe toccare un picco al 98% del Pil nel 2016 mentre la crescita, prevista allo 0,4 quest’anno, dovrebbe accelerare all’1% nel 2015, all’1,7% nel 2016 e all’1,9% nel 2017. La Francia «si è dunque assunta le proprie responsabilità» sul bilancio pubblico e l’Europa «deve fare a sua volta lo stesso in tutte le sue componenti». Lo ha detto il ministro delle Finanze francese, Michel Sapin, commentando i nuovi obiettivi sul disavanzo annunciati dal governo. Secondo quanto riportano i media francesi, Sapin ha sottolineato

che «abbiamo preso la decisione di adattare il ritmo della riduzione del deficit alla situazione economica del Paese. Non saranno chiesti – ha proseguito il ministro – ulteriori sforzi ai francesi, perché il governo, che si è assunto la responsabilità di mettere il Paese sulla strada giusta, rifiuta l’austerità». Sapin ha sottolineato che lo sforzo francese per tagliare la spesa di cinquanta miliardi di euro al 2017 è «senza precedenti». Dal canto suo la cancelliera tedesca Angela Merkel ha commentato che «la crisi non è ancora finita». «I Paesi devono fare i loro compiti per il loro benessere», ha aggiunto, ricordando che il patto di stabilità e crescita «si chiama così perché non può esserci crescita sostenibile senza finanze solide». La cancelliera risponde così indirettamente a Francia e Italia sul tema dell’austerità. Una manovra così poco in linea con le indicazioni europee può essere di aiuto all’Italia, che ha appena annunciato un deficit del 3% quest’anno, del 2,9% nel 2015 e un pareggio di bilancio nel 2017. I conti italiani dunque sono decisamente migliori di quelli francesi. Con un’eccezione rilevante: il debito pubblico italiano è al 131,6% del Pil quest’anno, mentre quello francese viaggia intorno al 95 per cento. È questo il tallone d’Achille italiano che riduce i margini di manovra di Renzi con Bruxelles.


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Politica e Economia

Una bella giornata per il clima Vertice Onu Cina e Stati Uniti, i due massimi responsabili del surriscaldamento generato dall’effetto serra, aprono

per la prima volta una via incoraggiante nella lotta ai cambiamenti climatici Alfredo Venturi Stati Uniti e Cina, dice Barack Obama, hanno il dovere di guidare tutti gli altri Paesi nella lotta contro i cambiamenti climatici. Lo ha detto alle Nazioni Unite, davanti a una platea di capi di Stato e di governo riuniti in un vertice straordinario dedicato all’emergenza clima. Poi Zhang Gaoli, vice primo ministro cinese, gli fa il verso e offre al mondo una primizia: la Cina, fin qui riluttante a frenare la sua crescita impetuosa controllando le emissioni dei gas a effetto serra, riconosce l’importanza e l’urgenza del problema e s’impegna a una drastica riduzione del fenomeno entro il 2020. Cina e America sono i due massimi responsabili del surriscaldamento generato dall’effetto serra: senza il loro contributo il salvataggio del pianeta rimarrebbe un’utopia. Il doppio annuncio partito dal Palazzo di vetro apre dunque una prospettiva incoraggiante, proprio nel momento in cui una nuova consapevolezza si fa strada nel mondo. «Le Monde» riassume la situazione con un gioco di parole: è mutato il clima a proposito del clima.

Nella giornata dell’ambiente si è presa di mira anche la nuova tecnica di fratturazione idraulica giudicata dannosa Effettivamente il disastro ambientale non è più un’astrazione, uno slogan buono al più per concitate assemblee studentesche o per sparute manifestazioni di isolati profeti di sventure. Comincia a prenderne atto non soltanto il governo di Pechino ma anche l’opinione pubblica degli Stati Uniti, fin qui altrettanto indifferente al tema. Mentre l’aria ormai irrespirabile di Pechino deve avere fortemente contribuito alla conversione cinese, a convincere sempre più americani che lo spettro evocato dagli ecologisti si è ormai trasformato in una tragica realtà è stata l’attualità meteorologica: le inondazioni, gli uragani più tremendi che mai abbiano colpito gli Stati Uniti, tutti quei morti di Katrina e Sandy, le devastazioni costate miliardi di dollari. Ecco perché a Manhattan, due giorni prima del vertice Onu, la prevista folla di centomila persone si è moltiplicata per tre: una città nella città in marcia nelle avenues e una selva di cartelli con scritte come «Non esiste un pianeta B», o «Le foreste non sono in vendita». O ancora, evocando lo yes we can di Barack Obama, «Sì, possiamo, ma non facciamo nulla». Così i trecentomila celebravano la giornata mondiale consacrata all’ambiente in pericolo, e non si manifestava soltanto a New York. Altre centinaia di migliaia di cittadini sono scesi in piazza in decine di Paesi. In un mondo ripiegato su se stesso per le tensioni economiche e finanziarie, oppresso da emergenze come l’Isis o ebola, la questione climatica ha atteso a lungo prima di irrompere nelle agende politiche. Paradossalmente la crisi produttiva non si è limitata a monopolizzare l’attenzione, distraendola da questo e da altri temi a torto o a ragione considerati meno impellenti, ha anche in qualche misura ridimensionato il fenomeno: meno produzione industriale e meno consumi uguale meno gas letali nell’atmosfera. Ma poi la freccia ha ripreso a puntare verso l’alto e le previsioni degli scienziati

La stretta di mano fra il presidente americano Barck Obama e il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon durante il vertice sul clima. (AFP)

parlano di un punto di non ritorno ormai vicino. Oltre quel punto, uno scenario apocalittico: scioglimento dei ghiacci, innalzamento del livello dei mari, aree costiere e interi arcipelaghi trasformati in fondali marini, riduzione delle terre emerse proprio nel momento in cui la popolazione mondiale cresce a ritmi incalzanti. Nonostante l’impegno di uomini come l’ex vicepresidente Al Gore, in prima fila nel denunciare la catastrofe incombente, l’opinione pubblica americana è stata a lungo refrattaria alle ragioni dell’ambientalismo, e dunque alla rivendicazione di energiche azioni per correggere la funesta sbandata del clima. Ancora pochi mesi or sono un sondaggio ha rivelato che soltanto il 29 per cento degli americani considerava la salvaguardia del clima una priorità politica. Eppure gli uragani, le siccità e le inondazioni hanno collocato questa emergenza sotto i riflettori dell’attenzione. E cominciano a influenzare anche gli strati alti della società. Lo conferma la notizia arrivata il giorno dopo la grande marcia: il Gruppo Rockefeller, che fondò sul petrolio la sua straripante fortuna, rinuncia a ogni partecipazione all’industria e al commercio dei combustibili fossili. E con Rockefeller una pletora di enti e fondazioni accademiche e culturali che depurano i loro portafogli, eliminando azioni e obbligazioni connesse con le energie inquinanti. Chiamato personalmente in causa dai manifestanti di Manhattan, il presidente Obama ha dunque potuto rispondere due giorni più tardi, quando ha preso la parola alle Nazioni Unite. La seduta si proponeva di rilanciare il faticoso processo che produsse il protocol-

lo di Kyoto, poi rimbalzato da un vertice all’altro senza che si conseguisse altro che generici impegni a ridurre le emissioni di anidride carbonica attraverso un complicato sistema di incentivi e compensazioni. La prossima tappa è la conferenza che si svolgerà a Lima in dicembre, chiamata a gettare le basi dell’accordo che si dovrebbe finalmente raggiungere a Parigi l’anno prossimo. Cioè nel tempo limite, secondo gli scienziati, prima che l’irreversibilità dei fenomeni renda inutile ogni sforzo.

Il gruppo americano Rockefeller ridurrà i suoi investimenti in progetti riguardanti le energie fossili Davanti ai delegati nel Palazzo di vetro Obama ha dichiarato di volere raccogliere la sfida. Ma il suo impegno deve fare i conti con i paralizzanti condizionamenti interni, a cominciare da quello della destra repubblicana, tradizionalmente ostile a iniziative che possano danneggiare il santuario del libero mercato. Forse confida che la decisione del Gruppo Rockefeller potrà compiere il miracolo di ammorbidire questa posizione. Per aggirare l’ostacolo rappresentato dalla difficoltà di ottenere il consenso parlamentare, Obama pensa a provvedimenti di carattere esecutivo, che l’Amministrazione può adottare senza scomodare il Congresso. Ma certo la necessità di sottrarre la materia al controllo parlamentare riduce di molto la portata delle misure possibili: per questo il suo impegno è apparso non proprio perentorio.

Eppure non sarebbe la prima volta che negli Stati Uniti un’iniziativa a tutela dell’ambiente partita dalla società civile impone scelte politiche di rottura. Qualcosa del genere accadde oltre mezzo secolo fa. Era il 1962 quando Rachel Carson affidò a un libro, Silent Spring (primavera silenziosa) la denuncia dei danni prodotti dall’uso indiscriminato dei pesticidi sintetici in agricoltura. Il movimento di opinione pubblica che ne seguì portò, nonostante la feroce opposizione dell’industria chimica, al bando dei prodotti più pericolosi. Oggi non si parla di pesticidi ma dei gas generati dalla combustione di materiali fossili e assorbiti sempre meno da un sistema forestale in rapido diradamento. La scommessa è sempre quella: intervenire prima che sia troppo tardi. Di questa necessità si rende perfettamente conto quel variegato campionario di umanità che a tutte le latitudini e a tutte le longitudini ha richiesto a gran voce la grande pulizia del pianeta. Al centro della mobilitazione un contrasto che si denuncia ormai da troppi anni: da una parte la sempre più rapida avanzata del fenomeno serra, sempre più anidride carbonica, metano e altri gas intrappolati nell’atmosfera e il suolo e gli oceani che si riscaldano puntando verso quella soglia fatale, oltre cui l’effetto diventa irreversibile condannando il pianeta. Dall’altra parte la perdurante indifferenza dei governi, divisi sulle responsabilità e sui necessari sacrifici, incapaci di concordare azioni condivise e incisive. Si tratta di un intervento su due fronti: diminuire la combustione di materiali fossili che produce i gas a effetto serra, combattere la defore-

stazione che riduce l’assorbimento di anidride carbonica e la produzione di ossigeno. Il problema sta in un’asimmetria storica: il compito di frenare le emissioni tocca anche ai Paesi a economia emergente, che si sentono penalizzati in uno sforzo produttivo che gli altri, l’Occidente sviluppato, hanno potuto compiere senza alcuna remora al tempo della prima industrializzazione. Ma l’urgenza della crisi richiede che tutti facciano la loro parte per ridurre le emissioni e salvare le foreste. È vero che questi interventi richiedono un forte impegno finanziario ma il loro costo, per quanto altissimo, è infinitamente inferiore a quello dei danni provocati dal suo progressivo deterioramento. Nella giornata dell’ambiente si è presa di mira anche una nuova tecnica di produzione di energia, lo shale gas che si ottiene da certe rocce con il sistema della fratturazione idraulica. L’estrazione di questo gas è sempre più praticata in America, mentre in Europa viene quasi dappertutto ostacolata. Si fa notare che è doppiamente dannosa: sia perché sconvolge l’equilibrio dei suoli e può innescare fenomeni sismici, sia perché richiede l’impiego di grandi quantità di acqua. Eppure proprio con questa nuova fonte gli Stati Uniti aspirano a raggiungere quella indipendenza energetica che permetterebbe di fare a meno del petrolio mediorientale, politicamente così impegnativo. S’invocano le energie alternative: sole, vento, maree, idrogeno. Con la speranza che possano affermarsi come un business capace di fare concorrenza al petrolio e di sedurre non solo gli ecologisti ma perfino gli adoratori del libero mercato.


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Politica e Economia

Un articolo (18) da rottamare Jobs Act La riforma del lavoro voluta da Matteo Renzi accende lo scontro all’interno del Pd e tra governo e sindacati.

Al centro delle discussioni la questione del reintegro previsto dallo Statuto

Le sorti di un governo possono essere legate a una garanzia che in Italia riguarda meno del 20 per cento dei dipendenti? La presunta modernizzazione del Paese può dipendere dalla cancellazione o dalla permanenza di una norma vecchia di quarantacinque anni, inserita quasi per caso e della quale all’epoca quasi nessuno si accorse? Di questo mitico articolo 18 («Reintegrazione nel posto del lavoro») dello Statuto dei lavoratori si discute in Italia da circa vent’anni, ma sempre sottovoce per paura di creare lo sconquasso cercato, invece, a bella posta da Renzi. Il presidente del Consiglio ha voluto riaffermare sia la ferrea volontà di scardinare il passato nei confronti degli irriducibili passatisti del Pd, sia il disincanto nei confronti del sindacato abbarbicato a logiche in contrasto con la velocità del presente. L’Italia è l’unica nazione al mondo ad avere una simile tutela, la quale tuttavia non impedisce che meno del 50 per cento dei lavoratori vanti un contratto a tempo indeterminato contro il 60 per cento di Francia e Germania e il 70 dell’Inghilterra. Nel 2013 soltanto 3mila lavoratori sono stati reintegrati grazie all’articolo 18, cioè lo 0,0001% degli occupati. Il numero è in vertiginosa discesa rispetto a dieci anni addietro e tale da ipotizzare la sua quasi estinzione nel volgere di pochi anni. Tuttavia Renzi, dopo aver glissato sull’argomento al momento di chiedere i voti per essere eletto segretario del Pd, ha deciso di misurarsi con il più importante totem della sinistra italiana. L’intento è di segnare la propria epoca. L’articolo 18 è più un simbolo che un problema reale, però in caso di vittoria Renzi avrebbe le porte spalancate per incominciare la propria era avendo debellato la concorrenza più pericolosa, quella che ha dentro il partito, il piccolo mondo antico dei D’Alema, dei Bersani, della Bindi, degli Epifani, dei Cofferati, degli ultimi massimalisti: avvertono la propria fine e sono disposti a tutto pur di azzannare l’eretico democristiano trasformatosi per amor di carriera in progressista. Ma anche in caso di sconfitta Renzi potrà appellarsi alla congiura degli immobilisti per rifugiarsi nelle elezioni anticipate con la speranza che siano gli italiani a conferirgli l’autorizzazione a far piazza pulita. Come spesso capita nelle vicende italiane, il percorso di questo articolo 18 ha avuto ben altro inizio a cominciare dal numero: figurava infatti come l’articolo 10 dello Statuto dei lavoratori varato il 14 maggio 1970 (l’articolo 18 regolava i contributi sindacali), poi ulteriori aggiustamenti e aggiunte l’avrebbero fatto scivolare fino alla posizione con cui è entrato prima nella cronaca e in seguito nella Storia. Il propugnatore finale dello Statuto fu il ministro del Lavoro Carlo Donat Cattin, scontroso piemontese della sinistra Dc, padre di un futuro terrorista rosso pluriassassino. Tuttavia il vero ideatore era stato colui che l’aveva preceduto, il sindacalista socialista Giacomo Brodolini, stroncato da un cancro alla vigilia dell’approvazione definitiva. Già autore della riforma previdenziale, Brodolini aveva voluto sancire con lo Statuto il cambiamento epocale, che secondo lui era maturato grazie all’avvento nel ’62 dei socialisti al governo. C’era la forte esigenza di chiudere l’epoca delle feroci lotte di classe, della contrapposizione spesso violenta tra padroni e dipendenti. Capofila di tale durissima linea era stata la Fiat di Vittorio Valletta, dove gli operai venivano schedati e quelli più attivi nel difendere i propri diritti venivano addirittura mandati a casa. Chi faceva attività sindacale rischiava seriamente di essere licenziato.

Keystone

Alfio Caruso

In questo clima erano maturati gli autunni caldi del ’68 e del ’69 con una serie impressionante di scioperi, con manifestazioni capaci di bloccare il centro di Roma, di Milano, di Torino e fornire la dimostrazione visiva di un cambiamento dei rapporti di forza. Ma ciò che interessava ai socialisti, ai comunisti, ai sindacalisti non era tanto di salvare il posto di lavoro di licenziandi e licenziati, bensì di salvaguardare i diritti civili e politici dei lavoratori. Ecco spiegato perché quasi nessuno dei partiti presenti in Parlamento si oppose. L’approvazione definitiva ebbe il voto favorevole della Dc, del Partito socialista unificato, dei repubblicani, dei liberali e l’astensione di tutti gli altri, dal Pci al Msi, erede del fascismo. Si contarono soltanto dieci voti contrari e l’identità di quegli oppositori è uno dei pochissimi segreti in grado di resistere nel tempo. Lo Statuto fu salutato come una fondamentale conquista di civiltà, nessuno si soffermò sull’articolo 18. Passò in secondo piano anche la sua applicazione riferita alle aziende con oltre 15 dipendenti, che già allora, e più ancora in seguito, riduceva di molto l’area di riferimento. Da subito la sua «tutela reale» in caso di «licenziamento illegittimo» (ovvero effettuato senza comunicazione dei motivi, ingiustificato o discriminatorio) non concerneva la condotta materiale, ma il «fatto giuridico». Toccava, cioè, al giudice valutare se un determinato comportamento del lavoratore era rilevante in termini di legge e tale da consentirne il licenziamento. Diventava determinante il proporzionalismo fra la gravità del fatto e la pena applicata: la perdita del lavoro. Fu una manna per i giudici del lavoro, quasi sempre dalla marcata matrice ideologica: tranne casi di grave violazione del codice penale, non c’era comportamento, o addirittura reato, che secondo loro meritasse il licenziamento. Fecero storia il reintegro dell’aiutante sorpreso nel retrobottega dal macellaio mentre godeva delle effusioni della sua signora (il giudice stabilì che l’adulterio si verificava durante una pausa lavorativa, quindi non comportava alcuna violazione), quello degli addetti aeroportuali al servizio bagagli, che depredavano le valigie (il licenziamento venne giudicato una pena eccessiva) o quello del postino in licenza malattia durante la quale aveva trascinato la propria squadra alla vittoria nel torneo aziendale (il periodo di convalescenza non ostava con le performance sportive). Nacque e si propagò in tal modo l’asserzione che in Italia fosse impossibile licenziare anche quanti se lo sareb-

bero meritati. Per un quarto di secolo è stato così, poi la riforma Treu del 1998 ha avviato un cambiamento complessivo, nel quale ha però continuato a campeggiare l’intangibilità dell’articolo 18. Su tale argomento l’allora segretario della Cgil, Cofferati, stoppò D’Alema nel ’98 e Berlusconi nel 2003. Tuttavia i margini del reintegro sul posto di lavoro si sono progressivamente ridotti prima della mazzata inferta dalla

grande crisi. Anche la riforma Fornero del 2012 ha contribuito a un’ulteriore limitazione. Dinanzi allo stallo della contrattazione sindacale, sono subentrati gli accordi aziendali: alla Ferrero, la mamma della Nutella, e alla Luxottica l’articolo 18 è stato silenziosamente accantonato: si lavora e si guadagna talmente bene, che nessuno pensa di barare sulle intese raggiunte per garantire la massima produttività. Lo stesso

succede alla Ducati di Bologna, gruppo Volkswagen, con l’assenso persino dell’ala dura dei sindacati, la Fiom. Sono stati decisi 21 turni settimanali da otto ore l’uno: prevedono la fabbrica aperta ventiquattr’ore su ventiquattro domenica compresa con tre giorni di lavoro e due di riposo. Investimento complessivo di 11,5 milioni, assunzione a tempo indeterminato di 13 operai specializzati. Eppure la minoranza del Pd, la Cgil e la Fiom sono pronti a emendamenti, voti di sfiducia, mobilitazione, sciopero generale per difendere una norma pressoché scomparsa, mentre Renzi sostiene che niente potrà fargli cambiare idea e disdegna gl’inviti a lasciare che sia lo scorrere delle stagioni a trasformare l’articolo 18 in un reperto archeologico. Lo stesso Grillo, ormai preda di toni apocalittici, ha urlato, agitando la folta capigliatura tricolorata, che l’articolo 18 non si tocca. Un’incredibile battaglia di retroguardia in una situazione che forse abbisognerebbe di ben altre accelerazioni. Purtroppo siamo sempre la patria della Secchia rapita, il famoso poema di Alessandro Tassoni ispirato da un episodio accaduto nel 1325, durante la battaglia di Zappolino tra Bologna e Modena. Dopo un’incursione nel territorio avversario, i bolognesi furono respinti e inseguiti fino alla loro città dai modenesi, i quali, fermatisi presso un pozzo per dissetarsi, pensarono bene di portar via come trofeo di guerra la secchia di legno dalla quale avevano bevuto. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 6 ottobre 2014 ¶ N. 41

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Politica e Economia

Uno sbocco al mare per la Svizzera? Dibattiti Sardegna, Lombardia, Alto Adige, Valtellina, Baviera, Voralberg, Liechtenstein, Baden-Württenberg,

Aosta, Savoia, Ain, Alsazia, Franche Comté: tutti chiedono in una forma o l’altra un’adesione alla Svizzera. Utopia o qualcosa di più? Johnny Canonica Se non avessimo avuto l’estate piovosa che ci siamo appena lasciati alle spalle, potremmo parlare di un colpo di sole. Come altrimenti giudicare l’idea lanciata da un gruppo di cittadini sardi di far aderire la Sardegna alla Confederazione svizzera? «Canton Marittimo» dovrebbe chiamarsi, un nuovo cantone che a detta dei suoi promotori dovrebbe portare vantaggi sia ai sardi sia ai cittadini svizzeri (che finalmente, per esempio, potrebbero passare le vacanze al mare restando entro i confini nazionali). Un’idea lanciata lo scorso aprile – e anche per questo non si può parlare di «colpo di sole» – a poco più di un anno dalla commemorazione dei 500 anni della battaglia di Marignano (combattuta tra il 13 e il 14 settembre 1515 nella località a sud est di Milano, oggi chiamata Melegnano), battaglia che vide le armate svizzere sconfitte da quelle francesi di re Francesco I, battaglia che mise fine alla politica di espansione territoriale dei confederati e che secondo la leggenda fu all’origine della neutralità elvetica. Per dimostrare che stanno facendo sul serio, i promotori del «Canton Marittimo» hanno anche già pensato alla bandiera (rigorosamente quadrata, ovviamente): la classica bandiera svizzera (croce bianca su sfondo rosso) con le quattro teste di moro del vessillo sardo a contornare la croce bianca. Come ammettono loro stessi sul loro sito (www.cantonmarittimo.com) l’idea nasce dalla volontà di staccarsi da uno Stato che si trova in una situazione di crisi e senza prospettive per una larga fetta della popolazione per aderire a un altro Stato efficiente, finanziariamente ed economicamente sano, che accetta e rispetta le minoranze linguistiche e religiose e che lascia una certa autonomia ai cantoni che lo compongono. La Svizzera non sarà forse il paese della cuccagna o quello dei balocchi agli occhi dei promotori del «Canton Marittimo», ma quanto meno permetterebbe alla Sarde-

Le rocce rosse di Arbatax, in Sardegna: nonostante le ambizioni di taluni sardi di aderire alla Svizzera, la creazione di un «Canton Marittimo» resta un’illusione. (Keystone)

gna uno sviluppo che l’Italia non sembra in grado di offrire. A differenza di quel che si potrebbe pensare, quella del «Canton Marittimo» non è però un’idea a sé stante; in passato di idee simili ne erano state lanciate più d’una, tanto che poco più di quattro anni fa il Consiglio federale era stato chiamato a prendere posizione sul tema da una mozione elaborata dall’ex consigliere nazionale UDC Dominque Baettig. Con il suo atto parlamentare dal titolo «Agevolare l’integrazione delle regioni limitrofe quali nuovi cantoni svizzeri», l’ex deputato giurassiano chiedeva all’esecutivo di «proporre un quadro costituzionale e legale che permetta di integrare, quale nuovo cantone svizzero, le regioni limitrofe, se auspicato dalla maggioranza della popolazione interessata». E Baettig citava quindi tutta una serie di Dipartimenti, Länder o Province confinanti con la Svizzera («Alsazia (F); Aosta, (I); Bolzano (I); Giura (F); Voralberg (A); Ain (F); Savoia (F); Baden-Württemberg (D); Varese

(I); Como (I); o altri (lista aperta I)»), che nel passato – recente o lontano che fosse – avevano dimostrato interesse ad aderire alla Confederazione. Nella sua presa di posizione sulla proposta, il Consiglio federale raccomandava al Parlamento di respingere la mozione in quanto «una revisione della Costituzione federale che permetta alle regioni limitrofe al nostro Paese di unirsi alla Confederazione svizzera costituirebbe un atto politico ostile, che gli Stati vicini potrebbero considerare, a giusto titolo, provocatorio e nuocerebbe gravemente alle relazioni con i Paesi in questione. Una tale revisione non sarebbe soltanto politicamente inopportuna, bensì anche problematica sul piano del diritto internazionale (…) che non riconosce un diritto generale alla secessione. Il diritto di secessione costituisce soltanto l’ultima ratio in circostanze eccezionali, che evidentemente non sono date nella fattispecie» (e sulla base di questa presa di posizione dell’esecutivo, si potrebbe consigliare ai promotori

del «Canton Marittimo» di mettersi il cuore in pace: un’adesione della Sardegna alla Svizzera appare decisamente improbabile). Il Parlamento alla fine non ha mai messo in agenda la mozione Baettig, non perché temesse di avviare «un atto politico ostile» a uno Stato vicino, ma semplicemente perché nel 2011 l’esponente democentrista non è stato rieletto e la sua mozione è stata di conseguenza «tolta dal ruolo». E se anche così non fosse stato, possiamo immaginare che la maggioranza del Parlamento avrebbe fatto sue le considerazione del Consiglio federale e respinto la proposta di Dominique Baettig. Ma non è solo in Sardegna che si pensa – si vagheggia? – di trasferire la propria sovranità sotto lo stendardo rossocrociato. Molte altre entità politiche vicine ai confini elvetici (quelle elencate da Baettig) riflettono più o meno seriamente se cercarsi una nuova patria sotto le gonne di «mamma Elvezia». I primi a pensarci – 95 anni or sono! – furono i cittadini del Voral-

berg, Land austriaco che confina con i Grigioni e San Gallo. Al termine della Prima guerra mondiale videro nell’adesione alla Svizzera la soluzione ai problemi ai quali erano confrontati. In una votazione popolare, l’80% dei votanti si espresse a favore del cambio di sovranità. La proposta però non venne raccolta dall’altro lato della frontiera, dove il Consiglio federale preferì non approfondirla per non sbilanciare il delicato equilibrio tra cantoni tedeschi e latini, tra cittadini riformati e cattolici. Ed è proprio a causa di questo equilibrio – oggi comunque ben diverso da quello del 1919 – che appare decisamente improbabile che la Svizzera possa vivere un’espansione territoriale, sebbene l’idea possa risultare affascinante almeno dal punto di vista turistico. Malgrado certe idee di tipo federalista che spingono delle regioni a chiedere il distacco dal potere centrale (pensiamo in primo luogo alla Lombardia in Italia), chi per secoli è vissuto in un sistema centralista farebbe molta fatica a cambiare le proprie abitudini. In questo senso l’integrazione del Land tedesco del Baden-Württenberg (in un sondaggio condotto dalla «Schwäbische Zeitung» l’86% dei partecipanti si è espresso a favore di un’adesione alla Svizzera) o del Voralberg nella Confederazione appare decisamente più fattibile che non quella ipotetica della Lombardia o dell’Alsazia. Senza contare che oltre alle abitudini, la gente dovrebbe cambiare anche la propria mentalità: se lo Stato in Svizzera viene identificato come qualcosa a cui tutti i cittadini appartengono, in Italia invece una larga fetta della popolazione lo considera come un «nemico», una visione non compatibile con il modello elvetico. A 499 anni dalla battaglia di Marignano, insomma, il cuore in pace se lo devono mettere in molti. Chi all’estero sogna di aderire alla Confederazione, chi in Svizzera vorrebbe estendere i confini nazionali. Anche solo per non restare in colonna in dogana quando si reca o torna dalle vacanze al mare.

Cenni di distensione sul mercato dell’alloggio Edilizia Il numero di alloggi vuoti è in leggero aumento, ma meno marcato nei grandi centri. L’attività di costruzione

è ancora intensa e l’influsso sul costo degli affitti a breve scadenza potrebbe ancora provocare aumenti Ignazio Bonoli Dopo un periodo abbastanza lungo di tensione in alcune regioni, anche tale da far pensare a interventi di freno, il mercato immobiliare svizzero dà ufficialmente i primi segni di rallentamento anche per quanto concerne il settore abitativo. L’Ufficio federale di statistica ha comunicato i dati concernenti il rilevamento del 1. giugno 2014: si sono, infatti, registrati 45’748 alloggi vuoti, pari all’1,08 per cento di tutti gli alloggi a disposizione nell’intero Paese. Rispetto all’anno precedente si è quindi eviden-

ziato un sensibile aumento del 14 per cento , cioè di 5740 alloggi vuoti. Tutte le principali grandi regioni del Paese hanno fatto segnare un aumento di alloggi non occupati con un incremento particolare nella regione del lago Lemano, in quella del «Mittelland», di Zurigo e della Svizzera orientale. L’aumento di alloggi vuoti è stato un po’ meno marcato nella Svizzera centrale e nel Ticino. Secondo questa statistica, in 19 cantoni il numero di alloggi è aumentato, e in 14 di questi ha superato il limite dell’1 per cento. A livello di singoli cantoni, la percentuale più alta di alloggi vuoti

Anche in Ticino molti cantieri al lavoro: gli alloggi vuoti sono 1847, lo 0,83 per cento del totale. (Tipress)

è stata registrata nel canton Giura con il 2,25 mentre la più bassa è da attribuire al semi-cantone di Basilea-Città (0,23). I due semicantoni di Basilea fanno pure parte della minoranza di cantoni nei quali l’offerta di appartamenti non è aumentata, ma piuttosto diminuita, il che spiega in parte anche la bassa percentuale di alloggi vuoti. I cantoni di Obvaldo e Nidvaldo, di Glarona, di Appenzello Interno e Argovia hanno pure fatto registrare una diminuzione di alloggi vuoti a un livello abbastanza elevato e non presentano quindi seri problemi di mancanza di abitazioni. Il canton Zurigo continua invece a presentare una situazione piuttosto tesa sul mercato dell’alloggio, nonostante la proporzione di abitazioni vuote sia leggermente aumentata rispetto all’anno precedente (dallo 0,6 allo 0,76 per cento). Tuttavia, delle 703’000 abitazioni presenti nel cantone, oltre 5300, e cioè 1100 in più rispetto all’anno precedente, risultano vuote. Di queste abitazioni, 4400 sono offerte in affitto e un po’ meno di 1000 sono invece in vendita. Questa situazione si è creata a causa della forte attività edile nel cantone. Di conseguenza, secondo la statistica dell’Ufficio federale, ben 1023 di queste abitazioni vuote si trovano in immobili con meno di due anni di vita. Quello degli alloggi vuoti è un im-

portante indicatore della penuria di abitazioni sul mercato, ma non riflette completamente la situazione reale. Esso indica, infatti, le abitazioni vuote (appartamenti e case monofamiliari) al giorno del rilevamento. Non contempla invece le abitazioni che sono affittate senza interruzione al 1. giugno, oppure previste più tardi per l’affitto o per la vendita. L’offerta di alloggi è, in effetti, più ampia di quanto risulti dalla statistica degli alloggi vuoti. Il Ticino continua ad avere un mercato dell’alloggio piuttosto teso. Gli alloggi vuoti sono 1847, cioè lo 0,83 per cento (0,82 nel 2013) del totale di abitazioni a disposizione, in crescita dell’1,5 per cento. L’intensa attività edile fa pensare che in realtà il numero di alloggi vuoti possa essere superiore. Ma già con i dati pubblicati dall’UFS, la situazione appare abbastanza tesa, e da qualche anno. Pur muovendosi sotto l’1 per cento, non raggiunge i livelli di guardia di centri economici importanti come Basilea, Zurigo o Ginevra. In Ticino, l’attività edile resta comunque intensa. La statistica degli alloggi vuoti non lascia quindi prevedere un rallentamento, come invece segnalano altri indici. Per esempio, la diminuzione delle transazioni immobiliari nel secondo trimestre è stata del 10,1 per cento, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Anche il valore

delle transazioni per le tre principali tipologie (proprietà per piani, fondi edificabili e fondi non edificabili) è diminuito dell’1,3 per cento. È sicuramente un altro indizio di un rallentamento del settore immobiliare nel cantone. In realtà, per la statistica nazionale, l’indice degli alloggi vuoti, da solo, non è molto significativo. Viene per esempio falsato dalla posizione geografica o dalla qualità dell’abitazione stessa, di modo che non è sempre in grado di rispondere alla domanda del mercato. Difficile poi calcolare quale influsso l’indice possa avere sulle pigioni. Avenir Suisse ha calcolato, qualche anno fa, il rapporto necessario per avere prezzi costanti per le pigioni ed è giunta alla conclusione che il tasso «naturale» di alloggi sfitti, che non incide cioè sulle pigioni, deve essere dell’1,15 per cento. Valori inferiori provocano un aumento delle pigioni, epurate dal rincaro, mentre un tasso più alto provoca una diminuzione. Oggi ci troveremmo perciò ancora in una fase di penuria, con tendenza all’aumento delle pigioni. Molti altri fattori incidono però sul prezzo degli affitti. Un rallentamento dell’immigrazione potrebbe provocare un aumento degli alloggi vuoti. Le proporzioni sono però ancora ben lontane dal «boom» del 1973, quando le nuove costruzioni erano quasi il doppio di quelle attuali.


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Politica e Economia

Esperimento riuscito: 28 secondi per trasferire denaro La consulenza della Banca Migros

lare di Anna. Mentre digito «Avanti» il cronometro è già a 22 secondi. Segue l’immissione dell’importo («90»). Verifico che il saldo del conto sia sufficiente. Rinuncio all’opzione «Comunicazione». Clicco ancora su «Avanti» e mi appare la ricapitolazione dell’operazione. Controllo tutto e premo «Eseguire». Uno sguardo al cronometro: 28 secondi!

Albert Steck Che cosa pensa del fatto che in futuro dovremo pagare o trasferire denaro con lo smartphone? Per me questa novità sarà davvero vantaggiosa?

Albert Steck è responsabile delle analisi di mercato e dei prodotti presso la Banca Migros

La sua domanda è più che giustificata. Anch’io sono piuttosto cauto di fronte alle innovazioni tecnologiche. Nella vita di ogni giorno utilizzo un nuovo sistema solo se è di immediata comprensione e non mi costringe a studiare le istruzioni per ore. Il criterio che conta davvero per me è il risparmio di tempo. È ancora troppo presto per giudicare se i pagamenti con lo smartphone riusciranno ad affermarsi. I primi sistemi a diffusione capillare saranno introdotti da noi solo tra qualche mese, così come il decantato Apple Pay. Oggi è comunque già possibile eseguire pagamenti con lo smartphone, per esempio con il nuovo P2P (Person-to-Person) della Banca Migros. Facciamo un esempio concreto: voglio trasferire 90 franchi alla mia amica Anna nel modo più efficiente possibile. Vale davvero la pena che utilizzi il mio cellulare per eseguire l’operazione? Per risponderle le racconto il mio esperimento con il cronometro.

Questo sì che è efficiente!

Chi trasferisce denaro con lo smartphone risparmia parecchio tempo.

Lo smartphone è sul tavolo, il tempo scorre! Apro l’app della Banca Migros e scelgo la voce del menu «Trapasso diretto P2P». Dopo aver cliccato su «Inviare denaro» devo inserire la

password. Non sono molto abile a digitare e vedo che sul cronometro sono già passati 14 secondi prima che io prema sul comando «Login». Quindi inserisco il nome e il numero di cellu-

Un risultato strepitoso persino per un impaziente come me. Il trapasso diretto P2P della Banca Migros consente di guadagnare nettamente tempo. Ma P2P offre una seconda prerogativa: per la prima volta con il mio smartphone posso incassare denaro da chiunque. Anche qui mi basta il suo numero di cellulare. La procedura è la stessa, con un’unica differenza: invece di premere su «Inviare denaro», clicco su «Ricevere denaro». Prima c’era il fastidio di dover spedire una polizza di versamento. Adesso posso richiedere la somma prestata in soli 28 secondi. Questo sì che è efficiente! Attualità su blog.bancamigros.ch: Quali sono le vostre esperienze con il P2P? Partecipate alla discussione! Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Per il momento, solo molta nebbia I cittadini che, lo scorso 9 febbraio, hanno approvato l’iniziativa per arrestare la libera circolazione della manodopera pensavano sinceramente che con il loro sì avrebbero contribuito a risolvere un problema. In realtà, invece, ne hanno creati due che non esistevano. Almeno per il momento e per il prossimo futuro. Il primo riguarda l’offerta di manodopera. Quando governo e parlamento avranno trovato la soluzione praticabile per dar seguito al nuovo mandato costituzionale, all’offerta di manodopera sul mercato del lavoro svizzero verrà a mancare una componente di peso, quella che finora veniva assicurata dalla libera circolazione dei lavoratori. Questa difficoltà viene declinata in modo diverso a seconda dei diversi mercati del lavoro. Per i motori dell’economia elvetica, ossia le regioni metropolitane dell’Altipiano e del lago Lemano,

il problema è più qualitativo che quantitativo. Che verranno a mancare sono infatti i lavoratori qualificati e altamente qualificati. Da questo punto di vista il caso più drammatico sembra essere quello di Basilea-città, la cui industria chimica vive, da decenni, dell’apporto del lavoro qualificato dei frontalieri delle regioni di frontiera francese e germanica. A Basilea c’è oggi chi consiglia apertamente di non dare seguito ad eventuali misure di contingentamento, in particolare se dovessero riguardare l’effettivo dei frontalieri, sostenendo che non sarebbe la prima volta che leggi federali restano lettera morta in questo o in quel Cantone. Altri, più moderati, insistono invece perché l’applicazione di eventuali misure di limitazione del contingente di lavoratori stranieri, in particolare dei frontalieri, sia interamente delegata al Cantone. Infine, i

più ossequienti, sostengono che se i contingenti dovessero essere fissati a livello nazionale bisognerà tener conto dei fabbisogni delle singole regioni e dare priorità alle regioni metropolitane dell’Altipiano e del Lemano rispetto al resto delle regioni svizzere. Meglio un ingegnere informatico di più a Basilea che un cameriere di più in Ticino. Tutto questo sarà da discutere e valutare nel quadro di una possibile legge di limitazione sull’immigrazione di lavoratori che riguardi anche i frontalieri. Per il momento però il progetto di legge naviga immerso nella nebbia. Nessuno è in grado di percepire in quale direzione stia per muoversi. Il secondo problema riguarda l’insieme degli accordi con l’Ue. Si pensa che se la Svizzera dovesse promuovere, in modo unilaterale, misure di limitazione dell’immigrazione di lavoratori provenienti dai Paesi dell’Ue, i trattati

bilaterali firmati dal nostro Paese e dall’Ue stessa verrebbero a cadere perché la libera circolazione è un capitolo costituente degli stessi. Nel corso degli ultimi sette mesi non sono mancate le occasioni all’Ue per ribadire quanto inflessibile sia la sua posizione. Per lei, se la Svizzera abbandona il principio della libera circolazione della manodopera è come se rescindesse gli accordi bilaterali. Pensare che trovare una soluzione di compromesso sia solo un problema di abilità dei negoziatori svizzeri, come suggeriscono i rappresentanti dei partiti populisti, è un’illusione, come illusorie sono molte delle loro pretese. Alcuni loro rappresentanti affermano infatti addirittura che la Svizzera non avrebbe bisogno dei bilaterali. In effetti la Svizzera potrebbe sopravvivere anche senza libera circolazione della manodopera e tener testa ai nuovi ostacoli al com-

mercio che sorgerebbero se si dovesse rinunciare ai bilaterali. Ma a quale prezzo? Che cosa significherebbe per le regioni periferiche del nostro Paese la creazione di nuove filiali all’estero da parte dei rami esportatori della nostra economia o, peggio ancora, il trasferimento all’estero di una parte del capitale reale della nostra produzione industriale? I sette anni di vacche magre, dal 1992 al 1999, ci dicono che cosa può costare in termini di crescita il non avere rapporti chiari con l’Ue . Per quel che riguarda i bilaterali, purtroppo, la nebbia continuerà a crescere almeno per altri due anni. Non sono le iniziative improvvisate, come quelle avanzate nel corso delle ultime settimane da qualche partito con l’intento di iscrivere nella Costituzione l’obbligo della collaborazione con l’Europa, che ci aiuteranno a schiarire più rapidamente la situazione.

uno specialista che gli dà lezioni di empatia. I Tory dovranno battersi per ogni singolo voto – lo si dice sempre, ma pare che davvero alle prossime elezioni si vincerà per pochi voti – e hanno una strategia elettorale al contempo rapace e tattica. Rapace perché l’economia, nel Regno Unito, ha ricominciato a girare, i tassi di crescita sono da paese sano, attorno al 3 per cento, l’austerità è permanente ma allo stesso tempo gli incentivi alla crescita sono tanti: lo stesso Cameron, al discorso di chiusura della conferenza, ha annunciato un taglio delle tasse per i redditi medio bassi, un’iniziativa pensata per la middle-class, che in tutto il mondo ha pagato il prezzo più alto della crisi economica. Il cancelliere dello Scacchiere, quel George Osborne che negli anni bui sembrava l’agnello da sacrificare sull’altare dell’austerità, è tornato vivace e combattivo: è la mente della strategia elettorale, e non fa altro che attaccare i laburisti sul fronte dei conti. Nonostante il successo economico che i Tory possono ampiamente rivendersi, il partito è sotto pressione. I guai arrivano soprattutto dall’Ukip, il partito indipendentista di Nigel Farage, che già alle

europee ha iniziato a far capire quanto è forte e determinato a sparigliare il duello tra conservatori e laburisti. La strategia di Farage è semplice: rosicchia parlamentari (e quindi consenso nella base) ai Tory. Alla vigilia del discorso di Cameron alla conferenza, Farage ha fatto sapere che un finanziatore dei conservatori è passato con l’Ukip. Non soltanto i politici, quindi, ma anche i soldi. Il finanziatore si chiama Arron Banks, è il fondatore di una compagnia assicurativa, la Go Skippy, e i conservatori hanno fatto finta di non essere preoccupati, «non l’ho mai sentito nominare», dicevano nei corridoi della conferenza. A parte le defezioni – che per ora sono poche e riguardano ultraconservatori – i Tory sono in realtà parecchio infastiditi dalla campagna acquisti dell’Ukip. Non soltanto perché è pericolosa per i voti, ma soprattutto perché impone a Cameron di mettere in agenda temi che altrimenti tratterebbe secondo i propri modi e tempi. Prima di tutto l’Europa, la nemica dell’Ukip e il mal di testa dei Tory, che sulla questione litigano alla grande. Ma anche l’immigrazione, ovviamente, e «l’inglesità» in

generale, mai sentita tanto forte come in questo mese di tormenti scozzesi. Ma l’agenda imposta dall’Ukip importa ai Tory? Questa è la domanda cruciale per Cameron, che deve ritrovare, come ha scritto Alex Massie sullo «Spectator», una storia da raccontare. Nel 2009, c’era: era la Big Society, era il conservatorismo compassionevole, era la solidarietà in casa e la competizione all’esterno, era un Regno Unito con un governo più snello ma con una grande coesione sociale. Oggi il messaggio è più sfilacciato, si è messa in mezzo la recessione, ovviamente, ma si è anche ripersa l’identità dei conservatori. Perché allora bisogna votarli ancora, i conservatori? Cameron, in uno dei discorsi più belli della sua carriera, l’ha spiegato alla conferenza di partito, con ottimismo, tagliando le tasse ma garantendo che il servizio sanitario non sarà travolto, introducendo elementi nazionalisti che hanno a che fare non con la sovranità, ma con un Paese che compete soltanto se è unito. È l’approccio da «big tent» – venite sotto l’ala dei conservatori, vi proteggeremo – di blairiana memoria che vince ancora oggi, anche a casa di un conservatore.

1843 il giurista zurighese Johann Caspar Bluntschli equiparasse il nascente ideale comunista al fanatismo religioso, collocandolo così nel solco plurisecolare delle sette ereticali e delle insorgenze plebee. Appena nato era già un fantasma che vagava nell’Europa delle teste coronate: «uno spettro si aggira per l’Europa...». Esauritasi quella lunga vicenda con il collasso del blocco orientale, ecco affacciarsi all’orizzonte una nuova immagine del nemico: la mezzaluna. Oggi il nemico è l’islamismo, con i suoi riti, le sue leggi e consuetudini, le sue bandiere nere. Le immagini che ci giungono dall’Iraq e dalla Siria hanno il potere di cancellare nella mente ogni residua distinzione tra musulmani moderati e fondamentalisti. È un «Feindbild» molto più inquietante della falce e martello, perché non maturato nel grembo della cultura occidentale come il marxismo.

Come affrontarlo? Questa è la grande domanda che occuperà la politica e la società europee nei prossimi anni, e che riguardano la convivenza sociale, l’insegnamento delle religioni nelle scuole, la disponibilità all’integrazione, il ruolo delle donne e delle minorenni, l’eventualità che nelle comunità musulmane spuntino tribunali paralleli fondati sulla legge coranica… Sono temi che nella loro radicalità interpellano l’essenza della cultura occidentale, e non soltanto quella religiosa. Nei confronti dell’islam gli europei cristiani provano un sentimento contraddittorio: di seduzione e di repulsione. Da un lato lo ammirano, perché è una religione forte, rigida, intensamente vissuta, i cui precetti scandiscono la giornata del credente; dall’altro lo temono, perché evoca la teocrazia medievale, la confusione tra l’autorità civile e l’autorità religiosa, la negazio-

ne sia della libertà della donna sia dei princìpi della democrazia e dell’autonomia del diritto. Così è stata spiegata l’alta percentuale dei voti anti-minareti nel voto del 29 novembre 2009: una percentuale che andava ben al di là del tradizionale bacino elettorale nel quale pescano UDC e Lega. Le élites del passato conoscevano forza e debolezza dell’«antitesi», dei movimenti d’opposizione che si prefiggevano di spodestarle. Conoscevano, insomma, l’antagonista che era cresciuto nel grembo stesso del «sistema». Oggi questa «familiarità» è andata perduta; oggi prevalgono la diffidenza, la paura e, purtroppo, una galoppante ignoranza, opportunamente alimentata dai demagoghi di turno. Alimentare i pochi lumi rimasti accesi ci sembra, tutto sommato, un compito ancora utile per il dibattito civile. Solo l’apertura e la conoscenza reciproche potranno guarire il disagio.

Affari Esteri di Paola Peduzzi Sotto l’ala dei Tory Nel 2009, la conferenza d’autunno del Partito conservatore inglese fu una grande festa: si stapparono bottiglie – sciaguratamente – perché le elezioni dell’anno successivo parevano un gol a porta vuota, i Tory erano avanti nei sondaggi, il leader David Cameron aveva fatto un’opera di rinnovamento del partito che non si vedeva dai tempi della Thatcher, tutto sembrava presagire una gran vittoria dei conservatori dopo anni di dominio laburista. Il successo non arrivò, i Tory vinsero ma non stravinsero, furono costretti a una partnership di

governo con i Lib-Dems che dura tuttora (anche se non se ne parla più: i liberaldemocratici si sono autoannientati in cinque anni di governo), e tutti pensarono a quanto fosse stato presuntuoso da parte dei cameroniani comportarsi da vincenti senza esserlo. Quest’anno, all’ultima conferenza dei Tory prima del voto del maggio 2015, sono stati tutti più attenti. I laburisti sono in vantaggio nei sondaggi, ma non appaiono né forti né uniti, e hanno un problema di leadership enorme con il loro Ed Miliband, costretto ad andare da

Il leader dei conservatori David Cameron.

Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Pericoli reali e fantasmi inventati Nella pubblicistica è riemersa una parola che negli anni 60 del Novecento conobbe una discreta diffusione: disagio, «Unbehagen», «malaise». Duplici erano allora le cause di quello stato d’animo: da un lato le (possibili, temute) ripercussioni sulla vita sociale del progresso scientifico e tecnologico, dall’altro la corsa agli armamenti atomici nell’atmosfera livida della guerra fredda. Oltre la cortina di ferro c’era il comunismo di matrice sovietica, simboleggiato dal muro di Berlino: qui il regno della libertà, là, oltre le torrette e il filo spinato, l’impero del male. Due campi contrapposti, armati fino ai denti, in stato di allerta permanente. La vecchia immagine del nemico – il famelico e sanguinario orso russo, le imponenti sfilate dell’Armata Rossa, i volti incartapecoriti della nomenklatura del Cremlino – era diventata, in fondo, familiare, quasi folcloristica. Impressionava ma non atterriva. Ad impedire

la deflagrazione totale provvedevano l’equilibrio del terrore e il controllo delle rispettive sfere d’influenza. Neppure il «nemico interno», ovvero i partiti comunisti e i gruppi extraparlamentari, destava apprensione. Nella piccola Confederazione, per forza elettorale, il comunismo – sia quello ottocentesco, sia quello d’impronta leniniana degli anni 20, sia quello rinato, infine, al termine della seconda guerra mondiale sotto il nome di Partito del Lavoro – non rappresentò mai una minaccia reale. La sua presenza risultò anzi provvidenziale, agli occhi degli avversari, sul piano dell’immaginario, soprattutto in prossimità di votazioni ed elezioni importanti. Tutto ciò che odorava di accentramento, statalismo, dirigismo finiva dritto filato nel frullatore del «pericolo rosso», comprese le più moderate iniziative socialdemocratiche in campo previdenziale e assicurativo. È significativo che nel


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Cultura e Spettacoli Flammer e Bordoni A Caviano un insolito connubio di artisti con molte più cose in comune di quanto ci si aspetti

Fotografare mondi In mostra fino all’11 ottobre la raffinata ricerca fotografica di Stefano Spinelli e l’Africa selvaggia di Simona Ferraina

Dio ci salvi da Lena Dunham Ha solo 28 anni e innumerevoli talenti, come dimostra il suo attesissimo libro

Un piccolo grande debutto Con Bianco su bianco Daniele Finzi Pasca ha creato uno spettacolo poetico ed intimo

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L’enclave dell’intellighentja Berlino, porta del mondo Dopo la rivoluzione d’ottobre molti intellettuali russi si trasferirono,

o almeno soggiornarono nella controversa città tedesca

Luigi Forte Negli anni Venti Charlottengrad non era un sobborgo di Mosca o di Pietroburgo, ma il nome attribuito ironicamente dai tedeschi al noto quartiere berlinese di Charlottenburg abitato dalla buona borghesia, dove vivevano dopo la rivoluzione d’Ottobre moltissimi émigré russi. Anche Andrej Belyj, autore dell’originale romanzo Pietroburgo, soggiornò in quel distinto sobborgo nel quale elementi del suo paese convivevano con aspetti della Parigi russa o di Praga. Nel suo scritto visionario su Berlino, Nel regno delle ombre, Charlottenburg diventa «un luogo santo dove i morti risorgono dalle tombe per sgranchirsi le gambe sul Kurfürstendamm inondato di elettricità». A lui, come a tanti altri stranieri, le mille luci della città, nell’elegante Westen intorno a Wittenbergplatz così come lungo tutta la Friedrichstrasse fino alla Leipziger dove già risuonava il brusio incessante di Potsdamer Platz, lasciavano una gradevole sensazione di smarrimento. In realtà l’atmosfera della metropoli gli inspira visioni infernali: «Sembra quasi – si legge nel suo pamphlet – che le strade di Berlino con il loro affollamento siano le strade del Tartaro; vi domina una vita d’ ombre; lo splendore dell’elettricità è la fosforescenza della putrefazione». Con la sua sensibilità visionaria egli contribuisce al mito della capitale attorno a cui gran parte dell’intellighentja russa del tempo si accalora. E la città sembra quasi collaborare, se si deve credere a Viktor Sklovskij che la trasformò in un pezzo di letteratura e scrisse in Zoo o le lettere non d’amore che «ai confini del mondo, a Berlino, un borghese sovietico sogna dimensioni internazionali e pubblica sempre nuovi libri». Lui, in esilio, sognava in realtà il suo amore infelice Elsa Triolet, sorella di Lili Brik e più tardi moglie di Louis Aragon. La città tedesca diventa per gli intellettuali russi un vero ancoraggio in un’epoca di grandi sconvolgimenti. Qualcuno la definì la capitale della letteratura russa. Sulla scena berlinese fecero infatti la loro comparsa parecchi fra i maggiori scrittori dell’epoca: da Gor’kij, che viveva un po’ discosto a Bad Saarow, a Esenin che vi approdò nel 1922 al seguito della moglie, la

danzatrice Isadora Duncan; da Belyj a Majakovskij, portavoce in occidente delle idee rivoluzionarie sovietiche. E poi ancora la grande poetessa Marina Cvetaeva che vi soggiornò, non ancora trentenne, poco più di due mesi, introdotta negli ambienti letterari dall’amico Erenburg artefice del suo successo letterario in Germania. La Cvetaeva se ne andrà lasciandosi dietro una poesia dedicata alla città e il ricordo d’una passeggiata notturna con Belyj: i due fluttuano via, trasognati, con le immagini di Berlino negli occhi, verso un’ abissale lontananza. Anche Pasternàk conosceva Berlino. C’era già stato giovanissimo con la famiglia nell’estate del 1906, come si apprende dalla sua Autobiografia: «Tutto mi era sconosciuto, tutto mi giungeva nuovo – vi si legge –. Mi pareva di non vivere, ma di sognare, di assistere a un’immaginaria rappresentazione teatrale in cui nessuno fosse impegnato». È naturale che l’impatto della città su un ragazzo di sedici anni, per quanto moscovita, sia stato folgorante. Boris è affascinato e sedotto dalla modernità, dal traffico e dal ritmo dell’ipertrofico meccanismo urbano. In quel bailamme egli è del tutto a suo agio: si aggira curioso e incantato, mentre suo padre, il noto pittore Leonid Osipovič, è occupato con il ritratto di Gor’kij. Con la Cvetaeva altri lirici si affacciarono sulla scena berlinese come El’jašëv e Chodasevič, definito da Nabokov il più grande poeta russo del XX secolo, qui di passaggio assieme alla compagna Nina Berberova. La città tratteggiata nelle sue liriche è quella della strada fra suonatori d’organetto e coppie d’innamorati di fronte a cui il flâneur notturno si sente estraneo e spaesato. Solo Nabokov che a Berlino aveva visto morire suo padre in un attentato monarchico nella Berliner Philarmonie, mise radici: il suo soggiorno si protrasse per ben quindici anni fino al 1937, e in quel tempo egli finì per conquistare un’assoluta libertà spirituale grazie al doppio isolamento di cui aveva goduto fra i tedeschi e i russi. Berlino, che Chagall definì un caravanserraglio, non fu solo «quella serra dell’autentica cultura russa di ieri» immaginata da Belyj, ma, a leggere i romanzi di Nabokov, il terreno di coltura di un orizzonte sempre più europeo e al

La danzatrice statunitense Isadora Duncan (1877-1927) e lo scrittore russo Sergei Esenin (1895-1925). (Keystone)

tempo stesso un microcosmo in terra straniera di città dalle grandi tradizioni come Leningrado e Mosca, Kiev e Odessa. Non stupisce che la fantasia dell’entomologo Nabokov ruoti attorno allo Zoo, in un’area in cui s’aggiravano molti russi, divenuta, grazie anche alla sua stazione, quasi un paradigma antropologico e culturale. Egli definì quel luogo un vero «Eden» con un richiamo austero alla tradizione biblica. «Se le chiese ci parlano del Vangelo – asserì lo scrittore

– gli zoo ci ricordano l’inizio solenne e pervaso di tenerezza del Vecchio Testamento. L’unico aspetto dolente è che questo Eden artificiale si trova per intero dietro le sbarre…». C’è stupore e meraviglia negli occhi dello scienziato Nabokov, così come c’è tenerezza nei gesti di Lili Brik, la compagna di Majakovskij, che da vera appassionata del regno animale, varca l’ingresso del giardino zoologico per andare ad accarezzare i cuccioli di leone. Sono ormai lontani i tempi in cui un romanziere come Dostoevskij scor-

geva nella capitale del Reich solo una città di casermoni, che era meglio lasciare al più presto in direzione di Monaco o di Dresda. Berlino diventa ora il luogo dove s’incrociano le strade e i destini di russi e tedeschi, tra i molti caffè e le librerie del borghese Westen. Un’osmosi che ha lasciato una traccia profonda in quella città che per molti non fu solo rifugio transitorio, ma, come è stato detto, una vera scuola dei sensi e dell’istinto storico, che contribuì ad arricchire la cultura weimariana impensabile senza l’asse Berlino-Mosca.


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Cultura e Spettacoli

All’essenza dell’arte

Mostre Fernando Bordoni e Alberto Flammer in mostra a Caviano

Alessia Brughera Non potrebbero essere più diversi tra loro il pittore Fernando Bordoni e il fotografo Alberto Flammer: differenti sono i mezzi espressivi utilizzati e differenti sono gli esiti stilistici a cui approdano. Eppure, mettendoli a stretto contatto, rivelano alcuni elementi che li accomunano. E non si tratta unicamente della lunga esperienza che entrambi hanno alle spalle e che li ha portati a essere due figure ampiamente riconosciute nel panorama artistico svizzero e internazionale. C’è qualcosa che li unisce anche sotto il profilo formale, apparentemente così antitetico. È la pratica meticolosa del fare arte, una pratica che non tollera nel risultato finale ciò che non è essenziale, ciò che non è indispensabile a rappresentare un concetto. Solide e misurate, le opere di Bordoni e di Flammer manifestano un convergere comune verso la sostanza delle cose, a cui entrambi giungono attraverso un percorso che si evolve mantenendosi sempre coerente. L’inedito confronto tra i due artisti ha luogo nella mostra ospitata presso la Casa al Centro di Caviano, uno spazio espositivo che apre le sue porte una sola volta all’anno grazie ai due proprietari Gabriela Temml e Michael Wisniewski, una coppia di medici viennesi appassionati d’arte che hanno scelto il piccolo paesino nel Gambarogno affacciato sul Lago Maggiore come loro buen retiro. Per Fernando Bordoni l’allontanamento dalla figura per giungere a un vocabolario pittorico fatto di segni è

stato un processo lento ma inevitabile, iniziato già negli anni Sessanta quando ancora l’artista mostrava interesse per il neo-figurativismo di Giacometti e Bacon e per la Pop Art. Le riflessioni su Kandinskij e Klee e l’avvicinamento alle teorie del Gruppo di Como e dei Concreti di Zurigo lo hanno poi portato a esplorare definitivamente il linguaggio astratto, un ambito fecondo in cui scoprire nuove possibilità. Da qui prendono vita le sue tele popolate di segni che creano sequenze colorate, geometrie dinamiche, combinazioni in cui le forme si inseguono sulla superficie in cadenze ritmiche guidate dall’ordine e dall’equilibrio. Spesso questi segni rimandano ad alfabeti antichi, a codici cifrati, a simboli mutuati dalla natura, rimaneggiati poi dall’artista fino a decontestualizzarli e farli divenire tracce che si librano nello spazio pittorico. Anche i lavori più recenti vivono delle medesime modulazioni tra superficie, segno e colore indagate nel corso degli anni dall’artista. Le opere esposte a Caviano sono ciascuna la variante di una composizione primigenia, esemplari differenti che scaturiscono da una matrice comune di cui rielaborano i flussi e le sequenze principali. In questi universi dipinti i tocchi di colore si adagiano in ogni dove tracciando molteplici rotte, sempre governati da un criterio ben definito, come se sul tessuto pittorico fosse presente una griglia appena percettibile che indica pause e direzioni. In Tema con variazione n. 20, ad esempio, del 2013, la gamma cromatica si riduce alle sole tinte primarie

Di Fernando Bordoni Tema con variazione n. 20.

e al grigio, ora grande protagonista, e i segni spessi e corposi si dispongono su uno sfondo bianco secondo ampi intervalli. Queste opere di Bordoni appaiono sempre più epurate dal superfluo, sempre più sostanziali, sempre più iconiche, sospese come sono tra razionalità archetipica e libertà creativa. Un ritorno all’arcaico e all’essen-

ziale è presente anche nei lavori del fotografo Alberto Flammer, a partire dalla scelta dello strumento con cui vengono realizzati: nella serie esposta a Caviano, infatti, l’artista si serve della camera oscura a foro stenopeico. In piena era digitale, utilizzare questa tecnica non significa soltanto fare una scelta in controtendenza, ma soprattut-

to risalire alle origini, sperimentare sistemi che appartengono al passato per riappropriarsi di pratiche che sono una rivincita dell’uomo sul mezzo. Nessuna lente dunque, solo un piccolissimo foro che impressiona la pellicola: nasce in questo modo la serie dal titolo Le isole presente in mostra. Dense di riferimenti a pittori, scrittori e naturalisti del passato, queste fotografie racchiudono significati e messaggi talvolta evidenti talvolta più sfuggenti. Le isole sono metafore, moniti, esortazioni o semplici brani di ironia. Ecco allora L’Isola di Arcimboldi, un tripudio di frutta e verdura a richiamare i ritratti del celebre pittore lombardo; L’Isola del giorno prima, evidente rimando all’opera di Umberto Eco, in cui brandelli di carta e vecchi giornali appallottolati ci invitano a riflettere sul passato; o ancora L’isola della Vanitas, dove teschi, monete e libri impolverati ci ricordano la precarietà della nostra esistenza. Lo specchio su cui poggiano le composizioni rende l’effetto di una distesa di acqua che circonda e riflette l’isola: l’immagine viene così duplicata creando un sorta di mondo «altro», uno spazio sottomarino, appartato, dove sono custoditi ulteriori, ma questa volta inconoscibili, significati. Dove e quando

Fernando Bordoni. Tema con variazioni. Alberto Flammer. Le isole. Casa al Centro di Caviano. Fino al 12 ottobre 2014. Orari: da giovedì a domenica dalle 16.00 alle 19.00 Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Muscoli di Scarlett, mimica di Castellitto Cinemando L’azione è più facile del grottesco

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Fabio Fumagalli * (*) Lucy, di Luc Besson, con Scarlett Johansson, Morgan Freeman, Choi Min-sik (Francia 2014)

Regista formalmente iperdotato quanto regolarmente sopra le righe, capace del buono (Leon, e i successi popolari di Le grand bleu e Nikita) come del peggio (quasi tutto il resto), produttore e imprenditore ambizioso di successo, ex enfant prodige del cinema francese: Luc Besson viene presentato in questo modo da ormai tanti anni. Oltre che, ai tempi del suo Giovanna d’Arco: «sul piano spirituale e metafisico, elevazione a zero». Divertente e balordo («il film più stupido mai fatto sulla capacità intellettuale», secondo la critica americana: il che non ha impedito al film di issarsi in testa ai blockbuster estivi…) Lucy non può pretendere d’invertire una rotta intrapresa nel 1983, già allora con un film di fantascienza, Le dernier combat. E ciò non per la vicenda narrata, che nemmeno l’autore può definire parascientifica: al centro del film vi è infatti un’universitaria di Taipei, costretta da ignobili trafficanti di droga a imbottirsi di una sostanza in grado di produrre una mutazione destinata ad aumentare in modo esponenziale le facoltà cerebrali (considerato che i comuni mortali non ne utilizzerebbero che il dieci per cento). Il tutto, beninteso, non certo a fini meramente fisici, quanto più per acquisire poteri sempre utili in caso di bisogno, come bloccare il decorso del tempo o uccidere con il solo pensiero. Il film sfocia dunque nel thriller spettacolare con zuffe vagamente futuristiche e inseguimenti d’auto francamente ormai sempre più insopportabili. Ma Lucy è pure, come sappiamo, il nome dell’australopiteca ritenuta sbrigativamente la prima donna della nostra specie. Ed ecco allora l’altra pretesa bessoniana, di tipo filosofico, riassunta nel viaggio a ritroso nel primordiale con tanto di dialoghi compiaciuti e allusioni naif ai riferimenti d’obbligo, siano essi 2001 Odissea nello spazio o The Tree of Life. Al tempo stesso Lucy è Scarlett Johansson, ma non quella dalla sopraffina, inavvicinabile sensualità che l’ha condotta da Lost in Translation di Sofia Coppola a Her di Spike Jonze. Poiché, in un film di Besson, deve assumere anche lei una duplicità magari utilmente spettacolare quanto riduttiva: la femmina dal profilo mozzafiato ma dal muscolo bodybuildato che finisce per annullarne la potenziale sensualità. Proprio come era avvenuto con la Adjani di

Subway, la Parillaud di Nikita, la Portman di Leon, la Jovovich di Il quinto elemento e Giovanna d’Arco. Poi, è anche vero che il film possiede un suo savoir faire, tanto che gli è riuscito di collocarsi regolarmente ai vertici del botteghino. A immagine e somiglianza della sua eroina, è il più ambizioso fra i progetti di Luc Besson e il suo migliore da molti anni. E a condizione di essere vissuto nell’inflazionato contesto al quale appartiene, Lucy la sua figura la fa... * La buca, di Daniele Ciprì, con Rocco

Papaleo, Sergio Castellitto, Sonia Gessner, Teco Celio, Valeria Bruni Tedeschi (Italia 2014) Di È stato il figlio, prima esperienza alla regia senza Franco Maresco, ma con la voglia di trasgressione intatta di un grande della fotografia (Vincere di Bellocchio…) come Daniele Ciprì, si era detto tutto il bene, nei limiti del possibile. Così come della sua radicale deformazione della commedia all’italiana, del suo grottesco più surreale che cinico e dei suoi novelli brutti, sporchi e cattivi aggiornati in tempi di morale consumistica. Così come di quel suo modo spregiudicato, ma ancora elegante, di giocarsi tutto sul «troppo», sull’accentuazione di ogni elemento espressivo a disposizione. A porsi ad ogni costo sopra le righe non è però facile. Ed è ciò che accade in questo La buca, tragicommedia indubbiamente ambiziosa e pure relativamente agiata (un cast di prim’ordine, le musiche provette di Pino Donaggio e del nostro Zeno Gabaglio, le scenografie di Marco Dentici, pure lui abituato alle esigenze di un Marco Bellocchio) in una serie di ritratti che potrebbero risultare utili anche se non proprio dilettevoli. L’avvocato sempre alla rincorsa di situazioni truffaldine (Castellitto), uno dei suoi gabbati che si è fatto 27 anni di prigione da innocente (Papaleo), il falso invalido che tenta (troppe volte perché diverta) di farsi travolgere dall’autobus, la barista dal cuore d’oro (Bruni Tedeschi), il giudice del tribunale distratto dalla partita di calcio (Teco Celio), l’immancabile cagnolino. Da fotografo prezioso Daniele Ciprì immerge il tutto in una luce ambrata che dovrebbe fare tanto dagherrotipo, e spedire così tutta quella romanità nel mondo delle favole istruttive. Ma sono l’estetica compiaciuta, la sceneggiatura prevedibile, la forzatura trasgressiva a sottolineare proprio il confronto crudele che andava evitato: quello con i mirabili ritratti d’epoca firmati Risi e Scola, Gassman e Sordi.

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Cultura e Spettacoli

La potenza del dubbio e quella delle belve

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Fotografia Fino all’11 ottobre due mondi

di immagini realizzate da Stefano Spinelli e Simona Ferraina Giovanni Medolago Chiamato da Elvis Van der Meyden con altri 18 artisti di casa nostra per dar vita alla sua bella iniziativa svoltasi recentemente a Neggio (e purtroppo chiusa dopo soli tre giorni), Stefano Spinelli ha perlustrato in lungo e in largo la pensione abbandonata da anni che ha ospitato la pluriperformance. Un luogo fatiscente ma al tempo stesso affascinante, dove Spinelli si è buttato Sulle tracce del dubbio, come si intitola la mostra che, con le opere di Sara Pellegrini, è aperta nella Galleria Art…on Paper di John Dupuy a Paradiso. «Un fine strumento d’indagine della realtà come la fotografia – spiega Spinelli – e l’arte del narrare l’enigma s’incontrano in questa serie di immagini in cui, paradossalmente, è l’ombra dell’incertezza che predomina». Ecco dunque fotografie più o meno «astratte» dove gli spazi sono rivelati dall’irruzione molto discreta della luce che rinuncia così al duello con l’oscurità; immagini sfuocate tutte da interpretare e che tuttavia rivelano sin dal primo sguardo un’accurata scelta riguardo all’accostamento cromatico; ghirigori che Spinelli ha colto nel marmo alle prese con l’ingiuria del tempo; pavimenti piastrellati che, sfaldandosi, ricordano una costellazione: «Orione, il cacciatore. Chi starà inseguendo?». Così recita una delle didascalie che accompagnano ogni «icona» proposta da Spinelli, scelte dal fotografo dai libri di giallisti di fama (E. A. Poe, Chandler, Dürrenmatt, Glauser), «sporadici» (U. Eco col suo Nome della rosa), emergenti (Carofiglio) o semisconosciuti (Boileau e Narcejac: chi sono costoro? Nientemeno che gli autori di La donna che visse due volte!). Spinelli ci offre indizi che ricalcano il reale, lo citano e lo trasfigurano, ma pur tuttavia rientrano ambiguamente nel gioco della realtà. Se l’occhio del fotografo scopre cavi elettrici multicolor probabilmente dimenticati dagli operai, ecco la didascalia che ri/ lancia il gioco dell’interpretazione: «una immagine, un fantasma, una fi-

gura?» In questo intrigante incontro tra fotografia e letteratura («Fu come se il manoscritto mi commentasse»), Spinelli cala pure la carta dell’ironia, carta che sembra giocata, grazie alle didascalie, per tranquillizzare chi – di fronte a un’opera astratta – è solito chiedersi: ma che significa? «Sciocchezze: vi ho detto che stavo sognando!» o ancora «È in una di queste stanze che ho avuto le visioni»…

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Stefano Spinelli nelle sue fotografie gioca con la luce, mentre Simona Ferraina «sfida» gli animali africani Di tutt’altro genere, molto più «concreta» e ugualmente interessante, la mostra che segna l’esordio della giovane Simona Ferraina: Africa, proposta nel II Fortino della Fame di Camorino (una Casa Rotonda di donettiana memoria!). Attiva nel Continente Nero per un’organizzazione umanitaria, Simona ha certo rischiato la vita per cogliere in ravvicinatissimi quanto stupendi «camera look» belve feroci quali leoni o ghepardi. Sempre con lo sguardo fisso sull’obiettivo, ecco una giraffa che deve compiere acrobazie per abbeverarsi in un rigagnolo, mamma struzzo che sorveglia le sue uova, un’attonita iena forse rimasta senza carcasse da rosicchiare o ancora una zebra che sembra chiedere alla fotografa: «Ma cosa diavolo vuoi?». Oltre a rivelarci il talento di Simona, la mostra ha due precisi scopi: uno didattico, con un opuscolo che ci svela parecchi segreti sulla fauna africana (sapete cos’è un licaone, oppure un kudu, maggiore o minore fa lo stesso?...). L’altro è quello di raccogliere fondi sia per un orfanotrofio degli elefanti in Kenya (dove trovano rifugio i «cuccioli» rimasti senza mamma, sovente e purtroppo uccise dai bracconieri), sia per un centro di accoglienza per bambini in Namibia.

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Un’immagine di Stefano Spinelli.

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Un gradevole elemento di disturbo Musica La scalata al successo di Domenico Genna, in arte Nx, che ora si presenta al suo ormai affezionato pubblico

con l’album EDD – Elemento di disturbo Big Bang Family …e così tutti puntano in alto? / Con le loro belle facce in copertina, puliti e ambiziosi / cercano il contatto visivo, cercano di vendere. / Per quanto mi riguarda, mi sono sempre distinto, / ho sempre fatto il rapper specie quando uniformarsi / voleva dire «diventare un prodotto». / Sono sempre rimasto io, la mela di Magritte, / la bomboletta di Banksy, i numeri di Martin Margiela. Tra tutti questi astronauti, io, sogno ancora di fare il palombaro. Elemento Di Disturbo Con questa breve introduzione, il rapper-palombaro Domenico Genna (in arte Nx) classe 1981, annuncia l’uscita del suo primo disco solista dal titolo EDD – Elemento di Disturbo. Avvicinatosi alla cultura hip-hop nel 1995 sperimentando, oltre al canto, breakdance e writing, alla fine degli anni 90 forma il collettivo Massakrasta. Il gruppo composto da Nx, Fre e Dj Juda riscuote subito un discreto successo grazie all’energia delle esibizioni live e vanta molte partecipazioni a progetti discografici locali e non. Dal 2001 grazie alla collaborazione con il rapper e produttore Michel (Momo Posse e Metrostars) i Massakrasta entrano nelle tracklist delle compilation Champions league, Da Lontano e Bombe e realizzano il loro primo album, Maleducati. Lamademonio e Bling Bling sono i due singoli dell’album che vengono selezionati da Bassi Maestro (rapper, produt-

EDD, l’album di esordio di Domenico Genna, in arte Nx.

tore, dj e tecnico del suono) ed inseriti in Mokee Bizniz, una compilation italiana sviluppata in più volumi. Pur non abbandonando mai il collettivo, Nx si dedica alla sua carriera solista collaborando con il rapper ticinese Sisma (Linea 23) e Dj Idem in uno show esplosivo che gli permise, fra i tanti successi, di conquistare l’apertura al gruppo francese Sniper. Nel 2012 stringe la collaborazione con il gruppo locale emergente Big Bang Family, collaborazione tutt’ora duratura, che li porta a condividere

molteplici palchi tra l’Italia e la Svizzera; Dj Premier, Bumpy Knuckles, Soulkast, Rasco, SnowGoons, Sean Strange, Das Efx, Krs One, Beatnuts e MOP sono solo alcuni dei guest che compongono il loro curriculum. Nel 2013 partecipa come ospite allo show del gruppo multilingue Swiss Avengers durante l’evento Open Air Frauenfeld. Nonostante l’invidiabile presenza live Nx decide di incidere questo suo periodo positivo nelle 17 canzoni che compongono EDD, il suo primo album solista.

Un disco valido e in controtendenza se lo paragoniamo allo stampo musicale che hanno assunto i rapper italiani, o meglio i rapper italiani che da qualche periodo dominano le classifiche. Ma fa tutto parte del piano. Ricordate quando nella pellicola di Giuseppe Tornatore, Stanno tutti bene, si dice: «Il vino si può fare anche con l’uva»? Ecco allo stesso modo Nx sembra ribadire che un buon disco rap si può fare «anche» con il rap. Maury B (Next diffusion e Gatekeepaz), Psyko Killa (Gatekeepaz), Tormento, Dj Fede, Dj Idem, Fre, Sisma, Yaway, Big Bang Family, Lowa Man, Royal Frenz, Ajb, El Coltivador, Miguel Vodela e molti altri sono i featuring di questo piccolo capolavoro firmato da Nx e confezionato a cura di Bassi Maestro per l’etichetta BM Records. Frutto del surreale impegno in tutte le attività svolte, dalla radio Good Stuff (il programma hip-hop su Radiogwen.ch), al sito tiakkadoppia.ch (il portale di news hip-hop per il Ticino) questo disco mostra un paesaggio in cui il potere dell’immaginazione prende il sopravvento sulla realtà. Non solo un progetto musicale atteso ma un disco sognato e immaginato ad alta voce, senza alcuna restrizione, come quando la fantasia ti porta a immaginarti davanti a una folla in delirio e invece sei in camera davanti allo specchio, allo stesso modo di quando covi certi strumentali sogni di collaborare con artisti di grande calibro e trasformi ciò che hai immaginato in realtà.

Come il celebre ma ad oggi anonimo writer Banksy anche Nx non ha paura di esprimersi liberamente a proposito di qualsiasi tematica. All’interno di EDD possiamo trovare pezzi di ogni genere, l’artista spazia dalla riflessione alle «rime da battaglia» senza batter ciglio. Non ci sono «storie raccontate» tutto è vissuto in prima persona e il potere dell’immedesimazione è fortissimo. Forse si tratta di questo, dello speciale nel quotidiano, di dire per primi quello che tutti in fondo potrebbero pensare. Pur restando un album indipendente, EDD conquista, in Svizzera, l’11ma posizione nella classifica rap iTunes e si riconferma entro le prime 20 posizioni per quattro giorni consecutivi (occorre considerare che il CD è uscito solo a inizio settembre!). In Italia raggiunge il 16mo posto e fa parlare di sé anche nella top 100. Agli occhi, ossia visivamente, EDD appare come la catalogazione numerica dello stilista belga Martin Margiela: siamo infatti di fronte a un codice sicuramente comprensibile dagli «addetti ai lavori», ma con l’atout di essere in grado di incuriosire chiunque. Il musicista Nx non cerca infatti di far piacere il rap a tutti i costi «storpiandolo» e camuffandolo con altri generi, ma espone i fatti così come sono, restando fedele a una filosofia al 100 per cento hip-hop. Un sogno ticinese, una soddisfazione per l’artista e uno stimolo per chi, da qui in avanti, vorrà realizzare il proprio cd, con fantasia, impegno, sogni e matita. Annuncio pubblicitario

“Torta a sorpresa“ Cake

Ingredienti: · 190g di burro morbido · 9 uova · 220g di zucchero · 1 presa di sale · 190g di cioccolato fondente · 350g di mandorle macinate · 75g di farina · 1½ cucchiaino di lievito in polvere

Decorazione: · Glassa al cioccolato nero · Smarties

Lavorate a spuma il burro con i tuorli, lo zucchero e il sale. Aggiungete il cioccolato sciolto a bagnomaria. Incorporate le mandorle, la farina e il lievito in polvere. Montate gli albumi a neve ferma e incorporateli alla massa delicatamente mescolando dal basso verso l'alto. Versate la metà dell'impasto in una teglia (Ø 26 cm) con un buco al centro (teglia per ciambella) imburrata e infarinata. Cuocete la torta in forno per 45 minuti a 180°C. Versate il resto dell'impasto in una tortiera rotonda (Ø 20 cm) e cuocete il coperchio della torta per ca. 10 minuti a 180°C (prova cottura). Lasciate raffreddare le due parti della torta. Riempite la cavità della ciambella di Smarties e coprite con il coperchio. Ricoprite la torta di cioccolato fondente e decoratela con molti Smarties colorati!

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Cultura e Spettacoli

Una settimana per provare ad illuminare l’uomo Fare radio Alan Alpenfelt ci introduce al «Gwenstival V»: musica e radiofonia

al servizio del territorio Zeno Gabaglio «Amplificare una passione riunendo più persone possibili in un luogo solo. Sperando poi che queste persone tornino arricchite di nuovi spunti creativi alle proprie attività giornaliere». È così che Alan Alpenfelt – fondatore e factotum di Radio Gwendalyn, la più amata delle web radio ticinesi – risponde alla domanda «cosa significa “festival”?». L’occasione per porgliela è il prossimo avvio della quinta edizione di Gwenstival – il festival della radio, ma non solo, che da quest’anno gode anche del sostegno del Percento Culturale Migros Ticino – e la sua formulazione completa doveva prevedere anche la parte «a cosa serve oggi un nuovo, ennesimo, festival musicale»? «Gwenstival non è un festival esclusivamente musicale (il sito www.gwenstival.com rende in effetti giustizia di questa sorprendente molteplicità, ndr.) e soprattutto esiste per una necessità ben precisa: è una via di fuga dai limiti imposti per legge. L’Ufficio federale delle comunicazioni non rilascia infatti più nessuna frequenza FM e Radio Gwendalyn si è dovuta riparare sulle onde web. La Confederazione rilascia però frequenze di breve durata (fino a un massimo di un mese) grazie alle quali Radio Gwendalyn può permettersi di esistere per qualche tempo anche nell’etere. È un po’ come se a un detenuto permettessero di tornare a casa per una settimana, un tempo in cui noi festeggiamo il significato stesso di fare la radio chiedendoci quali sono i suoi doveri e il suo potenziale nella società contemporanea». E quali sarebbero? «La radio è uno dei media che più può osare, che deve rimettere in questione il senso stesso di comunicare. E con Gwenstival noi ci poniamo proprio questo obiettivo». La verifica di tale audacia è relativamente semplice: sintonizzarsi tra il 6 e il 12 ottobre prossimi sulle frequenze di Chiasso 97.3, Lugano 107.2 e Locar-

Alan Alpenfelt durante una visita in Africa.

no 88.8 per avere accesso immediato al mondo-Gwen. Un mondo che è sì globale – complici anche gli escamotage tecnologici e la fratellanza con le molte consorelle-web radio – ma che in Radio Gwendalyn non cerca di mascherare nemmeno la dimensione locale, la vita quotidiana di ciascuno di noi. «Qualche giorno fa stavamo facendo un test in automobile per sentire dove arrivavano le frequenze di Chiasso. Uscendo in Italia e passando la curva per andare verso Cernobbio, ci siamo resi conto che non c’è nulla di più interessante che vivere il quotidiano sentendo i Violent Femmes e subito dopo Moondog. Sfido chiunque a pensare l’ultima volta che ha sentito almeno tre pezzi consecutivi in radio che lo hanno fatto sorridere, e di cui almeno due non erano conosciuti. Radio Gwendalyn è sì su internet e la si sente anche a Tokyo, ma a noi interessa parlare ai nostri vecchi compagni di scuola e agli adolescenti di oggi, voglia-

mo goderci un gita nelle Alpi con gli Slint, i Pulp, i Mudhoney e perché no, i Radiohead. Vogliamo guardare quelle facce perse di migranti che arrivano a Chiasso e saper che dietro a ognuno di loro c’è una storia mozzafiato, spesso tragicissima. Sapere che sono esseri umani che inevitabilmente possono raccontare il nostro territorio, di cui anche loro ormai fanno parte. La radio per noi deve fare questo: raccontarci dove viviamo ricordandoci però sempre cosa e quanto ci circonda». Guardando verso il futuro, però, è quasi inevitabile chiedersi che fine faranno i mass-media di oggi, e in primis la «vecchia» radio. E il timore è che la risposta sia forzatamente nostalgica. «Dei vari media la radio sarà la più dura a morire, questo è certo anche se sono di parte. E tuttavia sento domande ben più pressanti di questa: ci possono essere nuovi occhiali google, o l’ennesima nuova versione di uno smartphone, ma

di fronte allo scioglimento dei ghiacci e la scomparsa della metà degli animali del mondo tutto ciò mi risulta insignificante. L’unica cosa che mi auguro è che i mezzi di informazione si facciano un esame di coscienza e riconoscano il proprio potere nel dirigere il pensiero degli umani. La responsabilità della “vecchia” radio, finché esisterà l’automobile e la radiolina in cucina, sarà perciò quella di illuminare l’uomo».

Pre-giudizi infondati, buona la performance dell’ex Miss Svizzera su SRF 1

Dove e quando

In collaborazione con

Christa Rigozzi durante la trasmissione televisiva Arena.

modo di interpretare il mondo dell’informazione listici, «Politica», «Economia», appunto «Personaggi famosi»), quando alla sezione «Ammirazione» segue immediatamente la sezione «Invidia». Nella prima si dice che «le notizie sulle celebrità, nella loro forma più matura, dovrebbero costituire un mezzo serio e rispettabile attraverso cui imparare a diventare qualcosa di più di quanto siamo adesso»; poi, dopo una manciata di pagine, nella seconda sezione, si osserva che «anche se è sempre stata bersaglio di critiche severe e moralistiche, l’invidia è una caratteristica indispensabile per condurre una vita degna di questo nome». Come a dire che l’individuo virtuoso, nella prospettiva di migliorare se stesso, ammirerà e invidierà insieme le celebrità. Ecco, il libro è appunto una guida all’uso efficace e igienico delle notizie e un catalogo di auspici per una loro adeguata concezione, nella prospettiva di una piccola filosofia della trasmissione delle novità. Che cosa ci fa bene sapere e in che modo chi ce lo trasmette può confezionarlo nella maniera più digeribile o, meglio, nutriente. La cucina, prima di tutto: dice giustamente De Botton che nella società moderna delle comunicazioni non è tanto la rassegna esaustiva dei fatti a qualificare una fonte di informazioni quanto la capacità di identifi-

Non si scherza con gli stereotipi, perché spesso ne siamo tutti prigionieri. Sono più o meno queste le parole attraverso cui la collega e amica Luisella Costamagna, tempo addietro in un’intervista su «Azione», ha raccontato le difficoltà nell’affrontare il mondo italiano della cosiddetta «tv impegnata». Come tutte le donne belle, Luisella ha sempre dovuto battersi per dimostrare di avere anche una testa pensante. Eppure, nonostante i risultati incoraggianti, le riesce difficile liberarsi dalla sensazione di non essere compresa e apprezzata come meriterebbe. Ah, gli stereotipi. Per questo, e per senso del dovere, non ci siamo persi un solo istante della puntata di Arena con ospite Christa Rigozzi (SRF 1, venerdì, ore 22.25). Insieme all’ex Miss Svizzera erano presenti in studio Ulrich Giezendanner, consigliere nazionale UDC, Evi

Gwenstival avrà luogo dal 6 al 12 ottobre 2014. Per il programma vedi www.gwenstival.com

Pubblicazioni Torna Alain De Botton con un particolare

«Il mondo moderno è ossessionato dalla fama e questo significa che viviamo non tanto in un’epoca superficiale, quanto in un’epoca priva di gentilezza». Alain De Botton, saggista e filosofo, più che uno scrittore è diventato una specie di marchio. Uno che non cede all’imbarazzo e lascia che qualcuno, con piglio da imbonitore da fiera, dichiari candidamente sulla copertina del suo ultimo News. Le notizie: istruzioni per l’uso che questa è l’ultima produzione «dell’autore di Le consolazioni della filosofia» (e non è nemmeno su una fascetta, ma bello stampato là in alto). Ecco, Alain De Botton probabilmente non è particolarmente a disagio, ma è bravo e quindi è meglio per lui. Di fatto, il marchio De Botton è anche un marchio di qualità e di capacità testuale non usuale, tanto che i suoi libri ancora prima del contenuto brillano per la forma. Di fronte a questo tipo di argomentazione stilisticamente ineccepibile, il piacere della lettura ci permette di passar sopra a una serie di colpe innocue ma evidenti; come quando si concede al nostro di dire tutto e il suo esatto contrario. Per esempio, nel capitolo «Personaggi famosi» (il libro è diviso in generi giorna-

Visti in tivù

Antonella Rainoldi

Informazione 2.0 Stefano Vassere

Christa efficace nell’Arena

Un particolare della copertina del libro di Alain De Botton, edito da Guanda.

carne la rilevanza e di renderne conto di conseguenza. Notizie buone o cattive date nel giusto modo possono migliorare il mondo e la qualità della vita, insomma. «Secondo il filosofo Hegel, le società diventano moderne quando le notizie si sostituiscono alla religione come fonti primarie di orientamento e paradigmi di autorevolezza». E se si parte da qui, è evidente che bisogna dedicare tutto il tempo necessario a migliorare il modo di darle e quello di recepirle, oltre che l’uso che ne possiamo fare. Non contento, De Botton ha per tutto il libro, come per tutti i suoi libri, il noto e bisogna dire gradevole tono assertivo e un po’ messianico che gli riconosciamo. Quello che gli permette argomentazioni-fuoco d’artificio, dove già importa forse un po’ meno la coerenza contenutistica ma ci colpisce molto la tecnica

scrittoria. Si arriva sempre alla fine senza fatica, con i libri di Alain De Botton, magari all’asciutto dal punto di vista concettuale ma ogni volta sorpresi dalla padronanza linguistica. Dipende da che cosa si vuole. «Gli organi di informazione, come la letteratura e la storia, possono trasformarsi in uno strumento fondamentale, un ‘simulatore di vita’, un congegno in grado di inserirci in una serie di scenari che vanno molto al di là di ciò che quotidianamente dobbiamo affrontare, permettendoci di individuare in tutta sicurezza, e a nostro piacimento, il modo migliore di reagire». Bibliografia

Alain De Botton, News. Le notizie: istruzioni per l’uso, Parma, Guanda, 2014.

Allemann, consigliera nazionale PS e Alf Arnold, ex presidente dell’Iniziativa delle Alpi, chiamati a discutere sul raddoppio del San Gottardo. Favorevoli i primi, contrari gli altri. Com’è noto, l’invito della ticinese al programma ha suscitato un vespaietto di polemiche, quasi degenerate in una rissa politica. Siccome su Christa, come su tutte le donne belle, grava ancora l’ipoteca dello stereotipo più frusto, per molti la domanda era una sola: quale apporto può fornire una vaporosa ex miss a una trasmissione ricca di contenuto come Arena? Per onestà ci corre l’obbligo di confessare una nostra debolezza: non siamo mai riusciti a farci piacere Christa Rigozzi. Più giusto dire: la sua immagine, non la sua testa, non lei in carne e ossa. Troppo trucco, troppi tacchi, troppi sberluccicamenti, più ispirati al circo di Moira Orfei o di Valeria Marini che all’atelier di Coco Chanel. Questione di gusti e disgusti, ma nel ruolo di ambasciatrice del Ticino, seppure non ufficiale, ci voleva un’altra Christa, più composta. Camicia nera chiusa fino all’ultimo bottone, pantalone nero, tendenza understatement, atteggiamento improntato a una certa competenza, Christa ha parlato di sicurezza e coesione nazionale, esprimendo il suo pensiero senza timori in un ottimo schwitzerdütsch e finendo per portare acqua al mulino dei «raddoppisti». A differenza dei politici in studio, Christa ha sbagliato poche mosse, da un punto di vista comunicativo. Chiamala scema!


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Cultura e Spettacoli

Lo straordinario talento di Lena Narrativa Volete farvi raccontare in modo brillante ed esilarante la vita di tutti i giorni di tutti noi?

Allora affidatevi a Lena Dunham, colei che lo sa fare come nessun’altra Mariarosa Mancuso Quiz. Chi ha detto: «La famiglia al primo posto. Il lavoro al secondo. La vendetta al terzo»? Il mafioso Tony Soprano, che gioca sul doppio significato della parola famiglia, di lavoro – lo fa sapere alla sua psicoanalista dottoressa Melfi – «smaltisce rifiuti», alcuni dei quali prodotti dai regolamenti di conti? Sbagliato. La gerarchia si deve a Lena Dunham, la ragazza da tre milioni e mezzo di dollari. Tanti gliene hanno dati per il suo primo libro, uscito il 30 settembre negli USA e in Italia da Sperling & Kupfer, con il titolo Non sono quel tipo di ragazza. A protezione dell’investimento, e delle anticipazioni concesse al «New Yorker» e al «Corriere della Sera», per avere le bozze in anticipo abbiamo firmato una minacciosa lettera di embargo (in caso di rottura del patto, avremmo dovuto rifondere i danni procurati alla casa editrice). Lena Dunham ha 28 anni e un curriculum da fare invidia a chiunque lavori nello spettacolo. Il poco raccomandabile ambiente dove si cammina sui cadaveri, le idee originali vengono ammazzate sul nascere, le donne faticano ad affermarsi, se non in ruoli decorativi. Il primo luogo comune ha un suo fondamento, gli altri due sono stati bellamente smentiti. Dopo gli studi a Oberlin e un primo film intitolato Tiny Furniture, Lena Dunham ha scritto, diretto, recitato e prodotto (assieme a Judd Apatow, capobanda della moderna comicità ameri-

cana, ebraica come la vecchia, e regista di 40 anni vergine, Molto incinta, Questi sono i 40) la serie televisiva Girls. Quattro ragazze a Brooklyn, appartamenti in condivisione, fidanzati inaffidabili, i genitori che smettono di aiutarti perché vogliono godersi i risparmi, la speranza di diventare con il proprio talento «la voce della mia generazione». O almeno «una voce, di una generazione». Missione compiuta. Tanto da guadagnarsi la stima e l’amicizia di Nora Ephron, la sceneggiatrice di Harry, ti presento Sally..., il film che a distanza di 25 anni ancora resta saldo nella memoria, per la sapienza con cui racconta la guerra dei sessi. Tutte le donne dicono di aver finto un orgasmo, tutti gli uomini sostengono di saper sgamare la recita: ed ecco che Meg Ryan fa la sua dimostrazione pratica alla tavola calda (mentre la vicina sceglie dalla lista «quel che ha ordinato la signora»). Un uomo non può essere amico di una donna, di norma se la vuole portare a letto. Allora un uomo può essere amico solo di una donna brutta? No, perché vuole portarsi a letto anche lei. Per quanto orribile sia il tavolino regalato dai parenti, ve lo litigherete a morte in caso di separazione. Lena Dunham aggiorna il galateo. Nella prima stagione di Girls, quando Adam Driver era ancora il giovanotto che la assaliva sul divano ma non la invitava mai a cena (ora stanno girando la quarta stagione, su HBO il prossimo anno, da vedere su Netflix che intanto è sbarcato in Svizzera) una delle scene più divertenti mostrava Hannah alle prese

L’originale Lena Dunham in occasione della 66ma edizione degli Emmy Awards a Los Angeles in agosto. (Keystone)

con un messaggio sull’iPhone. «Oh my God!» è il commento della ragazza, «Oh my God!» è il commento dell’amica del cuore e del di lei fidanzato. «Oh my God!» pensa lo spettatore quando vede la foto sexy, che non possiamo descrivere su un giornale per famiglie. Un deputato americano ci ha ri-

messo l’incarico, per una foto privata incautamente mandata via twitter. Ma non è di questo che vuol parlare Lena Dunham (aveva 13 anni all’epoca dello scandalo Lewinsky, son cose da cui una esce vaccinata). Vuol parlare del fatto che al primo messaggio osceno ne segue un altro, diversamente osceno: «scusa,

non era per te». La ragazza che aveva pensato «se mi manda sconcezze, allora conto qualcosa per lui», si ritrova confusa e infelice. Non sono quel tipo di ragazza conferma che Lena Dunham pesca a piene mani nella sua autobiografia, per gli episodi di Girls. Racconta le guerre con il cibo, il voto fatto da ragazzina di arrivare vergine fino al diploma («non ce n’era bisogno», commenta con il senno di poi, per mancanza di occasioni), cosa si prova a stare nuda su un set se hai la pancetta e le cosce a prosciutto, le paure di quasi tutto. Prende a modello Helen Gurley Brown, la leggendaria direttrice di «Cosmopolitan» che nel 1962 scrisse Sex and The Single Girls, dove spiegava che «se non sei un oggetto sessuale, vuol dire che hai un problema». Le femministe la odiavano, come odiano Lena Dunham. Al punto da mettere una taglia sulle sue foto non ritoccate, quando la ragazza si conquistò la copertina di Vogue. Però non provateci a casa. Anche se vi sembra di avere molte cose in comune con lei, parlando di vita vissuta, di diete e di amori andati a male, Lena Dunham ha dalla sua il talento da scrittrice. «Everything is copy» – tutto torna utile, come diceva la sua maestra Nora Ephron, che mise a frutto il suo divorzio da Carl Bernstein, il giornalista del Watergate, in Affari di cuore. Ma non tutti siamo bravi a raccontarlo. La maggior parte di noi, con le proprie faccende private, fa sbadigliare anche gli amici più cari. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli Helena Bittencourt e Goos Meeuwsen, protagonisti di Bianco su bianco.

Fabio Pusterla, Argéman Meridiani e paralleli Una poesia molto

comunicativa, a dispetto del titolo Giovanni Orelli

Il grande e il piccolo, una sfida vinta Teatro Ha recentemente debuttato Bianco su bianco, il nuovo

spettacolo di un Daniele Finzi Pasca dai toni intimi Giorgio Thoeni

Concorsi

Il recente debutto di Bianco su Bianco di Daniele Finzi Pasca al Teatro Sociale di Bellinzona a nostro avviso aggiunge alcuni elementi di novità alla cifra stilistica del regista e autore ticinese che debutta a casa propria dopo molti anni. Dapprima sottolinea il suo ritorno a una dimensione produttiva più «piccola» e con due soli attori in scena. L’avventura di grandi spettacoli come Nebbia, Donka, La verità, per citarne solo alcuni, non si può certo dire conclusa, ma con quest’ultima creazione Finzi Pasca marca decisamente il suo territorio d’affezione con una scelta di campo drammaturgica che, altro fattore, punta sul testo e abbandona quella teatralità in grande stile a cui ormai ci aveva abituati. Con questo spettacolo, che ha dunque il sapore di un «ritorno al passato» (ma con i mezzi di oggi), la sfida si fa intensa e affascinante attorno ai temi a lui cari come la memoria e il sogno avvolti da un turbine di immagini intime: istantanee talvolta sofferte, immerse in un mare di poetica leggerezza. Il racconto di Bianco su Bianco rincorre lo stile letterario dell’autore, dai giovanissimi Viaggio al confine e Come acqua allo specchio (ed. Casagrande) per arrivare al recentissimo Nuda (ed. Abendstern): opere letterarie che volano ai confini del reale pur rimanendo coi piedi per terra, affrontando storie talvolta dure, crudeli, tristi, ma con

una prosa delicata, semplice e accurata, toccante e immediata. Anche in questo caso la sua è costantemente una narrazione teatrale. Rispetto ai suoi precedenti spettacoli è forse in questo che sta la differenza che fa riflettere, situando Bianco su Bianco in una sorta di limbo estetico fra il teatro e la scrittura, senza deludere né l’uno né l’altra. Le due dimensioni creative si tengono a braccetto in un viaggio dove la storia dei protagonisti ripercorre la Lugano degli anni Ottanta attraverso luoghi e personaggi ormai scomparsi che hanno segnato la fantasia adolescenziale del regista, diventando i colori di un passato dove la vita nel quartiere rappresentava la dimensione del mondo. Ma a raccontarcela in scena, come se leggesse una lunga pagina di diario, è una donna. C’è anche un lui, è Goos Meeuwsen (Ruggero) il suo doppio sentimentale, il suo compagno d’infanzia, l’amore di una vita, è la gioia dello scherzo e della clownerie, è l’illusione teatrale. Lo spettacolo ci immerge in una narrazione lineare, senza enfasi, quasi ipnotica affidata a lei, Helena Bittencourt (Elena). I due attori non sono italofoni: Helena è brasiliana, Goos olandese (ma di origini svizzere). Una scelta coraggiosa, la sfida linguistica crea infatti un fascinoso effetto straniante fra le frasi elaborate del testo in una fitta sequenza di racconti pronunciati con accento esotico, talvolta goffo: come una faticosa scalata per raggiungere la vetta della parola italiana perfetta.

Teatro di parola, dunque, in una scenografia fatta di decine e decine di lampadine che fioriscono dal palcoscenico e sulle teste degli attori (quasi duemila metri di cavi): lampadine che amplificano anche la voce recitante e che accendendosi e spegnendosi diventano specchio surreale di emozioni, raffiche luminose per accompagnare giochi, acrobazie, fra musiche create «in loop» sul momento per accompagnare canti, immagini, ricordi e tanta umanità. Gli attori in scena sono bravissimi, soprattutto quando si muovono in una dimensione a loro familiare, fra clownerie e acrobazia: l’atmosfera dello spettacolo lo permette e ci mette poco a creare empatia col pubblico che segue affascinato il racconto che ci regala un Finzi Pasca ancor più maturo e pronto per una nuova scommessa. Per ora quella ticinese l’ha vinta e Bianco su Bianco tornerà a Lugano in dicembre. Lo spettacolo è prodotto dalla Compagnia Finzi Pasca, in coproduzione con Teatro Sociale Bellinzona–Bellinzona Teatro e da due importanti centri culturali francesi, la «Maison de la Culture de Nevers et de la Nièvre» e «l’Odyssée– Scène conventionnée de Périgueux». Con l’autore e regista Daniele Finzi Pasca occorre ricordare tutta l’équipe di creazione, in particolare Julie Hamelin (direttrice di creazione e produttrice), Maria Bonzanigo (musica e coreografie), Hugo Gargiulo (scenografia), Antonio Vergamini (produttore esecutivo) e Giovanna Buzzi (costumi).

Aulos Rassegna di concerti da camera Teatro Studio Foce, Lugano Domenica 12 ottobre, ore 17.30

Sono cioè, per dirla in un centesimo di riassunto, richiami, lontani lontanissimi tra «neve alpina, sabbia orientale...»: il mondo in cui viviamo. Una buona parte di questo mondo è qui in Ticino. Chi lo guarda, e mi scuso per l’annotazione, ovvia, è Fabio Pusterla. Lo guarda fin nelle scrupolose note in coda alle poesie. Con qualcuna di queste note egli si procurerà, come è più che opinabile, anche qualche nemico in più nel paese per i suoi giudizi. Come questa, che si legge nella pagina 224: «“Il mattino della domenica” è lo sguaiato e trucido settimanale della Lega dei Ticinesi, formazione politica forse persino più rozza della Lega Nord».

È domanda? Anche a me? Ma non c’è punto di domanda. È poesia? Sì. Ma dica la sua anche il lettore... La mia è quasi solo una provocazione, che mi suggerisce, e non è il solo, u didìn, che – come mi diceva con saggezza mia madre quasi un secolo fa – è meglio di tanti pollici, indici, medi, anulari; u didìn è il mignolo che meglio sa entrare nelle orecchie per meglio ascoltare. Curiosamente il francese chiama il nostro mignolo anche auricolaire; il più atto delle nostre dita o diti a renderci un po’ meno sordi. Insegua il lettore il notevolissimo autoritratto che Pusterla fa nella Rappresentazione del signor nessuno: sembra una raccolta di appunti, un promemoria, per un romanzo o racconto. No, è semplicemente poesia, molto «comunicativa».

Tra jazz e nuove musiche Rassegna di Rete Due Chiesa Collegiata, Bellinzona Giovedì 16 ottobre, ore 21.00

Swiss Chamber Concerts Rassegna di concerti Conservatorio, Lugano Sabato 18 ottobre, ore 18.00

Fondazione Hermann Hesse Esposizione bibliografica Museo H. Hesse, Montagnola Fino al 01.02.2015

Recital Pianistico di Letizia Michelon

Officium: Jan Garbarek & The Hilliard Ensemble

Orizzonte Bach: album di famiglia

L’ultima estate di Klingsor illustrato da Sighanda

L. van Beethoven, Sonate op. 49 n. 1 e 2 - op. 13 Sonate pathétique); F. Chopin, 24 Preludi op. 28.

In collaborazione con «Cantar di pietre».

Musiche di Bach, Carter, Solbiati

Una mostra dedicata al libro dello scrittore, in cui si riconoscono alcuni villaggi ticinesi: Carona, PambioNoranco e Montagnola. Gli acquerelli di Sighanda verranno esposti con fotografie, testi e acquerelli di Hesse. In italiano e tedesco.

www.lugano.ch

091/821 71 62 Orario per le telefonate : dalle 10.00 alle 12.00

La Marcos y Marcos di Milano, che è tra le più attente, nella vicina Italia, alle cose letterarie che si fanno nella Svizzera italiana, pubblica (il libro è stato stampato il 28 luglio 2014) Argéman di Fabio Pusterla. Nato a Mendrisio nel 1957, vive tra Lugano e Albogasio. Egli è il più noto scrittore della Svizzera italiana dopo la generazione di Giorgio Orelli (facciamo 1920-23). Scrive soprattutto poesie, e Argéman è una raccolta di poesie. Ma non vorrei che il lettore occasionale, se ne ho una mezza dozzina, si spaventasse, come un poco è capitato a me, ma per pochissimo tempo, per questo titolo: Argéman. Mai sentita questa parola, più ermetica di così! E invece è tutto il contrario. È difficile trovare, oggi come oggi, un libro di poesia leggibile e comprensibile anche da un adolescente, non dico ragazzino, che teme i testi letterari scritti spesso per i sacerdoti di testi iper-raffinati (nelle intenzioni), fatti per gli iniziati. Pusterla cerca (e ci riesce) di star via dalla iper-raffinatezza e (qui è il non facile) dalla banalità. Il termine «Argéman» è spiegato nella quarta di copertina e nelle scrupolose note dell’autore. Indica: a) lingue di neve perenni annidate in certi anfratti di montagna; b) l’Iris Argéman è un fiore purpureo del deserto; c) Nahal Argéman è un villaggio in Palestina... e se si vuole saperne di più c’è anche la nota di p. 221, e la p. 94.

La nota rimanda alla pagina 202 dove si vede, come in tutto il libro, che la poesia di Pusterla (è la prima, vistosa, caratteristica del libro) «è selvatica, luminosa, molto comprensibile». Che non è frase pubblicitaria (rubo dalla terza di copertina), ma che andrà comunque studiata. Alla pagina 202, «Ehi capo, mi chiede un ragazzotto (...) cosa penso cioè se penso qualcosa del problema / dei troppi asilanti stranieri delinquenti, se credo / anch’io che sia ora di fare un bel repulisti, / un bel muro per tutti questi negri e questi mongoli, / qualcosa di concreto insomma, se leggo “Il mattino / della domenica” regolarmente ogni domenica appunto (...) o me ne frego. E quando provo a dire / che io sono uno che se legge preferisce / al nerofumo mattutino La sera del dì di festa (...)» Con un libro così si può continuare a lungo. Continuare a inseguire «affioramenti di voce che non so / quasi mai dove portano». Affioramenti di voce poteva anche essere un titolo più immediatamente «comunicativo» del libro. Ma veda il lettore. Il quale lettore troverà pagine diaristiche che, e questo è il mezzo «miracolo», che portano alla fondamentale CRESCITA di noi lettori viventi . Dice anche Pusterla: «una cosa che posso dire è questa: noi ridevamo di più e si cantava anche molto, / in giro o nelle case, ma tu e gli altri / come te avete sempre da fare».

Jan Garbarek sassofoni David James contratenore Rogers Covey-Crump tenore Steven Harrold tenore Gordon Jones baritono.

S.Wegener soprano; F.Renggli flauto; H.Holliger oboe/corno inglese; F.Benda, clarinetto; D.Chenna fagotto; Olivier Darbellay corno; E.Hoppe violino; F.Sarott violino; J.Dähler viola; D.Haefliger violoncello; M. Müller clavicembalo.

www.rsi.ch/jazz

www.swisschamberconcerts.ch

Regolamento Migros Ticino offre ai lettori biglietti gratuiti per le manifestazioni sopra menzionate.

Massimo due biglietti per economia domestica. La partecipazione è riservata a chi non ha beneficiato di vincite in occasione di analoghe promozioni nel corso degli scorsi mesi.

Biglietti in palio per gli eventi sostenuti dal Percento culturale di Migros Ticino

www.hessemontagnola.ch

Per aggiudicarsi i biglietti basta telefonare Mercoledì 8 ottobre al numero sulla sinistra nell’orario indicato. Buona fortuna!


Convenienza, super convenienza, M-Budget. In cl. 1G B* * Sony Xperia E Quadribanda, Android 4.1, fotocamera da 3,2 megapixel, display da 3,5" / 7945.755 ** Offerta valida soltanto per navigare in Svizzera e fino a max. 1 anno.

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Offerte valide dal 7.10 al 20.10.2014, fino a esaurimento dello stock.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 6 ottobre 2014 ¶ N. 41

Idee e acquisti per la settimana

shopping Il giusto rifornimento per la stagione invernale Attualità Da Migros mele, patate e cipolle in grandi confezioni per le vostre scorte casalinghe La stagione fredda si avvicina e da Migros trovate alcuni prodotti in confezioni di grande formato che non possono mancare nella vostra dispensa. Perché non approfittare del bel fresco della cantina per fare una scorta e non pensarci più? Nell’assortimento trovate mele dolci (Gala, Golden e Starking) oppure acidule (Booskop), mentre le patate si dividono tra tipologia farinosa (Bintje e Laura, ideali per fritture, gratin, gnocchi e rösti) e resistente alla cottura (Charlotte, perfette al vapore, in insalata ed arrosto). Un ambiente fresco è indispensabile perché rallenta i processi vitali permettendo di posticipare l’invecchiamento di frutta e verdura. La temperatura ideale per la conservazione di tali prodotti è attorno ai 10-15 gradi. La giusta umidità

Altro fattore importante è l’umidità. Un ambiente relativamente umido e buio è importante per la conservazio-

ne dei cibi, perché impedisce a frutta e ortaggi di appassire e raggrinzire. Idealmente i prodotti andrebbero riposti in cassette ricoperte di carta di giornale (a differenza della stoffa la carta è più indicata in quanto permette di tenere meglio a bada la formazione di umidità) oppure nel caso di cipolla ed aglio possono essere appesi al soffitto. È consigliabile coprire le cassette con fogli di giornale per evitare che possa filtrare della luce e controllare regolarmente che nel tempo non si formi dell’umidità. Le mele non vanno messe vicino ad altra frutta in quanto sviluppano grandi quantità di etilene e ne influenzano la maturazione, accelerandola. Per contro è consigliato riporre le mele vicino alle patate, in quanto l’etilene da esse prodotto rallenta il processo di germogliazione dei tuberi. Rispettando le condizioni ottimali si potranno gustare le delizie dei nostri campi molto a lungo. / Luisa Jane Rusconi

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Idee e acquisti per la settimana

Zuppe fresche: benessere tutto da gustare Attualità L’ampia gamma di zuppe DimmidiSì è in grado di soddisfare tutti i palati.

Approfitta ora del 40% di sconto Appartenenti alla tradizione culinaria povera dei nostri avi, le zuppe e le minestre negli ultimi anni sono tornate in auge in virtù della loro valenza nutrizionale, del potere saziante e, naturalmente, della loro capacità riscaldante durante i mesi più freddi dell’anno. Tant’è che oggi sono considerate dei veri e propri primi sui menu di molti ristoranti, anche blasonati. Agli amanti delle zuppe, i supermercati di Migros Ticino consigliano di assaggiare le Zuppe Fresche del marchio italiano Dimmidisì, disponibili in sette varianti differenti. Buone come fatte in casa, sono preparate con verdure fresche di prima qualità e non contengono alcun conservante, colorante o glutammato di sorta. Le ricette proposte sono ispirate alla grande tradizione culinaria italiana e sono pronte da gustare dopo essere state brevemente scaldate. Tra le novità di quest’anno firmate DimmidiSì, citiamo i Brodi freschi alle verdure e carne/verdure. Pronti per essere utilizzati nelle vostre ricette preferite, sono confezionati in una pratica bottiglietta richiudibile da 750 ml. Naturalmente anch’essi sono esenti da additivi. Infine, la gamma DimmidiSì include ancora i due contorni freschi Peperonata e Puré di patate.

Delizie per chiunque Novità Nei Ristoranti Migros anche piatti per

chi soffre di allergie alimentari Le persone allergiche non dovranno più rinunciare a certi alimenti quando sono fuori casa. Nei Ristoranti Migros e presso De Gustibus Lugano, infatti, sono state introdotte diverse pietanze senza glutine e lattosio contrassegnate con il marchio di qualità aha! del Centro Allergie Svizzera. In Svizzera si stima che il 20% della popolazione soffra di qualche forma di allergia, soprattutto di intolleranza al lattosio e al glutine. Ora, finalmente, queste persone potranno gustarsi in tutta tranquillità deliziosi piatti preparati accuratamente dagli specialisti della gastronomia Migros. «Migros contribuisce così a migliorare la qualità di vita delle persone con allergie alimentari», si rallegra Georg Schäppi, direttore di aha!. Ma non finisce qui: nell’ambito del programma Generazione M, Migros si impegna ad ampliare di un terzo la sua gamma aha!. La scelta dei Ristoranti comprende menu completi (p.es. petto di pollo con risotto al basilico e peperoni, spaghetti alla bolognese e alle verdure, risotto ai funghi, tilapia al curry con verdure e riso basmati); sandwich

(p.es. pomodoro e mozzarella, prosciutto, formaggio); panini sciolti (p.es. ai semi, Sils); cake (al limone, al cioccolato); birchermüesli; salse per insalate e latte senza lattosio per non rinunciare mai ad un buon caffellatte.

L’assortimento DimmidiSì*: Novità: Brodo di verdure 750 ml Fr. 1.35 invece di 2.30 Novità: Brodo di carne e verdure 750 ml Fr. 1.35 invece di 2.30 Novità: Zuppa di farro con verdure 620 g Fr. 3.10 invece di 5.30 Zuppa di zucca e carote 620 g Fr. 3.10 invece di 5.30 Passato di verdure 620 g Fr. 3.10 invece di 5.30 Minestrone di verdure 620 g Fr. 3.10 invece di 5.30 Zuppa ortolana 620 g Fr. 3.10 invece di 5.30 Pasta e fagioli 620 g Fr. 3.10 invece di 5.30 Zuppa toscana 620 g Fr. 3.10 invece di 5.30 Peperonata fresca 400 g Fr. 3.10 invece di 5.30 Puré di patate fresco 450 g Fr. 1.90 invece di 3.20 *Azione valida dal 7 al 13.10.2014. L’assortimento completo è in vendita nelle maggiori filiali Migros.



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Chocolate muffin American Favorites 100 g

Cake Loaf al limone American Favorites 90 g

Cheesecake American Favorites 580 g

1.20 invece di 1.50 2.15 invece di 2.70

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Blueberry muffin American Favorites 115 g


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Foto Claudia Linsi

Idee e acquisti per la settimana

Con Raccard andate a nozze Come trasformare una raclettata in un avvenimento culinario? Semplice, basta proporre le nostre fantastiche idee, con quel pizzico di gusto in più Con le diverse varietà di formaggio Raccard la sorpresa per gli ospiti è assicurata, senza sforzo alcuno. Il loro aroma imbattibile e la loro perfetta scioglievolezza sono il risultato di quattro mesi di maturazione. Tradition, il classico dell’assortimento, propone la sua rinomata cremosità al naturale, in versione blocco e in quella a fette. Il Raccard Bio di qualità surchoix convince invece con il suo aroma deciso e leggermente salato. Chi ama cambiare non può privarsi, poi, delle gustosissime varietà al pepe e all’aglio. E se avete più invitati, allora, le confezioni multiple con più sapori come la Raccard Family sono proprio quello che fa al caso vostro. / AW

Raccard al pepe: tagliate il mango a fette spesse ca. 3 mm. Grigliatele brevemente su una bistecchiera a fuoco forte. Fate fondere il formaggio e adagiatevi sopra le fette di mango.

Bio Raccard Surchoix: tagliate un porro finemente. Tagliate dei pomodori secchi a dadini. Distribuite sul formaggio quasi fuso e terminate la cottura.

Raccard Pepe pezzo, ca. 500 g, al kg Fr. 23.50

Bio Raccard Surchoix a fette 300 g Fr. 7.40

Raccard all’aglio: sbollentate delle striscioline di verza. Mescolatele con dei cranberries secchi. Distribuite sul formaggio quasi fuso e lasciate che il formaggio fonda completamente. Raccard aglio/pepe 350 g Fr. 8.70

Raccard Tradition: accomodate fette di mela e formaggio dimezzate nei padellini. Fate fondere e, prima di servire, cospargete con un pizzico di spezie per pan di pere. Raccard Tradition fette ca. 400 g al kg Fr. 23.50

L’industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui anche il formaggio Raccard.


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Idee e acquisti per la settimana

Acqua: la semplicità al servizio della varietà

Aproz è l’acqua perfetta per chi ama la varietà. Oltre alla classica acqua minerale, propone infatti tante varianti tutto gusto

Tutti lo sanno, ma è sempre bene ripeterlo: per funzionare correttamente, il nostro organismo ha bisogno di liquidi. E più si beve, meglio è. L’acqua di fonte naturale è la prima scelta per idratare il corpo e inoltre è la base ideale per bibite di ogni tipo e di ogni gusto. Aproz è rinomata per la sua acqua minerale di qualità pregiata, ricca di minerali come calcio e magnesio, che sgorga dalle alpi vallesane. Oltre alla versione classica, conosciuta come Aproz Classic, particolarmente frizzante, e l’Aproz Cristal senza aggiunta alcuna di anidride carbonica, Aproz propone una vasta scelta di bibite aromatizzate, povere di calorie. Tra le tante varianti troviamo le Aproz O2, arricchite con una quantità d’ossigeno dieci volte superiore rispetto al tenore naturale dell’Aproz Classic. Oltre alle apprezzate versioni mela, limone e arancia, la linea offre ora il nuovo gusto lamponelimetta, valorizzata dall’aggiunta di magnesio e caffeina naturale.

Lavoro mentale

Aproz Medium 50 cl Fr. –.60

Anche il cervello appartiene al corpo e approfitta di un’idratazione sufficiente. Aproz Thé tè verde-menta 50 cl Fr. 1.30

Sport Nel corso delle attività sportive una bottiglia d’acqua deve sempre essere a portata di mano. Aproz Classic 1,5 l Fr. –.95

Il gradito imbarazzo della scelta tra bevanda e gusto Aproz Kids Fragola 33 cl Fr. 1.– Nelle maggiori filiali.

Foto Daniel Ammann; Styling Carla Camiolo

Aproz Plus, l’acqua minerale naturale insaporita con una minima parte di succo di frutta, è pronta a stupire i suoi fan con un nuovo strabiliante gusto. Oltre alla gradita varietà ai fiori di sambuco e mela si aggiunge ora l’Aproz Plus al gusto di lamponi e more. Per chi poi ha un debole per le rinfrescanti bevande a base di tè, preparate con dissetante acqua minerale ed estratti di tè e piante, Aproz Thé è la scelta giusta. Dal tè bianco e ibisco, al tè verde e menta, fino al tè bianco e pera, ad ognuno il suo. E anche per i bimbi a partire dai due anni Aproz ha la bevanda che fa per loro: Aproz Kids, pura acqua minerale e al gusto di fragola, entrambi prive di anidride carbonica. Chi invece non vuole rinunciare a una buona porzione di succo di frutta, sceglie la linea Schorle con i suoi irresistibili gusti frutto della passione, pompelmo rosa e arancia-mango.

Lavoro fisico Durante il lavoro fisico si perdono molti liquidi. È importante dunque farne tempestivamente il pieno. Aproz Plus Fiori di sambuco 1 l Fr. 1.30 Nelle maggiori filiali

L’industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui anche le bevande Aproz.

Aproz O2 Limone 50 cl Fr. 1.40

Schorle Aproz Frutto della passione 50 cl Fr. 1.40 Nelle maggiori filiali.


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Foto Daniel Kellenberger; Styling Linda Hemmi

Idee e acquisti per la settimana

Piacere, sono Belinda... La vita di una mucca da latte bio è confortevole. Con il latte che produce giornalmente vengono preparati tanti gustosi prodotti. Ce lo racconta la mucca Belinda «Il mio nome è Belinda. Sono una mucca pezzata svizzera e vivo insieme a diverse “colleghe” nella fattoria del contadino bio Alois Huber nel comune di Wildegg, nel Canton Argovia. La nostra razza è particolarmente apprezzata dai produttori di latte bio, poiché siamo di stazza robusta e famose per l’alta produzione di latte. La vita nella nostra fattoria bio situata a 400 metri sul livello del mare è tranquilla. Per la maggior parte del tempo bruchiamo la buona erba e le erbe aromatiche del pascolo, ma solo quando non è troppo caldo. Altrimenti restiamo volentieri nella stalla, da dove comunque possiamo uscire all’aperto tutta la notte. Alois è un padrone con una grande esperienza. Ci chiama ognuna per nome e ci aiuta quando partoriamo, in caso ci siano delle complicazioni. La perdita di una di noi lo rattrista sempre molto, l’abbiamo anche visto piangere. Sono molto fiera del fatto che con il mio latte si producano tanti buoni prodotti, come per esempio burro allo yogurt bio. Con i miei quasi 7000 litri di latte all’anno do il mio bel contributo. Il nuovo burro allo yogurt bio ha un contenuto di grassi del 65% (burro convenzionale: 85%) e, grazie al leggero tocco acido dato dallo yogurt Bifidus, ha un sapore diverso, particolarmente fresco». / Testimonianza raccolta da Heidi Bacchilega

Alois Huber non è solo il padrone di Belinda & Co., ma anche presidente dell’Unione contadini argoviesi e membro del Gran Consiglio.

Bio è simbolo di misure severissime nella coltivazione di materie prime. La massima priorità spetta al rapporto delicato con la natura, alla naturalezza delle materie prime e dei prodotti nonché al benessere degli animali.

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Generazione M è il programma della Migros a favore della sostenibilità al quale anche il Bio apporta un prezioso contributo.

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Bio Yogurt, prugna 180 g Fr. –.75

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Cordon bleu di maiale, TerraSuisse per 100 g

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Uva Red Globe Italia, sciolta, al kg

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Filetto di tonno (pinne gialle) Oceano Pacifico, per 100 g, fino all’11.10

Roastbeef cotto Svizzera / Germania, affettato in vaschetta, per 100 g

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Vacherin fribourgeois dolce a libero servizio, per 100 g

Biberli d’Appenzello in conf. da 2 2 x 3 pezzi, 450 g, 25% di riduzione

Fettine di tacchino M-Classic Ungheria, carne prodotta in base all’Ordinanza svizzera sulla protezione degli animali, per 100 g

Aletta di manzo Svizzera, imballata, in conf. da ca. 1 kg, per 100 g

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 6 ottobre 2014 ¶ N. 41

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 6 ottobre 2014 ¶ N. 41

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Idee e acquisti per la settimana

Rispetto per le persone e per la natura Un sempre maggior numero di prodotti ottenibili da Migros mostrano i marchi Fairtrade Max Havelaar e Bio. Tra questi, ad esempio, il riso Basmati e Jasmin. Sono informazioni importanti per i consumatori

Controlli indipendenti Gli standard del commercio equo sono sviluppati in un processo di discussione che coinvolge oltre che i rappresentanti dei produttori anche il punto di vista dei commercianti, di coloro che elaborano il prodotto, l’opinione di esperti e il punto di vista delle organizzazioni di aiuto allo sviluppo. Il rispetto degli standard viene accertato in modo indipendente dall’agenzia di certificazione accreditata FLO-CERT, che da parte sua si sottomette a controlli indipendenti.

Migros incrementa costantemente la propria offerta di prodotti alimentari che sono allo stesso tempo oggetto di commercio equo e certificati come Bio. Chi li acquista mostra di possedere una coscienza di consumatore responsabile, e ciò da diversi punti di vista. Jennifer Zimmermann, Senior Manager Consumption del WWF Svizzera lo spiega in questo modo: «Nel caso del riso, del caffè, del cacao e degli altri prodotti del sud, una doppia certificazione Fairtrade Max Havelaar e Bio ha molto senso. In questo modo vengono garantite sia una produzione vicina alla natura che evita l’uso di concimi chimico-sintetici e di prodotti fitosanitari, sia il rispetto delle normative sociali, tra cui un prezzo minimo ai coltivatori, oltre a un premio Fairtrade per i produttori».

Sostegno finanziario Il premio Fairtrade è attribuito alla realizzazione di progetti della comunità. È considerato la pietra angolare degli investimenti nella produttività e nella qualità e serve anche per il finanziamento di elementi di sviluppo che contribuiscono a una reale creazione del valore nella catena produttiva. Può essere utilizzato per sistemi moderni di irrigazione e di immagazzinamento, così come per attrezzi da lavoro e strumenti, come i mulini per il riso che servono alla pulizia dei chicchi dopo il raccolto. Crediti a tasso vantaggioso per i singoli membri delle cooperative fanno parte anch’essi del sistema Fairtrade.

Strutture sociali Lo sviluppo delle regioni agricole è uno degli aspetti più importanti del sistema Fairtrade. Fanno parte di questo aspetto il mantenimento dell’attrattività delle professioni legate alla terra e anche le misure sostegno alla formazione, come la costruzione di scuole e la garanzia dell’offerta di cure mediche.

Il marchio Fairtrade, per articoli che vengono da una produzione sostenibile e dal commercio equo, rende possibili nelle nazioni in via di sviluppo migliori condizioni di vita alle piccole economie domestiche contadine e ai lavoratori. Altre informazioni: www.maxhavelaar.ch

I prodotti alimentari di Fairtrade Max Havelaar che più di recente sono stati convertiti alla normativa Migros-Bio sono le qualità di riso Jasmin e Basmati, prodotte in Tailandia. Il riso Jasmin viene dalla cooperativa tailandese Nam Om, che si trova nella provincia nordorientale di Yasothon. Nam Om Conta circa 320 piccoli contadini che coltivano in condizioni climatiche difficili una superficie di 1329 ettari, raccogliendo fino a 2400 tonnellate di riso all’anno. Dall’epoca in cui la cooperativa aveva ricevuto il certificato Fairtrade, esattamente dieci anni fa, le condizioni di lavoro sono decisamente migliorate. Visto che nel frattempo Nam Om ha potuto approfittare dei vantaggi del commercio equo, la cooperativa può sostenere i suoi membri anche per ciò che riguarda la qualità dei prodotti, grazie alle diverse misure di promozione della coltivazione biologica. Come spiega Wasn, 51 anni, contadino attivo nelle risaie, «il commercio equo ci ha permesso di avere una prospettiva di crescita, evitando così l’emigrazione dei giovani verso le città». / JV

Una produzione vicina alla natura Secondo gli standard generali di Fairtrade, l’uso di piante geneticamente modificate così come quello di diversi pesticidi è vietato. Tecniche di coltivazione, protezione delle acque e irrigazione efficiente sono continuamente sviluppate per garantire la fertilità del suolo e la protezione dell’ambiente. I prodotti del commercio equo non devono essere necessariamente biologici. Nonostante questo, l’adozione degli standard Bio è promossa, ad esempio, offrendo un prezzo Fairtrade minimo più alto per i prodotti Bio.

Commercio Equo Gli standard Fairtrade fissano per gran parte delle materie prime un prezzo minimo, che compensa prezzi mondiali di mercato troppo bassi. Nel caso che i prezzi di mercato siano maggiori del prezzo minimo, il prezzo in vigore è il primo dei due. Ciò permette ai contadini un miglioramento favorevole della loro bilancio famigliare e genera una stabilità economica.

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Generazione M è il programma della Migros a favore della sostenibilità, al quale anche i prodotti Bio e quelli certificati dal Fairtrade Max Havelaar apportano un prezioso contributo.

Organizzazioni democratiche Grazie alla possibilità di esprimersi in cooperative organizzate democraticamente, l’autodeterminazione e la responsabilizzazione dei piccoli produttori sono solidamente ancorate al concetto di Fairtrade. La conduzione collegiale rafforza la posizione nelle contrattazioni e la fiducia in sé stessi dei membri. La loro messa in rete permette un reciproco scambio di informazioni.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 6 ottobre 2014 ¶ N. 41

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Idee e acquisti per la settimana

Croccante, tonda e tanto amata Per la gioia dei suoi molti fan, la corona croccante viene prodotta fresca più volte al giorno Sei panini, una corona. La corona croccante della Jowa è di gran lunga il pane preferito dalla clientela Migros. Quotidianamente vengono vendute qualcosa come 30 000 corone di pane. I panettieri delle 126 panetterie della casa hanno un gran daffare per preparare ogni giorno freschissime corone croccanti fino alla chiusura dei negozi. Come per esempio Mauro Pizzagalli del supermercato Migros di S. Antonino. L’impasto per la corona croccante è prodotto nella panetteria della casa con farina TerraSuisse, lievito, acqua e sale. La porzionatura è effettuata con l’ausilio di una macchina, mentre le palline di pasta vengono assemblate a forma di corona ancora manualmente dal panettiere. «Affinché le corone presentino la loro caratteristica forma, prima di infornarle le giriamo una volta, in modo che le “cuciture” delle sfere di pasta restino in alto e durante la cottura si sviluppi così la caratteristica superficie a rosetta», spiega Mauro Pizzagalli, svelando così il segreto dell’aspetto rustico di questo delizioso pane. Sullo scaffale del pane, vicino alla corona croccante c’è pure la corona del sole. La differenza? «La corona del sole è di qualità biologica. L’impasto è preparato con farina di segale e frumento, a cui si aggiungono diversi tipi di semi, come pure una speciale farina di germogli e pasta acidula», rivela il panettiere. È proprio bello poter disporre di una tale croccante scelta fino alla chiusura del negozio. / CS

Mauro Pizzagalli presenta le sue corone croccanti. I singoli panini si staccano facilmente.

L’industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui il pane della Jowa.

Foto Marvin Zilm

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La Captorbox non contiene nessun Captor. In vendita in tutte le filiali Migros, fino a esaurimento dello stock. Offerta valida fino al 13.10.2014.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 6 ottobre 2014 ¶ N. 41

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Idee e acquisti per la settimana

Una questione d’equilibrio Lavarsi in tutta delicatezza, un desiderio diventato realtà grazie al nuovo docciagel privo di profumo della linea pH Balance Da oltre 30 anni la linea per il corpo pH Balance si prende cura delle pelli secche e sensibili. Realizzata con sostanze particolarmente delicate e dal profumo discreto, è priva di allergeni. E ora, pH Balance, la gamma per pelli sensibili che si riconosce al primo colpo d’occhio dalla fascia blu sullo sfondo bianco dell’imballaggio, ha in assortimento una novità: il docciagel privo di profumo. La linea propone inoltre prodotti specifici per pelli molto secche, contrassegnati da una fascia rossa. Le formule trattanti hanno un valore pH 5,5, particolarmente ben tollerato dalla pelle, poiché identico a quello del suo manto acido che la protegge da allergie, infezioni e disidratazione. Oltre ai delicati detergenti per il corpo, questa linea offre anche una vasta scelta di prodotti per la cura del corpo, del viso e dei capelli. La tollerabilità dei prodotti pH Balance sulla pelle è stata testata all’Inselspital, il principale nosocomio di Berna. / AW

Il nuovo docciagel privo di profumo, studiato appositamente per le pelli sensibili, deterge delicatamente e tratta l’epidermide.

L’industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui anche la linea pH Balance.

Per la detersione della pelle sensibile delle mani: sapone liquido pH Balance 300 ml Fr. 3.50

Sapone delicato per il viso, il corpo e le mani: syndet pH Balance 2 x 100 g Fr. 3.50

Previene le irritazioni cutanee: il nuovo docciagel pH Balance privo di profumo 250 ml Fr. 3.80

Per pelli sensibili e particolarmente secche: olio per la doccia pH Balance 200 ml Fr. 4.80


MELE, PATATE E CIPOLLE. 5.90 Cipolle gialle Svizzera sacco da 5 kg

5.90 Mele borsetta da 2,5 kg Esempio: mele Boskoop Ia Svizzera

16.– Mele cartone da 10 kg Esempio: mele Golden IIa Svizzera

12.– Patate Bintje o Laura Svizzera sacco da 15 kg

OFFERTE VALIDE SOLO FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 6 ottobre 2014 ¶ N. 41

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Idee e acquisti per la settimana

Ci si ricorda sempre di un profumo favoloso, come quello delle rose, sprigionato anche da Exelia Florence.

Profumi che permangono L’ammorbidente Exelia emana a lungo il suo buon profumo Quando i moderni detersivi hanno sostituito il sapone tradizionale, si introdusse l’ammorbidente. I detersivi di quella prima generazione rendevano la biancheria piuttosto ruvida. L’ammorbidente le restituiva morbidezza e nel contempo la profumava. Secondo un nuovo studio, i profumi risvegliano i nostri ricordi più delle impressioni registrate dagli altri sensi. Così abbiniamo spesso il profumo di biancheria fresca all’infanzia. Anche gli ammorbidenti Exelia, con le loro diverse note profumate, ci suscitano piacevoli ricordi. Exelia Florence avvolge la biancheria con un deicato profumo di rose. Exelia Summer Fresh risveglia associazioni a una soleggiata giornata estiva, e il fresco profumo di Exelia Fresh Morning ravviva i sensi. Gli ammorbidenti proteggono le fibre dall’usura, facilitano lo stiro e riducono la carica elettrostatica. Sono dermatologicamente testati e biologicamente ben degradabili. Per le pelli sensibili c’è l’Exelia Sensitive ipoallergenico, privo di coloranti. Da qualche tempo tutte le confezioni di riserva hanno una pratica forma che si adatta alla mano. / HB

Profumo di fiori: Exelia Orchid 1,5 l Fr. 3.25* invece di 6.50

Delicato profumo di rose: Exelia Florence 1,5 l Fr. 3.25* invece di 6.50

Ravivva i sensi: Exelia Fresh Morning 1,5 l Fr. 3.25* invece di 6.50

Fiori estivi: Exelia Summer Fresh 1,5 l Fr. 3.25* invece di 6.50 *50% sugli ammorbidenti Exelia fino al 13.10


QUALITÀ E CONVENIENZA ALLA TUA MACELLERIA

40% 1.20 invece di 2.– Luganighetta Svizzera, imballata, per 100 g

2.90 Salmì di cervo cotto prodotto in Svizzera con carne della Nuova Zelanda, al banco a servizio, per 100 g

30%

25%

2.65 invece di 3.85 Salametti a pasta grossa prodotti in Ticino, conf. da 2 pezzi, per 100 g

2.70 invece di 3.60 Arrosto collo di vitello arrotolato, TerraSuisse, Svizzera, imballato, per 100 g

20% 9.50 invece di 12.–

40% 2.– invece di 3.40 Aletta di manzo Svizzera, imballata, in conf. da ca. 1 kg, per 100 g

Ossibuchi di maiale Svizzera, imballati, per 100 g

In vendita nei maggiori supermercati di Migros Ticino. OFFERTE VALIDE DAL 7.10 AL 13.10.2014, FINO AD ESAURIMENTO DELLO STOCK.


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