Azione 40 del 29 settembre 2014

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXVII 29 settembre 2014

Azione 40 -75 ping M shop ne 45-54 / 67 i alle pag

Società e Territorio Pippi Calzelunghe sta per compiere settant’anni e ha bisogno di un fratellino

Ambiente e Benessere Soltanto una persona su dieci, tra coloro che ne avrebbero bisogno, si sottopone a una psicoterapia: ne parliamo con lo psichiatra Paolo Migone

Politica e Economia La Turchia alle prese con la doppia emergenza califfato-Kurdistan

Cultura e Spettacoli Quattro artisti si confrontano con il filo del discorso

pagina 13

pagina 3 pagina 23

di Roberto Porta e Simona Sala pagine 40-41

Keystone

La grande sfida del LAC

pagina 35

Una voce nel deserto di Peter Schiesser È stato un appello accorato o disperato, quello di Barack Obama davanti all’Assemblea generale dell’ONU, in cui ha invitato la comunità internazionale e in particolare i Paesi arabi ad unirsi contro il terrorismo islamico (v. pag. 25)? È stato il discorso, forte, di un presidente americano che guida il suo Paese in guerra? Oppure, affermando schiettamente che nessuna strategia contro il terrorismo potrà avere successo fino a quando i giovani avranno solo la scelta fra uno Stato tirannico e un estremismo brutale, ha voluto anche esprimere la sua enorme frustrazione di uomo che vorrebbe la pace ma è costretto alla guerra? Benché gli sforzi diplomatici del Segretario di Stato americano Kerry abbiano portato alla creazione di una vasta alleanza nella lotta contro il sedicente califfato islamico guidato da al-Baghdadi, chi pianifica e conduce i bombardamenti è e resta l’America. Dei 50 Paesi che formano l’alleanza, non uno è disposto a inviare truppe di terra a combattere contro i fondamentalisti dell’Isis, pochi a inviare qualche bombardiere. Ma una guerra non si vince dall’alto dei cieli, men che meno contro un esercito-guerriglia pronto a ritirarsi di fronte alle bombe e lesto a

occupare il terreno lasciato libero. E soprattutto: così non si vincerà mai la pace. Poiché la pace può attecchire solo laddove c’è giustizia, rispetto, democrazia, libertà di pensiero... condizioni che i popoli arabi non conoscono da secoli, per la cui conquista erano nati quattro anni fa i moti denominati speranzosamente «Primavera araba». Certo, distruggere i centri logistici dello Stato islamico, le raffinerie di petrolio che assicurano la sua ricchezza, frenare il flusso di capitali che alimentano il fondamentalismo islamico ha un senso militare, strategico e psicologico: l’aura di invincibilità di un movimento che in pochi mesi ha occupato vaste parti di Siria e Iraq ne uscirà scalfita e qualche jihadista internazionale troverà meno eccitante lasciare i sobborghi di Londra o di Parigi per farsi bombardare in Siria piuttosto che poter sgozzare un ostaggio davanti ad una telecamera. Ma è importante distinguere la cura dei sintomi dalla cura della malattia. E qui ha ragione Obama: finché esiste l’humus che alimenta la violenza degli estremismi, ogni guerra è persa e la pace impossibile. A complicare il quadro ci sono poi numerosi fattori, il primo fra questi è che l’America è malvista in Arabia, dopo le guerre di Bush padre e figlio in Iraq e di Bush figlio in Afghanistan. Lo ha ricordato, non a torto, il presidente

dell’Iran, Hassan Rohani (Paese che per decenni ha sponsorizzato terroristi arabi contro interessi occidentali...). Abbandonando i toni diplomatici, Obama si è dunque rivolto senza ambiguità ai Paesi arabi affinché riconoscano che la pace può nascere solo dal dialogo, dalla libertà, dal rispetto e dalla giustizia, gli ideali che hanno generato le proteste della Primavera araba. Ma quale nazione araba è disposta a imboccare quella via? Forse la Giordania. Non l’Egitto dei generali che hanno incarcerato e ucciso esponenti della Fratellanza musulmana, non l’Arabia Saudita che si fonda su quel fondamentalismo wahabita/salafita da cui sorge la fenice del califfato islamico, non il Qatar che sostiene finanziariamente i palestinesi-islamisti di Hamas, non questo Paese, non quello, non quell’altro... E in questo conto negativo ci sta pure Israele, più a suo agio come potenza militare regionale che come partner economico dei suoi vicini arabi. Dunque: era un appello accorato o disperato, quello di Obama? Bush figlio era convinto di poter imporre la democrazia (in Iraq e Afghanistan), Obama ha capito che la risposta immediata ad una tirannia è spesso una tirannia peggiore, non la democrazia. Ma il mondo attende un’opzione migliore, di fronte al baratro.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 29 settembre 2014 ¶ N. 40

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Attualità Migros

MIl nuovo Do it + Garden a Losone

Migros news Il programma 2014/2015 di Forum elle Ticino Tutti gli incontri sono aperti ad amiche/amici o simpatizzanti di Forum-elle, la piattaforma di scambio per donne che si interessano a temi sociali e culturali. Giovedì, 16/10– pomeriggio Gita ad Airolo e visita all’Agroval Sabato, 25/10 – giornata intera Mostra «Leonardo 3» a Milano Mercoledì, 5/11 – pomeriggio Ristorante Migros Serfontana. Dedicato ai più piccoli… impariamo a fare la pizza! Giovedì, 13/11 – ore 18.30 Suitenhotel Parco Paradiso, Lugano «4 chiacchiere con...»: Sara Rosso, donna, moglie, mamma e presidente della Planhotel Group Resorts di Lugano Giovedì, 11/12 – ore 16.00 Visita alla TSI Giovedì, 15/1/2015 – ore 14.30 Visita alla Vanini SA – Rivera Info: www.forum-elle.ch

Migros Ticino Inaugurato la scorsa

settimana, rispetta lo standard Minergie e sul tetto ospita un impianto fotovoltaico realizzato con la Società Elettrica Sopracenerina

Ha aperto giovedì 25 settembre il nuovo centro Do it + Garden Migros in via dei Pioppi a Losone. Situato al piano terra, con una superficie di 2000 mq e 65 posteggi, il nuovo negozio offre un vasto assortimento per il fai da te, il giardinaggio e il tempo libero con le migliori marche del settore e – novità in Ticino – uno shop dedicato alla sicurezza, che propone videocamere, casseforti, sistemi di allarme e accessori per la tutela della casa e di chi ci abita. In aggiunta agli assortimenti più tipici del Do it + Garden, il centro offre inoltre una scelta di articoli sportivi, lampade e articoli di arredo per la casa, grandi elettrodomestici (lavatrici, frigoriferi e congelatori) e accessori melectronics, cartoleria, articoli per cani e gatti e per la pulizia. La superficie di vendita è completata da uno spazio appositamente climatizzato destinato all’assortimento di piante e fiori, mentre un bar ubicato nella zona di accesso offre un punto

di ritrovo e di ristoro per gli avventori. L’edificio è stato realizzato considerando tecnologie avanzate nel campo del risparmio energetico e della protezione ambientale (materiali isolanti, pompe termiche, sistemi di illuminazione LED, ecc.) ed è a standard Minergie. Si tratta del secondo stabile Minergie edificato da Migros Ticino, dopo il supermercato di Taverne, che ha ricevuto la certificazione lo scorso anno. Sul tetto dello stabile – come già avvenuto in precedenza a Sant’Antonino e Taverne – sono inoltre stati installati dei pannelli fotovoltaici, in grado di produrre circa 250 mila kilowattora per anno, corrispondenti al fabbisogno di circa 55 economie domestiche. L’impianto, di cui Migros Ticino si è assicurata circa la metà della produzione di energia elettrica, è stato realizzato in collaborazione con la Società Elettrica Sopracenerina SA (SES), che ne è proprietaria.

Formazione professionale alla Scuola Club Migros: Group Fitness Instructor Sei appassionato di fitness e vuoi farne la tua attività principale? Il percorso formativo Group Fitness Istructor riproposto anche quest’anno dalla Scuola Club Migros permette di ottenere un diploma riconosciuto che abilita a lavorare come professionista del settore. La formazione verrà presentata in dettaglio mercoledì 1 ottobre alle ore 19.00 presso la sede della Scuola Club Migros Ticino in Via Pretorio 13 a Lugano. Iscrizioni e informazioni: Tel. 091 821 71 50 o all’indirizzo di posta elettronica: scuolaclub.lugano@migrosticino.ch.

Al primo piano dello stabile aprirà il 31 ottobre 2014 il primo centro Activ Fitness del Ticino, accanto al quale troveranno spazio attività nel campo dei servizi e dell’artigianato. Anche in questa realizzazione, che comporta un investimento di 6,5 milioni di franchi, Migros Ticino ha fatto il possibile per favorire imprese e artigiani

ticinesi e svizzeri, ai quali è stato affidato circa il 70%, rispettivamente l’85% delle commesse. Il centro Do it + Garden di Losone impiega 15 collaboratori, tra cui un apprendista, sotto la responsabilità di Bruno Gogov. Aperto dalle 08.00, chiude alle 18.30 dal lunedì al venerdì, alle 21.00 il giovedì, alle 17.00 il sabato.

La Cooperativa Migros Ticino a Rüschlikon

Integrazione sociale e professionale

«Solo per un sorriso»

Una delegazione partecipa alle sessioni di studio tenute all’Istituto Gottlieb Duttweiler

discuterà stasera all’USI di Lugano

Convegno Se ne

Negli scorsi giorni si sono tenute all’Istituto Gottlieb Duttweiler le biennali «Giornate di Studio», dedicata all’approfondimento e alla discussione di temi che riguardano presente e futuro della Comunità Migros. Alla sessione ha partecipato anche una delegazione della cooperativa ticinese, composta da membri del Consiglio d’amministrazione e del Consiglio di cooperativa. Nella foto, da sinistra: Monica

Duca Widmer (presidente del Consiglio di amministrazione), Roberto Bontà, Antonella Delmenico, Daisy Andreetta, Flavia Camozzi, Patrizia Guerini (membri del Consiglio di cooperativa), Gianfranco Covino (membro del Consiglio di amministrazione), Maja Werder (membro del Consiglio di cooperativa), Gabriella Malacrida (membro del Consiglio di cooperativa e delegata), Lorenzo Emma (direttore di Migros Ticino).

Lunedì 29 settembre alle 18.00 nell’Auditorio del Campus di Lugano dell’Università della Svizzera italiana si terrà una tavola rotonda sul tema dell’integrazione socio-professionale. Alla tavola rotonda, moderata da Marcello Foa, parteciperanno Luca Albertoni, direttore della Camera di commercio, dell’industria, dell’artigianato e dei servizi del cantone Ticino, Monica Duca Widmer, presidente del Consiglio di amministrazione della Cooperativa Migros Ticino, Michele Passardi, presidente del Consiglio di fondazione della Fondazione Diamante, Sergio Rossi, professore di macroeconomia e di economia monetaria all’Università di Friburgo e Laura Sadis, direttrice del Dipartimento finanze ed economia del Canton Ticino. L’incontro è organizzato da Fondazione Diamante e Migros Ticino in occasione del 25° di collaborazione. In conclusione dei lavori è previsto un rinfresco. Per motivi organizzativi è gradita l’iscrizione all’indirizzo info@f-diamante.ch o telefonando allo 091 610 00 20 la mattina.

Azione

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Riconoscimenti Il premio Adele Duttweiler

2014 a una fondazione romanda che si impegna nell’aiuto agli invalidi

Ogni due anni la «Fondazione Premio Adele Duttweiler», istituzione che prende il nome dalla moglie del fondatore di Migros, ricompensa una persona, un’organizzazione o un’istituzione riconosciuta per i suoi meriti nel settore sociale. Per il 2014, le dieci cooperative Migros, che sono membri della fondazione presieduta da Max Alter, direttore di Migros Vallese, hanno deciso di sostenere il prezioso lavoro del gruppo «Just for Smiles»: il premio è stato consegnato il 24 settembre 2014 in una cerimonia tenuta all’Istituto Gottlieb Duttweiler di Rüschlikon. La fondazione «Just for Smiles» di Villeneuve, nel canton Friborgo, ha sviluppato da più di dieci anni una serie di originali attività all’aria aperta pensate per le persone colpite da handicap gravi o che soffrono di mobilità molto ridotta. Nel porto di Estavayer-le-Lac, ad esempio, è stato apprestato un catamarano specialmente modificato, allestito in stretta collaborazione con alcuni architetti navali. Questa barca permette ogni stagione a circa mille invalidi di partecipare a delle uscite sul lago.

La fondazione è attiva allo stesso tempo in programmi sulla terraferma: grazie a una sorta di carrozzina montata su cingoli, in grado di avventurarsi su tutti i tipi di terreno, soprannominata Joëlette, le persone coinvolte possono intraprendere passeggiate su sentieri di media montagna accuratamente selezionati. In inverno poi, quattro stazioni sciistiche sono state scelte per offrire giornate speciali sulla neve. In tali situazioni tutti gli elementi necessari (accesso agli impianti di risalita, toilettes, ristoranti ecc.) sono stati preventivamente adattati e messi in sicurezza. Gli stessi insegnanti di sci sono formati appositamente per accompagnare gli invalidi sulle piste con uno speciale tandem sviluppato per la pratica dello sci. Per finanziare queste attività «Just for Smile» conta soltanto sulla generosità di donatori. Il premio di 100’000 franchi che la fondazione Adele Duttweiler si appresta ad attribuirle è dunque più che benvenuto, anche se coprirà solo una parte dei costi sostenuti per l’organizzazione delle uscite e per la loro preparazione.

Tiratura 98’645 copie

Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch

Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


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Società e Territorio La canapa fa discutere Legalizzazione: la situazione in Svizzera tra progetti progressisti e Confederazione prudente

Creatività che rivive in un’officina Incontro con Adele Vanzetta e Aldo Mariotti Nesurini, due originali fioristi di Biasca pagina 6

La rappresentazione del tempo Il mondo digitale non è sempre moderno: per rappresentare il tempo regredisce di secoli pagina 8

pagina 4

Simpatica, scanzonata e un po’ magica, Pippi Calzelunghe è stata ed è ancora un punto di riferimento per molte bambine. (Keystone)

Pippi ha bisogno di un fratellino Bambini Sta per compiere settant’anni il personaggio inventato da Astrid Lindgren simbolo della bambina

«maschiaccio», forte e indipendente, eppure in letteratura non esiste un suo corrispettivo maschile: il bimbo che ama le bambole è ancora un tabù? Laura Di Corcia Pippi Calzelunghe l’anno prossimo compie settant’anni. Dal 1945 la sua espressione vivace e le sue trecce rosse rappresentano un punto di riferimento per quelle bambine cui non va di giocare solo con le bambole, che a trine e ai merletti preferiscono un paio di più pratici pantaloni e (perché no?) comodi scarponi da montagna per andare a costruire le capanne. Ma il corrispettivo maschile qual è? Ci sarebbe Billy Elliot, ma la sua vicenda ha davvero avuto una ripercussione sull’immaginario comune? Se le bimbe intraprendenti, con i capelli corti e le macchinine come giocattolo oggi come oggi suscitano ammirazione e sguardi di approvazione, magari più delle coetanee tutte bambole e profumini, i rappresentati del «sesso forte» dotati di animo più delicato, estetizzante, attratti dalla morbidezza dell’universo da sempre prerogativa quasi esclusiva del «gentil sesso», se la passano peggio, sono sprovvisti di modelli e spesso si ritrovano ad

essere vittime di forme di violenza più o meno esibita, da parte dei coetanei ma anche degli adulti. Eppure, avere gusti diversi da quelli dettati dalla società dei generi-rigidamente-contrapposti dovrebbe essere un diritto accordato a tutti i bambini, che soprattutto in alcuni momenti sentono la necessità di esplorare e sperimentarsi, di dare sfogo alla loro immaginazione. «È molto importante contestualizzare fenomeni di questo tipo. È vero che un maschietto può preferire le Barbie, ma come mai le ha sottomano? Magari sono le sorelle che ci giocano e lui, trovandosele davanti, le usa senza porsi troppe domande». A parlare è Tiziana Marcon, responsabile di formazione e pedagogista, la quale precisa che la scelta del giocattolo spesso e volentieri ha poco a che fare con l’orientamento sessuale, che si palesa in età più matura, quando le ceste con le macchinine e gli altri giocattoli sono già state riposte in cantina da un pezzo. «Io lavoro con una fascia di bambini molto piccoli, sotto i quattro anni, e posso assicurare che a

quell’età non hanno ancora la percezione che esistano giochi adatti ai maschi e giochi adatti alle femmine. I bambini, specie quelli così piccoli, si fanno guidare dall’istinto e dalle sensazioni che i giocattoli regalano loro, più o meno piacevoli. Sono gli adulti, poi, a veicolare i loro gusti, anche se bisogna ricordare che il bambino è imitativo, quindi tende ad accodarsi ai suoi coetanei e ai loro giochi, specie in contesti di condivisione come l’asilo». La pedagogista sottolinea anche che la società oggi è più aperta per quel che riguarda l’uguaglianza fra i generi: «Si vedono spesso bimbe che indossano le magliette azzurre con disinvoltura e questo non crea ormai nessun allarmismo fra gli adulti. Un po’ diverso per quanto riguarda l’altro sesso: è più difficile che a un bimbo si proponga un vestito rosa». Mara, di Morbio Inferiore, madre di due bambini di sette e quattro anni (Pietro e Cecilia), è l’esempio lampante di come i genitori abbiano fatto passi da gigante in campo educativo, eliminando con un colpo di spugna tabù inutili e poco

costruttivi per la crescita dei bambini. «I miei figli si sono sempre scambiati i giochi» – racconta. «Cecilia, per esempio, ama le spade, le macchinine e i Lego di suo fratello. Se le capita di imbattersi in Spiderman, non ci pensa due volte e ci si relaziona. La stessa cosa fa Pietro: quando sua sorella ha voglia di giocare con le bambole, non si tira certo indietro». Mara non sembra preoccupata. Se è vero che Pietro tende a utilizzare giochi «femminili» soprattutto con la sorella, è anche vero che spesso rivisita gli stessi in chiave diversa, più legata al suo immaginario maschile. «Non mi sono mai sognata di imporre ai miei figli divieti e restrizioni in questo senso, credo che sia un modo di fare obsoleto, sicuramente non al passo coi tempi; quando vedo che Pietro prende la bici rosa della sorella lo lascio fare senza farmi nessun tipo di problema. Stessa cosa se gioca con la palla delle Winks». Mara spiega che il gioco molto spesso non ha valore in sé, ma è uno strumento attraverso il quale dare il via libera alla creatività e del bambino o della

bambina, che può costruirci attorno un universo di significati e inventare storie e soggetti attinti dalla sua fantasia. Nondimeno, qualche sbavatura c’è. La preoccupazione di Mara va più verso la fascia di età che il genere. «Pietro adora i peluche, nonostante sia già un po’ grandino per giocarci ancora. Eppure non va a letto senza il suo orsacchiotto preferito e ama circondarsi di nuovi pupazzi. Quando mi chiede di comprargliene uno nuovo, non sono entusiasta e cerco di fargli capire che sono giocattoli pensati per bambini più piccoli. Ecco, forse in questo alla base del mio comportamento c’è un pregiudizio: se fosse una bambina reagirei così? Probabilmente no». La mescolanza va bene, ma la preoccupazione rimane, soprattutto quando si tratta di sesso maschile. Mara la sa riconoscere, e gli altri genitori? La stessa pedagogista, Tiziana Marcon, ammette: «Io stessa faticherei a regalare ad un bambino una tutina color pesca». Ecco, forse è giunta l’ora che qualcuno regali a Pippi Calzelunghe un fratellino innamorato delle bambole.


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Società e Territorio

Canapa, che fare? Legge sugli stupefacenti Dibattito aperto sulla depenalizzazione della canapa, dagli Stati Uniti all’Europa.

La situazione in Svizzera tra città progressiste e Confederazione prudente

Fabio Dozio Il conto alla rovescia verso la depenalizzazione della canapa è iniziato. Esattamente un anno fa, il primo ottobre del 2013, è entrata in vigore in Svizzera la modifica della legge sugli stupefacenti che trasforma il consumo di canapa in reato amministrativo. Chi fuma uno spinello, se maggiorenne, rischia una multa di cento franchi. Un esperto l’ha definita una depenalizzazione de facto. Un punto di svolta radicale che, per i nemici della canapa, rappresenta un cedimento significativo verso la legalizzazione.

«Dobbiamo cambiare rotta». Lo dice Kofi Annan, ex Segretario generale delle Nazioni Unite e Presidente della Commissione globale delle politiche sulle droghe. Le politiche di proibizione della canapa e la criminalizzazione dei consumatori sono giudicate fallimentari. Non si riduce il consumo, si riempiono le prigioni di consumatori e gli spacciatori alimentano un mercato della droga che vale miliardi di franchi ogni anno. Secondo la Commissione ONU presieduta da Annan, «la prossima sessione speciale delle Nazioni Unite contro le droghe, nel 2016, è un’opportunità senza precedenti per rivedere le politiche sulle droghe». Lo scorso mese di marzo, un rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite sulle droghe e il crimine (Unodc) ha sottolineato che «la depenalizzazione del consumo della droga può essere una forma efficace per “decongestionare” le carceri, redistribuire le risorse in modo da assegnarle alle cure e facilitare la riabilitazione». L’ONU rimane contraria all’uso ricreativo della marijuana, ma afferma che i consumatori di stupefacenti devono essere considerati come «pazienti in cura» e non come «delinquenti». Attorno all’«erba», la sostanza illegale più diffusa al mondo, soffia un vento nuovo. L’Uruguay ha legalizzato il consumo di canapa, così come gli Stati americani del Colorado e di Washington, mentre in California è ammesso l’uso terapeutico della marijuana. In Spagna e in Portogallo, per fare due esempi europei, si regolamenta il consumo grazie alla creazione dei cannabis club. In Italia si pensa di ridiscutere la legge FiniGiovanardi, che trattava l’erba alla stregua delle droghe pesanti, e s’incomincia

Keystone

Il Canton Ginevra sta studiando un progetto pilota che prevede dei cannabis club i cui membri potranno acquistare canapa per uso personale proveniente da colture controllate

Alcuni Stati americani come il Colorado hanno legalizzato il consumo di canapa. (Keystone)

a sperimentare la distribuzione per motivi terapeutici. In Svizzera alcune città si stanno muovendo per depenalizzare e legalizzare il commercio e il consumo della marijuana. Zurigo, Berna, Basilea, Bienne, Winterthur stanno valutando proposte in questo senso. Ma soprattutto a Ginevra il cantone sta preparando un progetto pilota. I membri dei cannabis club potranno acquistare canapa per uso personale, proveniente da colture controllate dallo Stato e da consumarsi in privato. Togliere la marijuana dal mercato nero avrebbe indubbi vantaggi, affermano le autorità ginevrine, meno trafficanti e meno lavoro per la polizia. Il Canton Ginevra ha appena nominato Ruth Dreifuss, ex consigliera federale, alla testa della Commissione consultiva in materia di dipendenze. La voce dell’ex ministra socialista si è fatta subito sentire: «Bisogna depenalizzare tutti gli stupefacenti. Va sperimentata questa soluzione per valutare l’effetto che può avere sui venditori e sui consumatori». Il Consiglio federale si muove però a piccoli passi: all’inizio di settembre, rispondendo a due atti parlamentari, ha chiarito che al momento non intende rivedere la legge sugli stupefacenti con l’obiettivo di legalizzare la canapa. Il governo vuole seguire gli sviluppi nel

settore e perciò incaricherà la Commissione federale per le questioni relative alla droga di stilare un rapporto entro la fine del 2017 con le raccomandazioni in merito. Sui progetti che stanno nascendo a Ginevra e in altre città, Berna dice che «non è possibile valutare in modo definitivo la compatibilità di tali progetti con la legge sugli stupefacenti, poiché all’Ufficio federale della sanità pubblica è stata inviata soltanto una bozza elaborata da un gruppo ginevrino». Da parte sua, l’Ufficio della sanità ritiene che «la legge permette eccezioni a fini curativi, mentre i club non rispondono a questa tipologia: non si tratta di malati, ma di adulti che consumano la canapa a fini ricreativi». Potranno essere tollerati i progetti pilota di Ginevra e delle altre città che intendono introdurre i cannabis club? «A mio giudizio no – ci dice il consigliere nazionale Ppd Fabio Regazzi – sono contrario a qualsiasi violazione della legge, se la repressione non funziona, non è un buon motivo per rinunciarvi. Quando non si riesce a combattere ci si rassegna. È la tattica del salame, si smonta un pezzo alla volta e alla fine si cede. Io resto irremovibile, la canapa è una sostanza proibita e tale deve rimanere». «Essere contrari alla sperimentazione – ci dice Ignazio Cassis, consigliere nazionale Plr – è un atteggiamento

da Medioevo, quando si proibiva alla gente di sapere». Cassis, che è stato medico cantonale in Ticino, sottolinea che «naturalmente la cannabis non è senza pericoli. Ma lo è forse un hamburger? A lungo termine gli hamburger portano all’obesità, al diabete e a malattie di cuore. E la gente muore a causa di ciò, come per la nicotina e l’alcol. Insomma, tutto fa male, dipende dalle dosi! Comunque, le città svizzere devono poter sperimentare, bisogna concedere un margine di tolleranza». In Svizzera si stima che più di un quarto della popolazione con più di 15 anni abbia provato la cannabis. I consumatori abituali sarebbero circa 220 mila. La legge svizzera sugli stupefacenti risale al 1951 e offre leggeri margini di tolleranza. Agli inizi degli anni Duemila il Consiglio federale decise di depenalizzare lo spinello. Sarebbe stato il primo Paese al mondo a introdurre una legge che regolava il mercato della canapa. Fra gli obiettivi della riforma figuravano la protezione della gioventù e la lotta contro il mercato nero. Ma il Parlamento nel 2004 bocciò la proposta, rifiutando persino di entrare in materia, cioè non ne volle nemmeno discutere! Pascal Couchepin, allora consigliere federale, esortò i deputati ad affrontare il dibattito per evitare di «far finta che non esista un problema droga in Svizzera». Dopo

questa sconfitta del fronte che intendeva modificare la legge sugli stupefacenti, fu lanciata un’iniziativa popolare che invitava a depenalizzare la marijuana, ma il popolo e i cantoni l’affossarono nel 2008. La tendenza sembra chiara. Nel mondo intero si va verso la depenalizzazione e la legalizzazione della canapa, anche se in forme e con tempi diversi. «È chiaro: in questo momento è improbabile che vi sia in Svizzera una maggioranza a favore della legalizzazione – afferma il presidente della commissione federale per le questioni relative alla droga, Toni Berthel – ma a medio termine dobbiamo chiederci che fare con le sostanze psicoattive, come la cannabis. Perché, anche se sono vietate, continuano a venir consumate. Soprattutto fra i giovani, che si procurano la droga al mercato nero e finiscono così nel mondo della criminalità. Questa non è una soluzione. E se negli Stati Uniti si fanno passi verso la legalizzazione, questo è un segnale importante. Con i divieti e con la repressione non risolviamo il problema». Il popolo svizzero ha bocciato la depenalizzazione della canapa nel 2008. «Bisogna lasciar passare almeno dieci anni – sostiene Ignazio Cassis – per pensare a una depenalizzazione definitiva. Anche perché è un tema intriso di ideologia, è una vera e propria guerra di religione!» Annuncio pubblicitario

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Società e Territorio

Non solo petali Fiori e arte Incontriamo Aldo e Adele a Biasca, in un’ex officina

di metalcostruzioni ristrutturata, dove uniscono creazioni floreali, arte e artigianato Trovare il loro spazio, «l’Officina creativa», non è facile. Non essendo il classico negozio affacciato sul paese, per conoscere il mondo di Adele Vanzetta e Aldo Mariotti Nesurini, due originali fioristi di Biasca, bisogna cercarlo volutamente. A loro questo piace molto. Fuori dal borgo, bisogna addentrarsi nella zona industriale, in via Prada 6, là dove c’era una fabbrica di metalcostruzioni. Una volta trovato il luogo ci si accorge subito che ne è valsa la pena. È come se, per una volta, contenente e contenuto abbiano la stessa valenza: è lo spazio, il ricordo di com’era e il lavoro conservativo ancora presente, che stimola tutto il resto. Adele e Aldo hanno unito le loro forze in un’avventura molto originale: rinnovare parzialmente un’ex officina, mantenendone intatta gran parte dell’architettura, per abbinare la loro passione per la flora, specie le piante grasse e cascanti, che è anche profondo rispetto della natura. «In Ticino siamo gli unici, prima di tutto come tipo di spazio – spiega Aldo – cioè la “famosa” officina restaurata, perché trovare edifici così qui da noi non è facile ed è stata una grande fortuna. Infine il fiore, la pianta, contribuisce a creare un’atmosfera bella per tutti». «In sei mesi, con l’aiuto di amici e parenti – racconta Adele – siamo riusciti a ristrutturare questa ex officina di metalcostruzioni, un tempo molto conosciuta. Qui non c’era niente, solo le mura e abbiamo

fatto tutto noi! Abbiamo conservato alcune caratteristiche e, nonostante sia un negozio, vogliamo mantenere il concetto di “officina” da cui poi è nato il nome. Abbiamo pensato di creare uno spazio un po’ diverso dagli altri, ispirandoci ad esempi visti nella Svizzera interna, dove usano rivalutare le ex fabbriche».

L’«Officina creativa» è un luogo luminoso, un esempio riuscito di unione tra organico e inorganico Il bello di questo luogo è che si respira, è invaso dalla luce, sembra spoglio tanto è ampio, l’allestimento è minimale ma studiato. Il contrasto tra la serenità calda sprigionata dalla flora, e la concretezza fredda dell’acciaio e della pietra, è solo apparente. Insomma, una bella unione tra organico ed inorganico. Ma l’idea non si ferma qui. Non c’è solo la creatività floreale, con i suoi abbinamenti, i suoi vasi originali, le sue mises en place, ma anche quella di giovani artisti della Svizzera italiana, artigiani e creativi, forse ancora poco conosciuti ai più, come Giar Lunghi, Clyo Lurati, Renata L. Scapozza, Tita Malingamba, ecc. «All’inizio – spiega Adele – puntavamo soprattutto sui giovani che finivano la Csia o Brera, ma venivano in pochi, quindi abbiamo voluto dare

un’opportunità alla gente della zona creando una piccola galleria d’arte all’interno, sia perché non ci sono tanti posti dove si può esporre nelle nostre valli, sia per differenziarci dal classico negozio di fiori. Gli artisti e gli artigiani ormai arrivano da soli, finora non abbiamo cercato nessuno!». Cosa si espone e come vengono selezionati? «Solitamente esponiamo quadri, ma non diciamo di sì a tutti, c’è anche una scelta qualitativa. C’è chi lavora col feltro, chi crea folletti, chi è nella sartoria, poi sculture, foto, ceramiche, ecc., non necessariamente legate ai fiori o alla natura. Poi in base a quello che porta l’artista noi cerchiamo di allestire il negozio e creare delle composizioni a tema». «Il nostro è già un lavoro creativo – afferma Aldo – e visto che siamo su quella direzione abbiamo pensato: perché non far esporre giovani e anche non giovani, creando una sinergia? Gli artisti ispirano anche noi. Se c’è nero e bianco, anche noi inseriamo oggetti di questi colori, in modo che si crei un’armonia, un insieme voluto. Gli artisti apprezzano innanzitutto lo spazio, l’energia positiva che c’è qui, quindi anche se portano opere un po’ “forti”, si addolciscono anch’esse». Oltre a una mostra a Natale di creazioni a tema, nell’officina si organizzano quattro esposizioni all’anno informazioni

www.officinacreativa.ch Adele Vanzetta e Aldo Mariotti Nesurini nella loro «Officina creativa». (Davide Frizzo) Annuncio pubblicitario

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Società e Territorio

Rappresentare il tempo Mondo digitale Prima di diventare una linea, il tempo è stato tante cose: un animale, un corpo umano,

un edificio, un fiume, una mappa. Ora deve diventare una rete? Lorenzo De Carli Il cuore del sito web del Metropolitan Museum of Art è un’enorme linea del tempo denominata Heilbrunn Timeline of Art History. Articolata in trecento diverse cronologie che partono dall’8000 a.C. per arrivare ai nostri giorni, corredata di quasi mille saggi per quasi settemila opere d’arte, quando venne messa online nel 2000 «fu guardata con trepidazione dai curatori del museo», scrivono i due storici americani Daniel Rosenberg e Anthony Grafton, ma: «divenne subito evidente che la metafora della linea del tempo era connaturata al progetto stesso del museo; di fatto, anzi, apparve talmente radicata nell’essenza dell’istituzione che diventò difficile capire come mai si fosse deciso di esplicitarla solo allora». La perplessità degli studiosi del Met era più che legittima perché i siti web dei musei, così come i tanti CDRom dedicati alle opere d’arte pubblicati negli anni Novanta, non erano caratterizzati da una navigazione cronologica ma topografica. Senza saperlo, i designer e gli sviluppatori informatici di quegli anni stavano lavorando con categorie concettuali incentrate sulla dimensione spaziale, che nel corso del Settecento la cultura occidentale aveva rapidamente accantonato in favore della più astratta «linea del tempo». Lo studio delle interfacce web rende evidente quanto poco moderno può essere il mondo digitale. Oggi, «insieme all’elenco e al link, la linea del tempo è una delle strutture organizzative centrali dell’interfaccia degli utenti» – scrivono Rosenberg e Grafton nel loro Cartografie del tempo. Una storia della linea del tempo – ma nel web non è infrequente trovare forme di organizzazione del contenuto precedenti la modernità.

La linea del tempo nasce attorno alla metà del Settecento: una conquista che però non scalzò definitivamente le altre rappresentazioni «Per molti lettori del Cinquecento e del primo Seicento il tempo assomigliava a una tabella, preferibilmente suddivisa in caselle tramite assi orizzontali». Tabelle di questo tipo sono tuttora molto frequenti online perché soddisfano la necessità (come nelle

La New Chart of History (1769) di Joseph Priestley fu la prima linea del tempo moderna. (www. thenewatlantis. com)

antiche cronache) di conoscere fatti eterogenei ma contemporanei, mentre la moderna realtà virtuale altro non è che la riproposta digitale delle seicentesche Kunst- und Wunderkammern («Gabinetti d’arte e di meraviglie»). Il lavoro di ricerca compiuto da Rosenberg e Grafton per documentare come l’Occidente ha illustrato il tempo è particolarmente utile in questo momento storico. Proprio il miscuglio di antico e moderno tipico del postmodernismo digitale non ci permette di comprendere quanto storicamente determinate siano alcune soluzioni di rappresentazione grafica che usiamo tutti i giorni online e offline. La linea del tempo, per esempio, non è una rappresentazione a tal punto intuitiva, da essere priva di storia; tutt’al contrario, essa nasce attorno alla metà del Settecento, come «nuovo metodo di espressione e quantificazione dei rapporti cronologici». È il teologo e scienziato inglese Joseph Priestley a realizzare per primo linee del tempo come le usiamo oggi: «fu il primo cronografo a concettualizzare i suoi diagrammi in termini simili a quelli dell’illustra-

zione scientifica, e il primo ad esporre principî sistematici per il trasferimento dei dati storici in un medium visivo». Ma se «dopo di lui la maggior parte dei lettori aveva introiettato l’analogia tra tempo storico e lo spazio misurato», che cosa c’era prima? Fino alla metà del Settecento, per rappresentare il tempo storico si usava «una semplice matrice con i regni segnati nel margine superiore della pagina su un asse orizzontale e gli anni elencati verticalmente nelle colonne di sinistra o di destra». Il modello ispiratore è quello della Cronaca del padre della Chiesa Eusebio di Cesarea, replicato continuamente e tutt’ora da noi usato, quando – per esempio – con Excel adoperiamo le colonne verticali per le diverse categorie di contenuti e quelle orizzontali per le date (o viceversa). Ma la rappresentazione a matrice della storia non era l’unica: a lungo si sono adoperate immagini di edifici, di corpi umani o animali. Anche oggi, nelle interfacce multimediali, la metafora dell’edificio – un tempo funzionale alla tecnica mnemonica detta del «teatro della memoria» – è

molto usata per collocare le informazioni nello spazio virtuale. Edifici e corpi erano funzionali allo scopo di rappresentare una storia di regni e regnanti che prolungava quella biblica. Quando, nel Seicento, il sapere astronomico permise di ancorare a date precise gli eventi storici (facendoli corrispondere a regolari eclissi o allineamenti di pianeti) e quando la conoscenza delle cronologie cinesi e dell’antico Egitto fece vacillare la cronologia biblica, quelle rappresentazioni rassicuranti furono messe in crisi, mentre il grande progresso della rappresentazione cartografica delle terre via via scoperte suggeriva la possibilità di trattare l’estensione temporale come una estensione spaziale. Ma sarebbe sbagliato sostenere che la linea del tempo sia stata una conquista che abbia scalzato definitivamente le altre. Se «nel corso dell’Ottocento divenne del tutto naturale pensare la storia come una linea del tempo», Charles Darwin, provando nei suoi taccuini a rappresentare graficamente il processo dell’evoluzione, si rese conto quanto essa possa essere concettualmente

è stato diverso per la Apple di Jobs, ricorda Rampini, trasferitosi nella Silicon Valley quattordici anni fa per vivere dal di dentro la rivoluzione di Internet. Nata come distinguo dagli altri colossi informatici, indirizzata ad un pubblico giovane di creativi e trasgressivi, la Apple era sinonimo di anticonformismo, usciva dalle logiche di monopolio di Microsoft e Ibm. Poi però, con il successo «Jobs si sforza di costruire un sistema chiuso, impenetrabile. E al tempo stesso diventa l’artefice di uno sfruttamento ignobile della manodopera cinese…». Proprio come Google e Facebook anche la Apple ci spia a nostra insaputa. I telefonini, gli iPad senza i quali non possiamo più immaginare la nostra quotidianità, sanno tutto di noi. A tal punto che «non ricordate dov’eravate un mese fa a quest’ora, cos’avete fatto,

in quali locali siete entrati, chi avete visto?» chiede Rampini, «niente paura, la smemoratezza ha un rimedio. Se siete proprietari di un iPhone o di un iPad hanno registrato tutti i vostri spostamenti, minuto per minuto. E ne conservano traccia fedele». Assange, Snowden hanno avuto il grande merito, e a caro prezzo, di metterci in guardia di fronte ad una nuova forma di totalitarismo digitale. Ci hanno spiegato che la favola della democrazia digitale, della Rete che ci rende tutti uguali e liberi, apre al dialogo e al confronto, fa valere la voce di tutti, è davvero solo una favola e forse nemmeno a lieto fine. La NSA, le aziende high-tech e la grande Rete sono sistemi di sorveglianza di massa volti a carpire quante più informazioni possibili su noi cittadini e a trarne profitto. Lo spiega bene Andrew Keen

ingannevole. La linea del tempo ci suggerisce un’idea di continuità ineluttabile, di progresso senza fine, di necessaria concatenazione di cause e di effetti – mentre, in realtà, il caso e la necessità s’intrecciano senza posa e la contingenza è costantemente presente nel corso dell’evoluzione. Oramai sappiamo che la linea del tempo è del tutto inadeguata, per esempio, a rappresentare l’evoluzione del genere Homo sapiens: convissuti con altri ominidi in varie zone del pianeta, proprio in questi anni ci stiamo rendendo conto che il nostro DNA reca tracce di altre specie, come per esempio l’Homo neanderthalensis. Per rappresentare queste relazioni genetiche la metafora della linea del tempo è fallace, e s’impone con forza la necessità di una nuova conquista cognitiva: quella di abituarci a rappresentare le relazioni dei fenomeni non più come a relazioni causali sulla linea del tempo bensì come a nodi di reti interconnesse, le quali – nel tempo – retroagiscono, modificando costantemente le reciproche connessioni. Ma forse non siamo ancora abbastanza moderni per le reti.

La società connessa di Natascha Fioretti La tecnologia che ci spia

I giornalisti Federico Rampini e Fabio Chiusi ci mettono in guardia dalla supremazia digitale e tecnologica che avanza, ci circonda nella nostra quotidianità e ci spia senza che neanche ce ne accorgiamo. Il primo con un nuovo libro pubblicato per Feltrinelli Rete padrona. Amazon, Apple, Google & Co. Il volto oscuro della rivoluzione digitale, il secondo con un’intervista esclusiva a Julian Assange uscita qualche giorno fa sul quotidiano «la Repubblica» dal titolo Il nuovo totalitarismo sono i colossi del web (http://www.repubblica.it/ esteri/2014/09/22/news/l_ultima_sfida_di_assange_il_nuovo_totalitarismo_sono_i_colossi_del_web96367542/?ref=HREC1-5). Nell’intervista il fondatore di Wikileaks non fa sconti e accusa Google di

sorvegliare milioni di persone. Come riporta Chiusi, nel suo ultimo libro When Google Met Wikileaks, Assange scrive: «Se volete una visione del futuro, immaginate occhiali di Google promossi da Washington e legati a volti assenti – per sempre». Rampini è dello stesso avviso e nel suo libro ricorda gli esordi rivoluzionari e progressisti del colosso di Mountain View, il voler escludere, in un primo momento, la pubblicità dai risultati del motore di ricerca. Poi Google diventa il numero uno nel mondo, «to google» entra nei dizionari d’inglese e il motore di ricerca si trasforma in una macchina pubblicitaria di proporzioni gigantesche guidata dalle spietate logiche del profitto. E quel che è peggio, in un mercato così nuovo da non essere ancora adeguatamente regolamentato. Non

in Vertigine digitale, i dati e le informazioni di noi cittadini sono il petrolio, l’oro nero dell’epoca di Internet, le nostre identità e la nostra reputazione sono merce di scambio in quella che di fatto è un’economia dell’attenzione, un’economia che come tutte le altre guarda al profitto e non all’amicizia, al benessere o ai diritti umani. «Un’occasione mancata» scrive Rampini. Jobs in particolare aveva le risorse necessarie per cambiare non solo il paradigma tecnologico ma anche un modello di capitalismo imperante. Tocca a noi cittadini fare qualcosa; in primo luogo informarci, diventare utenti consapevoli, conoscere da vicino le dinamiche di Internet e delle nuove tecnologie, perché indietro non si torna, e nonostante i lati oscuri, tanti, troppi, sono i benefici che la rivoluzione epocale del web ci ha portato.


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Società e Territorio Rubriche

Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni Una contraddizione apparente Mi capita, non spesso, di dare un’occhiata agli spot pubblicitari che nei canali televisivi privati interrompono le trasmissioni che sto seguendo. Di solito approfitto delle interruzioni per farmi un caffè o per controllare la posta informatica, ma ultimamente ho voluto rimanere incollato al televisore per verificare un’impressione che mi era venuta. Adesso ne sono certo: la maggior parte degli spot pubblicitari riguarda il corpo, la sua manutenzione e la sua cosmesi. La pubblicità dichiara un’implacabile guerra ai più sordidi nemici del corpo: l’obesità, la cellulite, il sudore, le «piccole perdite di urina», il «prurito nelle parti intime», l’acne e così via. Vengono offerti favolosi rimedi: c’è il prodotto straordinario che tramuta il sudore in profumo, così che «più sudi, più profumi»; c’è lo shampoo che rende i capelli morbidi e splendenti; la crema che fa la pelle vellutata, quella che spiana le rughe e via seguitando.

E qui emerge una contraddizione: da un lato la nostra epoca è attratta dalla smania del «bio» e si afferma la convinzione che «bio è meglio»; dall’altro, invece, il corpo umano non dev’essere «bio». L’estetica del corpo rifiuta ciò che è naturale e tende a porre una distanza crescente tra la dimensione corporea e la natura. È pur vero che questa distanza l’uomo l’ha coltivata, in certa misura, fin dai primordi della civiltà: con i vestiti, anche quando il clima non li richiedeva, secondo il codice del pudore imposto dalla cultura del momento; con l’acconciatura dei capelli e della barba; con gli ornamenti, i tatuaggi, la cosmesi; con l’igiene personale, da ultimo (e non poi tanto tempo fa…). Un tempo ci si lavava ben poco, anche per l’assenza di acqua corrente nelle case e a dipendenza della stagione; specie nelle città, la pulizia del corpo era cosa insolita. Alla scarsa

pulizia corporea si suppliva – chi se lo poteva permettere – con abbondanti dosi di profumo. Ci si aggiungevano poi regole di un codice morale rigidissimo per quanto riguardava la sessualità: guai a guardarsi nudi, guai a toccarsi nelle parti intime; racconta ad esempio lo storico francese Bologne, nella sua Histoire de la pudeur, che in epoca Biedermeier, ossia nella prima metà dell’Ottocento, si raccomandava alle giovinette di coprire l’acqua del bagno di segatura, per evitare di vedere quanto stava al di sotto del pelo dell’acqua. Era così da secoli: nel XIII secolo il domenicano Vincenzo di Beauvais disapprovava che, dopo l’infanzia, le fanciulle facessero il bagno. Si capisce che, con un simile codice di comportamento, l’odore di santità non sempre coincideva con quello della pulizia corporale. Da un estremo si è passato a quello opposto. Il naturalista americano Theodor

Rosebury sentenzia: «Stiamo diventando un popolo di nevrotici, smacchiati, strigliati e deodorati». Meglio strigliati che sozzi, comunque. Ma credo sia chiaro a chiunque che le pratiche igieniche attuali vanno ben al di là della semplice tutela della salute: il corpo è diventato oggetto di culto, emblema da esibire, carta d’identità sociale. In un libro pubblicato da Daniel Pennac due anni fa, Storia di un corpo, un vecchio padre dice alla giovane figlia: «Il corpo è un’invenzione della vostra generazione. Almeno per l’uso che se ne fa e per lo spettacolo che ne viene dato. [...] Quanto ai medici (a quando risale la tua ultima visita?), è molto semplice: oggi il corpo non lo toccano più. A loro importa soltanto il puzzle cellulare, il corpo radiografato, ecografato, tomografato, analizzato, il corpo biologico, genetico, molecolare, la fabbrica di anticorpi. Vuoi che ti dica una cosa? Più lo si analizza, questo

corpo moderno, più lo si esibisce, meno esso esiste». C’è del vero. Quando i pittori del passato dipingevano «le tre età della Vita», la vecchiaia era rappresentata com’era per natura – grinzosa, smagrita, decadente; oggi anche la vecchiaia va rimossa e il mito della giovinezza si rafforza con gli interventi della chirurgia e con gli artifici della cosmesi che rendono le facce levigate. Così il corpo umano, ritoccato ad arte, viene ad essere il contrario del «bio»: artificiale e contraffatto. Però, a ben guardare, anche il trionfo del «bio» nell’alimentazione e nell’abbigliamento è sostenuto dalla preoccupazione per il corpo, per la sua salute e la sua immagine. Dunque, non si tratta propriamente di una contraddizione, bensì piuttosto di un contrario che integra l’altro: sono i due volti di un unico nuovo culto. Grazie, mio bio!

le munizioni per Buckingham Palace. Ecco la bomba Brändli fondente, servita con un coltello. Taglio a metà, ottima. Peccato solo che spesso dico caffè dimenticando che in Svizzera interna o romanda, va precisato «espresso» per non avere uno stagno da bere. Il signor Brändli ora ha da fare e gentilmente si congeda. Nella vetrina c’è la testa trasognata di Einstein: negli anni 1895-1896 frequenta infatti la scuola cantonale qui ad Aarau. Entro a chiedere informazioni: fanno un biscotto Einstein, quadrato, imbevuto nel kirsch con sopra cioccolato nero. Nella panoramica dei praliné esposti è ancora il tocco di Celestino Piatti a dare nell’occhio con grazia: la scatola delle mandorle al cioccolato. Quando la moglie di Mark Brändli vede che prendo appunti e sente la parola articolo, si allarma: «ho avuto una brutta esperienza con un giornalista». Sulle altre specialità e le bombe non ha «niente da dire». Le bombe Brändli sono in scatole da due, quattro, otto,

dodici. Costano una sassata, va detto, faccio comunque una piccola scorta e via. Se fate un giretto da queste parti, già che ci siete, oltre ad alzare gli occhi sui celebri tetti dipinti del centro storico di questa città capoluogo del Canton Argovia sorta su uno sperone roccioso sulla sponda destra dell’Aar da cui trae il nome, non potete perdervi le scimmie birraiole. Folgorante una scimmia in ferro battuto con tanto di palma che brinda con un boccale di birra. Era l’insegna del leggendario Restaurant Affenkasten chiuso otto anni fa e luogo dove lo spazzino e il professore bevevano gomito a gomito. E ancor prima, di un’antica birreria; ora c’è una libreria niente di che. Sulla facciata neogotica ci sono altre splendide scimmie affrescate nel 1920, un paio bevono birra altre giocano a carte. Apro la scatola e ne mangio una al latte, a morsi. Devo dire che sono migliori mangiate così, in giro, queste adorabili bombe a mano di quaranta grammi l’una.

di 200mila, e provengono da tutto il mondo: in testa gli americani, seguiti da brasiliani, indiani, inglesi, cinesi. Alcuni italiani: 35, giovani fra i 25 e i 40 anni, per lo più studenti di geologia, geografia, fisica, medicina. E perfino quattro svizzeri. Come emerge dalle interviste rilasciate, nel loro comune denominatore figurano la curiosità scientifica, la sollecitazione dell’ignoto, l’ambizione di collocarsi a fianco dei grandi scopritori, mentre sembrano minimizzati sentimenti, prevalenti nella condizione di residenti sulla Terra, quali gli affetti familiari, le abitudini, l’attaccamento a persone e cose della quotidianità. Una quotidianità che, del resto, loro pensano di ricreare lassù. Non mancano, del resto, nelle dichiarazioni di questi futuri «marsonauti», anche accenni all’insofferenza nei confronti di un ambiente «terreno» limitato, soffocante, non in grado di soddisfare aspirazioni alternative, magari confuse. Non tutte le motivazioni, che stanno dietro a

questa scelta, testimoniano chiarezza e consapevolezza. Insomma, per dirla tutta, l’identikit di questo viaggiatore di futura generazione appare contraddittorio. Si percepisce, pure qui, la sensazione di un andarsene, tanto per andare. Ma c’è, poi, un altro aspetto, ancora in sordina ma qua e là affiorante, ed è lo sfruttamento a uso politico di un pianeta, di cui si stanno studiando le possibili condizioni abitative. E che, come tale, potrebbe diventare una nuova colonia: gestita da chi e con quali obiettivi? Tempo fa, di fronte al problema degli sbarchi di profughi africani e mediorientali, a un politico italiano è sfuggita una battutaccia: «E se li spedissimo su Marte?». Un incidente verbale, a suo modo rivelatore. Una colonia lontana, anzi lontanissima, potrebbe servire allo scopo: accogliendo gli indesiderabili. Insomma, andare su Marte senza ritorno, potrebbe anche non essere una scelta libera.

Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf Le bombe Brändli di Aarau Le bombe Brändli sono state inventate nel 1924 da Ernst Brändli (1897-1939) ad Aarau. Bombe dal cuore di ganache ammantato di marzapane e ricoperte da uno strato di cioccolato con scaglie di mandorle. A quanto pare la regina madre, Sua Maestà Elisabetta d’Inghilterra, ne andava matta. Da quando ne sono venuto a conoscenza da una vecchia signora, una sera di aprile al bancone del bar Rio di Basilea, le bombe Brändli mi si sono conficcate in testa come schegge di granata. Dalla stazione di Aarau – dove un notevole atollo azzurro trasparente di etilene tetrafluoroetilene sta sulle teste di chi aspetta un bus come una nuvola-pensilina ideata dagli architetti Vehovar & Jauslin – neanche cinque minuti e scovo la Confiserie Brändli. Mica sono un cane da tartufo, è proprio qui a due passi, sulla Bahnhofstrasse, al trentasette. Tende blu, tre tavolini fuori, nome in minuscolo sulla facciata, linee arrotondate delle vetrine. Questa storia inizia nel 1893 a Lenzburg,

tredici chilometri da qui, con Arnold e Anna Brändli che aprono una pasticceria. Nel 1918 il figlio Ernst con la moglie Martha, focalizzando la produzione sul cioccolato, prende in mano la piccola ditta dolciaria di famiglia spostatasi intanto ad Aarau e nel 1922, apre l’attuale confiserie. Alla prematura morte di Ernst, sarà Martha Brändli a condurre il negozio e il caffè fino al 1973, poi è il turno della terza generazione con la figlia di Martha, Esther Gehring-Brändli; anche lei presto vedova con tre figli. Due dei quali, Mark e Nik, con le rispettive mogli Rita e Josée, gestiscono dal 2003 la confiserie Brändli. Varco così la soglia della confiserie Brändli una metà pomeriggio di fine settembre, cercando subito di catturare con l’occhio le bombe Brändli di Aarau (382 m). Non le vedo, scorgo però, alle spalle della venditrice, il verde elettrico di alcune lettere alternate a quelle bianche delle fenomenali scatole marroni delle Brändli Bomben. Le scatole

sono state create negli anni Sessanta da Celestino Piatti (1922-2007) nato a Wangen-Brüttisellen – papà scalpellino di Capolago e mamma figlia di un agricoltore zurighese – e noto come grafico e illustratore soprattutto per le migliaia di copertine dei libri della Deutscher Taschenbuch Verlag di Monaco. Inconfondibili i suoi gufi stralunati. Ordino un caffè e una Brändli Bombe. Ci sono al latte e fondente. Intanto salgo al primo piano dove c’è il tea-room anni Quaranta entrato a far parte dei più bei caffè e bar della Svizzera secondo l’Heimatschutz. Nonostante la bella giornata, qualche anziana signora c’è. «Benvenuto ad Aarau» esclama la gioviale cameriera bionda quando le dico la ragione del viaggio. Mi manda «il boss», dice. Seduto fuori mi raggiunge Mark Brändli, volto serio, occhiali, la quarta generazione. «È un vescovo di Olten» che ha fatto conoscere le bombe di cioccolato alla regina, da lì via ogni anno, per Natale, da Aarau, partivano

Mode e modi di Luciana Caglio Vivere su Marte: scelta libera o imposta? Mai dire mai. Nell’autunno 2012 Bas Lansdorp, un giovane imprenditore olandese, già ricercatore in tecnologia all’università di Delft, lanciava il progetto Mars One che prevedeva voli su Marte come destinazione stabile. Cioè, un’andata senza ritorno. Sono passati due anni, un tempo più che sufficiente per affossare nel dimenticatoio e nel ridicolo una proposta che, a prima vista, sembrava una sfida all’impossibile o, un’ambiziosa ipotesi da laboratorio, o, peggio, una bufala mediatica. Insomma, qualcosa privo di fondamento, da non prendere sul serio. Così, invece, non è stato. Mars One si presentava, infatti, con le carte in regola, sul piano scientifico: sia pure senza l’avallo della Nasa, poteva contare sul sostegno di due fisici, premi Nobel. Mentre, sul piano finanziario, si valeva di sponsor privati, allettati dalla pubblicità di dimensioni planetarie che dovrà accompagnare la futura missione. Le varie fasi, preliminari a terra, viaggio

di ben sei mesi, arrivo sul Pianeta Rosso, adattamento alle condizioni ambientali, tutto ciò si svolgerà sotto le luci delle telecamere diventando il materiale destinato a uno spettacolare Reality Show, ovviamente intercalato da spot. Sin qui, dunque, le promesse

e le garanzie da parte degli ideatori e promotori dell’impresa, impegnati, evidentemente, in un’operazione delicata e dagli esiti imprevedibili: il reclutamento dei candidati a un viaggio, insolito, non soltanto per la meta ma per l’obiettivo. Diversamente da altri voli spaziali, non si trattava di vacanze destinate a miliardari stravaganti, in cerca di diversivi elitari per distanziarsi dalla banalità degli itinerari ormai resi accessibili a tutti dal turismo di massa. Accettando la proposta di Mars One si metteva in gioco la propria esistenza imponendole un cambiamento di contenuti totale a senso unico: su Marte, per sempre, senza via di scampo. Ora, e qui sta la sorpresa, questa prospettiva, terrificante secondo il comune buon senso, ha ottenuto un’adesione assolutamente imprevedibile, tanto da indicare un fenomeno su cui interrogarsi. I candidati, in lista d’attesa per la selezione che potrà abilitarli a quel volo, sono ormai più


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Ambiente e Benessere Apparentemente morto Biodiversità: continua la serie di approfondimenti dedicati agli alberi e ai boschi pagina 16

I disagi creati dal ritorno del lupo La presenza e il passaggio di questo grande predatore sul territorio elvetico causa non pochi grattacapi agli allevatori, soprattutto in Ticino

Il ritorno del tatuaggio I primi a tatuarsi prima di tornare a casa dall’Oriente furono i viaggiatori inglesi

L’hockey che emoziona La lotta e l’impegno sono tali da mettere a dura prova anche i campioni stranieri

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Lo psichiatra dottor Paolo Migone, fondatore della sezione italiana della Society for Psychotherapy Research. (Vincenzo Cammarata)

Psicoterapia, lusso o necessità? Psicologia Costi e benefici valutati in una giornata di studio promossa dagli specialisti del settore Maria Grazia Buletti Lo scorso 24 settembre l’Associazione ticinesi psicologi (Atp) – in collaborazione con l’Ospedale sociopsichiatrico cantonale e il sostegno della Federazione svizzera delle psicologhe e degli psicologi e dell’Associazione svizzera degli psicoterapeuti – ha promosso un pomeriggio informativo focalizzato sulla valutazione dell’offerta, dei costi e dell’efficacia della psicoterapia. Un tema sul quale oggi più che mai è importante chinarsi, anche in ragione dei dati statistici in possesso dell’Ufficio federale della sanità pubblica (Ufsp) secondo il quale gli svizzeri riceverebbero troppa poca psicoterapia. «Vengono svolte poche terapie rispetto a quante sarebbero necessarie», afferma il vicedirettore dell’Ufsp Stefan Spycher, il quale indica che, secondo il rapporto nazionale sulla salute, annualmente si rivolge allo psicoterapeuta il 5 per cento della popolazione, mentre ne avrebbe bisogno circa il 10 per cento». Numeri d’attualità, già confermati dal sondaggio svizzero sulla salute del 2007, secondo il quale il 4 per cento della popolazione manifesterebbe sofferenza psicologica elevata, ma soltanto un terzo di queste persone si sottopone a un trattamento, mentre il 13 per cento

della popolazione ha affermato di patire una sofferenza psicologica media, ma soltanto uno su dieci di essi si sottopone a una terapia. «La coscienza della malattia è un fattore importante nella decisione di intraprendere una psicoterapia», afferma lo psichiatra dottor Paolo Migone, condirettore della rivista «Psicoterapia e Scienze Umane» (www.psicoterapiaescienzeumane.it), fondatore della sezione italiana della Society for Psychotherapy Research e relatore del pomeriggio di studio. Egli si dice provocatorio quando osserva in prima battuta: «Quelli che vanno dallo psicoterapeuta sono spesso più sani degli altri, si dimostrano più maturi perché consapevoli di avere un problema che in tal modo oggettivizzano, esplorano e tentano di cambiare». Migone afferma altresì che comunque parecchie persone sono consapevoli della loro malattia, e bisogna riconoscere che ve ne sono di molto ammalate che pure intraprendono la via della cura. «Non dimentichiamo chi non se la sente di parlare dei propri problemi con un altro e quelli che temono di mettersi in discussione e scappano, mentre naturalmente ci sono persone sanissime che non entrano in terapia perché consapevoli del fatto che

tutti andiamo incontro a problemi esistenziali da risolvere, se si è in grado di farlo, per mezzo delle nostre risorse», ricorda il nostro interlocutore il quale porta pure ad esempio Woody Allen che della psicoterapia ha fatto un mezzo di ricerca interiore e un percorso di crescita personale. Restano i numeri a parlare chiaro: in Svizzera la metà delle persone che necessiterebbe una terapia psicologica non vi si sottopone per una serie di ragioni che possono essere individuate nelle osservazioni del dottor Migone, ma forse anche per altre ragioni di tipo puramente economico che ci fanno tirare in ballo l’ipotesi dei costi come pure della penuria di psicoterapeuti. «Più psicoterapeuti aumenterebbero però i costi per la sanità», afferma Felix Schneuwly, Head of Publich Affairs presso il servizio di confronto internet Comparis e in passato attivo per associazioni di psicologi e casse malati. Con differente avviso si è espressa la presidente dell’Atp, dottoressa Angela Andolfo Filippini: «Al momento le prestazioni degli psicologi specialisti in psicoterapia che lavorano in studio privato non sono riconosciute dalla LaMal e questo, ovviamente, costituisce un limite alle cure». La Cassa malati complementare copre di fatto solo una parte delle presta-

zioni fornite dagli psicoterapeuti privati, mentre le prestazioni di quelli che lavorano come dipendenti in delegazione presso uno studio psichiatrico rientrano nelle coperture di base. «Un altro elemento che scoraggia a volte le persone a richiedere un aiuto professionale specialistico è il mancato riconoscimento della dimensione psicologica del disagio, cosa che porta a percorrere strade “terapeutiche” altre che poco o nulla hanno a che fare con la capacità di identificare il problema e, quindi, di risolverlo». Eppure l’importanza della psicoterapia è dimostrata anche dalla ricerca, sebbene ancora troppo giovane e con risultati talvolta controversi, come afferma il dottor Migone: «In teoria è la ricerca che dirime le questioni inerenti la valutazione dell’efficacia e dell’importanza del trattamento psicoterapico. Ad esempio, la ricerca empirica ha dimostrato come la psicoterapia sia più indicata dei farmaci in date condizioni come la depressione, malessere dove la psicoterapia dà risultati simili se non migliori, più a lungo termine e con meno ricadute». Lo psichiatra ammette però che questi dati di ricerca empirica non sono molto diffusi: «Condizionerebbero la cultura medica a sua volta influenzata dalle case farmaceutiche. Eppure abbiamo sempre più numeri

che indicano come la depressione sia molto meglio curabile con la psicoterapia associata a qualche farmaco, se necessario». Il dottor Migone porta un altro esempio che concerne la schizofrenia: «In questo caso i farmaci sono utilissimi, ma è pure comprovato l’enorme beneficio della psicoterapia. In fondo, non possiamo pensare a una psichiatria unicamente farmacologica». Largo appoggio, dunque, alla ricerca sulla psicoterapia: «Da alcuni decenni è sorto un movimento mondiale molto importante che, attraverso la ricerca, vuole verificare nel modo più attento possibile l’efficacia di determinate tecniche psicoterapiche. Perché si tratta di un campo ancora molto giovane, che va esplorato, e dove esiste un ampio ventaglio di tecniche e metodi di trattamento per le differenti malattie». Orientarsi non è semplice e dipende molto dall’alleanza che si crea fra persona e terapeuta, senza sottovalutare neppure l’effetto placebo: «Soprattutto nei disturbi nevrotici come ansia e depressione non va trascurato l’effetto placebo: il conforto del terapeuta, poter parlare di sé e la soddisfazione delle aspettative di ascolto sono una potentissima cura», conclude il dottor Paolo Migone.


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Ambiente e Benessere Cucina di Stagione La ricetta della settimana

Tiramisù ai mirtilli Dessert Ingredienti per 4 persone: 4 bicchieri di circa 3 dl · 100 g di savoiardi · 1 dl di

vino dolce · 100 g di mirtilli · 2 cucchiai d’acqua · 6 cucchiai di zucchero · 2 uova fresche · 100 g di mascarpone · 1 dl di panna intera 1. Accomodate i savoiardi in un piatto piano e irrorateli con il vino dolce. Portate brevemente a ebollizione i mirtilli con l’acqua e 1/3 dello zucchero e fate raffreddare. 2. Separate i tuorli dagli albumi. Lavorate a spuma, con uno sbattitore elettrico, i tuorli assieme allo zucchero rimasto. Incorporate il mascarpone. Montate separatamente gli albumi e la panna ben fermi e incorporateli con cura alla crema di mascarpone. Distribuite a strati nei bicchieri i savoiardi, i mirtilli e la crema al mascarpone. Concludete con uno strato di crema e qualche bacca. Prima di servire, fate riposare i tiramisù in frigo per almeno 1 ora.

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Ambiente e Benessere

Alla scoperta del Panko e del Panir Gastronomia Il primo per ottenere un ingrediente fritto croccante, asciutto e leggero,

Di recente ho scoperto due prodotti asiatici che si possono benissimo integrare nella nostra cucina. Li condivido con voi. Il primo si chiama panko. È un pangrattato già pronto per essere usato, un dono dei giapponesi al mondo: viene impiegato nella copertura degli ingredienti da friggere. Come esattamente venga fatto e con cosa sia arricchito non mi è ancora chiaro, l’ho chiesto ad alcuni cuochi giapponesi amici e anche loro, che lo usano molto, non mi hanno saputo dire perché funzioni così bene. Però è davvero efficace: di fatto rende l’ingrediente croccante e questo, somma virtù, lo fa riducendo drasticamente la quantità di grasso che viene assorbita dall’ingrediente. In pratica rende il fritto croccante, asciutto e leggero. Oggi lo si trova in vendita praticamente in tutti i negozi etnici.

Una delle ricette più amate che vanta il panko quale ingrediente è quella per fare le crocchette di baccalà Ecco la ricetta delle amatissime crocchette di baccalà fatte col panko. Per circa 20 crocchette: lessate 100 g di patate e passatele ancora calde allo schiacciapatate, unite 1 noce di burro, 1 tuorlo e 1 presa di formaggio grana o sbrinz grattugiati. Mettete 300 g di baccalà ben bagnato e ben dissalato in abbondante acqua fredda, portate al bollore e fate sobbollire per 10’. Scolatelo, spinatelo e tritatelo, pelle compresa, che è molto buona. Mescolate il pesce con il composto di patate e abbastanza besciamella fino a ottenere un composto omogeneo. A questo punto, se si vuole avere un impasto a grana fine, passate al passaverdura – ma non è indispensabile. Formate tante pallottole

dalla forma allungata e passatele prima nell’uovo sbattuto e poi nel panko. Friggete le crocchette in olio di semi di arachide bollente, scolatele quando saranno dorate e lasciatele asciugare su carta assorbente da cucina. Cospargete con poco sale e servite subito. La seconda scoperta è il panir. Si tratta di una sorta di formaggio morbido tipico dell’India che si ottiene facendo cagliare il latte con l’aceto o del succo di limone: farlo è veramente facile. È un ottimo espediente per usare il latte avanzato ed è fantastico per arricchire antipasti, paste ripiene e salse. Da quando l’ho scoperto, lo faccio molto spesso e ne sono molto soddisfatto. Eccone la ricetta. Per circa 200 g di panir, mettete 1 litro di latte, sia intero sia parzialmente scremato, in una pentola e portatelo quasi al bollore; meglio ancora, se avete un termometro portatelo esattamente a 90°. Abbassate la fiamma, insaporite con 1 cucchiaino di sale o 1 cucchiaio di zucchero (l’uno o l’altro in funzione dell’uso che poi ne farete, ovviamente) e profumate – solo se volete – con un pizzico di curcuma o qualche pistillo di zafferano. Versate il succo filtrato di un limone o altrettanto di aceto non troppo intrusivo (comunque è meglio il limone) e mescolate con un cucchiaio. Dopo qualche minuto inizia a formarsi la cagliata. Spostate dal fuoco e lasciate riposare per 10’ circa. Passate il tutto attraverso un colino, in modo da separare la parte solida dal siero, il quale non andrà assolutamente gettato perché con il siero si può ottenere una sorta di ottima ricotta. Al posto del colino si possono usare stampi bucherellati per ricotta o le apposite fuscelle per formaggio in plastica o in vimini. Pressate delicatamente e passate in frigorifero per almeno un’ora. A questo punto il panir è pronto per essere gustato da solo, ottimo con del miele, oppure come base per molte preparazioni. Morale: curiosiamo sempre nelle altrui cucine, è una cosa che ci arricchisce molto più di quello che possiamo immaginare!

CSF (come si fa)

Giovandeste

Allan Bay

Sonja Pauen-Stanhopea

il secondo per godere di un formaggio morbido fatto in casa

Le carote sono la radice commestibile di una pianta erbacea dal fusto di colore verde, la Daucus carota, appartenente alla famiglia delle Apiaceae. Sono onnipresenti nella nostra cucina e in quella di tutto il mondo. Sappiamo che fanno bene alla salute, soprattutto se cotte – anche se quest’ultima cosa è un dettaglio meno noto e prima o poi ne parleremo – in quanto ricche di vitamina A (il famoso betacarotene), B,

C, PP, D ed E, nonché di sali minerali e zuccheri semplici come il glucosio. Vanno lavate molto bene, spuntate e privare dei punti neri con un coltellino. Non vanno mai pelate: se sono molto sporche spazzolartele selvaggiamente, ma non privatele della buccia, nella quale si concentrano le virtù di questa verdura. Ecco come si fanno tre classicissime e semplicissime preparazioni a base di carote. Carote alla crema. Per 4 persone: pulite 600 g di carote, tagliatele a julienne e sbollentatele per 1’. Scolatele, trasferitele in una casseruola e copritele a filo con panna fresca portata a bollore. Lasciate sobbollire fino a che la panna si sarà ridotta di circa due terzi, regolate di sale e di pepe, quindi servite. Carote glassate. Per 4 persone: pulite

600 g di carotine novelle o di carote tagliate a forma di oliva. Mettetele in una casseruola coperte a filo di brodo vegetale e aggiungeteci 1 filo di olio o 1 noce di burro, 2 cucchiai di zucchero (meglio se di canna) e 1 pizzico di sale. Portate a bollore poi fate sobbollire appena per circa 20’, mescolando. Se il liquido di cottura non si fosse già ridotto a sciroppo, alzate la fiamma per farlo ridurre alla giusta viscosità. Amalgamate bene le carote allo sciroppo e servitele. Puré di carote. Per 4 persone: pulite 600 g di carote, tagliatele a pezzetti e cuocetele al vapore per circa 20’. Scolatele, frullatele con il mixer a immersione, passatele al passaverdure e amalgamatele in una casseruola con burro e poco latte, a fuoco dolce, regolando di sale e di pepe.

Ballando coi gusti

Schiacciata di patate con olive, capperi, cipolle e peperoni

Manuela Vanni

Manuela Vanni

Oggi una semplicissima schiacciata di patate e un polpo cotto confit, ovvero cotto in un grasso a meno di 100°C molto, molto a lungo.

Polpo confit con patate, mela e olive Ingredienti per 4 persone: 2 polpi di circa 600 g l’uno · 800 g di patate · 1 cipolla ·

Ingredienti per 4 persone: 4 patate · 1 cipolla rossa · 1 peperone rosso · olive nere ·

1 mela verde varietà Stark · 30 g di olive nere taggiasche denocciolate · prezzemolo · olio d’oliva · sale · sale grosso e pepe nero.

capperi sotto sale · limone · olio di oliva · sale e pepe. 1. Lavate i polpi, aromatizzate con sale e pepe, metteteli in una teglia che li

Mondate la cipolla e tagliatela ad anelli. Mondate il peperone e tagliatelo a piccole falde. Dissalate molto bene i capperi e spezzettateli. Sciacquate le olive, denocciolatele e spezzettatele. Cuocete a vapore le patate per 30’. Scolate le patate, pelatele e schiacciatele grossolanamente con una forchetta. Mettetele in un piatto, arricchite con cipolle, peperone, olive e capperi. Condite con 1 pizzico di sale e 1 di pepe, succo di limone e 2 cucchiai di olio a testa e servite.

contenga appena, copriteli a filo di olio e cuoceteli in forno a circa 85°C (ma se sono 80°C o 90°C non cambia molto, basta stare sotto i 100°C) per 3 ore circa. Poi scolateli, fateli intiepidire e tagliateli a pezzi. L’olio si può usare per altre preparazioni, di pesce, ovviamente. 2. Lavate e pelate le patate. Soffriggete la cipolla tritata e unite le patate, bagnate con acqua, portatele a cottura e frullate, poi regolate di sale e di pepe. Tagliate la mela a dadi regolari, conservateli in acqua fredda. Mettete nel centro del piatto la crema di patate, sopra i polpi, il prezzemolo, i dadi di mela e le olive, quindi servite.


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Ambiente e Benessere

Lo chiamano legno morto Alberi e boschi In realtà è un prezioso materiale, fonte di vita e riparo per molti animali piccoli e grandi

– Quarta parte

Alessandro Focarile testo e foto «E anche dopo la morte, i rami caduti, i tronchi in disfacimento e i ceppi marcescenti offrono asilo e nutrimento alla più varia, ricca e preziosa comunità vivente. La Natura rinasce senza fine, rinnovandosi continuamente: sempre diversa, eppure sempre uguale a sé stessa». (Franco Tassi, 1996, direttore del Parco Nazionale di Abruzzo).

Dopo essere stato intensamente sfruttato per secoli dall’uomo, il bosco sta tornando alla situazione naturale La più o meno elevata quantità di legno «morto», in piedi oppure al suolo, esistente in ogni bosco naturale, origina l’insediamento e l’incessante dinamica di una ricca e composita fauna di invertebrati: artropodi (in massima parte insetti) e lumache. Si tratta di comunità (cenosi) pluri-stratificate. Tutti questi organismi abitanti nel legno decomposto, detti sapro-xilobi (dal Greco: saprós, decomposizione + xylon, legno) sono deputati alla degradazione del legno. Particolarmente significativi sono gli insetti coleotteri saproxilobi, in

quanto sono i relitti, giunti fino in epoca attuale, di una fauna ben più ricca e in gran parte ormai scomparsa a seguito della progressiva distruzione della grande foresta primeva che occupava in passato l’Eurasia (Urwald-Relikten). Un bosco «naturalmente» strutturato contiene anche questa componente (il legno deperiente), che contribuisce ad arricchire e diversificare (attraverso il suo incessante dinamismo) il quadro faunistico complessivo, grazie alla presenza di specie significative. Esse sono divenute ormai sporadiche e rare a seguito di una gestione silvo-colturale selettiva ai fini economici, e protrattasi nel tempo a seguito della continua e capillare presenza umana attraverso i secoli. Nelle Alpi e negli Appennini, dovunque questa presenza è testimoniata da spesso tenui documenti: un chiodo arrugginito, fili di ferro, resti di vecchie teleferiche, cicatrizzate incisioni nei tronchi di pino e di larice per ricavare la resina, vecchie carbonaie. L’uomo aveva bisogno del bosco e nulla era lasciato inutilizzato. Fino a un recente passato il bosco doveva essere «pulito», in quanto tutta la materia vegetale (anche deperiente), insieme con la lettiera, era regolarmente raccolta e asportata. Attualmente, diminuita o scomparsa la pressione umana, si assiste dopo secoli di intensivo sfruttamento a un ritorno alle

Una vecchia ceppaia sforacchiata dal picchio. Val d’Aosta.

situazioni naturali del bosco. Con la conseguente presenza della componente faunistica specializzata nell’utilizzo ottimale e a tutti i livelli della materia vegetale deperiente o morta. Ovvero della «necromassa» costituita di alberi cavi, tronchi, ramaglia, venendo a creare una composita e intricata quantità di microambienti, nicchie ecologiche, strutturata in termini temporali, in quanto il fine ultimo è la trasformazione in un prezioso e fertile humus, che alimenta e arricchisce i suoli forestali. Attualmente, le mutate situazioni

socio-economiche, la minore (o nulla) pressione antropica, e una diversa gestione del patrimonio forestale, stanno favorendo in alcune aree il lento ritorno a una situazione ambientale che tenta di ricostituire le passate situazioni «naturali». Argomento – se non ignorato – lasciato per lungo tempo unicamente all’interesse scientifico di entomologi ed ecologi, il capitolo «legno morto» è oggetto attuale di interesse generale da parte delle autorità forestali in diversi Paesi europei, nel quadro di una gestione naturalistica del bosco, e che prenda in considerazione tutti gli aspetti presenti, valorizzando e ampliando il concetto di ecosistema forestale. Nella provincia autonoma italiana di Bolzano (Alto Adige, Sud-Tirolo) vige già da qualche anno una normativa sui «Principi selvicolturali generali» (DPGP, 31 luglio 2000). All’articolo 14 essa dispone che «…la necromassa in piedi e a terra, nonché gli alberi cavi, devono essere oculatamente lasciati in bosco in quantità e con distribuzione adeguata». Inoltre, e grazie al progetto LIFE co-finanziato dalla Comunità Europea e dal Corpo forestale dello Stato, è in corso al Bosco della Fontana (Mantova) un’operazione che ha per scopo la conservazione e il ripristino dei micro-habitat del legno morto e dei vecchi alberi cavi. In concreto, la gestione del Corpo forestale dello Stato ha interrotto qualsiasi prelievo di

legno morto o deperiente, e protetto i vecchi alberi ancora esistenti, con l’esplicito fine di incrementare la presenza di questa materia vegetale. (Mason 2001, in AA.vari: La Foresta della pianura Padana). Esaminando in dettaglio la ricca e complessa fauna sapro-xilobia, che comprende anche i picchi che ricercano le «gamole» (le larve dei coleotteri longicorni), notiamo che essa è razionalmente suddivisa nelle seguenti componenti in funzione del differente grado di deperienza del materiale vegetale: 1. le specie che popolano i ben noti funghi legnosi (i polìpori) insediati sul legno più o meno marcescente, in piedi e al suolo. Parliamo di organismi che si cibano e veicolano le spore del fungo. 2. Le specie che utilizzano le essudazioni di linfa, la quale a contatto con l’aria tende a fermentare, generando liquidi zuccherini altamente aromatici e attrattivi. 3. Il numeroso contingente di specie che popola l’ambiente e i substrati legnosi sotto le cortecce: i «sub-corticicoli». Un composito ed eterogeneo assembramento di utilizzatori primari del legno marcescente, di consumatori dei miceli, delle ife, e dei micro-funghi quali sono le muffe. Infine, del corteggio dei predatori e dei parassitoidi (piccole vespe). Spesso molte di queste specie sub-corticicole hanno il corpo fortemente appiattito, che facilita loro gli incessanti spostamenti nell’esiguo micro-ambiente tra la corteccia e il legno sottostante. Fa nascere un nuovo albero. Ospita una miriade di rari e variopinti coleotteri, testimoni di antiche faune ormai scomparse. Il picchio trova grassocce «gamole» per sé e per i propri figli, che attendono famelici. Quando è secco, alberga stuoli di formiche, che ne accelerano la trasformazione. E per ultimo diventerà un fertile humus. Si può ancora parlare di «legno morto»? Bibliografia

Roger Dajoz, Les insectes et la forêt, Lavoisier Tec.Doc. (Paris) 1998, 608 pp. Francis W.M.R. Schwarze et al., Fungal Strategies of Wood Decay in Trees, Springer (Berlin, Heidelberg, New York), 2000, 185 pp. Thymalus limbatus, 4,5 millimetri.

Denticollis rubens, 8 millimetri.

Ampedus pomonae.

Endomychus coccineus.

Caryopteris per fioriture autunnali Mondoverde Un arbusto cespuglioso che attira in giardino api e farfalle

Anita Negretti Una delle fiabe che più mi ha fatto sognare da bambina è senz’altro quella di Barbablù. Lui, ricco e con quella lunga barba del colore del cielo, sposa l’ennesima donna con la quale si raccomanda di non entrare mai in una piccola stanzetta del suo meraviglioso castello. Ma lei, curiosa, durante l’assenza del suo sposo disobbedisce, trovandovi all’interno le teste mozzate delle ex mogli. Barbablù scopre il tradimento della promessa e tenta di ucciderla, ma accorrono i fratelli della moglie e fanno giustizia a loro modo togliendogli la vita. Ve la ricordavate? Se anche a voi emoziona questa fiaba di Perrault, portatevi un po’ della sua magia nel vostro giardino (o in un vaso sul terrazzo) diventando proprietari di una pianta che in Gran Bretagna e in America viene proprio chiamata Barbablù: sto parlando del Caryopteris x clandonensis. Perenne e rustico, è un bell’arbusto che creca un cespuglio con

portamento eretto, raggiunge al massimo i 150 centimetri e i suoi rami esili ricadono a fontana. Le foglie grigio-verdi, decidue in inverno, hanno un gradevolissimo profumo balsamico se spezzettate con le mani, ma la vera bellezza appare in

questi giorni di fine settembre, quando tutte le punte dei lunghi rami si ricoprono di ciuffi a forma di coroncina con vaporosi fiorellini blu-violetto, in grado di attrarre farfalle e api in cerca degli ultimi ghiotti bottini a cavallo dell’autunno.

Un esemplare di Caryopteris x clandonensis.

Benché l’origine sia Asiatica, la nascita di C. x clandonensis, che è un ibrido spontaneo, ha avuto origine in Europa in un giardino botanico, dall’incontro tra C. incana e C. mongolica. Non molto appariscente durante la primavera, dà il meglio di sé in tarda estate, quando esplode in tutta la sua bellezza blu intensa, da cui il nome Barbablù. Si coltiva in una zona possibilmente soleggiata, ma può sopportare anche un po’ di ombra; non richiede un terreno particolare, ma è sempre meglio aggiungere alla terra di coltivazione anche un poco di sabbia, per renderlo ben permeabile, ed eventualmente del letame maturo o del concime granulare a lenta cessione, che garantiranno il giusto apporto di sali minerali. Si accontenta di poca acqua anche se coltivato in vaso, ma richiede spazio per potersi sviluppare al meglio, da 60-70 cm fino a un metro e più, a seconda della varietà, per via del suo portamento disordinato, con rami che crescono un po’ in tutte le direzioni.

D’inverno perde le foglie e in primavera, lentamente, appaiono quelle nuove. Vi sono alcune varietà, come «Summer Sorbet» o «White Surprise» che hanno foglie variegate, veramente molto belle, con sfumature bianco crema o giallo oro sul verde intenso, che già caratterizzano la pianta anche senza i suoi stupendi fiorellini blu intenso. Un consiglio, per favorire una crescita più ordinata e contenuta, è di potare tutti i rami in modo energico dopo l’inverno: fiorendo sui rami dell’anno, all’inizio della primavera tagliate fino a due terzi la pianta accorciando tutti i rami fino quasi a raggiungere il legno vecchio (lasciate solo circa 5-10 cm di legno nuovo). Inoltre badate ad asportare eventuali rami deboli o rovinati dal gelo. Arbusti come il Caryopteris si inseriscono molto bene in qualsiasi giardino, ma vi consiglio di valorizzarlo all’interno di un bordo misto con gaure, aquilegie, abelie, lupini od ortensie, ricordandovi che la sua fioritura verrà senz’altro apprezzata da api e farfalle.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 29 settembre 2014 ¶ N. 40

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Ambiente e Benessere

Ambiente e Benessere

Sotto la minaccia del lupo Biodiversità Il ritorno di questo predatore preoccupa gli allevatori di montagna che si sentono

minacciati nella loro esistenza, nella loro sopravvivenza economica Peter Schiesser Risalendo la ripida strada che da Cevio, in Vallemaggia, conduce in Val Rovana si ha immediatamente la consapevolezza di entrare in un altro mondo. In questo rigido, per quanto stupendo, ambiente montano la città è lontana, geograficamente e nelle menti. Chi decide di vivere qui, lo fa per un innato e radicato senso di appartenenza al territorio, a un mondo che ancora resiste alla modernità. Un mondo che più vicino alla natura non si può, dedito perlopiù alla pastorizia e al turismo, che proprio un’icona dell’ecologia moderna – il lupo – mette oggi seriamente in pericolo.

Cerentino, dove il lupo negli ultimi tre anni ha sbranato 16 pecore e un agnello vicino all’abitato. (Stefano Spinelli)

Secondo le autorità federali il lupo è responsabile di 3/4 dei danni arrecati agli animali da reddito

dal suo ritorno si sente minacciato nella sua esistenza, nella sua sopravvivenza economica, come gli allevatori di montagna, i più esposti alle scorribande dei lupi, responsabili – stimano le autorità federali – di circa 160 predazioni all’anno (soprattutto pecore) dal 2005, ossia di tre quarti dei danni arrecati agli animali

Convivenza difficile, forse impossibile? Intervista Loris Ferrari, capo sezione

agricoltura del Dfe, sui problemi di applicazione della Strategia Lupo nazionale Maria Grazia Buletti Secondo l’Ufficio federale dell’ambiente (Usam), in Svizzera negli ultimi anni il numero di lupi è andato crescendo e nel 2012 si è formato il primo branco che vive ai piedi del massiccio del Calanda (GR). La presenza e il passaggio di questo grande predatore su territorio elvetico causa non pochi grattacapi agli allevatori (vedi articolo sopra), anche nel canton Ticino. Intanto le autorità federali si stanno adoperando nell’importante rivalutazione della Strategia Lupo e Lince. Sollecitato da un mandato del Parlamento e dalle esperienze acquisite negli ultimi anni, infatti, l’Ufam ha rielaborato nuove tattiche d’intervento, la cui procedura di consultazione è terminata il 5 settembre. Il risultato, che dovrebbe presumibilmente entrare in vigore nella primavera del 2015, pare però non soddisfare nessuno: né le associazioni a difesa della popolazione di montagna, né quelle ambientaliste e neppure gli esponenti politici. Ad esempio, l’esecutivo grigionese sostiene ora che il progetto sia adatto alla gestione di singoli lupi, mentre oggi si stanno formando sempre più veri e propri branchi e «dove i lupi vivono in branchi con rapida riproduzione si deve urgentemente trovare una nuova strategia più pragmatica». Il riferimento è chiaramente alla regione del Calanda (GR/SG).

Anche nel canton Ticino, come detto, vi sono stati alcuni episodi indicativi del passaggio del lupo e gli allevatori manifestano sempre più il loro disappunto circa la possibile convivenza con questo grande predatore. Ne abbiamo parlato con l’ingegner Loris Ferrari, capo della sezione dell’agricoltura del Dipartimento economia e finanze (Dfe). Qual è la posizione della sezione agricoltura del Dfe cantonale rispetto agli allevatori ticinesi e quali i margini di dialogo con la Confederazione?

Con la modifica dell’Ordinanza federale sulla caccia, a partire dal 2014 ai Cantoni è stato assegnato il compito, precedentemente assegnato dall’Ufam a privati, della consulenza agli allevatori nell’ambito delle specifiche misure di protezione. Sebbene con risorse limitate, l’ufficio della consulenza agricola ci permette di mantenere i contatti sul territorio, conoscere a fondo le caratteristiche delle aziende agricole e fare da ponte per la politica delle strategie dei grandi predatori che poggia sul concetto nazionale. Oggi possiamo annunciare l’avvio di uno studio (basato sull’analisi strutturale dell’applicazione di misure di protezione delle greggi in Ticino finanziato anche dall’Ufam) della durata di circa un anno, che sarà effettuato su tutto il territorio ticinese e permetterà di documen-

da reddito in Svizzera (circa 150 animali uccisi in Ticino dal 2001 al 2010). Ed è proprio per questo che il Consiglio federale ha elaborato un concetto per la gestione del lupo (e della lince) che prevede al contempo un’adeguata protezione degli animali da reddito. La strategia è chiara: i grandi predatori vanno salva-

guardati (in particolare, si può abbattere un lupo solo se ha ucciso 35 capi in quattro mesi o 25 capi in un mese), ma vanno protetti anche gli interessi degli allevatori. I problemi però sono tanti e non è detto che siano risolvibili (vedasi intervista con Loris Ferrari qui sotto). Ossia: a vincere la contesa sarà probabilmente il

lupo, a uscire perdenti i piccoli allevatori di montagna. Salire a Cerentino, nella frazione di Corsopra, per incontrare Eros Beroggi conferma la sensazione che la specie a rischio di estinzione oggi sia proprio l’allevatore di montagna, il quale, diversamente dal lupo, ha pochi amici e pren-

tare e approfondire il passaggio del lupo, soprattutto nella zona del Locarnese: la più soggetta, negli ultimi 10 anni, ad attacchi da parte di questo grande predatore. Dal canto suo, la Commissione delle bonifiche del Gran Consiglio ticinese ha già sposato la tesi secondo la quale, con il lupo, bisognerebbe considerare soglie d’intervento più basse. Come canton Ticino, si promuove l’agricoltura di montagna quale tassello fondamentale per l’economia locale e per il mantenimento della gestione del territorio che a sua volta rappresenta la premessa indispensabile per lo sviluppo turistico e, dal lato naturalistico, per la presenza di una forte biodiversità. L’arrivo del Lupo comporta problematiche specifiche da non sottovalutare per queste regioni già sfavorite economicamente. Di ciò dobbiamo essere responsabili, per cui abbiamo il dovere di mostrare alla Confederazione tali difficoltà oggettive date dalla conformazione del nostro territorio e dal tipo di allevamento che vi viene praticato, come il vago pascolo, che presenta peculiarità specifiche non comuni ad altri Cantoni.

Rimane la soluzione dei cani da protezione delle greggi, d’altronde fortemente consigliata nell’ambito delle misure di protezione del bestiame dal lupo. Anche questa è una misura di difficile attuazione nel nostro Cantone?

Secondo gli allevatori il territorio variegato e l’allevamento specifico di caprini e ovini limitano la possibilità di convivenza con il lupo. Ci permetta di approfondire questi concetti attraverso esempi concreti e problematiche esposte dagli allevatori e dalle aziende agricole.

La realtà ticinese presenta un territorio di montagna, con tante valli principali e altrettante laterali: un territorio impervio e piuttosto avaro a livello di buone superfici agricole, dove si è riusciti a praticare un’agricoltura e un allevamento che però esigono alcuni accorgimenti di cui un territorio più vasto e pianeggiante non avrebbe bisogno. Mi riferisco, ad esempio, all’allevamento della capra Nera Verzasca: un animale selezionato dagli allevatori

de atto con frustrazione di non venire ascoltato e per nulla capito, nei suoi timori esistenziali. Le sue 80 pecore madri e i 60 agnelli sono ancora su al pascolo, a 2300 metri, sopra Bosco Gurin, in compagnia di tre lama («abbiamo letto che negli Stati Uniti li usano contro i coyote, è forse un palliativo ma il lama ha l’istinto dendo nella stalla queste piccole greggi, perché non vi sarebbe sufficiente foraggio per nutrirle. Comperarlo comporterebbe una spesa insostenibile e ne andrebbe di mezzo anche la qualità dei prodotti lattieri, arricchita dal pascolo libero sul territorio. Le recinzioni, poi, sono impraticabili in molte zone proprio perché impervie e distanti ore di cammino dai centri aziendali. Questa singolare situazione specifica del nostro Cantone aumenta le difficoltà oggettive di convivenza con il lupo.

Franco Banfi

Oltre un secolo dopo essere stato sterminato, il lupo ha fatto la sua ricomparsa in Svizzera nel 1995. Oggi vivono stabilmente nel nostro Paese da 25 a 30 lupi e si prevede che la popolazione continuerà ad aumentare, fino a colonizzare, dopo le Alpi, le Prealpi e il Giura. Scomparsa l’atavica paura del lupo, poiché la popolazione si è convinta che questo schivo animale non attacca l’essere umano, molte persone hanno salutato con entusiasmo il suo ritorno, in nome della biodiversità (ne abbiamo riferito a più riprese su «Azione»). A loro volta, le autorità federali, in ossequio alla Convenzione di Berna del 1979 sulla conservazione della vita selvatica e dei suoi biotopi, hanno deciso di considerare specie protette i grandi predatori (lupo, lince, orso, sciacallo dorato). Ma il lupo non ha solo amici. C’è chi

proprio perché, grazie alla sua rusticità e capacità di spostarsi, riesce a trovare negli alpeggi impervi e poveri il nutrimento che necessita e trasformarlo in latte e carne di alta qualità. Anche se l’allevatore dovrà dedicarsi alla mungitura sulle cime, alla raccolta del foraggio nelle poche zone pianeggianti che lo producono, il fatto che queste capre possono restare all’aperto quasi tutto l’anno diminuisce i costi e permette a questo tipo di allevamento di

sostentare l’allevatore che di ciò vive. A fronte di questo tipo specifico di allevamento, basato sul maggior benessere e sulla libertà del bestiame (ovini e caprini per la maggior parte), diventa difficile trovare una forma di convivenza con il lupo: queste piccole greggi vivono in montagna e vanno all’alpe dove trovano le necessarie risorse che il fondovalle, piccolo e molto conteso, non può offrire loro. Impensabile, dunque, prevenire l’attacco del lupo chiu-

I cani da protezione delle greggi potrebbero in realtà avere una certa efficacia, e in alcune aziende sono già impiegati con discreto successo. Tuttavia al momento non è possibile trovare sufficienti cani appositamente addestrati, anche se la Confederazione ci sta lavorando. Non è comunque una misura di difesa di facile attuazione. I centri di competenza di allevamento di questi cani stanno strutturando la cosa, ma non è scontato che ogni azienda, dopo un periodo di attesa che oggi si aggira anche fino ai due anni, riesca a ottenere il proprio cane: bisogna prima passare un approfondito esame di idoneità e sottostare a valutazioni che certifichino che il cane è compatibile con l’azienda che lo richiede. Se, ad esempio, l’azienda è ubicata in luoghi di passaggio di escursionisti, i cani da protezione delle greggi diventano problematici a loro volta. In un territorio libero, dove si punta parecchio sul turismo, questo aspetto non è da sottovalutare. Si sta pure cercando di addestrare questi cani a tollerare la presenza dei rampichini, fatto per nulla scontato. Dunque: le caratteristiche ideali che spesso in Ticino non sono ottemperate,

del pastore, e noi ci sentiamo un po’ più tranquilli»). In casa ci accolgono Eros, 43 anni, da venti alla guida dell’azienda agricola ereditata dal padre, dopo aver imparato un mestiere nell’edilizia, da 14 anni di casa a Cerentino, e sua moglie Eliana, 42 anni, un passato di infermiera, madre di quattro ragazzi fra i 9 e i 17 anni. Il loro reddito deriva interamente dalla vendita degli agnelli e dai pagamenti diretti previsti dalla legge sull’agricoltura. C’è gentilezza nei loro modi, passione per la vita che conducono in queste montagne nelle loro parole, ma anche rassegnazione nell’animo: si sentono soli, incompresi e impotenti in questa lotta contro il lupo per la loro sopravvivenza (economica). I coniugi Beroggi hanno perso una pecora gravida nell’ottobre 2013, e nell’aprile di tre anni fa una pecora e un agnello, uccisi dal lupo poco fuori casa, quindi vicinissimo all’abitato. A un loro vicino è andata peggio: l’anno scorso un lupo ha ucciso 14 pecore nei prati poco al di sopra di Corsopra. E da allora qualcosa dentro di loro si è rotto. «In quel periodo, mi guardavo sempre le spalle, mi ha fatto impressione vedere un montone di 70 chili morto, dilaniato dal lupo. Mi dicono che non attacca le persone, ma di lasciar fuori casa da soli i miei figli piccoli, non mi fidavo» ricorda Eros, ed Eliana aggiunge: «forse la paura non è motivata, però c’è!». Le bestie predate dal lupo vengono indennizzate, per l’80 per cento dalla Confederazione e per il 20 per cento dal Cantone, a patto che l’animale venga ritrovato e che possa essere prelevato il DNA e verificato il tipo di morso, per comprovare l’attacco del lupo. Ma per Eros e per altri allevatori è una magra consolazione: «Innanzitutto per me una pecora non vale l’altra, quel capo l’ho selezionato, cresciuto, nel caso specifico i figli si erano affezionati a quell’agnellino ucciso dal lupo, lo avevano chiamato Rossino. E poi un attacco del lupo genera tutta una serie di costi che vanno al di là del valore della singola pecora: il gregge va tenuto al sicuro, quindi va comprato fieno e paglia, vanno cercati i capi uccisi, devo salire molto più spesso all’alpe perché le pecore sono spaventate; tre anni fa ho calcolato costi per 5000 franchi, me ne sono stati riconosciuti 3000 in via del tutto eccezionale». insieme al fatto che la domanda di questi cani supera di gran lunga l’offerta, rende difficilmente praticabile anche questa soluzione: chi oggi viene confrontato con l’attacco del lupo, avvenuto d’altronde anche dentro le recinzioni elettriche, è esposto a grandi rischi che non siamo in grado di ridurre efficacemente.

Eros Beroggi: «non c’è futuro ad allevare pecore quassù, a causa del lupo, lotti contro una forza insuperabile». (Stefano Spinelli)

Eliana ed Eros sono pessimisti, «non c’è futuro ad allevare pecore quassù in montagna, a causa del lupo, lotti contro una forza insuperabile. Vent’anni fa siamo partiti tranquilli, volevamo ingrandirci, costruire un essicatoio, oggi ci sentiamo frenati. Andiamo avanti, ma con pensieri e mal di pancia. E se il lupo ti fa fuori mezzo gregge non ricominci più. A noi questa precarietà pesa». Non credono nelle misure di protezione delineate da Berna, non le ritengono adeguate alla conformazione del loro territorio e non tengono conto della realtà dei piccoli allevatori: un pastore non se lo possono permettere, restare sempre a fianco del gregge è impossibile, perché ci sono i prati da falciare e altri lavori da fare mentre le pecore pascolano; un cane di protezione non è così facilmente ottenibile e anch’esso non dà garanzie assolute, inol-

tre può creare problemi con gli escursionisti e altri cani; recintare i pascoli in alta montagna è impossibile, come impossibile è metterli al riparo in una stalla durante l’estivazione sui pascoli. E raccontando le difficoltà che incontrano, esce anche un’amarezza covata da anni: «Ci sentiamo dire che siamo dei lazzaroni, che non vogliamo adeguarci, eppure se ci fosse una soluzione noi la adotteremmo volentieri! Ma una soluzione per noi deve anche stare in piedi economicamente». Eros non ha ancora perso la speranza che i politici cambino idea e rivedano al ribasso la soglia di capi predati che permetta l’abbattimento di un lupo, ma è una speranza che per ora resta delusa. Alla fine dell’incontro andiamo a scattare qualche fotografia sul luogo in cui il lupo uccise le 14 pecore del vicino. «Il lupo è un bell’animale», dice Eros,

e tornano in mente i discorsi sulla biodiversità da conservare, arricchita dai grandi predatori, «ma anche noi, piccoli allevatori di montagna, siamo parte della biodiversità, manteniamo i pascoli, evitiamo che il bosco e l’erosione avanzi. Io non mollo, ho diritto anch’io di sopravvivere quassù. Ma ha davvero ancora senso?». Eliana si accomiata parlando del marito: «lui è legato ai suoi luoghi, ai suoi prati, ma il lupo è una legnata, per noi. Certo, Eros può tornare a lavorare sui cantieri e io come infermiera, ma dovremmo reimpostare tutta la nostra vita». Sì, il lupo sta tornando laddove l’uomo lo cacciò un secolo fa. Ma un mondo, quello della pastorizia montana che nei secoli scorsi ha permesso all’essere umano di sopravvivere in questi luoghi impervi e severi, sembra destinato a perire.

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La nuova Strategia Lupo prevederebbe la possibilità di regolare le popolazioni protette, purché ne sia garantita la sopravvivenza e, a determinate condizioni, di semplificare l’abbattimento di singoli esemplari. Queste misure potrebbero soddisfare le esigenze dell’allevamento ticinese?

Non posso che ribadire la nostra realtà: ci si sta rendendo sempre più conto che il nostro territorio è variegato e gli allevamenti sono piccoli e molteplici, ubicati in zone spesso impervie che creano già di per sé situazioni difficoltose per il mantenimento della nostra agricoltura di montagna. Il nostro territorio, infine, presenta poche superfici foraggiere ampie e produttive (spesso già utilizzate dall’allevamento bovino) e questo complica ulteriormente l’attuazione di misure di protezione altrimenti possibili in Cantoni dove l’estensione agricola è ben diversa dalla nostra e le risorse, dunque, più ricche. Il tipo di allevamento particolare (soprattutto quello caprino che affonda le sue radici nell’800 e allora era stato determinante per il sostentamento delle popolazioni delle Valli), la conformazione del territorio e le sue ridotte dimensioni con le conseguenti oggettive difficoltà ad attuare le misure di protezione dai grandi predatori, la penuria di cani da protezione delle greggi non permettono un grande margine di manovra. Una domanda è legittima, a questo punto: che valore vogliamo dare a questa fragile realtà che resta essenziale per la vitalità e la biodiversità del nostro territorio alpino e che altri hanno già perso?

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Ambiente e Benessere

Viaggi e tatuaggi Viaggiatori d’Occidente Da simbolo d’infamia e di esclusione sociale a elogio della trasgressione,

Claudio Visentin Il tatuaggio, insieme ad altre forme di manipolazione del proprio corpo, è oggi pienamente accettato e anzi di moda, ma per secoli è stato un simbolo d’infamia e di esclusione sociale: nell’antica Roma per esempio identificava gli schiavi e i gladiatori. Ancora nell’Ottocento l’esercito inglese marchiava con la «D» i disertori catturati e anche in tempi più vicini a noi i tatuaggi segnavano il corpo di carcerati (pensate al romanzo Educazione siberiana di Nicolai Lilin), prostitute e altri marginali. Furono i grandi viaggi di esplorazione nel Pacifico nel Settecento a cambiare per sempre l’immaginario legato al tatuaggio. Questa nuova parola fa la sua comparsa quando James Cook torna dal suo primo viaggio nei mari del sud (1768-1771) e racconta: «Uomini e donne si dipingono il corpo facendo penetrare del colore sotto la pelle in modo che rimanga indelebile». Il termine tahitiano tattow riproduce il suono onomatopeico «tau-tau» dello strumento utilizzato per incidere le carni. L’eco delle sue parole si avverte anche nei racconti di Louis Antoine de Bougainville, approdato a Tahiti nel 1768, pochi mesi prima di Cook. L’esploratore francese contribuisce più di ogni altro all’idealizzazione dell’isola e alla tessitura di un immaginario esotico dove l’umanità vive felice benché ignara del progresso. I tatuaggi hanno

grande spazio nel suo racconto: «Mentre in Europa le donne si tingono di rosso le gote, quelle di Tahiti si tingono di turchino le reni e le natiche: è un ornamento e, insieme, un segno di distinzione. Gli uomini sottostanno alla stessa moda». I marinai di queste prime spedizioni si lasceranno presto tentare. Nel 1789, dopo un lungo e felice soggiorno a Tahiti con finalità botaniche, i marinai del leggendario «Bounty» si ammutinano al loro capitano William Bligh. Questi viene abbandonato in mare aperto su di una lancia coi marinai a lui fedeli, ma riesce miracolosamente a salvarsi e, giunto a Timor, diffonde una lettera in cui descrive gli ammutinati. Il primo della lista è il loro capo, il suo secondo Fletcher Christian: segni distintivi una stella tatuata sul petto a sinistra e altri tatuaggi sui glutei. Il rivoltoso era tatuato. L’incontro con i Maori in Nuova Zelanda destò maggiore apprensione perché questi bellicosi guerrieri erano soliti tatuarsi anche il volto con profondi solchi, utilizzando al posto degli aghi una specie di scalpellino d’osso, mentre i tahitiani e gli altri popoli del sud-est asiatico si limitavano al corpo. Sono sempre uomini di mare i primi entusiasti: nel 1828 torna a Bristol dai mari del sud un marinaio inglese, John Rutherford, completamente coperto di tatuaggi, anche in faccia, alla maniera maori. Questi tatuaggi tribali, mai completi, che con i loro forti segni neri accompagnavano tutta la vita

Kris Krüg

fino a diventare uno sfregio di moda

dei guerrieri, saranno poi riscoperti in forma semplificata negli anni Ottanta del Novecento dalla cultura punk rock americana, con una deliberata volontà di apparire selvaggi, estranei alla società occidentale. L’immaginario legato al tatuaggio si ampliò ancor più alla fine dell’Ottocento con l’apertura del Giappone al mondo. Anche in quel Paese i tatuaggi erano guardati con diffidenza dalla cultura ufficiale: nella regione di Tama si tatuava in fronte ai criminali «cane» e a ogni condanna veniva inciso uno dei quattro segni di cui era composto tale ideogramma, così che solo i reci-

divi potevano ostentare il tatuaggio completo. Durante lo shogunato dei Tokugawa anche i samurai ricorrevano al tatuaggio, ma solo per rendere possibile l’identificazione del corpo nel caso fossero spogliati delle vesti e delle armi dopo la morte. Ma in Giappone, al di fuori degli ambienti più rispettabili, fiorisce un’arte sofisticata e complessa del tatuaggio, con nuovi temi (draghi, pesci) e delicate sfumature di colore, che sedurrà molti europei appartenenti alle classi elevate. Infatti, mentre i tatuati venivano esposti come un’attrazione nei circhi, compreso il famoso Bar-

num, molti aristocratici, ufficiali e alti funzionari britannici cominciarono con discrezione a farsi tatuare prima di tornare a casa dall’Oriente. Il principe di Galles, che salirà al trono col nome di Edoardo VII, per ricordare un viaggio si era fatto tatuare sul metacarpo un drago da un famoso tatuatore giapponese, Soyo. Sir Randolph Churchill, padre del più famoso Winston, ministro per l’India, aveva un serpente tatuato sul braccio. E perfino Nicola II, ultimo sfortunato zar, aveva sulla pelle un tatuaggio giapponese. Particolarmente ricercati erano i tatuatori nei porti franchi di Yokohama e Nagasaki. Nel Novecento la passione per i tatuaggi ha infranto ogni limite di età o classe sociale, perdendo interamente il suo originario carattere trasgressivo. Un risultato paradossale, se pensiamo che mentre la pratica del tatuaggio si diffondeva in Occidente nei luoghi d’origine veniva combattuta e spesso estirpata dai troppo zelanti missionari, insieme ai liberi costumi amorosi, alla musica e alle danze tradizionali. Negli ultimi anni sono stati proprio i viaggiatori occidentali a riportare in quei luoghi la pratica del tatuaggio, in una sempre più consapevole ricerca delle radici e degli originari significati di questa meravigliosa arte. Bibliografia

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Ambiente e Benessere

Non si dica più «aspettiamo i playoff» Sportivamente Il campionato di hockey su ghiaccio è iniziato

Alcide Bernasconi Quelli dell’hockey sembrano possedere finalmente la ricetta infallibile per attirare la gente allo stadio. Certo, questo non era il problema dello Schlittschuh Club (SC) Berna, che riempie fino all’ultimo posto il suo vecchio stadio dell’Allmend, anche lui ribattezzato – credo – con il nome dello sponsor principale seguito dall’immancabile «Arena». Una fine (o un principio? Vedete voi) che farà anche la Valascia se un giorno sarà costruita ex novo, dove un tempo atterravano e decollavano Vampire e Venom con il compito di difendere il territorio dalla minaccia dei rossi, con tanto di profumo di stallatico sparso per i campi da volenterosi contadini. Odore di letame, che ti accompagnava fin sulla soglia della vecchia Valascia, per la vicinanza di un paio di stalle. Ma ora basta: lì, dove un tempo sentivi il muggito di una vacca ora si beve champagne e si assiste alla partita da alcune suite di lusso, pasteggiando, come a New York, San Pietroburgo o Stoccolma e in mille altre arene che hanno cancellato il ricordo delle prime piste di ghiaccio. Anche a Lugano resiste il vecchio nome «Resega», dove suppongo un tempo ci fosse nei paraggi una segheria, denominata dai nostri nonni e bisnonni anche Ressiga; con due esse che sembravano un monito, rievocando il rumore

dello strumento che diventava pericoloso se non usato con la necessaria… concentrazione. Ora, da quelle parti, la parola «concentrazione» è sulla bocca di tutti, ma per altri motivi. Dirigenti, staff tecnico, giocatori e pubblico. Sono tutti d’accordo: solo affrontando l’avversario usando la concentrazione in dosi sempre più consistenti si può aspirare ai successi e ai posti più alti della classifica. Qualche errore lo fanno tutti, stranieri compresi, ma è indubbio che negli ultimi anni – tre, quattro, forse anche cinque – il livello di gioco sia continuato a salire nel nostro massimo campionato di hockey per merito di tecnici di valore, giocatori stranieri, che sanno trasmettere (non tutti, ahimé!) ai compagni di gioco qualità, e giocate che arricchiscono in qualche caso il loro repertorio. Ecco spiegato anche il motivo per cui la medaglia d’argento conquistata dalla Svizzera, dopo nove vittorie filate contro gli avversari più prestigiosi, ai Campionati del mondo di Stoccolma 2013 non giunse per caso. I rossocrociati furono battuti soltanto nella finale dai padroni di casa, del resto superati dagli svizzeri nella fase di qualificazione. Non a caso i giocatori nordici approdati alle nostre parti, pur dimostrando di possedere tutti i requisiti per meritarsi l’ammirazione del pubblico, oltre che degli esperti, devono rimboccarsi le maniche e dar sempre prova

di massima concentrazione. La cosa vale per i canadesi, gli statunitensi e altri campioni di indubbia esperienza per rispondere alle aspettative dei club che li hanno ingaggiati. Ma torniamo al punto iniziale delle nostre riflessioni: il pubblico dell’hockey chiede emozioni. Neppure troppe reti, perché si corre il rischio che i giocatori ci prendano gusto (anche gli avversari) e perdano un po’ della concentrazione che non possono mai abbandonare. Pochi ma decisivi gol dunque, ma tante emozioni, quello sì. Una partita che si decide allo scadere con la vittoria della squadra per la quale si fa il tifo è il massimo per un venerdì o un sabato sera. Altrimenti ci sono i cinque minuti supplementari e, non bastasse, la decisiva sfida ai rigori. Emozioni che si aggiungono alle emozioni, in un gioco diventato sempre più veloce, con un ingaggio fisico che ormai fa sorridere ripensando ai tempi della così detta «tolleranza zero». Gli allenatori chiedono molta decisione negli interventi. La preparazione fisica, non soltanto quella estiva, ha fatto un deciso salto di qualità. Finiti i tempi in cui alcuni si presentavano alla rimessa in moto estiva con pancette che denunciavano un eccesso di chiamiamole pure libagioni. Colpa dei tifosi che invitavano spesso e volentieri i loro eroi attorno ai tavoli di un grotto, per il piacere di dimostrarsi ospitali e per strappare la promessa di un

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con un’intensità del tutto sconosciuta fino a poco tempo fa

grande campionato. No, ora la musica è cambiata e chi sgarra (c’è sempre) deve stringere poi i denti per rimettersi in riga e non rischiare di perdere la fiducia del tecnico. Il campionato, quando scatta, non ha riguardo ormai per nessuno. Finita la ricerca del giusto assetto nelle prime gare del torneo, perché le corse si facevano serie soltanto quando la lotta diventava agguerrita per l’accesso ai playoff. Ora i punti contano subito: guai a perdere, perché sono tre punti che se ne vanno, e pure il pareggio, che assicura almeno un punto, è bene accetto soltanto nel caso in cui si è rincorso il risultato con tutte le forze, raggiungendo l’avversario che pensava di avere la partita vinta. La classifica indica chiaramente quanto vicini siano al momento le forze della varie squadre. Dopo cinque giornate (ossia prima di un weekend sul quale ci è tecnicamente impossibile riferire per i tempi di chiusura del giornale) annotiamo un accresciuto valore del Lugano, partito abbastanza bene (ma un paio di punti in più non avrebbero guastato, poiché meritati); un Berna che si è fatto roccioso come mai lo si era visto nella passata stagione, quindi desideroso di riscatto; uno Zugo che non può permetter-

si di finire invischiato un’altra volta nel fondo della classifica. Se i campioni dello Zurigo capeggiano la classifica, lo devono alla gara in più, vinta contro il Rapperswil, ma nella retroguardia è già una bella lotta alla quale intende partecipare anche il Bienne che punta ai playoff così come l’Ambrì Piotta, con una squadra rinnovata negli stranieri attesi a un salto di qualità necessario, così come da parte di quasi tutti per centrare l’obiettivo più alto possibile. La fatidica riga della classifica «imprigiona» un quartetto inatteso: il Kloten, finalista la scorsa primavera, all’asciutto di punti dopo cinque giornate ma con una squadra in possesso di elementi che sanno il fatto loro; il Losanna, che fece ammattire nell’ultimo campionato più di un avversario e ora punta a riprendere una posizione più consona alle proprie ambizioni. Che dire poi del Friburgo che ha totalizzato gli stessi punti di Ambrì e Rapperswil? Nulla, se non che ci attendono altre emozioni a getto continuo e non più come quando a qualcuno sfuggiva una frase terribile per qualsiasi dirigente, tecnico, giocatore o autentico appassionato di hockey: «Aspettiamo i playoff…». Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia Obama all’Onu Appello del presidente: l’Isis va distrutto, il mondo e l’Islam si uniscano agli Usa

L’internazionale del terrore Nel Pakistan di Zardari e dintorni gli studenti di teologia del califfato islamico chiamano alla Jihad e muovono le loro pedine come i Talebani afghani nei primi anni 90 pagina 27

Dilma o Marina? Il Brasile va alle urne il 5 ottobre per il primo turno delle presidenziali. La grande sfida sarà tutta a sinistra fra la presidente uscente e il nuovo volto della sinistra, Marina, che piace alla destra pagina 29

AFP

pagina 25

La prudenza di Erdogan Turchia-Isis Unico Paese Nato a condividere un confine con Iraq e Siria dove si estende il «califfato» sunnita, Ankara

evita di schierarsi fino in fondo con l’alleanza occidentale e cerca di far fronte al problema dei profughi curdi Lucio Caracciolo Al centro della mischia mediorientale oggi imperniata sulla guerra allo Stato Islamico del «califfo» Abu Bakr al-Baghdadi c’è la Turchia di Recep Tayyip Erdogan, appena insediato alla presidenza della Repubblica. L’aspirante sultano/califfo neo-ottomano è intenzionato a reggere il timone ad Ankara almeno fino al 2023, per celebrare il centenario della repubblica di Atatürk. Del quale Erdogan condivide una certa mania di grandezza personale e di rinascita della potenza turca, non però l’apertura all’Occidente laico – meglio: miscredente – poco consentanea alla sua formazione islamista. Come e perché questa Turchia si è implicata in una partita che rischia di minarne la sicurezza e di indebolirne la formidabile crescita economica, sperimentata nel primo decennio di leadership dell’Akp – il partito islamico «moderato» – di cui Erdogan è il capo incontrastato? La radice di tutto sta nella strategia geopolitica piuttosto grandiosa nota come «zero problemi con i vicini», battezzata dall’ex ministro degli Esteri

Ahmet Davutoglu, oggi primo ministro. Un piccolo Kissinger del Bosforo, che del grande statista statunitense condivide il background accademico ma non la sobrietà – gli avversari e i detrattori preferiscono chiamarla cinismo. In una frase, l’approccio di Davutoglu si è rivelato superiore alle risorse disponibili. Qual era il progetto originario della leadership islamista, così come tratteggiata da Davutoglu nel tomo Profondità strategica e in diversi saggi, popolarizzata poi dallo stesso Erdogan nei suoi effervescenti discorsi pubblici? La Turchia prendeva atto che con la fine della Guerra fredda essa veniva a trovarsi in una collocazione geopolitica nuova: non più avanguardia della Nato a Oriente, sul fronte del contenimento dell’Unione Sovietica, ma potenza autonoma nel vuoto prodotto dal suicidio dell’impero di Mosca. Questo subitaneo crollo dell’avversario secolare degli ottomani apriva ad Ankara orizzonti promettenti. Di qui il protagonismo turco, lungo tre direttrici di penetrazione: quella neo-ottomana, specie nei Balcani e nel Levante; quella pantura-

nica, che faceva leva sulle affinità etnico-culturali, verso l’Asia Centrale (Turkestan Occidentale) e la stessa Cina (Xinjiang, ossia il Turkestan Orientale, popolato da una popolazione turchesca, l’uigura, e segnato dalla cultura musulmana); infine quella panislamica, che mirava a riportare la Turchia al centro dell’ecumene maomettana, come ai tempi d’oro del sultano/califfo (l’ultimo vicario del Profeta, il povero Abdülmecid II, fu pensionato nel 1924 da Atatürk, per dedicarsi alla ritrattistica). Vasto programma, avrebbe sentenziato il generale de Gaulle. Troppo vasto, constatiamo noi oggi. All’incrocio delle direttrici neoottomana e panturanica troviamo anzitutto Siria e Iraq, terreno di elezione delle campagne anti-terrorismo di Bush figlio, dal 2003 al 2008, oggi della guerra civile scatenata dalla rivolta contro il regime di Damasco. Dalla prima Erdogan preferì tenersi fuori. Era ancora nella fase fondativa del suo progetto geopolitico. Nella seconda è dentro fino al collo. Da quando, tre anni fa, decise di rompere con Bashar al-Assad, fin’allora amico di famiglia

e compagno di vacanza, nella certezza di poter insediare a Damasco una leadership di stretta osservanza filo-turca, riaffacciandosi così in quel mondo arabo dal quale l’impero ottomano era stato espulso in seguito alla disfatta nella Prima guerra mondiale. Il progetto non ha funzionato. AlAssad è ancora al suo posto, sia pure sulle macerie del suo Paese. I ribelli di varia taglia e diverse ambizioni che Erdogan pensava di avere in tasca e manovrare come pupazzi, si sono rivelati insieme inefficienti e intrattabili. Specie nella componente jihadista, che ha presto avuto ragione dei rivoluzionari «laici» della prima ora, esponenti della società civile colta e filo-occidentale, dunque necessariamente ultraminoritari. Fra le schegge jihadiste più o meno foraggiate dalle petromonarchie arabe e dallo stesso Erdogan, è emerso lo Stato Islamico, già Stato Islamico dell’Iraq e del Levante. L’organizzazione del molto virtuale «califfo» al-Baghdadi, impegnata a innalzare la bandiera nera dell’islam salafita sui territori arabosunniti a cavallo dell’ormai teorico confine fra Siria e Iraq. Un caso da ma-

nuale di inversione del rapporto servopadrone, che avrebbe probabilmente indotto Hegel a ritoccare le pagine ad esso dedicate nella Fenomenologia dello spirito. E adesso? La Turchia evita di schierarsi fino in fondo con la assai variopinta «alleanza» allestita da Obama contro lo Stato Islamico, per non esporsi troppo in una mischia nella quale rischia di dissanguarsi. Già oggi centinaia di migliaia di profughi fuggiti dalla Siria e dall’Iraq affollano i campi profughi turchi, mentre i curdi siriani e iracheni, rafforzati dall’appoggio americano, pongono le basi del futuro Kurdistan, la cui propaggine occidentale affonderebbe in Anatolia, a minacciare l’integrità della Repubblica Turca. Sigillare la frontiera con l’area in mano al «califfo» è operazione improbabile e costosa, sotto ogni punto di vista. Se potesse, Erdogan tornerebbe forse indietro, a stringere la mano all’ex amico al-Assad. Ma non può farlo. Non gli resta che gestire la doppia emergenza «califfato»-Kurdistan, sperando si esaurisca presto, come una tempesta nel deserto. Difficile.


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Politica e Economia

Guerra totale ma non all’Islam Obama all’Onu Il presidente americano al Palazzo di Vetro parla come un leader di guerra, rilanciando quel ruolo

di gendarme del mondo che solo un anno fa ne aveva teorizzato il ritiro

La metamorfosi di Obama, da guerriero riluttante a leader della grande coalizione contro i jihadisti, è impressionante. Il cambiamento di linguaggio e di tono del presidente, da un’assemblea generale dell’Onu all’altra, ha colpito tutti gli osservatori in America e all’estero. «Oggi parla come un leader di guerra», nota il «New York Times», mentre un anno fa aveva teorizzato un ritiro dell’America dal ruolo di gendarme del mondo. Un altro elemento che intriga gli esperti è Khorasan, «la cellula del terrore che evitò a lungo i riflettori», come lo definisce ancora il «New York Times». Chi sono esattamente questi transfughi di Al-Qaeda che tramano attentati contro Europa e Stati Uniti? E per il «Washington Post» i raid aerei contro Khorasan «non sono un K.O.», anche se puntano al cuore della risorsa economica dei jihadisti, cioè i pozzi petroliferi caduti nelle loro mani. Un altro retroscena importante in questa fase è la rinascita di un’alleanza di ferro tra l’America e l’Arabia Saudita, il patto segreto che ha aperto la strada ai raid aerei congiunti, a cui hanno partecipato da una settimana ben cinque Paesi arabi. Le convergenze a sorpresa non si fermano qui. È da notare anche la concordia improvvisamente sbocciata nel triangolo delle superpotenze Usa-Russia-Cina, che ha consentito il voto unanime della risoluzione Onu al Consiglio di sicurezza: contro i jihadisti l’interesse è comune visto che Putin ha i suoi ceceni e la Cina è alle prese con gli uiguri. L’Occidente non è solo in questa sfida. E anche il presidente iraniano Rohani ha usato il suo passaggio a New York per lanciare messaggi di cooperazione. Sia pure con una coda velenosa: «Dov’erano gli americani quando noi aiutavamo Assad perché avevamo capito la pericolosità dei ribelli siriani?» «Il mondo è a un bivio, tra la guerra e la pace, tra la paura e la speranza». Barack Obama prendendo la parola mercoledì scorso al Palazzo di Vetro ha rivendicato la leadership di un’ampia coalizione internazionale contro la jihad islamica «per estirpare l’ideologia dell’odio e della violenza». Mentre i jet militari americani dalla notte tra il 22 e il 23 settembre hanno colpito a cadenza regolare le basi dello Stato Islamico in Siria, il presidente americano nel suo intervento all’Onu ha promesso che non darà tregua ai colpevoli delle decapitazioni: «Nessun Dio perdona questo terrore. Nessuna lamentela giustifica queste atrocità. Questi violenti capiscono un solo linguaggio, la forza. Smantelleremo i network della morte». L’intervento all’assemblea rievoca un altro discorso di Obama che fece epoca, quello del giugno 2009 all’università del Cairo: molti considerano che contribuì a incoraggiare le successive primavere arabe. Anche se quelle rivolte antiautoritarie ebbero un esito deludente o perfino disastroso, e cinque anni dopo Obama ha arruolato nella coalizione anti-Isis alcune autocrazie come l’Arabia Saudita e gli emirati del Golfo, il presidente torna a parlare ai giovani arabi usando il linguaggio dei valori. «Rifiutare l’estremismo e il fanatismo – ha detto il presidente – è il compito di un’intera generazione. Nessuna potenza esterna può cambiare i vostri cuori e le vostre menti. Voi venite da una grande tradizione, una civiltà che è sinonimo di istruzione non di ignoranza; di innovazione non di distruzione; di dignità della vita non di omicidio». Sottolineando il ruolo positivo

AFP

Federico Rampini

che le comunità d’immigrati islamici possono svolgere in Occidente. «Non esiste lo scontro di civiltà, non siamo in guerra contro l’Islam, non c’è un «noi» e un «loro», ci siamo solo «noi». Inclusi i milioni di musulmani americani che stanno dalla parte del mondo moderno, della società multiculturale». Ha definito «folle» una visione del mondo che oppone «credenti a infedeli». Ha accusato i jihadisti di avere «pervertito una delle grandi religioni della storia umana».

Damasco approva tacitamente gli attacchi americani sul territorio ma l’America vuole fugare l’impressione di un’alleanza «oggettiva» con Assad Obama non si è risparmiato alcune autocritiche, di quelle che la destra Usa gli rimprovera aspramente. Ha riconosciuto ritardi e sottovalutazioni di fronte alla rinascita di forze jihadiste. Ha ammesso che la stessa società americana ha ancora molto da fare per superare tensioni di natura etnica «come il mondo intero ha potuto vedere quest’estate nelle proteste di Ferguson, Missouri, dopo l’uccisione di un giovane nero». (Poche ore dopo quel discorso, peraltro, si è dimesso il suo ministro di Giustizia Eric Holder, che era stato in prima linea nella vicenda di Ferguson). Ma Obama si è rivolto alla comunità delle nazioni perché ritrovino insieme lo spirito che animò i fondatori dell’Onu dopo la Seconda guerra mondiale. «La scelta da fare è questa: rinnovare un sistema di relazioni internazionali che ha avuto un ruolo positivo, oppure essere tra-

volti dall’instabilità. Oggi occorre un nuovo contratto tra popoli civili, che escluda le ideologie dell’odio. Il futuro dell’umanità intera dipende dalla sconfitta di coloro che vogliono dividerci su basi religiose o etniche». Questa sconfitta non può essere affidata solo all’azione militare. Dopo aver parlato in assemblea generale, quando Obama ha presieduto il Consiglio di sicurezza (un gesto altamente inusuale che sottolinea la gravità del momento, «è solo la sesta volta che questo accade nella storia» come ha ricordato lui stesso), ha ottenuto il sì unanime alla risoluzione che voleva. Nel testo approvato ci sono basi per un’azione legale anche contro quelle «ong filantropiche» dell’Arabia e del Golfo che servono a finanziare lo Stato Islamico. In quella risoluzione viene stabilito anche l’obbligo giuridico di impedire il movimento attraverso le frontiere dei combattenti islamici, che dal mondo intero traversano confini porosi come quello turco e affluiscono in Siria. Sul fronte siriano-iracheno, fa scalpore la rivelazione del segretario di Stato John Kerry: «Siamo intervenuti giusto in tempo, per impedire che le milizie dello Stato Islamico arrivassero fino a conquistare Baghdad». La sua rivelazione riporta in primo piano una contraddizione che intriga tutti i media americani. Con varie oscillazioni da una dichiarazione all’altra, tra Casa Bianca, Dipartimento di Stato e Pentagono, non è chiaro se il pericolo numero uno per la sicurezza dell’intero Occidente sia lo Stato Islamico oppure l’altro gruppo che si chiama Khorasan, deriva da Al-Qaeda, e trama attentati in Europa e Stati Uniti. La minaccia di Khorasan appare più vicina visto che il gruppo si prefigge di colpire sul territorio di Paesi Nato, mentre lo Stato Islamico ha aspirazioni di conquista territoriale

in Medio Oriente (Grande Califfato). Per l’opinione pubblica americana e occidentale Khorasan è un’apparizione nuova, una sigla sconosciuta fino a poco tempo fa. Ma si apprende che già quest’estate i servizi segreti Usa avevano rafforzato le misure di controllo agli aeroporti – per esempio sui computer portatili dei passeggeri – perché già a conoscenza dei preparativi di attentati. Quello che l’Occidente sta soffrendo a proprio rischio e pericolo è comunque una sua lentezza ad avvistare tutte le filiazioni del fondamentalismo islamico, gruppi e sigle che sono un coacervo, alcune nuovissime, talvolta in aspra lotta fra loro. Ci sono derivazioni dell’Islam wahabita che ha le radici in Arabia Saudita: in primis lo Stato Islamico che punta a ricreare il Grande Califfato. Ci sono le schegge più recenti della galassia Al-Qaeda. E dalle Filippine all’Algeria, gruppi anche piccoli rispondono all’appello e procedono con minacce di decapitazioni di ostaggi occidentali. Guidato da un ex luogotenente di Osama Bin Laden, Khorasan è «a uno stadio avanzato di preparazione di attentati», spiega il comando operativo del Pentagono (Central Command o Centcom). Stanno reclutando seguaci con passaporti occidentali, li addestrano come «fattorini del terrore», perché s’imbarchino su voli diretti in America e in Europa. Gli attentati userebbero esplosivi dissimulati in «telefonini, computer portatili, materiali non metallici come tubetti di dentifricio», secondo Centcom. Obama ha sottolineato «la forza della coalizione che combatte insieme a noi». Elencando i Paesi arabi che hanno mandato i loro jet militari: Arabia Saudita, Giordania, Emirati arabi uniti, Qatar, Bahrain. L’elenco è significativo per il presidente americano in quanto c’è lì dentro una forte rappresentanza del mondo sunni-

ta, a riprova che i jihadisti dello Stato Islamico (pur combattendo anzitutto contro gli sciiti) sono considerati un gravissimo pericolo anche dai loro «compagni di fede». L’intervento militare dei cinque Paesi arabi serve anche a rafforzare la tesi americana secondo cui questi raid avvengono nel rispetto della legalità internazionale, avvengono «per difendere l’Iraq, a sua richiesta, contro l’aggressione esterna che viene dalle centrali del terrorismo». E Damasco? Nessuna opposizione, anzi una tacita approvazione degli attacchi americani sul territorio della Siria, da parte di quel dittatore Assad che poco più di un anno fa rischiava di essere lui il bersaglio di un bombardamento Usa (dopo le stragi di civili compiute con armi chimiche). Damasco e Washington concordano sulla stessa versione: «La Siria è stata informata in anticipo dei raid». Ma la Casa Bianca aggiunge due precisazioni: «Non c’è stato nessun tipo di coordinamento. Li abbiamo avvisati solo perché evitassero qualunque atto ostile contro i nostri aerei». Da parte americana si fa di tutto per fugare l’impressione di un’alleanza «oggettiva» tra Obama e Assad. Da «Shock and Awe» in poi, il mondo è abituato alle prodezze tecnologiche della U.S. Air Force, nonché degli arsenali missilistici più precisi del mondo. E tuttavia Washington non nutre illusioni: la lotta sarà dura, i raid aerei non possono essere risolutivi, altri dovranno metterci quegli «scarponi sul terreno» senza i quali non si vince mai. Lo dimostra l’Iraq, dove questi raid durano da un mese e non hanno salvato neppure i peshmerga curdi da gravi sconfitte sul terreno. Tra i «segni meno» va aggiunta la latitanza della Turchia, unico Paese musulmano della Nato, assente dai raid della coalizione anti-Isis, pur essendo invasa di profughi siriani.


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Politica e Economia

Il supermercato dell’Isis Pakistan e dintorni Mentre l’attenzione del mondo è concentrata sul Medio Oriente e sulle efferate gesta

del califfato, più a Est i terroristi della Jihad stanno muovendo le loro pedine Francesca Marino

Il famigerato gruppo degli studenti di teologia Islamic State hanno molte cose in comune con i Talebani afghani, fra cui mostrare teste mozzate e le tecniche di combattimento Il boia di giornalisti e volontari, il britannico Jihadi John, è quasi sicuramente di origine pakistana. Non solo. A un certo punto l’Isis ha dichiarato, in una email inviata ai parenti di Foley poco prima della decapitazione, di volere uno scambio tra lo stesso Foley e Aafia Siddiqi: la signora, laureata all’MIT di Boston e un tempo rispettata scienziata, è attualmente in galera negli Usa per aver cercato di ammazzare alcuni soldati americani in Afghanistan. Il caso di Aafia Siddiqi è praticamente quasi sconosciuto nel resto del mondo eccetto che in Pakistan, dove è diventato uno dei cavalli di battaglia dei jihadi e dei loro sostenitori. Inoltre, secondo Muhammad Amir Rana, uno dei più rispettati analisti pakistani, «l’Isis attrae militanti islamici e risorse finanziarie» esattamente come i Talebani nei primi anni Novanta. E che «i militanti pakistani sono stati parte del gruppo fin dall’inizio». Ci sono membri della fazione punjabi e baloch della Lashkar-iJhangvi (uno dei gruppi anti-Shia della galassia integralista pakistana autore di sanguinosi attentati all’interno di moschee e scuole) che combattono per il califfato islamico in Iraq fin dalla sua costituzione e che costituiscono lo zoccolo duro e meglio addestrato delle milizie dell’Isis. E la stessa LiJ avrebbe aiutato l’Isis, nel 2013, a met-

Un pakistano legge il pamphlet «Fatah» distribuito dall’Isis che annuncia la creazione dello Stato islamico e chiama alla Jihad. (AFP)

tere in piedi il campo di addestramento Ghazi Abdul Rasheed ad Arbil. Intanto tra i Talebani pakistani stanno succedendo alcune cose interessanti. Il TTP, il Tehrik-Taliban-i-Pakistan che sotto il suo ombrello riunisce diversi gruppi della galassia denominata per brevità semplicemente «Taliban», sta attraversando uno dei momenti più travagliati della sua storia. Ci sono state diverse scissioni al suo interno e sono nati alcuni nuovi gruppi. A parte la fazione principale, che si è limitata a esprimere un generico appoggio morale ai fratelli del califfato, ci sono alcuni gruppi che sono andati oltre. Nei giorni scorsi all’indomani dell’ultima scissione all’interno del TTP è nato un nuovo gruppo che si chiama Jamatul Ahrar ed è guidato da Omar Khalid Korasani. Korasani segue la stessa agenda di Baghdadi e si è affrettato a definire l’Isis «fratelli mujaheddin». Anche l’Aharul Islam, una fazione del TTP, sta lavorando in stretta collaborazione con l’Isis, mentre a Karachi esiste un altro gruppo jihadi, il Tehreeek-i-Kilafat, che ha pubblicamente dichiarato di essersi alleato con l’Isis. Lo scorso 3 settembre, inoltre, a Peshawar e nei campi di rifugiati afghani al confine tra Pakistan e Afghanistan, sono stati distribuiti opuscoli intitolati «Fatah» (Vittoria) che sulla copertina sfoggiavano la nera bandiera del califfato e un kalashnikov tanto per fare buon peso. Gli opuscoli, stampati in Dari e Pashtun, annunciano la creazione dello Stato Islamico e chiamano alla jihad i gruppi locali invocando l’unità di tutti i musulmani e la creazione di un califfato che parte dal Pakistan per arrivare in Siria e in Iraq. A quanto pare gli opuscoli non arrivavano dall’estero ma sono stati stampati in loco, adoperando le stesse strutture usate dai membri del network Haqqani e dagli stessi Talebani per stampare simili prodotti letterari. L’appello a quanto pare è stato raccolto, e non soltanto da parte pakistana. Anche dall’altra parte del confine, nel liberato e democratico Afghanistan, un certo numero di gruppi appartenenti alle frange più estreme della galassia jihadi ha pubblicamente dichiarato il suo sostegno all’Isis: tra gli altri i gruppi di orientamento salafita finanziati dall’Arabia Saudita e guidati da Abdul Rahim Muslim Dost e da Maulvi Abdul Qahar. Ci sono state e ci sono voci sempre più insistenti di un’alleanza tra l’Isis e l’Hizb-e-Islami guidata dal famigerato signore della guerra Gulbuddin

sulmane e della brutalità mostrata dagli Stati Uniti verso i musulmani in Iraq e in altri paesi islamici» e di una reazione alla «brutalità degli americani verso i sunniti in Iraq». Come da copione il governo di Islamabad, per bocca della portavoce

Hekmatyar, ma il portavoce del gruppo ha negato tutto. Hekmatyar però, in un certo numero di recenti interviste e in un articolo scritto di suo pugno per il quotidiano «Hizb’s Daily Shadat», ha parlato dell’Isis dichiarando che si tratta: «del risultato delle politiche anti-mu-

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Forse non si tratta proprio dei «nuovi Talebani» come si affannano a dire molti esperti, ma certamente con il famigerato gruppo degli studenti di teologia l’Islamic State, Isis per amici e nemici, ha in comune parecchie cose. Alcune tecniche di combattimento e di guerriglia, ad esempio. L’uso delirante ma mirato dei media e del web e il vezzo di pubblicare video che mostrano scene raccapriccianti firmate dalla premiata macelleria del terrore, come un famoso video in cui si mostravano alcuni prodi membri dei Talebani suddetti mentre giocavano al pallone con le teste di alcuni malcapitati individui. Non si trattava di teste occidentali, però, quindi la cosa ha destato scalpore in Pakistan e dintorni per lo spazio di un sospiro ed è per sempre svanita in quel nulla eterno in cui molte, troppe notizie vanno a finire. E mentre l’attenzione del mondo è da molti, troppi mesi concentrata sul Medio Oriente e sulle efferate gesta dell’Isis e dei suoi derivati, più a est, dove «la guerra è stata vinta» e stiamo per lasciare a un trionfo di democrazia l’Afghanistan e il sempre più destabilizzato Pakistan, il Califfato comincia a muovere le sue pedine. Non che il Pakistan, dicono gli esperti, rischi di trasformarsi in una succursale dell’Isis: ma di sicuro sta diventando o è già diventato una sorta di supermercato della jihad da cui i fautori dell’Internazionale del terrore possono fare shopping a piene mani. D’altra parte, nonostante a ovest la cosa tenda a passare sotto silenzio, alcuni legami tra Pakistan, Afghanistan e Islamic State sono abbastanza noti.

degli esteri Tasneem Aslam, ha negato che esistano connessioni tra gruppi locali e Califfato Islamico. Secondo la Aslam i famosi opuscoli «Fatah» non sono mai stati distribuiti e mezzo Pakistan è stato vittima di una allucinazione collettiva. D’altra parte questa particolare signora, assurta al ruolo di portavoce degli Esteri dopo aver servito come ambasciatrice a Roma, è particolarmente vicina all’esercito e ai servizi segreti. Che al momento stanno giocando una partita a Risiko con Nawaz Sharif e i suoi manovrando le proteste di piazza guidate dall’ex-stella del cricket Imran Khan e dal religioso Tahirul Qadri. Guarda caso, l’agenda del califfato islamico coincide quasi perfettamente con l’agenda dell’Inter-Service Intelligence pakistana e con quella del gruppo (considerato terrorista ovunque tranne che in Pakistan perché combatte per liberare i fratelli kashmiri in India e non ha mai compiuto attentati sul patrio suolo) della Lashkar-iToiba. Non solo. Le prime avvisaglie dell’avanzata delle armate nere si sono avute anche in India, sempre nei giorni scorsi. Dove la polizia di Calcutta ha arrestato quattro ragazzi che cercavano di passare il confine con il Bangladesh per unirsi a una locale unità di reclutamento dell’Isis. Secondo i ragazzi fermati a Hyderabad si sta formando un gruppo di ragazzi, almeno una dozzina, in contatto con l’Isis e pronti a partire. Il reclutamento avviene via Facebook e tramite gruppi jihadi locali.

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Politica e Economia

Brasile, due sinistre a confronto

Primo turno presidenziali La presidente uscente Dilma Rousseff il 5 ottobre dovrà confrontarsi con Marina Silva,

Angela Nocioni Dilma contro Marina. La presidente uscente, erede dei 10 anni del Partito dei lavoratori (Pt) al potere, contro l’ecologista evangelica e radicale, scaraventata in prima linea dalla morte in un incidente aereo di Eduardo Campos, leader del partito socialista rimpiazzato in corsa. Non è detto che lo scontro diretto sia tra le due donne, ma il dibattito politico brasiliano in vista delle presidenziali del 5 ottobre è da loro monopolizzato. L’ultimo sondaggio di Datafolha dà Dilma in rimonta, dopo che l’onda di Marina Silva ha travolto tutte le previsioni di voto. In rimonta, ma non vincente. Al primo turno del 5 ottobre la presidente rimarrebbe in vantaggio per sette punti, ma al ballottaggio del 26 ottobre si prevede pareggio tecnico tra le due, 50 e 50, battaglia fino all’ultimo voto. Esiste un terzo candidato forte, Aecio Neves (nella foto con Dilma e Marina), presentato dal Psdb dell’ex presidente Cardoso, storica opposizione al Pt di Lula da Silva. Con la forza del suo partito alle spalle, sostenuta dalla destra tradizionale ma anche dalla critica liberale alla sinistra di governo, Neves ha tutti i numeri per farcela. Ma da quando il partito socialista ha deciso di candidare la Silva, nessun sondaggio sembra fargli più caso. Chissà se il nome di Neves resusciterà nell’urna. Per ora è dato per spacciato, inchiodato al terzo posto, dieci punti sotto la seconda. La morte di Campos ha stravolto la campagna elettorale. Marina, che ha molto più consenso di lui, fa volare i son-

daggi. Alle ultime presidenziali, corse per il partito verde, un partitino senza struttura organizzativa e con pochi soldi, prese da sola 20 milioni di voti. Marina è pericolosissima per il Pt, lo scavalca simbolicamente a sinistra e piace anche alla destra: al mercato del voto è una merce facile da vendere. La sua storia di adolescente analfabeta scampata alla morte per fame è una vicenda di riscatto individuale capace di competere, sul piano del mito pop, con quella di Lula, il presidente operaio, che sul suo passato di tornitore agguerrito e senza un soldo ha costruito un legame affettivo con mezzo Brasile. Prima il rivale per il Pt era Neves e Dilma doveva difendersi da attacchi in arrivo da destra. Con Marina candidata invece la partita è da giocarsi tutta a sinistra. La campagna per il Pt è tutta da rifare a pochi giorni dal voto. La strategia è stata riformulata in gran fretta. Il comandamento (di Lula, ancora padrone di tutte le decisioni che contano) è diventato: liquidare Marina come «evangelica fervorosa» e continuare a difendersi dalla destra classica di Cardoso, spiegando a ogni occasione buona che i due rivali di Dilma, Neves da destra e Marina da sinistra, sono entrambi in mano all’alta finanza. E, soprattutto, inchiodare Marina al cliché di estremista inconcludente che predica l’antipolitica ma non saprebbe mai governare una potenza mondiale che per la prima volta in dieci anni, ed è questo il vero problema, è in recessione. Se passa Marina al primo turno, però, il motto dell’opposizione sarà «uniamoci contro Dilma». E per il Pt po-

trebbero essere dolori. Si sommeranno i voti dell’opposizione di destra a quelli della sinistra ecologista, più l’esercito degli evangelici. Una miscela esplosiva che può portare Marina sopra il 50% al ballottaggio. Per Dilma la rimonta è possibile, ma è tutta in salita. L’inflazione galoppa, le favelas sono sotto occupazione dell’esercito, la classe media vede divorare dal caro vita i suoi sogni di gloria. Alla politica di redistribuzione dei governi del Pt che ha trasformato socialmente il Paese portando fuori dalla miseria 40 milioni di persone, non si è associata una fase di irrobustimento dell’industria nazionale. Il miracolo economico brasiliano ha deluso i suoi primi beneficiari. È proprio tra quei 40 milioni di ex poveri che Marina pesca voti. I miracolati del decennio Lula, ora che hanno crediti da spendere ed elettrodomestici cinesi comprati a rate, chiedono servizi. Vogliono scuole, ospedali, strade migliori. Il terrore del Pt è il voltafaccia, o la sana reazione (dipende dai punti di vista) della famosa «fascia C» delle statistiche nazionali, la nuova classe media, il fiore all’occhiello della politica sociale di Lula che ora, delusa dalle promesse, è affamata di consumi che non può permettersi e di diritti di cui non gode. Nelle città brasiliane è raddoppiato il numero delle automobili negli ultimi sei anni, ma le strade sempre sono le stesse del ventennio scorso. Dilma, rigida e stizzita in tv, smitraglia numeri: cerca disperatamente di spiegare, cifre alla mano, che è grazie ai dieci anni di Pt al governo che gli ex

AFP

la sfidante principale che piace anche alla destra

poveri possono permettersi di chiedere nuove strade per circolare con le utilitarie comprate con i crediti agevolati del governo. Ma la gratitudine non si esige. Rinfacciare in politica raramente paga. E a nessuno piace gli si ricordi l’incubo della sua miseria recente. Tanto meno ai brasiliani, entusiasticamente inclini a guardare avanti. «Dilma por favor, meno numeri, più emozione» raccomanda Lula. Il gioco è molto più facile per Marina. Lei per ora deve solo promettere che darà a tutti il mondo equo e solidale dei sogni. Non ha ancora bisogno di mostrare come farà a darglielo, senza prendere i soldi dal petrolio che dice di non voler estrarre, senza i sussidi alla benzina che

giura di voler togliere. Ma lo può fare, perché si trova nella fortunatissima condizione di essere la novità senza essere una outsider. Fa politica dagli anni Ottanta, ma ha ancora un intatto capitale di carisma personale da spendere. Scatenati in una corsa contro il tempo, i dirigenti del Pt scaraventano ministri e facce note a rastrellare voti in ogni angolo del Brasile, oliano con tutti i mezzi a disposizione la macchina raccattavoti del Nordest, la roccaforte povera e nera che ha salvato Lula in più di un’elezione. Ma a una settimana dal voto le seconde file del Pt litigano ancora tra loro: buttarci a sinistra e rischiare di perdere bene o buttarci a destra e rischiare di vincere male? Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Nuovi usi per aeroporti che chiudono Con la fine della guerra fredda si è manifestata in tutta l’Europa una tendenza al ridimensionamento degli eserciti. Anche in Svizzera l’effettivo dell’esercito è stato ridotto e, in prospettiva, si ridurrà ancora. Con il ridimensionamento degli effettivi si sono però anche ridotti i bisogni in infrastrutture militari. Diverse caserme sono state chiuse e diversi terreni di esercizio abbandonati. Da questo punto di vista, le modifiche maggiori sono probabilmente quelle che hanno interessato gli aeroporti militari. Ancora alla fine degli anni Ottanta, la Svizzera disponeva di una trentina di aeroporti militari. Nel frattempo due o tre sono stati chiusi e più di una decina sono stati aperti all’aviazione civile. Numerosi altri aeroporti militari si trovano nel limbo delle decisioni da prendere. Il problema di fondo di questi aeroporti è che l’attività aerea privata, da sola, non è redditizia. Senza

usi complementari, quindi, la trasformazione di un aeroporto militare in aeroporto civile o in eliporto conduce, prima o dopo, al fallimento della società che lo gestisce. Per ora comunque non è che le idee sul cosa fare sulle superfici degli aeroporti militari che si rendono libere dal traffico aereo abbondino. Nella maggioranza dei casi non esistono progetti di riutilizzo per altri scopi. L’eccezione alla regola è rappresentata da Dübendorf che è, con una superficie di 256 ettari, anche l’aeroporto militare di maggiore estensione. Sulla destinazione futura di questo aeroporto che non sarà più utilizzato dall’esercito, si scontrano attualmente due partiti. Da un lato vi è il partito di coloro che vorrebbero dedicare l’aeroporto all’aviazione civile raddoppiando addirittura il numero dei voli. Dall’altro vi sono invece coloro che vorrebbero sviluppare sulle superfici abbandonate dall’aviazione il maggior

parco per l’innovazione tecnologica della Svizzera. Si può dire che dietro ai sostenitori dell’aviazione civile c’è anche la Confederazione che sarebbe lieta di non dover smantellare le piste. Invece, dietro ai sostenitori del nuovo uso come centro dell’innovazione vi è il Cantone di Zurigo che vorrebbe togliere da una zona densamente abitata una fonte di inquinamento fonico come è quella dell’aeroporto. Il pallino è in mano alla Confederazione che ha passato molto tempo a studiare chi potesse essere il nuovo gestore privato delle infrastrutture aeroportuali. Nel corso degli ultimi mesi, a fare da terzo incomodo, è intervenuta nel dibattito sul futuro dell’aeroporto la consigliera federale Simonetta Sommaruga chiedendo che si riservasse una parte della superficie alla creazione di un centro nazionale per richiedenti l’asilo. Finalmente, all’inizio del mese di questo mese, il consiglio federale ha

deciso di affidare la gestione delle piste dell’aeroporto alla società Aeroporto Dübendorf S.A. che cercherà di sviluppare l’aviazione commerciale e di diporto. Per il parco dell’innovazione tecnologica resteranno a disposizione circa 70 ettari di terreno. La possibilità che su questa superficie si crei anche un centro per richiedenti l’asilo non è stata del tutto accantonata, ma sembra non venga considerata come prioritaria nei piani di sviluppo dell’areoporto. La decisione del Consiglio federale ha messo fine al dibattito su chi avrebbe dovuto prendere in mano la gestione del traffico aereo privato. Ma non ha certo messo la parola fine alla discussione sul futuro dell’aeroporto militare. Da un lato perché non tutti sono convinti che il traffico aereo privato sarà redditizio. Dall’altro perché il grande progetto del parco dell’innovazione stenta pure a partire. Alla fine del mese di agosto di quest’anno, il Canton Zurigo ha

presentato il piano del parco che prevede una realizzazione a tappe. Entro la primavera del 2015 dovrebbe essere pronto anche il concetto di realizzazione. In seguito si creerà la società che dovrebbe por mano alla concretizzazione del progetto. Al momento attuale due cose appaiono chiare. Primo, lo sviluppo futuro dell’ex-aeroporto militare sarà guidato fermamente dalla mano pubblica: la Confederazione per quel che concerne le concessioni per l’esercizio del volo, il Cantone per quel che riguarda il parco dell’innovazione. Secondo, il passaggio dall’uso militare ai nuovi usi civili si farà su un arco di tempo di diversi anni. Qualcuno parla di 5, altri di 10 anni. Insomma, la lezione di Dübendorf è che riutilizzare le superfici di un aeroporto, anche quando l’iniziativa per la concretizzazione dei nuovi usi dovrebbe passare ai privati, non è questione da risolvere in pochi mesi.

realtà, la magistratura non può avere consenso, perché è destinata a scontentare qualcuno: l’imputato, i suoi familiari, i suoi avvocati. Anche nel civile, c’è sempre una parte che perde. La prova sono i regali di Natale. I burocrati ne ricevono. I politici pure. I magistrati, almeno quelli che conosco io, no».

Questo non significa che la giustizia italiana funzioni. Anzi, la sua lentezza e la sua incertezza sono tra le principali cause che scoraggiano gli investimenti stranieri in Italia. Semplicemente, la via imboccata dal governo non è quella giusta, almeno secondo un ex magistrato che dopo aver fatto il giudice a latere nel maxiprocesso ha guidato prima la procura di Palermo, poi la procura nazionale antimafia. Grasso non crede alle composizioni extragiudiziali, in particolare ai collegi arbitrali formati da avvocati, su cui punta molto il ministro della Giustizia Andrea Orlando (Partito democratico). «Non posso entrare nel merito dei provvedimenti: il presidente del Senato non deve soltanto essere imparziale, deve anche apparire imparziale – ha detto Grasso. Faccio solo notare una cosa: si parla di mezzi che esistono già. E in molti casi non funzionano. Si può anche mettere un termine entro cui decidere: ma se non lo si rispetta, cosa succede? Chi vince la causa, chi la perde?». Per Grasso si

tratta semmai di limitare gli appelli e i ricorsi in Cassazione; insomma, di fare meno processi, e solo per i reati davvero gravi, causa di allarme sociale, di intralcio all’economia, di sopruso sui più deboli, di corruzione, di radicamento socio-economico delle mafie. E per garantire gli innocenti occorre creare un sistema di pesi e contrappesi che limiti gli errori giudiziari: «Nei Paesi anglosassoni il sistema è tranchant: il giudice stabilisce solo se l’imputato è colpevole o no. Ma appena una piccola percentuale dei casi sfocia in un processo e in una sentenza. Solo in Italia i processi si fanno tutti, perché abbiamo l’assoluta obbligatorietà dell’azione penale». Insomma, Renzi e Orlando hanno materiale su cui riflettere. Ma ci sono cose positive che Grasso ha detto. Ad esempio sul Sud. Il presidente del Senato è convinto che se ci fossero i mezzi per una grande operazione di ripristino della legalità, la stragrande maggioranza dei cittadini del Sud la appoggerebbe. È una convinzione che condivido.

partecipato…), così ricordo Stoccarda e Karlsruhe, ma anche l’assenza di Berlino o Dresda, tra le offerte turistiche tedesche. Per la Francia c’è Parigi, ricordo anche Digione, però l’assenza di Lione o della Bretagna suscita perplessità. Chiaro e anche comprensibile che il sondaggio cerchi di «schivare» la vicinanza di aeroporti serviti da Zurigo o Basilea. Ma la qualità del sondaggio, soprattutto per quel che riguarda le finalità e le eventuali scelte o cambiamenti che le FFS potrebbero dedurre dai risultati, a mio avviso va a farsi benedire. Comunque siamo sul treno, e FFS e sondaggisti ne approfittano compiendo un giro di 360 gradi con una domanda (l’ho copiata) che, scordando i contenuti internazionali, chiede all’interlocutore di «immaginare che le ferrovie stanno programmando di migliorare il confort di viaggio. Quali migliorie ritiene a suo parere più importanti?». Due le opzioni: miglio-

rare la comodità del viaggio (comfort dei treni e dei sedili, disponibilità di posti a sedere), oppure migliorare i tempi di viaggio (durata, acquisto semplificato dei biglietti, sfruttamento del tempo durante il viaggio). Io ero decisissimo: avrei voluto chiedere entrambe le migliorie, soprattutto per i treni che viaggiano sulla linea del Gottardo (eternamente vecchiotti e, un po’ come certi cavalli, «inviati in riserva» in attesa che sopraggiunga la fine) visto che costano esattamente come i confortevoli convogli che sfrecciano sull’Altipiano e rispettano le coincidenze. Ho anche provato, ma era impossibile: il sondaggio accettava una sola risposta ed è già bello che non sia apparsa la scritta «Non sono mica scemo»! Non rammento per quale delle due alla fine ho votato. Ricordo però il messaggio che ho subito desunto dal sondaggio: le FFS del futuro miglioreranno o i tempi di viaggio o la comodità. Non tutt’e due.

In&outlet di Aldo Cazzullo Piero Grasso e la sua giustizia Da qualche settimana cercavo un’intervista importante per il primo, «storico» numero del «Corriere» in formato ridotto. Un numero destinato a restare nelle bacheche, per il quale era importante contattare un personaggio non banale che dicesse cose non banali; e converrete con me che nella politica italiana non è un obiettivo facile da raggiungere. Il problema me l’ha risolto il presidente del Senato, Piero Grasso (nella foto), che qualche giorno prima avevo intervistato in pubblico su un’isola al centro del lago Trasimeno. Era un contesto campestre, familiare, senza altri giornalisti che potessero riferire in diretta quel che Grasso andava dicendo. Così si è lasciato andare ai racconti, quasi alle confidenze: «Al maxiprocesso sono stato 35 giorni senza uscire dall’aula bunker dell’Ucciardone e senza comunicare con nessuno, neppure con la famiglia. Mia moglie sapeva che ero vivo perché arrivava a casa la biancheria sporca da lavare. Poi sono stato otto mesi chiuso

a scrivere la sentenza. Un isolamento che all’epoca mi costò il rapporto con mio figlio Maurilio, che aveva 14 anni, e non accettò la mia sparizione. Si tratta di un caso eccezionale. Ma è evidente che il vero problema della giustizia italiana non sono le ferie». Da qui l’idea di riprendere la conversazione sul «Corriere», e di approfondire non solo la sua storia, ma il suo pensiero sui cambiamenti che Renzi sta apportando alla politica italiana. Grasso non ha avviato un’operazione contro il presidente del Consiglio. Ha tenuto a precisare di avere con lui un ottimo rapporto istituzionale, anche se non personale («uso poco sms e twitter, abbiamo ancora una sfida a calcetto in sospeso»). Ma ha smontato una delle due riforme qualificanti del governo (l’altra è quella del mercato del lavoro): la riforma della giustizia. La magistratura, sostiene il presidente del Senato, viene raffigurata come una classe che ha potere e privilegi; ma ci sono giudici che non hanno neppure l’ufficio. «In

Zig-Zag di Ovidio Biffi Quel che le FFS sono e… saranno Non è mai per caso, e nemmeno per un segno del destino, se un’email vi invita a partecipare a una ricerca di mercato. È il marketing, bellezza. Il mio acquisto, un viaggio in treno organizzato online, dev’essersi incrociato con le strategie di un sondaggio elettronico introdotto da questa motivazione: «Le FFS si stanno operando (Ndr. Proprio così! O è erroraccio o un’operazione è già in corso!) per migliorare la loro offerta in merito ai viaggi internazionali. Vorremmo pertanto sottoporle alcune domande per conoscere meglio le sue esigenze e la sua opinione». Niente di male a contribuire a una delle più importanti e benemerite imprese statali. Errore e impudenza dell’email finiscono in secondo ordine, e… mi ci butto. Si entra subito in argomento, i viaggi internazionali. Mi fa specie la strategia, visto che (solo per i ticinesi?) il sondaggio ruota attorno a un’offerta strana: Monaco di Baviera. Chi già ha visitato la Baviera, sa che la sua capitale non

è proprio una metropoli e nemmeno un pozzo di attrattive turistiche. Ma forse l’arte del Maigret al servizio delle FFS inizia da lontano e vuole agire in modo soft. Infatti chiede un giudizio sulla pubblicità che le FFS fanno per i viaggi internazionali e segnatamente per Monaco, ovviamente in treno. Così il dubbio prende un’altra connotazione: vuoi vedere che le FFS indagano per vedere come stanno le cose in merito al servizio di bus tedesco che collegherà Lugano e Bellinzona alla capitale bavarese? (La notizia era stata presentata come una sfacciata concorrenza alle ferrovie, ma nessuno ha detto che a Zurigo, e proprio verso Monaco, da gennaio è già in attività un servizio di autobus Intercity offerto dalle FFS!). La domanda del sondaggio è per misurare l’efficacia della pubblicità. Nel fotomontaggio (su web e affissioni) si vede lo scompartimento di un treno con una coppia di giulivi e giovani passeggeri seduti ai lati del finestrino del treno da

cui si scorge una chiesa, verosimilmente di Monaco. Non essendo proprio un monumento (come sarebbe la cupola di S. Pietro a Roma) potrebbe valere anche per S. Gallo o addirittura per Zurigo per quel che uno normalmente ricorda di edifici religiosi. La gentilezza mi suggerisce di non infierire e nel sondaggio mi limito a segnalare mancanza di creatività grafica e debolezza del richiamo relativo a Monaco o alla Baviera. L’inchiesta prosegue con domande relative a eventuali visite in treno, in aereo o in auto di varie città europee, condecorate da motivazioni personali per le scelte o le indicazioni date. Ma, oltre a quel Monaco iniziale, ti accorgi che qualcosa non quadra nelle offerte. Se per l’Italia l’elenco è abbastanza esauriente, visto che con Torino e Milano compaiono anche Venezia, Bologna, Firenze e Roma, per la Germania e la Francia siamo a terra. Non ho memorizzato esattamente tutte le città (impossibile riaprire il link dopo aver


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Cultura e Spettacoli Presentato Lugano Modern Musica per ogni gusto, appetito e desiderio, ecco quanto si prefigge il nuovo programma

Il ritorno dei Queen Per tutti gli ammiratori di una band che ha fatto la storia musicale del Novecento, un nuovo CD

Libri fini a sé stessi... ... ma di immenso valore: la Biblioteca cantonale di Bellinzona espone libri d’arte

pagina 37

Il ritorno di Sin City A colloquio con Frank Miller, a Roma per promuovere l’atteso Sin City 3D – Una donna per cui uccidere. pagina 39

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pagina 38

Alex Dorici Installation Rope. 204 metri, 2014 corda rossa, dimensioni variabili (© Courtesy Buchmann Galerie Agra /Lugano and Alex Dorici; foto: Cesare De Vita).

L’arte corre sul filo

Mostre Quattro artisti si confrontano negli spazi della Galleria Buchmann

Alessia Brughera È un’indicazione ben precisa quella che ci fornisce il titolo della mostra allestita alla Galleria Buchmann di Agra e Lugano: seguire il filo del discorso. Il filo intesse trame, crea legami, traccia percorsi. Si muove attraverso spazi reali e astratti, lungo tragitti fisici e mentali. E il suo dipanarsi è fatto proprio per essere seguito, rincorso, esplorato. Questo concetto diventa il filo conduttore attorno a cui ruota la mostra, il filo rosso che accomuna le opere degli artisti, il filo d’Arianna che guida lo spettatore. Qui vediamo il filo farsi matassa ingarbugliata che racchiude distanze e relazioni, dissolversi lentamente manipolato da un’immagine fotografica, dispiegarsi per costruire nuove forme nello spazio, disporsi scrupolosamente sulla stoffa per narrare storie. Ad accoglierci nella prima sala della galleria di Agra sono le Matasse dell’artista italiano Alberto Garutti, due voluminosi grovigli di filo di poliestere la cui lunghezza equivale alla distanza reale tra due luoghi coinvolti concettualmente nell’opera stessa. Se una delle

matasse venisse sbrogliata, misurerebbe esattamente 971 chilometri (come il titolo dell’opera non manca di precisare), ovvero quelli che intercorrono tra Agra e Berlino, dove si trovano due delle sedi della Galleria Buchmann. Garutti porta in questo viluppo di filo tutta la fisicità dello spazio ma anche la vicinanza personale con il suo committente, come se anche la trama di relazioni tra sé stesso e gli altri diventasse concreta. È invece un filo d’inchiostro quello che ordisce senza mai interrompersi un fitto percorso lungo tanto quanto il tracciato tra due punti della città di Lugano. Si tratta di una stampa digitale di Garutti dal titolo Ho camminato lungo il lago per 374 metri dalla fermata centrale del battello all’ingresso del parco Ciani, opera in cui la perlustrazione e il contatto fisico con il territorio vengono accostati all’immancabile dimensione privata della sua esperienza di vita. La sala successiva presenta alcuni lavori del fotografo ticinese Marco D’Anna. Dapprima troviamo esposte alcune istantanee in cui l’artista immortala fili in tensione tra gli ingranaggi dei telai che, come raggi luminosi intrisi di energia, attraversano la

superficie creando leggere architetture di luce e colore. Poi è la volta di Visibilio, una serie fotografica composta di sette scatti in cui due rocchetti di filo appaiono inizialmente ben definiti per poi perdere pian piano la loro nitidezza e divenire evanescenti macchie cromatiche. Il mezzo fotografico cerca di superarsi, prova a sfidare la pittura indagando il confine tra dato oggettivo e percezione immaginifica per vedere fino a che punto la realtà riesce a preservare se stessa. La sequenza è una sorta di passaggio, di conversione, in cui il rapporto mimetico con il reale e la sua riproduzione fedele, peculiari caratteristiche della fotografia, vengono lentamente abbandonati per trascendere l’elemento cosciente e distaccarsi dal mondo sensibile. La materia si trasforma così in visione. Di un filo assolutamente concreto si serve invece l’artista luganese Alex Dorici per le sue due installazioni realizzate negli spazi esterni della galleria. Qui è una corda di colore rosso spessa e resistente, di quelle utilizzate in ambito navale, che, passando per asole e fissaggi, intesse geometrie essenziali donando una nuova identità all’architettura con cui interagisce. In entrambi i lavori

è presente la grossa bobina da cui si diparte la corda, a sottolineare l’origine di un percorso che ridisegna l’intero spazio secondo nuove direzioni, nuove dimensioni a cui lo spettatore può accedere diventando parte integrante dell’opera. Nella serra del giardino della galleria, caratterizzata da trasparenza e leggerezza, l’artista ha progettato un intervento più elaborato: un unico filamento che traccia circuiti inediti interfacciandosi con i punti strategici della struttura. Per il secondo ambiente, questa volta dominato dalla solidità del cemento, Dorici ha pensato invece a un approccio più minimalista in cui la corda ridefinisce con discrezione le superfici esaltandone il dinamismo. Il filo del discorso prosegue nello spazio Buchmann di Lugano, dove è stata chiamata a esporre l’artista francese Véronique Arnold. Come una moderna copista, ha dapprima trascritto e poi ricamato pazientemente su due tele di lino bianco alcuni estratti dal romanzo Utopia di Thomas More e una poesia di Paul Celan tratta dalla raccolta Fadensonnen. I tessuti su cui ha lavorato diventano una sorta di grandi manoscritti miniati in cui il testo me-

ticolosamente ricopiato viene commentato e impreziosito da immagini e figure fantasiose che scaturiscono dalla vivida mente dell’artista. Il filo tesse qui un profondo vincolo con la tradizione del passato, con la pratica artigianale svolta con perseveranza attraverso gesti antichi e autentici. Goethe nel suo romanzo Le affinità elettive parlava in termini marinareschi di un filo rosso che passava attraverso ogni tipo di fune, dalla più robusta alla più sottile, senza il quale la fune stessa si sarebbe sfaldata. Questo filo significava legame, continuità, guida. E, sarà un caso, ma nelle opere di tutti questi artisti non manca mai del filo rosso. Dove e quando

Seguire il filo del discorso. Buchmann Galerie di Agra. Fino alla fine di dicembre 2014. Buchmann Galerie di Lugano. Fino alla metà di ottobre 2014. Orari Agra: ma-ve dalle 13.00 alle 18.00. Orari Lugano: ma-sa dalle 13.00 alle 18.00. www.buchmanngalerie.com buchmann.lugano@bluewin.ch


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Cultura e Spettacoli

Realini per ora non convince Visti in tivù Nelle prime puntate de

Il gioco del mondo è apparso contratto, deve sciogliersi Il trio Rom-SchaererEberle (Festival Oggimusica, 11 ottobre al Teatro Foce).

Da Ulisse al beatbox Musica Presentato il calendario di Lugano Modern,

che inizia mercoledì con il Festival Oggimusica Zeno Gabaglio È stata una piccola parentesi aperta su quello che potrà essere, su quello che dovrà essere e su quello che in definitiva sarà il nuovo quartiere (o quartiergenerale?) della cultura luganese e in parte anche cantonale. Ci riferiamo alla conferenza stampa tenutasi qualche giorno fa nel chiostro dietro la Chiesa di Santa Maria degli Angioli, accanto al LAC e ancora fresco di restauri conservativi – in verità rivelatisi scopritivi – e di odor d’intonaco. Una porta sul futuro che si è aperta giusto il tempo di presentare la nuova programmazione di Lugano Modern, la stagione musicale che più e meglio di tutte ha già messo in atto quelle sinergie tra operatori del territorio che, in una pianificazione condivisa ma non omologante, sole possono tracciare la via verso uno sviluppo culturale urbano al passo coi tempi. Oggimusica

Concorsi

Si comincia il primo d’ottobre con il festival «Enlarge your ears» proposto dall’associazione Oggimusica. Fondata nel 1977 si tratta del decano – in un gruppo peraltro sparuto – tra gli enti che da sempre hanno invitato il pubblico a un ascolto curioso, oltre gli steccati di genere e le consuetudini musicali. Personaggi come Philip Glass, Karlheinz Stockhausen, Steve Reich, Egberto Gismonti, Fred Frith, Laurie Anderson, Iva Bittova o Irène Schweizer difficilmente in Ticino avrebbero potuto trovare altra ospitalità. E que-

sta tradizione si rinnova all’insegna dell’attualità scolpita nel nome dell’associazione: musica elettronica, musica contemporanea scritta, cantautorato punk, jazz elettrico, virtuosismi vocali venati di beatbox e un’improfiaba – Il viaggio di Ulisse – pensata solo per bambini, attraverso il magico mondo sonoro, tattile, olfattivo e gustativo del grande Odisseo. Novecento e presente

Ritorna in Lugano Modern anche Novecento e presente, la stagione – da sempre sostenuta dal Percento Culturale Migros Ticino – dedicata alle musiche del Novecento storico con propaggini estese fino all’attualità. E lo fa ora con un accattivante programma declinato all’appartenenza culturalnazionale di alcuni tra i più grandi musicisti del secolo scorso. Così per il concerto Swissness ci saranno opere di Klaus Huber, Carlo Florindo Semini e Giorgio Bernasconi (sì proprio il compianto fondatore della manifestazione, famoso come direttore d’orchestra e da scoprire nel ruolo di autore); per Americanness ci saranno invece Ives, Copland e Gershwin; per Italianness una monografia dedicata a Luciano Berio; per Austrianness Arnold Schönberg (dodecafonia!). E come conclusione fuori tema, la possente messinscena – con Conservatorio, SUPSI e Teatro Dimitri riuniti nell’impresa – del Satyricon di Bruno Maderna.

Orario per le telefonate: dalle 10.00 alle 12.00.

neon&caffeine

Si tratta dell’unica rassegna di musica

È l’ultimo venuto nella famiglia degli appuntamenti Lugano Modern, e come ogni giovane virgulto porta con sé una forza innovativa a tratti anche dirompente. Raccogliendo il testimone di Lanterna Rossa – la fortunata serie di spettacoli che negli scorsi anni era riuscita a mischiare le carte della percezione e della fruizione di musica nuova – neon&caffeine non mette al proprio centro l’opera musicale (o forse finge di non farlo) ma crea degli eventi attorno a personaggi viventi dall’alto potenziale di interesse ma che col mondo della musica hanno poco a che fare. Salvo poi lasciar emergere vicinanze empatiche e suoni suggestivi per offrire un’esperienza autenticamente inedita.

La Via Lattea Percorso musicale Vari luoghi del Sottoceneri Do 5.10.2014 e Do 12.10.2014

Festival delle Marionette Rassegna teatrale Teatro Foce, Lugano Fino al 10 ottobre

Gwenstival Festival radiofonico Vari luoghi Dal 6.10.2014 al 10.10.2014

Tra jazz e nuove musiche Rassegna di Rete Due Jazz in Bess, Lugano Mercoledì 8 ottobre, ore 21.00

Secondo e Terzo movimento

Sa 4.10, ore 15.00 I viaggiatori della giostra

Quinta edizione: Radio Maps

Atomic

Festival Internazionale di Musica e Radiofonia in cui verrà cartografato sonoramente il mondo nel quale Radio Gwen si muove, riunendo le conoscenze artistiche e umane creando una rappresentazione simbolica ma veritiera di informazioni.

Fredrik Ljungkvist, sassofoni, clarinetto Magnus Broo, tromba Håvard Wiik, piano Ingebrigt Håker Flaten, contrabbasso Hans Hulbækmo, batteria

Swiss Chamber Concerts

Secondo Movimento: Partenza da Melide Pontile, domenica 5/10, ore 11.00–18.00 circa. Musiche di Bach, Berio e F. Zappa. Terzo Movimento: Partenza da Auditorio RSI, domenica 12/10, ore 10.30–18.20 circa. Musiche di Pagliarani, Nono, Berio, Pesson. www.lavialattea11.ch

091/821 71 62

da camera trasversale rispetto a tutta la nazione e che, ormai da anni, si trova ad unire – in un gesto di condivisione non soltanto simbolica – le città di Lugano, Basilea, Ginevra e Zurigo. Ma, per fortuna, la specificità degli Swiss Chamber Concerts non è solo questa, quanto piuttosto il fatto di creare programmi che pongono in un confronto diretto (dialettico, a volte rude, a volte delicato, sempre e comunque fertile) la musica propriamente classica da un lato, le produzioni moderne e contemporanee dall’altro. Il tutto affidandosi a un parterre di interpreti tra i migliori in Svizzera ma non solo. E anche per la nuova stagione potremo ascoltare musicisti quali Heinz Holliger, Ilja Gringolts, François Benda, Esther Hoppe, Diego Chenna o Daria Zappa.

È iniziata poche settimane fa la nuova stagione de Il gioco del mondo, il programma di interviste condotto da Damiano Realini, in sostituzione di Maurizio Canetta (RSI La1, domenica, ore 19.20). L’idea è quella di raccontare di volta in volta un personaggio, attraversandolo anche nel suo animo più profondo, secondo le modalità dei giochi di percorso basati sul lancio dei dadi, cioè sul caso. In studio c’è un grande tavolo con un piano dove sono riprodotte le stazioni della vita: ad ogni casella corrispondono avvenimenti e situazioni come la scuola, il cinema, i libri, le amicizie, gli amori, eccetera. Ci sono sei pedine ispirate ai tarocchi, c’è l’azzardo naturalmente rappresentato da un colpo di dado. L’ospite si fa precedere dalle note di La vita è bella di Roberto Benigni, poi sceglie una pedina e così comincia la sua avventura. Quando abbiamo recensito per la prima volta Il gioco del mondo, più di un anno fa, accennavamo alla resa televisiva. Da questo punto di vista, il programma non ha nulla da invidiare al defunto Controluce. Ma, come il defunto Controluce, il suo successo dipende

dagli ospiti e dal conduttore. Sui primi ci esprimeremo a stagione inoltrata, per ovvi motivi. Ci concentriamo dunque sul secondo. In passato il programma aveva una certa godibilità perché sorretto dalla bravura di un conduttore molto abile nello scandagliare psicologie più o meno indulgenti, nel frugare le menti, mescolare i piani del discorso, tessere storie. Oggi non ce l’ha più perché, per quanto visto finora, dalle prime puntate di settembre, Realini ti lascia subito addosso un senso di scoramento. Non è colpa sua, è colpa di un volto sempre contratto, di uno sguardo sempre dolente. Quella di Realini non è la faccia più stimolante per passare quaranta minuti piacevoli davanti alla tv: mai un sorriso, mai una briciola di brio, mai un sussulto di vita. Una settimana fa Alain Messegué, guru del benessere, ha raccontato di aver trovato il coraggio di reagire a un momento buio. Bene, bravo. È successo anni addietro, ma il volto di Realini non smetteva di denunciare smarrimento. Diamo per scontata l’emozione del nuovo conduttore, abituato a interpretare ruoli meno definiti, ma per ora tutto ruota attorno alle tenebre. Le tenebre predispongono al peggio lo spettatore.

Antonella Rainoldi

Compagnia Angeles de Trapo Do 5.10, ore 11.00 Magico teatro d’ombre Con Valeria Guglietti

In collaborazione con Associazione Jazzy-Jams e con Radio Gwen.

Do 5.10, ore 16.00 Gran Finale: mani d’Opera Con Claudio Cinelli www.palco.ch

Regolamento Migros Ticino offre ai lettori biglietti gratuiti per le manifestazioni sopra menzionate.

www.gwenstival.com

Massimo due biglietti per economia domestica. La partecipazione è riservata a chi non ha beneficiato di vincite in occasione di analoghe promozioni nel corso degli scorsi mesi.

Biglietti in palio per gli eventi sostenuti dal Percento culturale di Migros Ticino

www.rsi.ch/jazz Per aggiudicarsi i biglietti basta telefonare mercoledì 1 ottobre al numero sulla sinistra nell’orario indicato. Buona fortuna!


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Cultura e Spettacoli

In nome dei Queen Musica Una ristampa che giunge dai primi anni

di carriera degli indimenticati Queen ci ricorda in cosa davvero consiste l’assoluta eccellenza live di una rock band

Benedicta Froelich Per gli appassionati dei grandi nomi del rock angloamericano emersi tra gli anni 70 e 90, forse nessuna annata si è rivelata prodiga di sorprese quanto quella in corso: il 2014 ha infatti già al suo attivo numerose pubblicazioni di incisioni inedite riesumate dagli archivi più disparati, tanto che sarebbe legittimo chiedersi quanto materiale le case discografiche abbiano effettivamente mantenuto nascosto nei propri cassetti, con l’obiettivo di pubblicarlo decenni dopo con la scusa di un anniversario particolarmente significativo. E se quasi nessun nome storico è rimasto immune da simili operazioni, tantomeno ciò poteva accadere con una band amata e fortemente rimpianta come la formazione britannica dei Queen – che, dopo la prematura morte del leader e cantante Freddie Mercury (1991), ha perlopiù vissuto di ricordi e ristampe. Eppure, il gruppo londinese ha costituito un vero e proprio terremoto all’interno della scena rock a cavallo tra gli anni 70 e 80: non soltanto grazie all’incredibile voce e indiscusso carisma del suo inimitabile frontman, ma anche per via di una connotazione stilistica talmente particolare da lasciare perplessi (e perfino indignati) molti attempati critici musicali. Infatti, man mano che il sound della band passava dalle sfumature hard rock alle commistioni con atmosfere quasi da

musical (a tratti addirittura da vaudeville, come dimostrato da A Day at the Races, 1976), il repertorio dei Queen si faceva assolutamente inconfondibile – tanto che, a molti anni di distanza dal periodo di massimo successo, gli imitatori si contano sulle dita di una mano: semplicemente, è troppo difficile, se non impossibile, ambire alle vette toccate dalla formazione in termini non soltanto artistici e stilistici, ma anche di resa dal vivo.

All’interno della scena musicale internazionale, i Queen scatenarono un vero e proprio terremoto Lo dimostra, una volta di più, la nuova pubblicazione Live at the Rainbow ’74: un raffinato doppio album (disponibile anche come box set e DVD blu-ray) che racchiude le registrazioni integrali e perfettamente rimasterizzate di due show tenuti dai Queen presso il celebre Rainbow Club di Londra nel marzo e novembre 1974, nell’ambito di due differenti tour – il primo dei quali seguiva l’uscita del secondo album del gruppo, intitolato semplicemente Queen II, mentre il successivo, risalente ad appena pochi mesi dopo, rappresentava già

il follow-up del suo travolgente successore, Sheer Heart Attack. Come prevedibile, il quarantennale di questa tournée è divenuto l’occasione perfetta per dare alle stampe cotanto prezioso materiale inedito; e per quanto il pretesto possa a prima vista apparire scontato, bisogna ammettere che questo è uno dei rari casi in cui risulta effettivamente difficile comprendere per quale motivo una testimonianza così cruciale della storia del gruppo sia rimasta tanto a lungo inedita. La scelta di pubblicare due show cronologicamente così vicini non denota perciò presunzione, poiché le tracklist dei concerti mostrano due lati essenzialmente differenti dell’opera dei Queen – il che, del resto, riflette i vertiginosi ritmi creativi di cui la formazione era capace. Così, laddove il concerto del marzo ’74 concentrava la propria scaletta essenzialmente sui primi due album della band, a distanza di pochi mesi Mercury e compagni già prediligevano suggestioni differenti, in cui l’eccellenza tecnica risultava ulteriormente enfatizzata; ed è una gioia riscoprire queste tracce, poiché quella ritratta in Live at the Rainbow è una band agli albori della propria stessa leggenda, ma già contraddistinta da una finezza interpretativa più unica che rara per una formazione così giovane. Tanto che l’innegabile, incredibile energia e vitalità che i Queen sprigionano dal vivo passa quasi in

La copertina del doppio album dei Queen.

secondo piano davanti all’intensità e maturità delle singole esecuzioni – in una maestria che brilla non solo nei «cavalli di battaglia» più scontati, con i loro lunghi assoli di chitarra e indiavolate code strumentali, ma anche in brani più delicati (come, ad esempio, la ballata Father to Son e l’epico inno In the Lap of the Gods). Allo stesso tempo, ciò ci ricorda che i Queen degli esordi non erano soltanto un gruppo dedito all’heavy rock, ma una formazione già desiderosa di sperimentare nuove contaminazioni stilistiche: lo dimostrano, tra l’altro, le inflessioni blues di Son and Daughter e See What a Fool I’ve Been, che già anticipano i Queen a venire.

In questo modo, Live at the Rainbow ’74 diviene qualcosa di più del classico tuffo nella nostalgia rispolverato dall’industria discografica in occasione di una ricorrenza strategica; piuttosto, diviene un vero e proprio «cimelio» di un momento chiave nella storia di uno dei più grandi e geniali gruppi musicali di sempre – una band che nelle sue esibizioni dal vivo ha davvero rappresentato la quintessenza del rock, e che, proprio poco tempo dopo queste registrazioni, ha avuto il coraggio, se non addirittura la sfrontatezza, di avventurarsi su terreni diversi e inesplorati, facendo del proprio, altissimo profilo qualitativo una costante. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Libri da vivere

Mostre Volumi d’artista alla Biblioteca cantonale di Bellinzona

Il mondo perduto dell’innocenza Cinema Con Eau argentée, Timbuktu

è il grande film politico di Cannes 2014

Gianluigi Bellei Le biblioteche sono dei luoghi speciali, non solo perché racchiudono molto dello scibile umano e a volte volumi di rara bellezza e unicità, ma soprattutto perché sono un elemento vivo della società e ne riflettono le idee, lo stile, gli intendimenti. Nel mondo ce ne sono di splendide, dalle antiche e incantevolmente suggestive, come la Herzogin Anna Amalia Biliothek di Weimar o la Národní knihovna di Praga, alle più moderne e lineari come la Bibliothèque nationale de France François Mitterrand. Quello che forse è importante, come ha sostenuto Umberto Eco in una conferenza del 1981, è che oltre ad essere un modello dell’universo siano pure a misura d’uomo e magari gaie con la possibilità di prendere un cappuccino e per due studenti «di sedersi sul divano e, non dico darsi a un indecente amplesso, ma consumare parte del loro flirt». La Biblioteca cantonale di Bellinzona ha un atrio luminoso, con un bar, dei tavolini, delle poltrone per iniziare o continuare la giornata in forma gradevole, prima magari di accedere all’Archivio di Stato. L’atrio è la sede della mostra che presenta una serie di libri d’artista del collezionista milanese Marco Carminati. I libri d’artista sono volumi particolari con una tiratura limitata o addirittura editi in una sola copia. Quello che li caratterizza è l’amore per l’individualismo inteso come approccio personale a un oggetto che va tenuto tra le mani con una sorta di religiosità per sentirne con il tatto le rugosità della carta o del supporto, muoverlo e aprir-

Fabio Fumagalli **** Timbuktu, di Abderrahmane Sissako, con Ibrahim Ahmed, Hichem Yacoubi (Mauritania – Francia 2014) Uno degli esemplari di libro in mostra a Bellinzona fino al 4 ottobre.

lo per scoprirne il contenuto che non sempre è solo scritto. Più che un libro vero e proprio è un oggetto da guardare, annusare, scoprire. A Bellinzona ne sono esposti 50 + 1, lungo un periodo di tempo che va dal 1963 ad oggi, uno per ogni anno. Ne citiamo alcuni: l’esemplare unico The surprise di Mirella Bentivoglio del 1986, la tavoletta di Ugo Nespolo per Campari del 1990, gli Scritti su acetato di Mauro Ceolin del 1992 e l’esemplare unico di Emily Joe Proletaritudo del 1998 con interventi di piombo, lacca, resina, foto e lenti Zeiss. Ma quello maggiormente intrigante è probabilmente il Libro di Aldo Spinelli del 1973. Un volumetto estremo che non racconta nulla se non sé stesso e come è stato realizzato. Dai primi incontri con il tipografo, al tipo di carattere usato, al corpo, all’interlinea. Solo (?) questo, dall’inizio alla fine in una sorta di autoreferenzialità che sfiora l’autismo e contemporaneamente si raffigura in un autoritratto di parole, materialissimo,

che prende forma e vita nella banalità, o nell’eccezionalità, del procedimento. Una parte delle opere è chiusa dentro teche trasparenti e altre, al contrario, sono esposte su bassi tavolini, libere e consultabili, apribili, maneggiabili, con appositi guanti, da tutti. Si è così sfatato il mito dell’opera d’arte irraggiungibile e per pochi eletti, protetta da vetri improfanabili. Ai lati diverse schede illustrano i libri con spiegazioni e aneddoti come quella che commenta la genesi di Parlar m’è dolce alle stelle, con le incisioni di Stefania Scarnati e le poesie di Elena Santoro Favettini del 2008; perfino poetica quando troviamo l’artista dentro un sacco a pelo abbracciata di notte alla nipotina Giada che mormora: «Nonna, ma le stelle sanno di essere così belle?». Bello anche il quaderno che accompagna e illustra le opere in mostra: ultimo lavoro del grafico collaboratore della Biblioteca Chris Carpi, recentemente scomparso.

Figura di riferimento sempre più attuale del cinema africano, ma avaro di lungometraggi dal 2006 dell’originalissimo Bamako, con Timbuktu Abderrahmane Sissako ritorna da quello che fu un centro di civiltà straordinaria, di riflessione filosofica e ricerca scientifica, ricostruito oggi in un piccolo villaggio sperduto ai confini fra la Mauritania e il Mali. Il suo film è corale, insolito ed eclettico, specialmente per un cinema come quello della tradizione africana, abituato al racconto lineare della favola. Timbuktu presenta un procedimento splendido e feroce per la forza poetica di certe sue immagini sublimi e per una denuncia morale e politica priva di ogni ambiguità. Le spoliazioni colonialiste, le lotte intestine indotte dalla miseria, e ora l’estremismo folle delle milizie jihadiste giunte in parte dalla Libia, hanno trasformato la serenità dei ritmi del Sahel nell’insensata violenza raccontata dal film. Niente più fumo, finito il gioco del calcio, proibite canzoni e danze; non più, in particolare, una condizione sociale accettabile per la donna. In loro vece, l’opposizione degli estremisti a una religione islamica ragionevole, l’incomprensione crudele fra uomini della stessa terra. Che, per capirsi fra di loro, sono

costretti a parlare in inglese. Infine, la vicenda portante del film, quella di Kidane, che vive nella distesa di sabbia che fa da cornice infinitamente armoniosa al villaggio, che nella tenda riesce ancora a suonare la chitarra per la sua famiglia di pastori poiché nessuno, una volta calata la notte, se ne accorge. È sereno Kidane, anche se non proprio fiducioso; perlomeno fino al dramma, quando una delle sue vacche travolgerà le reti del pescatore che gli vive accanto. L’armonia di una vita che ancora sopravviveva agli stenti, la tenerezza ingenua ma sempre più consapevole nell’intimità famigliare del protagonista, Sissako le esprime grazie al magistero squisito della propria visione. L’eterna orizzontalità dei paesaggi, la fluidità continua dei movimenti di macchina, la vicinanza con gli attori colti fra la gente. Ma anche la fuga nel meraviglioso, la realtà che muta in astrazione; e che da sempre appartiene alla sua cultura. Così, la memorabile partita di calcio senza pallone fra i ragazzi del villaggio, più che un rinvio colto alla celebre partita di tennis in Blow Up di Antonioni, è una squisita pantomina di sfida nei confronti dell’ottusità degli aggressori. Visione poetica di un mondo in violenta mutazione, antologia inedita di comportamenti umani, esigenza incontenibile di una rabbia non ancora disperata, Timbuktu si china su un mondo al quale calcolo, crudeltà e ignoranza impediscono l’accesso ai tempi moderni. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Gli eroici antieroi di Miller Cinema Il disegnatore e fumettista Frank Miller ha lavorato insieme al regista Robert Rodriguez

per l’atteso sequel del film cult Sin City Blanche Greco «Marv è un vero barbaro, ma con un bell’impermeabile!» dice ridendo Frank Miller, incontrato a Roma, con Robert Rodriguez, nelle vesti di autore e di regista, di Sin City 3D – Una donna per cui uccidere. Il grande disegnatore americano, il creatore di eroi ed anti-eroi di eguale forza e personalità e di storie indimenticabili, tra le quali Il ritorno del Cavaliere oscuro, 300 e Sin City, si sposta su una sedia a rotelle, ma i suoi occhi non hanno perso quello sguardo brillante, ironico e pericoloso, che ha in comune con Marv, il suo protagonista più amato tra quelli che popolano Sin City. Frank lo disegnò a propria immagine e somiglianza, quando pieno di rabbia per come il cinema si appropriava delle storie dei fumetti, decise di raccontarne una che non fosse possibile portare sullo schermo, dotando Marv di un fisico di tutto rispetto. «Di solito inizio a pensare a un personaggio prendendo spunto dalla realtà. All’epoca, appeso al muro di fronte alla mia tavola da disegno, tenevo un manifesto con Conan il barbaro. Pensai che se gli avessi infilato un impermeabile alla Humphrey Bogart avrei ottenuto l’eroe che cercavo. Marv è nato così». Al cinema, dove Robert Rodriguez è riuscito a portare Frank Miller e tutta la «banda» di personaggi di Sin City una prima volta con grande successo nove anni fa, e poi di nuovo oggi grazie ad un ispirato uso del 3D, Marv è un iconico Mickey Rourke, irriconoscibile in quel ghigno

La locandina del fim, che sarà nelle sale a partire dal 2 ottobre.

protervo e allo stesso tempo d’infantile divertimento, con quell’occhiata in tralice così Milleriana. «Sin City è una mappa, una città nella città, un luogo dove succedono le mie storie criminali che galleggia in ogni realtà urbana ideata per restare un fumetto. Ci ho messo tutto quello che secondo me l’avrebbe resa inaccessibile al cinema: molte storie, e troppi protagonisti e fuorilegge fatti (come Sin City) del materiale dei sogni e degli incubi. E senza Robert, tutto sarebbe rimasto così». Ha detto divertito Frank Miller che nelle vesti di

regista ha affiancato Robert Rodriguez (El Mariachi, Desperado, Dal tramonto all’alba) che con il 3D è riuscito nell’impresa di trasmettere al film quell’astrazione suggestiva che è la caratteristica delle tavole di Sin City, ma anche tutti quei dettagli e quelle informazioni che Miller mette nei suoi disegni. A chi gli chiede di Batman e del film in uscita su questo super eroe che molto deve alla sua fantasia, Frank Miller scuote la testa e dopo un veloce «no comment» risponde così: «Grazie a Robert ho capito che si può fare un buon

film da un fumetto, “adattando” il cinema alle esigenze delle tavole disegnate e alla creatività dell’autore e non, viceversa, come fa Hollywood». In Sin City 3 D – Una donna per uccidere, c’è una scena dove si vedono delle mucche. Per quale ragione? Perché ci sono anche nel libro. E poi, perché trovo le mucche molto divertenti da disegnare e quel luogo, dove ci sarà poi una sparatoria, io lo “vedevo” come un ranch». E così il film è un prolungamento di quel sapiente gioco di specchi che Miller ha creato con il fumetto, capace di evoca-

re allo stesso tempo il romanzo «hard boiled», il film «noir» francese e molto cinema americano, dal Postino suona sempre due volte, a Sunset Boulevard, resuscitando torbide storie di sentimenti e tradimenti. Non vanno dimenticate le sue «femme fatale», come la conturbante Ava, interpretata da Eva Green. «Ava doveva essere la donna del mistero e la quintessenza della seduzione. Quando l’ho disegnata pensavo a Veronica Lake, con un tocco di Marlene Dietrich, di Rita Hayworth e Ava Gardner, ma con lo sguardo gelido di Bette Davis. Le donne di Sin City sono tutte belle e letali, e alle volte, il film racconta le loro gesta, altre illumina la loro anima grazie a tocchi di colore che ci dicono quello che le immagini in bianco e nero non mostrano». Gli occhi verdi di Ava che sprizzano perfidia, il suo vestito azzurro; la pelle candida e i capelli biondi dell’ingenua Marcie, e le bocche rosse come il sangue delle varie protagoniste, in un film dai neri pastosi e densi, girato con pellicola a colori e asciugato sino ad ottenere quel bianco e nero del fumetto. «Sì, è vero ci sono molti nudi femminili nel film, come nel libro del resto, e sono belli e artistici e nessuna attrice dopo aver letto il fumetto, ha avuto niente da ridire, puntualizza Frank Miller, e benché adesso tutte le volte che mi metto a disegnare una storia, mi venga in mente Mickey Rourke, e pensi a come farne un film, sto in effetti lavorando ad un nuovo fumetto. Forse sarà un’altra sfida con il cinema, o forse solo con me stesso». Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 29 settembre 2014 ¶ N. 40

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 29 settembre 2014 ¶ N. 40

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Cultura e Spettacoli

Cultura e Spettacoli

L’ora della verità e dei contenuti

Una radio jazz da Chiasso a Bellinzona

A fianco, sguardo sulla hall del LAC, nella pagina accanto, la sala da concerto e teatro. (Keystone)

Rete Due La rassegna

RSI si apre stasera con Pontiggia e Fresu a Lugano

LAC di Lugano La realizzazione del più grande Polo culturale del Cantone

impegna gli attori in campo da ormai molti anni

tensioni tra la città e la Comsa, il gruppo spagnolo che ha gestito il cantiere più chiacchierato dell’intero Canton Ticino. Un aumento di spesa reso ancora più indigesto dal crollo del gettito fiscale in provenienza dalle banche, finite nel maremoto degli scudi fiscali italiani, in un contesto di crisi finanziaria generalizzata, con sullo sfondo la fine, vicina, del segreto bancario. Certo, nel 2004 tutto questo non era facilmente prevedibile. Sta di fatto che uno degli obiettivi politici che si era dato il Consiglio comunale non è stato raggiunto: quest’anno il moltiplicatore d’imposta è stato portato all’80%, anche perché sui conti della città pesano altri investimenti, legati in particolare alle aggregazioni. Con il senno di poi, una più oculata scelta delle priorità cittadine avrebbe potuto impedire tutto ciò, come del resto chiedeva dieci anni fa lo stesso legislativo cittadino.

Roberto Porta La quiete degli archivi comunali di Lugano conserva un documento che rappresenta una sorta di «prima pietra» per quello che oggi noi tutti conosciamo attraverso l’acronimo «LAC». Non si tratta di certo di una misteriosa pergamena storica o di un testo letterario, ma semplicemente del rapporto con cui il Consiglio comunale cittadino diede il via alla realizzazione del nuovo cuore culturale di Lugano. Il testo è datato primo dicembre 2004 e porta il titolo di «Polo culturale, area Ex Palace». Il legislativo comunale lo discusse e lo approvò senza opposizioni, e con un solo astenuto, il 22 dicembre dello stesso anno. Fu quello l’avallo politico definitivo per il rilancio culturale della città, dopo che dieci anni prima il comune aveva deciso di acquistare l’area in totale abbandono dell’ex albergo Palace, per un importo di 30 milioni di franchi. Da quel Natale 2004, il progetto si è incamminato lungo un percorso che, contrariamente a quella degli archivi, di quiete ne ha conosciuta ben poca. Seppur scritto dieci anni fa, il documento del Parlamento cittadino si snoda lungo una sorta di filo rosso molto vicino alla realtà del presente, con numerosi richiami e avvertimenti sulle possibili difficoltà che la realizzazione del «LAC» avrebbe potuto riservare. «È infatti evidente – vi si legge – che la decisione di intraprendere questo investimento avrà importanti influenze sia positive sia portatrici di legittime preoccupazioni». E più avanti: «Non nascondiamo che le ripercussioni sui conti e sul bilancio della città possono spaventare e preoccupare; a Lugano e in Ticino non vi è mai stato un investimento nella cultura proporzionalmente paragonabile. Ricordiamo che la Città, pur avendo esperienza in materia, non ha potuto evitare in passato di incorrere in errori in operazioni molto meno onerose». Pur aderendo al progetto con il sostegno di tutti

La regola del «prudent man» appare come una sorta di bussola, che forse porterà nuova linfa alla città i partiti – anche di quelli che più tardi e spesso di domenica si sono ripetutamente scagliati contro l’intero investimento – il Consiglio comunale metteva in guardia dai possibili pericoli, sottolineando in particolare un aspetto: la realizzazione del LAC avrebbe potuto comportare la rinuncia all’esecuzione di altre opere. «Con questa decisione si è, in altri termini, scelta la prima priorità della città», scriveva nel suo rapporto la commissione della gestione del Consiglio comunale. Insomma, il LAC andava considerato il primo progetto in assoluto, per importanza economica ma anche politica e strategica. La richiesta di credi-

to – allora – fu di quasi 170 milioni di franchi per la realizzazione della parte pubblica del progetto. Un investimento da affrontare, si legge ancora nel messaggio, «adottando i criteri di prudenza conosciuti come the prudent man rule così da contenere, nel limite del possibile, eventuali brutte sorprese che graverebbero pesantemente sul bilancio cittadino e sulle future generazioni». Già, the prudent man rule, la regola dell’uomo prudente, che tiene conto delle spese che dovrà affrontare e delle entrate che gli permetteranno di rimanere perlomeno a galla. In questa ottica il rapporto del legislativo comunale parla anche di un

aspetto scottante: «la Commissione ritiene pertanto irrinunciabile porsi chiari obiettivi politici. Uno su tutti, il mantenimento dell’attuale attrattivo moltiplicatore d’imposta al 75%, nel quadro della socialità e della qualità di vita finora assunti. Ogni decisione successiva dovrà pertanto essere rapportata a questo parametro». Le peripezie del LAC ci dicono oggi che la «regola dell’uomo prudente» è stata in questi anni più volte disattesa. I costi globali sono aumentati, e si aggirano oggi attorno ai 230 milioni di franchi. Un incremento dovuto in particolare alle tante modifiche e contro-modifiche del progetto, con relative discussioni e

Un Polo unico e aperto Il futuro del LAC A colloquio con Giovanna Masoni Brenni,

responsabile dell’Area cultura e dell’istruzione, nonché vicesindaco di Lugano, sul valore della cultura, dell’ispirazione e delle finanze Le polemiche attorno alla necessità della realizzazione del LAC hanno accompagnato, spesso caratterizzandolo, il dibattito politico del nostro Cantone degli ultimi anni. Abbiamo dunque deciso di ripercorrere le tappe salienti di un lungo processo, mettendo in luce quelle che saranno le grandi sfide dei prossimi anni. Onorevole Giovanna Masoni Brenni, a che punto sono i lavori del LAC?

Entro la fine dell’anno l’edificio sarà consegnato e collaudato, e a ruota anche la questione della facciata troverà soluzione. Prenderemo possesso degli spazi in modo attivo. Dopo i collaudi tecnici seguirà la messa in esercizio, dobbiamo infatti accertarci che tutto funzioni bene, dall’umidità alla temperatura ideale per il museo, all’acustica per le sale da concerto, agli impianti della torre del teatro, e così via. L’apertura ufficiale avrà luogo il 12 settembre 2015. Come si intenderà collocare il LAC in un panorama culturale già per sua natura fitto e denso come quello ticinese? Intendete affrontare un nuovo

modo di fare cultura?

Punteremo molto sulla transdisciplinarietà: il LAC vuole essere un centro culturale aperto al contemporaneo, rivolto a tutte le forme espressive dell’arte. Le barriere tra le varie discipline esistono infatti solamente nelle nostre teste. Il LAC avrà un doppio sguardo, rivolto sia a nord, sia a sud: per il nord guarderà agli istituti culturali, alla tradizione e alla scena culturale della Svizzera di lingua tedesca e romanda, ma anche ai grandi movimenti artistici del Novecento del nord dell’Europa e agli sviluppi di essi nell’arte contemporanea; lo sguardo verso sud manterrà viva l’attenzione nei confronti della cultura e della lingua italiane. Questo posizionamento privilegiato tra nord e sud è in fondo la nostra cifra, che al LAC si indagherà e declinerà in forme diverse. Vi è un ambito in particolare su cui il LAC si focalizzerà?

Il nostro focus sarà soprattutto sul Novecento e il Contemporaneo e, come detto, fra nord e sud. La differenza rispetto al passato è che vi sarà maggiore attenzione

alla creatività, a co-produzioni e produzioni realizzate qui, anche per quel che riguarda il teatro. Non vogliamo più essere unicamente un teatro di accoglienza. La grande sfida sarà quella di riuscire a coniugare la dimensione locale con quella internazionale: essere attivatori di eccellenze locali e attrattori di eccellenze e competenze esterne. Lavoriamo da diversi anni per preparare questa anima ibrida del LAC e del Polo Culturale, ora avremo finalmente strutture adeguate. A questo riguardo in corso d’opera siamo riusciti – con l’approvazione del Consiglio Comunale – a inserire un teatro studio nel LAC. Esso ci permetterà di avere contemporaneamente spettacoli nella sala principale e prove e produzioni più raccolte, ma di qualità, nel teatro studio. Abbiamo recentemente nominato Carmelo Rifici come responsabile degli spettacoli: egli conosce bene il teatro italiano ed europeo, essendo stato per sei anni al Piccolo Teatro di Milano. Rifici si è già attivato allacciando un buon dialogo con le compagnie locali che mostrano una crescente vitalità, e

Ma al di là di questi aspetti finanziari – centrali per la riuscita di un’operazione di questo tipo – ciò che colpisce nel rapporto del Consiglio comunale del 2004 è una lacuna di peso: manca nel testo che ha dato il via libera politico al progetto una riflessione sui contenuti artistici e culturali da dare alla nuova struttura. Certo, si parla del museo, del teatro, del nuovo autosilo e degli strumenti per tenere sotto controllo i costi. Ma di arte e di cultura quasi nulla, ci sono soltanto riferimenti un po’ fumosi alla «porosità» e «permeabilità» degli spazi in una «continua dialettica tra antico e moderno». Ma non una parola su avviando un lavoro importante con le scuole. Il direttore Michel Gagnon ha conoscenza della scena teatrale internazionale, ma è attento anche alla realtà e al pubblico locali. Lo stesso vale per Etienne Reymond, direttore di Lugano Festival e della stagione musicale, forte di 13 anni di esperienza alla Tonhalle di Zurigo. Il nostro vuole essere un profilo di qualità, aperto a tutti e a più pubblici. Esiste un principio su cui il LAC si fonda?

Crediamo che la cultura sia un investimento: per la crescita culturale, sociale e per lo sviluppo economico e d’immagine che ne derivano. Ciò presuppone il riconoscimento dell’esistenza e dell’importanza di una rete di attori diversi (pubblici, parapubblici e privati) attivi nella cultura: il Polo Culturale è questo. Il suo epicentro, a Lugano, sarà il LAC, che dà e riceve. Tutti sono importanti e possono trovare la propria collocazione nella rete, rafforzandosi a vicenda: pensiamo alle biblioteche, agli archivi, ai musei, alle compagnie teatrali, a orchestre, gallerie e così via… Manca però, e dobbiamo porvi rimedio – viste e considerate le difficoltà delle finanze pubbliche – una condizione quadro essenziale per favorire il contributo (in denaro o in natura, ad esempio opere d’arte) dei privati; a questo proposito è necessario creare condizioni fiscali favorevoli, ad esempio defiscalizzando maggiormente contributi importanti di imprese e persone fisiche. Lo spazio -1 è un immobile donatoci

da privati, riattato da una fondazione anch’essa originata da un lascito privato. La Collezione Olgiati è un comodato grazie al quale siamo entrati in possesso di una grande collezione di provenienza privata. Chi mette a disposizione della collettività beni culturali di questa qualità e importanza deve vedere riconosciuto il contributo fondante a un progetto pubblico. Analogamente a chi versa importanti contributi in denaro: in molti Paesi e anche in diversi Cantoni svizzeri, chi dà un contributo in denaro a istituzioni di interesse pubblico come il museo di base, può usufruire di una importante deduzione fiscale, con realtà che toccano picchi del 100%. Da noi purtroppo si arriva solamente al 20%. Quando si parla di LAC, in particolar modo i detrattori, ma anche chi dice di difendere una visione realistica dell’investimento, mette in dubbio l’effettiva sostenibilità del progetto. Come rispondete a questa critica?

Da anni, ben prima che le finanze di Lugano si deteriorassero, direi dal giorno in cui ho ereditato il LAC nel 2004 (quando era già progettato per 7 milioni di franchi) abbiamo avviato un processo di trasformazione delle istituzioni pubbliche a semplice copertura del deficit per mano di istituti misti (pubblico-privato) per arrivare poi a mandati di prestazione a importo fisso. Ci siamo orientati su quanto capita nella Svizzera interna, dove esiste una forte compartecipazione tra pubblico e privato. Questo ci aiuterà, anche se sono

necessarie buone condizioni quadro fiscali e tempo, oltre a un cambiamento di mentalità. Per quanto riguarda i costi di gestione, li abbiamo compressi il più possibile e continueremo a farlo; dai previsti otto milioni, siamo scesi sotto i sei all’anno – comprensivi di un potenziamento dell’offerta culturale, ridotto in considerazione della situazione delle finanze, ma necessario – e ci stiamo ancora lavorando. Non dimentichiamo inoltre che c’è stato anche il restauro dell’ex Palace, che sta portando nuove attività e nuovi contribuenti, in buona parte con residenza primaria. La sfida del LAC sarà anche questa: la sua sostenibilità in un momento difficile. Riuscire a fare bene con i mezzi che abbiamo e che riusciamo a raccogliere. Riuscire, con il LAC, ad aiutare una rinascita di Lugano. Una sfida ancor più difficile, ma non per questo meno appassionante. Giovanna Masoni, in questi anni lei si è più volte trovata a dovere difendere le proprie scelte e il proprio operato. A nessuno è sfuggito il grande impegno, addirittura una sorta di affetto nei confronti di questo progetto.

Per me è un progetto che si realizza e in cui ho messo tante energie; in nove anni all’edilizia pubblica e al genio civile ho visto molti progetti edilizi, ma questo è quello che è durato di più (si è avviato alla fine degli anni ’90!). Credo che il LAC cambierà Lugano e la Svizzera italiana, un po’ come il KKL ha trasformato Lucerna. Una debolezza di

questi anni è stata rappresentata dalle critiche, non parlo di quelle costruttive, volte a migliorare, ma di quelle «per partito preso» o, peggio, per interessi economici privati spacciati per interesse pubblico. Il LAC ha richiesto molte energie, anche dal punto di vista dell’organizzazione, della costruzione del consenso politico e dei contenuti. Quando vedrò il LAC funzionante sarò felice, pur restando consapevole che si tratterà di un punto di partenza e non di un punto di arrivo. In Ticino si ha spesso l’impressione che in ambito culturale (e non solo, pensiamo a quello ospedaliero) ognuno si occupi soprattutto del proprio «orticello». Come si posizionerà un centro culturale di questo tipo di fronte a quanto già esiste su un territorio piccolo come quello ticinese?

Da quando sono entrata in Municipio ho investito molto sulle collaborazioni tant’è che, sotto la direzione unica di Marco Franciolli, molto bene inserito nella rete dei musei, Città e Cantone intendono fondere Museo Cantonale d’Arte e Museo d’Arte di Lugano in quello che sarà il vero e proprio «Kunsthaus» della Svizzera Italiana – che dovrà poi collaborare con tutti gli altri musei legati alle arti visive, ognuno con la sua specificità. Penso che ognuno dovrebbe rafforzare i propri punti forti. Credo ad esempio che Bellinzona dovrebbe valorizzare il suo museo, realtà piccola ma interessante, e puntare anche sulla storia e sul museo storico: ha i Castelli (Patrimonio

cosa fare del nuovo polo una volta terminati i lavori: che tipo di arte avrebbe dovuto ospitare? Quali sguardi culturali avrebbe potuto offrire? Certo il 15 novembre del 2004 il Municipio aveva comunque, nel suo messaggio al Consiglio comunale, abbozzato alcune linee guida, parlando di «momenti espositivi per la produzione artistica nostra e italiana» o per quella di «artisti svizzeri e internazionali, la cui ricerca deve rappresentare un momento di conoscenza e di confronto». Oltre queste indicazioni decisamente generiche, il Municipio però non era andato, o forse non aveva osato avventurarsi, anche perché in quel momento i problemi da affrontare erano più tecnici e finanziari che artistici. Sta di fatto che questo «vuoto» iniziale ha di certo pesato sull’evoluzione dell’intero progetto, bersagliato poi da polemiche e guai di vario genere: appalti e subappalti rimessi in discussione, un caso di caporalato finito in tribunale, sorpassi di spesa, direttori artistici durati lo spazio di una stagione e infine le polemiche sulle venature del marmo verde che ricopre buona parte dell’edificio. Ora manca poco al varo di Lugano Arte e Cultura, dal contenitore l’attenzione si sposterà sempre più verso il contenuto, in sintonia con il Museo cantonale d’arte e con la brezza fresca che spira dal Canada, grazie al direttore Michel Gagnon arrivato da Oltreoceano, grande amico di Daniele Finzi Pasca, con cui lavorerà in stretta collaborazione. Sarà l’ora della verità per capire se la scommessa di questo «Kunsthaus» potrà essere vinta e se il turbinio di polemiche che l’ha finora accompagnata andrà scemando. Una cosa appare certa: tra le tante cose scritte attorno al LAC quella prudent man rule appare oggi come una sorta di bussola, se si vuole davvero che dal LAC sgorghi nuova linfa per una città che, scossa dalle cifre rosse, sta ancora cercando la propria identità futura.

La stagione dei concerti jazz di Rete Due continua nella sua meritevole e anche generosa opera di decentramento logistico. Dei sette appuntamenti che caratterizzano il suo programma da qui a dicembre 2014 ben cinque si terranno «in trasferta», cioè all’esterno degli auditori della Radio di Besso. Quanto ciò sia importante è forse inutile ricordarlo. Da un lato permette alla «musica moderna di qualità» di toccare diverse località e diversi pubblici del cantone. Dall’altro offre la possibilità a organizzatori locali di vedere messa in rilievo (e con questo premiata) la propria militanza nel settore dell’organizzazione musicale. Per quanto riguarda il programma (consultabile online all’indirizzo www.rsi. ch/jazz) segnaliamo con particolare piacere il concerto di questa sera allo Studio Due di Besso: segna il ritorno sulle scene di primo piano di un musicista ticinese dalle grandi doti. Dopo il successo ottenuto dalla pubblicazione del suo ultimo album (vedi «Azione 26» del 23.6 scorso) Claudio Pontiggia ripropone a Lugano l’incontro tra il suo laboratorio sonoro LABOttega e il trombettista italiano Paolo Fresu. Si tratterà quindi di vedere consolidata una formula che, nata sul palco di un concerto campionese del 2012, vale oggi come ottimo esempio di jazz orchestrale piacevole e ben confezionato. Nelle prossime settimane avremo modo poi di confrontarci con altri eventi

UNESCO), l’Archivio di Stato e un centro storico molto ben conservato. Senza contare Castellinaria e Babel. Locarno è regina del cinema: il Palacinema e i lavori al Fevi rafforzeranno ulteriormente il Festival di Locarno e di conseguenza una regione con molte realtà preziose, come ad esempio quella delle arti visive. Senza contare il Monte Verità e le Settimane Musicali. Chiasso ha un Polo Culturale piccolo ma agguerrito. Mendrisio ha l’architettura, comprendente, oltre all’Accademia, istituti di ricerca e archivi di architettura e design molto preziosi e di alto profilo. Presto avrà anche un museo. Quello che tutti i centri urbani dimostrano è che non esiste turismo senza cultura. E mi pare che i sindaci e la sindaca delle nostre città l’abbiano ben presente. Non dimentichiamo che la cultura porta un indotto economico stimato fino a sei volte. La cultura produce lavoro e innovazione, e ha un ritorno di immagine. Personalmente sono convinta del fatto che, più si rafforzano le realtà culturali presenti sul territorio, più il territorio si sviluppa, ed è uno sviluppo di qualità, e per tutti, a cui tengo. Il Ticino ha un’università che ancora non ha vent’anni; quella di Basilea ne ha quasi 570 ! Lugano è stata la prima città del Cantone ad avere un Dicastero cultura, seguito da quello di Chiasso, ma siamo ancora giovani rispetto ad altre realtà; è un cammino di sviluppo, che dobbiamo percorrere insieme, a poco a poco. / Simona Sala

altrettanto originali e interessanti: si inizia il 3 ottobre al conservatorio di Lugano (e qui la sinergia lega Rete Due a OGGIMusica) per l’esibizione del Christoph Stiefel Trio. Si prosegue l’8 ottobre a Jazz in Bess di Lugano, sede dell’Associazione Jazzy Jams, per l’incontro con il jazz scandinavo del gruppo Atomic, capitanato dal sassofonista Frederik Ljungqvist. Il 16 ottobre a Bellinzona serata di grandissimo richiamo per l’incontro tra Jan Garbarek e lo Hilliard Ensemble, all’incrocio tra jazz e canto gregoriano, mentre l’8 novembre a Lugano presenteranno un altro meeting di pregio il pianista Michael Camilo e il chitarrista flamenco Tomatito. Dopo una puntata tra le sonorità jazz più moderne offerta il 12 novembre dal tastierista Tigran Hamaysan a Lugano, di grandissimo spicco sarà il 23 novembre a Chiasso il ritorno in Ticino di Steve Swallow e di Carla Bley. Tutti i concerti saranno naturalmente trasmessi alla radio da Rete Due, ma è evidente che l’esibizione live rimane luogo privilegiato per apprezzare il gioco dell’improvvisazione collettiva e della creatività jazzistica. L’invito è quello dunque di approfittare di una offerta eccezionale, che ci porta il miglior jazz… fuori dalla porta di casa. /A.Z.

Carla Bley e Steve Swallow saranno a Chiasso il 23 novembre prossimo.

In collaborazione con



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Cultura e Spettacoli Rubriche

In fin della fiera di Bruno Gambarotta Cosa lasciare ai posteri? Ho sognato che curavo la regia del mio funerale, occupandomi di tutti i dettagli con la maniacale cura che mi hanno sempre rimproverato. Pianificavo la cerimonia, segnando sulla piantina della chiesa i posti dei presenti, parenti, amici e semplici curiosi. Con un particolare di non secondaria importanza: io ero già morto e il constatarlo mi regalava calma e serenità, mentre, se fossi stato ancora vivo, sarei stato assillato dal demone del perfezionismo. Tornato sveglio, dopo essermi accertato che popolavo ancora questa valle di lacrime, ho deciso che la causa del sogno era da attribuire alla lettura, fatta la sera prima, di un capitolo dell’autobiografia di Per Olov Enquist intitolata Il libro delle parabole (sottotitolo: Un romanzo d’amore). Enquist parla di sé in terza persona, come già aveva fatto nel precedente memoir Un’altra vita e, come ogni vero scrittore, scava senza pietà e indulgenza nei meandri oscuri di una vita oramai lunga. L’occasione per rimettere mano alla sua biografia è data dal ritrovamento fortuito di un quader-

no di poesie scritte da suo padre che morì quando lui aveva sei mesi lasciandolo in balia di una madre dedita a rigorose e implacabili pratiche religiose. La madre, sognando per lui un futuro da sacerdote, gli regalò una macchina da scrivere sulla quale avrebbe dovuto battere le future prediche e che invece lo invogliò a diventare scrittore. Si tramandava in famiglia che il quaderno fosse stato gettato nel fuoco dalla madre scandalizzata, ma una cugina, quando Enquist ha 77 anni, lo ritrova e glielo spedisce; ci sono tracce di bruciature, tali da lasciar dedurre che la madre, pentita del suo gesto, l’avesse estratto dalla stufa dove poco prima l’aveva gettato. Dal quaderno però sono stati strappati nove fogli e nove sono le parabole di cui si compone il romanzo che si interroga sul contenuto dei fogli scomparsi. Una frase mi aveva colpito e l’avevo trascritta. Diceva: «E dopo non c’era più niente da aggiungere. Nemmeno una vita supplementare. (...) Ma cos’era stata allora? Una pila di libri e di drammi. E lui come una pelle di

serpente lasciata lì. Era quella pila di libri, allora, la vita?». Da quell’immagine di un lascito consistente in una pila di libri (non quelli scritti da me ma collezionati nel corso di una vita) ho iniziato a farmi per la prima volta delle domande su cosa lascerò a chi mi sopravviverà. Oltre ai libri, essendo uno che non butta mai via niente, ho accumulato una montagna di quaderni e di blocchi di appunti, di fotocopie, di trascrizioni di pagine altrui, ritagli di giornale. Molti sono chiusi in scatole di cartone issate in cima agli armadi o impilate nel garage. Devo iniziare a disfarmene mettendo tutta quella carta nel bidone della raccolta differenziata o è meglio lasciare questo compito agli eredi? Non posso pretendere che si mettano a sfogliare pagina per pagina per decidere cosa buttare e cosa tenere se io stesso non sarei in grado di decifrare gli appunti più remoti nel tempo. È sempre in agguato la tentazione faustiana di pilotare dall’al di là la vita di chi ci sopravvive; è il caso di chi vincola una quota dell’eredità all’accettazione di

precise condizioni. Si legge di collezioni d’arte donate alla collettività con l’obbligo tassativo di mantenerle unite. Nel mio piccolo potrei seguire l’esempio, lasciando a uno dei figli o dei nipoti, con l’obbligo di non smembrarle, raccolte di volumi messi insieme solo per avere tutti gli esemplari del catalogo, anche se alcuni testi non mi interessano e so per certo che non li leggerò mai. Sarebbe in contraddizione con il principio, nel quale ho sempre creduto, della «distruzione creativa»: gli eredi che, per svuotare un appartamento, rimettono sul mercato i libri, i quadri e gli oggetti d’arte del defunto, con quel gesto assicurano la continuità di quel meraviglioso passatempo che consiste nell’andare per mercati a frugare sulle bancarelle alla ricerca di un tesoro che solo noi siamo in grado di riconoscere. In fatto di vincoli, nel romanzo di Per Olov Enquist il gioco è ancora più raffinato: il figlio che non ha mai conosciuto il padre, si arrovella sul contenuto di quelle nove pagine che la madre ha strappato dal taccuino di poe-

sie d’amore. Potrei allestire una trappola simile; però mi vanto di essere uno dei pochi italiani che non ha mai scritto una poesia (pare che gli Italiani che ritengono di essere dei poeti perché quando scrivono vanno a capo prima che la riga sia completa siano otto milioni, una vera piaga d’Egitto). Quali simboli sono in grado di lasciare in eredità ai miei figli perché si ricordino di me? Di fronte alla mia scrivania, posati su una mensola, ho i lasciti dei miei genitori. Di mio padre tipografo ho il compositore, uno strumento di metallo cromato formato da una sbarra piegata ad angolo retto e da un cursore sul quale scorre un dispositivo di fermo per fissare la giustezza delle righe. Lì andavano deposti i caratteri e gli spazi di piombo pescati con una pinzetta dai cassetti. Di mia madre, pettinatrice, ho uno strumento ancora più elementare, i ferri per fare i ricci alle clienti. Da parte mia posso lasciare ai miei figli una chiavetta USB che archivia i miei testi e un CD con le fotografie. Con la certezza che fra pochi anni saranno illeggibili.

non si poneva, nel suo «giardino» avevano spazio anche le donne, ma la filosofia che cerca solo i piaceri stabili impediva ogni forma di passione, prima fra tutte quella amorosa. Scapolo Epicuro e scapolo anche Zenone lo Stoico. È quello che avrebbe voluto Eloisa per il suo Abelardo, nella Parigi dopo il Mille. Non sposarmi, chiedeva Eloisa, come potrai studiare tra i pianti dei bambini? Consentimi di essere la tua concubina, così da non essere legato a nessuno, libero di diventare un grande intellettuale. Abelardo la ascoltò, ma solo in parte, sposò Eloisa di nascosto, per non rovinarsi la carriera, e così si rovinò la vita. I parenti della ragazza infatti la ritennero sedotta e abbandonata, pensarono bene di evirare il colpevole e poi la storia è nota. Non si sposò invece Galileo, che ebbe figli ma non da una moglie. D’altra parte, per essere coerente, l’innovatore del metodo scientifico sarà stato ben inviso ai genitori delle fanciulle che frequentava: se la certezza dipende dall’esperimento, come essere certi

dell’amore di una donna se non esperendolo? Non c’è niente da fare, i filosofi hanno sempre disprezzato le unioni coniugali, fino a dire che «un buon matrimonio sarebbe quello di una donna cieca con un uomo sordo», come scrisse Montaigne. Al massimo dal Settecento lo si concepì come un dovere verso la stirpe umana, consigliando quindi una sposa giovane, in buona salute, senza grilli per la testa, come scrisse Kant. Solo il Novecento comincia ad avere filosofe. A loro credito va detto che non hanno nei confronti del maschio il disprezzo e l’acredine dei colleghi. Certo, dal vincolo matrimoniale si sentono relativamente legate, però riescono ad armonizzare la maternità e la passione con gli studi meglio dei maschi. Pensiamo a Hanna Arendt, moglie due volte, amante di Martin Heidegger, pensatrice eccellente. E oggi? Oggi non è cambiato nulla, ma su questi temi è meglio parlare «esclusi i viventi», di cui si sa molto e non sempre con onore.

che già se ne vedono in atto i risultati è persino superfluo. «Siamo passati – scrive Maffei – dalla coercizione al metodo della persuasione e della seduzione»: non più costringere ma convincere di ciò che è bene o male per il consumo. Mezzi di comunicazione e pubblicità sono coalizzati in questa direzione. Nel sito «Esodo.net» trovo uno straordinario intervento (6) del mio amico Gianandrea Piccioli, ex direttore editoriale della Garzanti, che mette in fila e commenta lucidamente alcuni dati sul mondo in cui viviamo. Per esempio questi, tratti dai giornali: il capitale finanziario che circola nel mondo è di cinque volte superiore al capitale produttivo (255 miliardi di dollari in moneta rispetto a 55 miliardi di dollari in beni materiali); 85 miliardari possiedono da soli il reddito di 3 miliardi e mezzo di poveri; l’Occidente (17% dell’umanità) consuma l’80% delle risorse mondiali. La domanda di Piccioli è: «È possibile un grande futuro per un mondo così? O il

problema è solo quello di sapere quando si andrà a schiantare?». Il teso saggio di Piccioli si conclude citando un passo del poeta Raffaello Baldini, nato novant’anni fa a Santarcangelo di Romagna e morto nel 2009 (chi se lo ricorda più?), che qui trascrivo ricollegandolo alle argomentazioni di Maffei sulla necessità di coltivare la lentezza e l’inutile come forme non solo di contravveleno ma di leopardiano eroismo: «Tanto è tutta roba che, lo so, non serve a niente, ma se dovessimo buttare via tutto quello che, tutto quello che non serve a niente, non si può, neanche a volere, non si può, uno sguardo, per dire, incontri una bella ragazza, la guardi, a cosa serve? Alla televisione, stai a vedere i campionati europei d’atletica, i cento metri, i duecento metri, i quattrocento a ostacoli, il salto in alto, a cosa serve? O quando vengo giù dalla Marecchia, che è già notte, vedo San Marino e Verrucchio che è tutta una luce, delle volte mi fermo, si sentono tanti di quei grilli, a cosa serve?».

Postille filosofiche di Maria Bettetini Matrimoni filosofici Settembre, andiamo, è tempo di sposare. Nelle cronache mondane è un profluvio di abiti candidi con scollature meno virginali, invitati vip mescolati a parenti ruspanti, è di moda sposarsi. In un castello se si è non al primo matrimonio e si possiedono ingenti patrimoni, in una chiesa con vescovo se si può dare l’impressione del primo e unico, un omaggio alle mamme e alla tradizione. Le mamme, che cosa pensano ai matrimoni? Abbi cura del mio bambino. Anche io ero così magra e piena di speranze. Ma guarda se sua zia doveva presentarsi senza calze e con lo smalto nero. E gli altri? Le amiche della sposa: toccherà anche a me, ma starò ben attenta. Gli amici dello sposo: che incosciente, così giovane e già legato. Le zitelle recidive: se ce l’ha fatta lei… E il corrispettivo maschile: ridi ridi, vedrai poi come ti tratterà. I sondaggi lo confermano, l’atteggiamento maschile è diverso da quello femminile. Ed essendo nei secoli la filosofia fatta quasi tutta da uomini, non sarà difficile immaginare i

consigli del filosofo a proposito di matrimonio. Saranno inviti a fuggirlo, oppure a usarne come di un male necessario alla sopravvivenza dell’umano genere. Questo è vero, ma invece di rattristarci con invettive e anatemi, perché non provare a immaginare come sarà stato, o avrebbe potuto essere stato, lo sposalizio ideale di alcuni filosofi? Per esempio Empedocle, che riteneva odio e amore all’origine del ciclico farsi e disfarsi del mondo. Se non lo aveva già lui, avrà dovuto trovare una donna affetta da disturbo bipolare: momenti di grande passione e trasporto, che vedevano i due stretti e inseparabili, alternati a violente discussioni, dispetti, musi lunghi. E che dire di Socrate, sposato alla bisbetica Santippe? Ne aveva così tanta considerazione da cacciarla dalla cella in cui si apprestava a bere la cicuta circondato dai discepoli. Al posto di Santippe ci voleva una fanciulla efebica, indistinguibile dal riccioluto Fedone e dagli altri ragazzi allievi del maestro. Quello che però si è messo davvero nei

guai è un altro discepolo, quel Platone che nella città ideale vedeva i matrimoni organizzati dal governo: uomini e donne si sarebbero uniti solo se selezionati, e in un giorno preciso, che ancora gli studiosi non hanno capito quale sia (è la irrisolta diatriba detta «del numero delle nozze»). I loro figli sarebbero stati affidati alla comunità, la loro unione sciolta in vista di altri matrimoni. Nella realtà, nemmeno i kibbutz né altre forme di società comunistica hanno raggiunto questo grado di utilitarismo e distacco affettivo. Platone avrebbe meritato quindi o di essere scartato, oppure di unirsi con una bellissima fanciulla, per poi doverla abbandonare alla nascita del primo pargolo. Molto più pratico, come sempre, Aristotele che vede la famiglia stessa come una piccola polis, dove il governo è affidato all’uomo e a una donna inferiore ma amica, addirittura superiore al maschio se molto ricca. (Per un pugno di dracme si poteva chiudere un occhio sull’inferiorità delle donne). Per Epicuro invece il problema

Voti d’aria di Paolo Di Stefano L’«homo velox» che è dentro di noi Giacomo Leopardi, nello Zibaldone, scriveva che «la pazienza è la più eroica delle virtù giusto perché non ha nessuna apparenza eroica». Viveva in un’epoca molto diversa dalla nostra che gli permetteva di misurare il tempo secondo criteri che non ci appartengono più. Questo non è un mondo per gente paziente. Ma il cervello? Tutto congiura a favore della velocità e dell’impazienza, tranne il cervello. È la morale che si trae dalla lettura del libro di un neuroscienziato, Lamberto Maffei, intitolato Elogio della lentezza (Il Mulino), voto 5½. Vivo tutto il giorno nella redazione di un quotidiano, dove il tempo, con lo spazio, è la coordinata essenziale e irrinunciabile, ma ogni tanto, lo confesso, vorrei uscire e respirare in un ritmo diverso. Ora so che me lo impone il cervello, più che il cuore. Maffei spiega che i meccanismi cerebrali sono naturalmente lenti e che il tentativo di farne meccanismi veloci va incontro a frustrazioni e ansie. Bisogna seguire con pazienza il suo

ragionamento. Il mondo globalizzato del consumo produce, alla lunga, desideri e comportamenti comuni, ma anche interessi culturali e un linguaggio omologato, privi di creatività di espressione individuale e di capacità critica: «un esperanto di parole e di gesti». Ciò che è comune diviene automatico, cioè viene accolto senza riserve, per cui il sistema nervoso sviluppa i circuiti adibiti alle risposte automatiche, in quanto lo stimolo richiede una reazione rapida, un riflesso emotivo. Se l’emisfero destro, quello della rapidità, vince sull’emisfero sinistro, che è quello linguistico evolutivamente più tardivo, assisteremo, secondo Maffei, a un «ritorno all’indietro del tempo, cioè a un cervello che tende a usare funzioni più primitive che lo facilitano nella socialità del mondo globalizzato, cioè nella necessità di avere risposte rapide, nell’emotiva, irrequieta, fideistica idea di ottimizzazione del tempo perché questo è denaro, business e così via». La conseguenza sarebbe paradossale:

la globalizzazione, il più moderno traguardo della civiltà, rischia di produrre un’involuzione cerebrale riportandoci su sentieri irrazionali e fuori controllo. Il guaio è che non sono parole di un pazzo visionario seguace di Nostradamus, ma di uno scienziato, dunque vanno prese molto sul serio. Vorrei riuscire a rispondere con la stessa chiarezza di Maffei a quanti, tantissimi, quasi tutti, non fanno che tessere quotidianamente le lodi della velocità, dello scambio immediato, del contatto frenetico e senza sosta. Il successo evolutivo dell’«homo velox o consumens» comporterebbe il tramonto delle azioni considerate «inutili», come la letteratura non finalizzata al consumo, la poesia, la conversazione per il piacere di parlare, la filosofia. Più in generale verrebbe meno la facoltà raziocinante e dunque l’argomentazione astratta e complessa: la società dei consumi fonda il suo successo sulla soddisfazione di quelli che Freud elencava come istinti primordiali (cibo, sesso, potere). Dire


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Idee e acquisti per la settimana

shopping Gustare il pesce consapevolmente Pesce fresco Tutto il pesce al banco della Migros proviene da fonti sostenibili. I responsabili

delle nostre pescherie vi consigliano alcune prelibatezze. Approfittate inoltre del buono sconto accluso del 10 per cento, da ritagliare (ultima di 4 puntate) Questa settimana nei reparti pesce Migros il filetto di passera certificato MSC dell’Atlantico nord-orientale è proposto ad un prezzo molto vantaggioso. Un’ottima occasione per dilettarvi a casa con qualche saporita ricetta che lo contempli come ingrediente (vedi sotto). «La passera è un pleuronettide che vive sui fondi marini sabbiosi. Data la sua forma piatta la filettatura del pesce intero non è tra le più semplici. Per questo proponiamo i filetti bell’e pronti per la padella». Andrea Oddo, a capo della pescheria di Migros Lugano, ci confida anche che per esaltare al meglio l’eccel-

lente sapore dei filetti di passera non andrebbero usate spezie troppo forti o salse pesanti. La passera venduta ai banchi pesce Migros è certificata MSC. Questa organizzazione internazionale indipendente contrassegna esclusivamente il pesce selvatico pescato in modo sostenibile. Insieme a partner quali il WWF e la Migros, MSC si batte per impedire la pesca eccessiva nei mari. I parametri per ottenere la certificazione MSC si basano sulla sostenibilità degli stock, le conseguenze sull’ecosistema della pesca e la gestione della stessa.

Per saperne di più generazione-m.ch

Parte di

Il Marine Stewardship Council (MSC) è sinonimo di pesca sostenibile certificata in modo indipendente. I pesci e i frutti di mare provengono sempre da pesca selvatica. MSC contribuisce a preservare le risorse, ossia i pesci e il loro ambiente, negli oceani e nei laghi.

Generazione M è il simbolo dell’impegno sostenibile della Migros. Il marchio MSC ne fornisce un prezioso contributo.

Il responsabile del reparto pesce di Migros Lugano, Andrea Oddo: «La passera possiede carni bianche particolarmente gustose». (Flavia Leuenberger)

Involtini di passera al pesto con cura e teneteli in caldo nel forno. Rosolate le mandorle nel fondo di cottura e mettetele da parte. 2. Bagnate il fondo di cottura con il fumetto di pesce. Aggiungete la panna e lasciate ridurre finché ottenete una salsa cremosa. Tagliate il limone a spicchi. Insaporite la salsa con sale, pepe e succo di limone e servitela sugli involtini. Cospargeteli di mandorle e serviteli con gli spicchi di limone. Accompagnate con riso in bianco o patate lesse. Preparazione 1. Scaldate il forno a 70 °C. Disponete i filetti sul piano di lavoro, spennellateli con un poco di pesto e arrotolateli. Infarinate gli involtini. Scaldate olio e burro in una padella antiaderente. Rosolate gli involtini tutt’intorno per 2-3 minuti. Estraeteli

Tempo di preparazione ca. 30 minuti Ricetta di:

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Ingredienti per 4 porzioni 12 filetti di passera, ca 600-700 g 8 cucchiaini di pesto al basilico farina per infarinare 1 cucchiaio di burro 1 cucchiaio d’olio di semi di girasole 40 g di mandorle a scaglie 1.5 dl di fumetto di pesce 100 g di panna semigrassa per salse 1 limone sale pepe

Validità: dal 30.9 al 4.10.2014 / Nessun importo minimo d’acquisto Buono utilizzabile nelle filiali Migros di Locarno, Lugano (Via Pretorio), Serfontana e S. Antonino. È possibile utilizzare un solo buono sconto originale per acquisto. Non cumulabile con altri buoni sconto.


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Idee e acquisti per la settimana

Dai delicati champignon agli aromatici porcini, funghi per tutti i palati Attualità Come gustare al meglio

i funghi freschi I funghi, autentiche gemme dei boschi, si distinguono per il loro sapore deliziando il palato in preparazioni che spaziano dagli antipasti ai primi, secondi, zuppe e insalate. Ricchi di fibre e poveri di grassi, hanno un alto contenuto in sali minerali quali fosforo, manganese, potassio e calcio e un discreto contenuto di vitamina B1 e B2 e C. Per queste proprietà, i funghi sono alleati di ossa, sistema cardiovascolare ed immunitario. Inoltre, grazie alla loro consistenza, vengono considerati vera e propria «carne vegetale» da chi adotta una dieta vegetariana. Il loro profumo, la qualità più spiccata che conferisce loro gusto e sapore, è delicato, motivo per il quale i funghi vanno trattati con cura durante tutte le fasi, dal raccolto alla conservazione, fino alla pulitura e cottura. Le parti terrose vanno eliminate con un coltellino e spazzolate con un pennello apposito. I funghi non vanno lavati con acqua ma

strofinati delicatamente con una pezzuola umida. Fortunatamente i funghi in commercio sono pronti all’uso, e da Migros trovate una ricca selezione tra cui scegliere. Prataioli, gallinacci, shiitake, porcini, pleurotus, ogni fungo con il suo sapore e le sue caratteristiche. Gli shiitake sono ideali per chi vuole cimentarsi in piatti asiatici. I versatili champignon, che nelle varietà bianca e bruna si prestano ad essere consumati a crudo in insalata come cotti in salse per carne e pasta. I gallinacci hanno un sapore che ricorda il pepe e l’albicocca. Grazie al suo aroma nocciolato il porcino è tra i funghi più amati. Migros pensa a tutto e sulle confezioni trovate dei simboli che indicano le preparazioni più indicate per la qualità di fungo che avete acquistato, così da gustarne al meglio tutte le qualità organolettiche. Largo a freschezza, varietà e gusto! / Luisa Jane Rusconi

Funghi: consigli in cucina mono l’accostamento con vini aspri, tannici e amarognoli, dunque non è indicato accompagnarli con i vini rossi corposi. Sopportano invece i vini morbidi, bianchi o rosati e lievemente aromatici. Se usati a crudo e in insalata meglio evitare l’aceto per non comprometterne il gusto.

Rassegna dei prodotti ticinesi al Serfontana

Flavia Leuenberger

I funghi sono un ingrediente delicato per il quale è meglio avere qualche accorgimento in quanto subiscono molto l’influenza dei condimenti e dei tipi di cottura. Salvo eccezioni, non vanno cotti troppo a lungo. Per non comprometterne il sapore è meglio evitare l’uso di cipolla e aromi forti. I funghi te-

L’autunno e suoi sapori

State cercando il meglio della produzione agroalimentare regionale? In questo caso non potete perdervi la consueta rassegna autunnale dei prodotti ticinesi, prevista presso il Centro Shopping Serfontana dal 1. al 4 ottobre. Migros sarà presente all’appuntamento con il suo stand dedicato agli innumerevoli prodotti dei Nostrani del Ticino, i quali potranno essere degustati e acquistati. Ospite speciale della rassegna di quest’anno sarà Bellinzona Turismo con la mostra «Bellinzonese da scoprire». Una ruota della fortuna con vari omaggi da vincere è invece quella proposta dalla Rassegna Gastronomica del Mendrisiotto e Basso Ceresio. Infine, giovedì e sabato tutti presenti per partecipare alla lotteria gratuita con tanti ricchi premi in palio.

Voglia di un bel piatto di salmì di cervo?

Per celebrare come si conviene l’arrivo della nuova stagione, da oggi e fino al 25 ottobre i Ristoranti di Migros Ticino propongono ai propri avventori una straordinaria selezione delle più tipiche e golose specialità autunnali. Un appuntamento imperdibile per tutti gli amanti della buona cucina che sono sempre alla ricerca di qualcosa di particolare e at-

tuale. All’appuntamento gastronomico non possono ovviamente mancare classici piatti di selvaggina con tutti gli immancabili contorni, i formaggi accompagnati da raffinate mostarde, le zuppe e i primi piatti colorati e profumati; come pure deliziosi dolci e dessert realizzati coi frutti tipici della nuova stagione. Vi aspettiamo!


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Idee e acquisti per la settimana

Gnocchi di riso nostrani più convenienti

A caccia di piatti esclusivi Novità L’aromatica carne di cervo si trasforma

Tenera, gustosa e leggera, la carne di cervo è senza dubbio tra le varietà di selvaggina più apprezzate dai consumatori. E proprio in occasione della stagione della caccia, nei maggiori supermercati Migros del cantone sono state introdotte alcune classiche specialità a base di squisita carne di cervo che regaleranno

un tocco di originalità ai vostri menu di selvaggina. Il carpaccio è disponibile nelle varianti al naturale oppure in quella con l’aggiunta di rucola e parmigiano reggiano. Prima di servirlo conditelo con un filo d’olio d’oliva, del sale e del pepe macinato di fresco e, a piacimento, uno spruzzo di succo di limone. La

Giovanni Barberis

Loredana Mutta

in tartare e carpaccio

Gnocchi di riso 500 g Finora Fr. 5.30 Ora Fr. 4.50

tartare è invece bell’e pronta per essere portata in tavola dal momento che è già condita con una delicata miscela di spezie. Accompagnatela semplicemente con delle fette di pane tostato imburrato. Correte a gustarvi queste bontà stagionali perché saranno disponibili solamente per qualche settimana!

Carpaccio di cervo con rucola e parmigiano reggiano 100 g Fr. 7.70 Carpaccio di cervo al naturale 100 g Fr. 7.90 Tartare di cervo 100 g Fr. 4.90 In vendita al libero servizio nelle maggiori filiali Migros.

La saporita specialità a base di riso ticinese ora costa il 15 per cento in meno. La riduzione di prezzo è stata possibile grazie all’ottimizzazione del processo produttivo da parte del Pastificio di Lella di Sementina. Questo piccolo laboratorio a conduzione famigliare nato nel 1968 – che oltre agli gnocchi di riso per Migros Ticino produce anche le cicche del nonno e gli gnocchi tradizionali – è stato recentemente ristrutturato per soddisfare tutti gli attuali requisiti di qualità. Gli gnocchi di riso si caratterizzano per la loro leggerezza e digeribilità. Sono ottimi serviti semplicemente con burro e salvia, oppure, per gli amanti dei condimenti più saporiti, anche con pesto o sughi tipici quali amatriciana o arrabbiata.

Castagne che bontà Da farne una scorpacciata

L’autunno è naturalmente sinonimo di castagne. Povere di grassi ma ricche di vitamine B e C, nonché di minerali e carboidrati, questi deliziosi frutti sono apprezzati nei più svariati modi: dalle tradizionali caldarroste ai vermicelles, dai marron glacé fino alle irresistibili preparazioni a base di farina di castagne come gnocchi, creme, torte, paste, confetture, ecc. A proposito: essendo prive di glutine, le castagne possono essere consumate

senza problemi anche da chi soffre di celiachia. Inoltre sono un alimento ideale per bambini e sportivi dal momento che forniscono preziosa energia all’organismo. Gli amanti delle castagne nei supermercati Migros trovano non solo le castagne fresche, ma anche vermicelles, marroni sciroppati, alcuni ideali accompagnamenti quali doppia panna e lardo nonché un pratico «cuocicastagne» elettrico.

Impossibile resistere: l’offerta di varietà d’uva da tavola attualmente disponibile nei reparti frutta Migros è ricca e invitante. Da quella bianca come l’uva Italia, la Pizzutella, quella priva di semi, passando per la varietà rosata Red Globe e fino alle uve nere Lavallee, Palieri e Moscata… C’è n’è per ogni gusto ed esigenza. L’uva, del resto, è un prezioso alleato per il nostro benessere. Lo zucchero d’uva che contiene, il glucosio, una volta assunto tramite l’alimentazione passa direttamente nella circolazione sanguigna trasformandosi rapidamente in energia. Una cura a base d’uva è particolarmente raccomandata per regolare l’intestino, durante le convalescenze, in caso di anemie e affezioni digestive. Un tempo, in occasione dell’autunno era molto diffusa la pratica dell’ampeloterapia, la vecchia «cura dell’uva». Un metodo tutto naturale per depurare l’organismo prima della stagione più fredda dell’anno. Da non dimenticare, infine: l’uva è ricca anche di potassio, ferro, calcio e magnesio.


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OLTRE 4 MILIONI DI ACQUISTI DIMOSTRANO CHE LA MIGROS È PIÙ CONVENIENTE DELLA COOP. Dal 26.8 all’1.9.2014, in collaborazione con l’Istituto di ricerche di mercato indipendente LP, abbiamo ripetuto il più grande confronto di prezzi nel settore del commercio al dettaglio svizzero, prendendo in considerazione oltre 5000 articoli. Nell’ambito di questo studio oltre 4 milioni di acquisti, realmente effettuati, sono stati messi a confronto con acquisti avvenuti alla Coop. Risultato: alla Migros si risparmia il 10,6%. È quindi dimostrato ciò che i nostri clienti sanno da sempre: LA MIGROS È SEMPRE PIÙ CONVENIENTE.

MGB www.migros.ch W

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Idee e acquisti per la settimana

Piacere senza lattosio Sempre più persone utilizzano i prodotti aha!, che sono esenti da lattosio e fabbricati senza l’impiego di latte vaccino. Tre donne ci parlano dei loro prodotti preferiti

Iris Probus, istruttrice di fitness diplomata e ex Miss Universe Fitness, è molto attenta all’alimentazione equilibrata. «A colazione mi concedo volentieri del pane croccante spalmato con della Délice extra light». aha! Délice extra light 250 g Fr. 2.20

Elisabeth Schätti, pensionata e più volte nonna, prepara volentieri dolci per i propri cari. «Amo ingolosire spesso i miei cari con delle torte fatte in casa. Per mio genero, che è intollerante al lattosio, utilizzo Sanissa Classic». aha! Sanissa Classic 250 g Fr. 1.90

Esther Abt, Esther Abt, decoratrice e amante della vita, già da alcuni anni consuma prodotti senza lattosio. «Non voglio rinunciare al mio pane con burro alla mattina. Per questo ho scelto il burro aha!». aha! Burro 100 g Fr. 2.65

L’industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui anche i prodotti aha!.


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Idee e acquisti per la settimana

Foto e Styling Simone Vogel

Dolci sogni autunnali: i prodotti American Favorites apportano varietà e gusto.

Sweet Dreams American Favorites porta l’autentico stile di vita americano sulle tavole svizzere Anche in Svizzera gli amanti della cucina americana non resteranno a mani vuote: per loro esiste infatti l’esclusiva linea della Migros American Favorites con il suo ricco assortimento di deliziosi prodotti ispirati al tipico lifestyle a stelle e strisce. Un classico tra le specialità americane di pasticceria è il Donut. E ovviamente queste ciambelle dolci non potevano mancare nella linea American Favorites. Sono ottenibili in una pratica variante mini, ideale come spuntino tra i pasti. Un’altra bontà è il Brownie: questo dolce al cioccolato è ottenibile sotto forma di torta cosparsa di noci. Perché non sorprendere un collega in occasione del suo compleanno? È sufficiente infilare una candela sulla torta è già subito può par-

tire la famosa melodia Happy birthday. Tra le specialità più apprezzate si contano poi i Muffins. Di questi durante la stagione autunnale il più gettonato è la variante Blueberry: i mirtilli conferiscono al muffin una nota fruttata che ben si sposa con la dolcezza della pasta. Preferite qualcosa di più sostanzioso? Allora concedetevi una Bagel, con o senza superficie cosparsa di sesamo, da riempire secondo i gusti con carne, formaggio, salmone o insalata. American Favorites si ispira al tipico lifestyle e gusto americano. L’ampio e variato assortimento è composto da una trentina di prodotti freschi nei settori pane, pasticceria, convenience food e latticini. Sono tutti prodotti in Svizzera, seguendo le ricette della tradizione statunitense.

American Favorites Bagel con sesamo 340 g Fr. 3.20

American Favorites Blueberry Muffin 100 g Fr. 2.–

American Favorites Brownie Cake 380 g Fr. 5.50

American Favorites Mini-Donuts Sugar 72 g Fr. 2.60


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Idee e acquisti per la settimana

Scambia, gioca, colleziona

ggiare e z z e v a D Peluche di Wolli, 5 motivi diversi, l’uno Fr. 14.80

Una visita dagli abissi! In spettacoli itineranti, in fotografia o addirittura nella scatola per il pranzo: tutta la Svizzera è in preda alla Captormania

ndo o m a r i g i Per

La principale attrazione degli spettacoli itineranti di Captormania: il gigantesco sommergibile gonfiabile.

Per i viaggi Trolley a due ruote, dimensioni: 38 x 50 x 20 cm. Peso: 2,8 kg Fr. 49.90

SPETTACOLI ITINERANTI

I Captors in tournee Scambi, salti, lavoretti manuali, giochi: fino al 25 ottobre il grande Tour di Captormania fa tappa nelle filiali della Migros. In una trentina di filiali Migros di tutta la Svizzera si potrà giocare con i Captors e in alcune vi aspettano giganteschi castelli gonfiabili a forma di sommergibili. Luoghi e date degli eventi si trovano sul sito Internet www.captormania.ch.

ezzare r a c c a a D uei q c a b u s i Per

ranzo p a s r o t I Cap Pasta Captormania Delfini fatti di pasta 500 g Fr. 1.80

lle Sulle spa Si torna a scuola Zainetto Captormania Fr. 24.90

Per non perdere la chiave Il portachiavi di Sorp in peluche Fr. 7.90 Contro la sete Borraccia in diversi colori 330 ml Fr. 5.90 ciascuna

Per spuntini volanti Scatola per il pranzo in diversi colori Fr. 5.90 ciascuna

Portachiavi Aurobin di peluche, in cinque diversi motivi Fr. 7.90 ciascuno

lare Da cocco

tali n e m a d n I fo

Peluche di Aurobin, 5 motivi diversi, l’uno Fr. 14.80

Per cominciare e per conservare Starter kit Fr. 5.– Captorbox Fr. 9.80

Foto Nik Hunger, Thomas Andenmatten

Peluche di Marilin, 5 motivi diversi, l’uno Fr. 14.80


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to: Suggerimen cile per una salsa fa da preparare , ci vuole yogurterbe sale, pepe ed fresche o erba uole, cipollina. Chi v può spremere ’aglio. anche un po’ d All’hamburger e si addice invec il ketchup.

Foto e Styling Claudia Linsi

Idee e acquisti per la settimana

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Ampia scelta vegetariana: 1. Burger 2. Wienerli 3. Falafel 4. Bio-tofu affumicato 5. Bio polpette Okara 6. Bio tartare

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Per vegetariani dal palato fine Sei nuove specialità vanno ad arricchire la linea Cornatur della Migros Ogni anno, il primo ottobre si festeggia la Giornata mondiale dei vegetariani, istituita ormai nel lontano 1977. Siccome anche molti clienti della Migros sono vegetariani o flexitariani, la linea Cornamur propone loro un assortimento variegato composto da una trentina di gustosi prodotti a base di Quorn, frumento, soia, latte o verdure. La maggior parte dei prodotti sono fabbricati in Svizzera ed un terzo possiede la certificazione Bio. In occasione della Giornata mondiale dei vegetariani di quest’anno, la Migros lancia sei novità che piaceranno sicuramente sia ai vegetariani convinti sia ai divoratori di carne. Per la prima volta nel settore del commercio al dettaglio, ora c’è la deliziosa tartare vegetariana bio. Come pure il burger vegano, ha un sapore praticamente identico a quello

della carne. Ai bambini, invece, piacciono molto le salsicce vegetali che, ad esempio, si possono infilare in un hot dog con senape e insalata. Perfette per uno spuntino! Infine, il raffinato il tofu biologico affumicato, i falafel e le speziate polpettine biologiche di oraka sono ideali per una versione vegetariana del succulento antipasto turco chiamato «meze», da intingere in una gustosa salsina. L’okara è la pregiata torta di soja, che si forma dopo aver prodotto il tofu. È ricca di fibre e di proteine. Naturalmente, non bisogna aspettare la Giornata mondiale dei vegetariani per assaggiare queste prelibatezze vegetali. Consumare meno carne giova anche all’ambiente. Infatti, il cibo vegetariano è più sostenibile della carne, dato che per produrlo si inquina di meno. / DH

Bio Polpette di Okara* 180 g Fr. 4.90

Cornatur Falafel*/** 180 g Fr. 4.90

Bio tartare vegetariana* 160 g Fr. 5.90

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Tonno Rio Mare in confezione multipla, per es. tonno in olio d’oliva, 3 x 52 g in conf. da 2 7.90 invece di 11.90 33% Risotto Subito al pomodoro, ai funghi porcini o alla milanese in conf. da 3, per es. risotto alla milanese, 3 x 250 g 5.40 invece di 8.10 33% Joujoux Zweifel in conf. da 2, per es. alla paprica, 2 x 42 g 2.60 invece di 3.20 15% Tutti i prodotti da forno per l’aperitivo Party, a partire dall’acquisto di 2 confezioni, –.30 di riduzione l’una, per es. cracker alla pizza Party, 150 g 2.10 invece di 2.40 Panini di Sils M-Classic, per es. 6 pezzi, 300 g 3.40 20x PUNTI

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Biscotti Walkers Highlanders, Chocolate Chip o Chocolate Chunk in conf. da 3, per es. Walkers Highlanders, 3 x 200 g 9.95 invece di 13.50 25%

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Tutti i prodotti Nescafé, per es. De Luxe Smart, 150 g 7.10 invece di 8.90 20% Nutella in barattolo da 1 kg 6.– Tutti i prodotti Kellogg’s in conf. da 2, per es. Choco Tresor, 2 x 600 g 10.80 invece di 13.60 20% Pizza Antipasti Casa Giuliana in conf. da 2, surgelata, 2 x 350 g 9.35 invece di 13.40 30% Spinaci alla panna o piselli dell’orto Farmer’s Best da 1 kg, surgelati, per es. spinaci alla panna 4.10 invece di 5.90 30% Délice di pollo Don Pollo in busta da 1 kg, surgelati 9.10 invece di 13.05 30% Mitico Ice Tea al limone in conf. da 4, UTZ 4 x 1 l, a partire dall’acquisto di 2 confezioni, 1.– di riduzione l’una 2.– invece di 3.–

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 29 settembre 2014 ¶ N. 40

Idee e acquisti per la settimana

Dolce appuntamento d’autunno Frey addolcisce l’inizio della stagione fredda con delle squisite truffes in edizione limitata Da Frey l’innovazione è di casa. I cioccolatai di Chocolat Frey identificano le tendenze e le concretizzano costantemente con nuove creazioni, tra cui quelle che vanno ad arricchire l’assortimento di truffes. Ed è all’interno del loro nucleo fondente che si cela il segreto del gusto di ogni varietà di queste prelibatezze, indipendentemente che si tratti di cioccolato bianco, al latte o nero. La star dell’attuale stagione ha appena fatto la sua apparizione sugli scaffali. Croccante cioccolato al latte che racchiude un cremoso ripieno, nobilitato da una spruzzatina di Whisky Irish Cream. Questa specialità pralinata è limitata ai mesi autunnali. Perfetta per chi vuole viziarsi, fare un regalo agli amici oppure addolcire ulteriormente un appuntamento galante. / JV

Le truffes all’Irish Cream sono il contorno ideale per una piccola pausa nella vita quotidiana, da soli o in compagnia. Novità: Frey Truffes Irish Cream, Edition limitée 159 g Fr. 10.20 20 x Punti Cumulus fino al 6.10. Nelle maggiori filiali

L’ESPERTA LETTRICE Sandra Rinderknecht (45), consulente per la clientela

L’Industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra i quali anche le truffes di Frey.

Foto Claudia Linsi

Gusto: il liquore Irish Cream emerge dal cioccolato in un modo molto gradevole. Dolcezza: un po’ troppo dolce per i miei gusti. Giudizio complessivo: molto raffinato, una vera delizia. Desiderio: lo stesso ripieno combinato con cioccolato nero.

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Idee e acquisti per la settimana

Una entrata alla grande per i piccoli cracker I nuovi mini-cracker di Blévita sono disponibili in tre varianti di gusto. Sono ideali come tartine per l’aperitivo Sono piccoli, leggermente salati e ottenibili nelle note di gusto Paprica, Provençale e Cream & Onion. I nuovi snack da mordere Blévita mini sono altrettanto croccanti quanto i grandi, conosciuti come cracker Blévita, che esistono da oltre 40 anni. Questi tradizionali biscotti svizzeri hanno moltissimi sostenitori; e non solo durante le pause oppure lo sport. Uno snack naturale, ricco di fibre

Avete in programma un ricco aperitivo? Volete servire qualcosa di diverso dalle solite chips o noccioline? In questo caso

i mini-cracker leggermente salati sono perfetti. Si abbinano bene a saporite tartine, e sono indicati anche con le verdure. Chi ha voglia e tempo, prepara le diverse salsine da sé: come base si può utilizzare dello yogurt nature, della maionese oppure della crème fraîche; si potranno poi affinare a piacimento secondo i gusti culinari personali. I mini-cracker contengono pregiata farina di spelta, preziose fibre e olio di girasole di qualità. Grazie al pratico sacchetto richiudibile restano freschi e croccanti a lungo e sono sempre pronti per i vostri aperitivi. / Heidi Bacchilega

L’industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui anche i cracker e sandwiches di Blévita.

Foto René Ruis; Getty Images

Novità: Blévita mini, Provençale 130 g Fr. 2.75 Novità: Blévita mini, Paprica 130 g Fr. 2.75 Novità: Blévita mini, Cream & Onion 130 g Fr. 2.75

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I mini-cracker Blévita sono perfetti serviti come dip.


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Idee e acquisti per la settimana

Una tazza di relax: la cultura del tè può essere celebrata anche in modo molto spontaneo.

Melodia per lo spirito Love me, Suprise me, Kiss me, Inspire me: parole che sembrano i titoli di canzoni romantiche, ma che in realtà danno i nomi alla sinfonia di tè della nuova linea Tencha Illumina la mente, acuisce i sensi, infonde leggerezza ed energia, scaccia la noia e la frustrazione: tutto questo si dice del tè nel suo Paese d’origine, la Cina. Che si beva il tè per dimenticare il fragore del mondo, per rilassarsi tra amici, per concedersi una breve pausa o semplicemente per riscaldarsi nei mesi più freddi: il tè è sulla bocca di tutti e – acqua esclusa – è la bevanda più bevuta al mondo. La nuova linea di tè del benessere di Migros si chiama Tencha. Con

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le loro raffinate miscele, le sei varietà riflettono la diversità di questo amato infuso. Ad esempio, Spice me è un tè nero combinato con spezie esotiche come cannella, cardamomo, zenzero e pepe nero. Il tè di erbe Surprise me è invece una miscela di menta, mela e camomilla. Pretty me e Kiss me consistono in una miscela di diverse bacche, mentre Love me è un te alla frutta, che seduce con il suo bouquet di boccioli di rosa, fragole e dolci foglie di mora. E per chi piace la

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vaniglia, Inspire me abbina il tè nero con un tocco di vaniglia e limone. Un regalo ideale

I nuovi tè di Tencha emanano una bella sensazione anche a livello ottico, grazie alla loro graziosa confezione, che si presta perfettamente per un regalo. Tanto più che i tè della linea Tencha sono avvolti in pregiati sacchetti di cotone, al posto delle comuni bustine. / NO

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20 x Punti Cumulus sulla nuova linea Tencha fino al 6 ottobre.


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Foto Yves Roth, Styling Mira Gisler

Idee e acquisti per la settimana

Una botta di vitalità Actilife apporta al corpo tutto il necessario Combinati con una dieta equilibrata e un adeguato esercizio fisico, i prodotti Actilife apportano al corpo tutto quello di cui ha bisogno. L’assortimento comprende prodotti per la prima colazione come il müesli e le bevande, oltre a speciali integratori alimentari che contengono importanti vitamine e minerali, nonché altre preziose sostanze. Per esempio, con i suoi 375 milligrammi di magnesio, un’unica compressa effervescente di magnesio Actilife copre il fabbisogno giornaliero di un adulto. Questo minerale favorisce il normale funzionamento di nervi e muscoli. E non è indispensabile soltanto alle persone che fanno sport. Attivo contributo al benessere

Dal canto suo, il ferro è importante per

la normale formazione dell’emoglobina nei globuli rossi e quindi favorisce la diffusione dell’ossigeno nel corpo. Un approvvigionamento sufficiente contribuisce a ridurre affaticamento e stanchezza. Due volte al giorno un mezzo cucchiaio di Actilife Ferro Vital copre il fabbisogno giornaliero. Questo sciroppo consiste per il 64 percento in succo di lampone e quindi ha un sapore davvero buono. Anche la vitamina C aumenta la capacità del corpo di assumere ferro. Infine, il succo multivitaminico Bun Di è un vero e proprio toccasana mattutino per la vitalità: contiene nove vitamine essenziali ed è arricchito di preziose fibre alimentari. Motivo sufficiente per iniziare la giornata con un bel sorso di Bun Di. / JV

Actilife Magnesio Compresse effervescenti 20 pezzi Fr. 5.70 Actilife Bun Di 1 l Fr. 1.85 Actilife Ferro Vital* 240 ml Fr. 16.90 * nelle maggiori filiali


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Idee e acquisti per la settimana

Ogni pianta richiede una cura speciale. La Migros fornisce tutte le informazioni al momento dell’acquisto.

1. Yucca Ama la luce, ma le basta qualche ora di sole al giorno. D’inverno va annaffiata moderatamente. Vaso 21 cm Fr. 34.90 2. Beaucarnea – Piede d’elefante D’estate vuole luce e sole, ma d’inverno collocatela in un luogo fresco; annaffiare appena. Vaso 14 cm Fr. 19.90 3. Spatifillo Vuole luce, ma non i raggi diretti del sole. Annaffiare regolarmente. ex. in un vaso di 17 cm di diametro prezzo del giorno

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4. Zamioculcas È una pianta molto facile, può stare sia in locali luminosi che bui. Necessita di poca acqua. Vaso 19 cm Fr. 29.90

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5. Livistona Un posto luminoso con poca luce solare diretta. D’estate va annaffiata ogni 2 o 3 giorni, d’inverno una volta a settimana. Vaso 14 cm Fr. 19.90

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Nelle maggiori filiali. I prezzi indicati non includono i portavasi.

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La natura entra in casa

Oltre a creare un bell’ambiente, le piante da interno contribuiscono ad eliminare le sostanze nocive presenti nell’aria di casa Quando cadono le foglie è tempo di riportare le piante sempreverdi fra le quattro mura di casa. Oltre a compiacere gli occhi e la mente, le piante creano un clima sano all’interno, poiché umidificano l’aria e filtrano gli agenti inquinanti. Contribuiscono così a ridurre la formaldeide, il benzene o la trielina, che spesso provocano emicranie ed allergie. Queste sostanze possono annidarsi nei mobili laminati, nei tappeti, negli interstizi dei pavimenti o nel fumo di sigarette. Seguendo un paio di

consigli, chiunque può sviluppare un pollice verde. Il fattore decisivo è collocare le piante nel posto giusto. Alcune, come ad esempio lo spatifillo o la livistona, non tollerano la luce solare diretta, che ne danneggia le foglie. Inoltre, la maggior parte delle piante soffre se le si annaffia troppo. Infatti, d’inverno crescono poco, quindi hanno bisogno di poca acqua e, in generale, necessitano anche di meno cure. Una ragione in più per circondarsi di verde quando fuori tutto diventa grigio. / AW

Foto: Yves Roth, Styling: Karin Aregger

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 29 settembre 2014 ¶ N. 40

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Uno scatto per il tuo gatto

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Idee e acquisti per la settimana

Dove adora stendersi il vostro quattro zampe? Sul divano, sul termosifone o sotto il letto? Nell’ambito della Giornata mondiale degli animali di sabato 4 ottobre, la Migros lancia un grande concorso fotografico. In palio ci sono molti alettanti premi: una macchina fotografica con relativo equipaggiamento del valore di circa 2500 franchi, due iPad del valore di 500 franchi ciascuno o dieci carte regalo Migros del valore di 50 franchi. Spediteci entro il 6 ottobre una simpatica foto del vostro animale domestico in posta nel suo posto preferito, ovunque esso sia. Troverete tutte le informazioni del concorso su: www.migros.ch/giornatadegli-animali . Sempre fino al 6 ottobre c’è il 30% di sconto su tutto l’assortimento di prodotti per animali di Selina, Asco e M-Classic. L’uno percento del fatturato dell’assortimento di prodotti per animali generato durante il periodo dell’offerta speciale, sarà devoluto alla Protezione svizzera degli animali, all’Associazione cani da terapia svizzera e alla Stazione ornitologica di Sempach.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 29 settembre 2014 ¶ N. 40

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Idee e acquisti per la settimana

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