Azione 39 del 22 settembre 2014

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXVII 22 settembre 2014

Azione 39

Società e Territorio Il progetto di integrazione professionale dell’Associazione Contate su di noi

Ambiente e Benessere La botanica e lo spirito nazionale: sulle bandiere e gli stemmi di alcune nazioni campeggiano specie vegetali, anche molto particolari

Politica e Economia Martin Dahinden lascia la direzione della DSC; un bilancio

Cultura e Spettacoli A 250 anni dalla morte del compositore francese Rameau

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di Luigi Baldelli e Pietro Veronese pagine 24-25

Luigi Baldelli

Ebola, la peste dei poveri

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Doccia scozzese di Peter Schiesser Alla fine, tutto si è risolto con un grosso spavento. La Scozia rimane parte della Gran Bretagna, lei che, prima ancora di sigillare nel 1707 l’unione con l’Inghilterra, le aveva dato il re (Giacomo VI) che ereditò il regno dalla grande Elisabetta I nel 1603. La Gran Bretagna, quell’impero che si vantava di non vedere mai il sole calare nelle sue terre, non si vedrà amputare (pure) la testa dell’isola. Politicamente, al suo interno, i laburisti britannici non perderanno d’un colpo 41 dei loro 258 deputati a Westminster (dei 59 che la Scozia manda a Londra), ciò che avrebbe spezzato le speranze di scalzare i conservatori di Cameron alle elezioni del 2015. Più in là, sul continente... il continente deve temere un po’ meno per la sua unità: Bruxelles non dovrà inventare una nuova formula istituzionale per accogliere fra gli Stati membri dell’Unione europea un Paese nato dalla scissione di uno Stato membro dell’Ue (che dal canto suo deciderà presto se separarsi o meno dall’Ue); e Stati nazionali come Spagna e Belgio vedono al suo interno frenate, almeno momentaneamente, le forze disgregatrici.

Le future analisi del voto ci spiegheranno perché hanno prevalso gli unionisti, con un margine anche discreto, considerate le incertezze della vigilia (55-45%). Si può però notare subito che laddove c’è stata la più alta partecipazione al voto (già da primato di per sé, con un 86%) si è imposto il no. È stata lealtà alla corona? Paura delle conseguenze di una secessione? Scarsa disponibilità ad andare incontro ad altre incertezze, in un mondo che ne genera di nuove tutti i giorni? Certo, in caso di affermazione del referendum, il risveglio sarebbe stato duro, la politica e l’economia sarebbero entrate in fibrillazione. In che modo separare in «questo è mio, questo è tuo» aziende economiche così spesso anglo-scozzesi? In che misura suddividersi l’enorme debito pubblico della Gran Bretagna? Dove finiscono le acque territoriali della Scozia e quindi i suoi giacimenti di petrolio e di gas nel Mare del Nord? Due grandi banche, Royal Bank of Scotland e Lloyds/HBOS, avevano annunciato che in caso di secessione avrebbero traslocato la loro sede a Londra – quante altre banche e aziende avrebbero seguito il loro esempio? Votando contro la secessione, la Scozia si è risparmiata di dover rispondere a un sacco di domande, la più incerta delle quali probabilmente è: come prepararsi al lento,

progressivo declino della produzione di petrolio. Secondo calcoli recenti fatti dal «New York Times», dagli anni Settanta sono stati estratti 40 miliardi di barili di greggio e di gas, si stima che le riserve ammontino ancora a 12-24 miliardi di barili; dai 2,5 milioni di barili al giorno estratti nel ’90 e dagli oltre 4 milioni nel 2000, si è scesi agli odierni 1,5 milioni, con un’industria estrattiva che richiede urgenti (e costosi) ammodernamenti. Sarà un problema che dovrà affrontare la Gran Bretagna intera, a questo punto. Il voto scozzese è stato un esempio di alta democrazia: Londra ha concesso la possibilità di votare e gli scozzesi hanno deciso di restare sotto la corona. In Catalogna e nelle Fiandre queste condizioni non sono date, il voto dei catalani di novembre non ha carattere legale. La lotta per l’indipendenza è più difficile e più carica di rancori in entrambi i Paesi. Ma c’è un’altra cosa che il voto scozzese ha mostrato: vista la tenacia degli indipendentisti, Londra ha promesso ancora più autonomia a Edinburgo, che già non ne ha poca oggi. Con colpevole ritardo il «centro» ha capito che il termine devolution deve evolvere ulteriormente. E questa è una lezione che dovrebbero ascoltare e capire anche gli altri Stati europei in cui sorgono tendenze secessioniste.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 22 settembre 2014 ¶ N. 39

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Attualità Migros

Cosa fa Migros per la protezione delle api Apicoltura Per contribuire alla salute di questi insetti utili l’azienda si impegna

tramite il suo programma Generazione M e con il suo fondo Migros Engagement «Promettiamo che dalla fine del 2014 offriremo solamente prodotti fitosanitari e insetticidi che non mettono in pericolo le api». Questa è una promessa che Migros ha formulato nel quadro del suo programma di sostenibilità Generazione M, e che sarà mantenuta entro la fine dell’anno. In concreto i dieci prodotti commercializzati da Migros conterranno componenti sostitutivi che non sono nocivi alle api, e, in caso che ciò non sia possibile, toglierà dall’assortimento i prodotti fitosanitari. In cinque tipi di articoli la sostituzione è già avvenuta, altri cinque seguiranno prossimamente. Migros si basa su uno studio di Greenpeace, che valuta come particolarmente pericolosi sette specifici componenti. La misura, che è pensata per essere introdotta nella coltivazione dei giardini privati, conferma comunque che Migros prende molto seriamente il problema della morìa di api. In questo senso rivolge la sua attenzione anche all’agricoltura: insieme alla sua partner, l’organizzazione dei contadini IP-Suisse, è riuscita a trovare un accordo, affinché i contadini IP-Suisse dal 2015 rinuncino

Impegno concreto Engagement Migros è un fondo che sostiene iniziative di volontariato nel settore della cultura, della sostenibilità, dell’economia e dello sport. I progetti sono finanziati dalle imprese della Comunità Migros con fondi tratti dai settori economici del commercio, dei servizi finanziari e dei viaggi. Il fondo di sostegno trova le sue basi nell’impegno responsabile di Migros nei confronti della realtà sociale, e si affianca all’impegno del Percento culturale Migros.

Nei prodotti fitosanitari saranno sostituiti i componenti nocivi. (Daniele Besomi)

completamente all’uso dei sette componenti che Greenpeace ha indicato come nocivi alle api. Oltre a questo impegno concreto legato al suo assortimento di prodotti, Migros sostiene con il suo fondo «Engagement Migros», nell’ambito del concorso Progetti pionieri dello sviluppo sostenibile, la Imkerschule Schweiz, Scuola di apicoltura svizzera, e il progetto di documentazione sulle api. In Svizzera sono circa 18’000 gli apicoltori che praticano questa attività, prevalentemente come hobby. Al contempo, le esigenze legate al know-how di chi si occupa della disciplina aumentano di continuo. Dopo la morìa delle api degli ultimi anni, domande relative alla loro salute e all’habitat sono sorte da parte dell’opinione pubblica. Ciò anche perché sono richiesti criteri più responsabili a chi produce generi alimentari. La Scuola di apicoltura svizzera viene gestita da VDRB (l’Associazione

degli amici delle api svizzero-tedeschi e retoromanci. Per informazioni consultare il sito: www.vdrb.ch). Grazie alla nuova offerta di corsi di perfezionamento, apicoltrici e apicoltori hanno per la prima volta l’occasione di approfondire appieno l’argomento. Sinora, infatti, dopo il corso di base venivano offerti soltanto alcuni corsi regionali. Il nuovo corso di formazione a struttura modulare unisce teoria e pratica e dura in tutto 27 giorni, ripartiti sull’arco di tre anni. Il corso si conclude con il conseguimento dell’attestato professionale federale. L’offerta è intesa a migliorare il livello dell’apicoltura in Svizzera e in tal modo ottimizzare la cura delle popolazioni delle api. Al contempo, Engagement Migros rende possibile un progetto di documentazione atto a raccogliere e rielaborare tutte le nozioni pratiche sulla salute delle api. Sotto forma di consigli prati-

M 25 anni di integrazione socio-professionale Anniversari La collaborazione tra Fondazione Diamante e Migros

Ticino ha avuto inizio nel 1989, dando vita al Gruppo integrato del Laboratorio Incontro 2, grazie al quale negli anni oltre 50 persone hanno avuto modo di confrontarsi con il mondo del lavoro Con questo progetto di integrazione socio-professionale la Fondazione Diamante e la Cooperativa Migros Ticino festeggiano i 25 anni di collaborazione. La convenzione di collaborazione è infatti stata firmata nel 1989 e il progetto si è subito concretizzato con 5 partecipanti, affiancati da un educatore, che hanno iniziato la loro attività presso la sede centrale di Migros Ticino a Sant’Antonino. Un successo sin dall’inizio, che nel tempo si è consolidato; oggi sono 14 le persone integrate nella realtà operativa di Migros Ticino, per le quali i compiti vengono adattati sia sul-

la base delle caratteristiche individuali, sia sui bisogni reali dell’azienda, grazie anche all’accompagnamento di due operatori sociali presenti in azienda. Un risultato importante, che vede nell’educatore una figura determinante per il successo della collaborazione: assicura il contatto tra la Fondazione e Migros Ticino, valuta le possibili attività individuali con i responsabili dei reparti, introducendo e seguendo poi i partecipanti nell’esecuzione del lavoro. La collaborazione prevede che le persone attive nell’ambito del progetto di collaborazione siano sotto la respon-

sabilità della Fondazione Diamante, che assicura tra l’altro salario e prestazioni sociali; le ore di lavoro vengono poi fatturate a Migros Ticino dalla Fondazione Diamante, con un tasso corrisponde al valore economico reale delle prestazioni fornite. Nei 25 anni di collaborazione le oltre 50 persone inserite hanno avuto l’opportunità di confrontarsi con la realtà del mondo del lavoro, allacciando contatti anche oltre l’ambito professionale e sviluppando nel contempo le capacità necessarie al fine di integrarsi nella società.

Azione

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

ci, il bagaglio di nozioni viene messo a disposizione di tutti coloro che con il proprio comportamento possono contribuire al sostentamento dell’habitat dell’ape da miele e selvatica: oltre agli apicoltori anche i giardinieri, gli agricoltori e silvicoltori, nonché le amministrazioni comunali, i gestori di impianti sportivi e i giardinieri per hobby. «Le api da miele e selvatiche perdono il loro habitat, non trovano niente da mangiare o vengono avvelenate dai pesticidi. Per questo motivo, il WWF dà a Migros il proprio supporto specialistico in questo progetto di documentazione. Secondo noi, ciò offre una possibilità per migliorare la situazione delle api in Svizzera», dichiara Daniela Hoffmann, direttrice del progetto Agricoltura e Biodiversità presso WWF Svizzera. Il progetto sarà realizzato entro il 2016 con il sostegno di partner dal mondo scientifico e dell’economia.

Migros news Migipedia: i prodotti sviluppati dai clienti fruttano alla Migros 40 milioni I prodotti Migipedia realizzano nel complesso una cifra d’affari di oltre 40 milioni. E, dopo quattro anni, anche Migros non può che stilare un bilancio positivo del progetto pionieristico. Studi lo dimostrano: i consumatori ripongono molta più fiducia nelle raccomandazioni dei clienti piuttosto che nella pubblicità classica. Così, grazie agli oltre 86’000 suggerimenti e giudizi sui prodotti creati dagli user di Migipedia, il sito è diventato un potpourri di informazioni utili sui vari articoli con garanzia di pubblicità a costo zero. La community di Migipedia si attiva con passione a favore di Migros e dei suoi prodotti e apprezza il contatto diretto con l’azienda che offre la piattaforma. Gran parte della popolazione svizzera s’identifica con Migros, dando vita a qualcosa di singolare, almeno in questa forma, in Europa. Migros, inoltre, fabbrica direttamente gran parte dei propri prodotti in Svizzera. L’app Migros diventa portafoglio digitale I proprietari di smartphone che utilizzano l’app della Migros da ora beneficiano di numerose altre funzioni interessanti. La carta Cumulus è disponibile in forma digitale, il che era auspicato da diverso tempo da numerosi clienti. Con l’app è inoltre possibile pagare alla cassa se in precedenza vi è stata caricata digitalmente una carta regalo o una Cash Card. Il proprietario dello smartphone attiva l’app Migros con la funzione «portafoglio digitale» e viene passata allo scanner della cassa la relativa schermata. È possibile ricaricare alla cassa in qualunque momento le carte regalo e le Cash Card digitali. Gli utenti dell’app Migros hanno inoltre a loro disposizione gli scontrini di cassa (per gli acquisti effettuati presentando la carta Cumulus) in formato digitale.

Serata pubblica sul tema dell’integrazione socio-professionale Società inclusiva e lavoro: un dialogo costruttivo

È in programma lunedì 29 settembre 2014 alle ore 18.00 presso l’Auditorio del Campus di Lugano dell’Università della Svizzera italiana una tavola rotonda sul tema dell’integrazione socio-professionale. Un incontro rivolto in particolare agli imprenditori interessati ad approfondire il tema, che prende spunto da un filmato realizzato dal laboratorio Laser della Fondazione Diamante con interviste a utenti, rappresentanti di associazioni sociali e di aziende pubbliche e private che hanno scelto di dare vita a progetti di inclusione professionale, con l’obiettivo di sondare l’interesse ad affrontare questo tema in un’ottica costruttiva, considerando i bisogni e le potenzialità di tutti i partner coinvolti. Alla tavola rotonda, moderata da

Tiratura 98’645 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Marcello Foa, direttore TImedia, parteciperanno Luca Albertoni, direttore della Camera di commercio, dell’industria, dell’artigianato e dei servizi del cantone Ticino, Monica Duca Widmer, presidente del Consiglio di amministrazione della Cooperativa Migros Ticino, Michele Passardi, presidente del Consiglio di fondazione della Fondazione Diamante, Sergio Rossi, professore di macroeconomia e di economia monetaria all’Università di Friburgo e Laura Sadis, direttrice del Dipartimento finanze ed economia del Canton Ticino. L’incontro è organizzato da Fondazione Diamante e Migros Ticino in occasione del 25° di collaborazione. In conclusione dei lavori è previsto un rinfresco. Per motivi organizzativi è gradita l’iscrizione all’indirizzo info@f-diamante.ch o telefonando allo 091 610 00 20 la mattina.

Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 22 settembre 2014 ¶ N. 39

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Società e Territorio I soldi sono un tabù? Manuela Pagani Larghi propone un counseling psicologico che indaga il nostro rapporto profondo con il denaro pagina 5

Radici intrecciate Ultimo contributo della serie dedicata alla multiculturalità: l’incontro con Ludwig Naroyan, portavoce della comunità armena in Ticino pagina 6

Una Capriola anche in Ticino Integrazione professionale Otto ragazzi

disabili hanno da poco portato a termine il primo corso per camerieri organizzato dall’Associazione Contate su di noi

Stefania Hubmann «Avrò un diploma come i miei fratelli!». L’aspirazione all’integrazione di una ragazza disabile passa anche dalla formazione. Il desiderio è diventato realtà per lei e altri sette giovani al termine del primo corso per camerieri organizzato dall’Associazione Contate su di noi. L’iniziativa è partita da un gruppo di genitori che si è avvalso della collaborazione del consulente alberghiero grigionese Domenico Saladino, fondatore dei centri La Capriola, attivi da oltre dieci anni nella formazione di giovani con handicap nelle professioni alberghiere. Quasi tutti già impiegati nell’ambito della ristorazione in strutture protette, i giovani ticinesi hanno potuto acquisire competenze specifiche che valorizzano le loro capacità e aprono nuove porte nel mondo del lavoro. L’esperienza del corso per camerieri è però innanzitutto una gratificazione personale. Consapevoli delle proprie difficoltà, i partecipanti sono fieri di aver potuto seguire una formazione professionale qualificante, mettendo in pratica i nuovi insegnamenti sul posto di lavoro, e di ricevere un attestato di capacità a coronamento dei loro sforzi. Il corso ha rappresentato una sfida non solo per gli aspiranti camerieri, ma anche per i loro genitori che con altrettanta determinazione hanno dato vita al progetto. Promuovere la formazione professionale dei giovani disabili e l’aggregazione delle loro famiglie su questo tema è la finalità dell’associazione. Le quattro famiglie da cui è partita l’iniziativa hanno agito con sollecitudine. In un anno si è giunti all’organizzazione del corso, partito nel settembre 2013. «Abbiamo sollecitato le strutture di ristorazione protetta attive nel cantone in modo da formare un gruppo di otto allievi, visitato il centro La Capriola a Lucerna, cercato sponsor e instaurato i contatti con i partner scolastici e professionali», spiegano le famiglie che

hanno fondato l’associazione Contate su di noi. Un nome che oggi più che mai si rivela di buon auspicio, perché i giovani camerieri, pur formando un gruppo eterogeneo per età (da 21 a 28 anni), provenienza ed esperienze di vita, hanno dimostrato solidarietà e unità, diventando sempre più consapevoli e sicuri dei propri mezzi. Nel frattempo c’è chi ha trovato una nuova occupazione, chi svolge degli stage e chi ha assunto nuove mansioni mantenendo il medesimo impiego. Il corso, svoltosi sull’arco dell’anno scolastico, era formato da sette moduli con dodici giornate a cadenza più o meno mensile. Precisano i promotori: «Durante gli intervalli la maggior parte dei partecipanti ha potuto esercitare e consolidare gli insegnamenti sul rispettivo posto di lavoro. Sono stati trattati vari settori d’attività, dalla mise-en-place al servizio, alle questioni riguardanti l’igiene, la sicurezza e la gestione delle risorse. L’esame teorico (40 domande) e pratico (pranzo servito al ristorante dell’albergo Ceresio di Lugano) ha concluso l’intenso percorso». Quali le competenze richieste ai partecipanti? «Il corso era destinato a giovani disabili motivati con un buon grado di autonomia. Erano necessarie capacità di lettura e scrittura, come pure indipendenza negli spostamenti». Da rilevare, la collaborazione con la SPAI (Scuola professionale e artigianale) di Lugano-Trevano, che ha messo a disposizione le proprie strutture per lo svolgimento delle lezioni, e la disponibilità dell’albergo Ceresio, che ha permesso ai giovani di esercitarsi nel servizio ai tavoli e di svolgere l’esame finale. Fondamentale è stato pure l’apporto del responsabile del corso, Domenico Saladino. Ex albergatore e docente alla scuola alberghiera professionale di Coira, Saladino è da tredici anni consulente alberghiero in Svizzera e all’estero. In Ticino è stato il consulente per la messa in opera del Canvetto Luganese, de L’Uliatt a Chiasso e

Il corso per camerieri si è svolto sull’arco di un anno e si è concluso con un esame teorico e pratico. (Contate su di noi)

del ristorante Vallemaggia a Locarno. Strutture gestite da istituzioni per disabili che da parte loro assicurano formazioni interne. Il corso per camerieri è un passo ulteriore, volto a favorire una maggiore integrazione. Per le famiglie si tratta di offrire, dopo la scuola speciale, la possibilità di una formazione mirata che potrebbe essere estesa anche ad altre professioni. «Nel corso di questa esperienza abbiamo appreso dell’esistenza di altre opportunità, come l’apprendistato integrato proposto dal cantone presso le scuole professionali, ma abbiamo anche purtroppo constatato che le famiglie sono ancora poco informate al riguardo». Anche per Domenico Saladino, l’esperienza è stata gratificante. «Come il progetto La Capriola, risalente all’inizio degli anni 2000, il corso per camerieri è nato per rispondere a un bisogno manifestatosi sul territorio. La nostra è stata un’iniziativa pionieristica, perché

a quei tempi non esisteva nulla di simile in Svizzera. L’obiettivo era di garantire una prima formazione ai giovani disabili fra i 17 e i 20 anni. Oggi ne accogliamo 12 a Davos (dove è stata aperta la prima struttura) e 12 a Lucerna. Gli allievi sono seguiti nella formazione in albergo e nella struttura abitativa da professionisti ed educatori per 2-3 anni». La Capriola collabora con tre hotel a 4 stelle a Davos e con due a 4 e 5 stelle a Lucerna. L’alto livello e la dimensione di questi alberghi assicurano ai giovani un’ottima preparazione e una reale integrazione con il resto del personale, ciò che facilita il futuro inserimento professionale. La realtà della Svizzera italiana è però diversa da quella svizzero-tedesca, anche solo dal punto di vista numerico. La Capriola rappresenta quindi un valido modello al quale ispirarsi, ma da adattare alla situazione ticinese. L’associazione intende pertanto riflet-

tere su come proseguire l’attività senza comunque fermarsi completamente. Alla consegna degli attestati, prevista in ottobre alla SPAI, il gruppo dei giovani camerieri sarà infatti già pronto per un’altra sfida. Da dicembre a marzo un corso di formazione continua suddiviso in quattro moduli approfondirà due argomenti, banchetti e bibite, in vista di un evento previsto in primavera. L’associazione ritiene inoltre necessario sensibilizzare i potenziali datori di lavoro, affinché siano preparati e maggiormente disposti ad accogliere le persone disabili. L’obiettivo finale, come sottolinea anche Domenico Saladino, rimane infatti l’integrazione in ambito lavorativo non protetto. Informazioni

Daria Caverzasio Hug (dariacaverzasiohug@gmail.com, Tel. 091 646 87 58).


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Società e Territorio

Quel mare di milioni di anni fa Monte San Giorgio È stata presentata la

nuova guida del Museo dei fossili di Meride

Elena Robert

Il denaro sembra essere un tema sulla bocca di tutti, in realtà è un grande tabù. (Keystone)

La gabbia d’oro Incontri Manuela Pagani Larghi propone un counseling innovativo

che indaga il nostro rapporto profondo con il denaro

Sara Rossi Fare una torta, piantare dei fiori, passare un pomeriggio a giocare con tuo figlio: se hai abbastanza soldi per permetterti questo, allora forse è segno che puoi fermarti, sei abbastanza ricco. Se hai tempo per fare visita ai tuoi genitori, per andare al cinema o ovunque si svolga la tua passione, se hai l’impressione che dialoghi invece che litigare con il tempo, allora va bene, direbbe Manuela Pagani Larghi, non soffri di «stress di riempimento», non sei «ostaggio del tuo stipendio».

«Avere un sano rapporto con il denaro significa conoscere quale è il suo posto nella nostra vita» «Io ho fatto un percorso personale per arrivare qui», spiega. «Sono diventata madre a 40 anni e la mia vita è cambiata. Prima lavoravo come consulente finanziario, avevo orari pienissimi, obiettivi molto alti e vivevo in un mondo fuori dalla realtà: il mondo del denaro. Ora il salottino della banca dove per 15 anni ho svolto il ruolo di confidente di gente facoltosa ha lasciato finalmente posto al verde prato dove da qualche tempo coltivo con successo la mia felicità. Insieme alla famiglia, agli amici, alle mie parole». Manuela ha lasciato alcuni anni fa la banca per cui lavorava e ha completato una formazione in counseling psicologico; ha studiato a fondo il rapporto che l’essere umano intrattiene con il denaro, analizzando quello che per molto tempo aveva sperimentato: molte delle persone che vantano un florido conto in banca stanno più male che bene. «Per qualcuno i soldi sono motivo di sicurezza, quindi ha il terrore di perderli, oppure rappresentano il benessere e il successo, quindi vive l’ossessione di incrementarli... Non generalizzo, non è

la regola, ma ci sono tante persone che nella nostra opulenta società svizzera confondono ricchezza con felicità». Sappiamo bene che non è la povertà il sinonimo di allegria e spensieratezza; può esserlo invece un «sano rapporto con il denaro». In che cosa consiste? «Avere un sano rapporto con il denaro – risponde Manuela – significa conoscere quale è il suo posto nella nostra vita e per fare questo bisogna tracciare i propri obiettivi, capire le priorità e individuare quali sono le cose importanti che ci danno una vera soddisfazione. Per qualcuno può essere il tempo da passare con le persone, per qualcun altro la sensazione di fare del bene, per un altro ancora l’espressione artistica. Credere in qualche cosa. Toccare la libertà. Amare». A lei ci è voluta la nascita della piccola Camilla per rendersene conto davvero, tuttavia da tempo già covava domande e riflessioni che sono poi sfociate in uno studio approfondito e nell’apertura di uno spazio per il counseling. Il counselor ha il ruolo di affiancare la persona in un percorso di evoluzione e crescita personale senza giudizio. Per assolvere a questi compiti, deve apprendere delle tecniche attraverso un corso di studi specifico, con un modello teorico di riferimento e un percorso personale di analisi. Manuela si è diplomata in counseling all’Istituto Ricerche di Gruppo di Lugano (www.farestorie.ch, membro dell’Associazione di Psicologia Generativa della Svizzera Italiana). Quello che offre di particolare, è che il suo ruolo di economista finanziaria e consulente bancaria le ha permesso di dedicare particolare attenzione all’attrazione che hanno i soldi sugli esseri umani. «Nella mia nuova attività posso aiutare uomini e donne che non sanno gestire aspetti diversi legati a questo tema, come un’eredità, la mania dello shopping, la paghetta del figlio... Ci sono persone che sono incastrate in uno stile di vita altissimo e di colpo si innamorano o hanno il desiderio di cambiare mestiere o ancora di par-

tire e non sanno come possono fare per guadagnare di meno»: sembra un paradosso, ma se hai un contratto d’affitto, il leasing per una macchina di lusso, se i tuoi amici sono abituati a uscire in posti molto costosi tre volte a settimana, cambiare stile di vita non è facile. Bisogna pensarci prima, prepararsi materialmente e psicologicamente a una riduzione delle entrate; chi ci riesce però potrà magari esaudire i suoi sogni più veri, quelli più reconditi e che necessitano più di tempo e freschezza mentale che di franchi. Spesso si rivolgono a lei donne che hanno bisogno di essere accompagnate nella conciliazione tra carriera e maternità. A questo punto, Manuela Pagani Larghi tiene a segnalare una collaborazione con la fisioterapista Anke Kindermann, specializzata in problemi femminili: insieme propongono un percorso di counseling di riflessione abbinando la dimensione emotiva e psicologica a quella fisica. «Prima, aiutavo le persone a gestire il loro patrimonio, adesso aiuto le persone e basta». A volte diventa una tutrice del cliente bancario, come l’Associazione inquilini o consumatori si prende cura dell’inquilino o del consumatore. «Del denaro non si parla, è un tabù, come il sesso: sembra che sia sulla bocca di tutti, però in realtà, approfonditamente e professionalmente non si sente quasi mai nulla di utile. È un aspetto intimo ed è volgare portare in piazza sia i problemi di soldi sia la loro ostentazione. Invece è importante parlarne, affinché non diventi un’assuefazione, una schiavitù, un motivo di malessere esistenziale, che si sente dilagare nella nostra società, quello che alcuni chiamano “la perdita dei valori”. Certo è un problema da paese ricco. Ma non bisogna vergognarsi, piuttosto meglio prendersi il tempo per rifletterci su», conclude con un bel sorriso.

I contenuti del Museo dei fossili del Monte San Giorgio a Meride evocano storie affascinanti, è vero, ma al visitatore, oltre all’interesse, alla curiosità e all’immaginazione, si richiedono tempo e attenzione per avvicinarsi alla materia. Nei tre livelli dell’esposizione permanente, la geologia e la paleontologia sono presentate in modo chiaro e con una logica impostazione stratigrafica e didattica. Non si può pretendere di leggere e capire tutto la prima volta. Si torna pertanto volentieri al museo, per gustare la ricchezza e le specificità dell’eccezionale patrimonio che ci restituisce alcuni milioni di anni di storia della terra e di evoluzione della vita. E si torna a esplorare anche il territorio della montagna, da soli o accompagnati da guide formate ad hoc, per conoscere i luoghi, riscoprirli e vivere ogni volta nuove emozioni.

Il Museo si è dotato anche di tre supporti multimediali e intereattivi offerti in quattro lingue Il museo si è da poco dotato di nuovi e utili strumenti scientifici adattati al pubblico, una guida su carta e tre supporti multimediali, offerti in quattro lingue (12mila visitatori all’anno). La prima è concepita per la visita sul posto e da consultare a casa, i secondi per approfondimenti ai quali accedere interagendo su due schermi tattili. Forniscono informazioni importanti, molte delle quali non contemplate dall’esposizione, e parecchie immagini, diagrammi, tabelle e illustrazioni di animali riportati in vita nei loro ambienti utilizzando i sei modelli realizzati per il museo dal paleoartista Beat Scheffold. La comprensione della storia geologica e dell’evoluzione della vita dei rettili e dei pesci che abitarono la laguna del San Giorgio nel Triassico Medio è tra l’altro facilitata dai contenuti presentati dai nuovi strumenti interattivi di cui si è arricchito il museo, realizzati da più specialisti. Due gli autori della guida del museo: Heinz Furrer, curatore del Museo di paleontologia dell’Università di Zurigo, al quale si deve l’allestimento a Meride al momento dell’apertura nell’ottobre 2012, e Alessia Vandelli, direttrice del Museo dei fossili, geologa, che ha completato e in parte tradotto il testo, per l’italiano e il francese. Si ritrova in questa pubblicazione di agile

formato l’essenzialità dei contenuti dell’esposizione. I capitoli e le informazioni seguono la disposizione della presentazione nelle sale, introducendo dapprima alla geologia e alla stratigrafia del Monte San Giorgio, all’evoluzione e alla nomenclatura biologica, per accompagnare poi il visitatore nell’esplorazione di quel mare che ha dato origine in 4-5 milioni di anni, stando alle conoscenze di oggi, alla successione sedimentaria compresa tra 242 e 239 milioni di anni fa e che ha reso famoso il Monte San Giorgio in tutto il mondo. Sono almeno cinque i livelli fossiliferi ricchi di rettili, pesci, piante, invertebrati e microrganismi, studiati finora in 600 metri di strati di roccia calcarea. Nel Triassico Medio marino del Monte San Giorgio si comincia dalla Formazione di Besano (242 milioni di anni fa, al primo piano del museo) che registra un numero elevato di fossili di grandi rettili e ha interessato lo sfruttamento industriale degli scisti bituminosi per la produzione di Saurolo (nel Novecento, dagli inizi agli anni Cinquanta) e in seguito gli scavi e la ricerca paleontologica. Questi ultimi continuano e nel Calcare di Meride (241-239 milioni di anni fa, al secondo piano), dove predominano i fossili di pesci, si sta indagando da qualche anno a questa parte un nuovo livello fossilifero, in Val Sceltrich, non ancora descritto nel museo e nella guida. La pubblicazione riporta anche un albero genealogico semplificato dei rettili conosciuti del Monte San Giorgio con la diffusione temporale dei singoli gruppi e uno dei pesci, rappresentati da molti fossili grandi e piccoli, che per quanto semplificato, rivela un’evoluzione più complessa e variata. Utili per i visitatore sono anche le informazioni su paleogeografia, tafonomia (genesi dei fossili e modalità di conservazione), paleoecologia e paleobiologia con la ricostruzione della catena alimentare di un tempo. Ed eccoci infine al terzo piano del museo e alla parte corrispondente della pubblicazione in cui si racconta l’affascinante capitolo delle rocce e dei fossili del mare di Arzo (Giurassico Inferiore, 200-180 milioni di anni fa): perlopiù invertebrati, appartengono al patrimonio geo-paleontologico della regione, anche se il loro valore scientifico non è quello dei fossili del Triassico Medio del Monte San Giorgio. L’importanza delle rocce in cui sono rimasti intrappolati è storico-artistica e economica, legata all’estrazione e alla lavorazione della pietra ornamentale che dal XV secolo fino a pochi anni fa fu esportata e utilizzata in tutta Europa e in città come Parigi, Dresda, Vienna, San Pietroburgo.

Informazioni

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La guida è ricca di illustrazioni di animali, qui Ceratites e Michelinoceras, riportati in vita dal paleoartista Beat Scheffold.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 22 settembre 2014 ¶ N. 39

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Società e Territorio

Una società multiculturale da tremila anni Radici intrecciate L’esperienza di Ludwig Naroyan, portavoce della comunità armena in Ticino

– Quinta e ultima puntata

Alessandro Zanoli Siamo a Lamone, nel 1976. Un bimbo di 10 anni entra in aula, il primo giorno di scuola. La classe è quella di un piccolo paese che sta per diventare periferia cittadina: in quel momento però è ancora un borgo di campagna. Gli scolari dunque vestono pantaloni corti, magliette colorate e sandali. Il nuovo arrivato è in giacca, camicia e cravatta. Non parla una parola d’italiano. Fino a qualche mese prima viveva a Istanbul, metropoli sul mare che è punto di incontro di diverse culture, e frequentava il Collegio armeno, una scuola di prestigio dove vige una ferrea disciplina. Quel ragazzo oggi è un architetto specializzato nella costruzione di abitazioni concepite secondo standard ecologici. Ludwig Naroyan vive a Sorengo con la famiglia, in un crogiolo di multiculturalità più unico che raro. Lui e sua moglie condividono le radici armene: lei però è nata e cresciuta negli Stati Uniti. Ludwig invece è cresciuto in Asia Minore. Si sono incontrati a Venezia, dove esiste un’antica istituzione religiosa, il Collegio Armeno: è ancora oggi uno dei più importanti centri al mondo di conservazione di quel culto. Se gli si chiede di quanta multiculturalità occorre parlare per descrivere la sua famiglia, Naroyan spiega che in casa sua si parlano italiano, inglese e armeno. Lui, da parte sua, parla anche turco. Ma tra queste diverse culture, quella armena è la più importante.

Quando la vicenda della propria comunità contiene aspetti difficili occorre saperne parlare usando le parole giuste «Ho cominciato soltanto verso i 18 anni a interessarmi profondamente a questa mia radice armena, a prendere coscienza dell’importanza di coltivarla. Fino a quel momento l’avevo messa un po’ da parte. Il mio obiettivo era integrarmi qui, finire la scuola, trovare lavoro». Ludwig Naroyan è oggi il portavoce della comunità armena ticinese, un impegno volontario che si è assunto al di fuori del suo lavoro. «Siamo una piccola comunità e non abbiamo particolari risorse economiche. Non abbiamo

esponenti ricchi, come a Milano o a Ginevra, dove alcuni di loro hanno potuto finanziare una Casa Armena, una chiesa e una scuola. Se pensa che oggi siamo noi che cerchiamo di sostenere economicamente lo Stato armeno, può immaginare se l’Ambasciata di Ginevra potrebbe mai aiutarci...». Per mantenere vivo il legame con la sua cultura di origine Ludwig Naroyan organizza conferenze e concerti, e anche qualche messa «Non dobbiamo dimenticare che l’Armenia si è proclamata cristiana nel 301 dopo Cristo. È stata la prima nazione al mondo, 30 anni prima dell’editto di Costantino». Naroyan ha raccolto nella sua casa una sorta di piccolo centro di documentazione dedicato all’Armenia e alla storia del suo popolo. Una storia drammatica: «L’anno prossimo, ad esempio ricorrerà il centenario del genocidio armeno. Dovremo organizzare un evento». Occorre sottolineare che da un punto di vista psicologico, la volontà di diffondere e sostenere la cultura armena è un impegno difficile. Dietro alla presenza degli armeni nel mondo si staglia infatti il dramma dello sterminio della loro etnia da parte dell’esercito turco, nel 1915. «La parola genocidio è stata usata nel 1944 in un rapporto sull’olocausto degli ebrei da Raphael Lemkin, un avvocato polacco. Ma era stata coniata proprio per descrivere quanto successo agli Armeni. Viene spontaneo avvicinare quegli avvenimenti al genocidio degli ebrei. Nonostante le analogie tra le due catastrofi, la differenza sta nel fatto che nel caso armeno, i vincitori hanno regnato per 100 anni e hanno avuto modo di far sparire le tracce dell’accaduto. In Germania, invece, gli alleati hanno documentato, cercato di conservare, fotografato e filmato». «L’Armenia oggi è uno stato indipendente al confine tra la Turchia, la Georgia, l’Azerbaijan e l’Iran, e che in passato occupava anche una parte dell’Anatolia. La civiltà armena esiste però da 3000 anni e possiede una tradizione culturale pacifica, alta ed evoluta. L’Armenia storica è situata in un territorio fertile, un giardino dell’Eden: la Bibbia racconta che l’Arca di Noè si sarebbe arenata sull’Ararat». La storia della regione registra a più riprese le scorribande di invasori che ne volevano conquistare i territori. «Da sempre siamo stati un punto

In casa sua ha creato un piccolo centro di documentazione sulla storia dell’Armenia. (Stefano Spinelli)

di incontro di popoli e abbiamo fuso con loro le nostre tradizioni. Il mondo islamico è arrivato solo nel 600-700. Si conviveva nell’Impero Ottomano tra armeni, greci, ebrei ortodossi, siriaci, e aramaici, nonostante qualche pulizia etnica. Vivendo per centinaia di anni insieme, in ogni villaggio c’erano delle famiglie miste e gli elementi della quotidianità si mischiano. La cucina ne è un esempio: la paklavà la fanno i turchi, così come i greci, e noi; il caffè che si chiama caffè turco, è anche caffè greco, e anche armeno». La rottura importante di quell’equilibrio avviene però nel 1915 quando i turchi, per dare alla regione un’unicità etnica, decidono di cancellare fisicamente gli armeni, espellendoli dall’Anatolia (e incamerandone le molte ricchezze). Oggi, coltivare le proprie radici armene significa innanzitutto fare in modo che il ricordo di quegli avvenimenti non vada perso. «Devo stare attento, in particolare parlandone con i miei figli, che sono ancora piccoli. Il tema del genocidio è delicato, può far sorgere in loro domande e paure. È importante scegliere le parole. Al maggiore dei miei figli ho spiegato quello che è successo ma facendo in modo di

non generalizzare per non fomentare l’odio verso i turchi e verso l’Islam. Partecipiamo insieme alle cerimonie che ricordano il genocidio, il 24 aprile: voglio che siano presenti, per far capire loro che noi ci teniamo». Come si pone la comunità armena verso la responsabilità turca? «La Turchia deve fare ancora molto in politica, ci vuole altro tempo per la democrazia. Secondo un’analisi psicologica che è stata elaborata da alcuni studiosi, noi dovremmo dar loro una mano a capire, perché presi nel loro negazionismo non riescono più a elaborare la realtà. Per loro è una questione di identità: se si accettasse il genocidio, cadrebbe tutto il castello ideologico che sta alla base della nazione turca. Furti e uccisioni dovrebbero essere ammessi (anche se ormai sono dati verificati dagli storici). Noi, da parte nostra sappiamo che ciò che è successo è successo: però bisogna ammettere i fatti. E il prossimo passo è il risarcimento delle vittime». Lasciando da parte la questione armena specifica, e tornando a parlare di multiculturalismo e di integrazione, Naroyan tiene a sottolineare come essa si manifesti nella sua vita quotidiana. «Sono da sei anni in Consiglio comu-

nale del mio paese: la scorsa settimana abbiamo esaminato 12 richieste di naturalizzazione. In genere ne capitavano due o tre al massimo per ogni legislatura. Sono decisioni complesse, perché per accettarle occorre valutare il grado di integrazione sociale di chi le inoltra. Ci si chiede come sia possibile valutarlo oggettivamente, ma se si tratta di persone che lavorano, si mantengono, mandano i loro figli a scuola, sicuramente hanno trovato un modo di integrarsi». Parlando da architetto, ora, Naroyan riferisce di altri aspetti, paradossali, dell’integrazione: «Arrivano qui commercianti benestanti dall’estero, comprano i più bei lotti di terreno e costruiscono case di dubbio gusto, con un notevole impatto sul territorio. La loro “integrazione” è messa meno in discussione, anche se poi in quelle case non ci vivono nemmeno. Quindi il tema dell’integrazione è molto attuale e ha molte sfaccettature. Io potrei dire che chi come noi sente dentro la forza di un dramma come quello armeno alla fine riesce a sdrammatizzare i piccoli conflitti un po’ assurdi a cui ci espone la quotidianità e ad essere più disponibile nei confronti degli altri».

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Marianna Coppo, Chapeau!, Terre di Mezzo Editore. Da 4 anni Cosa ci si aspetta che un mago tiri fuori dal cappello? Un coniglio, è ovvio. Un coniglio dal cappello. Ma se ci si discosta dall’ovvietà e dal cappello non esce nessun coniglio, il pubblico è deluso. Nella poetica e allegorica storia di Marianna Coppo, il pubblico è tanto contrariato da non riuscire nemmeno ad apprezzare la quantità di cose «altre» che il mago Olmo tira fuori dal cappello: scarpe, pinguini, parole, una vecchia canzone. Non le vede, perché si ostina a volere quello che si aspetta. Un coniglio, appunto. Il mago Olmo finirà sulla strada, disoccupato, ma saranno i bambini a ridargli l’onore e la felicità, semplicemente chiedendogli di fare uno spettacolo per loro e provando meraviglia, con gli occhi che «brillavano di curiosità», per tutte

le cose sorprendenti che escono dal cappello. Questa capacità dei bambini di mettersi in gioco, accogliendo anche l’inatteso, il sorprendente, ciò che esce dall’orizzonte scontato delle aspettative, innescherà un’ulteriore magia, che darà una conclusione felice e coerente alla storia.

La ventiquattrenne Marianna Coppo illustra e scrive questa storia, che costituisce il suo primo libro: un esordio felice, caratterizzato da un testo misurato e lieve, e da immagini che fanno uso di pittura e collage privilegiando comunque la chiarezza narrativa. Nicola Brunialti, Sammy Sparaballe, Lapis Edizioni. Da 9 anni Con la rutilante immaginazione che lo contraddistingue, Nicola Brunialti ci porta ancora una volta dentro un mondo popolato di avventure e di creature ibride, nel senso che un po’ sono realistiche (anche Sammy, come il Willy Morgan dei suoi romanzi precedenti, è un ragazzino che sta diventando grande, alle prese con la famiglia, la scuola, gli amici, i primi amori, i bulli), e un po’ sono fantastiche (da un amabile struzzo con le infradito ai piedi, a un gruppetto di cerimoniosi piccoli alieni). Ma è tipico dello stile di

Brunialti, ed è il bello di queste storie, il fatto che le creature fantastiche non sorgono dal nulla, ma hanno una sorta di motivazione soggettiva, dal momento che il loro punto di partenza risiede nell’immaginazione del giovane protagonista. «Originano» da lui, insomma. Per Willy, era l’amico

immaginario che prendeva vita; mentre qui, per Sammy, sono le sue bugie a diventare reali. Come enunciato chiaramente dal titolo, Sammy è un contafrottole incallito, ma più per attirare l’attenzione che per desiderio di frodare gli altri. Sammy è dipendente dalla sua fantasia, le bugie gli escono spontanee, non riesce a farne a meno. Fino al giorno in cui esse cominceranno terribilmente ad avverarsi, facendo accelerare il ritmo della storia e coinvolgendo il lettore nelle avventure di Sammy e nel suo percorso di crescita. Un percorso che lo porterà a superare il senso di inadeguatezza e ad accettare se stesso, facendo a meno delle bugie ma non – e anche qui sta il bello! – degli spiragli aperti sui mondi altri, giacché lo struzzo e altre creature fantastiche potranno continuare a convivere felicemente con Sammy. Le illustrazioni di AntonGionata Ferrari aggiungono vivacità al tutto.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 22 settembre 2014 ¶ N. 39

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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Quanto fa tre per uno Ai tempi del Concilio di Trento le cose si stavano mettendo male. Fra il 1545 – quando ebbe inizio – ed il 1563, quando terminò dopo varie traversie ed interruzioni, l’establishment cattolico romano si trovò a dover fronteggiare non solo gli scismi ereticali del Calvinismo e del Luteranesimo ormai esplosi, come una sorta di galassia in espansione, in una miriade di chiese, sette, conventicole e quant’altro ciascuna innestata su differenze dottrinali talmente cavillose da lasciare gli Inquisitori d’ambo le parti a volte sbigottiti francamente. Dentro lo stesso schieramento cattolico romano fiorivano correnti di pensiero che – se non proprio apertamente ereticali – riconoscevano a Lutero e compagni una certa misura di ragione. «Ragione»: questo il concetto, che, pur ante-litteram, informava l’opera della Controriforma. Un certo tipo di religiosità di stampo medievale ormai considerata fuori del tempo e – soprattutto – fuori dalla dottrina – doveva essere estirpata tanto da questa quanto, e soprattutto, dalla prati-

ca ecclesiale. Gli innesti, sopravvivenze e superstitiones che ancora incrostavano le espressioni della religiosità popolare venivano passate al vaglio dell’ortodossia e condannate al minino sospetto di compromissione con dottrine e procedure men che allineate. Nel campo musicale si riformò la pratica della polifonia a favore di un ritorno al gregoriano semplice e privo di ornamenti (e buon per noi posteri che compositori come il sommo Palestrina rischiarono qualcosina pur di continuare a proporre una loro personale interpretazione delle nuove regole). Ma se in campo musicale si affermava la moda – che tale ormai era da un punto di vista culturale, antropologico – del corale cosiddetto luterano, massiccio, all’unisono e spesso in lingua volgare in modo che todo o mundo potesse contribuire, in campo iconografico le cose non erano combinate meglio. L’iconografia medievale si era avvalsa di contributi sostanziali tratti dall’immaginario popolare (e dall’iconografia «pagana») per esprimere concetti ed

allegorie che – spesso – rimangono di difficile interpretazione anche per l’esegesi specialistica moderna. Ippogrifi, sirene e draghi di ogni sorta popolavano le gronde ed i doccioni delle cattedrali medievali, per non parlare delle (a tutt’oggi) controverse Sheila-na-gigh, le vecchie che mostravano i genitali scolpite all’esterno delle chiese d’area gaelica. All’interno, furbescamente nascosti sotto gli sgabelli mobili dei cori conventuali le cosiddette «misericordie» (una sorta di quasi-sgabello che permetteva al monaco di appoggiarsi pur sembrando ancora in piedi durante gli interminabili uffici) recavano scenette oscene che fanno ancor oggi giornata alle visite guidate di certe cattedrali nelle isole britanniche: insomma, occorreva un bel repulisti. E veniamo al tema annunciato or sono due settimane. Fra i provvedimenti che misero al bando certe immagini vi fu menzione specifica di rappresentare la Santissima Trinità secondo l’allegoria di un Essere Tricefalo – ovvero come una persona con tre teste. Secondo la nuova

logica, occorreva che anche l’immagine della Divinità fosse comprensibile, piana, realistica. La dottrina dell’incarnazione rendeva tutto questo possibile per quanto riguardava la figura del Figlio e quella dello Spirito Santo: quest’ultimo se la cavava con l’allegoria della colomba peraltro documentata e legittimata – per così dire – dall’episodio del battesimo di Cristo. Per Dio Padre si ricorreva ad una convenzione che lo voleva patriarca barbuto seppur sempiternamente vigoroso. Ma per la Trinità? «Tre persone in una»: lì la convenzione aveva voluto che fosse rappresentata in figura umana a tre teste – una sorta di versione occidentale della Trimurti vedica (non essendo, incidentalmente, da escludere che il concetto cristiano non sia in qualche modo storicamente a quello connesso). Ma nonostante l’escamotage la difficoltà di dar forma al concetto permaneva come una sorta d’imbarazzo, tanto che nella tradizione del cristianesimo orientale e bizantino – dove mai si incontra la figura di Dio Padre – la

Trinità è rappresentata come convivio di tre angeli, così come nel mosaico di San Vitale a Ravenna e nel capolavoro di Andrej Roublev. La proibizione conciliare che colpiva la Trinità Tricefala al pari di sirene e gorgoni ebbe successo per eccesso: le rappresentazioni della Divinità Suprema post-conciliari sono comparativamente rare, e tali diventano sempre più mentre ci avviciniamo all’età moderna. Aveva certo ragione, allora, l’anziano Gurunsi, nel Nord del Ghana, quando rispose alla domanda dell’Altropologo su come fosse l’aspetto di Dio (poiché agli antropologi tocca anche fare queste domande): «Dio?! E chi lo ha mai visto?». O, forse, era nel giusto iconografico anche quel ragazzino inglese, prole ormai post-, trans- e ultra moderna, al Museo Correr di Venezia nel 2013: di fronte ad una piccola tavola di Lorenzo Lotto che rappresenta Dio Padre vestito di un bel mantello rosso corse dalla mamma e, dito puntato, esclamò: «Guarda, mamma, guarda! Babbo Natale!».

d’animo si alternano, che le relazioni non sono mai prive di ambivalenze e la paura dell’ignoto caratterizza, entro certi limiti, la condizione umana. Ad un certo punto il supereroe va relegato nei fumetti e nei film d’avventure. Un compito dell’adolescenza è proprio quello di ridefinire la stima di sé, l’autostima, accettando che, accanto agli elementi positivi esistano anche fattori negativi. Rinunciare alla perfezione e al successo garantito vuol dire ammettere che si possono fare degli errori senza per questo sentirsi travolti dalla vergogna che, come dice un vecchio proverbio, «uccide più della colpa». Ma evidentemente, da solo, Enzo non ce la fa. Se, almeno per ora, si limita a minacciare il suicidio senza metterlo in atto, vuol dire che l’istinto di vita prevale su quello di morte. Ma per quanto? Non bisogna attendere senza intervenire con la scusa della privacy, della discrezione, dell’ingiunzione a «farsi i fatti propri» che giustifica il disinteresse verso gli altri e incrementa il narcisismo. Se, dopo aver parlato con lui, ti senti turbato, in-

quieto, preoccupato, non forzarti di minimizzare, non cercare di dimenticare l’accaduto ma confidati con un adulto fidato: un parente, un insegnante, un sacerdote, un medico. I pensieri possono essere ingannevoli ma le emozioni non mentono mai. Poiché tu stesso sei giovane e impreparato, ti sarebbe utile, per affrontare il problema, contattare, magari insieme al tuo amico, una linea telefonica per la prevenzione del suicidio come il 143 (Telefono amico) o consultare un analogo sito internet. Un primo indirizzo potrebbe essere: http:// fb.me/aiutaunamicoindifficolta. Complimenti per il senso di responsabilità e la sensibilità con cui stai rispondendo a una richiesta di aiuto che riguarda, non solo Enzo, ma noi tutti.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Saper cogliere i segnali di disagio Cara Silvia, nella nostra compagnia (ci conosciamo da quando eravamo piccoli) Enzo è sempre stato il più brillante, il più simpatico, quello che vale la pena di aspettare prima di fare qualcosa perché la sua presenza rende tutto diverso. Quando siamo annoiati tira fuori dal cappello un’idea brillante, quando c’è tensione butta tutto in ridere, quando abbiamo paura ci dà coraggio, quando siamo soli basta chiamarlo… ed Enzo viene . Non parliamo poi delle ragazze che non hanno occhi che per lui, che ridono delle sue barzellette prima ancora che finiscano e se le invitiamo chiedono: «ci sarà anche Enzo?». Eppure, adesso che ci penso, la sua allegria ha un fondo di tristezza, in certi momenti un che di forzato, come se si sentisse obbligato a recitare la parte che gli abbiamo affibbiato. Se le scrivo è perché ultimamente ho trovato sul suo profilo Facebook frasi che mi preoccupano. Dice che il mondo fa schifo, che è stanco di vivere, che ha voglia di lasciar perdere tutto, di non avere amici, di essere disperatamente solo (!). Forse è un modo per

attirare la nostra attenzione, per restare al centro della scena dal momento che la nostra compagnia si sta disgregando. Un po’ per volta ci mettiamo in coppia e, si sa, le ragazze sono possessive e non sopportano i nostri amici... Questi pensieri mi mettono ansia ma non so cosa fare. Vorrei un consiglio. Grazie. / Mauro Caro Mauro, hai fatto bene a scriverci perché i segnali di disagio emotivo non vanno mai sottovalutati. Certo è difficile distinguere tra le minacce di suicidio vere e quelle espresse per esibizione, per sfogo, per vincere la noia o attirare l’attenzione di parenti e conoscenti. Nel dubbio meglio prenderle tutte sul serio. In un modo o nell’altro esprimono sempre una richiesta di aiuto e tu, come amico, ti trovi nella posizione migliore per rispondere all’appello. La possibilità di stabilire un dialogo, di sentirsi ascoltati e compresi rappresenta una mano tesa sopra il vuoto che annulla la tentazione di lasciarsi andare. Giustamente sottolinei il contrasto che esiste tra una personalità

solare, che sembrava irradiare entusiasmo, vitalità, felicità e la stanchezza, la malinconia, la depressione che, come una nube nera, è improvvisamente scesa a oscurare tanta luminosità. Eppure non è raro che, come spesso accade agli attori comici, una straordinaria allegrezza copra una sottostante, profonda tristezza. Può darsi che Enzo sia impreparato ad affrontare quello che prima o poi capita a tutti: una frustrazione, una delusione o un insucceso. E che non trovi in se stesso gli anticorpi necessari a contrastare il dolore e sconfiggere la disperazione. La nostra società, contrariamente a quelle tradizionali, cerca di evitare ai bambini ogni sofferenza, di renderli sempre felici ma, in tal modo, non li prepara al futuro, non li vaccina in vista delle inevitabili difficoltà. Probabilmente Enzo ha subito uno scacco inatteso che ha minato la sua identità e ora la maschera di persona esuberante ed entusiasta gli va stretta, non gli corrisponde più. Dovrebbe essere il momento di riflettere sul fatto che la vita è fatta di luci e di ombre, che gli stati

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Il ridicolo uccide: anche la socialità È proprio vero che il linguaggio quotidiano rappresenta lo specchio più diretto e rivelatore delle situazioni in cui ci si trova. E se, in questi giorni, si registrassero i discorsi dei nostri concittadini, emergerebbe l’uso dominante della parola «assurdo». Con la quale, sia chiaro, non si allude certo al filone creativo del teatro e della letteratura dell’assurdo che, da Ionesco a Beckett, sfruttò, con risultati apprezzabili, la libertà di rifiutare i vincoli della razionalità e del buon senso. No, più semplicemente, qui assurdo si riferisce a un ambito ben diverso: definisce, e condanna, gli interventi di una socialità che sembra operare a briglia sciolta, fine a se stessa. Esponendosi, in definitiva, al rischio del ridicolo, un termine che può sembrare inopportuno, applicato a un’istituzione, implicitamente seria, destinata a occuparsi di bisogni e di emergenze, spesso gravi, per dare protezione e

sicurezza. Come, del resto, era avvenuto, per decenni, in una Svizzera che, con proverbiale cautela, aveva sviluppato una rete di servizi efficiente e controllata, in grado di rispondere alle esigenze reali di utenti ritenuti consapevoli. Ma le cose, invece, si stanno guastando, e a un ritmo che giustifica allarme e sospetti e fa parlare di assurdità, di situazioni grottesche. Da riderci sopra. Si tratta di un malandazzo sfociato, recentemente, in episodi addirittura spettacolari. Risale a febbraio il caso Carlos, un giovane immigrato, dai comportamenti problematici e tali da richiedere cure riabilitative, comprese lezioni di pugilato a uso terapeutico, un’abitazione indipendente e in pari tempo tutelata. Insomma, un pacchetto d’interventi necessari per restituirlo alla normalità. Obiettivo difendibile, anche se non ancora raggiunto, che però comporta un prezzo assurdo:

fra i 28 e i 30 mila franchi mensili. Ma, dato che l’assurdo non conosce limiti, ecco che negli ultimi giorni viene alla luce un’altra vicenda che, questa volta, vede lievitare i costi a 60 mila franchi al mese. Pari al reddito annuo di non pochi salariati elvetici. Indispensabili, però, per pagare il mantenimento e le cure di una famiglia di origini eritree, o somale (è ancora da stabilire) e residenti nel comune di Hagenbuch, canton Zurigo (vedi anche articolo a pagina 29, ndr.). Ospiti, pure loro, problematici, secondo la definizione ufficiale dei servizi sociali. Quindi quattro dei sette figli, collocati in istituti educativi, retta mensile 9000 franchi a testa. Poi due abitazioni, dato che i coniugi, per giunta, hanno pensato di separarsi, e infine assistenza alla madre incapace di accudire casa e figli. Per farla breve, in tre anni, il costo di questa famiglia ha finito

per gravare sulle finanze del comune, al punto da prevedere un aumento del moltiplicatore fiscale. Figurarsi le reazioni popolari. E, ovviamente, quelle politiche. Una pacchia per la propaganda UDC. Casi estremi, addirittura da barzelletta, si dirà. Tuttavia indicatori di una tendenza che sta gonfiando incessantemente l’onere assistenziale nei bilanci di numerosi comuni. In proposito, il «Tages Anzeiger», quotidiano non sospetto di conservatorismo, ha pubblicato un grafico eloquente: in quattro anni, la voce «socialità» è passata dal 4,3 all’11,7% a Bienne, Losanna, Basilea, Zurigo. Certo, al pari dei colleghi d’oltre Gottardo, si prova un senso di disagio, il timore oltretutto di essere fraintesi, scrivendo commenti del genere. Tanto più che gli avvenimenti mondiali delle ultime settimane ci devono indurre, una volta di più, a

riflettere sull’immeritato privilegio di vivere qui, e ad aprirci alla generosità e all’accoglienza. Ma qui si tratta di chiarire un equivoco. È precisamente la concessione sconsiderata di prestazioni sociali, sotto forma di pensioni d’invalidità, di disoccupazione, di sgravi fiscali, di sussidi vari, da parte di funzionari e di medici compiacenti, a mettere in pericolo il prezioso strumento di una socialità responsabile, a ridicolizzarla attraverso elargizioni balorde. Per non parlare, infine, degli effetti collaterali di quest’abuso sul piano psicologico e culturale. Si sta assistendo al contagio di una mentalità, nuova dalle nostre parti, qualcosa che si chiama parassitismo. Giovani e meno giovani accettano, con disinvoltura furbastra, la condizione del disoccupato, dell’assistito. Insomma la filosofia del sempre meglio che lavorare.


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Ambiente e Benessere Alla scoperta di Norcia Alla tradizione gastronomica la città umbra unisce un antico patrimonio monumentale

Stralugano, la città che corre Il 27 e 28 settembre la località sul Ceresio si anima grazie all’importante gara podistica che è ormai un appuntamento importante dell’autunno sportivo ticinese

Ecologia a doppio turbo La nuova Audi TT è mossa da un motore diesel altamente performante ed è progettata per offrire un’alta efficienza

Tante razze, forse troppe Aumentano i difetti genetici causati dall’eccessiva selezione: il parere dell’esperto cinofilo

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Le Welwitschie a lato della Welwitschia Drive, strada nel deserto namibiano. (L. Fedele)

Natura e storia sulla bandiera

Vessillologia Alcune nazioni hanno scelto come emblema le piante più rappresentative della loro flora Loris Fedele Di recente mi è capitato di vedere i simboli araldici ufficiali di alcuni Paesi, i cosiddetti stemmi nazionali: lo stemma è uno scudo corredato da vari disegni simbolici che dovrebbero richiamare subito alla mente qualcosa che caratterizza la nazione. Nella fattispecie quello che mi ha attirato era lo stemma della Namibia, nazione africana indipendente solo dal 1990, situata nella parte meridionale del continente, affacciata sul mare tra l’Angola e il Sud Africa. Al centro dello stemma, ovvero della bandiera presidenziale, si trova lo scudo con la bandiera nazionale, sormontato da un’aquila, con a lato due orici, che sono grandi antilopi. Sotto c’è la rappresentazione stilizzata di una pianta endemica del deserto: la Welwitschia. Ed è proprio quest’ultima rappresentazione che mi ha intrigato. Perché mai è stata scelta? Che pianta è? Ebbene la pianta è proprio di quelle zone, del deserto del Namib che dà il nome alla nazione. Il tronco è cortissimo, pochi centimetri, e resta nascosto dalle foglie, che sono due, enormi, a forma di grosso nastro. Partono dal centro e si allungano in direzioni opposte appoggiate al terreno. Il vento, il clima e gli agenti atmosferici sfilaccia-

no le foglie, le attorcigliano e le spezzano, per cui la pianta sembra avere più di due foglie che si aprono a raggiera. Il nome di questo strano esemplare è Welwitschia mirabilis, dal nome del botanico austriaco che per primo ne documentò l’esistenza nel 1860, con una lettera al direttore del famosissimo giardino botanico di Kew, a Londra. Quando ne vide un esemplare, il direttore commentò che era la pianta più straordinaria che avesse mai visto e anche una delle più brutte. In effetti, l’aspetto della welwitschia ha poco di bello e quell’aggettivo «mirabilis», compreso nel nome di battesimo, si riferisce solo alle straordinarie proprietà che possiede. La sua longevità è eccezionale: le datazioni con il metodo del carbonio 14 hanno dimostrato che può vivere oltre duemila anni. Nel deserto del Namib – sono andato a vederla – vi è una pianura dove se ne trovano disseminati diversi esemplari. Dato che le piogge laggiù sono estremamente rare, ci si chiede come faccia a sopravvivere. Gli studi hanno evidenziato che non ha radici particolarmente profonde e che sfrutta abilmente l’umidità portata dalle nebbie della vicina costa atlantica. La forte escursione termica giornonotte, infatti, fa condensare la nebbia che viene spinta per chilometri verso l’interno dalle correnti d’aria. Le fo-

glie porose della welwitschia catturano questa umidità, assorbendo l’acqua sufficiente per mantenersi in vita. La specie è dioica, il che significa che c’è la pianta maschio e quella femmina, le quali producono entrambe infiorescenze, simili alle pigne delle conifere (quelle maschili sono molto piccole) e con l’aiuto del vento e degli insetti si riproducono. In lingua afrikaans ha un nome lungo e per noi impronunciabile (tweeblaarkanniedood) che significa «le due foglie immortali». Si capisce perché la Namibia l’abbia voluta sullo stemma come simbolo di forza e di longevità. Tra l’altro, ricordo che si tratta del primo Paese al mondo ad aver incluso nella propria costituzione la protezione dell’ambiente. Forse il fatto di essere una giovane nazione, resasi indipendente in un momento nel quale la sensibilità ecologica stava crescendo, può aver giocato un ruolo in quella decisione. Estesa e poco popolata, la Namibia possiede paesaggi diversificati e unici nel loro genere che oggi vengono protetti e sono importanti per l’offerta turistica. Specie vegetali o animali figurano nello stemma di molte nazioni, ma non sono sempre riportate sulla bandiera. Pensiamo al Canada e al suo simbolo nazionale: la foglia d’acero, stilizzata e di un uniforme colore rosso. Adottò

la nuova bandiera nel 1964, dopo aver utilizzato per quasi un secolo la Union flag britannica, e la regina d’Inghilterra Elisabetta II la ufficializzò nel 1965. L’acero non ha origini solo canadesi, anche se è molto presente, perché è anche originario dell’Europa, della Cina e del Giappone. È una pianta con un fogliame variegato che in autunno assume colori vivaci e fiammeggianti. Forse in un Paese di grandi distese boschive, dove gli alberi e il legname hanno rivestito storicamente una grande importanza, si è voluto pescare nel regno vegetale questo simbolo elegante, che rompesse con il ricordo del passato coloniale inglese. Invece il passato storico è ancora ricordato nell’attuale stemma del Canada, erede di quello monarchico del 1921, nel quale figuravano tra l’altro i simboli floreali d’Inghilterra (la rosa), di Scozia (il cardo), d’Irlanda (il trifoglio) e di Francia (il giglio). Un altro Paese che presenta un albero sulla bandiera, questa volta intero e non solo una foglia, è il Libano, nazione del vicino oriente che si affaccia sul Mediterraneo. La bandiera, adottata nel 1943, porta al centro l’immagine di un cedro verde del Libano, pianta che fa parte della famiglia delle pinacee e che migliaia d’anni fa ricopriva con estesi boschi tutta quella zona. Non c’è una motivazione ecologica nella scelta

di quel simbolo, ma una radice religiosa ed etica. L’albero del cedro del Libano è citato nella Bibbia, associato alla dirittura morale dei giusti e quindi fu scelto quale simbolo di immortalità e fermezza. Lo stemma di questa nazione è uguale alla bandiera. Come sono uguali bandiera e stemma del Belize, stato dell’America centrale a sud del Messico. Scoperto dagli spagnoli nel 1500 e occupato poi dai bucanieri britannici per le loro attività piratesche, visse una coesistenza spesso conflittuale di spagnoli e inglesi. Alla fine la spuntarono questi ultimi e dal 1862 divenne colonia con il nome di Honduras Britannico. Il 1° gennaio 1964, l’Inghilterra ne sancì l’autonomia. Fin dal XVII secolo divenne interessante per lo sfruttamento del legname. Oggi la sua gente è fortemente multietnica. Lo stemma è uno scudo tripartito su cui sono raffigurati nelle due parti superiori l’ascia, la sega e gli attrezzi del boscaiolo, e un veliero in quella inferiore. Dietro lo scudo vi è una pianta di mogano e ai lati due boscaioli di razze diverse, uno chiaro di pelle e uno scuro. La bandiera del Belize, al centro, porta un tondo con gli stessi disegni. Dalla vessillologia, così si chiama lo studio delle bandiere, si possono evidentemente trarre tante informazioni sulla storia e sull’ambiente del Paese.


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Ambiente e Benessere

Un’esplorazione sotterranea tra Rieti e Norcia Viaggiatori d’Occidente Lungo viadotti e chiostri, piazze e lapidi

Fabrizio Ardito, testo e foto Imperatori e consoli, condottieri e grandi battaglie: frugando nei ricordi scolastici e scorrendo le tappe della storia della conquista romana dell’Italia centrale sembra che questi lunghi secoli siano stati scanditi solo da eventi militari, da sconfitte e vittorie. In realtà, l’espansione romana è stata tutt’altro: una lenta avanzata di strade, gallerie e ponti, il lungo lavoro di stuoli di ingegneri, costruttori e progettisti che, poco alla volta, hanno dato vita a un reticolo di infrastrutture imponenti, che per qualche secolo hanno garantito il transito e il commercio, la vera linfa vitale di Roma. La via Salaria, che nacque per permettere il trasporto del sale dalla costa del Tirreno verso l’Adriatico lungo i suoi 250 chilometri attraverso le dorsali dell’Appennino, giunse ai piedi del colle di Rieti, oramai a poca distanza dalle foreste del monte Terminillo. La zona veniva spesso resa paludosa dalle piene del fiume Velino, così, a partire dal III secolo prima di Cristo, fu realizzata una serie di opere necessarie per permettere il transito di merci e viaggiatori in ogni stagione. Per scavalcare il corso tumultuoso del Velino e la ripida salita verso il centro, nacque una struttura grandiosa e inedita: un viadotto che saliva su archi imponenti verso il foro posto al di sotto dell’attuale piazza dedicata a Vittorio Emanuele II, da cui iniziava il tracciato del decumano cittadino di via Garibaldi. A ciò che rimane della Rieti di sotto e del suo colossale ponte si accede dal portone di un palazzo, seguendo una visita guidata che conduce prima ad attraversare diversi ambienti utilizzati come magazzini, segrete o depositi per i vicini imbarcaderi commerciali disposti sulla riva del fiume, per poi sboccare finalmente davanti a uno degli imponenti archi del viadotto che saliva all’acropoli cittadina. Tutta questa zona, esattamente al di sotto della ripida via dedicata ovviamente a Roma, fu costruita utilizzando come fondamenta la struttura del viadotto, i cui archi di travertino chiaro furono poco alla volta inglobati in cantine e sotterranei, magazzini e cortili nascosti. Una delle residenze più spettacolari del quartiere, il palazzo Vecchiarelli, conserva un chiostro che appare come un fondale teatrale progettato dal ticinese Carlo Maderno, di cui nel viaggio sotterraneo si possono ammirare le complesse fondamenta, silenziose e lontane dalla luce del sole.

La piazza di San Benedetto a Norcia.

La galleria del criptoportico romano a Norcia.

La cosiddetta «scala Borromini», sempre nel criptoportico.

Lasciati alle spalle gli ambienti ovattati del sottosuolo, una breve discesa fino al corso del Velino permette anche di osservare, tra le canoe che seguono un veloce slalom sulle acque chiarissime e gelide, i resti del tratto di ponte romano che scavalcava il fiume, ponte demolito quasi un secolo fa perché, a causa della sua scarsa altezza sul livello dell’acqua, veniva continuamente investito dalla violenza delle piene. Il viaggio verso Norcia ci porta a contornare le pendici del Terminillo: mentre la via più breve aggira da ovest la montagna cara ai romani. La nostra vecchia Salaria seguiva invece le spettacolari gole del Velino, chiuse tra il Terminillo e il Gran Sasso. Oltre Antrodoco inizia il canyon, con la triste ex abbazia benedettina dedicata ai santi Quirico e Giulitta, fondata nel X

ze della biglietteria del museo, conduce in un paio di ambienti moderni, fitti di cippi, lapidi e pietre miliari che testimoniano la lunga presenza romana anche sulle pendici dell’Appennino. Ma la grande sorpresa si trova al piano inferiore, dove la costruzione comunica con la galleria del criptoportico romano, che sembra perdersi nella luce fioca delle lampade al livello del suolo. La città di Nursia, che i romani strapparono nel 209 a.C. ai bellicosi Sabini, crebbe nell’epoca della pace imperiale tanto da vantare alla fine del I secolo a.C. un ampio foro porticato, al di sotto del quale era stata edificata una parte sotterranea. Probabilmente il criptoportico, di cui si conserva solo una sezione a forma di «L», era un ambiente di servizio necessario al pas-

secolo e ora scavalcata senza pietà da un gigantesco viadotto moderno. Lasciata alle spalle Amatrice (dove si scopre che la pasta giusta per l’amatriciana sono gli spaghetti e non, come da tradizione romanesca, i bucatini) si raggiunge Norcia. La piazza centrale è dedicata ufficialmente a San Benedetto, patrono e titolare della splendida cattedrale, ma ufficiosamente, insieme a tutto il centro storico, al maiale. I negozi di salumi, prosciutti, salsicce e spuntature sembrano occupare ogni metro delle vie centrali e una sfilata di profumi forti porta, dall’antica residenza fortificata dei governatori pontifici della Castellina con il suo Museo Civico e Diocesano, lungo via Roma fino alla Porta Ascolana. Un portone come tutti gli altri, aperto su richiesta dalle gentili ragaz-

saggio di carretti e merci, e per questo motivo non venne rivestito di pietra nobile o di elementi monumentali, ma di compatto opus incertum. Colpisce, comunque, ancora per le sue dimensioni, per la perfezione architettonica e per la sua conservazione quasi perfetta, che reca le tracce di prese d’aria e scarichi per la pioggia provenienti dal portico sovrastante. Di nuovo all’aperto, il sole fa brillare il calcare bianco di palazzi e chiese, mentre il profumo delle norcinerie, che con la loro arte millenaria hanno legato la cittadina alla professione dei suoi maestri insaccatori, attira alla ricerca di gusti e sapori che già nell’epoca dei grandi architetti dell’Urbe erano ben noti e apprezzati in tutta l’Italia centrale e anche sulle rive del biondo Tevere, a un passo dal Campidoglio.

L’ambiente sotterraneo comprendeva magazzini e zone di passaggio.


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Ambiente e Benessere

Il pollo e i suoi vini Bacco a tavola La perfetta combinazione per esaltare il gusto di molte preparazioni Davide Comoli In passato, il pollo era un piatto prelibato, destinato alle grandi occasioni, o per le persone ammalate, ché «un brodo di gallina» fa sempre bene, dato che è nutriente e leggero. Lo scrittore e gastronomo BrillatSavarin, nella sua celebre La Physiologie du Goût apparsa nel 1825, data della sua morte, parla della carne di pollo, consigliandola a chi deve dimagrire; è noto infatti che la carne di pollo è ricca di proteine e il suo apporto calorico è modesto. La carne di pollo appartiene alle cosiddette «carni alternative», e a suo tempo era considerata di qualità inferiore rispetto alle carni pregiate (vitello e manzo) e alle carni suine. A dipendenza del luogo di provenienza (e nutrimento), la tenerezza della carne dipende dall’età dell’animale: la carne deve essere sottile ed elastica, bianca o leggermente gialla; il colore può variare a dipendenza della razza o dell’allevamento. Nell’animale ruspante in genere, il colore della pelle è più scuro e vivo. La carne del pollo è per lo più facilmente digeribile ed è una buona fonte di proteine di elevata qualità, zolfo, fosforo, selenio e rame. Inoltre è generalmente più magra rispetto alla carne d’oca o di anatra. È preferibile all’acquisto scegliere animali con petto grosso e zampe non troppo lunghe, la carne deve essere morbida ed elastica al tatto, non molle. La presenza delle zampe può essere utile per riconoscere un pollo giovane: questo ha zampe chiare,

sperone corto, cioè formato da poco tempo, con scaglie poco evidenti. Tra i polli in vendita vi sono ancora quelli da svuotare, con testa e zampe attaccate; il vantaggio di acquistarli è l’ottimo brodo che potrete fare con queste parti, mentre il fegato servirà per dei crostini o per un ripieno. In ogni caso intero, eviscerato, o tagliato a pezzi, il pollo si presta alla preparazione di piatti unici, da pietanze semplici a quelle più raffinate e d’effetto. Il pollo è originario della Malesia, dove subì anche il primo addomesticamento; giunse in Grecia attraverso l’Asia, attorno al V secolo a.C. e da qui si diffuse nel resto del mondo allora conosciuto. I romani si specializzarono in allevamenti a livello industriale. La loro consuetudine era di cuocere il pennuto nel suo grasso: da ciò la necessità di avere polli ben pasciuti. Esigenza che portò a restrizioni che sono all’origine del cappone. Per eludere le prescrizioni della Lex Fannia (che voleva limitare sprechi e spese smodate durante le feste e prescriveva l’utilizzo limitato di galline razzolate al posto di quelle ingrassate in allevamento, onde economizzare il crescente e incontrollato uso di granaglie) gli allevatori escogitarono il sistema della castrazione dei galletti. Ottennero così qualcosa che non era più gallo e tantomeno gallina. In tal modo continuarono la loro redditizia attività, offrendo nel contempo ai clienti un prodotto qualitativamente migliore. Il Medioevo e le età successive, videro come per tutti gli altri animali da cortile, una diffusione regolamentata. Tra l’altro vale la pena ricordare come

questi animali facessero parte della dote matrimoniale assegnata alle future spose, come attestato da numerosi documenti che vanno dal XI al XIX secolo. Nella cucina di quell’epoca, le preparazioni a livello popolare del pollo erano limitate a lesso, all’arrosto e al pastitio, dove i pezzi di questo pennuto venivano infornati con uova, panna, verdure, cervella e qualche spezia; ma questo solo presso i più abbienti, i quali non disdegnavano elaborazioni più sofisticate e vistose, anticipando quello che sarà il costume coreografico rinascimentale. I cuochi settecenteschi denotano fantasia feconda nel presentare questa risorsa in nuove versioni volte ad allettare chi doveva consumare. Fantasia e creatività mai sopite e che più tardi daranno origine a piatti come il celebre pollo alla Marengo (nella foto) o alla Celestine, all’Albuferra, e via elencando. Gastronomicamente parlando, si usa fare una distinzione tra «pollame» e «pollame nobile», riferendosi nell’ultimo caso ad animali dalle carni di gusto più deciso e caratteristico, quali tacchini, faraone, oche e anitre. Per l’abbinamento ottimale tra pietanza e vino, bisogna tener conto oltre che del tipo di volatile, anche del sistema di cottura che influisce notevolmente sul sapore delle sue carni. Il pollo ben s’accompagna ai vini rossi di buona struttura, generosi e profumati, con un invecchiamento medio sui 3-4 anni. Una tra le più antiche ricette, visto che parliamo di vino e pollame, è senz’altro il famoso Coq au vin, da secoli uno dei piatti più rappresentativi

della cucina francese: abbinatelo con un Gevrey Chambertin (Pinot Nero), lo stesso in cui avete marinato il vostro galletto. Altri matrimoni felici ci possono essere tra un buon Chianti e un Cappone lessato, un Montepulciano con il Pollo alla diavola, un Pollo alla cacciatora con il Rubino di Cantavenna, il Pollo allo spiedo con un Lagrein. Il nostro Merlot amoreggia meravigliosamente con il Pollo al cestello, mentre il Dolcetto fraseggia con il Pollo en cocotte, una Bonarda con il Pollo in tegame con peperoni e da non perdere la Gallina ripiena alla ligure con un Rossese Dolceacqua. Abbinare a un Poulet sauté à la crème, nel quale i

pezzi di pollo vengono rosolati nel burro e poi affogati nella panna e nel vino bianco, ci crea qualche problemino, ma forse è un ottimo rimedio per chi è un po’ in là con gli anni. Alla fine del XVIII secolo, il vecchio e ormai spossato Giacomo Casanova cospargeva un sauté simile con il cioccolato amaro, affermando che fosse il rimedio migliore per ritrovare la virilità perduta. Quando il Principe di Ligne lo vide trangugiare il «Pollo alla Casanova» dichiarò con entusiasmo: «Ha già più di 74 anni e anche se non è più un Dio in giardino o un satiro nel bosco, è ancor sempre un lupo a tavola». Quindi oggi si mangia pollo: bon appétit. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

StraLugano per tutti i gusti! Edizione 2014 Novità e tradizione all’insegna dello sport podistico, per sportivi e per famiglie Davide Riva «Lugano… corre!». Poche parole, semplici e dirette che fotografano perfettamente la realtà che il 27 e 28 settembre si presenterà agli occhi di coloro che vorranno immergersi nella frizzante ed accogliente atmosfera della IX edizione della StraLugano, una manifestazione che negli anni ha sempre saputo sapientemente evolversi e rinnovarsi. StraLugano infatti oggi è un evento poliedrico che intorno al «nocciolo» sportivo ha creato molteplici attività collaterali che permettono a chiunque di trovare la giusta collocazione per vivere pienamente un fine settimana all’insegna dello sport e della famiglia. L’unicità dei percorsi, l’organizzazione minuziosa e il calore del pubblico rendono la competizione una delle gare più apprezzate del panorama podistico internazionale. La tradizione, perfettamente rappresentata dalla 30 km «Panoramic» e dalla 10 km «City», si miscela splendidamente con l’innovazione e la fantasia della «FluoRun»; senza dimenticare la StraLugano Relay 3x10 km, quest’an-

no collegata al programma Charity, la KidsRun specificatamente ideata per i più giovani e la gara di Handbike, divenuta tappa finale della Nationaler Cup e del Giro d’Italia. Ma come orientarsi al meglio in questo labirinto sportivo? Proviamo con un piccolo test. ˚ Sei competitivo, allenato e punti a confrontarti con i tuoi limiti? Le opzioni sono due: la 30 km «Panoramic», un percorso di media difficoltà che alterna tratti pianeggianti a salite e discese con un dislivello totale di 160 metri oppure la 10 km «City» che si snoda lungo un anello di 5 chilometri da percorrere due volte all’interno dell’affascinante centro cittadino. ˚ Sei sportivo, ma non ancora perfettamente pronto per «mordere» la strada? Il consiglio è di sperimentare la 10 km «City» godendosi la storia e la cultura delle vie cittadine. ˚ Con gli amici condividi il tempo libero, ma anche la passione per la corsa? Lanciati nella StraLugano Relay, una gara che riscrive la definizione di running, trasformando la corsa da

La partenza della KidsRun nell’edizione 2013. (Mario Curti)

sport individuale a disciplina di squadra. ˚ 10 km ti sembrano troppi e sei in cerca di amicizia e divertimento? Sabato sera parte la FluoRun, una corsa non

Il programma della 9a edizione Sabato 27 settembre 2014

10.00 Centro Esposizioni, inaugurazione Expo Ticinosport; 14.00-16.00 Piazza Manzoni, intrattenimenti e animazioni nel villaggio; 14.00-20.00 Centro Esposizioni, ritiro pettorali e iscrizioni tardive; 16.00 Piazza Manzoni, Info Point iscrizioni FluoRun; 16.15-19.50 Piazza Riforma, Zumba e varietà musicali; 20.15 Piazza Riforma, partenza della StraLugano FluoRun; 21.30 Centro Esposizioni, Migros PastaParty; 22.00 Centro Esposizioni, FluoParty serata musicale con entrata libera. Domenica 28 settembre 2014

07.00-09.00 Centro Esposizioni, ritiro pettorali;

09.00 Viale Castagnola, Warm-up SUVA; 09.55 Viale Castagnola, cerimonia di partenza; 10.00 Viale Castagnola, partenza della 30 km Panoramic e Staffetta Relay 3x10 km; 10.15 Viale Castagnola, partenza della 10 km City; 10.30 Piazza Riforma, StraLugano Live; 10.45 Piazza Manzoni-Lungolago, primi arrivi 10 km City; 11.30 Piazza Manzoni-Lungolago, primi arrivi 30 km Panoramic; 12.00 Piazza Manzoni-Lungolago, podio maschile e femminile 30 km; 12.00 Centro Esposizioni, Migros PastaParty; 13.00 Centro Esposizioni, premiazioni 10 km City, 30 km Panoramic e Staffette.

Gare KidsRun

12.00 Piazza Manzoni, Info Point, ultime iscrizioni; 13.15 Patio del Municipio, ritrovo partecipanti KidsRun; 14.00-15.00 Piazza Manzoni-Lungolago, partenze gare e a seguire premiazioni. Gare RoundTable Cup HandBike, tappe finali del Giro d’Italia HB e Nationaler HB Cup

15.30 Piazza Manzoni-Lungolago, Partenza 1a gara HandBike (arrivo previsto ca. 16.15); 16.45 Piazza Manzoni-Lungolago, partenza 2a gara HandBike (arrivo previsto ca. 17.30); 18.30 Centro Esposizioni, premiazioni e Migros PastaParty.

competitiva, carica di energia e ricca di emozioni e inebrianti colori. ˚ Hai figli e pensi che lo sport sia un ottimo insegnamento di vita? StraLugano ha riservato un ampio spazio per i ragazzi in collaborazione con il progetto I’M Fit di Migros: obiettivo è motivare il maggior numero di bambini a partecipare a corse popolari e combattere l’obesità infantile. È possibile iscriversi sotto l’insegna I’M Fit alla KidsRun (distanze dai 700 ai 2100 metri), che si svolgerà domenica 28; ai primi 30 team iscritti Migros rimborserà la quota d’iscrizione. Devono essere composti da almeno 5, massimo 30, ragazzi/bambini in età scolastica. Non è necessario che i membri abbiano la stessa età. I 5 migliori team I’M Fit potranno partecipare alla finale nazionale. ˚ La corsa non fa per te, ma vuoi vivere pienamente le emozioni della StraLugano? Passeggia, osserva, tifa e goditi l’atmosfera dell’evento. ˚ E la solidarietà? StraLugano anche su questo punto si schiera in prima linea. Da quest’anno, sulla base delle esperienze di altre grandi competizioni, la StraLugano convoglierà tutte le attività di solidarietà in un Charity Program, un progetto che è molto più di un semplice sistema di donazioni in

quanto trasforma i corridori in veri e propri testimonial delle associazioni benefiche. ˚ Sei quasi convinta/o, ma ti aspetti ancora qualche novità? Forse un’Expo gratuita dedicata al mondo delle novità sportive potrebbe incuriosirti. StraLugano e Ticinosport infatti, condividendo la stessa passione per lo sport e per l’attività fisica hanno deciso di unire le forze per poter proporre al pubblico qualcosa di innovativo e accattivante. Un’area espositiva di oltre 2000 mq ospiterà espositori, federazioni, tifosi, appassionati e praticanti che insieme daranno vita a 48 ore di coinvolgimento emotivo e sportivo senza precedenti. Le buone notizie non sono ancora finite. La StraLugano infatti offre gratuitamente la «Corte dei bambini», l’esperienza di fisioterapisti e osteopati, un pacco gara sensazionale, deposito bagagli sorvegliato, pasta party, servizio televisivo e fotografico, dirette radiofoniche, bus navetta, ricchissimi premi e tanti eventi collaterali: peccato non esserci…

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Ambiente e Benessere

Una TT tutta... verde Motori Anche Audi ha raggiunto interessanti risultati con il suo nuovo modello più ecologico

Mario Alberto Cucchi «Bilancio ambientale positivo per la nuova Audi TT». Questo è il titolo di un comunicato stampa diffuso da Audi negli scorsi giorni. Sino a non molto tempo fa, i costruttori di automobili non parlavano di ambiente, bensì puntavano su prestazioni, tecnologia e prezzo. Oggi al primo posto c’è l’ecologia.

Biturbo elettrico: questa la tecnologia che rappresenta il futuro dei motori a gasolio di Audi Non solo parole, ma fatti: ciascun esemplare della nuova Audi TT, giunta già alla terza generazione, emette una quantità sensibilmente inferiore di gas serra nel ciclo di vita complessivo, circa l’11 per cento in meno rispetto al modello precedente, a fronte di un incremento di potenza pari al 14 per cento. Ricordiamo che i gas serra comprendono, oltre al biossido di carbonio, anche metano, protossido di azoto ed emissioni organiche contenenti alogeni. Questo risultato è stato ottenuto grazie all’utilizzo di materiali più leggeri a bordo della sportiva coupé che contribuiscono a ridurre la massa a vuoto. La nuova TT con motore 2.0 TFSI pesa 1230 chilogrammi,

La progettazione è attenta all’uso di componenti della vettura che abbiano il minore impatto ambientale.

ovvero 50 kg in meno rispetto al modello precedente. «Il nostro obiettivo è ridurre in misura significativa le emissioni complessive di ogni singolo nuovo modello», afferma Ulrich Hackenberg, membro del Board per lo sviluppo tecnico di Audi AG. «E non si

tratta solo delle sostanze che vengono emesse con i gas di scarico. Audi prende in considerazione l’intera catena di prodotti e processi rientranti nel campo della mobilità». Lo scorso mese di luglio Audi ha festeggiato il 25° anniversario del mo-

tore TDI, il turbodiesel che è stato introdotto nel 1989 al salone dell’auto di Francoforte sotto il cofano dell’Audi 100. Ulrich Weiss, capo dello sviluppo dei motori diesel per la casa dei quattro anelli, ha approfittato dei festeggiamenti per fare il punto su questo

tipo di propulsore, storicamente brevettato nel 1892 a Berlino dal signor Rudolf Diesel. Biturbo elettrico, questa è la tecnologia che rappresenta il futuro dei motori a gasolio marchiati Audi. Come funziona? In pratica il turbo lavora insieme a un compressore ausiliario azionato elettricamente. È una soluzione che permette di generare potenze fino ad ora sconosciute durante la fase di partenza con un numero di giri basso. Audi crede fermamente nelle potenzialità del motore a gasolio perché lo ritiene il più efficiente che ci sia sul piano termodinamico. Semaforo verde quindi per ibridizzare i propulsori diesel accoppiandoli con motori elettrici, che ne possano migliorare le prestazioni o ridurre i consumi. Semaforo rosso invece per Opel Ampera. Ancora un paio d’anni e la carriera non troppo fortunata dell’elettrica ad autonomia estesa sarà probabilmente finita. Lanciata nel 2012, Ampera non ha mai soddisfatto i target di vendita e dopo le 3184 unità del 2013 è crollata ad appena 332 esemplari nei primi cinque mesi di quest’anno. Lo stop produttivo è stato confermato da Karl-Thomas Neumann, Presidente di Opel. Attenzione però, la Casa non lascerà completamente il settore dato che ha in animo di sviluppare un’elettrica completamente nuova. Il modello rientrerà nell’ambito del programma di espansione Opel che prevede il lancio di 27 nuove auto entro il 2018. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Ma che razza di cane sei?

Mondoanimale I biologi riconoscono l’importanza di studiare meglio le specie domestiche e in particolare il cane,

un animale servile ma ormai snaturato che oggi merita una conoscenza più approfondita

«La Svizzera – spiega – è il primo Stato ad aver introdotto nella sua Costituzione la nozione di “dignità della creatura” e precisato che “gli animali non sono cose” (ndr: art. 641a Codice civile Svizzero). Se, ad esempio, in caso di divorzio le parti non sono d’accordo sulla custodia di un cane, spetterà al giudice decidere», risponde Dufour precisando che le leggi cantonali si concentrano maggiormente sulle misure atte a proteggere gli uomini dai cani pericolosi: «Viste le tredicimila persone morse ogni anno in Svizzera, dal 2000 i Cantoni sono stati costretti a emanare disposizioni più severe, soprattutto per il possesso di cani appartenenti alle razze classificate come pericolose; un criterio peraltro molto difficile da fissare oggettivamente». Le conseguenze della selezione potrebbero in principio essere disciplinate dalla Legge federale del 16 dicembre 2005 sulla protezione degli animali, secondo cui: «L’applicazione di metodi naturali o artificiali di allevamento o di riproduzione non deve causare agli animali genitori né ai loro discendenti dolori, sofferenze, lesioni o turbe comportamentali dovuti o connessi all’obiettivo zootecnico». Dufour aggiunge che, «inoltre, il Consiglio federale emana prescrizioni sull’allevamento e la produzione di animali determinando i criteri per valutare la liceità degli obiettivi di allevamento e dei metodi di riproduzione e tenendo conto della dignità dell’animale». A lasciare l’amaro in bocca giunge però la sua conclusione: «Ma finora, non si è a conoscenza di un’applicazione della legge in tale senso». Questo ci fa pensare che, senza demonizzare il lavoro di selezione condotto per secoli e decenni, sarebbe forse giunta l’ora di preoccuparsi maggiormente per la diversità genetica dei cani. «Escludendo il lancio di una crociata a favore degli incroci…», termina Christophe Dufour.

Maria Grazia Buletti Al giorno d’oggi sono riconosciute circa 350 razze canine, di dimensioni e forme molto svariate. Per comprendere gli inizi di questa incredibile varietà bisogna risalire a prima del Medioevo, quando l’essere umano iniziò la selezione con l’intento di migliorare le prestazioni dei cani utilizzati nella caccia o nella protezione del bestiame. In seguito, dal XIX secolo, l’inizio dei concorsi cinofili segna pure la nascita dei criteri estetici che sono alla base degli standard attuali. Il successo ottenuto dall’European Dog Show tenutosi nel 2013 al Palexpo di Ginevra, con la partecipazione di ben 12mila cani, dimostra la grande considerazione di cui oggi godono gli standard attuali. «Con l’evolversi degli incroci, fortuiti o programmati, la morfologia di ogni razza cambia spesso in determinati dettagli, ma a volte anche in modo più incisivo: l’evoluzione della forma dei crani su un centinaio di anni ne è un esempio lampante» ci spiega Christian Dufour. Di formazione biologo naturalista, nel 1985 Dufour fonda il Centro Svizzero di cartografia della fauna con il sostegno del Professor Willy Matthey e di Willy Geiger dell’Università di Neuchâtel. L’intento è di promuovere la tracciabilità della biodiversità in Svizzera. È

La biodiversità è un argomento che dovrebbe interessare anche il mondo canino.

Dufour, con la sua grande esperienza, che analizza la questione delle conseguenze delle selezioni cinofile, spesso spinte all’eccesso in nome di uno standard di razze create secondo criteri estetici puramente umani: «La selezione di certe razze contemporanee spinta all’eccesso può essere discutibile e sembra che

«Qua la zampa!» La mostra «Donne la patte!» del Museo di storia naturale di Neuchâtel ha chiuso i battenti lo scorso 17 agosto. L’interessante esposizione ha raggiunto l’obiettivo di dimostrare la plasticità della specie canina, presentando crani, scheletri e pelli provenienti dalla notevole collezione canina della Fondazione Albert Heim, depositata al Museo di storia naturale di Berna.

A Neuchâtel si è così riusciti a dimostrare come la propensione dell’uomo a superare i limiti abbia spinto all’estremo la selezione delle razze canine, sia per la taglia e le proporzioni del corpo, sia per la lunghezza delle orecchie o per il tipo di pelo. L’ennesima dimostrazione del fatto che i cosiddetti cani «bastardini» andrebbero rivalutati oggi più che mai.

gli allevatori non sempre perseguano lo scopo di produrre il migliore animale da compagnia, che dovrebbe essere la funzione primaria dei cani al giorno d’oggi, ma di favorire in modo abbastanza irrazionale criteri estetici, morfologici o comportamentali». Affermando che «i vincitori dei concorsi, spesso tutti cugini, hanno una discendenza sproporzionata», il nostro interlocutore ci fa riflettere sul fatto che con uno sviluppo di oltre 20 generazioni in 50 anni, la trasformazione delle razze canine è fulminea. Le conseguenze non si fanno certo attendere: «La variabilità genetica è diminuita in modo drammatico dal 1950 e sono apparse numerose malformazioni e malattie, al punto che i cani sono ormai dei veri e propri campi di ricerca per lo studio delle malattie di origine genetica». Le conseguenze delle selezioni sono sempre più gravi, così come le loro manifestazioni: «Aumentano le malforma-

zioni e altre patologie, come ad esempio l’Epagneul nano può soffrire di crisi epilettiche, molte razze di cani troppo pesanti presentano displasie delle anche, i Bulldog partoriscono solamente con taglio cesareo o hanno problemi respiratori, mentre altre razze con le orecchie troppo lunghe o la pelle troppo abbondante soffrono di infezioni». Scopriamo che a causa dei cambiamenti morfologici, alle patologie si sommano l’impoverimento dei mezzi di comunicazione e il disturbo delle interazioni sociali. Dufour ci rende attenti sul fatto che, palesemente, la selezione tradizionale mostra la sua preoccupante efficacia anche in considerazione delle prodezze dell’ingegneria genetica. A questo punto chiediamo se esiste un quadro giuridico ed etico, come per il settore genetico, che fissa i limiti della creatività degli allevatori, poiché la legge svizzera si prefigge di disciplinare la vita dei 450mila cani registrati nel nostro Paese.

ORIZZONTALI 1. Animaletto marino che vive in colonie 7. Termine liturgico 8. Nocciolo di prugna 9. Sigla di emittente televisiva italiana 10. Uno in tedesco 11. Le iniziali dell’attrice Rossellini 12. Pronome personale 13. Voce poco gradevole 14. La minore delle isole Cicladi 18. Parte della scarpa 20. Stato africano 21. Canto sacro 22. Stringe il cuore 23. Mezzo... inglese 24. Stringhe 26. È vietato calpestarla 27. L’avanzata... dei vecchietti

Sudoku Livello per geni

Giochi Cruciverba L’orso bianco assorbe i raggi solari grazie al… Trova il resto della frase leggendo a soluzione ultimata le lettere nelle caselle grigie. (Frase: 6, 4, 5, 3, 5)

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VERTICALI 1. Molto vicina al cuore 2. Celebre moschea di Gerusalemme 3. Si portano alla sbarra 4. Un anno a Parigi 5. L’attrice Ranieri 6. Ciascuno 10. Insidiosa offerta 12. Dio sbuffante 13. Pattuglia di vigilanza 14. Quella più alta d’Europa si chiama Pilat 15. Che consuma e logora 16. Le iniziali dell’attore Argentero 17. Misura per guantoni da boxe 19. Precedono gli altri 20. Arnese da taglio 22. Di carota quel di Renard 24. Articolo 25. La città del compositore Bellini (Sigla)

Scopo del gioco

Completare lo schema classico (81 caselle, 9 blocchi, 9 righe per 9 colonne) in modo che ogni colonna, ogni riga e ogni blocco contengano tutti i numeri da 1 a 9, nessuno escluso e senza ripetizioni.

Soluzione della settimana precedente

Buono a sapersi – la cipolla ha la capacità: … di assorbire i batteri circostanti

B A S I R I O C A H V I A

D O T T T O S R T A L I

I A R B O A C M N T E C I R I M O N E S T

S S I R E I R S O O R S T O E L

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Politica e Economia Sfida all’Isis Sono una quarantina gli aderenti alla coalizione internazionale contro il califfato islamico, ma l’alleanza si presenta con riluttanza e molte ambiguità

La peste africana Ebola, il virus dei poveri non conosce tregua. Foto di Luigi Baldelli scattate in Sierra Leone

Bilancio di sei anni alla DSC Intervista con Martin Dahinden che a fine settembre si dimette da capo della Direzione dello sviluppo e della cooperazione per assumere la carica di ambasciatore svizzero a Washington

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ESA

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Incontro con la Cometa Missione nello spazio La sonda Rosetta sviluppata dall’Agenzia Spaziale Europea porterà il lander Philae

ad atterrare sulla superficie di 67P Churyumov-Gerasimenko. Il tentativo, senza precedenti, avverrà l’11 novembre Loris Fedele Il mondo scientifico, e più particolarmente quello legato alla ricerca in campo spaziale, è in fibrillazione. Siamo arrivati nei momenti cruciali di una missione nella quale il confine tra realtà e fantasia potrebbe confondersi, almeno filosoficamente parlando. La missione si chiama Rosetta, un nome comune, se però si va a verificare il perché di quel nome si vede che di popolare non ha nulla, anzi. Il nome è una citazione dotta, nel senso che si rifà alla famosa stele di Rosetta, la roccia granitica oggi esposta al British Museum di Londra, che porta inciso lo stesso testo in tre diverse grafie: il geroglifico, il demotico (egiziano) e il greco. La stele all’inizio dell’800 offrì la chiave per interpretare i geroglifici egiziani e quindi far avanzare vistosamente la conoscenza umana. Allo stesso modo la missione Rosetta, promossa dall’Agenzia spaziale europea, intende porre una nuova pietra miliare nella conoscenza umana dello spazio. L’obiettivo è una cometa, la 67P/ Churyumov-Gerasimenko sulla quale Rosetta – un satellite lanciato 10 anni fa e arrivato a destinazione lo scorso agosto – farà scendere un’altra sonda più

piccola – chiamata Philae – per condurre esperimenti sul suolo cometario. In questo caso il nome è quello dell’obelisco di Philae, appartenente all’omonimo complesso di templi edificati nei pressi di Assuan, che con le sue iscrizioni concorse con Rosetta alla decifrazione dei geroglifici. Lunedì scorso, 15 settembre, è stato reso noto il sito prescelto dagli scienziati per far atterrare Philae sulla cometa. Si tratterà di una prima mondiale dal forte impatto emotivo. L’evento non può che suscitare curiosità e diverse riflessioni. Perché mai si è voluto andare su una cometa? Parafrasando J.F. Kennedy nel suo discorso che preannunciava lo sbarco americano sulla Luna potrei dire: «perché è difficile!» Ma le ragioni sono diverse e i tempi sono molto cambiati rispetto agli anni ’60. Una volta gli Stati Uniti e la disciolta Unione Sovietica si fronteggiavano a colpi di record. Il primato in campo spaziale rifletteva un preteso primato politico di un sistema di governo. Si investivano cifre strabilianti per questo scopo e i soldi per farlo, in un modo o nell’altro, si trovavano. Oggi le scelte non sono più quelle. Ne approfitta l’Europa, che con la sua Agenzia è diventata leader mondiale nel campo dei

satelliti. Si è trattato di una scelta quasi obbligata, perché l’Europa non aveva i mezzi per competere sui voli umani nello spazio. Ma è stata una scelta vincente. Tuttavia i satelliti non sono soltanto quelli di servizio, i meteosat o quelli di telecomunicazione per esempio, ma ci sono anche quelli per la ricerca pura. Rosetta è uno di questi e l’averlo mandato a studiare una cometa da vicino è dovuto al fatto che, oltre alla grandissima performance tecnica necessaria all’impresa, si aprono nuove frontiere di conoscenza e verifica di ipotesi scientifiche importanti. Le comete sono corpi celesti antichissimi, che nella loro lunga vita sono cambiati poco. Una accreditata teoria ritiene che possano aver portato sulla Terra, con antichi scontri, gli elementi che hanno permesso la nascita della vita. La cometa, nell’immaginario collettivo, è qualcosa di meraviglioso e intrigante. Fin da bambini, e forse dal 1300 quando Giotto la disegnò nella Cappella degli Scrovegni di Padova, la associamo al pensiero di una stella con la coda che guidò i Magi verso Betlemme. La cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko chi guiderà oggi? A questa missione hanno lavorato moltissime persone, di nazioni diverse, in Euro-

pa e nel mondo. Non vi è distinzione di nazionalità, di razza o di religione nello sforzo degli scienziati che perseguono un obiettivo comune. Dei frutti raccolti beneficeranno tutti anche se, per ovvie ragioni di mercato, chi più ha dato più raccoglierà. Mi preme sottolineare la riuscita degli sforzi congiunti. In un mondo dove si formano continue divisioni è bello pensare che lo spazio unisce. Una curiosità: l’obiettivo della missione Rosetta all’inizio doveva essere la cometa 46P/Wirtanen, ma un lancio fallito del razzo Ariane 5 e la conseguente impossibilità di partire in tempo per un appuntamento con essa fecero cambiare destinazione. Si scelse 67P/Churyumov-Gerasimenko che porta il nome di due scienziati che la scoprirono: Klim I. Churyumov e Svetlana I. Gerasimenko attivi in Ucraina e in Russia, quando questi due Paesi andavano d’accordo. Ironica la coincidenza pensando alla situazione attuale. Oltre ad avere una doppia paternità la cometa si è mostrata binaria, cioè con un corpo formato da due elementi di taglia diversa uniti tra loro da una specie di collo più sottile e liscio. Una struttura del genere nelle comete non è giudicata rara, ma la forma si è dimostrata più estrema di come si sarebbe

potuto pensare. Questo fatto rende ancora più difficile la gestione tecnica della missione. Il sito scelto per l’atterraggio di novembre si trova sulla parte più piccola, sulla «testa» della cometa. Come riserva si considera un sito sulla parte opposta della cometa, quella più panciuta. Vi sono precise ragioni scientifiche per queste scelte. Una richiesta importante è stata quella di trovare un sito dal quale la sonda Philae atterrata potesse condurre esperimenti in coppia con Rosetta, che resta in orbita attorno alla cometa nel suo avvicinamento al Sole. Gli scenari che si aprono costituiscono l’orgoglio di un’Agenzia europea che da tempo compete alla pari con le potenze spaziali russe e americane. Ma bisogna tenere i piedi per terra. Gli investimenti sono da capogiro, anche se danno lavoro a moltissime persone e muovono l’economia. Le scelte politiche strategiche in questo campo non possono pensare solo alla ricerca. Resta aperta la questione se ormai valga di più la pena ridurre i voli umani nello spazio e incoraggiare l’uso strumentale con sonde e robot oppure no. Comunque vada la missione Rosetta sta segnando un importante punto a favore delle macchine.


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Politica e Economia

Una coalizione riluttante Sfida all’Isis Per Obama apppare sempre più difficile tenere unita l’alleanza internazionale contro lo Stato islamico

Marcella Emiliani Il 17 settembre scorso, da Tampa in Florida, il presidente Obama (nella foto) annunciava che la sua coalizione contro lo Stato islamico del califfo alBaghdadi aveva raggiunto i 40 aderenti a livello mondiale. La risposta dell’Isis è stata immediata. Lo stesso giorno si è affrettato a rendere noto che sta procedendo con successo ad allacciare o riallacciare i contatti con tutte le piattaforme regionali di al-Qaeda (al-Qaeda nel Maghreb islamico, al-Qaeda nella penisola arabica, al-Qaeda nell’Africa orientale ecc…) vendendo sui social media questo suo attivismo «diplomatico» come riprova della vocazione universale del califfato. Si tratta di un bluff perché questa guerra nasce dalle profonde divisioni all’interno della umma (l’ecumene musulmana) – sunniti contro sciiti – e proprio questo «peccato originale» è destinato a minare dalle fondamenta le pretese universali del novello profeta al-Baghdadi. Ma tant’è: il dado ormai è tratto, caccia e droni americani sono all’opera per cecchinare dall’alto le milizie degli «uomini neri» mentre i loro leader minacciano attentati in tutto il mondo, Vaticano compreso, e continuano a decapitare gli ostaggi occidentali come monito a tutti i partecipanti alla coalizione antiterroristica. Di tutto questo orribile copione di sangue, quello che ci interessa sot-

tolineare è lo spirito «riluttante» della coalizione che gli Stati Uniti stanno costruendo per aver ragione dei mostri dell’Isis. Infatti i 30 Paesi che hanno partecipato alla Conferenza di Parigi il 15 settembre scorso, affiancati dai rappresentanti dell’Onu, dell’Unione europea e della Lega araba, per concertare un’azione comune contro lo Stato islamico, di tutto avevano voglia meno che di imbarcarsi in un’altra guerra. Ma come salvaguardare altrimenti l’integrità territoriale dello Stato iracheno, come metterlo in grado di difendersi dalle minacce armate di nemici interni ed esterni, come impedire ai terroristi di mettere le mani sui campi petroliferi, come affrontare la guerra civile siriana e impedire che venga monopolizzata dalle formazioni terroristiche come al-Nusra e Isis? Con un’altra guerra, appunto, che però non sarà sufficiente a sradicare la malapianta dell’estremismo islamico se non sarà accompagnata da un’azione politica adeguata. E proprio qui sta lo scoglio principale che la coalizione dovrà affrontare. Qui sta la vera radice di quell’atteggiamento riluttante che serpeggia tra i membri della coalizione, soprattutto tra gli attori mediorientali di questa tragedia. Vediamo allora le ragioni che inquietano le notti dei principali di loro. A Parigi erano 10: Turchia, Egitto, Giordania, Libano, Arabia Saudita, Bahrein, Qatar, Kuwait, Oman e ovviamente Iraq. Assenti: Iran e Siria per un

AFP

e coordinare sul piano politico le molte ambiguità fra i Paesi

motivo facilmente comprensibile. Non sono stati invitati. Sull’Iran il veto è partito direttamente da Riyad che non vuole trovarsi faccia a faccia col suo nemico numero uno: Teheran. Il braccio di ferro tra i due Vaticani dell’Islam, l’Arabia Saudita per i sunniti, l’Iran per gli sciiti, è una delle cause principali che hanno aggravato lo scontro settario in Iraq e in Siria su cui l’Isis ha prosperato. È ancora tutto da definire poi il ruolo giocato dai servizi segreti sauditi Annuncio pubblicitario

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nella nascita dello Stato islamico, anche se oggi l’Isis è stato messo al bando da Riyad, e sono sauditi molti dei donatori privati che alimentano le casse di al-Baghdadi attraverso il circuito delle charities controllate in massima parte, ancora una volta, dai sauditi. Nella lotta per la successione al trono, vista la salute molto precaria dell’ultraottuagenario re Abdullah, lo scontro tra fiancheggiatori e nemici dell’Isis coinvolge il cuore stesso della famiglia Saud e – proprio perché in ballo c’è la successione – questo scontro rischia di diventare cruciale per la stabilità stessa del regno. Dal canto suo l’Iran ha tutto l’interesse a «stare a guardare» perché è il primo ad aver tutto da guadagnare da un’eventuale sconfitta dell’Isis. L’Iran, a differenza degli alleati degli americani, ha solide basi sul terreno e sodali sicuri e affidabili sia in Iraq che in Siria. Al regime degli al-Assad è legato da un’alleanza di ferro che dura dal 1979 e – siccome a sostenere Damasco è sceso in campo a piè pari anche Putin – oggi si può dire che Teheran abbia due superpotenze mondiali, gli Usa e la Russia, che direttamente e indirettamente, «lavorano» a suo favore. Certo per gli Stati Uniti la situazione è davvero paradossale perché in questo frangente vengono a ritrovarsi nella stessa situazione del 2003, quando George W. Bush – abbattendo il regime di Saddam Hussein – finì per avvantaggiare proprio il suo peggior nemico di allora, che è lo stesso di oggi: l’Iran, appunto. Il medesimo paradosso rischia di prodursi per la Siria. Washington, per bocca del segretario di Stato John Kerry, ha immediatamente chiarito che in nessun modo gli Stati Uniti si coordineranno col governo di Bashar alAssad per gli attacchi aerei contro l’Isis sul territorio siriano, ma va da sé che, se l’impresa di distruggere lo Stato islamico dovesse riuscire, a beneficiarne immediatamente sarebbe proprio il regime di Damasco. Tutti gli Stati arabi che hanno aderito all’alleanza hanno promesso di fornire fondi, armi e basi di addestramento all’opposizione siriana non jihadista (quindi Fronte al-Nusra e gruppuscoli suoi satelliti esclusi, che per l’occasione hanno firmato una tregua coi fratelli-concorrenti dell’Isis). Ma addestrare civili non è cosa rapida e in più è assai difficile individuare dove passa il confine tra jihadisti dichiarati e i loro fiancheggiatori o alleati tattici nella galassia assai variegata delle opposizioni siriane. Il caso più eclatante è quello che riguarda il Libero esercito della Siria, l’unica organizzazione di opposizione che, fin dall’inizio della guerra civile siriana nel 2011, ha sempre imbracciato le armi alla luce del sole. Ebbene sono tutti da chiarire i

suoi rapporti con al-Nusra e altre piccole formazioni locali spesso in odor di estremismo islamico. Lo stesso imbarazzo, matrice della riluttanza, investe con particolare drammaticità la Turchia, il Qatar e il Kuwait. Pur essendo membro della Nato, la Turchia è restia ad offrire le proprie basi e il sorvolo del proprio spazio aereo alle operazioni anti-Isis. Provengono dalla Turchia – ufficialmente da privati – molti dei finanziamenti all’Isis; è attraverso il confine con la Turchia che il petrolio di contrabbando estratto dallo Stato islamico in Siria prende la via del mercato nero e, sempre in Turchia, sono situati i campi profughi più numerosi dei fuoriusciti dalla Siria e dall’Iraq. Ma i motivi dell’imbarazzo del neo-presidente turco Erdogan sono principalmente due: l’Islam sunnita costituisce la base, lo zoccolo duro del suo potere e il clima di crociata (per quanto non dichiarata) che pervade la coalizione anti-Isis rischia di fargli perdere consensi in casa propria. A differenza degli Stati arabi presenti nella coalizione di Obama, la Turchia è una democrazia vera, l’elettorato vota in maniera libera. Per questo, il frangente costituisce per Erdogan un pericolo reale. Poi c’è il rischio Kurdistan. Come è noto, la comunità curda più numerosa dell’intero Medio Oriente è quella della Turchia, dal 1923 in lotta per ottenere una propria autonomia. La punta di lancia sul terreno per la lotta all’Isis soprattutto in Iraq è rappresentata dai peshmerga, i guerriglieri curdi iracheni, che fino ad oggi sono stati gli unici a saper contenere sul terreno le offensive dello Stato islamico. Non è un mistero che gli Stati Uniti puntano molto su di loro anche per l’immediato futuro. Questo significa armi, finanziamenti e sostegno occidentale. Erdogan così teme che il prestigio e le gesta dei curdi iracheni finiscano per infiammare i curdi turchi o peggio quel Partito dei lavoratori curdi, rubricato come terrorista, che nel Kurdistan iracheno ha sempre trovato basi e solidarietà. Alleati di vecchia data degli Stati Uniti, Kuwait e Qatar ospitano entrambi basi militari americane. La base di Al Udeid, in Qatar, è addirittura il quartier generale avanzato del Comando centrale e dell’aviazione Usa nel Golfo. Ma entrambi, Kuwait e Qatar, hanno finanziato ad abundantiam i jihadisti in Siria, Iraq, Egitto e Libia. Dire che oggi corrano sul filo del rasoio è davvero il minimo. Ci fa piacere, dunque, che l’alleanza contro lo Stato islamico si ingrossi giorno dopo giorno, ma è difficile capire come un Obama sempre più stanco riuscirà a coordinare sul piano politico un tale ginepraio di ambiguità.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 22 settembre 2014 ¶ N. 39

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Politica e Economia

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Politica e Economia

Ebola, malattia dei poveri La nuova peste Il virus continua

a diffondersi nell’Africa occidentale ma la mobilitazione internazionale è sempre inadeguata e nelle nazioni colpite – Liberia, Sierra Leone, Nigeria, Senegal – la sanità è al collasso e non riesce a far fronte all’emergenza Pietro Veronese, foto di Luigi Baldelli Ogni grande epidemia ha la sua caratterizzazione, il suo stigma, sociale. Quando il mondo ne acquistò consapevolezza, all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, l’Aids fu considerata la malattia degli omosessuali, perché fu in quelle comunità che soprattutto si diffuse all’inizio. Non c’è dubbio che l’Ebola, il morbo la cui rapida diffusione in almeno tre Paesi dell’Africa occidentale ha causato oltre duemila morti negli ultimi mesi, sia la malattia dei poveri. Ebola si era già manifestata altre volte in ambiente rurale africano – prende il nome da una valle congolese dove per la prima volta fu identificata, nel 1976 – ma mai con la virulenza attuale. Le sue vittime sono contadini, gente miserrima, totalmente priva di mezzi sia materiali che culturali per affrontarla (anche se ormai i morti sono molti anche tra i medici, gli epidemiologi, il personale sanitario). Questa volta, poi, il virus è riuscito a farsi strada fin nelle città e nelle capitali, dove le opportunità di contagio sono infinitamente maggiori, e ha raggiunto, volando in aereo nel corpo di individui infettati, le metropoli di altri Stati del Continente.

Ebola fa paura per la sua diffusione, per il modo orribile in cui si manifesta e per l’imponenza dei mezzi organizzativi necessari per contenerlo Che Ebola sia una malattia per poveri, e non per ricchi, lo si capisce anche dalla lentezza della mobilitazione internazionale, malgrado gli appelli incalzanti e i veri e propri allarmi lanciati dagli enti sanitari globali, a cominciare dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Se anche il virus riuscisse a raggiungere gli aeroporti europei o nordamericani, le autorità sanitarie dei Paesi sviluppati

dispongono dei mezzi e delle strutture necessarie ad isolarlo. Nelle nazioni attualmente colpite, invece, la sanità è in pieno collasso e non riesce a fare fronte. La presidente della Liberia Ellen Johnson Sirleaf lo ha scritto il 9 settembre al presidente americano Obama: «Senza un maggiore aiuto diretto da parte del suo governo perderemo questa battaglia». Ebola fa paura, per la facilità della sua diffusione, per il modo orribile in cui si manifesta e per l’imponenza dei mezzi organizzativi che è necessario mettere in opera al fine di contenerlo. Il contagio avviene attraverso il contatto diretto con il sangue infetto o altri organi o liquidi corporei contaminati – inclusa la manipolazione dei corpi dei defunti – o indirettamente, venendosi a trovare in un ambiente contaminato. È ormai acclarato che il virus è trasportato da alcune specie animali, come i pipistrelli, le antilopi della foresta o gli scimpanzé e dunque i primi umani ad essere colpiti sono individui che vivono in ambiente silvestre o rurale. I primi sintomi sono la febbre alta, debolezza, dolori muscolari; ma poi la malattia può degenerare in vomito, diarrea ed emorragie interne ed esterne che in oltre la metà dei casi portano rapidamente alla morte. Talvolta è la stessa mobilitazione delle autorità sanitarie a diffondere paradossalmente paura nella popolazione, trasmettendo un senso angoscioso della gravità e pericolosità della situazione. Leggiamo la testimonianza scritta a fine agosto da don Dante Carraro, medico, direttore dei Medici con l’AfricaCuamm, la più antica e stimata Ong italiana operante in campo sanitario in Africa: «Visita all’ospedale di Kenema, cuore dell’epidemia in Sierra Leone. Entriamo nella struttura; è completamente vuota se non fosse per gli ammalati di Ebola. È un campo di concentramento: guardie in tuta bianca, percorsi obbligati, regole rigide, check-point ovunque. La gente ha paura e anche noi. Senti di essere davanti a una «bestia» invisibile, impalpabile eppur

Luigi Baldelli ha scattato queste fotografie fra fine agosto e inizio settembre. Si riferiscono alla città e al distretto di Kenema, in Sierra Leone al confine con la Liberia, considerate il cuore dell’epidemia. Lungo la strada che dalla capitale Freetown porta a Kenema ci sono diversi posti di blocco di militari che controllano la temperatura. Per entrare e uscire dalla città serve un permesso speciale. Quando ci si incontra non ci si stringe più la mano ma si accenna solo a un saluto.

mostruosa e mortale. Mentre aspettiamo, due «marziani» con stivali, tuta ed elmetto trasportano fuori dal reparto un corpo nascosto in un telo bianco, lo depositano su una barella per portarlo nell’obitorio. Dopo mezz’ora ne vediamo un altro. E ogni giorno così! Finora, solo a Kenema, ci sono stati 158 morti di Ebola, di cui 27 tra medici e infermieri. Solo negli ultimi tre giorni, quattro tecnici di laboratorio hanno perso la vita. La bacheca davanti all’ufficio del direttore dell’ospedale, dottor Vandi, è tappezzata di epigrafi-ricordo con dati e foto del personale sanitario scomparso: trentadue, trentasette, ventot-

to, trentacinque anni e così via; e tutti tra giugno e agosto». Il nuovo focolaio di Ebola è stato localizzato in Guinea, in una località chiamata Gueckedou. Questo dato ha sorpreso gli epidemiologi, perché il virus non si era mai manifestato in quella parte dell’Africa. Gueckedou si trova in una zona remota del Paese, vicino ai confini di Liberia e Sierra Leone: questi sono infatti i tre Paesi maggiormente colpiti. Ai primi di settembre, i decessi attribuiti a Ebola – tra casi probabili, confermati o sospetti – erano 1.137 in Liberia, 557 in Guinea, 524 in Sierra Le-

one. Al totale ufficiale complessivo di 2.226 casi mancano gli otto registrati in Nigeria. La malattia è stata portata nel Paese più popoloso dell’Africa a luglio, da un uomo proveniente dalla Liberia. Messo in isolamento, è deceduto dopo aver infettato un’infermiera e un funzionario, che successivamente sono morti anche loro. «La Nigeria mi preoccupa in particolar modo», ha detto alla Bbc il professor Simon Hay, epidemiologo dell’università di Oxford. «Se le cose cominciano ad andare fuori controllo lì penso davvero, a causa delle dimensioni del Paese e delle sue con-

nessioni con il resto dell’Africa, che la cosa potrebbe essere molto allarmante». Un caso è stato segnalato anche in Senegal. Gli specialisti sono convinti che il totale certificato dall’OMS sia ampiamente inferiore alla realtà, perché molti casi non vengono nemmeno segnalati alle autorità sanitarie: le persone si ammalano e muoiono nelle loro capanne, in lontani villaggi nel cuore della foresta, e nessuno lo viene a sapere. Nell’insieme, «la situazione è cattiva e dobbiamo prepararci al fatto che peggiori», ha dichiarato alla Bbc il dottor Christopher Dye, responsabile delle strategie dell’OMS.

La particolare malignità di questa epidemia consiste nel fatto che essa si è manifestata in Paesi che non solo sono tra i più poveri e politicamente instabili al mondo, come la Guinea, ma sono anche usciti pochi anni fa da alcune tra le guerre civili più feroci e devastanti, com’è il caso sia per la Liberia che la Sierra Leone. Qui nuovi poteri legittimati dal voto stanno lentamente cercando di ricostruire una convivenza civile e di risollevare le società dallo stato di prostrazione infinita nel quale si erano inabissate. Sono contesti deboli, fragili, privi di strutture se non rudimentali, aiutati a tornare in vita dai donatori internazionali. La malattia, diffondendosi, ha gettato rapidamente in crisi il poco che era stato rimesso in piedi, ospedali strutturalmente insufficienti, personale in numero sempre troppo esiguo e precariamente formato, mezzi cronicamente di fortuna. In Sierra Leone l’infezione si è portata via l’unico virologo ed esperto di Ebola del Paese, Sheik Umar Khan. Il morbo continua a diffondersi e la risposta continua ad essere inadeguata. Per dare un segnale, la presidente liberiana ha licenziato una decina di alti funzionari, tra cui due vice-ministre, che vista la mala parata avevano preso il primo volo per l’estero. Medici senza Frontiere denuncia il fatto che il centro di isolamento che aveva appena allestito a Monrovia, la capitale liberiana, con 160 letti, è stato preso d’assalto è si è rivelato subito insufficiente. L’OMS rinnova gli appelli e gli allarmi. La sperimentazione del vaccino dà speranza ma richiede ancora tempo. Intanto, ancora troppo spesso, infermieri e operatori sanitari vengono spediti in prima linea armati soltanto di un paio di guanti di lattice. Di Ebola sentiremo parlare ancora a lungo.


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Politica e Economia

Diplomatico, utopista, manager Intervista Uno sguardo a ritroso con Martin Dahinden sui suoi sei anni quale direttore

della Direzione dello sviluppo e della cooperazione

Luca Beti Chi è Martin Dahinden? È un brillante diplomatico, un utopista o un top manager? Nei sei anni in cui ha diretto la Direzione dello sviluppo e della cooperazione della Svizzera (DSC) – a fine settembre lascerà l’incarico – ha svolto tutti i tre ruoli. Anche durante il nostro colloquio nella sede centrale della DSC a Berna indossa alternativamente i panni del diplomatico, del dirigente d’azienda, della persona che crede fermamente di riuscire a migliorare il mondo. Alla fine ci rimane impressa soprattutto quest’ultima immagine: quella dell’utopista. A microfono spento ci racconta di un suo viaggio nella valle dello Swat, in Pakistan, dell’incontro con la gente locale che con incredibile stoicismo affronta la natura inclemente e i conflitti armati tra i militari governativi e i fondamentalisti islamici. Dal 2008 è direttore della DSC: con quali sentimenti guarda a questo periodo che sta volgendo al termine?

È stato un periodo avvincente e ricco di momenti memorabili. Il ricordo più significativo è legato agli incontri di persone comuni nei luoghi più disparati del mondo. Per me era importante recarmi nelle regioni in cui si concentrava il nostro sostegno per conoscere personalmente la gente che aiutavamo. Nei miei viaggi all’estero, prima di tutto andavo a trovare i nostri partner, poi passavo alle visite e ai colloqui ufficiali con le autorità. Nella mia teca dei ricordi più preziosi conservo tante immagini dei nostri collaboratori sul terreno che con enorme convinzione, dedizione e senso del sacrificio si impegnano affinché la gente del posto possa avere un futuro migliore. Infine, ho sempre guardato con grande ammirazione alle attività della cooperazione allo sviluppo della Svizzera perché sono molto vicine alla popolazione e perché i progetti realizzati partono sempre dal basso. Alla base di questo aiuto c’è sempre la conoscenza dell’altro e della situazione locale; solo così è possibile capire come favorire lo sviluppo. Si è quindi riconosciuto nell’idea elvetica, vecchia più di mezzo secolo, dell’aiuto allo sviluppo.

Certo. Ho condiviso il principio secondo cui bisogna promuovere l’aiuto all’auto-aiuto. La DSC non realizza progetti fine a se stessi, bensì sostiene le persone che vivono nella povertà più estrema. Sono convinto che i nostri interventi rispondano ancora in maniera adeguata ai bisogni delle popolazioni

Breve ritratto della DSC La DSC è l’agenzia del Dipartimento federale degli affari esteri preposta alla cooperazione internazionale. L’obiettivo della cooperazione allo sviluppo è la lotta contro la povertà. Alla DSC compete anche il coordinamento generale con altri uffici federali che contribuiscono alla cooperazione allo sviluppo e all’aiuto umanitario, in particolare la Segreteria di Stato dell’economia (SECO). Alla fine del 2013, la DSC contava l’equivalente di 1651 posti a tempo pieno, dei quali 365 alla centrale a Berna, 135 espatriati e 1151 impiegati locali. Le risorse utilizzate nel 2013 ammontavano a due miliardi di franchi. A Martin Dahinden succederà dal primo di novembre Manuel Sager, attuale ambasciatore a Washington.

Martin Dahinden, durante una missione in Kenya, nel 2012 . (DFAE)

svantaggiate, anche se le condizioni sono cambiate negli ultimi vent’anni. La modestia è la seconda norma che seguiamo in tutte le nostre attività. Siamo consapevoli che le nostre conoscenze delle situazioni che incontriamo sul terreno sono limitate. Siamo confrontati costantemente con culture diverse che non riusciamo a comprendere a fondo. Per questo motivo dobbiamo essere modesti e non commettere l’errore di voler esportare in queste regioni un modello che ha avuto successo in Svizzera o altrove nel mondo. Nonostante il modello classico dell’aiuto all’auto-aiuto sia più che mai valido, le nuove sfide globali richiedono interventi diversi rispetto al passato. Com’è cambiato il programma della DSC negli ultimi dieci anni?

Abbiamo osservato che la lotta alla povertà non avanza nelle regioni dove ci sono dei conflitti armati, dove l’autorità dello Stato si sgretola. Per la DSC è stato subito chiaro che doveva focalizzare il suo intervento sui Paesi fragili affinché l’impegno elvetico potesse davvero contribuire a combattere la povertà. Ci siamo altresì resi conto che nei nostri programmi dovevamo considerare alcuni fenomeni che non conoscono frontiere nazionali e che interessano l’intero pianeta. La sicurezza alimentare, la gestione dell’acqua, l’accesso alle risorse, i flussi migratori, i rischi sanitari, i cambiamenti climatici non possono essere affrontati con dei progetti locali, ma servono programmi globali capaci di unire l’esperienza pratica sul terreno agli interventi a livello politico. Sfide globali che lei ha dovuto affrontare subito dopo aver preso il timone della DSC. Nel 2008, il mondo venne investito dalla crisi finanziaria e poi economica. Quali conseguenze ha avuto quest’ultima per la cooperazione allo sviluppo svizzera?

È stata proprio questa domanda a occuparmi quando ho assunto la carica di direttore della DSC. Per fortuna, le previsioni che ho elaborato con i miei collaboratori si sono rivelate sbagliate: pensavamo che i Paesi in cui operavamo sarebbero stati scossi fino alle fondamenta dalla crisi. Ciò non è però successo, almeno non nella misura che avevamo previsto, soprattutto non in quegli Stati che sono poco integrati nel mercato globale. Nello stesso anno, nel 2008, il pianeta ha vissuto anche una

grave crisi alimentare, passata quasi inosservata, almeno nei Paesi del Nord. La crisi economica ha prodotto il suo maggiore effetto a livello politico. All’interno del gruppo dei G20, cui fanno parte anche alcuni Stati emergenti, si è sviluppata una nuova dinamica. Ora, i G20 si occupano anche di temi riguardanti la cooperazione allo sviluppo. Questa nuova realtà e la ridefinizione delle priorità della politica di sviluppo della Confederazione hanno richiesto un’ampia riorganizzazione della DSC. Quali scopi perseguiva?

L’obiettivo della riorganizzazione non era quello di risparmiare, riducendo, per esempio, il numero di collaboratori. La riorganizzazione degli anni 20082012 è stata necessaria per rispondere in maniera adeguata alle nuove sfide globali e per rendere possibile il nuovo orientamento della DSC, concretizzato nella strategia di cooperazione internazionale 2013-2016. È stata una delle maggiori riorganizzazioni nell’Amministrazione federale. Ci potrebbe fare un esempio concreto per meglio capire quali conseguenze ha prodotto la riorganizzazione sulle attività dei dipendenti della DSC?

In passato, chi collaborava con le organizzazioni internazionali, come la Banca africana di sviluppo, non aveva alcun contatto con le persone che si occupavano dei programmi in Africa. Grazie alla riorganizzazione, questi programmi e la collaborazione con i fondi economici di sviluppo sono gestiti dalle stesse persone. Dopo lunga e approfondita discussione abbiamo deciso di unire tali attività bilaterali e multilaterali. L’alternativa sarebbe stata di affidare tutti gli istituti finanziari ad una sola sezione della DSC. Sarà il futuro a dirci in che misura tali cambiamenti a livello organizzativo avranno facilitato le attività dei nostri collaboratori sul terreno e nella sede centrale a Berna. C’è chi ha criticato questa riorganizzazione. Alcune organizzazioni non governative temono che la DSC perda la sua autonomia e la sua indipendenza.

Sono il Consiglio federale e il Parlamento a definire i contenuti delle attività della DSC e i Paesi in cui essa dovrà operare. La riorganizzazione non ha modificato il mandato costituzionale che chiede alla Svizzera di

aiutare le popolazioni nel bisogno e di lottare contro la povertà nel mondo. I timori secondo cui l’integrazione della diplomazia, dei servizi consolari e della cooperazione allo sviluppo in un’unica rappresentanza svizzera possa nuocere al buon nome della DSC, limitarne l’autonomia o causare un conflitto di interessi sono infondati. Anzi, tale unione favorirà la coerenza della politica estera e l’efficacia della cooperazione internazionale.

di Zurigo. Questo non significa tuttavia che possiamo dormire sugli allori, ma che dobbiamo continuare a spiegare l’importanza di ciò che facciamo all’opinione pubblica. È inoltre indispensabile interrogarsi continuamente su come possiamo adempiere il nostro mandato in un contesto in continuo mutamento.

Alliance Sud, comunità di lavoro di alcune ONG svizzere attive nell’ambito della cooperazione, rimprovera alla DSC di impiegare i fondi destinati all’aiuto allo sviluppo in Stati in cui la Svizzera intende consolidare i rapporti commerciali o raggiungere un accordo di libero scambio. Come risponde a questa critica?

Nei prossimi anni saremo chiamati ad affrontare nuove e grandi sfide, per esempio quelle legate ai cambiamenti in Medio Oriente. Nelle regioni attorno al Mediterraneo, a poche centinaia di chilometri di distanza dal confine svizzero, si stanno verificando enormi sconvolgimenti. Non sarà una questione che dovremo risolvere né oggi né domani, ma sicuramente nei prossimi anni.

Non è assolutamente vero. Con molti Paesi in cui operiamo abbiamo scambi commerciali limitati o non ne abbiamo affatto. Per esempio, gli scambi commerciali della Svizzera con gli Stati a sud del Sahara o con il Nepal sono modesti. Se alla base del nostro lavoro ci fossero simili interessi, la DSC dovrebbe scegliere altri Paesi e regioni prioritari, rispetto a quelli in cui essa concentra i suoi interventi di cooperazione e sviluppo. D’altra parte, ben vengano gli investimenti da parte di aziende elvetiche in queste regioni poiché le attività della DSC possono promuovere lo sviluppo solo in alcuni settori. Per favorire il progresso in un Paese sono necessari fondi e attività economiche. Tuttavia, la cooperazione allo sviluppo non è uno strumento votato allo sviluppo economico della Svizzera, bensì alla riduzione della povertà nel mondo. Nel 2013, il Parlamento ha riconosciuto gli sforzi della DSC in favore della cooperazione internazionale e ha approvato l’aumento del budget dell’aiuto allo sviluppo allo 0,5 per cento del reddito nazionale lordo entro il 2015. Un bel successo per lei…

Sono molto contento della decisione del Parlamento. Da una parte per l’aumento dei fondi messi a disposizione della DSC, dall’altra per l’approvazione del nuovo orientamento della cooperazione internazionale 2013-2016, legato alla riorganizzazione. Ciò che mi rallegra sono anche i favori che incontra in Svizzera la nostra cooperazione allo sviluppo, come ha evidenziato un recente studio del politecnico federale

Con quali problematiche sarà confrontata la DSC sul breve e sul lungo periodo?

Per lei il compito alla DSC non sarebbe quindi finito. Perché ha deciso di riprendere la sua carriera di diplomatico assumendo la carica di ambasciatore a Washington?

Prima di tutto devo ammettere che quasi ogni diplomatico cova il sogno nel cassetto di diventare ambasciatore a Washington perché si è confrontati con un ampio ventaglio di temi e attività. Tra l’altro, gli Stati Uniti hanno sempre avuto un ruolo importante durante la mia attività di direttore presso la DSC poiché hanno una posizione di spicco in tutte le trattative multilaterali. Questo è inoltre il momento ideale per cedere il testimone a qualcun altro, poiché la riorganizzazione è conclusa, la recente valutazione della cooperazione internazionale dei Paesi, tra cui anche quella della Svizzera, da parte del Comitato di aiuto allo sviluppo dell’OCSE è stata portata a termine positivamente e perché ora ci si deve occupare dell’elaborazione della nuova strategia per il periodo 2017-2020. Il lavoro per la DSC non è certo finito. E a Washington, quale Dahinden si siederà dietro la scrivania: il diplomatico, il manager o l’utopista?

A Washington, nella mia nuova funzione di ambasciatore, non dimenticherò la DSC, la cooperazione allo sviluppo e l’aiuto umanitario, perché sono compiti importanti della politica estera elvetica. Le immagini delle tante persone che ho incontrato nei Paesi del Sud durante i sei anni a capo della DSC mi accompagneranno nella quotidianità anche a Washington.


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Politica e Economia

Aiuto sociale comunale da rivedere? Socialità Casi di interventi insostenibili rimettono in causa il ruolo essenziale dei comuni,

ma evocano anche la necessità di un coordinamento cantonale, se non perfino nazionale

zione del rapporto annuale. Dal 2009, vengono pubblicati i dati su 13 città, nelle quali vive il 28% dei beneficiari di aiuti sociali. Nel 2013, il numero dei beneficiari è aumentato del 2,5%, denotando una leggera tendenza all’aumento anche in rapporto alla popolazione. Un fenomeno nuovo è però quello dell’aumento della durata nel tempo dell’aiuto sociale. In altri termini si assiste al passaggio da un aiuto temporaneo, per superare un momento difficile, a una vera e propria garanzia d’esistenza, quindi senza limiti di tempo. La durata media è infatti aumentata da 32 mesi nel 2006 a 38 mesi nel 2013. Aumenta però il numero di persone che non riesce più a uscire da questa dipendenza. Questa tendenza fa crescere sensibilmente i costi per le comunità, che raggiungono talvolta percentuali molto elevate delle spese dei comuni. Da qui l’esigenza di coordinare e centralizzare l’aiuto sociale, interessando anche le altre forme di assicurazioni sociali, non solo a livello cantonale, ma anche federale. Questo – tra l’altro – anche per frenare il «turismo sociale» interno al cantone o alla Confederazione e tener conto dei cambiamenti legislativi che hanno ridotcomportato una riduzione delle prestazioni, ribaltando i costi sull’aiuto sociale. Per il momento, questo aiuto è ancora limitato allo 0,4% del PIL, ma non va dimenticato che la Svizzera è uno dei Paesi più generosi al mondo anche sotto questo aspetto. Il tema sta assumendo una risonanza nazionale. Alla tesi di una cantonalizzazione, e quindi, di un miglior coordinamento, si oppone ora un’iniziativa dell’UDC che vorrebbe ridare all’aiuto sociale il suo ruolo originale (aiuto temporaneo in caso di necessità) e ripristinare il ruolo primordiale dei comuni.

Ignazio Bonoli La notizia pubblicata dal «Sonntagsblick» a metà settembre, e poi ripresa da parecchi giornali, è di quelle che fanno colpo. Un comune zurighese spenderebbe 60’000 franchi al mese per l’aiuto sociale a una sola famiglia. La famiglia in questione è giunta in Svizzera dall’Eritrea e da due anni è in possesso di un permesso B di residenza, ma già da tre anni è seguita dall’autorità tutoria. Quattro dei sette figli sono ospitati da istituti educativi, con costi di 9000 franchi al mese per ogni figlio. I costi dell’accompagnamento familiare comportano 20’000 franchi mensili, cui si aggiungono 1500 franchi per la pigione e 2600 franchi per altri costi assistenziali, il che porta il costo annuo di assistenza a questa famiglia a oltre 700’000 franchi, cioè quasi il 30% del gettito comunale d’imposta.

L’aumento dei «casi sociali» spinge alcuni comuni a scaricare quanto possibile simili costi su altri comuni Si tratta probabilmente di un caso estremo, ma situazioni analoghe non sono rare nei comuni svizzeri, ai quali incombono quasi tutti i costi dell’assistenza, senza possibilità di intervenire su decisioni prese – nel caso in questione – dall’autorità tutoria. Situazioni come quella descritta hanno suscitato parecchie reazioni, soprattutto nei comuni della Svizzera Nordorientale. Le reazioni divergono comunque da cantone a cantone, a causa del diverso coinvolgimento dei comuni. Tutti de-

I casi sociali estremi, come quello del giovane Carlos l’anno scorso, sollevano un crescente interesse mediatico. (Keystone)

vono però seguire le linee-guida emanate dalla presidenza della Conferenza svizzera per l’aiuto sociale (in tedesco SODK). Recentemente la Conferenza dei direttori cantonali della socialità, presieduta dal solettese Peter Gomm, ha deciso di voler partecipare alle decisioni sulle linee direttive per le prestazioni dell’aiuto sociale. In un primo tempo, queste linee direttive dovrebbero essere approvate dai cantoni, in modo da renderle più vincolanti per tutti. Un trattamento unanime per tutti i beneficiari delle prestazioni dovrebbe quindi impedire quello che è già stato definito «turismo sociale». È evidente che casi

come quello citato in entrata possono senz’altro favorire questo particolare «turismo». In effetti, in molti cantoni, le decisioni sulle prestazioni sociali sono di competenza dei comuni e in molti casi demandate a commissioni speciali quali la Commissione tutoria. I comuni, di regola, si attengono alle raccomandazioni delle loro associazioni, ma queste raccomandazioni non sono vincolanti, per cui si possono verificare grandi differenze tra comune e comune. Queste situazioni hanno perfino indotto alcuni comuni dei cantoni di Zurigo, Argovia, Turgovia e San Gallo a distanziarsi dalle raccomandazioni della Conferenza per

l’aiuto sociale. Nel contempo alcuni comuni cercano di scaricare i casi sociali su altri comuni e di evitare di averne dei nuovi. Un comune ha per esempio sollecitato i proprietari di immobili a non affittare appartamenti ai beneficiari di aiuti sociali. Questi aiuti sociali sopperiscono a quanto non coperto dall’assicurazione contro la disoccupazione e l’invalidità e seguono le direttive della Conferenza svizzera, che conta un migliaio di membri. Il problema è però sentito a più livelli, tant’è vero che anche l’Associazione delle città svizzere, che conta circa sessanta membri, se ne è occupata in occasione della presenta-

Il controverso secondo pilastro La consulenza della Banca Migros

Albert Steck Il Consiglio federale sta considerando di limitare il prelievo del capitale di vecchiaia al momento del pensionamento. Che cosa significherebbe per me?

Albert Steck è responsabile delle analisi di mercato e dei prodotti presso la Banca Migros

I progetti del Consiglio federale sono stati formulati solo in modo vago, ma hanno scatenato un acceso dibattito. In realtà le somme in ballo sono notevoli: in Svizzera i privati hanno accumulato circa 700 miliardi di franchi nelle casse pensioni. La decisione se, al momento del pensionamento, riscuotere questo denaro sotto forma di capitale o di rendita ha un’enorme portata per tutti. Ma quali conseguenze avrebbe una limitazione della possibilità di prelevare il capitale? La stragrande maggioranza delle persone non sarebbe toccata. Sette pensionati su dieci optano comunque per una rendita. E del rimanente 30 percento la maggior parte ritira solo una piccola parte dei risparmi sotto forma di capitale: in media 170’000 franchi a testa. La prevalenza delle rendite è senz’altro opportuna, perché con una normale aspettativa di vita è generalmente la soluzione più vantaggiosa. Il grafico riporta la curva di sopravvivenza per una donna da poco pensionata: la probabilità che raggiunga

ottant’anni è pur sempre dell’85 percento, del 50 percento per i 90 anni. La probabilità che festeggi il 95° compleanno è del 30 percento. E una su dieci arriva addirittura a 100. È raffigurata anche la curva di sopravvivenza per un uomo sessantacinquenne: la sua probabilità di arrivare a 87 anni è del 50 percento.

Una scarsa aspettativa di vita depone a favore del prelievo di capitale I dati rivelano perché la liquidazione unica in capitale è spesso problematica: è difficile sapere quanto vivremo. Per esempio, una donna che al momento del pensionamento prevede di consumare il capitale entro 25 anni ha una probabilità del 50% che il denaro non le basti. Optando per la rendita, invece, non deve preoccuparsi del cosiddetto «rischio di longevità», perché il pagamento della rendita è sicuro. Il prelievo del capitale è più indicato se al momento del pensionamento è ipotizzabile una morte imminente. Ma è un caso statisticamente raro: il rischio che un pensionato muoia entro i 75 anni è dell’8 percento appena per le donne e del 14 percento per gli uomini.

Prospettiva di una lunga vita cifre in percentuale

100 90 80 70 60 50 40 30 20 10 0 Età

Donne Uomini

65

70

75

80

85

90

95

100

105

Curva statistica di sopravvivenza per una persona di 65 anni. Esempio di lettura: la probabilità di raggiungere gli 80 anni è dell’85 percento per le donne e del 74 percento per gli uomini.

A questo punto è chiaro chi sarebbe più colpito da un’eventuale limitazione della possibilità di prelevare il capitale prima del pensionamento: le persone con una minore aspettativa di vita. La loro flessibilità finanziaria diminuirebbe. In particolare divente-

rebbe più difficile trasmettere ai loro discendenti il capitale di vecchiaia risparmiato, che a loro non occorre più. Attualità su blog.bancamigros.ch: Discussione più altre informazioni sulla domanda «Capitale o rendita?».


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 22 settembre 2014 ¶ N. 39

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Il lavoro è salute? «Finché c’è la salute!» cosi ci si saluta tra pensionati. Per noi, gente in età, la salute tende a diventare il bene più importante perché purtroppo viene sempre meno. Come rivelano tuttavia i risultati dell’inchiesta tematica, svolta dall’Ufficio federale di statistica, nel 2012, la salute è un tema importante a qualunque età. Alla domanda sull’importanza attribuita alla salute, meno del 15% degli interpellati ha risposto di vivere senza interessarsi della propria salute. Come ci si poteva attendere si tratta in generale di persone giovani. Ma è anche vero che per la popolazione che non ha ancora raggiunto l’età del pensionamento, il lavoro è un tema altrettanto caldo. Dapprima perché la sicurezza o l’insicurezza sul posto di lavoro sono elementi determinanti del benessere di una persona. Ma poi anche perché molte volte il lavoro, come

mostra una parte dei risultati dell’inchiesta nazionale, incide direttamente sulla salute. Ci sono gli incidenti sul lavoro, la cui frequenza varia a seconda della categoria professionale. Ma poi ci sono le malattie meno visibili, legate a cattive condizioni di lavoro, che uno si trascina per anni, senza accorgersene, come il burn out, che è diventata si può dire il simbolo del genere di danni che il lavoro può provocare alla salute degli individui. Bene hanno quindi fatto i responsabili dell’inchiesta sulla salute a indagare, oltre che sulla prevenzione delle malattie, anche sul possibile rapporto che passa tra attività lavorativa e salute. Nei risultati, pubblicati di recente nella rivista «DATI» del nostro Ufficio di statistica, si mette soprattutto l’accento sulle differenze tra la situazione emersa in Ticino e quella media svizzera. Co-

minciamo dal generale. Alla domanda «Il lavoro che svolge ha delle ripercussioni sulla sua salute?» il 46,2% degli svizzeri ha risposto «Sì, soprattutto positivamente», mentre per i ticinesi questa percentuale scende al 27,4%. Il lettore sarà sorpreso di apprendere che il lavoro soddisfa maggiormente le donne che gli uomini. Ma questa differenza il Ticino l’ha in comune con il resto della Svizzera. Solo una piccola percentuale degli interpellati ha risposto alla domanda generale con un «Sì, soprattutto negativamente». In Ticino, la percentuale di coloro che si sentono toccati nella salute dal lavoro è pari al 15%, mentre nel resto della Svizzera essa supera appena il 10%. Sembrerebbe quindi che il lavoro sia in Ticino più nocivo alla salute che nel resto della Svizzera. Osserviamo tuttavia che alla domanda sull’influsso del lavoro si

poteva rispondere anche di no, ossia che il lavoro non si ripercuote in nessun modo sulle condizioni di salute. I no rappresentavano in Svizzera il 43,6% del totale, mentre in Ticino il valore di questa percentuale saliva al 57,7%. In conclusione, la relazione lavoro-salute è in Ticino largamente meno importante che nel resto della Svizzera. Tuttavia, tra le persone che dichiarano che la loro salute è influenzata dalle condizioni di lavoro – il 56,4% degli intervistati in Svizzera, il 42,3% in Ticino – la quota di quelli che sono toccati negativamente è in Ticino doppia che a livello nazionale. Difficile spiegare il perché di questa situazione problematica. Tuttavia le risposte alla domanda sui rischi psicosociali nell’attività di lavoro ci permettono di cominciare a capire. La quota dei ticinesi che fanno fatica a conciliare il lavoro con gli impegni famigliari

è doppia di quella media svizzera ed è, anche qui qualcuno manifesterà la sua sorpresa, leggermente maggiore tra gli uomini che tra le donne. Anche la quota di chi vive tensioni con il suo pubblico di pazienti, utenti, allievi, viaggiatori, clienti, è maggiore in Ticino che a livello nazionale. Infine i ticinesi sono maggiormente obbligati degli altri svizzeri a sbrigare in fretta il proprio lavoro. Ci sono quindi differenze nelle condizioni di lavoro tra il Ticino e il resto della Svizzera che fanno sì che, da una parte, fortunatamente, il lavoro incida meno sulla salute da noi che altrove, ma, dall’altra, che quando incide la sua influenza sembra essere maggiormente negativa che a livello nazionale. Cantava Henri Salvador, qualche decennio fa: «Le travail c’est la santé, rien faire c’est la conserver». Ma non tutti possono essere in pensione!

è oltre la soglia del 10 per cento, è difficile creare il compromesso continuando a governare, lo scontro diventa guerra – guerra ideologica, guerra di potere. Così è stato: la grande frattura esistente in tutte le sinistre del mondo in Francia non soltanto non si è ricom-

posta, è esplosa. E Valls, che pure ha un profilo preciso – è liberale, voleva addirittura togliere la parola «socialista» dal nome del partito –, ha dovuto fare quello che Hollande fa da anni, inutilmente: provare a trovare un compromesso. Si tratta di un discorso davanti all’Assemblea nazionale in cerca della fiducia, quindi è evidente che il premier non potesse fare molto d’altro, sarebbe stato un suicidio, ma molti commentatori temono che quell’approccio continui a ripercuotersi anche nelle politiche del governo, condannando il Paese all’immobilismo. Così il salvatore Valls finirebbe per assomigliare al condannato Hollande e non, come ci si augurava, il contrario. A gioire sono quei ministri e quei leader socialisti che da sempre s’oppongono a ogni proposta di riforma. Il primo è Arnaud Montebourg, naturalmente, l’ex ministro dell’Economia cacciato da Valls per evidente incompatibilità di idee, che s’è messo così a occhieggiare al partito della sinistra, il Front de la gauche, che nei fatti – nella visione economica del

futuro francese – assomiglia molto al Front national, l’ultradestra di Marine Le Pen. Montebourg è tutt’altro che isolato, anzi la sua corrente, estromessa, ora va alla grande, raccoglie l’appoggio di un peso massimo come Marine Aubry, ex segretaria del Ps, e anche quello giovanile e pop dell’ex ministro della Cultura, quell’Aurélie Filippetti che è diventata nel frattempo la fidanzata di Montebourg («Paris Match», il magazine che ha pubblicato l’anticipazione del libro di Valérie, la settimana successiva ha pubblicato le foto a San Francisco di Montebourg e Filippetti insieme e, si dice, innamorati). In queste condizioni, la possibilità che Valls faccia quello che ha detto, riformare puntando però alla crescita (no all’austerità formato Merkel, cosa che comporta un altro salto difficile per il premier, percepito in patria proprio come il paladino dell’austerità), è molto ridotta. Resterebbe la strada dell’unità nazionale, una coalizione con la destra dell’Ump, ma l’opzione, per quanto ragionevole vista l’emergenza, pare impraticabile. Sarebbe la fine certa del Partito socialista.

Successivamente si sono intrecciate con finalità patriottiche, la costruzione del sentimento nazionale, l’esigenza di rafforzare la difesa nazionale. Alla fine sono emerse, imperiose, le necessità commerciali, ossia gli intenti di natura fieristica e merceologica. Il prossimo banco di prova sarà la consultazione del 28 settembre, centrata sulla partecipazione finanziaria del Ticino all’Expo di Milano in programma l’anno venturo nell’area di Rho/ Pero. Una votazione importante, non tanto per il credito (che nel frattempo si è accartocciato come una foglia morta) quanto per i risvolti simbolici e politici della scelta. Simbolico è tutto quanto rientra nei nostri rapporti con l’Italia, in particolare con la confinante Lombardia; riguarda questioni storiche, culturali (l’italianità), persino le nostre relazioni di sangue, i legami di parentela, i matrimoni misti, la doppia cittadinanza. Culturalmente italiani, politicamente svizzeri, si diceva

un tempo, ostentando con fierezza una doppia identità che si riteneva a-conflittuale, generatrice di fruttuose contaminazioni. Da una parte la vitalità, l’estro, l’inventiva dell’indole italica, dall’altra l’ordine, l’organizzazione, la solidità giuridico-istituzionale dello spirito elvetico. Ora di questa mirabile sintesi rimane solo un cantone sempre più ingrugnito, sempre più lontano da entrambi i poli; un Ticino, anzi, che sembra aver assorbito soltanto il peggio dei filoni che abbiamo descritto. Risvolti politici: il referendum del 28 settembre non sarà per o contro la partecipazione all’Expo, ma un referendum pro o contro l’Italia. E anche pro o contro la Confederazione e i cantoni gottardisti, che sulla questione non hanno sollevato obiezioni. Forse sono troppi due nemici in un colpo solo, l’uno a Sud, l’altro a Nord… Dell’Expo milanese è facile dire tutto il male possibile, per i ritardi, le infiltrazioni mafiose, le finalità non del tutto

cristalline degli obiettivi perseguiti. «Nutrire il pianeta» è il filo-conduttore. Ma intanto tutte le cerchie economiche e turistiche si stanno mobilitando per perseguire altri scopi, molto più materiali, come il business turistico e commerciale, il rilancio dell’edilizia nell’area milanese, il bisogno di «fare rete» tra i diversi attori coinvolti. Le idealità, insomma, hanno ceduto il passo ai dettami dell’economia. L’iniziativa comunque è partita e non è qui il caso di istruire un (tardivo) processo all’Expo, di pubblico dominio fin dal 2008. Noi, per questa occasione, avremmo voluto vedere un Ticino non timido, non minimalista, non recalcitrante, ma un Ticino propositivo, avanguardia dell’italianità in Lombardia, ambasciatore della Terza Svizzera in Italia, con la sua università, le sue imprese e i suoi centri di ricerca. Invece ci va di controvoglia, aggrappato al carro degli altri, come un viaggiatore clandestino.

Affari Esteri di Paola Peduzzi Valls, salvo ma debole Manuel Valls (nella foto), il premier francese, è sopravvissuto a un altro voto di fiducia, grazie agli assenti, e se lo scenario peggiore è stato scongiurato – un governo nuovo di zecca, costruito ad agosto con la cacciata degli ultraradical, già bocciato – il futuro pare ancora molto incerto. La situazione economica francese peggiora giorno dopo giorno, la popolarità del presidente, François Hollande, è a minimi ridicoli (13 per cento!), il consenso per Valls è risicato: come si fa a fare le riforme? Il premier dice, con quella forza che lo contraddistingue, che «governare è resistere» e sembra pronto ad affrontare ogni pericolo, ma gli ostacoli sono ovunque. Il primo è naturalmente Hollande, che contagia con la sua impopolarità tutto quel che tocca, e trascina giù con sé anche Valls: l’ex first lady Valérie è riuscita a far precipitare ogni speranza di riscatto del presidente, costringendo il premier a dire che «ci vorrebbe un po’ di dignità», e non si sa se parlava della donna ferita o dell’uomo traditore. Ci vuole parecchio equilibrismo per Valls, che si trova a gestire una

delle contraddizioni istituzionali più ironiche della Francia: il presidente è il meno amato degli ultimi decenni, la stragrande maggioranza dei francesi spera che non si ricandidi mai più, ma è al momento, e fino alle prossime elezioni, inamovibile. Il premier che è nuovo e dinamico e combattivo paga tutto il prezzo del fallimento: se non ce la fa, la vittima sarà lui, che pure è stato chiamato come ultimo salvatore di patria e partito. Nel conto di Valls ci sono anche le scelte sbagliate di Hollande, non solo quelle dettate dal tentennamento e dalla svolta liberale mai arrivata, ma anche quelle all’interno dei socialisti, che sono litigiosi di natura ma adesso rischiano addirittura la scissione. Il capo dell’Eliseo non ha mai davvero scelto che tipo di leader di sinistra avrebbe voluto essere, e ha pensato che mettendo tutti dentro, gli anti austerità con i pro austerità, gli antiglobalizzazione con i liberali, si sarebbe trovata una sintesi. Ma quando i parametri di Maastricht sono violati alla grande, le aziende chiudono o vengono comprate, la disoccupazione

Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Timidi e immusoniti all’Expo I «grandi eventi» sono sempre appuntamenti problematici, come la storia insegna e l’esperienza ammaestra. Problematico è il filo conduttore, il «tema», dell’iniziativa; ingenti le risorse che occorre mobilitare, sia umane che finanziarie; incerte le ricadute materiali e spirituali; del tutto aleatorie le conseguenze sul lungo periodo, come la sorte dei padiglioni e delle aree edificate per l’occasione. Prendiamo il caso delle esposizioni, nazionali o universali. Un tempo segnavano i tratti di un’epoca, un giro di boa. Si pensi, per rimanere all’interno dei nostri confini, all’esposizione del 1883, che si tenne a Zurigo all’indomani dell’apertura della linea ferroviaria del San Gottardo; all’effetto di coesione interna esercitato dalle «Landesaustellungen» in due momenti-chiave del Novecento: 1914 (Berna) e 1939 (di nuovo a Zurigo); alle inquietudini e alle ansie che accompagnarono la realizzazione dell’Expo losannese del

1964, si era in piena guerra fredda... Ogni iniziativa è poi esposta al rischio dell’erosione del consenso. Ricordiamo tutti lo psicodramma che accompagnò Expo.02 condotta in porto da Nelly Wenger, una navigazione iniziata male, nell’anno del Settecentenario della Confederazione, con la bocciatura di CH 91, e proseguita peggio, tra errori di rotta e piccoli naufragi, polemiche roventi e rischi di abbandono fino al 2001. Rispetto all’età dell’oro, le attese sono aumentate, i cittadini sono sempre meno disposti a concedere carta bianca ai nostromi; si vuole capire quanto, alla chiusura dei conti, rimarrà come buco finanziario sulle spalle del contribuente… Con l’andar del tempo anche l’idea stessa di esposizione è cambiata. Agli inizi si magnificava l’industria, il progresso, le conquiste scientifiche, le invenzioni del genio umano; si mirava a stupire i visitatori, facendoli partecipi di un grandioso cammino che li avrebbe condotti verso un avvenire radioso.


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Cultura e Spettacoli La Berlino di Joseph Roth Negli Anni Venti del Novecento la città tedesca si presenta come luogo anche insidioso

Per una cultura di qualità Sono molti e diversificati gli appuntamenti sostenuti dal Percento culturale Migros Ticino. Ospite della nuova stagione anche il celebre Elio

L’arte di fare paura Esce per i tipi di Adelphi I diabolici della coppia BoileauNarcejac, che ispirò anche Hitchcock

Sogno e disincanto Al cinema le ultime fatiche di Hayao Miyazaki e David Cronenberg

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Il valore di Rameau Anniversari A 250 anni dalla morte

un giusto riscatto per un compositore che fu protagonista di un acceso dibattito con Rousseau

Timoteo Morresi Incarnazione della musica francese dell’Ancien Régime, Jean-Philippe Rameau (Digione, 25 settembre 1783 – Parigi, 12 settembre 1764), a 250 anni dalla morte appare ancora a molti come una sorta di isolotto conservatore nella corrente degli stili e delle mode. L’anniversario ci permette invece di «scoprire» una personalità curiosa e avida di conoscenze, un intenso moto creativo e innovatore. È un fatto che la polemica con un gigante (non necessariamente della musica) come Rousseau abbia a lungo nascosto la personalità di Rameau sotto un cliché. Intorno al 1750, sotto l’impulso di filosofi e artisti, la Francia era stata teatro di un vero e proprio sconvolgimento sociale e culturale. La morte di J. S. Bach (1750) coincide con il crollo della scrittura sapiente e l’avvento dello stile galante, che i suoi figli «esportano» in tutta Europa. Se la Francia resiste più a lungo al tramonto dell’estetica barocca si deve in gran parte a Rameau. Ma nel 1752 viene rappresentata a Parigi, con gran successo di pubblico, La serva padrona di Pergolesi, seguita da altre opere italiane. Quest’apertura estetica è percepita dai parigini come un’aggressione culturale. Il trauma di un’arte nazionale che rischia di scomparire è violento al punto da generare la famosa Querelle des Bouffons. La polemica degenera in caricatura, opponendo la musica italiana, che avrebbe come referente il versante comico, e la musica francese avente come referente la tragedia. Nel dibattito intervengono intellettuali di tutta Europa: Jean-Jacques Rousseau, Grimm, D’Holbach, D’Alembert, Rameau, Voltaire, Calzabigi, ecc. La musica francese è criticata per la mancata differenziazione tra recitativo e aria, per la complessità del sostegno strumentale, e per tanti altri motivi, in particolare nella famosa Lettre sur la musique française (1753) di Jean-Jacques Rousseau. Il filosofo ginevrino inaugura nei suoi testi un tema interessante basato sul concetto di natura: natura della melodia, dell’armonia, dell’accompagnamento, del movimento che riconosce alla musica italiana e rifiuta di accordare alla mu-

sica francese. La disputa si trasforma in una polemica tra Rameau e Rousseau intorno all’idea di natura. A duecentocinquant’anni dalla morte di Rameau, quel dibattito si dimostra fuori obiettivo, se per obiettivo consideriamo la qualità della musica e non quella della filosofia che la sostiene. E a questo punto può veramente avvenire una «riscoperta» di Rameau, che le numerose occasioni di ascolto in quest’anno anniversario, soprattutto in Francia, non fanno che confermare. Come Bach, suo contemporaneo, Rameau aveva imparato da giovane a suonare il clavicembalo, l’organo e il violino. Fino al 1722 aveva assunto vari incarichi di organista in diverse città, per lo più di provincia: Digione, Avignone, Lione, Clermont-Ferrand. In questo periodo scrive l’essenziale della sua musica vocale religiosa (i mottetti) e profana (le cantate). A 39 anni si trasferisce a Parigi dove si dà all’insegnamento del clavicembalo, strumento più popolare dell’organo. Il corpus per clavicembalo solo comprende tre raccolte: la virtuosità che vi traspare prefigura per diversi aspetti la tecnica pianistica dell’epoca classica, quasi… romantica e lisztiana. Relativamente tardi, a 50 anni, Rameau intraprende la carriera di operista, componendo in soli sei anni quattro tragédies lyriques (Hippolyte et Aricie, Castor et Pollux, Samson e Dardanus) e due balletti (Les Indes galantes e Les fêtes d’Hébé). Sono opere che segnano l’abbandono della tradizione che risale a Lully. I sostenitori di Rameau salutano la ricchezza del sostegno strumentale, la potenza dell’armonia, la varietà dei cori, la sontuosità del contrappunto. I detrattori gli rimproverano la troppa scienza, l’assenza di sentimento, la sovrabbondanza di note e l’esagerato virtuosismo che richiede agli interpreti. Ma a torto: si vedano Les Indes galantes (1735): il testo, ispirato da Montesquieu nelle Lettres persanes (1721), condanna la colonizzazione europea e prende le difese dei «selvaggi», idealizzati come individui sani e sinceri, opposti all’artificialità e vanità dei coloni. Le melodie affidate ai primi sono piene di estro e di fantasia, quelle dei secondi rigide e artificiose.

Jean-Philippe Rameau (1683-1764). (Keystone/Rue des Archives/PFB)

Nel 1745 Rameau riceve il titolo di compositore della musica da camera alla corte di Luigi XV, la sua prima carica ufficiale. Da quel momento scriverà opere su incarico destinate alla celebrazione di matrimoni, nascite, vittorie militari, ecc. A 62 anni non mostra segni di fatica: ne sono testimonianza i suoi numerosi scritti teorici, i rifacimenti di opere precedenti e le numerose composizioni nuove (Linus, Acante et Céphise e La Guirlande, 1751; Les Sybarites, Daphnis et Eglé e Lisis et Délie, 1754; Anacréon e La naissance d’Osiris, 1754; Les Paladins, 1760; Les Boréades, 1763). Mantiene inoltre viva la curiosità per la musica italiana, la musica strumentale tedesca o per i progressi nell’organologia, in particolare per quanto riguarda i corni e i clarinetti. Per effetto della polemica, la Que-

relle pare sostenere una nuova consacrazione dello stile francese. Nel 1754 la nuova versione di Castor et Pollux a Parigi è un trionfo ma Les Boréades, il suo ultimo lavoro, rimane inedito. Nel frattempo l’attesa del pubblico è cambiata, Rameau si avvia a essere dimenticato. Rameau fu anche un eminente pedagogo: generoso verso i giovani, aprì la strada della composizione a molti aspiranti, «democratizzò» in un certo senso il mestiere di compositore. Rameau è importante anche come teorico: attraverso una speculazione matematica egli elaborò i principi del linguaggio tonale, assegnando alla musica dignità di scienza fisico-matematica. Mise in mostra il concetto di basso fondamentale e dei suoi risvolti, difendendo l’accordo come essenziale e portatore della melodia. Da qui Rame-

au stabilisce che l’armonia domina la musica e sottende la melodia, che gli è dunque subordinata. Purtroppo però il suo destino presso il grande pubblico era segnato. Troppo moderno per i nostalgici di Lully, troppo vecchio per Rousseau e i paladini di una riforma dei costumi musicali, Rameau pareva destinato a giacere tra le pagine dei manuali e delle storie della musica. Le numerose rappresentazioni dei suoi lavori in corso (soprattutto in Francia) in questo anno centenario dimostrano che di una svista si trattava. Noi abbiamo assistito, ad Aix-en-Provence, a una magnifica esecuzione delle Boréades diretta da uno specialista, Marc Minkowski: una festa di fantasia, di colori, di suoni – altro che il barboso reazionario di cui avevamo sentito… sparlare.


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Cultura e Spettacoli

Le contraddizioni della modernità Berlino, porta del mondo Dopo Robert Walser e Franz Kafka, in questa puntata è la volta di Joseph Roth

e i suoi rapporti con la «New York della vecchia Europa»

Luigi Forte Nel suo scritto L’autodafé dello spirito, pubblicato a Parigi nei Cahiers Juifs nell’autunno del 1933, Joseph Roth ripercorre le tappe di quel fluviale e collettivo racconto che ha fatto di Berlino l’icona di tutte le contraddizioni della modernità. La valorizzazione letteraria del paesaggio urbano e l’esplorazione dei suoi soggetti si deve a quegli scrittori di origine ebraica che scoprirono – egli dichiara – «i caffè e la fabbrica, il bar e l’hotel, la banca e la piccola borghesia, i luoghi d’incontro dei ricchi e i quartieri poveri, il peccato e il vizio, la città diurna e notturna». Ma non sono anche le tappe del suo curioso girovagare condensate spesso nei feuilleton che scriveva per prestigiosi quotidiani come la «Frankfurter Zeitung»? L’ipermoderna Berlino, che qualcuno definì la «New York della vecchia Europa», trova in Roth un lettore disincantato e critico. Arrivato nella capitale dalla lontana Galizia nel 1920, egli scopre la disperazione degli esuli, il disorientamento di chi non ha più radici, il gesto incerto della sopravvivenza. Quella metropoli è un groviglio di destini, di gente umile e diseredata, dove lo scrittore insegue con affetto le tracce del mondo che si è lasciato alle spalle e che ritrova nel quartiere ebraico, il Scheunenviertel, che – come scrisse Israel J. Singer – i cristiani chiamavano con scherno la Svizzera ebraica. Il nostalgico Roth ricorda come in quel mondo della diaspora, nelle strade che fanno da sfondo anche al grande romanzo di Alfred Döblin, Berlin Alexanderplatz, s’aggirassero figure diversissime: commercianti e venditori ambulanti, ma anche borsaioli, speculatori e falsari. Sotto la sua penna la città si trasforma in un originale scenario, girandola di schizzi e caricature in cui la miseria umana s’innalza a gesto melo-

drammatico e i rifiuti della società sono riplasmati in attori di primo piano. Come al Caffè Dalles, una sorta di zona franca dove di fronte allo scassinatore Kirsch e ai suoi degni compari Tegler Willy e Fritz l’Apache è seduto un poliziotto che forse per un segreto patto di non belligeranza si gode lo spettacolo, come il vecchio professor Rath nell’Angelo azzurro di Joseph von Sternberg. Qui la conturbante e sensuale Lola Lola di turno si chiama Elli e siede in braccio al cliente più generoso mettendo in mostra un paio di nuove elettrizzanti calze mentre divora un panino e butta giù un robusto Kümmel. Fuori il paesaggio urbano ha un unico colore: rosso mattone. È una macchia uniforme e spenta, anzi un’atmosfera che avvolge carceri, scuole, uffici postali, chiese e si estende verso Prenzlauer Allee proprio là dove, uno accanto all’altro, si annunciano l’ospedale e l’ospizio per i senzatetto. Allontanandosi dalle contrade della miseria Roth entra nel labirinto di una Zivilisation, di una civiltà materiale, che rischia di snaturare non solo la realtà, ma l’identità stessa dei soggetti umani. Tuttavia anche un accanito conservatore come lui finisce per arrendersi di fronte ai monumenti del presente. Sotto il suo occhio le cose sembrano perdere peso acquistando una magica aura: il lessico del feuilleton si fa poesia, scivola su immagini e metafore come alla ricerca dell’arcano. Egli è attratto dallo smisurato, dall’eccessivo: s’inoltra nel ventre di Karstadt, il grande centro commerciale sulla Hermannplatz, su fino alla grande terrazza. Salire verso il cielo pur con veloci e moderni mezzi meccanici come le scale mobili, – afferma – non è più un peccato di hybris, come ai tempi della biblica torre di Babele, ma solo un piacere da condividere con mille altri. Joseph Roth non fu soltanto un cicerone istrionico e originale, ma un esegeta della modernità, un dinocco-

lato filosofo della città che legge nei dettagli quotidiani le linee di tendenza di una grande ed eterogenea stagione culturale. Passeggiando per il Kurfürstendamm tra caffè, cinema e teatri, scopre che l’allure mondana di quell’elegante boulevard che vorrebbe stare al passo con Parigi, Londra o New York, altro non è che imitazione, un originale assai imperfetto e che tutto quel viavai non porta da nessuna parte, perché il Ku’damm, a suo giudizio, non ha altra meta che se stesso. Poi si lancia nelle kermesse notturne e le immortala con irrefrenabile ironia, come quando descrive i bagni turchi all’Admiralpalast nella Friedrichstrasse, aperti giorno e notte, dove i clienti aspettano l’alba fra abluzioni e cura del corpo. A Roth quel viavai di gente nuda tra fumi e morbide foschie incalzata da inservienti che frizionano e asciugano, suscita letterarie memorie d’oltretomba. Così il suo reportage diventa una sorta di dantesca ricognizione agli Inferi. Quegli ospiti in tenuta adamitica che s’aggirano per stanze e corridoi alla ricerca del perfetto fitness proiettano sullo schermo della metropoli l’immagine di un mondo primigenio da cui non si vorrebbe più evadere. Fuori, di primo mattino, piove e fa un gran freddo; della città sono dunque più accoglienti le segrete e fumiganti viscere. La quotidianità borghese si dissolve tra le pagine dello scrittore nel chiaroscuro di una Berlino sospesa nell’aria come un tappeto magico – suggerì von Rezzori –, di cui qualcosa si può intuire, in versione del tutto opposta, nei famosi e ormai estinti passages. Come il Lindenpassage su cui Roth scrive un magistrale articolo assistendo all’asta del museo delle cere dove la figura di un Rothschild in vendita troneggia accanto a quella di un killer e i principi d’Europa passano di mano in mano in un’agguerrita competizione con imprevedibili effetti comici. Il passa-

Lo scrittore Joseph Roth (1894-1939) in una foto non datata. (Keystone)

to che sorride da quelle buffe statuine di cera scivola leggero sul pathos della vita quasi a rammentarne la vacua inconsistenza. Uno spazio d’antan di cui non resta che una sbiadita smorfia, dove la società borghese aveva espunto e concentrato «tutte quelle cose che non si adattavano all’ornamento della

facciata», alla sua ipocrita messinscena. Il monarchico Roth guarda altrove, verso il mondo scomparso dell’Impero asburgico, lontano dalla Germania nazista, nel suo esilio parigino, dove anche Berlino è ormai un ricordo sbiadito e il futuro per lui non ha più forma né identità.

Dove muoiono i libri Pubblicazioni Una nuova prospettiva nella storia dell’evoluzione della lettura in un libro

del giornalista-blogger Alessandro Gazoia

media», ecco per questo popolo un po’ nascosto e carbonaro si annuncia forse qualche interessante e benvenuta crepa nel muro di certezze. Come finisce il libro. Contro la falsa democrazia dell’editoria digitale è un decisamente originale libro di Alessandro Gazoia; Gazoia è detto anche Jumpinshark, squalo che salta su, perché è un blogger (e qui bisogna superare anche un po’ di polveroso fastidio per i nomi strani e i blogger, qui vale la pena, concesso che non è sempre facile).

Stefano Vassere «Secondo una recente indagine – da non usare come clava contro il libri elettronici e al contempo da non ridurre a curiosità – anche i ragazzi inglesi, «nativi digitali» iperconnessi come da diagnosi satirica ovvero riduzione caricaturale di Michele Serra, non abbandonano la carta, anzi la preferiscono, per i loro Tolkien e Rowling, opere tanto corpose quanto amate. I ragazzi spiegano la predilezione con il piacere di tenere in mano il prodotto (51%), la non restrizione a un particolare dispositivo (20%), la possibilità di condividere il libro (9%) e di venderlo come usato (6%)». Due cose vengono in mente, leggendo di questa indagine: uno, che ogni tanto abbiamo idee sui giovani un po’ strambe; in questo caso sulle abitudini di lettura ma poi probabilmente anche in generale. Per l’uso delle nuove tecnologie, provate per esempio a chiedere a un ragazzo se usa il podcast: vi guarderà come per dire «entro in materia solo se mi spieghi che cosa è il podcast». Provare. Poi, seconda cosa che viene in mente, siamo proprio sicuri che il futuro dei media per la lettura sia una specie di treno in corsa di quelli col freno rotto per cui o ci si butta di lato cercando di rotolare sull’erba per limitare i danni o ci si rassegna e, come gli altri, si decide di cercare di capire come funzionano i kindle e i devices pena una sicura con-

Il libro di Jumpinshark è forse un manifesto di resistenza intelligente a certi folli entusiasmi della cultura digitale

Il libro-blog (cartaceo) di Jumpinshark.

danna nel girone dei matusa? Ecco, per chi pensa che questo settore della nostra vita non sia una specie di prendere o lasciare, di bianco o nero, per chi sbadiglia quando sente frasi perentorie

e definitive come «è finito il mondo di», «avremo sempre più di qua», «domani saremo tutti là» o squisitezze del tipo «la sfida delle nuove forme di comunicazione», «capire l’avvento dei nuovi

Una sua tesi, una tra le tesi del libro è che per vari motivi la lettura elettronica beneficia di una rendita, soprattutto di immagine, un po’ eccessiva oltre che pericolosa. Prendiamo un paio di grandi marchi, alcuni legati al libro e alla lettura (non li nominiamo, uno inizia per G, l’altro per A, il primo è un motore di ricerca, il secondo un negozio di libri virtuali): dice lo Squalo che «per anni la maggior parte degli utenti di internet ha guardato con vivissima simpatia alle nuove imprese che offri-

vano servizi molto utili, gratuiti o a prezzi vantaggiosi, che hanno goduto di un più basso livello di scrutinio e di una più blanda richiesta di responsabilità rispetto ad aziende tradizionali». Come dire, l’abbondanza di servizi di qualità offerti gratuitamente per in un qualche modo «comperare» la fiducia (sacrosanta, per certi aspetti) e la fedeltà dell’utente. A questi servizi ci si sente di «dovere» qualcosa, perché ci fanno favori di qualità e ci rendono tutto così semplice: basta un click per ordinare un libro, puoi fare un sacco di cose, con grande economia, in un attimo ti carichi sulla tua piattaforma preferita un libro che altrimenti dovresti andare a comperare in libreria, a prendere in prestito in biblioteca o da amici. Questo libro è curioso, una narrazione, una specie di blog di carta, forse un manifesto di resistenza intelligente a certi folli entusiasmi della cultura digitale. «Queste e altre condizioni lavorano contro la feticizzazione e il culto estetizzante del libro ma ne annunciano la morte solo per chi al libro ha già rinunciato (scelta legittima) o non l’ha mai conosciuto davvero (destino doloroso)». Bibliografia

Alessandro Gazoia, Come finisce il libro. Contro la falsa democrazia dell’editoria digitale, Roma, minimum fax, 2014.


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Cultura e Spettacoli

La musica come le altre arti Riconoscimenti È nato a Losanna il primo Gran Premio svizzero di musica. Franz Treichler

degli Young Gods è stato premiato dal consigliere federale Alain Berset

CD Il nuovo album

dei Manic Street Preachers offre uno sguardo su un futuro poco incoraggiante

Zeno Gabaglio Non è solo ma anche una questione di dignità, il fatto che l’Ufficio Federale della Cultura abbia deciso di istituire per la prima volta il Gran Premio svizzero di musica. L’assegnazione di premi artistici nazionali ha infatti già una lunga tradizione nell’ambito dell’arte figurativa e del design, e in virtù della recente legge sulla promozione della cultura – entrata in vigore nel 2012 – la Confederazione si è impegnata ad attribuire premi anche negli ambiti della danza, della letteratura del teatro e della musica. Al netto del passaggio di consegne tra Confederazione e altri enti (quali l’Anello Hans Reinhart per il teatro e il Premio Schiller per la letteratura) la musica è però l’unica disciplina artistica per cui non si era mai istituito un premio specifico a livello nazionale, se non quelli basati sul solo criterio del successo commerciale dei prodotti. Quindi è davvero una questione di (pari) dignità, il fatto che lo scorso venerdì il consigliere federale Alain Berset sia salito sul palco dell’Opéra di Losanna per attribuire la massima distinzione fra i «lavori eccellenti e innovativi nell’ambito della musica». Il metodo

Concorsi

Stabilita la fondamentale volontà di avere un premio svizzero che vada a riconoscere la qualità e l’innovazione musicale, la prima e inevitabile domanda che ci si pone è: «sì, ma di quale musica stiamo parlando? Di quella colta e classica che da sempre è stata ritenuta custode delle qualità massime oppure di quella che viene prodotta nei sotterranei: innovativa, urgente e sincera come nessun’altra?». E ancora: «questo premio dovrà riconoscere delle individualità dalla carriera completamente conclamata, oppure si potrà volgere anche verso quei talenti non più troppo giovani ma nemmeno pienamente maturi?». La risposta dell’organizzatore non è giustamente stata perentoria, lasciando anzi lavorare autonomamente un primo team di dieci esperti che ha selezionato 41 candidati provenienti da tutte le regioni della Svizzera e attivi in diversi ambiti musicali. Questa prima selezione è stata poi affidata alla giuria federale della musica – composta da sette membri, tra cui anche lo scriven-

091/821 71 62 Orario per le telefonate: dalle 14.30 alle 16.30

Nubi scure all’orizzonte di tutti noi

Benedicta Froelich

Franz Reichler degli Young Gods.

te – che ha dovuto scegliere 15 finalisti. Quindici finalisti gratificati da una distinzione di 25’000 franchi ciascuno, mentre al vincitore assoluto è andato il Gran Premio di 100’000 franchi.

ha colpito su tutte: «per il mio gusto personale non andrei mai ad ascoltare un concerto di questo artista, però ne capisco il valore e ne appoggio la candidatura».

invece contrabbassista, compositore ed improvvisatore losannese. Mama Rosin da Ginevra, uno dei più importanti gruppi pop-rock svizzeri. Il serio – ma non troppo – Ensemble Phoenix di Basilea. Corin Curschellas, la più celebre cantautrice della cultura romancia. E infine il nostro rappresentante, Franco Cesarini compositore e direttore per orchestra di fiati.

L’equità

I candidati

Un metodo a prova di bomba? Non proprio, se si guarda con piglio egualitario la rosa dei finalisti: dove sono i compositori? Dove sono i rapper? Dove sono i musicisti elettronici? Lacune senz’altro clamorose, che però rispecchiano il trasparente lavoro delle due giurie e l’assenza di diktat dirigistici da parte di chissà chi. L’ovvia intenzione – nello stabilire un simile meccanismo, nel dare cadenza annuale al Premio e nell’imporre un frequente avvicendamento dei giurati – è quella di lasciare che nel giro di qualche edizione l’equità tra generi, esperienze, stili e culture emerga da sé, dando così l’immagine specchiata e non contraffatta di una realtà musicale svizzera molteplice e in perenne movimento. E senza stare a svelare il merito delle riunioni della giuria – più per correttezza formale che non per celare i più turpi riti carbonari – un’affermazione di un collega mi

Ecco dunque i 15 prescelti come finalisti e premiati della prima edizione del Gran Premio svizzero di musica. Andreas Schaerer, l’intrepido vocalist bernese già leader del gruppo Hildegard lernt fliegen. La zurighese Irène Schweizer, decana dell’improvvisazione libera al pianoforte. L’irriverente Reverendo Beat-Man, alfiere del garage-punk e fondatore a Berna di una delle etichette di culto su scala europea. Norbert Möslang, l’instancabile inventore ed esploratore di suoni da San Gallo. Il giovane Julian Sartorius, percussionista creativo da Berna. L’ensemble Steamboat Switzerland da Zurigo, mirabilmente sospeso tra rock e avanguardia. Da Thalwil la straordinaria vocalist Erika Stucky. Per suoni autenticamente alpini ma pure attuali, Hans Kennel da Baar. E per un ripensamento dello Schwyzerörgeli, Marcel Oetiker da Altendorf. Dragos Tara è

Tra jazz e nuove musiche Rassegna di Rete Due In varie sale Dal 29 sett. al 23 novembre

Festival delle Marionette Rassegna teatrale Teatro Foce, Lugano Dal 13 settembre al 5 ottobre

Festival dei diritti umani Cinematografia e dibattiti Franklin Univ. - Cinestar Lugano Dal 25 al 28 settembre

Lu 29.9, ore 21.00-Studio 2 RSI Paolo Fresu incontra LABOttega di Claudio Pontiggia

Sa 27.9, ore 15.00 - Do 28, ore 11.00 Il carnevale degli animali

Festival dei diritti umani

TAA-Musicateatro & Q. Andersen P. Fresu, tromba; C. Pontiggia, comp. e dir.; G. Tamisier, tr.; R. Bonisolo, sax; O. Picon, corno; A. Rusconi, sax; I. Ferrarese, arpe; L. Chiofalo chit.; G. Ros, basso; A. Nespoli, batteria

Do 28.9, ore 16.00 Oskar: In carrozza!

Il vincitore

È vero, nell’elenco precedente i nomi sono solo quattordici, perché al primo vincitore del Gran Premio svizzero di musica è bene riservare uno spazio speciale. Franz Treichler è nato nel 1961 a Friburgo, iniziando con gli studi di chitarra classica presso il Conservatorio di Losanna e passando nel 1983 alla musica elettronica. È stato tra i principali agitatori del movimento rock e alternativo svizzero (fu tra i creatori anche della celebre sala concerti Fri-Son) ma soprattutto è celebre per aver fondato ed essere da sempre stato la voce degli Young Gods. L’unico gruppo svizzero – iscrivibile nel genere metal-industrial – che appaia regolarmente nei libri di storia del rock.

Quattro giorni a Lugano per portare il tema al centro del dibattito, per promuovere la presa di coscienza presso un ampio pubblico.

Con Tom Greder

Ve 3.10, ore 21.00-Aula Magna CSI Christoph Stiefel Trio

Me 1.10, ore 15.00 Cappuccetto in giallo

C.Stiefel, piano; A. Huber, contrabbasso; K. Chesam, batteria

Teatro del Mago

Programma su: www.festivaldirittiumani.ch

Regolamento Migros Ticino offre ai lettori biglietti gratuiti per le manifestazioni sopra menzionate.

Massimo due biglietti per economia domestica. La partecipazione è riservata a chi non ha beneficiato di vincite in occasione di analoghe promozioni nel corso degli scorsi mesi.

Per aggiudicarsi i biglietti basta telefonare mercoledì 24 settembre al numero sulla sinistra nell’orario indicato. Buona fortuna!

Biglietti in palio per gli eventi sostenuti dal Percento culturale di Migros Ticino

Forse è vero, come alcuni sostengono, che dopo l’ubriacatura del fenomeno britpop di fine anni 90, la musica made in UK non è più riuscita a surclassare quella americana sul mercato internazionale; ma vi sono tuttavia eccellenti eccezioni, come quella rappresentata dai Manic Street Preachers – una band che, fin dal 1988, ha sempre contrastato le osannate correnti musicali del momento con il suo particolare mix di rock alternativo e suggestioni postpunk. La formazione capeggiata da James Dean Bradfield ha infatti superato indenne il tramonto del pop-rock più effimero per crearsi un’immagine di band socialmente impegnata e «arrabbiata», riuscendo a reinventarsi a più riprese e a coniugare la propria originale connotazione artistica al successo commerciale – come dimostrato dall’eccellente album This is My Truth Tell Me Yours (1998). Oggi, ad anni di distanza, il gruppo non accenna a interrompere il proprio percorso di ricerca: questo nuovo Futurology conferma difatti la traiettoria evolutiva dei Manics, che dal rock inglese più postmoderno puntano ora alle sonorità elettroniche attraverso pezzi cinici e taglienti come Let’s Go to War e Walk Me to the Bridge – i quali ricordano le suggestioni di una colonna sonora cinematografica anni 70, e danno un’idea dell’efficacia e potenza della sintesi stilistica prediletta dal trio. Altri brani di grande respiro, come la «title-track» Futurology e l’intenso Misguided Missile confermano come il limpido e lungimirante cinismo dei testi riesca a soffondere i brani di accenti politici, senza tuttavia renderli classificabili come canzoni di protesta, né identificare un reale «nemico» contro il quale scagliarsi – in un piacevolissimo antidoto alla superficiale e innocua vacuità della maggior parte del pop-rock britannico della generazione a cui i Preachers appartengono. In questo modo, oltre a offrire alcuni duetti con ospiti illustri (tra cui Green Gartside e Nina Hoss), l’album risulta bilanciato in modo impeccabile tra brani più squisitamente rock, come il rabbioso Sex, Power, Love and Money, e gli esperimenti quasi à la Kraftwerk della «bonus track» Empty Motorcade; infondendo Futurology di un sapore distintamente iroso e ribelle, alla stregua di una dichiarazione d’intenti da parte di una band che non si riconosce in nessuna corrente politica o ideologica, né ripone alcuna fiducia in un domani migliore. E in fondo, a volte questo sano nichilismo pop-rock può essere proprio ciò di cui un ascoltatore annoiato ha bisogno.

Futurology, il nuovo album della band Manic Street Preachers.


COMPETENZA IN MATERIA DI CAFFÈ DAL 1925. Da noi il caffè è tradizione: fin dall’inizio ha fatto parte del nostro assortimento base e si poteva trovare già sui primi camion di vendita Migros. Da allora, il caffè con i suoi molteplici aromi ci sta particolarmente a cuore e ancora oggi lo produciamo noi stessi. Il caffè Boncampo è un ottimo esempio della nostra competenza e ti delizierà tazza dopo tazza grazie al suo aroma forte e deciso. Scopri il nostro assortimento completo su migros.ch/caffe


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Cultura e Spettacoli

Una stagione per tutti Percento Culturale Migros Ticino È disponibile il nuovo ricco programma degli eventi

sostenuti, l’attenzione è per tutte le fasce di età e per l’intero territorio

25-28 settembre

Prima edizione a Lugano del Festival sui diritti umani

Simona Sala Esiste anche un modo attivo, seppur dietro le quinte, di fare cultura di alto livello. Ci riferiamo a un’istituzione cardine del nostro Paese (e probabilmente unica nel suo genere) come il Percento Culturale Migros. Ogni anno – e da ben 55 anni, un grande traguardo, come dimostra la locandina con la cifra in bella mostra – gli appuntamenti sostenuti dal Percento culturale Migros (solo in Ticino) sono più di 150, e ci viene da pensare, senza esagerare, che il panorama culturale del nostro cantone e del nostro Paese sarebbe considerevolmente diverso senza questo prezioso supporto. Gli eventi sostenuti infatti, oltre a spiccare per numero, dimostrano un’attenzione straordinaria verso ogni tipo di categoria: artistica, anagrafica e territoriale. Essi sono infatti rappresentativi delle discipline di musica, teatro, danza, letteratura, cinema, sono rivolti a bambini, ragazzi e adulti, e sono sparsi su tutto il territorio cantonale. Alcuni appuntamenti della nuova stagione culturale 2013-2014 appena rivelati rientrano nel solco di una tradizione sostenuta dal Percento Culturale ormai da anni, pensiamo ad esempio alla rassegna Cantar di Pietre o a quella dedicata alle Marionette a Lugano, ma anche a mostre come quelle presentate con cura e regolarità alla Pinacoteca Züst di Rancate (il titolo della mostra che aprirà i battenti il 12 ottobre è Doni d’amore. Donne e rituali in epoca tardogotica e rinascimentale). A questi appuntamenti appunto tradizionali si aggiungono poi, di anno in anno aumentando, momenti di incontro per un pubblico più giovane organizzati da movimenti culturali emergenti, come è il caso per il Performa Festival (un festival di arti performative quest’anno non più unicamente situato a Losone, ma anche a Locarno, Lugano e Bellinzona), per il Figaro nella versione (cameristica e rivolta ai giovani) dell’ormai mitico Elio di Elio e le storie tese, per le sessioni musicali di Palco ai Giovani o per le mostre nello spazio di recente creazione Sonnenstube Offspace di Lugano.

Cantar di Pietre e Tra Jazz e Nuove musiche propongono «Officium», il concerto di Jan Garbarek & The Hilliard Ensemble.

A dare continuità agli eventi sostenuti, oltre a conferire una caratteristica di tradizione, togliendoli quindi da una condizione di estemporaneità per sua natura meno incisiva nel territorio, vi è l’encomiabile esempio delle rassegne. Per sua definizione una rassegna si estende nel tempo, e molto spesso anche nel territorio, aumentando dunque in modo considerevole la propria presenza e nei casi migliori lasciando un segno nel tempo. Sostenendo queste forme d’espressione il Percento Culturale intende sottolineare la propria attenzione a temi di natura sociale e filosofica. Due esempi interessanti di rassegna sono costituiti dal Festival per i diritti umani e dal Festival Orme con il Teatro DanzAbile e FTIA. Fra i molti appuntamenti degni di interesse segnaliamo il ciclo di incontri dedicato a uno stato sempre più lontano (e al contempo ambito) del nostro vivere: quello del silenzio. Sensi del silenzio (dall’11

ottobre a 20 dicembre 2014) si presenta infatti come una densa serie di incontri improntati sul cinema, sulla musica, sulla riflessione e sull’arte figurativa. Sono previsti incontri, conferenze, proiezioni cinematografiche, concerti, esibizioni e attività di vario genere, seguendo il fil rouge secondo cui «Il silenzio non è solo assenza di rumore; è una realtà complessa che spesso e volentieri si definisce proprio in relazione al rumore». Discettando su assenza di silenzio o presenza di rumore, non è possibile evitare di parlare di quella disciplina artistica che all’interno del programma del Percento Culturale di Migros Ticino fa la parte del leone: la musica. Si passa dal jazz (Tra Jazz e Nuove musiche, che quest’anno può perfino contare sulla presenza di Jan Garbarek) alla classica (Vesperali, Swiss Chambers Concerts, Progetto Martha Argerich), toccando la contemporanea (900 e pre-

sente), il rock (Palco ai Giovani) e il cantautorato (Francesco De Gregori). Uno spazio importante è dato anche all’ambito letterario e alle conferenze di natura diversa, con un sostegno concreto a molti dei festival sorti in questi anni: la lunga stagione di quest’anno ha preso il via con PiazzaParola (andato in scena pochi giorni or sono) e si concluderà con la decima edizione di Chiassoletteraria nel maggio del 2015. 55 anni di crescita, quelli del Percento Culturale Migros, che dimostrano le modalità di fare cultura in modo diversificato, coraggioso e intrigante. E, sicuramente, la possibilità di potere godere di un sostegno finanziario, in molti casi ha contribuito a spronare alcune fra le menti più creative del nostro cantone. Non è un caso che fra le molte proposte in programma vi siano anche produzioni del tutto locali – ma non per questo di minor valore – come ad esempio Home.

Bando di concorso per ballerini amatoriali over 60 Danza A fine ottobre la Compagnia Carambole danza & teatro organizzerà due workshop

di «teatro fisico» a Bellinzona e Ascona nell’ambito di un Progetto Intergenerazionale Valentina Janner La Compagnia Carambole danza & teatro è alla ricerca di una ventina di uomini e donne over 60, pronti a mettersi in gioco e a iscriversi a un workshop di «teatro fisico». Durante un intero weekend, sotto la guida di due direttori artistici, Christiane Loch e Silvano Mozzini, verranno elaborate delle piccole coreografie assieme ad alcuni ballerini professionisti di età inferiore ai 26 anni. Per parteciparvi non sono richieste competenze specifiche. Scopo dell’innovativo progetto è l’incontro privilegiato tra due generazioni, che non sono solite intraprendere attività insieme o collaborare alla realizzazione di un obiettivo comune. Lavorando su temi prestabiliti, i direttori artistici creeranno delle sequenze di movimento in base alla capacità e alla mobilità di ognuno. I partecipanti, dal canto loro, basandosi su input e suggerimenti dati dai for-

Film e dibattiti per sensibilizzare

matori, assumeranno un ruolo attivo nel processo di creazione, largo spazio sarà dato infatti alla loro iniziativa. Il duplice obiettivo di quest’insolita collaborazione artistica è di identificare ed evidenziare i punti di incontro e le differenze tra due generazioni.

Il workshop vuole essere un punto di partenza, uno stimolo per intraprendere qualcosa di nuovo: se un buon numero di partecipanti si dimostra interessato, da gennaio a luglio 2015, a scadenza quindicinale, sarà possibile proseguire con quest’esperienza e partecipare a un progetto più ampio, che si concluderà a fine luglio con una breve «dimostrazione». In quell’occasione verranno mostrati al pubblico i risultati del lavoro svolto. Questo progetto intergenerazionale, nato da un’iniziativa del Dipartimento della salute della città di Zurigo, ha riscosso un grande successo nella Svizzera tedesca, dove è stato riproposto con diverse modalità. Il direttore artistico Silvano Mozzini ci ha raccontato che l’esperienza si è subito rivelata molto positiva e che, dato l’entusiasmo dimostrato sia dai giovani sia dagli anziani, è sorta l’idea di sviluppare ulteriormente il progetto e di proporlo in altri cantoni, e quindi

anche in Ticino, dove questo particolare approccio al movimento è di natura pionieristica. Il contatto fisico, teatrale, tra generazioni è infatti inusuale ed essendo molto coinvolgente spesso causa inibizioni. Bisogna osare, proprio perché questa esperienza può risultare davvero appagante: molti pregiudizi reciproci vengono sfatati, le paure fisiche e le barriere psicologiche superate. Anziani e giovani imparano così a conoscersi più a fondo e a interagire meglio. Dove e quando

Workshop Bellinzona: 25-27 ottobre 2014. Workshop Ascona: 1. ottobre - 2 novembre 2014. Ulteriori informazioni su: www.carambole-dance.ch E-mail: carambole@befree.ch Tel.: 044 461 67 07

Dopo Ginevra e Zurigo, anche Lugano inaugura un Forum e Festival del film per i diritti umani. Quattro giorni – dal 25 al 28 settembre – dedicati a proiezioni e dibattiti per sensibilizzare un pubblico il più vasto e differenziato possibile sia sul rispetto, sia sulle violazioni dei diritti umani che senza tregua avvengono in numerose parti del mondo. Un’attenzione particolare verrà data al coinvolgimento di un pubblico giovane, cui il Festival dedica quattro proiezioni speciali. Accanto alle 13 proiezioni e agli 11 dibattiti, verrà aperta, venerdì 26 settembre alle 19.15, anche una mostra fotografica di Daniel Schweizer, Volti dei sostenitori dei diritti umani nell’ambiente dell’industria estrattiva, presente l’autore e la rappresentante del Dipartimento federale degli affari esteri Sabrina Büchler. La prima giornata di proiezioni e dibattiti, giovedì 25, si svolgerà nell’Auditorio Nielsen della Franklin University, a Sorengo, da venerdì a domenica il Forum e Festival del film sui diritti umani si sposta al Cinestar, a Lugano. Alle proiezioni di documentari e fiction di cineasti significativi seguiranno dibattiti con testimoni ed esperti di livello internazionale, per analizzare e approfondire i temi affrontati nei film. Il Forum e Festival del film sui diritti umani è promosso da un Fondazione svizzera con sede a Lugano e si avvale della collaborazione del Festival du film ef Forum international sur les droits humains (FIFDH) che dal 2003 raccoglie un ampio interesse di pubblico e di critica. Un analogo Forum e Festival è stato promosso nel dicembre del 2013 anche a Zurigo, inoltre il FIFDH è presente anche a livello internazionale, con eventi puntuali in diverse capitali, e ha cofondato lo Human rights film network, che comprende 35 membri in tutto il mondo. Il Forum e Festival del film sui diritti umani di Lugano è sostenuto da un Comitato d’onore di cui fanno parte personalità di prestigio nazionale e internazionale; fra queste l’ex magistrato ticinese e già procuratore capo del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia Carla del Ponte, gli ex magistrati Agnese Balestra Bianchi e Dick Marty, il direttore artistico del Festival internazionale del film di Roma e già direttore del festival di Locarno Marco Müller. Le attività del Forum e Festival del film per i diritti umani vengono organizzate in stretta collaborazione con numerose organizzazioni governative e non governative, attive nell’ambito dei diritti umani in Ticino e in Svizzera ed è sostenuto anche da partner privati, fra cui il Percento culturale di Migros Ticino. Fra i diversi appuntamenti (una panoramica generale su www.festivaldirittiumani.ch/programma), segnaliamo la serata di venerdì 26 (ore 20.45), con la proiezione del film Timbuktu del regista Abderrahmane Sissako al Cinestar (prima svizzera), preceduta dagli interventi di S.E. Wolfgang Amadeus Bruelhart, capo della Divisione Medio Oriente e Africa del nord del Dipartimento federale degli affari esteri, del consigliere di Stato Manuele Bertoli e del sindaco di Lugano Marco Borradori. Seguirà, dopo la proiezione, un incontro con il regista moderato dal giornalista Aldo Sofia. Più in generale, il Festival sui diritti umani mette l’accento su tre filoni di tematiche: la situazione dei diritti umani in un Paese o in un contesto specifico; le donne in trincea per la difesa dei diritti umani; la povertà, la precarietà, l’impunità, le migrazioni, i fondamentalismi in relazione ai diritti umani.


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Cultura e Spettacoli

Fascinosa suspence Narrativa Adelphi pubblica un giallo ricco di colpi di scena

scritto dalla coppia Boileau-Narcejac Mariarosa Mancuso Un giorno Alfred Hitchcock ricevette la lettera di una madre in ambasce. «Da quando mia figlia ha visto I diabolici non vuole più fare il bagno, e ora che ha visto Psycho non vuole più neppure fare la doccia». Risposta del regista: «La faccia pulire a secco».

Il genere giallo un tempo non necessitava né di squartamenti né di ispettori di provincia I diabolici era un film di Henri-Georges Clouzot uscito nel 1955. Anche a rivederla oggi, dopo che siano abituati a ogni nefandezza cinematografica, la scena della vasca da bagno fa sobbalzare sulla poltrona. Trattandosi di thriller, non possiamo dare altri dettagli. Possiamo solo invitarvi a vedere il film, se non l’avete già visto. Meritano anche tutti gli altri titoli del regista che fu etichettato come l’Hitchcock di Francia. In cima alla lista c’è Il corvo, film del 1943 con un intrigo a base di lettere anonime. E possiamo invitarvi a leggere, fresco di pubblicazione Adelphi, il romanzo di Boileau-Narcejac (nome collettivo, alla Fruttero & Lucentini, dei due scrittori francesi Pierre Boileau e Pierre Ayraud, detto Thomas Narcejac)

da cui il regista francese aveva tratto il suo film. Cambiando parecchie cose – l’ambientazione è ora in una scuola, con un preside crudele, mentre il protagonista del romanzo vendeva canne da pesca e mulinelli. Scegliendo come attori il sinistro Paul Meurisse, la moglie Vera Clouzot (morirà dieci anni dopo per un attacco di cuore, e nel film è anche questione di cardiopatie) e Simone Signoret. Tra gli allievi compare, non accreditato, un giovanissimo Johnny Hallyday (nel mondo dello spettacolo è meglio cominciare da piccoli: il premiatissimo Daniel Day-Lewis ebbe una piccola parte da teppista in Domenica maledetta domenica di John Schlesinger, accanto a Peter Finch e Glenda Jackson). Di scarso interesse invece il remake del 1996 firmato da Jeremiah S. Chechick: gli sforzi congiunti di Sharon Stone, Isabelle Adjani, Chazz Palminteri non riescono a dare neppure un decimo dei brividi provocati dall’originale. Per quanto una storia sia bella e collaudata, servono attori che convincano: in Diabolique – francese perché fa più chic – nessuno sembra davvero nella parte. La storia tra Alfred Hitchcock e la coppia Boileau-Narcejac non finisce con la battuta della ragazza da far pulire a secco. Il regista cercò infatti di assicurarsi i diritti cinematografici di Celle qui n’était plus – questo il titolo originale del romanzo da noi ormai stabilmente intitolato I diabolici, nella precedente edizione Mondadori e ora

da Adelphi – e gli dissero che erano stati appena comprati da Clouzot. Anche i due scrittori vennero a sapere dell’interesse di Hitchcock. Non potendo vendere due volte lo stesso libro decisero di scrivere un’altra storia capace di stuzzicare la curiosità del regista. D’entre les morts era il titolo: sullo schermo divenne Vertigo (per gli spettatori americani) e La donna che visse due volte (per gli spettatori italiani). Hitchcock scoprì il giochetto molto dopo aver girato il film con Kim Novak e James Stewart, durante la lunga intervista che gli fece il suo ammiratore numero uno François Truffaut. Chi ha presente entrambe le storie troverà che hanno un nucleo molto simile. Noi, che non vogliamo far da guastafeste ai piaceri altrui, non aggiungeremo una parola in più sulle trame. Ne aggiungeremo qualcuna per dire che, in questo e negli altri loro romanzi, Boileau-Narcejac sono due geni nel creare suspence (volendo farsene una scorpacciata, le opere complete della diabolica coppia sono uscite nella collezione dei Bouquins Laffont, in cinque volumoni). Sono due che scrivono benissimo, meglio di tanti altri romanzieri più celebrati, anche se per qualche decennio sono stati relegati nello scaffale della giallistica e del thriller. Precisazione: per giallistica negli anni di Boileau e Narcejac non si intendeva, come accade adesso «un investigatore che rivela i lati oscuri della provincia italiana» (questo leggiamo

Una copertina, un programma: I diabolici, del duo di scrittori francese BoileauNarcejac.

immancabilmente in ogni risvolto di copertina, sarebbe ora di invocare pietà), ma storie che davvero procuravano sorprese. Piene di colpi di scena, ma senza il rullo di tamburi ad annunciarli con tre pagine d’anticipo. Per thriller non si intendevano squartamenti, ma storie che cominciavano con un uomo a cui cade qualcosa in testa, cade il cappello, e quando riprende il cappello da terra le iniziali scritte sulla fodera non sono le sue (o almeno, lui non le riconosce come tali). Così comincia Sipario nero di Cornell Woolrich, alias William Irish: da uno

dei suoi racconti Hitchcock ricavò La finestra sul cortile, e da un altro dei suoi racconti Truffaut ricavò La sirena del Mississippi con Catherine Deneuve. I diabolici comincia con una lettera anonima, un tradimento coniugale, un piano per far fuori il terzo incomodo. Nella nebbia della provincia francese, con il prosciutto ancora nella sua carta, poggiato sul tavolo di cucina da un marito che mangia solitario. Per procurarsi un alibi si va al caffè. Parrebbe il delitto perfetto, ma ci sono sfumature che sfuggono anche al lettore più attento e sospettoso.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 22 settembre 2014 ¶ N. 39

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Cultura e Spettacoli

Il difficile tempo dei bilanci

Al talk serve un salto di qualità Visti in tivù

Giannini vince il duello Raitre-La7, ma il problema è la formula del programma

Filmselezione Evidenza dell’ultimo

capolavoro di Hayao Miyazaki, fatica della svolta di David Cronenberg

Fabio Fumagalli **** Si alza il vento, di Hayao Miyaza-

ki, film d’animazione (Giappone 2013) È dal 2004 di Il castello errante di Howl che il 73enne giapponese Hayao Miyazaki, maestro assoluto dell’animazione cinematografica contemporanea, annuncia di essere giunto all’ultimo dei suoi capolavori. Dopo l’ennesima meraviglia di Si alza il vento non ci resta allora che sperare in ulteriori ravvisamenti; anche se 11 film in 34 anni, per un cineasta che ha tolto per sempre il disegno animato dall’universo esclusivamente infantile e dipinge ancora a mano gran parte dei propri sogni, rappresentano un’impresa inimitabile. Ispirato alla storia di Jiro Horikoshi, l’ingegnere che ha concepito Zero, l’aereo dei kamikaze di Pearl Habour, il film ha vari aspetti di quelle opere che rappresentano il culmine del percorso personale, poetico e espressivo di un artista. Personale perché l’aviazione ha esercitato da sempre una fascinazione sul ragazzino cresciuto in una famiglia di costruttori aeronautici, fuggito nel 1943 a quattro anni da Tokyo sotto le bombe degli americani. Mentalmente sofferto poiché, in una personalità dall’impegno umanista e pacifista come quello di Miyazaki, nasce immediata l’associazione fra i meravigliosi uccelli che si librano nel vento della prima parte del film e il terribile strumento di morte che finiranno per rappresentare. Non a caso lo script parte dagli Anni

Venti: prima della Grande Depressione, dell’avvento del nazismo, del coinvolgimento nipponico, per altro splendidamente accennati. Così, in una riflessione che evidentemente tocca l’autore nell’intimo come non mai, Miyazaki si sofferma sulla figura idealizzata («gli aerei non sono fatti per la guerra e gli affari, ma per sognare») di Battista Caproni, il celebre inventore italiano di macchine volanti che incanta e ispira il ragazzino. Inevitabilmente, il tono di Si alza il vento volge al melodramma, nell’universo buonista del disegno animato: il terremoto del ’32 (riprodotto in modo magistrale), incendi e tempeste di neve, la guerra, la tubercolosi della fidanzatina di Jiro. E tutto il significato poetico, dolcemente infuso nel film, finisce per nutrirsi del celebre verso tratto da Il cimitero marino di Paul Valery, cui si riferisce il titolo: Le vent se lève! Il faut tenter de vivre. Ma non è soltanto l’evidenza del coinvolgimento personale a situare il film fra le opere di assoluta compiutezza artistica. Costantemente in bilico tra il dettaglio in punta di penna e la meravigliosa paletta impressionistica degli sfondi, l’arte di Miyazaki traduce in termini poetici la scissione fra sogno e realtà. È il disegno, accompagnato da un utilizzo incredibile dei suoni (e dei silenzi) a narrare, a coinvolgere con infinita partecipazione il paesaggio giapponese, a sublimarne le alchimie cromatiche, a sfumare nella delicatezza la storia d’amore. A farsi specchio come mai prima d’ora nella lunga storia del maestro del disincanto dell’intimo.

Antonella Rainoldi

Una suggestiva scena dell’opera di Miyazaki.

**(*) Maps to the Stars, di D. Cronenberg, con Julianne Moore, Mia Wasikowska, Robert Pattinson (USA 2014) Dai peccati risaputi della Hollywood delle star al disagio esistenziale sotto le stelle dei comuni mortali. La mappa del titolo dell’ultimo film di David Cronenberg sottolinea bene il percorso di uno dei grandi del cinema moderno, un ultrasettantenne giunto all’epoca dei bilanci. Così accade in Maps to the Stars, Premio per l’Interpretazione femminile di Cannes a una genialmente stravolta Julianne Moore. È un film spezzato in due parti: una prima (che stenta ad avviarsi con chiarezza) ci ripete quanto sapevamo dai tempi della Gloria Swanson di Viale del tramonto, della Bette Davis di Eva contro Eva, del giocoso e più recente The Player di Robert Altman, del Mullholland Drive di David Lynch. E cioè, che la fabbrica dei sogni è un cimitero meschino delle illusioni, un antro di narcisismo e carrierismo impossibile da tenere a bada con ansiolitici e stimolanti, nel quale l’ipocrisia e la crudeltà superano ogni ritegno. Proprio come succede a Julianne Moore, diva della tradizione ai primi segni di sfioritura, che approfitta

della perdita del figlio della sua più giovane concorrente per sostituirla nel ruolo. Il film non è però una satira della mecca del cinema, ma la conseguenza della svolta iniziata con A Dangerous Method, dove ci si era accorti di quanto Cronenberg avesse preso gusto per un cinema affidato alla parola oltre che all’immagine. Maps to the Stars è stato girato per pochi giorni a Hollywood, che per il regista canadese è solo un contenitore. Un universo mostruoso che il cineasta filma attraverso le sapienti, matematiche trasparenze design dei suoi ambienti: uno sguardo clinico su quello che l’autore definisce «una successione di incesti: non quelli famigliari, ma dei prodotti conformi, consanguinei, fabbricati oggi a Hollywood». Cronenberg ritorna allora al proprio universo, fatto di schemi mentali, di riflessioni inquietanti sul come le turbe della mente finiscano per ripercuotersi sui corpi. Per affidarsi alle stelle vere del famoso poema Liberté di Paul Eluard che ritornano in voce off: invocazione sempre nel malessere, ma sulle tracce di una mappa dai valori più nobili e poetici. È un percorso faticoso, che nella sua intelligenza e preziosità anche il cinema di Cronenberg fatica a intraprendere.

...et Vadim créa la femme Personaggi Brigitte Bardot, sex symbol per eccellenza del Novecento, compie 80 anni

«Era una bella serata primaverile, una ragazza evidentemente più disinibita di me mi portò sulla spiaggia a notte fonda e lì mi introdusse ai misteri dell’amore». Lui è Roger Vadim, della ragazza disinibita non ci è giunto il nome. È certo però che la notte fonda era quella tra il 5 e il 6 giugno del 1944 e la spiaggia era situata in Normandia, non proprio Omaha, ma quasi! Figuratevi che prima notte pirotecnica fu mai quella… E allora cosa può fare Roger Vadim, una volta divenuto grande? Sfidare l’accusa di blasfemia intitolando Et Dieu créa la femme (Piace a troppi, in italiano; per la serie tradurre è tradire) il film destinato a creare un mito: quello di BB, Brigitte Bardot. Lei aveva già alle spalle il sogno di diventare ballerina, presto abbandonato quando le furono offerte alcune comparsate cinematografiche volte soprattutto a esaltarne la bellezza (unica, prestigiosa eccezione: Grandi manovre, ma lì il timone era in mano a René Clair), già statuaria ma ancora imberbe. Per la verità, la sigla BB fu coniata da «Elle», rivista che le dedicò la copertina quando aveva solo 14 anni (precoce, eh: sempre in quel 1958 la sua immagine apparve 29’350 volte su quotidiani e periodici!). Ma è Vadim che la trasforma puntando sulla spregiudicatezza: le labbra perennemente imbronciate e il corpo provocante, il candore «tardissimo adolescenziale» dove si mescolano

Keystone

Giovanni Medolago

spudoratezza e innocenza, un modo di offrirsi esibito con estrema naturalezza. Vadim la crea selvaggia e cinica quanto gli uomini quando si tratta di questioni amorose: è lei che sceglie e che conduce il gioco. «La presenza di BB – rifletteva Giorgio Gosetti due decenni dopo l’uscita del film nel 1956 – completa il quadro di un successo commerciale sicuramente rincorso che però è assistito da un fiuto sicuro per il cinema e per l’inquadratura. Et Dieu créa la femme non è il frutto di un’équipe o di una riflessione: è piuttosto un film d’istinto in cui tutto il meglio di Vadim non è ancora travolto dall’obbligo di superarsi incessantemente come autore licenzioso e stravagante (come tentò poi di

fare con Annette Stroyberg e Jane «Barbarella» Fonda, ndr). Il personaggio di Juliette (BB) ha forse le proprie radici nei Vinti di Antonioni, di certo influenzerà tutte le creature di sesso femminile dello schermo degli Anni ’60. BB anticipa dunque di qualche anno la rivoluzione sessuale e se ne infischia della privacy: i suoi flirt finiscono regolarmente in prima pagina; così come i resoconti dei party alla «Mandrague», la sua villa di Saint Tropez, che da sonnolento villaggio di pescatori diventa una capitale del turismo transalpino. BB è scelta quale nuova Marianna, anche perché in grado (resistendo alle sirene hollywoodiane) di portare alla Francia quanto l’esportazione di 250mila Dauphine Renault! Si accorge di lei anche Simone de Beauvoir, la quale le dedica un saggio dove scrive: «Il suo corpo di ballerina, minuto e muscoloso, è pressoché androgino. La femminilità balza esuberante dal suo busto incantevole; le sue labbra accennano un broncio puerile e nel contempo invitano a baciarla; cammina a piedi nudi e se ne infischia di come è vestita. Non porta gioielli, non si profuma, non fa uso di nessun artificio. Purtuttavia le sue movenze sono lascive, e un Santo – Dio mi perdoni! – si dannerebbe soltanto a vederla danzare!». La critica francese, invece, non è così tenera: siamo in clima Nouvelle Vague e BB ha girato con Clouzot, accanto a Jean Gabin e tanto basta a farne una colonna di quel cinéma de papa tanto aborrito

da Truffaut & Co. Si parla di «film costruiti sulla sua immagine e sul corpo, sopraffatti dalla figura dell’attrice». Due redattori dei «Cahiers du Cinéma» prendono tuttavia alla lettera quanto scrivono i loro colleghi e ne approfittano senza tanti scrupoli: Louis Malle costruisce su di lei Vie privée (nel ’62!), dove si raccontano i suoi amori e le sue avventure. J.L. Godard invece la vuole – o per meglio dire, crudamente, la usa – sul set di Le mépris, dove però ha l’opportunità di recitare accanto a Michel Piccoli e, addirittura!, Fritz Lang. Dopo una sessantina di film (in cui ha lavorato con Charles Boyer, Marcello Mastroianni, Jack Palance, Alain Delon, Jean Pierre Léaud e – tra le altre – Jane Fonda, Jeanne Moreau e Claudette Colbert), sulla soglia dei 50 anni BB dice addio al set. Non solo gli anni sono passati e ciò che negli anni ’50-’60 del secolo scorso faceva scandalo è diventato argomento da educande, ma nemmeno c’entra la sindrome della Garbo: BB vuole «semplicemente» dare un senso un po’ più profondo alla sua vita e da sex symbol si trasforma in animalista ante litteram, battendosi per la salvaguardia, in primis, dei cuccioli di foca. Rilascia interviste solo per parlare di ambiente, clima e animali in via d’estinzione. Le ultime sue uscite pubbliche le ha spese in favore dell’estrema destra della famiglia Le Pen e contro «la minaccia islamica». Chissà se François Mitterand, all’epoca presidente socialista, non si sia pentito d’averle conferito la Légion d’Honneur nel 1985…

Impossibile resistere al primo duello fra Massimo Giannini, ex vicedirettore di «Repubblica», e Giovanni Floris, transfugo RAI. E così, martedì scorso, telecomando alla mano, abbiamo assistito in parallelo a due talk: Ballarò, condotto dall’esordiente Giannini, presenti in studio molti ospiti, tra cui il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio e il capogruppo di Forza Italia alla Camera Renato Brunetta (Raitre, ore 21.05), e diMartedì, condotto da Floris, presenti in studio altrettanti ospiti, tra cui il presidente del Senato Pietro Grasso, il segretario della Conferenza Episcopale Nunzio Galantino e lo storico e presidente di RCS Libri Paolo Mieli (La7, ore 21.10). Il primo parlava della riforma del lavoro e della politica economica in senso generale, il secondo dei mille giorni di Renzi come ultima chance, ma anche delle critiche mosse dall’Europa all’Italia, unico Paese del G7 in recessione, come si evince dall’ultimo rapporto dell’Ocse. Sui temi c’è poco da dire: sono tutti interessanti, degni di essere seguiti. Per il resto, c’è ancora molto da lavorare. Ballarò è rimasto Ballarò, nonostante la defezione di Floris, e diMartedì non si chiama Ballarò ma è Ballarò, nonostante i ritocchi a fini cosmetici. Certo è difficile giudicare un talk dalla prima puntata, ma considerando le promesse di cambiamento dei due conduttori, ci saremmo aspettati qualcosa di più. Magari qualche ospite meno petulante (primo premio all’onorevole Brunetta), magari una riduzione dello spazio concesso ai sondaggisti (da una parte Alessandra Ghisleri, dall’altra Nando Pagnoncelli), magari la rinuncia a un affastellamento dei contributi in esterna (Roma e Renzi, Bari e la fiera del Levante, Milano e l’Ecofin), magari degli inviati più preparati (ma perché intervistare Thomas Piketty se poi le domande sono tanto mediocri e inconcludenti?). A Ballarò la rubrica Password di Ilvo Diamanti è stato il momento più interessante, ma è scivolato a tarda ora ed è durato poco. E qui torna l’annosa questione della formula di questi programmi. Lo ripetiamo da tempo: forse un ripensamento dell’intero impianto è la prossima vera sfida che i talk show dovranno affrontare. Comunque, complimenti a Massimo Giannini. La strada è ancora lunga ma la stoffa del conduttore c’è, e si vede tutta.

Floris battuto da Giannini: 3,74% di share contro 11,7%.


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Idee e acquisti per la settimana

shopping Stefano Scricciolo, responsabile Do it + Garden per Migros Ticino.

Il Giardino del fai da te a Losone Nuova apertura Nel Locarnese dal 25 settembre sboccerà

una nuova primavera grazie al Do it + Garden Migros ubicato in via dei Pioppi a Losone

Con Stefano Scricciolo, responsabile Do it + Garden per Migros Ticino, abbiamo avuto il privilegio di scoprire i reparti del nuovo Do it + Garden Migros di Losone, e la sorpresa è stata grande.

Ci aspettavamo un negozio come quelli che già conosciamo ed invece ci siamo trovati a compiere un autentico viaggio all’interno dei diversi marchi con cui la Migros è presente nel nostro Cantone. La formula utilizzata a Losone, infatti, racchiude, oltre all’ampio assortimento per il fai da te, anche degli «assaggi» dell’assortimento presente negli altri

negozi specializzati Migros, nella fattispecie SportXX, Micasa e Melectronics. Nel Do it + Garden troviamo il marchio Stanley per gli elettroutensili, una novità; un reparto decoupage e accessori per fare a maglia, molto ampio; il reparto per la miscelatura dei colori, una zona dedicata al legname per il vero fai-da-te, un’area interamente riservata alle campagne stagionali e, dulcis in fundo, un reparto dedicato agli impianti di allarme e videosorveglianza. Il negozio è spazioso e ben organizzato: gli occhi di Stefano Scricciolo brillano quando vede via via i reparti riempirsi delle ultime novità e prendere forma. La sezione giocattoli e pelouche è una vera calamita per i bambini, davvero ricca di novità, come i piccoli robot interattivi. Al Do it + Garden non può mancare un grande spazio dedicato al giardinaggio dove il colorato assortimento di utensili da giardino, piante e fiori spingerà la clientela a realizzare i propri desideri a contatto con la natura. / Foto e testi di Marco Cassiano


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Idee e acquisti per la settimana

Gustare il pesce consapevolmente Pesce fresco Tutto il pesce al banco

della Migros proviene da fonti sostenibili. I responsabili delle nostre pescherie vi consigliano alcune prelibatezze. Approfittate inoltre del buono sconto del 10% da ritagliare accluso (3. di 4 puntate)

Il tonno è uno dei pesci di mare più apprezzati e consumati. Di consistenza soda, povero di grassi e privo di lische, può essere preparato nei modi più disparati: arrostito, al vapore, bollito, grigliato, al forno oppure crudo, come accade nei classici piatti della tradizione giapponese quali il sushi o il sashimi. In quest’ultimi casi è consigliabile surgelare il pesce per almeno 50 ore prima del consumo alfine di escludere eventuali parassiti. «Il tonno fresco delle nostre pescherie appartiene alla varietà a pinna gialla ed è molto apprezzato per la carne dal colore rosato e il sapore delicato. Esso proviene dall’Oceano Pacifico, dove viene pescato singolarmente con la lenza», spiega Mario Cortazzo, pescivendolo presso il supermercato Migros di Serfontana. Questo tradi-

zionale metodo di pesca artigianale permette di evitare delle catture accidentali di altre specie e, di conseguenza, di mantenere il patrimonio ittico su livelli salutari. Inoltre, per i pescatori questa tecnica di pesca è una buona fonte di reddito e crea molti posti di lavoro. Per saperne di più

generazione-m.ch

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Generazione M è il simbolo dell’impegno sostenibile della Migros. La pesca con la lenza ne fornisce un prezioso contributo.

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Mario Cortazzo, responsabile della pescheria Migros di Serfontana, vi invita ad assaggiare il tonno pescato con la lenza. (Flavia Leuenberger)

Tonno e finocchi rosolati con salsa al peperone Ingredienti per 4 porzioni e privatelo dei semi. Tagliatelo a dadini. Pelate al vivo i limoni. Con un coltellino affilato estraete delicatamente gli spicchi tra le pareti divisorie. Tagliate a dadini gli spicchi. Tritate la cipolla. Mescolate il peperone con i limoni e la cipolla. Condite con la salsa di soia. 3. Rosolate le fette di finocchio nell’olio restante da entrambi i lati per circa 5 minuti. Tagliate il tonno a striscioline, adagiatele sulle fette di finocchio e irrorate con la salsa. Guarnite con i ciuffetti verdi dei finocchi e servite.

su tutto l’assortimento di pesce fresco in vendita al banco pescheria Validità: dal 23 al 27.9.2014 / Nessun importo minimo d’acquisto

Buono utilizzabile nelle filiali Migros di Locarno, Lugano (Via Pretorio), Serfontana e S. Antonino. È possibile utilizzare un solo buono sconto originale per acquisto. Non cumulabile con altri buoni sconto.

Ingredienti 400 g di filetto di tonno in un pezzo; sale; pepe; 8 cucchiai d’olio d’oliva; 600 g di finocchi; salsa di peperone; 1 peperone verde piccolo; 2 limoni; 0,5 cipolla rossa; 1 cucchiaio di salsa di soia.

Preparazione 1. Condite il tonno con sale e pepe. Rosolatelo da entrambi i lati nella metà dell’olio per ca. 2 minuti e mettetelo da parte. Tagliate i finocchi a fette sottili per il lungo e mettete da parte i ciuffetti verdi. 2. Per la salsa, dimezzate il peperone

Ricetta di:

Voglia di provare delle bontà esclusive a base di cacciagione? In tal caso nelle maggiori filiali di Migros Ticino vi attendono alcuni salumi particolarmente gustosi per degli antipasti da favola. Il salame al cinghiale si caratterizza per la sua morbidezza e dolcezza. Molto magro, è ideale servito con crostini o bruschette. Tagli selezionati di coscia di cervo sono alla base del prosciutto di cervo. Il suo aroma tipico, leggermente affumicato e finemente aromatizzato, lo rende perfetto per sfiziosi antipasti oppure secondi.

Ideale abbinato a formaggi stagionati, il salame di cervo è fatto con un impasto di carni magre, conciate accuratamente con spezie e aromi per conferirgli un deciso e intenso sapore di selvaggina. Gli amanti della carne secca non possono lasciarsi sfuggire quella di capriolo. Le parti nobili di cosce magre con l’osso, sono sapientemente aromatizzate e stagionate come detta l’antica tradizione. Infine, una vera chicca, ecco la carne secca d’alce. Tenerissima e povera di grassi, grazie al suo sapore intenso conquisterà anche i palati più esigenti e raffinati.

Salame di cinghiale 100 g Fr. 3.50 Prosciutto di cervo 100 g Fr. 5.80 Salame di cervo 100 g Fr. 3.70 Carne secca di capriolo 100 g Fr. 8.50 Carne secca d’alce 100 g Fr. 7.90 Coppa di testa di cinghiale 100 g Fr. 3.70

Flavia Leuenberger

Specialità di selvaggina


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Idee e acquisti per la settimana

Fiori per ogni ricorrenza Attualità Matrimoni, party, anniversari, giubilei, nascite, compleanni… nei reparti fiori delle maggiori filiali

Migros avete la possibilità di richiedere creazioni floreali speciali per i vostri eventi più importanti. Ne abbiamo parlato con Cristina Mercuri, responsabile del reparto fiori di Migros S. Antonino

Signora Mercuri, da quando lavora alla Migros e qual è la sua formazione?

Lavoro nel reparto fiori da 11 anni. Sono fiorista diplomata, successivamente ho seguito dei corsi specializzandomi nelle composizioni floreali per matrimoni e mazzi da sposa, dal più classico ai più originali.

Cristina Mercuri del reparto fiori di Migros S. Antonino e alcuni arrangiamenti da lei creati che valorizzano al meglio qualsiasi buffet. (Flavia Leuenberger)

Come si scelgono le composizioni più adatte alle varie ricorrenze?

Loredana Mutta

Nel nostro reparto è disponibile un «book fotografico» che può aiutare la clientela a farsi un’idea delle varie creazioni. Tuttavia, siccome ogni ricorren-

affinché si possano trovare tutti i fiori desiderati e il materiale decorativo necessario. In generale, se non ci sono grosse pretese, le ordinazioni per gli arrangiamenti possono essere fatte 3-5 giorni in anticipo. Per le richieste dell’ultimo minuto è meglio telefonare per accordarsi sul da farsi.

za è individuale, dopo aver ascoltato le richieste e i desideri del cliente, elaboro una proposta personalizzata e mirata sulle sue necessità, tenendo anche conto della disponibilità stagionale dei differenti fiori. Quali sono i tempi di consegna?

Per i matrimoni l’ideale sarebbe presentarsi qualche mese in anticipo per stilare un preventivo di massima. La conferma dovrebbe giungerci almeno tre settimane prima dell’evento

Qual è l’aspetto appassionante del suo lavoro?

Il fatto di essere a contatto con un mondo vivo che necessita di cure e

attenzioni. Possiamo giocare con i colori, le forme e i materiali decorativi per creare degli arrangiamenti unici. Inoltre apprezzo il rapporto di fiducia che si istaura con il cliente, il quale successivamente ritorna volentieri. Infine, non nascondo un pizzico d’orgoglio per essere riuscita a rendere forse più speciali le ricorrenze importanti. I suoi fiori preferiti?

mio preferito in assoluto è la ninfea perché è un fiore elegante, molto decorativo e insolito, che riesce a impreziosire qualsiasi ambiente. Vi ricordiamo che, se oltre ai fiori, desiderate organizzare un evento dalla A alla Z anche dal profilo gastronomico, vi potete rivolgere al nostro Party Service (www.migrosticino.ch/partyservice; tel. 0848 848 018).

Mi piacciono molto i fiori esotici, ma il

Antonio Allevato di Bellinzona, Emma Rigolli di Agno, Simone Devittori di Aquila, Waldo Conti di Locarno e Vittorina Gambazzi di Novaggio sono i cinque vincitori di un lingottino d’oro da 5 grammi del valore di Fr. 200.– ciascuno; premi messi in palio lo scorso mese di giugno in occasione del concorso «Trovami dentro una veneziana

Jowa». I vincitori hanno avuto la fortuna di trovare il bastoncino di plastica blu che era stato nascosto all’interno di alcuni degli amati dolci Jowa. Nella foto, la consegna dei premi ad alcuni dei vincitori da parte di Pino Parisi, gerente di Migros S. Antonino (al centro) e Loredana Sciacca della Jowa (dietro sulla destra).

Giovanni Barberis

Le veneziane Jowa premiano con l’oro


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Idee e acquisti per la settimana

La «fiera» dell’elettrodomestico

Il barometro dei prezzi

Attualità Fino al 29 settembre presso i Melectronics di S. Antonino

Informazioni sui cambiamenti di prezzo

e Agno Due vi aspetta una vera e propria fiera dell’elettrodomestico con tanto di 10% di riduzione su tutto l’assortimento

Migros riduce il prezzo di diverse minestre e salse della marca propria Bon Chef. Anche prodotti M-Budget come corn flakes e caramelle morbide, come pure mascara della marca Maybelline saranno più vantaggiosi. Rincara inve-

Consegna a domicilio gratuita, MGaranzia di 5 anni sui grandi elettrodomestici, consulenza personalizzata da parte di personale qualificato, apparecchi attuali delle migliori marche internazionali a prezzi competitivi, installazione e spiegazione a costi contenuti da parte di specialisti, apparecchio sostitutivo gratuito su alcune tipologie di articoli in caso di riparazione... sono solo alcuni dei motivi per cui molti scelgono Melectronics quando si tratta di acquistare un nuovo elettrodomestico. Ancora per tutta la settimana un ulteriore motivo per andare da Melectronics è quello proposto dai due punti vendita di S. Antonino e Agno Due, i quali vi offrono il 10% di sconto su tutti gli elettrodomestici in esposizione. La promozione è cumulabile con le azioni già in corso ed esclude le prestazioni di servizio.

Alcuni esempi:

ce la quinoa bio Max Havelaar, poiché la coltivazione in Sudamerica non riesce a soddisfare la crescente domanda sui mercati mondiali. Anche i prezzi dei dolciumi della marca Gomz aumentano: Migros deve pagare di più i fornitori.

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Bon Chef crema di verdure, 80 g 1.80 Bon Chef crema di patate, 80 g 1.70 Bon Chef vermicelli con pollo, 65 g 1.70 Bon Chef salsa alle cipolle, 30 g 2.00 Bon Chef salsa alle spugnole, 28 g 3.70 M-Budget Corn Flakes, 600 g 1.85 M-Budget caramelle morbide, 400 g 2.70 Maybelline Mascara Colossal Go Extreme very black, 1 pz. 16.90 Bio Max Havelaar Quinoa rossa, 400 g 4.90 Bio Max Havelaar Quinoa bianca, 400 g 5.40 Gomz Maxi Mix caramelle gommose, 500 g 4.30 Gomz patatine acidule, 200 g 2.20

1.60 1.50 1.50 1.70 3.40 1.80 2.55

–11,1 –11,8 –11,8 –15,0 –8,1 –2,7 –5,6

12.90 5.60 5.60 4.50 2.30

–23,7 14,3 3,7 4,7 4,5

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 22 settembre 2014 ¶ N. 39

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 22 settembre 2014 ¶ N. 39

Idee e acquisti per la settimana

noi! n o c Gioca

Terra in vista! Sessla, Terix, Wilma & compagnia bella hanno già conquistato la terraferma e l’hanno contagiata con la loro febbre del gioco. Ora si fa veramente sul serio: quattro nuovi joker, i sovrani dei clan, stanno scalpitando!

oker j e u q I cin

Wiley (compresa nello starter kit) La regina dei Wibbis raccoglie i raggi del sole e risplende d’oro.

Serton (24. 9.*) Il re degli Snips cambia colore a dipendenza della temperatura.

Tarko (1. 10.*) Il re dei Tarks, riconoscibile dal suo monocolo, scintilla d’argento.

I WIBBIS GIOCANO COSÌ

I MIVAS GIOCANO COSÌ

I TARKS GIOCANO COSÌ

Fuga subacquea

La linea di galleggiamento

Polo contro polo

Per 2 o più giocatori Tutti i giocatori iniziano con lo stesso numero di Captors. Ognuno posiziona un Captor vicino a una parete, davanti alla quale viene tracciata una linea. L’idea è quella di portare il proprio Capor verso la linea dandogli una spinta con un colpo. Vince chi riesce a portare per primo il suo Captor oltre la linea.

Per 2 o più giocatori Tutti i giocatori iniziano con lo stesso numero di Captors. Si traccia una linea sul pavimento. Da una certa distanza, ogni giocatore cerca di lanciare o di far rotolare il suo Captor il più vicino possibile alla linea. Vince chi arriva più vicino alla linea con il proprio Captor.

Per 2 o più giocatori I giocatori tracciano due linee parallele separate di 20 centimetri. Al centro si mettono due Captors in posizione statica a «V». Poi, ogni giocatore cerca di attirare la «V» dietro la propria linea usando un Captor magnetico, naturalmente senza farla cadere o toccarla con le mani.

Mila (8. 10.*) La regina dei Mivas nella sua trasparenza dai riflessi rosa.

GLI SNIPS GIOCANO COSÌ

GLI AIMOS GIOCANO COSÌ

Con la spinta dell’onda

Scambio fluido Per 1 o più giocatori In questo gioco si tiene in mano una pila di Captors e si cerca di cambiare la loro posizione, senza far cadere di mano neppure un Captor. Vince chi riesce a cambiare di posizione più Captors.

Per 2 o più giocatori Per questo gioco ci vogliono due linee parallele separate da 20 centimetri. Ogni giocatore prende in mano un Captor e ne mette un altro all’inizio della propria linea. Per vincere, i giocatori devono cercare di spingere il proprio Captor dall’altro lato usando la forza magnetica, senza scontrarsi tra loro.

Aris (15. 10.*) Il re degli Aris brilla nell’oscurità. * Nei giorni indicati riceverete in tutte le filiali Migros una bustina di joker e sticker per ogni 60 franchi di spesa. Al massimo 3 bustine per acquisto.

che i t e n g ma Forze

Debole, media, forte I Captors hanno tre diverse forze magnetiche che si possono leggere sui loro sottomarini. Sono importanti per i giochi descritti sopra e nell’album della raccolta.

Captormania da freccette Già dato un’occhiata al coperchio del box di raccolta? Quest’ultimo è anche un bersaglio da appendere. Provate a lanciare i magnetici Captors al centro del bersaglio, chi riesce ad ottenere il punteggio più alto ha vinto. Captorbox Fr. 9.80

Calamita debole Colore di riconoscimento nelle istruzioni del gioco: turchese Una forza magnetica debole l’ha, ad esempio, Wolli dei Wibbis.

Calamita media Colore di riconoscimento nelle istruzioni del gioco: arancione Una forza magnetica media l’ha, ad esempio, Alma degli Aimos.

Calamita forte Colore di riconoscimento nelle istruzioni del gioco: rosso Una forza magnetica elevata l’hanno, ad esempio, Timor dei Tarks e tutti i joker.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 22 settembre 2014 ¶ N. 39

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Idee e acquisti per la settimana

Per iniziare bene la giornata

Per alte prestazioni

I Farmer Flakes Nature fanno partire la giornata a tutta velocità. Da mischiare con il latte o uno yogurt al naturale.

Con una scodella di Farmer Flakes con frutta e noci, gli amanti del movimento fanno il pieno d’energia, prima o durante lo sport.

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Per la spinta mattutina Farmer Flakes al cioccolato, per i palati dei golosi dei fiocchi di cereali. Farmer Flakes Cioccolato, 67% di frumento integrale 500 g Fr. 4.30* invece di 5.40

Un pieno d’energia Prima dello sport o di uno sforzo mentale oppure semplicemente a colazione: i Farmer Flakes forniscono un pieno d’energia Chi fa molto, ha bisogno di molta energia, senza la quale non funziona niente. Affinché il nostro corpo ne abbia a sufficienza, dobbiamo rifornirlo quotidianamente di svariate sostanze nutritive: carboidrati, proteine, grassi, vitamine e minerali. È perciò importante che la gente particolarmente attiva, come gli sportivi o le persone che devono impegnarsi intellettualmente, ma naturalmente anche tutti coloro che vogliono semplicemente sentirsi in forma durante il giorno, si preparino allo sforzo con una ricca colazione. E questa deve ovviamente avere anche un buon sapore. L’assortimento Farmer è particolar-

mente ampio e viene costantemente arricchito di prodotti innovativi, tra cui i croccanti fiocchi di cereali, disponibili in tre gusti: al naturale, con frutta e noci, al cioccolato. Si tratta di fonti d’energia a base di frumento integrale, con 7 vitamine, ferro ed altri selezionati ingredienti. A colazione o durante la pausa a scuola, prima di ogni genere di attività sportiva o come spuntino, da oltre 30 anni Farmer propone una vasta gamma di prodotti che, oltre ai fiocchi, annovera barrette ai cereali, müesli, yogurt e biscotti. Per grandi e piccini! / Testo: Sonja Leissing, foto: Veronika Studer


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 22 settembre 2014 ¶ N. 39

Idee e acquisti per la settimana

Asco Senior, cibo secco 4 kg Fr. 8.25* invece di 11.80

Asco A’petito Manzo 5 x 10 g Fr. 1.–* invece di 1.45

Nella tazza, nel lavandino o perfino in testa: spediteci la foto più bella del vostro animale nel suo posto prediletto.

Selina Croc Menu Salmone & Trota 1 kg Fr. 3.15* invece di 4.50

In posa con Fido Partecipate al concorso fotografico indetto per celebrare la Giornata mondiale degli animali del 4 ottobre

Un cane da terapia è un animale essenzialmente solido e ben addestrato, oltre che sano. Affinché tutti possano sperimentare questo balsamico amore incondizionato, nel 1994 fu fondata l’Associazione svizzera cani da terapia di Ursula Sissener. Dopo aver completato la formazione, cani e padroni visitano case di cura, istituti per anziani e per disabili, ospedali, scuole e cliniche di riabilitazione. Queste visite, gratuite ed effettuate da volontari, si prefiggono l’obiettivo di preservare e promuovere il benessere fisico e psichico delle persone visita-

te. La Migros sostiene l’Associazione svizzera cani da terapia con parte dei proventi della sua gamma di prodotti per animali, durante la campagna per la Giornata mondiale degli animali dal 23 settembre al 6 ottobre. In occasione della Giornata mondiale degli animali del 4 ottobre siamo alla ricerca della foto più bella che raffigura il vostro animale domestico nel suo posto preferito. Con un po’ di fortuna potrete vincere un apparecchio fotografico con relativo equipaggiamento per un valore di circa 2500 franchi. In palio vi sono altri allettanti premi

come due iPad del valore di 500 franchi ciascuno e dieci carte regalo Migros del valore di 50 franchi. / HB

Per una buona causa 1 percento del fatturato dell’assortimento di prodotti per animali venduti durante il periodo della campagna, sarà devoluto alla Protezione svizzera degli animali, all’Associazione cani da terapia svizzera e alla Stazione ornitologica di Sempach.

Funziona così Caricate la foto con il vostro «animale domestico nel suo posto preferito» su www. migros.ch/it/supermercato/ giornata-degli-animali e vincete un allettante premio. Termine d’invio: 6 ottobre 2014. Note legali: la selezione dei vincitori avverrà il 7 ottobre tra tutte le foto inviate e a nostra discrezione. I vincitori saranno informati per iscritto. Non sarà tenuta alcuna corrispondenza riguardante la premiazione. Il premio non può essere sostituito né corrisposto in contanti. Inviando le fotografie, consentite la loro elaborazione e pubblicazione sulla stampa Migros (versione cartacea e online) per un periodo illimitato.

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ALTRI ALIMENTI Tutti i praliné e i Toffifee Merci, per es. Toffifee, 125 g 20x 2.10 20x PUNTI Truffes Irish Cream Frey, UTZ, edizione limitata, 159 g 20x 10.20 NOVITÀ *,** Tavolette di cioccolata Frey da 100 g in conf. da 4 o da 6, UTZ, per es. Tourist in conf. da 6, 6 x 100 g 8.15 invece di 11.70 30% Blévita mini, alla paprica, sour cream & onion o provençale, per es. alla paprica, 130 g 20x 2.75 NOVITÀ *,** Delizio Pure Origin Colombia Excelso, UTZ, 12 capsule 20x 5.60 NOVITÀ *,** Delizio Espresso Caramello, UTZ, 12 capsule 20x 5.60 NOVITÀ *,** Café Royal Single Origin India, UTZ, 10 capsule 20x 4.20 NOVITÀ *,** Caffè Royal Caramel, UTZ, 20x 10 capsule 4.20 NOVITÀ *,** Café Royal Single Origin Colombia, UTZ, 10 capsule 20x 4.20 NOVITÀ *,** Caffè solubile Caruso Oro in vasetto di vetro, UTZ, 20x 100 g 6.50 NOVITÀ *,** Tè Tencha in bustina, per es. Pretty Me, 20x 16 bustine 5.70 NOVITÀ *,** Müesli croccante Kellogg’s Special K, per es. con uvetta e mela rossa, 370 g 20x 4.60 NOVITÀ ** Miscela di frutta secca e noci M-Classic in conf. da 3, 3 x 250 g 6.60 invece di 8.25 20% Pizza Tex Mex Finizza, surgelata, 350 g 4.90 NOVITÀ *,** 20x Tortine al ratatouille M-Classic, surgelate, 4 pezzi, 20x 280 g 3.60 NOVITÀ *,** Carote Farmer’s Best, surgelate, 500 g 2.90 NOVITÀ *,** 20x Bocconcini e strisce di pollo Optigal, surgelati, per es. 20x strisce, 400 g 8.50 NOVITÀ **

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Mitico Ice Tea Zero al limone, UTZ, 1 l e 6 x 1 l, per es. 1 l 20x 1.50 NOVITÀ *,** Tutta la pasta Tradition, a partire dall’acquisto di 2 prodotti, 1.– di riduzione l’uno, per es. spätzle Tradition, 500 g 1.70 invece di 2.70 Bastoncini alle nocciole in conf. da 2, 2 x 220 g 4.25 invece di 6.40 33% Tutto l’assortimento Galbusera (escluso Mini Tra), per es. frollini al cacao, 160 g 2.30 invece di 2.90 20% Tutto l’assortimento Polli (escluso Multi-Pack), per es. olive a rondelle, 80 g 1.65 invece di 2.10 20% Rustichella, TerraSuisse, 280 g 2.30 invece di 2.70 Panettone al metro, 440 g 5.20 invece di 6.50 20% Gnocchi freschi Di Lella, prodotti in Ticino, in conf. da 500 g 1.55 invece di 2.65 40%

NEAR FOOD / NON FOOD Tutto l’assortimento di prodotti per animali Asco, Selina e M-Classic, per es. terrina Asco Senior, 4 x 300 g 3.70 invece di 5.30 30% Prodotti I am Hair in confezioni multiple, per es. shampoo Volume in conf. da 3, 3 x 250 ml 5.40 invece di 8.10 33% ** Tutto l’assortimento I am (escluse confezioni multiple), per es. crema da giorno per il viso per pelli normali, 50 ml 4.85 invece di 6.10 20% ** Tutto l’assortimento I am (escluse confezioni multiple), per es. balsamo, per mani e unghie, 100 ml 2.20 invece di 2.80 20% ** Tutto l’assortimento I am (escluse confezioni multiple), per es. strisce depilatorie di cera a freddo con aloe vera, 20 pezzi 7.20 invece di 9.– 20% ** Tutto l’assortimento I am Men (escluse confezioni multiple), per es. balsamo dopobarba, 100 ml 4.70 invece di 5.90 20% ** Tutto l’assortimento I am (escluse confezioni multiple), per es. deodorante roll-on Sensitive, 50 ml 2.– invece di 2.50 20% ** Prodotti per la doccia, saponi e deodoranti I am in confezioni multiple, per es. docciaschiuma Lotus & Oil in conf. da 3, 3 x 250 ml 4.40 invece di 6.60 33% ** Tutto l’assortimento I am Natural Cosmetics, per es. shampoo Repair & Shine, 250 ml 3.90 invece di 4.90 20% ** Prodotti I am Natural Cosmetics in confezioni multiple, per es. balsamo per le mani e le unghie 2 in 1 alla calendula e al burro di mango in conf. da 2, 2 x 75 ml 6.45 invece di 8.60 25% ** Tutto l’assortimento Pedic (escluse confezioni multiple), per es. deodorante spray per piedi, 150 ml 3.90 20x PUNTI ** 20x Diversi slip Lifestyle Ellen Amber in confezione multipla, per es. slip maxi in conf. da 5, bianco 12.90 **

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Tortine al ratatouille M-Classic surgelate, 4 pezzi, 280 g

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Pizza Tex Mex Finizza surgelata, 350 g

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Panini di Sils con formaggio 200 g

Blévita mini alla paprica, sour cream & onion o provençale, per es. alla paprica, 130 g

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Idee e acquisti per la settimana

Una colazione «fatta a mano» Per fare la treccia ci vuole molto lavoro manuale. La macchina per le trecce non è ancora stata inventata

Venerdì e sabato, nelle 126 panetterie della casa Migros è più che mai tempo di trecce. Anche a Glarona, dove Anton Niedermann, con tre o quattro altri panettieri, in un fine settimana prepara più di 1000 trecce. «Per la pasta utilizziamo farina, lievito, acqua, sale e naturalmente burro. Poi spennelliamo la treccia con dell’uovo sbattuto», spiega Niedermann. La farina che usiamo è farina IP-Suisse, che si riconosce sul sacchetto del pane dal marchio TerraSuisse. Una macchina provvede a preporzionare la pasta. I panettieri la spianano poi sulla lunghezza giusta. Perché qui sembra tutto così facile, mentre a casa è una vera lotta, perché la dose di pasta non vuol saperne di allungarsi? «Spesso dipende dal fatto che la pasta non è stata impastata a sufficienza», spiega Niedermann. Nella panetteria, è una macchina che provvede a impastare. A casa serve invece forza e resistenza. Quella di intrecciare è invece un’operazione che viene effettuata a mano, in quanto non esistono ancora macchine intrecciatrici. L’operazione dura da sei a sette secondi per treccia. Un altro panettiere spennella un finissimo strato di uovo sulla superficie della treccia, che in seguito deve riposare. Poco prima di infornarla, il panettiere la spalma poi con un altro sottile strato di uovo. «È quello che la rende perfettamente lucida. Un solo strato non la farebbe brillare così bene», dice Niedermann. Quando le trecce lasciano il forno diffondendo tutt’intorno un irresistibile profumo, anche il panettiere fatica a resistere. / CS

Anton Niedermann mostra con fierezza le trecce al burro fresche, che contengono circa il 7 per cento di burro.

L’industria Migros produce numerosi prodotti Migros molto apprezzati, tra cui anche i pani della Jowa.

Marvin Zilm

TerraSuisse Treccia al burro 700 g Fr. 4.50


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Idee e acquisti per la settimana

Coppetta di vermicelles e meringhe Dessert per 4 persone Ingredienti 250 g di purea di castagne surgelata*, da scongelare prima dell’uso ½ cucchiaino di aroma di vaniglia 0,8 dl di panna** 100 g di uva nera* 8 meringhe * 8 palline piccole di gelato alla vaniglia*

Spumeggiante dolcezza

Preparazione Mescolate la purea di castagne con l’aroma di vaniglia e 2 cucchiai di panna. Trasferite l’impasto nell’apposita pressa per vermicelles. Montate la panna rimasta ben ferma. Dimezzate gli acini d’uva. Sbriciolate grossolanamente 6 meringhe e distribuitele nelle coppette. Servite 2 palline di gelato a testa sulle meringhe. Schiacciate la purea di marroni sul gelato. Guarnite con la panna montata. Sbriciolate le meringhe rimaste, distribuitele con l’uva sulla panna e servite.

Con la crema al caramello o con i classici vermicelli, le delicate Bio Meringhe fanno gola a tutti

Tempo di preparazione ca. 15 minuti.

È uno dei dessert più popolari della Svizzera, questo leggero dolce fatto di bianco d’uovo e zucchero, poi essiccato in forno a 80 gradi. Vari gli abbinamenti possibili: le meringhe si sposano superbamente con crema o panna montata, frutta o gelato. Nel canton Friburgo è tradizione ricoprirle abbondantemente di doppia panna della Gruyère. Contrariamente al passato, oggi le meringhe vengono fatte a macchina, ma questo non ha alcun influsso sul gusto di questi friabili dolcetti. Quel che conta non è come si fanno, ma la qualità degli ingredienti. Infatti, per produrre le Bio meringhe della Migros vengono utilizzate unicamente uova svizzere di produzione biologica. Le galline da cui provengono le uova, vivono

Per persona ca. 5 g di proteine, 14 g di grassi, 55 g di carboidrati, 1600 kJ/380 kcal.

Meringhe alla panna Dessert per 4 persone Ingredienti 2 dl di panna intera** 8 meringhe* 160 g di lamponi* Salsa al caramello: 75 g di zucchero* 20 g di burro* 0,6 dl di panna** 1 presa abbondante di fleur de sel

Bio è simbolo di misure severissime nella coltivazione di materie prime. La massima priorità spetta al rapporto delicato con la natura, alla naturalezza delle materie prime e dei prodotti nonché al benessere degli animali.

Preparazione 1. Per la salsa al caramello, fate caramellare lo zucchero in una padella finché assume una colorazione dorata. Togliete la padella dal fuoco. Aggiungete il burro, la panna e il sale e mescolate. Versate la salsa al caramello in una scodellina e lasciate raffreddare. 2. Al momento di servire, montate la panna ben ferma. Servitela con le meringhe e i lamponi. Irrorate il dessert con la salsa al caramello e servite.

in strutture molto ampie con sufficiente spazio per razzolare all’aperto. E sono nutrite con mangime equilibrato, non geneticamente modificato. In tal modo si garantisce un buon allevamento, che assicura il benessere degli animali. Un benessere che alla fine si ripercuote sulla qualità delle uova. Ciò che rappresenta una condizione essenziale per la produzione delle meringhe biologiche svizzere. / Heidi Bacchilega Parte di

Tempo di preparazione ca. 15 minuti + raffreddamento. Per persona ca. 3 g di proteine, 27 g di grassi, 39 g di carboidrati, 1750 kJ/420 kcal.

* In vendita come prodotto bio ** In vendita come prodotto regionale bio

Generazione M è il programma della Migros a favore della sostenibilità, al quale anche il Bio apporta un prezioso contributo.

Gusci di meringa bio*, interi 110 g Fr. 4.– * Nelle maggiori filiali

Ricetta

Max Havelaar Zucchero di canna bio 600 g Fr. 2.30

Zucchero fino cristallizzato bio* 1 kg Fr. 2.15

Lamponi bio*, non zuccherati, surgelati 300 g Fr. 4.35 Gelato vaniglia bio 1000 ml Fr. 8.50

Purea di castagne bio, surgelata 250 g Fr. 2.40

Uva Italia bio* 500 g, al prezzo del giorno


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Idee e acquisti per la settimana

Passion Joghurt Stracciatella 180 g Fr. –.90

Passion Joghurt Arancia sanguigna 180 g Fr. –.90

Passion Joghurt Bacche di bosco 180 g Fr. –.90

A ciascuno il suo yogurt preferito. Chi lo predilige fruttato gradirà sicuramente i Passion Joghurt all’arancia sanguigna o alle bacche di bosco.

Una cremosa passione

L’Industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra i quali anche gli yogurt della linea Passion Joghurt.

Foto: René Ruis, Styling: Mira Gisler

Le specialità Passion Joghurt si distinguono per la cremosa consistenza e il sapore intenso

Chi l’ha inventato? Forse gli svizzeri? No, una volta tanto non c’entriamo niente. Lo yogurt è originario della Turchia, dove rappresenta l’alimento nazionale e viene mangiato sia dolce che salato. Yogurt, infatti, è una parola turca che significa «latte fermentato». Ancora oggi molte famiglie turche lo producono in casa. In Svizzera si consumano mediamente 18 chilogrammi di yogurt all’anno a testa. Per produrlo, si scalda innanzitutto il latte a 90 gradi, poi lo si man-

tiene a questa temperatura per qualche minuto e in seguito lo si fa raffreddare a 43 gradi. Dopo il riscaldamento, si aggiungono dei fermenti lattici che trasformano il lattosio in acido lattico. Grandi pezzi di frutta e sapore intenso

A questo punto, la proteina del latte coagula, facendolo diventare denso e dunque trasformandolo in yogurt. In Svizzera il latte fermentato può essere denominato yogurt solo se ha ancora

un determinato contenuto minimo di lattobacilli vivi. Passion Joghurt, la linea di yogurt per intenditori della Migros, propone un’ampia scelta. Il sapore intenso delle varietà alla frutta dipende dall’elevata qualità dei grossi pezzi di frutta. Questi yogurt sono anche molto amati per la loro cremosa consistenza. Gli yogurt sono indicati sia per colazione che come dessert e costituiscono una delizia per chiunque abbia voglia di gustarsi qualcosa di buono. / HB


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Idee e acquisti per la settimana

Il segreto è la tostatura La Migros tosta in proprio il caffè. Infatti, è durante la torrefazione che i preziosi chicchi sviluppano tutto il loro aroma

Un chicco di caffè contiene più aromi di qualsiasi altro genere alimentare. Lo spettro delle fragranze va dal dolce, al nocciolato e al cioccolato, fino al floreale o al fruttato. Ma è solo attraverso il processo di torrefazione, ossia l’ultimo importante passo della raffinazione del chicco, che vengono rilasciati i differenti aromi. L’azienda dell’Industria Migros Delica AG di Birsfelden tosta ogni anno oltre 12 000 tonnellate di caffè verde, che arriva via nave dalle svariate le regioni di coltivazione del mondo.

Caruso Oro in chicchi 500 g Fr. 9.50

Lo specialista di caffè Gerald Kässberger: «Dopo la tostatura l’aroma è all’apice dell’intensità».

La qualità la fa la tostatura

I momenti decisivi della vita di un chicco di caffè avvengono durante la torrefazione e sono costituiti dalla giusta temperatura e dal tempismo. Il caffè grezzo, che emana un intenso odore di erba, riceve il tocco finale quando viene tostato a circa 220 gradi tra gli otto e i dodici minuti. Durante questo lasso di tempo, il colore muta dal verde al marrone scuro ed il chicco aumenta di volume rilasciando la sua fragranza. Che si tratti di caffè per l’espresso o per il filtro, in pratica tutte le miscele di caffè sono composte dalle specie Arabica e Robusta. In capsule, macinato o in grani, alla Migros chiunque trova la qualità che soddisfa il suo palato. / AW

Exquisito in chicchi* 1 kg Fr. 11.50 * 33% di sconto su tutte le confezioni da 1 kg in chicchi dal 23 al 29 settembre.

Café Royal Pure Origin Colombia 10 capsule Fr. 4.20

verde

tostato

verde

Delizio Limited Edition Hawaii Maui world’s finest coffees 12 capsule Fr. 9.80

tostato

Chicco di Arabica

Chicco di Robusta

Coltivazione Cresce tra i 600 e i 1800 metri di quota, con temperature tra 15 e 25° C. Il Brasile è il maggior esportatore mondiale di caffè Arabica.

Coltivazione Cresce fino a 600 m di quota con temperature tra 20 e 30 °C. Il principale esportatore di Robusta è il Vietnam.

Gusto Largo spettro di aromi, più acido, meno amaro, ha una schiuma più chiara. Sapore fruttato.

Gusto Il caffè Robusta è meno dolce e può avere un gusto amaro, con un forte e lungo retrogusto. Contiene più caffeina dell’Arabica.

L’Industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra i quali i caffè Delica.


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Idee e acquisti per la settimana

La dolce pausa I Choc Midor apportano varietà alla pausa caffè grazie a cioccolato bianco e nocciole Una bella pausa caffè fa bene al palato, ma anche alla mente. È un momento in cui ci si prende una mini vacanza dal trantran quotidiano. E con un dolcetto al cioccolato il godimento è davvero totale. Infatti, molti degli aromi che si trovano in un chicco di caffè si celano anche in un chicco di cacao. Il sapore, però, può sprigionarsi completamente solo se la lavorazione di questa pregiata materia prima è stata effettuata con grande cura. E così, per i pasticcini della linea Choc Midor viene utilizzata solo la più fine cioccolata svizzera. Il suo cacao, certificato UTZ, proviene unicamente da coltivazioni sostenibili dal profilo sociale e ambientale. Ormai da diversi anni le specialità Choc Midor sono molto popolari tra grandi e piccini. Adesso, per Midor è giunto il tempo di ampliare l’assortimento con nuovi gusti. La star del momento nel regno dei dolci si chiama Bianca: una delicata cialda con un cremoso ripieno di nocciole, rivestita di cioccolato bianco a sua volta cosparso di scaglie di nocciola. Naturalmente, come tutti gli altri prodotti di pasticceria, pure questi squisiti biscottini sprigionano tutto il loro gusto anche senza un caffè. / JV

Un elegante portadolci ricolmo di pasticcini Choc Midor.

Choc Midor Bianca 100 g Fr. 3.10 Nelle maggiori filiali Migros

Choc Midor Rocher 100 g Fr. 3.10

Choc Midor Rondo 100 g Fr. 3.10

Choc Midor Carré 100 g Fr. 3.10

L’Industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui anche la linea Choc Midor.


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Idee e acquisti per la settimana

Livelli di durezza

0–7 °fH molto dolce 7–15 °fH dolce

15–25 °fH acqua non dura 25–32 °fH mediamente dura

Con un addolcitore dell’acqua, il tamburo della lavatrice sembra nuovo anche dopo anni.

32–42 °fH dura >42 °fH molto dura

Il bucato in totale dolcezza

Illustrazione: Konrad Beck, Foto: Istock

Il calcare dell’acqua, quando viene riscaldato, può danneggiare le lavatrici. Per evitarlo, Total propone un nuovo addolcitore dell’acqua

Secondo la Legge federale sulle derrate alimentari, in Svizzera l’acqua viene classificata secondo sei livelli di durezza. Oltre alle cifre espresse in millimoli per litro (concentrazione di calcio e magnesio in un litro d’acqua) si utilizzano correntemente i gradi di durezza francesi (°fH). Da noi l’acqua è dolce soltanto nelle Prealpi, nelle Alpi e sul versante alpino meridionale, mentre nel Giura, Uri e nei Grigioni è classificata non dura, infine sull’Altopiano – Berna, Argovia e Romandia – la gradazione va da dura a molto dura. Un’acqua calcarea che ha una durezza maggiore di 15 °fH causa problemi a molti elettrodomestici e può perfino arrecare danni, che però si possono evitare. Non appena viene riscaldata, l’acqua dura riduce l’efficacia dei detersivi. E causa incrostazioni calcaree sugli elementi che si riscaldamento,

sul tamburo e su altri importanti componenti delle lavatrici. L’acqua dura è anche una delle cause principali dei residui di detersivo, che lasciano odori sgradevoli sui vestiti e rendono ruvidi i tessuti. Per le regioni con un’acqua che va da mediamente dura a dura, si consiglia di aggiungere al detersivo un addolcitore dell’acqua. A tale scopo, Total ha inserito nel suo assortimento un nuovo addolcitore – in pastiglie, polvere o liquido – che può essere aggiunto ad ogni lavaggio, in dosi che dipendono dal livello di durezza. Gli agenti contenuti negli addolcitori si legano al calcio impedendogli di solidificare e proteggendo così tutti i componenti essenziali della macchina. Inoltre, c’è bisogno di meno detersivo, perché basta quello indicato per le regioni con un basso livello di durezza dell’acqua. / SL

Total Addolcitore d’acqua in pastiglie, 45 pezzi 720 g Fr. 14.70

Total Addolcitore d’acqua in polvere, per 70 lavaggi 1,5 kg Fr. 14.70

Total Addolcitore d’acqua gel liquido, per 30 lavaggi 1,5 l Fr. 12.80

L’Industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra i quali anche gli addolcitori dell’acqua di Total.


E T n E N A M R E P O S S A B I R

. I Z Z E R P DEI 2 0 14 . 9 . 2 2 L A D VAL I Do

- 11,1 %

RIBASSO PE

R M AN E N T E

1.60 finora 1.80 Crema di verdure Bon Chef 80 g

- 11,8 %

R M AN E N T E RIBASSO PE

1.50 finora 1.70 Crema di patate Bon Chef 80 g

- 11,8 %

R M AN RIBASSO PE

- 8,1 %

RIBASSO PE

R M AN E N T E

- 15 %

RIBASSO PE

R M AN E N T E

3.40 finora 3.70

1.70 finora 2.–

Salsa spugnole Bon Chef 28 g

Salsa alle cipolle Bon Chef 30 g

OGNI GIORNO LA MIGROS RINNOVA L’IMPEGNO NEI CONFRONTI DELLA SUA CLIENTELA E PER QUESTO HA DECISO DI ABBASSARE IL PREZZO DI DIVERSE ZUPPE E SALSE IN POLVERE BON CHEF.

E N TE

1.50 finora 1.70 Vermicelli con pollo Bon Chef 65 g


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Idee e acquisti per la settimana

La freschezza addosso Nella vita di tutti i giorni ci si imbatte spesso in odori sgradevoli che poi impregnano i vestiti, come il sudore, il fumo o le esalazioni della cucina. È quindi importante procedere in modo efficace contro le molecole degli odori. I principi attivi di Yvette Fibre Fresh sono stati sviluppati appositamente: neutralizzano gli odori e profumano a lungo sui vestiti. Grazie a sostanze che proteggono le fibre, i vostri capi preferiti mantengono la forma. Il neutralizzatore di odori Fibre Fresh è testato dermatologicamente, è facilmente biodegradabile ed è privo di additivi sbiancanti o sbiancanti ottici.

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Pops di pollo Optigal surgelati, 300 g

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20% 1.85 invece di 2.35 Arrosto collo di maiale, TerraSuisse Svizzera, imballato, per 100 g

40% 1.35 invece di 2.25 Sulle costolette di maiale, TerraSuisse per es. costolette di maiale magre, Svizzera imballate, per 100 g

20% 6.40 invece di 8.– Filetto di vitello, TerraSuisse Svizzera, al banco a servizio, per 100 g

7.90 Carne secca di alce prodotta in Italia, al banco a servizio, per 100 g

30% 45% 1.90 invece di 3.50

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Pâté ticinese Svizzera, al banco a servizio, per 100 g

In vendita nei maggiori supermercati di Migros Ticino. OFFERTE VALIDE DAL 23.9 AL 29.9.2014, FINO AD ESAURIMENTO DELLO STOCK.


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