Azione 38 del 15 settembre 2014

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXVII 15 settembre 2014

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Azione 38

Società e Territorio Fare filosofia con i bambini per saper accogliere le loro domande e dare valore al dialogo

Ambiente e Benessere Piedi che portano lontano: Alberto Benigna ci spiega l’importanza della loro cura e terapia

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Politica e Economia Chi è l’Isis che costringe Obama a rimettere piede in Mesopotamia?

Cultura e Spettacoli La grande diva italiana Sophia Loren compie ottant’anni

pagina 15

pagina 3

pagine 25 e 27

di Simona Sala pagina 37

p.s.72productions

Molto più di una bettola

pagina 35

Risucchiati nel caos di Peter Schiesser Come può succedere che un presidente (americano) che ha tanto desiderato la pace debba prepararsi alla guerra? Un presidente, si noti bene, che ha speso molte energie per porre termine agli interventi armati in Iraq e Afghanistan voluti dal suo predecessore, che aveva teso la mano al mondo islamico (moderato) con un discorso senza precedenti al Cairo, nel giugno del 2009. Forse la risposta sta nel fatto che Obama non è stato in grado di imporre la pace, o che ha creduto di poterla evocare semplicemente con la forza delle parole (con il cosiddetto soft power) anziché difenderla con le armi. Ed ora, eccolo qua, alla vigilia del 13.esimo anniversario dell’11 settembre, annunciare una guerra contro lo Stato islamico del sedicente califfo al-Baghdadi. Una guerra dai contorni ancora poco definiti, complessa, e che verosimilmente dovrà essere portata a termine dal suo successore. Barack Obama ha promesso di non inviare truppe americane in Medio Oriente, al di là di qualche migliaio di soldati appartenenti a corpi speciali con il compito assistere gli iracheni che combattono l’Isis. Vi sarà una massiccia campagna di bombardamenti aerei, nel quadro di una

vasta alleanza contro il Califfato, benché oggi non sia del tutto chiaro da quali Paesi sarà composta (e quali compiti avranno). Basterà? I motivi per essere scettici sono molteplici (vedi Lucio Caracciolo a pagina 25). Da un lato, il presidente americano non gode più di grande credibilità nel mondo arabo: non solo non ha tradotto in atti o strategie concrete la volontà espressa al Cairo di contribuire a pacificare e sviluppare il Medio Oriente e il mondo islamico, ma ha pure perso la faccia quando un anno fa ha rinunciato a intervenire in Siria dopo che il regime di Assad aveva superato la «linea rossa» impiegando armi chimiche contro la popolazione (benché resti controverso se gli attacchi chimici siano stati opera del regime o di forze ribelli). La sua parola oggi vale quindi ancora meno di ieri. Dall’altro lato, contro l’Isis, gli americani si trovano in compagnia di loro nemici storici e di alleati poco affidabili: gli ayatollah iraniani, il siriano Assad, quell’Arabia Saudita dove fondamentalisti islamici di ogni specie trovano sostegno finanziario, ideologico, e uomini volonterosi ad immolarsi per l’Islam (wahabita, la corrente radicale che ha ispirato al Qaeda e i suoi eredi), una Turchia filo-islamica che fino a ieri ha sostenuto l’Isis in funzione anti-Assad, un Iraq diviso in fazioni etnico-religiose (sunniti, sciiti, curdi, cristiani, yazidi...). Una

ridda di attori che perseguono una propria agenda geo-politica. Lo Stato islamico rappresenta la «minaccia perfetta», in virtù di stragi, deportazioni, decapitazioni di chiunque non si pieghi al suo potere, e del rischio che le migliaia di cittadini affluiti dall’Occidente per combattere nelle sue fila un giorno tornino a casa e lancino campagne terroristiche. Obama può contare sull’appoggio dell’opinione pubblica americana, poiché la ben mediatizzata natura sanguinaria rende l’Isis la perfetta incarnazione del male, mentre l’America può calarsi ancora una volta nel ruolo di «potenza del bene». Ma anche qui sta un grosso equivoco: sono davvero meno intolleranti e sanguinarie le milizie sciite che in Iraq combattono lo Stato islamico, come pure molti oppositori di Assad in Siria, a loro volta accusati di compiere stragi di innocenti? E a ben guardare, l’intolleranza violenta dell’Isis non affonda le sue radici «culturali» proprio nel wahabismo saudita, dove le decapitazioni sono previste dalla legge, come succede nel Califfato? Con simili alleati non si arriva lontano in una lotta del «bene» contro il «male». Si rischia piuttosto di giustificare dei regimi e dei despoti che in comune con il Califfato hanno la ferrea volontà di sottomettere con più o meno violenza i propri cittadini.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 15 settembre 2014 ¶ N. 38

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Attualità Migros

M Una nuova sede per Bellinzona Scuola Club Migros Ticino È stata inaugurata venerdì scorso a Bellinzona: alla cerimonia sono intervenuti

il Consigliere di Stato Manuele Bertoli, il vicesindaco di Bellinzona, Mauro Tettamanti, la storica dell’arte Simona Martinoli e il direttore della Cooperativa Migros Ticino, Lorenzo Emma

Completamente ristrutturata, la nuova sede è posta su due piani e comprende una decina di aule polivalenti, un’aula di informatica, due palestre, un atelier e una cucina. Nello spazioso atrio di accoglienza è stata posta l’installazione permanente dell’artista Mariapia Borgnini: un suggestivo percorso in immagini che rimanda alla metafora dell’apprendimento inteso come viaggio di scoperta e di arricchimento. L’opera di Kunst am Bau è stata realizzata per evidenziare il legame che unisce formazione e cultura, due ambiti sostenuti da Migros Ticino con i fondi destinati alla promozione in ambito culturale, sociale ed economico (Percento culturale). Oltre che centro di formazione, la nuova sede vuole poter essere un luogo d’incontro, in grado di accogliere anche piccoli eventi culturali. Situato nel cuore della città, il nuovo centro di formazione è dotato di infrastrutture di nuovissima concezione e si articola in due aree distinte. Il primo piano è riserva-

Gli spazi per il Fitness hanno la vista su Castelgrande.

Un particolare dell'installazione di Maria Pia Borgnini.

to ai corsi di lingue, informatica e formazione professionale, mentre al piano superiore trovano posto ampi spazi per i corsi di fitness con vista su Castelgrande, l’atelier e una moderna e funzionale cucina. Una sede moderna e accogliente, in grado di rispondere a un’utenza con aspettative diverse: da un lato l’esigenza di migliorare le proprie competenze e acquisire nuovi saperi, dall’altro il desiderio di fare movimento, promuovere il proprio benessere o dedicarsi a un’attività creativa.

La Scuola Club è presente a Bellinzona da ben 57 anni e Migros Ticino ha deciso di destinare nuovamente alla scuola gli spazi in Piazza Simen, per continuare a offrire ai bellinzonesi un luogo di formazione, ma anche un’opportunità concreta di aggregazione situato in pieno centro città. Questo è infatti lo spirito che ha sempre animato l’attività della scuola – una vera e propria «community» ante litteram, dove si incontrano ogni anno diverse migliaia di partecipanti ai corsi e una cinquantina di docenti.

Come già avvenuto in occasione della ristrutturazione delle sedi di Locarno e di Lugano della Scuola Club, nell’edificio è stato inserita un’opera di Kunst am Bau. L’intervento artistico, realizzato da Mariapia Borgnini è composto da 64 formelle di vetro: cartoline in trasparenza che lasciano indovinare immagini che, una volta avvicinate, diventano forma astratta e puro colore. Rispetto alle opere d’arte conservate nei musei, che attirano in genere solo gli estimatori, le opere di Kunst am Bau sono pensate per confrontarsi

costantemente con un pubblico vasto ed eterogeneo, come quello che anima quotidianamente gli spazi della scuola. La presenza di un’opera d’arte di questo genere è stata voluta per sottolineare l’impegno di Migros Ticino, un’azienda che da oltre 50 anni promuove attivamente sia la formazione, sia la cultura e gli artisti della Svizzera italiana. I festeggiamenti per l’apertura della nuova sede di Bellinzona continueranno il primo sabato di ottobre con una giornata di porte aperte.

La terza riunione del Consiglio di cooperativa Migros Ticino L’incontro si è tenuto il 9 settembre scorso

a S. Antonino; al termine sono stati assegnati i contributi che la Commissione culturale del CC ha devoluto ad associazioni attive nella Svizzera italiana nel 2014

Sono quattro ogni anno le sedute in agenda per il Consiglio di cooperativa di Migros Ticino. Quella autunnale ha avuto luogo la scorsa settimana a S. Antonino, sotto la direzione del suo presidente Giuseppe Cassina. Tra gli oratori della giornata Luigi Pedrocchi, direttore di Mibelle Group, che ha illustrato le attività dell’azienda. L’industria Migros è attiva in Svizzera a Buchs (AG) nella produzione di prodotti per la cura del corpo e per l’igiene orale, e a Frenkendorf (BL), dove fabbrica detersivi per il bucato e la cura delle stoviglie, oltre che margarina e grassi alimentari. Le aziende Mibelle Group realizzano per Migros numerosi prodotti di qualità di marche affermate sul merca-

to (Candida, I am, Sanissa, Total e Zoé giusto per citarne alcune), ma sono altresì attive sul mercato internazionale nella produzione di marchi propri negli ambiti Personal Care, Home Care e Nutrition. In particolare per quel che riguarda la cura del corpo, Mibelle è inoltre specializzata nella ricerca e nello sviluppo di sostanze attive per l’uso cosmetico e gode, a livello mondiale, di una straordinaria reputazione, che la porta al terzo posto sul mercato europeo dei produttori di marchi propri. Al termine della seduta ha poi avuto luogo l’assegnazione dei contributi concessi nel 2014 dalla Commissione culturale del Consiglio di cooperativa di Migros Ticino a tre associazioni atti-

ve nella Svizzera italiana in ambito culturale e sociale: ■ la Fondazione atelier Genucchi di Castro, con un contributo di 8000 franchi. La fondazione intende ristrutturare l’atelier dello scultore Giovanni Genucchi, affinché le sue opere possano essere esposte e apprezzate nel luogo dove sono state create; ■ l’Associazione pro restauro Sacro Monte Madonna del Sasso di Locarno, con un contributo di 7000 franchi destinato alla catalogazione del fondo librario (14’000 volumi appartenenti ai Capuccini) della Biblioteca Madonna del Sasso; ■ l’Associazione pro restauro oratorio del Corpus Domini di Bellinzona, con

Azione

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Da sin.: Michele Martinoni, Giovanni Genucchi e Andrea Ghiringhelli, Fondazione Atelier Genucchi; Diego Erba, Associazione Pro Restauro Sacro Monte Madonna del Sasso; Mario Colombo, presidente Commissione culturale Migros Ticino; Giuseppe Cassina, presidente Consiglio di cooperativa Migros Ticino; Valentina Cima, architetto dello Studio Sergio Cattaneo, cui è stato affidato il progetto di ristrutturazione dell’oratorio del Corpus Domini di Bellinzona.

un contributo di 5000 franchi a sostegno del restauro di una delle tele presenti nell’edificio, attualmente oggetto di importanti interventi di conservazione e valorizzazione. Annualmente il Consiglio di cooperativa di Migros Ticino assegna

20’000 franchi a progetti e iniziative culturali e/o sociali nella Svizzera italiana, elargiti sulla base delle richieste pervenute sull’arco di un anno (termine: fine aprile) al Percento culturale Migros Ticino, Commissione culturale, via Pretorio 13, 6900 Lugano.

Tiratura 98’645 copie

Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch

Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


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Società e Territorio La natura in città Il sentiero naturalistico del San Salvatore è una bella gita a due passi dal centro di Lugano; inoltre in vetta si può visitare la mostra dedicata all’edelweiss nei manifesti turistici

Del buon uso dei social media Come è cambiato il mondo di giornali, radio e televisione dopo l’arrivo di Facebook e Twitter pagina 6

Una nave tra filosofia e tecnologia Il recupero della Concordia si presta come spunto per una riflessione sull’integrazione fra culture tecnichescientifiche e umanistiche pagina 9

pagina 5

Fare filosofia con i bambini significa di fatto essere aperti ad accogliere le loro domande, ad interrogarsi insieme a loro. (Marka)

La conoscenza passa dal dialogo Bambini e filosofia Silvio Joller spiega i benefici del fare filosofia con i bambini e i ragazzi, una pratica che aiuta

a sviluppare il pensiero critico, a rispettare il punto di vista dell’altro e a elaborare le emozioni

Elisabetta Oppo La filosofia è una disciplina che richiede un grande impegno intellettuale, ecco perché spesso si è portati a prendere le distanze da questa materia da molti considerata «ostica». Quando si parla di filosofia, infatti, il pensiero va subito a quella «alta», che si rapporta con i grandi autori, con la lettura e la meditazione. Ma è bene sottolineare che accanto alla dottrina intesa in senso stretto vi è anche una pratica filosofica accessibile a tutti, che si sviluppa partendo dal dialogo. Ecco, dunque, che la filosofia non è solo un impegno per gli adulti, non è solo oggetto di studi universitari. Anche i bambini, soprattutto le nuove generazioni, possono interrogarsi sul mondo che li circonda fin dalla più tenera età, meglio ancora se accompagnati da un adulto. I più piccoli possono avvicinarci a questa pratica già dai 4-5 anni. Fare filosofia con i bambini significa di fatto semplicemente essere aperti ad accogliere le loro domande, ad interrogarsi insieme, a cercare risposte anche ad interrogativi tutt’altro che facili. Fare filosofia con i bambini risponde, inoltre, a un’idea di conoscenza come dialogo e come cambiamento. Cono-

scenza che non è solamente tecnica. Sapere non significa accumulare nozioni, informazioni o dati, implica il saper pensare e non solo assimilare i contenuti scolastici. Conoscere vuole dire etimologicamente «nascere con», significa perciò stabilire relazioni, creare vincoli. L’idea di fare filosofia con i bambini inizia a divulgarsi a partire dagli anni Settanta quando il professore Matthew Lipman, docente di logica alla Columbia University, decide di diffondere la prassi della discussione filosofica tra i ragazzi e i bambini per accompagnarli a sviluppare quel pensiero critico che non riscontra nei suoi studenti. Con Lipman le classi di scuole materne, elementari e medie diventano delle comunità di ricerca che insieme riflettono, argomentano e cercano soluzioni a problemi. Nasce così Philosophy for Children, nota come P4C, e da allora le idee di Lipman si sono diffuse e l’esperimento della filosofia con i bambini è divenuta una buona prassi che, con modifiche e contaminazioni a seconda dell’area geografica in cui si esercita, si sta diffondendo più o meno velocemente nella nostra cultura e nelle nostre scuole. E questa pratica filosofica, a piccoli passi, sta iniziando a prendere piede anche in Ticino. A

farsene promotore è il filosofo Silvio Joller, che da circa quattro anni la sta sperimentando con bambini e ragazzi, nella Comunità socio-terapeutica per adolescenti Arco di Riva San Vitale, nel Museo cantonale d’arte di Lugano e nella Biblioteca interculturale per la prima infanzia di Molino Nuovo, oltre ad altri progetti estemporanei. «Alcuni anni fa ho constatato che in Ticino mancava una pratica di questo tipo – racconta Silvio Joller – così ho deciso di mettermi in gioco e di provare ad offrire ai bambini e agli adolescenti del territorio questa opportunità». Joller si rifà al metodo Lipman, apportando però nei suoi progetti dei contributi personali frutto della sua esperienza sul campo. «Durante gli incontri in genere parto dalla lettura di un testo, che serve da stimolo, quindi segue il momento della raccolta delle domande poste dai bambini – spiega Joller – infine, tra i quesiti se ne sceglie uno e si forma la cosiddetta Comunità di ricerca, un gruppo di bambini che cerca di dare una risposta attraverso una serie di procedure filosofiche che propone l’animatore». Si tenta in questo modo di sviluppare tre punti fondamentali della pratica filosofica: il dialogo, attraverso il quale si cer-

ca di trovare insieme una soluzione agli interrogativi; l’arte del domandare, con quesiti filosofici che non hanno piani di ambiguità; infine, rafforzare l’immaginazione e l’interpretazione applicando strumenti filosofici. Uno dei benefici che il bambino trae dal fare filosofia è quello di riuscire a sviluppare la capacità di guardare con ammirazione il punto di vista dell’altro: spesso, anche quando non nutre simpatia nei confronti del compagno, il bambino non può non ammettere pubblicamente che il punto di vista dell’altro arricchisce la sua prospettiva. È così che il pensiero attraverso il ragionare insieme si fa capacità di scegliere, di esporsi, di sostenere le ragioni di chi è lontano da noi come stile di vita, come modo di vedere e sentire le cose. Tutti aspetti che non possono non influire positivamente nella crescita del bambino, e anche nell’ambito scolastico. «A scuola il bambino trasferisce gli strumenti cognitivi, critici e di elaborazione delle emozioni – spiega ancora Silvio Joller – in sostanza la pratica filosofica diventa uno strumento pedagogico che si può applicare a varie materie, il bambino sviluppa l’attitudine a ragionarci su». Essendo questa pratica filosofica basata sul dialogo

aiuta il bambino, ma anche l’adulto, nel suo rapporto con la famiglia. «Il dialogo è democrazia – conclude Joller – attraverso il dialogo si riesce a dare buone ragioni, a mettersi d’accordo e a diventare buon cittadino». Fare filosofia con i bambini non significa avere risposte a tutte le loro domande, bensì vuole dire accoglierle come punto di partenza per costruire un percorso insieme. Aiuta ad accompagnare bambini e ragazzi a fondare le proprie radici in modo solido, a costruire il proprio orizzonte, i propri ideali, i sogni e i valori. In questo senso la filosofia li aiuta a irrobustire il pensiero e a capire che nella vita c’è qualcosa di più del giocattolo tanto pubblicizzato, o del telefonino di ultima generazione, che quello che conta davvero è qualcosa che va oltre il successo, il denaro o il mondo dello spettacolo che i media ci mostrano. E così attraverso l’esercizio del pensiero critico si impara a eliminare il superfluo e a riscoprire la vita, a imparare a viverla con profondità ed emozione pur nella sua complessità. Informazioni

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Società e Territorio

La natura a due passi dalla città Una gita per tutti Inaugurato il sentiero naturalistico del San Salvatore, un fazzoletto di natura

con vista sulla città, sul Ceresio e sulle Alpi

Elia Stampanoni Il San Salvatore, posto a 912 metri di altitudine, è una meta prediletta dai turisti, ma anche per i ticinesi vale un’escursione, una gita non troppo impegnativa e alla portata di tutti. In vetta vi è un piccolo territorio da scoprire e, da qualche mese, una nuova attrazione: il percorso naturalistico. Non sono stati creati nuovi sentieri né sono state allestite zone protette, il tragitto non fa altro che mettere in mostra quanto l’ambiente naturale può offrire, segnalando al visitatore alcune particolarità. Il cammino è di due chilometri e comincia dalla stazione di arrivo della funicolare che, in meno di quindici minuti, permette di lasciarsi alle spalle la città per immergersi nel territorio montano. Durante il viaggio, osservando il panorama che va definendosi, si può approfittare per dare uno sguardo all’opuscolo informativo. La lettura anticipata del pieghevole è di fatto consigliata per prepararsi ad esplorare il territorio con il giusto spirito naturalistico. Seguendo le frecce verdi e rosse subito ci si trova immersi in un sottobosco ricco di faggiole, quello che resta dei frutti del faggio. Le faggiole, ossia le cupole legnose ricoperte di spine che in autunno contenevano i semi dal faggio, ricoprono

il terreno e accompagnano per una buona parte della visita. Essendo una buona fonte alimentare, attirano pure varie specie animali, tra cui il fringuello, definito nell’opuscolo come il miglior cantore del bosco.

Il fiore simbolo del San Salvatore è la dafne odorosa conosciuta dai luganesi come ul fiuu dal munt Se per vedere il fringuello, la ghiandaia, il picchio, il luì, la cinciarella, la cinciallegra o altri volatili di casa sul San Salvatore occorre scegliere il periodo appropriato e dotarsi pure di un po’ di spirito d’osservazione, sicuramente non potranno sfuggire al viandante i funghi a mensola, in bella esposizione nel secondo punto del percorso. Si tratta di enormi funghi che s’insediano sul tronco di vecchi alberi secchi e permettono di decomporre il legno morto in prezioso humus. Interessante sapere come questo fungo fosse particolarmente ricercato in passato: quando non esistevano ancora i fiammiferi lo si raccoglieva per accendere i fuochi (era particolarmente adatto grazie alla sua infiammabilità). Durante la settimana Santa il fungo veniva benedetto e distribuito a ogni famiglia del villaggio. Da qui il nome «fuochi» per definire i nuclei familiari. Lasciati alle spalle i funghi a mensola ci imbattiamo subito nel terzo punto, che evidenzia le caratteristiche della roccia del San Salvatore, la Dolomia, che contribuisce a creare un clima quasi mediterraneo, dove possono vivere e sopravvivere alcune rare specie vegetali. Un esempio è l’orniello, conosciuto anche come l’albero della manna, dato che dal suo tronco, in alcune regioni meridionali, si estrae la linfa poi usata a scopi officinali e medicinali. Anche all’escursionista meno esperto non sfuggirà l’am-

Il sentiero naturalistico offre anche suggestivi punti panoramici (Elia Stampanoni)

pia gamma di erbe e alberi, comprendenti il maggiociondolo, particolarmente affascinante durante il periodo della fioritura, quando dai rami penzolano i ciondolo dorati. Il pero corvino, la roverella, il carpino nero, il corniolo, il sorbo montano e altre specie sono presentate nell’opuscolo informativo e si potranno poi cercare nella natura durante la passeggiata. Volgendo lo sguardo più in basso, nel sottobosco della faggeta non sfuggiranno le numerose rose di natale che, in inverno, quando la natura sembra dormire, sono in fiore e offrono uno spettacolo eccezionale. Il sentiero prosegue tra saliscendi e qualche scalinata, lambendo le imponenti pareti rocciose dove, tra le fessure, è impressionante come alcuni vegetali riescano a trovare le condizioni di vita,

garantendosi un appiglio e le sostanze nutritive necessarie. Sono da esempio la cinquefoglie penzola o la vedovella, presenti al Sasso del Cucu, un grande masso situato lungo il tracciato. Il fiore simbolo del San Salvatore è però la dafne odorosa, conosciuta dai luganesi anche come ul fiuu dal munt. Una specie rara, mira di razzie eccessive, causate dalla sua profumatissima fioritura. Oggi la sua raccolta è severamente vietata e il San Salvatore l’ha scelta come simbolo, utilizzandola come segno di riconoscimento e propaganda, a suffragio dell’armonia che la struttura vuole offrire ai visitatori. Il tragitto transita anche dai più importanti e sempre apprezzati punti panoramici: da un lato si può osservare il ramo del Ceresio verso la Valsolda e Porlezza, dall’altro il Pian Scairolo con

la Collina d’Oro e il Malcantone. Verso nord il Vedeggio e la Capriasca, con le montagne a cavallo tra il Sotto e il Sopraceneri, ma pure tra Italia e Svizzera. Lo spettacolo è suggestivo e con un cielo limpido si possono intravedere alcune delle grandi cime elvetiche, come il Monte Rosa con le sue cime sempre innevate. Unica nota stonata è il rumore del traffico, di quell’autostrada che sbuca dalla galleria della Collina d’Oro e che si fa sentire, solo a tratti, anche in cima al San Salvatore. Fortunatamente il frastuono si stempera appena il sentiero si dirige verso l’altro versante, facendo dimenticare le auto che corrono nel fondovalle. È il momento ideale per rituffarci nella natura che, senza la folla dei turisti in prossimità della vetta, è pure solitaria e tranquilla.

La stella alpina svetta dal San Salvatore Mostre L’edelweiss al centro della quarta esposizione dedicata ai manifesti turistici d’epoca

Gemma d’Urso È una giornata soleggiata e limpida, ideale per una salita sul San Salvatore, che ci accoglie per la nostra visita alla mostra tematica inaugurata lo scorso 28 agosto e che rimarrà in vetta per un anno. Siamo già a settembre, ma i trenini rossi sono presi d’assalto dai turisti. «Come per le altre tre esposizioni consacrate al manifesto turistico, quella che dedichiamo all’edelweiss si snoda su un percorso all’aperto, dalla stazione d’arrivo risalendo verso la cima» ci spiega Francesco Markesch, assistente del direttore Felice Pellegrini. «Abbiamo selezionato 32 manifesti d’epoca sui quali spicca l’edelweiss e che spaziano dal 1895 al 1995. Promuovono tutta la Svizzera e li abbiamo selezionati alla Biblioteca nazionale», aggiunge il signor Markesch. Così dopo le mostre dedicate al manifesto sul turismo ticinese nel 2008, agli impianti di risalita svizzeri nel 2010 e alla Svizzera, Paese dell’acqua nel 2012, quella del 2014 vuole rendere omaggio a «la minuta, candida e nobile piantina erbacea perenne dall’aspetto cespitoso che facilmente intendiamo quale fiore», si legge nel testo di presentazione dell’esposizio-

ne. «Lo spunto per la scelta del tema di quest’anno ci è venuto dall’esposizione nazionale che i giardini botanici di Ginevra e Zurigo hanno consacrato all’edelweiss due anni fa», spiega il direttore Felice Pellegrini. Originaria degli altipiani desertici dell’Asia, la stella alpina il cui termine scientifico è Leontopodium alpinum è diventata uno degli emblemi d’eccellenza della Svizzera già a partire dal XIX secolo, un simbolo mai decaduto «di cui questa mostra illustra parzialmente la portata». Tante le canzoni dedicate all’edelweiss: «in Brasile ne conosciamo una molto famosa» ci dice un turista brasiliano che ne intona alcune note. La prima locandina ad accogliere il visitatore alla sua discesa del trenino illustra un bucolico paesaggio alpino con tanto di mucche stese sui prati, un vaccaro in costume locale con un secchiello di legno colmo di latte in una mano e un mazzolino di edelweiss: «Fribourg (Suisse)» si legge nel basso della locandina. Si prosegue l’itinerario cronologico passando davanti ad un manifesto stampato per conto delle Ferrovie Stanserhorn, nel lontano 1898. Un po’ più avanti, altre edelweiss su sfondo di vallate e mon-

tagne reclamizzano il «Chemin de fer électrique Bellinzona-Mesocco». Altro miscuglio di lingue nazionali sulla locandina «Gotthard Bahn – Laghi di Como, Lugano e Maggiore» dove il tocco è dato da una bella donna degli anni 30 la cui folta capigliatura nera è adornata da una grande stella alpina. L’edelweiss in tante forme quindi, scelte nell’arco di un intero secolo per promuovere la Svizzera, le sue ferrovie, la sua fu compagnia di bandiera Swis-

sair, l’esposizione nazionale di Zurigo del 1939, ma anche più prosaicamente una marca di sigaretta oggi scomparsa, tale Mahalla. La stella alpina campeggia poi sui manifesti della cioccolata Suchard, dei 650 anni della Confederazione, del dentifricio Binaca. Ci ricorda le bellezze naturali della Gruyère, del Vallese, del Pilatus, di Pontresina, di Davos, di Adelboden, dell’Appenzello. Un edelweiss gigante su cerchio rosso annuncia la «Fête nationale 1953 pour les Suisses à l’étranger». Più avanti nel tempo, sono sempre le stelle alpine ad ornare le locandine per la «18e Fête fédérale des yodleurs» a Burgdorf nel 1981 e per il «125e anniversaire de la fanfare... Edelweiss» a Martigny nel 1985 oppure un invito ad aderire alla Lega per la protezione della natura. Il percorso chiude con il manifesto che preannuncia il «Comptoir suisse» di Losanna del 1995: raffigura una mucca svizzera travestita da star hollywoodiana con vistosi occhiali da sole, rossetto color carminio ed un edelweiss a mo’ di campanellino. «I manifesti esposti – spiegano i promotori che si sono avvalsi della consulenza tecnica ed artistica dei botanici Paolo Blendinger e Guido Maspoli, direttore del Parco botanico

delle Isole di Brissago – illustrano così l’ampio raggio d’applicazione che la stella alpina ha avuto nel tempo e come ha saputo portare l’immagine della regione alpina nel mondo. Per la sua dimensione, la sua delicatezza, ma anche per le sua capacità ad adattarsi ad un clima estremo, l’edelweiss ha saputo bene riflettere alcune delle caratteristiche più specifiche della Svizzera e della sua popolazione». La mostra, dopo la chiusura stagionale degli impianti di risalita prevista per il 2 novembre, potrà comunque essere visitata da chi affronta l’ascensione del Monte San Salvatore a piedi. Chi sale con il trenino dovrà aspettare la riapertura che avverrà poco prima di Pasqua. Come per la salita, affrontiamo la discesa in un treno stracolmo: «La mostra attira certamente tanti visitatori, ma indipendentemente da questo evento siamo comunque soddisfatti dell’andamento della stagione che finora ha fatto registrare un incremento di viaggiatori da 2 a 3% rispetto all’anno scorso. Il tempo incerto di quest’estate ha giocato in nostro favore, privilegiando la nostra offerta rispetto a quelle dei lidi e delle piscine che più di noi dipendono dalle condizioni meteo», conclude Francesco Markesch.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 15 settembre 2014 ¶ N. 38

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Società e Territorio

Una favola sulle emozioni

Il giornalismo nell’era di Facebook

Teatro Tavola

rotonda e spettacolo didattico al Foce

Informazione Una riflessione sull’impatto che internet e social media hanno su giornali,

radio e televisione

Enrico Morresi

«Non si tratta di demonizzare Facebook o Twitter: si tratta di ordinarli gerarchicamente nell’importanza che si dà loro» più tempo ed energia per approfondire, analizzare, commentare, capire...». Senza negare che attenzione debba essere prestata anche a Facebook e a Twitter – visto come persino i capi di Governo vi si buttino mentre ascoltano alla Camera i discorsi dei deputati (Renzi), o più in piccolo alcuni dei nostri consiglieri di Stato – quel che si esige ormai è una valutazione meno superficiale delle comunicazioni che passano sui social media. Pur ammettendo che, d’estate, facilmente i moscerini vengono scambiati per rondini e le rondini per aquile, lo spazio e l’importanza che i media ticinesi (stampa, radio e televisione) hanno dato agli insulti e alle minacce anonime scagliati via social media contro il presidente del Governo Manuele Bertoli dopo il suo discorso del 1. agosto a Locarno sono da ritenere eccessivi. Non si tratta di demonizzare Facebook o Twitter: si tratta di ordinarli gerarchicamente nell’importanza

Keystone

«Un terzo dei giornalisti ritiene che i social media non sono una fonte affidabile di informazione. Nonostante questo, la metà di essi afferma che i social media sono la loro principale fonte di informazione» (Impact of Social Media on News, SMING14). Concordo tuttavia con il Consiglio del pubblico della Corsi, che invita la Rsi «a vigilare con attenzione critica l’utilizzo dei messaggi veicolati tramite i cosiddetti social media, in particolare quando si tratta d’interventi anonimi: troppo dei social media sbarca sui media tradizionali» (comunicato del 26 agosto 2014). Lo constatava anche una testimonianza riferita dal Rapporto Andreoli sulle condizioni di lavoro dei giornalisti nella Svizzera italiana («Azione» del 7 luglio 2014): «Credo che il condizionamento dei social media non faccia bene alla nostra professione. Passiamo il tempo a guardare chi pubblica per primo una notizia sul sito (…) Non ci resta

che si dà loro. La libertà estrema di espressione che essi consentono, protetta dall’uso dello pseudonimo (oggi si dice: nickname), li qualifica come il livello più basso di una comunicazione autentica. L’assenza di controlli in entrata può essere un vantaggio quando si tratta di aggirare un regime politico liberticida, ma non può essere la norma della comunicazione in una società democratica. I giornali, la radio e la televisione sono tenuti a precisare sempre la fonte delle informazioni che trasmettono. Le pagine riservate alle lettere dei lettori, in genere, portano scritta la regola del nome che va dato per esteso in calce allo scritto, oppure la redazione si fa garante della sua autenticità dopo verifica delle buone ragioni dell’anonimato. I siti Internet dei media sono tenuti alla stessa regola e, in generale, da noi vi si attengono (dopo qualche sbandamento iniziale). Su Ticino Online, la sera dopo l’omicidio del giovane Tamagni a Locarno, si poteva leggere: «L’unica cosa da fare è portare i sim-

patici naturalizzati in piazza grande a Locarno e lasciarli in mano alla folla… ci pensiamo noi… a “naturalizzarli” e “inserirli” nel nostro contesto sociale» (4 febbraio 2008, postato alle 00.45, firmato: tazmaniac). Ricordo di essere intervenuto per chiedere il rispetto delle regole del Consiglio della stampa, ricevendo da un candido collega la seguente risposta: «Non posso mica star su di notte a controllar tutto». Mi pare che la situazione da allora sia migliorata. Ma il corso antisbandamento, lo si è visto nel caso Bertoli, per Facebook e Twitter non ha ancora dato frutti. Un altro punto dolente è quello del cosiddetto «diritto all’oblio». Ho ancora presente un episodio che segnò la mia esperienza di cronista, di quando lavoravo al «Corriere del Ticino». Una donna, madre di un giovane tossicodipendente trovato morto in un gabinetto pubblico di Lugano, mi citò in giudizio per avere io ricordato nella notizia che quel poveraccio una decina di anni prima aveva rapinato la gerente

di un ristorante. Non c’era – giuridicamente – diffamazione, perché il fatto era vero, ma ebbi una crisi di coscienza e ammisi di avere sbagliato a citare quel fatto. A distanza di tanti anni, il Consiglio della stampa mi diede ragione e contestò alla Rsi di aver ricordato l’accusa tremenda che gravò molti anni fa su un medico locarnese, il quale non c’entrava per nulla con un fatto nuovo che lo riguardava e di cui si dava notizia (Presa di posizione del 5 maggio 2011). Sulla sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea che restringe il ricorso ai motori di ricerca si sono letti titoli fuori luogo, segno di una riflessione poco matura sull’argomento. «Ma i giornalisti non dimenticano» titolava il «Corriere del Ticino» del 14 agosto scorso. Una salve fuori bersaglio. Nessuno sostiene che i giornalisti debbano «dimenticare» (ossia che gli archivi dei giornali debbano essere distrutti): solo si richiede un uso selettivo e prudente della memoria consegnata all’elettronica.

rigenerare, ricreare e reinventare ogni giorno. Il loro è un amore di cure e impegno costante, un sentimento che deve essere ri-generato, ri-creato e resuscitato ogni giorno. Un’attenzione che per Bauman «l’amore ripaga meravigliosamente» e riferendosi alla sua personale storia «per quanto mi riguarda (e spero sia stato così anche per Janina) posso dirle: come il vino, il sapore del nostro amore è migliorato negli anni». Così Gabe, per oltre sessant’anni, ogni venerdì, scrive e fa recapitare a Huck una cartolina d’amore come questa: «Sorridi, sorridi, perché la curva di quelle labbra mi è assai più preziosa dell’oro. Come spicchi d’arancio, schiuse in un sorriso le nostre bocche tacciono parole, eppure parlano d’amore. Per sempre, Gabe». Tanto che quando Huck si ritroverà sola e malata di Alzheimer, in una casa anziani,

aspetterà ancora le poesie d’amore di Gabe. Bauman nella sua lettura dell’amore contemporaneo è impietoso «in una cultura consumistica come la nostra, che predilige prodotti pronti per l’uso, soluzioni rapide, soddisfazioni immediate, risultati senza troppa fatica, ricette infallibili, assicurazione contro tutti i rischi e garanzie del tipo soddisfatto o rimborsato. Quello di imparare l’arte di amare è la promessa di rendere l’esperienza dell’amore simile ad altre merci, che attira e seduce sbandierando tutte queste qualità e promettendo soddisfazioni immediate e risultati senza sforzi». Sorge spontanea una domanda: chi tra i lettori scrive lettere o bigliettini d’amore a mano e li invia alla sua amata o ad un amico/a? Tra l’altro non è neanche più così semplice andare in cartoleria o in una libreria e trovare una vasta scelta di

Domani, martedì 16 settembre avrà luogo un doppio appuntamento al Teatro Foce di Lugano, e sarà un buono spunto di riflessione legato alla crescita dei bambini. Diviso in tre parti, questo incontro si aprirà con una tavola rotonda sulle emozioni e la comunicazione non violenta, a seguire un aperitivo e in conclusione lo spettacolo teatrale organizzato da CambusaTeatro che riprenderà i temi trattati nella precedente tavola rotonda. Durante la conferenza al fianco del docente e ricercatore Supsi Davide Antognazza, della pedagogista Sonia Lurati e dello psicosociologo Alessandro Silvagna interverranno gli autori dello spettacolo teatrale in modo da avere più punti di vista per poter sondare il tema nelle sue diverse sfaccettature. Lo spettacolo, intitolato Un cuore a colori, è di matrice didattica, ed è rivolto a genitori, educatori e a tutti coloro che hanno a che fare con i bambini e che li seguono nella crescita. Ha come proposito quello di promuovere il messaggio dell’ascolto delle proprie emozioni e della comunicazione non violenta, iniziando già in tenera età, in quanto, come ricordano gli organizzatori, «il fine più importante è la sana crescita del bambino come individuo, come parte di un gruppo e come adulto del domani». Lo spettacolo è frutto di una mediazione tra l’arte scenica e le teorie pedagogiche, è un momento adatto a bambini e adulti. L’ingresso è libero. Per ulteriori informazioni si può contattare il numero 078 863 99 92, oppure organizzazione@cambusateatro.com. / RED

La locandina dello spettacolo prodotto da CambusaTeatro.

La società connessa di Natascha Fioretti Una cartolina ogni venerdì

«È insito nella natura dell’amore il fatto che – come Lucano osservò duemila anni fa e Francis Bacon ripetè molti secoli dopo – esso non possa che significare il consegnarsi in ostaggio al destino», scrive Zygmunt Bauman uno dei più grandi studiosi della nostra società contemporanea nel suo libro Amore liquido (2003, Laterza). È proprio quello che succede a Pearl Huckabee (Huck) e Gabe Alexander nel romanzo di Timothy Lewis, scrittore e sceneggiatore americano; uscito in italiano per Giunti editore con il titolo Solo una volta nella vita. Una storia d’amore nata da un colpo di fulmine in pescheria quando Huck è la promessa sposa di un giovane rampollo promettente. Ma al cuor non si comanda e neanche al destino, che fa rincontrare i due giovani innamorati e li

unisce per oltre sessant’anni. L’amore liquido di Bauman, quello che lui definisce «un amore diviso tra il desiderio di emozioni e la paura del legame» neanche sfiora i protagonisti del romanzo. Piuttosto il loro è proprio quel rapporto che Bauman in una intervista al quotidiano «Repubblica» dice venire meno nella società contemporanea fatta di relazioni liquide, virtuali, effimere, nelle quali fatica, routine e rinuncia sono parole aberranti, l’idea di «invecchiare insieme ormai fuori moda, identificata con una diminuzione delle possibilità di scelta e con l’assenza di novità. Quella novità, che in una società di consumatori, è stata elevata al più alto grado della gerarchia dei valori e considerata la chiave della felicità». Per Huck e Gabe l’amore non è preconfezionato e pronto per l’uso, non è un sentimento usa e getta ma qualcosa da

biglietti originali, senza le solite scritte dozzinali. «Non si usano più» mi ha risposto qualcuno quando di recente sono entrata in una cartoleria. E i francobolli per la spedizione? In vacanza, in un piccolo, ma neanche troppo, paese della Toscana, dopo anni che non inviavo più cartoline ho deciso di scriverne una decina alle persone più care. Peccato non averle mai potute inviare perché in tutto il paese, poste incluse, non era rimasto neanche un francobollo per l’estero e questo per oltre dieci giorni. E allora che cosa ti resta da fare? Scrivi un’email o mandi un sms via whatsapp. Raggiungi comunque lo scopo ma certo perdi l’effetto poesia. Una lettera d’amore scritta a mano non è come scrivere un’email. Ma è ormai una rarità, proprio come la capacità di amare. Ma se voi siete tra quelli che ci credono ancora, leggete la storia di Huck e Gabe, vi piacerà.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 15 settembre 2014 ¶ N. 38

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Società e Territorio

La birreria Rosian di Faido

La lezione della Concordia

Archeologia industriale La tecnica bavarese

Rifessioni Oggi torna al centro dell’attenzione il tema

che conquistò il Ticino

dell’integrazione fra culture tecniche e scientifiche da un lato e umanistiche dall’altro

Massimo Negrotti

Laura Patocchi-Zweifel

Nel discutere gli atteggiamenti dei filosofi nei riguardi della tecnologia, ho già avuto modo di sottolineare, su queste stesse colonne, la loro inesorabile dedizione alle tecnologie più diffuse, quelle che noi tutti adottiamo ogni giorno, senza mai cimentarsi con quelle più complesse e rilevanti. Come esempi citavo le stanze di rianimazione, gli shuttles spaziali, i dispositivi che cercano di dare sollievo e comunicazione ai disabili e altre ancora, del tutto trascurate dai maître à penser di turno. La recente vicenda del recupero della nave da crociera Concordia, naufragata all’Isola del Giglio il 13 gennaio 2012, ci offre un ulteriore esempio di alta tecnologia e, allo stesso tempo, di totale disinteresse da parte del mondo intellettuale sempre pronto a lanciare strali sulle macchine e sui mutamenti sociali o culturali, quasi sempre visti come minacciosi, che esse inducono.

La prima privativa per la fabbricazione di birra nel cantone venne concessa dal Gran Consiglio ticinese all’airolese Felice Lombardi nel 1828, ma la produzione su scala industriale la si deve a Luigi Rosian, bavarese d’origine e faidese per domicilio che, dopo aver esercitato l’attività di agricoltore e sellaio, vede nella realizzazione di un birrificio chiare possibilità di un sicuro avvenire. Dopo aver consultato vari trattati sui diversi sistemi per il processo di fabbricazione della bevanda, edifica uno stabile lungo la strada cantonale alla periferia di Faido che oggi serve ancora da abitazione. La fabbrica al pianterreno è dotata di semplici impianti per una limitata produzione artigianale di birra destinata al consumo locale. All’inizio si ricorre a una piccola caldaia di soli 150 litri. Il luppolo occorrente viene coltivato e raccolto nelle immediate vicinanze dalle donne del paese. Per conservare la bevanda Luigi Rosian si procura del ghiaccio comperandolo d’inverno dai montanari di Dalpe che dopo aver rotto le lastre di ghiaccio del fiume Piumogna ne trasportano a valle i frammenti in capienti gerle. Con il tempo il nuovo prodotto si fa conoscere e apprezzare in tutto il cantone e con l’aumento delle richieste di birra si deve affrontare il problema dei trasporti. Le strade di allora non sono molto agibili e l’unico mezzo di trasporto è il carro di legno trainato da buoi. Alla fabbrica si annette una spaziosa rimessa e una lunga stalla per i buoi. Per incrementare la produzione Rosian costruisce un secondo stabilimento sul lato opposto della strada con tre grandi cantine sovrapposte e un’ampia sala di cottura. Alla morte di Luigi Rosian nel 1869 gli succede il figlio Emilio, esperto birraio che il padre aveva mandato in Baviera per studiare le più moderne tecniche di produzione. La concorrenza in Ticino comincia a farsi sentire e con l’inizio dei lavori del traforo del San Gottardo e la costruzione della linea ferroviaria la vendita di birra raggiunge i massimi storici. Nei numerosi cantieri aperti fra Biasca e Airolo centinaia di operai consumano la birra Rosian e la grappa di orzo. Emilio Rosian introduce molte innovazio-

Il fatto è che, per commentare l’impresa ingegneristica che ha portato prima al raddrizzamento della nave e poi al suo trasferimento a Genova, la speculazione filosofica dovrebbe fare i conti non solo con conoscenze specialistiche che essa normalmente non controlla, ma anche con una visione più generale dei rapporti dell’uomo con la natura, mediati dalla tecnologia. Un tema sul quale il mondo intellettuale crede di avere molto da dire ma su cui molto raramente capita di leggere cose di qualche rilievo, magari utili per migliorare il rapporto fra la tecnologia e la specie umana. Il recupero della Concordia ha dovuto confrontarsi con due formidabili avversari: da un lato l’enorme costruzione navale con tutte le sue proprietà fisiche, meccaniche e persino chimiche e, dall’altro, l’intimorente insieme delle interazioni fra la nave, i mezzi di recupero e l’ambiente naturale. È infatti evidente che un transatlantico è una macchina nota in tutti i suoi dettagli, in linea di principio, a coloro che l’hanno progettata, ma è anche chiaro che il suo recupero dal contesto in cui è naufragata costituisce un’impresa che richiede altre conoscenze ed altre progettazioni poiché si è di fronte ad una vera e propria «isola tecnologica» in un contesto dominato dalla realtà naturale. Non a caso, il recupero ha

richiesto tecnici ed esperti di vari Paesi che hanno collaborato per due anni alla stesura di un piano complessivo. In linea generale si è trattato di coordinare le varie competenze ingegneristiche e naturalistiche per mezzo di modelli senza alcuna o con scarse esperienze precedenti, a partire da una visione globale dell’impresa. Sono questi i momenti nei quali l’ingegneria si muove esattamente come fa la scienza, ossia attraverso vere e proprie teorie e ipotesi di lavoro generate «sul campo» e senza alcuna garanzia a priori. Ma la differenza fra tecnologia e scienza rimane in tutta la sua portata. Infatti, se in laboratorio un’ipotesi fallisce, di norma le conseguenze non sono gravi per alcuno e coinvolgono semplicemente il quadro teorico messo alla prova. Al contrario, in vicende tecnologiche come quella della Concordia, la smentita delle ipotesi e della teoria possono avere conseguenze assai pesanti non solo sul piano economico ma anche su quello umano e naturalistico. La rotazione della nave e la predisposizione del suo galleggiamento sono stati i maggiori problemi da affrontare non solo per la mole del natante ma per la conformazione del fondale e la variabilità continua delle condizioni atmosferiche e del mare stesso. In simili circostanze l’ingegneria non è chiamata solo a fare calcoli su forze, masse, inerzie, pressioni, interazioni chimiche e così via ma deve disporre di un quadro generale delle azioni da svolgere che offra la maggiore plausibilità possibile. La tecnologia, insomma, non è solo quella che, uscita dai laboratori di ricerca e sviluppo, converge nella produzione di massa di oggetti ben collaudati. Quella più affascinante,

dalla quale generalmente provengono poi conoscenze utili per le tecnologie ordinarie, è la tecnologia degli eventi unici, rari o di emergenza, come avviene per i lanci spaziali o, appunto, nei casi come quello della Concordia. Si tratta di situazioni nelle quali, non sussistendo metodiche standardizzate di intervento, il ruolo dell’invenzione tecnica torna ad essere fondamentale come ai tempi di Leonardo il quale, ovviamente, non lavorava attorno a progetti destinati ad una immediata distribuzione di massa bensì mirati a risolvere problemi circostanziati e mai affrontati o risolti prima come, per esempio, il volo, il paracadute, il trasporto sull’acqua, lo scafandro per le immersioni. Nel clima culturale del Rinascimento era largamente diffusa l’idea che tecnologia e filosofia, assieme ad altre discipline umanistiche, fossero componenti necessarie dell’attività creativa dell’artifex polytechnes ed oggi il tema dell’integrazione fra culture tecniche e scientifiche da un lato e umanistiche dall’altro si ripropone sicuramente come centrale. Ma sbaglia chi pensa che la ricongiunzione debba essere, per così dire, pilotata e governata da una sola delle parti, quella filosofica o più genericamente umanistica, come se l’altra fosse unicamente sede di mera attività materiale, ripetitiva e fredda come i numeri e la matematica di cui fa largo impiego, e caratterizzata da pratiche apprese da manuali. La vera integrazione potrà avvenire solo quando il concetto stesso di «lavoro intellettuale» sarà stato opportunamente sottoposto ad una revisione aperta che sappia liberarsi dai pregiudizi che ancora sottendono il primato di una forma di pensiero rispetto all’altra.

Bibliografia: Patocchi-Zweifel

La tecnologia che più ci affascina è quella che si occupa di eventi unici, rari o di emergenza

Un momento del recente recupero della nave da crociera Concordia. (Keystone)

ni. Quando nel 1889 Faido si dota della prima centrale elettrica di tutto il Cantone, Emilio, cofondatore della società costruttrice, sfrutta l’elettricità come sorgente di forza motrice per il funzionamento degli impianti. Inoltre fornisce la sua fabbrica di una condotta artificiale di acqua potabile con sorgente propria e sviluppa la produzione e la conservazione del ghiaccio che si può mantenere fino all’estate successiva e che la popolazione acquista per la conservazione degli alimenti. Viene eretta una lunga palizzata a est della fabbrica sulla quale durante l’inverno si fa sgocciolare acqua da una conduttura. L’acqua si congela lungo i pali formando dei blocchi che vengono frantumati e stipati nella ghiacciaia. Dalla ghiacciaia parte un sistema di sfiatatoi che si propagano in tutto l’edificio rinfrescando le cantine durante l’estate. Emilio Rosian smercia pure i cascami di malto bollito molto richiesto dagli allevatori di bovini per incrementare la produzione lattifera. Rinnova il sistema di trasporti sostituendo ai buoi i cavalli. Nel 1913 partecipa con i suoi prodotti all’Esposizione Internazionale di Genova dove gli viene assegnato il diploma d’onore e la medaglia d’oro. Infine, nell’area settentrionale a fil di strada, realizza un giardino ombreggiato con spaccio di bibite e gioco di bocce offrendo un piacevole luogo d’incontro estivo ai faidesi che ripropone l’ambiente dei Biergarten bavaresi. Il viaggiatore inglese autore di Alpi e santuari, Samuel Butler di passaggio a Faido nel 1881 annotava: «Faido è un paese antico e pittoresco. Parecchie case risalgono alla metà del XVI sec. (...). C’è una birreria che produce birra eccellente, ottima come quella di Chiavenna, e un monastero abitato da alcuni monaci». Alla morte di Emilio Rosian nel 1916 gli succede per breve tempo il figlio maggiore Luigi che si spegne nel 1920. Nel breve periodo della sua direzione acquista moderni macchinari fra cui la grande macchina per la lavatura delle bottiglie comperata in Germania. Nonostante gli sforzi per rinnovare gli impianti e i mezzi di trasporto, la forte concorrenza creatasi dopo la liberalizzazione del mercato della birra costringe la Rosian a produrre sempre meno. Nel 1972 cessa la sua attività e viene venduta alla Birra Bellinzona a sua volta assorbita dalla Eichhof. Attualmente nello stabilimento dell’antica birreria Rosian è attiva la Birreria San Gottardo SA che per ora produce la bevanda a Einsiedeln ma che avrebbe l’intenzione in futuro di produrla sul posto a Faido. Plinio Grossi, Primi in luce, Cooperativa Elettrica di Faido, 2007. Plinio Grossi, Il Ticino del primo ’800, Pregassona, 2000. 100 anni di Birra Rosian, 1852-1952. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 15 settembre 2014 ¶ N. 38

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Società e Territorio Rubriche

Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni Chi rompe paghi Ho appreso con piacere di recenti iniziative per arrestare o almeno arginare la crescente ondata di vandalismi che ha invaso i muri di edifici pubblici di graffiti e scritte deliranti; che ha diffuso l’hobby di rompere vetrate, panchine e attrezzature di uso pubblico per il solo gusto di distruggere; che ha riempito piazzali – specie in aree scolastiche – di bottiglie, cocci di vetro, immondizie assortite. Mi dico: era ora che s’intervenisse. O meglio: l’ora è un po’ tardiva, ma meglio tardi che mai. Così, al liceo di Mendrisio, che non ha più un centimetro pulito nella superficie dei muri perimetrali e assomiglia più ad un circo di clown che a una scuola, si è dato il via al clean-up day – una giornata in cui allievi e docenti (cioè, chi non ne ha colpa) si dedicano a ripulire gli spazi deturpati. A Lugano l’autorità comunale ha pure avviato un’azione per la salvaguardia

delle aree pubbliche, contro il littering. Il littering – ho appreso che il fenomeno è ora ufficialmente contrassegnato con questo termine inglese – non è altro, in banale italiano, che il lordare zone pubbliche. Ora che è battezzato in inglese, il fenomeno sarà sotto gli occhi di tutti; ma, quel che più importa, è che per i vandali contravventori sono previste multe fino a 10’000 franchi. Quest’ultima iniziativa mi sembra particolarmente ragionevole e, se sarà applicata adeguatamente, sarà probabilmente più efficace di tante campagne preventive e di sensibilizzazione. Perché? Perché una norma che non preveda sanzioni per i trasgressori non solo è inefficace, ma induce ad aumentare progressivamente le trasgressioni. Supponiamo che si sparga la voce che la polizia stradale sospenderà ogni controllo là dove sono imposti limiti di velocità: è pensabile che il numero

di trasgressioni resti anche soltanto invariato? No, ovviamente: e la stessa cosa avverrebbe se, mantenendo i controlli, fossero però abolite le multe o i ritiri della licenza di guida e la polizia si limitasse, in caso di trasgressione, a una paterna ramanzina, una sorta di dialogo pedagogico con il contravventore. Non c’è legge peggiore di quella che non viene fatta rispettare: è questa la consapevolezza che ha sempre accompagnato il buon legislatore. Ma – si dice – i vandali in genere sono giovani, e ai giovani si perdonano molte cose… E perché? I frutti avvelenati di questa indulgenza li stiamo raccogliendo da molti anni. È vero che l’adolescenza è l’età della ribellione, della rabbia facile, del gesto eroico, della sfida all’autorità, del bisogno di glorificarsi; ma queste caratteristiche dell’età non comportano che tutto le sia concesso. I giovani vanno capiti: giusto. Ma comprendere non vuol dire

permettere qualsiasi cosa. Ciò che più importa capire è che l’adolescenza è un’età di passaggio e perciò, appunto, deve passare, traghettando il giovane verso la condizione adulta di correttezza e responsabilità civile; ma perché questo passaggio avvenga è necessario che il giovane vi sia condotto, o sospinto, se necessario. Se non si trova mai confrontato con le conseguenze delle sue azioni, né mai ne fa ammenda, continuerà a cullarsi nell’illusione che ogni sfida è permessa e che la sua orgogliosa ribellione in atti vandalici ha trionfato sulla codarda massa civile. La condiscendenza verso i giovani è un’innovazione recente: il «problema giovanile», poi, è soprattutto del nostro tempo, dell’epoca del benessere. In passato, il problema era la vita nella sua interezza, non delle categorie corrispondenti alle varie fasce d’età. Nel 1944, poco dopo la liberazione di Roma, l’anziano filosofo Benedetto

Croce (aveva allora quasi ottant’anni) partecipò a una riunione di giovani liberali (a quel tempo ce n’erano molti) e tenne una Conversazione sui giovani. Disse loro che «la giovinezza è un fatto e non è un problema». Faceva un paragone con la fioritura: accade naturalmente e non dà luogo a problemi. Se si domanda cos’è la fioritura, la risposta è: la preparazione del frutto. Da questo paragone consegue che «i giovani non possono avere altro fine che di maturarsi ad uomini, di preparare il loro avvenire di uomini». Condivido la saggezza del Croce. Aggiungo solo che, perché la pianta passi dal fiore al frutto, non è inutile l’accorto intervento di un giardiniere. Così dovrebbe essere anche per i ragazzi: avrebbero bisogno di adulti che fossero bravi giardinieri. Non che ne manchino; solo che spesso si ha l’impressione che siano giardinieri solo di «giardini d’infanzia».

il sole irrompe dai varchi nelle nuvole. Intanto, la faccia d’acciaio di tre quarti, si presta alle macchie di Rorschach. Più che un parco è uno di quei parchetti da quartiere dove ci si ritrova sulle panchine. Due vecchietti chiacchierano. Prima di essere arborizzato nel 1923, il parco il cui nome ricorda il limite occidentale della città, era una piazza per il mercato. Ora che si è rannuvolato, il volto corrugato emerge un po’ di più e si catturano gli occhi stretti. Al contempo mi si cristallizza in testa l’idea di una carcassa d’auto accartocciata dopo uno schianto ad alta velocità. Se volete vedere il vero volto di Chevrolet basta entrare nel café Universal, dove ci sono alle pareti una quindicina di foto in bianco e nero, alcune a bordo del suo bolide. Gli occhi sono sempre strizzati, baffi, un che di spavaldo. Chiedo alla gerente, la signora Tina, se la scultura le piace. «No». Precisando: «prima lì c’era una maternità che stava bene». Anche Rita, seduta su una delle sei panchine

attorno al busto che ha preso il posto del bronzo dello scultore locale André Huguenin-Dumittan (1888-1975), mi risponde di «no». «Qui a nessuno piace» aggiunge. L’hanno anche rigata dietro mi dice, vado a vedere e in realtà era stata incollata una scritta ancora ben leggibile: made in china. Mi giro e proprio alle spalle di questo splendido e ardito busto in onore di Chevrolet ho un tuffo al cuore: riconosco l’elegante e sobria casa natale di Blaise Cendrars (1887-1961) – insuperabile poeta giramondo – il cui giardino dà su Rue Jardinière. Sul piedistallo, inequivocabile il segno lasciato da una pisciata; umana o di un alano, vista l’altezza. Povero Gonzenbach, geniale scultore seriamente ironico che merita il titolo di un articolo di Michael Cunningham su «La Repubblica» letto stamattina in treno a proposito del sarcofago di Ilaria del Carretto scolpito a Lucca nel 1405 da Jacopo della Quercia: Solo gli artisti possono donare la vita eterna.

della serratura: non soltanto sesso, sempre però qualcosa di pruriginoso, in grado di sollecitare le curiosità di un pubblico, oggi più che mai sospettoso nei confronti dei detentori del potere e della notorietà. Proprio così, sfruttando questa disponibilità a dubitare delle comunicazioni ufficiali, hanno ottenuto rilevanza e attendibilità le cosiddette controinformazioni, provenienti da fonti alternative e che si spacciano, con abilità dialettica, per detentrici della «verità vera». Gli esempi si sprecano. Praticamente, ogni grande avvenimento politico o scientifico o tecnologico degli ultimi decenni ha trovato interpretazioni di segno opposto: dalla sbarco sulla Luna all’11 settembre, all’uccisione di J.F. Kennedy alla morte di Diana. Per non parlare degli inquilini della Casa Bianca, sottoposti, in continuazione, alle indiscrezioni «da buco della serratura». Ultimo caso della serie, il film The Butler, ricavato dall’omonima inchiesta giornalistica, pubblicata sul «Washington Post», che si valeva delle

confidenze di un ex-maggiordomo, al servizio di ben otto presidenti, visti nell’intimità quotidiana. Insomma, pettegolezzi raccontati da un domestico che, dopo trent’anni di servizio, sfoga comprensibili malumori. Qui, appunto, sta il limite di queste memorie confidenziali. Contengono episodi che, se ridimensionano una personalità importante, alla stregua di un uomo qualsiasi, di certo, non contribuiscono a far veramente luce su segreti di Stato e accordi sotto banco. Tutt’al più, come nel caso di rubriche tipo «Dagospia», divertono. Come divertono i settimanali, sfogliati dal parrucchiere, che c’informano sulla ridda di fidanzamenti, rotture, matrimoni di vip che, beati loro, sembrano sempre in vacanza. C’è, infine, un altro aspetto ancora del pettegolezzo: se, usato bene, può diventare letteratura di qualità. Madame Bovary, in fondo, è una comune storia di corna. Ma a raccontarla, rendendola una vicenda generale ed eterna, è stato Flaubert.

Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf Il busto di Chevrolet a La Chaux-de-Fonds La Chaux-de-Fonds: un posto dal nome anomalo che volevo visitare da secoli. Sempre pensata in culo ai lupi, eppure uscendo di casa verso le otto e mezza, alle 13.58 sono alla stazione di La Chaux-de-Fonds. Sorprende subito l’avenue Léopold-Robert che assomiglia a un boulevard parigino dove gli aceri sono potati esattamente a un’altitudine di mille metri. Questa città del canton Neuchâtel – circondata da fantastiche pinete giurassiane e chiamata la «metropoli orologiera» o più familiarmente la Tchaux – è infatti considerata la città più alta d’Europa. A una passante chiedo indicazioni per il Parc de l’Ouest. Lì il tre ottobre dell’anno scorso è stato svelato il gigantesco busto in acciaio di Louis Chevrolet. Incomincio così, salendo per la strada indicata, il breve tragitto ortogonale per arrivare alla meta del viaggio. Al primo incrocio si svela tutta la bellezza straniante e magnetica dei filari di vecchie case scalcinate: dopo il

grande incendio del 1794 la città è stata ricostruita secondo una stupefacente pianta a scacchiera; un urbanismo non per niente entrato nel 2009 a far parte dei patrimoni dell’umanità dell’Unesco. All’angolo di Rue du Parc con Rue du Collège-Industriel, bagliori accecanti annunciano, un primo pomeriggio di metà settembre, il busto di Chevrolet (1002 m) a La Chaux-deFonds. Dieci tonnellate di acciaio inox tirato a lucido per la faccia stravolta di Louis-Joseph Chevrolet (18781941): pilota da corsa e co-fondatore nel 1911 a Detroit della famosa marca di automobili americana che porta ancora il suo nome orecchiabile. Mi siedo sulla panchina fuori dal café Universal, occorre una certa distanza per leggere quest’opera alta cinque metri e brillante come uno specchio. Questo volto gigante deformato è stato concepito dall’artista ginevrino Christian Gonzenbach, classe 1975, su desiderio della Chevrolet per i cento anni della

marca automobilistica. Nato qui, Chevrolet parte presto per cercare fortuna in America dove è sepolto, vicino al circuito di Indianapolis. In breve, dissolta la gloria, Louis Chevrolet torna a lavorare come meccanico nella ditta di Detroit che porta il suo nome. Due anni di lavoro per ridare lustro a questo personaggio morto nell’oblìo, assemblando i settantuno pezzi che compongono il suo volto, fuso in una fonderia di Taipei, sull’isola di Taiwan. Gonzenbach parte dall’idea di «rivoltare un busto tradizionale come un guanto». La faccia è simultaneamente presente e assente, un po’ come le facce schiaffeggiate con grazia da Francis Bacon. Stessa superficie del volto originale con un’altra topografia, alla rovescia, che sfugge e diventa paesaggio astratto riflettendo al contempo il mondo attorno di questo angolo residenziale. Gli occhiali da corsa, sulla fronte, sono forse la prima cosa concreta intercettabile. Il resto deve decantare ancora, ora che

Mode e modi di Luciana Caglio Dal buco della serratura: quali verità? Va a ruba, 200mila copie esaurite in pochi giorni, e ci si mette in lista d’attesa per la prossima ristampa. È stato un flop, le librerie che contano l’hanno boicottato. Soddisfa un giustificato bisogno di verità. È semplicemente spazzatura. Cadrà presto nel dimenticatoio. E via enumerando le contrastanti reazioni che hanno accompagnato, in Francia, l’uscita di un libro appartenente a un filone editoriale sempre produttivo e sempre discusso: quello, appunto, che racconta l’intimità di personaggi importanti, osservata, anzi rubata sbirciando dal buco della serratura. E nel mirino è finito, questa volta, François Hollande, vittima dello sguardo indiscreto della sua excompagna di vita, Valérie Trierweiler, autrice di un memoriale dai propositi sedicentemente politici, per non dire morali. Nelle sue pagine, intendeva svelare i retroscena dell’Eliseo, denunciando intrighi e inganni del potere costituito, al servizio della verità. Ma la reale motivazione è ben più

modesta, persino meschina. Si tratta, infatti, di una sorta di regolamento dei conti in una vicenda di coppia: in cui una lei tradita si vendica nei confronti di un lui infedele, facendogli pagare un alto prezzo. Rendendo di pubblico dominio abitudini e conversazioni private, si mortifica l’uomo per poi

Il libro di Valérie Trierweiler. (Keystone)

demolire il personaggio pubblico. L’operazione, tuttavia, rischia di avere un effetto boomerang. Certo, non è il miglior momento per Hollande, e neppure per via delle sue furtive uscite in motoretta e casco per recarsi dall’amante. L’opinione pubblica, e il caso Clinton insegna, è incline a perdonare questo genere di scappatelle. Con ciò, anche Valérie non miete simpatie. Tanto che il suo cognome ha subito una deformazione rivelatrice: è diventato Rottweiler. Senza dubbio, sono soprattutto affari di corna e di letto a fornire la materia prima al filone «Dal buco della serratura», che ha origini antiche. Risale, secondo gli storiografi, al 121 d.C., quando Svetonio, nel suo De vita Caesarum, rivelò l’omosessualità del condottiero: «Cesare ha sottomesso le Gallie, Nicodemo ha sottomesso Cesare», ovviamente non su un campo di battaglia. Ma, strada facendo nel corso dei secoli, si è ampliato e diversificato l’ambito d’intervento a disposizione degli utenti del buco


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Attualità Migros

Attualità Migros

M Nuove forze per Migros Ticino

Sono tornate le Tartarughe Ninja!

Tirocinio Foto di gruppo per i ragazzi che iniziano questo mese il loro percorso di formazione professionale

Anteprima Quattro eroi mutanti ci regalano 101 minuti di suspence

in vari settori di attività della Cooperativa ticinese Sono 46 i giovani la cui formazione è in corso presso la Cooperativa Migros Ticino e per 22 di loro l’apprendistato è iniziato nelle scorse settimane. Gran parte di loro (l’80 per cento) intraprende una formazione di base nei diversi settori della vendita (alimentari, economia della carne, casalinghi, tessili, sport, cosmetica, do-it, elettronica e mobili), mentre il 20 per cento nell’ambito della ristorazione (cuoco e impiegato di gastronomia standardizzata), della logistica (impiegato in logistica e conducente di autocarri), o come impiegato di commercio. Nel corso della loro formazione i giovani attivi presso Migros Ticino vengono seguiti sul posto di lavoro da un responsabile diretto appositamente formato, il quale verifica che gli obiettivi di apprendimento previsti a livello professionale vengano effettivamente raggiunti. L’azienda prevede inoltre la figura di un responsabile degli apprendisti che coordina i rapporti con la famiglia, con le scuole e con la Divisione della formazione professionale; internamente coordina invece il programma di formazione e il lavoro dei diversi responsabili diretti e organizza una serie di corsi aziendali, con l’obiettivo di ampliare le conoscenze tecniche sia in funzione degli esami finali, sia in vista di un eventuale successivo inserimento aziendale. Con un tasso di promozione a fine tirocinio che supera il 90%, un apprendistato presso la Cooperativa Migros Ticino offre ottime possibilità di successo, così come interessanti prospettive professionali. Dei 70 giovani che hanno terminato il percorso formativo di base negli ultimi 5 anni, il 70% ha infatti trovato un’occu-

TV Ogni domenica Uscirà il 18 settembre nelle sale cinematografiche ticinesi, prima che nel resto della Svizzera, il remake del film che narra le vicende delle Tartarughe Ninja. Il film è diretto da Jonathan Liebesman, lo stesso regista che, tra gli altri film, ha seguito La furia dei titani e che si ripropone in questo nuovo lavoro. In America, in soli tre giorni Tartarughe Ninja ha totalizzato un incasso di ben 65 milioni di dollari, superando ogni aspettativa della Paramount Pictures. E la notizia del successo ha convinto la casa di produzione a girare un sequel, la

cui uscita è prevista per giugno del 2016. La trama del film è tratta dall’omonima serie a fumetti, ideata nel 1984 dai disegnatori Kevin Eastman e Peter Laird, e racconta di quattro piccole tartarughe che in seguito a un incidente automobilistico sono state contaminate da liquame radioattivo defluito nelle fognature della città di New York. Gli anfibi hanno sviluppato non solo caratteristiche fisiche differenti, ma anche un intelletto pari a quello umano. Sotto la rigida supervisione del roditore Maestro Splinter, ugualmente mutato dal

liquido radioattivo, le tartarughe hanno appreso tutto ciò che sanno, arte marziale del Ninjutsu compresa. Da quello che si può definire come uno sfortunato evento nascono quattro eroi senza paura, che non si tirano mai indietro quando si tratta di fronteggiare il crimine. E come in ogni storia che si rispetti i nostri eroi hanno un nemico molto agguerrito: il cattivo Shredder, seguito dal suo fedele Clan, ha monopolizzato l’intera città di New York, prendendo il controllo su ogni cosa, dalla polizia ai politici. Sarà compito delle tartarughe Raffaello, Leonardo, Donatello e Michelangelo sventare il suo diabolico piano e riportare la quiete e la sicurezza nella città. Per farlo dovranno usare grinta e coraggio, collaborando con l’impareggiabile giornalista sempre alla ricerca dello scoop, April O’Neil, e con il suo sarcastico cameraman Vern Fenwick. In una città che ha un disperato biso-

alle 19.15 su Teleticino

gno di eroi, saranno all’altezza della situazione le quattro tartarughe ninja? Nel cast troviamo nomi come lan Ritchson, Pete Ploszek, Jeremy Howard, Noel Fisher, Megan Fox, Danny Woodburn, William Fichtner, Will Arnett e Whoopi Goldberg.

Gadget in palio per i nostri lettori In piedi (da sinistra): Victor L. (Lugano), Nitharsan A. (Radio Besso), Christopher C. (Agno), Alan G. (Biasca), Paola B. (Locarno), Alex S. (OBI S. Antonino), Adisa K. (Bellinzona), Leutrim K. (Logistica S. Antonino), Eglantina K. (Cassarate), Simone S. (Pregassona), Thiarla T. (Agno), Cristina M. (Agno), Natalia S. (Serfontana). Seduti (da sinistra): Jonas R. (Taverne), Didier P. (Centrale S. Antonino), Dario G. (Taverne), Vanessa G. (Serfontana), Klaudija L. (Arbedo Castione), Clelia S. (Micasa S. Antonino) e Michela B. (Giubiasco).

pazione in azienda. Anche le possibilità di carriera sono molto allettanti: la politica aziendale, infatti, promuove e sostiene la formazione continua, così che molti di coloro che hanno iniziato la loro carriera con un apprendistato occupano oggi posizioni di responsabilità. Le condizioni contrattuali offerte da Migros Ticino sono garantite non solo dal contratto di tirocinio, ma anche dal Con-

Un viaggio a Chilometro zero

tratto collettivo di lavoro nazionale, il quale offre prestazioni all’avanguardia, come per esempio 6 settimane di vacanza per i giovani in formazione (indipendentemente dall’età), un salario superiore alla media, oltre ad una partecipazione finanziaria che prevede il versamento di 3000 franchi nel corso di un tirocinio completo. A livello nazionale i giovani che hanno iniziato una formazione di base in

una delle oltre 60 aziende della Comunità Migros sono 1447: il numero totale di apprendisti sale così a 3650, giovani che assolvono un tirocinio in oltre 40 differenti professioni. L’impegno Migros nella formazione professionale è sfociato in una promessa nell’ambito del programma Generazione M, vale a dire offrire nei prossimi 3 anni 3300 posti di tirocinio. Le cifre più recenti attestano che

In occasione dell’uscita in Ticino il 18 settembre di Le Tartarughe Ninja disponibile anche in 3D (http://www. tartarugheninja-ilfilm.it/), la Paramount Pictures in collaborazione con Migros Ticino mette in palio:

l’obiettivo è stato di gran lunga superato. Dal 17 al 21 settembre Migros, quale maggiore azienda formatrice della Svizzera, promuove gli Swiss Skills Berna 2014, i primi campionati svizzeri delle professioni, con contributi del fondo di sostegno «Engagement Migros». Alla manifestazione saranno presenti un migliaio di giovani apprendisti, dieci dei quali in formazione in aziende della Comunità Migros.

La locandina del film. (© 2014 Paramount Pictures)

3 tagliapizza 2 auricolari 2 zaini con USB per ricarica cellulare

Regolamento: partecipazione riservata a chi non ha beneficiato di vincite in occasione di analoghi concorsi promossi da «Azione» nel corso degli scorsi mesi. Per partecipare al concorso telefona al numero 091 821 71 62 mercoledì 17 settembre dalle 10.00 alle 12.00.

Formentino, manzo, ravioli di zucca, pane, uova, prosciutto ma anche tofu, tutto a chilometro zero, ovvero prodotto e distribuito direttamente sul nostro territorio. Il nuovo format in onda ogni domenica alle 19.15 su Teleticino è un viaggio nelle aziende di casa nostra per conoscere i prodotti la storia di chi ogni giorno lavora per portare sulle nostre tavole cibo genuino e nostrano. In ogni puntata Caroline Roth e Alessandro Dadò vi accompagnano alla scoperta di due aziende e della loro produzione, dalla materia prima fino all’etichettatura. Sarà l’occasione per scoprire che a Ponte Capriasca esiste uno tra i più grandi allevamenti avicoli della Svizzera o che sul Piano di Magadino viene prodotto del tofu al 100 per cento ticinese. Dalle aziende ci sposteremo poi in cucina dove la cuoca Emma, partendo dai prodotti della puntata, presenterà gustose ricette, evidentemente a chilometro zero. La trasmissione settimanale avrà Migros Ticino quale sponsor e avrà modo di presentare anche alcuni dei fornitori locali della sua linea Nostrani del Ticino.

Buona fortuna! Chilometro zero, ogni domenica alle 19.15, su Teleticino

©2014 PARAMOUNT PICTURES

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Ambiente e Benessere Il mito del Sud Il viaggio nel Mediterraneo è stato in passato per artisti e intellettuali un’esperienza di scoperta e di liberazione pagina 16

Nel momento della separazione Una recente raccolta di firme ha cercato di sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema complesso e delicato, l’eutanasia animale

Piccola isola, grande storia Alla scoperta di Malta, meta turistica poco conosciuta ma dai pregi sorprendenti

Seguendo le magliette... Gli ultimi avvenimenti sportivi, da Federer alla Nazionale di calcio, con gli occhi sulle T shirt

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Piedi sani portano lontano Podologia Gli arti inferiori

Maria Grazia Buletti A inizio settembre ha fatto tappa a Lugano, negli spazi del Palacongressi, la campagna nazionale I piedi al centro dell’attenzione. Promossa dalla Lega svizzera contro il reumatismo in collaborazione con l’omologa Lega ticinese, la giornata di sensibilizzazione ha permesso a reumatologi, fisioterapisti e specialisti in tecniche ortopediche di mettere in luce tutti gli elementi per comprendere l’entità del benessere dei piedi. Quando i piedi sono sani, quando li trattiamo con la dovuta cura, il benessere che ne deriva si ripercuote su tutto il nostro organismo. «Come si sentono i vostri piedi nelle scarpe dopo una giornata stressante? Quante volte il vostro piede cede a livello della caviglia? Vi è mai capitato di pagare quello che sembrava “un buon affare” in un negozio di scarpe, ritrovandovi con vesciche e mal di piedi?», queste le domande messe sul piatto dalla Lega svizzera contro il reumatismo nell’opuscolo gratuito Per piedi sani (ndr: info su www.reumatismo. ch/ti). Perché spesso sono proprio le sensazioni spiacevoli ad attirare la nostra attenzione sui piedi. Eppure, anche se ce lo dimentichiamo troppo spesso, proprio loro concorrono alla salute e al benessere di tutto il nostro corpo. L’anatomia del piede è straordinaria e ci è illustrata da uno dei relatori: Alberto Benigna, fisioterapista, specializzato in terapia manuale neuromuscolo-scheletrica, attivo nello studio fisioterapico «Il Centro» di Bellinzona: «Il piede è un capolavoro di anatomia arcuato longitudinale e trasversale, costituito da 26 ossa, 32 articolazioni, 31 gruppi muscolari e 107 tendini e legamenti. Questa meraviglia merita la giusta attenzione, perché i piedi ci portano in giro per tutta la vita». È così che Benigna introduce l’importanza del benessere dei piedi esprimendo un concetto tanto ovvio quanto sottovalutato. E continua: «Nei piedi abbiamo moltissimi recettori (ndr: cellule deputate a fornire informazioni al cervello). Quando camminiamo, essi propagano le prime informazioni che partono dal tallone e giungono al nostro cervello. In tal modo il nostro corpo esprime la

capacità di visualizzarsi nello spazio che occupa e percepisce la propria contrazione muscolare, senza l’ausilio della vista». Si tratta della propriocezione che ci permette di camminare guardando avanti, senza fissare la punta dei piedi né dove li mettiamo, perché le informazioni passano direttamente dal piede al cervello: «Questo ci permette di posizionare anche ad occhi chiusi il piede nello spazio e di percepire noi stessi nell’ambiente, indipendentemente dalla nostra vista». Va da sé che se i piedi sono doloranti, ammalati o maltrattati dalla nostra noncuranza, tutto ciò vacilla, ma non solo: «Se non curato, il malessere dei nostri piedi si ripercuote sulle altre articolazioni: dalle ginocchia alla colonna vertebrale, con conseguenze ancora più dolorose per tutto l’organismo». Eppure circa il 40 per cento degli adulti soffre di problemi ai piedi e fin troppo spesso li ignora o ne sopporta il disagio, anche se la maggior parte dei disturbi ha cause banali e risolvibili partendo da un solo concetto, la prevenzione: «Bisogna prestare molta attenzione, fin dall’infanzia, a come il bambino appoggia i piedi e bisogna subito comperare calzature adeguate. Non quelle a buon mercato che non corrispondono ai canoni anatomici necessari al benessere del piede». Questo perché è da piccoli che già si determinano il corretto appoggio e movimento dei piedi: «Bisogna permettere al bambino di sperimentare la camminata senza scarpe, con calze antiscivolo, su superfici differenziate: pavimento di casa, superfici morbide, erba…». In questo modo il cervello comincia a percepire i diversi tipi di terreni, mentre l’errore più comune di mamme e nonne di sospendere il bimbo per forzarlo a camminare va evitato: «La camminata non deve mai essere imposta, perché è qualcosa di naturale e istintivo e ognuno comincia quando è pronto». Per una buona salute dei piedi, la prevenzione passa attraverso la scelta di calzature corrette, anche se non sempre succede: «La moda giovanile invita a portare scarpe con suola piatta come una tavola da surf, mentre la suola deve seguire la normale anatomia plantare:

Stefano Spinelli

sono in primo piano nella campagna nazionale promossa da Lega svizzera e ticinese contro il reumatismo

tallone leggermente rialzato, concavità centrale e discesa anteriore. Poi ci sono i tacchi alti che restringono il piede anteriormente e lo sollevano troppo posteriormente, spostando la base di appoggio sulla parte posteriore e sulla punta. Ciò si ripercuote su ginocchia e schiena. Anche le zeppe non riflettono il normale movimento del piede e non hanno la giusta flessibilità di una scarpa adeguata». Dunque: carichi eccessivi o errati che possono infiammare il tendine di Achille o causare un processo degenerativo, malattie dei piedi favorite da deformità come l’alluce valgo, piede cavo e piatto, patologie reumati-

che infiammatorie come gotta e artrite non sono che il riassunto dei conseguenti problemi con cui i nostri piedi possono doversi confrontare. «Se da un lato possiamo solo intervenire con competenza e in modo individualizzato per alcune malattie dei piedi, la prevenzione per quanto concerne la loro salute è di competenza di ciascuno e andrebbe accuratamente considerata, a cominciare dalla scelta delle calzature, dal camminare su superfici differenti e, quando è possibile, anche a piedi nudi». E quando bisogna curare difetti come ad esempio il piede piatto o altro: «Allora bisogna rivolger-

si a un medico e agli specialisti fisioterapisti e ortopedici per individuare le soluzioni individuali che possono ripristinare il benessere dei piedi», termina Alberto Benigna. Per approfondire il tema «Piedi e postura», lunedì 6 ottobre dalle 19.30 la Fisioterapia «Il Centro» (via C. Molo a Bellinzona) propone una serata informativa aperta al pubblico, con l’intervento di Alberto Benigna e del reumatologo dottor Franco Posa (info: 091 835 47 00). La prevenzione è il primo passo che dobbiamo a quel meraviglioso capolavoro che sono i piedi, deputati a portarci ovunque per tutta la vita.


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Ambiente e Benessere

La passione per il Sud Viaggiatori d’Occidente Moltissimi artisti e intellettuali del Nord Europa

hanno ricercato il fascino delle terre mediterranee per ritrovarvi serenità e armonia Claudio Visentin «Che cos’è il Mediterraneo? Mille cose insieme, non un paesaggio ma innumerevoli paesaggi, non un mare ma un susseguirsi di mari, non una civiltà ma una serie di civiltà accatastate le une sulle altre…» Così scriveva oltre mezzo secolo fa Fernand Braudel, che di questo mare fu il grande storico. E altri hanno sostenuto che il Mediterraneo ha poca geografia e troppa storia: basti pensare che in questo relativamente piccolo angolo di mondo sono nate le tre religioni monoteiste derivate dal ceppo di Abramo. Lo statista inglese Benjamin Disraeli poteva scrivere senza timore di sembrare eccessivo che «Queste sponde ci hanno dato la nostra religione, le nostre arti, la nostra letteratura e le nostre leggi. Se tutto ciò che abbiamo preso da queste sponde venisse cancellato dalla memoria dell’uomo, saremmo dei selvaggi». È proprio questa ricchezza, questa complessità, questa infinita sovrapposizione che rende così carico di significato il viaggio mediterraneo. Certo, nel Mediterraneo si è sempre viaggiato, da Ulisse in poi, ma solo tra la seconda metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, sotto il lunghissimo regno della Grande regina Vittoria (18371901) i viaggiatori inglesi elaborarono una specifica forma di viaggio, con proprie motivazioni e caratteristiche peculiari.

Il basilese Gilbert Clavel si era costruito a Positano un rifugio ideale: la Torre di Formillo. (mexitalians.com)

In quegli anni redditieri e intellettuali erano sempre in movimento e la loro vita era un continuo trambusto di arrivi e partenze: bauli e cappelliere erano ricoperti di etichette straniere, e le lettere che scrivevano e ricevevano portavano il timbro di luoghi esotici. Anche per reazione all’isolamento geografico insulare, l’irrequietezza e «l’orrore del domicilio» (Baudelaire)

sembravano essere divenuti una caratteristica nazionale: «L’unica cosa eccezionale che oggigiorno la gente può raccontarti di aver fatto è di essere rimasta a casa» dichiarò George Elliot nel 1869. Erano viaggi che potevano durare mesi e anni, e i cimiteri inglesi sparsi per tutto il Mediterraneo (ricordo di aver visitato quello assai conosciuto di Firenze) raccontano di generazioni

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Alimento “miracolo” della natura?

Gli scienziati di tutto il mondo sono sempre più unanimi nell’affermare, come già fecero gli esperti dell’arte medica del antica, che l’aceto è un vero elisir miracoloso per una vita più lunga e sana. Gli effetti benefici e di prevenzione dell’aceto assunto giornalmente, vengono oggi lodati da numerosi rapporti scientifici. Pensi: un solo cucchiaio di aceto di mele contiene vitamine, elementi essenziali, enzimi, aminoacidi, sostanze nutritive, pectina e betacarotene. In oltre di 70 studi scientifici è stato dimostrato che il betacarotene riduce il rischio di cancro e rafforza il sistema immunitario del corpo. Inoltre è risaputo che la pectina aiuta a controllare il colesterolo e riduce il rischio di malattie circolatorie. Di conseguenza l’americana Emily Tacker, ha raccolto nella sua opera « II grande libro dell’aceto » oltre 300 ricette e rimedi naturali, che potranno essere preparati personalmente e utilizzati per i seguenti motivi :  aiutare la digestione  ridurre il colesterolo  trattare pelli sensibili  combattere l’osteoporosi (per il contenuto di calcio)  calmare la tosse e curare il raffreddore  eliminare i germi negli alimenti  migliorare le funzioni del cuore e dell’ apparato circolatorio. L’aceto possiede una grande forza pulente che potrà utilizzare su tutte le superfici, per ottenere il pulito splendente desiderato in casa. Approfiti questa opportunità per scoprire i vantaggi dell’aceto, preparando e imparando a elaborare le 308 ricette e rimedi naturali. Dopo il Suo viaggio di esplorazione attraverso « II grande libro dell’aceto » si potrà domandare « Ma c’è qualcosa per cui l’aceto non sia utile ? »

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Assorbire i cattivi odori Rendere i denti più Lenire le scottature bianchi Eliminare l’alito cattivo Alleviare il bruciore di stomaco e facilitare la digestione Dare sollievo in caso di afte, mal di gola, punture d’insetti Rimuovere la crosta lattea Sturare gli scarichi Pulire l’argenteria Prolungare la vita dei fiori recisi

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e nostre nonne avevano sempre a portata di mano una scatola di bicarbonato di sodio. Un prodotto dai mille usi che era considerato sicuro e molto efficace. La preziosa polvere bianca veniva utilizzata per lavare la frutta e la verdura e se ne prendeva una dose in casi di difficoltà di digestione o bruciore di stomaco. Ideale per la pulizia della cucina e del bagno, per disinfettare gli indumenti e gli oggetti dei neonati, veniva aggiunta anche una piccola quantità all’acqua della lavatrice come anticalcare. Questo è il motivo per il quale Emily Thacker, autrice americana di numerose opere pratiche, Le fa riscoprire un prodotto straordinario ed ecologico al 100% con una raccolta che contiene oltre 500 suggerimenti e preparazioni tradizionali che si sono dimostrati efficaci e validi. Ricette facili che Le insegneranno come mescolare bicarbonato di sodio con altri ingredienti comuni quali: aceto, latte, miele, farina, cenere, etc. Il tutto per dare sollievo, per pulire e deodorare la casa, la biancheria, la cucina, il bagno, il garage, gli animali domestici, ecc. Scoprirà come un po’ di bicarbonato di sodio aggiunto ad una goccia di questo e ad un cucchiaio di quello possa

che scelsero di vivere e morire nel Mediterraneo. Ma quali erano le ragioni profonde di questa «passione del sud» (è il titolo di un bel libro di John Pemble)? Di certo il viaggio mediterraneo rappresentava un rito di passaggio: la comparsa nel paesaggio degli ulivi marcava una frontiera invisibile, eppure importante quanto la Manica. Alle soglie del sud si aveva la sensazione di passare dalla circonferenza al centro delle cose e i pensieri si soffermavano su radici, origini, essenze e fondamentali affinità. Le motivazioni ufficiali – pellegrinaggi, cultura, salute – erano spesso solo un pretesto, ma potevano offrire buone scuse per difendersi da chi accusava i viaggiatori di essere dei disertori, di vagare lontano dalla patria e dai suoi doveri per sognare, contemplare e meditare: un’accusa sorprendentemente precisa e fondata peraltro. Infatti, soprattutto per artisti e intellettuali, nella sua componente più nascosta e vera il viaggio mediterraneo era una fuga dai doveri sociali, dal conformismo, dall’oppressione della morale borghese. Quasi ovunque nel Mediterraneo

era possibile e spesso tollerata la troppo umana e naturale ricerca del piacere, più o meno lecito. Non a caso Firenze oppure Capri e Taormina (e più ampiamente tutto il meridione) furono il rifugio preferito dagli omosessuali in fuga dopo l’arresto di Oscar Wilde (1895) e l’inattesa condanna a due anni di lavori forzati. Ad altri bastava il piacere dell’ozio. Ognuno al sud poteva sperimentare la riscoperta della dimensione emotiva, dei sensi, del corpo. I troppi assillanti pensieri, la massa infinita di nozioni offerte dalla scienza, le quotidiane preoccupazioni, l’agitazione nevrotica trovavano finalmente riposo. La sensazione di liberazione provata nel Mediterraneo era resa più acuta dal potere narcotico del sole: «Avete notato che il sole detesta il pensiero?» chiese Oscar Wilde ad André Gide in Algeria nel 1895. Alcuni, insoddisfatti di quel che si erano lasciati alle spalle, colsero semplicemente l’opportunità di costruirsi una nuova vita. Come scrive la poetessa Elizabeth Barrett Browing, «È sublime / questa perfetta solitudine nelle terre straniere! / Esistere, come se non fossi mai esistito fino ad allora / ed essere semplicemente quel che hai scelto di essere». La Prima guerra mondiale, con la drammatica immobilità dei giovani inglesi nelle trincee, spezzò per sempre questo incantesimo, anche se la via di fuga nel Mediterraneo rimase ancora precariamente aperta per pochi nel periodo tra le due guerre. Può apparire sorprendente, considerate queste premesse, che proprio su queste sponde, e in particolare in Spagna, dopo la Seconda guerra mondiale sia esploso il turismo di massa, all’insegna delle quattro S: Sea, Sun, Sand, Sex (mare, sole, sabbia, sesso). Oggi un terzo del movimento turistico mondiale si svolge su queste rive, con evidenti problemi di sostenibilità sociale e ambientale, come se le anonime masse urbane, dalle quali i viaggiatori inglesi fuggivano, li avessero seguiti sin qui. Ma anche in queste condizioni tanto diverse rispetto al passato, il Mediterraneo ha conservato la sua capacità di suscitare domande esistenziali e di offrire risposte diverse per ciascun viaggiatore.

Anche la Rete Due della RSI ha scandagliato la storia intricata, controversa, infinita del Mediterraneo dispiegando molti dei suoi programmi più noti e adottando la prospettiva delle città che costellano le rive del mare della storia: Ceuta, Marsiglia, Genova, Palermo, Tunisi, Malta, Dubrovnik, Atene, Alessandria, Gerusalemme, Beirut… Due puntate per ogni città, per creare un dialogo tra passato e presente che sveli persistenze e novità. Punti di vista sempre diversi, a seconda che si guardi questo mare dalla sponda settentrionale o meridionale, dai confini atlantici o dai Balcani. Ancora Braudel del resto sosteneva che un viaggio mediterraneo significa «stupire di fronte all’estrema giovinezza di città molto antiche, aperte a tutti i venti della cultura e del profitto, e che da secoli sorvegliano e consumano il mare». C’è anche il viaggio di Piero Boitani sulle orme di Ulisse e una puntata speciale in diretta da Beirut per parlare di Medio Oriente, guerra e tramonto del multiculturalismo.

Per tirare le fila, una serata pubblica all’USI martedì 23 settembre alle ore 18 con Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri, Franco Cardini e Maurizio Viroli: «Dialoghi, incontri, contaminazioni nel Grande Mare. Il Mediterraneo area storica di cultura e sviluppo». Quella stessa sera sarà in onda il concerto «Mediterranea» dell’Ensemble Diferencias. Gli anglosassoni spesso chiamano il Mediterraneo il mare che corrompe (The Corrupting Sea è il titolo di un libro fortunato) e così deve aver pensato anche chi ha inserito nella programmazione l’originale radiofonico di Manlio Santanelli Il latore della presente – Storia della raccomandazione nei secoli (ore 13.30 dal 22 al 26 settembre 2014)... Informazioni

RSI, Rete Due, Operazione speciale Mediterraneo, settembre/ottobre 2014 www.rsi.ch/rete-due.


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Ambiente e Benessere

Eutanasia: quando sì e quando no?

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Mondoanimale L’iniziativa popolare

di AnimaLife Ticino contro il divieto di soppressione degli animali da compagnia sani dà spunto a qualche riflessione

Maria Grazia Buletti Il flop dell’iniziativa di AnimaLife Ticino, che chiedeva l’introduzione del divieto di soppressione degli animali da compagnia sani, ha portato alla ribalta la delicata questione dell’eutanasia. Sono solo 1717 le firme raccolte dal sodalizio (sulle 7000 necessarie per entrare nel merito della questione). Non bastano, ma inducono a qualche riflessione sull’evoluzione del rapporto fra uomo e animali. Considerazioni esplicitate e concretizzate da parecchi Paesi, a cominciare dalla vicina Penisola che, quando si tratta dei nostri coinquilini a quattro zampe, dimostra una altresì spiccata sensibilità. Lo spunto per sviluppare la nostra analisi viene dalla notizia rimbalzata da New York, città dove sul filo dei minuti si gioca la sorte di ogni cane e felino senzatetto. In un suo accorato articolo, il giornale italiano «Repubblica» riporta che la politica sul randagismo della Grande Mela, in linea con la legislazione condivisa nella maggior parte degli Stati Uniti, non punta su prevenzione, sterilizzazione ed educazione: «Piuttosto eradica il problema attraverso iniezioni letali nel cuore, quando non camere a gas». La statistica parla chiaro: sono stati ottomila i cani randagi uccisi nel 2013, oltre ai 200 scomparsi nel nulla, presso l’AC&C Shelter che lo stesso anno ha ricevuto finanziamenti pubblici pari a 14,2 milioni di dollari. Il mondo non sta certo a guardare: il gruppo di cittadini No Kill-Italy, inorriditi da quella che definiscono «tanta inciviltà», ha lanciato una petizione internazionale e sta raccogliendo firme per pregare l’amministrazione newyorkese di considerare una svolta radicale che possa influenzare l’America intera. E mentre l’ambasciata USA in Italia ha dichiarato a «Repubblica» di non avere nessuna informazione riguardo alla questione del canile di New York AC&C Shelter, anche l’Enpa -Ente nazionale protezione animali- si è mobilitato attraverso una lettera firmata dalla presidente Carla Rocchi che si rivolge proprio all’ambasciatore John R. Philips. La Rocchi afferma il diritto alla vita di esseri innocenti. Per contro, stigmatizza gli interessi economici o di altro tipo che ne decidano arbitrariamente la morte. «La libertà dell’essere umano è quella di poter decidere per sé stesso e non per gli altri, come invece accade per questi casi dove la libertà in questione è quella dell’animale che, ovviamente, non è in grado di comunicarci la sua scelta», così si esprime la

in seguito a carenza di biotina.

presidente di AnimaLife Ticino, Sara Pettinaroli, da noi interpellata per fare chiarezza sulle posizioni che anche nel nostro Cantone animano questo tema. «Più che problemi di randagismo, da noi vi sono animali da compagnia che i proprietari pensano di sopprimere, dato che non possono più occuparsene per ragioni più disparate», racconta la nostra interlocutrice, parlando di animali sani che si trovano a fare i conti con proprietari alle prese con il divorzio («Non possono più tenerli con sé, discutono su chi li deve tenere e quant’altro, fino a quando ne prendono in considerazione la soppressione che permette loro di eliminare il problema alla radice»), con questioni economiche, di salute dell’essere umano, trasloco e motivi di vario genere. Dallo spunto di questi fatti nasce l’associazione AnimaLife Ticino (www.animalife.wix.com/animalife) la quale opera con obiettivi differenti rispetto alle omologhe associazioni che si occupano di stallo, adozioni e altro: «La nostra volontà è di cambiare le cose alla radice, in luogo di procedere con le adozioni, di cui già si occupano altre associazioni presenti sul territorio». Con questi intenti, AnimaLife ha obiettivi ambiziosi ma possibili: «Cambiare le leggi quando ci pare siano in contrasto con la vita, come in questo caso». Sara Pettinaroli ci illustra dunque perché l’iniziativa popolare non riuscita ha comunque aperto la strada a qualcosa di più importante: «Abbiamo preso atto dell’esito della nostra iniziativa popolare che, onestamente e senza polemizzare, è passata un po’ in secondo piano perché concomitante a quella contro Expo 2015 che toccava maggiormente la popolazione da un profilo economico». Detto questo, però, l’associazione non si è persa d’animo: «Stiamo preparando una petizione a livello federale, per la quale non è necessario un preciso numero di firme e che tutti i residenti (anche non svizzeri) potranno firmare». Con questa petizione AnimaLife vuole chiedere al Consiglio federale e ai consiglieri nazionali di prendere posizione in merito ad una legislazione assente. «Assente perché l’Ordinanza federale per la protezione degli animali (OPAn) non cita nemmeno l’eutanasia: né come atto vietato, né come atto permesso», termina la nostra interlocutrice con una nota di speranza in merito all’entrata in materia su un tema molto delicato, quello della decisione della vita o della morte di un animale sano che dipende completamente da noi esseri umani.

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«La rabbia è una malattia che colpisce il sistema nervoso e che, se non curata, può avere esito letale», questa la premessa dell’USAV che ne raccomanda ai proprietari di vaccinare i propri animali da compagnia. «La Svizzera è indenne da questa malattia e vuole rimanere tale», riporta una nota dell’USAV che però indica come la rabbia, trasmessa tramite il morso e la saliva, provochi ogni anno in tutto il mondo la morte di migliaia di es-

seri umani e di innumerevoli animali domestici e selvatici. La vaccinazione antirabbica dei cani è obbligatoria per ogni viaggio all’estero: «Prima di partire informatevi sulla diffusione della rabbia nel Paese in cui siete diretti e rivolgetevi se del caso al vostro veterinario. Qualora rientrate attraverso un aeroporto svizzero, per il viaggio di ritorno da Paesi ad alto rischio di rabbia, è necessaria un’autorizzazione».

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Ambiente e Benessere Cucina di Stagione La ricetta della settimana

Polpette di carne con peperonata ai porcini Piatto principale per 4 persone Ingredienti: 30 g di porcini secchi · 600 g di peperoni gialli e rossi · 1 cipolla grossa · 3 cucchiai d’olio d’oliva · 1 cucchiaino di concentrato di pomodoro · 1 dl di brodo di verdura · sale, pepe · 100 g di mortadella · 400 g di carne di manzo macinata · 1 uovo · 1 cucchiaio di pangrattato · 2 spicchi d’aglio · 2 rametti di timo · 2 cucchiai d’olio di colza HOLL (resistente al calore). 1. Ammollate i funghi in acqua tiepida per 20 minuti. Scolateli e fateli sgocciolare bene. Dimezzate i peperoni, privateli dei semi e tagliateli a pezzetti di 2 cm. Tritate la cipolla. Fate soffriggere i peperoni, la cipolla e i funghi nell’olio d’oliva. Aggiungete il concentrato di pomodoro e soffriggetelo brevemente. Bagnate con il brodo. Stufate la peperonata a fuoco medio, con coperchio, per ca. 20 minuti. Condite con sale e pepe. 2. Tagliate la mortadella a striscioline, poi a dadini. Mettetela in una scodella insieme con la carne, l’uovo e il pangrattato. Unite l’aglio schiacciato e il timo tritato. Impastate gli ingredienti fino a ottenere una massa omogenea. Condite con sale e pepe. Formate delle polpette grosse come noci. Rosolatele nell’olio di colza a fuoco forte per 2-3 minuti. Accomodate le polpette sulla peperonata. Fate cuocere ancora a fuoco basso per ca. 10 minuti. Servite con risotto.

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Ambiente e Benessere

Quando piccolo è bello Mediterraneo Appunti di un viaggio a Malta

Testo e foto di Fredy Franzoni «Nothing is far», ci dicono quando ci meravigliamo che per arrivare all’aeroporto ci vorrà meno di un quarto d’ora. È vero, a Malta nulla è lontano. Un fazzoletto otto volte più piccolo del canton Ticino, suddiviso in tre isole. L’una disabitata (Comino), l’altra (Gozo) piccolissima tanto da poterla attraversare a piedi, perdendosi in paesaggi che paiono d’altri tempi. La terza, la principale, Malta appunto, con la capitale Valletta, un piccolo gioiello anche se ormai assediata dal turismo. Poco più di 400 mila abitanti, con una densità della popolazione tra le maggiori al mondo. Qui, narra la leggenda, approdò Ulisse, cadendo innamorato della ninfa Calipso. Vi naufragò San Paolo, lasciandovi tracce profondissime di un cristianesimo che oggi ancora è fortemente radicato nella popolazione. Innumerevoli e imponenti le chiese che si incontrano, in una terra dove il divorzio è stato approvato con una risicata maggioranza soli tre anni fa. Per il settore turistico, cresciuto lo scorso anno di oltre il 15%, è l’isola dell’accoglienza e degli incontri. Una terra d’Africa, o quasi, a un’ora e mezza di volo da Milano dove cultura passata, divertimento e corsi di inglese richiamano ogni anno migliaia di visitatori.

La chiamano «l’isola sbagliata» invece le centinaia di richiedenti l’asilo che non riescono a raggiungere le coste italiane con le loro carrette del mare. Sbarcare a Malta vuol dire finire in un limbo dove è difficilissimo ottenere i documenti necessari per proseguire il viaggio. È l’unico modo, ci dicono, per scoraggiare l’invasione dell’isola. Malta è parte dell’Unione europea da un decennio, da sei si paga in euro, alle spalle 150 anni di dominio britannico. Proprio quest’anno si festeggia il mezzo secolo d’indipendenza. Di questo passato rimane la guida a sinistra e una conoscenza molto diffusa della lingua inglese, accanto al maltese vera e propria miscellanea di suoni in cui si accavallano tonalità arabe, italiane e inglesi. Bilinguismo che spesso è trilinguismo. Molti parlano infatti l’italiano, che era stata lingua ufficiale fino al 1934. Oggi invece sono i programmi televisivi captati dalle parabole a mantenere viva la conoscenza della lingua italiana. Un multilinguismo diffuso che ci ricorda la Svizzera. Ma non solo: danno la sensazione di essere a casa nostra anche la pulizia nei luoghi pubblici e la precedenza data immancabilmente ai pedoni che intendono attraversare il campo stradale sulle strisce pedonali. Situata a 80 km dalla Sicilia e a meno di 300 dalle coste tunisine, Malta rappresenta da sempre un crocevia

e un punto strategico. Vi sono sbarcati fenici, cartaginesi, romani, bizantini, arabi, normanni e anche Napoleone. Settemila anni di presenza umana hanno lasciato delle testimonianze stupefacenti. Dai templi neolitici dedicati alla Dea madre, dove si rimane senza parole di fronte alla capacità avuta nello spostare enormi macigni e

alla bellezza dei luoghi scelti, fino alle fortificazioni della capitale fatte costruire dai Cavalieri di San Giovanni a difesa della città. Isole senza fiumi, ma dove lo sguardo finisce quasi ovunque per incontrare il mare. Villaggi antichi o più recenti, l’isola fu pesantemente bombardata durante la guerra perché caposaldo degli alleati, con le case

color tufo, che a volte si faticano ad identificare da lontano. Svettano solo le chiese, spesso imponenti, massicce, riccamente decorate all’interno. Isole da centellinare, senza fretta, anche perché percorrerle è al massimo questione di pochissime ore. «Nulla è lontano a Malta», e viene alla mente un altro detto «piccolo è bello…».


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Ambiente e Benessere

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organizza uno speciale soggiorno balneare a Berenice, dal 25 ottobre al 1. novembre 2014

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Berenice è la nuova destinazione situata sulla costa egiziana del Mar Rosso, a sud della più nota Marsa Alam. Quello offerto da Hotelplan è un soggiorno speciale che darà grandi soddisfazioni a tutti i turisti attratti dall’incantevole barriera corallina e dai suoi bellissimi colori, per non parlare delle sue spiagge incontaminate. Berenice fu un importante porto

per i commerci con India ed estremo Oriente anche al tempo dell’Impero romano. Qui terminava l’importante arteria stradale della Via Adriana, che da Antinoopolis sul Nilo raggiungeva la costa del Mar Rosso. Fu importante anche per l’importazione, fin dall’antichità, di merci pregiate, tra cui oro e avorio, oltre che di elefanti. «Azione» grazie a Hotelplan pro-

Il programma Sabato, 25.10.2014 Ticino – Milano – Marsa Alam – Berenice. Trasferimento in torpedone dal Ticino all’aeroporto di Milano-Malpensa. Formalità doganali e d’imbarco, e partenza a bordo di un volo charter per Marsa Alam. All’arrivo, trasferimento in torpedone verso l’Hotel Lahami Bay Beach Resort****s a Berenice. Da sabato 25.10 a sabato 1.11.2014 Soggiorno balneare al Lahami Bay Beach

Resort. Trattamento di pensione completa con bevande ai pasti. (Pacchetto «Tutto incluso» su richiesta). Sabato 1.11.2014 Berenice – Marsa Alam – Milano – Ticino. Prima colazione in albergo. Trasferimento in torpedone dall’hotel all’aeroporto di Marsa Alam. Formalità doganali e d’imbarco. Partenza a bordo di un volo charter per Milano-Malpensa. All’arrivo, rientro in torpedone verso il Ticino.

pone ai suoi lettori un soggiorno al Lahami Bay Beach Resort. Situato sulla costa del Mar Rosso, questo resort è un’oasi di pace e tranquillità, ideale per attività sportive e interessanti escursioni alla scoperta dell’inesplorato entroterra. A circa 1h30 minuti dall’aeroporto di Marsa Alam, questo villaggio si trova sulla baia di Lahami con i suoi chilometri di spiaggia sabbiosa. Il reef è facilmente raggiungibile dalla riva nuotando, oppure, per i subacquei esperti, si organizza il servizio navetta tramite il centro diving esclusivo nel villaggio. L’hotel dispone di due ristoranti, cinque bar e una grande piscina con terrazze solarium, riscaldata d’inverno. Inoltre è dotato di lavanderia, boutique e cambio valuta. I più dinamici potranno praticare diverse attività: pallavolo, bocce, ping pong e biliardo, oppure approfittare delle offerte del centro subacqueo o del centro windsurf. Nell’area dell’hotel si trovano anche due campi da tennis con illuminazione notturna, una palestra attrezzata e un campo da squash. Infine si potranno noleggiare pedalò e canoe.

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Ambiente e Benessere

Magliette per tutti i gusti Sportivamente Da quelle nere di Roger Federer a New York e in Coppa Davis a quelle rossocrociate indossate

dai tifosi per seguire la nazionale di calcio, a quelle delle squadre di hockey: ce n’è per tutte le taglie (anche forti) Alcide Bernasconi Non so se c’è qualcuno che se la ride, dopo una sua sconfitta: Roger Federer, quando non ce la fa proprio, come è accaduto qualche giorno fa a New York, in semifinale all’US Open, contro il croato Marin Cilic, poi vincitore del torneo, suscita spesso un senso di rispetto e ammirazione. Anche se ha perso in tre set, contro un avversario che, come ha ammesso lo stesso Roger, gli è stato superiore in tutto e per tutto. A volte lo abbiamo visto perdere partite in cui è riuscito comunque a tratti a incantare il pubblico, mostrando soluzioni magistrali per la conquista di un punto, per agganciare l’avversario in vantaggio, per annullare un break, o per chiudere uno scambio infinito con un diagonale che nessuno s’aspetta. L’abbiamo visto rimontare, colpo su colpo, set su set, contro il francese Gaël Monfils, il quale pareva lanciato verso una strepitosa vittoria. La storia già la conoscete: due set a zero in entrata per il francese che si vedeva pure annullare due match point nel quarto set. Intuivo che Federer avrebbe pagato il conto nel match successivo. Insomma, il giocatore dato per finito nella scorsa stagione, pur dovendo cedere il passo alla gioventù che avanza e che ha il vizio di sparare bordate in quelli che una volta erano semplici (si fa per dire) servizi, a New York è uscito allo scoperto. Nessuno dei primissimi della graduatoria mondiale è riuscito a raggiungere la finale. E a imporsi è stato il 25enne bosniacocroato Cilic, alto 1,96 che spara con regolarità servizi da 210 all’ora. Anche il numero uno mondiale, Nole Diokovic, ha mancato l’accesso alla finale, piegato dal 24enne nipponico Kei Nishikori, annientato poi in finale da Cilic (6-3 6-3 6-3). Se me lo sentivo che Federer avrebbe dovuto ancora masticare amaro dopo uno splendido torneo, come mai

non ho scommesso sulla vittoria del tennista di Medjugorje? Io non gioco che raramente una schedina del lotto. Lontani i bei tempi dello Sport-toto con quattro squadre ticinesi sulla schedina, quando si correva all’edicola col foglietto appena completato da papà… Così, quando avverto che Roger (o adesso anche Wawrika) perderà certamente il match, preferisco non vederlo. Anche il mio medico direbbe che faccio bene. Ma da qui a trasformarmi in uno scommettitore incallito ce ne passa. I newyorkesi, insomma, penso non abbiano gradito molto la vittoria di Cilic, pur riconoscendone la legittimità del successo, tanto che le cronache hanno scritto di una simpatia più marcata nei confronti di Nishikori nell’atto finale del torneo, dove tutti si attendevano invece un altro duello fra Nole e Roger. A casa entrambi, con leggero anticipo sulla data prevista. Donna Michelle, presidente del luganese Fededer Fans Club di via Collinetta (inutile continuare a cercarlo: non lo troverebbe neppure l’investigatore privato più attento e scrupoloso nelle sue ricerche), avrà avuto gli occhi lucidi, su nell’ampia tribuna, finalmente accompagnata dal marito, ex presidente di detto club. Speravo che le telecamere l’avrebbero inquadrata presto o tardi, perché se lo meritava più di altri vip o presunti tali, ma capisco che l’impresa non fosse facile. Michelle era certa che il suo idolo avrebbe conquistato il diciottesimo titolo dello Slam e suo marito, per lo sconforto, s’è dimenticato stavolta di portarmi una maglietta rigorosamente nera di Roger, quella nera che indossa soltanto a New York, perché così – credo – vuole lo sponsor. Quando a me, semplicemente, mi snellisce. Insomma, il nero cancella quello che io definisco, con un po’ di sfrontatezza, solo un accenno di pancia. Ognuno si difende come può.

Roger Federer, sempre beniamino del pubblico, anche quando perde. (Keystone)

Aspettiamo comunque il prossimo impegno della Svizzera per saperne di più. A proposito di magliette, imperversano già nei vari shop dei club della Lega Nazionale quelle degli stranieri dell’hockey approdati in Svizzera. Anche qui il campionato è scattato proprio nel weekend e non ci è possibile dire la nostra. Sarà per una prossima occasione, quando il racconto del nuovo campionato comincerà a srotolarsi davanti ai nostri occhi e non potremo più… gelidamente ignorare le attese sfide con pattini e bastoni, fra regole stravolte (quella della liberazione vietata) e linee blu spostate allegramente di un metro e mezzo verso il centro. Sapranno cavarsela i nostri? Anche qui chiedo solo un po’ di pazienza, accomiatandomi dai fedelissimi trentotto lettori (la cifra è imposta da un vecchio detto), come sempre sportivamente.

Dunque, lo scorso weekend, del quale non potevamo assolutamente riferire visto che da tempo il nostro pezzullo aveva preso il posto a lui riservato rispettando i tempi di consegna, sarà stato quello delle magliette rossocrociate per la sfida di Coppa Davis fra Svizzera e Italia. Donna Michelle s’è trasferita direttamente da New York a Ginevra, per occupare il suo posto al Palexpo e chissà che non l’abbiano inquadrata come, dovrebbe fare un regista avveduto. Ah Michelle, Michelle! Spero tanto che i nostri non ti abbiano deluso sul patrio suolo. Quanto alle magliette, che mettono a dura prova i portafogli di babbi e mamme, mi tengo stretta quella nera, di parecchi anni fa, quando Roger imperversava, perché quella rossa, come ha osservato criticamente mia moglie, non mi dona proprio.

Anche per la nazionale di calcio ora affidata a Vado Petkovic, bosniaco di origine croata, naturalizzato svizzero, non faccio eccezioni: niente maglietta rossa, al massimo una sciarpa, ma il balcone di casa, se sarà il caso fra due anni, avrà le sue riconoscibili bandierine e qualche finta maglia sponsorizzata a sostegno della nostra massima rappresentativa. È partita male, a Basilea, contro l’Inghilterra di Roy Hodgson (ex allenatore degli svizzeri che guidò ai Mondiali negli USA parecchi anni fa), l’era Petkovic; ma bisogna concedere fiducia al nuovo tecnico e le osservazioni espresse dall’esperto Kubi Türkylmaz davanti alla telecamera della RSI mi sono sembrate pertinenti, oltre che riprese a grandi linee da diversi media. Anche Petkovic è parso convenire su alcuni punti, riguardo a un paio di errori commessi dai rossocrociati.

ORIZZONTALI 1. Il giorno più breve 3. Veri fuoriclasse 6. Cieco 8. Satellite di Giove 9. Sigla di esame clinico 10. Cosa in latino 11. Torna se ora non c’è 12. Si prende con un occhio 13. Assicura il carico al mulo 17. Tirato 18. Un fiore 19. Fondò l’impero persiano 21. Corre ad ali aperte 22. Provocati dal pentimento 24. Le fiutano i segugi 25. Quantità da stabilirsi 26. Strade ombreggiate 27. Parti dei fiori

Sudoku Livello difficile

Giochi Cruciverba Forse non tutti sanno che la cipolla tagliata deve essere utilizzata al più presto perché ha la capacità … Per scoprire il resto della frase leggi, a cruciverba ultimato, le lettere evidenziate. (Frase: 2, 9, 1, 7, 11)

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VERTICALI 1. Colto, erudito 2. È ricco di petrolio 3. Due vocali 4. Residuo della coagulazione 5. A... gran quantità 7. Le iniziali dell’attore Cosby 10. Tornate alla luce 12. Puro, semplice 13. La vita nei prefissi 14. Li impugnano le Amazzoni 15. Un consenso strappato 16. Le iniziali dell’attore Sperandeo 17. Gli orari a New York 19. Si ripete alzando i calici 20. Procedure liturgiche 22. I raggi del vate 23. Moneta del Perù 24. Trasformano la sala in una stalla

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Completare lo schema classico (81 caselle, 9 blocchi, 9 righe per 9 colonne) in modo che ogni colonna, ogni riga e ogni blocco contengano tutti i numeri da 1 a 9, nessuno escluso e senza ripetizioni.

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Scopo del gioco

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Soluzione della settimana precedente

Stemmi araldici – Il galero, cappello all’apice degli stemmi araldici dei prelati, ha: … colori diversi secondo i loro gradi.

C I S T I

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Politica e Economia L’ecumene dell’Isis Chi sono, dove operano gli eredi del terrorismo al-qaedista?

Indipendenza, yes or no? La Scozia si accinge ad affrontare nel referendum del 18 settembre la cruciale domanda. Ma intanto l’Inghilterra trema al pensiero di perdere le Highlands, sue dal 1707

I nuovi poveri In Italia più di un cittadino su dieci vive sotto la soglia della povertà assoluta . I dati peggiori provengono dal Mezzogiorno

Una cassa malati unica? Cittadini alle urne il 28 settembre per l’iniziativa popolare lanciata dal PSS

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AFP

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L’America senza stivali per terra Strategia Usa in Iraq e Siria Distruggere l’Isis, come promesso da Obama nel suo discorso televisivo alla Nazione

nell’anniversario dell’11 Settembre, ha le stesse probabilità di Bakr al-Baghdadi di erigere il califfato Lucio Caracciolo Lo Stato Islamico non è uno Stato e per molti musulmani non è nemmeno islamico. Che cos’è allora questo gruppo che in pochi mesi ha conquistato ampie fasce di territorio fra Siria e Iraq, ostentato capacità militari mai viste nella famiglia jihadista, terrorizzato intere popolazioni e costretto il presidente degli Stati Uniti a rimettere almeno un piede nella Mesapotamia su cui giurava non sarebbero più comparsi i famosi «stivali per terra», ossia la fanteria Usa? E soprattutto, in che misura il «califfato» rappresenta una minaccia per il Medio Oriente e per il mondo? Il gruppo jihadista al cui vertice si colloca il molto virtuale «califfo» Abu Bakr al-Baghdadi è figlio delle guerre in Iraq e in Siria. O meglio della disgregazione dei due Stati e dell’emergere di territori ingovernati, dunque a disposizione di bande e gruppi locali o transnazionali. Lo Stato Islamico (Isis, in sigla inglese, Is) è il più organizzato di questi. All’origine c’è la struttura qaedista irachena a suo tempo afferente ad al-Zarqawi. Ma negli ultimi mesi

al-Baghdadi ha rotto con il leader di al-Qaeda, al-Zawahiri, e ha enunciato al mondo islamico il suo progetto: ricostruire il califfato. Lo spazio di tutti i musulmani del pianeta, senza confini nazionali, divisioni claniche o settarie. Un’ecumene su cui il sedicente «califfo» eserciterebbe la guida spirituale e politico-istituzionale. Le possibilità di realizzare questo progetto sono zero. Eppure lo Stato Islamico va preso sul serio, per almeno tre motivi. Primo. Non era mai successo che un gruppo jihadista si offrisse come nucleo del califfato universale. Finché si chiamava Isil (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante), la struttura di al-Baghdadi limitava il suo progetto a territori specifici. Oggi esibisce un richiamo universale. Questo attira molti musulmani in giro per il mondo, compresi migliaia di combattenti giunti dall’Occidente. L’Isis può essere usato come riferimento per chiunque si identifichi con il suo programma, non importa dove insediato. Secondo. Lo Stato islamico ha goduto e in parte gode tuttora di importanti finanziamenti provenienti da

charities del Golfo, specie saudite, che gli consentono un certo agio, una notevole disponibilità nel reclutamento dei miliziani e nell’approvvigionamento di armi. L’occupazione di territori strategici per i traffici di petrolio gli hanno permesso di incassare centinaia di milioni di dollari al mercato nero del greggio. Altri proventi derivano dallo smercio clandestino di reperti archeologici, di cui la Mesopotamia abbonda. Così l’Isis sta cominciando a strutturare un suo peculiare welfare nei territori conquistati. Per conquistare consenso fra le popolazioni assoggettate. Infatti, la vera forza dello Stato Islamico consiste nel sostegno di una quota importante dei sunniti iracheni emarginati e vessati dal governo sciita di Baghdad. Terzo. Questo radicamento territoriale nell’area a dominanza sunnita, a cavallo dell’inesistente confine siroiracheno, consente fra l’altro all’Isis di utilizzare diversi soldati e ufficiali di Saddam frettolosamente liquidati dagli americani nel 2003 e da allora in vendita al miglior offerente. Le capacità tattiche delle bande del califfo, la mobilità delle sue colonne formate

da moderni pick-up Toyota, l’abilità nel mimetizzarsi: tutto lascia pensare a tecniche professionali, da esercito convenzionale. Oggi lo Stato Islamico non è più questione locale, ma parte dell’agenda geopolitica globale. I sauditi, che pensavano di usarlo contro il regime siriano nel contesto della loro partita regionale contro l’Iran e i suoi alleati, ora temono che il «califfo» possa minacciare la stabilità interna del regno. Soprattutto, dopo la decapitazione di due giornalisti americani, per Obama è impensabile far finta di nulla. Di qui il discorso alla nazione del 10 settembre, non a caso alla vigilia di una data fatidica, in cui il presidente ha giurato di «degradare e distruggere» l’Isis. Ciò equivale alla promessa di una lunga guerra, ma limitata nei mezzi. Gli Stati Uniti hanno sul terreno iracheno già oltre mille uomini, eppure a parte qualche reparto di forze speciali Obama non vuole spenderli contro l’Isis. Perché intende passare alla storia come il presidente che ha riportato a casa i ragazzi dall’Afghanistan e dall’Iraq, non come colui che ce li ha rimessi. Di qui

la scelta di concentrarsi sui bombardamenti aerei, estesi anche a ciò che resta della Siria, ma senza per questo coordinarsi con il regime di al-Assad, contro il quale lo scorso anno minacciava di scatenare la rappresaglia che invece ora deve infliggere all’Isis, nemico giurato del clan al potere a Damasco. Inoltre, Obama conta su una coalizione, soprattutto occidentale, per supportare il suo attacco al «califfato». Le probabilità di liquidare in questo modo i jihadisti di al-Baghdadi non sono superiori a quella che costui eriga il califfato. Dal punto di vista militare, senza «stivali per terra» non si vince nessuna guerra. Sotto il profilo geopolitico, se non si offre alle comunità sunnite la possibilità di gestire i propri interessi insieme e non contro Baghdad – o eventualmente costituendo un loro staterello autonomo – ci sarà sempre qualche gruppo jihadista pronto a cavalcarne le frustrazioni. Prepariamoci a una lunga campagna di attrito. E allacciamo le cinture di sicurezza, perché nulla ci assicura che anche l’Europa non possa diventare un bersaglio in questa guerra interminabile.


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Politica e Economia

La mappa del terrore Estremismo islamico I peggiori movimenti del terrorismo soprattutto in Medio Oriente, Africa e Asia sono

collegati fra loro e sono cresciuti alla scuola di Al Qaeda, ma devono fare i conti con i propri contesti nazionali

L’ultima mutazione genetica degli epigoni di al-Qaeda è anche frutto dei conflitti interni della galassia terroristica Al-Baghdadi, invece, non era stato autorizzato a invadere il campo di alNusra, doveva cioè limitarsi ad agire in Iraq e coordinarsi col capo in testa della filiera qaedista, alias lo stesso al-Zawahiri. Risultato: al Baghdadi è andato dritto per la sua strada e il 29 giugno di quest’anno ha proclamato il suo Califfato islamico su intere regioni dell’Iraq e della Siria, mentre al-Julani si è dovuto accontentare dell’investitura «ufficiale» di rappresentante di al-Qaeda in Siria. Tra i due, da quel momento in poi (al-Zawahiri dixit), avrebbe dovuto mediare Abu Musab al Suri, nome di battaglia di Mustafa Setmariam Nasar, «stimato» ideologo del jihad globale, ma al-Baghdadi con la marcia inarrestabile dell’Isis ha dimostrato di voler fare di testa sua, scavalcando l’autorità dello stesso successore di Osama bin Laden. La reazione di al-Zawahiri è stata

quella di prendere atto del fatto compiuto e di tentare di sfruttare a proprio vantaggio la fuga in avanti di al-Baghdadi lanciando – il 4 settembre scorso – un nuovo jihad in India. Resta che l’esempio dell’Isis rappresenta un precedente pericoloso perché d’ora in poi chiunque potrà sfidare l’autorità di quel che resta dell’al-Qaeda originaria per mettersi «in proprio». Detto in altre parole se, prima dell’Isis, al Qaeda si moltiplicava con un meccanismo di franchising, oggi lo fa partorendo – volente o nolente – cloni di bin Laden. Tutto sta a vedere se riescono, come al-Baghdadi, ad ottenere finanziamenti in proprio (da privati, non più dalla casa-madre o da Stati compiacenti, l’unico dei quali è rimasto il Qatar) o a procurarseli svaligiando banche e saccheggiando i territori occupati; se riescono ad avere lo stesso spirito imprenditorial-gangsteristico di alBaghdadi, la stessa determinata ferocia, la stessa capacità comunicativa nel renderla nota a tutto il mondo mostrando in diretta sgozzamenti e decapitazioni o sbandierando stupri, sequestri e massacri ai danni delle minoranze. Quanto c’entra l’Islam in tutto questo? Poco o niente. Siamo nel campo delle prassi criminali, non della religione. L’humus più proficuo per la proliferazione e la fortuna degli Isis, degli al-Nusra e loro simili sono la debolezza delle istituzioni statuali nei Paesi in cui si trovano ad operare, le ingiustizie come metodo di governo e di gestione dell’economia, nonché la mancanza totale di una cultura democratica. L’Isis è nata dall’accaparramento del potere attuato dall’ex primo ministro sciita dell’Iraq, Nouri al Maliki, oggi sostituito da Haider al-Abadi che l’8 settembre scorso ha varato un governo di unità nazionale incaricato di realizzare un reale power sharing tra le comunità settarie del Paese. Sperando che basti, assieme all’offensiva della costituenda coalizione anti-Isis che gli Stati Uniti stanno tentando di creare in Medio Oriente. Al-Nusra invece è il frutto della lotta per abbattere il regime di Bashar

al-Assad in Siria e in questo caso non si vedono soluzioni all’orizzonte. Spalleggiato da Russia, Iran e Hezbollah libanesi, Bashar a tutto pensa meno che ad andarsene e l’intervento dell’aviazione americana contro l’Isis rischia anzi di contribuire a mantenerlo in sella. Ma in Iraq e in Siria, almeno, gli Stati – per quanto tormentati – esistono ancora. Quando lo Stato fallisce le cose si complicano ancora di più. In Africa gli esempi più inquietanti sono la Somalia e la Libia. In Somalia il movimento degli al-Shabaab è l’erede diretto delle cosiddette Corti islamiche che nel 2012 vennero sbaragliate dall’intervento dell’esercito etiope, dopo che erano riuscite ad avere la meglio su molte delle organizzazioni claniche che avevano alimentato la guerra civile dalla caduta di Siad Barre nel 1991 in poi. Nello stesso 2012 gli al-Shabaab sono stati riconosciuti come branca locale di al-Qaeda da al-Zawahiri che ufficialmente ne è anche il leader, vista la morìa dei capi preceden-

ti uccisi dall’intervento etiope, dai raid aerei americani o dalle faide tra le cabile somale (i vari clan) sempre in lotta tra di loro. Sostenuti dall’Eritrea e dagli emirati del Golfo, gli al-Shabaab hanno comunque riconquistato il controllo delle regioni meridionali della Somalia e stanno seriamente tentando di destabilizzare il Kenya (si veda l’attacco al centro commerciale di Westgate a Nairobi del 21 settembre 2013), alleato dell’Etiopia e degli Stati Uniti. Dovrebbero rappresentare la punta di diamante di al-Qaeda nell’Africa orientale che però fatica a prender vita, mentre – stando a fonti americane – dal 2012 cercano di coordinarsi con al Qaeda nella penisola arabica (incentrata nello Yemen), al-Qaeda nel Maghreb islamico (soprattutto con Ansar al-Sharia in Libia e Ansar al-Sharia in Tunisia) e il più spietato dei movimenti islamisti radicali nigeriani, Boko Haram. Ansar al-Sharia in Libia e Boko Haram in Nigeria hanno, tra l’altro, una genesi legata al petrolio. Ansar è nato in

Cirenaica, dove è concentrato il greggio libico, che costituisce uno dei motivi principali che lo spingono a volersi separare dalla Tripolitania e dal Fezzan, le altre regioni del Paese. Boko Haram, invece, usa l’islam per avere il controllo sulla federazione nigeriana, l’unica maniera per mettere le mani sul petrolio, che viene estratto negli Stati meridionali, cristiani. A queste dispute spacciate come guerre sante islamiche non sono estranei motivi tribali, come ben sanno nello Yemen dove dietro il jihad di al-Qaeda nella penisola arabica riaffiorano faide vecchie di secoli. Per concludere l’islam globale, che usa il terrorismo per affermarsi, deve e dovrà sempre fare i conti con i contesti locali, nazionali e regionali in cui tenta e tenterà di imporsi. Per ora non ha dimostrato di saperlo fare: questa è la sua vera debolezza oltre alla ferocia e alle barbarie che non contribuiscono certo a renderlo popolare nemmeno tra le masse musulmane. Annuncio pubblicitario

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Il terrorismo islamico oggi rappresenta una delle minacce più gravi alla pace e alla stabilità internazionale – come del resto ha rimarcato il presidente Obama il 10 settembre scorso, definendolo addirittura «il diavolo» – e sradicarlo non sarà semplice. Questo per due motivi: non sono cambiate le cause che lo hanno partorito e alimentato, da una parte. Dall’altra i peggiori movimenti estremisti islamici in tutto il mondo e soprattutto in Medio Oriente, Africa e Asia, sono collegati tra loro e sono cresciuti tutti alla scuola di al-Qaeda, ne hanno modificato il Dna e sono pronti a riprodursi. L’ultima mutazione genetica degli epigoni di al-Qaeda è strettamente collegata alla morte di Osama Bin Laden, alle primavere arabe fallite, alla democratizzazione stentata e problematica dell’Iraq post-Saddam Hussein e alla rissa settaria in cui si è trasformato lo scontro politico nel sud del mondo. E – cosa che nessuno sottolinea mai abbastanza – è frutto dei conflitti all’interno della stessa galassia terroristica islamista. Osama è stato ucciso dai marines il 2 maggio 2011 e, da allora, il suo successore, l’egiziano Ayman al-Zawahiri, non è riuscito a gestire e controllare quanti intendevano imitare o affiliarsi ad al-Qaeda. L’esempio più lampante è quello delle due organizzazioni peggiori sullo scenario del terrorismo mediorientale: l’Isis (già al-Qaeda in Iraq) e il Fronte al-Nusra nato nelle convulsioni della guerra civile siriana. Quando nell’aprile del 2013 l’Isis ha cominciato ad infiltrarsi in Siria e si è ribattezzato «Stato islamico in Iraq e nel Levante» manifestando così le sue aspirazioni egemoniche, al-Nusra ha reagito con violenza contro questa intrusione in casa propria. La fusione con l’Isis, insomma, non era affatto di suo gradimento e ha esibito le sue «credenziali» come affiliato ad al-Qaeda per rintuzzare le mire dell’Isis. Al-Zawahiri allora, il 23 maggio successivo, si è visto costretto a spedire una lettera agli emiri delle due organizzazioni (Abu Bakr al-Baghdadi per l’Isis e Abu Muhammad al-Julani per al-Nusra) per richiamarli all’ordine. Al-Julani a suo parere non doveva sbandierare ai 4 venti di essere collegato ad al-Qaeda e prima di reagire in maniera intempestiva avrebbe dovuto consultare la casa-madre.

Keystone

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Politica e Economia

Doccia scozzese su Londra Referendum L’Inghilterra teme

Marzio Rigonalli Il Regno Unito traballa sotto la spinta dell’onda nazionalista scozzese. La campagna in vista del referendum sull’indipendenza della Scozia è entrata nella sua ultima fase e l’esito della votazione del 18 settembre è più che mai incerto. I sondaggi danno uno scarto così minimo tra gli indipendentisti e gli unionisti, ossia tra chi vuole l’indipendenza e chi la rifiuta, da rendere praticamente impossibile ogni ragionevole previsione. Alcune settimane or sono, gli unionisti erano dati vincitori con un buon margine di vantaggio; da una decina di giorni si assiste alla rimonta degli indipendentisti. L’incertezza genera una certa euforia ad Edimburgo, e provoca un diffuso allarme nelle alte sfere del potere politico e finanziario a Londra. Il primo ministro David Cameron e gli stati maggiori dei principali partiti, conservatori e liberal-democratici al governo, e laburisti all’opposizione, sono contrari all’indipendenza della Scozia. Temono una perdita d’influenza del Regno Unito sul piano internazionale; vi vedono una fonte di problemi e di difficoltà negli eventuali nuovi rapporti con la Scozia e hanno paura di subire una grave sconfitta politica, con ripercussioni negative sulle prossime elezioni politiche. Per questo, i principali leader hanno deciso di scendere in campo negli ultimi giorni di campagna, sottolineando i vantaggi che offre l’attuale unione e promettendo agli scozzesi di estendere la loro autonomia. Nel mondo finanziario regna una certa preoccupazione. Si guarda con timore soprattutto alla tenuta della sterlina e dei conti pubblici.

Le ambizioni separatiste nel resto d’Europa potrebbero ricevere nuovi impulsi a realizzare i propri sogni Che cosa spinge una parte significativa degli scozzesi a chiedere l’indipendenza? In gioco non c’è un conflitto linguistico e culturale, come è spesso il caso in Europa con i movimenti indipendentistici, bensì una questione politica ed economica. La Scozia è una delle più vecchie nazioni d’Europa e fa parte del Regno Unito dal 1707. Da quasi mezzo secolo, è diventata una terra laburista. Dei quasi 60 parlamentari che invia alla Camera dei Comuni a Londra, ben 40 sono laburisti e uno solo è conservatore. Dal 1999, la Scozia gode di una forte autonomia in numerosi settori, dalla giustizia, alla sanità e alla formazione, dal traffico, all’ambiente ed al turismo. Può contare su un governo ed un parlamento regionali. In parlamento, il partito nazionalista scozzese (Scottish National Party) detiene la maggioranza assoluta dei seggi. Una forza importante, sulla quale s’appoggia Alex Salmond, il leader incontestato della causa indipendentista e del movimento «Yes Scotland». In questi ultimi 50 anni, il fossato tra la Scozia socialdemocratica ed il potere britannico vicino a posizioni neoliberiste, si è consolidato. Oggi, il potere regionale scozzese mira ad un altro modello di sviluppo. Attraverso il controllo delle risorse petrolifere del Mare

del Nord e la riconquista della sovranità fiscale, promette un livello di vita più alto, una migliore protezione sociale ed una formazione più appropriata. Vuole conservare la sterlina, anche se Londra ha affermato che non sarà possibile se subentrerà l’indipendenza, nonché rimanere membro del Commonwealth, della Nato e dell’Unione europea. Un programma soft, che mira alla continuità e ad evidenziare i vantaggi della scelta indipendentista, tralasciando i rischi e gli inconvenienti ch’essa implica. Il fronte degli unionisti, guidato dal movimento «Better Together», gode dell’appoggio di tutto l’establishment politico londinese. Si muove cercando di valorizzare i risultati della vita comune degli ultimi tre secoli, tutto sommato positivi, e mettendo in guardia contro le conseguenze negative di una scissione. Conseguenze economiche, innanzi tutto. Gli oppositori all’indipendenza sostengono che le risorse petrolifere si stanno esaurendo e che il loro sfruttamento diventa sempre più costoso. Tracciano scenari inquietanti dal punto di vista monetario: affermano che la Scozia indipendente dovrà rinunciare alla sterlina, all’unione monetaria con Londra ed alla protezione della Banca centrale d’Inghilterra, protezione che si rivelò molto utile nel 2008, quando si trattò di salvare dal dissesto finanziario la Royal Bank of Scotland di Edimburgo. Prevedono anche che gli investitori esteri saranno restii a venire in un nuovo Paese, con tutti i problemi e le incognite che si presenteranno, prima di poter usufruire di un contesto favorevole agli investimenti. Puntano il dito, insomma, contro il pericolo di ritrovarsi in una situazione economica meno vantaggiosa di quella attuale, sia per lo Stato che per i singoli cittadini. I fautori del no all’indipendenza richiamano l’attenzione anche sui problemi che sorgeranno quando bisognerà suddividere tra la Scozia e la nuova Gran Bretagna, le forze armate, il patrimonio e il debito pubblici. Problemi complessi, la cui soluzione potrebbe richiedere molto tempo e tante energie a scapito del lavoro che sarà necessario per creare il nuovo Stato. La linea di separazione tra i due fronti passa attraverso tutti i settori della società. Nell’ambito dell’economia, per esempio, sono state pubblicate due opposte petizioni, una a favore dell’indipendenza e l’altra contro. La prima è stata firmata da 200 imprenditori. Vi si può leggere che l’economia britannica è troppo centrata su Londra, che l’industria scozzese non viene considerata importante e che l’indipendenza sarebbe un’occasione unica per le aziende e l’occupazione in Scozia. La seconda, sottoscritta da circa 130 grossi nomi dell’economia scozzese, va nella direzione opposta e mette in guardia contro i rischi legati all’indipendenza. Troppe, si afferma, sarebbero le incertezze, concernenti la moneta, le pensioni, la fiscalità e l’appartenenza della Scozia all’Unione europea. E le incertezze non sono compatibili con un sano sviluppo economico. Anche nel mondo dello spettacolo e dello sport vi è una chiara spaccatura. Gli indipendentisti sono guidati da Sean Connery, gli unionisti da Mick Jagger e da Alex Fergusson, ex allenatore ed ex manager del Manchester United. Sulla futura scelta scozzese sono puntati gli occhi delle altre parti del Regno Unito, dei movimenti separatisti

Keystone

che il prossimo 18 settembre vincano gli indipendentisti

europei e di molte capitali del Vecchio Continente. La vittoria del «no» non porterebbe grandi sconvolgimenti; la Scozia chiederebbe a Londra di mantenere le sue promesse e di accordarle una maggiore autonomia. Il tutto potrebbe realizzarsi con un nuovo negoziato bilaterale. Il successo del «sì», invece, avrebbe importanti conseguenze ad ampio raggio. Innanzitutto, all’interno del Regno Unito, sui rapporti tra Londra da una parte, il Galles e l’Irlanda del Nord dall’altra, che chiederebbero sicuramente di poter usufruire di maggiori

poteri. Senza dimenticare, ovviamente, l’incerto futuro politico di Cameron e l’indebolimento della posizione internazionale, politica ed economica, del Regno Unito. In secondo luogo, le ambizioni separatiste, presenti in Catalogna, nei Paesi Paschi e nelle Fiandre, riceverebbero un forte impulso e cercherebbero di realizzarsi con maggiore determinazione. Soprattutto in Catalogna, che il prossimo 9 novembre organizzerà un referendum indipendentista. Infine, l’Unione europea si trove-

rebbe confrontata con un nuovo problema. Come deve comportarsi davanti ad un nuovo Paese che chiede di diventare membro dell’Unione e che è nato dalla scissione di uno Stato membro? Dovrebbe agire come ha sempre fatto un qualsiasi Stato candidato? Il problema non è stato ancora dibattuto, ma ogni decisione importante in seno all’Ue viene presa all’unanimità. L’ingresso della Scozia potrebbe quindi avvenire soltanto con il consenso di Londra. Un consenso che, dalle dichiarazioni rilasciate fin ora, non sembra acquisito. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 15 settembre 2014 ¶ N. 38

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Politica e Economia

Povera una famiglia su cinque Italia Secondo recenti dati e statistiche i nuovi indigenti aumentano quasi ovunque, in particolare nel Meridione.

Sono toccati soprattutto anziani e nuclei familiari con più figli a carico

Più di un italiano su dieci vive sotto la soglia della povertà assoluta. In un anno 303 mila famiglie, cioè 1 milione 206 mila persone, hanno attraversato il confine, che per molti è di non ritorno. In tutto, sono oltre sei milioni gli italiani senza soldi per fare la spesa e per curarsi. Nel 2011 erano 3 milioni e mezzo, nel 2006 meno di 2 milioni e 400 mila. Da quell’anno il numero degli indigenti è aumentato di 630 persone al giorno. Significa il coinvolgimento di quasi l’8% dei nuclei familiari, cioè oltre 2 milioni. A essere più colpiti sono ovviamente quelli con un maggior numero di figli, da tre in su. In particolare, si rileva un aumento dal 6,6% all’8,3 per le famiglie con tre figli, dall’8,3% all’11,8 con quattro e dal 17,2% al 22,1 con cinque o più. In totale tra i poveri assoluti figurano 1 milione 434 mila minori (erano 1 milione 58 mila l’anno prima). La situazione appare pesante soprattutto nel Meridione con la Calabria in testa. Vi risiede la metà abbondante di tutti i poveri, 3 milioni e 120 mila persone (800 mila in più rispetto alle rilevazioni precedenti). Quanto alla composizione dei nuclei in difficoltà economica, l’incidenza della povertà assoluta cresce dove il capofamiglia o il percettore di reddito ha un titolo di studio medio-basso, fa l’operaio o risulta in cerca di occupazione. Eppure gli italiani lavorano più dei tedeschi e dei francesi, purtroppo producono di meno. Nel dettaglio, sono impegnati 1774 ore a testa, il 26% in più dei tedeschi e il 20% in più dei francesi. Tuttavia, per ogni ora lavorata, i tedeschi producono il 25% in più degli italiani, i francesi quasi il 40% in più. La povertà fa passi da gigante tra le coppie di anziani (dal 4% al 6,1): gli indigenti assoluti tra gli ultra 65enni sono 888 mila, in un anno sono aumentati di 160 mila unità. Tradotto in quattrini significa disporre soltanto di 806 euro mensili in un’area metropolitana nel Nord, di 786 euro nel Centro e di 593 euro nel Meridione. Se, invece, si vive in un grande comune la cifra si abbassa: 769 euro nel Nord, 745 euro nel Centro, 573 nel Sud. Ancora più ridotta nei piccoli comuni: 724 euro nel Nord, 697 euro nel Centro, 538 euro nel Sud. A destare, forse, maggiore impressione sono i dati sulla povertà relativa: sfiora addirittura una famiglia su cinque e ha raggiunto l’ex ceto medio. Si parla di 3 milioni e 230 mila nuclei, circa 10 milioni di persone, in lotta quotidiana per garantirsi uno standard di vita accettabile. Per una famiglia composta di sole due persone significa doversela cavare con 973 euro al mese con un’erosione rispetto all’ultimo dato di 18 euro: non ci si pagano neppure una pizza e una birra, ma in uno dei tanti discount consentono di acquistare pasta e pelati per dieci giorni. Addirittura una statistica dell’Unione Europea segnala una realtà ancora più drammatica: sarebbero 18 milioni e mezzo le persone in situazione di povertà, il 30,4% della popolazione. Con tale dato l’Italia si troverebbe al ventunesimo posto nella classifica dei ventotto Paesi della Comunità. In pochi anni una «crescita» purtroppo da record: soltanto la Bulgaria ha fatto peggio di noi. Ecco che cosa rappresentano l’aumento della disoccupazione, vicina al 13%, della deflazione, del calo dei consumi. Non soltanto si acquista di meno, ma si cercano gli sconti e i prodotti con il prezzo più basso. Parecchie famiglie riescono ancora a cavarsela grazie alla pensione dei nonni. Gli ultimi dati della Banca d’Italia spiegano bene la situazione di questi nuovi emarginati: quasi la metà della ricchezza netta totale (il 46,6%) è gestita dal 10% delle famiglie,

Marka

Alfio Caruso

mentre continua a scendere il reddito del restante 90%: siamo a un meno 8% abbondante, con riduzione della ricchezza generale ben superiore al 7%. La metà delle famiglie italiane arriva a fine mese con meno di 2 mila euro al mese (il reddito annuo dichiarato oscilla sui 24 mila euro). Due famiglie su dieci possono contare su un reddito intorno ai 14 mila euro corrispondenti a meno di 1200 euro al mese. Solo il 10% delle famiglie dichiara più di 55 mila euro annui. Cresce anche la percentuale delle famiglie italiane indebitate: il 26,1% ha una situazione passiva con la banca. In molti casi si tratta di un mutuo per l’acquisto di casa con il rischio concreto di vedersela mettere all’asta. La categoria più colpita è quella dei separati-divorziati: il 66,1% di costoro, sono dati Caritas, dichiara di non riuscire a provvedere all’acquisto dei beni di prima necessità. Soprattutto a livello maschile il fenomeno sta assumendo una preoccupante rilevanza sociale. In parecchie città continuano a sorgere residenze esclusive con affitti calmierati. Oscar, 49 anni, ci vive dal 2011. Sindacalista, separato da cinque anni, dopo un matrimonio ventennale, ha due figli, un ragazzo di 19 e una ragazza di 15. La sua busta paga è di 1600 euro netti al mese: 600 li passa ai figli, 400 gli costa l’alloggio. Per di più ha una rata bancaria da 335 euro per un prestito da smaltire in nove anni, gliene restano cinque. Gli rimangono per vivere 265 euro al mese: si arrangia con i buoni pasto. «E, poi, non lo nascondo, mi aiuta mia madre». Francesco, 33 anni, separato dal 2008, una figlia di sette anni. Tecnico audio free lance ha un nodo in più da sciogliere: la scelta tra il lavoro da svolgere per sostenere la bambina e il tempo da dedicarle. Adesso rinuncia a quattro giorni di occupazione mensile per starle vicino. Guadagna tra i 1500 e i 1600 euro netti al mese. Ma se questi dipendono da un lavoro, che mai supera i due trimestri di contratto, l’elenco delle spese mensili è fisso e nutrito: 300 euro di alimenti, 370 di rata per il mutuo della casa, esborso condiviso con la ex compagna, 500 di affitto per l’appartamento in cui vive. Ammette di essere spesso costretto a chiedere una mano ai genitori. Il suo motto è diventato: «domani si vedrà». Massimo, 52 anni, tre figli adulti, separato da 12 anni. Per quattordici anni è stato impiegato in un parco giochi, ora lavora per un periodico di strada: scrive e vende il mensile, lo pagano a percentuale. Racimola tra i 400 e i 500 euro al mese. Paga 250 euro di affitto in un paese della cintura napoletana, l’altro esborso maggiore è rappresentato dalla benzina per muoversi. Dopo essersi appoggiato alle mense parroc-

chiali, cerca di cavarsela con la spesa nei discount e risparmiando sul carburante. Maria quarantenne, disoccupata da otto mesi, lavorava in un call center, due figlie di 7 e 10 anni, è tornata a vivere dai genitori: in tre si sono adattate nella sua vecchia cameretta da ragazza. L’unico introito mensile sono al momento i 600 euro che gli passa l’ex marito per il mantenimento delle bimbe. La Guardia di Finanza sta riattando alcune caserme per ospitare i suoi

agenti in difficoltà economica dopo una separazione o un divorzio. L’intento esplicito è di sottrarli alla possibile tentazione di accettare bustarelle per procurarsi i soldi necessari alla sopravvivenza. Alla quale contribuiscono con incidenza sempre maggiore le mense dei poveri della Caritas, l’organismo pastorale dei vescovi italiani, ormai presenti in ogni città della Penisola. Tra i suoi fruitori aumentano casalinghe, anziani, pensionati e disoccupati di mezza

età, magari provenienti dall’ormai sparita middle class. Li si distingue dall’abbigliamento decoroso rispecchiante i canoni del vecchio benessere. Accanto alla Caritas in crescente diffusione il Banco Alimentare nato nel 1989 dalla fusione di diciannove associazioni e fondazioni private. 1400 volontari ogni giorno raccolgono cibo e vestiario da distribuire alle lunghe file di postulanti. Per una volta il Bene e la Generosità sono stati contagiosi. Deutsche Bank ha lanciato un bond sociale da 100 mila euro. L’Oro Saiwa ha varato «Buon’azione a colazione». Nel 2013 ha donato 160 mila colazioni pari a 1,3 milioni di biscotti; dal prossimo 15 settembre al 31 dicembre 2014 con il coinvolgimento degli acquirenti verranno donate altre 150’000 colazioni. Inoltre, in 300 punti vendita acquistando due confezioni durante le attività in store con hostess, si potranno donare fino a 40’000 ulteriori colazioni: in cambio i consumatori riceveranno una tovaglietta per la prima colazione firmata Oro Saiwa come ringraziamento e ricordo del bel gesto compiuto. Nel conto degli aiuti rientrano pure le 120 mila prestazioni mediche gratuite garantite da Emergency nei poliambulatori di Marghera, Palermo, Polistena (Reggio Calabria) e Sassari. Lo stato d’animo dominante è la rassegnazione. Tutti sono convinti di aver imboccato un tunnel senza uscita. Difficile dar loro torto. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 15 settembre 2014 ¶ N. 38

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Politica e Economia

Postfinance, «banca sistemica»? Politica finanziaria Sulla base dell’importanza nel traffico

dei pagamenti, la Banca Nazionale analizza l’istituto per decidere se inserirlo in quelli «too big to fail» e valutare le misure da adottare Ignazio Bonoli Come si prevedeva, dopo il Gruppo Raiffeisen (vedi «Azione», 25.8.2014), anche Postfinance viene sottoposta ad una accurata indagine per verificare se e fino a che punto la banca della Posta possa venir considerata di «rilevanza sistemica». Questo significa che la banca riveste un ruolo tale nel sistema finanziario da metterne in pericolo tutto il funzionamento in caso di difficoltà della banca stessa. Finora le banche considerate «sistemiche» erano le due grandi (UBS e CS), la Banca cantonale di Zurigo, viste le dimensioni di una grande banca e – come detto - il Gruppo Raiffeisen, in forte crescita e molto attivo nel settore ipotecario. Perché anche la Postfinance? Proprio perché una gran parte del traffico dei pagamenti, in particolare sul piano interno, passa da essa, non soltanto per conto proprio, ma anche per conto di altre banche. In breve, Postfinance conta ormai tre milioni di clienti e amministra un patrimonio globale di 115 miliardi di franchi. Come appena detto, il motivo principale per cui la Banca Nazionale Svizzera vuole procedere a un’accurata indagine per poi decidere una serie di provvedimenti da indicare alla FINMA (l’organo di sorveglian-

za degli istituti finanziari) è quello del traffico dei pagamenti. A questo proposito, basti ricordare che Postfinance ha gestito, nel 2013, ben 965 milioni di franchi di transazioni e che, nel 2014, tale attività ha già raggiunto i 486 milioni di franchi nel primo semestre, in crescita del 3%. Secondo valutazioni interne, il 60% di tutte le transazioni nel traffico svizzero dei pagamenti passa attraverso i sistemi di Postfinance. Un volume che aveva del resto già attirato le attenzioni della direzione, facendole adottare alcune misure, proprio in vista di una possibile definizione di «rilevanza sistemica» da parte della BNS. Così, Postfinance ha creato un centro di calcolo a Zofingen, che si affianca a quello di Berna. I due centri di calcolo, praticamente identici, garantiscono la continuità del sistema IT di Postfinance e quindi anche quella del traffico dei pagamenti. Inoltre, Postfinance può contare oggi su un capitale proprio di 5,1 miliardi di franchi, per cui dispone di una quota di capitale regolamentare del 22,2%. Quindi è già oltre le direttive di capitale proprio previste dagli accordi internazionali di «Basilea III» e anche oltre quelle fissate in Svizzera dalla FINMA. Non è ancora noto quali misure

l’organo di sorveglianza potrebbe chiedere alle banche sottoposte all’indagine. Postfinance ha già fatto parecchio nella direzione di garantire il traffico dei pagamenti, nonché la solidità dell’istituto. Ora sta anche investendo parecchio (239 milioni nel primo semestre 2014) per il rinnovamento dell’infrastruttura tecnologica, con un grande progetto che dovrebbe concludersi nel 2017. Nel primo semestre, ha dovuto constatare un rallentamento degli utili, in particolare di quelli sul differenziale tra gli interessi, e anche nella raccolta di denaro (meno della metà di quella dello scorso anno). In parte, questo fatto viene attribuito anche al passaggio da organo di diritto pubblico a società anonima, premessa per ottenere la definizione di banca. Questo ha comportato una diminuzione dei depositi delle banche, ma non della clientela privata. Anche per Postfinance l’indagine della BNS è appena iniziata e non è ancora dato sapere quali saranno i risultati e le misure eventualmente da prendere. La legge sulle banche definisce di «rilevanza sistemica» quegli istituti che, in caso di difficoltà, potrebbero aver gravi conseguenze per il sistema finanziario o l’intera economia. Tra i parametri da tenere in considerazione,

Postfinance vanta 3 milioni di clienti e 115 miliardi di franchi in deposito. (Keystone)

uno dei più importanti è proprio quello del traffico dei pagamenti, in ogni caso tale da giustificare un eventuale salvataggio in caso di collasso. Accanto alle regole generali per l’attività bancaria (esempio recente: anche la Banca cantonale ticinese deve aumentare il capitale proprio), la Svizzera sta adottando criteri particolari per alcune banche cosiddette «sistemiche». La cosa non è però apprezzata da tutti. Per esempio, le autorità americane criticano i piani di salvataggio di alcune grandi banche, compresi UBS e CS. Questi piani sono ormai definiti «testamenti» e sono destinati a salvare certi istituti in caso di crisi. Per le autorità americane si tratta di piani «irrealistici» o perlomeno «inadeguati». Ora

è stato chiesto un aggiornamento di questi piani entro il luglio 2015. Per le autorità americane è importante avere strutture giuridiche meno complesse e passare a strutture da holding. Cosa che UBS e CS stanno già facendo. Il problema del «too big to fail» è comunque sempre presente. Tanto che un gruppo di professori riuniti in occasione dell’incontro fra «premi Nobel» ha ribadito la necessità di intensificare i controlli sulle banche e di rivedere la struttura commerciale. Un capitale proprio del 20-30% degli attivi garantirebbe già una migliore sicurezza. Inoltre, bisognerebbe evitare che alcune banche possano finanziare i loro investimenti con capitali di terzi in misura esagerata. Annuncio pubblicitario

21 settembre – Giornata Mondiale dell’Alzheimer

DEMENZA: è possibile ridurre il rischio? Non si può prevenire la demenza, ma ognuno di noi può fare qualcosa per ridurre il rischio di contrarre

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questa malattia. Tutto ciò che fa bene al cuore, fa bene anche al cervello. Cinque consigli:

Proteggere il cuore

Fare esercizio fisico

Seguire una dieta sana

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Allenare il cervello

Avere una vita sociale attiva


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Politica e Economia

Cassa malati pubblica unica per tutti? Votazioni federali Il 28 settembre si vota sull’iniziativa popolare promossa dal Partito socialista, ultimo tentativo

in ordine di tempo di passare da un sistema di libera concorrenza ad una sanità con impronta più statale Alessandro Carli Una sola cassa malati per tutti? Questo l’interrogativo sollevato dall’iniziativa socialista «Per una cassa malati pubblica», al quale popolo e cantoni saranno chiamati a rispondere il 28 settembre prossimo. Si tratta di decidere se mantenere l’attuale sistema, che consente al cittadino di scegliere tra 61 casse di diritto privato in concorrenza tra loro, oppure introdurre un’unica cassa nazionale di diritto pubblico, con agenzie cantonali o intercantonali, che gestirebbe l’assicurazione medico-sanitaria per tutti gli abitanti della Svizzera. Insomma, è veramente necessario passare dall’attuale modello – criticabile e migliorabile, ma comunque funzionale – a un sistema la cui validità è tutta da dimostrare e che potrebbe rivelarsi ancora più costoso? Lasciare il certo per l’incerto? Consiglio federale e Parlamento raccomandano di respingere la proposta della sinistra. Per il momento, i sondaggi sembrano dar loro ragione. I cittadini sono nuovamente chiamati a pronunciarsi sulla problematica dell’assicurazione malattia proprio quando sono previsti, per l’anno prossimo, aumenti medi dei premi di cassa malati del 3,8%, contro l’1,5% nel 2013 e il 2,2% nel 2014. Dopo l’accettazione popolare, il 4 dicembre 1994, della legge sull’assicurazione obbligatoria contro le malattia (LaMal), vari sono stati i tentativi, a livello politico, di porre un freno all’esplosione dei costi assicurativi per la salute. Le strategie proposte sono quasi tutte naufragate. In particolare, popolo e cantoni non hanno voluto saperne dell’introduzione di premi in base al reddito e alla sostanza, prevista sia dall’iniziativa socialista «Per una salute a prezzi accessibili» (bocciata nel maggio del 2003 dal 73% dei votanti), che da quella rossoverde «Per una cassa malati unica e sociale» (silurata l’11 marzo 2007 dal 71,2% dei voti espressi). Nonostante le due sonore bocciature, la sinistra non demorde, tornando alla carica con l’iniziativa in votazione alla fine del mese, che ripropone l’idea di una cassa malati unica. Stavolta, però, il progetto non prevede più premi in funzione della «capacità economica» dell’assicurato, proposta appunto già bocciata due volte.

L’iniziativa chiede la creazione di un’istituzione nazionale di diritto pubblico competente per tutta la Svizzera, con agenzie cantonali che stabiliscano e incassino i premi Tuttavia, il testo dell’iniziativa contiene un’incertezza relativa alla sorte riservata ai vari modelli esistenti nel sistema oggi in vigore. Infatti, certi assicurati possono far diminuire il loro premio, aumentando la franchigia fino a 2500 franchi o scegliendo un sistema con bonus. Inoltre, in caso di accettazione del progetto, il Parlamento dovrebbe decidere se la cassa malati pubblica debba continuare a offrire premi più bassi per bambini e giovani. Attualmente, i primi pagano premi inferiori rispetto a quelli degli adulti, mentre i giovani tra i 18 e i 25 anni possono beneficiare di tariffe speciali. Secondo gli oppositori dell’iniziativa, con il progetto di cassa malati pubblica tutto ciò è destinato a scomparire. Per sostenere questo argo-

Se venisse accettata l’iniziativa, i patrimoni delle 61 casse attuali verrebbero trasferiti alla cassa pubblica, con il rischio di complesse procedure giuridiche. (Keystone)

mento, essi si basano sul testo tedesco dell’iniziativa, secondo cui per ogni cantone sarà definito un premio unico o uniforme («einheitliche Prämie»). Nella versione francese e italiana della proposta di modifica della Costituzione è indicato che «I premi sono fissati per cantone (…)». I fautori dell’iniziativa denunciano questa interpretazione e garantiscono di non voler rinunciare all’offerta attuale. Al massimo, dovrebbero essere soppresse le disparità tra le diverse regioni all’interno di un cantone. In merito, il Consiglio federale non si pronuncia e lascia al Parlamento la competenza di decidere come applicare l’iniziativa, nel caso in cui fosse accolta. A parte l’aspetto dei premi in base al reddito e alla sostanza (cui si è rinunciato), le iniziative popolari del 2007 e del 2014 non sono fondamentalmente diverse: garantiscono un’unica prestazione di base, lasciando agli istituti privati la competenza in materia di assicurazione complementare. In base alla LaMal, chi abita in Svizzera deve concludere un’assicurazione contro le malattie, onde usufruire di buone cure, indipendentemente dal suo reddito e patrimonio. Le casse malati sono tenute ad affiliare tutti gli assicurati, rimborsando le prestazioni previste dalla legge (cure mediche, farmaci e degenze ospedaliere). Attualmente sono 61 le casse di diritto privato a offrire varie forme di assicurazione di base in un regime di concorrenza e con la possibilità per gli assicurati di scegliere liberamente a quale cassa affiliarsi e di cambiarla se lo ritenessero opportuno. L’iniziativa socialista vuole abolire questo sistema, che nel complesso funziona. Prevede la creazione di un’istituzione nazionale di diritto pubblico, competente per tutta la Svizzera, con agenzie cantonali che stabiliscano e incassino i premi. La Confederazione, i cantoni, gli assicuratori e i fornitori di prestazioni (specialmente ospedali e medici) saranno rappresentati in seno a quest’istituzione, che si occuperà dell’assicurazione di base. Le assicurazioni complementari rimarrebbero invece di competenza privata.

Al momento del lancio dell’iniziativa «Per una cassa malati pubblica», l’attuale ministro della sanità pubblica Alain Berset era ancora consigliere agli Stati e ne era sostenitore. Con la sua elezione in Consiglio federale, il 14 dicembre 2011, la situazione cambia: il ministro friburghese deve far campagna contro l’iniziativa. In un primo tempo, Berset propone di opporle un controprogetto, con i seguenti obiettivi: migliore compensazione dei rischi, distinzione più chiara tra assicurazioni di base e complementare e istituzione di una sorta di pool per l’assunzione delle cure molto costose. Risultato: levata di scudi in Parlamento da parte dell’ala borghese e progetto che si squaglia come neve al sole. In vista della votazione popolare, Berset dichiara che il passaggio a una cassa pubblica comporterebbe incertezze e costi difficili da valutare. I patrimoni delle casse malattia private dovrebbero essere trasferiti alla cassa pubblica, operazione che potrebbe implicare complesse procedure giuridiche. Per il Consiglio federale il cambiamento di rotta chiesto dai promotori è troppo importante e gli assicurati perderebbero la possibilità di scegliere liberamente l’assicurazione di base. Inoltre, l’attuale concorrenza tra i 61 assicuratori malattia privati permette di sviluppare modelli innovativi e di controllare i costi, offrendo premi il più possibile bassi. Secondo il ministro della sanità questo sistema deve solamente essere perfezionato. Ovviamente, i fautori dell’iniziativa non sono dello stesso parere: l’attuale sistema basato sulla concorrenza tra le casse aumenta la disparità di trattamento tra gli assicurati e non riesce a frenare l’esplosione dei premi. Secondo la consigliera nazionale Marina Carobbio (PS/TI), le casse malati, invece di investire in una migliore presa a carico degli ammalati cronici, danno la caccia ai «buoni rischi» (assicurati giovani e sani). Attualmente, le casse malati spendono 95 franchi su 100 per rimborsare le prestazioni dell’assicurazione di base previste dalla legge. I restanti

5 franchi servono a coprire le spese amministrative. Orbene – affermano i sostenitori dell’iniziativa – la cassa pubblica permetterebbe di risparmiare almeno 325 milioni, oggi spesi in amministrazione e pubblicità. «Non si vede in che modo – replicano gli avversari – visto che la cassa pubblica avrebbe pressoché gli stessi compiti amministrativi delle casse esistenti, ossia riscuotere i premi, controllare le fatture e rimborsare le prestazioni». Per il comitato a favore dell’iniziativa, sostenuta da una parte degli operatori sanitari (i medici sono divisi), occorre abolire l’attuale «pseudoconcorrenza», riportando sotto controllo i costi della salute e ponendo fine all’esplosione dei premi, alla discriminazione delle persone anziane o malate, alle telefonate snervanti di chi vuole convincervi a cambiare cassa. Gli avversari sostengono invece che il cambiamento non produrrà nessun vantaggio, col rischio di compiere un «salto nel buio». Sottolineano che i promotori vogliono combattere l’esplosione dei premi, ma non sono in grado di garantire che, con il loro metodo, i premi saranno effettivamente più bassi.

Dall’introduzione della LaMal, nel 1994, ci sono stati vari tentativi di frenare l’esplosione dei costi della sanità, quasi tutti sono falliti Il paragone fatto dai sostenitori dell’iniziativa con la SUVA non regge, anche perché gli oneri amministrativi dell’Istituto nazionale svizzero di assicurazione contro gli infortuni raggiungono il 10%, ricordano gli oppositori. Quest’ultimi pongono l’accento sui costi supplementari dell’operazione, che si tradurrebbero in un massiccio rincaro dei premi. Per gli avversari della cassa unica occorre riconfermare l’attuale sistema, migliorandolo. Ciò significa potenziarne la vigilanza ed eliminarne gli eccessi. Questa è la via

da percorrere. Intanto, gli assicuratori malattia hanno annunciato di investire 3 milioni di franchi nella campagna contro la cassa unica, soldi che per legge non possono però essere attinti dai premi di base versati dagli assicurati. Tra gli episodi degli ultimi anni volti a frenare la spirale dei costi assicurativi e sanitari, oltre alle iniziative della sinistra, va citata anche la bocciatura, il 3 giugno 2008 con il 69,5% di no, dell’articolo costituzionale «Per qualità ed economicità nell’assicurazione malattie» (controprogetto all’iniziativa dell’UDC «Sì al ribasso dei premi delle casse malati nell’assicurazione di base»). L’articolo avrebbe dato più potere agli assicuratori, mettendo a rischio il principio della libera scelta del medico. Il 17 maggio 2009, i cittadini approvano invece, con 67% delle preferenze, l’articolo costituzionale «Un futuro per la medicina complementare» (controprogetto diretto all’iniziativa «Sì alla medicina complementare»), volto a reintegrare nel catalogo delle prestazioni rimborsate dall’assicurazione malattia obbligatoria 5 medicine alternative (fitoterapia, omeopatia, terapia neurale, medicina cinese e antroposofica), stralciate nel 2005 dal ministro della sanità Pascal Couchepin. Il 17 giugno 2012, con il 76% di no, viene affossato il progetto di istituire reti di cura integrate «Managed Care». Avrebbe penalizzato la libera scelta del medico e dei fornitori di prestazioni. Il 9 febbraio 2014, il 69,8% dei votati ha respinto l’iniziativa degli ambienti cristiani e conservatori «Il finanziamento dell’aborto è una questione privata – Sgravare l’assicurazione malattie stralciando i costi dell’interruzione di gravidanza dall’assicurazione di base obbligatoria». Infine, il 18 maggio scorso, con l’88% dei voti è stato accolto il controprogetto diretto all’iniziativa popolare «Sì alla medicina di famiglia», ritirata. Il 28 settembre è in cartellone un nuovo tentativo di cassa unica. Come si vede, il mondo della LaMal è una fucina di idee e di proposte, espressione anche di malcontento, che daranno ancora filo da torcere.


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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Sempre nuove classifiche I lettori di questa rubrica sanno che non ho molta stima per le classifiche economiche. Il problema delle valutazioni in economia è che raramente sono obiettive. Quando insegnavo metodi di valutazione degli investimenti, un dominio nel quale l’apprezzamento non può essere evitato, raccomandavo sempre ai miei studenti di porsi tre domande a proposito della valutazione: chi l’ha fatta? quali criteri sono stati ritenuti, come sono stati ponderati? e, da ultimo, quali criteri non sono stati ritenuti che avrebbero potuto essere rilevanti? Credo che queste domande debbano essere poste anche quando si tratta di classifiche su questo o quell’aspetto dell’economia che ci vengono proposte dai media, con la frequenza di almeno una al mese. Vediamo un paio di esempi recenti. Qualche settimana fa è apparsa la classifica stando alla quale la Svizzera sarebbe l’economia

maggiormente concorrenziale del mondo. Ne hanno parlato i giornali e la televisione. E nessuno, sottolineo nessuno, ha osato mettere in dubbio il fondamento di questa classifica. Forse perché la Svizzera, da cinque anni, continua ad uscirne in testa. Le condizioni della concorrenza sono note: tante piccole aziende che non abbiano influenza sulla fissazione dei prezzi e, soprattutto, nessun ostacolo all’entrata di nuove aziende sul mercato. La prima di queste condizioni vale certamente per l’economia svizzera, ma la seconda no. Mai come oggi si cerca, in Svizzera, di erigere barriere all’entrata di possibili concorrenti. Vogliamo impedire la libera circolazione della manodopera; stiamo studiando il modo di allentare le disposizione legislative che impediscono la formazione dei cartelli e stiamo per buttare al macero la legge che stabilisce il principio del «Cassis

de Dijon», ossia il divieto di porre ostacoli tecnici alle importazioni. Ma non finisce qui: non passa infatti giorno che non vengano suggerite iniziative o revisioni di legge per proteggere la produzione nazionale. Vedete come i nostri parlamentari si stanno strappando i capelli per trovare una definizione di origine del prodotto svizzero che lo garantisca come tale e rifiuti il riconoscimento a prodotti che contengano, fosse solo per una parte minima, componenti estere. È questa l’economia che merita di essere in testa alla classifica della concorrenza? Penso proprio di no, a meno che tutte le altre siano ancora più protezioniste. Ma veniamo ad un’altra classifica recente: il ranking degli economisti influenti. È la «Neue Zürcher Zeitung» che ha sentito la necessità di stabilirlo andando a contare le citazioni sui media e nelle pubblicazioni

scientifiche e interrogando i politici per sapere quali economisti conoscessero. Ne è uscita una classifica che vede in testa il prof. Ernst Fehr dell’Università di Zurigo, un economista noto a livello mondiale per i suoi esperimenti sul comportamento degli esseri umani in situazioni nelle quali occorre scegliere tra egoismo e senso di giustizia. Anche il terzo della classifica, Bruno S. Frey, professore in pensione, è un economista noto a livello mondiale soprattutto per i lavori sull’importanza economica della democrazia diretta e sull’economia dell’arte. Gli altri diciotto economisti citati nel ranking della «Neue Zürcher Zeitung» sono meno conosciuti. È interessante rilevare che con due eccezioni, la lista della «Neue Zürcher Zeitung» contiene solo personalità operanti in università, istituti o scuole universitarie professionali della Germania o della

Svizzera tedesca. Le due eccezioni sono Samuel Bendahan, un incaricato del Politecnico di Losanna e il prof. Andrea Baranzini della Alta scuola di gestione di Ginevra, noto studioso di economia delle risorse e dell’ambiente. L’impressione che suscita la lettura della lista, Baranzini speriamo non se ne avrà a male, è che nella determinazione della posizione l’apprezzamento dei politici ha giocato un ruolo molto rilevante. Questo è il caso per nove dei venti economisti ritenuti. In altri otto casi è la presenza nei media che ha deciso della loro posizione. Invece la citazione delle ricerche svolte – che di solito è l’unico criterio che vien preso in considerazione in valutazioni di questo tipo – è stata determinante solo in tre casi. Quod erat demonstrandum: nello stabilire classifiche sono decisivi i criteri ritenuti e il modo nel quale vengono ponderati.

smo, il nemico è fondamentale per uno che si è costruito contro la classe dirigente del suo partito, e ora che è al governo continua a muoversi come se fosse all’opposizione: non a caso sabato scorso il presidente del Consiglio applaudiva quando il padrone di casa Bonomi ricordava l’insostenibilità del fisco e il peso della burocrazia. Dal punto di vista del consenso, la sua strategia paga. Però la rottamazione del vecchio da sola non basta. Renzi ha bisogno di una squadra. Invece finora ha solo uno staff. Oltretutto pare che abbia già litigato con l’uomo che fino a ieri definiva il suo «fratello maggiore», il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio. La sua energia è notevole; ma il suo modo di lavorare appare un po’ troppo accentratore. L’impressione è che pensi di poter fare tutto da solo o quasi. Perché, ad esempio, Renzi si è impuntato tanto per avere Federica Mogherini alla testa della politica estera dell’Unione europea? Si tratta di un posto che finora non ha contato molto

più di nulla. In mano a un Blair (che a dire il vero non ha concluso molto con il suo incarico in Medio Oriente), forse qualcosa poteva cambiare. Ma in mano a una giovane donna che magari sarà bravissima ma è priva di esperienza e non ha mai gestito una crisi internazionale, non cambierà niente rispetto agli anni di Lady Ashton. Però Renzi con la nomina della Mogherini ha centrato una serie di obiettivi. Ha colto un successo di facciata. Ha evitato di vedere in una posizione di potere il rivale Enrico Letta. E ha dato quasi l’impressione di volerlo fare lui, l’Alto rappresentante per la politica europea, attraverso una personalità non proprio spiccata. Sono cose ovviamente che Renzi non ammetterà mai. Va detto però che l’operazione è stata coronata da un errore di comunicazione: le foto della Mogherini in lacrime di gioia, e l’abbraccio con il presidente del Consiglio, tipo «abbiamo salvato il mondo». Immagini che sembravano quasi fare il verso a quelle del backstage della crisi di Cuba, con i

fratelli Kennedy in maniche di camicia al tavolo della crisi: due situazioni talmente imparagonabili che si può davvero dire che quelle foto sarebbero dovute restare private. Un’altra immagine criticata è stata quella della sfilata di camicie bianche sul palco della festa dell’Unità di Bologna. I leader del socialismo europeo, a cominciare da Renzi, dal primo ministro francese Manuel Valls e dal nuovo leader del partito socialista spagnolo Pedro Sanchez, sono apparsi tutti insieme con un look che voleva essere giovanilista, e che di sicuro non ha nulla a che fare con i simboli e i modi della sinistra tradizionale. Ovviamente sono dettagli. Ma l’idea di Renzi non potrebbe essere più chiara: prendere le distanze sia dalla vecchia classe politica, sia dalle tradizionali classi dirigenti; sia dai Massimo D’Alema, sia dai Mario Monti. E a maggior ragione da Enrico Letta, esponente di entrambe le categorie; che continua ad opporre all’ostilità di Renzi un irriducibile e rancoroso silenzio.

migliaia di depositi o qualche milione di risparmiatori, ed ecco un fiume di soldi che, senza muovere paglia, certamente non va a ingrassare Paesi in via di sviluppo. Così, non del tutto convinto dai tiri incrociati di Grübel, ho provato a guardare il problema dalla parte delle radici. E sono arrivato alla conclusione che nell’intervista a Grübel perlomeno un’altra domanda, forse da ingenuo prima ancora che da dilettante, io l’avrei inserita. Ed è questa: caro ex-direttore di Ubs e di Credit Suisse, secondo lei quanto varrebbe il franco svizzero «libero» e, soprattutto, quanti vantaggi potrebbe offrire ai risparmiatori, se anche da noi l’Iva (cioè la madre di tutte le gabelle politiche) raggiungesse lo stesso livello che ha nei Paesi dell’Euro? È vero, paghiamo un 20% di valore artificiale della nostra moneta, ma evitiamo anche di pagarne un 15% grazie a un’Iva meno vorace e soprattutto meno invasiva, visto che va

a pescare nelle borse della spesa e nelle tasche di tutti i cittadini. Questo però ai banchieri – e agli ex che vengono usati da ariete – non interessa. Anche perché il denaro gratis consente alle banche di tenere mucchi di miliardi parcheggiati presso le banche centrali (meglio se con l’etichetta di «riserve obbligatorie» o come «salvagente in caso di rischi» per chi è «too big to fail»), soldi disponibili all’ormai mitico 0,05% e che rendono lo 0,25% anche lasciandoli fermi, posteggiati, sicuri. Ad approfittarne, lo ammette anche Grübel, non è il risparmiatore, bensì «chi ha i debiti, in primo luogo gli Stati e i loro politici, che non hanno alcun interesse a diminuire la spesa pubblica». Di fronte a queste dinamiche, chi non è sostenitore di scelte politico-monetarie (sotto-sotto dettate dalla paranoica lotta all’inflazione) si chiede come possano funzionare da stimolo al di fuori di chi maneggia il denaro gratuito. Trovare Grübel d’accordo su questo

pericolo, può sembrare paradossale, ma non basta a eliminare il dubbio che egli lo stia usando per perseguire un doppio scopo. Il primo è quello di giustificare le banche e accusare i politici che chiedono fondi di riserva obbligatori. Il secondo è volto a premunirsi contro eventuali effetti collaterali di quel denaro gratis, sempre più simile a un pericoloso Ritalin monetario. Dice infatti Grübel: «Da una parte si chiede alle banche di ridurre i loro rischi, ciò che viene anche fatto, diminuendo i crediti; dall’altra si inondano i mercati di liquidità a buon mercato. Non funzionerà. Solo gli Stati indebitati e i mercati finanziari ne approfittano». Insomma, da vecchia e astutissima volpe, l’ex banchiere non sta forse cercando di posizionare gli istituti di credito come una valvola di sicurezza indispensabile contro il pericolo che il denaro gratuito possa essere distribuito, come… brioches, al popolo e alle economie?

In&outlet di Aldo Cazzullo Renzi contro l’establishment L’occasione per Renzi era ghiotta. Queste le parole con cui me l’ha spiegata: «Di là c’è un convegno in un hotel cinque stelle sul lago con Barroso, Trichet, Almunia ed Enrico» (Letta). «Di qua si apre un rubinettificio alla periferia di Brescia con Annibale, Domenico, Luciano, Elio. Quale crede che sia il mio posto?». Annibale e gli altri sarebbero i vecchi operai delle Rubinetterie Bresciane. Renzi li ha visti all’ingresso della fabbrica e si è

fatto dire i loro nomi. Poi ha incentrato il suo comizio su un concetto tecnicamente grillino: io sono uno di voi, non uno di loro. «Loro» sono gli intellettuali, i professori, gli economisti, gli editorialisti, i membri delle élites, l’establishment, casualmente riunito nelle stesse ore a Cernobbio, sul lago di Como. Renzi li ha definiti «i soliti noti, che stanno lì da trent’anni e non ne hanno mai azzeccata una». L’avversario è connaturato al renzi-

Matteo Renzi con Federica Mogherini alla Festa dell’Unità di Bologna.

Zig-Zag di Ovidio Biffi Quanto ci costa il denaro gratis? Attovagliati a Cureglia in un grotto ticinese tra i più antichi, un amico mi lusinga ricordando il tema del mio ultimo Zig-Zag: «Ho visto che sei anche economista…». Gli preciso che l’economia è solo un mio pallino, osservata da nano sulle spalle di giganti, sia pure di casa nostra (da Biucchi a Besomi, da Toppi a Tuor, senza dimenticare Angelo Rossi e Tito Tettamanti). Il discorso approda poi all’intervista di Oswald Grübel alla «Weltwoche» e al messaggio che i media hanno posto come piuma sul cappello dell’excondottiero di Credit Suisse e Ubs: «Svizzeri più poveri del 20%… Senza la soglia minima – introdotta unilateralmente il 6 settembre 2011 – l’euro oggi non varrebbe 1,21 franchi, bensì circa 1 franco». Grande forza di persuasione, soprattutto contro un euro malconcio che non si preoccupa di offrire denaro a un tasso dello 0,05 %, vale a dire approdando al denaro gratis. Secondo Grübel «la Banca nazionale auspica un

franco debole, perché così è voluto dal mondo politico ed economico»; e inoltre, agganciandosi all’euro, la Svizzera sostiene in modo artificiale la moneta europea e indebolisce la propria: così facendo «tutti i nostri patrimoni vengono svalutati per un quinto». La stoccata mediatica (e populistica) è inevitabile: con il denaro gratis a pagare sono i risparmiatori, «tutti coloro che per anni hanno lavorato duramente e hanno messo qualcosa da parte e oggi stanno perdendo». Lo sottolineano subito agenzie e giornali, accarezzando chi vede i pochi risparmi tartassati e gabellati, senza però dire che a fine mese o a fine anno a far quadrare i conti sono solo le banche e chi maneggia il denaro contante o virtuale: quote annue, coperture, affitti di caselle, spese per ogni movimento, 1 fr. per ricevere il cartaceo (come dire: «E comprati sto pc!»), 1 fr. per i pagamenti via posta, multe per sforamenti ecc. ecc. Moltiplicate per centinaia di


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Cultura e Spettacoli La linea, tra danza e teatro Tiziana Arnaboldi presenta un nuovo spettacolo teatrale carico di stimolanti riflessioni

Eclettismo irlandese Il nuovo Cd della musicista irlandese Sinéad O’Connor ne conferma le grandi doti

Musica al cinema Liberace e Paganini protagonisti delle più interessanti uscite in DVD della stagione

pagina 41

Richter, la sperimentazione Lugano celebra l’artista dadaista Hans Richter presentando una serie di opere; parallelamente si proiettano film del periodo delle avanguardie pagine 44-45

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Diva massima

Anniversari Gli ottant’anni di Sophia Loren,

inossidabile icona cinematografica

Alfio Caruso Gli ottant’anni ruggenti di Sophia Loren (il prossimo 20 settembre) sembrano l’ennesima tappa di una favola, viceversa sono il frutto di un’intelligenza fuori dal comune, di una feroce volontà, temprata dalle troppe sofferenze della guerra, delle ribollenti ambizioni della madre, che riversò sulla figlia i suoi appassiti sogni hollywoodiani. Ad aiutare Sophia nella stratosferica scalata al successo il fisico da urlo, dalla bellezza mediterranea. Un seno straripante, e uno spacco infinito di gambe, oltre a un lato B in grado di rivaleggiare con quello di Marilyn Monroe. In onore del davanzale i registi attuarono lo stratagemma di riprenderlo, nelle sue prime comparsate, coperto per il bigotto mercato interno e scoperto per quello internazionale. Da Sofia Scicolone, il suo vero nome, a Sophia Lazzaro, fino al definitivo Sophia Loren – invenzione del produttore Goffredo Lombardo ispirato dall’attrice svedese Märta Torén – risalta già la determinazione di una diciassettenne capace d’allacciare una relazione clandestina con un quarantenne sposato e padre di figli. E Carlo Ponti, nipote di un marchese, senatore del Regno d’Italia, non colpiva a prima vista per la sua avvenenza, ma a renderlo un irresistibile rubacuori provvedeva il suo ruolo di gran visir dei film. Corteggiatissima da mezzo cinema italiano, che l’aveva incrociata nei primi passi a Cinecittà, la Loren trovò in Ponti non soltanto l’uomo in grado di spalancarle le porte della carriera, ma anche la figura paterna mancatale nella giovinezza. Il genitore Riccardo Scicolone, figlio di un marchese siciliano, aveva avuto una lunga relazione con Romilda Villani da cui erano nate Sofia e Maria, tuttavia aveva rifiutato di sposarla, anzi l’aveva costretta a rientrare da Roma nella casa dei genitori a Pozzuoli, dove Romilda e le figlie avevano

trascorso anni di semi indigenza. Ed era stata Romilda, che nel ’32 per amore non si era trasferita a Hollywood quale controfigura di Greta Garbo, a decidere che la straripante avvenenza di Sofia abbisognasse del palcoscenico romano. Da qui il ritorno nella Capitale, il pellegrinaggio da un provino all’altro, da un concorso di bellezza all’altro fino a quello di Miss Italia nel 1950. Gli scarsi sedici anni di Sofia avevano spaventato la giuria: anziché la fascia della vincitrice, avevano inventato per lei il titolo di Miss Eleganza. Tra gli spettatori, però, figurava Ponti. La Storia poteva mettersi in moto. A favorirne il decollo, l’umiltà di Sophia nell’accettare le proprie considerevoli lacune, dalla dizione alla cultura, e l’inossidabile determinazione di porvi rimedio studiando la sera, frequentando corsi, rubando il mestiere ai tanti registi che la dirigevano. Sono gli anni della commedia italiana, sul set l’incontro, che risulterà determinante, con Vittorio De Sica, incaricato di prestare il proprio carisma a pellicole di modesto spessore, ma di rimarchevoli incassi. E a lanciare oltre frontiera il fenomeno Sophia è proprio il mambo ballato con De Sica in Pane, amore e…: lei ci mette la prorompente sensualità, lui la maestria di smorfie, tic, mancamenti. La copertina di «Life» anticipa la chiamata dall’America. Sophia è pronta all’appuntamento: possiede un inglese fluente, sa stare a tavola e in salotto da consumata protagonista. Scatta la consacrazione: megaproduzioni, partner strepitosi, registi da Oscar e lei a barcamenarsi tra corteggiatori da perderci la testa. Con abilità li trasforma in vecchi amici, da Cary Grant a Frank Sinatra, da Peter Sellers a Richard Burton. La svolta definitiva avviene con un modesto romanzo di Moravia, La ciociara, ambientato durante l’avanzata alleata nell’Italia sotto il tacco tedesco. Ponti ne ha ac-

Sophia Loren nel 1966, all’epoca de La contessa di Hong Kong. (Keystone)

quistato i diritti, vorrebbe affidarne la regia a George Cukor, che ha diretto la Loren ne Il diavolo in calzoncini rosa. Per il ruolo di Cesira, la protagonista, viene interpellata Anna Magnani, fresca vincitrice nel ’56 del primo Oscar a un’attrice italiana. Sophia dovrebbe interpretare Rosetta, la figlia. Ma la Magnani rifiuta – «non posso fare la madre di una che è il doppio di me» – il progetto finisce in alto mare, finché non viene affidato a De Sica. È lui a voler puntare sulle doti drammatiche dell’ex compagna di mambo, bravissima nell’invecchiarsi per risultare credibile. Il film trionfa in tutto il mondo: l’Oscar del ’62 a Sophia si accompagna al Golden Globe, alla Palma d’Oro, alla copertina su «Time». A ventotto anni Sophia è arrivata dove neppure la madre forse credeva. Entrata nell’Olimpo, ci resta – nel ’67 si trova addirittura abbinata a Marlon Brando con la regia di Charlie

Chaplin nel deludente La contessa di Hong Kong – ma senza più l’acuto. Forse l’eccezione è l’Antonietta de La giornata particolare di Ettore Scola. A rubarle la scena è il miglior Marcello Mastroianni di sempre nella dolente interpretazione di un omosessuale indotto in tentazione da quella sfatta madre di famiglia. Per Sophia e Marcello rappresenta il culmine di venticinque anni di recitazione in coppia, nei quali risaltano gli otto film con De Sica. Sono assieme anche in Ieri, oggi e domani che procura al regista il terzo Oscar, mentre Sophia entra nell’immaginario collettivo di tutti gli uomini con la scena dello spogliarello, che strappa appassionati mugugni a un eccitato Mastroianni. Una scena talmente cult da indurre Robert Altman a chiedere trent’anni dopo un ironico bis, in Pret-à-Porter, ai due stagionati protagonisti. E la sessantenne Sofia non sfigura; d’altronde nel 2006 si

cava la soddisfazione di posare per un malizioso servizio fotografico nel calendario Pirelli. Tra cinema, televisione, omaggi, riconoscimenti, serate speciali l’Oscar alla carriera nel ’91 sancisce il ruolo d’icona ormai assunto da Sophia. Della ragazzina cresciuta a Pozzuoli è rimasta solo la passione per lo scopone. L’italianità comunque sopravvive nella madre iperprotettiva di due figli e nel far da epicentro della numerosa famiglia, dopo le mille vicissitudini per sposare Ponti nell’epoca in cui il Belpaese sconosceva il divorzio. E per fedeltà alle traversie fiscali del marito sconta nel ’78 diciassette giorni di detenzione: soltanto nel 2013 viene decretata la sua totale estraneità. Fluenti parrucche e un uso accorto della chirurgia continuano a garantirle una bellezza fuori da ogni canone, ma non sarebbe bastata a farne una delle massime dive del cinema.


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Cultura e Spettacoli

Il cuore pulsante del paese Documentari Grazie a Service inbegriffe il cineasta svizzero Eric Bergkraut ha vinto il secondo concorso del Percento

culturale Migros per il documentario-CH: un viaggio inaspettato in una delle molte anime della Svizzera Madame Grand, la Simone Signoret della Val de Travers, davanti al suo Hotel de la Poste. (p.s.72productions)

Simona Sala Il tentativo di comprendere quali siano effettivamente i meccanismi e i fenomeni comuni che permettano a un Paese come la Svizzera di mantenere una coesione improbabile per occhi estranei, è più presente che mai. Una delle forze della nostra nazione forse è anche da ricercare nella continua e generosa messa in discussione di tutti gli attori in causa: si scende infatti in campo politicamente e culturalmente ogni qual volta all’orizzonte appaiano delle nubi che possano mettere a rischio le fondamenta della Willensation. Lo abbiamo visto recentemente, dopo il voto del 9 febbraio e nelle ultime settimane, con la proposta di Turgovia e Nidwaldo di dare al fran-

cese una priorità diversa all’interno del curriculum scolastico. Questi non sono che due fra i molti esempi di lettura del nostro complesso Paese che si riflettono nei fiumi di inchiostro e parole spesi costantemente e soprattutto dalla stampa e dai media di Oltre Gottardo (pensiamo alle recenti special edition dedicate alla Svizzera da settimanali ad alta tiratura come «Weltwoche» o «Das Magazin»). «Die Schweiz» insomma, non smette mai di affascinare chi ci vive e chi la guarda da fuori. Possiamo dunque leggere il Paese abbracciando prospettive diverse e lontane tra di loro. Il Percento culturale Migros ha accolto questa grande e preziosa sfida, trasformandola in un concorso per stimolare approcci di-

versi, e di conseguenza la discussione. Il concorso per il documentario-CH si rivolge a cineasti svizzeri desiderosi di illustrare un aspetto più o meno noto del nostro Paese. Esso si suddivide in due fasi: durante la prima, in occasione delle Giornate del Cinema di Soletta, una giuria competente sceglie da tre a cinque progetti da sostenere con 25’000 franchi ciascuno fino al momento della produzione. A quel punto la giuria riesamina i progetti: quello più convincente viene finanziato interamente con il sostegno di SRG SSR. La prima edizione del concorso per il documentario-CH è stata vinta da Zum Beispiel Suberg di Simon Baumann. Il documentario del giovane cineasta sonda le sorti del proprio paese

Il fascino di una casa aperta a tutti Erik Bergkraut in questi giorni sarà in Ticino per presenziare al debutto cinematografico del suo documentario. Gli abbiamo parlato per capire cosa abbia rappresentato la realizzazione di Service inbegriffe. Perché la scelta di concentrarsi proprio sulla bettola?

Per molti la bettola è una seconda casa; ad affascinarmi era l’idea di un locale semipubblico in un’era in cui si trascorre sempre più tempo per conto proprio e con i mezzi elettronici. I miei genitori avevano una casa di vacanza a Motto, in Val di Blenio, e ricordo l’osteria Tre Vie, gestita dalla signora Albertina. Si trattava di un luogo che aveva anche un ruolo sociale, e che in fondo rappresentava l’anima del paese. La bettola è spesso anacronistica, ma porta in sé anche un che di indistruttibile. Si tratta di un business molto duro, e questo aspetto mi è stato più a cuore di quello nostalgico. Nel suo documentario segue cinque luoghi di ritrovo: uno in Ticino, uno nella Val de Travers, due a

Zurigo e uno nell’Appenzello. Quali criteri ha seguito nelle sue scelte?

Siamo stati in molte bettole, anche in incognito, e abbiamo fatto dei protocolli. Solo la signora Marlies Schoch dell’Hundwiler Höhe era già una specie di celebrità nazionale, gli altri sono stati scelti da noi. All’inizio al Caffè Papa non capivano che l’unica cosa che stavamo cercando era la normalità. A Biasca effettivamente non si parla molto e non succedono grandi cose, dunque le riprese sono state a tratti difficili. Poi ho incontrato il signor Lombardi, le cui parole mi hanno catturato, e che mi ha trascinato in un’altra era, l’ho dunque visitato spesso, a volte filmandolo con il cellulare. In generale resto molto legato alle persone con cui lavoro, anche perché la realizzazione di un film richiede molto tempo al regista e confidenza e fiducia da parte dei protagonisti. Questo porta alla nascita di relazioni profonde e durature. Quali sono state le reazioni dei protagonisti del suo film?

Molto positive, alcuni di loro si sono

aperti completamente durante le riprese. Madame Grand ad esempio ha cominciato addirittura a parlare dei propri sogni: è una persona molto aperta, forse dipende dal fatto che vive in Romandia. Frau Schoch invece, nonostante la grande disponibilità, ha un che di inscalfibile, non rivela mai fino in fondo i propri pensieri. Credo che i protagonisti, attraverso le loro parole o i loro silenzi, diano comunque modo allo spettatore di pensare alla propria esistenza. Il mio infatti non vuole essere un film sulla cosiddetta «swissness», tanto alla moda di questi tempi: pur presentando degli aspetti del nostro Paese, a starmi a cuore era proprio il concetto di casa aperta al pubblico. Dove e quando

Service inbegriffe sarà presentato il 16 settembre (ore 20.00) al Cinestar di Lugano alla presenza del regista Eric Bergkraut e il 19 settembre (ore 20.30) al Cinema Teatro Blenio alla presenza del regista e di una delle protagoniste, Marlies Schoch.

natale, Suberg appunto, per molti versi simili a quelle di altri villaggi elvetici. Suberg infatti, da paese a vocazione agricola con un forte senso comunitario, si è lentamente trasformato in un anonimo villaggio-dormitorio. L’interesse da parte del pubblico per l’argomento si è potuto toccare con mano al cinema: Zum Beispiel Suberg ha registrato 25’000 spettatori. Il concorso documentario-CH ha recentemente premiato il suo secondo vincitore. Si tratta del noto documentarista svizzero Eric Bergkraut, che nel suo Service inbegriffe ha puntato l’obiettivo sulla bettola. La bettola (in tedesco «Beiz», dall’ebraico «bayith») per molte realtà rappresenta ancora un luogo che va oltre la ristorazione, offrendo un momento di incontro dalla profonda valenza sociale. Una realtà che, come dimostra proprio l’esempio ticinese presente nel documentario – ossia quel Caffè Papa di Biasca, che ha chiuso i battenti poco dopo la fine delle riprese – ha il destino spesso segnato. Sono sempre meno le persone disposte a sacrificare la vita privata nella ristorazione, che notoriamente richiede un grande dispendio di tempo ed energie. Nel corso di oltre un anno Bergkraut ha visitato a più riprese cinque bettole svizzere, dandone un ritrat-

to sociale e umano a volte commovente, a volte divertente. Oltre al già citato Caffè Papa di Biasca, con i suoi clienti parchi di parole ma generosi di autenticità, la telecamera di Bergkraut si è concentrata anche sull’Hotel de la Poste di Fleurier, con l’inossidabile forza della natura Madame Grand (la Simone Signoret della Val de Travers) e su Marlies Schoch (la dolce despota, amica di politici e assistente sociale a modo suo) dell’Hundwiler Höhe, nell’Appenzello. Vi sono poi due bar di Zurigo, il caffé Atrio della Stazione centrale, con gli anonimi clienti di passaggio e un’inattesa comparsa di Peter Bichsel, e il Transit, situato tra un centro profughi e i box delle prostitute, nato come scommessa e diventato in poco tempo un luogo super trendy. Ci si affeziona a questi personaggi di un’autenticità a tratti disarmante, ai paesaggi, ai diversi corsi della vita. Alla fine, come suggerisce il regista stesso, ci si guarda anche un poco dentro, rendendosi conto di come in fondo sogni, speranze e delusioni accomunino tutti noi. Informazioni

Documentario-CH: www.percentoculturale-migros.ch/attivita_di_promozione/398/default.aspx


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Cultura e Spettacoli

Una linea continua unisce il teatro alla danza Teatro Tiziana Arnaboldi crea un nuovo viaggio attraverso molteplici dimensioni del sentire Giorgio Thoeni Il teatro San Materno di Ascona ha riaperto i battenti inaugurando la prima parte della sua stagione con uno spettacolo di danza al suo debutto in prima assoluta: Linea, una nuova coreografia di Tiziana Arnaboldi. Ci siamo occupati a più riprese del lavoro di questa instancabile artista asconese che sprizza entusiasmo da tutti i pori. Un entusiasmo contagioso, considerati i risultati ottenuti dalla squadra eterogenea riunita in una «Compagnia giovani», con la quale dal 2009 realizza un programma di formazione unico nella nostra regione che accosta giovani ticinesi a professionisti provenienti dall’estero e già attivi in altre compagnie. Un lavoro di prossimità territoriale anche fatto di tenacia, in quanto conosciamo le difficoltà che spesso si incontrano quando si vogliono realizzare spettacoli. E non solo in periodi di profonda crisi economica. È una questione di mentalità, ma nella piccola sala bauhaus del San Materno la progettualità sembra esser stata sempre di casa. Una sorta di «genius loci», forse per esoterica vocazione, certamente grazie alle idee. Come con Linea, dove si parte da un semplice oggetto, un bastone (la linea), per costruire architetture del corpo, disegni astratti accanto a emozioni concrete, immagini fantasiose, sogni con le ali, monologhi e dialoghi di un ensemble

di danzatori amalgamati a tal punto che in certi casi sette dilettanti e quattro professionisti si confondono gioiosamente alterando possibili gerarchie di merito. Detto per inciso, l’uso del bastone nel teatro ha un valore non indifferente: richiama le arti marziali ma suggerisce anche un senso di disciplina del movimento, della danza. Gruppi storici come l’Odin teatret di Eugenio Barba o il Potlach Teatro di Fara Sabina negli anni Settanta ne hanno riaffermato l’uso, soprattutto per le loro figure danzanti, fra epici duelli e narrazioni parodistiche. Torniamo ai nostri undici danzatori in scena: tutti riescono a ritagliarsi il proprio spazio, anche nelle soluzioni d’assieme. Si diceva di un’idea. Più è semplice e più è efficace. Come una linea, un tratto che congiunge o divide. Ecco allora asticelle sottili di varie lunghezze animarsi creando situazioni di racconto. A tratti autobiografico se irrompe la parola schietta, senza una prosopopea da repertorio ma come accessorio ironico o come dimensione ritmica e onomatopeica. Linea è un viaggio anche attraverso una dimensione teatrale, liturgica, mitologica, simbolica, illusoria. Come quando un coro di cinque donne ammaliatrici dalle grottesche capigliature sembra uscire da una commedia di Aristofane imitando il tubare di uccelli innamorati. Oppure alcuni grossi ceppi diven-

Un momento di Linea, il nuovo spettacolo di Tiziana Arnaboldi.

tano piedistalli per movenze calibrate in un elogio della lentezza e dell’equilibrio. Ma anche quando si danza al ritmo di una coinvolgente melodia in cui riconosciamo il corno delle alpi mescolato a voci gutturali. O ancora

richiamando immagini sacre, corpi ingabbiati, danze liberatorie. Uno spettacolo ricco di suggestioni, dunque, in cui i suoni e la musica accompagnano l’universo onirico ma anche la scomposizione dei movimenti che trasfor-

mano i corpi in «linee» proiettate verso ogni direzione in un gioco misurato e affascinante: una produzione che ha convinto la platea al suo debutto e che, dopo un passaggio ad Arona, sarà replicata a Verscio (19-20 settembre), all’Accademia di Architettura di Mendrisio (12 ottobre) e infine nell’ambito del festival internazionale del teatro, al Foce di Lugano (17 ottobre). A questo punto meritano di essere citati gli interpreti: Faustino Blanchut, Francesco Colaleo, Carlotta Dionisio, Maxime Freixas, Francesca Linnea Ugolini, Debora Turuani, Eulalia Prisco, Luca Rampazzi, Claudia Rossi Valli, Camilla Stanga e Tiziana Vonlanthen. Il programma asconese continua con le sue proposte, una fra queste merita di essere evidenziata. Si tratta di L’ultimo viaggio. La verità di Enrico Filippini in scena il prossimo 18 settembre, uno spettacolo prodotto dal Teatro San Materno e che rientra nel cartellone di «ArTransit», uno dei 19 progetti selezionati in seno a «Viavai – Contrabbando culturale Svizzera-Lombardia». Scritto da Giuliano Compagno e da Concita Filippini – figlia dello scrittore, germanista, traduttore e intellettuale locarnese – è un testo che racconta gli ultimi giorni trascorsi insieme al padre. Una sorta di riscoperta di un amore distante ma pur sempre intenso. Per il pubblico sarà anche l’occasione per riscoprire la figura di Enrico Filippini. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Liberace e Paganini, due vite musicali per lo schermo Dvd Pubblicati in home video i film, antitetici, con David Garrett e Michael Douglas sul piano sociologico/culturale che la biografia del pianista americano d’origine italo-polacca – famoso per essere stato l’artista con il più alto cachet al mondo, tra gli anni Cinquanta e Settanta, nonché la più luminosa icona dello show in stile Las Vegas – non è da trascurare.

Zeno Gabaglio «Su questa storia sarebbe da farci un film!». Chi non ha mai sentito pronunciare – o addirittura esclamato in prima persona – questa frase, a significare che i contenuti di una determinata vicenda sono talmente inusuali e clamorosi da meritare l’eterna celebrazione attraverso l’arte cinematografica? Sarebbe bello potesse sempre succedere così, ma sarebbe anche troppo facile. Perché – al di là del fatto che il presupposto di straordinarietà è spesso troppo soggettivo – non sono per forza le storie incredibili a decretare la qualità del film che le tratti. Anzi: alcuni dei film più meravigliosi parlano proprio dell’esatto opposto – di vite ordinarie e di storie comuni – ribadendo come il buon cinema non lo fa chi la racconta più grossa, ma chi la racconta meglio. Ciononostante esiste un preciso genere – il biopic, ovvero biographic picture – che mira precisamente alla messinscena di storie fantastiche di personaggi realmente esistiti, e proprio per questo forse ancora più clamorose. Va da sé che uno dei bacini privilegiati in cui andare a cercare il meraviglioso sia quello delle vicende musicali, con un piglio filologico al limite del feticistico che sin qui ha gratificato (più o meno…) la memoria di Wolfgang Amadeus Mozart, Jim Morrison, Johnny Cash, Édith Piaf, Kurt Cobain o Ray Charles.

In un biopic musicale è meglio un bravo attore che non sappia suonare di un musicista che non sappia recitare Michael Douglas nella sua ottima interpretazione di Liberace. Il violinista del diavolo

Uno dei dati tecnici in genere più salienti, parlando di biopic musicali, è il fatto che attori più o meno famosi – spesso molto famosi – si trovino a interpretare ruoli da musicista senza peraltro esserlo, sottoponendosi a mesi di training per poter simulare durante i ciak – quando l’uso della controfigura non è possibile – tecniche strumentali o vocali irreprensibilmente verosimili: vere e proprie prove di abilità d’attore. Il caso del recente film di Bernard Rose dedicato a Paganini – Il

violinista del diavolo – è però diverso, perché protagonista della pellicola è il violinista David Garrett, una delle poche icone pop del mondo classico attuale. Tanto meglio, si dirà: se il ruolo del protagonista è affidato a un violinista, il risultato non potrà che essere più credibile. Idealmente sì, ma quel che il film dimostra è che in realtà è molto meglio un attore che suona maluccio piuttosto che un musicista che recita ancor peggio. Due ore di vanità e luoghi comuni che fanno amaramente rimpiangere il folle Paganini di Klaus

Kinski, profondamente incoerente e autenticamente trascinante. Dietro i candelabri

Prova d’attore, si diceva, e proprio quello che Michael Douglas e Matt Damon sono riusciti a fare nelle mani di Steven Soderbergh è da ascrivere alle più alte prove d’attore viste in tempi recenti. E questo malgrado la vicenda umana di Władziu Valentino Liberace – fantasticamente debordante – abbia poco da concedere all’intrinseca qualità musicale. È però

Il film proprio questo restituisce: lo sfarzo e l’eccesso di un’esistenza vissuta nello stereotipo dell’ipersensibilità omosessuale, dove la musica avrebbe potuto essere sostituita da qualsiasi altra disciplina dell’avanspettacolo (balletto, magia, equilibrismo) e che appunto per questo nell’intreccio narrativo si relativizza. Posta accanto a un contenuto umano fuori dal comune la musica (anche quella scadente!) si fa un po’ più piccola, e questo non è per forza un male. Perché sarebbe finalmente giunto il momento di non far più dipendere i contenuti e la qualità della nostra esperienza musicale solo dagli idoli di celluloide o dalle presunte grandeur proclamate dai demiurghi del business culturale. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Richter, un mondo poliedrico Rassegne Una serie di film sperimentali e di avanguardia risalenti alla prima metà del Novecento

a corollario della mostra dedicata ad Hans Richter in corso a Lugano Giovanni Medolago Cinema sperimentale, avanguardia, film dada, surrealisti e futuristi, poeti cineasti, artisti a 360 gradi: sarebbe presuntuoso tentare di districare una matassa che da decenni sta impegnando storici del cinema e dell’arte tout court. Si va dalle teorie di Jean Mitry (Storia del cinema sperimentale) a quelle di Ricciotto Canudo, giornalista e poeta italiano cui va il merito d’aver coniato – nel 1911! – il termine «Settima Arte», ritenendo che la parola «cinema» suonasse volgare a troppe orecchie. Meriterebbero una citazione sia la burla di Marcel Duchamp che nel 1925 pubblicizzò il suo esperimento «Anémic Cinéma» sistemando la scritta col titolo sugli spioventi del tetto della sala che lo proiettava (passò qualche settimana prima che qualcuno si accorgesse di quell’estemporaneo «Ciména»!), sia le impegnative riflessioni di Béla Balàzs, il quale nel suo saggio Il film, nel 1949 parla, riguardo il cinema diciamo non convenzionale, di «visioni interiori trasformate in concetti e in pensieri». Ma val piuttosto la pena di soffermarci sulle numerose «chicche» proposte nella rassegna Hans Richter e il cinema delle avanguardie, evento collaterale dell’esposizione dedicata al poliedrico artista vissuto e spentosi a Minusio nel 1976 (vedi pagina a fronte; il programma dettagliato si trova su www.mda.lugano.ch). Sul grande schermo del Cinema Corso si potranno vedere alcuni lavori

I celebri cappelli volanti di Vormittagsspuk, di Hans Richter, 1928.

di Viking Eggeling (1880-1925), pittore svedese che dedicò parecchia attenzione ai cosiddetti film astratti. Forme e figure (cerchi cubi cilindri spirali parallele ecc) che si susseguono e sovrappongono sino a non più rappresentare alcun oggetto reale né alcun elemento naturale. Grande amico di Richter, con quest’ultimo – e Tristan Tzara – Eggeling studiò in particolare le relazioni orizzontale-verticale, pensando al modello del contrappunto musicale (non a caso l’expo luganese s’intitola Il ritmo dell’avanguardia…). Situazioni astruse e farsesche, immagini distolte dal loro

compito di significare e che acquistano così una propria esistenza a sé stante: è questo l’intento di Francis Picabia, che scrive la sceneggiatura di Entr’act, cortometraggio poi firmato da René Clair e che vede coinvolti Man Ray, Marcel Duchamp e tra gli altri Erik Satie. «Cinema puro, essenziale, scattante con una precisione estrema» (G. Viazzi), che cerca di indurre lo spettatore a un’estrema fluidità dell’immaginazione. Ai tentativi di questa bella combriccola parigina, risponde dall’URSS (per la precisione dall’Ucraina) Dziga

Vertov, cineasta militante rivoluzionario. Apre quello che si considera il suo capolavoro (L’uomo con la macchina da presa, 1929, resoconto della giornata di un operatore che gira per le strade dall’alba al tramonto alla ricerca di buon materiale da riprendere, penetrando anche nelle case per sorprendere la gente che si sveglia…) con una didascalia estremamente significativa: «Si fa presente agli spettatori che questo film è un esperimento di trascrizione cinematografica di fenomeni visibili, senza didascalie, scene né teatri di posa. È un lavoro sperimentale che ha

per fine la creazione di un linguaggio cinematografico assoluto, autenticamente internazionale, sulla base di una piena separazione dal linguaggio della letteratura e del teatro». Il corto, infatti, si chiude con la macchina da presa che sfugge all’operatore e riprende la facciata del teatro Bol’soj in frantumi! Altri lavori sicuramente da non perdere, quelli dello stesso Richter. Vormittagsspuk, dove i cappelli di sei uomini (uno di questi è il compositore Paul Hindemith) si staccano dalle rispettive teste e volteggiano in aria come uno stormo inafferrabile di uccelli, porte trompe l’oeil che si aprono in un giardino che può rivelarsi semplicemente una tappezzeria: sequenze che, secondo il già citato Balàzs, «non hanno alcun senso ma lo scopo di provocare il riso mediante l’illogicità». O ancora Dreams That Money Can Buy (Sogni che il denaro può comprare, 1947), girato in una soffitta newyorkese in collaborazione con Peggy Guggenheim, interpretato da Max Ernst e arricchito dalle musiche di Edgard Varèse, Darius Milhaud e John Cage. Sebbene premiato a Venezia per «il miglior contributo originale al progresso della cinematografia», non riuscì a coronare un altro sogno di Richter: quello di trapiantare a Hollywood un «cinema altro». Infine, non si può trascurare Le ballet mécanique del Maestro cubista Fernand Léger, che sin dal suo apparire nel 1924 divenne una pietra miliare del cinema… sperimentale, d’avanguardia, surrealista, dada, futurista! Annuncio pubblicitario

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Quando l’arte detta il ritmo Mostre A Lugano l’opera del tedesco Hans Richter Alessia Brughera In pochi hanno preso parte così pienamente alle principali vicende artistiche di inizio Novecento come Hans Richter. Erano gli anni eroici dell’avanguardia europea, e lui, nato a Berlino nel 1888, li ha attraversati con la passione e l’impeto di chi crede fermamente nel potere dell’arte di migliorare l’uomo e la società. Richter è stato un talento eclettico, una personalità versatile e acuta che ha saputo applicare la sua genialità a diversi campi. È stato pittore, disegnatore, incisore, cineasta, scrittore. Prima di tutto, però, è stato un grande sperimentatore, una mente libera capace di trasferire concetti e soluzioni da una forma espressiva all’altra e di assumere lui stesso ruoli differenti per riuscire al meglio nell’intento di sostenere i suoi ideali artistici, divenendo all’occorrenza divulgatore, curatore, cronista, direttore, insegnante. La retrospettiva che il Museo d’Arte di Lugano gli dedica si intitola significativamente Hans Richter. Il ritmo dell’avanguardia non solo perché la nozione di ritmo è stata uno dei suoi maggiori apporti all’arte, ma anche perché la sua intera esistenza si è mossa seguendo il flusso del modernismo, mantenendosi vorace, intensa, sempre tesa a perorare i valori di una rivoluzione progressista. Il percorso espositivo include quasi duecento opere tra dipinti, film, disegni, fotografie e riviste, da cui emergono le preoccupazioni di fondo dell’intero arco creativo di Richter e la straordinaria serie di incontri con i maggiori interpreti del tempo che con lui hanno dibattuto e condiviso esperienze. Ad aprire la mostra sono i lavori giovanili dell’artista, quando ancora guarda alle bagnanti di Cézanne «con la loro gamma cromatica che prima sale e poi scende», ai dipinti di Franz Marc in cui figura e sfondo diventano un tutt’uno e alle composizioni cubiste che lo affascinano per l’audacia di passare «con un balzo al mondo della frammentazione degli oggetti». Gli anni del primo conflitto mondiale sono documentati da alcune opere che risentono degli orrori della guerra, a cui pure Richter partecipa fin quando viene ferito a Vilnius e trasferito poi in un ospedale militare vicino a Berlino. Paradigmatico in questo senso è l’inchiostro acquerellato dal titolo Die

Hans Richter, Lokomotivseele, 1916.

Erde ohne Vernunft (Un mondo senza ragione). Data 1916 l’incontro con il Dadaismo zurighese, di cui Richter diventa uno dei protagonisti assoluti. È un’esperienza, questa, che segna un momento importante nel suo percorso perché lo allontana definitivamente dal figurativismo per introdurlo in una nuova fase caratterizzata da un libero accostamento di colori e forme governate dal caso. Il 1917 è un anno di febbrile lavoro. Richter dipinge quasi cento ritratti visionari, debitori della lezione espressionista assimilata negli anni Dieci a Berlino e realizzati attraverso un procedimento quasi automatico che si affida più alle pulsioni interne che alla vista. In mostra troviamo alcuni splendidi esempi quali Blauer Mann (L’uomo blu) e Lokomotivseele (Anima di locomotiva). Nel 1918 il compositore italiano Ferruccio Busoni gli suggerisce di esplorare il contrappunto musicale: per Richter è il punto di partenza per l’elaborazione del suo originale concetto di integrare la nozione di durata nello spazio pittorico. Le Dada Köpfe (Teste Dada) esposte ci raccontano gli esordi di questa sua ricerca per giungere a una strutturazione della superficie secondo la logica della musica. Qui la combinazione

ritmica si consuma nella relazione tra le macchie nere d’inchiostro e il bianco delle zone vuote della carta. Nello stesso anno ha luogo un altro fondamentale incontro, ben documentato nella rassegna luganese, quello con il pittore svedese Viking Eggeling. I due si conoscono a Zurigo grazie a Tristan Tzara in un momento in cui entrambi stanno portando avanti i loro studi astratti su spazio e tempo. Con Eggeling, Richter approfondisce l’idea di estendere l’immagine in una successione cronologica attraverso la realizzazione di rotoli nei quali vengono disposte forme astratte in una progressione dinamica. I rulli di immagini sono il risultato a cui approdano insieme: lunghe strisce di carta su cui si dispiegano opposizioni di linee verticali e orizzontali e di superfici positive e negative. Ecco allora Fugue 23 (Fuga 23) in cui Richter orchestra forme e colori attraverso analogie, contrasti e ripetizioni. Il passo successivo viene quasi da sé. I rotoli gettano Richter «fuori dal mondo del cavalletto» per introdurlo in una nuova tecnica artistica la cui essenza è il tempo. L’artista constata infatti che il mezzo espressivo più idoneo a rappresentare le sue sequenze di elementi è il cinema. Nascono dapprima opere sperimentali astratte quali Rhyth-

mus 21 e Rhythmus 23, poi, anche grazie alla conoscenza delle potenzialità del montaggio carpite durante la frequentazione di registi internazionali tra cui Sergej Ėjzenštejn, prendono vita piccoli capolavori surrealisti come Vormittagsspuk (Fantasmi del mattino, vedi foto nella pagina accanto), del 1928, in cui Richter immagina una fugace ribellione degli oggetti alla loro routine quotidiana. Seguono anni di assidue e proficue ricerche tra pittura e cinema anche quando, dopo l’avvento del nazismo, Richter è costretto a rifugiarsi negli Stati Uniti, dove all’indagine artistica affianca l’attività di insegnante presso l’Institute of Film Techniques al City College di New York e quella di cronista delle avanguardie dei primi decenni del secolo. Del periodo americano la mostra espone alcuni rotoli-collage che mescolano carta da giornale e pittura incorporando i resoconti originali delle notizie dal fronte, a sottolineare come adesso più che mai l’elemento narrativo e storico abbia un ruolo importante nell’opera dell’artista. Tra i documenti filmici degli anni Quaranta spicca Dreams That Money Can Buy, il primo lungometraggio sperimentale a colori della storia, realizzato da Richter nel 1944 in collaborazione con vari artisti e compositori tra cui Alexander Calder, Fernand Léger, Max Ernst, Marcel Duchamp, Man Ray e John Cage: sette sequenze oniriche costruite attorno a una cornice dal sapore noir in cui viene mordacemente stigmatizzata la macchina da sogni hollywoodiana. A partire dagli anni Cinquanta Richter soggiorna spesso anche in Ticino (muore a Minusio nel 1976), frequentando tra l’altro gli artisti ospitati negli atelier locarnesi messi a disposizione dallo scultore Remo Rossi. Anche nei lavori degli anni Sessanta e Settanta Richter sperimenta nuovi materiali, indaga nuovi ritmi: dadaista fino all’ultimo nell’aprirsi alle coincidenze e alle sfide in completa libertà.

Come dire, se a vincere è la noia Visti in tivù Il film

funziona sempre, ma il talk contenitore curato da Lombardi non convince

Antonella Rainoldi Con grande trepidazione è partito la settimana scorsa su RSI La1 Come dire – il magazzino delle idee, il nuovo programma di intrattenimento culturale curato da Enrico Lombardi, già al lavoro su capolavori dimenticati come Il Balcone e Cinepiù, con la regia di Alessandro Maccagni (domenica, ore 20.40, 4 puntate). Come dire, roba di serie A. Quattro parole «dal forte impatto emotivo» sono le basi di «un viaggio suggestivo attraverso stati d’animo, pulsioni e sentimenti»: passione, paura, colpa e sfida. Per il resto, il programma assembla, mette insieme un po’ di tutto secondo la formula del talk contenitore: video d’archivio, testimonianze filmate, interviste di Rachele Bianchi Porro agli ospiti (il linguista Giuseppe Antonelli, la giornalista Giovanna Zucconi, lo psichiatra e scrittore Vittorino Andreoli, il maestro Diego Fasolis, l’onnipresente Francesca Rigotti…), accompagnamento musicale della «Come dire Band» di Nicola Locarnini. C’è anche il film «di notevole impatto», c’è il pubblico in studio. Come dire, molta carne al fuoco.

Dove e quando

Hans Richter. Il ritmo dell’avanguardia. Museo d’Arte Lugano. Fino al 23 novembre 2014. A cura di Elio Schenini e Timothy Benson. Orari: martedì-domenica 10.00-18.00; venerdì 10.00-21.00; lunedì chiuso. Catalogo edito dal Museo d’Arte Città di Lugano con Edizioni Casagrande, costo Fr. 45.–, www.mda.lugano.ch

Concorsi

Rachele Bianchi Porro.

Aulos Rassegna cameristica Studio Foce, Lugano Do 21.9 - Do 28.9, ore 17.30

Settimane Musicali Festival concertistico Chiesa Collegio Papio, Ascona, Lu 22.9, ore 20.30 - 23.00

Festival delle marionette Rass. teatrale internazionale Studio Foce, Lugano Da Sa 13.9 a Me 15.10

21.9: Roberto Arnoldi e Gabriele Rota

Il giudizio di Paride, di Giuseppe Sammartini (1740)

Me 17.9, 15.00: L’Omino dei sogni Compagnia Il Cerchio tondo, Italia.

Musiche per violino e pianoforte di L. van Beethoven, Pugnani-Kreisler, Natale Arnoldi.

Pastorale per soli, coro e orchestra. I Barocchisti. Coro della Radiotelevisione Svizzera Italiana. Dir. Diego Fasolis.

Sa 20.9, ore 15.00: Monsters Compagnia ZiPit, Barcellona.

28.9: Ensemble Courante Primo Barocco strumentale italiano con Lidia Giussani, flauto dolce, Raffaello Negri, violino, Chiara Granata, arpa barocca.

091/821 71 62 Orario per le telefonate: dalle 14.30 fino a esaurimento dei biglietti

Regolamento Migros Ticino offre ai lettori biglietti gratuiti per le manifestazioni sopra menzionate.

Do 21.9, ore 11.00: Cirkus Huketi Con Michael Huber, Svizzera. Do 21.9, ore 16.00: L’asino d’oro Teatro del Drago, Italia. Me 24.9, ore 15.00: Il circo tre dita Con Alberto De Bastiani, Italia.

Massimo due biglietti per economia domestica. La partecipazione è riservata a chi non ha beneficiato di vincite in occasione di analoghe promozioni nel corso degli scorsi mesi.

Biglietti in palio per gli eventi sostenuti dal Percento culturale di Migros Ticino

Per aggiudicarsi i biglietti basta telefonare mercoledì 17 al numero sulla sinistra nell’orario indicato. Buona fortuna!

Siccome ci siamo persi qualche istante della performance d’esordio, dobbiamo ricorrere alla prosa dell’ufficio stampa per scoprire il senso profondo dell’operazione: «Un’intera serata per pensare e ripensare, con un misto di leggerezza e approfondimento, a termini, testi, temi su cui vale la pena di tornare a riflettere». Cosa sia davvero Come dire un giorno forse non lontano lo capiremo. Per ora rimane uno dei tanti misteri inaccessibili della tv. Sarà per colpa nostra, lo ammettiamo, ma poco dopo la visione del grande film di Woody Allen, Match Point, ci siamo addormentati, vinti dal sonno. Vinti dal sonno o dalla noia? Il giornalista Lorenzo Buccella si stava producendo in un lungo monologo, tendenza guru, mentre Rachele Bianchi Porro lo fissava rapita, con un’intensità incredibile. Via Buccella, dentro Zucconi. Via Zucconi, dentro Antonelli. La leggerezza è altrove, forse nel pensiero di Diana Segantini, responsabile del Dipartimento Cultura. L’ultima immagine che ricordiamo è quella di una cantante con poca voce. No, forse era il pubblico in studio: sguardi persi nel vuoto, applausi a comando. Come dire, seratina appassionante.


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Cultura e Spettacoli Rubriche

In fin della fiera di Bruno Gambarotta In viaggio con il Papa 50 anni or sono, dal 4 al 6 gennaio 1964, Paolo VI andò in pellegrinaggio in Terrasanta. La Rai, i quotidiani e i periodici si mobilitarono. Le edizioni Henry Beyle ristampano le corrispondenze di Dino Buzzati, inviato dal «Corriere della Sera» con Eugenio Montale, Alberto Cavallari, il sacerdote Eugenio Pisoni. Le 124 pagine contengono 8 corrispondenze (la prima del 20 dicembre 1963 ancora dall’Italia, le altre dalla Palestina), più un bilancio steso al ritorno, pubblicato l’8 gennaio 1964 (Piccole sorprese in Terrasanta, sottotitolo Taccuino di un provinciale). Il libro è completato da una postfazione del curatore Lorenzo Viganò (Un uomo come noi), ricca di preziose notizie. Come scrive Viganò, Dino Buzzati aveva l’incarico di seguire la visita di Paolo VI dal punto di vista della persona comune, del «provinciale», come lui stesso si definisce. L’autore de Il deserto dei Tartari esegue il suo compito con la generosa umiltà che caratterizzerà sempre il Buzzati giornalista. Al servizio del lettore, lo mette al corrente

dei suoi limiti e delle sue ansie di inviato. Ricordiamo le condizioni di lavoro di un giornalista mezzo secolo fa: non c’era ancora la rete dei satelliti per le telecomunicazioni, la prima preoccupazione di un inviato, una volta arrivato sul posto, era quella di assicurarsi l’accesso a un telefono fisso dal quale dettare i suoi pezzi o di un ufficio dal quale spedire i cablogrammi. Buzzati si domanda: «Riusciremo noi giornalisti a seguire il Papa, riusciremo a vederlo, riusciremo soprattutto a spedire in tempo i resoconti? Il problema è quasi angoscioso. Dicono che sabato tra cronisti e fotografi saremo circa 2500. (...) Telefonare in Europa è un’utopia. I cablogrammi ci mettono come minimo dodici ore. Le linee telegrafiche e le telescriventi, qui in Giordania, sono ridotte e non basteranno sicuramente ad assorbire il diluvio». Buzzati racconta il suo disperato girovagare fra uffici, consolati e governatorati alla ricerca di visti, lasciapassare, documenti, fotografie, perché una volta usciti dalla Giordania per andare in Israele,

un trabattello davanti alla Porta di Damasco ho visto il papa che non riusciva a uscire da un’auto sommersa dalla folla con i più scalmanati sdraiati sul cofano, il piccolo cardinale Aganian disteso a terra, urla, spintoni. Scrive Buzzati: «alla porta di Damasco, lungo la via Dolorosa e al Santo Sepolcro si sono viste scene impressionanti. In quegli spazi così esigui la densità dei corpi umani era tale che non esisteva la possibilità di distinguere. (...) Così il cardinale Testa si è avuto uno spintone che per poco non lo ha mandato lungo disteso, e un soldato, tentando di arginare la folla impazzita, ha sbattuto il calcio del mitra in faccia a don Macchi, segretario del Papa, rompendogli gli occhiali». Il resoconto prosegue dalla basilica dell’Agonia: «Intorno a me si ansima in americano, si supplica in torinese, si geme in tedesco, si protesta in arabo, si sviene in portoghese». Gli altri corrispondenti volavano alto, nell’intento forse di non «sporcare» l’immagine di un evento che si verificava per la prima volta nella storia del cristianesimo. Dino

Buzzati raccontava quello che vedeva non con intento dissacrante. Non era nel suo carattere e lo dimostrano le riflessioni su «ciò che è stato questo viaggio per Montini uomo» nella corrispondenza del 7 gennaio. «Fra i motivi che lo hanno deciso ad un gesto così coraggioso, è temerario immaginare che ci sia stato, sia pure in misura minuscola, un desiderio di evasione?» Durante quel viaggio è scoccata una scintilla fra il testimone ateo e il papa. Ci informa Lorenzo Viganò: «A fine anno lo scrittore seguirà Paolo VI anche nella sua visita in India, viaggiando con lui in aereo e conoscendolo personalmente, conoscenza che avrà un’influenza importante nella sua vita privata. In un colloquio riservato, il Pontefice lo spingerà infatti a sposarsi, a regolarizzare il rapporto con la giovane Almerina Antoniazzi con cui aveva una relazione. Dino Buzzati non aspetterà di tornare e le chiederà la mano per lettera, in maniera ufficiale, scrivendole la dichiarazione sulla carta personale di Paolo VI, con tanto di marchio papale».

un po’ di pace e anonimato? Proprio lui si è offerto di farci da accompagnatore, una persona squisita. Pensa che per l’attrezzatura, che non avevamo comprato in città per via dei prezzi alti, ci ha fatto aprire apposta il negozio di un suo conoscente, che ci ha in pratica regalato scarponcini e piccozze. Nei rifugi poi, di solito cari e affollati, non c’era quasi nessuno, perché noi sceglievamo le ore in cui gli altri dormono o riposano. Abbiamo mangiato in modo esagerato, e per due soldi. Come dici, i rifugi sono per definizione costosi? Ma allora non sei mai stato al Bucaneve e alla capanna Solfrizzi, devi dire tu basta perché ti continuano a offrire assaggi e grappini. No, ma quella è grappa che dà forza, non fa male. I cellulari e i computer non avevano rete, ma noi desideravamo proprio questa pace, ed è stato emozionante usare quell’unica cabina telefonica in piazza. Sì perché in tempo di crisi e di nostalgia, delle vacanze si devono sottolineare gli aspetti sobri e vintage. Così tornando dal mare anni

fa si elencavano i locali frequentati di notte, i ristorantini pregiati, i «passaggi» su natanti a vela, in un tripudio di lino bianco per i signori e colorati kaftani o triangolini, a seconda dell’età, per le signore. Oggi si decanta invece lo stile spiccio dell’abito unico, calzoncini da bagno nonché da passeggio per lui, pareo che funge da abito, asciugamano, borsetta, costumino, fermacapelli per lei. Si torna ad organizzare vacanze di famiglie con famiglie, per risparmiare, con l’atteggiamento free e freak degli anni Settanta. Con quello che ci sembrava di avere ancora, quel senso di tolleranza e amore universale, che invece si infrange al primo giorno sul desiderio omicida che non possiamo scatenare contro il bimbo amorevole degli amici, abituato la sera a fare tardi. E quindi a non lasciare un attimo di respiro a genitori e amici. Per le vacanze al mare, invece, il vicino di scrivania dell’altra parte non aderisce al modello che fortuna che bravi a noi va sempre bene. Aderisce al modello

opposto, altrettanto letale. Vacanze? Seee, chiamiamole così. Un’emicrania fissa dal primo giorno. Mia suocera ha preso il fuoco di Sant’Antonio, va e vieni dall’ospedale, che non ti dico cos’era, lì al mare, e poi si lamentava sempre. Poveretta. Poveretta chi? Chi la accompagnava e doveva pure intrattenerla in casa. La spiaggia, che ho visto un paio di volte perché il tempo è stato sempre, dico sempre, brutto, era sporca. Sai, la risacca, col mare mosso. Niente bagni, troppe onde pericolose. Quindi turisti dappertutto, per le strade, nei negozi, in pizzeria. Che poi, prezzi da Cortina e Porto Cervo, altro che i nostri di città, l’anno prossimo, se sono ancora al mondo, arrivo là anche con la spesa per un mese. Che poi siamo stati meno di un mese, faceva troppo freddo troppo. Voi ascoltate i racconti, l’iperbole nel bene e nel male. Non è che vi vada di raccontare i fatti vostri. Con socratica ironia dite che non è poi male stare a casa, in compagnia di qualche metafora.

martedì scorso. Nel giorno in cui Sofri commentava sul «Foglio» l’iniziativa del «Guardian» (5½), c’erano al primo posto le immagini di Jennifer Lawrence nuda, anzi, l’annuncio di una mostra a Miami in cui l’attrice apparirà senza vestiti. Al quinto posto il video della decapitazione di Sotloff. Senza citare i successi inenarrabili delle confessioni della ex compagna (4–) del presidente francese Hollande; del trentottenne inglese il cui terrificante schianto in moto a 160 all’ora è stato diffuso dalla famiglia su you tube; dell’australiano attaccato e ucciso da uno squalo sotto gli occhi della moglie; del matrimonio miliardario in Puglia di una coppia indiana; della scena di sesso in spiaggia a Gallipoli accuratamente ripresa in video. Qualunque fesseria, cialtronata, idiozia, degradazione trova nella rete la sua apoteosi, lasciando affogare in un mare di melma (e in realtà riducendo al nulla) le informazioni serie, pacate,

sfumate, approfondite. Il miglior modo per avere qualche ora, giorno, settimana, mese di celebrità è andare a casa e picchiare a sangue la moglie, impiccare un gatto, tagliarsi le vene, prodursi in una performance di sesso a tre quattro dodici, oppure più semplicemente attaccare un quadro capovolto, mettersi le dita nel naso, espletare i propri bisogni fisiologici: il tutto sempre rigorosamente dopo essersi accertati che la videocamera funzioni e alla fine postare il risultato in allegria su you tube. Intendiamoci, i giornali porno, i fumetti violenti, i settimanali di gossip sono sempre stati stravenduti in edicola, ma quel che fa riflettere è il fatto che ormai le scemenze e le aberrazioni circolano a livello planetario e a costo zero con un effetto volano mai visto. Se fino a non molti anni fa bisognava darsi la pena di entrare in un negozio, aprire bocca per fare la propria richiesta e tirare fuori dalle tasche il portafogli,

oggi basta un clic: con il risultato di trasformare una boiata minima in una boiata di dimensioni colossali. Naturalmente, questa banalissima constatazione troverà subito centinaia di osservatori molto liberali (3+ di incoraggiamento) che sbraiteranno contro le ipocrisie del «politicamente corretto», accusato di voler censurare le manifestazioni più genuine e sincere degli umori e delle passioni della cosiddetta «gente». Senza negare le goffaggini spesso ridicole del «politicamente corretto» che diventano patetica crociata in nome di una astratta buona educazione, basterebbero alcuni accorgimenti minimali per non assecondare il «voyeurismo» globale: il primo è che vengano eliminate dal web (o almeno dai siti online dei giornali) le classifiche delle notizie più lette, e lasciare che sia la fantasia del singolo lettore a redigere le sue più o meno balzane graduatorie di gradimento.

non era più possibile rientrare nel Paese arabo a meno di non essere il papa. Alla fine sbotta in uno sfogo auto ironico: «E poi dicono che io copio Franz Kafka». Mentre attende all’aeroporto di Amman l’arrivo dell’aereo che trasporta Paolo VI, riflette: «Oggi siamo tutti buoni, sembra addirittura che sia Natale. Già, ma è Natale sul serio». C’ero anch’io in quei giorni nella parte giordana di Gerusalemme ancora divisa in due. Non come inviato ma come cameraman della Rai; ero partito da Roma il 26 dicembre con due passaporti, uno col visto giordano e l’altro col visto israeliano, non sapendo ancora a quale territorio la mia squadra di riprese sarebbe stata assegnata. Avevo chiesto a mio padre durante la mia assenza di tenere da parte le copie della «Stampa» e del «Corriere della Sera» per leggere al ritorno le cronache di avvenimenti a cui avrei assistito solo per una piccola parte. Ebbene, le uniche cronache che riflettevano le scene che avevo visto e inquadrato con la mia telecamera erano quelle di Dino Buzzati. Issato su

Postille filosofiche di Maria Bettetini L’iperbole del bene e del male Partito? È ufficiale? Sì, pare che ci siamo, con la riapertura di tutte le scuole non ci sono più scuse, l’estate è finita, l’anno (accademico, scolastico) è incominciato. I segnali di entusiasmo sono evidenti: raffreddori, emicranie, eczemi approfittano di ogni bacillo vagante per colpire. L’abbronzatura lascia spazio al pallore di un’epidermide spelacchiata, in «muta» come quella dei serpenti. Per incoraggiarci, la serata televisiva del primo lunedì d’autunno presenta titoli e programmi che inducono a una visione positiva della vita: Il silenzio degli innocenti, Psyco, Marnie, la prima puntata di una fiction sui vampiri, la nuova serie su mafia e delitti, oltre alle solite puntate intermedie di thriller psicologici, paranormali, legali. Come se le emozioni negative forti e finte potessero curare quelle negative e basta, un po’ di Hannibal the Cannibal per contrastare i racconti estivi dalla scrivania accanto. Metafora per iperbole. Hannibal è metafora del male puro, quindi intelligentissimo,

combattuto dal bene ottuso, vanitoso, egoista, lo psichiatra geniale e cannibale contro il poliziotto-dottore vendicativo e sciocco. Una situazione ai limiti del reale che aiuta a riflettere sul fondamentale tema del bene e del male, e su quello correlato della libertà del singolo. Un modo per prendere le distanze da vanità più meschine, come quella che porta a dover dimostrare che abbiamo avuto come sempre tutte le fortune, abbiamo speso meno di tutti per avere più di tutti, un po’ il caso e un po’ le nostre intelligenti decisioni insieme alla nostra proverbiale preveggenza. Siamo andati in montagna: tempo brutto come su tutto l’arco alpino? Ma no, da noi ha fatto brutto un paio di pomeriggi, tra l’altro proprio quelli in cui avevamo già deciso di fare il fuoco e giocare a carte coi vicini. Avevamo deciso di affrontare delle vie in alta quota ma non sapevamo da che parte incominciare. E non andiamo a scoprire che in quel paese soggiornava in incognito Reinhold Messner che cercava

Voti d’aria di Paolo Di Stefano Il gradimento dell’aria fritta La classifica delle notizie più lette quotidianamente sui siti online dei giornali è bizzarra e irritante. Il «Guardian» sottolineava, qualche settimana fa, come la rete riesca a esaltare gli argomenti più aberranti: dalle vicende intime alla violenza gratuita e più efferata, oppure le fatuità. La domanda che si poneva il giornale inglese, ripresa nella «Piccola posta» da Adriano Sofri (6–), è: impareremo prima o poi a non cadere nella trappola? Quanto alla fatuità: nel giorno in cui sono state barbaramente trucidate tre suore italiane in Burundi, il sito del «Corriere della Sera» aveva in vetta alle notizie più cliccate la pseudo-scoperta dell’identità di Jack lo Squartatore, per di più con un nome, quello del barbiere polacco Aaron Kosminski, già segnalato da decenni. Dunque, neanche una novità. Ora un ricercatore ha fondato la sua «certezza» sul test del Dna realizzato sul (presunto) scialle di una delle

almeno cinque vittime di Jack. Già la scrittrice Patricia Cornwell (4½), un decennio fa, aveva «chiuso» il caso identificando il famoso serial killer in un certo Walter Sickert, un oscuro pittore impressionista inglese, e già allora l’indice di gradimento dei siti (e del libro in cui la giallista ricostruiva la sua ipotesi) aveva registrato un’impennata. Jack lo Squartatore è un personaggio molto gradito agli affamati di bufale (non mozzarelle, ma notizie fatte apposta per catturare gli ingenui). Dopo la trionfale giornata di Kosminski, è arrivata la giornata trionfale di Ray Rice, campione di football americano, che nel febbraio scorso ha picchiato selvaggiamente, nell’ascensore di un hotel di Atlantic City, la sua fidanzata, Janay Rice, poi diventata sua moglie. La notizia tardiva, molto dettagliata, era corredata di numerose fotografie con la sequenza del pestaggio. Primo posto tra le «news» più lette di



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Idee e acquisti per la settimana

shopping Gustare il pesce consapevolmente Pesce fresco Tutto il pesce al banco

della Migros proviene da fonti sostenibili. I responsabili delle nostre pescherie vi consigliano alcune prelibatezze. Approfittate inoltre del buono sconto del 10% da ritagliare accluso (2. di 4 puntate) Il pangasius è un pesce particolarmente apprezzato anche da chi non è troppo amante delle specialità ittiche. «Grazie alle sue carni bianche o rosate sode, poco grasse e dal sapore gradevole, questo pesce è molto apprezzato dai consumatori», spiega Bosko Stojcev, responsabile della pescheria presso il supermercato Migros di Locarno. «Inoltre, essendo privo di lische, è ideale anche per i bambini». In cucina è utilizzato per preparare i piatti più diversi, dai semplici stuzzichini per l’aperitivo fino ai secondi più squisiti (vedi ricetta). Il pangasius che trovate ai banchi pesce Migros proviene esclusivamente da alleva-

menti sostenibili in Vietnam. I pesci sono certificati con il marchio ASC (Aquaculture Stewardship Council), il che sta a significare che gli allevatori devono rispettare severi criteri nelle loro acquicolture. Ad esempio, i pesci devono disporre di ampi spazi, il loro habitat naturale deve essere preservato, si deve prevenire l’abuso di antibiotici e ridurre l’inquinamento, gli alimenti devono essere d’origine controllata e i lavoratori devono poter contare su condizioni di lavoro eque. Per saperne di più

generazione-m.ch

Questo marchio è sinonimo di allevamenti certificati e responsabili. I pesci e i frutti di mare provengono sempre da impianti di acquicoltura, controllati e certificati da organi indipendenti. Bosko Stojcev è il vostro specialista del pesce presso il supermercato Migros di Locarno. (Flavia Leuenberger)

Parte di

Generazione M è il simbolo dell’impegno sostenibile della Migros. Il marchio ASC ne fornisce un prezioso contributo.

Pangasius in crosta di pane Ingredienti per 2 persone

Preparazione 1. Preriscaldare il forno a 200 °C. Sciacquare i filetti in acqua fredda e asciugarli. Farli marinare con il succo di limone, sale e pepe. Mettere da parte alcune erbette per la guarnizione. Togliere la crosta dal pane per toast e tritare finemente nel tritatutto insieme alle erbette e all’aglio. Montare a neve gli albumi.

2. Distribuire la metà della massa di pane sul fondo di una pirofila, pigiare leggermente. Distribuirvi la metà degli albumi montati e disporvi sopra i filetti di pesce. Coprire il tutto con il resto del pane e degli albumi. Cuocete nel centro del forno per ca. 15 minuti. 3. Servire su piatti preriscaldati. Decorare con le fettine di limone e le erbette. Preparazione 20 minuti + cottura al forno ca. 15 minuti.

Ricetta di:

su tutto l’assortimento di pesce fresco in vendita al banco pescheria

Ingredienti 4 filetti di pangasius; 2 cucchiai di succo di limone; sale, pepe dal macinapepe; 2 mazzetti di erbette miste, per esempio prezzemolo, basilico ecc.; 4 fette di pane da toast; 4 spicchi d’aglio; 4 albumi freschi; Olio d’oliva per pillottare; 8 fettine di limone per guarnire.

BUONO SCONTO 10% di riduzione Validità: dal 16 al 20.9.2014 / Nessun importo minimo d’acquisto Buono utilizzabile nelle filiali Migros di Locarno, Lugano (Via Pretorio), Serfontana e S. Antonino. È possibile utilizzare un solo buono sconto originale per acquisto. Non cumulabile con altri buoni sconto.


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Idee e acquisti per la settimana

Idee e acquisti per la settimana

La mela nostrana si trasforma in torta

Pasta frolla

Attualità Ospiti di Franca Canevascini (conosciuta anche come «La Rose»), noto personaggio

radiofonico e televisivo e cuoca per passione, che ci ha preparato un’irresistibile torta a base di mele Gala ticinesi, quest’ultime disponibili attualmente a Migros Ticino

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Ingredienti 200 gr. farina bianca 125 gr. burro 75 gr. zucchero 1 presa di sale Scorza di ½ limone bio grattugiata 2 tuorli. Preparazione Amalgamare il burro alla farina, formare una fontana, unire lo zucchero, i tuorli, la scorza del limone e il sale. Impastare rapidamente il tutto fino ad ottenere una pasta compatta. Mettere al fresco per ca ½ ora.

Franca Canevascini, La Rose, è anche autrice di libri di cucina.

Torta di mele Gala nostrane Per uno stampo di 26 cm di diam.

La mela è in assoluto il frutto più venduto. È un frutto poco costoso ricco di sostanze salutari: fosforo, azoto, vitamine (C, B, PP, E), zuccheri. Inoltre, fibre e succo aiutano l’apparato digerente. Numerose sono le varietà di mele, complessivamente se ne contano oltre 250. La mela è il classico frutto da fine pasto, date le sue riconosciute proprietà digestive, e trova un’utilizzazione pressoché illimitata in pasticceria. Soda e croccante, dalla polpa succosa e profumata, è usata per la confezione di strudel, torte, crostate, piccole preparazioni di pasta sfoglia e pasta frolla (barchette, tartellette, biscotti arrotolati). Dà origine a squisiti dolci al cucchiaio (soufflé, charlotte) e a classici entremets caldi, come le mele Brissac, alla bulgara, le mele Châteaubriand, a la Condé, le mele in gabbia; senza dimenticare la grande varietà di popolari preparazioni casalinghe, come le mele al forno, ripiene, frittelle, nonché confetture, marmellate e composte. Dalla mela si ottiene anche un ottimo succo che fermentato dà una bevanda alcolica, il sidro, il quale a sua volta distillato ci dà il Calvados. / Davide Comoli / Foto: Flavia Leuenberger

Ingredienti 1 dose di pasta frolla (vedi ricetta sopra) 1 kg mele Gala nostrane 150 gr zucchero 2 uova intere 2 dl panna ½ bustina di zucchero vanigliato 6 C. arance e limoni canditi Una manciata di uva sultanina 6 amaretti piccoli La buccia di un limone bio grattugiata + il succo 1 C. farina bianca, marmellata di albicocche.

Preparazione Pelare e tagliare a fettine sottili le mele, metterle a macerare con il succo di limone e 3-4 C di zucchero, sbattere leggermente le uova con lo zucchero rimanente, aggiungere la panna, scorza del limone, zucchero vanigliato e la farina ottenendo una crema. Spianare la pasta frolla e ricoprire una tortiera a cerchio apribile imburrata e infarinata, (il bordo deve essere alto ca. 4 cm). Mettere sul fondo 3 C. di crema, uno strado di mele, quindi un po’ di amaretti sbriciolati, uvetta e canditi poi altre mele, 3-4 C. di crema continuando così fino a esaurimento degli ingredienti, arrivando fino al bordo della pasta. Cuocere in forno moderato 180° per ca. 1 ora. Spalmare la superficie della torta appena tolta dal forno con qualche cucchiaio di marmellata di albicocche.


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Idee e acquisti per la settimana

Bentornati insaccati Sapori nostrani Gusto e tradizione con la luganiga

e il cotechino ticinesi

techini è inarrestabile? «Sì, il prodotto sta viaggiando bene, penso perché abbiamo trovato quel gusto di una volta che la gente apprezza ancora. Ognuno poi ama cucinare questi due insaccati come preferisce. «La luganiga mi piace mangiarla anche cruda, oppure alla griglia, ed è molto buona perché non ci sono cotenne che potrebbero dare fastidio ad alcuni, oppure la faccio nel modo classico, bollendola con patate e carote», dice. A proposito, lo sapevate che la parola luganiga trarrebbe origine dalla Lucania, regione meridionale d’Italia, dove la popolazione usava preparare questo tipo di salsiccia, e che poi si è vieppiù diffusa anche nel dialetto genovese, veneziano e lombardo, giungendo fino a noi? / Marco Jeitziner

Luganighe nostrane 100 g Fr. 2.15 a libero servizio Cotechino nostrano 100 g Fr. 2.20 al banco

Claudio Cavargna, responsabile aziendale della Salumi Val Mara SA di Maroggia, con una selezione di luganighe nostrane.

La pasta fresca per pizza

Flavia Leuenberger

Per gli amanti della carne insaccata, si avvia la stagione di luganighe e cotechini nostrani di maiale ticinese, veri e propri capisaldi della cucina locale di stagione. Qualcuno non ha ancora gustato il risòtt coi lüganigh, o il cotechino (codegòtt), magari tagliato a fette con la polenta o le lenticchie? Be’, sono in vendita nei reparti macelleria di Migros Ticino. La produzione è della Salumi Val Mara di Maroggia, indice di una filiera certificata a «chilometro zero». A Claudio Cavargna, responsabile dell’azienda, strappiamo qualche piccolo «segreto». «Diciamo che ho ripreso un po’ le ricette di una volta, cercando di scegliere la materia prima e poi di usare gli ingredienti di sempre e le spezie classiche, ma senza sforzare coi gusti troppo forti», ci racconta. «Rispetto ai prodotti industriali, qui da noi è tutto più manuale, si lega a mano, si usa il budello naturale, la carne viene scelta, mondata, lasciata gocciolare, ecc. Ci sono insomma diversi passaggi che poi si riflettono positivamente sul prodotto finale». Trattandosi di due prodotti faro in Ticino, il successo di luganighe e co-

Alzi la mano chi non ama la pizza! Impossibile resistere al richiamo della soffice pasta lievitata che può essere arricchita con mille varianti di abbinamenti di verdure, salumi, prosciutti e formaggi di ogni tipo. Anche i Nostrani Migros annoverano tra la loro selezione di prodotti un impasto pronto per essere steso e farcito, ideale per una cena tra amici o per risolvere con semplicità e gusto il dubbio di cosa preparare per cena. Basta stendere l’impasto su una superficie infarinata oppure direttamente sulla carta oleata. Trasferito in teglia potete farcire come preferite badando a non esagerare con i condimenti troppo umidi, che impediscono all’impasto di cuocere bene sulla superficie. Un velo di pomodoro è sufficiente, la mozzarella ben strizzata dal liquido di conservazione va sbriciolata sopra gli ingredienti per potersi scio-

gliere perfettamente. Un paradiso per le papille gustative! E dire che un tempo la pizza, termine che indicava ogni tipo di pane piatto condito, era il cibo dei più poveri e nemmeno considerata una vera e propria ricetta di cucina. Oggi invece viene molto apprezzata ed è anche protagonista di campionati mondiali che vedono sfidarsi pizzaioli di ogni nazionalità. L’impasto disponibile presso Migros Ticino è preparato dal panificio Jowa con farine di frumento e di grano duro macinate presso il Mulino di Maroggia e provenienti dal Piano di Magadino e dal Mendrisiotto. Grazie a Migros anche voi potete essere un po’ pizzaioli e sbizzarrirvi con diversi condimenti! / Luisa Jane Rusconi Pasta per pizza nostrana 500 g Fr. 4.10


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Idee e acquisti per la settimana

La settimana delle impanate Attualità Amanti di cordon bleu e cotolette

alla viennese, gioite: questa settimana ai banchi macelleria di Migros Ticino ne troverete differenti varianti, tutte preparate freschissime giornalmente dai nostri macellai e pronte alla cottura

Il cordon bleu è una ricetta molto diffusa nel nostro paese. Una leggenda narra che il saporito piatto fu inventato da una locandiera di Briga la quale, durante un banchetto di matrimonio imprevisto, non avendo abbastanza carne a disposizione, nel cercare di accontentare tutti farcì quest’ultima con del prosciutto e del formaggio. L’espressione «Cordon Bleu» è attestata nel «Dictionnaire de L’Académie» del 1814 e qualifica un eccellente cuoco, in riferimento al nastro blu che serviva come insegna ai cavalieri dell’Ordine del Santo Spirito istituito da Enrico III (1579). Sotto il regno di Luigi XV i nobili titolati con questo Ordine erano famosi per la ricchezza dei loro banchetti e, parlando di un’eccellente cena, si usava dire «È un pasto degno dei Cordon Bleu». La Wienerschnitzel, la cotoletta impanata alla viennese, è una croccante scaloppina di vitello (è diffusa anche la variante a base di carne di maiale, ma in questo caso prende il nome di Sch-

nitzel nach Wiener Art), molto sottile e di grandi dimensioni, è infarinata, passata nell’uovo e nel pangrattato e quindi fritta nello strutto o nel burro. Anche se oggi è ritenuta una tipicità di Vienna, tracce del piatto portano a Venezia, dove già nel sedicesimo secolo i cuochi usavano preparare la carne con il pangrattato; e prima ancora si ritiene che questa preparazione fosse conosciuta dalla comunità ebraica di Costantinopoli. La leggenda vuole che in Austria la cotoletta fu introdotta dal feldmaresciallo Radetzky nel 1857 ispirandosi alla «Cotoletta alla Milanese». Impanate per tutti i gusti

Durante tutta la settimana i banchi macelleria di Migros Ticino vi invitano ad assaggiare le impanate preparate fresche in loco con carni selezionate. La scelta include dei cordon bleu di vitello e maiale riccamente farciti nonché le fettine impanate di fesa di vitello, coscia di maiale, tacchino e pollo.

Claudio Albertella, macellaio presso Migros S. Antonino, con una selezione di impanate. (Flavia Leuenberger)

Tonno in umido con puré: un classico

Molto apprezzato dai bambini, il tonno in umido accompagnato da un soffice puré è un piatto tanto gustoso quanto semplice da preparare, dal momento che gli ingredienti figurano spesso tra le scorte casalinghe. Fare un soffritto di cipolla, aglio e prezzemolo; quando quest’ultimo è colorito,

aggiungere della salsa di pomodoro, dei piselli surgelati e lasciare cuocere il tutto per una ventina di minuti a fuoco medio. Aggiungere infine del tonno all’olio d’oliva in scatola, sgocciolato e diviso a pezzetti, condire con sale e pepe e terminare la cottura per una decina di minuti. Servire con puré.


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Idee e acquisti per la settimana

La tradizione artigiana italiana

Per una pelle perfetta ogni giorno

Attualità Settembre da Micasa S. Antonino è il mese

Novità Il nuovo fondotinta

dei divani. Per l’occasione i sabati 20 e 27 settembre il negozio ospiterà un consulente specializzato in divani di pelle e tessuto di produzione artigianale «Made in Italy». Approfittate anche del 20% di sconto su questi divani, come pure dell’ulteriore 10% con la carta fedeltà Cumulus

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Idee e acquisti per la settimana

Un pizzico di mare Con Caramel Salé, l’ultima creazione in edizione limitata, Frey ha ampliato l’assortimento delle specialità Suprême

Croccante, con scaglie di caramello leggermente salate: il nuovo Suprême Caramel Salé, Limited Edition, 100 g, Fr. 2.90

Anche se a prima vista sembrerebbe insolito, sale e cioccolato si abbinano molto bene. Lo prova anche la nuova specialità Caramel Salé. Scaglie di croccante caramello salato infondono quella nota di sapore particolare alla prima creazione Frey di cioccolato al sale marino. Un prodotto, che grazie agli ingredienti prescelti, si inserisce alla perfezione nella linea delle specialità Suprême, che tra gli intenditori è ormai sinonimo di qualità eccelsa. Una gamma che include innumerevoli varietà. I chicchi di cacao per il cioccolato al latte di Caramel Salé sono certificati UTZ, ossia provengono da coltivazioni che pongono l’accento sulla sostenibilità ambientale e sociale. Questa novità è disponibile soltanto per un breve periodo. / JV

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L’ESPERTA LETTRICE Brigitte Michel (39 anni), impiegata comunale

Foto e Styling: Claudia Linsi

Gusto: il Caramel Salé ha un buon sapore. È croccante, il gusto di caramello e il pizzico di sale gli conferiscono quel qualcosa di speciale. Dolce/salato: domina il dolce del caramello. Il salato l’ho percepito solo alla fine sulla lingua.

Suprême Latte/ Nocciole 180g, Fr. 3.95

Suprême Noir Authentique 100 g, Fr. 2.70

Suprême Bouquet d’Orange 100 g, Fr. 2.70

L’Industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra i quali le tavolette di cioccolato Frey.


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Idee e acquisti per la settimana

Turisti da Aquantis sulla terraferma: chi scatta la foto più simpatica?

In preda all’app… mania Tanta frenesia non si era mai vista: con l’applicazione gratuita della Captormania si possono riportare in vita e fotografare buffe creature sottomarine. E le foto più simpatiche vincono allettanti premi!

Si rotolano dalle risate, ballano a ritmo di rock, si avvitano ai sommergibili oppure scherzano tra loro: i Captor vivono! Grazie all’App gratuita, queste buffe creature e i loro sottomarini vengono catapultati nella terza dimensione. Una volta approdate tra noi sulla terraferma, si può fargli fare qualunque cosa e immortalare questa simpatica esperienza con scatti fotografici o filmati. È tutto molto semplice: si scarica l’applicazione, si scansiona il rispettivo sticker e il Captor prende forma come per incanto. Dopodiché, tramite quattro pulsanti direzionali si possono far assumere diverse posizioni alle strane creature sottomarine. Infine, si preme il tasto per scattare le foto e il gioco è fatto. Caricando le immagini più divertenti su www. captormania.ch si possono vincere allettanti premi (cfr. modalità del concorso a destra). Maggiori informazioni all’indirizzo www.captormania.ch / Nicole Ochsenbein

Diva Marilin deve trattenere per un attimo il respiro quando vede questo strano quadrupede: «Ma perché invece delle corna non si mette un po’ di trucco?».

«Questo qua è proprio brutto!», pensa tra sé e sé la paperella Wanda, quando allo zoo si ritrova davanti alla vasca degli alligatori. Per fortuna è protetta da un vetro.

Meril non è troppo a disagio tra i rospi, ma non vuol certo finire nella polvere: una ferita basta! Intanto, chi ha ripescato dal fiume la Regina Mila?

Sfuggito all’anatra saltando fuori dall’acqua: il genietto Sorp del clan degli Snips è affascinato dalla terraferma. «Qualcuno qui capisce qualcosa di sommergibili?».

Chi ha pescato dal fiume la Principessa Mila?

Naturalmente, Marilin. Divento sempre più veloce.

Salve Amiel, pronto per la grande gara? IL CONCORSO

Vincete tre volte!

Oltre a un mondo i 3-D, l’App Captormania (per iPhone e Android) include un album virtuale e una palpitante gara di velocità.

Ogni volta che gli piace qualcosa Aurobin batte le mani. Arrivato in spiaggia per rilassarsi un po’, sembra davvero a suo agio.

La passeggiata in città con Terix, Marilin se l’era immaginata un po’ più romantica. Ma lui vuol parlare solo della prossima regata in sommergibile o della sua ultima playlist.

Il poppante Waldo e il topo da biblioteca Amiel davanti a due tazze di caffè. Waldo però preferisce succhiare il caffellatte dal suo biberon.

1. Chiunque si registra su captormania. ch partecipa al sorteggio di un buono regalo Migros del valore di 5200 franchi.

Foto Mirko Ries

2. Nell’ambito del concorso fotografico una giuria sceglie ogni giorno un vincitore, che riceve un buono regalo Migros del valore di 200 franchi. Scansione con immersione! Scansionate questo codice QR e scaricate direttamente l’App gratuita. www.captormania.ch/qr

Funziona così: 1. Lanciate l’applicazione

2. Scansionate lo sticker

3. Riportate in vita le creature sottomarine

3. Il gran finale: tra tutti i vincitori quotidiani, alla fine sarà nominato il supervicitore, che si aggiudicherà il tesoro di Captormania: buoni regalo Migros del valore di 10’000 franchi!


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 15 settembre 2014 ¶ N. 38

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Idee e acquisti per la settimana

Fette di tradizione La crostata è in testa alla hitparade sulle placche da forno svizzere. Ora Anna’s Best garantisce per queste gustose pietanze

Quello che è la quiche per i francesi, per noi svizzeri è la crostata. Chiamatela come volete (torta, crostata, focaccia), si tratta sempre di una pasta sottile, cotta in forno fin che è croccante, con una guarnizione dolce o salata. La crostata è profondamente radicata nella tradizione culinaria svizzera. Pare sia nata dall’abitudine di utilizzare i resti di pasta, quando si faceva il pane, che venivano compressi a mo’ di sottile focaccia guarnita poi con gli avanzi del giorno prima. Ancora oggi, quasi ogni regione vanta la sua propria specialità in fatto di crostate: a Basilea, per esempio, per carnevale si serve la Chäswaie (torta di

formaggio), a Berna c’è la Zibelechueche (torta di cipolle), che viene tradizionalmente consumata al mercato delle cipolle. L’assortimento di crostate di Anna’s Best rispecchia la molteplicità delle specialità svizzere in questo campo. Comprende quattro crostate dolci, da quella alle mele alla crostata di ciliegie. Le varietà dolci in assortimento sono in maggioranza preparate con frutta fresca. Queste fette di tradizione sono prodotte alla Jowa, dove vengono guarnite a mano, cotte e subito imballate prima di essere fornite, il giorno stesso, alle filiali Migros. / NO

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Crostate per tutti i gusti: a ciascuno la sua.


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Idee e acquisti per la settimana

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Idee e acquisti per la settimana

Scuro, saporito e pieno di semi I prodotti della linea Pain Création sono molto apprezzati. Ora i patiti del pane aromatico hanno a disposizione una nuova specialità: il Ben cotto

L’anteprima era fissata per la fine di agosto: in 126 panetterie delle filiali Migros ha debuttato un nuovo pane della linea Pain-Création. Un evento celebrato anche nella panetteria della filiale di Bulle (VD), dove Michel Pasquier (46 anni) e i suoi colleghi hanno sfornato per la prima volta «Le bien cuit». Esteriormente assomiglia a una grossa pagnotta rustica, ma il vero valore aggiunto sta all’interno, nella morbida mollica. Oltre ai germogli di frumento freschi, il Ben Cotto contiene anche molte granaglie: semi di girasole, fiocchi di grano saraceno, semi di lino e sesamo gli conferiscono un gradevole sapore di semenza. Il tempo regala bontà

Questo buon gusto il pane non lo deve solo ai semi, ma anche all’impasto che

viene lasciato riposare durante 24 ore. «Un pane che ha un lungo processo di lievitazione sviluppa un sapore assolutamente caratteristico», spiega Michel Pasquier, che assieme ad altri tre panettieri sforna pane fresco fino a sera nella panetteria della filiale Migros. C’è bisogno della loro destrezza manuale da esperti panettieri già quando si modellano le pagnotte di Ben Cotto. «Innanzitutto, ripieghiamo i quattro angoli dell’impasto verso il centro, poi modelliamo con molta cura la pagnotta. Il Ben Cotto richiede moltissimo impegno», afferma il panettiere con malcelato orgoglio. A lui personalmente piace molto il sapore di semi di questo pane dalla crosta croccante, perché così è ottimo sia con una buona marmellata sia con della carne secca speziata. / CS

Pain Création Ben Cotto 400 g, Fr. 3.80

Siccome l’impasto è molto morbido, il panettiere deve far valere tutta la sua abilità al momento di modellarlo.

Foto Marvin Zilm

L’Industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui anche le varietà di pane delle panetterie di filiale.

Fiero della sua nuova creazione: Michel Pasquier con tre pagnotte di Ben Cotto appena sfornate.


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Idee e acquisti per la settimana

Raffinata combinazione Due nuove specialità invernali di Crème d’or per la gioia degli amanti del gelato: Café & Kirsch e Menta & Cioccolato

Come ogni stagione, Crème d’or vi attende con due nuove prelibatezze in edizione limitata. Si tratta di creazioni sorprendenti, finora assenti sul mercato svizzero. E se una di queste varietà sarà ben accolta dalla clientela, ci sono buone possibilità che sia inserita nell’assortimento permanente. Per ora le due edizioni limitate Caffè & Kirsch e Menta & Cioccolato sono pronte per affrontare la prova dell’inverno. La prima si ispira al tipico liquore svizzero con cui si accompagna il caffè. Si tratta di un cremoso gelato al Kirsh con venature di crema di caffè, al quale non sono stati aggiunti né aromi né coloranti. Sapor di cioccolato e menta ghiacciata

Foto: Christian Dietrich; Capelli e Make-Up: Eva De Vree; Foodstyling: Linda Hemmi

La seconda creazione può essere definita come la versione fredda della crema alla menta con aghi di cioccolato: crema-gelato alla menta piperita farcita di croccanti scaglie di cioccolato. Il fresco gusto di menta e il colore giallo sono conferiti esclusivamente da aromi naturali e coloranti vegetali. Ormai da quattro anni Midor utilizza, senza eccezioni, solo aromi e coloranti naturali, e unicamente se è proprio necessario. Come ad esempio quando, a causa dell’elevato tenore di panna, alcune varietà risulterebbero un po’ troppo «pallide». Panna, latte e uova sono di provenienza svizzera. Ovvio, allora, che gli additivi artificiali siano fuori luogo in un gelato di tale qualità. / NO/DH

Una coppa di Caffé & Kirsch ricorda un caffè corretto. ■ Novità: Crème d’or Limited Edition Caffé & Kirsch, 750 ml, Fr. 8.60 ■ Novità: Crème d’or Limited Edition Menta & Cioccolato, 750 ml, Fr. 8.60


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Ogni donna si sente bene nella propria pelle, se emana una luminosa freschezza naturale.

Splendida naturalezza

Foto: Getty Images

Miracle Skin Cream è il trattamento anti-età con effetto immediato e duraturo per una carnagione impeccabile

Avere un aspetto splendido e attraente anche dopo i 40, non ha nulla a che vedere con la magia. Oltre naturalmente a un’appropriata alimentazione con abbondanza di frutta e verdura, ha un effetto positivo sulla pelle del viso anche uno stile di vita coscienzioso in cui si alternano esercizio fisico, riposo e adeguate ore di sonno. Si possono poi aggiungere alcuni trattamenti di benessere, come un massaggio del viso di tanto in tanto. Eppure ancora non basta.

Un volto più giovane e fresco

Chi desidera iniziare la giornata con un volto ben disteso può rivolgersi ai prodotti cosmetici. Per esempio, a Miracle Skin Cream di Garnier. Questo innovativo trattamento antiinvecchiamento dona un’idratazione intensa che regala una carnagione incredibilmente luminosa. Il merito va a una tecnologia assolutamente speciale: non appena si applica la crema, i micro pigmenti si fondono con la pelle, irra-

diando immediatamente una naturale luminosità. La carnagione appare più giovane, fresca e senza macchie. Il profondo effetto duraturo è dovuto a una formula anti-età, che è composta da sette sostanze attive, come le vitamine B3, B5 e C, zenzero e peptidi rassodanti. Secondo uno studio di Garnier, il 94 percento delle donne svizzere che hanno provato Miracle Skin, hanno consigliato questo trattamento alle loro migliori amiche. / JV

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