Azione 37 dell'8 settembre 2014

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A R O I T I G R IM M E

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXVII 8 settembre 2014

Azione 37 ping 41-50 p o h M s pagine alle

Società e Territorio Incontro con Giorgio Rohner e i ragazzi di Casa Stralisco

Ambiente e Benessere Le Nazioni Unite dedicano all’educazione sullo sviluppo sostenibile il decennio 2005-2014

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Politica e Economia Protagonisti della storia: il comandante Massoud

Cultura e Spettacoli La Berlino degli scrittori, da Robert Walser a Franz Kafka

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Cielo cupo sulla Nato

AFP

di Federico Rampini pagina 25

L’umanità salvata, all’ombra degli ulivi di Peter Schiesser Racconta Claudio, mentre con la disinvoltura di un maestro di cerimonie affronta rapido le curve di quelle stradine strette, che in quella valle della Liguria contesa 70 anni fa dai partigiani ai tedeschi, dopo la guerra alcuni di quei biondi invasori tornarono come turisti, memori della bellezza dei luoghi. Acquistarono una casa, poi un’altra, si stabilirono, scambiarono in età adulta con la gente del luogo favori e amicizie, riponendo nell’oblio il ricordo dei mitra con cui da ventenni requisirono cibo e alloggio. In seguito vennero i loro figli, a innamorarsi di quelle valli e di quei villaggi che i genitori avevano occupato, salvando e abbellendo case che i figli dei partigiani stavano abbandonando. Così oggi, in quel paese dal nome bellissimo e da cui in settembre in cielo si librano mongolfiere, sul sagrato della chiesa tedeschi e liguri si sfidano a bocce, e in occasione delle feste si ritrovano insieme ad addobbare il paese e con la canna dell’acqua a rinfrescare la statua della madonna. C’è un tempo per dirsi nemici, un tempo per scoprirsi amici. E Stefano e Francesca raccontano di quell’anziana, mai scesa al mare

o curiosa di altre valli, mai tentata dalla modernità che cambiò il mondo, che un giorno parlò loro della guerra e di quando i tedeschi vennero alla sua casa, posero il mitra sul tavolo della cucina e le ordinarono di consegnare il cibo, e senza odio disse soltanto «erano dei ragazzi biondi, con la paura negli occhi azzurri». Quando il mondo facilmente si lascia trascinare dall’odio, e – come dice Claudio – ogni male e ingiustizia generano il prossimo male e la seguente ingiustizia, ci sono sempre ancora anime che vedono l’anima nel nemico. Claudio, si stupisce che nei secoli abbia resistito alla pressione umana, giusto sopra il nucleo di quel paese che deve il nome a chi lo governò, quella vastità di terrazzi, querce, ulivi, fichi, peschi, oleandri, angoli segreti dove muri a secco e cascine e profonde cisterne si sposano con l’intimità della vegetazione. Intanto Stefano, nei suoi abiti orientali, il cappello di paglia ornato di piume raccolte nei suoi viaggi (e una matita che Claudio ha appena comprato al supermercato), sorride misterioso a Fabio, l’ultimo discendente della famiglia padronale – asciutta figura in jeans troppo larghi ed eccelsa mente matematica, professore universitario e instancabile giardiniere nel podere di famiglia – quando questi intende liquidare invocando il

caso un discorso nato fra gli ulivi che la sua razionalità non gli permette di codificare, come se il caso non conoscesse leggi. Raccolti in un mondo di sassi e mongolfiere, al riparo dal fragore dell’estate in spiaggia, due pensatori in disaccordo si tributano stima e amicizia. Ricorda Stefano che quando Tubato, il suo pappagallo, si lasciò tentare dalla libertà e si perse nella vastità degli uliveti, il paese intero si allertò, vennero a prenderlo la sera alla stazione del treno, giù al mare, con muta solidarietà. Ci vollero tre giorni di ricerche, di richiami sonori e mentali, finché il pappagallo si lasciasse convincere che gli conveniva la cattività. E mentre l’ospite osserva gli occhi del pappagallo, dipinti come fossero un affresco, Stefano racconta che da qualche tempo tenta di insegnargli a dire «amore», ma Tubato gli risponde sempre «l’hai rotto». Eppure, sa imitare le voci di tutti i famigliari, la erre moscia di Stefano, i fischi dei figli, l’intonazione di Francesca, tanto che Stefano a volte risponde pensando che sia sua moglie a chiamarlo. Nella luce dorata di un’estate che si stempera, il mare all’orizzonte resta una presenza eterna e desiderata; il mondo è ancora a posto, le guerre lontane o superate, l’essere umano capace di essere umano.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 8 settembre 2014 ¶ N. 37

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Attualità Migros

M Migros premiata con lo Swiss Recycling-Award

Nuove bottiglie Aproz

Riconoscimenti L’azienda svizzera dal 2014 raccoglie in tutte le filiali

71 tonnellate di PET in meno

bottiglie e flaconi in plastica, un’iniziativa pionieristica

Per la prima volta Swiss Recycling, l’organizzazione mantello dei sistemi di riciclaggio operanti in Svizzera, premia le iniziative più originali nel settore del riciclaggio. Migros ha vinto nella categoria «Organizzazione» e per questo è stata insignita dello Swiss Recycling-Award 2014. L’impegno della Migros è stato valutato dalla giuria come un servizio pionieristico. «Per Swiss Recycling, la raccolta di bottiglie e flaconi di plastica da parte di Migros è un primo passo verso l’introduzione entro il 2015 di un sistema di riciclaggio per bottiglie e flaconi di plastica attivo in tutto il territorio svizzero», dice Patrick Geisselhardt, direttore di Swiss Recycling. Oltre alle bottiglie in PET e del latte, dal 2014 i clienti possono restituire in tutte le filiali Migros anche bottiglie e flaconi di plastica vuoti di uso domestico come, per esempio, quelli di shampoo, gel doccia, detersivi e detergenti. Migros ha deciso di potenziare il suo impegno nell’attività di riciclaggio nell’ambito del programma per la sostenibilità Generazione M. Quello che inizialmente era nato come un progetto pilota della Cooperativa Migros Lucerna, nel tempo è stato ripreso da altre cooperative regionali, in Ticino nel 2013. Perciò, le cooperative hanno installato apposite postazioni di raccolta in tutte le loro filiali. I clienti, quindi,

Dal 2013 tutte le filiali di Migros Ticino raccolgono anche la plastica.

possono riporre le bottiglie e i flaconi di plastica negli stessi contenitori destinati alle bottiglie di plastica bianche del latte. In questi punti di raccolta o attraverso il Servizio clienti, per le filiali più piccole, si possono riportare anche CD, DVD, batterie, lampadine

LED e a risparmio energetico e persino le cartucce filtranti per l’acqua. Ad oggi, sono state già raccolte più di 1000 tonnellate di bottiglie e flaconi di plastica e nel lungo termine si prevede di ritirarne altre 2000 tonnellate all’anno (l’invito ai clienti è di attener-

si alle indicazioni presenti sugli imballaggi). Le bottiglie e i flaconi di plastica, prodotti per lo più in polietilene, vengono trasformati in granulato e conquistano così una seconda vita, per esempio come tubi per cavi destinati al settore dell’edilizia.

Ecologia

La Aproz, leader di mercato svizzera delle acque minerali, è ora riuscita ad adattare la forma di tutte le bottiglie in modo da utilizzare mediamente il 10% di PET in meno per bottiglia. Grazie a una nuova forma, le confezioni acquistano stabilità e presentano una parete più sottile. Migros persegue sistematicamente l’impegno preso, promettendo nell’ambito del proprio programma di sostenibilità «Generazione M» di ottimizzare sotto il profilo ecologico entro la fine del 2020 oltre 6000 tonnellate di materiale da imballaggio. Essendo le acque minerali Aproz così popolari, si possono risparmiare ogni anno attorno alle 71 tonnellate di PET. Questo segna un passo importante per raggiungere l’obiettivo di Migros sul fronte degli imballaggi. Da fine agosto, le bottiglie delle acque minerali Aproz sono disponibili con il nuovo design in tutti i formati.

Quando pane e prosciutto diventano più cari Votazioni Se l’iniziativa popolare di GastroSuisse venisse accolta, i prodotti alimentari di uso quotidiano

potrebbero aumentare di prezzo. Un’eventualità che toccherebbe tutte le famiglie Daniel Sidler Il prossimo 28 settembre il popolo svizzero voterà se accettare un’imposizione fiscale unica sui prodotti alimentari. L’iniziativa popolare «Basta con l’IVA discriminatoria per la ristorazione!» chiede che per tutti i tipi di alimenti valga lo stesso tasso dell’Iva. Oggi chi gusta un piatto di insalata in un ristorante paga, inclusa nel prezzo, un’Iva dell’8 per cento. Un cespo di insalata al mercato o un’insalata pronta acquistata in un take-away sono soggette invece ad un’aliquota ridotta del 2,5 per cento. I ristoratori non sono d’accordo con questa differenza. L’associazione di categoria GastroSuisse è convinta che i ristoranti potrebbero essere maggiormente in grado di fronteggiare la concorrenza se per tutte le derrate alimentari valesse la stessa aliquota dell’Iva. Per loro, non c’è differenza tra la salsiccia cotta al grill in un takeaway e quella servita nei ristoranti. Un sì all’iniziativa assicurerebbe, secondo GastroSuisse, posti di lavoro e di apprendistato, rafforzerebbe la Svizzera come meta turistica e contribuirebbe a diminuire il numero di clienti

Azione Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

che scelgono di farsi servire in modo meno costoso all’estero. Secondo il Consiglio federale, che raccomanda di respingere l’iniziativa, le differenze nell’aliquota dell’Iva sono motivate: i generi alimentari subiscono una minore imposizione fiscale per permettere a tutti di goderne. La scelta di pranzare in un

ristorante è invece qualcosa di più di un semplice modo per acquistare prodotti alimentari. Un locale pubblico offre ai suoi clienti dei servizi supplementari: un posto a sedere, un servizio al tavolo ed eventualmente l’uso di servizi igienici. Tutti elementi a cui rinuncia chi compra una brioche in pasticceria, un chilo di riso in un Secondo il Consiglio federale l’accettazione dell’iniziativa condurrebbe a un aumento dei prezzi. (Marka)

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Stampa: Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

negozio o un panino al prosciutto al take-away. Per il Consiglio federale, soprattutto, rappresenta un problema il fatto che con un sì all’iniziativa i ristoratori pagherebbero un volume minore di Imposta sul valore aggiunto, per circirca 750 milioni di franchi all’anno. Per compensare la diminuzione degli

introiti, il governo federale progetta di aumentare l’Iva ridotta sui prodotti alimentari dal 2,5 al 3,8 per cento. In questo modo si assisterebbe a un rincaro generalizzato di ciò che oggi è sottoposto ad un’aliquota ridotta, ossia, oltre agli alimentari, anche libri, riviste, medicine, così come le tasse radiofoniche e televisive.

L’iniziativa di Gastrosuisse: i motivi per un no Migros, come membro della CI CDS (Comunità d’interesse del commercio al dettaglio svizzero) è presente nel comitato a sostegno del no all’iniziativa di GastroSuisse. Insieme a lei si battono le organizzazioni dei macellai, panettieri-pasticceri, contadini, consumatori, droghieri e media. Tutti questi attori sul mercato hanno un solo timore: se il popolo dirà sì all’iniziativa popolare, i loro prodotti dovranno rincarare. Il proposito dei ristoratori è bensì condivisibile, ma il suo prezzo dovranno pagarlo i consumatori quando l’aliquota ridotta sarà au-

Tiratura 98’645 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

mentata, per tappare la falla nelle casse federali. Proprio le famiglie che possono contare su stipendi di livello medio e inferiore, coloro che più spesso consumano i pasti a casa, soffriranno dell’aumento dei prezzi degli alimentari. Sul fatto poi che i menu nei ristoranti possano diventare meno costosi, la questione, contrariamente a quanto dichiarato dai difensori dell’iniziativa, è aperta. I ristoratori, infatti, non sono in nessun modo obbligati a restituire ai loro clienti la minore imposizione fiscale. Potrebbero invece utilizzarla per aumentare il loro margine di guadagno.

Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 8 settembre 2014 ¶ N. 37

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Società e Territorio Tassa sul sacco In Ticino su 135 comuni solo 53 la prevedono, ora il Governo in un messaggio propone di introdurla a livello cantonale, ma il costo del sacco fa discutere pagina 7

Radici intrecciate La comunità svedese in Ticino mantiene stretti contatti con la propria cultura di origine. Incontro con Louise Brandberg Realini pagina 8

I ragazzi di Casa Stralisco Incontri La comunità socio-familiare di Malvaglia, tra viaggi e vita di tutti i giorni

Sara Rossi; foto Stefano Spinelli Andiamo a trovarli in paradiso. Una casa splendida nelle profondità della Capriasca, dove scorre un fiume, ci sono gli asini, una casetta di legno costruita su un albero e orti rigogliosi: nove adolescenti e tre adulti stanno trascorrendo una settimana di vacanza… con le maniche rimboccate. Di notte i maschi dormono nel fienile e le ragazze in casa; di giorno si fanno i turni per spaccare la legna, cucinare, rimettere a posto il sentiero e tutti i lavoretti che in una casa di campagna non mancano mai. Sono gli ospiti di Casa Stralisco, una struttura sociale senza sussidi pubblici che si propone di accogliere bambini, giovani e chiunque necessiti di una assistenza individuale, che esiste da dieci anni giusti. Si tratta di un foyer in cui il responsabile, l’appenzellese Giorgio Rohner, vive senza né turni né orari insieme agli utenti della casa che amministra e gestisce. La sede durante l’anno è un magnifico edificio che si trova nel nucleo Rongie di Malvaglia, in Valle di Blenio. Un tempo ospitava una merceria, l’ufficio postale, la banca e il ristorante del paese. Ancora prima era stato un albergo con tanto

di sala da ballo, dove si fermavano le diligenze dirette verso il passo del Lucomagno. Giorgio ha acquistato l’edificio e gli piace pensare che è rimasto un punto d’incontro e in un certo senso di ristoro, per chi ha bisogno di ripartire con nuove forze. Naturalmente insieme a lui ci sono altri educatori professionisti e affezionati, che stabilmente, da diversi anni, fanno parte della «famiglia» di Casa Stralisco. È abitata soprattutto da adolescenti e giovani adulti che hanno avuto esperienze negative e vivono conflittualmente la scuola, la casa dei genitori o la società in generale. Più è variegato il gruppo e meglio è, secondo Rohner. Si può imparare a comportarsi diversamente guardando una persona più giovane o più anziana; non si può essere sempre allo stesso modo con ogni persona con cui ci si relaziona. Allo stesso modo sono variegati i motivi per cui gli ospiti si trovano lì e anche questo dona esperienza e «ricchezza al bouquet», per esprimersi con le parole del responsabile. A Casa Stralisco viene offerto un ambiente intimo, protetto e senza troppi cambiamenti, tranne le attività straordinarie e i viaggi. L’ultima settimana di agosto, quando andiamo noi a

trovarli in Capriasca, stanno svolgendo mansioni varie a casa di Graziano, uno dei collaboratori con mansioni educative della Casa. Ogni anno i ragazzi hanno questo appuntamento, per assaggiare la vita di campagna; poi in autunno c’è una settimana a cavallo, in primavera in bicicletta, nel periodo estivo a piedi, e per chi non ha una famiglia che lo porti via da Malvaglia, in barca; in inverno sono previste invece escursioni con sci, pelli di foca o racchette. Alcuni sono davvero viaggi impegnativi, ma aiutano a rafforzare la personalità, a conoscere i propri limiti e sviluppare l’autostima. «Andiamo a piedi o in bici per settimane, mangiamo e dormiamo all’aperto. Stare sempre in un piccolo gruppo, non sapere dove si dormirà, avere freddo o essere bagnati, fare incontri con persone che ti cacciano oppure ti invitano a casa loro e ti offrono tutto ciò che hanno, provare dolore ai piedi, alla schiena, avere le vesciche, fame, sete, e però farcela, e poi trovarsi sotto il cielo del sud, con gli ulivi e le stelle… è un’esperienza incredibile», spiega Rohner. I ragazzi cantano anche nel coro di Malvaglia e, come altra attività artistica, quest’anno, per il decimo compleanno di Casa Stralisco, hanno pre-

sentato uno spettacolo teatrale, che verrà riproposto a Lugano, Biasca e Acquarossa: Giovanna d’Arco di Jean Anouilh. Ai giovani ospiti è piaciuto mettere in scena la storia di una ragazza coraggiosa, che sentiva le voci e che tutti prendevano per matta, ma che poi ha salvato la Francia. In paese sono conosciuti: alla prima dello spettacolo, la piazza davanti a Casa Stralisco traboccava letteralmente. Arrivavano persone anziane portandosi la sedia da casa, gli organizzatori aggiungevano file di banchi sempre più lontani, anche nelle viuzze che sboccano sulla piazza. I ragazzi recitavano e cantavano con un accompagnamento musicale. Malvaglia ha imparato a conoscerli e a prenderli un po’ come «gente del posto». I giovani utenti aiutano i contadini, fanno lavori di falegnameria, hanno ristrutturato con le loro mani il bel palazzo in cui vivono. La mattina iniziano la giornata con una piccola passeggiata all’aperto, tra il nucleo e il bosco appena sopra casa. Serve per prendere aria fresca, per vedere che tempo fa e per svegliarsi in un modo piacevole. Dopo, tutti quanti, ragazzi e collaboratori, si trovano nel salone per «il cerchio del mattino». Un

incontro che dura circa un’ora, in cui si scambiano informazioni, si fanno un po’ di esercizi fisici, giochi, canti, tutto quello che può aiutare a trovare il proprio equilibrio e quello della comunità. Poi ognuno avvia le proprie attività: chi va a scuola, chi prende lezioni personalizzate da due pedagoghe di Casa Stralisco, chi si occupa dei lavori di casa o di questi compiti «per l’esterno»: agricoltura, falegnameria, riparazioni… Un modo per occuparsi, apprendere a essere responsabili, imparare un mestiere, fare esperienze, avere la possibilità di coltivare un interesse o di dare vita magari un progetto di formazione. Un modo, talvolta, per risvegliare una parte di sé che forse era persa o dimenticata. Giorgio Rohner sembra che non esaurisca mai il suo entusiasmo e la sua capacità di capire e di trovare la giusta direzione verso cui inviare le sue energie: «Le persone che stanno qui si portano dentro dolori non risolti e sogni non espressi che aspettano solo di uscire. Dobbiamo lasciare loro questa possibilità. Allora si liberano, a volte in modo forte. E noi raccogliamo, diamo un limite, aiutiamo a rimettere insieme i pezzi e grazie a loro, intanto, impariamo e cresciamo moltissimo anche noi».


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 8 settembre 2014 ¶ N. 37

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Società e Territorio

Chi ricicla risparmia Politica cantonale Il Governo ticinese propone di introdurre la tassa sul sacco

della spazzatura: ora si discute sul costo

Fabio Dozio Se il vostro vicino di casa produce ogni settimana cinque sacchi colmi di spazzatura mentre voi ne riempite uno solo, pagate entrambi la stessa tassa sullo smaltimento dei rifiuti. Vi sembra giusto? Questo vale in tutti i comuni ticinesi in cui non è ancora stata introdotta la tassa sul sacco: nel 2013, su 135 Comuni, solo 53 la prevedevano. In futuro non sarà più così. Il Governo ticinese ha finalmente deciso, questa estate, di introdurre la tassa sul sacco cantonale, che prevede il principio di causalità: chi produce più rifiuti domestici, paga in proporzione. Una riforma che risponde al criterio «Chi inquina paga», formulato per la prima volta a livello internazionale dall’OCSE nel 1972. Il principio è sancito da anni da una legge federale e, dal 2011, addirittura da una sentenza del Tribunale Federale che ha imposto a un comune romando, dopo un ricorso, di adottare la tassa sul sacco. Il nostro Cantone se ne è sempre infischiato. Eppure c’è chi ci aveva pensato, molti anni fa. Precisamente nel 1992 Bruno Lepori e Argante Righetti invitarono il Parlamento a introdurre la tassa sul sacco, ma la proposta languì nei cassetti di Palazzo. Secondo il Consiglio di Stato, la riforma «è stata congelata per questioni di opportunità politica». Ovvero, in Ticino non è mai stata introdotta la tassa sul sacco perché Nano Bignasca, presidente della Lega, ha minacciato per anni di volerla affossare ricorrendo al referendum.

la gestione leghista del Dipartimento con Marco Borradori, che realizzò il termovalorizzatore di Giubiasco. La storia dei rifiuti in Ticino appare come una contorta pagina di progetti lacunosi del dipartimento, di speculazioni e interessi pubblici e privati, di opportunismo politico, di animate votazioni e, infine, di lentezza decisionale. Il 2 luglio di quest’anno si volta pagina. Il Consiglio di Stato, prendendo spunto da un’iniziativa parlamentare del 2009 presentata da Manuele Bertoli, allora presidente del partito socialista, diffonde il messaggio che propone di introdurre la tassa cantonale sul sacco. Particolare curioso, il documento è firmato dallo stesso Bertoli, attuale presidente dell’esecutivo. Il padre della riforma potrebbe sembrare il ministro socialista, ma è solo un’illusione. Il Ticino si adegua finalmente al diritto federale in tema di rifiuti dopo i cambiamenti di equilibri all’interno della Lega. La scomparsa di Bignasca, che non avrebbe mai accettato la tassa sul sacco, ha permesso al nuovo direttore del Territorio, Claudio Zali, di proporre questa legge. Cosa cambierà per il cittadino? Diciamo subito che la riforma dovrebbe essere a costo zero. In sostanza non

si tratta di una nuova tassa – su questo Zali ha insistito – ma solo di un cambiamento nella copertura dei costi di smaltimento dei rifiuti. Lo scopo della tassa sul sacco è duplice; da una parte deve incentivare la separazione dei rifiuti e quindi il riciclaggio, dall’altra permette di distribuire i costi in modo più equo secondo il principio di causalità: chi più inquina, più paga. Concretamente, il governo propone di fissare la tassa sul sacco di 35 litri tra fr. 0,85 e fr.0.95. Questa cifra è il risultato di un calcolo semplice, vale a dire del rapporto tra il costo dello smaltimento di una tonnellata di rifiuti (fr. 170.–) e il peso indicativo di 5 kg per ogni sacco di 35 litri. Per compensare le spese accessorie i Comuni dovranno ricorrere a una tassa base. Questa proposta non è piaciuta ai comuni che già hanno adottato la tassa sul sacco, perché la ritengono troppo modesta. «È una tassa iniqua – ci dice Riccardo Calastri, sindaco di Sementina e presidente dell’Associazione dei comuni ticinesi – il Messaggio del Governo non rispetta la condizione di causalità. Con un costo del sacco così basso non c’è più nessun incentivo a separare i rifiuti!» Calastri ci fa l’esempio del suo comune, Sementina, dove è

L’introduzione generalizzata della tassa sul sacco sarà l’ultimo capitolo della «telenovela» dei rifiuti Vale forse la pena ricordare, brevemente, che i rifiuti in Ticino hanno rappresentato per anni un esempio di politica iperbolica. Nel 1991 il Dipartimento del territorio diretto da Renzo Respini propose di costruire due inceneritori per una spesa prevista di 600 milioni di franchi. La Lega lanciò un referendum che bloccò questo progetto, oggettivamente fuori misura. Poi ci fu la saga Thermoselect, un impianto che doveva essere avveneristico e che fu promosso dal movimento di Bignasca e Maspoli, ma che non riuscì a dare sufficienti garanzie di buon funzionamento. Infine

A Losanna e in molti comuni vodesi la tassa sul sacco è già una realtà. (Keystone)

in vigore una tassa sul sacco di fr. 1,90: «Attualmente i costi di smaltimento dei rifiuti domestici ammontano a 260 mila franchi. 120 mila coperti dalla tassa base, 140 mila dalla tassa sul sacco. Con la proposta del governo incasseremo solo 70 milioni con i sacchi e dovremo aumentare la tassa base a 190 milioni. È un’assurdità! Verranno penalizzati i cittadini sensibili all’ambiente. L’associazione dei comuni ticinesi – sostiene ancora Riccardo Calastri – chiederà una perizia giuridica per verificare se una tassa sul sacco che copre solo il 25% delle spese complessive di smaltimento può ancora considerarsi causale». Moreno Celio, capo della divisione ambiente del Dipartimento del territorio è tranquillo: «Non è illegale fissare in questo modo la tassa sul sacco, lasciando le spese di raccolta e di trasporto nella tassa base» e aggiunge «i comuni che hanno già introdotto la tassa sul sacco, dovranno ritoccare verso l’alto la tassa base. Però il comune ha ampia autonomia nel modulare questa tassa. Può per esempio alleggerire le economie domestiche e chiedere di più alle aziende e ai commerci, o può introdurre meccanismi più sociali». Ora la palla passa al Parlamento. L’Associazione dei comuni ticinesi stigmatizza il fatto che il cantone non ha consultato i comuni. Toccherà alla commissione parlamentare coinvolgere tutti gli attori per poi decidere se accettare o se modificare il dettato del governo. Il Parlamento può aumentare la tassa se lo riterrà opportuno. Certo, 85 centesimi sono pochi, anche se confrontati con i prezzi fissati oltralpe. Evidentemente, il ministro leghista non ha voluto forzare la mano, ma anche l’iniziativa socialista del 2009 indicava una tassa da fissare tra fr. 0,70 e fr. 1,20. Indipendentemente dal costo del sacco, la misura permetterà un’ ulteriore riduzione di rifiuti da smaltire: secondo il Governo, in Ticino potrebbero diminuire del 15%. I cittadini che non hanno la tassa sul sacco saranno invogliati a separare i rifiuti. Chi già la paga, anche se venisse ridotta, è auspicabile che mantenga la buona abitudine della raccolta differenziata. A Losanna, a titolo di confronto, dopo un anno dall’introduzione della tassa, i rifiuti sono diminuiti del 40%. Secondo un’indagine dell’Ufficio federale dell’ambiente, sui materiali riciclabili che finiscono nella spazzatura, in Svizzera c’è un buon potenziale di riciclaggio: troppa carta, vetro e PET finiscono ancora nei sacchi dei rifiuti.

Le scritture del mondo Mostre 15 grafie

alla Biblioteca interculturale

Da sempre l’uomo ha comunicato con i suoi simili nei modi più svariati: con la parola, con le immagini, con il suono e con la scrittura. E in un’epoca come quella attuale l’importanza della comunicazione e di conseguenza della scrittura è aumentata in modo considerevole. Ogni giorno si ha necessità di comunicare anche in forma scritta con altre persone. Ma se è vero che in tutte le culture umane si comunica tramite la lingua, è altrettanto vero che non tutte hanno una propria scrittura. A questo interessante aspetto è dedicata l’esposizione Scritture del mondo, organizzata da Interbiblio, l’associazione delle biblioteche interculturali della Svizzera, grazie anche al sostegno di molti collaboratori delle biblioteche che aderiscono all’associazione stessa. Lugano non ha voluto mancare a questa importante iniziativa. È possibile visitare l’esposizione itinerante Scritture del mondo, inaugurata il 4 settembre, nei locali della Biblioteca interculturale per la prima infanzia, in via Castausio 2c a Molino Nuovo, fino a giovedì 25 settembre. La mostra è aperta al pubblico dal lunedì al giovedì pomeriggio, dalle 15 alle 18. «L’esposizione è un interessante viaggio attraverso le 15 scritture più presenti nelle biblioteche interculturali della Svizzera – spiega Laura Raia, responsabile della rassegna – e offre uno sguardo sulla molteplicità delle forme d’espressione scritte presenti nelle varie culture. Ma intende anche suscitare l’interesse per “l’altro”». La mostra rientra in uno dei tanti progetti di Interbiblio rivolti alla promozione dell’utilizzo da parte dei giovani della scrittura nelle varie lingue del mondo, come Oasi di scrittura. L’idea di base è quella di dare la possibilità a un gruppo di giovani, tra i 12 e i 17 anni, di scrivere uno o più testi nella lingua madre sotto la guida di scrittori professionisti. Storia che, una volta ultimata, verrà presentata al pubblico. / EO

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Silvia Borando, Gatto Nero, Gatta Bianca, Minibombo. Da 3 anni Gatto Nero è tutto nero, Gatta Bianca è tutta bianca. Gatto Nero esce solo di giorno e conosce solo le cose della luce, Gatta Bianca esce solo di notte e conosce solo le cose del buio. Lui, nero, si staglia sulle pagine bianche; lei, bianca, si staglia sulle pagine nere. Alterna una doppia pagina bianca a una nera questo sempli-

ce elegantissimo albo di Silvia Borando, che ci parla con profonda sobrietà delle cose più importanti: io e te, l’incontro tra diversi che costituisce la vita di ognuno. Perché l’incontro avvenga, è necessario però che Gatto Nero «s’incammini verso la notte» e che Gatta Bianca «s’incammini verso il giorno». Bella questa sinestesia spazio-temporale, di un cammino verso un tempo, che evoca un mettersi in gioco, abbandonando le proprie certezze e accettando l’avventura. «È così che Gatto Nero e Gatta Bianca si incontrano», e qui la doppia pagina non è più monocolore ma metà bianca e metà nera; ma l’incontro non è ancora sufficiente, occorre una relazione: «Vuoi venire con me?», e ognuno «accompagna» l’altro a conoscere il giorno, e rispettivamente la notte. «Giorno e notte, notte e giorno…» dall’incontro tra i due nasceranno dei gattini, che a sorpresa saranno arancioni: un nuovo, inaspettato, colore da accogliere, perché le diversità possibili sono

tante, come preannuncia la copertina del libro, tutta in bianco e nero tranne quella piccola virgola arancione tra i nomi dei protagonisti. Silvia Borando, classe 1986, è un’autrice e un’illustratrice non solo promettente, ma già ampiamente confermata nella notevole qualità del suo lavoro, che oltre alla dimensione artistica e creativa annovera anche quella editoriale, perché è coordinatrice del progetto Minibombo. Per cogliere l’originalità e l’interesse del progetto vi consiglio di dare un’occhiata al sito: www.minibombo.it. È fatto benissimo e ha anche delle attività e dei giochi da fare con i bambini per prolungare l’esperienza di lettura. Emiliano Di Marco, illustrazioni di Giusi Capizzi, Attivamente. 101 Giochi per piccoli filosofi, La Nuova Frontiera Junior Filosofia e bambini: sembrano fatti l’uno per l’altro. Per Aristotele è la me-

raviglia, lo stupore di fronte alle cose del mondo che fa nascere la filosofia. E chi più dei bambini è capace di provare stupore? Chiunque abbia frequentato bambini, sa bene quali grandi domande i piccoli hanno il coraggio di porsi. In effetti sono molti i libri di filosofia

per bambini (ad esempio le edizioni ISBN hanno una collana e una serie sul tema) e tra gli autori italiani spicca Emiliano Di Marco, che con la casa editrice La Nuova Frontiera ha già pubblicato i testi della collana «Storie per piccoli filosofi», Il mio primo libro di filosofia e Quattro passi nella filosofia. Adesso esce questo Attivamente, un volume di giochi e attività filosofiche, che non è «un libro come tutti gli altri, senza falsa modestia», come dice parlando in prima persona il libro stesso, garantendo al giovane lettore che «troverai un sacco di modi per divertirti con il giocattolo più bello del mondo: la tua testa». Aforismi, paradossi, domande, storie, giochi, illusioni ottiche, spunti vertiginosi di riflessione, persino oltre la parola Fine: «Ora che mi ci fai pensare: come finiscono le cose? Mica possono scomparire nel niente. E come finiscono i libri? Non certo con l’ultima parola…».


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Società e Territorio

Il cielo di Svezia, le montagne svizzere Radici intrecciate A colloquio con Louise Brandberg Realini per parlare di come la comunità svedese

in Ticino cerca di mantenere vivi i legami con la propria cultura d’origine – Quarta puntata

Alessandro Zanoli Quando si discute di immigrazione, in genere si è portati a considerare una prospettiva di movimento che va da Sud a Nord. Capita molto più raramente di discutere invece dei fenomeni migratori che si pongono sulla diretttrice Nord-Sud. In questo modo anche la scala di valutazione dei rapporti tra ospite e ospitante sembra capovolgersi un po’. Visto che i pregiudizi a cui siamo abituati collocano nel Nord le nazioni più sviluppate e nel Sud (o nell’Est) quelle in cui la qualità di vita è più precaria, renderci conto che anche noi possiamo essere il Sud di qualcuno ci costringe a un sano esercizio di ginnastica mentale. Abbiamo pensato di interpellare al proposito Louise Brandberg Realini, architetto svedese che vive a Lugano dal 2003 e che ha appena portato a termine la sua collaborazione in un progetto di ricerca all’Università della Svizzera italiana. Sposata e madre di due bambine, Louise Brandberg Realini è giunta in Ticino per motivi «di cuore», dopo aver conosciuto il suo futuro marito a Firenze. «Alla fine dei suoi e dei miei studi siamo venuti qui. Sono scelte che avvengono e di cui magari non ci si rende neanche tanto conto dell’importanza...». L’inserimento nella realtà ticinese non le ha procurato nessuno choc culturale particolare; Louise Brandberg Realini aveva studiato l’italiano alle scuole superiori e sapeva comunicare abbastanza bene. «Tra società svizzera e svedese ci sono tantissime similitudini, almeno all’apparenza. Quello che mi colpiva di più è stato il paesaggio. Nonostante sia molto bello, le montagne per me sono qualcosa di nuovo. Dove sono cresciuta io c’è il cielo “a cupola” e il mare. È un modo di vivere all’interno di un orizzonte aperto a 360 gradi. Le montagne svizzere sono l’esatto opposto. È una cosa molto strana da immaginare, se non ci sei nato e cresciuto». Al di là da ciò, possiamo dire però che Svizzera e Svezia sono due nazioni simili, a forte vocazione sociale. «Questo sì, abbastanza. Le differenze

Louise Brandberg Realini è architetto e vive a Lugano dal 2003. (Stefano Spinelli)

sottili le ho cominciate a notare di più quando ho avuto le bambine. C’è molto meno possibilità di stare a casa con loro per la maternità. Per fare un confronto, in Svezia sono 13 i mesi di congedo maternità, con la garanzia di mantenere il posto di lavoro. C’è anche la possibilità per il padre di prendere la metà di questo congedo. È più facile pensare di mettere su famiglia, e per una donna pensare di avere figli portando anche avanti la sua vita professionale, una cosa che per me è sempre stata naturale». Nel suo modo di valutare il sistema sociale svizzero, Louise Brandberg Realini mette chiaramente in luce gli aspetti dell’emancipazione femminile. «Premesse queste diversità di base, il resto funziona: si trova il posto all’asilo nido, poi c’è la scuola dell’infanzia, con cui le cose vanno abbastanza bene se riesci a lavorare a tempo parziale. Poi inizia la scuola elementare e lì si evidenzia il discorso della mensa. Se non hai un tempo parziale strutturato in modo adeguato, se non hai nessuno che si occupa dei bambini, è difficile. Da noi, in Svezia, il problema non si pone: io sono

sempre andata alla mensa. Non c’è alternativa, tutti i bambini ci vanno». L’intreccio di culture si fa più evidente per Louise proprio al momento della nascita della sua prima figlia. «Con lei ho subito parlato in svedese, mi è venuto naturale. Gioca in questo anche il rapporto con la parentela in Svezia, i miei genitori, mia sorella, mia nonna. Mi sono chiesta come si sentirebbero le bambine a non poter, oltre che parlare svedese, non conoscere il Paese, non sapere come sono le nostre tradizioni. Poi mi sono chiesta come mi sentirei io se non potessi donare alle mie bambine parte delle mie origini che sono anche le loro. Sembrano dei ragionamenti magari sciocchi, però il fatto di avere figli ti fa riflettere sul fatto che “i miei figli non saranno mai svedesi come lo sono io”. È un pensiero spontaneo». La Svezia, come la Svizzera del passato, è stata una terra di emigrazione. Data per assodata questa disponibilità degli svedesi a emigrare, esiste per loro la possibilità di mantenere vivi i legami con la terra d’origine. «In Ticino, ad esempio, esiste un’associazione sve-

dese che si chiama Luganosvenskarna. Siamo un centinaio di persone e abbiamo la possibilità di incontrarci una volta alla settimana per un aperitivo, una volta al mese per una cena. Facciamo gite, andiamo a visitare musei, invitiamo ospiti a parlare. Ultimamente sono arrivate famiglie con bambini piccoli più o meno della stessa età, e abbiamo cominciato a vederci il mercoledì pomeriggio per fare in modo che i bambini potessero incontrare anche altri bambini che parlano svedese e italiano. L’idea è proprio quella di giocare, cantare canzoni svedesi, fare delle attività insieme ma soprattutto di parlare svedese». E i bambini come l’hanno presa? «Prima che facessero conoscenza c’è voluto un po’. Ci sono bambini che parlano molto meglio svedese degli altri perché magari in casa tutti e due i genitori sono svedesi». La piccola scuola svedese di Lugano per quanto minuscola gode di un’ottima organizzazione: «Si tiene due volte al mese il sabato mattina, tre ore, dalle 10.00 alle 13.00. Sono tre classi dove i bambini più grandi hanno avuto

per insegnanti due studenti che fanno l’università qui, a Lugano. Utilizzano i sistemi della scuola svedese per apprendere la lingua: nella prima ora molta didattica, poi seguono momenti più ludici, con giochi e canzoni. Cerchiamo anche di trasmettere un po’ delle tradizioni, quelle più importanti; il Natale come si festeggia da noi, poi Santa Lucia che è il 13 dicembre. La Festa nazionale è il 6 giugno, è il giorno della bandiera svedese, che ricorda tra altre cose anche l’incoronazione del primo re». Ma per tornare alla piccola scuola, esistono anche concreti legami con l’ufficialità. «La scuola è indipendente, non legata ad un’autorità. Ma i bambini, dopo aver raggiunto una certa età, possono ricevere un contributo dallo Stato svedese, avendo la doppia nazionalità. Vediamo la scuola anche come una facilitazione per il futuro, nel caso si decida di andare a studiare in Svezia». Louise Brandberg Realini ci racconta poi un aspetto interessante del suo rapporto con la propria cultura di origine. All’inizio della sua permanenza ticinese infatti non sentiva nessun bisogno di contatto con le sue “radici”. «Non pensavo di aver bisogno di cercarlo qui. Inizialmente non mi sentivo “diversa”. Ero curiosa di conoscere questo Paese, sono stata anche accolta molto bene. Dopo qualche anno invece ho avuto proprio il bisogno di confrontarmi con altri svedesi che vivono qui. Per potermi riconoscere, chiedere se avevano avuto una stessa esperienza da condividere. E magari ridere di noi stessi, del nostro stupore davanti a certe situazioni e sì, anche di parlare della Svizzera e degli svizzeri». In fondo, la multiculturalità passa attraverso un rapporto maturo, dialettico con le proprie radici. «Il discorso per me è stato più chiaro nel momento in cui ho iniziato a osservare le mie bambine. L’idea che diventassero solo svizzere mi sembrava strana... Sono ormai in parte anche svizzera, è evidente, ma provo comunque un sentimento forte rispetto alla mia cultura. La Svezia ha una sua fisionomia culturale importante della quale faccio parte, ed è impossibile per me non tenerne conto».

L’artista di Casa Sciaredo Pubblicazioni Primo sguardo sulla vita e le opere dell’artista Georgette Tentori-Klein

Stefania Hubmann Desiderava che la sua ricerca artistica, le sue opere, i suoi diari, fossero tramandati, che la sua casa continuasse ad ospitare persone ispirate e creative. Le speranze di Georgette TentoriKlein (1893-1963), eclettica artista vissuta a Barbengo, sono oggi una realtà. Una vita da solista è infatti il titolo del libro che Chiara Macconi e Renata Raggi-Scala le hanno dedicato dopo aver esaminato il fondo documentario che lo scorso anno è stato depositato presso l’Associazione Archivi Riuniti delle Donne Ticino (AARDT), di cui le curatrici del volume sono rispettivamente membro di comitato e presidente. La pubblicazione, edita da AARDT ed Elster Verlag in italiano e tedesco, sarà presentata al pubblico il 25 settembre alla Biblioteca Salita dei Frati a Lugano e il 19 ottobre al Kunstmuseum di Winterthur, dove è conservata una tovaglia ricamata in seta, fra le poche opere di Georgette Klein preservate dall’oblio. In Ticino la testimonianza più famosa resta l’abitazione da lei progettata e costruita con il marito Luigi Tentori sul poggio che ospita la chiesa di Barbengo. Casa Sciaredo, edificio protetto a livello cantonale quale primo esempio di archi-

tettura residenziale moderna in Ticino, sarà aperta al pubblico il 27 settembre per una presentazione in loco e visita. Una vita molto produttiva quella di Georgette Tentori-Klein: «L’archivio cartaceo dell’artista – spiegano le curatrici del volume – è costituito da oltre cento diari e da numerosi classificatori, dove sono stati raccolti con molta cura testi, disegni, documenti, fotografie, lettere e articoli di giornale. La sua produzione artistica, di cui rimangono alcuni burattini conservati nella Svizzera tedesca e in Germania e le sculture dell’ultimo periodo lasciate a casa Sciaredo,

è in parte ricostruibile attraverso le fotografie e i conti dove figura la vendita delle opere». L’intenso lavoro di Chiara Macconi e Renata Raggi-Scala ha permesso di portare alla luce le diverse forme espressive utilizzate dall’artista. In particolare, oltre alle marionette e ai burattini, di cui già si conosceva l’esistenza, sono emersi il tema del presepe e quello del gruppo madre-figlio. I presepi, composti da figure in legno alte circa 20 cm, rappresentano una parte della produzione degli anni Trenta, periodo particolarmente fruttuoso e di cui sono documentati anche i contatti con nego-

L’artista sulla terrazza di Casa Sciaredo, sullo sfondo il Pian Scairolo nel 1940. (AARDT)

zi di artigianato ad Ascona, Morcote, Lugano, Winterthur e nella regione del lago di Bienne. Nata nel 1893 a Winterthur in una famiglia agiata (il padre era uno dei direttori della ditta Sulzer), nel 1919 Georgette consegue il dottorato alla Facoltà di germanistica dell’Università di Zurigo, affermando al contempo la sua vocazione artistica. All’inizio degli anni Venti è primo violino aggiunto nel MusikKollegium della sua città, frequenta la Kunstgewerbeschule (Scuola di arti applicate) e realizza produzioni artigianaliartistiche legate in particolare alla tessitura, come cuscini, arazzi e tovaglie. Il trasferimento della famiglia a Barbengo nel 1927 accentua il suo interesse per marionette e burattini e il passaggio alla scultura lignea con opere dapprima figurative e in seguito caratterizzate da un crescente astrattismo. La ragazza di buona famiglia è diventata una donna che si confronta con una realtà artistica all’epoca ancora tutta declinata al maschile. Duro il confronto umano, duro il materiale che cerca di plasmare. Solista ma non solitaria – questa è la tesi del libro –, Georgette Tentori-Klein risulta ben inserita nel tessuto sociale luganese. Frequenta la Biblioteca cantonale,

collabora con le scuole di Barbengo per gli spettacoli di burattini e fa parte del Lyceum Club della Svizzera italiana, di cui è l’incaricata per le attività artistiche. Anche attraverso questo sodalizio espone e vende le sue produzioni. Come non chiedersi dove siano finite queste opere? È possibile recuperarne almeno una parte? Chiara Macconi e Renata Raggi-Scala, che con il loro libro hanno voluto gettare un primo sguardo sulla vita e l’opera di questa misteriosa e insolita figura, lanciano un appello per ritrovare le opere di Georgette Tentori-Klein, soprattutto quelle che sembrano ormai esistere solo su carta fotografica, come è il caso dei presepi. Nel volume, scritto a più mani sui vari aspetti dell’artista, la critica d’arte Annelise Zwez, presidente della Fondazione Sciaredo che gestisce la proprietà dove ogni anno soggiornano diversi artisti, rileva pure come non sia semplice cogliere tutte le sfaccettature del personaggio, perché l’eccezionalità di Georgette Tentori-Klein «non risiede tanto nei singoli aspetti della vita e dell’opera, bensì nel loro insieme». Informazioni

www.archividonneticino.ch




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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi A sua immagine e somiglianza L’ 8 settembre del 70 Anno Domini iniziava il sacco di Gerusalemme da parte dei legionari della V Macedonica, XII Fulminata, XV Apollinaris e X Fretensis. Già in agosto il Secondo Tempio della storia dell’ebraismo, che Erode il Grande aveva sottoposto a grandiosi ingrandimenti pochi anni prima, era stato gravemente danneggiato da un incendio. I legionari di Tiberio – comandante sul campo dell’Imperatore Tito – questa volta lo avrebbero definitivamente distrutto. La cronaca di quelle drammatiche ore è contenuta nel De Bello Judaico di Flavio Giuseppe. Figura controversa di liberto che godette dell’affrancatura dalla schiavitù da parte di Vespasiano, al quale aveva profetato l’ascesa al trono imperiale, Flavio Giuseppe narra in una pagina famosa dell’irruzione dei legionari nel Sancta Sanctorum del Tempio, la cella più interna della serie di recinti che ne garantivano l’inviolabilità. Cortile dopo cortile gli invasori si avvicinano in un crescendo drammatico all’obiettivo dei

loro sogni di conquista. Delle ricchezze custodite nel luogo sacro si era certo favoleggiato la notte attorno ai fuochi da campo: l’Arca dell’Alleanza, il Candelabro dalle Sette Braccia e quant’altro d’oro e d’argento ed altri preziosi erano ormai a portata di mano. Avrebbero compensato in abbondanza i patimenti e le frustrazioni di una campagna contro un nemico duro a morire, cocciuto, irriducibile anche di fronte all’evidente inferiorità militare. Finalmente i legionari giungono davanti alla pesante tenda che cela l’interno. Il Decurione viola il velo, lo squarcia sdegnoso e arrogante con un solo gesto della daga: l’interno è vuoto, assolutamente vuoto. Una stanza disadorna: niente di niente. Cosa fosse successo è difficile dirlo. Né chi scrive – il vostro Altropologo – è al corrente di fonti letterarie che mai si siano poste la domanda. Perché il Sancta Sanctorum del Tempio di Gerusalemme, nel momento stesso della distruzione che ne determina, a posteriori e parados-

salmente, l’assunzione a simbolo della Diaspora e pertanto dell’identità ebraica, è in quell’attimo cruciale vuoto? Una risposta incontrovertibile è impossibile darla. Ricostruzioni del complesso interno del tempio informate di quei pochi fatti sui quali possiamo contare ci dicono che l’anticamera del Sancta Sanctorum conteneva tanto il Candelabro dalle Sette Braccia (Menorah) quanto altri importanti oggetti di culto. Quanto all’Arca dell’Alleanza, contenente le Tavole della Legge, quello che si sa per certo è che ad un certo punto sembra scomparire dalle Scritture – forse attorno al VI secolo Avanti Cristo. Furono tutti tali sacrari messi al sicuro dagli Zeloti difensori per non essere mai più trovati? Furono distrutti in un incendio? Saccheggiati da predecessori dei legionari? E l’Arca poi? Fu trasferita in Etiopia ancora nel X secolo, dopo che Salomone l’aveva donata alla Regina di Saba e quivi trasportata dal figlio della loro unione Menelik, il fondatore della dinastia

Amharica? Qui sarebbe conservata in luogo inaccessibile – secondo la testimonianza del Patriarca Ortodosso Etiope Abuna Paulos che ancora nel 2009 ha dichiarato di averla vista. Comunque stiano le cose è del tutto probabile che il Sancta Sanctorum, la parte interna del Tabernacolo, sia sempre stato vuoto. Fondato sul luogo della Fondazione del Mondo, esso conteneva la even shetiyyah, la pietra sulla quale il mondo avrebbe preso forma. In osservanza al Terzo Comandamento esso certo non conteneva alcuna immagine della Divinità – pietra, oro, legno, argento o cos’altro fosse. La proibizione relativa alle immagini è un tabù comune a tutti i monoteismi di cultura semitica – Ebraismo, Cristianesimo ed Islam. Nel cristianesimo la proibizione è in qualche modo bypassata dalla dottrina dell’incarnazione, ma anche in questo caso l’immagine della Divinità stenta a farsi strada. Nei primi secoli del cristianesimo Cristo era rappresentato in forma allegorica, come Orante, Buon

Pastore o addirittura in forma di Pesce. La stessa tradizione Ortodossa, che pure mette al centro del culto l’icona, critica radicalmente la tradizione dell’arte sacra latina da Giotto in poi per lo sforzo che questa ha introdotto nel rappresentare la Divinità secondo canoni realistici e non in qualche modo trascendenti la realtà, così come detta la teologia dell’icona. Ma anche scontando gli episodi iconografici più arditi – penso qui a quel Dio Padre della Sistina molto, troppo vicino ad una sorta di Babbo Natale ante litteram – le raffigurazioni della Prima Persona sono poche, e quelle poche sono quasi riluttanti. Di certo i legionari dell’Apollinaris non potevano immaginare che la loro delusione fosse dovuta ad un intoppo teologico dalle radici antiche quanto il mondo. Questo traduce nella proibizione pratica un dilemma cognitivo e antropologico altrettanto fondante il nostro modo di rappresentare il mondo – ma questo sarà materia per la prossima ventura della vostra rubrica preferita.

Il nostro sguardo, non solo percepisce le azioni svolte dall’altro, ma comprende le intenzioni e le emozioni che esprimono. Una comprensione che stimola ad agire e interagire. Se osserviamo da vicino una persona che piange, si attiva nel nostro cervello la medesima area corticale, soprattutto se ci troviamo, come accade ai fratelli che crescono insieme, spazialmente vicini. Questi dati scientifici sconsigliano di allontanare Alba per farle seguire corsi specialistici, anche se è opportuno che, alla scuola materna, Marco possa frequentare una classe diversa da quella della sorellina. Il tempo condiviso in casa, nello svolgimento delle attività quotidiane, è sufficiente ad attivare le vitality forms, le modalità con cui comunichiamo, il «come», non solo il «perché», delle nostre azioni. Quanto alla depressione che ha colpito il nonno, potrebbe dipendere dal constatare che la perfezione, cui ha mirato per tutta la

vita, mentre sembrava realizzata è stata incrinata dall’handicap che ha colpito la nipotina. L’ammirazione suscitata dalla vostra famiglia gli appare ora ingiustamente appannata dalla commiserazione. È difficile accettare che non vi sia, almeno in questo mondo, una perfetta coincidenza tra il dare e l’avere, tra meriti e premi. Ma è proprio il ridimensionamento delle aspettative che rende umana la nostra storia. Non c’è luce senza ombra ed è il dolore a far risaltare la felicità di una vita condotta sotto il segno della comprensione, che scioglie nel suo abbraccio ogni delusione, compresa la nostra.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Una nipote «diversa», ma da chi? Cara Silvia, abbiamo avuto tanto dalla vita: salute, amore, un figlio meraviglioso, una buona situazione economica. E, in parte, abbiamo voluto rendere quanto ricevuto adottando una bambina indiana di tre anni. Quando è giunta nella nostra famiglia era in condizioni disperate. Era denutrita, spaventata, malata e chiusa a ogni richiamo. Piano piano, con pazienza, affetto e tanti aiuti professionali e spontanei, l’abbiamo recuperata e ben inserita a casa e a scuola. Più difficile è stato trovarle un lavoro ma poi si è sposata, è rimasta incinta e, poiché non sembrava necessario un altro reddito, è rimasta tranquillamente ad attendere la nascita del figlio. Che si sono rivelati due. Non ha voluto sottoporsi alla villocentesi e così il parto è stata una sorpresa. Mentre il maschietto, Marco, non ha problemi, la femminuccia, Alba, è risultata affetta dalla sindrome di Down. È stato uno

choc per tutti, aggravato dal fatto che il padre, poco dopo, ha chiesto la separazione e se ne è andato. Questa serie di sventure ha fatto precipitare mio marito, il nonno dei gemelli, in depressione. Non riesce ad accettare che Alba sia diversa, che abbia uno sviluppo più lento, sia goffa nei movimenti e che non sarà mai completamente autonoma. Ora che la piccola ha tre anni vorrebbe sottoporla a un programma di recupero durissimo, che prevede dieci ore al giorno di fisioterapie e di psicoterapie comportamentali. La promessa è di renderla normale. Ma lo sarà mai? E lei che cosa ne dice? / Nonna Marirosa Cara nonna, confesso ancora una volta che il termine «normale» mi mette in allarme. «Normale» rispetto a chi? Chi ha il diritto di fissare un riferimento valido per tutti? Le terapie di recupero forzato non fanno che sottolineare gli aspetti

negativi dell’handicap. Quando il segno «meno» contraddistingue le prestazioni dei soggetti «diversi», li fissa in una condizione di inadeguatezza che deprime la loro identità. Con questo non intendo abbandonarli a sé stessi in nome di una «naturalità» generica e astratta. Il problema esiste ma è l’approccio che deve mutare. Il punto di partenza consiste nel cogliere tutte le potenzialità positive di Alba e di valorizzarle. La situazione in cui la piccola cresce è particolarmente favorevole per la presenza di un gemello. Sappiamo che, nelle coppie gemellari, i fratellini sono legati da un rapporto affettivo intenso, caldo, positivo. Crescendo accanto a Marco, Alba potrà fruire degli scambi subliminali prodotti dai «neuroni a specchio». Scoperti dal neuroscienziato Giacomo Rizzolatti, docente all’Università di Parma e accademico dei Lincei, la loro funzione spiega le basi fisiologiche dell’empatia.

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Quando le pagine sembrano troppe Racconti, compressi in 140 battute, e romanzi da oltre 1000 pagine: oggi, più che mai, gli opposti si toccano e convivono persino nell’ambito culturale. Le cronache degli ultimi giorni hanno riferito che, negli Stati Uniti, è nata la cosiddetta «Twitteratur», una forma letteraria che, come vuole questo social network, concede un minimo di parole per esercitarsi in una sorta di funambolismo narrativo. Con poco per dire tanto? Chissà. Intanto, però, oltre Oceano, l’editoria continua a sfornare libri sempre più voluminosi: le 800, 1000 e più pagine sono all’ordine del giorno, nella saggistica e nella narrativa tanto da poter parlare di una tendenza persistente, consolidata da decenni di successo. Nomi, quali Ken Follet, Stephen King, John Grisham si associano a opere massicce, ma il primato spetta a un giovane scrittore di talento, David Foster Wallace, morto suicida, e autore, nel 1996, di Divertimento infinito: 1500 pagine. È la tipica mania di grandezza americana, si è ironizzato nella stampa europea commentando un fenomeno che, invece, non conosce frontiere. A

quanto pare, il romanzone made in USA ha fatto scuola. Il nostro mercato subisce, certo, l’invasione di autori d’oltre Oceano, immediatamente tradotti nelle più svariate lingue nazionali, ma anche di autori europei che hanno, pure loro, preso gusto al racconto-fiume. Si pensi

Il libro ha vinto il Premio Pulitzer 2014.

alla trilogia dello svedese Stieg Larsson, complessivamente oltre 2000 pagine, andate a ruba. O ancora allo spagnolo Carlos Ruis Zafòn, con L’ombra del vento, 700 pagine, e a Giorgio Faletti, scomparso di recente, dopo un’inattesa affermazione letteraria, pure lui con romanzi corposi. E fra questi scrittori prolifici c’è pure un giovane svizzero, il ginevrino Joël Dicker, con La verità sul caso Harry Quebert, bestseller dell’estate 2013. E qui sta l’aspetto singolare del fenomeno: la mole non allontana il pubblico dall’impegno, che è anche fisico, di una lettura di lungo corso. È caduta, insomma quella forma di soggezione che interviene nei confronti dei grandi classici, e grandi sul piano quantitativo e su quello qualitativo. Ciò che non è, invece, assicurato dai libroni attuali. Fatto sta che se si esita ad affrontare il Guerra e pace, La ricerca del tempo perduto, la Montagna incantata, e via enumerando le migliaia di pagine di libri storicamente garantiti, ci si butta, per contro, nella lettura insidiosa di romanzi e persino di saggi che hanno il

pregio stuzzicante della novità. Si tratta, per così dire, di un’avventura a nostro rischio e pericolo, che si rinnova, di stagione in stagione, sul filo della pubblicità editoriale e, poi, del passaparola. Proprio in queste settimane, fra amici, conoscenti, colleghi ci si scambiano le reazioni sul conto del libro dell’estate 2014: Il cardellino di Donna Tartt, oltre 900 pagine, proposte al nostro intrattenimento, alla nostra riflessione ma anche al dubbio che, in definitiva, la lunghezza abbia giocato contro le intenzioni di una scrittrice talentuosa. Infatti, giungendo a quota 500-600, il flusso della narrazione sembra bloccarsi e perdersi in rivoli secondari. E il lettore si trova alle prese con la tentazione di abbandonare. In realtà, anche se persino critici come Harold Bloom riconoscono al lettore il diritto di chiudere un libro, quando non lo soddisfa, rimane però da chiedersi quali siano le cause di questa defezione: una sconfitta per chi legge o per chi ha scritto? È rivelatrice, in proposito, l’indagine condotta, recentemente, da Amazon per conoscere ciò che sta dietro

i successi editoriali: veri o apparenti. A smentire l’eventuale noia, provocata in taluni dal Cardellino, ecco che il romanzo della Tartt ottiene il 98,5 per cento di fedeltà dei lettori. Mentre era stata soltanto di facciata, mesi fa, l’affermazione di Il capitale nel XXI secolo, dell’elogiatissimo Thomas Piketty. In pratica, letto sino alla fine, soltanto dal 2,4 per cento dei compratori. Le dimensioni, certo, non sono tutto, ma contano, e non soltanto nell’ambito dei libri, la cui lettura può essere dilazionata nel tempo. Il discorso cambia, parlando di spettacoli teatrali, concerti, film, conferenze. Pure qui, cresce un’esuberanza produttiva che non sempre coincide con un autentico estro creativo. Le quasi sei ore della pellicola, premiata a Locarno, potevano essere dimezzate , senza danneggiarne il valore e il messaggio? Domanda, forse irriverente, ma spontanea. Con ciò chiudo il commento, memore della raccomandazione di un vecchio direttore del «Corriere del Ticino»: «Corto ma breve», mi diceva assegnandomi i miei primi incarichi di lavoro.


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Ambiente e Benessere L’auto dei nostri sogni La Nissan ha progetti ambiziosi e persino rivoluzionari, in cui primeggiano le nuove tecnologie

Il confine etico Resta sempre di stretta attualità il dibattito sulla sperimentazione clinica con l’uso di animali

Cucinare in tutte le salse Sfiziose ricette adatte a insaporire con un tocco di novità le vostre portate principali

Verso un nuovo traguardo Il ciclista paralimpico Fabrizio Macchi racconta la sua evoluzione sportiva e personale pagina 19

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Impariamo a conoscere ciò che ci permette di vivere. (M. Martucci)

Segare il ramo su cui siamo seduti? Sostenibilità Più le risorse scarseggiano, maggiore deve essere l’impegno per conservarle

Marco Martucci Il concetto di sostenibilità (sustainability, Nachhaltigkeit, durabilité) fu coniato nel 1987 nella «Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo», presieduta dall’allora presidente del governo norvegese, la dottoressa Gro Harlem Brundtland. Secondo questo concetto, divenuto nel frattempo di dominio pubblico, lo sviluppo sostenibile è quello sviluppo che è in grado di soddisfare i bisogni della generazione presente, senza compromettere la possibilità che le generazioni future riescano a soddisfare i propri. Apparentemente, l’affermazione è ovvia. Quale genitore vorrebbe per i propri figli un futuro peggiore? L’idea rimanda ai celebri, storici discorsi dei capi «pellerossa» che mettevano in guardia l’invasore «bianco» dalla dilapidazione dei beni della natura: la Terra non appartiene all’uomo, è l’uomo che appartiene alla Terra. Spingendo il concetto più in là, si può ben capire come, da qualche tempo, ci si sia resi conto della limitatezza delle risorse, siano esse energia, cibo, spazio e di quanto l’uomo, nel suo progresso, abbia fatto man bassa di queste risorse, molte delle quali non si riformeran-

no più. La dispensa si svuota, il futuro appare nero. Fra le obiezioni mosse dai critici dei vari modelli di sviluppo sostenibile c’è quella che afferma che noi non possiamo sapere quali saranno i bisogni dell’uomo futuro e che non starebbe a noi fare speculazioni su di essi. Ma intanto, la realtà è quella che è: le risorse scarseggiano, l’ambiente è deturpato, la fame, la povertà e le malattie, le ingiustizie sociali, il cambiamento climatico non si possono negare. Il rimedio proposto dai diversi modelli di sviluppo sostenibile tiene conto di tre componenti: l’ambiente, l’economia, la società. Quale delle tre sia la più importante è fonte di discussione. C’è chi sostiene che senza un ambiente sano le altre due componenti non siano assicurate. C’è chi vede per contro una sinergia delle tre componenti o, ancora, una dominanza di un’altra delle due. La Svizzera ha optato per una via allo sviluppo sostenibile attraverso una strategia in continuo aggiornamento per il triennio 2012-2015. Le Nazioni Unite hanno dichiarato il periodo 2005-2014 «Decennio dell’educazione allo sviluppo sostenibile», ESS, affidandone all’Unesco la sua attuazione. Frattanto, il settore privato non ha perso tempo e

sono molte le imprese, fra cui primeggiano quelle della produzione e grande distribuzione, che hanno adottato lo sviluppo sostenibile nel loro brand, nella politica aziendale e nel marketing, con un non trascurabile effetto sui comportamenti del consumatore. L’entrata ufficiale dell’ESS nell’istruzione formale, dunque nella nostra scuola pubblica, avviene il primo gennaio del 2013 con la creazione della fondazione éducation21, nata dalla fusione della Fondazione Educazione e Sviluppo (FES) e della Fondazione per l’Educazione Ambientale (FEA), raggruppando in tal modo temi legati all’ESS come l’educazione alla cittadinanza, l’educazione ambientale, l’istruzione civica, la salute e l’economia. Centro di competenza nazionale per la scuola pubblica obbligatoria e la scuola media superiore, éducation21 è sostenuta da Confederazione e Cantoni, che ne garantiscono il finanziamento, insieme a contributi di organizzazioni della società civile e al ricavato da prestazioni fornite. L’ampia offerta di prestazioni comprende fra l’altro materiali didattici, sostegno tematico, didattico e finanziario di progetti scolastici, formazione di base e continua, consulenza, partecipazione allo sviluppo dei piani

formativi. In Ticino, éducation21 è presente con una propria sede a Bellinzona. Nel centro storico della capitale, in Piazza Nosetto 3, è a disposizione dei docenti di ogni grado scolastico Spazio21, con un collaboratore presente tutti i mercoledì pomeriggio, una biblioteca, materiali didattici e un’attrezzata sala per riunioni. Qui, in collaborazione con la SUPSI, Dipartimento Formazione e Apprendimento DFA, éducation21 propone una serie di serate, «Spazio21 (in)forma», per promuovere l’educazione allo sviluppo sostenibile. Il primo di questi incontri, previsti a scadenza mensile il mercoledì dalle 17 alle 18.30, è programmato per il prossimo 17 settembre. «Scuola verde o il verde come scuola?», curato da Nicola Petrini, Docente Scuola del Verde di Mezzana, si rivolge principalmente a insegnanti di Scuola elementare e media. Il 15 ottobre è la volta di Antoine Casabianca, Presidente ACSI, con «Ecologia nutrizionale: per andare oltre il piatto equilibrato». «Aula aperta con GLOBE» è il tema sviluppato da Marco Martucci, docente di scienze alla Scuola media e autore di questo articolo, il 19 novembre. GLOBE è un programma internazionale di educazione ambientale per ogni ordi-

ne di scuola, una realtà in più di 25’000 scuole di 111 nazioni. In Svizzera attualmente partecipano 135 istituti scolastici con oltre 250 insegnanti. Da un anno, GLOBE è attivo anche in Ticino e il sottoscritto, oltre ad esserne il responsabile regionale, è attivo come docente GLOBE presso la Scuola media Barbengo, la prima Scuola GLOBE ticinese. In pochi mesi, le nostre Scuole GLOBE sono diventate due, con tre docenti e 120 allievi di scuola media e scuola elementare e il loro numero è destinato ad aumentare. Nella serata verrà anche presentato il lavoro svolto con le classi durante l’ultimo anno scolastico. Gli allievi non apprendono solo nozioni e competenze. Compiono osservazioni e misurazioni e i risultati delle loro ricerche vengono messi in rete e condivisi con le altre scuole. Inoltre, GLOBE è in stretto contatto con il mondo della ricerca e, oltre a offrire programmi fondati scientificamente, mette a disposizione specialisti e scienziati per conferenze, presentazioni e giornate tematiche. Mercoledì 17 dicembre conclude il ciclo di serate Nadia Klem di Educazione ambientale WWF con «Le mele non crescono al supermercato!»: come i nostri consumi possono influire sull’ambiente.


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Amavita – Sentirsi meglio, semplicemente. Mario Alberto Cucchi Settembre è un mese di grandi fermenti per il mondo dell’auto. Il motivo? Il 29 di agosto si è aperto il Salone dell’automobile di Mosca mentre il prossimo 4 ottobre sarà la volta del Mondial de l’automobile di Parigi. L’edizione 2014 del Moscow International Automobile Show (MIAS) è stata l’occasione per informare che le previsioni fatte nel 2012 sul mercato russo sono state disattese. Il Ministro dell’industria del Governo Medvedev due anni fa aveva infatti affermato che il mercato interno avrebbe superato nel 2014 le vendite della Germania, ma così non è stato.

L’obiettivo è creare un auto in grado di guidarsi da sola fino alla velocità di 30 km/h in situazioni di traffico rallentato, così da godersi i nuovi comfort Anzi, oggi si sta registrando una contrazione a due cifre percentuali. Si stima un meno 18%, non superando 2.1 milioni di auto immatricolate. I ricercatori dell’ufficio studi americano IHS – www.ihs.com – stimano si possa risalire a 3 milioni di auto nel 2018. Sono previsioni, di certo c’è solo che il parco auto russo è ancora molto vecchio e necessiterebbe di incentivi governativi per essere modernizzato. Al Salone moscovita quest’anno si punta anche sull’ambiente e sull’ecologia con l’anteprima mondiale del nuovo SUV Nissan Pathfinder in versione ibrida. Si tratta della prima automobile ibrida prodotta in Russia, uscirà

infatti dallo stabilimento Nissan di San Pietroburgo dove già si fabbricano X-Trail, Teana e Murano. L’obiettivo è raggiungere una produzione locale di 100’000 veicoli-annui. Sotto il cofano del Pathfinder di quarta generazione si possono trovare quindi due propulsori: il classico 3.5 benzina o in alternativa un motore benzina da 2000 cc che lavora in coppia con un motore elettrico dando luogo a una propulsione ibrida. Entrambi sono abbinati alla trazione integrale e alla trasmissione automatica X-Tronic grazie ai quali Pathfinder è in grado di affrontare qualsiasi tipo di strada. Il Presidente di Nissan, Carlos Ghosn, ha illustrato di recente anche i vantaggi del piano che prevede il lancio delle ultime tecnologie di automazione dei veicoli finalizzate ad accelerare l’adozione da parte degli automobilisti di sistemi di guida automatica. Questi dispositivi saranno gradualmente introdotti a bordo della gamma Nissan nei prossimi quattro anni e comprendono sistemi di gestione della guida su strade multicorsia. Carlos Ghosn, che è anche amministratore delegato di Renault, è stato nominato dal Governo francese leader del progetto «veicolo con pilota automatico» in occasione del lancio del programma «Nuova Francia Industriale». Ghosn ha dichiarato che il costruttore automobilistico francese «ha scelto di associare i processi di delega della guida e di connettività a bordo: la delega della guida rafforzerà la sicurezza e restituirà tempo al conducente e la connettività gli permetterà di fruire di questo tempo ritrovato accedendo a nuovi servizi tra cui la videoconferenza, l’acquisto online, le informazioni turistiche e altro ancora». L’obiettivo è quello di costruire una vettura in grado di «guidarsi da sola» in situazioni di traffico rallentato fino a 30 chilometri orari su strade a scorrimento veloce.

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Ambiente e Benessere

Vino dei ghiacciai, da meditazione Enologia Una delle specialità tra le etichette elvetiche è quella prodotta con le uve della Val d’Anniviers,

grappoli che crescono a oltre 1500 m di altitudine

Chandolin, uno dei sei comuni che fanno parte della regione vallesana. (Wikipedia)

Grimod La nota di un lettore in merito all’ultimo articolo della rubrica mi conforta nella convinzione che Gianni Brera sia stato un grande intenditore di cose di tavola e di cantina. In effetti il lettore mi cita una frase tolta dal libro l’Arcimatto in cui il Gioann scrive; «I bevitori viziosi nascono mani tremanti e la voglia di bere come una condanna a vita. Chi beve vino e lo capisce, udendo musica sente passare gli angeli e li distingue».

Il Vin des Glaciers è una specialità che va gustata con cura, come ascoltando una musica raffinata Non si contano le persone amanti del vino e appassionate di musica. Ho scritto qui, anni fa, l’esempio di Giuseppe Bava, proprietario di un’importante enoteca a Cannobio, che settimanalmente si è sobbarcato il viaggio Cannobio-Milano e ritorno per studiare il canto lirico, diventando un apprezzato tenore. Le descrizioni di Bava su qualsiasi vino egli degusti lasciano di stucco per la precisione dei termini e delle espressioni in una sorta di sinfonia musicale: un medley. Medley è vocabolo inglese difficile da tradurre ma,

così alla buona per rendere l’immagine, corrisponde al potpourri. Gli amanti del jazz anni Cinquanta-Sessanta ricordano certamente le lunghe melodiose e armoniche esibizioni di Lester Young, Johnny Hodges, Stan Getz, Paul Gonsalves, Dizzy Gillespie, Illinois Jacquet,

Coleman Hawkins che venivano presentate come Ballade Medley. Erano liriche obbligatorie del repertorio di quei grandi musicisti di grosso talento, poi riprese in maniera più cerebrale dal Modern Jazz Quartet di John Lewis e Milt Jackson: liriche ancor più elabo-

rate, come sono state poi proposte negli anni Ottanta nei Blue Spirits di Freddie Hubbard. Per tornare al tema, non sono molti i vini da meditazione, alcuni piuttosto rari. Come il Vin des Glaciers. Alcuni vignaioli di Sierre – che ancora lo produ-

cono – fanno maturare il vino nella Val d’Anniviers ben sopra i 1500 metri portando il mosto – tratto da un vitigno che si chiama Rèze – a quelle quote in botticelle di larice che mai vengono svuotate del tutto. Non è quindi un vino millesimato, perché si mescola con i residui di quello già contenuto ed estrae da quel legno un certo sapore di resina. È un tantino pungente, soprattutto se la permanenza nelle botticelle è troppo prolungata, ma comunque è un vino di pregio. È, a mio giudizio, un vino da gustare da solo. Una trentina di anni fa, di passaggio da Sierre, fui ospite di un vignaiolo filosofo e pittore per diletto, M. Etienne Savoiz-Germanier. Pittore singolare capace di riprodurre, su tavole di legno usando pittura a olio di lattine normalmente in commercio, dipinti di Raffaello Sanzio e altri con una precisione sorprendente. Mi diceva che uno dei pochi cibi consigliabili da abbinabile al suo Vin des Glaciers fosse un’unghia di formaggio molto stagionato; una scaglia di Parmigiano reggiano con almeno 30-40 mesi di invecchiamento. Di ritorno in Ticino, qualche mese dopo provai l’assaggio consigliato e ne ebbi soddisfazione. Tanto più che il detto Vin des Glaciers è di lunga conservazione. Chi per avventura cercasse altre informazioni nel web, anche al singolare Vin du glacier, trova una messe di voci. In talune esso viene addirittura definito lo Sherry du Valais. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Salse sotto pressione Allan Bay Ultimamente mi sono riappacificato con la pentola a pressione: non l’avevo mai abbandonata, ma un po’ dimenticata sì. Oggi la utilizzo più che mai. Scrivo queste righe una domenica alle 17: queste 4 salse le ho fatte fra le 15 e poco fa. Condivido con voi le ricette. Salsa di pomodoro. Ingredienti per circa 700 g di salsa: pomodori perini ben maturi kg 1, 2 cipolle, 1 carota, 1 costa di sedano, 1 spicchio d’aglio, 1 mazzetto di basilico, sale e peperoncino secco.

Le salse chutney, di pomodoro, di mele e la composta senapata si preparano anche in pentola a pressione Sbollentate i pomodori per 2’, scolateli, pelateli, tagliateli a metà, eliminate i semi e le costole bianche, spezzettateli e metteteli nella pentola. Lavate, mondate e affettate le verdure e unitele ai pomodori. Chiudete con l’apposito coperchio e mettete sul gas a fuoco vivace. Al sibilo riducete la fiamma al minimo, cuocete per 5’ poi spegnete. Aprite la valvola per far uscire il vapore. Aprite la pentola e frullate col minipimer. Rimettete la pentola aperta sul gas. Unite una punta di concentrato di pomodoro stemperata in poca acqua, una manciata di foglie di basilico spezzettate e un peperoncino secco sbriciolato e cuocete per altri 5’, rimestando. Regolate di sale. Composta senapata di cipolle. Ingredienti per 500 g di composta: cipolle rosse kg 1, zucchero di canna g 600, 2 foglie di alloro, 2 chiodi di garofano, Cognac, senape in pasta, sale. Pelate le cipolle, affettatele sottili e mettetele nella pentola. Unite lo zucchero, l’alloro, i chiodi di garofano

pestati, un pizzico di sale e un bicchierino di Cognac, chiudete con l’apposito coperchio e mettete sul gas a fuoco vivace. Al sibilo riducete la fiamma al minimo, cuocete per 3’ poi spegnete. Aprite la valvola per far uscire il vapore. Aprite la pentola, eliminate l’alloro, unite un cucchiaio o più, dipende dai gusti, di senape, mescolate, invasate, chiudete e fate raffreddare. Salsa chutney. Ingredienti per 500 g di chutney: frutta matura (io ho usato dei manghi, ma la ricetta vale per qualsiasi frutta) kg 1.5, scalogni g 300, un pezzetto di radice fresca di zenzero da g 40, zucchero di canna g 600, aceto di mele dl 6, sale. Sbucciate i manghi, privateli del seme e tagliateli a pezzetti. Metteteli nella pentola con lo zenzero pelato e grattugiato e gli scalogni sbucciati e affettati. Unite lo zucchero, un pizzico di sale e l’aceto. Chiudete con l’apposito coperchio e mettete sul gas a fuoco vivace. Al sibilo riducete la fiamma al minimo, cuocete per 3’ poi spegnete. Aprite la valvola per far uscire il vapore. Aprite la pentola e frullate col minipimer. Rimettete la pentola aperta sul gas e cuocete per altri 5’, rimestando spesso, o anche qualche minuto in più, finché l’insieme è asciutto. Trasferite il composto in un vaso di vetro a chiusura ermetica, chiudete e fate raffreddare. Salsa di mele. Ingredienti per 4 persone: 4 mele renette, 2 cipollotti, cannella, Cognac, sale. Pelate le mele, tagliatele in quarti, privatele del torsolo, spezzettatele e mettetele nella pentola. Mondate e tritate i cipollotti senza la parte verde e uniteli alle mele. Versate 3 cucchiai di Cognac e 6 cucchiaiate di acqua. Chiudete con l’apposito coperchio e mettete sul gas a fuoco vivace. Al sibilo riducete la fiamma al minimo, cuocete per 5’ poi spegnete. Aprite la valvola per far uscire il vapore. Aprite la pentola e unite 1 pizzico di cannella pestata, mescolate con foga poi invasate. Regolate di sale.

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CSF (come si fa)

Poi giuro che non vi tedio più con la pentola a pressione! Ma questa ricetta di polpo freddo speziato vale. Vediamo come si fa. Il polpo è meglio che sia stato congelato per 2 giorni almeno e scongelato in frigo: risulterà più tenero. Ingredienti per 4 persone: 1 polpo scongelato già pulito da 1.5 kg, 3 gambi di citronella, 1 cipollotto, 1 lime, 1 foglia di alloro, paprika dolce, 1 bustina

di zafferano, curcuma, 1 mazzetto di erba cipollina, zucchero, aceto di lamponi, fondo di pesce, olio di sesamo, olio di oliva, sale e pepe. Quanto al fondo di pesce, va benissimo quello che si trova nei supermercati, se non lo trovate utilizzate del soffritto di cipolle, carote e sedano, ben frullate ed emulsionate con vino bianco sobbollito per 3’. Non è la stessa cosa, ma quasi. Lavate il polpo e tagliatelo in 4 parti. Tagliate a metà la citronella e a fette il cipollotto, senza la parte verde. Scaldate 1 filo d’olio d’oliva nella pentola, unite la citronella, l’alloro e il cipollotto e fate rosolare per pochi istanti, poi unite il polpo. Mescolate e unite 1 presa di curcuma, 1 di paprika e la bustina di zafferano sciolta in 1 bicchierino di fondo. Regolate di sale e di pepe e uni-

te 1 cucchiaino di zucchero. Dopo 5’ sfumate con 1 mestolata di fondo di pesce e chiudete la pentola con l’apposito coperchio. Mettete sul gas a fiamma vivace e al sibilo, riducete la fiamma al minimo e cuocete per 15’. Spegnete e aprite la valvola per far uscire il vapore. A questo punto aprite la pentola, recuperate il polpo e mettetelo in una zuppiera. Filtrate il fondo di cottura, conditelo con 4 cucchiai di olio di sesamo e 1 cucchiaio di aceto di lamponi e versate sul polpo. Fate raffreddare la zuppiera in acqua e ghiaccio e poi lasciate riposare il polpo in frigorifero per 2 ore, coperto con pellicola da cucina. Distribuite il polpo sui piatti da portata, cospargete con l’erba cipollina tritata e servite. Se volete accompagnate con fagioli lessati.

Ballando coi gusti

Manuela Vanni

Manuela Vanni

Oggi delle bruschette, anche se le chiamo croûtes perché la ricetta è francese, e un curioso pollo nappato con una saporita salsa al curry

Croûtes ai fegatini e fichi

Pollo al curry rosso

Ingredienti per 4 persone: fegatini di pollo g 600 · fichi freschi g 300 (o 150 g di fichi secchi ammollati nel vino bianco per 30’) · 8 fette di pane casereccio · 3 scalogni · 1 pezzetto di radice fresca di zenzero · 1 presa di cumino · curcuma · vino bianco secco · brodo di pollo · olio di oliva · sale e pepe.

Ingredienti per 4 persone: petto di pollo g 600 · 2 patate dolci · 2 cipolle rosse · 1

Preparazione: Mondate i fegatini e tagliateli a fettine. Lavate i fichi e tagliateli a fettine senza sbucciarli. Mondate e tritate gli scalogni. Sbucciate lo zenzero e grattugiatene 1 cucchiaio. Scaldate 1 filo d’olio nella pentola, unite gli scalogni e fateli imbiondire per 5’. Aggiungete i fegatini, mescolate, e dopo 4’ sfumate con 1 bicchierino di vino sobbollito per 3’. Unite i fichi, 1 cucchiaino di curcuma, lo zenzero, il cumino e bagnate con poco brodo bollente. Cuocete per 20’, alla fine regolate di sale e di pepe e frullate. Tostate le fette di pane nel tostapane o in forno sotto al grill 2-3’ per lato. Distribuite la salsa sulle fette di pane tostato divise a metà e servite.

Preparazione: Cuocete le patate dolci e le cipolle sbucciate al vapore per 30’.

pezzetto di radice fresca di zenzero · curry rosso dolce in pasta · pomodorini secchi sott’olio g 40 · 1 mazzetto di basilico · 1 ciuffo di mentuccia · 1 mazzetto di finocchietto selvatico · latte di cocco dl 1 · brodo di pollo o vegetale dl 4 · sale. Sbucciate lo zenzero e grattugiatelo. Mondate le erbe. Sgocciolate i pomodorini e frullateli con il latte di cocco e la pasta di curry. Levate le patate e fatele intiepidire, pelatele e tagliatele a cubotti. Levate le cipolle e tritatele. Mettete in una pentola il brodo con gli odori e portate a bollore. Aggiungete il petto di pollo scaloppato in 4 tranci, regolate di sale e cuocete per 20’. Quando il pollo è quasi pronto mescolate le patate con la salsa al cocco e curry, le cipolle tritate e lo zenzero, regolate di sale. Mettete il pollo nei piatti da portata, nappate con la salsa e servite.


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Ambiente e Benessere

Tre regole contro la sofferenza Mondoanimale La statistica dell’Ufficio federale di sicurezza alimentare e veterinaria conferma l’aumentata

sensibilità delle persone nei confronti delle sperimentazioni su cavie da laboratorio

Maria Grazia Buletti Ogni anno in Svizzera si utilizzano circa 600’000 animali a scopi sperimentali. All’inizio degli anni 80 se ne registravano ancora 2 milioni. Secondo l’Ufficio federale della sicurezza alimentare e veterinaria (USAV) il calo è riconducibile alla nostra legislazione sulla protezione degli animali che permette questo tipo di sperimentazione soltanto se assolutamente necessaria. Questo fa di noi il Paese che ha una delle più ampie legislazioni sulla protezione degli animali vigenti in tutto il mondo, dove la sperimentazione animale è disciplinata in

Le «tre R» mirano a ridurre il numero degli esperimenti sugli animali, a causare loro meno dolore possibile e a sostituire i test con metodi alternativi modo particolarmente rigoroso e ogni singolo esperimento è sottoposto a una perizia della Commissione cantonale per gli esperimenti sugli animali: i ricercatori devono, di fatto, provare che l’utilità per la società è maggiore rispetto alla sofferenza degli animali (ponderazione degli interessi) e che non vi sono metodi alternativi. Dati alla mano, l’USAV dimostra il calo tendenziale del numero di animali utilizzati a scopo sperimentale: «Nel 2013 il numero di animali sottoposti

a esperimenti è sceso a 590’245 unità, evidenziando un calo del 2,7 percento rispetto all’anno precedente». Sempre troppi, secondo molte persone da noi interpellate, fra le quali Alessandra F., attiva in diverse associazioni a favore dei cani randagi e di quelli adottabili in cerca di famiglia, che propende per una soluzione molto più drastica: «Penso di farmi portavoce di moltissime persone nel dire che credo nell’abolizione totale della sperimentazione sugli animali. La ritengo inutile perché sono del parere che non possiamo equiparare animali ed esseri umani, almeno nell’ambito della ricerca scientifica: essi non sono simili». La nostra appassionata interlocutrice porta ad esempio l’ambito cosmetico e il suo proverbiale uso della ricerca sugli animali per la creazione di molti prodotti: «Un rossetto non vale la vita e la sofferenza di un animale. Quando compro creme, rossetti e altri prodotti cosmetici, mi assicuro che siano cruelty free. Penso che sia comunque tutto un giro di soldi col relativo profitto, perché quel che muove queste cose è sempre il dio denaro». Difficile, in verità, trovare persone di parere contrario; nei nostri interlocutori prevale l’equilibrio del buonsenso, come ben riassume il pensiero di Alice B.: «Non me la sento di demonizzare la ricerca scientifica, anche se compiuta sugli animali. Naturalmente devono essere soddisfatti i criteri dettati dalla nostra legislazione che garantisce il massimo rispetto per gli animali e chiede di dimostrare l’assoluta necessità degli esperimenti permessi. Riesco ad ammettere questo tipo di ricerca se dettata da motivi puramente nobili legati alla ricerca nel

Centri di detenzione di animali da laboratorio Nel 2013 sono stati registrati per la prima volta gli animali nati nei centri di detenzione di animali da laboratorio, per dirigere i quali è necessaria un’autorizzazione cantonale. Nelle aziende autorizzate sono tenuti principalmente roditori da laboratorio (soprattutto topi e ratti), ma anche conigli, pesci, cani, gatti e primati. L’88 percento di tutti gli animali nati nei centri di detenzione di animali da laboratorio o importati in tali strutture nel corso del 2013 era

costituito da topi. In Svizzera, il numero di cani, gatti e primati allevati per essere utilizzati come animali da laboratorio è ridotto. I centri di detenzione di animali da laboratorio sono sottoposti a controlli rigorosi e assoggettati alla legislazione sulla protezione degli animali. Sono richieste specifiche autorizzazioni e ogni centro di detenzione autorizzato viene controllato almeno una volta all’anno dall’Ufficio del veterinario cantonale. (Fonte: USAV)

La maggioranza del popolo svizzero preferirebbe l‘uso di metodi di ricerca alternativi. (Marka)

campo della salute, ad esempio la ricerca sulle malattie rare e non certo per la produzione di pillole dimagranti. Non la giustificherei per fini cosmetici». Stando a un’inchiesta svolta dalla Protezione svizzera degli animali (PSA), due terzi della popolazione svizzera si dicono contrari agli esperimenti su animali durante i quali sono inflitte sofferenze moderate, stress o paura, mentre addirittura il 92 percento degli intervistati si è detto contrario agli esperimenti fonte di sofferenze acute. Questo risultato è stato confermato da tutte le molte persone da noi interpellate, le quali concordano col desiderio di trovare un metodo di ricerca per il quale, un giorno, non si ricorra più del tutto alla sperimentazione sugli animali. Proprio questa è la direzione perseguita dall’USAV, attraverso il nuovo Programma nazionale di ricerca (PNR) che però non può ancora fregiarsi del mancato uso assoluto di animali nella sperimentazione scientifica. Sono comunque fissati limiti e condizioni molto severe, in ragione del riconosciuto diminuito grado di accettazione nella nostra società.

Lo scopo di questo nuovo Programma nazionale di ricerca consiste nell’introdurre e consolidare, nella scienza in Svizzera, una cultura delle «3R» che permetta di ridurre in maniera durevole il numero degli esperimenti su animali e di limitare al minimo indispensabile le sofferenze per quelli da laboratorio. A questo proposito, l’USAV spiega nel dettaglio i principi delle 3R (replace, reduce e refinement): «Essi comprendono tre strumenti in grado di assicurare la massima protezione per la sperimentazione animale, senza tuttavia limitare la significatività della ricerca scientifica: replace fa riferimento alla sostituzione degli esperimenti su animali con metodi alternativi, mentre reduce allude alla riduzione del numero di esperimenti e refinement significa affinare e migliorare la sperimentazione in modo tale da ridurre le sofferenze inflitte agli animali da laboratorio». La problematica è complessa e gli esperimenti sugli animali rimangono al centro di un controverso dibattito. L’USAV precisa: «La ricerca volta a meglio comprendere

i processi biologici, nell’uomo e negli animali, allo scopo di prevenire le malattie e di curarle ancora meglio, fa da sempre capo agli esperimenti su organismi intatti. I test sugli animali sono condotti anche ai fini della valutazione dei rischi legati alle sostanze chimiche, ai medicinali e ai prodotti fitosanitari per l’uomo, gli animali e l’ambiente». L’USAV riconosce in tal modo che la maggioranza della popolazione svizzera accetta, in una certa misura, la sperimentazione animale nella ricerca così come per la valutazione dei rischi. Difficile trovare una conclusione che soddisfi tutti, ma l’USAV invita ad un’ultima riflessione: «La nostra società ha l’obbligo morale di aiutare le persone e gli animali malati, e di proteggerli dalle sostanze pericolose nell’ambiente. Allo stesso tempo ci compete anche il dovere di evitare, il più possibile, stress e dolore per gli animali da laboratorio. Per questo è necessario migliorare gli attuali metodi della sperimentazione animale, ridurre il numero degli esperimenti e cercare di sostituirli con altre scelte».

Gli enigmi di Monsieur Zibus Enigmistica Questo personaggio, ideato da Paul Roland e Claude Olivier, si trova in continuazione in situazioni

molto particolari, riesci a capire come ci è finito? 5. Monsieur Zibus, ricercato dalla Polizia, fa sapere alla moglie che il giorno dopo si troverà a una certa ora in un certo posto, mascherato in modo che nemmeno lei potrà riconoscerlo. La donna avverte la polizia che, a colpo sicuro, smaschera Zibus. Come farà?

6. Monsieur Zibus è a passeggio con la moglie nel centro della città. A un certo punto si ferma e, indicando una macchina di modello corrente, ferma a un posteggio, esclama: «Il guidatore di quell’auto è un furfante». Come può affermarlo?

Soluzioni

4. Monsieur Zibus è stato catturato e ha un solo modo per sfuggire al poliziotto che lo ha preso: cercare di distrarlo. Ebbene, senza compiere alcun gesto, senza aprir bocca e senza cessare di guardarlo in volto, Zibus riesce a sfuggire al suo guardiano. In che modo?

motivazione, preferisce mettergli paura, sparandogli una revolverata senza colpirlo. Purtroppo, però, Zibus è malato di cuore e muore per lo spavento. 4. Monsieur Zibus è ventriloquo e il poliziotto non lo sa. Quindi, emette una voce, simulando che qualcuno minacci alle spalle il poliziotto. Questo, per la sorpresa, si volta di scatto e Zibus riesce a fuggire. 5. La Polizia si servirà di un cane di proprietà di Monsieur Zibus che grazie al proprio spiccato odorato riconoscerà il padrone, malgrado qualsiasi suo travestimento. 6. Monsieur Zibus riconosce, dalla targa, che si tratta della propria auto e che, quindi, gli è stata rubata.

Verso la fine degli anni 60, la coppia di autori e conduttori francesi, Jean–Paul Roland e Claude Olivier, proposero, per lungo tempo, gli Enigmes de Monsieur Zibus, dall’emittente Europa 1, una serie di rompicapo, basati su situazioni plausibili, ma estremamente improbabili. Il protagonista di tutte le situazioni da risolvere è un, non meglio identificato, Monsieur Zibus; questo singolare personaggio, anche se perde la vita in alcune tragiche vicende, risorge immancabilmente in quelle successive… Riporto qui di seguito alcuni esempi di particolare genere di enigmi; provate a risolverli. 1. Monsieur Zibus viene trovato impiccato in un garage, con i piedi all’altez-

za di un metro dal suolo. Non c’e nulla su cui possa essere salito, per infilare il collo nel cappio. In una lettera, scritta di suo pugno, con una data risalente a diversi giorni prima, esprime la volontà di suicidarsi. Come si è potuto impiccare Monsieur Zibus? 2. Monsieur Zibus in vacanza si accorge di essersi portato dietro la chiave dell’ufficio; la mette in una busta e la spedisce alla sua segretaria; ma questa, anche se non ha alcuna intenzione di interrompere il proprio lavoro, è impossibilitata a svolgerlo, prima del ritorno di Zibus. Come si spiega? 3. Il pacifico Monsieur Zibus entra in un caffè e ordina un bicchier d’acqua. Il barman, che non lo conosce, estrae una rivoltella e gli spara un colpo, mancandolo. Ciò nonostante, Monsieur Zibus muore. Perché?

1. Monsieur Zibus si è impiccato salendo su un blocco di ghiaccio, che poi si è sciolto. L’acqua così generata, nel frattempo è evaporata. 2. Le lettere in arrivo all’ufficio di Monsieur Zibus vengono infilate, attraverso una feritoia, nell’apposita cassettina collocata alle spalle della porta chiusa a chiave. Dal momento che il portiere ha inserito in tale feritoia la lettera con la chiave di ingresso, la segretaria non può far altro che attendere il ritorno di Zibus (con una seconda chiave in tasca). 3. Monsieur Zibus ha il singhiozzo. Ordina un bicchiere d’acqua per farselo passare; ma il barman, che ha intuito la sua

Ennio Peres


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Ambiente e Benessere

Un vita al 110 per cento

Paralimpics Fabrizio Macchi, campione olimpico di ciclismo, pedala su una gamba.

Ci racconta la sua storia di vita e di sportivo

Davide Bogiani La sua vita è il ciclismo. A 44 anni Fabrizio Macchi si sta preparando per il mondiale di ciclismo paralimpico che si svolgerà a fine agosto a Greenville, negli Stati Uniti. Lo abbiamo incontrato per conoscerlo. Per conoscere un Fabrizio sportivo, campione e, soprattutto, uomo dalle risorse infinite. Fabrizio, da alcuni anni vivi in Ticino, più precisamente ad Arzo. Inevitabilmente chi abita nella zona ti incrocia sulle strade durante i tuoi innumerevoli allenamenti. Chi è Fabrizio Macchi, e qual è la tua storia?

Sono nato a Varese il 26 luglio 1970, fin da bambino praticavo molti sport, come credo che facciano tutti i bambini di quell’età, giocavo a calcio, praticavo la ginnastica artistica e il ciclismo. Un giorno ricordo di aver preso un tale colpo al ginocchio che pensai seriamente di averlo compromesso. Ma siccome nell’euforia di un tredicenne lividi e botte sono all’ordine del giorno, bastava non pensare all’incidente, provare a correre nuovamente e si tornava a spiccare il volo come se niente fosse accaduto. Quella volta non andò così. Il ginocchio mi faceva male continuamente. Il dolore continuò per diversi giorni finché non decisi di parlarne a mia madre. Collezionai una serie invidiabile di accertamenti clinici. I primi risultarono sospetti poi, mano a mano che ci rivolgevamo a medici sempre più specialisti, i dubbi cominciarono a svanire e a farsi strada l’ipotesi peggiore che da qualche giorno avevano preso a sussurrarci. Mi fu diagnosticato un osteosarcoma, ovvero un tumore, nel mio caso, al ginocchio della gamba sinistra.

Sì, in effetti fortunatamente continuavo ad avere alle spalle una famiglia che mi sosteneva moltissimo. Tanto che ancora adesso, nonostante mio padre sia morto oramai da parecchi anni, continuo a sentire la sua forza vicino. So, in fin dei conti, di essere una persona fortunata e serena e di essere circondato dall’affetto di persone eccezionali. Credo che l’amore sia la grande forza che ti aiuta nella vita, è la carica che hai tutte le mattine appena ti svegli e che ti permette di andare avanti. Ho una strepitosa famiglia composta da mia moglie Patrizia e da due magnifici bimbi, Thomas e Mattia. In più, lo sport mi sta dando grandi soddisfazioni. Le stesse, nonostante tante vicissitudini, che sognavo da ragazzo.

Iniziò per te una seconda vita…

Da piccolo ancora non sapevo cosa volessi dalla mia vita, poi ho avuto questa malattia, e l’infanzia è scemata così. Intanto continuavo a studiare, in ospedale presi anche la licenza media. Questa fu la mia vita fino a sedici anni. Nell’intero arco della mia permanenza ospedaliera accumulai più interventi del numero stesso dei miei anni: dopo diciassette interventi e tanti cicli di chemioterapia persi la gamba sinistra. Quando finalmente arrivò il giorno in cui dovevo essere dimesso, non sapevo come comportarmi: da un lato ero raggiante di poter infine rivivere al sole e all’aria, da un altro però avevo paura per il mio futuro. Il ritorno alla vita normale mi spaventava. Ma la mia risposta fu ancora una volta positiva. Decisi di affrontare il mondo e appena fuori dall’ospedale cercai di riprendere immediatamente i contatti con i miei vecchi amici. Allo stesso tempo mi impegnai in tutta una serie di attività: tantissima fisioterapia, molte ore di sport, e mi obbligai a far di tutto per cercare di recuperare il morale oltre che le forze. Hai quindi ricominciato a fare sport, fino ad arrivare ai massimi livelli. E i successi non si sono fatti certo attendere…

Si, infatti la mia volontà e la voglia di realizzare i sogni mi hanno portato spesso a primeggiare, al punto di aver partecipato a 3 edizioni olimpiche vincendo una medaglia. Ho conquistato 12 medaglie mondiali di cui 2 d’oro e 5 medaglie europee. Ho dedicato cosi tante ore allo sport che nemmeno non le ricordo più. Lo sport fino ad oggi fa parte dello mio schema tipo giornaliero. Che cosa significa essere sportivo ed avere un handicap?

Credo che nel mio DNA sia rappresen-

Una curiosità: ad ogni appuntamento importante ti presenti con un casco nuovo e dipinto in modo particolare…

Nella foto un Fabrizio determinato e concentrato sul suo obiettivo.

tato in modo estremamente marcato il gene dello sport. Lo sport ha rappresentato e rappresenta una grande fetta della mia vita. Come ho detto prima, sognavo fin da bambino di diventare uno sportivo e possibilmente un campione. Come spesso accade, i sogni si realizzano se tu lo vuoi veramente. Per quanto riguarda dunque l’handicap, io dico sempre che le persone guardano sempre a primo colpo quello che tu non hai. Si focalizzano su quello e non realizzano invece che tutto quello che gli è rimasto è cosi bello e magnifico. Per me l’handicap non esiste, è solo una parola scritta nei vocabolari. Secondo te, come è cresciuto il movimento paralimpico negli ultimi anni?

Negli ultimi 5 anni è cresciuto in maniera esponenziale, a livello olimpico partecipano circa 4500 atleti di disabilità diverse, provenienti da tutto il mondo. La cosa più importante è che

il movimento paralimpico e la persona con una disabilità comincia ad entrare nei pensieri e nel quotidiano della nostra cultura. Sensibilizzare allo sport e all’handicap: come lo fa Macchi?

Io cerco di essere me stesso, ho scritto nero su bianco la mia vita sul libro dal titolo Più forte del Male, così una persona se ne ha voglia lo legge e in un momento di difficoltà potrebbe trovare una soluzione come quella che io ho trovato per riemergere e prendere in mano la mia vita. In questi mesi sto scrivendo un secondo libro a fumetti, totalmente dettato da mio figlio Thomas. Per lui la disabilità non esiste, e ha scoperto che esistono un sacco di persone che la disabilità l’hanno «nella testa» e nemmeno lo sanno... La tua grande forza è stata data ed è tuttora data dalla tua famiglia. Raccontaci.

Giochi Cruciverba Il galero è un cappello situato all’apice degli stemmi araldici dei prelati ed ha … Scopri il resto della frase leggendo a cruciverba ultimato le lettere evidenziate. (Frase: 6, 7, 7, 1, 4, 5)

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Scopo del gioco

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Sudoku Livello medio Completare lo schema classico (81 caselle, 9 blocchi, 9 righe per 9 colonne) in modo che ogni colonna, ogni riga e ogni blocco contengano tutti i numeri da 1 a 9, nessuno escluso e senza ripetizioni.

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Soluzione della settimana precedente

Vero nome di Drupi e un suo successo: Giampiero Anelli, Vado via ORIZZONTALI 1. Preposizione articolata 3. Tenera, cedevole al tatto 9. Quarantanove romani 10. Si porta al dito 11. Abbreviazione epistolare 12. Consumo inutile 14. Seguono gli ottavi 15. Antico nome di Tokyo 16. È simile alla tombola 17. Parte dell’intestino 18. Il Tramaglino del Manzoni 19. D’estate ha macchie bianche

21. Una consonante 22. Le iniziali dello stilista Armani 23. Moneta rumena 24. Risiedevano nell’Olimpo 25. Pizzo VERTICALI 1. Neoformazioni contenenti materiale organico 2. Organizzazione per la Liberazione della Palestina 3. Con me 4. Il materiale del 10 orizzontale

5. Sono in mezzo alla strada 6. Il fiume della battaglia di Caporetto 7. Cane selvatico australiano 8. Benessere materiale 10. Si dice a poker 13. Responsabili punite 14. I sonni dei piccini 16. Capitale del Libano 18. Quasi uniche 19. La minore delle isole Cicladi 20. Allegra, lieta 22. Un ufficiale abbreviato 24. Preposizione

U R A G A N O

N U M E R O

E O P I D E E N O I C A L O S A E M A L P A R E S E T A S E R I A C I N G I U B A L D O R I

N O T E V O L E

I O N I T N A A N C O S T N E A S

N E E T I F T E E L O L R I I N E I

Il mio casco rappresenta un po’ tutta la mia vita. Sulla parte frontale trovate la foto di un leone con gli occhi azzurri che rappresenta la mia grinta feroce. Sui due lati, le foto dei miei bambini che rappresentano il mio motore, la gamba che non ho. Le foto dei bimbi sono appoggiate a due stelle color oro che rappresentano i 2 campionati del mondo vinti. Le due stelle, sono collegate dalla mia mappa genetica che rappresenta il mio profilo genetico. Ovvero chi sono io. Nella parte posteriore vi è impresso il nome di mia moglie che rappresenta tutta la mia vita. Il numero 10/6 è il giorno in cui è morto mio papà. Lui pedala sempre con me. Ultima cosa, il mio nome sotto la bandiera Swiss. Che cosa ridai alla vita dalla tua storia?

La consapevolezza che la vita è talmente bella ed unica che merita di essere vissuta al 110 per cento.


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Politica e Economia La marcia di Islamabad Lo spettacolo tragicomico della rivoluzione di Imran Khan contro il premier Nawaz Sharif

Summit Nato America e Europa, spaventate dall’avanzata neoimperiale di Putin e dai jihadisti dell’Isis, faticano a trovare una strategia comune per raccogliere la nuova sfida. Mentre si tenta di rilanciare il ruolo dell’Alleanza atlantica come ai tempi della Guerra fredda

Volontari per Israele Non ci sono solo israeliani nell’esercito di Tel Aviv, ma anche molti giovani ebrei provenienti da tutto il mondo

Riavvicinarsi alla società Economiesuisse segnala di voler dialogare maggiormente con la società civile e la politica pagina 28

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Luigi Baldelli

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Ricordando il «Leone del Panshir» Protagonisti della Storia Ahmad Shah Massoud, il guerrigliero afghano ucciso da sicari pakistani al soldo dell’Isi

il 9 settembre del 2001, era e rimane il vero eroe nazionale rimpianto da tutti Ettore Mo All’ingresso del mio appartamento di Arona è appeso, da anni, il suo ritratto: in testa, il tipico berretto afghano, la fronte spaziosa solcata da rughe lievi, negli occhi e sulla bocca l’espressione di un uomo ancor giovane, un misto di saggezza e malinconia. Si chiamava Ahmad Shah Massoud, apparteneva alla tribù dei pashtun, era nato a Bazarak, villaggio dell’estrema periferia settentrionale dell’Afghanistan al confine con l’ex Unione Sovietica: e nessuno si sarebbe mai aspettato che quel fanciullo tanto mansueto potesse un giorno trasformarsi, grazie alla lotta fra mujaheddin (i guerriglieri islamici) e gli sciuravì (i soldati dell’Armata Rossa mandati da Mosca), in un leone: il Leone del Panshir, appunto. Dei grandi protagonisti della Storia e della cultura contemporanea incontrati per dovere professionale,

nessuno ha avuto su di me lo stesso impatto e provocato un coinvolgimento personale tanto profondo quanto Massoud. Fu perciò una giornata di vero lutto quel 9 settembre del 2001, quando giunse notizia che il Comandante (come ormai lo chiamavano tutti) aveva perso la vita, dilaniato dall’esplosione nella catapecchia di Kheja Bauddin, sulla sponda afghana dell’Amu Darya. Avrei tanto voluto (ma non fu possibile) essere presente ai funerali che furono celebrati una settimana dopo il decesso. Al piccolo cimitero di Bazark venne accompagnato dalla moglie e dai loro sette figli. La sua fine venne realizzata da due pseudo-giornalisti, pakistani al soldo dell’Isi, i servizi segreti di Islamabad, che proposero e ottennero il privilegio di «un’intervista esclusiva» col grande Capo. Ma le loro telecamere, imbottite di dinamite, esplosero alla prima domanda e ambedue caddero dilaniati sul pavimento insieme a Massoud.

Ho seguito Massoud per oltre trent’anni, registrando vittorie e sconfitte, e tutta una serie di stati d’animo, dall’euforia alla mestizia, fino alla depressione e all’angoscia: a cominciare dal ’79, quando i gruppi di mujaheddin erano sette e il Comandante Tagiko di Bazarak militava nel partito Jamiat Islami, presieduto da Burhanuddin Rabbani. A differenza dei comandanti che ogni tanto scendevano a valle, cioè a Peshawar, per riposarsi e stare in compagnia dei propri cari, Massoud restava sempre rintanato nelle sue trincee, in montagna. Chi voleva andare a trovarlo, qualora non avesse a disposizione una jeep o un cavallo, doveva sobbarcarsi una camminata a piedi, tutta in salita, di 130 chilometri. L’Armata Rossa stava preparando la Settima Offensiva cui aveva dato il nome di «Goodbye Massoud», con il proposito e il convincimento di sbarazzarsi una volta per tutte del leader tagiko: il quale

aveva risposto con una battuta sarcastica, invitando a cambiare quel «Goodbye Massoud» in «Au Revoir Massoud», in memoria dei suoi studi francesi. La carriera politica del futuro Leone del Panshir comincia presto, nel ’75, quando, con un gruppo di coetanei, come lui ostili al regime filosovietico di Kabul, inizia la sua attività clandestina che si propone il sollevamento popolare nel Panshir, la sua vallata. Vano tentativo, poiché il potere è saldamente nelle mani dei despoti Tarkì e Amin, che prendono ordini da Mosca. In quindici mesi, con l’aiuto dei militari del governo afghano di Babrak Karmal, gli «sciuravì» (cioè i sovietici) hanno sferrato tre massicce offensive contro il Panshir, che Massoud era riuscito a respingere. Il costo della settima offensiva sarebbe stato di tremilacinquecento uomini. E finalmente venne il giorno del Grande Rientro, quando, applicando meticolosamente l’Accordo di Ginevra

del 15 maggio ’88, i primi reparti motorizzati dell’Armata Rossa diedero l’avvio allo spettacolare, pacifico esodo lasciando Kabul di prima mattina e dirigendosi incolonnati verso l’Amu Darya. L’ultimo soldato sovietico a lasciare l’Afghanistan fu il Generale Gromov, che dal ponte sul fiume si accomiatò militarmente dal Paese che l’aveva ospitato per un paio d’anni, portando la mano alla visiera. Ahmad Shah Massoud è sepolto a Sareeka, la collina dei martiri, una montagnola a Nord di Bazarak, e rimane «il vero eroe nazionale rimpianto da tutti». Tentando una valutazione più approfondita del personaggio c’è chi osserva che «contrariamente a Osama Bin Laden e a Gulbuddin Hekmatyar che continuavano a sognare una teocrazia islamica, Massoud non ha mai incoraggiato questo genere di esaltazioni mistiche. Egli si riteneva un leader moderato coi piedi per terra. E non esitava ad ammettere che in un suo eventuale governo ci sarebbe stato spazio per le donne».


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Politica e Economia

La marcia di Islamabad Pakistan Nella capitale da giorni si susseguono manifestazioni guidate dal PTI, il partito

di opposizione dell’ex campione di cricket, Imran Khan, che chiede le dimissioni di Sharif

Dietro Imran Khan (a destra) e Tahirul Qadri ( a sinistra) sono in molti a vedere la lunga mano del vero governo pakistano: l’esercito e l’Isi. (AFP)

Francesca Marino L’hanno definito «il più anziano teenager della storia», con lo stesso appeal sui suoi seguaci che Justin Bieber esercita sui suoi fan e la stessa comprensione del suddetto Justin Bieber della politica e dei problemi del Paese. Il poco lusinghiero giudizio è soltanto l’ultimo in ordine di tempo che stampa e società civile del Pakistan hanno espresso sull’ex-capitano della nazionale di cricket Imran Khan, attualmente a capo del PTI, principale partito di opposizione della travagliata scena politica pakistana. Imran, convintosi dopo circa un anno dalla data delle ultime elezioni che i risultati elettorali sono stati abbondantemente truccati a favore dell’attuale premier Nawaz Sharif, ha dato vita negli ultimi venti giorni a uno spettacolo tragicomico pomposamente denominato «rivoluzione» e che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto (o dovrebbe) servire a far nascere il Naya Pakistan, il nuovo Pakistan, di cui il «capitano Khan» farnetica da almeno un paio d’anni. In nome della democrazia, Imran e i suoi hanno marciato su Islamabad mettendo sotto assedio la cosiddetta «zona rossa» della città: la zona in cui si trovano i palazzi del governo e le ambasciate straniere. Per dare più forza alla loro «pacifica» protesta si sono portati dietro delle gru per rimuovere i container messi dall’esercito a protezione dell’area. Dopo qualche giorno in cui si è visto di tutto, a cominciare dal prode Imran che marciava alle spalle di donne e bambini mandati in prima fila a fronteggiare la polizia e l’esercito per arrivare a veri e propri rave con musica e danze messi in scena per trattenere in loco gli annoiati rivoluzionari, la situazione è improvvisamente precipitata. Al PTI si sono uniti i seguaci del Che

Guevara della terza età Tahirul Qadri, religioso moderato con cittadinanza canadese che predica la rivoluzione in Pakistan da un anno a questa parte sostenendo che la democrazia attuale è un totale fallimento e che il Paese ha bisogno di uomini nuovi ai posti di potere. I seguaci di Qadri e Imran hanno assaltato la sede della Tv nazionale, hanno provato ad assaltare la residenza del premier e il Parlamento e i violenti scontri con la polizia e l’esercito sono andati avanti per tre giorni. Una decina di morti e centinaia di feriti sono al momento il bilancio della cosiddetta rivoluzione ancora in corso. Qadri e Imran domandano a gran voce le dimissioni del premier Nawaz Sharif e di suo fratello Shahbaz, il potente Chief Minister del Punjab. Chiedono la formazione di un governo di transizione e che siano indette nuove elezioni da cui, secondo loro, il PTI dovrebbe risultare vincitore. Nawaz Sharif ha praticamente delegato all’esercito il compito di tirare fuori dal fuoco le castagne bollenti invitando il generale Raheel Sharif a fare da mediatore tra il governo e i rivoluzionari. Il Parlamento è in seduta plenaria da due giorni, ma la situazione è, per usare un eufemismo, decisamente stagnante. Intanto, si susseguono voci e veleni. Non è un mistero per nessuno che Imran Khan è stato ed è ancora un pupillo (qualcuno direbbe un burattino) dell’esercito e dei servizi segreti. La sua campagna elettorale è stata largamente supportata dall’ex-capo dell’Isi Shuja Pasha e sostenuta dal Difa-e-Pakistan, organizzazione fondata e guidata da un altro storico ex-capo dell’Isi, Hamid Gul, e da quel Mohammed Hafeez Saeed accusato di aver organizzato la strage di Mumbai del 2008. Nell’ultimo anno Imran si è fatto portavoce, praticamente punto per punto, dell’agenda

dell’esercito e dei servizi segreti: guadagnandosi il nomignolo di Taliban Khan appunto per aver caldeggiato l’apertura di un ufficio dei Talebani sul modello di Doha e l’instaurarsi di un tavolo di trattative tra coloro che Imran ha definito «i nostri fratelli in collera» e il governo. Le ripetute stragi messe a segno nell’ultimo anno dai «fratelli» in questione sono state prontamente attribuite dal prode capitano ai droni americani. Per tornare alla marcia su Islamabad, sono stati in molti a vedere dietro Imran e Qadri la lunga mano del vero governo del Pakistan: l’esercito e l’Isi. Che detestano Nawaz Sharif e che avrebbero messo in scena la «rivoluzione» per pareggiare i conti con i due fratelli più potenti del Paese. Colpevoli di aver esagerato nel credersi padroni della politica nazionale e di aver cercato di dire la loro nelle due materie tradizionalmente di pertinenza degli uomini in divisa: politica estera e Difesa. Nawaz poi, in un apparente delirio di onnipotenza probabilmente causato dall’appoggio quasi incondizionato dei sauditi, ha osato mettere sotto inchiesta per alto tradimento l’ex-presidente, il generale Pervez Musharraf. L’esercito non ha gradito per niente, Sharif avrebbe promesso il rilascio del generale ma si sarebbe rimangiato poi la parola. Compiendo poi altre mosse avventate come l’apertura verso l’India, ad esempio. Da qui la rivoluzione attuale, che non si è ancora trasformata in un colpo di stato ufficiale semplicemente perché gli uomini in divisa non ne hanno bisogno: riprese saldamente le redini del potere, hanno comunque già ottenuto un risultato accreditandosi come l’unica forza in grado davvero di governare e campioni della democrazia. Nonostante il presidente del PTI Javed Hashmi, disgustato dagli assalti alla televi-

sione e al parlamento, si sia dimesso dal partito, dichiarando che Imran si è deciso a lanciare i suoi all’assalto dei palazzi del potere dopo aver ricevuto un sms, che sono effettivamente i generali a telecomandare il Capitano, che ci sarebbero almeno cinque generali di corpo d’armata pronti a sostenere Khan e Qadri, che Imran avrebbe agito contro l’espressa volontà dei vertici del partito dichiarando che bisognava «seguire il copione» alla lettera e che il governo sarebbe stato sciolto e nuove elezioni indette per settembre. L’esercito si è affrettato formalmente a smentire, ma non gli crede nessuno. Soprattutto perché il «teenager più vecchio del mondo» e il suo anziano sodale non perdono occasione per dichiarare la propria entusiastica ammirazione per l’esercito e la volontà di obbedire alle richieste delle divise khaki. Che a loro volta, a questo punto, possono in fondo lasciar fare alla politica e godersi il deprimente spettacolo delle lotte tra ego giganteschi, tra interessi corporativi e politici più o meno corrotti. Tanto, non fa differenza. Il vaso di Pandora si è rovesciato ancora una volta su Islamabad evidenziando quello che tutti sanno a memoria: la classe politica pakistana è corrotta e inetta e conta quanto il due di coppe quando la briscola è a bastoni. Qualunque cosa succeda, Nawaz ne esce politicamente sconfitto. Così come Imran e Qadri, che sono stati incapaci di portare in piazza più di qualche migliaio di persone e che comunque obbediscono agli ordini dei militari. La democrazia pilotata, alla fine, è meglio della dittatura: non rischia di interrompere l’afflusso di fondi dall’estero e non rischia di fare arrabbiare l’Occidente e i sauditi. Il nuovo Pakistan, seppur con vecchi giocatori, è in fondo già incominciato.

Fra i libri di Paolo A. Dossena Gastone Breccia, Le guerre afgane, il Mulino, 2014 «L’unica cosa che impariamo dalla storia è che non impariamo dalla storia». Così scrisse uno storico americano quando il suo Paese intraprese l’invasione dell’Afghanistan. E questo è lo stesso messaggio che troviamo in Le guerre afgane di Gastone Breccia, un libro che racconta i 200 anni di guerra quasi ininterrotta dell’Afghanistan. Tutto incomincia nel 1814, anno della sconfitta di Napoleone. Alla caduta dell’impero francese, Russia e Gran Bretagna emergono come le due maggiori potenze mondiali; lo zar è in espansione verso l’Asia Centrale, mentre il gioiello dell’impero britannico è l’India. In mezzo c’è l’Afghanistan. Nasce da questa rivalità un ciclo storico preciso, che arriva fino ad oggi riproducendosi incessantemente secondo quattro tappe. Primo: l’Afghanistan diventa il crocevia presso il quale si scontrano gli imperi (quello terrestre russo contro quello marittimo britannico prima, e quello marittimo americano poi.) Secondo: uno degli eserciti degli imperi in competizione invade l’Afghanistan e lo conquista rapidamente. Terzo: la potenza rivale appoggia la guerriglia tribale afgana. Quarto: la guerriglia mette in ginocchio l’esercito invasore e lo costringe ad abbandonare il Paese. Questo cliché è osservabile in tutti i conflitti che hanno opposto in Afghanistan la Russia alle potenze navali. Quanti sono questi conflitti? Almeno sei. Nel dicembre del 1838, un grosso esercito anglo-indiano, accompagnato da migliaia di irregolari afgani, invade (prima guerra anglo-afgana) «il mucchio di pietre dimenticato da Allah», come l’Afghanistan era noto tra i musulmani (ovvero una terra inospitale, la cui natura montuosa ha contribuito alla formazione di divisioni etniche e tribali, che sono tutt’oggi un fattore politico basilare del Paese.) Dopo una rapidissima conquista, l’invasore abbandona il Paese nel 1842. La 2. guerra anglo-afgana, combattuta tra 1878-1880, è una riedizione del precedente conflitto: stesso inizio e stessa fine. Nel 1885 si verifica la prima invasione russa dell’Afghanistan. Nel 1919 è combattuta la 3. guerra anglo-afgana. La seconda invasione russa dell’Afghanistan dura dal 1979 al 1989. Si arriva infine alla guerra americano-afgana, 2001-2014. Un momento cruciale di questa sequenza di disastri è il trattato anglo-afgano del 1893, che definisce il confine tra l’India britannica e «il mucchio di pietre». Nasce la North-Western Frontier, ennesimo disastro le cui ombre pesano sul tribolato presente afgano. Infatti, la Linea Durand, scaturita dall’accordo, divide in due le bellicose tribù pashtun. Da allora (1893), fino alla fine del dominio britannico in India (1947) la North-Western Frontier sarà un confine perennemente sanguinante. La guerriglia e gli scontri di frontiera non cesseranno mai. Ciò avrà conseguenze su tutte le guerre successive. Infatti, quando gli inglesi abbandoneranno l’India, nascerà il Pakistan, che ha ereditato i pashtun della corona britannica. E sarà nel Pakistan che la guerriglia afgana troverà quegli appoggi e quei santuari che porteranno al collasso dell’esercito sovietico (1989) e che creano tutt’oggi problemi agli Stati Uniti. Non è, infatti, forse vero che Osama Bin Laden è stato ucciso in Pakistan?


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Politica e Economia

L’Occidente minacciato Vertice Nato L’Alleanza atlantica fa fatica a raccogliere la nuova sfida lanciata da Putin in Ucraina e nell’Est europeo

e l’America si ritrova impreparata a battersi su due fronti, stretta fra l’avanzata neoimperiale russa e i jihadisti dell’Isis

Alla fine il vero vincitore in questa fase di turbolenze resta Vladimir Putin. Comunque vada la vicenda del cessate il fuoco in Ucraina, il presidente russo incassa dei risultati positivi, dal suo punto di vista. L’Occidente ha già dimenticato la guerra con la Georgia (2008), la recente annessione illegittima della Crimea, che ormai è un pezzo di Russia: primo guadagno, territoriale e anche simbolico. La prepotenza paga. In Ucraina sta succedendo il bis. Alla fine un pezzo di quella nazione finirà per restare sotto controllo russo, di fatto se non ufficialmente. E Putin si sarà arrogato il diritto permanente di veto sulle decisioni di Kiev, per esempio in materia di adesione alla Nato o all’Unione europea. Il prezzo da pagare? Le sanzioni economiche, in un regime autoritario, fanno male solo alla popolazione ma non agli autocrati. L’isolamento internazionale? È relativo, perché Putin lavora a rafforzare i suoi legami con la Cina. Verso l’Occidente lui ha avuto comunque un rapporto da sempre conflittuale, sospettoso, revanscista e rancoroso. Il suo popolo lo adora, una buona parte dei russi vede in Putin il nuovo Zar, il vendicatore dei torti subiti dalla dissoluzione dell’Urss in poi. C’è perfino un elemento culturale e valoriale in questa riscossa del nazionalismo russo, un filo rosso che unisce le sue crociate contro i gay e contro i fast food MacDonald’s. Putin appare come l’uomo forte che rilancia un paradigma di valori antichi, in opposizione all’Occidente decadente. E la Nato in tutto questo? Al di là dei comunicati e delle solenni dichiarazioni fatte al vertice di Newport nel Galles, l’Alleanza atlantica fa molta fatica a raccogliere la nuova sfida. L’Europa occidentale si sente psicologicamente in disarmo dal 1989. E comunque anche prima della caduta del Muro di Berlino, gli europei avevano vissuto di rendita sotto l’ombrello nucleare americano. Durante la Guerra fredda, come oggi, l’Europa occidentale era «consumatrice» di difesa, per usare l’espressione di Barack Obama. Cioè parassita. Figurarsi oggi che il declino economico europeo è ben più pesante rispetto a quei tempi, e le opinioni pubbliche nazionali sono angosciate dalla recessione, dalla disoccupazione, dall’austerity. Anche l’America è impreparata a battersi su due fronti. Stretta fra l’avanzata neoimperiale di Putin, e i jihadisti di Isis. Tra l’invasione russa dell’Ucraina che «ripropone la logica inaccettabile delle sfere d’influenza», come dice Obama, e l’orrore provocato in patria dalla seconda decapitazione di un giornalista americano. L’America ha una destra guerrafondaia ma incoerente, un’opinione pubblica distratta e poco incline ad assecondare nuovi impegni costosi all’estero. Obama è un guerriero riluttante, che si è conquistato la Casa Bianca nel 2008 perché si era opposto alla guerra in Iraq nel 2003. Anche lui affronta in modo titubante queste due crisi geostrategiche, gravi e simultanee. Obama deve vedersela con l’amnesia cronica dei suoi connazionali. Il dibattito politico americano ha già cancellato ogni memoria dei disastrosi errori di George W. Bush. Chi crocefigge Obama per la frase infelice in cui ammetteva alla vigilia del summit Nato di non avere ancora deciso una strategia contro l’Isis (in realtà si riferiva ai soli raid aerei sul territorio siriano), ha in mente una sola strategia alternativa: quella della guerra guerreggiata, un’ennesima invasione Usa in Medio Oriente, come se le due Guerre del Golfo precedenti (1991, 2003) avessero avuto esiti risolutivi. Più che una strategia,

AFP

Federico Rampini

gli avversari interni che riscoprono il pensiero neoconservatore hanno sete di semplificazioni, scorciatoie, slogan a effetto da talkshow. E naturalmente c’è chi vuole un revival di commesse al Pentagono, alla Lockheed Martin e altri colossi dell’industria militare, che ultimamente avevano subito tagli di fondi. «Per chi ha per strumento solo un grosso martello, tutte le crisi appaiono come dei chiodi», recita la migliore descrizione della cultura neocon. La crisi calda nell’Est europeo non ha ricevuto risposte soddisfacenti dal vertice Nato nel Galles (nella foto da sinistra: Obama, il premier inglese Cameron e il segretario Nato Rasmussen) . Il presidente Usa ha tracciato una «linea rossa» a Ovest dell’Ucraina; cioè una difesa degli «altri» (Polonia, Paesi baltici), che dà per scontato di non poter affatto garantire l’integrità territoriale dell’Ucraina stessa. Salvare il salvabile, realisticamente, vuol dire segnalare a Putin che almeno gli Stati membri della Nato potranno contare su un vero patto di soccorso militare. L’Ucraina nella Nato non c’è, Putin con la sua aggressione si sta garantendo che Kiev non entrerà mai nell’Alleanza atlantica. Dunque dopo la Crimea anche la regione orientale dell’Ucraina è vittima del «fatto compiuto»: l’Occidente non ha di che opporsi. Obama lo ha ammesso con un candore che gli viene rimproverato: «Non ci sarà una guerra tra l’America e la Russia sull’Ucraina». Questo presidente è convinto che non serva a nulla fare la voce grossa se non si hanno i mezzi credibili per dare un seguito ai moniti. Soprattutto quando di fronte c’è un leader come Putin, pronto a «vedere» il bluff dell’avversario. Il vertice del Galles ha tentato di restituire una funzione essenziale della Nato, per tracciare quella «linea rossa» che protegga almeno la Polonia e i Baltici, prima che finiscano anch’essi nella trappola di qualche «sollevazione spontanea di minoranze russe» sul loro territorio. Ma anche qui Obama ha un terreno tutto in salita. La strategia delle sanzioni economiche finora è stata un fallimento totale. L’annuncio di nuove sanzioni non cambierà nulla. Il Vecchio continente è ben lungi dal trarne le conseguenze sul piano militare. Con opinioni pubbliche pacifiste a maggioranza, l’Europa occidentale offre poco a Obama in termini di truppe, armamenti avanzati, e fondi da stanziare per il rafforzamento delle difese sul fronte orientale. Il 70% del budget militare della Nato in Europa, lo sta pagando il contribuente americano. Il quale ha una percezione diversa sulla gravità delle «crisi simultanee». A torto o a ragione – anche a prescindere dall’orrore per le

decapitazioni in video – l’America post11 settembre considera il fondamentalismo islamico una minaccia diretta alla sua sicurezza nazionale, più ancora del revanscismo russo. Che dovrebbe essere prima di tutto un problema per tedeschi, francesi, inglesi e italiani, oltre che per gli ex satelliti dell’Urss. La vocazione della Nato si estende al nuovo fronte in Medio Oriente, e anche qui l’Europa è in prima linea: «Centinaia di jihadisti con passaporti europei – dicono i consiglieri per la sicurezza di Obama – sono pronti a tornare sul Vecchio continente per attentati terroristici, l’attacco al centro ebraico di Bruxelles a maggio è stata un’avvisaglia, il segno precursore di quello che può avvenire». Per «ricacciare indietro e distruggere lo Stato islamico di Isis», la Nato mette a punto una visione strategica comune. Coinvolgendo le due potenze regionali che sono state invitate al vertice del Galles: l’Arabia Saudita e la Turchia. Ognuno avrà compiti diversi, nel caso che Obama decida i raid aerei sulle basi di Isis in Siria è probabile che vi partecipi anche la Gran Bretagna. Altri paesi Nato annunciano aiuti militari e addestramento per i peshmerga curdi. «Per dieci anni la Nato ha combattuto in Afghanistan, ora le missioni tornano ad essere vicinissime, è la sicurezza dell’Europa in prima linea». Il consigliere di Obama, Ben Rhodes, dà il senso di questo summit «storico» a Newport. Ne sente tutta l’importanza anche Putin che proprio in coincidenza di questo summit ha lanciato il suo piano per una tregua. Il segretario della Nato Rasmussen e la Casa Bianca diffidano. Il sospetto è che il cessate il fuoco da parte della Russia sia «fumo negli occhi» (parole di Rasmussen), il tentativo di bloccare la reazione atlantica e soprattutto di impedire che l’Ucraina finisca nell’orbita dell’Occidente. La Nato «appoggia il presidente ucraino Poroshenko nella sua azione per raggiungere una tregua che salvaguardi la sovranità del suo paese». È il punto-chiave: sovranità. Guai se la tregua avvenisse sulla base dei diktat di Putin, con l’Ucraina di fatto divisa, preludio per la secessione e l’annessione delle regioni orientali alla Russia. Per aumentare il potere negoziale di Poroshenko, si «rafforza il rapporto di associazione tra la Nato e Kiev». Diversi Paesi dell’Alleanza atlantica, a livello bilaterale, garantiscono forniture all’esercito ucraino: tra questi Usa, Italia, Inghilterra, Francia. Obama vigila sui segnali di sfilacciamento del fronte europeo. Non lo convince il comportamento di Francois Hollande. Il presidente francese si è esibito in un balletto di dichiarazioni

sulle forniture di portaerei Mistral a Mosca: prima bloccate, poi solo «rinviate», con la promessa a Putin che «saranno consegnate non appena c’è la tregua in Ucraina». Vista dagli Usa questa è un’Europa tentata dall’appeasement come ai tempi di Chamberlain-Hitler (1938). Putin ri-

uscirà a «riscrivere gli ultimi 25 anni di storia», vendicando l’Unione sovietica? Obama ammonisce gli europei: «Guai a dare per scontato che la nostra libertà sia acquisita per sempre». A Washington il suo antico avversario repubblicano John McCain, gli ricorda però che «in queste sfide, dalla Seconda guerra mondiale in poi, l’America deve prendere la guida, esercitare una leadership, trascinare gli altri; questo ruolo non può essere delegato». Tra Putin e i jihadisti, la responsabilità della Nato viene ingigantita, il suo ruolo rilanciato come ai tempi della Guerra fredda. Obama richiama gli europei alle conseguenze che devono trarre, cioè l’adeguamento delle loro spese militari, in declino da anni. Strappa agli alleati l’inizio di un riarmo Nato sul fronte orientale. C’è la creazione della forza di rapido intervento, cinquemila uomini a rotazione tra i Paesi Baltici; una base militare in Polonia; il rafforzamento delle pattuglie aeree e navali nel Baltico. L’Alleanza «apre la porta a un’associazione sempre più stretta» per due Paesi cruciali: la Svezia e la Finlandia, ex neutrali in veloce marcia di avvicinamento alla Nato. Sono atti limitati nella loro effettiva portata militare; hanno un significato simbolico, un segnale politico. Ma per impressionare Putin ci vuol altro. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

I soldati solitari

Notizie dal mondo

Identità Ogni anno quasi un migliaio di ragazzi o ragazze ebrei non israeliani si arruola

nell’esercito israeliano, molti dei quali provenienti dagli Stati Uniti Angela Nocioni Non ci sono solo israeliani nell’esercito che sta combattendo nel conflitto della Striscia di Gaza. Ci sono soldati ebrei di altre parti del mondo, soprattutto ebrei americani. Sono migliaia. Si tratta dei «soldati solitari». Così chiamano in Israele i volontari, con doppia nazionalità, sia ragazzi che ragazze, arruolati come volontari in guerra. A differenza degli ebrei nati in Israele, infatti, gli ebrei che vivono all’estero non hanno l’obbligo del servizio militare. La comunità ebrea del sud della California è il lutto per la morte a Gaza, la penultima domenica di luglio, del soldato Max Steinberg, di 25 anni. Era un ragazzo americano, di Woodland Hills, Los Angeles. Anche Nissim Sean Carmeli, texano, di 21 anni è morto in guerra. Sono due dei soldati ebrei di nazionalità statunitense morti nell’offensiva israeliana tuttora in corso nella striscia di Gaza. Entrambi hanno deciso volontariamente di abbandonare gli Stati Uniti per servire le forze di difesa di Israele, le famose Fdi. Sono molte le organizzazioni israeliane che si dedicano a propagandare l’esistenza della possibilità di arruolarsi per gli stranieri. Si occupano anche di prestare appoggio a chi si arruola, prima, durante e dopo l’intervento in guerra. Ciascun volontario straniero di solito passa attraverso un anno e mezzo di scuola militare. In alcuni casi l’addestramento avviene in unità di combattimento. Nonostante non contino su un’esperienza militare precedente, come è successo a Steinberg e a Carmeli, i soldati solitari finiscono per partecipare ad azioni armate. Secondo i dati forniti dall’Ong israeliana «Centro del soldato solitario» attualmente ci sono 6000 volontari di questo genere nell’esercito israeliano. Alcuni però non sono stranieri, sono orfani israeliani o provengono da famiglie definite «disfunzionali». Scelgono l’esercito, spesso in mancanza di altre prospettive temporanee. Secondo quanto scriveva recentemente il «Jewish Journal» di Los Angeles, in alcuni casi i volontari stranieri, finito il periodo di servizio nelle forze armate, decidono di fermarsi permanentemente in Israele oppure tornano nei Paesi di provenienza convertiti in ferventi difensori dello Stato ebraico. Il quotidiano americano segnala che, a suo avviso, è esattamente questo l’obiettivo dell’esercito quando arruola volontari stranieri: farne poi dei portavoce pro Israele in patria. Le forze armate, in effetti, non avrebbero grande necessità di soldati stranieri con nessuna preparazione militare. L’esercito, da parte sua, non ha mai confermato di avere questa strategia. Semplicemente, se un ragazzo ebreo non residente in Israele, vuole arruolarsi, lo sostiene nella scelta. Mike Fishbein, 25 anni di Los An-

Giovani volontari mandano un saluto militare all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv. (Keystone)

geles ha deciso di arruolarsi nelle Fdi nel 2009, dopo aver vissuto un anno in Israele. Secondo quanto lui stesso ha raccontato alla Bbc, «essere stato a lungo in una famiglia sionista» lo ha fatto decidere ad arruolarsi. È rimasto due anni nell’esercito. «Prima di entrare nelle forze armate ho lavorato come volontario in Israele, tutti i miei amici si stavano preparando per l’esercito e io mi sono convinto che dovevo fare la stessa cosa perché sono ebreo e credo del diritto dell’esistenza dello Stato d’Israele. Ho capito che era mio dovere difendere Israele e che lo dovevo fare nello stesso modo in cui lo facevano i miei amici» ha detto. Racconta che all’inizio non ha detto ai genitori che pensava di arruolarsi nell’unità di fanteria perché temeva non reggessero lo spavento. Poi però, quando ha condiviso la decisione, la madre si è sentita male, ma sia lei sia suo padre l’hanno appoggiato. «Sono stato con ragazzi di tutte le classi sociali, arrivati da molte parti del mondo – racconta – tutti avevano un solo obiettivo: difendere gli ebrei di Israele. È stata un’esperienza importante, mi sono fatto molti amici lì». Ora però è tornato a Los Angeles e lavora come assistente di produzione nella pubblicità. Tutta un’altra vita. A chi gli chiede che cosa pensa di quanto sta accadendo ora nella Striscia, risponde che «è difficile stare in California sapendo quello che sta accadendo laggiù». Dice di considerare «devastante quello che sta succedendo ad entrambe le parti del conflitto». «Credo che si debba per forza trovare un accordo per il cessate il fuoco». Dice che servire l’esercito israeliano l’ha aiutato a capire «i motivi per cui Israele ha bisogno di difendersi», ma di aver capito col tempo che «l’unica soluzione possibile è la creazione di due Stati, uno per gli israeliani e uno per i palestinesi». «Quando arrivi lì ti rendi conto che i problemi vengono da entrambe

le parti» racconta. Ilan Benjamin, l’amico che si è fatto arruolare nell’esercito israeliano, anche lui originario della California, è rimasto lì due anni e anche lui è tornato a Los Angeles. Benjamin racconta che ha deciso di andare perché aveva amici israeliani che stavano facendo il servizio militare e lui si è «sentito in dovere di fare la stessa cosa». «Mio padre si è preoccupato moltissimo – ha raccontato alla Bbc – mi ha detto che è una perdita di tempo, che lui nell’esercito c’è stato e non ha imparato nulla da quell’esperienza, ha tentato di convincermi ad andare all’università prima, ma io gli ho risposto che l’università poteva attendere». Prima di arruolarsi ha vissuto in Israele un anno, ha studiato l’ebraico, ha lavorato alcuni mesi come giornalista al «Jerusalem Post». Dice che «stare nell’esercito è un’esperienza dura, ma molto gratificante». Che gli è piaciuto «vedere trattare tutti allo stesso livello lì dentro, non importa da dove vengano, come parlino e quale sia il colore della loro pelle». Dice di aver avuto «la sensazione di servire una causa più grande di ciascuno di noi». Spiega che per lui è stata una sfida grande arruolarsi perché, pur amando Israele, non è sempre d’accordo con le politiche del governo di Tel Aviv. «Per esempio - dice - è stato molto difficile per me pattugliare insediamenti ebrei in terra palestinese perché io credo che non dovrebbero stare lì. La sola esistenza degli insediamenti è una sfida morale, però quando sei nell’esercito sai che non puoi tirarti indietro perché hai degli obblighi di soldato». Ciò nonostante assicura che nei due anni e mezzo passati nelle forze armate non ha mai sentito di «compiere atti contrari alla morale». «Israele è l’unica cosa che hanno gli ebrei – sostiene – e, Dio non voglia, ma se torneranno a perseguitarci almeno avremo un posto sicuro dove andare. Per questo esiste

Israele. Per questo è importante proteggere Israele». Tra le organizzazioni che pubblicizzano la possibilità di arruolarsi anche se stranieri, c’è la Fondazione Israel Forever, con sede a Washington. Assicura appoggio psicologico e materiale ai volontari che vanno a combattere in Medio Oriente. La portavoce della fondazione, Heidi Krizer Daroff, ha dichiarato che il principale obiettivo del suo lavoro è «far conoscere l’esistenza dei soldati solitari». «Si tratta di ragazzi e ragazze che mettono a rischio la vita per difendere lo Stato d’Israele e lo fanno senza avere accanto l’appoggio delle famiglie, quindi noi rendiamo pubblici i loro sacrifici». «Molta gente – racconta la portavoce – scrive lettere ai volontari per manifestare loro sostegno, alcuni inviano regali per ringraziarli». «Sono ragazzi molto consapevoli dei pericoli che affronta Israele, sanno che il Paese è circondato da nemici, sanno che gli ebrei devono avere una patria nella quale poter vivere in pace» conclude la portavoce della fondazione che, evidentemente, svolge un ruolo di lobbying e propaganda. Un’altra organizzazione simile, Friends of Israel Scouts, riceve grandi finanziamenti dal governo israeliano ed ha la sua base principale negli Stati Uniti. Il suo compito è orientare chi decide di presentarsi come volontario e vuol entrare a far parte dell’esercito israeliano. Orit Mizner, responsabile della Friends of Israel Scouts in California, dice il suo scopo non è fare proselitismo, ma assicurarsi che chi si candida abbia chiari tutti pericoli che implica entrare nell’esercito. «Rispondiamo a ogni domanda, chiariamo ogni dubbio», dice. Arrivati In Israele, i soldati passano tre mesi in un kibbutz (le comunità agricole israeliane, quasi sempre comunità molto ortodosse) ed è lì che tornano nei fine settimana di libera uscita, se e quando ce l’hanno.

Bce: la mossa anti-crisi La Banca centrale europea (Bce) ha tagliato i tassi di interesse allo 0,05% dallo 0,15 per cento. Si tratta del nuovo minimo storico. Immediate le reazioni sui mercati allo stimolo arrivato da Francoforte. L’euro ha toccato un minimo da un anno a 1,3036 nei confronti del dollaro. Le Borse europee estendono il rialzo. Piazza Affari è salita dell’1,4%, Parigi dell’1,1%, Francoforte dello 0,4%, Madrid dello 0,97% così come Lisbona. Scivola lo spread: il differenziale tra Btp decennale e Bund tedesco si riduce a 140 punti. Il Consiglio direttivo dell’Eurotower ha inoltre deciso di ridurre il tasso sui depositi, da –0,1% a –0,2%, e quello marginale, da 0,4% a 0,3%. L’allentamento della politica monetaria era atteso. Le recenti indicazioni macro avevano segnalato una ripresa economica dell’Eurozona più fragile del previsto, mentre l’inflazione continua a scendere, rafforzando la minaccia di deflazione. A giugno, gli economisti avevano previsto una espansione dell’economia dell’1% per il 2014, che difficilmente si realizzerà a seguito dei fattori geopolitici e delle sanzioni della Russia. Per quanto riguarda l’inflazione, anche qui le stime Bce dovrebbero essere riviste al ribasso, rendendo l’obiettivo fissato al 2% ancora più lontano. (Euronews) Gas russo verso la Cina Si chiama Сила Сибири (letteralmente «Il potere della Siberia») il gasdotto che avrà il compito di aprire le porte della Cina al combustibile russo. La struttura, che nei piani di Gazprom connetterà gli impianti della Jacuzia e di Irkutsk con il confine cinese, arriverà fino a Vladivostok. A maggio, il gigante russo aveva firmato un accordo da 400 miliardi di dollari con la controparte cinese per la fornitura di 38 miliardi di metri cubi di gas l’anno. Il tutto sotto lo sguardo compiaciuto dei vertici cinesi e di Vladimir Putin, il quale lunedì dalla Jacuzia ha dato il via ai lavori. «Questo nuovo gasdotto – ha detto il presidente russo – ci permetterà non solo di accrescere le consegne ed espandere la geografia del nostro export, ma anche di fare un grande passo in avanti nella fornitura di gas al territorio russo. Cosa importante per la parte orientale del Paese, per la Siberia e l’Estremo Oriente». Ma, soprattutto, permetterà alla Russia di ridurre la sua dipendenza dai compratori europei. Cosa non da poco, dato che, a causa della crisi in Ucraina, l’Unione europea sta cercando di ridurre la dipendenza dal gas russo. Preoccupata per l’inverno in arrivo e le schermaglie sui gasdotti di Kiev, Bruxelles comincerebbe a pensare a misure di emergenza per garantire il gas alle famiglie. Tra queste, il divieto di rivendita all’estero e le limitazioni all’uso industriale. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

Plurilinguismo in pericolo

Politica scolastica La recente decisione di Turgovia e Nidwaldo di rinunciare all’insegnamento del francese

alle elementari a vantaggio del solo inglese contraddice l’accordo raggiunto dieci anni dalla Conferenza dei direttori cantonali della pubblica educazione e trova l’opposizione del consigliere federale Berset. Turgovia e Nidwaldo sostengono di non voler penalizzare il francese: l’insegnamento verrà spostato alle medie e raddoppiato, ma i critici rispondono che queste dichiarazioni d’intenti sono di difficile applicazione. (Keystone)

Marzio Rigonalli Perché i confederati di lingua tedesca dovrebbero imparare il francese già a partire dalle elementari? La domanda è tornata d’attualità e sta provocando al nord delle Alpi un ampio dibattito con una serie di risposte contrastanti. All’origine vi sono due decisioni politiche, una presa dal parlamento del canton Turgovia e l’altra dal governo del semicantone di Nidwaldo. I parlamentari turgoviesi hanno approvato una mozione di un deputato UDC che chiede al governo di abbandonare l’insegnamento del francese nelle scuole elementari. I sette membri del governo nidwaldese hanno deciso di dar seguito ad un’iniziativa popolare dell’UDC che prevede pure di rinunciare al francese nei programmi scolastici delle elementari. La votazione popolare si svolgerà probabilmente nel corso del prossimo mese di marzo. Le due iniziative sono in netto contrasto con quanto avviene tutt’ora nelle elementari della Svizzera tedesca, dove vien impartito l’insegnamento di due lingue straniere, la prima, generalmente l’inglese, a partire dalla terza classe, e la seconda, generalmente il francese, a partire dalla quinta classe. Inoltre violano l’accordo, raggiunto dieci anni fa dalla Conferenza svizzera dei direttori cantonali della pubblica educazione (CDPE), che prevede l’insegnamento di due lingue straniere in tutte le scuole elementari svizzere. Per prevenire le immancabili e comprensibili critiche dei romandi, i responsabili della scuola nei due cantoni interessati si sono affrettati a dichiarare che l’insegnamento del francese non verrebbe penalizzato, bensì soltanto spostato nel tempo. Nella scuola secondaria verrebbe potenziato tramite un numero maggiore di ore, quattro settimanali al posto di due, nonché con l’introduzione dell’obbligo di fare soggiorni linguistici in Romandia.

Previste a breve due riunioni dei direttori cantonali della pubblica educazione per trovare un accordo sul francese Nidwaldo e Turgovia potrebbero avere presto degli emuli. In altri cantoni, in particolare a Sciaffusa, Lucerna e nei Grigioni, vi sono procedimenti in corso, attraverso atti parlamentari o iniziative popolari, che mirano allo stesso obiettivo, ossia ridurre a una sola, in pratica l’inglese, le lingue straniere insegnate nelle elementari. Le due decisioni prese fin ora, e quelle che potrebbero seguire, ci lasciano perplessi sia per la giustificazione che vien data, sia perché violano il quadro giuridico che regola la scuola in Svizzera. Nei due casi si afferma che l’insegnamento del francese è troppo impegnativo per gli allievi di lingua tedesca ed avviene a scapito dell’apprendimento di altre importanti materie, come il tedesco e le scienze naturali. Senza voler entrare in considerazioni pedagogiche, che lasciamo volentieri agli specialisti del settore, possiamo ricordare che, fin ora, a parte qualche voce isolata, in Romandia nessun responsabile sostiene che l’insegnamento del tedesco nelle scuole elementari è troppo impegnativo e che andrebbe eliminato. Nella minoranza francofona, come d’altronde in quella italofona, prevale l’opinione che la vita comune in una società plurilingue impone degli obblighi e anche dei sacrifici a livello linguistico. Neppure ci risulta convincente l’annunciato po-

tenziamento dell’insegnamento del francese nella scuola secondaria. L’aumento di due a quattro ore settimanali andrebbe sicuramente a scapito dell’insegnamento di altre lingue, in primo luogo dell’italiano. Per di più, gli annunciati soggiorni linguistici obbligatori devono fare i conti con la realtà. Per attuare questi soggiorni ci vogliono importanti risorse, la disponibilità di un elevato numero di famiglie ed altri ostacoli non facili da superare. Le statistiche dimostrano che gli scambi di allievi tra le regioni linguistiche sono pochi: nell’anno scolastico 2012-2013, in Svizzera ne hanno approfittato soltanto 11’500 allievi appartenenti ai primi nove anni scolastici. Le spiegazioni date non cancellano il sospetto che le due iniziative abbiano anche una componente politica. L’UDC è stata promotrice nei due casi. È noto che questo partito auspica una Svizzera chiusa su sé stessa, con pochi rapporti verso il mondo esterno, possibilmente limitati agli scambi commerciali. Per questa limitata esigenza, la conoscenza dell’inglese basta ed avanza. L’apprendimento delle altre lingue non è necessario. Alcuni romandi hanno anche ricordato le parole pronunciate dal leader carismatico dell’UDC, Christoph Blocher, dopo la votazione del 9 febbraio, quando dichiarò che i romandi hanno una coscienza nazionale più debole degli svizzeri tedeschi. La gestione della scuola appartiene ai cantoni. È uno degli ultimi bastioni rimasti alla sovranità cantonale. Le decisioni prese in Turgovia e a Niwaldo, però, violano l’art. 62, paragrafo 4, della Costituzione federale che recita: «Se gli sforzi di coordinamento non sfociano in un’armonizzazione del settore scolastico per quanto riguarda l’età d’inizio della scolarità e la scuola dell’obbligo, la durata e gli obiettivi delle fasi della formazione e il passaggio dall’una all’altra fase, nonché il riconoscimento dei diplomi, la Confederazione emana le norme necessarie». L’armonizzazione scolastica è dunque un obbligo che esclude per i cantoni la possibilità di scegliere la via solitaria. L’articolo è stato approvato nel 2006, a larga maggioranza, con l’86% dei votanti. Applicato da più anni, il principio delle due lingue straniere alle scuole elementari è stato inserito nel Lehrplan 21, il progetto di coordinamento scolastico per i 21 cantoni di

lingua tedesca. Il progetto è in discussione, ha suscitato tante critiche e molti cantoni vorrebbero modificarlo. Che cosa succederà ora? A settembre ed a ottobre sono previste due riunioni della Conferenza svizzera dei direttori cantonali della pubblica edu-

cazione, presieduta dal basilese Christoph Eymann. Ad una delle riunioni parteciperà anche il consigliere federale Alain Berset, che ha già dichiarato di essere contrario all’abbandono del principio delle due lingue straniere. Lo scopo delle riunioni è di concor-

dare misure che consentano di salvare l’insegnamento del francese, senza imporlo agli allievi che sono alle prese con grosse difficoltà. A metà dell’anno prossimo, la CDPE dovrà spiegare come intende armonizzare l’insegnamento delle lingue straniere nelle scuole elementari. Resta, dunque, poco meno di un anno per trovare un accordo. Se non ci sarà intesa, il Consiglio federale potrà intervenire con sue misure. Parallelamente, a livello politico, ci sarà una forte pressione, con più atti parlamentari, affinché il principio delle due lingue straniere insegnate alle elementari venga iscritto nella legge federale sulle lingue nazionali. In una società plurilingue, le minoranze devono fare sforzi notevoli per imparare la lingua e conoscere la cultura della maggioranza. Noi, di lingua italiana, sappiamo che cosa significa, tanto più che siamo confrontati non con una sola lingua, il tedesco, ma con due, perché occorre aggiungere il dialetto, la lingua parlata, anche se questo idioma è praticamente inesistente a livello internazionale. È uno sforzo, ma è anche un arricchimento, del quale siamo orgogliosi. Uno sforzo simile andrebbe chiesto anche alla maggioranza. Il federalismo non si fonda soltanto sulla convivenza tra i cantoni e le loro identità, bensì anche sul reciproco rispetto tra le comunità linguistiche e sulla reciproca conoscenza delle nostre quattro lingue e culture. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

L’economia si riavvicina alla società? «Giornata dell’economia» Rinnovati i quadri dirigenti, economiesuisse segnala di voler riaprire

un dialogo più profondo con la società civile attraverso un maggior impegno politico, al fine di trovare soluzioni ai maggiori problemi del Paese

Ignazio Bonoli Alla tradizionale «Giornata dell’economia», che si è svolta il 29 agosto, non sono mancati alcuni spunti interessanti, sicuramente dovuti ad alcuni importanti cambiamenti presso l’organizzazione padronale che la promuove. Oggi, questa organizzazione mantello dell’economia si chiama «economiesuisse» ed è figlia del precedente «Vorort», con l’aggregazione di altre associazioni di categoria. Economiesuisse ha conosciuto qualche momento di difficoltà in particolare dopo la votazione popolare sull’iniziativa Minder (sui salari degli alti dirigenti) accentuatosi anche dopo la votazione sull’immigrazione massiccia. Episodi come questi hanno messo in evidenza un malumore che da tempo serpeggiava tra le file delle organizzazioni padronali. Così, il presidente Rudolf Wehrli, in carica da poco tempo, ha rassegnato le dimissioni, passando la patata bollente a Heinz Karrer. Anche il direttore generale Pascal Gentinetta ha dovuto abbandonare la carica e, proprio in occasione della giornata dell’economia, è stato sostituito da Monika Ruhl, da tempo attiva presso il Dipartimento federale dell’economia pubblica, da ultimo quale delegata del Consiglio federale agli accordi commerciali e poi quale segretaria generale del Dipartimento diretto da SchneiderAmmann. Un’evoluzione che indica probabilmente un riavvicinamento fra politica, amministrazione ed economia. Infatti, non solo il capo del Dipartimento proviene dagli ambienti industriali,

Il neo-presidente Heinz Karrer ha presentato una strategia in 5 punti per uscire dall’impasse sorta con il sì all’iniziativa popolare contro l’immigrazione di massa. (Keystone)

ma la stessa nuova direttrice di economiesuisse vanta una lunga carriera in seno al Dipartimento, pur provenendo dall’ambiente diplomatico. Le sue esperienze l’hanno portata a stretto contatto sia con l’amministrazione federale, sia con la politica, sia con i gremi internazionali e l’economia esterna, elementi sempre più importanti per l’evolversi della maggiore organizzazione padronale svizzera. Anche il presidente di economiesuisse ha ribadito i principali problemi che l’economia svizzera dovrà affrontare a breve termine, in testa ai qua-

li figura certamente la soluzione del grosso problema creato dalla votazione popolare del 9 febbraio scorso con l’accettazione dell’iniziativa contro l’immigrazione massiccia. Problema da non sottovalutare, poiché potrebbe compromettere gli accordi bilaterali conclusi dalla Svizzera con i Paesi dell’UE. La strada da percorrere per giungere a una soluzione conveniente non è né semplice, né rapida. La strategia che si sta ventilando in alcuni ambienti, anche dell’economia, cioè quella di indire una seconda votazione popolare presenta – secondo Karrer – parecchi rischi, com-

preso quello di rinviare nel tempo una soluzione e di accompagnare la votazione da temi altrettanto scottanti, quale quello dei «giudici stranieri». Karrer propone invece una strategia in cinque punti: in primo luogo bisogna combattere l’iniziativa Ecopop; poi bisogna cercare una soluzione fattibile per l’applicazione dell’iniziativa sull’immigrazione massiccia, che limiti l’immigrazione, ma che permetta di utilizzare pienamente l’eventuale campo d’azione che rimane aperto; non si dovrà trovare una soluzione affrettata, che poi impedisca altre mi-

sure; per l’economia svizzera è quindi essenziale trovare soluzioni innovative che contengano un massimo di accordi bilaterali e anche di libera circolazione delle persone (per esempio mediante clausole di salvaguardia), premesso che si dovranno anche fare alcune concessioni; infine economiesuisse prevede di affrontare i problemi evidenziati dalle discussioni sull’iniziativa contro l’immigrazione massiccia. Si tratta di problemi di traffico, di cementificazione dell’ambiente, e via dicendo. Problemi che l’economia deve contribuire a risolvere mediante una migliore utilizzazione della mano d’opera indigena. Soluzioni comunque di lungo respiro e che non potranno realizzarsi senza mano d’opera estera. Da qui l’importanza del dialogo economia-società, da approfondire attraverso un maggior impegno politico a tutti i livelli. E non a caso l’ospite della giornata era la consigliera federale Doris Leuthard, alla testa del Dipartimento che si occupa di traffico e ambiente. La ministra ha approfittato dell’occasione per rimproverare agli ambienti economici di non accettare pienamente il programma di finanziamento dei trasporti pubblici. L’economia – ha detto fra l’altro – deve distanziarsi dal pensiero immediato dei costi e dedicarsi a fondo alle scelte strategiche. Il momento politico ed economico attuale crea sicuramente preoccupazioni alla Svizzera e rende sempre più necessarie soluzioni fattibili sia sul piano interno, sia su quello dei rapporti con l’esterno. Le scelte di oggi potranno essere decisive per il futuro della piazza economica svizzera.

Quando gli ultimi sono i primi La consulenza della Banca Migros

Albert Steck Eseguo versamenti regolari nel pilastro 3a per risparmiare sulle tasse. Ma questo effetto è davvero così rilevante come si dice?

Albert Steck è responsabile delle analisi di mercato e dei prodotti presso la Banca Migros

Dipende. Questa è la risposta. A seconda del luogo di domicilio può risparmiare fino a cinque volte più tasse, come dimostra la nostra analisi dei vantaggi fiscali in tutti i capoluoghi di cantone. Vale la regola che gli ultimi sono i primi. In altri termini il pilastro 3a è particolarmente interessante nei cosiddetti «inferni fiscali», mentre offre minori benefici nei «paradisi fiscali». Chi abita a Zugo, per esempio, ottiene solo una modesta riduzione delle imposte con il terzo pilastro: 784 franchi per una persona che vive da sola. L’importo si riferisce a un reddito netto di 70’000 franchi e al massimo versamento possibile nel pilastro 3a, ossia 6739 franchi per un lavoratore affiliato alla cassa pensioni. Se la stessa persona vive a Bellinzona, il vantaggio fiscale balza da 784 a 1788 franchi. Altrettanto elevata è l’agevolazione a Lugano e Locarno (v. grafico). È interessante notare anche quanto diverso può essere l’effetto dello stato civile a seconda del comune di residenza. A Bellinzona una famiglia con due figli ottiene una riduzione

fiscale di soli 431 franchi. Lo stesso versamento nel pilastro 3a a Berna alleggerisce invece le imposte da pagare di 1225 franchi, a Basilea addirittura di 1610 franchi, perché qui il fisco è più pesante per le famiglie.

Anche gli interessi maturati nel terzo pilastro sono esenti da imposte Per motivi di spazio il grafico si limita, oltre che ai tre principali comuni ticinesi, ad alcuni capoluoghi di cantone della Svizzera tedesca. La panoramica completa è pubblicata nel blog della Banca Migros. All’indirizzo blog. bancamigros.ch si trova inoltre un calcolatore facile da usare, che consente di determinare esattamente l’effetto di risparmio in base al proprio reddito e al luogo di domicilio. Dalla nostra panoramica emerge chiaramente che l’argomento del risparmio non è un mero slogan pubblicitario, tuttavia esistono enormi differenze a seconda del domicilio e dello stato civile. Ma anche se l’effetto fiscale è piuttosto limitato, il terzo pilastro conviene grazie all’interesse preferenziale (che alla Banca Migros ammonta attualmente all’1,25 per-

Questo è lo sgravio fiscale Single Famiglia

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Sgravio fiscale con un reddito netto di 70‘000 franchi e un versamento di 6739 franchi nel pilastro 3a. La panoramica completa è pubblicata all’indirizzo blog.bancamigros.ch.

cento). Un versamento unico di 6739 franchi frutta la considerevole somma di 900 franchi sull’arco di dieci anni. Con i fondi previdenziali è inoltre possibile conseguire rendimenti elevati come avviene per le casse pensioni: in media dal tre al sei percento l’anno

negli ultimi cinque anni. Anche questi guadagni sono esenti da imposte nel terzo pilastro. Attualità su blog.bancamigros.ch: calcolate il vostro personale sgravio fiscale con il terzo pilastro.


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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la piazza di Angelo Rossi E se l’inflazione fosse scomparsa? Durante l’ultimo quarto del secolo scorso, la politica della nostra Banca nazionale è stata dominata dalla lotta contro l’inflazione. Dopo le due recessioni del 1975 e del 1979, indotte dall’aumento dei prezzi del petrolio, la Banca nazionale aveva rafforzato la sorveglianza sui prezzi e si era posta come obiettivo di mantenere, nel medio termine, il tasso di inflazione, ossia l’aumento relativo dei prezzi, al di sotto del 2% annuale. Quello che, ancora venti anni fa, sembrava un obiettivo difficilmente raggiungibile, è diventato oggi uno scherzo da ragazzi. Per quanto le previsioni della BNS circa l’evoluzione del tasso di inflazione siano sempre pessimistiche, il tasso di inflazione effettivo continua a restare, di anno in anno, al disotto del 2%. E questa situazione di assenza o quasi di inflazione la condividiamo con le maggiori economie. Tanto

che, dall’inizio dell’anno si susseguono, a livello della Banca europea per esempio, i comunicati nei quali ci si preoccupa dell’assenza di inflazione e di tassi di interesse vicini allo zero. Per capire che cosa stia succedendo dobbiamo partire dalla situazione classica, quella che abbiamo per l’appunto vissuto negli ultimi due decenni del secolo scorso. In questa situazione, non appena l’economia riprendeva a crescere e la disoccupazione a scendere, i salari ricominciavano a salire e, quindi, grazie al potere che i produttori hanno di modificare i prezzi, anche i prezzi salivano. Qualcuno parlava della spirale salari-prezzi, altri della curva di Phillips, ossia dell’esistenza di una correlazione inversa tra disoccupazione e rincaro. Quel che era sicuro era che la ripresa economica e la diminuzione della disoccupazione generavano l’inflazione. Altrettan-

to sicuro era che, per lottare contro l’inflazione, la Banca nazionale avrebbe rialzato i tassi di interesse per contenere l’espansione della domanda. Ora, la ripresa che è seguita alla recessione del 2009 non ha invece avuto, come si è già ricordato, nessuna influenza sul tasso di inflazione, né da noi, né in molte altre economie sviluppate. Il fenomeno ha naturalmente sollevato l’interesse degli economisti, dei responsabili delle banche nazionali e dei politici che si preoccupano dell’andamento dell’economia. Dai risultati delle ricerche più recenti sembrano emergere una constatazione e due tipi di spiegazione. La constatazione è che l’inflazione è diventata meno sensibile ai cambiamenti sia nel tasso di crescita del Pil, sia in quelli del mercato del lavoro. Per spiegare questa maggiore rigidità dei tassi di inflazione vengono avanzate due ipotesi. La prima

concerne il funzionamento del mercato del lavoro. Perché le variazioni della disoccupazione si ripercuotano sull’inflazione occorre che quando la disoccupazione diminuisce aumentino i salari. Ora, sostengono alcuni ricercatori, se tra i disoccupati che ritrovano il posto di lavoro sono presenti molti lavoratori poco qualificati è probabile che i salari non salgano e la ripercussione sull’inflazione si attenui. Ovviamente questo tipo di spiegazione si attaglia soprattutto al caso degli Stati Uniti dove la ripresa nell’occupazione quasi sempre si manifesta nel terziario e concerne posti di lavoro a tempo parziale e poco remunerati. Ma potrebbe valere anche per la Svizzera sostituendo però ai lavoratori poco qualificati i lavoratori stranieri che, almeno inizialmente, si accontentano di bassi salari. L’altra spiegazione concerne la politica

monetaria. È possibile che la politica di controllo dell’inflazione da parte delle banche nazionali sia diventata così efficace da indurre aziende e lavoratori a supporre che anche in futuro il tasso di inflazione sarà basso. Di conseguenza la spirale salari-prezzi non funziona più come poteva invece funzionare quando ci si aspettava che il rincaro aumentasse da un anno all’altro. Indipendentemente dalle ipotesi che vengono avanzate dai ricercatori per spiegare il fenomeno, l’inflazione sembra scomparsa. Quel che sorprende è che, a lamentarsi di questo fatto, non siano i salariati, che devono accontentarsi di modestissimi aumenti delle loro remunerazioni, ma le banche e gli speculatori, vale a dire proprio quelle categorie di agenti economici che, trent’anni fa, erano in prima fila a imprecare contro l’inflazione.

presumibilmente russo, è diventata l’atto d’accusa contro l’italiana, che si è trovata a doversi difendere dagli attacchi dei Paesi dell’Europa centrale, i quali sulla Russia hanno le idee molto chiare (e trascorsi storici agghiaccianti). La linea della cautela nei confronti dell’espansionismo putiniano è sposata anche dalla Germania, in particolare dal ministro degli Esteri socialdemocratico Frank-Walter Steinmeier con cui Mogherini ha un’affinità ricono-

sciuta, e così quando si è andati alla conta il sostegno tedesco ha permesso di spianare la strada alla ministra italiana. La quale è stata fin dal primo momento ineccepibile: alla Russia, ha detto, sono state date molte occasioni per il dialogo, occasioni sprecate, ora tocca a Mosca decidere quanto ancora vuol continuare con le provocazioni, ma sappia che ci sono già nuove sanzioni da applicare in breve tempo. In questo modo Mogherini si è avvicinata alla linea del neopresidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, che è polacco e che quindi vive la crisi ucraina come un pericolo ben più imminente dei tanti Paesi che si preoccupano quasi esclusivamente del gas di Mosca. Tusk (che al suo primo intervento ha parlato in polacco, ma ha promesso che entro dicembre sarà «al 100 per cento in grado di tenere un discorso in inglese») da tempo chiede uomini della Nato al confine, una linea dura – se necessario militare – che possa far ritornare la Russia dentro ai suoi confini (magari anche

fuori dalla Crimea, ma ormai questa è utopia), un approccio europeo coeso e deciso. Era tra i leader europei che non voleva la Mogherini a capo della diplomazia di Bruxelles, un po’ perché spingeva per il suo ministro degli Esteri (travolto da uno scandalo di intercettazioni durante i negoziati, si dice sia stata una polpetta avvelenata russa) e un po’ perché per difendere i propri confini non si può essere troppo accondiscendenti con i giochetti di Putin. Ora le due posizioni stanno convergendo, la Nato vuole creare una forza di reazione rapida di quattromila soldati in grado di intervenire in tempi veloci e pensa ai modi per rilanciare la propria missione, che pareva in fase di esaurimento e invece è tornata quella delle origini. I toni da spaccone di Putin, così ciarliero, con bandiera della Novorossia a portata di mano e soldati in colonna che entrano in un Paese straniero, hanno reso molto più concreta la volontà europea di non farsi cogliere, almeno questa volta, impreparati.

tria, in cui si possa ancora esercitare il potere sovrano, ovvero l’autogoverno. L’idea autonomista raccoglie ovunque ampi consensi, dalla Lombardia «padana» alla Catalogna, dalla Scozia all’alto Adige, dalla Bretagna alla Sardegna. Agli occhi di questi popoli, la Svizzera appare come un’oasi di pace fuori dalla portata dei tentacoli di Bruxelles, e quindi libera dai vincoli imposti da un’ottusa e livellante burocrazia. Questa interpretazione della vicenda elvetica, come sappiamo, non corrisponde alla realtà storica. Concepire la Confederazione come un’entità slegata dal cammino europeo è un costrutto ideologico, funzionale solo alle campagne patriottiche del momento. «La Svizzera non è un’isola, non lo è oggi, non lo è mai stata nemmeno in passato», osserva il professor André Holenstein in un saggio di prossima uscita e intitolato Mitten in Europa (Al centro dell’Europa). È però indubbio che nel corso del tempo abbia sviluppato un suo modo di essere fondato su alcune specificità, come la neutralità (a volte attiva, a volte passiva), la democrazia

semi-diretta, il federalismo, l’esercito di milizia, un approccio alla politica che sale dal basso, bottom-up, per usare il gergo dei politologi. Uno dei testi più illuminanti sul Sonderfall Schweiz, redatto durante la Seconda guerra e quindi in un’epoca gravida di minacce, è rintracciabile nelle Meditazioni storiche che lo storico basilese Werner Kaegi raccolse tra il 1942 e il 1946 (tradotte in italiano nel 1960). Nel saggio d’apertura, intitolato Sul piccolo Stato nella storia della vecchia Europa, Kaegi collocava lo sviluppo della Lega confederata nella vita storica d’Europa, partendo dalle riflessioni di Machiavelli e Montesquieu: «se una confederazione di piccoli Stati o anche una sola repubblica di limitata estensione vuole ampliare oltre una certa misura i confini dello Stato, si vede costretta a modificare la sua interna costituzione o a rovinare». Kaegi svolgeva questo ragionamento mentre tutt’intorno imperversavano regimi sanguinari, pronti ad inghiottire ogni staterello che non si fosse adeguato prontamente al nuovo ordine fondato sul sangue e sul suolo. Ma già prima, du-

rante l’ascesa dei nazionalismi tra Otto e Novecento, il piccolo Stato si era attirato lo scherno dei «patrioti unitari» per i quali ogni repubblica rappresentava un’anomalia ostile all’idea di grandeur nazionale. Il fatto che oggi la nozione di «piccolo Stato» non sia più bersaglio di giudizi negativi ma veda accrescere la sua fortuna, è certamente da salutare con favore. La Confederazione, agli occhi di molti, è tornata ad essere un modello, dopo alcuni decenni in cui prevalevano atteggiamenti di sufficienza. Il modello elvetico va tuttavia considerato nel suo complesso, e non solo in alcune sue parti, utili solo per scatenare polemiche strumentali. La formula è composta di conquiste storiche e di architetture istituzionali; insomma, di un sistema che per funzionare richiede un ingranaggio capace di compensare gli squilibri interni, tra città e valli, tra cantoni ricchi e cantoni poveri, tra cittadini facoltosi e ceti sfortunati, tra giovani e anziani, tra residenti e immigrati. Ne prendano nota i separatisti-secessionisti dell’ultima ora.

Affari Esteri di Paola Peduzzi Prende forma la leadership Ue Dopo tanti rinvii e tentennamenti, in un’estate di guerre e orrore, la leadership europea sta prendendo forma. Non ci sono ancora i commissari – si aspetta una decisione per il 10 settembre, i negoziati sono in corso, frenetici, si dice che sarà una commissione molto politicizzata e con tanti vicepresidenti che coordinano e controllano il lavoro dei commissari – ma le tre cariche più importanti di Bruxelles sono state decise. Il presidente della commissione è JeanClaude Juncker, e questo si sapeva già all’inizio della stagione delle vacanze, e le lotte sul suo incarico, con gli inglesi che hanno minacciato di andarsene dall’Unione europea se davvero Juncker («l’ubriacone», secondo i tabloid britannici) ne sarebbe stato il capo, salvo poi accoglierlo senza più lamentarsi, sembrano già un ricordo. L’italiana Federica Mogherini, diventata capo della diplomazia europea tra le polemiche, e il premier polacco Donald Tusk, nominato capo del Consiglio europeo, sono i nomi su cui si sono accordati i

leader all’ultimo vertice. La conferma di Mogherini rappresenta una vittoria per il premier italiano, Matteo Renzi, che ha vinto le europee alla grande e che ha così voluto far pesare la sua opinione (e il suo Paese), e nella sua prima audizione al Parlamento europeo, l’attuale ministro degli Esteri italiano ha assunto subito i toni e i modi che la carica internazionale impone. Deve far dimenticare le ultime settimane: la sua nomina ha causato una spaccatura in Europa, al punto che a luglio, non trovando un accordo, Juncker si trovò costretto a rinviare la decisione – scelta sciagurata se si guarda a quel che è successo ad agosto, tra la Russia belligerante e il Medio Oriente al collasso. Mogherini è considerata filorussa, troppo propensa a fornire chance a Mosca, pur se Mosca ne approfitta (e lo fa, con le violenze, da marzo). La foto (accanto) scattata assieme al presidente russo, Vladimir Putin, poco prima che il Boeing malese fosse abbattuto sul cielo dell’Ucraina dell’est da un missile

Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Autonomi non si nasce, si diventa Da quando i diagrammi dell’economia europea hanno preso a scendere (meno ricchezza prodotta e meno occupazione), molto è cambiato negli umori dell’opinione pubblica. La moneta unica, in circolazione dal 2002, era stata accolta a braccia aperte sia dai produttori che dai consumatori. Finalmente si poteva viaggiare leggeri, e confrontare i prezzi all’istante. L’Unione europea sembrava poter garantire a tutti gli Stati membri prosperità e scenari di sviluppo. Alla concorrenza sleale, alle operazioni speculative sui cambi, alle guerre commerciali subentravano la cooperazione e il coordinamento delle politiche monetarie. Per otto-nove anni tutto è filato liscio, la crescita e il benessere aumentavano in tutta l’Eurolandia. Poi, all’improvviso, la virata e il tonfo. A partire dal 2008, agenti patogeni non previsti, come la gigantesca bolla immobiliare statunitense, hanno investito anche il vecchio continente, scatenando una reazione a catena che ha sgretolato soprattutto le aree tradizionalmente più gracili, quelle mediterranee. Paesi

come Portogallo, Spagna, Italia e Grecia si sono ritrovati in ginocchio. L’arresto e l’inversione di tendenza hanno decretato anche per la Confederazione la morte di ogni progetto di adesione all’Ue, anzi la fine stessa del sogno europeista. Non solo: da qualche tempo si sta diffondendo il desiderio opposto: non la Svizzera nell’Ue, ma alcuni distretti, regioni o Länder intenzionati ad entrare nell’orbita della Confederazione. Molte iniziative sono solo folcloristiche, episodiche, velleitarie, lo spurgo di un malumore contingente. E tuttavia l’insofferenza esiste, fosse solo in alcune frange della popolazione particolarmente arrabbiate o in comunità che nel Paese di appartenenza non si sono mai sentite a loro agio, mai riconosciute pienamente come minoranza, oppure appena tollerate. Alcune giustificazioni sono anche comprensibili. Altre invece sono meno nobili, come la volontà di trattenere per sé tutta la ricchezza prodotta, rifiutando ogni forma di perequazione di tipo solidale. Fatto sta che in tutta Europa trionfa l’idea del ritorno alla piccola pa-


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Cultura e Spettacoli L’albero musicale Al Museo Rietberg di Zurigo una mostra su particolari strumenti musicali indiani pagina 33

Seibert alla Cons Arc Il giovane fotografo svizzero Andreas Seibert testimonia i lati oscuri della crescita economica della Cina

Grandi scrittori al cinema Giacomo Leopardi e Pier Paolo Pasolini diventano (discussi) soggetti cinematografici

Film in Laguna La Mostra del Cinema si è rivelata un drammatico specchio della nostra società

Macabre verità

Informazione diffusa La cronaca nera riesce sempre ad attirare l’attenzione del grande pubblico, affascinato

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per i motivi più disparati, ma soprattutto per «averla scampata»

Maria Bettetini

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Robert Walser sul marciapiedi della KaiserFriedrich-Strasse di Berlino, 1905/10. (Keystone, Robert Walser Stiftung/str)

Berlino, porta del mondo

Domenica di agosto, finestre aperte sul cortile, un televisore con l’audio alto grida le parole mannaia, rogo, morte, gola, sparo. È pomeriggio, fascia protetta, ma l’ascesa dell’interesse per i fatti di nera è irresistibile, e questa in parte dipende anche dalla quantità di eventi di sangue. O forse dalla loro dettagliata diffusione? Si decapita perché la furia omicida non ne può fare a meno, oppure perché i fatti di Oriente hanno decretato come ultima moda questa modalità, non nuova, di togliere la vita? Insomma, siamo più cattivi, o conosciamo – e vediamo – di più e con maggiori particolari le cattiverie? E di conseguenza, ne vediamo di più perché prima (prima di cosa?) non le vedevamo o perché proprio vedendole siamo spinti all’imitazione. Basta, qui non metto il punto interrogativo, perché è chiaro che dopo la domanda eterna sull’origine del male, quella sopra espressa è «la» domanda. Non credo che in poche righe risolveremo la questione sulla bontà o cattiveria dell’informazione diffusa. Però possiamo cercare di unire due pensierini a qualche dato, tanto per non sentirci sempre ignoranti e impotenti di fronte al dilagare delle immagini brutali e di ciò che le ha prodotte. Una certezza, per prima cosa: il meccanismo ormai è innescato. Nessuna legge potrà fermare il profluvio di immagini che velocemente passano da un telefono a un computer a una televisione. I genitori chiedono aiuto a sbarramenti virtuali che potrebbero ostacolare immagini connesse con alcune parole, ma sanno bene che è come mettere le porte alla campagna, o un cancello al mare. Basta l’iPhone del fratello più grande o del compagno

di giochi, ed ecco che si naviga in rete «senza rete». Come può uno scoglio arginare il mare, ci si chiedeva parlando d’amore negli anni Settanta. Come arginare la massa di informazioni? Forse il problema però non è fermare: nella massa, infatti, ci sono anche grida di aiuto e denunce altrimenti perse nel silenzio, censurate. Quindi questo mare non è il male assoluto. Dipende, come sempre, dall’uso che se ne fa, e soprattutto dalla consapevolezza. Delle tecnologie, delle leggi, del bene e del male? No, no. Dalla consapevolezza di come funzioniamo noi e tutti gli umani di fronte a un’immagine e ad alcuni argomenti. Si dice che Achille, allo scoppio della guerra di Troia, fosse stato nascosto dalla madre Teti alla corte del re Licomede, sull’isola di Sciro, vestito da fanciulla tra le fanciulle. L’astuto Ulisse si presentò nelle vesti di un venditore di gioielli, attirando l’attenzione e i gridolini di gioia delle ragazze di corte. Una sola sembrava annoiata. Ma quando Ulisse mostrò uno scudo e una spada, Achille si gettò sulle armi scacciando le fanciulle. Partì per la guerra dove trovò la morte, come Teti sapeva. Ci sono cose e immagini di cose che smuovono la nostra curiosità, attirano l’attenzione, fanno perdere il senso dello spazio e del tempo (e dell’opportunità, forse Achille sarebbe scampato a quella guerra). Proviamo a trovarne qualcuna. Un’automobile o una moto, per i maschi. Una vetrina di gioielli o abiti, per le femmine. Una pasticceria, per molti. Un bel corpo, per tanti. Poi il pettegolezzo leggero, per immagini (meglio) o per sentito dire. E poi il macabro. Quella avvolgente trappola che ammassa le folle intorno a un incidente, spesso creandone altri; che

Federica Sciarelli, la nota conduttrice di Chi l’ha visto?, trasmissione molto seguita che si occupa di scomparse e cronaca nera. (Marka)

porta a vedere e rivedere i feriti, i morti, gli scampati. Con un gusto che teoricamente ha una sola origine, già nota ad Aristotele, ovvero l’entusiasmo per non essere tra le vittime. Ciò che ci colpisce è sempre ciò che ci sarebbe potuto accadere, quindi non tanto la valanga sulle pendici dell’Everest, piuttosto l’assassinio del vicino di casa rumoroso o maleducato: chi non è ogni tanto un po’ rumoroso e un po’ maleducato? Questo sarebbe ancora razionale, sono felice di non essere io dentro quell’auto, e che non ci sia nemmeno una persona a me cara, manifesto la mia gratitudine con sollievo. Ma spesso non ci accontentiamo di sentimenti così lievi, vogliamo vedere e sapere di più. Ecco la pornografia, e pornografi sono coloro che continuano a

mostrare le immagini di disgrazie. È come in campo sessuale: è giusto sapere come si consumi l’atto sessuale, magari venire a conoscenza di una liaison, ma volerne sapere i dettagli, vedere che cosa e come accade, beh, è già pornografia. Un campo dove i guadagni non avranno mai una flessione, crisi o non crisi. Spesso la pornografia del vedere si unisce a quella più decisamente sessuale, gli stessi siti propongono diversi percorsi, le riviste hanno tra loro confini labili. Quindi in una schermata o copertina troviamo: perché le star si uccidono (con riferimento a Robin Williams), il Santo mi è apparso in camera (Padre Pio), giù le mani dal padre dei miei figli (Raoul Bova), Al Bano – sapevate che si scrive in due parole, come Al Capone? Lo ap-

prendo ora copiando da una copertina – ha scelto Loredana (e non Romina), poi Hunziker, un po’ di mafia, la terza vita di Loretta Goggi. In verità esiste anche un caso unico, un giornale che esplicita tutto quanto detto finora. Se andate in edicola, il giornalaio vi dirà «Lo metta nella borsa signora, per carità», come mi è successo questa mattina. In estate vende 400’000 copie, negli anni prima di Internet aveva raggiunto il milione, ma non lo si è mai visto nelle classifiche di Prima Comunicazione o dell’Ordine dei Giornalisti. Si chiama «Cronaca vera», appare brutto e molto molto cheap. In copertina c’è una modella in carne poco vestita di cui non si sa nulla, la prossima settimana sarà un’altra. I titoli sono rossi e gialli, cubitali, le foto sono tutte in bianco e nero. Non si racconta di personaggi noti (tranne Padre Pio, con Padre Pio non si scherza), ma di persone comuni, anche un po’ dimenticate. I delitti sono efferati come quelli del jet set, le oscenità anche, le foto non sono patinate, ma crude, e un po’ confuse, prese da dilettanti, da vecchi album della famiglia del disgraziato. Ricapitolando, attrazione automatica per corpo bello e discinto, (la copertina); identificazione con i protagonisti, (totale, potrebbero essere panettieri e studentesse a noi noti); mescolanza gossip e sangue? L’abbiamo, ma con un ulteriore elemento, un morboso godimento nuovo: non solo si parla di fatti che non sono capitati a me e potevano capitare, ma ne apprendo sempre di nuovi e peggiori, perché la vera realtà è più varia, inaspettata, rude dei nostri giochini con le immagini. Forse che il giornalaio non ha suggerito di nascondere la brutalità delle cronache vere del popolino?

Il Re degli strumenti si rimette la corona Concerti Walter Zweifel si esibirà la prossima domenica all’organo di Sessa

Letteratura Prende il via una nuova serie, sui rapporti che illustri esponenti del mondo letterario

del Novecento hanno avuto con la metropoli tedesca; fra di loro Robert Walser e Franz Kafka

Luigi Forte Il provinciale Robert Walser non riuscì mai a vedere Parigi che tanto sognava. Finì invece a Berlino dove – come diceva l’ebreo galiziano Joseph Roth – nessuno al mondo ci andava di sua spontanea volontà. Ma proprio lui, guarda caso, vi arrivò nell’estate del 1920 sognando una carriera di giornalista e scrittore. Trovò editori per i suoi romanzi e grandi testate giornalistiche disposte a pubblicare i suoi articoli. A quell’epoca Walser era ormai tornato in patria in preda a crisi che lo spinsero sull’orlo del suicidio. La grande metropoli tedesca lo aveva sedotto e abbandonato in quegli otto anni, fra il 1905 e il 1913, in cui scrisse tre romanzi, fra cui L’assistente e Jakob von Gunten, che rielaboravano esperienze personali, guadagnandosi l’attenzione e la stima di autori come Hermann Hesse e Kurt Tucholsky, ma non il favore del grande pubblico. Eppure su quel soggiorno lo svizzero Walser contava non poco. Era convinto che la città avrebbe stimolato e messo in luce le sue doti di scrittore.

«A Berlino – egli scriveva – imparerò, presto o tardi, con mio grande piacere, ciò che il mondo vuole da me e ciò che, da parte mia, voglio da lui». Una prospettiva condivisa anche da Kafka, affascinato dalla sua prosa che spesso leggeva ad alta voce ridendo come un matto. A Berlino lo scrittore praghese ci capitò la prima volta nel dicembre del 1910 sognando, come Roth, un posto da giornalista. All’amica Grete Bloch scrisse qualche mese dopo: «Credo di sapere con certezza che dalla situazione libera e indipendente in cui mi troverò a Berlino (…) trarrò l’unico senso di felicità del quale sono ancora capace». Certo, Kafka ha accanto a sé la futura fidanzata Felice Bauer che gli apre una finestra sul mondo circostante, ma spalanca anche voragini esistenziali. Walser, dal canto suo, poteva contare sulla presenza del fratello Karl che da tempo lavorava con successo come scenografo di Max Reinhardt. Eppure la capitale tedesca non cessa di entusiasmare quel giovane ventisettenne di Bienne che esclama: «Quant’è pazzesca invece Berlino. (...) è

un ragazzaccio senza maniere, sfacciato, intelligente che (…) butta via tutto ciò che gli è venuto a noia». E nel bailamme metropolitano, forse in virtù della sua bizzarria che tutto trasforma in arte, Walser vive come «in un incantevole sogno d’Oriente» e si sente a casa propria. Simile a Simon, il protagonista del suo romanzo I fratelli Tanner, anch’egli amava ruoli differenti, eterno Caspar Hauser in cammino verso un destino da reinventare. Era un vagabondo, un apprendista allo sbando, che confessava, con la voce di Jakob von Gunten: «Solo nelle regioni inferiori riesco a respirare». Nei primi tempi a Berlino frequenta infatti un istituto per domestici nella Wilhelmstrasse, ergendosi come un piccolo Don Chisciotte, pazzo e ridicolo, ma a sentir lui, assai felice, per poi finire nel castello del conte Konrad von Hochberg a Dambrau nell’Alta Slesia dove ogni cosa emanava un profumo di distinzione. Qui lo chiamano Monsieur Robert, porta una livrea con bottoni d’oro e scarpe nere laccate. Nomade è Walser anche a Berlino, dove cambia spesso domicilio utiliz-

zando non di rado gli appartamenti del fratello, prima nella Kaiser-FriedrichStrasse a Charlottenburg (lì una lapide lo ricorda ancora oggi), poi sul Schöneberger Ufer o sul Kurfürstendamm quando nel 1910 Karl andò in viaggio di nozze. La situazione di Robert è perennemente precaria anche se per un certo periodo fu segretario della Sezession, a contatto con l’élite intellettuale della città, nei cui salotti si trovava terribilmente a disagio, e più tardi, nella primavera del 1907, presso il mercante d’arte e gallerista Paul Cassirer, il cui cugino, Bruno, pubblicherà i suoi romanzi. La passione per la scrittura tuttavia non lo abbandona. Lavora fino a notte fonda e confessa: «…era come se pensare, poetare, vegliare fossero il mio dolce, profondo sonno». Collabora a giornali e riviste scrivendo in quel periodo ben più di cento articoli con un insolito andirivieni di pensieri stravaganti e provocatori. Con «cuore fanciullesco», secondo la definizione di Hesse, il flâneur Walser trasforma lo choc metropolitano in un’incantevole fantasmagoria. Lo stupefatto osserva-

Zeno Gabaglio tore rivisita i mercati come angoli di campagna o osserva con occhio da impressionista il Tiergarten, dove «tutto alita femminilità, tutto è chiarore e dolcezza, tutto è così remoto, così limpido e perfetto…». Ma non tralascia di frequentare i caffè-concerto e le bettole di infimo ordine o di passeggiare per la centralissima Friedrichstrasse in cui ognuno, forse nell’indifferenza collettiva, sbandiera la propria libertà sentendosi accolto. Berlino rimane alla fine un enigma. Lui lo affronta con armi impari provando a scioglierlo nei suoi feuilleton e nelle prose che parlano di una città più evocata che vissuta. E tuttavia, come per Kafka, essa diventa scenario di un cortocircuito: l’utopia si ribalta in sconfitta, le chance che la metropoli potrebbe offrire nel suo febbrile metabolismo si arenano in una sorta di labirinto esistenziale. Walser s’inoltrerà lentamente nella follia, mentre lo scrittore praghese sarà vittima anzitempo del proprio male, dopo aver pensato a Berlino – attratto dal quartiere ebraico – come preparazione o addirittura alternativa alla Palestina.

«Non è certo un caso che l’organo si faccia chiamare “il Re degli strumenti”. La dinamica dei volumi dal suono più flebile al fortissimo più intenso, la grande varietà di timbri offerta dai numerosi registri, l’ampia estensione dai suoni più bassi a quelli acutissimi, il fatto di poter suonare fino a sei tastiere manuali e una pedaliera nello stesso pezzo: tutto questo ne fa una potenzia-

Il musicista Walter Zweifel.

le ed intera orchestra a disposizione di chi lo suona e di chi vi dedica le composizioni». No, non è uno spot promozionale di qualche ditta organaria – anche perché gli organi a canne non sono certo tra gli articoli più contesi dal marketing contemporaneo… – quanto piuttosto l’inevitabile inizio di un incontro con Walter Zweifel, l’eclettico compositore e organista di Caslano che domenica 14 settembre alle 20.30 darà vita

ad un nuovo appuntamento con la rassegna Concerti d’organo nella Chiesa di San Martino a Sessa. Si tratterà di un concerto decisamente atipico, che coinvolgerà musica classica e musica attuale in un flusso quasi ininterrotto di idee ed emozioni musicali, di suoni nuovissimi e di suoni antichissimi. Perché se anche Walter Zweifel è un musicista pienamente contemporaneo, di sicuro non misconosce – complice anche lo studio accademico con Hans Vollenweider a Zurigo – le molte implicazioni dell’esprimersi attraverso uno strumento millenario. «Quello che musicalmente l’organo è, non può essere separato dal lavoro dell’artigiano organaro, del falegname, dell’architetto, degli artisti decoratori e soprattutto dalla sua presenza in una chiesa decorata con affreschi, dipinti, stucchi e statue. Un concerto d’organo fa perciò inevitabilmente incontrare un insieme di arti, di gusti, di stili. Per tante persone l’organo è strettamente legato all’istituzione religiosa, e questo – in una società come quella di oggi sempre più distanziata dalle tradizioni cristiane – implica dei pregiudizi musicali legati allo strumento-organo (o anche solo al suo suono) che non hanno piena

ragione d’essere». L’associazione organo-chiesa è infatti solo parzialmente giustificata e storicamente incompleta, perché «l’organo (inventato tra il III e il II secolo avanti Cristo) è stato per molti anni uno strumento profano che serviva agli antichi Romani per accompagnare i convivi o scandire le cruenti battaglie dei gladiatori. Solo dopo il 600 d.C. lo strumento fu progressivamente adottato per le celebrazioni religiose». Una precisazione che non è presa di distanza da tutto quello che il Cristianesimo ha portato al mondo dell’organo, d’altronde basta scorrere il programma preparato da Zweifel per rendersi conto di come sia la religiosità (con un Corale di Johann Heinrich Buttstedt) sia la tradizione (da Bach ai celeberrimi Canone di Pachelbel e Adagio di Albinoni) appartengano al suo orizzonte espressivo. Espressione che è però sintesi e non mera ripetizione, dal momento che i classici vestiranno nel concerto una nuova veste, e siederanno accanto alle opere originali di Zweifel per dar vita «a un viaggio musicale, sonoro e visivo che permetta di sognare, lasciarsi trascinare in un mondo immaginario senza confine tra i generi e le epoche

musicali». Così anche la contemporaneità di certe sonorità pop – Zweifel ha lavorato per anni come produttore nei maggiori studi canadesi e tedeschi – farà capolino accanto alle sonorità ancestrali dell’organo, in un flusso dove «l’organo è sì l’elemento centrale, inserito però in una più ampia cornice sonora, elaborata in studio di registrazione e riprodotta dal vivo. Per fare ciò ho creato e registrato suoni, cori, rumori e arrangiamenti consentendo alla mia fantasia di esprimersi con la massima libertà». Forse è proprio qui la chiave: la libertà. Nel saper creare secondo coscienza e seguendo lo spirito del tempo, ma anche nel saper ascoltare qualcosa di nuovo da uno strumento che – forse – non ha ancora detto tutto quello che poteva dire. Dove e quando

14 settembre (ore 20.30), 5 ottobre (ore 16), Chiesa Prepositurale, Sessa In collaborazione con


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Cultura e Spettacoli

Strumenti a corda come sculture

La Babele caraibica

Mostre Al Rietberg di Zurigo

alla letteratura delle Antille

un’affascinante esposizione di strumenti con profonde radici nella storia

Marco Horat Tutto iniziò con un regalo: uno strumento pachistano chiamato sarinda che un amico regalò a Bengt Fosshag negli anni 60. Da lì è nata una passione senza confini che ha trasformato il pubblicitario tedesco in uno dei più grandi collezionisti al mondo di strumenti musicali a corda esotici, soprattutto asiatici, dall’Iran alla Turchia dall’India al Pakistan. Una parte di questo tesoro lo ha poi donato al museo di Stoccarda, mentre un’altra è stata acquisita dal museo Rietberg di Zurigo alla fine dello scorso anno. Una collezione eccezionale, composta di oltre 90 pezzi fabbricati nella prima metà del XX secolo da artigianimusicisti-scultori, che ha permesso al museo zurighese di allestire ora una grande esposizione temporanea e nel contempo di avviare un progetto di collaborazione con istituzioni e studiosi indiani che approfondiscono questa insolita tematica sul terreno; per esempio ricercando gli artefici che hanno creato le «sculture musicali» di grande bellezza denominate dhodro banam (strumenti vuoti) e huka banam (strumenti-noci di cocco) oramai diventate introvabili ai nostri giorni. La maggior parte di questi capolavori è di origine Santal e Nepalese. I Santal sono la principale comunità aborigena dell’India e conta tra 6 e 10 milioni di persone in via di lenta ma inesorabile integrazione nella società hindu. Lavorano nelle miniere o vivono di agricoltura specialmente nel Bihar, Bangladesh, Bengala e in Nepal dove costituiscono una minoranza importante. Parlano ancora una loro lingua (una delle tante che caratterizzano il panorama linguistico indiano) e si riallacciano a credenze, miti e riti ancestrali: niente templi colorati e chiassosi con raffigurazioni delle varie divinità, niente caste privilegiate e paria all’interno della società; diverso anche il ruolo della donna che, oltre che partecipare intensamente alla vita della comunità, può perfino scegliere i partner coi quali

metter su famiglia. Ben lontano quindi, si presume, dal contesto culturale dal quale sono emersi gli episodi di violenza sulle donne indiane che le cronache recenti ci hanno proposto. I Santal passano per essere musicisti e ballerini di sicuro talento; in effetti la musica costituisce un tratto culturale fondamentale che accompagna i momenti topici dell’esistenza di ogni individuo e durante le diverse stagioni dell’anno.

All’origine degli strumenti esposti una leggenda truce, ma che portò alla nascita dell’albero musicale Dicevo degli strumenti più spettacolari che si possono ammirare a Zurigo; la loro origine viene fatta discendere da un evento mitico del passato. La leggenda parla infatti, con alcune varianti, di sette fratelli e una sorella uccisa e divorata dagli stessi (alla faccia del discorso fatto prima sulla figura della donna, ma erano altri tempi...); il fratello minore seppellisce però la sua «porzione» invece di consumarla e così la sorella può rinascere sotto forma di albero musicale, dal quale un asceta di passaggio trarrà la materia prima, il legno, per costruire infine lo strumento primigenio di forma umana. Una storia cruenta che giustifica l’accostamento tra l’immagine dello strumento e quella del corpo che il titolo della mostra evoca. Strumenti che nelle sale del Rietberg vengono presentati con grande effetto: sospesi nel vuoto ideale delle vetrine, quasi fossero note musicali che si librano nell’aria e si muovono in cerchio, inebriando ascoltatori e ballerini. E visitatori curiosi. Dove e quando

Klang/Körper, Saiteninstrumente aus Indien, Zurigo, Museo Rietberg. Fino all’agosto 2015. Catalogo in tedesco; www.rietberg.ch

Festival La nona edizione della rassegna bellinzonese è dedicata

Giunto quest’anno alla nona edizione, Babel si è sempre distinto per avere cercato di creare dei varchi in campi letterari meno battuti perché non tradotti o non inseriti nel mainstream letterario. Anche quest’anno l’organizzazione che lavora al programma del festival ha deciso, dopo Palestina, Russia e Africa francofona (solo per citare alcune edizioni), di dedicarsi a un angolo di mondo tirato in ballo solo raramente in relazione alla letteratura. Si vuole infatti dedicare l’edizione che prende il via il prossimo undici settembre ai Caraibi, e in particolare a una serie di isole che vede nel Nobel Derek Walcott il proprio maggiore esponente, ma che presenta realtà linguistiche e sociali interessanti e a tratti particolarmente emblematiche per il pubblico del Festival. Come ci ha spiegato Matteo Campagnoli, membro del comitato scientifico, la linea principale presa dal festival è quella linguistica. «Ci siamo concentrati in particolar modo su tre isole dei Caraibi: Martinique, Santa Lucia e Trinidad. Io dovevo già recarmi in quei luoghi per scrivere un libro per la casa editrice Humboldt, e così ho combinato con Vanni Bianconi, al fine di trasformare il viaggio in una specie di ricognizione letteraria. È un arcipelago in cui c’è gente che scrive in varie lingue. Essendo le isole province di quelle che un tempo erano colonie, le lingue che vi si parlano hanno subìto un processo di ibridazione. Su tutte le

Babel non è «solo» letteratura, ma anche cinema e incontri.

isole vi è infatti una la lingua ufficiale, che è il francese o l’inglese, ed è quella che si impara a scuola, e un’altra della quotidianità e della strada, che è il creolo. Nel caso di Santa Lucia si riscontra addirittura la presenza di tre lingue: l’inglese che si studia a scuola, il patois francese e il creolo inglese. Ciò crea una situazione del tutto particolare per gli scrittori dei Caraibi: essi si trovano costretti a scrivere nella lingua in cui sono cresciuti culturalmente ma non con il cuore, e questa continua negoziazione a volte crea delle lingue che non esistono. A questo proposito mi viene in mente la scrittura di Patrick Chamoiseau, autore di Texaco, che sarà fra i nostri ospiti».

Dove e quando

Il Festival di traduzione e letteratura Babel avrà luogo dall’11 al 18 settembre 2014. Per informazioni dettagliate sul programma, www.babelfestival.com Annuncio pubblicitario

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A sinistra, Dhodro Banam, a destra, Sarinda, entrambi strumenti provenienti dall’India, prima metà XX sec. (©Museo Rietberg, Zurigo)

A inaugurare la nona edizione, vi sarà il debutto del collettivo Bern ist überall… una contraddizione? No, ci spiega Campagnoli, la decima edizione di Babel, nel 2015, sarà interamente dedicata alla Svizzera, e questa scelta non rappresenta dunque che una preview. Inoltre, anche gli svizzeri tedeschi in fondo sono sempre a cavallo di due lingue. Un po’ come nelle Antille. / RED

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 8 settembre 2014 ¶ N. 37

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Cultura e Spettacoli

La Cina sconosciuta di Seibert

Fotografia La Galleria Cons Arc di Chiasso espone una significativa e inquietante serie di immagini realizzate

da un promettente fotografo svizzero

Gian Franco Ragno È ancora possibile raccontare il mondo attraverso la fotografia? Qualcosa che riesca a dipanare la matassa della sua complessità? Far captare, ad esempio, le contraddizioni dell’avanzata della Cina che sembra essere diventata la prima economia mondiale proprio in questi giorni?

Il fotografo svizzero Andreas Seibert sembra avere riscoperto l’arte del fotogiornalismo A queste domande sembra rispondere affermativamente Andreas Seibert. Nato in Svizzera nel 1970, è considerato uno dei fotografi più promettenti, può infatti già vantare una personale alla Fotostiftung di Winterthur. Ma ciò che appare ancora più rilevante, è il modo con cui è arrivato a questi risultati, ovvero rivitalizzando un genere fotografico per molti versi esausto, il fotogiornalismo. Un genere dalla lunga tradizione, ma soppiantato da diversi decenni dalla televisione e più recentemente dalla rete. Dopo gli studi umanistici, Seibert ha frequentato i corsi di fotografia della Scuola di Arti applicate di Zurigo che, fondati negli anni 30 da Hans Finsler, hanno conosciuto una grande tradizione. Stabilitosi in Giappone, ha

scelto come oggetto privilegiato della propria indagine la Cina con le sue dinamiche ed evoluzioni. Un Paese apparentemente lontano, ma in realtà assai vicino in quanto i suoi prodotti, a basso costo, sembrano onnipresenti nella nostra economia. Di fatto, il grande Paese asiatico – forte di una manodopera pressoché infinita – si può definire la «fabbrica globale», come ha raccontato in questi anni il giornalista italiano Federico Rampini, anche su «Azione». Sin dalle sue prove, Seibert ha colpito per l’ampiezza del suo progetto fotografico, per il suo modo di operare, capace di riassumere in poche immagini un percorso di anni, un rapporto di fiducia costruito con il soggetto. E in questo senso, un documentario del regista luganese Villi Hermann, presentato in diversi festival, tra cui quello di Locarno, ne è una fedele testimonianza. Il documentario prendeva le mosse dal primo libro del fotografo svizzero, From Somewhere to Nowhere (2008), in cui si seguivano le tracce di un fenomeno enorme ma sconosciuto ai più: le drammatiche condizioni di vita dei migranti all’interno del Paese, la precarietà nel lavoro, le insidie e gli imbrogli a loro danno. Oltre alle immagini infatti Seibert, con piglio da cronista, delinea con pochi tratti destini di uomini e donne sospesi tra solide tradizioni e frenetiche modernità. Recentemente il libro è stato scelto come uno dei più rappresentativi della fotografia svizzera degli ultimi anni.

Una delle immagini in mostra a Chiasso. (© Andreas Seibert, Pro Litteris)

Il suo secondo progetto – The Colors of Growth - China’s Huai River – segue nuovamente un percorso: questa volta si tratta di quello di un fiume dalla foce al delta, con tutta la sua carica simbolica. I colori della crescita, esteticamente suggestivi, sono di fatto i veleni versati senza controllo nel fiume Huai, veleni che inquinano attraverso l’ambiente colui che ne è fortemente dipendente, ovvero l’uomo. Da qui il motivo per ritrarre, con grande intensità, contadini malati che non riescono a pagarsi le medicine oppure donne che protestano contro l’aria irrespirabile.

Tutti costi esterni di uno sviluppo incondizionato e senza freni, che non tiene conto dell’uomo. Nella sua completezza, The Color of the Growth è stato presentato alla Fotostiftung di Winterthur nel 2013, con la curatela di Peter Pfrunder. Stilisticamente, rispetto al progetto precedente, questo mostra anche un approccio più estetico e a tratti lirico del soggetto, tra l’irrealtà dei colori e la quotidianità triste e malata degli individui. Alla base di questa evoluzione vi è una sorta di consapevolezza dell’elemento colore come strumento espressivo. Altro ele-

mento di grande lirismo, il contrasto tra modernità e tradizione: accanto a strutture contemporanee, sopravvivono pescatori e muratori, contadini che hanno tra le mani strumenti di lavoro così arcaici che potrebbero provenire idealmente da secoli di distanza. Con la sua produzione Seibert si pone come ideale prosecutore di una grande tradizione fotogiornalistica, non solo svizzera. Egli sembra guardare ai grandi maestri della fotografia sociale (Lewis Hine, Walker Evans, Dorothea Lange) dei quali condivide la necessità di documentare oggettivamente il mondo contemporaneo, sia attraverso le immagini sia attraverso la testimonianza di destini – toccando il tasto dell’empatia, fondamentale per il nostro rapporto con il mondo. Quella alla Galleria ConsArc di Chiasso è quindi un’esposizione mirata, ma anche l’occasione di conoscere meglio il mondo che ci circonda: frutto di una selezione di entrambi i progetti citati del fotografo svizzero, cerca di individuare le immagini più rappresentative della carriera del fotografo svizzero. Un portfolio numerato di dieci immagini, curato dai galleristi Daniela e Guido Giudici, corona l’intento della mostra. Dove e quando

Andreas Seibert. Photographs. Galleria ConsArc, Chiasso. Fino al 27 settembre 2014; www.consarc.ch Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

I am Pier Paolo Pasolini

Cinema Il poeta pessimista (Elio Germano) e l’intellettuale controverso (Willem Dafoe)

diventano soggetti cinematografici in una doppia operazione dai risultati assai deludenti Mariarosa Mancuso Il liceo lo avevamo frequentato, a suo tempo. Avevamo anche letto qualche scrittore fuori dal programma. Non sentivamo il bisogno di un ripasso su Giacomo Leopardi e Pier Paolo Pasolini. È accaduto alla Mostra di Venezia con il professor Mario Martone, regista di Il giovane favoloso: titolo a uso degli spettatori italiani, all’estero sarà Leopardi, non tutti hanno fatto studi matti e disperatissimi. E con il professor Abel Ferrara, che annuncia di essersi disintossicato da tutto e affronta Pier Paolo Pasolini (non sappiamo se esista un nesso, ma a vedere certe scene del film rimpiangiamo il regista fuori di testa che si dedicava ai vampiri filosofi di The Addiction, o girava il bellissimo The Funeral).

Leopardi si farà odiare ancora di più, mentre Pasolini – che parla inglese – è fin troppo scabroso Fare un film su uno scrittore è difficile, oggi più che mai: stanno seduti da soli tutto il giorno. Almeno in passato c’erano il ticchettìo dei tasti, il rumore del carrello, le pagine da appallottolare con rabbia. I pittori perlomeno hanno lo studio con le modelle nude, un abbigliamento pittoresco, una tavolozza di colori (grazie al dripping viene bene anche l’arte moderna). I musicisti possono scarmigliarsi davanti al pianoforte, o sollevare le gonne delle belle ragazze con l’archetto (non l’abbiamo inventata, era in un vecchio film di James Toback, che di recente ha dedicato uno splendido ritratto a Mike Tyson: la boxe è un’arte cinematografica per davvero).

Stando così le cose, consiglieremmo ai registi di stare alla larga. L’unica che finora è riuscita a fare un film non idiota su un poeta si chiama Jane Campion, e l’unico che finora sia riuscito a fare un film non idiota su un filosofo si chiama Derek Jarman. La regista di Lezioni di piano in Bright Star si è dedicata a John Keats, che pure morì tisico a Roma (è sepolto nel cimitero acattolico). C’erano tutti gli elementi per darci dentro con il romanticismo, invece la serissima regista e sceneggiatrice australiana fa sapere subito che «la poesia non è un lavoro per signorine» (ora si arrabbieranno le femministe, pazienza). Derek Jarman racconta Ludwig Wittgenstein – il titolo è Wittgenstein – organizzandone la vita, il Tractatus e la teoria dei giochi linguistici in siparietti da cabaret. Se uno proprio a stare alla larga non riesce – e non sceglie un grande e mondanissimo pettegolo come Truman Capote (già titolare di due film, uno girato da Bennet Miller e uno da Douglas McGrath, gli attori sono Philip Seymour Hoffman e Toby Jones) – meglio che abbia un’idea. Un’idea forte, si intende, che strutturi il film evitando sia i flashback dal letto di morte (cornice narrativa preferita degli sceneggiati televisivi italiani, in genere vite di santi o di sportivi) sia la noia dell’infanzia, vocazione, prime esperienze, vita di stenti, status da venerato maestro. Lo scheletro forte va rimpolpato di ciccia, evitando possibilmente le scene utili solo per dare un brivido alle professoresse democratiche. Si riconoscono perché porteranno i loro allievi a vedere l’opera ultima di Mario Martone e invece trovano diseducativi i videogiochi. Neanche immaginano l’effetto che può fare su una mente in formazione il giovane Leopardi che va sull’ermo colle, e poi fa «prove tecniche di siepe».

Antonella Rainoldi

Elio Germano ne Il giovane favoloso di Mario Martone.

Non stiamo inventando, è nel film: il poeta alza la testa, poi la riabbassa, ora il panorama si vede ora scompare. Neanche immaginano l’effetto che può fare sulle menti adolescenziali – già fermamente convinte che Giacomo Leopardi fosse pessimista perché gobbo e privo di fidanzate – vedere il poeta mentre corteggia Fanny Targioni Tozzetti: lei fa dire dal valletto «la signora non è in casa», e noi la vediamo mentre si sbaciucchia con Antonio Ranieri senza neppure tirare le tende. Sulla scena al bordello napoletano – con tanto di «femminiello» o ermafrodito o travestito, dipende dalla stima che avete per Mario Martone, la nostra ha ormai toccato i minimi storici – preferiamo tacere, e così sulla natura matrigna resa sullo schermo da una statua di sabbia. Aggiungete la recitazione di Elio Germano – tenta anche lo sguardo sbieco in stile Aigor – e il film è pronto per essere ribattezzato Il gobbo di Recanati.

Dalle scuole starà lontano per motivi di censura il Pasolini di Abel Ferrara, per un’orgia e per una scena presa dal romanzo postumo Petrolio. Già ci sentiamo meglio. Bisogna sapere che, essendo l’attore protagonista Willem Dafoe, a casa Pasolini la mamma Susanna, la cugina Graziella Chiarcossi, il cugino Nico Naldini e pure Laura Betti parlano inglese. Le scene parlate in italiano sono prese dai romanzi, o da una sceneggiatura che Pasolini non girò mai. Lo si capisce con un po’ di fatica – ci chiediamo cosa capiranno gli americani, i cognomi di famiglia e le parentele le abbiamo aggiunte noi. Ed ecco che arriva la scena di culto (vabbé, una delle scene di culto, c’è anche l’intervista di Furio Colombo, praticamente un radiodramma). In trattoria, l’unica a Roma senza altra gente che mangia, Pasolini-Dafoe in uno stentato italiano ordina spaghetti e petto di pollo per Pino Pelosi. In entrambi i film aspettiamo che la morte (del poeta) metta fine al tormento (nostro).

del calcestruzzo italiano in un sorprendente libro illustrato di Paolo Caredda

«“Non ne vorrei nemmeno una di queste cartoline” conclude il fotografo. Perfino colui che ha realizzato questi scatti li rifiuta. Nega di essere stato là. O comunque se n’è dimenticato. Rimanda la paternità a sconosciuti, non rintracciabili. Immagini ripudiate. Lasciate sole a se stesse». Questo In un’altra parte della città. L’età d’oro delle cartoline è un libro inconsueto e vivido. Lo ha scritto Paolo Caredda, che, leggiamo sulla quarta di copertina, è nato a Genova, ha vissuto a Bologna, Londra e Milano, è regista di «filmati ibridi per la televisione» ed è pure narratore e uno degli autori dell’ormai memorabile Gioventù cannibale del 1996. Ma soprattutto Caredda ha avuto un’idea: quella di andare, per anni e anni, su aste online e siti vari, oltre che in reale su mercatini e bancarelle, a cercare cartoline. Non cartoline normali ma piccoli e grigi affreschi di paesaggi urbani minori: palazzoni, incroci di periferia, viadotti, tabaccherie, fabbrichette più o meno in piedi, semafori appesi a mezz’aria come si usava un tempo. La forma cromatica più indicata per questo materiale cult è ovviamente il grigio, ma la raccolta porta anche immagini a colori o addirittura coloriture

La stagione autunnale è alle sue prime battute e la maggior parte delle reti generaliste riparte dai quiz. Il lettore ci perdonerà, ma visti i ritorni della scorsa settimana ci dovremmo arrampicare sugli specchi per recensire qualcosa di decente. Siccome nel nostro cuore alberga un po’ di onore, ci sentiamo autorizzati a soprassedere. In attesa di programmi degni di questo nome (alcuni sono partiti ieri, anche su RSI La1), ci permettiamo di segnalare la nuova edizione di Ballarò, uno degli appuntamenti più forti di Raitre (martedì, ore 21, dal 16 settembre). In tempi di abbondanza dell’offerta e di frammentazione dell’ascolto, il talk-show politico più seguito della tv italiana ha tenuto bene. Negli ultimi anni è declinato da medie di oltre 4’600’000 spettatori a meno di 3’300’000, e nell’ul-

Massimo Giannini: dalla vicedirezione di «Repubblica» alla conduzione di Ballarò.

Pubblicazioni Cartoline dall’età dell’oro

posticce, imprevisto editing approntato da anonimi artigiani di questa improbabile estetica. L’epoca è quella delle «strisce di plastica gialloverdi al posto di una porta», dei negozi che vendono contemporaneamente alimentari e articoli da cartoleria, sede ideale di questi tesori all’incontrario, icone di un’arte che ci suona così stonata ma che pure aveva trovato, nei decenni del miracolo italiano o forse un po’ dopo, sue occasioni per una celebrazione dell’«alba dell’era del cemento». Sono spesso i gestori delle tabaccherie o dei negozi multifunzione così cari a quell’epoca a chiamare fotografi pragmatici e senza velleità, che, piazzati cavalletti e appoggiate borse per terra, ritraggono quegli scorci col pensiero frettoloso già al prossimo viale, al prossimo cavalcavia. Ogni tanto, maleducate Abarth e Seicento sono collocate, si suppone apposta, a ostruire la vista; casomai che ci scappi qualche chiesa barocca sullo sfondo, meglio ribadire il primato tematico di questo materiale: città, anonimato, cemento grezzo, cantieri, in una specie di grado zero del paesaggio urbano moderno… Quarto Oggiaro, l’istituto dei fanghi di Acqui Terme, bambini che giocano tra scarsa erba e calcinacci a Cogoleto. Una sola e quindi preziosa cartolina di

Visti in tivù Da

martedì 16 settembre su Raitre, lodevoli le intenzioni di partenza

Scorci di nulla

Stefano Vassere

Ballarò cambia con Giannini

Inquietanti scorci di modernità: la copertina del libro di Caredda.

Roma: «troppe fontane, troppi papi», in quella città, per arricchire il museo del calcestruzzo moderno. «Oggi questi palazzi sembrano grigi, ma allora il cemento scintillava»; nelle eleganti didascalie lunghe, l’autore di questo strano oggetto concede una specie di Eldorado del cemento, ma insieme ci cataloga poi tutta una serie di stili e consuetudini di quella stagione della cartolina illustrata, che le conferiscono la dignità della serie: mettete insieme del materiale, anche il più banale, ma se riuscite a trovare elementi comuni e ricorrenti ne scoprirete il segreto e forse ne svelerete il fascino. Tra questi, certamente, l’abitudine della freccia: «siamo qui», come dire «questa freccia indica il nostro albergo, la nostra casa, magari direttamente noi, da bambini, mentre giochiamo nel vicolo». Ecco, chiamati a dire del segreto tutto eventuale di questo materiale, lo si potrebbe scovare magari

nel gusto puntuale, individuale. Sul ritratto degli alberghi-palazzoni di Jesolo Lido, Paolo Caredda qualifica quella Via Padova come «insipida promenade»; eppure quella cartolina esiste, qualcuno deve averla spedita almeno una volta. E certo è che per chi a Jesolo Lido ci sia stato più e più volte con qualcuno tra gli affetti più cari, «le file dei palazzi tutti uguali, il parcheggio di un hotel, l’ombra di uno sterrato» costruiscono molti anni dopo uno struggente paradiso. A qualcuno quella fotografia deve essere piaciuta molto, e la chiave del successo del filone cartolina suburbia, così difficile da stanare, deve abitare probabilmente da quelle parti. Bibliografia

Paolo Caredda, In un’altra parte della città. L’età d’oro delle cartoline, Milano, Isbn Edizioni, 2014.

tima stagione, fino al 24 giugno, ha registrato un arretramento di circa 1’000’000 di spettatori rispetto a quella precedente, pur godendo di buona salute: 3’245’000 spettatori medi, per uno share del 12,8%. Vedremo presto, come dicono i contendenti, se Massimo Giannini riuscirà a fare numeri altrettanto importanti. Per intanto abbiamo letto con attenzione l’intervista rilasciata dal nuovo conduttore al «Corriere della Sera». Una cosa è parsa subito chiara: le intenzioni di partenza sono lodevoli. Giannini ha salutato «Repubblica» dopo 28 anni di onorato servizio per affrontare con passione le gioie e le insidie di un altro mestiere. Si prepara a scendere in pista con la consapevolezza di avere di fronte una sfida difficile: fare un passo avanti sulla via della conoscenza. I talk-show mostrano ormai da tempo vari segni di crisi: una crisi nei consumi ma anche nella formula. Dice Giannini: «Mi viene in mente un romanzo di Don De Lillo: Rumore bianco. Il chiacchiericcio politico è come un rumore di sottofondo che non lascia tracce: di rado alla fine della trasmissione, dopo aver ascoltato i vari ospiti, lo spettatore ha cambiato il suo modo di pensare. Credo sia superato concepire un talkshow come uno scontro tra due curve contrapposte, fin dalla costruzione fisica dello studio». E infatti la sua idea di talk è un’altra: «Non penso a due squadre una contro l’altra, ma a una soluzione più inclusiva. E poi i giornalisti dovrebbero essere in posizione terza, non schierati di qua o di là». Chissà se Giannini avrà i mezzi per percorrere questa strada.


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IA D E M N I N O C O S I V L E D A I IZ L U P A L R E P LI O C I T R A I T L MO

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Cultura e Spettacoli

Seguici, non te ne pentirai

30% DI RIDUZIONE

Teatro Comico, commovente

e impertinente Follow us conquista il pubblico in soli 20 minuti

Valentina Janner Amy Winehouse e Marilyn Monroe sono due icone che hanno segnato la storia dello spettacolo in due epoche molto diverse e che si sono entrambe distinte per forte carisma artistico, per presenza scenica prorompente, fragilità e narcisismo. Scelta azzeccata o rischio di cadere nel cliché la decisione di rappresentare due star tanto conosciute e amate? Hanno sicuramente osato e rischiato le due giovani performer di Destiny’s Children, il duo artistico composto dalle bernesi Mira Kandathil e Annina Machaz che ha vinto lo scorso maggio il premio per le giovani leve del Percento culturale Migros «Premio 2014» con la produzione Follow us, incentrata proprio sulle due mitiche figure. Questo short piece della durata di 20 minuti, rappresentato per la prima volta davanti al grande pubblico al Theater Spektakel di Zurigo tra il 21 e il 23 agosto, si è distinto per alcuni tratti originali abbinati a un’ottima interpretazione. Follow us coinvolge il pubblico fin dal primo istante, anzi, ancora prima che questo entri in sala e prenda posto. Infatti, mentre gli spettatori attendono in fila, Marilyn fa la sua prima apparizione, all’aperto, sulla Landiwiese in riva al lago di Zurigo, per comunicare che purtroppo, dopo la vincita del premio di 25’000 franchi, destinato all’ulteriore sviluppo e al perfezionamento della produzione, le due attrici si sono separate a causa di incomprensioni a livello artistico. Si esibiranno quindi separatamente. Dopo le scuse cerimoniose, Mira/Marilyn invita tutti ad accomodarsi in sala. Un’Annina irruente entra in scena e spiega, urlando, che il pezzo che lei e la sua collega stanno per rappresentare è la seconda parte di una trilogia (che verrà completata e rappresentata interamente nel 2015). Festeggia allora questo traguardo, stappando una bottiglia di champagne che condivide con il pubblico. Inizia così, o meglio, è già iniziato da dieci minuti, uno spettacolo che gioca sulle ambiguità, sull’alternanza di finzione e momenti di meta-narrazione, dove Mira e Annina raccontano e interpretano non solo Marilyn e Amy ma anche sé stesse. È la rappresentazione di un conflitto interiore, dove un’identità cerca di prevalere sull’altra, senza mai riuscirci per davvero, e di una lotta in cui un’artista cerca di imporsi sull’altra per attirare la luce dei riflettori su di sé. Si assiste a tipiche scene d’isteria da prima donna, di atteggiamenti so-

pra le righe o narcisistici. Solo davanti al microfono, durante l’interpretazione di canzoni che sono diventate cult, le due artiste si calmano e diventano per un breve istante le figure che intendono rappresentare, raggiungendo una sorta di serenità e di pace illusoria. Amy canta la celeberrima Back to black in un microfono-asciugacapelli, lo stesso che utilizza comicamente per sollevare la gonna plissettata di Marilyn, come nella famosa scena del film Quando la moglie è in vacanza di Billy Wilder. Le due icone vengono rappresentate secondo i cliché ben noti al pubblico, ma Amy e Marilyn sono contaminate dalla personalità di Annina e Mira. Come ad esempio durante l’esecuzione esilarante di Kemo kimo di Nat King Cole, quando Marilyn/Mira accompagna l’esibizione canora con passi di danza indiana. È resa abilmente la tensione creata dal conflitto tra due personalità, quella dell’artista e quella del personaggio, che vogliono primeggiare, senza mai riuscirci, ma anche tra due icone, troppo ingombranti per calcare la stessa scena. Una Amy, apparentemente più forte, cerca di sovrastare una Marilyn che, minacciata dalla collega, si accuccia in un angolino del palco. Quattro ruoli mettono qui in discussione la professione dell’artista, che fatica a mantenere la propria identità senza lasciarsi fagocitare da quella del proprio personaggio. Molto interessante e originale è il gioco reso anche dall’alternanza delle lingue parlate in scena, lo svizzero tedesco e l’inglese. Ciò che colpisce di questa breve performance è la capacità delle due interpreti-registe di provocare nello spettatore emozioni e reazioni diverse in così poco tempo: commozione, ilarità, perfino irritazione e disagio, come nel momento in cui Annina/Amy si spoglia e nuda aggredisce la compagna, cercando di obbligarla a spogliarsi a sua volta. L’interpretazione è indubbiamente efficace, la drammaturgia tuttavia risulta a tratti un po’ confusa e non pienamente convincente. Al termine della rappresentazione, da vere e proprie star, Mira e Annina rilasciano autografi e posano per delle fotografie. Come spiega Mira Kandathil al termine della rappresentazione, ciò che le ha spinte a interpretare proprio queste due icone «è il contrasto tra glamour e fallimento che ha caratterizzato le loro vite e la tensione fra tragicità e comicità che esso comporta. Due figure che sono dipendenti dall’ammirazione del pubblico, ma che allo stesso tempo sono impotenti e sole».

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Cultura e Spettacoli

Thompson e la sua chitarra Musica Vecchie e nuove suggestioni: l’ultimo

album di Richard Thompson incanta grazie a una magica rivisitazione acustica Benedicta Froelich Sebbene, da un punto di vista musicale, gli anni ’70 vengano perlopiù associati alle rivoluzionarie sonorità futuristiche proposte dalla musica «progressive» e dal «rock psichedelico» di gruppi come Pink Floyd e Grateful Dead, in realtà quel decennio tanto influente ha visto avvicendarsi sulla scena mondiale anche artisti che, seppur in modo forse meno appariscente, hanno lasciato un marchio duraturo anche sul cosiddetto «folk-rock» – un genere all’epoca meno in voga della pura sperimentazione lisergica, ma che visse comunque una stagione dorata grazie agli sforzi di band quali i colti e raffinati Fairport Convention, i cui album abbondano di riferimenti storici e influenze letterarie. Dopo il suo abbandono del gruppo (1971), il chitarrista e compositore Richard Thompson ha intrapreso una quarantennale carriera solista che lo ha definitivamente proiettato nell’olimpo dei grandi, al punto da essere oggi giustamente considerato uno dei migliori musicisti folk-rock contemporanei: la sua capacità di fondere con maestria le suggestioni del folk delle origini con le sonorità del rock anni 70 ne ha fatto una figura di riferimento, il che spiega forse la recente decisione di incidere un album autocelebrativo come questo nuovo Acoustic Classics – interamente composto, come il titolo suggerisce, da nuove versioni in chiave acustica di «classici»

del repertorio solista di Thompson. Certo, quando nomi storici del rock internazionale si producono in exploit di questo tipo, è innegabile che la maggior parte dei critici si chieda per quale motivo un artista affermato dovrebbe mai sentirsi in dovere di rimaneggiare nuovamente il proprio repertorio; tuttavia, come lui stesso ha diligentemente spiegato ai giornalisti, il buon Richard non sembra essere stato mosso da alcun bieco ragionamento commerciale, poiché la sua intenzione era quella di dare alle stampe un album in studio che potesse riflettere il tipo di lavoro nel quale è attualmente impegnato nelle apparizioni dal vivo – ormai perlopiù costituite da intensi set acustici, in cui il musicista offre al pubblico delicate e vibranti versioni «minimaliste» dei suoi successi. Così, dal momento che gli archivi personali di Thompson non offrivano materiale dalla qualità audio sufficientemente elevata da poter essere «riciclato» per una nuova pubblicazione, ecco che questo Acoustic Classics diventa per lui il primo album acustico pubblicato come solista da trent’anni a questa parte. E non ci sono dubbi sul fatto che

si tratti di un lavoro caratterizzato da grande espressività e potenza: fin dalla traccia di apertura, la celeberrima I Want to See the Bright Lights Tonight, si può chiaramente percepire il gusto con cui Thompson affronta la «conversione» del proprio repertorio, anche perché la cosa che più colpisce è la lucidità quasi integralista di un intero album registrato senza alcuna concessione a una strumentazione più ampia o all’accompagnamento da parte di una band. Ognuna di queste tracce presenta infatti all’ascoltatore esclusivamente Richard e la sua chitarra: una scelta quasi estrema, ma incredibilmente efficace, giacché la maestria dell’artista è tale da non far avvertire neanche per un momento la mancanza di ulteriori elementi all’interno di quello che, dall’inizio alla fine, è un set davvero intenso – anzi, il fatto di ascoltare un disco dagli arrangiamenti tanto scarni non fa che rimarcare una volta di più l’eccellenza di Thompson come chitarrista, così come la sua abilità nell’intessere, con appena pochi accordi, atmosfere avvolgenti e suggestive. In questo senso, i punti forti del disco sono brani come la ballata Wall of Death, il lento From Galway to Graceland e il romantico I Misunderstood, tutti esempi di interpretazione particolarmente intensa, mentre un classico come Valerie mostra invece il lato più ritmato e travolgente del songwriting

di Richard. Non mancano poi arrangiamenti dal piglio raffinato, come il gusto jazzato di Shoot Out the Lights o gli splendidi arpeggi di Beeswing, che ben sottolineano la natura struggente dei brani più intimisti dell’artista; così, sebbene la chitarra manchi a tratti della corposità che ci si aspetterebbe da simili esecuzioni, ciò è bilanciato dalla calda flessuosità della voce di Thompson, tanto che perfino pezzi considerati come ormai risaputi e fin troppo popolari (si vedano 1952 Vincent Black Lightning o Dimming of the Day) ritrovano qui un nuovo e rinnovato senso d’essere. E in effetti, la tracklist è perfettamente bilanciata tra le varie sfumature stilistiche di cui la creatività di Thompson è capace, tanto che la scelta dei brani fa di Acoustic Classics una funzionale quanto opportuna introduzione al suo lavoro, superando i confini del gradevole esercizio di stile per rappresentare una proposta attraente sia per i fan dell’artista sia per i neofiti: il perfetto antipasto in attesa di un nuovo album di inediti, che di certo un fuoriclasse come Richard Thompson non mancherà di donare presto al suo fedele pubblico.

La tristezza raggiunge Venezia

Mostra del cinema Molte le opere che ricalcano situazioni

di crisi, di drammi personali e collettivi Piero Zanotto Com’è triste Venezia, cantava Aznavour. Un verso adattabile a (quasi) tutto il cinema passato sugli schermi della 71ma Mostra appena conclusa in laguna che con la malinconia, il disagio e il dolore ha riempito ogni programma. Non ne è stato esente nemmeno un emblematico film svedese, di Roy Andersson, dal titolo chilometrico Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza, che puntava alla risata attraverso un intelligente umorismo surreale, alla Ionesco. Figure centrali, due imbranati venditori di maschere carnevalesche di vampiro. Lontani dal pensare che il direttore Alberto Barbera con i suoi consulenti abbia scelto con precisa intenzione. Ovvio che abbia puntato sulla qualità dei singoli film, forniti da una produzione cinematografica mondiale in grandissima parte appunto condizionata da profonde reali crisi esistenziali. Nel ricordo di guerre lontane e vicine, di violente intolleranze e dittature devastanti per interi popoli. Da citare ad esempio The Cut di Fatih Akim, tedesco di origine turca; Ghessea (Racconti) dell’iraniana Rakhshan Banietemad; The Look of Silence dell’americano, ora europeo, Joshua Oppenheimer, sconvolgente documento sul genocidio indonesiano; Tsili dell’israeliano Amos Gitai. Estrema visione degli orrori cui può portare la guerra fino al cannibalismo è nel film giapponese di Shinya Tsukamoto Nobi. Fuochi nella pianura, sugli ultimi giorni del secondo conflitto mondiale popolati di cadaveri straziati dei quali si ciba il solitario sopravvissuto soldato Tamura (interpretato dallo stesso regista) in un’isola delle Filippine. Barbera è riuscito a raggruppare opere di bel linguaggio e di forte impatto drammatico dovute ad autori ostacolati talora da feroci censure e sadici ostracismi. Quindi in parallelo crisi e ambasce personali vissute all’interno delle società così dette del benessere. Tanto da portare paradossalmente qualche critico a cercare pause rilassanti nella visione di film del passato fatti rinascere da eccelsi «restauri» e riuniti nella apposita sezione Venice Classics. Personalmente emozione vissuta con la magica visione di I Racconti di Hoffmann, eccezionale melange di musica canto balletto e cinema dovuto nel 1951 al duo registico britannico Michael Powell e Emeric Pressburger, adattamento in tre parti dell’opera di Offenbach. Altre pause per il pubblico dei fan erano offerte dalle sfilate dei divi. Uno di questi, festeggiato fino al delirio, l’Al Pacino protagonista, in veste di sconfitto, di due film: Manglehorn di David G. Green e The Humbling di Barry Levinson. Semplicemente grandioso il film egualmente statunitense, inaugurale del festival, Birdman, di Alejandro G. Inarritu: schermaglia sulla vita di due attori, tra Broadway e Hollywood, insidiata dai mutamenti imposti ormai da Yuotube, Twitter, e vari social. Su una sceneggiatura e dialoghi folgoranti. Interpreti al massimo Michael Keaton e Edward Norton. Indifendibili invece per la loro esplicita provocatorietà sia la riproposta integrale di Nymphomaniac di Lars von Trier, il cui dettagliato sesso esplicito ha fatto uscire a schermo acceso più spettatori; sia il film italiano La vita oscena di Renato De Maria che stenta a trovare un distributore. Un intenso percorso di immagini che, al di là delle decisioni della giuria del concorso, presieduta per la prima volta nella storia della Biennale-cinema da un musicista, Alexandre Desplat,

Michael Keaton e Edward Norton in una scena di Birdman.

grazie a uno sfoltito calendario di proiezioni confortate da sofisticate innovazioni tecnologiche e ampliamenti apportati alla Sala Darsena che affianca il Palazzo del Cinema, ha portato all’emersione di più opere di alto risultato. È avvenuto con la terna dei film italiani in gara: Anime nere di Francesco Munzi sulla mafia calabrese nell’Aspromonte (uno dei protagonisti è Peppino Mazzotta, noto come braccio destro del commissario Montalbano: ottimo), racconto di dura asprezza; Hungry Hearts di Saverio Costanzo che ha trasferito a New York le pagine padovane del romanzo Il bambino indaco del veneto Marco Franzoso, intensa drammatica vicenda costruita su una giovane madre, Alba Rohrwacher, che denutre il suo piccolo convinta di preservarlo dagli inquinamenti del mondo esterno; infine il più difficile e rischioso Il giovane favoloso di Mario Martone, ovvero Leopardi, poeta di straordinaria filosofia umana interpretato da Elio Germano. Stilisticamente ineccepibile. Rigorosissimo e infine appassionante. Cinema italiano in gran forma. Lo ha confermato Gabriele Salvatores con il suo Italy in a day, che riprendendo un’idea di Ridley Scott, ha selezionato e montato un numero incredibile di materiali filmati con qualsiasi mezzo da chi, italiano di ogni età, avesse voluto inviarglieli, testimonianza della propria quotidianità. Specchio di una umanità

Top10 DVD & Blu Ray 1. Rio 2

Animazione Novità 2. Noah

R. Crowe, E. Watson 3. 12 anni schiavo

M. Fassbender, C. Ejiofor Novità

che si accontenta. Con sostanziale poesia. Rimanda al Cesare Zavattini anni Cinquanta quando auspicava l’uso della cinecamera per pedinare, di nascosto, in strada fino al posto di lavoro, l’uomo (o la donna) qualunque. Per la Francia va citato almeno il film sentimentale e di morbida commozione 3 Coeurs di Benoit Jacquot. Cast stellare: Catherine Deneuve, Chiara Mastroianni, Charlotte Gainsbourg e Benoit Poelvoorde. Attore che buca lo schermo, qui impiegato in un intreccio senza sfogo, alla fine deludente. Coprotagonista, Poelvoorde, assieme a Osman Bricha, di La Rançon de la gloire che per mano di Xavier Beauvois (produzione franco-belga-svizzera) ricostruisce in libertà il trafugamento negli anni 60 presso il lago di Ginevra della bara col corpo di Charles Chaplin, da parte di due ingenui balordi. Tono agrodolce con qualche lacrima e l’indulgenza del tribunale, in linea col pensiero chapliniano sempre in difesa di deboli ed emarginati. Nel cast anche due Chaplin: Dolores ed Eugène. Colonna sonora di Michel Legrand, compositore d’elezione della Nouvelle Vague. Rielabora con emozionante valore psicologico l’indimenticabile tema di Limelight. «Serve a ricordarci – ha scritto pertinentemente il critico musicologo veneziano Roberto Pugliese – che Charlot si è reincarnato, attraverso la sua musica, nei due disgraziati ladruncoli».

Top10 Libri 1. John Green

Colpa delle stelle, Rizzoli 2. Markus Zusak

Storia di una ladra di libri, Frassinelli 3. Joël Dicker

La verità sul caso Harry Quebert, Bompiani

4. Divergent

S. Woodley, J. James

4. Gianrico Carofiglio

Una mutevole verità, Einaudi 5. Captain America 2

C. Evans. S. Johansson

5. Paulo Coelho

Adulterio, Bompiani 6. Storia di una ladra di libri

S. Nélisse, G. Rush

6. Sveva Casati Mondignani

Il bacio di Giuda, Electa Novità 7. 47 Ronin

K. Reeves, C. Tagawa 8. La Bella e la Bestia

7. Geronimo Stilton

Nono viaggio nel regno della fantasia, Piemme Novità

V. Cassel, L. Seydoux 8. Andrea Camilleri 9. Supercondriaco

La piramide di fango, Sellerio

D. Boon, K. Merad 9. Marcello Simoni 10. Pompei

L’abbazia dei cento peccati, Newton

K. Harington, E. Browning 10. Andrea Camilleri

Donne, Rizzoli Novità


300 prodotti a km zero genuini e ticinesi. I Nostrani del Ticino sono la riscoperta dei sapori locali e provengono esclusivamente da aziende ticinesi che ne garantiscono la qualità , la freschezza e la genuinità . Essi rappresentano l’impegno concreto e coerente nel sostenere agricoltori, allevatori e produttori alimentari della nostra regione.


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Idee e acquisti per la settimana

shopping Gustare il pesce consapevolmente Pesce fresco Tutto il pesce al banco della Migros proviene da fonti sostenibili. In questa

e nelle prossime edizioni i responsabili delle nostre pescherie vi consiglieranno alcune prelibatezze. Approfittate inoltre del buono sconto del 10% da ritagliare accluso (1. di 4 puntate) José Teixeira, responsabile della pescheria di Migros S. Antonino: l’orata è uno dei suoi pesci preferiti. (Flavia Leuenberger)

«L’orata è uno dei miei pesci preferiti», ci dice José Teixeira, responsabile della pescheria al supermercato Migros di S. Antonino. «Di questo pesce apprezzo il gusto delicato, la carne soda e povera di lische, nonché la sua versatilità culinaria, visto che è ottima cucinata nei più svariati modi: al vapore, arrostita, grigliata, bollita, fritta oppure ancora cotta al forno». L’orata si caratterizza per la sua forma ovale, il dorso azzurrognolo dorato o verde oliva luccicante e la striscia lucente di colore oro posta all’altezza degli occhi e da cui deriva appunto il nome. «Attualmente – prosegue José – consiglio di provare l’ottima orata proveniente da allevamenti bio». Così facendo, non solo si sceglie un prodotto di qualità, ma si salvaguarda anche l’ambiente, contribuendo al mantenimento della popolazione ittica mondiale e dell’ecosistema. I pesci bio sono allevati nel rispetto della specie in condizioni che corrispondono al loro habitat naturale, dispongono di ampi spazi in cui nuotare e ricevono alimenti certificati bio. Per saperne di più

generazione-m.ch

Bio è sinonimo di un allevamento sostenibile e rispettoso della natura. I pesci sono nutriti con mangime biologico e vivono in bacini d’acqua dolce o salata, particolarmente ampi. Controlli e certificazioni indipendenti. Parte di

Generazione M è il simbolo dell’impegno sostenibile della Migros. Migros Bio ne fornisce un prezioso contributo.

Orata con trito d’erbe e mandorle Piatto principale per 4 persone

Preparazione 1. Scaldate il forno a 180 °C. Sciacquate le orate sotto l’acqua fredda e tamponatele. Condite all’interno e all’esterno con sale e pepe. Tagliate a fettine i limoni. Distribuitene la metà su due teglie foderate di carta da forno. Adagiatevi le orate. Farcite i pesci con

le fettine di limone restanti. Spennellateli d’olio e cuocete al centro del forno per ca. 25 minuti. 2. Per il trito, nel frattempo, tritate le mandorle, l’aglio e le erbe aromatiche. Mescolate il tutto. Unite l’olio e condite con sale e pepe. Servite subito con il pesce. Tempo di preparazione 20 minuti + cottura in forno ca. 25 minuti.

Ricetta di:

su tutto l’assortimento di pesce fresco in vendita al banco pescheria

Ingredienti 4 orate già pulite di ca. 350 g; sale, pepe; 3 limoni bio;1 cucchiaio d’olio d’oliva. Trito d’erbe e mandorle: 100 g di mandorle intere spellate; 1 spicchio d’aglio; 1 mazzetto d’erba cipollina; ½ mazzetto di dragoncello; 1 mazzetto di prezzemolo; 2 cucchiai d’olio d’oliva; sale, pepe.

BUONO SCONTO 10% di riduzione Validità: dal 9 al 13.9.2014 / Nessun importo minimo d’acquisto Buono utilizzabile nelle filiali Migros di Locarno, Lugano (Via Pretorio), Serfontana e S. Antonino. È possibile utilizzare un solo buono sconto originale per acquisto. Non cumulabile con altri buoni sconto.


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Idee e acquisti per la settimana

A N G NI s 14 SE RA INO gro 20 AS T C i re R OS TI li M mb N EL ia te D fil set lle 2 ne al 2 o fin

Il Formaggio Alpe Prato DOP Attualità Una prelibatezza leventinese di latte vaccino e caprino

Guerino Celio, presidente della Corporazione Boggesi Alpe di Prato. (Giovanni Barberis)

La pioggia, ma soprattutto il freddo di quest’anomala estate, hanno rallentato i ritmi della natura. Ma gli alpigiani sono abituati a seguire queste cadenze, come ci conferma Guerino Celio, agricoltore di Varenzo: «Tutto dipende sempre dai ritmi della natura». Guerino Celio è pure il presidente della Corporazione Boggesi Alpe di Prato di Ambrì che, come consuetudine, anche quest’anno ha caricato l’omonima alpe leventinese. Verso metà giugno, e presumibilmente fino a metà settembre, mandrie e alpigiani hanno potuto trasferirsi in montagna. I pascoli dell’alpe di Prato si sviluppano in tre corti diverse (Prato, Garzonera e Corte di Lago), tra i 1700 e i 2300 metri di altitudine, dove le circa 75 mucche brucano il prezioso foraggio. Il latte munto confluisce nella caldaia del casaro, nel caseificio di Prato, dove ogni giorno viene lavorato il prezioso liquido. Il formaggio Alpe di Prato è composto da latte vaccino (90%) e latte caprino (10%), prodotto nelle rinnovate strutture, dove avviene pure la stagionatura. Trascorsi i primi 60 giorni dall’inizio dell’alpeggio e superati i controlli della commissione, il formaggio può essere immesso sul mercato con il marchio DOP. Ognuno dei sei Boggesi (con Guerino Celio anche Aldo Celio, Daniele Mona, Franco Celio, Florio Celio e Germano Juri), a fine stagione può ritirare la sua parte di formaggio, in base a quanto prodotto dal proprio bestiame. Le forme arrivano quindi al consumatore che, anche presso i banchi formaggio Migros,

Il gustoso formaggio Alpe di Prato DOP, 100 g Fr. 3.25.

può trovare il gustoso Alpe di Prato. Un formaggio che, anche grazie alla sua percentuale di latte di capra, sa distinguersi nella ricca e variegata offerta alpestre. Ma che tipo di formaggio dobbiamo aspettarci? Lo abbiamo chiesto a Renato Bontognali, ispettore DOP ed esperto assaggiatore: «Il controllo DOP definitivo viene effettuato solo nel corso della prima quindicina di settembre, ma riferendomi alle passate stagioni posso dire che si tratta di un formaggio semiduro grasso, con una crosta artigianale tipica di colore marrone grigiastro. La pasta è elastica di colore giallo paglierino, mentre il sapore e l’aroma sono sia lattici di panna e burro, sia vegetali di erba fresca e fiori con sfumature di sottobosco, questo grazie alla

ricca biodiversità dei pascoli della zona. Quando è più stagionato, il formaggio Alpe Prato scopre anche degli aromi di frutta secca come nocciola». Non ci resta che gustarlo. / Elia Stampanoni

L’Alpe di Prato.

Dopo 50 anni di continui miglioramenti qualitativi, il formaggio d’alpe ticinese è ormai riconosciuto come una vera specialità. Nel 2002 gli è stata conferita la prestigiosa DOP (Denominazione di Origine Protetta). Essa garantisce che il formaggio sia prodotto sull’alpe con latte crudo munto il loco nel rispetto di specifiche direttive igieniche e tecniche. La DOP

inoltre garantisce la rintracciabilità del prodotto ed un invecchiamento di almeno 60 giorni nella cantina dell’alpe. A partire dai dieci mesi di affinamento, il formaggio d’alpe ticinese DOP viene contrassegnato con la specifica fascia argentata portante la dicitura «stagionato». Ulteriori informazioni: www.stea.ch.


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Idee e acquisti per la settimana

Una scatola di frizzante freschezza Attualità Gazose nostrane assortite in una nuova confezione ad edizione limitata

tutta da collezionare

Flavia Leuenberger

Da oggi alla Migros la gazosa nostrana si presenta con una sorpresa. Infatti potrete trovare un assortimento di 2 gusti diversi, per un totale di 12 bottiglie, in una confezione in edizione limitata. Dopo il successo riscosso dalla collezione di vassoi dalla grafica retrò, curata da Sergio Simona, la gazosa nostrana torna con un bell’omaggio per tutti gli appassionati collezionisti. Le tre grafiche vengono riproposte sotto forma di splendide scatole di latta, capienti e versatili, che possono essere utilizzate per conservare biscotti, custodire penne e matite colorate o, perché no, vecchie foto, lettere e cartoline. Non capita di rado che prodotti della tradizione evolvano adattandosi ai tempi, non solo nella veste grafica ma nel confezionamento e nella proposta dei gusti. Così anche per la gazosa, prodotto tipicamente ticinese che ha saputo reinventarsi per tornare vivacemente sulle nostre tavole negli ultimi anni. Dalla nostalgica bottiglia con la baleta, passando dalla più classica chiusura a macchinetta – tipica dei grotti – fino ad arrivare al più moderno e sicuro tappo a corona. Quest’ultimo sistema permette di aderire ai più severi standard di sicurezza, garantendo la massima igiene e sterilità delle gazose nostrane Migros, disponibili ai gusti mirtillo, limone, mandarino, sambuco, lamponi, uva americana e castagne. / Luisa Jane Rusconi Gazusa Nustrana con scatola serigrafata omaggio 12 x 28 cl Fr. 10.20 Fino ad esaurimento dello stock.

Flavia Leuenberger

Móst: dolcezza 100% naturale

Limpido, dorato, dolce. Per placare la sete in tutta dolcezza, e senza sensi di colpa, Migros propone nella sua gamma di prodotti nostrani il «Móst», succo di mele prodotto esclusivamente con frutta coltivata in Ticino. Non è dato a sapersi se il termine dialettale móst, o anche mosto, derivi da una contaminazione culturale con il termine tedesco Süssmost piuttosto che dal latino mustum, ovvero succo novello – che sia di uva o altri frutti – non ancora fermentato. Certo è che la deliziosa bevanda nostrana è una buona alternativa per rinfrescare le ugole senza eccedere con gli zuccheri. Infatti il mosto nostrano di Migros Ticino è un prodotto che riesce a soddisfare i palati più golosi di dolci in maniera

del tutto naturale, sfruttando la carica zuccherina del solo frutto. L’azienda Sicas, che trasforma le mele in delizioso nettare, cura scrupolosamente ogni fase del processo produttivo, soprattutto la pastorizzazione che permette di ottenere un prodotto 100% naturale, privo di conservanti e additivi. Solo le mele migliori vengono selezionate, prima spremute a freddo e poi accuratamente filtrate permettendo di ottenere un liquido trasparente e dorato, freschissimo e dissetante. Il massimo della qualità e della genuinità per un nettare tutto nostrano! / Luisa Jane Rusconi Succo di mele nostrano – Móst 50 cl Fr. 2.50


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Idee e acquisti per la settimana

È arrivato il nuovo catalogo Micasa!

Originali spazi abitativi arredati in stile scandinavo, mobili dal look retrò, accessori provenienti da paesi lontani: questi sono i segni distintivi che caratterizzano le nuove collezioni presentate nel catalogo Micasa 2014/2015. Come sempre Micasa è attenta alle tendenze più attuali e vi invita ad immergervi in questi affascinanti mon-

di d’arredo lasciandovi ispirare dalla vasta possibilità di scelta all’insegna della qualità a prezzi interessanti. Dal sobrio ma elegante tavolo da pranzo, all’originale divano letto studiato nei minimi dettagli, agli attraenti barattoli per dispensa, ai tappeti taftati a mano fino alla biancheria da letto in cotone biologico: i clienti trovano da

Micasa tutto e di più in fatto di arredamento. Micasa soddisfa le esigenze di tutti: sia delle giovani famiglie che delle persone alle prese con il primo arredamento, come pure dei clienti sempre alla ricerca di idee frizzanti d’arredo. Il nuovo catalogo è disponibile presso la filiale Micasa di S. Antonino oppure su www.micasa.ch.

Un pomeriggio in Vallemaggia Porte aperte Visita esclusiva per 20 lettori di Azione

alla Panetteria-Pasticceria Poncini di Maggia, il pomeriggio di giovedì 25 settembre Produttrice di specialità festive quali la Triestina al cioccolato e le praline alla frutta (durante il periodo natalizio), nonché della tradizionale Colomba pasquale, grazie alla lunga esperienza – con Luca Poncini siamo alla quarta generazione – e alla genuinità dei suoi prodotti la Panetteria-Pasticceria Poncini di Maggia ha saputo conquistare il palato di molti clienti di Migros Ticino. Ma non finisce qui. Anche al di fuori delle festività i golosoni amanti delle specialità firmate Poncini non restano a bocca asciutta, dal momento che sugli scaffali possono trovare un’altra delizia preparata da Luca Poncini nel suo laboratorio di Maggia: la soffice Veneziana

Sole. Come per gli altri dolci, anche la Veneziana Sole è priva di conservanti e coloranti ed è realizzata artigianalmente con ingredienti accuratamente sele-

Iscrizione 20 adulti potranno visitare la Panetteria-Pasticceria Poncini di Maggia, giovedì 25 settembre, dalle 13.30 alle 15.00 circa. Per iscriversi è necessario telefonare al numero 091 840 12 61, martedì 9 settembre dalle 10.30 alle 11.30.

zionati, dove spicca un’alta percentuale di burro e tuorli d’uovo nonché l’utilizzo di lievito madre naturale prodotto in loco. Per convincervi anche voi della bontà dei prodotti Poncini, correte a iscrivervi al pomeriggio di porte aperte del prossimo 25 settembre (v. box).

Luca Poncini attende la vostra visita.

Dolci sapori autunnali

Voglia di un dessert o di una merenda all’insegna della stagionalità? In questo caso correte nei Ristoranti e De Gustibus di Migros Ticino perché, con l’arrivo dell’autunno, ripropongono alcune bontà a base di castagne tipiche della nostra tradizione. Considerate un tempo un cibo fondamentale, soprattutto presso le popolazioni montane che le chiamavano «pane dei poveri», le castagne sono un alimento

ad alto valore nutritivo, poiché ricche di minerali, carboidrati, vitamine e fibre. Ispirati da questo frutto nobile, gli abili pasticceri della pasticceria artigianale hanno creato prelibati dolcetti quali la tarteletta, il tulipe oppure l’immancabile diplomate ai vermicelles. Inoltre, ma solo per un breve periodo, troverete anche la torta di castagne, un vero tripudio di sapore.


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Idee e acquisti per la settimana

Il barometro dei prezzi

In Toscana con Parmacotto Marco Cortesi di Lugano è il fortunato vincitore del grande concorso Parmacotto indetto lo scorso mese di giugno da Migros Ticino. Grazie al noto prosciutto cotto italiano in vendita nei supermercati Migros il signor Cortesi si è aggiudicato un fine settimana per

due persone tutto incluso del valore di Fr. 2500.– a San Gimignano, in Toscana, comprensivo di visita della città, del Salumificio Piacenti di proprietà del gruppo Parmacotto, come pure della possibilità di visitare le affascinanti località vicine di Certaldo,

Siena, Perugia e Firenze. Nella foto la consegna dell’ambito premio con, da sinistra, Patrick Dodi, responsabile assortimento carne e salumeria di Migros Ticino; il vincitore e Angelo Ronchetti, export sales manager Parmacotto.

Informazioni sui cambiamenti di prezzo

Migros riduce mediamente del 12 per cento i prezzi di diversi prodotti per la pulizia del viso. Si tratta di specialità delle marche Nivea, Ganier, L’Oréal e della marca propria I am. Un rincaro si registra invece nel

Giovanni Barberis

Alcuni esempi:

settore dei gelati e di altri prodotti contenenti cioccolata: la misura è motivata dal forte apprezzamento registrato sui mercati borsistici da materie prime come cacao e burro di cacao.

Prezzo vecchio in Fr.

Salviettine detergenti rinfrescanti Nivea, 25 Pz I am salviette delicate, 25 Pz Garnier Pure 3in1 Gel+peeling+maschera, 150ml Nivea pure effect gel Wash-off, 200ml I am CLEAR gel detergente, 150ml Garnier Pure Active Lozione anti-brufoli 200ml I am CLEAR Dischetti det., 40 Pz Gelato blocchetto vaniglia/ciocc., 6 x 70ml Mini Mix, 9x62ml Choquello Praline, 8x82ml Petit Beurre Chocolat au lait 150g Blévita Biscotti 5 cereali Choco&Sesam 267g

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Idee e acquisti per la settimana

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Balance preparazione a base di olii vegetali 50 cl Fr. 5.30

Foto: Christian Dietrich; Styling: Mirjam Käser

Sapore di burro La nuova Balance au Beurre, oltre ai vantaggi di una margarina, offre l’autentico sapore del burro. Contiene acidi grassi insaturi e preziose vitamine

L’Industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui i prodotti Balance della Mibelle.

In realtà Napoleone era semplicemente alla ricerca di un prodotto simile al burro, facilmente conservabile, da spalmare sul pane dei suoi soldati: e s’imbattè nell’invenzione della margarina. Oggi questo sostituto del burro è apprezzato in particolare dalle persone attente a un’alimentazione equilibrata. Chi ama il burro e prova la nuova Balance au Beurre, ora non deve più nemmeno rinunciare al consueto sapore. L’autentico gusto di burro della margarina fa proprio venir voglia di spalmarla in abbondanza sui cornetti freschi, il che riesce con gran facilità in quanto questo prodotto vegetale si può spalmare benissimo non appena tolto dal frigo.

Adatta anche per cuocere in padella e al forno

Il consumo giornaliero di tre o quattro fette di pane integrale spalmato di margarina Balance contribuisce al mantenimento di un normale livello di colesterolo. La Balance au Beurre contiene inoltre tre vitamine ed è ricca degli acidi grassi insaturi Omega 3 e 6. La margarina è anche adatta per cuocere in padella e al forno. Per arrostire carne, pesce e verdure ad alte temperature, la preparazione Balance a base di olii vegetali è la scelta migliore. / JV

Come cominciare bene la giornata: aria fresca, frutta fresca, cornetti freschi, accompagnati da Balance au Beurre, che ha il sapore del burro ma offre i vantaggi di una margarina.


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Idee e acquisti per la settimana

Le saporite Cup Lovers sono pronte in un attimo e possono essere gustate direttamente dalla tazza.

La torta pronta in un minuto Per la preparazione superveloce di una leccornia con la nuova miscela in polvere Cup Lovers, bastano un po’ di latte e un forno a microonde

Si prendano quattro cucchiai di latte freddo, una tazza e un forno a microonde. Quel che manca per godersi senza grossa spesa un raffinato dessert (e per offrirlo a qualche ospite a sorpresa) sono una bustina di preparato in polvere Cup Lovers e qualche minuto di tempo. A quel punto tutto può procedere velocemente e con semplicità: ■ Mettere il latte nella tazza. ■ Aggiungere la preparazione in polvere e mescolare fino ad ottenere una pasta compatta. ■ Porre la tazza per un minuto nel forno a microonde. Ding! Il pasticcino saporito è pronto per essere gustato direttamente dalla tazza col cucchiaino. Ora c’è solo un problema: che tipo

scegliamo? I Cup Lovers, che in questa modalità di preparazione sono una novità sul mercato svizzero, sono disponibili nel sapore di Cake al limone, con una nota fruttata e rinfrescante, oppure come Cake tirolese, dal gusto tradizionale di cioccolata e nocciole. Le miscele in polvere vengono preparate esclusivamente con aromi naturali. La stessa cosa vale per la crema alla vaniglia, che completa l’assortimento. Chi ha non a disposizione un forno a microonde non deve preoccuparsi: i pasticcini possono essere preparati perfettamente anche in un normalissimo forno, mentre la crema può essere cucinata sul fornello. La cottura dura solo un paio di minuti in più. / HB

Cup Lovers Cake al limone 1 porzione, 80 g Fr. 1.60

Cup Lovers Cake tirolese 1 porzione, 80 g Fr. 1.60

Cup Lovers Crema alla vaniglia 1 porzione Fr. 1.20

L’industria Migros produce molte delle più amate specialità Migros. Tra queste ci sono anche le Cup Lovers.


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Idee e acquisti per la settimana

Benvenuti ad Aquantis!

Pronti, partenza, via!

Dove trovarli

Per la nuova Mania è a disposizione un kit di partenza: comprende l’album di raccolta, un sacchetto, un poster con la pista per la corsa e il primo joker: la regina del clan Wibbi, Wiley. Dato che Wiley raccoglie raggi di sole sulla superficie marina, nell’oscurità risplende tutta dorata. Kit di partenza Fr. 5.–

Per ogni acquisto del valore di fr. 20.– ricevete un sacchetto con un Captor e un autocollante*. Disponibile in tutte le filiali Migros, nei Do it + Garden Migros, melectronics, Micasa, SportXX compreso Outdoor, OBI o su LeShop ch. *al massimo 10 sacchetti per acquisto (fino a esaurimento)

Dagli abissi marini, un nuovo modo di collezionare e giocare ha conquistato la terraferma: la Captormania

Inspirare a fondo e tuffarsi: benvenuti ad Aquantis, una città sommersa da qualche parte sul fondo del mare. Qui vivono i cinque clan dei Captors, con le loro diverse virtù e pecche, e in realtà convivono in modo del tutto pacifico. La maggior parte del tempo, in ogni caso. Ma una volta all’anno, in vista della grande gara dei sottomarini per il dominio di Aquantis, nella città sottacquea l’atmosfera si fa incandescente:

quale clan vincerà la gara e potrà regnare per un anno su Aquantis? Anche i jolly, i re dei cinque clan, non mancano di presenziare alla gara dei sottomarini e di incoraggiare i propri clan dalle loro VIP-Lounge. Quali giochi si possono praticare con i Captors magnetici, come si possono risvegliare alla vita mediante App e tutto quanto si può vincere nella Captormania lo trovate su www.captormania.ch. / NO

Le dimore dei Captors Affinché i Captors non si disperdano selvaggiamente nella camera dei bambini, c’è il Captorbox: offre spazio per tutti i Captors e serve anche conme piazza da gioco: nel coperchio si trova un bersaglio al quale i Captors, fortemente magnetizzati, restano attaccati. Fr. 9.80 Per il trasporto è adatto il Captortubo, nel quale trova posto un intero clan. Fr. 2.50

Mivas: le teatrali regine

Wibbis: i giocosi

Aimos: i saggi

Snips: gli inventori

Tarks: gli impetuosi

Aspetto: calamari Domicilio: anfiteatro Carattere: non possono mancare a nessuna festa. Le stravaganti Mivas offrono sempre indimenticabili spettacoli: cantano, recitano, attirano l’attenzione e incantano col loro look luccicante. Sottomarini: i compagni di gara delle Mivas, in pink, attirano gli sguardi coi loro giganteschi tentacoli. Il diamante che brilla sulla torretta serve ad accecare gli avversari durante la gara. Condottiera: uscire di casa senza trucco? Mai! Marlin è vanitosa e si mette volentieri in mostra. Se perde una gara, sbatte le sue lunghe ciglia fin quando riceve un premio di consolazione.

Aspetto: pesci anemone Domicilio: campo di anemoni Carattere: questi pesci guizzanti sono creature allegre, socievoli, che preferiscono giocare piuttosto che gareggiare. Oltre ai Wibbis, nessuno nuota nel campo degli anemoni. Perché negli altri abitanti del mare le piante suscitano reazioni allergiche: puntini verdi che prudono molto. Sottomarini: sono rotondi, gialli e muniti di periscopio. Più in fretta viaggiano, più bolle di sapone si sprigionano dalla loro grande turbina. Condottiero: Wino, sempre gentile, cura i campi di anemoni e bada che i piccoli non facciano disastri.

Aspetto: tartarughe marine Domicilio: università Carattere: se non ci fosse il clan degli Aimos, ad Aquantis regnerebbe il caos. Dal momento che sono gli abitanti marini più pacifici e bonari, gli Aimos ricevono spesso la visita degli altri, per appianare i dissidi. Perfino i selvaggi Tarks rispettano il giudizio degli Aimos. Sottomarini: dal momento che i loro sottomarini sono camuffati da corazze di tartaruga, spesso se ne sottovaluta la velocità. Attenzione! Condottiera: Quel cappello! Aristota è la più saggia di tutti ed è invidiata da molti per il suo cappello accademico.

Aspetto: astici e gamberi Domicilio: vecchio tempio Carattere: Gli Snips sono gli Archimede Pitagorici di Aquantis. Chi vuole rinnovare o riparare il suo sottomarino, si rivolge agli Snips. A volte gli esperimenti non vanno proprio a buon fine, e tutta Aquantis trema. Sottomarini: gli Snips sono inventori abilissimi, lo si vede dai loro sottomarini altamente tecnologici. Sono mossi dai riflessi di luce dei mari e possono addirittura sparare degli arpioni. Condottiero: Sax è l’inventore del primo sottomarino. Ha sempre qualche lampo di genio, anche se piuttosto pazzo.

Aspetto: pesci predatori Domicilio: fortezza Carattere: nessuno vorrebbe incontrarli al buio. I Tarks sono forti, veloci, selvaggi, e a volte anche litigiosi. Però sono anche apprezzati perché provvedono alla sicurezza di Aquantris. Sottomarini: quei veicoli neri hanno un’aria minacciosa, muniti di numerosi aculei metallici e di denti aguzzi. Nelle gare i Tarks sono avversari temuti, ma sorprendentemente sono anche buoni perdenti. Condottiero: Timor nuota tutto il giorno con lo sguardo torvo attraverso Aquantis per controllare che tutto sia a posto.


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Idee e acquisti per la settimana

Con i sandwich Blévita lo spuntino è incredibilmente gustoso.

I cracker raddoppiano Con i Blévita Sandwich i piccoli attacchi di fame non hanno più scampo Una delle marche proprie Migros più apprezzate, che lancia regolarmente nuovi innovativi prodotti, è Blévita. Da quando, nel 1969, è stato lanciato il primo gustoso cracker ai cereali, la gamma si è regolarmente ampliata e oggi include un gran numero di varietà. Tale dinamismo è determinato dalla capacità della Midor SA di adattarsi continuamente alle esigenze della clientela. Quanto importante sia questo aspetto emerge in tutta evidenza dall’esempio dei Sandwich. Se si volesse spalmare su un cracker croccante un prodotto a scelta, la cosa si rivelerebbe un po’ complicata. Il che sarebbe naturalmente scomodo, soprattutto quando si è fuori casa e comincia a farsi sentire un certo languorino. Così la Midor SA ha deciso di mettere anco-

ra una volta alla prova il suo centro di sviluppo e innovazione: ne è nato un nuovo prodotto in grado di soddisfare i desideri della clientela: il Blévita Sandwich.

Blévita Sandwich Yogurt/Frutti di bosco 4 porzioni/216 g Fr. 5.30

Blévita Sandwich Erbe 4 porzioni/216 g Fr. 5.30

Tre varietà per ogni gusto

Da ormai un anno i Sandwich completano l’assortimento Blévita. Chi cerca uno spuntino che sia al contempo gustoso e nutriente troverà pane per i suoi denti. E avrà la possibilità di scegliere tra tre differenti aromatici ripieni a base di ingredienti naturali: yogurt/frutti di bosco sorprende con il suo ripieno cremoso e leggermente zuccherato. Chi invece preferisce i sapori salati, opterà per i Sandwich con erbette e formaggio fresco oppure per la versione mediterranea con olive e pomodori. / JV

Blévita Sandwich Olive/Pomodori 4 porzioni/216 g Fr. 5.30 Nelle maggiori filiali.

L’industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui i cracker e sandwich Blévita.


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Spezzatino di maiale, TerraSuisse Svizzera, imballato, per 100 g

Galletto speziato Optigal, Svizzera, in conf. da 2 pezzi, per 100 g

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Tutti i tipi di orata 20% di riduzione, per es. orata reale*, 300–600 g, d’allevamento, Grecia, per 100 g, fino al 13.9

Racks d’agnello Nuova Zelanda / Australia, imballati, per 100 g

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Tutti gli zwieback 20% di riduzione, per es. Original, 260 g

Tutte le chips Zweifel da 170 g, 280 g e 300 g 1.– di riduzione, per es. alla paprica, 280 g

Tutto l’assortimento Pancho Villa 20% di riduzione, per es. Soft Tortillas, 326 g

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Idee e acquisti per la settimana

L’ESPERTO

Lavare i denti: un divertimento gustoso Le combinazioni Fluor plus Calcium Mint e Fluor plus Calcium Bubble Gum offrono una protezione ottimale per i denti dei bambini. Rimineralizzano i denti, rafforzano lo smalto dentario infantile, ancora morbido, e se utilizzati regolarmente proteggono dalla carie. Importante è che un adulto pulisca ancora i denti dopo che l’ha fatto il bambino e controlli. Candida Lilibiggs Junior mint dentifricio 75 ml Fr. 3.30 Candida Lilibiggs Bubble Gum dentifricio 75 ml Fr 3.30

Nessuna chance agli aggressori

Il dott.med. Steffen Kübler (37 anni) è dentista (Società svizzera odontoiatria) e conduce uno studio comune di odontoiatria e implantologia orale a Zurigo.

Gli spazzolini Lilibiggs sono stati creati appositamente per i bambini da 0 a 6 anni o per i ragazzi da 6 a 12. Le finissime setole arrotondate permettono di effetturare un delicato massaggio delle gengive e una pulizia efficiente dei denti di latte. Grazie all’impugnatura antiscivolo i bimbi possono guidare lo spazzolino in bocca in modo sicuro. Candida Lilibiggs spazzolino Kids da 0 a 6 Fr. 1.70 e Candida Lilibiggs spazzolino Junior da 6 a 12 Fr 1.70

Di che cosa bisognerebbe tener conto già all’eruzione del primo dente? Non appena i primi denti sono riconoscibili, bisognerebbe pulirli con un morbido spazzolino per bambini e un dentifricio per bambini contenente fluoro. In fatto di igiene buccale infantile, a che cosa occorre badare fondamentalmente? I genitori dovrebbero dare il buon esempio. Può aiutarli la curiosità giocosa dei bambini e più tardi anche il loro istinto di imitazione. Inoltre i bambini dovrebbero imparare fin dall’inizio come si puliscono correttamente i denti e gli spazi interdentali. Su questo punto il dentista o l’igienista dentale possono fornire istruzioni precise. A partire dal sesto anno si può migliorare l’igiene buccale con un collutorio per bambini. Fino a quando i genitori devono pulire ancora i denti dei bambini dopo che questi l’hanno già fatto per conto loro? Dovrebbero farlo fin quando il bambino è in grado di effettuare da solo una pulizia efficiente. Il momento esatto dipende dalle capacità motorie, che si sviluppano solo lentamente. La regola d’oro è: solo quando il bambino ha una bella scrittura rotonda, le capacità motorie sono completamente sviluppate. Questo avviene nella maggior parte delle bambine e dei bambini all’età di circa otto anni. Come si pulisce i denti correttamente un bambino di otto anni? Cominciando dalle superfici interne, si pulisce con una leggera pressione ai margini delle gengive e con lenti movimenti dall’alto in basso. In seguito vengono le superfici esterne e da ultimo le superfici masticatorie. È imperativo lavorare con poca pressione e con uno spazzolino adatto ai bambini. E come si può motivare i bambini a pulire i denti? I bambini imitano il comportamento dei genitori, e pulire i denti insieme come un rito diverte e motiva. Pulire i denti dovrebbe sempre essere rappresentato come qualcosa di positivo. Si può anche dare dei nomi ai denti, per esempio dente pirata, dente dinosauro o dente principessa.

Un collutorio protegge lo smalto Lo smalto dentario dei denti permanenti dopo l’eruzione non è ancora completamente indurito e quindi più soggetto alla carie. Il collutorio Lilibiggs protegge lo smalto dentario e si raccomanda di usarlo anche dopo aver consumato piccoli spuntini. Il collutorio aiuta i portatori di un apparecchio a raggiungere i punti nascosti. Per bambini a partire da sei anni.

Mostrare i denti alla carie Lavare i denti regolarmente ed effettuare un’igiene buccale quotidiana sono doveri imprenscindibili fin dall’eruzione del primo dente di latte

A un anno e mezzo circa, il bambino ha già una dentatura di latte completa. Molti non sanno che ancora prima che le radici dei denti di latte si siano formate completamente, nella mascella inferiore sotto i denti di latte si sviluppano già i denti permanenti. I bebè fino a sette mesi non hanno ancora bisogno di una cura speciale dei denti. Ma non appena appare il primo dentino – che di regola è quello inferiore davan-

ti – l’igiene buccale quotidiana e la pulizia regolare dei denti sono un dovere assoluto. Il dott. Steffen Kübler, dentista con uno studio di odontoiatria di Zurigo: «Da quel momento dovreste pulire i denti al vostro bambino tutti i giorni. Si può farlo bene con uno spazzolino per bambini e una piccola quantità (come un pisello) di un dentifricio per bambini contenente fluoro. Procedete con movimenti dall’alto al basso alle gengive e con

piccoli movimenti orizzontali sulle superfici dei denti». Anche l’alimentazione ha un ruolo importante

Per il bambino di due anni è necessario pulire i denti due volte al giorno, a partire dal terzo anno d’età tre volte, cosi come sempre dopo gli spuntini. È importante che i genitori o altre persone che si curano del bambino gli puliscano

ancora i denti, anche se l’ha già fatto da solo. Oltre a una coscienziosa igiene buccale, anche l’alimentazione ha una grande importanza nella prevenzione della carie. Il consiglio del dott. Kübler: «Ridurre gli spuntini zuccherati ed evitare i dolciumi, appena possibile. Perché una cosa è sicura: i denti sani sono garanzia di un sorriso felice. Fin dall’infanzia». / Sonja Leissing

Foto Markus Bertschi

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Idee e acquisti per la settimana

La barbabietola si può preparare in molti modi. Da noi in genere la si serve come minestra o in insalata.

Anna’s Best Insalata di barbabietole 500 g Fr. 2.20

Il revival del tubero rosso Il suo aroma è tanto singolare quanto il colore. Naturale quindi che fin dall’antichità la barbabietola abbia ispirato, e continui a ispirare, una quantità di interessanti ricette. Nella cucina moderna il gustoso tubero è considerato un’autentica leccornia Cotta al vapore, passata o cruda, come minestra, contorno o nello stufato: integrare la barbabietola nel menu è un’ottima idea. Col tubero color rosso scuro, infatti, si possono portare in tavola autentiche delizie. Col suo aroma dolciastro e «di terra», la barbabietola garantisce un sapore tutto particolare. Inoltre è una verdura ricca di vitamine e sostanze minerali. E non ha importanza

il modo in cui la si cucina.In proposito, Anna’s Best offre numerose varianti: barbabietole al vapore, con o senza pelle, intere, tagliate a fette o a dadini oppure in insalata. Interessante a sapersi: il colore intenso della barbabietola è riconducibile all’alta concentrazione di betanina, che viene utilizzata come colorante naturale di generi alimentari. / NO

Minestra di barbabietole con panna all’aneto Preparazione In 1 cucchiaio d’olio fate appassire 1 cipolla tritata, 1 mela rossa tagliata a dadini e 200 g di patate farinose a pezzetti. Unite 400 g di barbabietole già cotte tagliate grossolanamente a cubetti e 1 l di brodo di verdura. Fate sobbollire le verdure per ca. 20 minuti. Frullate finemente e condite con sale e pepe. Montate 1,5 dl di panna ben ferma, tritate ½ mazzetto d’aneto e incorporatelo alla panna. Servite la minestra di barbabietole con la panna all’aneto e, a piacere, con qualche crostino di pane.

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Idee e acquisti per la settimana

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Le camicie di 100% cotone sono morbide, lasciano respirare e sono gradevoli sulla pelle.

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Quando il signore ha bisogno di una nuova camicia, la scelta diventa un problema. Non così alla Migros, dove l’assortimento è contrassegnato in modo tanto chiaro ed evidente che al primo sguardo si trova il capo giusto

Acquistare una camicia può essere un’autentia sfida, tanto più se occorre trovare anche la cravatta adatta. Quale forma, colore, taglia, qualità bisogna scegliere? E qual è il prezzo giusto? Domande su domande, che spingono molti uomini a fuggire dal negozio. Ma si può anche fare diversamente, come dimostra il concetto di vendita della Migros per le camicie business. Grigio significa da non stirare e 100% cotone

Nonostante l’ampio assortimento, la ricerca del prodotto giusto si rivela efficiente. Perché con un solo sguardo il cliente può verificare tutte le informazioni importanti per l’acquisto di una camicia. Le trova su uno speciale cartel-

lino allegato in modo ben visibile all’imballaggio, un po’ come una ID-Card. Oltre a un’illustrazione, che si riferisce al taglio (p.es. «Slim Fit»), nonché indicazioni sul tipo di materiale, taglia e misura del colletto, i diversi colori aiutano ad orientarsi. Per esempio: chi cerca espressamente una camicia che non dev’essere stirata, si concentrerà sull’offerta con l’etichetta grigia. Una volta determinata la propria scelta, per il prossimo acquisto il colore dell’etichetta indicherà la via diretta per la merce preferita. Tutte le camicie business sono prodotte e certificate secondo le severe linee direttive Eco della Migros. Eco è simbolo di condizioni di lavoro sicure nella fabbricazione e di uso sostenibile delle risorse naturali.

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