Azione 36 dell'1 settembre 2014

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXVII 1. settembre 2014

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Società e Territorio Il numero dei cani che vivono in Ticino è in continuo aumento, intervista a Tullio Vanzetti e Desirée Mallè

Ambiente e Benessere Migliora l’oncologia pediatrica grazie alla stretta collaborazione tra l’Ospedale San Giovanni di Bellinzona e il Kinderspital di Zurigo

Politica e Economia Lo Stato islamico scuote gli equilibri globali

Cultura e Spettacoli L’artista Tacita Dean spinge il pubblico a una riflessione

pagina 11

pagina 3

pagine 23 e 25

di Marco Jeitziner pagina 5

Ti-Press

I castelli dopo l’Unesco

pagina 33

I nuovi confini del Male di Peter Schiesser È una spaventosa immersione nella brutalità del Male, quella cui stiamo assistendo negli ultimi mesi. Ed è difficile sopportare il disorientamento e l’impotenza, quando si fa tabula rasa di valori universali, di rispetto per i diritti e la vita di ogni essere umano. Ha peccato di ingenuità chi credeva che in Europa non ci sarebbe più stata guerra? Che le Primavere arabe fossero il preludio di un tempo di democrazia, pace, libertà dalle tirannie e benessere nelle terre dell’Islam? Lo spettacolo di cenciosi prigionieri di guerra, soldati dell’esercito ucraino rasati e umiliati, che sfilano nelle vie di Donetsk sotto le urla, le botte di comuni cittadini che chiedono la loro morte, in assoluto spregio delle Convenzioni di Ginevra, e la fredda esecuzione e decapitazione di un giornalista americano, nonostante fosse un testimone innocente delle sofferenze della guerra, ci presentano risposte chiare. A dire il vero, anche il passato ci insegna che spesso basta una scintilla per scatenare un rogo nel «Palazzo della civiltà». Non erano state altrettanto violente e barbare le guerre nei Balcani, 20 anni fa? Non ci erano noti i massacri di Saddam Hussein in Iraq, le torture e gli

assassinii di Mohammar Gheddafi in Libia? Non siamo stati testimoni di innumerevoli kamikaze che facevano strage in Israele, in Iraq, in Afghanistan, in Pakistan? Non siamo inorriditi l’11 settembre 2001 di fronte all’attacco sferrato da al Qaeda? Eppure, oggi il Male ha assunto qualità e forme cui siamo impreparati, che solleva innumerevoli interrogativi, cui non sappiamo ancora dare risposta. Non sappiamo spiegarci come mai migliaia di giovani, anche adolescenti, non di rado freschi di conversione all’Islam, lasciano l’Europa per andare a combattere in Siria a fianco di fondamentalisti islamici. Ma l’Europa dovrà pur chiedersi da quale sua ombra fuoriesce un malessere tale da partorire la ferocia dei novelli tagliatori di teste. Quali abissi psicologici, quali vuoti esistenziali lo rendono possibile, qui e in Arabia? Ci vorrà tempo per capire e per sanare le ferite che oggi e per un lungo tempo verranno inferte all’umanità, se ciò sarà mai possibile. Ci sono però domande che possono e devono trovare presto una risposta: da dove provengono tutte le armi che così facilmente stanno infiammando il mondo arabo (a parte quelle trafugate dai depositi di Gheddafi e quelle tolte dai miliziani dell’ISIS, o IS, all’esercito iracheno)? Non è possibile fermare il traffico di armi che alimenta il rogo

mediorientale e frenare il flusso di fanatici europei che oggi accorrono in Siria attraversando la Turchia? Pur nella consapevolezza che l’ISIS ha ormai raggiunto una forza finanziaria enorme grazie a estorsioni, sequestri, rapine nelle banche delle città conquistate, commercio clandestino di petrolio, sarebbe utile sapere chi finanzia le altre fazioni islamiche in Siria e altrove. L’Europa, l’America e soprattutto l’ONU possono ancora stare a guardare e attendere gli eventi? Papa Francesco ha parlato di «terza guerra mondiale» e la sensazione è che questo momento di follia collettiva non si esaurirà rapidamente. Eppure, non va persa la speranza che l’umanità possa uscire da questa spirale malefica. In fondo, un fondamentalismo islamico che deve brandire la spada e vivere di rapina per imporre un califfato non può aver la forza di creare una società con dei valori solidi, tantomeno può sperare di essere accolto nel consesso mondiale. Con il tempo si rivelerà per quello che è: un’utopia sanguinaria, priva di un qualsiasi fondamento di civiltà, condannata ad auto-divorarsi. Chi lo sa, forse è una catarsi sanguinaria che i Paesi islamici devono affrontare per superare le contraddizioni che impediscono loro di trovare un posto nel mondo globalizzato e sostanzialmente laico del ventunesimo secolo.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 1. settembre 2014 ¶ N. 36

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Attualità Migros

M In arrivo il primo fitness Benessere Il 31 ottobre Migros Ticino

inaugura con ACTIV FITNESS a Losone il suo primo centro. Nel 2015 seguirà Lugano

Il 31 ottobre Migros Ticino inaugurerà il suo primo Fitness Center, a Losone. Sarà gestito in franchising dalla società ACTIV FITNESS AG. E questo sarà solo il primo di quattro o cinque centri che apriranno i battenti nei prossimi anni. Dopo Losone, nel 2015 si inaugurerà un Fitness Center a Lugano. Ma che cosa offre un centro ACTIV FITNESS, e a quale prezzo? Il direttore della società, Hans-Peter Meier, ce lo spiega nell’intervista. Signor Meier, lei è il direttore della ACTIV FITNESS AG: cosa ha spinto la sua società a stringere una collaborazione con Migros Ticino, dunque ad operare in questo cantone?

Da un lato Migros Ticino era interessata a sviluppare un’attività nel settore del fitness con un partner esperto, mentre da parte nostra, dopo un’approfondita analisi del mercato, abbiamo accertato che le condizioni quadro per un’attività del genere in Ticino sono molto attraenti. I progetti validi non conoscono confini. Il 31 ottobre il primo centro fitness sarà inaugurato a Losone e il prossimo anno toccherà a Lugano. In totale, in Ticino ne sono previsti 4 o 5. Il Ticino è un cantone di confine, che presenta condizioni di mercato molto particolari. In che modo si terrà conto di questo aspetto?

Con il fatto che questa attività sarà svolta in franchising tramite Migros Ticino; in concreto ciò significa che Migros Ticino si incarica del progetto generale, come ad esempio la politica dei prezzi, la sede, gli standard di qualità, la comunicazione ecc., ma il centro viene gestito in modo indipendente ed autonomo. In cosa si contraddistingue ACTIV FITNESS? Quali sono i punti forti di questa catena di centri fitness?

Innanzitutto l’eccezionale rapporto prezzo/prestazioni. Nell’abbonamento

c’è incluso tutto. Per 740 franchi all’anno, i soci ricevono la gamma completa di attività, che include anche sauna, bagno turco e perfino l’angolo per i bambini. I centri sono equipaggiati con gli standard più moderni e sono situati in sedi di prim’ordine. Inoltre, attribuiamo un grosso valore alla consulenza e all’assistenza qualificata, che sono a disposizione del socio senza limiti durante tutta la durata dell’abbonamento. Inoltre, per l’insieme dei servizi forniti vigono precisi standard di qualità, che vengono controllati sistematicamente. A quanto pare la qualità è importante, avete fatto fatica a trovare collaboratrici e collaboratori qualificati per l’ACTIV FITNESS di Losone?

Agli annunci di lavoro hanno risposto specialisti qualificati, in possesso di un’ottima formazione. A ciò ha sicuramente contribuito il fatto che ACTIV FITNESS TICINO SA è una filiale di Migros Ticino, dunque un datore di lavoro molto stimato. Vorrei cogliere l’occasione per ricordare la nostra formazione interna per i collaboratori, unica in questo settore. Com’è possibile praticare prezzi così convenienti? Da parte della concorrenza a volte si sente argomentare che solo la Migros può permetterseli.

ACTIV FITNESS è stata fondata nel 1984 e ripresa dalla Cooperativa Migros Zurigo nel 2007. Durante tutto questo tempo il concetto di base non è mai stato modificato. Già 30 anni fa vigeva l’idea di fornire un servizio completo a basso prezzo. È chiaro che con questi prezzi convenienti dobbiamo generare un volume di soci relativamente elevato. Altrimenti non riusciamo a starci dentro. Finora, però, ci è sempre andata nel migliore dei modi. Con 26 centri e oltre 60’000 soci, ACTIV FITNESS è il gruppo di maggior successo nel settore del fitness

Hans-Peter Meier, CEO di ACTIV FITNESS: «Le condizioni quadro per un’attività in Ticino sono molto attraenti».

in Svizzera tedesca. Altrettanto importante è che si abbiano le spese sotto controllo. In questo campo possiamo contare su una gestione dei costi molto

severa e su un’organizzazione particolarmente efficiente. L’elevata standardizzazione contribuisce ulteriormente a mantenere bassi i costi.

Fatti e cifre di ACTIV FITNESS Losone Apertura 31 ottobre 2014 Offerta speciale per l’apertura (31.10 – 30.11 2014) Abbonamento annuale CHF 590.– (invece di CHF 740.–) Studenti (fino a 29 anni) apprendisti e pensionati AVS*/AI CHF 490.– (invece di CHF 640.–). *Donne dai 64 anni, uomini dai 65 anni Sede Via dei Pioppi 2A, 6616 Losone Al piano superiore del nuovo Do it + Garden Migros che aprirà il prossimo 25 settembre. Superficie L’intera gamma di prestazioni si trova su un unico piano, per una superficie totale di circa 1100 mq. Prestazioni Variegata offerta di corsi e di moderni apparecchi per aumentare la massa muscolare in modo mirato (anche

pesi liberi), oltre a cyclette, stepper, tapis roulant, cross-training e macchine multifunzionali per l’allenamento della muscolatura. L’offerta include sauna, bagno turco e angolo dei bambini. Consulenza e assistenza illimitata da parte di specialisti durante l’intero periodo di validità dell’abbonamento. Corsi di gruppo Lasciatevi trascinare dal gruppo: dalla ZUMBA® al Bodytoning, oppure ancora Power Yoga, Pilates o M.A.X®. La nostra offerta di corsi di gruppo è tanto completa quanto varia. Istruttrici e istruttori di prim’ordine vi propongono le ultimissime tendenze del fitness. Aperti 365 giorni all’anno Potete allenarvi quando volete e come volete. Nei giorni lavorativi il centro ACTIV FITNESS di Losone è aperto dalle 8.00 alle 22.00. Il sabato e la domenica e in tutti i giorni festivi dalle 9.00 alle 18.00.

Per quanto riguarda Generazione M, in che misura vi è coinvolta ACTIV FITNESS?

Naturalmente è un vantaggio appartenere a una casa madre che s’impegna con forza a favore delle generazioni future. Essendo una sua filiale condividiamo questa politica. Innanzitutto per quanto riguarda la promessa fatta dalla Migros di offrire corsi fitness e wellness, così come strutture d’allenamento, a 10 milioni di visitatori all’anno entro la fine del 2017. Con la nostra politica di espansione vi contribuiamo in modo non convenzionale. Dall’acquisizione di ACTIV FITNESS da parte della Cooperativa Migros Zurigo nel 2007 abbiamo aperto altri 17 centri. Negli ultimi due anni la nostra espansione si è focalizzata sulla Romandia. Un’ultima domanda. C’è per caso un’offerta speciale per l’apertura del primo centro ACTIV FITNESS in Ticino?

Sì, i soci approfittano di uno sconto speciale per l’apertura. Dal 31 ottobre al 30 novembre 2014 si ottiene l’abbonamento annuale per 590 franchi invece di 740. Studenti, apprendisti e pensionati AVS/AI pagano addirittura solo 490 franchi al posto di 640! Vale proprio la pena aspettare ancora un po’. Si tratta di un’offerta davvero unica.

Saetta Verde si consolida Trasporto in bicicletta Un servizio ai clienti sostenuto

da Migros Ticino

L’idea di un servizio di trasporto in bicicletta a Lugano Lukas Kaufmann l’ha concretizzata nel 1998, fondando Saetta Verde. Oggi è una realtà consolidata, con oltre 300 clienti che si affidano ai suoi corrieri per effettuare consegne di ogni genere o per il disbrigo di pratiche varie. Corrieri in bicicletta, in sella a una delle due Cargobike (una bicicletta elettrica dotata di un apposito contenitore che può trasportare fino a 100 chili di carico), o ancora al volante di un’automobile elettrica o a gas: sono questi i mezzi cui Saetta Verde affida le merci da trasportare, mentre per servizi fuori cantone opta per il treno e la collaborazione con associazioni analoghe presenti in altre regioni della Svizzera. Lo scorso anno Saetta Verde è diventata un’associazione senza scopo di lucro; oltre alla tutela ambientale, che si concretizza con l’uso di mezzi eco-

logici, grazie alla collaborazione con il Cantone ha così potuto dare avvio a un progetto che promuove l’impiego di persone iscritte ai piani occupazionali. Oggi l’associazione conta 20 collaboratori, in gran parte impiegati a tempo parziale: giovani disoccupati ai quali viene offerta l’opportunità di rientrare nel mondo del lavoro e di svolgere un’attività regolare. I clienti apprezzano la rapidità e l’affidabilità del servizio e così la domanda è in continua ascesa; nel corso dell’ultimo anno Saetta Verde ha effettuato oltre 14’000 consegne, tre quarti delle quali a Lugano e dintorni, le rimanenti in Ticino e Svizzera. Il servizio offerto da Saetta Verde spazia dal ritiro e consegna di ogni tipo di documento, busta o pacco, anche di prelievi destinati a laboratori di analisi e materiale odontotecnico, allo sbrigamento di pratiche presso vari

uffici sia in Ticino (per esempio presso uffici postali e uffici cantonali) che in altre regioni della Svizzera, per esempio la richiesta di visti presso i consolati. Nel 2011 ha inoltre dato avvio a una collaborazione con Migros Ticino per promuovere il servizio di consegna della spesa a domicilio nel Luganese. Inizialmente possibile solo dalla sede di via Pretorio, oggi il servizio è disponibile nelle 7 filiali Migros presenti in città. Basta annunciarsi al servizio clienti della filiale, dove viene compilato l’apposito modulo e la spesa viene consegnata al domicilio entro 3 ore. Oggi sono mediamente 120 al mese le consegne di spesa effettuate per clienti Migros. La politica di promozione e sostegno dell’inserimento sociale e professionale ha spinto Migros Ticino a promuovere ulteriormente il servizio di consegna a domicilio della spesa, pensa-

Azione

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Stampa: Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

to in particolare per le persone anziane (oggi il 90% degli utenti) con un contributo finanziario versato dal Percento culturale Migros Ticino che copre i 2/3 del valore della prestazione, con un costo a carico del cliente di soli 7 franchi. Il servizio di consegna della spesa è aperto a tutti e ha dunque un ampio potenziale di crescita. A breve prenderà inoltre vita una nuova iniziativa di Saetta Verde, il ritiro a domicilio di materiale riciclabile (carta, vetro, PET, alu) per tutte quelle persone che hanno difficoltà a recarsi ai punti di raccolta della città. Al costo di 7 franchi, la consegna a Tiratura 98’645 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

domicilio può essere effettuata annunciandosi al servizio clienti delle filiali Migros di Cassarate, Crocifisso, Lugano città (via Pretorio), Massagno, Molino Nuovo, Paradiso e Pregassona per le persone che risiedono nei comuni di Besso, Breganzona, Cassarate, Castagnola, Loreto, Lugano-Centro, Massagno, Molino Nuovo, Pambio-Noranco, Paradiso, Pregassona, Savosa, Sorengo, Vezia e Viganello. / Red Ulteriori informazioni

www.saettaverde.ch

Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 1. settembre 2014 ¶ N. 36

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Società e Territorio Castelli e turismo Intervista a Gian Luca Cantarelli direttore dell’Ente turistico di Bellinzona

I videogiocattoli Una nuova tendenza del gaming che sta avendo grande successo: i giocattoli prendono vita nella realtà virtuale pagina 6

I talenti di SwissSkills Uno stand informativo al Centro Migros di S. Antonino ci avvicinerà ai Campionati nazionali delle Professioni dei giovani professionisti pagina 8

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Desirée Mallè: «I bambini non devono mai essere lasciati da soli con un cane». (Tipress)

La città dei cani

Guinzagli e museruole In Ticino vivono circa 28mila cani e il loro numero è in continuo aumento. La convivenza

con la popolazione e, in particolare, con i bambini è sempre più stretta: come evitare incidenti e malintesi?

Roberto Porta In Ticino c’è una città che non si vede sulle cartine geografiche. È una sorta di «città diffusa», popolata da oltre 28mila cani. I «migliori amici dell’uomo» non sono solo parecchi – in media uno ogni 12 abitanti – ma sono anche in continuo aumento. Dal 2011 ad oggi c’è stato un incremento di oltre 2600 esemplari, secondo i dati dell’Ufficio del veterinario cantonale. E come per ogni città che si rispetti, anche quella dei cani viene gestita da regole e disposizioni, in particolare dalla Legge cantonale sui cani. E qui, a ben guardare, iniziano i problemi perché uno degli articoli più importanti della normativa – il settimo – prevede tra l’altro che «nei luoghi frequentati dal pubblico o da altri animali, i cani vanno sempre tenuti al guinzaglio e, se richiesto dalle circostanze, muniti di museruola». Nel corso del 2014 ci sono già stati in Ticino due incidenti gravi, a Figino – con il ferimento al volto di una bambina – e Breganzona – con l’aggressione ai danni di una giovane podista – dovuti al fatto che il cane non era al guinzaglio. A ciò si aggiungono casi non denunciati e quindi non registrati ufficialmente, come quelli che abbiamo potuto rilevare preparando questo articolo. A Bellinzona un cane che strappa il ciuccio di bocca ad un bambino perché attratto dalla catenella con cui lo

stesso ciuccio era appeso ai vestiti del piccolo. Sempre nel Bellinzonese una bambina graffiata da un cane che voleva giocare con un fiore in tessuto, cucito sul suo abito. A Tesserete una famiglia, con due piccole figlie, aggredita – ma senza ferimento – mentre passeggiava nei boschi di San Clemente, luogo di sentieri escursionistici e di percorsi podistici ripetutamente segnalati. Certo non si tratta di fare di ogni erba un fascio e di pensare che ogni cane libero sia un potenziale pericolo. Si tratta invece di capire se la legge sia davvero rispettata, in un contesto in cui i casi di morsicatura più o meno gravi ufficialmente registrati sono stati 317 dal 2007 ad oggi, in media una quarantina all’anno. «La vigilanza sul rispetto dell’obbligo al guinzaglio è compito delle autorità locali e delle polizie comunali, – ci dice il veterinario cantonale Tullio Vanzetti – penso pertanto che la situazione sul territorio sia molto diversificata perché dipende dalla sensibilità e dalle risorse di ogni singolo comune. A livello cantonale non disponiamo di dati a questo riguardo ma riteniamo che per perseguire gli obiettivi della legge sia indispensabile una sufficiente sorveglianza a livello comunale». Difficile dunque capire quanto la legge venga davvero rispettata. A Lugano, ad esempio, nel corso del 2014 sono state finora 43 le multe inflitte per

varie infrazioni alle normative sui cani. «Va bene ma si potrebbe fare di più – ci dice una mamma in un parco giochi cittadino – basta guardare il numero di cani che transita tra scivoli e altalene per bambini». E qui tocchiamo un altro punto, la relazione tra cane e bambino. «I bambini – ci dice ancora Tullio Vanzetti – sono purtroppo le vittime numericamente più rappresentate dalla casistica delle morsicature, incidenti che molto spesso si registrano nell’ambiente domestico. Bisogna sempre essere consapevoli che un cane può mostrare comportamenti inaspettati. Inoltre i bambini possono involontariamente fare gesti che il cane interpretata come una provocazione». «Con i bambini occorre essere sempre attenti. – aggiunge Desirée Mallè, presidente della Federazione cinofila ticinese – I bambini non devono mai essere lasciati da soli con un cane, anche se lo si ritiene buono. Non ci si deve mai fidare in modo assoluto, perché a volte, l’interazione con i bambini è difficile, anche per come si muovono o agiscono questi ultimi. Ritengo che il cane non debba poter accedere al parco giochi. Non solo per una questione di sicurezza, ma anche per un semplice discorso igienico. Ci sono genitori, forse più “sensibili” di altri, che per questo motivo non vogliono la presenza del cane al parco giochi e questo va capito». Ma questo vale anche per un cane di pic-

cola taglia, considerato più che affidabile? «Si tratta di applicare il buon senso e la buona educazione – continua Desirée Mallè – se il cane si comporta in modo esuberante o aggressivo non deve essere portato o fatto passare da un parco giochi. Il minimo è che sia al guinzaglio». E qui torniamo all’articolo 7 delle legge sui cani che prevede il guinzaglio in ogni luogo frequentato dal pubblico. «In sostanza tutto il territorio del canton Ticino», precisa Desirée Mallè. Ciò significa che in Ticino il cane, appena esce di casa, debba sempre essere al guinzaglio? Ricordiamo che l’ordinanza federale in materia prevede che gli animali «non possono essere tenuti costantemente legati». «Per essere lasciato libero, anche lungo un sentiero o in un bosco, il cane deve disporre di un buon richiamo – sottolinea la signora Mallè –, ciò significa che il proprietario deve conoscere bene il proprio cane e sapere che se lo chiama, ritorna. E questo senza “se” e senza “ma”. Ti chiamo torni e punto». Insomma una certezza praticamente matematica, che il cane ben addestrato dovrebbe poter garantire. «Se il detentore non può dare questa garanzia – aggiunge il veterinario cantonale Tullio Vanzetti – l’utilizzo del guinzaglio è d’obbligo, anche in un bosco o lungo un sentiero di montagna». In ogni caso anche qui conta il buon senso e l’educazione. La responsabilità del detentore è

chiara. «Se il cane è libero lungo l’argine di un fiume, ad esempio, e il proprietario vede in lontananza una persona, non deve far altro che legare il proprio animale – spiega ancora Desirée Mallè –, questo perché ci sono individui che non vogliono avere contatti con i cani. A volte per paura ma anche semplicemente perché a loro non piacciono. E questo va in ogni caso rispettato». Il proprietario di un cane si affida però spesso ad una sorta di ritornello, solo in apparenza rassicurante: «Non si preoccupi, non fa nulla». «Questo succede troppe volte, – replica la presidente della Federazione cinofila ticinese – una frase del genere non dovrebbe mai passare per la testa ad un proprietario di cani. Perché anche se il cane davvero è innocuo, l’altra persona ha diritto al rispetto di una distanza di sicurezza. A causa della maleducazione tutto sommato di pochi, paga l’intera popolazione canina, ma ricordiamoci che la stragrande maggioranza dei cani si comporta bene. Sono creature meravigliose e svolgono tantissime funzioni positive per noi, fosse anche solo per la compagnia che sanno offrire». Vicina ormai ai 30mila esemplari, la città dei cani non può non fare i conti con le altre città che la circondano. Ne va di una certezza secolare, che fa del cane il miglior amico dell’uomo. E si spera anche dei bambini.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 1. settembre 2014 ¶ N. 36

Società e Territorio

Castelli senza emozioni

Intervista Il marchio Unesco non basta più. I castelli di Bellinzona soffrono la concorrenza delle Alpi e delle città.

Come aumentare i visitatori? Ce lo spiega il direttore dell’Ente turistico cittadino, Gian Luca Cantarelli

Marco Jeitziner La regione di Bellinzona è l’unica del cantone che vanta da qualche tempo segnali positivi per il turismo. Un fiore all’occhiello sono i tre castelli, patrimonio dell’Unesco dal 2000, ma il potenziale è ancora tutto da sviluppare. Cosa non è stato fatto finora e, soprattutto, quali le sfide future? Ne parliamo con Gian Luca Cantarelli, direttore dell’Ente turistico di Bellinzona (Etb) che gestisce i castelli. Signor Cantarelli, da tre anni dirige l’ente turistico. Che bilancio trae dei castelli?

C’è un grosso interesse, sia da parte del pubblico ticinese, che li sta un po’ riscoprendo, sia da quello della Svizzera interna che, in generale, sta scoprendo Bellinzona come una nuova località turistica, anche grazie al mercato e al lavoro che è stato fatto. Poi c’è un pubblico tutto nuovo, soprattutto asiatico, che li visita perché patrimonio Unesco. L’interesse è quindi in piena crescita, anche se adesso dobbiamo lavorare molto sull’offerta. Infatti se Castelgrande è ritenuto da Svizzera Turismo uno dei castelli più popolari del Paese, uno studio dell’Istituto Gottlieb Duttweiler afferma che i castelli soffrono sempre di più la concorrenza delle Alpi e delle città. Finora cosa avete fatto?

Il primo lavoro in questi tre anni è stato di intensificare la collaborazione con le Ffs sul mercato della Svizzera interna, per attirare gruppi, famiglie, scolaresche; e in Ticino coi privati e le aziende. Lo studio che lei cita afferma che c’è un grosso potenziale a livello svizzero, ma a differenza della Francia che fa scuola, manca una rete, un’associazione. Questo studio vuole creare le basi per una «associazione svizzera dei castelli». Noi facciamo parte del gruppo di lavoro e abbiamo già presentato il progetto a Svizzera Turismo. Le premesse dunque ci sono. È notizia di maggio che avete chiesto una consulenza di 50mila franchi alla ditta lucernese Erlebnisplan per «vendere» meglio i castelli. Enti più vicini al territorio, come la Scuola superiore del turismo o l’Osservatorio del turismo dell’Usi, non bastavano?

Con questi due partner in realtà lavoriamo regolarmente. Noi, il cantone, la città e l’Ente regionale di sviluppo, avevamo però bisogno di qualcuno che sapesse sviluppare, da un profilo sia economico sia turistico, un luogo storico, per di più patrimonio dell’Unesco, e senza snaturarlo. È un lavoro che

non può fare chiunque. Erlebnisplan è specializzata a livello europeo nella «messa in scena» di luoghi storici di siti Unesco. Lo studio, che presenteremo in autunno, individuerà tre scenari per poter sviluppare l’offerta nel prossimo anno. Può anticiparci qualcosa?

Le posso solo dire che su alcuni aspetti andiamo bene, su altri c’è ancora da lavorare. (Cantarelli mi mostra una scheda coi punti problematici: gestione suddivisa tra troppi attori, manca l’offerta del «prodotto castelli», ristorazione slegata dal tema, problemi con la fruibilità, musei antiquati, segnaletica disordinata, accessibilità da migliorare, ndr.). L’impressione è che ci si è seduti un po’ dal 2000 a oggi. Lo ha detto anche il sindaco Mario Branda. Come commenta?

Bisogna dare atto a chi negli anni precedenti ha fatto un grosso lavoro per ottenere il marchio Unesco. È vero che poi, probabilmente, si è ritenuto che ciò fosse sufficiente. Certo un ritorno c’è stato, ma negli ultimi anni il label Unesco è diventato più popolare, la gente cerca sempre qualcosa di nuovo. Per questo l’offerta attuale non è più sufficiente. Dal profilo emozionale, cioè del raccontare una storia e trasmettere un’emozione, è effettivamente carente. Dal 2011 al 2012 avete però raddoppiato da 22mila a quasi 44mila le visite paganti ai musei e alle mostre. È un dato impressionante. Ci spieghi.

Fino al 2010 l’entrata era a pagamento a Castelgrande e a Sasso Corbaro, non a Montebello. Quindi questo ha aiutato. Ciò ha permesso di creare il biglietto combinato per i tre castelli e di spingere sulla prevendita. Inoltre era il primo anno in cui c’era un programma espositivo per tutto l’arco dell’anno, che ora è uno standard, mentre prima c’era una sola bella mostra per tutto l’anno. Niente di miracoloso, ma è cambiato solo il modo di gestire. Ora sono tre anni che viaggiamo su queste cifre e quest’anno, a fine luglio, abbiamo superato i 24 mila ospiti. È verosimile che arriveremo per la prima volta a fine anno ai 45 mila visitatori. Nel periodo «pre-Unesco» (fino al 2000) il cantone parla di circa 40 mila visitatori l’anno. Nel «dopo Unesco» voi dite tra 23 e 30 mila. Soltanto ora si hanno dati precisi. Tutta questa approssimazione sorprende, non trova?

Probabilmente non si riteneva così importante avere un dato preciso sulle entrate. Scusi, ma neppure dopo il riconoscimento Unesco?

Gian Luca Cantarelli è direttore dell’Ente turistico di Bellinzona dal 2011. (CdT - Nicola Demaldi)

Probabilmente no. Forse perché c’era un programma abbastanza irregolare durante l’anno e ci si accontentava delle stime. Oggi invece è importante avere dei dati paragonabili da un anno all’altro, sapere con precisione da dove arrivano i visitatori per poi lavorare sui mercati. Questo ora l’abbiamo sia sul globale, sia sul pubblico ferroviario. Inoltre il mese prossimo uscirà lo studio sull’impatto economico del turismo in Ticino e, al di là dei numeri, sapremo perché si viene a visitare i castelli. (Il grafico sui visitatori globali è così suddiviso: 31% Svizzera tedesca, 13% Ticino, 11% Italia, 9% Germania, 6% Romandia e Stati Uniti, ecc.; quello su chi giunge col treno: 22% Zurigo, 18% Svizzera centrale, 15% Ticino, 12% offerte combinate online, ndr.). In aprile mi trovavo a Montebello con degli ospiti stranieri, ma non si capiva se si dovesse pagare o meno per entrare. A spiegarlo c’era solo un foglio A4 dopo il ponte levatoio. Perché la cassa non è all’entrata?

all’entrata o vicino al parcheggio. È uno dei problemi che vorremmo risolvere. Lasciano perplessi anche il chioscoroulotte, i servizi igienici, i prezzi dei ristoranti, i souvenirs scadenti e l’assenza di prodotti del territorio.

Tutti questi aspetti rientrano nel piano di sviluppo. Ricordo che la gestione dei ristoranti è separata dalla nostra convenzione, anche se siamo sotto lo stesso tetto. Una delle idee per il futuro è di coinvolgerli maggiormente nella realtà storica dei castelli. Le ultime novità sono il trenino turistico Artù e la possibilità di confezionare un salame ticinese Rapelli a Montebello. Come sta andando?

L’attività con Rapelli sta andando estremamente bene! Viene svolta ogni mercoledì per gruppi di circa 20 persone ed è sempre pieno. Anche il trenino funziona bene, perché ha colmato una lacuna di collegamento tra Montebello e Sasso Corbaro e, dal punto di vista emozionale, è simpatico.

Ha ragione. Il cantone ci ha messo a disposizione uno spazio per gestire l’accoglienza che è già all’interno dell’area a pagamento, ma sarebbe ideale se fosse

Con la nuova Organizzazione turistica regionale (Otr) dal 2015 i castelli diventeranno un centro di competenza. Ma non dovrebbero già esserlo?

significasse quella foto. «Gli inviati di guerra – dice Morris – cercano la verità, per loro è fondamentale che l’opinione pubblica conosca la verità su ciò che accade nel mondo. Devi essere un po’ matto per fare questo mestiere». James Foley probabilmente lo era, anche perché lavorava come freelance, con pochissime sicurezze e sostegno. Nell’era del nuovo giornalismo, come riporta un articolo del «Guardian», gli editori troppo spesso abdicano le loro responsabilità, e si nascondono dietro compensi da fame. È un dato di fatto, che con la crisi dei giornali gli esteri siano tra le risorse ad aver subito più tagli, intere redazioni oltre confine sono state chiuse per rientrare nei costi, giornalisti licenziati in cambio di bravi reporter freelance, pronti a mettere a rischio la proprio vita, a costo anche di

essere pagati poco, di non avere le spalle coperte dai media. Riporta sempre il «Guardian» come in Libia nel 2011, molti reporter freelance lavorassero senza assicurazione, rimborso spese, senza nemmeno il biglietto di ritorno a casa pagato. Foley quell’anno, insieme ad altri giornalisti, era stato catturato e rilasciato dopo 44 giorni. Un suo collega, meno fortunato, fu assassinato e Foley organizzò una colletta per la sua famiglia, «come suoi colleghi abbiamo una responsabilità» disse. Questa responsabilità ce l’hanno anche le testate e gli editori che decidono di pubblicare storie come quella di Foley. Sempre tutti in prima linea quando si tratta di criticare notizie che arrivano dai citizen journalists o da fonti non mainstream dicendo perché non sono verificate, accurate, non sono opera di

I castelli sono già oggi una priorità. Quello che cambia è che su un territorio così vasto ci sono tanti temi di cui occuparsi, quindi abbiamo operato delle scelte per cui ci devono essere delle persone competenti e dei mezzi finanziari prioritariamente per questi temi. C’è chi nutre molte speranze su Alptransit. Ma se il problema fosse davvero la distanza, già oggi non ci sarebbero così tanti svizzero tedeschi. Il problema forse sono i contenuti, non trova?

Entrambe le cose. Dobbiamo sicuramente lavorare di più sugli aspetti emozionali che oggi mancano, ma non dimentichiamo che siamo una destinazione abbastanza nuova, per cui quel terzo di svizzeri tedeschi può crescere. L’apertura di Alptransit avvicinerà molto i cantoni sull’asse del Gottardo e dobbiamo aspettarci un aumento delle visite di giornata, ma soprattutto avvicinerà mercati come il sud della Germania e la Svizzera occidentale. Abbiamo spesso un concetto di mobilità molto ticinese e poco da turista: c’è chi ha visitato i castelli ma pernottava a Lucerna!

La società connessa di Natascha Fioretti Facebook e la morte di Foley

Ho visto il post del video passarmi sotto gli occhi molte volte, prima di capire, di rendermi conto, che in mezzo alle foto delle vacanze dei miei amici, all’articolo dell’Huffington Post che spiega come fare innamorare l’altro in dieci mosse, c’era il video della decapitazione del reporter freelance James Foley. Non me lo aspettavo, non era il contesto per quel tipo di notizia. È stato come una doccia fredda realizzare, che in quelle immagini, c’era la fine orribile del reporter rapito in Siria due anni fa, di cui non si sapeva più nulla. E non è l’unico, James Foley. Secondo uno studio di Reporter senza frontiere, dal 2011 al 2013 sono 120 gli operatori dei media uccisi, 43 solo dall’inizio del 2014, tra i quali ricordiamo Simone Camilli, videoreporter

italiano morto a Gaza qualche settimana fa. Ma apprenderlo così, su Facebook, è stato uno shock. Per fortuna i piani alti della Silicon Valley hanno deciso di rimuovere il link. Eppure, in passato, ci sono state altre immagini che, come lettori e opinione pubblica, ci hanno resi consapevoli degli orrori delle guerre. John Morris, una vita spesa nel selezionare foto e fotografi (uno tra tutti Robert Capa) per testate come «LIFE», «Washington Post» e «New York Times» fu responsabile della pubblicazione sulla prima pagina del «New York Times» del prigioniero vietcong ucciso da un generale nelle strade di Saigon. Ma era un giornale e quella foto era correlata ad una notizia, aveva un contesto, una storia, una spiegazione per far capire al lettore che cosa vedeva in quel momento, che cosa

professionisti che sanno fare il loro mestiere. E ce l’abbiamo anche noi lettori, che compriamo il giornale o consultiamo i siti online perché vogliamo essere informati correttamente su ciò che accade oltre la soglia di casa nostra. La responsabilità di capire che l’informazione di qualità ha un valore e un costo. Per Barbara Schiavulli, reporter di Guerra italiana (www.valigiablu.it/ freelance-italiani-di-guerra-la-testimonianza-di-barbara-schiavulli/) «l’informazione internazionale (…) dovrebbe essere il fiore all’occhiello di un giornale (…). Se no, avrebbero ragione tutti quelli che si accontentano dei report di twitter (…) o i bravi cittadini che comunicano quello che accade, ma non hanno filtri professionali che invece ci vogliono se vogliamo essere ben informati».


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 1. settembre 2014 ¶ N. 36

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Società e Territorio

L’invasione dei videogiocattoli Videogame I giocattoli sono entrati all’interno dello schermo, ne è nata una delle tendenze di più grande successo

del gaming moderno Filippo Zanoli Che ci fanno delle statuette rappresentanti Topolino apprendista stregone, la principessa Elsa (dal nuovo super-classico Disney Frozen) e il piccolo ciclope verde Mike Wasowski (da Monsters & co.) nel reparto elettronica di un supermercato? Che i commessi si siano sbagliati e abbiano erroneamente riposto fra computer, smartphone e videogame dei «tradizionali» balocchi? No e sì, o meglio, diciamo che dare una risposta univoca a questa domanda non è così semplice. Iniziamo con l’affermare che sì, effettivamente sono giocattoli, e che no, i commessi non si sono sbagliati: le miniature di cui sopra sono l’ultimo fortunato esempio di una tendenza sempre più in voga che vuole unire pupazzi analogici e «reali» ai videogame digitali. Se vi capita, quindi, di trovare miniature di celebri personaggi animati di fianco a giochi per Playstation 4 e Wii quasi sicuramente si tratta di accessori per Disney Infinity, ultima fatica (di gran successo) sviluppata dall’azienda di Walt con la collaborazione di Avalanche Software. L’idea di fondo, è quella lanciata nel 2011 dal primo grande pioniere di questo tipo di incontri/scontri fra mondi ludici, ovvero la serie campione d’incassi Skylanders di Activision. Ma come funziona? In realtà è abbastanza semplice: basta comprare il software dedicato e attaccare alla console una periferica di riconoscimento

I pupazzetti di Activision, Disney e Nintendo prendono vita nella realtà virtuale.

(una piccola piattaforma). Su di essa, poi, si dovranno appoggiare i soldatini in plastica e… il gioco è fatto. Il nostro «omino» (o «donnina») apparirà all’interno dello schermo dove potrà essere utilizzato in incredibili avventure a suon di joypad. Un passo ulteriore alla manipolazione fisica del balocco, quella virtuale rende reale (nella tv) quello che era solo immaginato, proiettando il divertimento verso altre e nuovissime vette. Praticamente un sogno che diventa realtà per qualsiasi pargolo. Pensateci, quanto vi sarebbe piaciuto poter animare i vostri giocattoli d’infanzia, poterli vedere e muovere a piacere sul tubo catodico (oggi ormai estinto)? La formula, ovvia-

mente, è un successo strepitoso. Skylanders diventa in breve, brevissimo tempo, uno dei campioni d’incassi assoluti e uno dei marchi più forti di Activision (che comunque nel suo mazzo ha «assi di denari» come la serie Call of Duty). A rendere il boom ancora più pirotecnico aiuta anche il fatto che, come le figurine degli album, alcuni pupazzetti siano più rari di altri e che, all’interno del gioco, ognuno di essi è fondamentale per sbloccare mondi, passaggi o tesori nascosti. Ma il monopolio dura solo due anni ed ecco arrivare nel 2013 un nuovo sfidante per il predominio nel mondo dei videogiocattoli: Disney con il già sopracitato Disney Infinity. Forte

di un universo di personaggi tremendamente popolari e amatissimi dai bambini ci si aspettava un botto clamoroso istantaneo, ma così non è stato. Nel 2013 i personaggi Disney hanno venduto di più dell’ultimo episodio dei mostriciattoli inventati da Activision (Skylanders Swap Force, con pupazzetti smontabili e assemblabili a piacimento) ma questi ultimi, come marchio (e come serie) hanno largamente dominato. Nel 2014 pare che, a stare un po’ meglio, siano senz’altro Topolino & co., almeno a giudicare dalla presenza nei negozi e nelle classifiche di vendita dei grandi negozi online. Il futuro è ancora più incerto considerando anche le previste espansioni con i supereroi

della Marvel (che sì, sono pure loro Disney) e di Guerre Stellari. A conferma che quella dei videogiocattoli sarà una tendenza destinata a durare anche la scelta, decisamente clamorosa, di Nintendo che di solito innova ma pure non disdegna i cavalli vincenti altrui. E così nascono gli Amiibo, per ora solo un progetto non ancora attualizzato, miniature raffiguranti alcuni fra i più amati personaggi dell’azienda (come Mario, Donkey Kong, Samus Aran) che potranno essere inseriti nel virtuale di, si suppone, diversi titoli della «N» di Kyoto. Per molti, potrebbe essere una mossa utile a rivitalizzare una console, la Wii U, che sta vendendo ben al di sotto delle aspettative. Annuncio pubblicitario

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Società e Territorio

Imparare una professione per entrare nel mondo del lavoro Formazione Intervista a Giorgio Gallotti, responsabile degli apprendisti di Migros Ticino Uno dei punti di forza del sistema economico svizzero è il settore della formazione professionale. Il cosiddetto «sistema duale» prevede, come sappiamo, un doppio percorso di formazione svolto a scuola e in azienda. L’efficacia del sistema è confermata dalla situazione nazionale, in cui il problema della disoccupazione è relativamente contenuto. Questo risultato positivo è possibile perché le aziende sono direttamente coinvolte nella formazione del personale e cercano di adattare l’offerta dei posti di tirocinio alla necessità economiche del mercato.

È importante instaurare un rapporto di fiducia e di stima tra formatore e apprendista, basato sul dialogo diretto e la condivisione delle attività lavorative Come ci spiega Giorgio Gallotti, responsabile della formazione degli apprendisti di Migros Ticino «la Legge federale sulla formazione professionale è il dispositivo legale che ordina il settore dell’apprendistato. La legge stessa prevede che all’interno delle ditte formatrici siano presenti dei responsabili della formazione, a loro volta preparati a questo compito». Nel caso della cooperativa ticinese, oggi una delle maggiori aziende formatrici nel nostro cantone, la persona di riferimento è lui. Gallotti lavora a Migros Ticino dal 2001 e si occupa degli apprendisti dal 2010. Ma cosa significa concretamente operare in questo ruolo? «Fondamentalmente, il mio compito principale è quello di “accompagnare” i ragazzi dal primo all’ultimo giorno di tirocinio nelle varie fasi della loro formazione. Ma questo lavoro comporta diversi aspetti, svolti

Giorgio Gallotti si occupa degli apprendisti di Migros Ticino dal 2010.

all’interno e all’esterno dell’azienda». Percorrendo infatti insieme a Giorgio Gallotti il suo cahier des charges si può vedere come il suo lavoro parta da molto prima della reale entrata in servizio degli apprendisti. «La fase iniziale è quella che chiamiamo “di reclutamento”. Si tratta di fare uno spoglio accurato delle candidature e di organizzare successivamente i colloqui personali di valutazione». Un elemento fondamentale, in questo momento particolare, è l’organizzazione di uno stage pratico «Una verifica che permette a noi di osservare nella situazione concreta, se i candidati mostrano veramente un’attitudine per quel tipo di impiego e a loro di meglio capire la realtà lavorativa per la quale si impegneranno a formarsi». Quando tutto va per il verso giusto si giunge poi alla decisione finale di assunzione, che viene stipulata insieme ai diretti responsabili dei vari settori aziendali.

Una volta che il candidato entra a far parte dell’organico, il supporto che Gallotti gli può fornire cambia aspetto: «Il mio compito a questo punto diventa quello della gestione e osservazione del percorso formativo. Cerco di organizzare in modo ottimale la formazione e di fornire ai ragazzi gli strumenti di lavoro per poter meglio svolgere la loro funzione in azienda». In questa fase del lavoro Gallotti è coadiuvato da un collega, Vinish Parackal. Ma sono molti, in realtà, i collaboratori dell’azienda che vengono coinvolti nella preparazione degli apprendisti. Dai responsabili diretti che formano i ragazzi sul posto di lavoro, ai colleghi della sede centrale di S. Antonino che si prestano come relatori o come formatori specializzati in grado di fornire chiarimenti su particolari temi professionali». La collaborazione di questo tipo può trovare una sua utilità concreta, ad esempio, nella preparazione dell’esame

pratico finale, con tanto di simulazione d’esame, in negozio, nei mesi precedenti alla fine dell’anno scolastico. Ma occuparsi della formazione professionale vuol dire anche curare aspetti organizzativi che esulano dal lavoro aziendale. «È vero, c’è molto da fare anche fuori dalle filiali. Ad esempio, occorre curare i rapporti con le scuole, con le famiglie e con la Direzione della formazione professionale». Ecco che Giorgio Gallotti deve quindi mantenersi in collegamento con una rete di contatti di cui fanno parte diversi gruppi di lavoro che coinvolgono anche i colleghi della concorrenza. «In quei contesti ci occupiamo dell’organizzazione del reclutamento e della valorizzazione dell’apprendistato in Ticino nonché della gestione del test attitudinale “Multicheck” utilizzato per valutare le capacità dei singoli nelle varie materie scolastiche (italiano, tedesco, matematica) e le loro attitudini

nella logica, nella capacità di concentrazione e memorizzazione». Un aspetto fondamentale del lavoro di Gallotti è comunque il contatto diretto, personale con i ragazzi, quello in cui va messa in gioco la dimensione relazionale e umana. «Naturalmente, oltre alla mia figura, sono estremamente importanti i rapporti tra tirocinanti e i formatori che li seguono in reparto. È affidato a loro il compito più delicato, quello di inserire efficacemente in azienda il nuovo collega, accompagnarlo durante tutto il percorso formativo, motivarlo all’apprendimento e aiutarlo a superare i momenti più difficili». Per impegnarsi in questo compito sono necessarie buone capacità di ascolto e di dialogo. «Un buon formatore deve essere in grado di stabilire una relazione interpersonale aperta e trasparente. Si parla qui di cose concrete, che vanno da una positiva accoglienza sul luogo di lavoro a un coinvolgimento concreto nella pratica quotidiana, che permette al ragazzo di maturare esperienza e concretizzare il suo progetto di sviluppo professionale». Dopo quattro anni di lavoro nel suo ruolo Giorgio Gallotti ritiene, dal suo punto di vista, che «è davvero importante instaurare un rapporto di fiducia e di stima tra formatore e apprendista, costruito e consolidato giorno per giorno grazie ad un dialogo diretto e personale e alla condivisione di attività lavorative. Il giovane deve contare sul fatto che vi sia all’interno dell’azienda una persona di cui si possa fidare, pronta non solo ad ascoltarlo, a dargli dei consigli, a incoraggiarlo, ma anche a rivolgergli critiche costruttive e a correggerlo». Nel contesto della relazione professionale e della realtà operativa «il giovane deve poter riconoscere nel suo formatore un punto di riferimento, una persona a cui rivolgersi per ottenere chiarimenti e suggerimenti utili, un aiuto a cui ricorrere nei momenti di difficoltà». / AZ

I nostri talenti si presentano SwissSkills L’eccellenza professionale sarà di scena a Berna con più di 1000 giovani partecipanti che si sfideranno

nelle loro professioni per vincere il titolo di campionessa o campione svizzero. Al Centro Migros di S. Antonino uno stand informativo dal 1° al 6 settembre avvicinerà i giovani e le loro famiglie alla formazione professionale Sara Rossini-Monighetti* Prestazioni ai massimi livelli: dal 17 al 21 settembre 2014 i migliori giovani professionisti dell’artigianato, dell’industria e dei servizi – provenienti da 70 professioni – si sfideranno ai campionati professionali per ottenere il titolo di campionessa o campione svizzero e staccare il biglietto per le prossime WorldSkills – campionati mondiali – di São Paulo 2015. SwissSkills Berna 2014 è l’esposizione sulla formazione professionale più grande al mondo, oltre ai campionati si potranno visitare stand dimostrativi e informativi per un totale di 130 professioni. Sicuramente un’opportunità da non lasciarsi scappare. Il Canton Ticino

sarà presente con una propria delegazione composta da una trentina di giovani talenti che si stanno scrupolosamente preparando, ormai da mesi, con i loro formatori. Sì, perché partecipare a una competizione di questo genere richiede prestazioni che presuppongono delle competenze professionali al di sopra della media. Tutti questi giovani, a prescindere dal risultato finale, sono degni di stima per l’impegno, la passione e la motivazione. Sabato 6 settembre 2014 saranno presenti nello stand della formazione professionale al Centro Migros di S. Antonino per mostrare al pubblico le loro attività, il tutto seguito in diretta da ReteTre. Quale migliore occasione per far conoscere anche il mondo della

formazione professionale? Questi giovani hanno, infatti, avuto accesso ai campionati unicamente seguendo un apprendistato, così dal 1. al 6 settembre si potrà visitare uno stand dove i ragazzi e le ragazze con le loro famiglie potranno informarsi su un sistema completo, permeabile che mira allo sviluppo personale e professionale dell’individuo e garantisce ai giovani di accedere al mercato del lavoro grazie ad un approccio diretto al mondo del lavoro e ottime prospettive di carriera con la formazione professionale superiore. Perché scegliere un apprendistato? Abbiamo girato la domanda a Paolo Colombo, Direttore della Divisione della formazione professionale: «Meccatronico degli impianti di trasporto a fune, poligrafo, creatore di abbigliamento, tecnico alimentarista, agricoltore… e tanti altri ancora. Nel nostro Paese due giovani su tre iniziano una formazione professionale dopo la scuola dell’obbligo. Hanno le idee in chiaro o vogliono imparare un mestiere. Un apprendistato quasi «su misura», tanti e tali sono i percorsi sviluppati in primis dall’economia stessa per rispondere alle sue esigenze presenti e future. Una formazione che già dopo 2, 3 o 4 anni apre le porte sul

mondo del lavoro e non dopo, di regola, 7 o 9 anni seguendo la via degli studi medio superiori e universitari; o che consente l’accesso agli studi di livello terziario – Scuole specializzate superiori, Scuole universitarie professionali fino alle Università e Politecnici grazie alle «passerelle» – e innumerevoli offerte di perfezionamento e di aggiornamento promosse dalle organizzazioni del mondo del lavoro. Apprendistato è anche garante di occupazione, il che non significa che sarà facile trovare un posto in un’economia che opera in un contesto sempre più agguerrito, concorrenziale, diversificato e con qualche distorsione di troppo in cui bisogna essere convinti delle proprie forze, avere la grinta che ti porta a prendere in mano la tua vita ed essere padrone del tuo destino. L’apprendistato è anche questo: una scuola di vita». Per approfondire il tema, nell’ambito della settimana di permanenza al Centro Migros, è prevista una conferenza pubblica: Un tesoro nelle tue mani, giovedì 4 settembre alle ore 18.30. La scelta di seguire un tirocinio deve essere consapevole e non dettata dai risultati scolastici, ne è testimone Damiano Domenighetti campione europeo 2012

nella professione di elettronico, che nonostante le buone note, ha deciso di interrompere dopo un anno di liceo per intraprendere un percorso di formazione professionale. Per il papà Mauro «è importante che ogni giovane scelga la strada che presumibilmente lo porti a vivere una vita felice e ho subito accettato la scelta di mio figlio sapendo che un apprendistato con una maturità integrata è un’ottima via, permette d’imparare una professione e dà la possibilità di accedere alle scuole superiori per ampliare la propria formazione. Inoltre una volta terminato gli studi Damiano potrà vantare una preziosa esperienza professionale, sempre più richiesta dalle nostre aziende». Sicuramente un vantaggio non indifferente per un giovane che accede al mercato del lavoro. Vi aspettiamo a S. Antonino per sostenere i nostri giovani talenti! *Delegata a SwissSkills per la lingua italiana Informazioni

SwissSkills Berna 2014 17 – 21 settembre 2014 Bernexpo www.swissskillsbern2014.ch www.ti.ch/swiss-skills


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Società e Territorio Rubriche

Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni L’uomo, animale parlante Uno degli effetti più interessanti del progresso delle conoscenze scientifiche è l’abbattimento delle barriere che da sempre l’uomo aveva posto tra sé e gli altri animali. L’orgoglio umano si è gratificato per millenni inventando distanze abissali fra sé e gli altri esseri viventi del pianeta: gli animali, esseri inferiori; noi, superiori e divini. Per la verità, nella cultura greca una simile connotazione di divinità per il genere umano sarebbe suonata come una hybris, un atto di presunzione offensivo verso gli dèi. Aristotele, con lo sguardo disincantato dello studioso di scienze naturali, riconosceva la natura animale dell’uomo, che definiva «l’animale razionale». Ma la successiva cultura dominante rifiutò ogni parentela con le bestie. Poi venne Darwin: «Nel suo aspetto fisico, l’uomo rivela l’inconfondibile impronta delle sue origini inferiori». Quando Darwin espose la sua teoria

evoluzionistica, ci furono reazioni indignate e furibonde. Il biologo Thomas Huxley fu tra i primi a difendere strenuamente l’evoluzionismo darwiniano; quando, nel 1860, lo espose in una conferenza, si sentì chiedere dal vescovo anglicano di Oxford: «Di grazia, è per parte di nonno o per parte di nonna che Ella vanta l’onore di discendere da una scimmia?». Oggi prevale la tesi che le scimmie non furono i nonni del genere Homo, ma solo lontani cugini: un’evoluzione ramificata diede origine sia alle scimmie antropoidi, sia a varie specie del genere umano, come i Neanderthal, che si estinsero poi lasciando in vita il solo Homo sapiens: dunque, un animale – dotato però di caratteristiche particolari che lo hanno reso vincente nella competizione fra le specie. Oscuramente consapevole di questa sua natura animale, l’uomo ha fatto di tutto per distanziarsene, per

occultarla e respingerla. Con i vestiti, ad esempio: nei secoli del colonialismo uno degli argomenti forti per dimostrare che gli indiani d’America e delle isole del Pacifico non erano uomini – o per lo meno erano uomini inferiori, e quindi risultava legittimo renderli schiavi – era il fatto che non portassero vestiti. E, nella cultura occidentale, le esortazioni a respingere la natura animale non si contano (celebre quella dell’Ulisse dantesco: «Fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza»). Che l’uomo sia «l’animale razionale» è cosa indubbia; ma, accanto alla razionalità, oggi si tende a porre come tratto distintivo dell’uomo anche il linguaggio. Anzi, sono in molti a ritenere che capacità razionale e linguaggio si siano sviluppati congiuntamente, nutrendosi l’una dell’altro. Anche gli animali, beninteso, possiedono un loro linguaggio; e possiedono intelligenza. Anzi, via via

che i ricercatori approfondiscono il problema, certi luoghi comuni vengono radicalmente ribaltati; ad esempio, l’espressione «cervello di gallina» che di solito viene usata per qualificare uno stupido, potrebbe ora diventare un elogio: numerosi studi, anche recentissimi, hanno rivelato che il pollo domestico è notevolmente intelligente e dispone anche di raffinate capacità comunicative. Così, uno degli effetti liberatori della ricerca scientifica è quello di far crollare stereotipi che sono durati millenni e che hanno anche giustificato profonde ingiustizie sociali: come la tesi dell’inferiorità mentale dei neri rispetto ai bianchi e della donna rispetto all’uomo. Ho accennato alla relazione stretta tra linguaggio e intelligenza; ebbene, anche per quanto riguarda il linguaggio i pregiudizi maschilisti, espressi in una cultura plurimillenaria, hanno assegnato all’uomo una superiorità

sulla donna. Un esempio spassoso lo si ritrova in Dante, che nel De vulgari eloquentia afferma, con la massima serietà, che, anche se è vero che nella Genesi le prime parole rivolte al serpente compaiono sulla labbra di Eva, «è più conforme alla ragione ritenere che sia stato l’uomo a parlare per primo, ed è sconveniente pensare che un atto così nobile del genere umano sia sgorgato prima dalle labbra di una donna che da quelle di un uomo». Sapendo poi, come appare oggi abbastanza certo, che in età preistorica il potere era delle donne che lo esercitavano nella forma del matriarcato, si può anche ipotizzare che lo sviluppo del linguaggio si debba alle nostre lontane antenate ancor più che ai loro coetanei maschi. Sarebbe così definitivamente sconfessato anche questo aforisma di Bruno Lucrezi: «Dio diede la parola ad Adamo. Adamo poi la passò ad Eva, e così rimase un’altra volta senza».

e nero dove in otto riquadri ci sono altrettante variazioni del vaso di Rubin, nota illusione ottica che prende il nome dallo piscologo danese Edgar Rubin: un calice bianco perlescente disegna due profili umani neri faccia a faccia. In cima, avviene l’inverso. Accanto ecco L’ascensione di Elia: su sfondo pixelato di gocce variopinte c’è il profeta Elia dentro un medaglione che ascende in cielo sul suo carro infuocato. Il discepolo Eliseo ne acciuffa il manto come in un’immagine della capolettera P trovata in un altro manoscritto miniato del dodicesimo secolo. È la volta poi del Re Davide che appare in verde militare a parte la sua arpa bianca. Il volto con occhi strabuzzati ricorda la statua di Carlomagno un tempo qui sulla torre, dove si può salire per quattro franchi, ora giù nella cripta. Le due ultime vetrate, a tinte perlopiù rosa-verde pisello-lilla che ricordano un po’ la pop-art – forse le più interessanti di questo ciclo di prefigurazioni

di Cristo – sono a nord, dove abbiamo iniziato il giro: Il sacrificio di Isacco e Il capro espiatorio. Le figure di entrambe le vetrate sono tratte ancora da un manoscritto medioevale e rimaneggiate al computer. In basso, come nella simmetria delle carte da gioco, si specchiano in diagonale due Isacchi identici tenuti per i capelli e due caproni sacrificali color porpora. Mentre sopra, Abramo con la spada sollevata è replicato otto volte in tondo come una girandola celtica o piuttosto un mandala. In cima, un angelo caleidoscopico. Lo stesso caprone è riprodotto a fianco ma amplificato e sezionato in due: la parte anteriore nel riquadro sopra e quella posteriore all’incontrario, sotto. Diciotto splendide scaglie di tormalina sono incastonate soprattutto nel corpo del capro, creando così una connessione con le finestre d’agata lì vicino. Mosaici di pietre vulcaniche affettate come citoplasmi di luce multicolore ai quali torno con l’occhio.

di sensibilità morale nei confronti di una grave malattia, che chiede sostegni finanziari da destinare alla ricerca. Ma compiendolo, sotto la luce dei riflettori, personaggi già più o meno in vista, campioni sportivi, attori, cantanti, politici rinfrescano, e non solo materialmente, la loro necessaria popolarità. Del resto, la lavata pubblica ha avuto dei precedenti: i tuffi vestiti nelle piscine dei vip erano cose da dolce vita anni 60. E, un paio d’anni fa, sulle spiagge italiane si organizzò il concorso «Miss maglietta bagnata». C’è, però, di peggio. Ecco che, fra le mode estive, a dispetto dell’inclemenza climatica, la tendenza a scoprirsi ha, quest’anno, toccato il limite estremo: a Barcellona, gruppi di giovani turisti hanno optato per il nudo totale. E, così, come mamma li fece, hanno affrontato la vita pubblica: passeggiando nelle strade, entrando nei negozi e nei bar. Una bullaggine, evidentemente consegnata a Facebook, e che doveva trovare, subito, imitatori, in Puglia. Suscitando, in Spagna come in Italia, reazioni

di disappunto: tacciate, ci voleva, di bigottismo, rilanciando il dibattito sul tema della libertà e dei suoi limiti. Ma, qui, a sproposito. Si trattava, semplicemente, di cretinate. Non sempre, tuttavia, il cretino di turno merita soltanto ironia o indifferenza. A volte, le mode, di cui si fa protagonista, propongono modelli preoccupanti, giochi pericolosi. È il caso della voga, nata sulla Costa Brava e poi esportata, dei salti dai balconi, dai tetti, sopra le cancellate, praticati da ragazzi atleticamente impreparati, che ci hanno lasciato persino la vita. Infine, dato che il cretino «conosce sempre nuove incarnazioni», è d’obbligo citare la figura del comandante della Concordia, tornato alla ribalta dell’attualità, come protagonista di serate mondane e, addirittura, come relatore universitario, alla Sapienza di Roma, sul tema della «Sicurezza a bordo». Cretino lui ad accettare l’invito, o più cretino chi gliel’ha proposto? Interrogativo senza risposta. A volte, la cretineria è disarmante.

Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf Le vetrate di Polke a Zurigo Conosciute in tutto il mondo sono quelle di Chagall, di vetrate, a Zurigo. Dal 1979 richiamano mandrie di turisti dentro la Fraumünster, sponda sinistra della Limmat. Dall’altra sponda del fiume però, da cinque anni a questa parte, si possono ammirare anche le dodici vetrate dell’artista tedesco Sigmar Polke (1941-2010). Dentro la Grossmünster, epicentro della Riforma protestante capitanata da Zwingli e secondo una leggenda, luogo dove sono state deposte le teste, decapitate in riva alla Limmat, di Felix e Regula: fratello e sorella le portano lì loro stessi per quaranta passi. Passeggiando sulla Münstergasse nel cuore del Niederdorf – dopo un caffè da Schwarzenbach, la cui torrefazione è fatta in bellavista nella storica drogheria (1912) accanto – d’un tratto la via si apre nella Zwingliplatz. Sopra il portale nord della chiesa a impianto basilicale, si vede già la prima vetrata a mezzaluna, ma non dice granché senza luce filtrante. Entro dal portone

di ciliegio cesellato con scene bibliche che si apre e si chiude comicamente in modo automatico. Mi giro, e benché sia una giornata grigia di fine estate, ecco il primo sprazzo magico delle vetrate di Polke (413 m) a Zurigo. Vetrate per modo di dire, non c’è un solo pezzo di vetro, soltanto agata. La scelta di questo prezioso materiale scaturisce dal frontespizio della Bible moralisée viennese nota anche come Codex Vindobonensis 2554. In una miniatura c’è il cosiddetto Creatore chinato con compasso alla mano; nel palmo sinistro, in posa da lancio delle bocce, un cerchio-cosmo che Polke ha associato alla sezione concentrica dell’agata. Prima impressione alzando gli occhi: un preparato istologico sotto la lente di un microscopio. Le fette d’agata brasiliana spesse al massimo nove millimetri, accostate tra loro, formano un tessuto luminoso la cui gamma cromatica comprende blu, rosso, rosa, verde, beige, arancio, eccetera. Così, da una cosmogonia miniata

contemporanea grossomodo della Grossmünster si sfocia nell’immaginario del mondo cellulare microscopico, passando dalle viscere miracolosamente colorate della terra. Viaggio ottico concepito da Polke e realizzato, tra il 2007 e il 2009, dalla vetreria Mäder (1887) nel Kreis 4, al dodici della Freyastrasse. Stretta la collaborazione tra gli artigiani della Mäder e Polke, visto che negli anni Cinquanta a Düsseldorf studia proprio pittura su vetro. L’agata tour prosegue da est a ovest, scandito da cinque tappe di finestre verticali, intercalate dal contrasto creato dall’austera massa di pietra arenaria di cui è fatto questo duomo a tre navate divise da file di pilastri. Colpisce una, dove due fette d’agata sul blu, spiccano sulla maggioranza marroncina. L’ultima, la settima, a sud, è una rosetta alle spalle di tre figure indistinte romaniche. Si passa ora alla serie figurativa, la prima è intitolata Il figlio dell’uomo. Niente più agata colorata, ma vetro bianco

Mode e modi di Luciana Caglio «La prevalenza del cretino»: versione estiva ’14 A scanso di equivoci, e lo indicano le virgolette, questo titolo non l’ho inventato io, purtroppo. L’ho preso in prestito da un libro del 1985, da me amatissimo: la raccolta di un centinaio di puntate della rubrica «L’Agenda di F. & L.», pubblicate dal quotidiano torinese «La Stampa». Furono gli stessi autori, cioè Carlo Fruttero e Franco Lucentini, a trovare, con un colpo di genio, quel titolo simile a una battuta, apparentemente scherzoso, entrato poi nel linguaggio corrente, per definire un fenomeno allarmante a cui l’epoca stava aprendo nuovi spazi: la presenza sempre più invadente, nella quotidianità pubblica e privata, di comportamenti all’insegna della stupidità. Era «La prevalenza del cretino», sulla scena del mondo e, in platea, F. & L. ne registravano gli effetti. Una manna, se si vuole, per dei giornalisti, o in questo caso degli scrittori, in grado di andare oltre la cronaca e ricavare da episodi e personaggi, di per sé modesti, gli indizi, appunto, di un fenomeno sociale incombente. Si trattava, insomma, di

un’operazione d’indagine e di denuncia insolita: condotta in chiave narrativa, offrendo un amaro divertimento. (Lettura raccomandata, i capitoli «La gita scolastica» e «Cuore di turista»). Infatti, e qui sta il loro inimitabile

Rito attuale: la secchiata di acqua gelida. (wikimedia)

pregio, Fruttero e Lucentini non montavano in cattedra per emanare sentenze né, tanto meno, per guardare con distacco una società cui, comunque, appartenevano. Erano consapevoli che «il cretino» alligna un po’ in tutti noi. Ma proprio l’epoca sembrava favorire la categoria, moltiplicando le occasioni in cui esibirsi e contagiando, attraverso i mezzi di comunicazione, il pubblico degli imitatori. Succedeva già, così, allora, nella seconda metà del secolo scorso, quando F.& L. scrissero i loro commenti, densi di presagi inquietanti. Figurarsi se fossero qui, adesso, in questa estate, contrassegnata dall’esplosione di balordaggini condivise, tramite i social network, sul piano globale. In proposito, è ormai esemplare il rito, attualissimo, della secchiata d’acqua gelida che ci si rovescia sulla testa, obbedendo a una sorta di dovere che avrebbe fini benefici. E qui sta l’aggravante di un inganno. Un gesto, semplicemente cretino, viene presentato alla stregua di una manifestazione


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 1. settembre 2014 ¶ N. 36

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Ambiente e Benessere Condividere l’avventura Come imparare a raccontare bene un viaggio ai nostri amici che sono rimasti a casa?

Reportage dal Chobe National Park Con 70mila elefanti, ippopotami, bufali, zebre, leoni, iene, coccodrilli e molte altre specie, è il parco africano con la maggior concentrazione di animali

Biodiversità e boschi alpini Terzo articolo della serie dedicata agli alberi e ai loro piccoli abitanti

Marchethon compie 10 anni Sabato 13 settembre a Biasca, tornano le gare podistiche, il walking e tante altre sorprese

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Il dottor Pierluigi Brazzola, responsabile del servizio ematooncologico del reparto pediatrico del nosocomio bellinzonese. (Vincenzo Cammarata)

Lotta personalizzata contro i tumori Pediatria La collaborazione tra il San Giovanni di Bellinzona e il Kinderspital di Zurigo

assicura il meglio delle cure ai piccoli pazienti oncologici Maria Grazia Buletti In Svizzera ogni anno tra 250 e 300 giovani in età compresa da zero a sedici anni si ammalano di una patologia oncologica: il 42 percento sono femmine, il 58 percento maschi. I tumori più comuni che colpiscono in età pediatrica sono le leucemie (prevalentemente di tipo acuto), i linfomi (Hodgkin e non Hodgkin) e i tumori cerebrali. Queste tre patologie oncologiche raggiungono circa i due terzi della casistica totale. Ne abbiamo discusso con il caposervizio di pediatria dell’Ospedale San Giovanni di Bellinzona, il dottor Pierluigi Brazzola, responsabile del servizio emato-oncologico del reparto pediatrico del nosocomio, il quale ci ha spiegato che in Ticino si manifestano tra i 10 e i 15 nuovi casi all’anno, presi a carico dal servizio di oncologia pediatrica dell’OSG in collaborazione con il Kinderspital di Zurigo. In quanto il Dipartimento di pediatria dell’Ente Ospedaliero cantonale ha per l’appunto sottoscritto un accordo di collaborazione in tale ambito con l’Ospedale dell’infanzia di Zurigo. «Esso formalizza e intensifica la collaborazione già esistente da parecchi anni – più di venti se ben ricordo – iniziata con le cure oncologiche pediatriche in Ticino introdotte a suo

tempo dalla dottoressa Nobile», esordisce il dottor Brazzola. Specialità che, con il tempo, è stata concentrata in una sola sede e dal 2008 localizzata a Bellinzona. La formalizzazione di questa proficua collaborazione ha permesso di riconoscere il Dipartimento pediatrico del nosocomio sopracenerino come reparto in grado di offrire una medicina oncologica pediatrica altamente specializzata: «L’aggancio con la clinica universitaria di Zurigo completa le nostre cure specialistiche con le cure intense, la dialisi per bambini piccoli e tutto quanto possa soddisfare i severi criteri e le necessità diagnostico-terapeutiche delle cure pediatriche altamente complesse di questo genere». Questo il modus operandi riservato a ogni nuovo giovane paziente: «A Bellinzona eseguiamo le diagnosi di leucemie e linfomi, mentre per i tumori solidi e cerebrali ci avvaliamo della collaborazione di Zurigo. Dal momento in cui la diagnosi è chiara, in Ticino siamo autonomi per quanto attiene agli aspetti terapeutici, tramite chemioterapia e la maggior parte della radioterapia, mentre per gli interventi chirurgici di tipo complesso subentra il centro universitario zurighese, che è in grado di assicurare una qualità ottimale determinata

dalla casistica, dall’esperienza e dalla complessità della struttura stessa». L’obiettivo è quello di offrire il meglio delle cure altamente personalizzate a ciascun bambino, con l’evidente scopo di riuscire a guarirne il maggior numero possibile: «Le terapie seguono protocolli di cura internazionali ai quali partecipiamo attivamente dopo l’autorizzazione formale e indispensabile da parte di Swissmedic e del Comitato Etico cantonale: solo così Bellinzona può essere un centro riconosciuto e autonomo, nel rispetto di tutti i criteri necessari per uno studio clinico all’avanguardia». La stretta collaborazione permette di ricoverare il paziente laddove potrà usufruire del massimo delle cure: «Ciò significa terapie sempre più personalizzate, perché ci sono pazienti che necessitano “poca” terapia in quanto dall’inizio presentano buone possibilità di guarigione, mentre altri presentano rischi più elevati e le cure dovranno essere adeguate alla loro situazione». In tal modo si può evitare che un paziente riceva una terapia sovradimensionata alla sua necessità; per analogia, chi ne avrà bisogno potrà ricevere quella adeguata alle sue esigenze: «Si tratta di cure efficaci, certo, ma a un certo prezzo (ndr: con effetti secondari) e si vuole evitare il manifestarsi di effetti negativi a lungo termine: il no-

stro obiettivo è quello di raggiungere la guarigione del paziente, ma in modo che possa vivere in buone condizioni di salute per i prossimi 50 o 60 anni senza doversi poi confrontare con le conseguenze delle terapie subite da piccolo». Oggi, le possibilità di guarigione dalle malattie oncologiche pediatriche si aggirano attorno al 75-80 per cento: «Ma si tratta di una media: ci sono patologie o situazioni particolari in cui abbiamo percentuali molto basse, mentre per altre abbiamo il 100 per cento di guarigione». Molteplici le difficoltà oggettive di cura di questi piccoli pazienti: «Ci sono categorie di patologie pediatriche oncologiche che nell’adulto non esistono e viceversa; abbiamo il paziente con caratteristiche favorevoli e ottime chance di guarigione con una terapia adeguata; mentre ci sono situazioni apparentemente disperate, ma per le quali si possono sempre proporre terapie che possono avere successo, anche se purtroppo con minore frequenza. In fondo, in ogni categoria di malattia troviamo coloro i quali hanno migliori possibilità di guarigione rispetto ad altri». A questo proposito, il nostro interlocutore afferma che le leucemie hanno di norma una buona prognosi, mentre ad esempio per i tumori cerebrali lo

spettro di successo è molto più variabile. La cura di una patologia oncologica in età pediatrica non si limita ai protocolli clinici e a una buona organizzazione terapeutica: se all’inizio ci si focalizza sull’aspetto essenziale della cura medico-farmacologica, bisogna poi considerare tutti gli altri aspetti, a partire dal contesto famigliare: «Al di fuori del puro aspetto chemioterapico che tocca il piccolo paziente, bisogna tener conto e sostenere il suo contesto: la famiglia che deve affrontare e superare il tutto, i legami con la scuola, i problemi che inevitabilmente toccano fratelli e sorelle, la cassa malati, i trasporti per le terapie e per un eventuale soggiorno fuori cantone e quant’altro. Perciò, a supporto immediato di ogni famiglia stanno gli assistenti sociali del reparto e un sostegno psicologico». Il servizio deve così estendersi, organizzarsi ed essere in grado di portare aiuto e sostegno: «È una prerogativa essenziale per organizzare al meglio la pediatria oncologica nella nostra struttura». L’OSG offre dunque «la certezza che ogni paziente possa ricevere le migliori cure di cui si dispone al momento per una terapia ottimale». Inoltre al paziente e alla famiglia viene anche garantito «un ambiente e un contesto il più favorevole possibile alle loro esigenze».


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Ambiente e Benessere

Condividere e raccontare le vacanze Viaggiatori d’Occidente Dieci consigli per chi è appena tornato

Claudio Visentin Al ritorno dalle vacanze estive comincia il lungo tempo autunnale nel quale il tema dei viaggi tiene banco e ognuno avverte irresistibile il desiderio di raccontare la propria esperienza per le strade del mondo. È sempre stato così, del resto, sin dai tempi più antichi, e tutti i grandi viaggiatori da Ulisse in poi sono stati anche formidabili narratori. Sappiamo anche che il viaggio è tra i temi più apprezzati nella conversazione, eppure molte volte, quando cominciamo a esporre quel che ci è accaduto, ci accorgiamo di destare piuttosto noia che interesse. E le serate di diapositive vacanziere sono tra gli inviti più temuti… La spiegazione è semplice: perché un viaggio sia apprezzato anche da chi non l’ha condiviso con noi, occorre imparare a raccontarlo bene. Ecco allora alcuni consigli molto pratici a questo fine. Anzitutto non cercate di raccontare tutto. Non dovete rifare la guida. Siate brevi, efficaci. Non cominciate dall’inizio del viaggio, abolite l’ordine cronologico e lasciate emergere subito le esperienze più significative: un incontro, un episodio divertente… Anche se avete diligentemente visitato tutto il Louvre, parlate soltanto di un quadro che vi ha particolarmente emozionato. Non limitatevi ai luoghi più famosi. Quel che viene ritratto sulle cartoline è probabilmente noto a tutti o quasi. Raccontate di luoghi meno turistici, fuori mano, e lasciate molto spazio alle

Lo scrittore Andrea Bocconi racconta i propri viaggi.

persone che avete conosciuto in viaggio. Siate precisi. È come nelle barzellette, i dettagli sono tutto: il nome di un luogo, di una persona incontrata, le esatte circostanze di una vicenda, un colore, un gesto, una frase colta al volo daranno alle vostre parole quell’indispensabile patina di autenticità. Se siete inclini a dimenticare questi particolari, annotateli nel vostro taccuino durante il viaggio. Evitate però l’accumulo di dettagli insignificanti che rallentano soltanto la narrazione. Siate umili. Evitate ogni protagonismo, mettete il viaggio al centro e lasciate che gli altri rivivano la vostra

esperienza come se fosse loro. A questo fine, come esercizio, può essere utile abolire la prima persona. Riflettete sulla differenza tra dire «Quella mattina sono entrato nel bazar di Istanbul e ho visto…» e «Quando entri nel bazar di Istanbul vedi…». Siate ironici. Non prendetevi troppo sul serio. Imprevisti e piccoli fallimenti sono una parte importante, e spesso rivelatrice, di ogni viaggio: evitare di celebrare le vostre imprese vi aiuterà a restare sullo stesso piano degli interlocutori. Informatevi sugli interessi dei vostri ascoltatori. Dialogate, non fate un

monologo; incoraggiate domande e osservazioni. Non seguite uno schema fisso. Se chi sta davanti a voi è appassionato di natura, raccontate di un parco; se ama fare acquisti, parlategli dei prodotti locali. Lo scrittore di viaggi Rolf Potts ripete sempre che il miglior racconto di viaggio è quello che si fa per sedurre una fanciulla appena conosciuta a una festa, dove l’attenzione è tutta rivolta a coinvolgere e interessare l’altra persona. Non spiegate, mostrate. Non siate concettosi e non partite dalle caratteristiche generali di un Paese, vere o presunte: rischiereste soltanto di ripetere stereotipi. Raccontate invece vicende

particolari e aneddoti dai quali eventualmente i vostri ascoltatori sapranno ricavare un significato più ampio. Non sottolineate solo le differenze tra il vostro Paese e gli altri, ma anche le affinità e i punti di contatto. Usate con parsimonia le immagini. Non sovraccaricate i vostri ascoltatori con fotografie in sequenza, video ecc. Scegliete poche immagini significative e mescolatele al vostro racconto. Evitate lunghi video di carattere generale che in ogni caso non reggerebbero la concorrenza con quel che ogni giorno passa in televisione negli infiniti programmi turistici. Meglio mostrare oggetti, o magari far ascoltare qualche brano musicale acquistato durante il viaggio. Adottate punti di vista particolari. Raccontate una città dal punto di vista delle donne, dei bambini, dei proprietari di animali, o di chi è interessato soprattutto alla vita notturna. Create delle piccole liste… come questa che state leggendo. I tre insegnamenti più importanti che avete tratto dall’ultimo viaggio, cinque ragioni per amare New York, dieci posti di Parigi dove passare la sera… Sono forme di comunicazione particolarmente adatte anche per essere poi condivise sui social network. Imparare a raccontare meglio i propri viaggi ha un ulteriore vantaggio: ci rende viaggiatori più attenti perché quando ripartiremo avremo capito meglio cosa cercare, come guardare, come ritrarre luoghi e persone. Perché siamo noi i primi ascoltatori del racconto del nostro viaggio… Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Africa, reportage dal Chobe Il diario di Daisy Botswana: safari fotografico nel parco nazionale africano

con la maggior concentrazione di animali – Prima parte

Daisy Gilardini, testo e foto I lettori di «Azione» che si sono soffermati sulle mie «pagine di diario» in passato, sanno bene che prediligo i luoghi freddi del nostro pianeta. Mi trovo totalmente a mio agio a –20C, mentre comincio a sentirmi come un bradipo (dal greco «piede lento») a temperature che eccedono i 26C. Vi chiederete dunque come mai sia finita in Botswana. Sono dell’idea che nella vita sia sempre necessario cercare nuove sfide, ampliare i propri orizzonti e a volte, perché no?, forzare i propri limiti e uscire dalla propria «comfort zone». In Africa ero già stata. E più precisamente in Namibia nel 1998 e in Madagascar nel lontano 1993, e poi ancora nel 2003. Due volte su tre, nonostante la profilassi, mi sono portata a casa la malaria: di certo una compagna poco piacevole! Eppure, al di là della mia più che giustificata esitazione iniziale, lo spirito di avventura mi ha spinta ad accettare l’invito di Guts, un amico fotografo, che abita a Kasane, nel cuore del Chobe National Park, dove organizza tour fotografici. Il Botswana, ex colonia inglese, sin dalla sua indipendenza avvenuta nel 1966 è un Paese con una democrazia stabile e una crescita economica tra le più elevate di tutto il continente. La sua fortuna è dovuta alle sue risorse minerarie: oro, uranio, rame e, soprattutto, diamanti. Nel Botswana, infatti, vi sono le più grandi e ricche miniere di diamanti al mondo. Sono così importanti da costituire ben il 40 per cento degli introiti governativi. Anche il turismo, ovviamente, è considerato un importante settore nell’economia del Paese, anche perché fornisce numerosi posti di lavoro nelle economie locali. A livello naturalistico le quattro grandi zone d’interesse sono: il Delta dell’Okavango; la riserva del Kalahari centrale che, con un’area di 52mila kmq è la più grande zona protetta di tutta l’Africa; il Makgadikgadi Pans National Park (12mila kmq di saline) e il Chobe National Park.

Sono le due di pomeriggio quando atterro nel piccolo aeroporto di Kasane. Ad aspettarmi, con grande sorpresa, un piccolo comitato di benvenuto: Guts accompagnato da alcuni compagni di viaggio incontrati in novembre in Antartide. Nemmeno il tempo di adeguarmi alla temperatura di quasi 30C e mi ritrovo seduta sulla barca appositamente equipaggiata per i fotografi più esigenti. Comode poltroncine girevoli con annesso cavalletto super maneggevole e regolabile in mille modi sono il lusso più sfrenato in cui mi sia mai trovata a lavorare sul cam-

po. Il tettuccio appositamente studiato ci evita pure il pericolo di spiacevoli scottature e/o insolazioni. Abituata a lunghi appostamenti nelle condizioni meteorologiche più inclementi, mi sembra quasi di sognare. Qui gli animali di certo non mancano: Guts mi spiega che il Chobe National Park, con una popolazione di elefanti che si aggira sui 70mila esemplari, ippopotami, bufali, zebre, leoni, iene, coccodrilli e molte altre specie, è il parco africano con la maggior concentrazione di animali e, con ben 460 specie di uccelli diversi, è un vero pa-

radiso per l’osservazione di queste magnifiche e variopinte creature. Dopo quattro ore sul fiume, ancora frastornata dal lungo volo, è tempo di coricarsi. Guts abita in una magnifica casa coloniale sul fiume. Mi ritiro nella mia camera dove, sul letto, una gigantesca zanzariera mi ricorda che qui, al contrario delle regioni polari, gli insetti e le creature che strisciano (vedi serpenti, scorpioni e quant’altro), la fanno da padroni. Entro in doccia e gli occhi mi scappano al soffitto. Inorridita, esco di corsa! Un gigantesco ragno nero e peloso mi osserva tranquillo dall’alto. Con stridula voce chiedo soccorso e Guts appare ridacchiando, tranquillizzandomi con un enorme sorriso, come se già sapesse quale fosse il problema: «Non ti preoccupare, questi non fanno niente, anzi mangiano le zanzare! Pensa che la mia mamma quando ero bimbo mi mandava a cercarli per portarli in casa». Paese che vai, tradizioni che trovi… Ma la notte è lunga e le emozioni sono solo cominciate. Dopo un’ulteriore sbirciatina sotto le coperte finalmente poso la testa sul cuscino. Nemmeno il tempo di chiudere occhio che un ruggito, vicino, troppo vicino, mi fa sobbalzare sul letto. Sembra provenire proprio da fuori dalla finestra di camera mia. Qualche

secondo più tardi il frastuono di un colpo di fucile echeggia in lontananza. Poi un nuovo ruggito anticipa un litigio. L’adrenalina scorre pura e veloce nelle vene e il cuore mi salta in gola. Cerco di calmarmi, ma il latrato dei cani dopo un altro colpo di fucile torna ad agitarmi: sono rumori che arrivano da distante, ma non basta per farli sembrare rassicuranti. Cerco di convincermi che, considerata la presenza dei cani, la situazione è sotto controllo. All’alba delle cinque il delicato profumo del caffè che Guts sta preparando in cucina mi fa uscire dal letto. Gli riassumo la nottata e quel sorrisino quasi strafottente riappare, accompagnato dalla solita risatina: «Oh scusa, mi sono dimenticato di dirti che sull’albero di fronte alla finestra di camera tua vanno a dormire i babbuini, e, sì, in effetti fanno dei versi incredibili quando litigano. Gli spari invece erano quelli del vicino: lo fa per tenere gli elefanti fuori dal suo giardino. Mentre i cani li chiudo in casa durante la notte. Il nostro vicino ne ha già persi quattordici per colpa dei leopardi…». Poco tranquillizzata riassumo mentalmente: «Allora: finestre sbarrate e mai uscire di notte da sola per evitare incontri con babbuini, leopardi e chissà, magari anche con un elefante che bruca in giardino».


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 1. settembre 2014 ¶ N. 36

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Ambiente e Benessere

Gli alberi e i bostrici Biodiversità Ingegnosi costruttori di gallerie e coltivatori di funghi – Terza parte

Alessandro Focarile, testo e foto Possiamo paragonare l’albero a una casa con più piani, comprese le cantine costituite dalle radici. Ogni piano della casa è razionalmente abitato da insetti a esso specifici. I motivi di questa efficiente spartizione «territoriale» sono ascrivibili alla necessità di cercare e trovare situazioni micro-climatiche ottimali per quanto riguarda la temperatura e l’umidità che caratterizzano le varie porzioni dell’albero, di evitare la concorrenza per il cibo e di disperdere l’azione degli eventuali predatori. Infine va tenuto presente che l’albero, dal punto di vista idraulico, attraverso i canali linfali è una pompa a circuito chiuso: dalle chiome alle radici e viceversa, senza dispersione (salvo la traspirazione). Nelle ore meridiane di una soleggiata giornata, gli alberi che compongono un’abetaia (Picea abies) ticinese (Gualdo Maggiore – Olivone) possono conoscere notevoli sbalzi termici, tra le parti in ombra e quelle al sole. Mutamenti termici che possono giungere fino a quasi 50°C (foto) nello stesso momento (dato verificabile grazie alla lettura istantanea dei due strumenti).

Tomicus minor (bostrico del pino) e il suo sistema di gallerie.

I boschi alpini di conifere sono popolati da oltre 90 specie di bostrici (scolìtidi) Un albero in buona salute reagisce ai loro eventuali morsi emettendo copiose quantità di resina Queste situazioni micro-climatiche obbligano gli inquilini, che vivono sotto le cortecce, a continui spostamenti per utilizzare al meglio le loro sedi di vita. Le elevate temperature facilitano una notevole ossidazione e conseguente fermentazione sotto la corteccia, favorendo la produzione di zuccheri (glucosio, saccarosio). Poiché l’apparato assorbente, e cioè le radici, è generalmente lontano dall’apparato disperdente (le foglie), gli alberi sono molto esigenti e sensibili ai fattori climatici. Tra gli xilòfagi, che fanno parte della fauna di un bosco, sono compresi i coleotteri scolìtidi, notoriamente conosciuti con il nome di bostrici, denominazione erroneamente invalsa da vecchia data tra i forestali, e perpetuatasi fino a oggi. Nella realtà, i bostrici appartengono a tutt’altra famiglia: i bostricidi, costituita da insetti predatori e non xilòfagi. Il classico bostrico è l’Ips typographus – questo il nome scientifico attribuitogli dal sommo Linneo nel 1758 e tuttora valido. Contrariamente a quanto è stato affermato, questo coleottero non è la causa della morte degli alberi (Waldsterben), bensì è la conseguenza della loro deperienza. Questo stato patologico è all’origine del mutato odore della resina fermentata; odore efficacemente percepito dai bostrici tanto da venir attirati da esso. Un albero in buone condizioni di salute reagisce agli eventuali morsi dei bostrici emettendo copiose quantità di resina sottoforma di colaticci (foto) che scorrono lungo il tronco e nei quali affogano gli insetti. A questo fenomeno dobbiamo le splendide e preziose inclusioni nella ben nota ambra, la resina fossile giunta fino a noi dopo milioni di anni («Azione», 13 gennaio 2014, N° 3). I boschi alpini di conifere (pini, abete rosso, larici) sono popolati da ol-

Colaticci di resina su abete rosso.

Ips typographus (bostrico tipografo): in rosso galleria materna; in verde cunicoli delle larve.

Il popolamento di una conifera da parte di diversi xilofagi a diverse altezze.

tre 90 specie di bostrici (scolìtidi), (Bovey 1987). Sedi delle loro colonizzazioni, sono gli alberi deperienti per cause fisiologiche oppure abbattuti per traumi fisici. Schianti per neve pesante, valanghe, frane e smottamenti, colpi di vento. A questo proposito sono rimasti famosi i catastrofici effetti dei due uragani, Viviane nel 1991 e Lothar nel 1999, con il conseguente abbattimento di oltre 20 milioni di metri cubi di alberi. E poi ci sono gli incendi: il nostro antenato scopriva, stupito, il fuoco, osservando bruciare un albero colpito dal fulmine. Oppure ancora, gli alberi deperiscono per carenze di varia natura: aridità, eccesso di acqua, poca luce, insufficiente nutrimento organico e minerale, povertà di meso e microfauna demolitrice e riduttrice nella composizione del suolo. Questi alberi devitalizzati sono il domicilio ottimale dei bostrici. Le madri delle differenti specie depongono le loro uova tra la parte interna della corteccia e il legno propriamente detto, iniziando dalla galleria materna (foto), dalla quale si dipartono i cunicoli di alimentazione scavati progressivamente dalle larve nate dalle uova. Mamma-bostrico si premura di depositare, insieme con le

uova, anche una scorta di spore di un micro-fungo il cui sviluppo tappezzerà le pareti dei cunicoli larvali. Così operando la madre-bostrico crea una fungaia, che assicurerà la vita e lo sviluppo della sua figliolanza. L’azione dei bostrici crea i presupposti per un progressivo distacco della corteccia dal legno sottostante, il che facilita la colonizzazione di altri xilòfagi, quali sono i coleotteri longicorni, i mangiazucchero. Il disegno delle gallerie e dei cunicoli di alimentazione ha uno sviluppo caratteristico di ogni specie, costituendo la carta d’identità personale. Da essa si può riconoscere il bostrico che l’ha prodotta (foto). Spesso i bostrici vivono in colonie popolose, entro le quali si assiste a un inizio di vita sociale organizzata, grazie alla razionale suddivisione dei compiti. In effetti esiste un’efficiente collaborazione tra i due sessi nella costruzione della galleria materna: la femmina scava e il maschio evacua il materiale legnoso sotto forma di minuta segatura. Sotto le cortecce si formano sacche di liquidi fermentati, nutrimento di innumerevoli larvette di moscerini. Forse si ubriacano, ma non conosceremo mai i loro comportamenti dopo l’ingestione di una specie di birra aromatizzata! Queste larvette sono il cibo

di una altrettanto numerosa schiera di voraci predatori: coleotteri e loro larve, ragni, centopiedi. Un popolo di predati e predatori, tra loro collegati da complesse catene e reti alimentari, organizzate molto funzionalmente e senza sprechi. Sotto le cortecce c’è posto per tutti. I bostrici costituiscono un modello biologicamente ben costruito. La struttura cilindrica del loro corpo ben si adatta allo scavo e alla manutenzione di gallerie che hanno una sezione cilindrica. Si caratterizzano per le cure parentali che assicurano alla loro figliolanza grazie al rifornimento di spore fungine dalle quali si svilupperanno i microfunghi, alimento per le loro larve in via di sviluppo. Infine, per l’efficiente collaborazione, tra i due sessi, durante lo scavo della galleria materna. Gli olmi erano un’importante componente nella compagine di latifoglie popolante i boschi dell’Europa, com’è stato documentato grazie alle analisi dei pollini ottenute dai carotaggi nei sedimenti torbosi in numerosissime località dalla Padania all’Europa centro-settentrionale. Anche con gli olmi erano costruite le capanne delle popolazioni delle palafitte. Ophiostoma ulmi è il nome di un microfungo ascomicete giunto dall’Asia

in Italia nel 1930. Con l’ausilio di un bostrico (Scolytus ulmi) che ne favoriva l’espansione in tutta l’Europa creando le fungaie per le sue larve, il fungo ha causato estese morie dell’olmo, albero ormai divenuto molto raro. Ciò mostra palesemente come sia sufficiente la simbiosi (vita insieme) di un microfungo e di un coleottero per sconvolgere la composizione e la fisionomia di interi boschi. L’attento osservatore, che frequenta le nostre peccete naturali, potrà rilevare come su molte ceppaie crescano giovani alberelli. Il nonno, ormai defunto, tramanda ai nipotini una preziosa scorta di humus che consentirà la loro crescita. E, grazie anche ai bostrici, la vita continua. Bibliografia

˚ Alfred Balachowsky, Faune de France 50. Coléoptères Scolytides, Librairie de la Faculté des Sciences (Paris), 1949, 320 pp. ˚ Paul Bovey, Insecta Helvetica, 6. Coleoptera Scolytidae, Druck Fotorotar (Zürich), 1987, 96 pp. ˚ Constantin Chararas, Scolytides des Conifères, Lechevalier Editeur (Paris), 1962, 556 pp. ˚ Roger Dajoz, Les insectes et la forêt, Lavoisier Tec.Doc. (Paris), 1998, 608 pp.


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Ambiente e Benessere Cucina di Stagione La ricetta della settimana

Pizza ai carciofi e alla rucola Piatto principale Ingredienti per 4 persone: 2 mozzarelle di 150 g · 100 g di cuori di carciofi in scatola, sgocciolati · 2 pomodori · 100 g di rucola · 4 paste per pizza già spianate da 260 g · farina per stendere · 70 g di concentrato di pomodoro · sale, pepe. 1. Tagliate le mozzarelle, i carciofi e i pomodori a fettine sottili. Sciacquate la rucola e fatela sgocciolare bene. 2. Scaldate il forno ad aria calda a 250 °C. A piacere stendete la pasta per pizza ancora un po’. Accomodate le pizze su teglie foderate con carta da forno. Spalmate bene sulla pasta il concentrato di pomodoro con un cucchiaio. Farcite le pizze con i pomodori freschi, i carciofi e la mozzarella. Condite con sale e pepe. Cuocete 2 pizze alla volta per 10-12 minuti. Prima di servire, distribuite la rucola.

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Ambiente e Benessere

Profondo blu Mondoverde Sono poche le piante del colore

del cielo, tra queste si trovano le specie che si rifanno al genere Ceanothus Anita Negretti È il colore del mare immenso, del cielo limpido, della freschezza e dell’estate (calda o fredda che sia), più raramente dei fiori. Il blu intenso, infatti, caratterizza solo alcune piante, ad esempio il Ceanothus. Dall’aspetto dimesso – quasi insignificante per molti mesi all’anno – è in grado così di accompagnare senza infastidire altri arbusti. Si trasforma, invece, in un vero punto focalizzante quando è in fioritura. Il genere Ceanothus comprende ben 55 specie di arbusti a foglia caduca o persistente, originari degli Stati Uniti e del Messico. Le piante allo stato spontaneo colonizzano i margini delle radure boscose, dove la mezz’ombra regala sfumature dai colori brillanti. Le specie a foglia decidua resistono maggiormente alle basse temperature, fattore limitante per quelle sempreverdi che a 4-5 °C sotto lo zero muoiono; altro limite è la resistenza al vento: se decidete di ospitarle nel vostro giardino, scegliete una posizione riparata, con un terreno fertile e ben drenato. Chiamate anche «lillà della California», le numerose specie hanno altezze e portamento molto variabili: arbusti eretti, piante prostrate come Ceanothus thyrsiflorus «Repens» alto non più di 4050 centimetri e largo fino a due metri, piccoli alberi ad esempio Ceanothus arboreus che raggiunge i quattro metri, e arbusti leggermente decombenti (piangenti). La loro caratteristica, in grado di accomunarli, è il colore dei fiori, di un blu intenso, che difficilmente scorderete dopo averlo visto in piena fioritura, mentre le foglie sono ovali, verde scuro, lucide sulla pagina superiore e solcate da profonde venature. In primavera o all’inizio dell’estate si riempiono di tantissimi boccioli profumati, come nella varietà C. x delilianus «Gloire de Versailles», decidua, con grandi pannocchie lunghe fino a dieci centimetri fittissime di fiori azzurri e ottenuta nell’Ottocento in Francia dopo l’arrivo delle prime piante dall’America; ancor oggi una delle varietà più belle. Bellissimo anche Ceanothus arboreus «Trewithen Blue», sempreverde e vigoroso, raggiunge i sette metri, con fogliame verde scuro e fiori blu tra febbraio e maggio, deliziosamente profumati; Ceanothus «Concha», è un ibrido dalle caratteristiche mediterranee con foglie verdi brillanti e dai fiori blu carico,

quasi fluorescenti, che compaiono a fine primavera. Alto e largo circa tre metri, viene solitamente usato come pianta isolata per poter ammirare completamente la sua fioritura. Un suggerimento su come coniugarli con essenze diverse può esser dato dall’abbinamento con altri Ceanothus dai fiori bianchi o rosa, come Ceanothus americanus, arbusto deciduo di altezza massima di un metro, che produce fiori bianchi riuniti in grappoli tra maggio e luglio, oppure con Ceanothus x pallidus, con fiori rosa da luglio a settembre e foglie ovali, lucide, di color verde scuro. Un’altra alternativa potrebbe essere data dalla scelta di affiancarli a piccole rose tappezzanti, dai colori pastello, lavande, clematidi o erbacee dalle foglie argentee. Il mio personale accostamento è dato da Ceanothus «A.T. Johnson», ibrido rustico, dalla fioritura intensa e prolungata con della centaurea bianca e della vinca tappezzante rosa. Per quanto riguarda le potature nelle specie a foglia caduca a fioritura estiva o autunnale, si interviene all’inizio della primavera, quando le gemme diventano turgide, al fine di stimolare l’emissione di nuovi rami, mentre per le specie sempreverdi ci si deve limitare ad accorciare i rami ormai sfioriti in tarda primavera o inizio estate, a meno che non intendiate raccogliere nuovi semi per la propagazione. In questo caso la natura, sempre perfetta, ci suggerisce la sua strategia: nelle zone dove cresce spontanea, al momento della vegetazione dei semi vi sarebbe una densissima popolazione di nuove piantine di Ceanothus, di cui molte andrebbero incontro a morte certa per mancanza di spazio. Ma i semi di Ceanothus sono ricoperti da una scorza impenetrabile, in grado di lasciarli dormienti per centinaia d’anni, fintanto che non arrivi un incendio in grado di farli risvegliare con rapidità. Conoscendo questa strategia riproduttiva, non dobbiamo dimenticarci, dopo aver raccolto i semi delle varietà arboreus, cuneatus, jepsoni, megacarpus, oliganthus, rigidus e thyrsiflorus, che hanno solo la dormienza dei tegumenti, di metterli a bagno in acqua calda a 82-87°C lasciandoli raffreddare per 12-24 ore. Tutti gli altri hanno anche dormienza embrionale e dopo averli posti in acqua tiepida per 12-24 ore, andranno messi in frigorifero per 1-2 mesi, a circa 3-4°C, e solo allora potremo seminarli.

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Ambiente e Benessere

Dieci anni, quasi non sembra! Evento La manifestazione Marchethon della Svizzera Italiana festeggia il suo decimo anniversario getti affetti da fibrosi cistica e di favorire il superamento dell’emarginazione dei malati. La fibrosi cistica è una patologia ancora incurabile ed è la malattia genetica più frequente. È dovuta alla mutazione di un gene che porta al malfunzionamento di diversi organi e apparati, principalmente polmoni e sistema digerente. Negli ultimi decenni l’aspettativa di vita delle persone colpite è aumentata considerevolmente gra-

zie ai progressi medici e alla ricerca, ma il passo decisivo verso l’identificazione di una cura non è stato ancora fatto. Informazioni

www.marchethon-ti.ch corrieaiutali@marchethon-ti.ch Tel. 079 935 76 27

Marchethon, 13 settembre, a Biasca

Programma Marchethon 2014

Dieci anni sono un compleanno da festeggiare in modo molto speciale, un ragguardevole traguardo, di quelli che contano. In dieci anni, la manifestazione è cresciuta costantemente grazie all’insostituibile contributo dei collaboratori e degli sponsor, fino a diventare un importante evento sportivo e una festa popolare apprezzata da moltissimi ticinesi, e non solo. Per l’occasione, sabato 13 settembre (o il 20 in caso di maltempo) a Biasca, il comitato organizzatore ha saputo mettere in piedi un programma allettante (vedi box) che, oltre alle tradizionali gare podistiche e al walking, prevede numerosi intrattenimenti. La manifestazione

– della quale Migros Ticino è uno degli sponsor principali – sarà aperta dai Frozen Fingers e durante la giornata si esibiranno la scuola di ballo Fit&Gim di Roveredo, la Società Federale di Ginnastica, il coro Vocincanto, la scuola Zumbabiasca, la compagnia Wild Flowers e la Fracass Band di Breganzona. Per i più piccoli la compagnia Sugo d’Inchiostro presenterà uno spettacolo coinvolgente, mentre il mago Giotto regalerà un po’ di sorprendente magia. Gonfiabili, truccabimbi, caccia al tesoro… non mancherà proprio nulla. Nell’area giochi i bambini potranno cimentarsi nell’arrampicata sportiva sotto la supervisione di monitori G+S. Infine

la giornata si concluderà con il gruppo Tacabanda e una ricca grigliata. Nicole Bullo, hockeista nazionale e medaglia olimpica a Sochi 2014, sarà la madrina della manifestazione mentre Rosy Nervi di Rete Tre ci farà compagnia con la consueta allegria. Marchethon, che è patrocinata dal Consiglio di Stato della Repubblica e Cantone Ticino, offrirà non solo divertimento ma anche momenti di riflessione e solidarietà. Infatti, i proventi della manifestazione andranno interamente a favore della Società Svizzera Fibrosi Cistica che, oltre a sostenere la ricerca scientifica, ha lo scopo di promuovere e attuare ogni forma di assistenza ai sog-

9.00 Apertura iscrizioni gare; 10.20-10.50 Apertura della manifestazione con i Frozen Fingers; 11.00 Partenza gara runners, popolari e walking; 11.10-11.30 Hip-Hop con la Scuola Fit&Gim di Roveredo; 11.40-12.50 Frozen Fingers; presentano Run and Rock The Party; 12.30 Grigliata/maccheronata; 13.00-13.15 Premiazioni gare; 13.20-14.05 Spettacolo per bambini; con la compagnia Sugo d’Inchiostro; 14.10-14.40 Esibizione del Coro Vocincanto; 14.50-15.10 Dimostrazione di Zumba con Zumbabiasca; 15.15 Partenza gara piccoli e mini; 15.30 Partenza gara scolari; 15.40-16.10 Esibizione Società Federale di Ginnastica Biasca; 16.15–16.30 Premiazioni gare

bambini, concorso di disegno; 16.30 Merenda pane e cioccolato offerta; Mago Giotto, spettacolo per bambini; 17.10 Caccia al tesoro; 16.40-17.10 Esibizioni di ballo con le allieve di Francesca Gigante, Wild Flowers; 17.20-18.00 Guggen Fracass Band di Breganzona; 18.00-22.00 Grigliata con musica live (con il gruppo Tacabanda). Area giochi con intrattenimenti per bambini e ragazzi, palestra d’arrampicata, truccabimbi, gonfiabili, lavoretti per bambini e… tanto altro! Grigliata e maccheronata cucinata dai cuochi della DERO. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Dispiaceri affogati nella gazzosa Sportivamente Quando un arbitro d’Oltralpe decide il risultato di un derby di calcio. Pochissimo gioco e due fischi

di troppo: così la vede uno spettatore tornato a fare il tifoso dopo una vita Alcide Bernasconi A qualcuno dovevo pur confessarlo, prima o poi. Così ho scelto di scriverlo sul giornale che gentilmente ospita le mie chiacchiere, liberandomi, nero su bianco, di un peso che non mi permetteva di tornare a essere un vecchio tifoso. Uno di quelli della prima ora, quando neppure mi passava per la testa di raccontare gli avvenimenti sportivi sulla carta stampata. Ebbene sì, l’ho appena detto, ho smesso le vesti di giornalista che cerca di mantenere le equidistanze e faccio il tifo come un comune mortale, sempre cercando però di comportarmi sportivamente. C’è voluto un derby calcistico, giocato stavolta allo stadio della cittadina di confine, un tardo pomeriggio di domenica senza pioggia, per farmi decidere che era giunto il momento di non trattenere più, dietro un’apparenza tranquilla, il disappunto per quello che ritenevo un erroraccio arbitrale. Da lontano, da un punto che non mi permetteva di giudicare mai e poi mai la decisione presa dal direttore di gara, mi era parso che il rigore concesso ai padroni di casa rossoblù fosse, quel che si dice, un regalo. Oltretutto immeritato. La rabbia già covava dentro dopo quasi quarantacinque minuti di lotta contro la voglia di cercare un posto appartato, per chiudere gli occhi e schiacciare un pisolino (succede, a un certa età, esattamente come davanti al televisore se le due contendenti non riescono a portare a termine almeno un’azione), un modo insolito per recuperare un po’ d’entusiasmo da trasmettere, se possibile, alla squadra del cuore. C’è voluto un fischio, quello di un arbitro che aveva iniziato presto ad innervosire me e coloro che mi stavano accanto, per scuotermi di dosso quell’apatia che stava avvolgendomi con la complicità dei ventidue giocatori in campo. Non fossi ormai pensionato da anni, quindi costretto a dovermi guardare la partita con il dovuto distacco ma anche

…in attesa di una partita che infiammi l’entusisamo di Vecchio Tifoso, come accadeva un tempo. (Marka)

sollecitato a dare un giudizio il più possibile spassionato, credo che avrei scritto peste e corna di quel primo tempo alla valeriana. Con un po’ di senso dell’umorismo rimasto dai vecchi tempi, mi ero detto per calmare la rabbia che in fondo l’arbitro con quella decisione, forse, aveva svegliato la partita. Tutto da vedere nel secondo tempo, insomma. Però, come avranno intuito quelli che il calcio lo masticano da tempo, rimontare il gol ottenuto dal dischetto degli undici metri non sarebbe stato semplice, contro un avversario che aveva predisposto una fitta barriera difensiva rendendo doppiamente difficile il compito a un attacco poco ispirato, quello della mia squadra del cuore. E si è andati avanti così, fino ai minuti di recupero vissuti da me e da tre amici che avevano accettato di condividere l’esperienza di una domenica sera un po’ diversa dal solito, proprio dietro alla porta avversaria. Non sto a raccontarvi per filo e per segno quel che succes-

se, né ricordo i nomi delle due squadre in campo, e meno ancora quello dell’arbitro che in molti mandammo tutti a quel paese, quando decise di annullare la rete del giusto pareggio, per un fallo che nessuno aveva visto, neppure quel giocatore che finì a terra solo per scoprire l’effetto della legge di gravità applicato al gioco del calcio in particolari condizioni. L’amicizia con parecchi tifosi della squadra di casa mi spinse a chiedere se la mia impressione fosse quella giusta. Ossia: nessun fallo e rete perfetta, da convalidare. «No, non ho visto il fallo. Ma forse non ho visto bene…», rispondevano più o meno tutti i sostenitori dei rossoblù da me interpellati. Ma che potevano farci? Loro avevano qualcosa da festeggiare, una vittoria risicata pur con tutti gli interrogativi, circa la validità del gioco, rimasti aperti dall’avvio del campionato. Quanto a me, ho provato a cavare almeno un’imprecazione all’indirizzo di chi so io – ormai tutti l’avrete capito – senza riuscirvi. Mancando nella mia mente un repertorio a cui fare affida-

mento in casi del genere, ogni epiteto che mi passava per la testa mi pareva ridicolo. Rischiavo unicamente di apparire come quel poveretto che si aspettava molto di più dalla sua squadra, da potersene fare un baffo dell’arbitro. Invece è stato lui a lasciarci col naso in mezzo alla faccia, quasi inebetiti, senza parole adeguate. «Nemm, nemm!», consigliavano gli amici, sospingendomi verso un’uscita che doveva rimanere chiusa, ma che un solerte custode, intuita la situazione e tenendo conto della nostra età, aveva opportunamente trasformato in «uscita di sicurezza». I miei amici si erano intanto aggrappati al desiderio di una tagliata, di un formaggino, di un po’ di vino e di una gazzosa che ci avevano suggerito di cercare in un grotto di Mendrisio. E, vista l’ora tarda, bisognava affrettarsi. Quel primo derby da tifoso dichiarato fu quindi per me una toccata e fuga. Nemmeno una discussione dopo la partita, né uno scambio di opinioni,

Giochi Cruciverba «Vediamo se sai rispondere a questo indovinello: Ci sono 1x1, Sudoku Livello facile 2x2 e 3x3. 3x3 muore, sapresti dire chi l’ha ucciso?» – «1x1?» – «No! È stato 2x2 Scopo del gioco perché…». Scopri il resto della frase leggendo a cruciverba ultimato le lettere Completare lo schema classico nelle caselle evidenziate. (Frase: 3, 3, 3, 3, 2, 4, 1, 7) (81 caselle, 21. Fu una regina di Spagna... in pena 23. Famose quelle dei Fileni 24. Pianta officinale 26. Pronome personale 27. Per nessun motivo 28. Copri costume 29. Preposizione articolata 30. Un figlio di Adamo 31. Può causare dipendenza

ORIZZONTALI 1. Contrapposte alle altre 4. Parere, convinzione 11. Tutt’altro che raffinato 13. Una... «teca» per vinai 14. Voce del tennis 15. La friend italiana 17. Provocano diminuzione dell’udito 19. Possessiva 1

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33. Persona responsabile 35. Ispirazioni creative 36. In basso 37. Si ripete brindando 39. Negazione tedesca 40. Bisboccia 41. Sufficienza (in Italia) VERTICALI 1. Violento ciclone tropicale 2. Esibizione di varietà 3. Un tipo di cantiere 5. Ripetute in una spezia 6. Allevò Bacco 7. Considerevole, rilevante 8. Vergogna, disonore 9. Preposizione articolata 10. Congiunzione francese 12. Dà ripetizioni a voce... 16. Ha difficoltà di respirazione 18. Desinenza di diminutivo femminile 20. Fiume svizzero 22. Il regista de «La dolce vita» 25. Una figlia di Labano 26. Sono un insieme di ipotesi 28. A volte si trova davanti a... Giove 29. Libretto per appunti 30. Capitale asiatica 32. Dispari nel Casinò 33. Esprime concessione 34. Massiccio del Niger 36. Le iniziali del 43° presidente USA 38. Tredicesima lettera dell’alfabeto greco

9 blocchi, 9 righe per 9 colonne) in modo che ogni colonna, ogni riga e ogni blocco contengano tutti i numeri da 1 a 9, nessuno escluso e senza ripetizioni.

Soluzione della settimana precedente

Vero nome di Drupi e un suo successo: Giampiero Anelli, Vado via

C A R I A T I D E

G I N O I D O P T I F I A M O G F O R N V A R I A D O L O T O L L V T S T O N I A

U M I L E

M A N I E

A I S R C O E R A D L L I

né l’attesa dell’arbitro che usciva dallo stadio – se mai l’avessimo riconosciuto – per dirgliene quattro. Chissà se a fine stagione non avremmo rimpianto quei tre punti che il fischietto d’Oltralpe, in maglia gialla (ormai si usa così), ci aveva inopinatamente sottratto. In ossequio alle proprie rispettabili convinzioni, l’allenatore dei nostri si è limitato ad analizzare la prestazione della propria squadra, come sentimmo poi alla radio, mentre mi chiedo con quale spirito sono tornati a casa tifosi di vecchia data, politici ed ex politici che avevano affollato la tribuna, costretti a fare buon viso a cattivo gioco dopo una pacifica invasione, fatta di strette di mano e sorrisi tipici di un avvio di campionato che prometteva qualcosa in più per i bianconeri. Abbiamo capito comunque che non è più, il nostro, quel calcio che sapeva entusiasmare anche i giovanissimi. Un calcio che non si può assolutamente paragonare a quello atletico di oggi, in cui la velocità è elemento preponderante. Forse è solo una promessa per i sostenitori di mezza età e… della terza età, in attesa di un cerino che li infiammi ancora come un tempo. Ma intanto non riconoscono un volto (al massimo solo un paio) dei giocatori che indossano la maglia della squadra del cuore, per la quale attendono un segnale che risvegli in loro, almeno un po’ dell’entusiasmo d’un tempo. Alla fine mi scuso d’aver riportato a galla un derby da dimenticare, ma fra gli Europei di atletica leggera chiusi con un deficit pesantissimo e un Weltklasse che si disputerà dopo aver scritto questo pezzullo, non avevo di meglio. Così, fra un incontro internazionale di basket (Svizzera-Italia) giocato a Bellinzona solo per divertire il pubblico, ma senza una vera posta in gioco, e l’open USA di tennis in pieno svolgimento, ho pensato di poter rivelare in questa mia rubrica, per onestà sportiva, una piccola, personale, debolezza bianconera. Credo, però, nota da tempo.


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Politica e Economia Strategie militari Usa Il Pentagono comincia i preparativi per lanciare le sue bombe sull’Isis in Siria

Rimpasto di governo in Francia Nel giro di 48 ore l’esecutivo si rinnova, sempre sotto la guida di Manuel Valls. Un avvicendamento che lascia indifferenti i francesi, ma non Hollande che spera in un suo rilancio

Una lunga storia Riprende il processo a Palermo sulle presunte trattative Stato-Mafia

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Campagna elettorale al via Il 18 ottobre 2015 si elegge il nuovo Parlamento federale. I partiti si stanno già profilando, ma ancora una volta a dettare l’agenda delle discussioni è l’UDC pagina 30

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AFP

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Il caos mediorientale Convergenze tattiche La sfida globale lanciata dallo Stato islamico ha innescato dinamiche che sembrano muoversi

all’impazzata, stravolgendo consolidati scenari e schieramenti geopolitici Lucio Caracciolo La sfida dello Stato islamico (Isis, o Is nell’acronimo inglese) guidato dal sedicente califfo Abu Bakr al-Baghdadi sta sparigliando le carte in Medio Oriente. Logica vorrebbe che per eradicare quello che il ministro della Difesa Usa, Chuck Hagel, ha definito un mostro ben più pericoloso di al Qaeda, gli Stati Uniti si coordinassero con l’Iran e con i suoi referenti nell’area, il governo di Baghdad e quello di Damasco. I quali a loro volta avrebbero immediato interesse a liquidare, anche con l’aiuto americano, una minaccia sempre più visibile ai loro territori. Qualcosa sta muovendosi in questo senso, come dimostra la defenestrazione del primo ministro al-Maliki a Baghdad, colpevole di avere antagonizzato le minoranze sunnite dell’Iraq nord-occidentale, regalandole all’Isis. La resa di al-Maliki è stata evidentemente frutto di una pressione iraniana, non solo di quella americana. Così come la scel-

ta di puntare su un governo inclusivo a Baghdad, per rassicurare i sunniti e staccarli dall’intesa tattica con gli uomini del «califfato», è stata sollecitata sia da Washington che da Teheran. Ma il Medio Oriente non è il continente di Cartesio, tantomeno quello di Aristotele e del suo principio di non contraddizione. Sicché le logiche occidentali spesso vi lasciano il tempo che trovano. Mappare oggi il groviglio di allineamenti più o meno tattici e strategici nella regione, dove le linee di faglia riguardano contemporaneamente affiliazioni etniche, lealtà tribali, interessi criminali e confessioni religiose, significa produrre una cartografia surrealista, più simile a un disegno di Salvador Dalí che a una rappresentazione leggibile della situazione sul terreno. Questo contribuisce a spiegare l’atteggiamento di Obama. Il presidente degli Stati Uniti sembra inclinare negli ultimi tempi a una postura quasi filosofica. Obama non cessa di ripetere che il mondo è com-

plesso, che nessuno può rimetterlo davvero in ordine, che «l’importante è non fare cose stupide». Non sembra disporre di un progetto strategico né per il Medio Oriente né tantomeno per il resto del mondo. A meno di non considerare tale l’idea di non farsi mai più coinvolgere in una vera e propria guerra in Eurasia e di combattere i terroristi a colpi di droni, con le armi sofisticate dell’intelligence o, meglio ancora, attraverso Paesi amici o clienti. Un approccio cinico, che gli accademici sofisticati vorranno classificare realista, ma che in realtà non risponde a una strategia. Piuttosto produce adattamenti successivi, reazioni – non azioni. Tutte contenute finora entro una certa soglia, per evitare quella sovraesposizione imperiale di cui l’America aveva sofferto sotto Bush figlio. E tuttavia, anche se Obama si agita poco o punto – e forse anche per questo – le dinamiche mediorientali sembrano muoversi all’impazzata, stravolgendo consolidati scenari geopolitici. Il triangolo Israele-Arabia Saudita-Stati

Uniti, ossia il paradossale schieramento che lega lo Stato ebraico al più fondamentalista fra gli Stati islamici sunniti, e mette entrambi sotto l’ombrello americano, è in crisi. Nella guerra di Gaza, ad esempio, Obama ha tenuto un profilo basso, evitando di appoggiare apertamente Israele, anzi lasciando filtrare più di una critica a Netanyahu. E nella partita siro-irachena, in cui l’Isis ha improvvisamente assunto un notevole ruolo soprattutto dopo la decapitazione del giornalista Usa James Foley (nella foto), gli americani si sono sia pur blandamente mobilitati a protezione del governo iracheno e, oggettivamente, dello stesso Assad, contro una formazione terroristica foraggiata, almeno all’inizio, dall’Arabia Saudita e dai suoi satelliti del Golfo. Dunque gli Usa si sono trovati a collaborare con l’Iran, il grande rivale regionale di Arabia Saudita e Israele. Nei prossimi mesi vedremo se Washington e Teheran vorranno trarre conclusioni strategiche da tale conver-

genza tattica. Se cioè Obama accetterà di reintegrare l’Iran nel grande gioco economico e geopolitico globale, passando per un accordo sul nucleare persiano, e se troverà nella Repubblica Islamica una sponda sufficiente a cementare un cambio di cavallo così clamoroso. Molto difficile, anche per le prevedibili reazioni israeliane e saudite e degli stessi «falchi» iraniani. Ma non impossibile. In fondo, Obama aveva esordito sulla scena internazionale con una mano tesa all’Iran, che non fu colta a Teheran e cui comunque l’amministrazione americana non seppe o non volle dare seguito concreto. Oggi forse sarebbe possibile riprendere quel filo. Quale sarebbe l’alternativa, se ciò non avvenisse? L’accentuarsi del disordine, delle crisi e delle guerre lungo tutta la fascia sud del Mediterraneo e nell’Asia centro-occidentale. Fino al punto da costringere forse Obama a concludere il suo mandato facendo quel che ha sempre cercato di evitare: la guerra. Quella vera.


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Politica e Economia

Le scelte di Obama Strategie Dopo la decapitazione del giornalista Foley, il presidente

americano subisce pressioni per un’azione militare contro l’Isis ma non vuole correre il rischio di diventare alleato di Assad in Siria Federico Rampini È ormai ufficiale, su ordine di Barack Obama il Pentagono ha cominciato a «preparare le condizioni» per poter lanciare dei bombardamenti aerei sulle milizie islamiche situate in Siria. Obama non vuole agire da solo, sta costruendo una coalizione alleata per gli attacchi aerei su quell’area: Inghilterra e Canada sono già disposti a partecipare. Washington cerca anche un appoggio della Turchia, basterebbe la disponibilità a usarla come base logistica e a far partire alcuni raid dai suoi aeroporti militari. La partecipazione turca ha un risvolto politico e simbolico importante, trattandosi dell’unico Stato a maggioranza islamica che fa parte della Nato. Aerei spia e droni Usa sono già in missione sui cieli della Siria dal 23 agosto, per raccogliere tutte le informazioni sulle basi dello Stato Islamico, chiamato anche Isis. Lo ha annunciato il Pentagono precisando che «non c’è ancora una decisione di effettuare gli attacchi aerei, ma prima di prenderla bisogna avere il massimo di conoscenze». La Casa Bianca aggiunge che eventuali attacchi dai cieli sulle basi degli estremisti sunniti «non saranno concordate con il governo di Assad». I consiglieri di Obama insistono su questo punto: «Combattere un nemico comune non fa del regime siriano un alleato dell’America». In quanto al rischio che la Siria reagisca ad eventuali incursioni aeree Usa sui suoi cieli, il Pentagono considera minima la minaccia della contraerea di Damasco, soprattutto nelle zone orientali del Paese in mano a Isis.

Obama teme la guerra virtuale con hashtag che l’Isis sta lanciando contro l’America Obama ha aggiunto un invito a non avere aspettative irrealistiche. «La storia ci ha dato delle lezioni – ha dichiarato il presidente – sui pericoli di un eccesso di azioni militari, di un allargamento dei nostri interventi oltre le nostre capacità, sui pericoli dell’isolamento internazionale, o di precipitarci nelle guerre senza soppesarne tutte le conseguenze». Obama non ha voluto sbilanciarsi su quel che farà contro Isis, ma ha ribadito che dopo la decapitazione del giornalista James Foley «il messaggio dell’America agli assassini è che noi non dimentichiamo, siamo pazienti, sappiamo arrivare molto lontano perché giustizia sia fatta». Su un fronte vicino, e collegato, il Pentagono ha confermato che gli Stati Uniti hanno ottenuto la collaborazione dell’Italia (insieme con altri alleati come Inghilterra Francia e Canada) per fornire armi ai curdi impegnati a combattere contro l’avanzata sunnita in Iraq. Contro il progetto di un Grande Califfato islamico perseguito dai jihadisti di Isis, è pensabile un’alleanza oggettiva – sia pure non dichiarata, anzi categoricamente esclusa dalla Casa Bianca – tra Assad e gli Stati Uniti? Dalla Siria arrivano messaggi contraddittori. Il ministro degli Esteri di Damasco, Walid al Muallim, annuncia che il suo governo è pronto a cooperare con la comunità internazionale (America inclusa) per debellare le milizie jihadiste di Isis. Fa riferimento a una risoluzione Onu che autorizza sanzioni contro gruppi jihadisti in Siria e in Iraq; proprio mentre dal Palazzo di Vetro l’alto commissario Onu per i diritti umani Navi Pillay accusa l’Isis di compiere «un genocidio etnico-religioso». Lo stesso ministro degli Esteri siriano però lan-

cia anche un monito agli Stati Uniti: se dovessero estendere i loro attacchi aerei contro le milizie Isis al territorio siriano, senza averlo concordato con Damasco, «sarebbe un’aggressione unilaterale». È dello stesso parere la Russia, il ministro degli Esteri Sergei Lavrov conferma: «Qualsiasi piano per combattere lo Stato Islamico (Isis) sul territorio della Siria va condotto con l’accordo delle legittime autorità». Lavrov ironizza sulle contraddizioni americane, ricordando che un anno fa Obama pensava di bombardare Assad: «All’origine – dice il russo – gli europei salutavano con favore Isis perché combatteva contro Assad, proprio come appoggiarono i mujaheddin che in seguito crearono Al Qaeda e li colpirono l’11 settembre 2001» (il riferimento di Lavrov è all’invasione sovietica dell’Afghanistan, quando gli Usa armarono quegli islamici che poi sarebbero divenuti i talebani alleati di Bin Laden). Le parole di Lavrov mettono il dito nella piaga. Giustificano le resistenze di Obama di fronte allo scenario di un allargamento dei combattimenti contro Isis in Siria. È il timore di apparire come il salvatore di Assad. In casa sua, il presidente americano è sotto pressione per rafforzare l’offensiva contro i fautori del Grande Califfato. Dopo la decapitazione del giornalista Foley, si sono moltiplicati a Washington gli appelli per un’azione militare più dura. Ma vengono soprattutto dalla destra repubblicana. «Tutte le opzioni devono essere sul tavolo, per sconfiggere Isis, incluso l’invio di truppe terrestri americane in Siria», dichiara il senatore repubblicano Lindsey Graham della South Carolina, un falco in politica estera. Mike Rogers, deputato repubblicano che presiede la Commissione sui servizi segreti, aggiunge: «I combattenti islamici in Siria sono una minaccia diretta per la nostra sicurezza. Gli basta un biglietto aereo per arrivare qui, e i nostri servizi ci dicono che 2.000 fra loro hanno passaporti occidentali che danno accesso al nostro territorio». Nell’opinione pubblica però non c’è sostegno verso un’azione militare estesa. All’interno dell’Amministrazione, sono al Pentagono i fautori di un allargamento dei bombardamenti che includa bersagli sul territorio siriano. Il segretario alla Difesa Chuck Hagel ha definito Isis «una minaccia imminente, più pericolosa di tutte quelle che abbiamo fronteggiato». Il capo di stato maggiore generale Martin Dempsey è stato il primo a dire che per colpire efficacemente Isis bisogna andare a bombardare anche le sue basi in Siria. I collaboratori del presidente descrivono così le sue riserve. Primo, Obama vede Isis come una minaccia potenziale ma non immediata per la sicurezza degli Stati Uniti; questo esercito fondamentalista sunnita sembra molto più focalizzato sul suo «nemico vicino» (gli sciiti) che non sul «nemico lontano» (l’Occidente) contro cui si accaniva Al Qaeda ai tempi di Osama Bin Laden. Inoltre Obama non è disposto a fornire un aiuto al regime di Assad che accusò di crimini di guerra all’epoca delle stragi chimiche dei civili. Infine il presidente non crede sia realistica una guerra limitata. E a conferma di quanto lo scenario sia complicato, la Casa Bianca ha «scoperto» solo a cose fatte che Egitto ed Emirati Arabi hanno agito insieme per bombardare milizie islamiche in Libia. L’ipotesi di una santa alleanza tra dittature locali contro Isis, non agevola le scelte di Obama. Dopo la decapitazione di Foley, un altro giornalista americano e un cittadino tedesco sono stati rilasciati, separatamente, dalle milizie jihadiste che li tenevano prigionieri in Siria. E sui media Usa rimbalzano interrogativi sulle circostanze del rilascio: è stato pagato

un riscatto? Colpisce la prossimità con la tragica fine di Foley. In quel caso gli Stati Uniti avevano ribadito la linea ufficiale tenuta di fronte ai rapimenti dei propri cittadini: nessuna trattativa con i terroristi, nessun pagamento di riscatto (nel caso di Foley erano stati richiesti 100 milioni di euro) perché il business dei rapimenti è una delle fonti di finanziamento del terrore. La tv Al Jazeera ha citato fonti diplomatiche del Qatar secondo cui sarebbero stati gli emirati arabi del Golfo Persico, incluso lo stesso Qatar, a negoziare questa liberazione. L’Amministrazione Obama ha interesse a far funzionare questa «triangolazione» attraverso il Qatar e altri emirati per ottenere la liberazione del maggior numero di ostaggi. Da una parte l’intervento di questi mediatori umanitari può consentire il pagamento di riscatti senza contravvenire esplicitamente alla regola Usa. Washington non vuole ritrovarsi di fronte ad altre feroci esecuzioni come quella di Foley, e questo può accelerare la ricerca di nuovi approcci. Un altro timore che Obama ha discusso con i suoi consiglieri del National Security Council è la crescente capacità di reclutamento di Isis fra i musulmani d’Occidente. Molti dei quali non solo abitano in America o in Europa, ma hanno passaporti statunitensi, britannici, canadesi, francesi. Finora queste reclute del proselitismo sono partite dai loro Paesi per andare a fare la jihad in

Il segretario alla Difesa Chuck Hagel (a sinistra) e il capo di stato maggiore generale Martin Dempsey durante la conferenza stampa al Pentagono. (AFP)

Siria e in Iraq. Ma alcuni di loro potrebbero decidere di cimentarsi con attentati terroristici qui. Sul «Washington Post» la studiosa Souad Mekhennet, ricercatrice a Harvard e al Geneva Center for Security Policy, accende un faro su un fenomeno che non è sfuggito alla Casa Bianca: «Gli islamici di Isis si stanno interessando da vicino alle proteste razziali di Ferguson nel Missouri. Come negli anni Sessanta ai tempi di Malcom X, sperano di poter sfruttare a fini di proselitismo la rabbia dei giovani afroamericani». La Mekhennet sottolinea la familiarità di Isis con i social media. «Usano Twitter, con hashtag Isishero oppure #FergusonUnderIs, lanciano

appelli alla comunità afroamericana, dicono che i giovani neri in America sono cittadini di serie B mentre non verrebbero discriminati sotto la legge islamica della sharia». In effetti era proprio un afroamericano, il cittadino Usa che la settimana scorsa è morto combattendo nei ranghi dello Stato Islamico. Aveva 33 anni, si chiamava Douglas McArthur Mc Cain. Nato a Chicago, viveva a San Diego in California dove lavorava per una ong islamica: «Dawah – La vocazione a servire Allah». Sulla sua pagina di Facebook di recente aveva aggiunto come amico Abu Qaqa Al Malayzyi, un militante di Isis che vive a Raqqah, una delle più importanti basi delle milizie sunnite in Siria. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

La carta di Hollande Rimpasto di governo Dovuto alle

divergenze politiche in campo economico, riuscirà a salvare il mandato presidenziale?

Marzio Rigonalli L’estate ha portato un inatteso e violento temporale sulla politica francese. Dopo 150 giorni di vita, il governo presieduto da Manuel Valls si è dimesso ed è stato sostituito, in meno di 48 ore, da un altro governo, sempre sotto la guida di Valls. Il rimpasto è avvenuto, perché alcuni ministri, rappresentanti l’ala sinistra del partito socialista, avevano criticato pubblicamente la politica economica del governo. In particolare, il ministro dell’Economia, Arnaud Montebourg, aveva usato parole molto severe nei confronti delle scelte economiche del presidente e del primo ministro, sorprendendo un po’ tutti. Un ministro dell’Economia che critica la politica economica del governo cui appartiene, e che chiede di seguire un’altra politica, rappresenta per lo meno un fatto strano. A lui si sono associati il ministro dell’Educazione nazionale Benoît Hamon e il ministro della Cultura Aurélie Filippetti. Le critiche hanno evidenziato le divergenze politiche che esistono all’interno del partito socialista tra una maggioranza che sostiene le scelte social-liberali e la ricerca di compromessi in ambito europeo, volute da Hollande e da Valls, e una minoranza che vorrebbe una politica meno favorevole alle imprese sul piano interno e decisamente contraria alla politica di austerità, difesa nelle alte sfere dell’Unione europea.

Il rimpasto di governo in Francia avviene in un momento in cui la scena politica offre più ombre che luci Il rimpasto presenta un grande vantaggio, ma nasconde un grave pericolo. Il vantaggio risiede nella compattezza ideologica del nuovo governo. Il nuovo esecutivo nasce all’insegna della coesione e porterà avanti una politica caratterizzata da una chiara linea economica. È una buona premessa, anche se non è sufficiente, per varare le riforme strutturali di cui la Francia ha urgentemente bisogno e senza le quali la sua economia continuerà a languire. Riforma del mercato del lavoro, della fiscalità e dell’amministrazione pubblica, tanto per citare le più importanti. L’amministrazione pubblica francese è la più elefantiaca di tutte le amministrazioni nazionali in seno all’Unione europea. Il governo Valls 2 ricorda vagamente l’esecutivo presieduto dal cancelliere Gerhard Schröder, quando a partire dal 2003, con l’Agenda 2010, mise in atto una serie di riforme, nonostante l’opposizione della sinistra del suo partito. Si tratta però solo di un vago richiamo, che si appoggia sul profilo ideologico e sulle intenzioni del nuovo governo francese. Tracciare un parallelo sarà possibile solo quando saremo in presenza di fatti e di risultati concreti. Il pericolo si annida nei numeri della maggioranza parlamentare che sostiene il governo. Manuel Valls deve fare i conti con la fronda dei parlamentari socialisti di sinistra e può contare soltanto su un sostegno condizionato da parte del Verdi, che non fanno più parte dell’esecutivo. L’unico appoggio sicuro, al di fuori del partito sociali-

sta, è quello dei 17 deputati del partito Radicale di Sinistra, che sono presenti nel governo con tre loro rappresentanti. Per di più, è quasi certo che alla fine di settembre, quando si rinnoverà la metà dei seggi del Senato, il partito socialista perderà la maggioranza che detiene nella seconda camera. I numeri indicano che, almeno in una prima fase, il nuovo esecutivo dovrebbe superare lo scoglio parlamentare, ma lasciano in sospeso l’interrogativo sulla sua effettiva durata. La perdita della maggioranza parlamentare implicherebbe la dissoluzione della Camera e nuove elezioni, con all’orizzonte la minaccia della coabitazione. Una forma di governo che nessun partito dichiara di volere e che non ha lasciato un gran segno nella storia francese, dopo le esperienze fatte con il presidente François Mitterrand, dal 1986 al 1988 e dal 1993 al 1995, e con il presidente Jacques Chirac, dal 1997 al 2002 . Per di più, nuove elezioni si tradurrebbero probabilmente in una disfatta socialista ed in un’ulteriore avanzata del Fronte nazionale. Il rimpasto avviene in un momento in cui la scena politica francese offre più ombre che luci. Meno di un francese su cinque dichiara di avere ancora fiducia nel presidente Hollande. Anche il primo ministro Valls si ritrova su una traiettoria discendente. Cinque mesi fa, quando venne nominato primo ministro per la prima volta, vantava un buon capitale di pareri favorevoli, pari al 56%. Oggi, questo capitale è sceso al 36%. Il partito socialista nasconde con fatica le sue divisioni interne e non ha ancora superato il trauma provocato dalle due sconfitte, subite in primavera a due mesi di distanza, alle elezioni comunali ed a quelle europee. Per di più, i baronetti che puntano all’Eliseo nel 2017, contengono a mala pena le loro ambizioni, si stanno già muovendo e creano ulteriori divisioni nel partito. L’UMP, la principale formazione di opposizione, è ancora più divisa del partito socialista. Non ha un leader riconosciuto e sta vivendo una feroce battaglia tra i vari pretendenti alla candidatura presidenziale. La crisi interna gli impedisce di approfittare della situazione per presentarsi agli occhi dei francesi come un’alternativa convincente. Il solo partito che guadagna consensi nell’opinione pubblica e che allinea i successi elettorali è il Fronte nazionale di Marine Le Pen. I suoi recenti progressi rischiano di aprire nuovi scenari ai prossimi appuntamenti elettorali. I francesi hanno accolto il nuovo governo con poco entusiasmo. Da anni sono confrontati con la crisi e con i suoi problemi quotidiani, e sono diventati scettici nei confronti della politica e dei politici. In fondo, ciò che li interessa sono i risultati concreti, che stentano ad arrivare, e non il modo in cui vengono ottenuti. E per risultati concreti intendono, in primo luogo, posti di lavoro e una fiscalità meno schiacciante. Per questo, il cambiamento di una manciata di ministri non appare loro come una misura sufficientemente forte per poter raddrizzare la situazione. I sondaggi realizzati in questi giorni indicano che oltre il 60% dei francesi è favorevole alla dissoluzione dell’Assemblea ed a nuove elezioni. Un certo distacco nei confronti del cambiamento di governo a Pari-

François Hollande e il primo ministro Manuel Valls . (AFP)

gi l’ha dimostrato anche l’Europa. Il provvedimento viene visto come un aggiustamento in casa socialista, senza vere ripercussioni sulla posizione della Francia in Europa. In molte capitali, c’è comunque la speranza che la maggiore omogeneità del governo francese, d’ora innanzi, renda più facile il dialogo e la ricerca di compromessi in seno all’Unione europea. Ci si può chiedere, infine, se il rimpasto di governo sia stata l’ultima carta che François Hollande poteva giocare per salvare il suo mandato presidenziale. La risposta non è sem-

plice, considerate le incognite racchiuse nel futuro. Una cosa, però, è sicura: il futuro di Hollande dipenderà in gran parte dai risultati economici che otterrà nei prossimi due anni. Se il numero dei disoccupati scenderà in maniera consistente, se la crescita economica registrerà cifre nettamente al di sopra dell’1% e se i deficit pubblici si ridurranno come prevedono gli obiettivi fissati, allora il presidente in carica potrà candidarsi per un secondo mandato. Se, invece, i risultati economici saranno inferiori alle aspettative ed alle esigenze del Paese, allora François

Hollande avrà un’ottima occasione per dedicarsi alla redazione delle sue memorie. Nell’esito di questa sfida, che si protrarrà nei prossimi due anni, assume grande importanza il ruolo del governo Valls. La sua azione può risultare determinante ai fini del salvataggio del presidente, dello stesso primo ministro e dell’attuale maggioranza. Può, però, anche essere la continuazione, con modifiche non determinanti, di quanto abbiamo visto negli ultimi due anni e, quindi, facilitare, nel 2017, l’arrivo al potere di altre forze politiche. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

Cultura e Spettacoli

Trattativa Nostra

Parole e piazze

Processo di Palermo È un fatto innegabile che gli apparati

Rassegne La lingua italiana sarà

dello Stato abbiano cercato di ritagliarsi spazi con esponenti delle cosche, ma non si trattò mai di incontri ufficiali

la protagonista indiscussa di Piazzaparola Natascha Fioretti

Alfio Caruso La prima presunta trattativa fra Stato e Mafia precede addirittura l’unità d’Italia. Avvenne nel maggio 1860 fra gli emissari siciliani di Garibaldi e i boss di Cosa Nostra, che a Calatafimi erano rimasti a guardare l’esito dello scontro dei Mille con i battaglioni borbonici. L’insperata vittoria colta da Garibaldi, l’impressione che l’esercito di re Francesco fosse già in rotta morale, prima ancora che strategica, indussero i mammasantissima a inviare le proprie squadracce per rafforzare il contingente venuto dal Continente. Un patto dettato dalle necessità del momento, sul quale sia l’eroe più amato e popolare del Risorgimento, sia i futuri capi di governo, che militavano con lui, da Crispi a Cairoli, preferiranno sorvolare. Ne andava infatti del proprio buon nome e della purezza dell’impresa cardine della nuova Italia, che mai sarebbe esistita senza di essa. In ogni caso, un accordo riguardante i singoli senza tirare in ballo lo Stato, la Monarchia, che ne furono all’oscuro. Uno dei tanti esempi di Realpolitik in cui nessuno si sognerebbe di tirare in ballo l’autorità centrale, fatta eccezione di alcuni magistrati palermitani, che hanno montato prima un’indagine e poi un processo per dimostrare che a cavallo delle stragi del 1992 – quelle di Capaci e via D’Amelio con l’uccisione di Falcone, di Borsellino, della moglie di Fal-

cone e di otto agenti di scorta – lo Stato trattò con la mafia. Un’assurdità logica prima ancora che giuridica. Una simile contestazione presuppone, infatti, una riunione del consiglio dei ministri durante la quale si decide di dialogare con la controparte, nella fatti specie Cosa Nostra, si scelgono gli emissari, li si fornisce delle famose «patenti» o autorizzazione. Nel periodo sotto osservazione, o, se volete, prima o dopo quel periodo è accaduto qualcosa del genere? Ovviamente, no.

La storia italiana è piena di episodi nei quali Cosa Nostra è stata giudicata la provvida controparte di un accordo sotterraneo anziché il nemico da sconfiggere È accaduto, invece, che durante lo scontro più duro con l’Antistato mafioso apparati della Repubblica abbiano cercato di ritagliarsi uno spazio, di stabilire un contatto con esponenti delle cosche. Lo fecero per interesse della congrega, che rappresentavano; lo fecero nella speranza di raggiungere risultati, che lucidassero le proprie ambizioni. Può essere stato il caso dell’ex ministro

L’arte del racconto torna al centro della piazza con letture, musica, spettacoli teatrali, sorprese e realizzazioni artistiche. L’appuntamento è per il 4 e il 5 settembre nel Patio di Piazza Riforma (Palazzo dei Congressi in caso di pioggia) e il 12 in Piazza S. Francesco al Dipartimento Formazione e Apprendimento della SUPSI. Nata nel 2011 in occasione delle celebrazioni per il trentennale di attività della Società Dante Alighieri di Lugano, sostenitrice della lingua italiana nel mondo, Piazzaparola giunge alla sua quarta edizione con un appuntamento particolarmente ricco di ospiti provenienti da tutta la Svizzera e dall’Italia. Tre i Leitmotiv della manifestazione, che nasce per passione del comitato scientifico di Piazzaparola ed è reso possibile grazie al sostegno di una rete di enti pubblici e privati, tra i quali anche Percento culturale Migros Ticino: la centralità dell’italiano, che sarà sottolineata dall’intervento di Diego Erba, presidente del Forum per la salvaguardia dell’italiano; l’impegno ad avvicinare i bambini delle scuole elementari, quest’anno parteciperanno in 120, alla letteratura, all’ascolto, al confronto diretto con gli autori; e la presenza di un autore classico. Gli scorsi anni sono stati Dante, Omero e Boccaccio, l’edizione 2014 è invece ispirata al genio del Rinascimento italiano Leonardo da Vinci. La scelta di dedicare ogni edizione ad un classico deriva dal

dell’Interno, Mancino, sulla carta il principale imputato, influente notabile della sinistra dc, tirata già in ballo dal dossier «Mafia e Appalti» dei carabinieri nel 1991. Può essere stato il caso del generale dei carabinieri Mori, al tempo numero del Reparto operativo speciale (Ros), all’inseguimento di un successo significativo per l’Arma dopo i tanti colpi messi a segno dalla polizia. Può esser stato il caso di quei funzionari, che consigliarono al ministro della Giustizia, Conso di cancellare il carcere duro a molti capibastone per favorire il ravvedimento dell’inesistente ala moderata di Cosa Nostra. Conso, un integerrimo professore universitario piemontese fra i massimi esperti di diritto, ascoltò quegli interessati suggerimenti senza rendersi conto di fare il gioco di una lobby di spioni, di massoni, di faccendieri, d’imprenditori, di politici impegnati nella spregiudicata partita del «tanto peggio, tanto meglio». Purtroppo la storia italiana è zeppa di episodi nei quali Cosa Nostra è stata giudicata la provvida controparte di un accordo più o meno sotterraneo, anziché l’irriducibile nemico da sconfiggere. Nella Palermo di fine Ottocento Raffaele Palizzolo era possidente, consigliere comunale e provinciale, amministratore di enti, influente consigliere del Banco di Sicilia, direttore del fondo per l’assicurazione contro le malattie della marina mercantile, sovrintenden-

voler proporre un autore che sia parte di un patrimonio culturale universale e di un sapere condiviso da tutti. Piazzaparola parlerà di Leonardo attraverso le sue fiabe e le sue favole di uomini e di animali, preziose per le loro morali. Fondamentale, in tutti gli appuntamenti in calendario, la musica che accompagna i testi e crea le atmosfere. A Lugano ci saranno le note di Luciano Zampar, docente di batteria e percussioni al Conservatorio della Svizzera italiana, Oliviero Giovannoni, percussionista, batterista e compositore; a Locarno l’organista Giovanni Galfetti e la soprano Elena Relevant. Quella che si annuncia essere una festa della parola letteraria in prosa, aprirà le danze giovedì sera 4 settembre alle 18.00 (l’ingresso è gratuito e aperto a tutti) con l’intervento di Raffaella Castagnola Rossini «Leonardo da Vinci scrittore» e si chiuderà il 5 settembre sera, sempre con Leonardo «Salvatico è quel che si salva. Una fantasia leonardiana», una lettura di Gilberto Isella e Fiorenza Casanova. Si tratta di un brano creato per l’occasione, con i testi di Isella e le immagini di Casanova, raccolti in un instant book che a sorpresa sarà distribuito al pubblico presente in piazza. Il grande spazio e appuntamento per i bambini è riservato invece alla mattinata del 4 settembre. Tra gli autori di lingua tedesca e francese ci saranno alcune grandi voci della letteratura contemporanea Svizzera: Adolf Muschg, scrittore e professore di letteratura, e Ilma Rakusa,

autrice, critica letteraria e traduttrice ci parleranno di solitudine, speranze, fugacità sotto cieli mutevoli e all’insegna di nuovi presagi e partenze. Ad incantare con la sua prosa poetica, pungente e sagace, la promettente penna di Arno Camenisch, giovane autore grigionese che leggerà dalla sua più recente opera tradotta in italiano Ultima Sera. Il giovane ginevrino Philippe Rahmy, insignito del premio Prix Wepler Fondation La Poste 2013, leggerà invece dalla sua opera Cemento armato. Le letture saranno in due tempi: nella lingua originale dell’autore e nella traduzione italiana. A loro si alterneranno le voci italofone di Claudio Zanini, vincitore del Premio Guido Morselli; Angelo Gaccione, narratore e drammaturgo,

Bruno Monguzzi, designer d’eccellenza affermato in tutto il mondo che racconterà una storia sul cavallo di Leonardo. Accanto a loro le voci ticinesi di Lorenzo Buccella, scrittore, cineasta e giornalista e Michele Amadò, docente di comunicazione visiva all’Università della Svizzera Italiana e alla SUPSI, al suo esordio come romanziere con Nient’altro che cinque minuti. Letture, musica e anche molte sorprese come la realizzazione artistica di Loredana Müller Donadini profumata di erbe, ispirata a Leonardo e la mostra delle scatole realizzate dai bambini sull’esperienza di Piazzaparola 2013. Una festa letteraria per tutti che con semplicità rimette al centro della piazza cittadina la letteratura, l’italiano, il pia-

cere dello scambio e dello stare insieme, in una cornice che a ritmo di musica narra di storie passate e contemporanee. Dove e quando

4 (ore 18-20) e 5 settembre (ore 9-11 e 18-20): Lugano, Patio del Municipio; 12 settembre (ore 9-16): Locarno, Dip. Formazione e Apprendimento SUPSI, Locarno; info: www.dantealighierilugano.ch In collaborazione con

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Politica e Economia Bagno di folla per Christoph Blocher il 1. agosto 2014: anche in questa campagna per le elezioni federali, gli occhi sono puntati su di lui. (Keystone)

Più integrati di molti Stati UE Svizzera-Unione europea Uno studio

tedesco ha calcolato vari indici dell’integrazione per tutti i Paesi europei e li ha confrontati con la Svizzera Ignazio Bonoli

Le danze sono aperte

Elezioni federali 2015 La campagna è lanciata e, come nelle scorse

legislature, i temi sono dettati ancora una volta dall’UDC Johnny Canonica L’appuntamento è fissato per il 18 ottobre 2015, ore 12.00. In quel momento tutte le cancellerie comunali della Confederazione chiuderanno le loro urne per poi consegnarle alle 26 cancellerie cantonali. Poi avrà inizio lo spoglio delle schede che disegneranno il Parlamento della legislatura 2015-2019, la cinquantesima della moderna Confederazione svizzera. A poco più di 13 mesi e mezzo da quel appuntamento, in questa fredda estate 2014, la classe politica elvetica ha iniziato a scaldare i motori della campagna elettorale, motori che forniranno l’energia necessaria ai vari partiti nella corsa verso il successo alle urne. E come è sempre accaduto nel recente passato, è soprattutto l’UDC il partito che sta dettando il ritmo agli altri, che sta stabilendo i temi della campagna elettorale 2015. Come spesso succede, e non solo in casa democentrista, i partiti puntano sul lancio di iniziative popolari per sostenere la loro campagna elettorale. E l’UDC ne ha delineate addirittura due – senza però ancora lanciarle – che già hanno attirato l’attenzione del pubblico (e dei media) e le critiche della concorrenza. La prima punta a far primeggiare sempre e comunque il diritto nazionale sulle norme di diritto internazionale sottoscritte dalla Svizzera, la seconda provocherebbe un ulteriore incisivo giro di vite alla politica d’asilo. La prima è stata presentata nelle scorse settimane a Berna dall’ex consigliere federale e vicepresidente del partito Christoph Blocher, la seconda è stata elaborata dalla persona che nel partito si sta profilando come l’esperto in politica d’asilo, il consigliere nazionale grigionese (ed ex capo della polizia degli stranieri del cantone retico) Heinz Brand. Ma è stata soprattutto la prima delle due iniziative ad aver dato il fiato alle trompettes de la renommée, le trombe della pubblicità (come cantava a suo tempo lo chansonnier francese Georges Brassens), e dato fuoco alle polveri delle polemiche. Spunto per il lancio di questa iniziativa è la frustrazione del partito, insoddisfatto dal fatto che sue proposte accolte in votazione popolare (pensiamo all’iniziativa «per l’espulsione degli stranieri che commettono reati») trova grosse difficoltà ad essere applicata, perché in contraddizione con norme di diritto internazionali che la Svizzera ha ratificato (nella fattispecie la Convenzione europea sui diritti dell’uomo). E anche l’iniziativa lanciata (e riuscita) per fare in modo che la prima venga

applicata in toto si trova in difficoltà, visto che il Consiglio federale ha deciso di considerarne nulla una parte, perché la proposta prevede una definizione di alcune norme di diritto internazionale imperativo, cosa che non spetta al legislatore elvetico fare, ha affermato l’esecutivo. Proposta governativa accolta per il momento dal Consiglio nazionale contro il volere dell’UDC, mentre gli Stati devono ancora esprimersi. A questo punto, a Christoph Blocher e ai vertici democentristi è saltata la mosca al naso e hanno deciso di chiedere al popolo di far primeggiare sempre e comunque il diritto elvetico rispetto a quello internazionale (perché anche se formalmente l’iniziativa non è stata ancora lanciata, nessuno dubita che così sarà; i vertici UDC vogliono/devono ottenere il via libera dall’Assemblea dei delegati del partito, e non si vede come questi possano smentire quanto è stato voluto e deciso da chi sta in cima alla piramide del partito).

Le due iniziative popolari annunciate (ma non ancora lanciate) dall’UDC hanno già generato accesi dibattiti Ovviamente la proposta di Christoph Blocher ha sollevato parecchie critiche tra gli altri partiti, ma ad essere esploso in tutto il suo fragore è stato quanto affermato dall’ex consigliere federale UDC Adolf Ogi, che in un’intervista rilasciata alla «Sonntagszeitung», richiamando i membri del suo partito a più moderazione, ha definito l’attuale politica condotta dai vertici democentisti come una «catastrofe», se non una vera e propria «follia». Che Ogi e Blocher non siano sulla stessa lunghezza d’onda lo si sa almeno dal 1992, cioè da quando i due si diedero battaglia in vista della votazione popolare sull’adesione della Svizzera allo Spazio economico europeo, battaglia poi vinta da Blocher. Votazione che ha rappresentato il via dell’ascesa dell’UDC sulla scena politica svizzera (da quarta a prima forza politica nazionale in pochi anni), partito i cui elettori si riconoscono nella figura e nella politica dura di Christoph Blocher piuttosto che nella figura moderata di Adolf Ogi. Nella medesima intervista, nemmeno troppo velatamente, Ogi ha invitato le forze moderate presenti nel partito a liberarsi di Blocher, perché la sua presenza e la sua politica a lungo

andare danneggerebbero il partito e la Svizzera. Ma il suo appello è caduto nel vuoto, vuoi perché la stragrande parte dei membri democentristi crede ciecamente nella politica condotta da Blocher, vuoi perché chi non la pensa come lui se ne sta quieto, intimorito forse dalla possibilità di uno scontro frontale con il tribuno di Herrliberg, dal quale uscirebbe con le ossa rotte (oltre che tra i probabili sberleffi dei colleghi di partito). Ma tant’è: anche le critiche e gli appelli al colpo di stato espressi ad alta voce dall’ex magistrato bernese servono alla causa del partito, secondo la massima che «l’importante non è come se ne parli, ma che se ne parli». (E anche in questo caso par di sentire in lontananza le trompettes de la renommée). Da parte loro, gli altri partiti non sono stati a guardare. Hanno denunciato il corso sempre più estremo condotto dall’UDC blocheriana, hanno affermato che se si seguisse quanto l’UDC propone la Svizzera farebbe una brutta fine, hanno iniziato a riflettere (il PLR) se sia il caso di fare un’unione delle liste con i democentristi alle prossime elezioni federali, hanno affermato (il borghese democratico Martin Landolt) che l’UDC non deve più essere rappresentata in Consiglio federale nella prossima legislatura (ma questo sembra essere più che altro un modo per salvare il seggio governativo di Eveline WidmerSchlumpf), e via discorrendo. Hanno reagito, insomma. Ancora una volta si sono fatti cogliere impreparati e sono stati costretti a danzare controvoglia la musica voluta e suonata dagli ottoni democentristi. L’UDC ha deciso di puntare sui rapporti tra la Svizzera e il resto del mondo – in particolare i rapporti a livello giuridico – e sulla politica d’asilo per convincere gli elettori a darle il voto. Forse non sono solo questi i problemi più urgenti che la Confederazione deve affrontare (come fare in modo che fondare una famiglia non sia un’operazione insostenibile dal punto di vista finanziario? quali fonti energetiche sfruttare per produrre elettricità? come difendere al meglio la piazza economica e i suoi posti di lavoro? come evitare che le infrastrutture dei trasporti giungano al collasso? come assicurare il futuro delle assicurazioni sociali? e via discorrendo), ma siamo sicuri che nei prossimi mesi, le trombe della pubblicità suoneranno più per i temi indicati dall’UDC che non per quelli che gli altri partiti vorrebbero. Se poi questo basterà al partito per uscire vincitore dalle urne il 18 ottobre 2015 è ancora da vedere.

Mentre il Consiglio federale sta compiendo notevoli sforzi per limitare i danni di un’applicazione integrale del voto popolare del 9 febbraio scorso (in pratica la fine degli accordi bilaterali I con l’UE), mentre Blocher, abbandonando perfino il seggio in Consiglio Nazionale, sta facendo il contrario, in molti si chiedono fino a che punto l’economia svizzera è integrata in quella europea. Ai molti studi che sostengono la tesi di una profonda integrazione a vari livelli, si è aggiunto recentemente quello di due ricercatori tedeschi che hanno calcolato alcuni indici significativi. La ricerca prende avvio dalla domanda a sapere quali conseguenze potrebbe subire la Svizzera dal mancato accesso al mercato interno dell’Unione Europea. Determinante potrebbe essere il grado di integrazione dell’economia elvetica in quella europea. È possibile misurare questa integrazione mediante alcuni indici differenziati. In pratica, si può costatare che la Svizzera intrattiene già profondi rapporti economici con parecchi Paesi dell’UE. Manca però ancora una misura globale specifica che quantifichi questi rapporti e quindi sia in grado di valutare quali conseguenze concrete potrebbero derivare dalla chiusura del mercato europeo. Lo studio in questione, per calcolare un indice di integrazione fra i vari Paesi europei e i loro partner commerciali, utilizza 25 indicatori che valutano i complessi rapporti di integrazione sui vari mercati, tenendo conto di differenti obiettivi di integrazione economica. Questo indice è stato poi ricalcolato per la Svizzera con i necessari adeguamenti. L’indice globale si compone di quattro sotto-indici che riflettono singoli aspetti dell’integrazione. L’indice dell’interdipendenza si basa sui dati dell’import-export di beni e servizi, sugli investimenti diretti e sui rapporti migratori, che riflettono le quattro libertà fondamentali del mercato interno europeo. Con il sotto-indice della convergenza UE si vuole misurare indirettamente la profondità dell’integrazione. In questo caso, quando le rispettive economie sono integrate, anche gli obiettivi economici si avvicineranno. Per questo indice vengono considerati dati quali il reddito pro capite, i costi del lavoro, i tassi di interesse, il debito pubblico e le imposte, che vengono confrontati con la media UE. Anche il sotto-indice della simmetria congiunturale vuole misurare il grado di interdipendenza economica in modo indiretto. Più il mercato dei beni e

servizi è interconnesso, più vicini saranno anche gli indici dell’evoluzione congiunturale. Il quarto sotto-indice misura l’integrazione istituzionale di un Paese con l’UE. Sono compresi in questo indice la partecipazione all’Unione monetaria europea, oppure il grado di osservanza delle direttive e delle prescrizioni dell’UE. In questo ambito si tiene conto anche delle procedure avviate dalla Commissione europea contro Paesi membri che contravvengono agli obblighi contrattuali. In questo caso – ovviamente – non essendo la Svizzera membro dell’UE, non è possibile avere dati di confronto. Di conseguenza questo sotto-indice per la Svizzera non è stato utilizzato. Per gli altri tre indici si sono ottenuti risultati significativi. Per il sotto-indice dell’interdipendenza economica la Svizzera supera il 51%, per quello della convergenza supera il 28% e per quello della simmetria congiunturale raggiunge il 20,5%. Nel calcolo si è tenuto conto degli anni dal 2004 al 2012, cioè dopo le aperture dell’UE all’est, nonché di tutti i 25 Paesi membri, con l’eccezione del Lussemburgo. Dall’indice globale si può evincere che la Svizzera è sempre stata sopra la media dei Paesi dell’UE per l’integrazione, con punte fin sopra il 60% e tendenza a diminuire il divario anche a causa dei progressi nell’integrazione dei Paesi europei. Per l’indice dell’interdipendenza economica è costantemente molto sopra la media europea. Per l’indice della convergenza non sorprende constatare che siamo sempre sotto la media, con tendenza al peggioramento. Infine, per l’indice della simmetria congiunturale, le differenze del 2004 (CH 30%, UE 60%) sono praticamente scomparse a partire dal 2008. La speciale classifica sull’interdipendenza economica vede in testa il Belgio (67,58%) seguito dall’Irlanda (66,80%) e dalla Svizzera (66,30%). In generale, i piccoli Paesi – con qualche eccezione – ottengono risultati migliori rispetto ai grandi, che dispongono anche di un forte mercato interno: Germania (37,27%), Francia (35, 07%), Gran Bretagna (33,63%), Italia (25,50%). Solo la Grecia fa peggio con il 21,68%. L’esame di questi dati fa pensare che eventuali ostacoli al mercato europeo potrebbero avere gravi conseguenze per la Svizzera e qualche ripercussione anche sul mercato europeo. L’attuale integrazione, senza dover partecipare a fastidiosi impegni comunitari, si è rivelata positiva e ha permesso alla Svizzera di mantenere un ritmo di crescita migliore di quello europeo.

Controlli doganali a Domodossola: nella classifica sull’interdipendenza economica all’interno dell’Europa, la Svizzera si piazza al terzo posto. (Keystone)


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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la piazza di Angelo Rossi Tra gli ultimi anche nel capitale sociale Il capitale sociale, come ben sanno i nostri lettori, fa parte della filosofia di gestione della Migros. Secondo Gottlieb Duttweiler, infatti, il capitale, monetario ma anche umano, di questa società dovrebbe sempre essere utilizzato in favore dei deboli e contro gli abusi di potere dei forti. In questo articolo vogliamo però parlarvi di un’altra versione del concetto di capitale sociale. La stessa è emersa, nel corso degli ultimi quarant’anni, dagli studi di numerosi politologi e sociologi: si tratta del capitale sociale come nuovo fattore di produzione che verrebbe ad aggiungersi ai due altri tipi di capitale già conosciuti, ossia al capitale fisico (immobili, macchinario, infrastrutture) e al capitale umano. Che cos’è dunque il capitale sociale? Diciamo che si tratta di tutti quei vantaggi economici, e sono numerosi anche se non sempre misurabili, che un individuo, un gruppo di individui o la società stessa, possono trarre da relazioni che

nascono e si intensificano all’interno della famiglia, delle associazioni e di qualsiasi altro raggruppamento nel quale i membri lavorano per raggiungere finalità comuni. Le componenti principali del capitale sociale sono la fiducia reciproca, la cooperazione, l’aiuto e il sostegno reciproco. Così almeno lo definisce Markus Freitag, direttore dell’Istituto di scienze politiche dell’Università di Berna, in una pubblicazione sul capitale sociale in Svizzera, fresca di stampa. La stessa contiene un’introduzione sulla natura del concetto e una conclusione, redatte dal curatore. Le altre due parti sono invece formate da sei saggi che Freitag ha redatto con altri collaboratori dell’Istituto. I tre della seconda parte mettono in evidenza l’importanza delle reti di relazioni. I tre della terza, invece, si occupano della fiducia, della reciprocità e della tolleranza, come forme di capitale sociale. Come si può rilevare, le nozioni che vengono ana-

lizzate in questa pubblicazione sono astratte, ragione per cui è difficile farsi un’idea di come il capitale sociale possa effettivamente influenzare il benessere. Gli studiosi del capitale sociale sono però convinti che esista non solo una correlazione positiva, ma, come si è già accennato, addirittura una relazione di causa-effetto tra capitale sociale e benessere (individuale o collettivo). Più alto è il capitale sociale e meglio si sta. La questione della misura diventa quindi importante. Markus Freitag l’abborda nella conclusione del volume in discussione. Gli indicatori disponibili consentono dapprima di formulare un apprezzamento generale. Dalla fine degli anni Settanta dello scorso secolo si osserva in Svizzera una decadenza della società civile perché il numero dei membri delle associazioni è, in generale, in diminuzione. Tuttavia, aggiunge Freitag, nel corso degli ultimi dieci anni, la situazione sembra essersi stabilizzata. Anche nel volontariato si

osserva la medesima tendenza. Per quel che riguarda le relazioni all’interno della famiglia, della cerchia di amici e conoscenti non si è registrato invece nessun rallentamento. Infine le analisi disponibili non hanno rilevato, nel corso degli ultimi due decenni, nessuna diminuzione nella fiducia verso gli altri componenti del genere umano. Osserviamo poi che, per quel che riguarda il capitale sociale, la Svizzera si trova nelle prime posizioni della classifica europea. È interessante notare da ultimo che, all’interno del nostro Paese, esistono disparità nel capitale sociale come esistono differenze negli stock degli altri due tipi di capitale. Nelle sue conclusioni Markus Freitag presenta una tabella con dieci indicatori del capitale sociale. La lista degli stessi va dal numero di membri delle associazioni, alla tolleranza, passando per il sostegno emotivo, il sostegno pratico, il volontariato formale e quello informale, la fiducia negli amici e negli

sconosciuti, la reciprocità strategica (concessa quindi per un secondo fine) e quella altruistica. Per ogni indicatore i cantoni svizzeri ricevono un rango (dal primo al ventiseiesimo). Facendo la media dei ranghi ricevuti nei singoli indicatori, il Ticino si troverebbe al diciannovesimo posto della classifica del capitale sociale, in una posizione appena un po’ migliore di quella che occupa nella classifica dei cantoni secondo il reddito procapite (ventiduesimo posto). Nel nostro cantone è forte il sostegno pratico e la reciprocità strategica. Siamo invece gli ultimi o i penultimi per quel che riguarda la tolleranza, il volontariato e la fiducia negli amici. Altro che «Amici miei sempre pronti a dar una mano»!

mile a quello dei presidenti americani, dei premier britannici Thatcher e Blair, dei cancellieri tedeschi Kohl, Schroeder, Merkel. All’evidenza, i francesi non sono insoddisfatti soltanto dei loro leader; sono insoddisfatti di se stessi. E gli italiani (non so gli svizzeri)

convinti di essere disprezzati dai francesi dovrebbero considerare l’ipotesi che in realtà la Francia, al di là del tradizionale orgoglio nazionale, disprezzi soprattutto se stessa; o comunque non si piaccia, e da molto tempo. Dice il premier Manuel Valls che «la Francia vive da quarant’anni al di sopra delle proprie possibilità». È questo il problema? Anche, ma non solo. Le radici del grand malaise di cui si discetta da decenni sono altre. A cominciare dal declino della grandeur di cui parlava De Gaulle. La Francia da tempo ha l’impressione di non contare più nulla nel mondo, se non aggrappata alla Germania, detestata ma segretamente ammirata. Hollande, come prima di lui Mitterrand, morde il freno ma non osa spezzare l’asse con Berlino; al punto da sacrificare all’alleanza franco-tedesca un ministro dell’Economia eterodosso come Montebourg, e da rischiare di non avere più la maggioranza all’Assemblea Nazionale, perdendo i voti

della sinistra socialista. Resta il fatto che la Francia non è l’ultimo Paese al mondo, anzi. È il primo come numero di turisti. È il primo, soprattutto, come ricchezza privata, ben davanti alla Germania. È il secondo (dopo l’Italia) come patrimonio artistico e culturale. Ha il migliore sistema sanitario pubblico (tra i grandi Paesi). È indipendente dal punto di vista energetico, grazie al discusso nucleare. Ha uno Stato che costa troppo ma che funziona. È in tutto il mondo sinonimo di stile, classe, charme, bellezza, raffinatezza: tutte merci molto richieste nel mondo globale. Insomma ha grandi potenzialità. Forse è un Paese un po’ viziato. Di sicuro è un Paese depresso. Anche dal punto di vista culturale: sono anni ad esempio che il Paese dei lumi produce poco in termini culturali, al di là di personaggi mediatici (qualcuno ha mai visto Bernard-Henry Lévy senza la camicia bianca aperta e svolazzante?).

state appoggiate da autorevoli economisti, anch’essi convinti che le trasfusioni di denaro previste dall’«alleggerimento quantitativo» della Bce non funzionerebbero per almeno tre motivi: perché i tassi bancari sono troppo bassi per scendere ancora, perché i piani di risanamento hanno causato stagnazione invece che ripresa e nuovi posti di lavoro, infine perché anche l’euro sta dando segnali poco positivi. Le due notizie ferragostane sono uno spaccato della difformità esistente nella ricerca di maggior sicurezza e dell’adozione di misure per superare la crisi finanziaria che da anni causa tensioni in tutto il mondo. Nel primo caso, quello della Raiffeisen, la ricerca viene esercitata in modo diretto e pratico, cioé è l’autorità politico-monetaria che obbliga una banca a mettersi al riparo da nuove crisi. Nel caso di Hildebrand e del fondo Blackrock è invece il mondo finanziario che stigmatizza (rivolto all’Ue e ai governi) politiche economiche che i mercati reputano inefficaci

e deboli per affrontare la crisi e i suoi effetti. Se ne deduce che chi governa deve prima creare e posizionare l’architrave politica necessaria a dare stabilità all’edificio e a sostenere anche sempre più adeguate regole di sicurezza per l’industria finanziaria. Solo così politiche e governi potranno acquisire, come la Finma in Svizzera, l’autorevolezza di imporre a una banca provvedimenti prima che questa venga etichettata dai mercati come too big to manage o too big to regulate. Quasi dimenticavo un’altra notizia, anch’essa collegata alla ricerca di sicurezza economico/finanziaria: chiedendosi durante un simposio a Lindau quale fosse la ragione per cui la «scienza dell’economia» ha fallito nella scelta dell’architrave indispensabile all’Ue, la cancelliera Merkel ha rafforzato il suo interrogativo con un’altra sibillina domanda: «Erano errate le teorie o non abbiamo ascoltato le persone giuste?». Altro interrogativo: riuscirà l’Ue a ricominciare daccapo?

Per chi vuol saperne di più

Markus Freitag, Das soziale Kapital der Schweiz, Verlag Neue Zürcher Zeitung, Zurigo, 2014.

In&outlet di Aldo Cazzullo Le grand malaise Il grigio Hollande è in gravissima difficoltà. Ma due anni e mezzo fa un presidente coloratissimo come Sarkozy, a suo tempo salutato come l’uomo della rupture, affondava sotto il peso degli scandali e dell’impopolarità, a vantaggio dello stesso Hollande. All’evidenza, il problema non sono gli uomini politici, per quanto inadeguati. Il problema è la Francia stessa. Sono infatti trent’anni che in Francia a ogni elezione, presidenziale o legislativa, chi è al governo perde e chi è all’opposizione vince. Nel 1981 Mitterrand sconfisse il presidente uscente Giscard, che ora tutti associano ai diamanti di Bokassa ma che in realtà diede ai francesi i diritti civili e tentò di liberalizzare l’economia. Nel 1986 i socialisti di Mitterrand persero rovinosamente le elezioni legislative, dopo aver cambiato in corsa la legge elettorale introducendo (per la prima e ultima volta) la proporzionale, al fine di limitare i danni. Chirac divenne primo ministro, che in

caso di coabitazione è il vero capo del governo. Due anni dopo fu seccamente battuto da Mitterrand alle presidenziali. Nel 1993, nuovo disastro socialista alle legislative. Diventa premier Balladur, che però alle presidenziali 1995 viene eliminato al primo turno dal rivale interno Chirac, che sale all’Eliseo; ma due anni dopo scioglie l’Assemblea Nazionale, per essere clamorosamente battuto dai socialisti di Jospin. I due si mettono d’accordo per evitare nuove coabitazioni: il settennato diventa quinquennio. Nel 2002 si vota per eleggere il presidente: dopo cinque anni di governo, Jospin è eliminato al primo turno; al ballottaggio la sinistra espia la sua colpa votando in massa per Chirac. In seno alla destra però emerge un oppositore interno, che detesta Chirac (ricambiato) e propone di rompere con il passato: Nicolas Sarkozy, che nel 2007 è eletto presidente. Ma cinque anni dopo è appunto battuto… Insomma, nessun leader è riuscito in Francia ad aprire un ciclo politico si-

Zig-Zag di Ovidio Biffi Notizie e confronti di mezzo agosto Chi è nato in una valle ticinese, e ha una certa età, conosce la metamorfosi del Ferragosto. Fino agli anni 30 era ancora pacifica «feriae Augusti» (vacanza di Augusto), festa per celebrare i raccolti; poi festeggiava i migranti che partivano per una nuova stagione «indenta»; infine è finita fagocitata da… festival, grigliate e menu più o meno nostrani. Nel degrado è persino cresciuta una componente di paure e fantasmi. Colpa dell’ormai lontano 15 agosto del 1971, giorno in cui il presidente Nixon abrogò la convertibilità del dollaro in oro, decretando così la fine anche degli accordi di Bretton Woods. Da allora, attorno alla prima decade di agosto, mercati e media cadono sovente nel gorgo di allarmi e timori che fanno tremare il mondo finanziario, anche se poi si rivelano esagerazioni o bufale. Quest’anno grandi pioggie, guerre e orrori hanno messo k.o. gran parte delle tradizioni di Ferragosto, comprese le paure del mondo finanziario, tanto che erano poche le notizie importanti che

lo hanno riguardato. Addirittura la Finma, l’autorità federale per i controlli in materia finanziaria, deve aver pensato di sfruttare il momento per annunciare la «promozione» della Raiffeisen nel club sinora riservato a Ubs, Credito Svizzero e Banca Cantonale di Zurigo, quello degli istituti di credito too big to fail. Con la stessa esultanza di una donna che si è appena sentita dire che è troppo grassa, Raiffeisen ha accolto la notizia dichiarando che «farà in modo di soddisfare in una prossima tappa in accordo con la Finma» le nuove esigenze e garantire così «funzioni di rilevanza sistemica in caso di rischio d’insolvenza». Ma il gruppo finanziario sangallese – come ha spiegato la scorsa settimana Ignazio Bonoli – dopo l’acquisizione della banca Wegelin ribattezzata Notenstein, non poteva più evitare l’aggiornamento di uno «status» che ancora si fregiava della sua origine di cooperativa: a dettare la nuova classificazione, e tutti gli oneri che essa comporta, sono in particolare i 147,2 miliardi di franchi di

ipoteche in portafoglio e i 192,3 miliardi di patrimoni amministrati. All’annuncio della Finma ha fatto seguito un intervento di Philipp Hildebrand. L’ex direttore della Banca nazionale svizzera e ora numero due di Blackrock, il mega-fondo d’investimento americano, dopo la pausa di Ferragosto ha movimentato la ripresa dei mercati sentenziando sul «Financial Times» che Italia e Francia sono ormai due «malati cronici» e che non potranno bastare a salvarli i prospettati acquisti massicci da parte della Banca centrale europea di titoli di Stato (con la strategia del quantitative easing, cioè di «alleggerimento quantitativo», già applicata con successo dalla Fed negli Stati Uniti). Hildebrand sostiene che «Italia e Francia sono messe talmente male che nessun piano di quantitative easing riuscirebbe a farle crescere» perché le massicce operazioni di liquidità creerebbero una nuova bolla, «dando così una facile via d’uscita ai governi ancora riluttanti ad attuare riforme». Le sue dichiarazioni sono subito


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Cultura e Spettacoli Il ritorno di John Updike Einaudi ha recentemente dato alle stampe Sei ricco, Coniglio del grande autore statunitense

A Venezia per l’architettura Quest’anno la Biennale dura sei mesi: riflessioni assicurate grazie all’irriverenza e alla genialità del suo curatore Rem Koolhaas

La parola scende in piazza Mancano pochi giorni a Piazzaparola, quest’anno a Lugano e a Locarno

Per chi ama il folk È riapparsa la registrazione «perduta» di un concerto del grande John Mellencamp

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De senectute

Mostre Tacita Dean alla Fondazione Ratti di Como

Gianluigi Bellei Tacita Dean è un’artista britannica particolarmente importante. Utilizza il disegno, la pittura, la musica e soprattutto realizza molti film. Nel 1998 ha ottenuto la nomina per il Turner Prize con Desappearance at the sea. Nel 2005 è stata premiata alla Biennale di Venezia e nel 2006 vince l’Hugo Boss Prize ma soprattutto è stata invitata, proprio in quell’anno, per una personale al Solomon R. Guggenheim Museum di New York. Ha esposto alla Tate Britain e, nel 2011, alla Tate Modern. I suoi film, fatto oramai raro oggi, sono realizzati ancora con le vecchie pellicole in formato analogico che danno ai suoi lavori un che di nostalgico e rétro. In questi giorni un suo film è presente alla Fondazione Ratti di Como. Ma prima di parlarne è d’uopo fare una premessa legata al concetto di nostalgia, al suo amore per la vecchiaia, alla lentezza e tutto ciò che non è di attualità. L’aspettativa di vita di una persona è mutata radicalmente in questi ultimi decenni. Parliamo ovviamente solo dei nostri contesti occidentali perché in altre realtà, fra guerre, carestie, malattie, denutrizione, ci troviamo di fronte a una sorta di Medioevo. In Inghilterra nel Settecento, per esempio, la speranza di vita alla nascita oscillava fra i 33 e i 37 anni, in Francia fra i 24 e i 34. Qui

la metà delle persone moriva prima dei 10 anni e l’altra superava solo in pochi casi i 25. Nell’Ottocento la speranza di vita alla nascita era fra i 41 e 45 anni, in Germania fra i 36 e i 38 anni e in Italia fra i 35 e 36. Nel Novecento, dopo le due grandi guerre, fra il 1950 e il 1970 l’età media per gli uomini era di 63-69 anni e per le donne di 72-80. Oggi si vive di più e meglio, complici l’alimentazione, il debellamento di malattie epidemiche, come la tubercolosi e il colera, lo sviluppo economico e scientifico. Stiamo diventando un popolo di vecchi. Nonostante ciò il problema della vecchiaia era già sentito ai tempi degli antichi romani. Se n’era accorto Marco Tullio Cicerone che a 62 anni, fra decadenza fisica e intellettuale, si era posto il problema della vita e della morte. Il suo capolavoro, composto poco prima della morte all’inizio del 44 avanti Cristo e intitolato Catone Maggiore: della vecchiezza, affronta la questione confutando le quattro accuse che si muovono alla vecchiezza. «La vecchiezza distoglie dalla vita attiva»: ma i giovani difendono la patria col braccio e i vecchi la servono con la mente, risponde Cicerone per bocca di Catone. «La vecchiezza indebolisce il corpo»: sì, dice Cicerone, il vecchio non desidera la forza del giovane come il giovane non desidera quella del toro o dell’elefante. «La vecchiezza priva di ogni piacere»:

benedetta questa età, sostiene Cicerone, che ci libera dalla voluttà ma che ci fa gustare i cibi di una parca mensa o un modesto convito. Eppoi felice è il vecchio circondato «dal rispetto e dall’affetto dei giovani». «La vecchiezza non è lontana dalla morte». Certo, ma ad ogni età la vita è in sé compiuta e perfetta, basta vivere onestamente e felicemente. La miglior ricchezza dell’uomo, conclude, è il ricordo delle buone azioni fatte. Fin qui Cicerone. Ovviamente la realtà è un po’ diversa: oggi molti vecchi, che una volta si chiamavano «matusa», vivono un’esistenza triste e solitaria. Con poche eccezioni, e Tacita Dean ce le racconta in parte con i suoi lavori: l’artista Mario Merz filmato poco prima della morte; Sensaku Shigeyama l’attore di teatro tradizionale giapponese considerato «un tesoro umano»; il poeta e traduttore Michael Hamburger filmato, sempre poco prima della morte, a 82 anni fra i meli del suo giardino nel 2007. In Boots del 2003 è la volta dell’amico di famiglia Robert Steane, chiamato appunto Boots – invitato dall’artista nella Casa de Serralves in Portogallo – che recita la parte dell’amante dell’insoddisfatta padrona di casa. Boots, cieco, strabico, zoppo, con una macchia cancerosa sul naso, morirà dopo pochi mesi e il film è una sorta di narrazione fra il mezzo analogico in estinzione e un vec-

chio uomo amato. George Baker, in un suo saggio di qualche anno fa, ha scritto di linguaggio «extramoderno» che non soggiace né ai canoni dell’avanguardia né a quelli della tradizione. Il film presentato alla Fondazione Ratti è dedicato a Merce Cunnigham, un coreografo per il quale ha realizzato due opere. La prima nella quale lo stesso Cunnigham interpreta i tre movimenti di 4’33’’ di John Cage e questa intitolata Craneway Event girato nel 2009, l’anno della sua morte. Nato nel 1919 a Centralia (Washington) Cunnigham si forma al Cornish College of the Arts e poi si trasferisce a New York. Qui presenta il suo primo concerto con Cage nel 1944. Fonda una compagnia di danza sviluppando un metodo «creativo-improvvisativo» dove confluiscono Zen e dadaismo. La collaborazione coi musicisti, in particolare con lo stesso Cage, fa sì che realizzi un «processo attraverso cui ogni lavoro funzioni indipendentemente» e ogni elemento si fondi direttamente sul palco. Il suo metodo lo rende uno dei personaggi più influenti del secolo scorso, non solo nella danza ma in tutte le arti. In Craneway Event, Cunnigham dirige la sua compagnia di danza seduto su una sedia a rotelle all’interno di una ex fabbrica di automobili Ford, pro-

gettata da Albert Kahn, in California. I ballerini si muovono, si riposano, si accorpano, mentre una forte luce entra dalle grandi vetrate, un piccione dondola con loro, e i pellicani in lontananza si buttano a capofitto nell’acqua. Lui, quasi immobile segue tutti e tutto, prende appunti, dirige senza fretta, quasi regalmente. È sempre lui che balla con la mente, si ciba in questo sacro convito danzante, ricordando quello che è stato e quello che adesso vuole insegnare, onestamente. Un grande vecchio, dignitoso e presente. Tacita Dean, a camera quasi fissa, ce lo tramanda indagando sul suo volto rugoso, sulla sua imperscrutabilità, mentre il suo mondo gli ruota attorno leggero come il pensiero. Il film ovviamente, come tutti quelli della Dean, è un po’ noioso, come la vita; ma nella buia e fresca chiesa di San Francesco il raccoglimento e la lontananza dal frenetico via vai della città aiutano a riflettere. Dove e quando

Tacita Dean. Craneway Event A cura di Simone Menegoi Como, Fondazione Ratti Ex Chiesa di San Francesco Fino al 28 settembre Orari: gio-do ore 16.00-20.00; proiezioni ore 16.00 e 18.00.


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Cultura e Spettacoli

Pensare la città

Mostre In Italia il concetto di città nel suo senso moderno è piuttosto recente, come dimostrano le opere

(fra gli altri di De Chirico, Balla, Merz e Boccioni) presenti a Villa Olmo a Como Simona Ostinelli Un grande caseggiato color fumo, finestre come feritoie, occupa la parte sinistra del dipinto. Lo affianca una costruzione più bassa, una fabbrica, con due ciminiere che si alzano al cielo. La cromia dominante è il grigio, una tonalità impura, una materia densa e polverosa che subito riporta al clima cupo delle periferie. Mario Sironi dipinge Paesaggio urbano nel 1946, sul finire della guerra. Se tempo prima aveva sostenuto che l’arte «non ha bisogno di riuscire simpatica ma esige grandezza», ora sa che nessuna grandezza è possibile, e che le città sono diventate luoghi di solitudine e straniamento. Il dipinto di Sironi è una delle sessanta opere che compongono la mostra «Ritratti di città», allestita a Villa Olmo a Como fino al 16 novembre, seconda tappa di un progetto triennale dedicato all’immagine dei centri urbani. Il tema è sicuramente intrigante e si è già prestato a declinazioni diverse. Ritratti di città è il titolo di una serie di documentari prodotta dalla RAI negli anni Sessanta sullo sviluppo dei principali conglomerati italiani, e pure di un saggio di Cesare de Seta del 2011 sulla rappresentazione dei centri urbani dal Rinascimento all’epoca moderna. A Villa Olmo il focus è sulle città pensate, costruite e poi dipinte dagli artisti. Il percorso cronologico inizia con due periferie prefuturiste di Umberto Boccioni, che rappresentano un punto di transizione tra l’idea storica di pae-

saggio e quella tutta diversa di periferia come luogo in espansione. Le vedute urbane sono un soggetto nuovo per gli artisti d’inizio Novecento, proprio perché in Italia è la città stessa a mancare. Milano e Roma non hanno la stessa forza di Parigi o Londra, sono tuttalpiù annidamenti al margine delle campagne. I futuristi sono i primi a percepire questo vuoto: «la città sarà un concentrato dinamico di forze vitali, che aggrediscono il paesaggio…», si legge nel Manifesto del 1909, centri moderni e meccanici dalle energie frementi, che prima di essere rappresentati – e diventare genere – vanno inventati. È in questo momento infatti che inizia l’adozione della veduta urbana come soggetto e oggetto d’arte: spazio di progettazione architettonica e sociale ma anche di rappresentazione, luogo dell’anima, di un progresso che si immagina senza confini, ma anche di disagio psicologico, come si vedrà negli anni a venire. A fianco di Boccioni, Balla, Depero e Dottori, interpreti di un mondo nuovo reso con astratti paesaggi meccanici, officine fumanti e strade in movimento, la classicità metafisica di De Chirico, che nelle Piazze d’Italia mette in scena lucide visioni dalla prospettiva perfetta. Fra i primi a interrogarsi sulla condizione esistenziale nelle nuove realtà urbane vi è Mario Sironi, che le descrive come luoghi della disumanizzazione definitiva. Nel secondo dopoguerra il percorso si inoltra nell’astrazione geometrica in chiave architettonica di Atanasio

pone reportage quasi saggistici, tesi a sottolineare le implicazioni etiche ed esistenziali delle diverse situazioni, Gabriele Basilico fa della fotografia uno strumento di critica specifica, con la ricostruzione di un paesaggio urbano minore dal destino straniante. Le ultime generazioni si dedicano al ritratto di città come un vero e proprio genere artistico, un’alternativa multiforme al paesaggio. La rappresentazione di vedute urbane è composta da un immaginario nutrito di cinema, letteratura, fotografia e arte: così Davide Bramante, che stratifica le immagini in un processo di appropriazione soggettiva; così Velasco Vitali, che con i suoi agglomerati apparentemente familiari ma in realtà fantastici lavora sull’immagine come esperienza storica ed emotiva; e così Daniele Cestari, le cui città anonime e costringenti riportano ad un clima di disagio emotivo. A legare tutti questi ritratti così diversi, la descrizione puntuale dell’architetto Aldo Rossi, per il quale la città è «la scena fissa delle vicende dell’uomo, carica dei sentimenti di intere generazioni, di eventi pubblici, di tragedie private, di fatti nuovi e antichi».

Cantiere di Piero Marussig (1928). (Collezione Intesa Sanpaolo)

Soldati o Aldo Galli, e in quella rinascimentale e scenografica di Salvatore Fiume. Paesaggi inventati, che non esistono più o solo in parte: ai teatrini surreali di Alik Cavaliere fanno da contraltare gli impianti di Francesco Somaini, che nel segno di un nuovo umanesimo sogna uno spazio urbano

a misura della memoria, dell’identità e della bellezza. Un contributo importante all’iconografia delle vedute contemporanea è offerto dalla fotografia, che da un ruolo documentario diventa strumento di indagine. Se la generazione di Gianni Barengo Gardin e Franco Fontana pro-

Bibliografia

Ritratti di città. Urban sceneries. Da Boccioni a De Chirico, da Sironi a Merz a oggi. A cura di Flaminio Gualdoni. Como, Villa Olmo, fino al 16 novembre. Catalogo Silvana Editoriale. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Testimone dell’infelicità

Editoria Einaudi ha (ri)pubblicato Sei ricco, Coniglio di John Updike, una delle grandi voci

della letteratura statunitense

Emmy Awards, il meglio della TV Visti in Tivù Presto

alcuni dei titoli in nomination arricchiranno i palinsesti della SSR

Luciana Caglio A giugno l’editoria italiana è generalmente impegnata nell’operazione libri per l’estate, cioè comode letture da ombrellone. Quest’anno, ha fatto eccezione la casa Einaudi puntando, invece, sulla riedizione, nella collana «Stile libero», di Sei ricco, Coniglio di John Updike, con un’ampia introduzione di Julian Barnes. Una proposta forse rischiosa sul piano commerciale, ma quanto mai sollecitante, persino necessaria, su quello letterario. Anche se, sia chiaro, non si tratta di un libro impopolare o trascurato dalla critica. Anzi: il volume, terzo nella tetralogia dedicata alle avventure-disavventure del Coniglio, è considerato proprio da Barnes, «il miglior romanzo americano del Novecento», mentre, su Internet, figura nell’ipotetico elenco dei «1001 libri da leggere prima di morire». Primati e superlativi a parte, questo rilancio assume il significato di una verifica di merito nei confronti di un autore, forse non pienamente percepito in tutti i suoi intendimenti. E persino negli Stati Uniti, dove, tuttavia, aveva ottenuto il Pulitzer per la letteratura, l’American Book Award, il premio O. Henry per racconti brevi, quello della critica, e via dicendo, nonché la ripetuta candidatura al Nobel, mai concesso, non da ultimo per motivi d’ordine ideologico e moralistico. Updike non era certo allineato su posizioni politicamente corrette. Nel corso di un’esistenza puntualmente destinata ad alimentare le migliaia di pagine di oltre 60 opere, si è mosso, come cittadino e come scrittore, per conto suo, rifiutando le etichette e i condizionamenti imposti da scuole di pensiero, mode, trasformismi. Dei quali diventò un testimone d’eccezione: direttamente coinvolto, e, in pari tempo, dovutamente distaccato. Con uno sguardo ironico, irriverente, e mai denigratorio e intransigente, ha filtrato una realtà, dove si sentiva parte in causa: figlio di un paese, una società e una generazione, che non voleva rinnegare. Nato nel 1932 in provincia, da una famiglia del ceto medio, il padre insegnante, John, dopo buoni studi, avviò una fertilissima attività di scrittore ad

Antonella Rainoldi

Lo scrittore statunitense John Updike, scomparso nel 2009. (Keystone)

ampio raggio: romanziere, saggista, poeta. A consacrarlo autore di successo fu, a partire dagli anni ’70, la serie del Coniglio, alias Harry Angstrom, il personaggio promosso a simbolo dell’americano medio. «Sono diventato famoso perché, nel frattempo, altri erano morti», doveva commentare con una delle sue proverbiali battute-aforisma. Sono, del resto, battute che mette in bocca anche al Coniglio, per certi versi suo «alter ego». Proprio così, attraverso riflessioni inattese, un modesto «wasp» (acronimo di bianco, origini anglosassoni, protestante), in apparenza assorbito da una scalata sociale, allora favorita dalla congiuntura, rivela un’altra dimensione interiore: incrinata dal dubbio e dall’insoddisfazione. È un velo che comincia a offuscare l’orizzonte, sereno e promettente, della ricchezza che il mancato campione di basket, l’ex-tipografo che aveva visto scomparire la sua professione, ha

infine raggiunto, come concessionario della Toyota a Brewer, Pennsylvania. Sono i guai familiari, i dissapori con la moglie, il ritorno di un figlio inconcludente, ma anche il nuovo corso della politica e dell’economia a scombussolare un quadro di vita sempre più fragile. Certo, Harry è fiero di appartenere al Rotary e al Club del golf, è in grado di concedersi vacanze ai Caraibi. Ma subisce l’assedio di interrogativi sconcertanti. Non riesce ad accettare un’«America battuta, in guerra, dai Vietcong, in tecnologia dai Giapponesi e, in economia, incapace di frenare il debito nazionale». Non ancora cinquantenne, sente il mondo sfuggirgli di mano. Ha paura di non farcela nel lavoro, negli affari, persino nell’intimità, divisa fra moglie e amanti. In proposito, l’autore si concede descrizioni pruriginose, che gli valsero, da una giuria inglese, il «Bad Sex Fiction Prize». Ma, a riscattare Updike

dalla volgarità e dal voyeurismo, interviene l’ironia. Nel pieno di un rapporto con la moglie, Harry si accorge di pensare ai tritacarne, raccomandati da «Consumer Report», sua lettura preferita. Sembra arrivato per questo simbolico interprete del sogno americano, il momento della resa dei conti. Proprio lui che aveva deplorato il parassitismo, creato dallo Stato sociale, di fronte alla chiusura di uno stabilimento e a operai sul lastrico, si trova a dire: «Le fabbriche li hanno spremuti e poi sputati», e a relativizzare persino la ricchezza, che finisce nel vicolo cieco della paura di perderla. Da queste nuove consapevolezze, però, Harry sa difendersi: rifugiandosi nella natura, che Updike rende, inimitabilmente, una protagonista delle sue pagine, e in una vitalità collettiva, prettamente americana. Sempre efficace, anche in tempi d’infelicità.

Una Sibilla da salvare

Restauri Tre concerti intendono sensibilizzare il pubblico sulle bellezze architettoniche

di Morcote e sulla necessità di sostenere i restauri della chiesa di Santa Maria del Sasso La Chiesa di Santa Maria del Sasso a Morcote (foto) è un indubbio fiore all’occhiello dell’ameno paese affacciato sul lago. Un recente studio della SUPSI ha però rivelato dei gravi problemi strutturali che necessitano di interventi urgenti. I maggiori problemi sono stati riscontrati in corrispondenza della Cappella della Sibilla Persica, vi sono infatti efflorescenze saline e microsollevamenti che portano alla perdita rapida e continua di pellicola pittorica. I dipinti esaminati presentano alterazioni e depositi superficiali che ne limitano la leggibilità. Su consiglio della SUPSI le autorità comunali stanno cercando degli esperti per effettuare uno studio microclimatico, così da verificare i problemi di umidità e condensa sulle superfici. Senza intervenire su questi fattori, ogni operazione di conservazione e restauro rischia di vanificarsi in poco tempo. I risultati sono stati ora comunicati all’Ufficio dei Beni Culturali di Bellinzona, che dovrà autorizzare qualsiasi futuro intervento alla chiesa. L’anno prossimo la SUPSI effettuerà un ulteriore studio relativo alla parte re-

Percento Culturale Migros Ticino) il 5, 6, 7 settembre 2014 sono previsti tre concerti; protagonisti degli appuntamenti saranno Milos & Friends e il Quartetto Sacconi. I concerti avranno luogo in tre diverse Chiese, patrimonio della mappa artistica ticinese. Il primo appuntamento è previsto venerdì 5 settembre nella Chiesa parrocchiale di Carona (inizio ore 19), seguirà il concerto del 6 settembre (ore 19) nella Chiesa di San Rocco nel nucleo del paese di Morcote, per concludere con l’incontro di domenica 7 settembre nella Chiesa di Santa Maria Maggiore a Morcote, durante il quale Milos & Friends e il Quartetto Sacconi avranno Carta Bianca. La particolarità di questo appuntamento è costituita dal fatto che avrà luogo alle ore 11 di mattina. / Red stante della Chiesa. Per contribuire a far fronte a gli inevitabili costi legati a interventi di questo tipo e per divulgare la conoscenza storica ed architettonica degli edifici sacri e civili, l’Associazione Amici dei Restauri, fondata nel 2007, organizza

da sei anni a questa parte degli Incontri Musicali. In collaborazione con l’Associazione Amici dei Restauri del Complesso Monumentale di Morcote, Ceresio Estate e la Casa Pantrovà (e il sostegno del

Non se ne può più dei saldi di fine stagione. Non se ne può più dei Techetechetè. Non se ne può più del pacco dei pacchi, qualunque cosa voglia dire questo bisticcio. In attesa di trovare qualcosa di interessante da recensire, tra riedizioni di vecchi programmi e qualche novità, ci pare giusto dedicare la prima rubrica dell’autunno televisivo agli Oscar della tv. Lunedì scorso all’una e mezza di notte su Rai4 è andata in onda la cerimonia di premiazione degli Emmy Awards, il massimo riconoscimento della televisione americana, con il commento di Gene Gnocchi e Joe Violanti (martedì, in differita, ore 21.10). Non vogliamo qui parlare dello spettacolo allestito al Nokia Theater di Los Angeles, un po’ perché lo schema della trasmissione è frusto, con o senza ottimi presentatori come Seth Meyers, un po’ perché la comicità stralunata di Gnocchi a una certa ora è indigesta. Se siamo stati svegli per seguirlo è soprattutto perché eravamo interessati a registrare la sfilata della cosiddetta «Quality Tv», un esempio lampante di telefilia in prevalenza a stelle e strisce. Grazie anche al richiamo crescente degli Emmy Awards, è finalmente cambiato il punto di vista sulle serie tv, considerate al di qua dell’Atlantico alla stregua di un riempitivo fino a poco tempo fa. Basta anche solo citare i primi titoli in nomination per capire che la serialità televisiva è ormai un’espressione artistica al di sopra del cinema, specie d’autore: Breaking Bad (AMC), Downton Abbey (PBS), Mad Men (AMC), House of Cards (Netflix), Games of Thrones (HBO), True Detective (HBO) sono serie drammatiche di qualità, innovative e complesse, difficili da seguire ma godibili (chi volesse leggere o rileggere le recensioni può recuperarle su www.azione.ch). Vincitrice assoluta è stata la prima, una toccante dark comedy creata da Vince Gilligan e Mark Johnson, alla quinta stagione, coperta di cinque premi importanti, compreso quello per il migliore attore protagonista, Bryan Cranston, affascinante professore dalla doppia anima. Tutte però avrebbero meritato una raffica di Emmy, per scrittura, per recitazione, per ambientazione. Fra poco anche lo spettatore svizzero potrà giudicare. Alcune serie di questa e di altre categorie andranno ad arricchire i palinsesti autunnali della SSR. Ne riparleremo presto.

Dove e quando

Per informazioni riguardanti i concerti e i lavori di restauro: www.morcoteamicideirestauri.ch oppure el.tavecchio@bluewin.ch.

Bryan Cranston, protagonista di Breaking Bad. (Keystone)


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Cultura e Spettacoli

Ricerche sul Moderno Architettura Rem Koolhaas, fedele alla sua indole provocatoria, propone una Biennale d’architettura dai toni inediti

Venezia, meravigliosa e misteriosa, utilizzata in innumerevoli film come scenario privilegiato, trasformata in un personaggio a sé stante, inafferrabile e potente (come dimenticare capolavori quali Morte a Venezia di Luchino Visconti o Nero veneziano di Ugo Liberatore?). La città lagunare, gioiello architettonico, miracolo della natura in bilico fra splendore e oblio, racchiude in sé misteri che sembrano popolarne ogni via. Questa sua natura inafferrabile, che la trasforma in sirena dal canto ammaliante ha saputo ancora una volta sedurre il curatore dell’ultima Biennale di Architettura: Rem Koolhaas, che per lei ha messo in scena un’edizione inedita, decisiva, che marcherà molto probabilmente un cambio di rotta verso una nuova epoca. L’inaugurazione, svoltasi sabato 7 giugno, ha dato il via ad una 14ma edizione dal titolo emblematico Fundamentals, che resterà aperta al pubblico fino al 23 novembre. La durata, sei mesi invece dei canonici tre, è la prima delle innumerevoli novità portate dall’immenso Rem Koolhaas che ha saputo stravolgere la Biennale senza però snaturarla. Koolhaas si lancia quest’anno in un titanico lavoro che riconsidera le fondamenta stesse non solo della Biennale ma dell’intera storia recente dell’architettura. Così facendo, si confronta con un problema centrale: la modernizzazione (e l’iper informazione) e le sue inevitabili ripercussioni (spesso nefaste) sui paesaggi e sull’architettura. Una battaglia insomma che mira a mettere i bastoni fra le ruote al conformismo e all’indifferenza avvalendosi di un’arma potentissima: la ricerca.

Il carismatico Koolhaas non si presenta solo come curatore e architetto, ma è anche sociologo, storico e antropologo Un’immensa mostra-ricerca quella di quest’anno che non poteva che essere ideata da colui che più di tutti sa usare meravigliosamente l’arma della provocazione. Il curatore olandese non è di certo estraneo alla Mostra veneziana; insignito nel 2010 del prestigioso Leone d’oro alla carriera, ha mosso i suoi primi passi sulla laguna già nel 1980 partecipando all’installazione Strada Novissima che è diventata il manifesto dell’architettura postmoderna. Nato a Rotterdam nel 1944, architetto, urbanista e saggista fra i più noti e controversi della scena internazionale, Rem Koolhaas si presenta quest’anno alla Biennale d’architettura non solo in quanto curatore/architetto ma anche in veste di sociologo, storico ed antropologo, con lo scopo di avere sul suo campo, quello dell’architettura, una visione globale, sfaccettata e proteiforme. I suoi libri, fra i quali Delirious New York, del ’78, che gli ha fatto guadagnare istantaneamente una fama internazionale, sono dei veri e propri bestseller che l’hanno reso uno dei più influenti ma anche discussi teorici dell’architettura contemporanea. Gli spazi architettonici che Koolhaas concepisce all’interno del suo «Office for Metropolitan Architecture», fondato nel 1975, sono complessi, inaspettati, radicalmente in rottura con i concetti tradizionali di composizione, trasparenza o etica. I suoi progetti sono completamente estranei alle regole dell’architettura

Rem Koolhaas il giorno dopo l’inaugurazione della Biennale di architettura di Venezia. (Keystone)

tradizionale con le quali si posizionano contrapponendosi al grido di «fuck the context!» (da considerare però più come una constatazione che come un’opinione bellicosa). Un personaggio controverso, radicale fino al cinismo, certo, ma dotato di straordinarie capacità comunicative che gli hanno permesso di mettere in scena una Mostra globale dove ogni elemento partecipa a un solo progetto, a una sola immensa ricerca sulla modernità. Il risultato, frutto di lunghe ricerche condotte sotto la guida dello stesso Koolhaas, è Fundamentals, una grande Mostra sull’architettura stessa. L’accesso all’informazione è oggigiorno estremamente facile, sarebbe quindi inutile proporre un semplice aggiornamento sul lavoro degli architetti. L’obiettivo della Biennale di quest’anno è piuttosto quello di incitare il pubblico a riflettere sui pericoli del conformismo, della passività e della banalizzazione del rapporto fra opera ed osservatore, che la modernizzazione porta inevitabilmente con sé. Fundamentals si suddivide in tre grandi settori (Elements of Architecture, Monditalia e Absorbing Modernity) ognuno dei quali contribuisce ad arricchire l’idea centrale della Mostra. Elements of architecture, al padiglione centrale, analizza in modo quasi microscopico gli elementi fondamentali dei nostri edifici (dalle toilettes, ai soffitti, alle porte,...) che dovrebbero rappresentare i nuovi riferimenti dell’architettura stessa. Elements of Architecture è il risultato di una minuziosa ricerca storica, condotta dalla Harvard Graduate School of Design, durata ben due anni. Un’impresa coraggiosa ed innovativa all’altezza delle aspettative di Koolhaas. Absorbing Modernity 1914-2014 conta 65 partecipazioni nazionali (con l’aggiunta quest’anno di 10) che per la prima volta devono confrontarsi con un unico tema comune, ossia l’indagine dei momenti decisivi della modernizzazione che ha avuto luogo negli ultimi cent’anni. Questa novità dà un nuovo slancio ai consueti padiglioni nazionali coinvolti quest’anno per la prima volta nella ricerca collettiva della biennale. «Cercheremo insieme di capire come mai 100 anni fa era possibile parlare di architetture nazionali e ora non più. Ci chiederemo come mai siamo arrivati a una situazione in cui tutti costruiscono le stesse cose» spiega lo stesso Koolhaas. Ed infine Monditalia, alle Cor-

derie dell’Arsenale, 41 ricerche che «scansionano» l’Italia in quanto Paese «fondamentale», unico nel suo genere, e allo stesso tempo emblematico di una situazione globale in bilico fra caos e realizzazione. Monditalia mette in avanti la complessità di un

territorio i cui problemi non devono essere rigettati o nascosti, ma al contrario intelligentemente considerati in quanto «basi» per una futura, positiva evoluzione. Sempre nell’ottica della Biennale come piattaforma di ricerca globale quest’anno, per la pri-

ma volta, anche gli altri settori: danza, musica e teatro, parteciperanno al progetto. E se tutto ciò non bastasse rimangono sempre i 22 eventi collaterali (dibattiti e seminari), la ciliegina sulla torta di un’edizione che farà storia. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Un premio simbolico per raccontare un mondo in miniatura Teatro di figura La rassegna «Il castello incantato» ha voluto premiare il lavoro dell’associazione Unima Giorgio Thoeni «Un’arte che spesso proviene dal più profondo della cultura popolare e che ha saputo conservarne i tratti e l’ardore. Un’arte nata dalla necessità assoluta di dire, di raccontare, di protestare. Un’arte artigianale che col tempo ha saputo creare i suoi codici. Un’arte, infine, che ha dimostrato di essere capace di far luccicare gli occhi ai bambini, di sedurre gli aristocratici, di far ridere le persone più serie, di appassionare gli intellettuali, di convincere gli imbecilli e di far paura ai rappresentanti dell’ordine pubblico. Chi altri può vantarsi di tanto?» (Paul Fournel, dalla prefazione alla Encyclopédie Mondiale des Arts de la Marionnette). Le marionette e i burattini sono un mezzo privilegiato per ottenere l’essenzialità della comunicazione teatrale unendo fascino e dialettica. Attraverso i loro movimenti sulla piccola scena, il distanziamento è automatico: non perché i personaggi siano meno complessi, bensì in quanto sono molto più espliciti e da movimenti semplici e senza complicazioni lo spettatore trae la loro sostanza. Burattini, marionette, «ombre cinesi», in altre parole il cosiddetto «teatro di figura» ci apre un universo fantasioso che spesso, semplicisticamente, è conosciuto come una specificità destinata al pubblico dei più piccoli. È un teatro povero, fatto di pochi elementi: forme, colori e uso delle mani (o dei fili). È una forma di

Un esempio di burattini.

espressione artistica dalle radici antiche, il cui minimalismo sembra riportarci alle origini del mondo espressivo, alla necessità di dar voce a piccoli oggetti, a scene grottesche o a personaggi inventati. Oggi il teatro di figura è una realtà che molte volte non viene compresa nella giusta misura, anzi addirittura viene messa ai margini e sottovalutata rispetto a proposte considerate più importanti. Eppure la sua storia è autorevole e intrigante almeno quanto l’etimologia incerta del «burattino» manovrato dalle dita di una mano (probabilmente da

«buratto», una specie di straccio tessuto a maglia a fili solidi usato per filtrare la farina dalla crusca) accanto alla confusione lessicale ormai acquisita con la «marionetta» (pupazzo manovrato dall’alto con fili). Burattino è anche uno dei nomi del secondo Zanni nella Commedia dell’Arte. Nel Cinquecento fiorentino assume poi il nome di «bagatello», e potremmo proseguire lungo un percorso affascinante dove nascita e sviluppo del burattino vanno di pari passo con la storia del teatro europeo, assumendo quel

carattere popolare e girovago così come ce l’ha consegnato la tradizione di grandi famiglie: una per tutte quella dei Sarzi di cui Otello, scomparso nel 2001, è stato fra i più grandi eredi. Recentemente, nell’ambito della 16esima edizione del festival internazionale de «Il castello incantato», organizzato dal Teatro dei Fauni di Santuzza Oberholzer, è stato assegnato il «Premio alla carriera» all’Unima Suisse, l’associazione «mantello» svizzera del teatro di marionette in occasione dei suoi 55 anni di attività. Affiliata a Unima inter-

nazionale nata nel 1929, riconosciuta dall’Unesco e operante nei cinque continenti, l’associazione svizzera riunisce persone e istituzioni che si dedicano all’arte del teatro di figura in tutte le sue varianti e forme (marionette, burattini, teatro d’oggetti, d’ombra, con maschere). I tre pilastri dell’Unima sono il teatro professionista (composto di persone, gruppi, sale, festival e scuole), il teatro amatoriale o a tempo parziale e il gruppo composto di terapeuti professionisti. L’iniziativa del festival ha soprattutto assunto il valore di un gesto simbolico, voluto per sottolineare quanto il teatro di figura sia molto attivo in Svizzera, dove conta 13 sale tra le più importanti e 7 festival internazionali (tra cui «Il castello incantato»). In tutto sono attive circa 50 compagnie professioniste indipendenti e altrettante amatoriali. Il burattino e la marionetta, occorre ricordarlo, negli anni hanno assunto un ruolo essenziale nella pedagogia ma anche nella cura della salute attraverso terapie e, in tal senso, UNIMA Suisse si impegna a promuovere il teatro di figura proprio nei suoi aspetti artistici, pedagogici e terapeutici rappresentando gli operatori del settore in rapporto con le istituzioni. Lo fa organizzando regolarmente corsi di formazione, gestendo una biblioteca aperta al pubblico e informando i suoi membri sull’attualità svizzera e internazionale anche attraverso «Figura», una rivista semestrale bilingue (francese e tedesco). Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Parole e piazze Rassegne La lingua italiana sarà

la protagonista indiscussa di Piazzaparola Natascha Fioretti L’arte del racconto torna al centro della piazza con letture, musica, spettacoli teatrali, sorprese e realizzazioni artistiche. L’appuntamento è per il 4 e il 5 settembre nel Patio di Piazza Riforma (Palazzo dei Congressi in caso di pioggia) e il 12 in Piazza S. Francesco al Dipartimento Formazione e Apprendimento della SUPSI. Nata nel 2011 in occasione delle celebrazioni per il trentennale di attività della Società Dante Alighieri di Lugano, sostenitrice della lingua italiana nel mondo, Piazzaparola giunge alla sua quarta edizione con un appuntamento particolarmente ricco di ospiti provenienti da tutta la Svizzera e dall’Italia. Tre i Leitmotiv della manifestazione, che nasce per passione del comitato scientifico di Piazzaparola ed è reso possibile grazie al sostegno di una rete di enti pubblici e privati, tra i quali anche Percento culturale Migros Ticino: la centralità dell’italiano, che sarà sottolineata dall’intervento di Diego Erba, presidente del Forum per la salvaguardia dell’italiano; l’impegno ad avvicinare i bambini delle scuole elementari, quest’anno parteciperanno in 120, alla letteratura, all’ascolto, al confronto diretto con gli autori; e la presenza di un autore classico. Gli scorsi anni sono stati Dante, Omero e Boccaccio, l’edizione 2014 è invece ispirata al genio del Rinascimento italiano Leonardo da Vinci. La scelta di dedicare ogni edizione ad un classico deriva dal

voler proporre un autore che sia parte di un patrimonio culturale universale e di un sapere condiviso da tutti. Piazzaparola parlerà di Leonardo attraverso le sue fiabe e le sue favole di uomini e di animali, preziose per le loro morali. Fondamentale, in tutti gli appuntamenti in calendario, la musica che accompagna i testi e crea le atmosfere. A Lugano ci saranno le note di Luciano Zampar, docente di batteria e percussioni al Conservatorio della Svizzera italiana, Oliviero Giovannoni, percussionista, batterista e compositore; a Locarno l’organista Giovanni Galfetti e la soprano Elena Relevant. Quella che si annuncia essere una festa della parola letteraria in prosa, aprirà le danze giovedì sera 4 settembre alle 18.00 (l’ingresso è gratuito e aperto a tutti) con l’intervento di Raffaella Castagnola Rossini «Leonardo da Vinci scrittore» e si chiuderà il 5 settembre sera, sempre con Leonardo «Salvatico è quel che si salva. Una fantasia leonardiana», una lettura di Gilberto Isella e Fiorenza Casanova. Si tratta di un brano creato per l’occasione, con i testi di Isella e le immagini di Casanova, raccolti in un instant book che a sorpresa sarà distribuito al pubblico presente in piazza. Il grande spazio e appuntamento per i bambini è riservato invece alla mattinata del 4 settembre. Tra gli autori di lingua tedesca e francese ci saranno alcune grandi voci della letteratura contemporanea Svizzera: Adolf Muschg, scrittore e professore di letteratura, e Ilma Rakusa,

autrice, critica letteraria e traduttrice ci parleranno di solitudine, speranze, fugacità sotto cieli mutevoli e all’insegna di nuovi presagi e partenze. Ad incantare con la sua prosa poetica, pungente e sagace, la promettente penna di Arno Camenisch, giovane autore grigionese che leggerà dalla sua più recente opera tradotta in italiano Ultima Sera. Il giovane ginevrino Philippe Rahmy, insignito del premio Prix Wepler Fondation La Poste 2013, leggerà invece dalla sua opera Cemento armato. Le letture saranno in due tempi: nella lingua originale dell’autore e nella traduzione italiana. A loro si alterneranno le voci italofone di Claudio Zanini, vincitore del Premio Guido Morselli; Angelo Gaccione, narratore e drammaturgo,

Bruno Monguzzi, designer d’eccellenza affermato in tutto il mondo che racconterà una storia sul cavallo di Leonardo. Accanto a loro le voci ticinesi di Lorenzo Buccella, scrittore, cineasta e giornalista e Michele Amadò, docente di comunicazione visiva all’Università della Svizzera Italiana e alla SUPSI, al suo esordio come romanziere con Nient’altro che cinque minuti. Letture, musica e anche molte sorprese come la realizzazione artistica di Loredana Müller Donadini profumata di erbe, ispirata a Leonardo e la mostra delle scatole realizzate dai bambini sull’esperienza di Piazzaparola 2013. Una festa letteraria per tutti che con semplicità rimette al centro della piazza cittadina la letteratura, l’italiano, il pia-

cere dello scambio e dello stare insieme, in una cornice che a ritmo di musica narra di storie passate e contemporanee. Dove e quando

4 (ore 18-20) e 5 settembre (ore 9-11 e 18-20): Lugano, Patio del Municipio; 12 settembre (ore 9-16): Locarno, Dip. Formazione e Apprendimento SUPSI, Locarno; info: www.dantealighierilugano.ch In collaborazione con

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Cultura e Spettacoli

Lunga vita alla musica folk Musica La registrazione «perduta» di un superbo concerto del rocker americano John Mellencamp

ci regala un viaggio nel meglio dell’anima folk della vecchia America Benedicta Froelich Nell’arco degli ultimi vent’anni, la scena rock internazionale ha assistito a un fenomeno di grande interesse non solo dal punto di vista artistico, ma anche antropologico: un marcato revival – e, nel caso dei musicisti più giovani, una vera e propria riscoperta – del folk angloamericano delle radici, la cosiddetta musica roots. Una sorta di «ritorno alle origini», che ha spinto diversi artisti a una conversione spontanea quanto totale. Così è stato anche per un rocker genuino quale John Mellencamp (meglio conosciuto, ai suoi esordi, come John «Cougar», «puma»), la cui metamorfosi da rappresentante del più puro ed edonistico rock americano anni ’80 a consapevole e politicizzato interprete del folk-rock militante del nuovo millennio ha più di un punto in comune con quella del collega e modello Bruce Springsteen – il quale, al pari del suo più giovane emulo, aveva raggiunto la notorietà come ruspante ed entusiasta seguace della chitarra elettrica per poi arrivare, nel 1995, a realizzare un maturo disco folk «di protesta» come The Ghost of Tom Joad. Nel caso di Mellencamp, il momento di svolta, già presagito dagli accenti di critica sociale presenti in diversi suoi brani, è giunto nel 2003, con l’uscita del bel Trouble No More, album interamente costituito da cover e rivisitazioni di clas-

sici del canone folk-blues angloamericano, reinterpretati con grande sensibilità e l’ausilio di una strumentazione ricca ma rigorosamente tradizionale, che desse al tutto il timbro dell’autenticità. Lo stesso anno dell’uscita di quest’album, Mellencamp si esibì in una memorabile e riuscitissima serata alla Town Hall di New York, durante la quale eseguì l’intera tracklist di Trouble No More, facendo di quel concerto un impeccabile showcase della sua nuova anima artistica. Purtroppo, sebbene l’esibizione fosse stata regolarmente registrata, nessun album dal vivo vide mai la luce; ed è quindi con grande soddisfazione dei fan che oggi, a ben undici anni da quella serata, un nuovo contratto firmato con la casa discografica Universal permette finalmente la pubblicazione di quello che diventerà senz’altro l’album dal vivo più significativo dell’artista, intitolato semplicemente John Mellencamp Performs Trouble No More Live at Town Hall. In un setting intimo come quello del teatro newyorchese, Mellencamp regala al suo pubblico un’esibizione magistrale: asciutta e misurata come nel più puro stile folk, senza sentimentalismi né eccessivo distacco, ma bilanciata e finemente gestita fin nei minimi particolari – dall’eccellente interpretazione alla strumentazione perfetta, degne di un vero professionista del genere. L’energia mostrata da John nell’interpretazione

Stefano Knuchel Compagni di viaggio Alla fine di tutta

la musica, resta il Silenzio Zeno Gabaglio La musica è sempre stata il suo incompiuto, una grande passione che l’ha accompagnato sempre, sin dalla tenera infanzia. Dapprima suonando per isolarsi in modo quasi autistico dal resto del mondo, poi mangiando con amore cannibalistico i 45 giri acquistati, ma anche nello studio professionale dell’arrangiamento per big band, nella scrittura di centinaia di canzoni solo in parte approdate a pubblica diffusione, nel lavoro

Stefano Knuchel.

di responsabile musicale a Rete Tre, nella scelta delle colonne sonore per i propri film (premiati in contesti prestigiosi come la Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia) e nel ruolo di curatore della trasmissione Cult TV. Compagni di viaggio

Ci troviamo in un momento culturale importante. Per molto tempo si è cercato di rompere gli schemi attraverso continue iniezioni di fantasia, ma siccome tutto funziona a cicli, oggi è finalmente arrivato il momento di dichiarare l’originalità un elemento sopravvalutato nell’espressione artistica a tutti i livelli. Il gusto di stupire ad ogni costo ha portato a uno spiazzamento ampiamente codificato, che si confonde con il deteriore concetto di upgrade: l’ultima trovata ci salverà. Per cui se devo scegliere cinque compagni per il mio viaggio musicale, cinque persone che hanno profondamente influenzato il mio rapporto con la musica, non posso fare lo «smart» o il brillante citando personaggi reconditi della sfera culturale, ma mi devo riferire a nomi molto famosi, vissuti in modo personale e soggettivo. Dei classici, quindi, perché non si può elencare i filosofi che ti hanno plasmato senza fare neanche un nome della grecità antica.

John Mellencanp durante un’esibizione nel 2012 all’American Civil War Center in Virginia. (Keystone)

del classico di Robert Johnson Stones in My Passway, brano di apertura del CD, è sufficiente per rendersene conto, ma tutto lo show abbonda di simili gemme: come, ad esempio, la ritmata ballata Joliet Bound, o il sempre efficace To Washington – rimaneggiamento di un vecchio traditional, trasformato da Mellencamp in un brano di protesta contro l’amministrazione Bush e la guerra in Iraq. Un pezzo che, all’epoca della pubblicazione di Trouble No More, rischiò di

finire preda delle censure a cui ogni voce avversa all’intervento militare USA andava incontro in un periodo delicato come quello della colossale ubriacatura americana per la lotta al terrorismo; e del resto, Mellencamp sembra voler richiamare la nostra attenzione sul fatto che qualsiasi topical song – della nostra epoca, come dei tempi andati – è destinata a rimanere per sempre attuale, visto che, negli anni, a mutare sono soltanto i nomi e le collocazioni geografiche delle

Mia madre lo ascoltava spesso mentre era incinta di me. Era il 1966 e per Sinatra era un periodo fantastico, aveva chiuso la sua fase virtuosistica per entrare in quella decadente. Quello stato di maturazione perfetta in cui gli zuccheri cominciano a diventare acidi. Il primo Sinatra è quello atletico, adorato dai puristi del jazz. L’ultimo Sinatra aveva invece un’espressività tronfia: non che non mi piacesse, ma trascendeva forse troppo nel melodrammatico. Nella metà della sua evoluzione ho invece trovato la dimensione che mi appartiene, quella del bisogno di eleganza, ma di un’eleganza che risultasse leggibile da tutti. Senso della canzone, senso della melodia, drammaturgia umana. Sono nato sotto la stella di Sinatra. I Beatles sono stati i primi a comunicarmi l’epopea strutturata di quello che può essere la musica rock. L’evoluzione musicale che parte dalle canzoni più banali e più commerciali, più convenzionali, per poi esplorare, ricercare e sfondare muri. Raccogliere il sentimento di un’epoca, questa è la grande forza del rock. E non si tratta per forza di inventare qualcosa, ma di dargli una dimensione storica, imporlo nel flusso di eventi che poi crea la storia della musica popular. Così il sitar, l’hard rock, la psichedelia sono tutti elementi fondamentali riferibili ai circa dieci anni di attività dei Beatles. La drammaturgia perfetta di quattro personaggi, quattro caratteri, che si abbandonano nel momento di massimo splendore. Una complessità musicale ed esistenziale che ha determinato il formato-canzone per i decenni a venire.

Una scelta analoga a quella dei Beatles, un po’ più personale e più puntuale, è quella di David Bowie. Personaggio che si è distinto per una maggiore marginalità – non nel senso del successo presso il pubblico ma in quello della ricerca espressiva – Bowie ha costituito una versione solistica e più intellettuale di quanto rappresentato dai Beatles. Ad inizio anni Ottanta avevo raggiunto un momento di totale autismo, in cui mi rinchiudevo in camera e ascoltavo tutti i suoi dischi dal primo all’ultimo, facciata dopo facciata, senza saltare neanche una canzone. Ero completamente immerso nel suo mondo con un’esperienza totalizzante: non ammiravo il singolo brano o la trovata geniale, bensì mi confrontavo con il complesso della sua drammaturgia artistica e umana. Esempio fantastico come pochi altri, perché ha sdoganato generi musicali che stavano al di fuori del pop e del rock: musica black, jazz, strumentale, sperimentale, avanguardia sintetica. È stato un po’ come avere il fratello maggiore che ti dice «sì, sì, quella cosa si può provare, non fa del male». Bob Moog è un nome che vale piuttosto come segnaposto per l’oggetto che ha cambiato il corso della musica. Ricordo come una delle grandi esperienze della mia vita la scoperta dei sintetizzatori, delle scatole ritmiche, delle scatole di bassi e delle sincronizzazioni midi. Il gesto umano si fondeva con gli apparecchi elettronici e strofinando manopoline e cursori si creavano suoni assolutamente imprevedibili. L’avvento del suono sintetico ha costituito la rivoluzione totale del Novecento, e per questo gli anni ’80 sono

varie guerre e ingiustizie che ancora ci attanagliano, senza che vi sia alcuna risoluzione di sorta. Parallelamente a ciò, John conserva comunque il desiderio di tornare alle proprie origini, proponendo, nell’ultima parte del concerto, versioni blues scarne ma potenti di alcune tra le maggiori hit di una carriera ormai quarantennale: brani storici come l’energico inno rock Paper in Fire o la cinica satira del «sogno americano» rappresentata da Pink Houses, pezzo risalente ai primi anni della sua produzione ma già segnato dall’appuntita visione critica che, con il tempo, l’artista avrebbe affinato. La classica ciliegina sulla torta è poi costituita da un’inaspettata quanto travolgente versione del classico Highway 61 Revisited di Bob Dylan, ulteriore conferma di come l’intero concerto sia un piccolo gioiello di eleganza formale – anche perché il fatto che ripercorra per intero l’album al quale si rifà rappresenta un ulteriore motivo di interesse, offrendo una continuità tematica e stilistica che, nell’attuale confusione di molta odierna musica popolare, è più che mai ben accetta. E poiché non è facile, oggi come oggi, trovare un album dal vivo che trabocchi di tale sincerità, onestà e forza espressiva, si può ben dire che un disco come questo faccia ben sperare non solo per il futuro artistico di Mellencamp, ma per quello del rock americano in generale. stati un momento epocale anche per chi passava nottate di sperimentazioni infinite con il registratore quattro tracce a nastro e tutti gli apparecchi collegati. I primi quattro compagni di viaggio appaiono forse scontati, in quanto noti a tutti, e questo a contraddire una vita – la mia – in cui ho ascoltato quasi ogni tipo di musica amandone praticamente ogni forma. Non trovando perciò nessun parametro per rendere giustizia a questa varietà di esperienze d’ascolto mi permetto di chiamare in causa il Silenzio – con la S maiuscola – perché è il metro di paragone per tutta la musica. Quale musica ha la forza e la dignità per superare e sostituire il Silenzio? Una domanda antica che oggi mi sembra più urgente che mai, perché il costante bombardamento di suoni e musiche ci allontana sempre più dal Silenzio. Se fossi credente, alla parola Silenzio sostituirei la parola Dio, per cui nell’atto del fare e dell’ascoltare musica mirerei a rimpiazzare una creazione perfetta e già in atto. Posso io anche solo ambire a un simile obiettivo? Ovviamente sì: ne ho ascoltate tante di creazioni migliori del silenzio. Ma il senso di responsabilità dev’essere sempre così alto, e sempre presente dev’essere la consapevolezza che poi – comunque – si tornerà al Silenzio. I cinque compagni

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 1. settembre 2014 ¶ N. 36

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Cultura e Spettacoli Rubriche

In fin della fiera di Bruno Gambarotta Sulle sorti del libro Cosa sta succedendo al libro (di carta)? Nei luoghi di villeggiatura ti vedono con un libro (di carta) in mano e, incuranti del fatto che stai leggendo, attaccano discorso per parlarti del futuro incerto del libro (di carta). A rompere il ghiaccio sono soprattutto le signore; non c’è da stupirsi, la stragrande maggioranza dei lettori è sempre stata di sesso femminile. Tutte le mie interlocutrici, senza essere sollecitate, rinnovano il loro patto di fedeltà al libro di carta, assicurandomi che mai accetteranno di passare al libro elettronico, soprattutto per una ragione: il profumo della carta. Vorrei replicare che i libri attuali, stampati per lo più in digitale, non hanno nessun odore, ma taccio, per non deludere. Una volta, quando i libri erano stampati con i caratteri tipografici in rilievo o in offset, avevano un preciso odore, generato dal connubio fra i vari tipi di inchiostro e di carta impiegati. Da ragazzo, non avendo i mezzi per comprare i libri, li prendevo in prestito senza alcuna formalità dal mai abbastanza lodato USIS (United

States Information Service) di Torino, dove trovavo tutti gli autori statunitensi tradotti in italiano. Dal colophon di quei volumi ricavavo gli indirizzi delle case editrici alle quali scrivevo una letterina per chiedere che mi inviassero i loro cataloghi. Per anni sono stati il mio livre de chevet con il risultato che sono arrivato senza sforzo a saperne alcuni a memoria; i miei compagni erano in grado di snocciolare le formazioni della squadra del cuore, i risultati delle partite e in nomi dei giocatori che avevano segnato le reti; io invece potevo elencare titoli e autori dei Saggi, dei Millenni o dell’Universale Einaudi, oppure della Medusa, dello Specchio o degli Omnibus Mondadori. Il mio problema se mai era che non avevo ascoltatori a portata di mano per esibirmi; in compenso, questa solitaria abitudine si è rivelata uno straordinario grimaldello per superare esami di cultura generale. In seguito ho avuto modo di osservare da vicino come si stampa (o meglio come si stampava) un libro perché fino all’età di 25 anni ho lavorato in uno stabilimento

consegnano il dischetto o la chiavetta, eliminando il costo della composizione tipografica e la stampa digitale consente di dosare la tiratura limitandosi anche a poche decine di copie in attesa della risposta del mercato. Ho avuto la fortuna di realizzare nel 1983 per la Terza Rete della Rai un documentario sulla casa editrice Einaudi che compiva cinquanta anni; intervistando i direttori editoriali ho potuto ricostruire l’accidentato percorso che portava alla decisione di pubblicare una certa opera o di respingere la proposta; per esempio, la prima traduzione in un’altra lingua de L’uomo senza qualità di Musil. La scheda con il giudizio positivo era stata redatta dal grande germanista Cesare Cases, ma si discusse a lungo sulla ricettività del mercato italiano per l’opera di un autore sconosciuto, di molte pagine e per di più incompiuta; in quegli anni, per ottenere un prezzo unitario non si poteva scendere sotto una certa tiratura. Ora quell’argine dettato dalla prudenza non c’è più e il numero di nuovi titoli è in costante crescita in un mercato che si

contrae. Qualcuno ha detto che gli editori si comportano come un giocatore d’azzardo che punta le sue fiche su molti tavoli della roulette, sperando che ogni tanto esca un numero che gli ripaga il limitato azzardo. Se il libro non si vende («non si muove») dopo una permanenza media in libreria che non supera i trenta giorni lavorativi, viene ritirato e non finisce in magazzino ma va al macero. Per molti anni ho invidiato quei fortunati che, per il loro lavoro, ricevevano libri in omaggio; ora che tocca a me, quando la postina mi consegna il plico con un nuovo libro, prima ancora di scoprire cosa contiene, penso quale suo confratello dovrà abbandonare gli scaffali di casa per andare in dono alla biblioteca civica della mia città. Per uno che entra un altro deve andarsene, non posso soffocare nella carta. Il libro continua a essere un totem per le amministrazioni locali che finanziano lussuose e ingombranti monografie per donarle all’ospite, il quale gradirebbe molto di più un salame o due bottiglie di vino.

a me piacciono le frittate». «Allora venga in camera mia, ne ho un armadio pieno». Questa mi serve per capire e spiegare la lucida follia di un amico, stimato e serio medico, che in un anno si è fatto fare centoventitré (123) tatuaggi, lasciando libera solo la faccia, senza che nella sua vita fosse accaduto nulla di esteriormente grave. Nel senso che matrimonio, figli, lavoro procedevano come sempre, almeno così a noi pareva. E però dopo il primo – un regalo di amici - si è appassionato ai tatuaggi, tanto da dover visitare i pazienti con un camice a maniche lunghe anche in estate, per non spaventarli. È matto? No, gli piacciono i tatuaggi, come all’altro le frittate. È nella quantità che si svela lo squilibrio mentale (d’accordo, per quello delle frittate anche nelle modalità di conservazione). La locuzione «ne ho un armadio pieno» era diventata, anni fa, un modo per dire «questo genere di oggetto (scarpa, telefonino, orecchini, birra, qualunque cosa) mi piace tanto che potrei impazzire e fare come il

matto della barzelletta, riempirne un armadio». Non a livello mondiale e nemmeno nazionale, così, tra amici e conoscenti. Venti anni fa invece si infieriva sui carabinieri, come fanno i francesi nei confronti dei belgi, i tedeschi nei confronti dei polacchi e così via, ognuno ha i suoi paria, la casta più bassa contro cui sfogare gli istinti non alti. Ma perché i carabinieri? C’era chi sosteneva che dietro a quelle barzellette ci fosse una precisa intenzione eversiva contro lo Stato. Mah. Noi ragazzini più che da pensieri eversivi eravamo mossi, credo, da quell’aria impacciata di uomini coi capelli corti e lo sguardo serio in divise strette e antiche (a meno che non fossero quelli a cavallo, bellissimi con mantello e cappello alla Napoleone). Poi è vero anche che tradizionalmente i carabinieri sono visti come «di destra» e i poliziotti «di sinistra». Sulle divise della polizia Pasolini scrisse una famosa poesia, dopo gli scontri di Valle Giulia, a Roma, nel 1968. «Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte

coi poliziotti, / io simpatizzavo coi poliziotti». «E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci,/ con quella stoffa ruvida, che puzza di rancio / furerie e popolo». Furono parole che suscitarono sdegno tra intellettuali e studenti, molto aggressive contro i «figli di papà» che pensano di far la lotta di classe combattendo contro coetanei più poveri e meno colti. Pasolini fu isolato dalla sinistra italiana, e poi sappiamo come andarono a finire i ragazzi di buona famiglia. Dagli anni Ottanta poi abbiamo assistito a una riabilitazione delle forze dell’ordine, sia perché molti carabinieri e poliziotti sono morti in servizio, sia perché la televisione continua a produrre fiction ispirate a fatti di cronaca, che mettono in risalto le doti positive dei tutori dell’ordine. Se poi a queste doti si aggiungono il faccino e i muscoli di Raoul Bova, come prendersela con le divise che avvolgono i belli e buoni? I carabinieri hanno smesso di ordinare brioche e collezionare frittate nell’armadio.

reclama: «Stiamo mettendo a dura prova la modestia di Mr. Faulkner!». A quel punto Faulkner rifà la lista: 1. Thomas Wolfe («ha avuto un gran coraggio, scriveva come se gli restasse poco da vivere»), 2. Faulkner, 3. Dos Passos, 4. Hemingway («non ha coraggio, non ha mai rischiato. Non ha mai usato una parola che il suo lettore dovesse andare a cercare sul vocabolario»), 5. Steinbeck («una volta avevo grandi speranze per lui, adesso non so»). Per lui, la letteratura è il tentativo di «raggiungere l’impossibile», per questo è sempre un fallimento. Scrivere «è la vocazione peggiore, un demone compulsivo», «è un lavoro solitario e frustrante… quale sia la gratificazione per uno scrittore, non lo so». Dunque, uno scrittore non potrà mai essere soddisfatto del proprio lavoro? «Se lo fosse non potrebbe fare altro che tagliarsi la gola». Non parlategli di ispirazione. Dell’ispirazione non sa nulla,

dice di averne sentito parlare ma di non averla mai vista. Lo scrittore non può fare a meno di tre cose, concomitanti e irrinunciabili: esperienza, osservazione, immaginazione. Le storie di Faulkner cominciano da un’idea sola, da un ricordo o da un’immagine mentale: «La scrittura è semplicemente una questione di lavoro per sviluppare quel momento, per spiegare perché è successo e che cosa ne conseguirà». L’urlo e il furore è nato dall’immagine di due bambini che giocano in cortile durante il funerale della nonna: la bambina si arrampica su un albero per sbirciare dalla finestra: da lì è cominciato tutto, un lavoro durato una decina d’anni. Per compiere al meglio questo lavoro è richiesto il silenzio: «Il tuono e la musica della prosa avvengono in silenzio». Faulkner racconta che un giorno gli chiesero di diventare il padrone di un bordello: «è il lavoro migliore che mi abbiano mai offerto». Perché?

«Il posto è tranquillo durante le ore del mattino, che sono i momenti migliori per lavorare». Perché ama Balzac? Perché tra i suoi personaggi «c’è come un flusso sanguigno che scorre dalla pagina uno alla pagina 20 mila di un libro. Lo stesso sangue, muscoli e tessuti tengono insieme i personaggi». Il giorno prima Faulkner è stato invitato, a Parigi, a una sfilata di moda. Che ne pensa? «Scommetto che se tutte quelle persone che erano là ieri sparissero dalla faccia della terra, nessuno direbbe niente». Si può fare la stessa considerazione per gli scrittori? «Se non fossi esistito qualcun altro avrebbe scritto al posto mio, di Hemingway, di Dostoevskij, e di chiunque». Dice che gli piacerebbe lavorare ancora per il cinema: vorrebbe fare 1984 di Orwell: «Ho un’idea per il finale che proverebbe la tesi che ho sempre sostenuto: che l’uomo è indistruttibile per il semplice fatto che desidera la libertà».

tipografico; ero impiegato come fotolitografo ma ero libero di curiosare negli altri reparti. Ero perciò in grado, lo dico senza vantarmi, di eseguire il seguente esercizio: prima mi bendavano e poi mi mettevano in mano un libro appena pubblicato da una grande casa editrice italiana e ancora intonso, cioè senza che qualcuno l’avesse già maneggiato; sfogliandolo e annusandolo ero in grado di dire il nome dell’editore e la collana. Ero così sicuro della mia abilità che ho fatto domanda di partecipare come concorrente al programma «Lascia o raddoppia?»; mi risposero dicendo che avevano preso nota e che, se un giorno avessero avuto bisogno di me, mi avrebbero convocato a Milano per esaminarmi. Nessuno, né io né loro, avrebbe potuto immaginare che più di trenta anni dopo, sarebbe toccato a me il compito di succedere a Mike Buongiorno nella conduzione di due sfortunati tentativi di far rinascere il programma. Torniamo al libro: per un insieme di fattori, i costi di lavorazione si sono ridotti. Con la videoscrittura gli autori e i traduttori

Postille filosofiche di Maria Bettetini Brioche e frittate Rimini, fine agosto. Ristorantino indigeno dove si servono piadina e altre specialità (qui non esistono le «piadinerie», tremendo neologismo cittadino). Alla gioiosa cameriera con i fiori nei capelli chiedo una piadina con le erbe, la più sobria e tradizionale. Con aria complice mi dice «Guarda che non ci sono più le erbe». Dall’aria e dall’intonazione capisco, probabilmente perché voglio capire, «Guarda che sono finite le vere erbe di campo, quelle buone e amare. In agosto ti rifilano gli spinaci». Le rispondo: «Non importa, va bene una piadina con le erbe». «Non ci sono più erbe». «Ho capito, ma fa lo stesso, portami per favore una piadina alle erbe, magari anche con lo squacquerone», così, penso, non sentirò l’inconsistenza degli spinaci. «Ma come te lo devo dire, non-ci-sono-erbe, sono finite». Ci guardiamo, ci appare l’equivoco, scoppiamo a ridere ed entrambe diciamo «come le brioche!», ricordando una famosa barzelletta. Ci siamo viste solo qui, non ci siamo

mai raccontate niente, tanto meno una barzelletta, eppure sappiamo che l’altra sa quella dell’uomo che in un bar chiede cappuccio e brioche, non ci sono brioche, allora aranciata e brioche e così via fino allo sfinimento, poi seccato se ne va. Il barista chiede a un altro cliente «ma lei cosa gli avrebbe fatto?», «ah io gli avrei tirato in testa il vassoio con tutte le brioche». Quindi non sono solo materiale per gradassi che hanno fatto il loro tempo o per trasmettere disvalori, le barzellette. Sono anche strumenti di intesa, e di comunicazione di qualcosa di difficile da definire, ma perfettamente detto dalla descrizione di una situazione paradossale fuori dal tempo e dallo spazio. Che scopertona estiva, forse ovvia ma non per me, che finora disprezzavo questo vezzo popolare, anzi demagogico. Ci penso, trovo sui due piedi un altro esempio, quello delle frittate. Un medico chiede a un matto perché lo tengano in manicomio. Lui risponde «perché mi piacciono le frittate». «Ma cosa c’è di male, anche

Voti d’aria di Paolo Di Stefano La musica di Faulkner e il silenzio Con un brutto titolo, Il gioco dell’apprendista (3), esce per la Medusa una bella raccolta di interviste a William Faulkner (6). È raro riuscire a trarre da un libro di conversazioni con uno scrittore elementi utili, anzi spesso illuminanti, sull’esistenza che si fa letteratura.Certo, è vero che con Faulkner siamo alla presenza di uno dei maggiori autori del secolo scorso, ma non è detto che i grandi scrittori abbiano idee chiare e originali sul proprio lavoro e tanto meno sulla vita. Figurarsi i mediocri. Faulkner è un caso eccezionale e il libro lo dimostra: del resto, prima di mettersi a scrivere, ha fatto il contadino, l’imbianchino, il pilota, il marinaio, il distillatore di liquori su un motoscafo e molti altri lavori. È indubbiamente un autore complesso (in certi romanzi), a tratti è impenetrabile (il suo capolavoro, L’urlo e il furore, lo è spesso), ma nel parlarne usa un linguaggio pane al

pane, molto concreto e privo di astrazioni, di vezzi, di vanterie. Ecco alcuni esempi che potrebbero servire da invito ad assaporare l’immensità dei suoi libri. Classifica personale dopo L’urlo e il furore: Mentre morivo, Santuario, Luce d’agosto, La paga del soldato. Consigli a un aspirante scrittore: qual è il miglior allenamento per scrivere? Corsi, esperienza? «Leggere, leggere, leggere. Leggere tutto – robaccia, classici, buoni e cattivi, e vedere come fanno. Come un falegname che lavora come apprendista e studia il maestro. Leggete! Assorbirete. Poi scrivete. Se è buono lo vedrete. Se non lo è, buttate tutto dalla finestra». Gli ingredienti del bravo scrittore? 99% talento, 99% disciplina, 99% lavoro…». Quando gli viene chiesto, in pubblico, quali sono i maggiori scrittori contemporanei, risponde: 1. Thomas Wolfe, 2. Don Passos, 3. Hemingway, 4. Willa Cather, 5. Steinbeck. Qualcuno


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Idee e acquisti per la settimana

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Mele ticinesi alla Migros Attualità Dal frutteto di Cesare Bassi di S. Antonino ecco le prime mele nostrane

della stagione

L’estate piovosa non ha dato particolari problemi a Cesare Bassi, agricoltore e frutticoltore di S. Antonino che da qualche settimana ha cominciato la raccolta dei suoi frutti. A metà agosto le mele della varietà Gala sono di fatto mature e pronte per prendere la strada di Cadenazzo, dove la Foft (Federazione ortofrutticola ticinese) si occuperà di imballarle e distribuirle, anche a Migros Ticino. Un breve viaggio dunque, di cui possono approfittare i consumatori, che sugli scaffali troveranno, dopo la Gala, anche la Golden Delicious e, da fine settembre–inizio ottobre, la Braeburn. Il frutteto di S. Antonino, collocato su una superficie di un ettaro e mezzo, produce annualmente circa 300 quintali di mele delle tre varietà citate. Il quantitativo dipende chiaramente dall’andamento della stagione, dal clima e da altri fattori, ma il 2014 si sta rivelando un anno nella media, come ci conferma il nostro esperto interlocutore: «La primavera è stata favorevole e, avendo potuto controllare sin dall’inizio l’insorgere di malattie o l’attacco di insetti nocivi, abbiamo potuto affrontare al meglio l’uggiosa estate». Cesare Bassi segue da anni le direttive della Produzione integrata e dunque i trattamenti fitosanitari vengono eseguiti solo se necessario, per esempio affidandosi ai rilievi effettuati con le trappole, che segnalano la presenza nel frutteto della Carpocapsa (un insetto dannoso). Il meleto di S. Antonino fu impiantato per la prima volta nel 1990, ma la piantagione è stata completamente rinnovata nel 2000 e oggi viene rinnovata annualmente con nuovi alberi, in modo da garantire una continuità di produzione e di qualità: «Sono tempi difficili, ma cerchiamo di sopravvivere in questo contesto problematico della frutticoltura in Ticino», precisa Cesare Bassi. La Gala, sempre molto dolce e gradevole, è di colore rosso intenso ma striato. La polpa è di colore bianco-giallastro e di consistenza variabile in relazione allo stadio di maturazione. Di dimensioni medio-piccole, è inoltre particolarmente amata dai bambini. La Golden Delicious è forse la mela più conosciuta e coltivata. Il motivo? Il gusto amabile e appagante, ma pure la polpa croccante e succosa, di buon tenore zuccherino ed acidità. Di colore giallo in prossimità della raccolta, la Golden è inoltre molto adatta per la lunga conservazione. / Elia Stampanoni

Le mele di Cesare Bassi sono ora disponibili a Migros Ticino. (Giovanni Barberis)


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Idee e acquisti per la settimana

Tutto da gustare! Attualità Il Manegorio DOP è uno dei primi aromatici formaggi d’alpe giunti quest’anno

nei supermercati di Migros Ticino

Il casaro Danilo è forte di un’esperienza di dieci anni nella produzione di formaggio d’alpe. (Giovanni Barberis)

Il formaggio d’alpe ticinese DOP è il protagonista incontrastato dei reparti formaggio a partire dal mese di settembre. Questa settimana nei supermercati di Migros Ticino con banco formaggio troverete le prime due prelibatezze prodotte sui nostri alpeggi (Manegorio e Prato); mentre nelle prossime settimane se ne aggiungerà un’altra quindicina. In questo numero di Azione vi presentiamo un’eccellenza della Val Bedretto, il Manegorio DOP, mentre nel prossimo parleremo dell’Alpe Prato DOP. L’Alpe Manegorio

Situato pressappoco a metà strada tra Airolo e il Passo della Novena, l’alpeggio è di proprietà del Patriziato di Sobrio e si trova ad un’altitudine di circa 1800 metri. L’alpe è caricato con 65 mucche lattifere, le quali brucano sui ricchi pascoli fino a 2100 metri. La salita dei bovini avviene verso metà giugno, mentre lo scarico ha luogo l’ultima settimana di agosto. A Manegorio sono occupati un

Sapori alpini: il formaggio Manegorio DOP 100 g Fr. 2.95

casaro, un aiuto casaro e un pastore. La produzione giornaliera di latte è di circa 1000 litri a inizio stagione, che si riduce a 700 al termine; il che corrisponde a 18-20 forme al giorno per un peso variabile tra i 5-6 kg ciascuna. Il formaggio ivi prodotto, stagionato per almeno 60 giorni nella cantina adiacente al caseificio, è un cacio a pasta semidura di color giallo paglierino, portante sullo scalzo la dicitura «Manegorio». Si distingue per il caratteristico aroma marcato conferito dalle preziose erbe alpine bedrettesi.

Le mucche in partenza per il pascolo sull’Alpe Manegorio.

Dopo 50 anni di continui miglioramenti qualitativi, il formaggio d’alpe ticinese è ormai riconosciuto come una vera specialità. Nel 2002 gli è stata conferita la prestigiosa DOP (Denominazione di Origine Protetta). Essa garantisce che il formaggio sia

prodotto sull’alpe con latte crudo munto il loco nel rispetto di specifiche direttive igieniche e tecniche. La DOP inoltre garantisce la rintracciabilità del prodotto ed un invecchiamento di almeno 60 giorni nella cantina dell’alpe. A partire dai dieci mesi di affinamento, il formaggio d’alpe ticinese DOP viene contrassegnato con la specifica fascia argentata portante la dicitura «stagionato». Ulteriori informazioni: www.stea.ch.


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Idee e acquisti per la settimana

Un pane versatile Specialità Il pane al mais nostrano è ideale in qualsiasi occasione

Flavia Leuenberger

Originaria dell’America Latina dove era già conosciuta almeno 6000 anni fa, la pianta del mais fu introdotta in Europa ai tempi di Cristoforo Colombo, verso il 1495. In Lombardia e in Ticino la sua coltivazione si è invece sviluppata a partire dal seicento, ma fu solo a partire dall’ottocento che il mais sostituì interamente altri cereali nella preparazione della polenta. Dopo essere stata abbandonata in favore di varietà di mais più redditizi, la produzione di mais da polenta in Ticino è stata rilanciata alla fine degli anni novanta grazie all’interessamento del Centro di ricerche agronomiche di Cadenazzo. Consapevole dell’importanza che questo cereale riveste nella tradizione culinaria del nostro cantone, due anni or sono la Jowa di S. Antonino ha sviluppato, rivisitando un’antica ricetta locale, un pane a base di farina di mais ticinese. Morbido e dal sapore rustico, esso si distingue per la sua forma a mo’ di sole splendente, la mollica di color giallo intenso e la superficie cosparsa di mais soffiato. Oltre alla farina di mais miscelata con farina di grano tenero, contiene anche del buon burro di montagna. Grazie al suo sapore piuttosto neutro si abbina bene ai più svariati ingredienti, sia dolci che salati. Consiglio: assaggiatelo appena abbrustolito, accompagnato da una lumaca di luganighetta arrostita.

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Arrosto di vitello sì, ma che sia nostrano Nostrani nei Ristoranti L’arrosto è un piatto particolarmente sfizioso che non passa mai di moda. Per un risultato che soddisfi pienamente i commensali, è bene dedicare alla sua preparazione tutto il tempo necessario e optare per delle carni selezionate di qualità eccelsa. Come di fatto sono quelle del vitello nostrano di montagna, disponibile alla Migros sotto la dicitura dialettale «Vedill Nostràn da Montagna». I vitelli sono allevati in gruppi, con costante possibilità di uscita all’aperto e vengono nutriti con latte e fieno a volontà. L’allevamento appartiene ai coniugi Stefania e Roberto Canonica, titolari dell’azienda agricola La Lobbia di Leontica. Vi proponiamo qui una gustosa ricetta che ben valorizza la qualità di alcuni tagli di carne nostrana di vitello, nella fattispecie l’arrosto collo o l’arrosto spalla.

L’offerta di piatti nostrani nei Ristoranti Migros è come consuetudine ricca e variata. Fino al 20 settembre un occhio di riguardo verrà naturalmente dato alla stagionalità, con delizie quali ad esempio la polenta con funghi, luganiga, cotechino o latte; i raviöö alle castagne e alla zucca, oppure ancora agli intramontabili piatti del giorno composti da brasato, uccelli scapati, spezzatino di manzo o ossibuchi, tutti accompa-

Oltre all’arrosto, del vitello nostrano sono disponibili anche costolette, fettine fesa, rognonata, filetto, ossibuchi e spezzatino.

gnati da un contorno classico a scelta. Novità di questa rassegna sarà il buffet dei più tipici formaggi della nostra regione con specialità come i formaggi d’alpe Tremola e Vallemaggia, la ricotta fior di latte, i formaggini, la formaggella di capra, il Prealpi San Gottardo stagionato 12 mesi oppure ancora il Caseificio Ambrì Piotta. Infine, differenti altre gustose idee andranno come sempre a completare l’offerta.

Arrosto di vitello in salsa ai porcini e pomodori Piatto principale per 4 persone Ingredienti 800 g di spalla di vitello, 30 g di porcini secchi, alcuni rametti di rosmarino, 1 1⁄2 cucchiaino di sale, pepe, paprica dolce, 1 cipolla, 3 spicchi d’aglio, 100 g di pomodori secchi sott’olio, 2 cucchiai di burro per arrostire, 5 dl di fondo bruno, 1 dl di panna Preparazione Ammollate i funghi in abbondante acqua fredda per ca. 20 minuti, scolateli e fateli sgocciolare. Scaldate il forno a 180

°C. Condite la carne con sale, pepe e paprica. Tritate la cipolla e l’aglio. Scolate i pomodori, fateli sgocciolare bene e dimezzateli. Scaldate il burro per arrostire in una brasiera e rosolatevi la carne per ca. 5 minuti. Aggiungete i funghi, i pomodori, la cipolla e l’aglio e rosolate per ca. 5 minuti. Bagnate con il fondo. Mettete il coperchio sulla brasiera e cuocete l’arrosto al centro del forno per ca. 60 minuti, finché la temperatura interna della carne raggiunge 75 °C. Dopo 30 minuti di cottura, togliete il

coperchio. Bagnate la carne di tanto in tanto con il sughetto all’interno della brasiera. Togliete l’arrosto dalla brasiera e tenetelo in caldo. Incorporate la panna nel sugo e portate a ebollizione. Condite con sale e pepe. Affettate l’arrosto e servitelo con la salsa ai funghi e ai pomodori. Suggerimento: Servite con gratin di patate o pasta alle verdure. Ricetta di: Alcune proposte Nostrane del buffet. (Flavia Leuenberger)


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 1. settembre 2014 ¶ N. 36

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Idee e acquisti per la settimana

I profumi del pane di una volta

Flavia Leuenberger

Attualità Alla scoperta dei sentieri della Valle con la Treccia Leventina nello zaino

Il territorio ticinese offre diverse alternative a tutti coloro che amano la montagna, attraendo turisti da ogni angolo della Svizzera e del mondo. La Leventina è un buon esempio se si considera la varietà dell’offerta in termini di gite escursionistiche, culturali e sportive. Ne parliamo con Fabrizio Barudoni, direttore di Leventina Turismo. «Sul territorio abbiamo ben 700 km di itinerari pedestri ufficiali, se non contiamo i percorsi locali. Tra i compiti principali degli Enti Turistici locali vi è quello di curare la manutenzione dei sentieri e della loro segnaletica, perché gli utenti possano percorrere gli itinerari in completa sicurezza. Nel nostro caso è il Gruppo Gestione Sentieri, composto da una ventina di unità, che si occupa di questo lavoro coprendo il vasto comprensorio del bellinzonese e Alto Ticino e Gambarogno». I lavori di verifica dello stato dei sentieri iniziano presto e per affrontare la giornata al pieno delle forze è necessaria una colazione sostanziosa. Caffellatte, succo d’arancia, e qualche fetta di treccia Leventina spalmata con burro e marmellata ai frutti di bosco sono l’ideale per iniziare la giornata con una carica di energia e buonumore. La treccia Leventina si differenzia dalle trecce più comunemente in commercio per una maggiore percentuale di burro nell’impasto, un piccolo accorgimento dei panettieri Jowa per creare una ricetta che ricorda il pane intrecciato che veniva cotto e consumato nelle economie domestiche di un tempo. Un ritorno alla tradizio-

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Fabrizio Barudoni, direttore di Leventina Turismo. (Giovanni Barberis)

ne per un ottimo prodotto nostrano sostanzioso e gratificante. Impossibile non iniziare bene la giornata con una colazione così! La treccia Leventina è ideale da consumare anche prima di affrontare una scampagnata, e la scel-

ta è vasta. «Sempre più popolari sono i percorsi didattici – storico, archeologico e naturalistici – ed i circuiti, che permettono di tornare al punto di partenza senza dover ripercorrere i propri passi. Inoltre abbiamo diversi impianti

di risalita, alcuni attivi durante l’estate e altri in inverno, tra cui la funicolare del Ritom – una fra le più ripide d’Europa – che da Piotta conduce nella regione del Piora e alla sua soleggiata valle punteggiata da molti splendidi laghi.

Il ventaglio di attività è tanto ampio da includere qualsiasi tipo di turista, da colui che vuole semplicemente passeggiare nella natura a quello appassionato di escursioni fino all’amante dell’arte, che può trovare soddisfazione nel visitare le diverse chiese e testimonianze artistiche dell’epoca romanica». Perché non avventurarsi allora in queste magnifiche Valli, magari con una bella treccia Leventina nello zaino? / Luisa Jane Rusconi


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Idee e acquisti per la settimana

Chutney di zucca

Le specialità di selvaggina sono perfette per un aperitivo autunnale.

Per 1 barattolo di ca. 5 dl

Ingredienti 2 cipolle rosse 20 g di zenzero 2 cucchiai d’olio d’olivo 400 g di zucca cotta, tagliata a cubetti 2 cucchiai di curry dolce 1,5 dl d’aceto balsamico bianco 3 cucchiai di miele liquido sale ½ cucchiaino di pepe di Caienna macinato grosso

Preparazione 1. Tritate le cipolle e lo zenzero e fateli soffriggere nell’olio a fuoco medio per ca. 10 minuti. Aggiungete la zucca e il curry e fateli rosolare brevemente finché il tutto emana un buon profumo. Sfumate con l’aceto balsamico. Unite il miele e fate sobbollire per ca. 15 minuti, finché il liquido è evaporato di ¾. Condite con sale e pepe di Caienna. 2. Versate il chutney nel barattolo sterilizzato fino al bordo. Sigillate immediatamente il barattolo. Capovolgetelo e lasciatelo capovolto per alcuni minuti. Lasciate raffreddare il chutney lentamente. Consiglio tenuto al buio e al fresco, il chutney di zucca si conserva per alcuni mesi. Tempo di preparazione ca. 30 minuti Per dl ca. 2 g di proteine, 4 g di grassi, 23 g di carboidrati, 600 kJ/140 kcal

Benvenuti in autunno

L’estate sta finendo e sale l’attesa per la stagione della cacciagione. Che ne dite allora di un aperitivo a base di prelibatezze autunnali?

Foto Veronika Studer; styling Veronica Studer, Claudia Schmidt

Nei campi brillano le zucche nelle loro vivaci tonalità giallo-arancione che preannunciano l’arrivo dell’autunno. La stagione dell’abbondanza è alle porte. Chi in questi giorni organizza un aperitivo offre carne secca, salami e prosciutti di selvaggina. Qui di seguito alcuni suggerimenti affinché la vostra

Pane rustico di spelta originale 500 g Fr. 4.50

serata abbia successo: ■ L’offerta gastronomica di un piccolo aperitivo dovrebbe essere possibilmente composta da piccole porzioni, in modo che le pietanze si possano facilmente mettere nel piatto oppure consumare direttamente dal buffet. ■ Si consiglia di disporre vari tipi di sa-

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lumi, per esempio salamini di cinghiale, carne secca e prosciutto di cervo. Si prevedano tra i 60 e 90 grammi a persona. ■ Un misto di sottaceti è d’obbligo sul vassoio dell’aperitivo autunnale, perché cipolline, cetriolini e mini pannocchie di mais si sposano perfettamente

con gli insaccati. Altrettanto bene si abbinano frutti dolci come pere ed uva oppure la speziata salsa chutney (vedi ricetta). ■ Suggerimento: avvolgete delle castagne lessate con una foglia di salvia e pancetta abbrustolita, poi friggetele in padella fino a farle diventare croccanti.

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Piatto di selvaggina* Nuova Zelanda/Svizzera/Austria Fr. 8.40 per 100 g


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Idee e acquisti per la settimana

Felici al traguardo e ancora pieni d’energia.

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Lo snack che ti porta in vetta La carne secca contiene proteine, che si trasformano in forza ed energia. Questa carne magra è lo spuntino ideale per gli amanti della natura e del movimento

L’Industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui le chips di carne di Micarna.

Ogni escursionista ama la sensazione di arrivare al traguardo. E non deve essere per forza la vetta di un quattromila; il più delle volte per andare in estasi basta la prima collina davanti a casa. Comunque, che si tratti di una passeggiata in montagna, di una scalata in vetta o di una semplice gita in famiglia: quando si cammina è indi-

spensabile ritemprare le forze con uno spuntino. E la carne secca è ottimale sotto questo profilo. Infatti, ha una tradizione secolare come alimento di base in molte regioni aride e in alto mare, perché si conserva a lungo anche non refrigerata. Ma soprattutto la carne secca è un fornitore di proteine, che si trasforma-

no in energia da spendere durante l’attività fisica. Prodotta in Svizzera secondo le ricette tradizionali

La carne secca ha un basso tenore di grassi, compreso tra l’1,5 e il 3,5 percento a dipendenza del tipo di carne. L’assortimento della Migros propone

le Beef Chips prodotte in Svizzera con manzo svizzero e le Chips di pollame. Tutte sono preparate secondo le ricette tradizionali, con poco sale, essiccate all’aria aperta o affumicate. Tutti i prodotti sono disponibili in confezione doppia, con due imballaggi facilmente separabili. Perfetti per essere infilati in ogni zaino! / AW


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Pizza Margherita M-Classic in conf. da 3, surgelata, 3 x 380 g 4.65 invece di 9.30 50% Filets Gourmet à la Provençale Pelican, MSC, surgelati, 800 g 10.05 invece di 14.40 30% Tutti i gelati Crème d’or in vaschette da 750 ml e 1000 ml, per es. vaniglia Bourbon, 1000 ml 7.80 invece di 9.80 20% Succo di mele M-Classic in conf. da 12, 12 x 1 l 7.20 invece di 14.40 50% Tutte le 7UP e le 7UP H2OH! in conf. da 6, per es. 7UP Regular, 6 x 1,5 l 5.85 invece di 11.70 50% Rösti XL in conf. da 3, 3 x 750 g 4.55 invece di 9.15 50% Olio Monini Classico o Delicato, 1 l, a partire dall’acquisto di 2 pezzi, 3.– di riduzione l’uno, per es. olio extravergine d’oliva Monini 9.70 invece di 12.70 Ketchup Heinz normale o hot in conf. da 2, per es. normale, 2 x 700 g 5.40 invece di 6.80 20% Tutte le zuppe istantanee e in bustina Bon Chef, a partire dall’acquisto di 2 confezioni, –.40 di riduzione l’una, per es. minestra con polpettine di carne e vermicelli, 74 g, in sacchetto 1.– invece di 1.40 Fleischkäse di prosciutto, di tacchino o Delikatess Malbuner in conf. da 6, 6 x 115 g, per es. Fleischkäse Delikatess 7.20 invece di 9.– 20% Graneo e Corn Chips Original Zweifel in confezioni giganti, per es. Graneo Original, 225 g 5.30 invece di 6.60 Rosette imperiali M-Classic precotte, non refrigerate, 4 pezzi, 200 g 1.50 NOVITÀ ** 20x Crostate Anna’s Best, per es. crostata di albicocche, 20x 215 g 2.90 NOVITÀ ** Berliner, 6 pezzi, 390 g 3.90 invece di 5.85 6 per 4 Pasta per focaccia Anna’s Best, 20x 380 g 4.30 NOVITÀ ** Tutte le salse per insalata Frifrench da 25 cl, 50 cl e da 1 l, per es. Frifrench French, 5 dl 4.05 invece di 5.10 20% Tortelloni M-Classic in conf. da 3, 3 x 250 g, per es. ricotta e spinaci, 3 x 250 g 7.70 invece di 11.10 30% Gulasch di cervo con spätzli Anna’s Best, 1050 g 9.90 Gazusa Nustrana, con scatola serigrafata in omaggio, 12 x 28 cl 10.20 Acqua Rocchetta e Brio Blu, 6 x 1,5 l 3.60 invece di 4.50 20% Frolla e frolla al limone, biscotti farina bona e crèfli al miele, Nostrani, per es. frolla Nostrana, 100 g 3.10 invece di 3.90 20%

NEAR FOOD / NON FOOD I am Professional 10 in 1 Beauty Balm Spray, 100 ml 20x 8.80 NOVITÀ *,** Crema idratante Nivea for Men Sensitive, SPF 15, 75 ml 20x 12.20 NOVITÀ **

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Prodotti per l’igiene orale Elmex in confezioni multiple, per es. dentifrici anticarie Elmex in conf. da 2, 2 x 75 ml 7.50 invece di 7.90 ** Docciaschiuma, deodoranti e eau de toilette Axe Gold Temptation, per es. gel doccia, 250 ml 3.95 NOVITÀ ** 20x Tutti i docciaschiuma e i deodoranti Axe in confezione multipla, per es. docciaschiuma Africa in conf. da 3, 3 x 250 ml 8.90 invece di 11.85 20% ** Tutti i prodotti ai fiori di mandorlo Kneipp (escluse confezioni multiple), per es. latte per il corpo delicato ai fiori di mandorlo, 200 ml 10.80 invece di 13.50 20% ** Gel all’aloe vera Sanactiv, 20x 100 ml 8.90 NOVITÀ *,** Tutti gli articoli M-Plast, per es. cerotti Sensitive, 20x 10 pezzi 2.70 20x PUNTI ** Diverse calze da donna in conf. multiple, per es. calze da donna senza elastico nel bordo in conf. da 4 9.90 ** Diversi calzini da uomo in conf. multipla in tinta unita o con motivi, per es. calzini da uomo con motivi semplici in conf. da 7 14.90 ** Linea di prodotti trattanti Milette Baby (esclusi Naturals), per es. shampoo per bebè, 20x 300 ml 2.70 NOVITÀ *,** Articoli di calzetteria per bambini e bebè, per es. calzini per bambini, 5 paia 9.90 ** Tutti i detergenti Hygo, a partire dall’acquisto di 2 prodotti, –.60 di riduzione l’uno, per es. Maximum Power Tabs, 10 x 25 g 4.30 invece di 4.90 ** Schiuma detergente per il bagno Potz Xpert, 500 ml 20x 4.90 NOVITÀ ** Tutti i detergenti Pial, a partire dall’acquisto di 2 prodotti, 1.– di riduzione l’uno, per es. detergente per pavimenti in laminato, 1 l 4.60 invece di 5.60 ** Tutti i detergenti Potz in conf. da 2, 1.50 di riduzione, per es. detergente per il bagno in flacone e in conf. di ricarica, 2 x 500 ml 5.90 invece di 7.40 ** Tutti i prodotti Migros Plus in conf. da 2, per es. crema detergente, 2 x 500 ml 5.25 invece di 7.– 25% ** Carta igienica Hakle in confezioni multiple, per es. camomilla, FSC, 30 rotoli 16.95 invece di 28.30 40% ** Carta per uso domestico M-Classic 2.40 invece di 3.– 20% ** Diversi articoli per le pulizie autunnali, per il bucato e per stirare, per es. set di stracci in microfibra, 3 pezzi 9.80 ** Tutto l’assortimento di biancheria intima e da notte da donna (esclusi prodotti Sloggi e Mey), per es. slip maxi da donna Ellen Amber Lifestyle 7.80 invece di 9.80 20% **


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Idee e acquisti per la settimana

Quelle croccanti relazioni Le barrette di cioccolato sono amate da grandi e piccini. L’assortimento si arricchisce ora delle Branches Cornflakes Quando si pensa a una barretta di cioccolato, ci si riferisce ad una delle più tipiche e amate specialità svizzere, un vero farmaco del buonumore dalla fragrante dolcezza. Le nuove Branches Cornflakes di Frey abbinano cioccolato al latte e fiocchi di mais. Sia il ripieno di cioccolato sia la crema di nocciole sono farciti di pezzetti di croccanti cornflakes. Una relazione davvero squisita! Concorso a premi Non si dovrebbe poi mancare il concorso della barretta preferita. In palio ci sono molti attraenti premi per un valore globale di 28 000 franchi. E il premio principale è davvero straordinario: un intero anno di spesa gratis alla Migros! / DH

I cornflakes fanno diventare particolarmente croccanti le nuove barrette di cioccolato Frey.

Concorso su www.branches.ch

Novità: Frey Branches Cornflakes 5 x 27 g Fr. 2.60 Nelle maggiori filiali. Con 20 X Punti Cumulus dal 2 al 15 settembre.

L’ESPERTO Fabio Negro (31 anni), specialista di marketing. Gusto: la barretta ai cornflakes mi è piaciuta molto. Dolcezza: quella giusta. Impressione generale: sapore ben equilibrato con un certo non so che. Desiderio: per me potrebbe anche avere un po’ più gusto di cornflakes.

Frey Branches Classic 5 x 27 g Fr. 2.40 50% sulle confezioni da 50 pezzi, dal 2 all’8 settembre (fino ad esaurimento)

Frey Branches Noir 5 x 27 g Fr. 2.40

Frey Mini Branches Classic 200 g Fr. 3.50 Nelle maggiori filiali Migros.

L’Industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui anche le Branches Frey.


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Idee e acquisti per la settimana

L’ESPERTA

Miele: e il sole sorge due volte I vostri bambini strabuzzeranno gli occhi quando sul pane imburrato vedranno un raggiante sole disegnato con il miele. Darete così un tocco ludico alla prima colazione, facendola diventare una ghiotta occasione per mangiare qualcosa. E i bambini saranno sicuramente contenti se gli permetterete di disegnare da soli con il miele.

Quark: un sorriso può motivare

Lilibiggs Honey 250 g Fr. 3.70

Una porzione di quark si può decorare con qualche frutto di stagione. E così si fa presto ad abbozzare una faccina sorridente che fa venire voglia di addentare la frutta. Con un bimbo recalcitrante potete anche versare il quark in uno scodellino da gelato, riporlo in frigorifero e servirglielo per merenda. Un piccolo trucco per vincere la grande battaglia! Steffi Schlüchter (37 anni) lavora come consulente nutrizionista presso la Società Svizzera di Nutrizione (SSN) ed è responsabile del servizio Nutrinfo.

Lilibiggs Quark alla frutta ai gusti di lampone, banana e albicocca 6 pezzi Fr. 2.40

Quanto è importante la colazione per i bambini?

Latte: ma che sia con molta schiuma Per i bambini che non vogliono mangiare, un bicchiere di latte è sempre meglio di niente. Con tante schiumose bollicine, un cucchiaio di Chocomalt Crunchy e una cannuccia colorata, il latte mattutino viene succhiato caldo o freddo per la gioia di tutta la famiglia. Lilibiggs Chocomalt Crunchy sacchetto da 600 g Fr. 5.90

Essendo il primo pasto della giornata ricopre un ruolo fondamentale in quanto fornisce energia. Le scorte energetiche che si sono consumate di notte devono essere reintegrate al mattino, per essere disponibili durante il giorno. E i bambini ne hanno proprio un grande bisogno, dato che stanno crescendo. In cosa dovrebbe consistere una prima colazione? Idealmente in una bevanda, un frutto, un alimento ricco di amido e in un prodotto lattiero. Il latte è importante in quanto fornisce calcio e proteine, inoltre è indispensabile per la formazione delle ossa e dei denti. Si ha bisogno della frutta per le sue vitali sostanze nutrienti come vitamine e minerali, oltre che per le sostanze fitochimiche e per le fibre alimentari. Dal canto loro, i prodotti a base di cereali integrali sono ricchi di carboidrati e forniscono energia. Naturalmente miele e marmellata sono permessi, ma con moderazione. Come si fa a far sedere a tavola i bambini ancora sonnolenti? I pasti in comune sono alla base dell’educazione alimentare. I bambini imparano meglio se hanno un esempio. I genitori, o almeno uno dei due, dovrebbero prendersi il tempo sufficiente. Una prima colazione in famiglia è il modo migliore per rendere consapevoli i bambini dell’importanza di questo pasto. Chi non ha voglia di mangiare molto, alla fine può portare con sé un frutto, una carota sbucciata o uno jogurt di frutta. Frutta e gallette di mais sono particolarmente indicate anche per la pausa all’asilo o a scuola. Serve a qualcosa costringere i bambini a far colazione? Notoriamente con la forza non si ottiene nulla. I genitori dovrebbero semplicemente dare il buon esempio. Fonte: «L’alimentazione dei bambini in età prescolare», Società Svizzera di Nutrizione, 2010.

Un pieno d’energia Una colazione completa a base di latte, cereali integrali e frutta è il modo giusto per cominciare la giornata. E con un paio di semplici espedienti si possono convincere a sedersi a tavola anche i piccoli più recalcitranti

Ricercatori del Politecnico di Zurigo hanno scoperto che i bambini che fanno regolarmente colazione, sono più efficienti, più concentrati e perfino più snelli. Un altro risultato è che questi bambini hanno ottenuto migliori risultati in tre prove motorie su cinque, rispetto a quelli che hanno saltato la colazione. Tutto è più che logico, infatti dopo il sonno bisogna reintegrare le scorte di energia, affinché il corpo assuma

le sostanze nutritive essenziali. Per questa ragione, la prima colazione è il pasto più importante per ragazzini e adolescenti. Steffi Schlüchter (37 anni), nutrizionista della Società Svizzera di Nutrizione con sede a Berna, lo conferma: «In linea di massima, una colazione dovrebbe consistere in prodotti a base di cereali integrali, latte o quark e frutta fresca. In una certa misura sono ammessi anche miele, mar-

mellata o una tazza di latte e cioccolata». Ma cosa devono fare i genitori se i bambini sono ancora sonnolenti, bighellonano da una parte all’altra e alla fine non c’è più tempo per sedersi tutti assieme per fare colazione? «L’importante è che i genitori siano dei modelli, che facciano colazione e che coinvolgano possibilmente i bambini a prepararla, ad apparecchiare la tavola e perfino a far la spesa», consiglia Schlüchter.

Inoltre, si può decorare un Bierchermüesli con della frutta, addolcire il latte con una spolveratina di cioccolato oppure incidere una figura divertente su una mela. Infine, gli studi dimostrano che i bambini non capiscono l’affermazione «mangia, che è sano» e non vogliono neppure sentirla. Allora, è meglio dar loro da mangiare quel che gli piace ed evitare completamente la parola «sano». / Sonja Leissing


Auguri per la festa dei cinque giorni mancanti al weekend. Ogni giorno è il giorno giusto per regalare Frey.

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Idee e acquisti per la settimana

Le sostanze attive dei detersivi Total Express sprigionano la loro forza pulente già dopo poco tempo. La linea è stata appositamente sviluppata per i programmi brevi. Nuovo: Total Express Color* 1,320 I Fr. 15.90

Nuovo: Total Express White* 1,320 I Fr. 15.90

Nuovo: Total Express Black* 1,320 I Fr. 15.90 *20 X Punti Cumulus fino all’8 settembre.

Lavaggio al fulmicotone Con i nuovi detersivi per programmi brevi Total Express si risparmia tempo e denaro

L’Industria Migros produce numerosi prodotti molti apprezzati, tra cui i detersivi Total Express.

Alla fine di una giornata normale, la maggior parte dei vestiti indossati non è realmente sporca. Eppure, dopo un giorno si sente il bisogno di cambiarsi e mettersi qualcosa di fresco. Esattamente per questa esigenza sono concepiti i programmi di lavaggio breve, che non durano più di 30 minuti e preservano così i tessuti. La sollecitazione meccanica in un programma

breve è, infatti, minore rispetto a un programma di lavaggio normale, di conseguenza gli indumenti sono trattati con più delicatezza. Piccole dosi, grande concentrazione

Tutte le tre varietà Total-Express possiedono una formula speciale grazie alla quale le sostanze attive si sprigionano già dopo poco tempo e già a partire da una temperatura di 15° C. Dato

che sono concentrate, basta una piccola dose di detersivo. Mentre Total Express White previene l’opacità e ridona lucentezza al bianco, il detersivo per capi colorati Color ravviva i colori ed evita che sbiadiscano. Total Express Black, infine, è concepito appositamente per i tessuti neri e mantiene brillanti tutti i vostri indumenti di colore scuro. / DH


Di piĂš per meno.

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Idee e acquisti per la settimana

Dalla testa ai piedi: le lozioni per il corpo di Zoé nutrono e curano la pelle di ogni zona del corpo.

Zoé All-in-1 Beauty Oil 125 ml Fr. 11.–

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Zoé Cream & Oil Body Milk 250 ml Fr. 11.50

Per una pelle sempre in forma Le lozioni per il corpo di Zoé sono formulate per le esigenze specifiche di ogni tipo di pelle

L’Industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui le lozioni per il corpo di Zoé.

È un dato di fatto: con l’età, la pelle ha bisogno di cure maggiori. Proprio su questo si è specializzata Zoé con il suo programma completo di trattamenti, che ormai può contare su un’esperienza pluritrentennale. Come tutti i prodotti Zoé, anche le lozioni per il corpo sono elaborate per le esigenze dei singoli tipi di pelle. L’elevata qualità e la conseguente

efficacia si basano su innovativi principi attivi e formule collaudate. La linea Body propone sette articoli, tre dei quali indicati specificamente per le pelli secche e sensibili. Sensitive Body Balm senza profumi, coloranti e conservanti reca l’etichetta antiallergie di aha! ed è raccomandato da Service Allergie Suisse. Questo balsamo nutre, lenisce e protegge la pelle

sensibile, facilmente soggetta a irritazioni. Con il 20 percento di oli, Cream & Oil Body Milk dona alla pelle fino a 48 ore di intensa idratazione e ne regola l’equilibrio idrolipidico. Dal canto suo, All-in-1 Beauty Oil rassoda e favorisce l’elasticità e la tonicità. Inoltre, contribuisce a prevenire le smagliature e migliora l’aspetto delle irregolarità della pelle. / JV


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5.10 Costolette di vitello, TerraSuisse Svizzera, imballate, per 100 g


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