Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXVII 11 agosto 2014
Azione 33 -55 ping M shop ne 37–42 / 51 i alle pag
Società e Territorio Architettura dello spettacolo: i cinema storici ticinesi
Ambiente e Benessere «Sotto ogni tombino, un corso d’acqua», l’Associazione svizzera dei guardiapesca rilancia l’iniziativa ecosostenibile
Politica e Economia Dopo un mese di guerra, Hamas e Israele sono entrambi indeboliti
Cultura e Spettacoli Mimmo Rotella in mostra a Milano con i suoi décollage
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Jacek Pulawski
Bagnini pronti al campionato
di Jacek Pulawski pagine 14-15
L’Europa è in pace, la guerra alla porta di Peter Schiesser Per noi, figli di un Paese solo sfiorato dalle tragedie del Novecento, è difficile capire quanto presente sia ancora il ricordo della Grande Guerra nelle nazioni che ci circondano. Oltre alle commemorazioni ufficiali, le distese di croci bianche che a decine di migliaia si allineano con precisione militare nei cimiteri bellici, tanti altri segnali ricordano che un secolo fa un’era ebbe fine – il tempo della supremazia dell’Europa nel mondo – e costò il sacrificio delle gioventù di Francia, Gran Bretagna, Germania, Austria, Italia… I segni più vistosi sono le lapidi commemorative nei villaggi che inviarono i propri figli al fronte, quest’anno ornate di bandiere e corone, e fa impressione trovarsi nella morbida campagna francese, in villaggi di qualche centinaio o migliaio di abitanti e leggere i nomi di 30, 40, 50, 100 giovani «caduti per la patria». Vite spezzate che hanno derubato l’Europa anche delle generazioni future che quei giovani avrebbero altrimenti donato al Vecchio continente. Ma la Grande Guerra fu solo l’inizio di una catastrofe ancora maggiore, che si completò con i fascismi, il nazismo, il bolscevismo.
Ne riscopro le tracce in una trentina di fascicoli del settimanale francese «Illustration» risalenti agli anni Venti e Trenta, ritrovati casualmente in una casa di campagna in Borgogna. In quelle pagine la Storia ha ancora il sapore della quotidianità, con le sue incertezze su ciò che accadrà e le speranze che tutto potesse ancora essere diverso. Vi si leggono le cronache dell’Anschluss dell’Austria alla Germania nazista, delle battaglie della Guerra civìl spagnola, i diari del ministro degli esteri tedesco Stresemann in merito al «Trattato di Locarno» del 1925, reportage dai vari Paesi europei che, come birilli, cadevano sotto il giogo di fascismi e nazionalismi locali, ma anche le condizioni di vita e di alimentazione in Germania a pochi anni dall’ascesa al potere di Hitler, e – in pieno contrasto con i nuvoloni neri che il giornale descriveva nei cieli d’Europa – illustrazioni di mete turistiche in Italia e in Svizzera, raffinate pubblicità sull’ultimo modello di frigorifero (1932!), profumi e gioielli, eleganti vestiti e cappelli, automobili che potevano raggiungere i 100 chilometri orari…, promesse di un consumismo allettante, all’ombra di una montante tragedia mondiale. Cent’anni dopo, l’Europa non è più quella. Non rischia più di
cadere in massa preda di follie ideologiche. Ce ne sono ancora, ma, pur ritrovando una certa massa critica, non hanno la forza di impadronirsi del potere. La complessità della vita odierna ha almeno questo vantaggio: c’è spazio per ogni ideologia e contraddizione, ma nessuna è più in grado di prevalere sull’altra. Certo, l’Europa vive una crisi, sia come costruzione ideale (Unione europea), sia in molti suoi Stati nazionali. Francia e Italia sperimentano un declino economico e le riforme strutturali si fanno attendere, lo stendardo della Gran Bretagna potrebbe fra un mese perdere la croce scozzese, e via elencando. Ma nessuno può oggi immaginare una guerra fra Paesi ormai profondamente legati. Tuttavia, se oggi le frontiere interne dell’Europa sono sicure, pericoli seri minacciano le frontiere esterne: il caos esplosivo in cui stanno sprofondando Siria, Iraq, Libia, Gaza e che sta inesorabilmente contagiando altri Paesi arabi, la guerra in Ucraina patrocinata da un novello zar russo con mire geopolitiche in Europa, non possono lasciare indifferenti, men che meno l’Unione europea. Sarebbe un errore fatale credere che la pace al suo interno sia garanzia sufficiente per la sicurezza futura del continente.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino 11 agosto 2014 N. 33
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Attualità Migros
M Ulteriore miglioramento delle prestazioni per i collaboratori Migros
Migros news
Contratto collettivo di lavoro nazionale Una politica familiare all’avanguardia
con congedi maternità e paternità prolungati
Dal 1° gennaio lavorare alla Migros sarà ancora più attrattivo. Il nuovo contratto collettivo di lavoro nazionale 2015-2018 (CCLN) sostituirà la versione attuale, la cui scadenza è prevista il prossimo 31 dicembre, e prevede un’estensione delle prestazioni, in particolare per quanto riguarda la politica a favore della famiglia, con congedi maternità e paternità prolungati. Quale maggior datore di lavoro privato in Svizzera e in accordo con i suoi partner sociali (Società svizzera degli impiegati di commercio SIC Svizzera, Associazione svizzera del personale della macelleria ASPM e Commissione nazionale del personale Migros) l’azienda si impegna a te-
ner fede anche nei prossimi anni alle proprie responsabilità nei confronti dei suoi collaboratori. Il risultato delle negoziazioni per la firma del CCLN 2015-2018 segna nuovi importanti traguardi. In particolare, con un ulteriore ampliamento del ventaglio di prestazioni per favorire la conciliabilità tra lavoro e famiglia, così come di misure che promuovono l’uguaglianza tra le diverse tipologie di famiglia e le differenti modalità di convivenza oggi esistenti. Il nuovo contratto comporterà le seguenti novità: hk b n m f d c n l ` sd q m hsé ` r ` k` q hn pieno sarà portato dalle attuali 16 a 18 settimane;
hk b n m f d c n o ` sd q m hsé o ` f ` sn o ` r serà a 3 settimane, una in più rispetto a oggi; hk c hq hs sn ` k b n m f d c n r ` q é q hb n m n sciuto anche in caso di adozione; h f d m hs n q h ` b p t h r hs h d ` - c ` s ` q h r ` ranno equiparati ai genitori biologici; i conviventi e i partner registrati dello stesso sesso ai coniugi; i figli adottivi, i figliastri e i figli in affidamento ai figli legittimi. Il CCLN della Migros rappresenta una realtà senza eguali in Svizzera, in quanto garantisce delle prestazioni sociali esemplari in più settori, interessando circa 50’000 collaboratori attivi in 39 aziende della Comunità Migros. Non solo i collaboratori del commercio
al dettaglio, dunque, bensì anche quelli della Banca Migros, delle imprese di produzione o logistiche. «Il CCLN Migros in Svizzera rimane un modello per il commercio al dettaglio» dice Fabrice Zumbrunnen, Responsabile del dipartimento risorse umane, affari culturali e sociali, tempo libero e membro della Direzione generale della Federazione delle cooperative Migros. «Sono fiero che Migros abbia potuto migliorare ulteriormente le già eccellenti condizioni di impiego dei suoi collaboratori, in particolare considerando la situazione congiunturale attuale. I risultati confermano che Migros offre ai suoi collaboratori il miglior CCLN del settore».
Nuovo Shop Online L’ampio assortimento di prodotti nel design delle più popolari marche Migros è da oggi disponibile sul sito www.m-fanshop.ch, che prende il posto di M-Star. Tra i soggetti Migros più popolari – la foca, l’orso e la scimmia dei prelibati gelati, oltre ad articoli a marchio Ice Tea o M-Budget, tra cui gli ambitissimi occhiali – M-Fanshop propone inoltre i temi delle campagne Migros più attuali, con marchi e personaggi entrati nella quotidianità di clienti e collaboratori, tra cui i Lilibiggs o soggetti della campagna «Noi firmiamo. Noi garantiamo».
Richiamo prodotto Per motivi di sicurezza, a causa di una contaminazione di colibatteri, Migros ha richiamato il formaggio francese a pasta molle «Saint Felicien Tentation» nella confezione da 200 grammi prodotte dalla «Fromagerie de l’Etoile» con data di consumo 22 agosto 2014. Migros Ticino non vende questo formaggio, che è disponibile solo nelle grandi filiali della Svizzera tedesca. Gli altri formaggi a marchio «Saint Felicien» non presentano invece alcun problema. Gonfiabili al Serfontana Fino a sabato 23 agosto la mall del Serfontana ospita l’attività per bambini «Fun & Jump», un parco con 4 gonfiabili di diverse dimensioni e forme, accessibili gratuitamente dalle 10.00 alle 18.00 dal lunedì al venerdì, dalle 9.00 alle 18.00 il sabato, con personale di sorveglianza sempre presente.
La spesa che non ti pesa Saetta verde Un modo ecologico per avere la consegna degli acquisti direttamente a casa più voluminosi e pesanti, i trasporti vengono effettuati con automobili elettriche o a gas naturale, o ancora con un furgone a gas naturale. La consegna avviene entro 1-3 ore (escluse le fasce orarie tra le 11:00 e le 12:00 e le 15:00 e le 17:00). Gli acquisti devono essere consegnati al banco accoglienza da lunedì a venerdì, tra le 8:00 e le 17:15 (esclusi i giorni festivi) e la consegna a domicilio sarà effettuata al più tardi entro le 19:00. Le dimensioni massime della spesa sono di due borse di carta, per un peso complessivo di 20 kg. Sono esclusi i fiori freschi e i surgelati. Il servizio può essere richiesto annunciandosi al servizio clienti e compilando l’apposito formulario nelle
Saetta Verde e Migros Ticino hanno rinnovato l’accordo di collaborazione per la consegna della spesa a domicilio nel Luganese. Una collaborazione che ha preso avvio nel 2011 e che negli anni ha visto aumentare il numero di clienti che approfittano di questa modalità di trasporto della spesa, così come il numero di negozi che offrono il servizio e di comuni in cui avvengono le consegne. La consegna della spesa è in gran parte effettuata tramite bicicletta, in particolare con la Cargobike, un veicolo munito di un apposito contenitore e guidata da corrieri assunti nell’ambito di un programma di inserimento professionale. In alternativa, sulle distanze più lunghe o per carichi
Azione Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch
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La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
Stampa: Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
filiali Migros di Cassarate, Crocifisso, Lugano città (via Pretorio), Massagno, Molino Nuovo, Paradiso e Pregassona per le persone che risiedono nei quartieri/comuni di Besso, Breganzona, Cassarate, Castagnola, Loreto, Lugano-Centro, Massagno, Molino Nuovo, Pambio-Noranco, Paradiso, Pregassona, Savosa, Sorengo, Vezia e Viganello. Il costo del servizio di consegna è di 7 franchi. Per ulteriori informazioni:
Associazione Saetta Verde, Lukas Kaufmann, via Coremmo 12, 6900 Lugano, Tel 091 966 30 00, E-mail lukas@saettaverde.ch – www.saettaverde.ch
Tiratura 98’645 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
Cos’è la Cargobike? La Cargobike è una bicicletta dotata di un cassone che permette di trasportare oggetti voluminosi e pesanti (fino a 100 kg di carico), senza dover ricorrere all’uso dell’automobile. Si tratta di un mezzo di trasporto molto in voga in paesi come la Danimarca (luogo di produzione del modello usato da Saetta Verde) dove viene utilizzato per molteplici scopi e che ricorda i mezzi di una volta per la vendita ambulante di gelati e altri prodotti. Per garantire una maggiore efficacia del mezzo, la Cargobike è stata dotata di un motore elettrico.
Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
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Società e Territorio L’operatore sociale comunale Una figura della rete assistenziale tra le più vicine ai bisogni della popolazione: proprio grazie alla sua prossimità riesce spesso a far emergere i problemi e a prospettarne una soluzione
Nell’America delle molte culture Incontro con la scrittrice Elvira Dones, per parlare della sua esperienza creativa e delle sue tre nazionalità, svizzera-abanese-americana pagina 5
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Il cinema Arlecchino di Brissago, (Simone Mengani)
Un pavimento come Arlecchino
Cinema storici L’architettura dello spettacolo attraverso le sale da proiezione del nostro cantone – Seconda puntata Oliver Scharpf L’ex Arlecchino è salvo: così titolava un articolo di Luca Pelloni apparso sul «Corriere del Ticino» il quattro luglio. Quattro anni ci sono voluti, all’Associazione amiche e amici dell’Arlecchino, per raggiungere questo primo passo verso la rinascita di questo cinema nato negli anni Cinquanta. Il Legislativo di Brissago ha inserito lo stabile nella lista dei fabbricati di interesse comunale e sciolto il vincolo posto vent’anni fa che ne prevedeva l’abbattimento, per far posto a un parco. Perciò una notizia di attualità ci porta alla seconda puntata del nostro giro tra i cinema storici del cantone. Nucleo di Brissago, metà luglio, ho appuntamento con la signora Molteni davanti al cinema. Sbagliando la via più breve per arrivarci, scopro in compenso, probabilmente il più spettacolare sagrato del Ticino: quattro notevoli cipressi secolari, acciottolato grosso e irregolare, vista lago. Accanto alla chiesa parrocchiale dei Santi Pietro e Paolo, passo sotto un portico a volte, ci siamo. Oltre alla signora Molteni,
all’incontro c’è il signor Fabio Solari, anche lui membro dell’Associazione che ha salvato l’Arlecchino. Il cinema con il nome di una famosa maschera bergamasca della Commedia dell’arte della metà del Cinquecento – il cui caratteristico costume, si sa, è a rombi colorati più mascherina nera e cappello piratesco – è opera dell’architetto Luigi Chiesa (1928-1999) di Massagno. Inaugurato nel 1958, proprietà della parrocchia. Nessuna insegna, solo un arlecchino stilizzato in ferro e alluminio anodizzato realizzato dallo scultore Nag Arnoldi, è appeso alla facciata bianca epurata. Architettura dello spettacolo innestata con discrezione nel cuore del nucleo di Brissago: l’entrata, dal particolare taglio verticale, s’interseca connettendosi a una casa rosso pompei, il cui spazio semicircolare vuoto creato dal portico di prima, si accorda geometricamente per contrasto, al triangolo suggerito dalla facciata. Nel foyer spiccano i mattoni in cotto a vista che ricordano subito il cinema Corso di Lugano (1956) mentre l’arioso gioco di alcuni, sporgenti, rimanda agli
studi radiofonici di Besso (1960): in entrambi i casi, lo zampino di Rino Tami. Magistrale il bancone-bar disegnato da Chiesa : due parallelepipedi rivestiti di legno chiaro, di spessore diverso, sovrapposti uno all’altro, di sbieco, e sospesi da esili piedi di ferro. Da una finestra a nastro in alto, entra una delicata luce corbusieriana. Cinema davvero «brillante» come ha scritto Riccardo Bergossi in un articolo sulla rivista «Il Nostro Paese» del gennaio-marzo 2010. Saliamo la rampa del vomitorio e siamo nella sala, in gran forma per essere inattiva dal 2002. L’idea del cinema è venuta a Don Annibale Berla (1922-2010) di Ponto Valentino, «parroco intraprendente, che guardava avanti», mi dice Solari, che gestisce assieme alla moglie, la pasticceria Zanzottera non lontana da qui. Bellissime le poltroncine modello Plaza in velluto bordeaux a coste. Ma anche il resto della sala non è niente male: il triangolo d’entrata è ripreso da due triangoli bianchi in rilievo sulle pareti color arancio, decorativi e con funzione acustica. Seduto in prima fila, guardo le varie locandine che in par-
te la signora Molteni, in parte il signor Solari, sfogliano con cura. Non solo cinema qui, ma anche teatro dialettale, cabaret, conferenze, concerti. Come lo spettacolo intitolato Via i gatt balan i ratt (1984) della Compagnia Teatro Dimitri, Homo erectus ticinensis (1986) del Cabaret della Svizzera italiana, la serata informativa Difendere la salute con il training autogeno (1988) o quella a proposito dell’ Introduzione sul decreto del compostaggio (1989), il concerto del gruppo mandolinistico di Gandria (1998), ad esempio. Ma anche Pesciad in di stinch (1993) della Filodrammatica Caritas Gordola o la conferenza di Graziano Martignoni: Come accrescere l’autostima (2002). In questa sala multiuso si sono inoltre svolte tante recite scolastiche. Tra l’altro, proprio Mariangela Molteni, maestra delle elementari qui a Brissago in pensione, mi racconta che in seconda elementare, «nel 1961 o ’62», per la recita di Natale, ha interpretato la Madonna con una lunga camicia da notte: «mi ricordo l’immagine della platea semibuia». Grandi risate ci sono state in oc-
casione del Cabaret della Svizzera italiana, che faceva sempre il pienone, mi dice Solari. Ritornando sui nostri passi, fuori, una bella scala di ferro battuto ci porta su nella cabina di proiezione. La magia di fabbricare sogni è intatta, sembra che il proiezionista sia soltanto uscito un attimo a bere un caffè. Pizze in giro e su un tavolo, tutto l’armamentario per ricucire gli strappi delle pellicole. In un angolo leggo un titolo del grande Angelopoulos. Ma soprattutto ecco lì, due storici proiettori verde oliva modello Victoria della Cinemeccanica di Milano, puntati sulla sala. Uno sguardo giù nella sala dalla finestrina e via, torniamo nel foyer, che è proprio qualcosa. Ora non resta che trovare i fondi necessari per riaprire al pubblico, questo prezioso cinema-teatro da paese. Si notano ancora alcuni dettagli come i biglietti alla cassa ancora lì e il pavimento di marmo alla palladiana: scaglie e spicchi dalle tonalità variopinte. «Il pavimento richiama un po’ il vestito di Arlecchino» dice Fabio Solari. È vero, non ci avevo pensato, mica male come associazione.
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Società e Territorio
Preziose antenne sul territorio Servizi sociali Sono sempre più numerosi i comuni che si dotano di un operatore sociale per soddisfare
sul nascere il bisogno di accompagnamento dei cittadini in difficoltà Stefania Hubmann Incontrano persone sole e in difficoltà, anziani da aiutare soprattutto nelle pratiche amministrative, donne in fase di separazione o divorzio che necessitano di consigli mirati e un numero crescente di giovani già in assistenza. Gli operatori sociali comunali, presenti da diversi anni nei principali centri del cantone e in un numero sempre maggiore di comuni, sono figure all’ascolto dei bisogni della popolazione, antenne locali che colgono sul nascere i disagi, proponendo soluzioni dirette o rimandando ai servizi preposti. Lavorano soli, tessendo però una rete di preziosi contatti a livello comunale, regionale e cantonale. Questi professionisti sono persone di riferimento, come in passato lo erano il segretario comunale o il parroco, che conquistano sul territorio la fiducia della gente. Svolgono un compito faticoso e spesso misconosciuto, sempre alla ricerca di soluzioni per i problemi altrui. Chi lo esercita da molti anni, come Marion Bernardi attiva a Stabio, individua fra i punti forti e gratificanti il piacere delle relazioni, le belle storie ascoltate e le emozioni che ne derivano. Con la loro presenza gli operatori sociali comunali coprono tre quarti della popolazione ticinese. Diffusi soprattutto nelle città, nei principali centri e in tutti i comuni del Mendrisiotto, dove sono stati introdotti all’inizio degli anni Novanta, oggi sono 46 a fronte di 135 comuni. I progetti di aggregazione costituiscono un’opportunità per diffondere questa buona pratica. La necessità di garantire prestazioni sociali di prossimità nei nuovi centri coincide con il profilo dell’operatore sociale comunale. Lo conferma Roberto Sandrinelli, aggiunto di direzione della Divisione dell’azione sociale e delle famiglie, citando l’esempio di Blenio e precisando che il Cantone sostiene e promuove l’introduzione di questa figura senza comunque esercitare alcuna pressione. «Secondo la nostra esperien-
za l’operatore sociale comunale è necessario a partire dai 3000 abitanti. Questi agglomerati al momento sono una trentina e quasi tutti ne sono dotati. In alcuni casi le autorità stanno studiando la problematica. Per i piccoli comuni la soluzione può essere costituita da un incarico condiviso, opzione già messa in pratica per esempio nel Malcantone». Per il nostro interlocutore - che ha maturato una lunga esperienza sul territorio ed è stato il promotore dell’introduzione dell’operatore sociale comunale a Vacallo, poi diffusasi rapidamente nel Mendrisiotto - questa figura professionale in Ticino soffre ancora di una mancanza d’identità. «Il suo ruolo varia a dipendenza del luogo dove opera e delle esigenze che spingono il comune ad affidarsi a un professionista. Siamo ancora in una fase di crescita e sviluppo di questo ruolo e di una ricerca di equilibrio fra i compiti assunti dal Cantone, dai comuni e dal settore privato. Il modello ticinese s’ispira a quello romando, dove l’organizzazione è simile anche se più collaudata». I servizi adeguati per aiutare le persone in difficoltà non mancano. Occorre conoscerli e saperli attivare. Anche questo è un compito fondamentale dell’operatore sociale comunale. Un compito che, come sottolinea Marion Bernardi, richiede molto impegno. «La posta elettronica facilita i contatti e lo scambio di informazioni fra tutti gli attori coinvolti in un caso. Mantenere stretta questa rete significa investire tempo ed energia ma è essenziale soprattutto di fronte alla crescente complessità delle situazioni». Ripercorrere vent’anni d’attività, per l’operatrice sociale di Stabio (di formazione infermiera psichiatrica) significa iniziare dalla distribuzione dei pasti a domicilio agli anziani per giungere oggi alla necessità di occuparsi dei giovani, puntando sulla collaborazione con le scuole per cercare di anticipare il problema. «Nel 1993, quando ho iniziato l’attività, stavano nascendo i primi servizi per gli anziani fra i quali la distribu-
Spesso si tratta di un aiuto nelle pratiche amministrative. (Keystone)
zione dei pasti a domicilio che è stata un’ottima occasione per entrare in relazione con l’utenza e instaurare un rapporto di fiducia. Oltre ad aiutarli nelle pratiche amministrative – un aspetto diventato con il tempo sempre più complicato e quindi ancora oggi uno dei miei compiti – ho organizzato pranzi in comune, uscite, appuntamenti culturali e vacanze. Occasioni d’incontro molto apprezzate che nel frattempo sono state assunte da altri servizi. Uno dei progetti portati a termine è stata proprio l’apertura del Centro diurno». Da rilevare anche l’intensa collaborazione con i colleghi di Vacallo e Riva San Vitale. L’introduzione degli operatori sociali comunali nelle tre località è avvenuta nel medesimo periodo, per cui si è sviluppato e mantenuto uno stretto legame. «In generale la collaborazione è migliorata a tutti i livelli», aggiunge l’operatrice di Stabio. «Un esempio significativo è il contatto instaurato con le scuole in modo da garantire un continuo scambio di informazioni sui casi in comune. Oggi gran parte del lavoro è dedicato ai giovani, in grave difficoltà
già nell’età adolescenziale. Il comune, che conta circa 4500 abitanti, ha introdotto tre nuove figure a tempo parziale (fra cui un’operatrice di prossimità) che si occupano solo di loro. I casi più difficili da agganciare riguardano la fascia 15-18 anni, casi che si ritrovano solo con la maggiore età, quando passando attraverso il nostro servizio possono ricevere il sostegno sociale. Motivarli, staccarli dai social network, fargli riprendere un ritmo e accettare consigli è molto difficile». Oltre al disagio dei giovani senza lavoro e magari anche senza formazione, la solitudine degli anziani e l’incapacità di amministrarsi sono i problemi principali con i quali è confrontata Marion Bernardi. Anche chi bussa alla porta di Sarah Lustenberger, laureata in Lavoro sociale e dal 2009 coordinatrice del progetto operatore sociale intercomunale che include sette Comuni del Malcantone con sede a Caslano, ha problemi analoghi. Fra gli utenti che chiedono spontaneamente un accompagnamento sociale prevalgono sempre di più le persone sole, soprattutto donne, di nazionalità
svizzera e senza attività lucrativa. L’operatrice sociale comunale sottolinea come il servizio che offre sia basato prevalentemente sulla collaborazione. «Il rispetto della sfera privata del singolo impedisce all’operatore sociale comunale di intervenire contro il volere della persona in difficoltà. Certe situazioni di disagio, anche profondo, purtroppo possono quindi sfuggire alla nostra attenzione». Come agire di fronte a certe problematiche? Quali risposte offrire a determinate richieste? Per l’operatore sociale comunale, oltre alla rete con i professionisti di altri servizi, è essenziale il contatto con i colleghi degli altri comuni. «Da diversi anni è attivo un gruppo informale che si riunisce una volta al mese», spiega Sarah Lustenberger. «Scambiamo informazioni, cerchiamo un comune denominatore nelle modalità di lavoro ed invitiamo ospiti esterni per riflettere sui bisogni emergenti con l’obiettivo di migliorare la qualità dell’offerta alla propria utenza e la collaborazione con gli altri enti. Le persone in difficoltà che vivono sole in casa, l’indebitamento di giovani e adulti e l’inserimento socio-professionale di giovani in assistenza sono questioni di attualità. A livello regionale, dieci operatori sociali comunali del progetto operatore sociale intercomunale del Malcantone e del Luganese, con il sostegno dei rispettivi comuni, hanno organizzato anche una supervisione affidata ad uno psicoterapeuta. Sarah Lustenberger: «Siamo professionisti che lavorano da soli sul terreno con un’utenza problematica. Il rischio di burnout è concreto e la supervisione aiuta a prevenirlo». In vent’anni l’utenza e i problemi che porta con sé sono cambiati, specchio dell’evoluzione della società, in particolare per quanto riguarda la precarietà del posto di lavoro e le nuove forme di organizzazione familiare. Il profilo dell’operatore sociale comunale ha seguito il passo con nuove competenze e maggiore consapevolezza del proprio ruolo, limiti compresi.
Amici sulle ali del drago Anteprima Nei cinema ticinesi il secondo episodio di Dragon Trainer Il nuovo episodio di quella che si appresta a diventare una trilogia, si apre con una competizione emozionante di draghi volanti. Nel villaggio di Berk, infatti, gli abitanti vichinghi e i mostri alati hanno imparato a vivere in armonia e reciproco divertimento. Questo si deve, come tutti sanno, all’amicizia nata tra il giovane Hiccup e il drago Sdentato. I due hanno mostrato come uomini e draghi possano convivere e godere la reciproca compagnia. Le riprese mozzafiato della gara volante saranno il miglior biglietto da visita per questo nuovo film d’animazione proposto dalla DreamWorks Animation. L’aspettativa dei realizzatori è di riuscire a superare il record di pubblico fatto registrare nel 2010 da Dragon Trainer, che era tratto dalla serie di libri per bambini di Cressida Cowell. La pellicola aveva incassato nel mondo ben 495 milioni di dollari, profilandosi come uno dei film di maggiore successo di quella stagione. E proprio quell’ottimo risultato ha convinto i suoi realizzatori (Dean DeBlois regista, e Chris Sanders, produttore esecutivo) non soltanto a dare un seguito al film, ma addirittura a realizzare una trilogia. I due nuovi episodi previsti seguiranno Hiccup nel suo percorso di crescita dall’adolescenza all’età adulta. Il ragazzo si confronterà con problemi via
cavallo di un drago, la vivace Tempestosa. Hiccup e Astrid partiranno in una esplorazione del regno. Nel corso del viaggio incontreranno Eret, nuovo personaggio della saga, un robusto giovane cacciatore di draghi, un po’ sbruffone. Tra i ragazzi nascerà un’amicizia, presupposto fondamentale che li accompagnerà in avventure entusiasmanti. L’appuntamento per gli appassionati è il 16 agosto prossimo quando il film uscirà nei cinema ticinesi, anche in versione 3D. Pronti a spiccare il volo e tenetevi forte!
La locandina del film.
Gadget in palio per i nostri lettori In occasione dell’uscita in Ticino il 16 agosto (anche in 3D) di Dragon Trainer 2 (www.howtotrainyourdragon. ch), la Twentieth Century Fox in collaborazione con Migros Ticino mette in palio:
via più complessi, che lo accompagneranno fino all’inevitabile insediamento sul trono di suo padre Stoick. Senza voler svelare nulla della nuova trama,
ricordiamo a chi ha visto il primo episodio di Dragon Trainer che Hiccup sarà nuovamente accompagnato dalla sua coraggiosa amica Astrid, anche lei a
4 orologi digitali 4 palline che si illuminano 4 set di materiale per colorare 4 auricolari 4 t-shirt
Regolamento: partecipazione riservata a chi non ha beneficiato di vincite in occasione di analoghi concorsi promossi da «Azione» nel corso degli scorsi mesi. Per partecipare al concorso telefona allo 091 8217162 mercoledì 13 agosto dalle 14.30 fino a esaurimento dei premi.
Buona fortuna!
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Società e Territorio
I diversi volti dell’America Radici intrecciate L’esperienza della scrittrice Elvira Dones, che vive negli Stati Uniti portando come bagaglio
la diversità culturale delle sue tre nazionalità – Seconda puntata
Alessandro Zanoli «Io non riesco a parlare a lungo nella stessa lingua. Se devo farlo per un periodo di un’ora e mezza (ad esempio per una conferenza) alla fine mi annoio: il mio cervello funziona in inglese-spagnolo-italiano-francese-albanese... per tutto il tempo. Poi, quando mi metto a scrivere un articolo o un racconto, allora disciplino la mente e mi concentro su una lingua sola». Elvira Dones è una scrittrice svizzero-albanese-americana. Un personaggio molto conosciuto nel nostro cantone, dove ha vissuto per sedici anni, prima di scegliere di trasferirsi negli USA e continuare là una carriera decisamente aperta sul mondo. Abbiamo pensato di interpellarla in questa serie di incontri sulla multiculturalità perché difficilmente può capitare di discutere di questo tema con qualcuno più esperto di lei. «Mi trovo ad essere una specie di pesce fuor d’acqua a volte, quando cerco di spiegare questa mia apertura totale, perché la mia apertura totale è il mio modo di vivere. Comunque, essere sempre quello con la valigia in mano, il transnazionale, ti dà una grandissima vulnerabilità». Nata in Albania, si è rifugiata in Svizzera nel 1989 per sfuggire al regime comunista. Il desiderio di abbandonare una realtà sociale culturalmente chiusa e soffocante era un modo per realizzare le sue aspettative, per affermare la sua personalità. Anche a costo di correre gravi rischi. «Penso che qualcosa mi abbia sempre spinto da dentro... Volevo vedere quanto era grande il mondo e misurarmi con la sua dimensione. Forse avevo bisogno di questo anche perché sono scrittore e lo scrittore crea una sua individualità, necessariamente diversa da quella degli altri. Ognuno ha un’individualità, ma uno scrittore, o un creativo, ha bisogno di una specie di isola interiore dove mette tutto quello che accumula e ha accumulato nella sua esperienza. In questo senso forse sono stata sempre in cerca di nuove lingue, di nuovi gesti, di nuovi colori della pelle, nuovi modi di parlare. Ognuna di queste cose rappresenta un cambiamento». Oltre ad aver pubblicato diversi libri di successo e, soprattutto, di grande impegno sociale, Elvira Dones è anche regista e film-maker. Il suo desiderio di raccontare nasce da un’appassionata osservazione della realtà, di cui Elvira Dones individua aspetti problematici vicini alla sua sensibilità. Partendo da riflessioni sui situazioni sociali che la coinvolgono emotivamente, Elvira
Dones lavora in modo approfondito sui vari temi, elaborandoli e portandone alla luce il nucleo narrativo drammatico. Molto eloquente in questo senso il suo ultimo libro, dedicato alla vicenda della guerra del Kosovo, Piccola guerra perfetta, uscito da Einaudi nel 2011, con prefazione di Roberto Saviano. La voglia di allargare la sua visuale sul mondo porta Elvira Dones a trasferirsi negli Stati Uniti nel 2004. Una spinta che rende la sua vita ancora più multiculturale. La cosa complicata, in una simile situazione, è la necessità di rimanere aggiornata sulla realtà di ognuna delle culture a cui sente di appartenere. «Ovviamente mi tengo informata su quattro Paesi ogni giorno. La giornata infatti comincia alle 4.30 del mattino perché se non fai la lettura mattutina dei giornali americani, italiani, svizzeri e albanesi, poi non combini più niente durante il giorno». Tramite i social media, poi, Elvira Dones intrattiene una relazione di scambio con i suoi lettori e con i suoi amici, diventando un’attivista-scrittrice, che utilizza il suo pensiero e la sua parola in un dialogo impegnato. Gli Stati Uniti da cui guarda al resto del mondo sono essi stessi una realtà fortemente multiculturale. «Qui c’è un’accettazione dell’altro nel senso più ampio del termine: è un modo di essere un po’ difficile e divertente allo stesso tempo. Per raccontarlo in maniera carina, potrei dire che la mia sarta viene da Shanghai, vive qui da 22 anni e, felicemente, parla soltanto la sua lingua. Io la adoro: ci capiamo benissimo. Io le parlo in inglese e lei parla in cinese. Il nostro idraulico di famiglia è tibetano. Il fidanzato di una mia amica è un monaco del Bhutan...». Il nord della California, dove Elvira Dones vive con la sua famiglia, è effettivamente un luogo particolare, per storia e tradizione. È la culla di grandi movimenti per i diritti dell’uomo, un luogo di estrema tolleranza ad esempio verso la minoranza omosessuale. «Abbiamo vissuto per due anni a Berkeley, sede di una prestigiosa università. È a due passi da Oakland, che invece è una delle città più violente degli Usa, eppure è una delle più belle e aperte con una vita artistica molto dinamica, con tutti i matti più meravigliosi del mondo». L’America dove vive Elvira Dones, tiene a dirci la scrittrice, è soltanto una parte di un territorio ancora più grande e complesso. «Una delle frasi che mi piace citare è di John le Carré: “La scrivania è un posto pericoloso da dove guardare
Il suo ultimo libro è Piccola guerra perfetta, Einaudi. (www.elviradones.com)
il mondo”. Se lo guardi solo dall’angolino perfetto che hai trovato non capisci niente di dove sei. Viviamo in una delle molte “bolle” privilegiate, l’area di San Francisco, che racchiude il numero più grande di premi Nobel in tutti gli Usa. Ci sono centri di ricerca importanti come Stanford, Berkeley, Palo Alto, Mountain View. D’altro canto, solo per fare un esempio, un anno fa sono andata a girare un documentario (Non ammazzate mio padre, mandato in onda dalla RSI, ndr.) su un condannato a morte, in Texas. Quando vai a conoscere quel tipo di America, quel modo di ragionare basato sui pregiudizi, sul razzismo, sulla legge del taglione, ti accorgi che lì è tutta un’altra cosa». Capace di essere allo stesso tempo primitiva e intellettualmente evoluta, l’America ci mostra un modo contraddittorio di vivere la multiculturalità. Elvira Dones racconta un altro episodio significativo nella sua dinamica:
«Nella scuola di mia figlia si tiene la giornata della cultura messicana, di quella cilena, afgana, afroamericana, russa. Quel giorno tutta la scuola partecipa a esposizioni di foto, lezioni di geografia, attività culturali che gli studenti di quell’origine hanno preparato per far conoscere agli altri studenti la loro cultura, il luogo da cui provengono, la loro lingua. Qualche tempo dopo, le è capitato di essere chiamata in direzione per fare da cicerone a una ragazza appena arrivata dalla... Svezia. Nonostante tengano a sottolineare i valori della varietà culturale, i rappresentanti delle stesse istituzioni americane mostrano alcune debolezze di fondo: Svezia e Svizzera per loro sono la stessa cosa...». Per quanto attiene specificamente alla questione razziale, toccando un altro tema importante legato alla diversità culturale, nell’America di oggi esiste sicuramente una volontà politica di superare i pregiudizi sociali. «È vero,
esistono nuove regole, legate in particolare al settore dell’istruzione, qui in California. Occorre considerare comunque che queste misure generano anche effetti perversi. Può succedere che un ragazzo bianco con risultati eccellenti alle scuole superiori non possa accedere all’università perché gli atenei hanno l’obbligo di accettare un certo numero di studenti neri, che siano bravi o meno. Anche quella diventa una sorta di legge razzista alla rovescia». Tutto considerato, comunque, anche negli Usa i movimenti migratori internazionali sembrano preludere a importanti cambiamenti sociali, ormai inarrestabili. «È difficile spiegare cosa rappresenta il problema razziale in America oggi, anche perché è un flusso in evoluzione. Fra pochi anni i latini saranno più numerosi dei bianchi». A quel punto, la discussione sulla multiculturalità si farà probabilmente da una prospettiva diversa.
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Anna Lavatelli, Chi ha incendiato la biblioteca?, illustrazioni di Cecco Mariniello, Edizioni Interlinea Junior. Da 8 anni Le biblioteche non sono luoghi qualunque. Soprattutto le biblioteche per i bambini. Sono luoghi un po’ magici, case di libri addormentati sugli scaffali in attesa che qualcuno venga a svegliarli e faccia uscire le storie, dando vita ai personaggi. Il grande, schivo, e troppo dimenticato Giuseppe Pontremoli racconta in versi la Storia di un pirata, per il quale «anziché un’avventura/stare chiuso tra le pagine/era invece una tortura» (Ballata per tutto l’anno e altri canti, Nuove Edizioni Romane). E allora bisogna farle uscire leggendole, le storie, come scrive anche Roberto Piumini: «Senti? C’è un libro muto/che vuole andare via./Senti? Ti chiede aiuto/là, dalla libreria», in Un libro con te, De Agostini, illustrato da Cecco Mariniello. Non so se i libri citati siano ancora in catalogo,
di certo è un ottimo e prezioso recupero quello appena fatto da Interlinea, con la scelta di ripubblicare una storia del 2004 di Anna Lavatelli, Chi ha incendiato la biblioteca?, anch’essa con illustrazioni di Cecco Mariniello, che a far vivere i libri con le sue matite ci sa davvero fare. Anche qui ci sono libri che dal loro scaffale
prendono vita: in questo caso contribuiscono addirittura a domare un incendio e a trovare il colpevole. La bibliotecaria Giovanna, è disperata; il pompiere Guglielmo vorrebbe tanto aiutarla a capire chi ha appiccato il fuoco; i possibili indagati (la signora Angela, il piccolo Alessio, e gli altri personaggi del quartiere) sembrano assolutamente innocenti, e allora chi è stato? Saranno i libri a risolvere il caso, in questa piccola e bella storia piena di amore per la lettura e di certo capace anche di suscitarne. Gilles Tibo e Bruno St-Aubin, Quanti libri!, Edizioni Il Castoro. Da 5 anni La letteratura per ragazzi ha un pesante fardello da scrollarsi di dosso: quello della sua presunta vocazione pedagogica. Anche se sono lontani i tempi di Benedetto Croce, che la considerava niente più che «parente della musa bonaria della pedagogia», i libri costruiti
con lo scopo di «insegnare» qualcosa sono ancora davvero troppi. Certo, oggi hanno un make-up da accattivanti albi illustrati, ma spesso dietro c’è una storia un po’ pretestuosa, con uno scopo utilitaristico preciso: ad esempio aiutare a fare a meno del ciuccio (o del pannolino), aiutare ad affrontare il primo gior-
no di scuola, i pidocchi, i bisticci; fino a elaborare problemi anche molto gravi, come una separazione, un’emarginazione, un lutto. Sembra che piacciano a genitori e insegnanti, e si vendono, ma dovremmo renderci conto che le belle storie sono quelle «gratuite», non quelle che «servono a». Poi è innegabile che un libro possa aiutarti a capire, a stare meglio, a elaborare, ma, appunto, attraverso una storia valida «in sé». A tutto questo in sostanza allude, ma con grazia e leggerezza, un libretto uscito nella collana «Anch’io so leggere!», che le edizioni Il Castoro rivolgono ai primi lettori: in Quanti libri! il piccolo Andrea deve fare i conti con libri pensati per insegnargli qualcosa: da allacciarsi le scarpe ad andare in bicicletta. Effettivamente Andrea ha stringhe impeccabili ed è il miglior ciclista del mondo, ma quando in biblioteca troverà delle storie belle e basta, sarà anche il lettore più felice del mondo!
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 11 agosto 2014 ¶ N. 33
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Società e Territorio Rubriche
L’altropologo di Cesare Poppi Che giorno è oggi? Domanda apparentemente innocua e triviale, ripetuta chissà quante volte in banca, in uffici postali e sempre quando «data e firma» devono sigillare dichiarazioni documentali cariche di conseguenze. Data e firma sono garanzie di autenticità e marchio d’identità, elementi imprescindibili del vivere associato – almeno nelle società nelle quale il consenso è garantito dalla forma scritta della comunicazione. Provate a pensare: siete in banca e state per incassare un assegno cruciale per una transazione che vi attende in scadenza. «Che giorno è?» – chiedete alla cassiera prima di aggiungere la vostra firma alla data del documento d’incasso. «È l’ 11 di agosto» – vi risponde l’impiegata nonscialante. State per trascrivere l’informazione ma poi vi viene il dubbio: «L’ 11 agosto!? Ma che dice? Non vede che fuori sta nevicando?!». Interviene il cliente in fila: «No, è il 16 ottobre». E quell’altro là in fondo: «Ma che dite!? Oggi è il 31 febbraio!». Alla babele segue il caos, al caos la disperazione, alla disperazione la fine del mondo civile. Mentre scrivo l’occhio
mi corre all’angolo basso dello schermo del PC: piccola piccola c’è una data che sottolinea l’ora del fuso orario nel quale mi trovo: piccola e rassicurante mi garantisce che il mondo esiste. Se non nei termini spaziali che mi sono rappresentati concretamente da una miriade di media – fotografie, racconti, filmati, testimonianze dirette e quant’altro – e dei quali potrei non essere sicuro (e chi è mai stato alle Isole Marshall e mai ci andrà?) almeno in quelli più incontrovertibili proprio perché astrattamente numerici dell’ora e della data. Tic, tic, tic – i secondi passano, le ore e i giorni, democratici. Uguali per tutti e per tutti obbligatori come il sole che sorge: dovesse il mio PC decidere che oggi è il 16 settembre e non lo 07/08/2014 sarei tagliato dal mondo realmente esistente – non più un eccentrico isolato come sono quassù fra le montagne dove scorrono i secondi ed i giorni dell’Altropologo, ma addirittura bandito da quel magico democratizzatore universale, nuovo campione di uguaglianza, fratellanza e libertà (o no!?) che è il web. Roba non da
computo del tempo dei Maya, tac!, il 21 dicembre 2012 il mondo sarebbe finito in quell’immane catastrofe che i Maya (depositari di una conoscenza ahinoi tanto profonda quanto impotente, per esempio, a prevenire la Conquista di un continente – anzi quasi tre – per opera di una masnada di soldatacci avvinazzati) avevano previsto. Ma tant’è: negli States del XX secolo il salutare medice cura te ispum (che dovrebbe metterci sempre in guardia sul fatto che non solo il nostro vicino abbia il prato più verde ma che anche sappia rasarlo meno di noi) era meno praticato di una irresistibile voglia di credere. E che il Tempo (e dunque il mondo che nel tempo vive per definizione) stia per finire lo credono ancora in molti: non più tardi di ieri due zeloti di una nota chiesa alternativa saliti fino a queste lande alla recluta di catecumeni mi assicuravano che ormai ci siamo, dandomi (gratis) numeri derivati a dir loro dalla Bibbia. Per quanto lo riguarda, Josè Argüilles ebbe l’accortezza di morire il 23 marzo del 2011, in tempo utile per evitare la grandine di denunce
per danni che certo gli sarebbe piovuta addosso da coloro (furono tanti, pare) che si erano venduti tutto per darsi alla vita allegra prima che finisse il mondo. Non così il grande Agostino d’Ippona. «Io so cos’è il tempo» scriveva nell’Undicesimo Libro delle Confessioni «ma quando me lo chiedono non so spiegarlo». Se la creazione comporta anche la creazione del Tempo, significa allora che l’immutabile volontà di Dio possa cambiare? Ma se Dio è fuori del Tempo, cosa faceva allora prima che il Tempo fosse creato? I dubbi di Sant’Agostino avrebbero suscitato ben poca simpatia fra i Maya: secondo i Sommi Sacerdoti che i dubbi li risolvevano per tutti e guai a chi fiatava, il mondo come lo conosciamo noi sarebbe cominciato con precisione l’11 di agosto del 3114 avanti Cristo. Cioè, calendario alla mano, oggi ne sarebbe l’anniversario numero… – ai miei matematici lettori l’arduo compito del calcolo. E per quanto riguarda l’ora precisa? Beh, per quella basta guardare l’orologio. Che sia svizzero, natürlich – e Buon Ferragosto a tutti!
pola da cui, aumentando i giri di chiave, sarà sempre più difficile evadere. Che l’intento di tuo marito stia raggiungendo lo scopo è convalidato dal fatto che, ferita nell’identità e nell’autostima, eviti ormai di incontrare gli amici, ti isoli e, chiudendoti in te stessa, non ti confidi con nessuno. D’altra parte è quasi impossibile che gli altri si accorgano di una violenza subdola, che non lascia segni evidenti. I lividi dell’anima restano spesso segreti ma non per questo sono innocui. La vittima, non riuscendo a ribellarsi, muore spiritualmente sino a diventare, in un certo senso, complice del suo carnefice. D’altra parte il tuo persecutore, alimentando il narcisismo perverso sulla tua umiliazione, non ha alcun motivo di cambiare atteggiamento. Il «vampirismo psicologico», scrive Isabelle Nazara-Aga, in Manipolazione affettiva, (Edizioni «ultra»), genera rassegnazione e immobilismo. Siamo gli unici responsabili della perdita di
contatto con i nostri bisogni fondamentali. Nessuno può uscire da un’influenza manipolatrice senza disfarsi dell’idea di piacere a tutti. Un’idea che l’educazione tradizionale ha inculcato nelle bambine sin dall’infanzia ma che anche in questi anni, nonostante sia avvenuta un’indubbia emancipazione, ricompare quando una figlia non si è sentita amata dai propri genitori in modo incondizionato. Suppongo che ti faccia paura l’abbandono che farebbe seguito a una tua eventuale rivolta. Non ti rendi conto che, rompere un legame malato, è l’unica possibilità di riprenderti la vita e di ricominciare. Non illuderti che l’amore possa risanare una relazione distorta e che, mostrandoti amabile e conciliante, lui cambierà. Il fatto che siate una coppia disfunzionale è la conseguenza di una personalità malata, che sopravvive soltanto sulla distruzione dell’altro, sulla realizzazione di un anti-amore. Convinciti che il passar del tempo non
farà che toglierti vitalità ed energie sino a renderti succube e consenziente. Appena possibile, come hai fatto con noi, chiedi aiuto. Avrai senz’altro una parente, un’amica cui domandare sostegno e conforto. Oppure rivolgiti a uno psicologo competente che ti possa aiutare ad «alzare la testa» facendo leva sull’amore per te stessa, sulla salvaguardia della tua incolumità psichica. Cerca di risolvere quello che è un «problema di sopravvivenza» prima che la nascita di un figlio renda tutto più complesso e ti induca, in nome della responsabilità materna, a sottometterti, forse per sempre, a una ingiusta schiavitù.
spesso ai convertiti, confessa i peccati del suo passato di compratore, collezionista, lettore e, insomma di possessore di libri ai quali attribuire un valore anche simbolico. Una parete di libri, in una casa, sta a testimoniare il grado di cultura e di civiltà di chi vi abita. Tanto da diventare un nuovo «status symbol», ben più qualificante di altri oggetti, resi accessibili dal consumismo. Ora, di tutto ciò, lui, fortuna sua, è riuscito a liberarsi. E così lancia, sempre però da pagine di carta, interrogativi provocatori: «Davvero il possesso della cultura passa dal possesso dei libri? Passa da tonnellate di volumi che non verranno mai aperti? Davvero i nostri figli terranno testi e autori che abbiamo amato come un patrimonio indispensabile?» E via dicendo. C’è del vero in questa denuncia che ci tocca da vicino: i libri, non di rado, nell’uso quotidiano hanno cambiato destinazione. Non svolgono più, necessariamente, la funzione primaria
di essere letti, bensì quella secondaria di decorare un ambiente, alla stregua di un pezzo d’arredo. È un fenomeno che si è prestato addirittura a forme commerciali da barzelletta: sono in vendita pareti a scaffali, magari di legno pregiato, con il relativo ripieno di volumi rilegati, ma finti, senza pagine. Al di là di questi casi estremi, e persino ingenui, sta di fatto che anche nelle nostre abitazioni di sinceri appassionati della lettura, la presenza di libri vecchi e nuovi, comprati , ricevuti in dono, o ereditati, raggiunge dimensioni allarmanti, rischia di trasformarsi in ingombro imponendo, ai rispettivi proprietari, una sorta di esame di coscienza: li ho letti o no, perché tenerli, a chi cederli? Domande, appunto, a cui Cotroneo, che nell’attaccamento ai libri vede un una patologia, ha risposto senza mezzi termini, giungendo addirittura a condannare le biblioteche pubbliche : «Immense fatte di migliaia di dorsi che non si leggeranno mai, ma buone per
poco. E compito non da poco calcolare il tempo, sapere «in che tempo siamo e che giorno è». Scandirlo in giorni, mesi ed anni – secoli, ere, eoni e quant’altro. E – soprattutto – decidere e far credere che giorno sia. Per esempio: ricordate come si diceva che il 21 dicembre 2012 sarebbe stata la data della fine del mondo? Questo secondo l’autorità di uno delle tante versioni interpretative del Calendario Maya di Lungo Computo. E secondo la versione fornitane urbi et orbi da quel giocherellone che fu Josè Argüelles. Artista, scrittore, guru della New Age e fondatore assieme al mistico di origine russa Nicholas Roerich del Planet Art Network per la Pace Globale (tanto per cambiare), il Nostro aveva visto pubblicare anche il Italia il suo best-seller Il Fattore Maya. Qui, ultimo ma non certo ultimo di una schiera di visionari, profeti, sibille, maghi, alchimisti, matematici (nel senso che i Ladini Romanci danno al termine – cioè gente dall’estro un po’ così) e puri e semplici ciarlatani, si richiamava l’attenzione universale al fatto che, secondo il
La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Un marito per nemico Gentile Silvia, ho sposato, due anni fa, un uomo meraviglioso, pieno di premure, di apprezzamenti, di incoraggiamenti. Ma poco per volta questa vernice brillante si è scrostata e ora mi subissa di critiche e di sarcasmi. È sempre pronto a sabotare le mie iniziative e a spegnere i miei entusiasmi. Trova ridicolo il mio stile di vestirmi e pettinarmi, sbagliato come scelgo e pronuncio le parole. Miserabili i miei familiari. Di conseguenza anche il mio atteggiamento sta cambiando. Mentre prima lo consideravo il mio ideale, adesso mi sento perseguitata e non riesco ad apprezzarlo e ammirarlo come lui vorrebbe. Si è collocato su un piedistallo dal quale mi guarda dall’alto al basso: lui sa tutto, io niente. Capisco che non dovrei farlo ma sento che, giorno dopo giorno, sto perdendo sicurezza, fiducia, autostima. Ultimamente è arrivato al punto di mettermi in cattiva luce dinanzi ai nostri amici. Per paura di incontrarli
tendo a isolarmi sempre di più ma lui non mi dà tregua e so che, anche quando non ci sono, parla male di me. Mia mamma mi consiglia di portare pazienza, la mia miglior amica di lasciarlo definitivamente chiedendo il divorzio. Cosa devo fare? Consigliatemi voi. / Anna Cara Anna, nessuno ti può dire cosa devi fare. La mente oppone molte resistenze all’opportunità di cambiare radicalmente la valutazione di una persona che ha costituito per un certo periodo il nostro ideale. È duro veder crollare una splendida illusione su cui si basava la nostra felicità. Ma, purtroppo, i rapporti «predatori» non prevedono alcuna possibilità di una soluzione spontanea. Anzi, se ti dimostrerai realizzata e apprezzata, non farai che esasperare la sua aggressività. Non si tratta delle solite difficoltà coniugali; come tu stessa vai constatando, ti stai chiudendo da sola in una trap-
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di Luciana Caglio Libri da lettura o da arredo? Quando si dice il piacere di andar contro. È proprio quel che si percepisce, immediatamente, leggendo, su «Sette», supplemento illustrato del «Corriere della Sera», un articolo come Possedere libri? Un vezzo nevrotico. L’autore, Roberto Cotroneo, giornalista, scrittore, critico, e qui polemista, sembra prender gusto al ruolo di demolitore di un tabù inviolabile, nell’ambiente intellettuale. Nell’attualissima disputa, che contrappone carta stampata e testi digitalizzati, ha scelto, infatti, di schierarsi dalla parte del tablet. Non si limita, però, ad esaltare le virtù della tavoletta: pratica, economica, funzionale. E, come dargli torto? La tecnologia, con la sua inesauribile efficienza, ci ha messo in mano un dispositivo, leggero, facile, rapido che racchiude e visualizza milioni e milioni di testi: quelli che occupano le incommensurabili superfici di biblioteche pubbliche e private, sparse nel mondo intero. Tuttavia, e qui sta il risvolto inquietante e persino assurdo
di questa presa di posizione, Cotroneo ne approfitta per fare il processo al libro, al culto di cui è oggetto e alle persone che lo praticano. Anche lui, del resto, era del novero. Quindi, come succede
Il dubbio di una cultura ostentata...
non avere pareti bianche» Con ciò, questo convinto avversario del libro da arredo, e con lui la schiera sempre più folta dei suoi seguaci, fanno emergere un vizio di segno opposto: il culto della parete bianca, degli ambienti vuoti, proposti anche da certi architetti minimalisti. Il risultato è raggelante, rivela un rigore non da ultimo moralistico. Far piazza pulita dei libri, considerati superflui, a parte pochi volumi seri, meritevoli di conservazione, significa sacrificare non soltanto oggetti ma legami sentimentali, momenti di vita, entusiasmi passeggeri per un autore, un genere letterario, magari tramontato. Ai libri, disordinatamente accatasti, spetta anche questo ruolo: documenta errori, scelte ideologiche superate, infatuazioni balorde. Insomma, i libri raccontano anche la nostra storia. C’è, allora, da chiedersi se le funzionali tavolette elettroniche riusciranno a sostituire, in questi aspetti segreti, le pagine stampate, con il loro fruscio, carico di ricordi.
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Ambiente e Benessere La moda in giardino Quando la passione per il mondo verde si sposa con le nuove tendenze
Sostenibilità e impegno Kia al 37mo posto nella classifica mondiale delle aziende più «verdi» ed ecosostenibili
Guardaspiaggia La squadra nazionale dei bagnini rossocrociati è pronta per i mondiali
Per cavalli, pony, asini, muli La legge definisce i parametri di trattamento, utilizzazione, detenzione e trasporto
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Sotto ogni tombino, un corso d’acqua
Ecosistema Rinnovata anche in Ticino la campagna promossa dall’Associazione svizzera dei guardiapesca Elia Stampanoni È composto di una griglia con disegnato un pesce e con la scritta «Corso d’acqua» impressa in tre delle lingue nazionali. Parliamo del nuovo tombino che fa parte della campagna di sensibilizzazione promossa nel 2011 dall’Associazione svizzera dei guardiapesca e che l’anno scorso ha trovato nuovo slancio. A prima vista sembra un tombino speciale, ma ha la stessa funzione di quelli convenzionali, ossia evacuare le acque piovane. La differenza è che quando lo si incontra (notando la scritta e il disegno) si è subito portati a immaginare ciò che succede se vi si butta dentro qualcosa. E in teoria non lo si fa. La posa delle caditoie vuole rinforzare il messaggio che i tombini non sono delle pattumiere, come ci conferma Tiziano Putelli dell’Ufficio caccia e pesca: «Il rilancio della campagna è cominciato dopo aver avuto un buon riscontro: abbiamo così voluto ampliare il discorso coinvolgendo comuni e produttori di griglie». Il primo tombino posato in Ticino è stato inaugurato l’estate scorsa alla foce del Cassarate a Lugano, mentre altri sono stati posati a Lugano, Chiasso e Bellinzona, città che rappresentano le regioni cantonali toccate maggiormente da eventi di inquinamento negli ultimi anni, essendo caratterizzate da corsi d’acqua ridotti, che sono più vulnerabili e sensibili: «Quando il fiume ha una grande portata, penso per esempio al fiume Ticino, un incidente o una sostanza dannosa che finisce in un tombino hanno un effetto più contenuto, grazie alla maggiore diluizione, rispetto a un piccolo riale», precisa l’ingegner Putelli. Anche le ditte produttrici potrebbero contribuire alla causa, costruendo questo tipo di tombino (con immagine e scritta) al medesimo costo di un tombino convenzionale, come fa ora l’unica ditta che li produce. Come detto la campagna è promossa dall’Associazione svizzera dei guardiapesca, un sodalizio che riunisce guardiapesca, ispettori, biologi attivi nella gestione della fauna ittica e membri dell’Ufficio federale dell’ambiente. L’obiettivo è di promuovere il mestiere e di contribuire alla difesa della pesca e degli ambienti acquatici, nel rispetto della natura e della biodiversità: «L’acqua offre casa a un’innumerevole varietà di esseri vegetali e animali (in particolare i pesci), ma è soprattutto un habitat da preservare». Per questo la speranza dei guardiapesca, attraverso l’iniziativa «Sotto ogni tombino, un corso d’acqua», è quella di ridurre gli episodi d’inquinamento delle acque e impedire la morte dei pesci causata, spesso, dal versamento di prodotti nocivi nelle caditoie sulle strade o nei piazzali; tombini spesso confusi con degli scarichi diretti alla rete delle acque luride. Stessa linea quella del Dipartimento del territorio e dell’Ufficio
caccia e pesca del Cantone Ticino: «Abbiamo molte acque di superficie e il pericolo di un loro inquinamento, dovuto all’alta densità di insediamenti nei fondovalle, resta sempre concreto. Questa
contro l’inquinamento delle acque è una lodevole iniziativa che, sostenuta anche dal mio Dipartimento, ha permesso di raggiungere oltre un milione di persone in tutta la Svizzera. Gli inquinamenti
dinato dalla Sezione protezione aria, acqua e suolo, il servizio è a supporto degli enti di primo intervento, in particolare polizia e pompieri. È inoltre in fase conclusiva la definizione della nuova
Il tombino non è una pattumiera. (Tiziano Putelli)
campagna è una buona opportunità per discutere del problema e sensibilizzare la popolazione». Sul tema abbiamo sentito pure il Consigliere di Stato Claudio Zali, direttore del Dipartimento del territorio: «La campagna nazionale di prevenzione
dei corsi d’acqua e dei laghi in generale hanno malauguratamente interessato troppo spesso le nostre cronache (in particolare nel Mendrisiotto e nel Luganese) e posso a proposito informare con soddisfazione che è da poco operativo un servizio di picchetto tecnico. Coor-
procedura di allarme che integrerà questo picchetto tecnico, con gli obiettivi di migliorare la tempestività d’intervento e la qualità degli accertamenti durante le indagini. Sono sicuro che tutte queste azioni miglioreranno la gestione della problematica, a tutela della qualità della
nostra preziosissima acqua». A questi primi attori si aggiungono a sostegno dell’iniziativa anche il Consorzio Depurazione Acque Lugano e Dintorni, l’Ufficio federale dell’ambiente, diversi Comuni ticinesi e la Federazione ticinese per l’acquicoltura e la pesca, la quale sottolinea che «i pescatori moderni guardano da tempo e sempre più alla bontà degli ecosistemi acquatici. Dunque, tra i molti fattori, anche alla qualità e alla quantità dell’acqua, presupposti fondamentali per avere tanti pesci da pescare». Di fatto i tombini sono indispensabili per la raccolta delle acque piovane e consentono di evitare inondazioni di strade ed edifici. Nella maggior parte dei casi queste aperture portano l’acqua al ruscello o al lago più vicino. Quindi se vi vengono gettati mozziconi, carte o peggio ancora sostanze inquinanti, le ritroveremo in poco tempo nel fiume o nel lago. Altre volte, invece, le griglie portano l’acqua al depuratore, che non può comunque smaltire certi tipi di sostanze e in seguito, anche in questo caso, la destinazione finale sarà ancora un ricettore naturale (lago o fiume). La campagna invita anche la popolazione ad abbandonare certi atteggiamenti diventati di uso comune ma che sono pericolosi per l’ambiente e di conseguenza anche per l’uomo. Per la pulizia dei balconi, delle terrazze e dei tetti è auspicabile utilizzare acqua senza detergenti, mentre prima di impiegare pesticidi o altri prodotti chimici in giardino, nei campi o nelle coltivazioni è necessario leggere le istruzioni d’uso, ma anche le modalità per smaltire le eccedenze, che vanno consegnate presso gli appositi centri di raccolta. I rifiuti speciali, per le loro proprietà chimiche o fisiche, infatti, non possono essere raccolti ed eliminati assieme ai rifiuti solidi urbani. Tra di essi rientrano di certo vernici, colle, solventi, acidi, basi, prodotti chimici, prodotti per la pulizia oppure oli e grassi. Tutte sostanze che a volte vengono gettate, inconsciamente, nei tombini. Ci si può informare sul corretto smaltimento chiedendo al rivenditore, al comune di domicilio o all’Azienda cantonale dei rifiuti (Acr) che, nell’attrezzata sede di Bioggio, offre tutta una serie di opportunità per una corretta eliminazione di tali sostanze. Un ultimo consiglio va anche a chi ama pulire l’auto: «Lavate l’auto negli spazi appositamente predisposti per questa attività». I corsi d’acqua beneficeranno di condizioni migliori, garantendo di salvaguardare la qualità del nostro bene più prezioso. Link utili
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Ambiente e Benessere
Ambiente e Benessere
Forte motivazione e grande serietà Sport e sicurezza La nazionale svizzera dei bagnini sta per mettersi alla prova
nei campionati mondiali di Montpellier Jacek Pulawski, testo e foto «Io, bagnino per vocazione, m’identifico con l’emblema rappresentato dalla croce blu e un’ancora d’oro. Giuro che, indipendentemente dalle condizioni meteorologiche e il mio stato di salute, metterò a disposizione la mia vita per chiunque stia annegando. Sarò sempre vigilante e non lascerò mai la postazione di osservazione, specialmente quando vi sia una possibilità di pericolo. Mi assumo l’impegno di tenermi in un’ottima forma psicofisica affinché possa migliorare le mie prestazioni in qualità di soccorritore». Suona così la parafrasi del giuramento dei bagnini australiani, neozelandesi e polacchi. Affascinato dal difficile compito del mestiere di bagnino, vengo a sapere qualche interessante aneddoto storico. Il primo salvataggio da annegamento fu documentato nell’Antico Testamento, dove il profeta Elia rianimò il morente bambino di una vedova. Pur non escludendo la possibilità di un intervento divino, il testo sembra descrivere la ben conosciuta tecnica della respirazione «bocca-bocca», per secoli soprannominata «il metodo di Elia». L’anno 586 a.C. sembra dunque essere la stella polare per ogni addetto ai salvataggi acquatici, di cui i bagnini sono una gran parte. Può anche darsi che sia questo «il mestiere più vecchio del mondo» e che l’arte dello «stare a galla», apprezzata dagli intellettuali dell’antica Roma, ne esigeva un’altra: quella di salvataggio. In Svizzera la formazione di bagni-
I bagnini rossocrociati si trovano in classifica tra le migliori trenta squadre di salvataggio a livello internazionale Anche se in Svizzera non è previsto un rituale analogo, la nostra nazionale di salvataggio risulta essere tra le migliori trenta a livello internazionale. Essa, in ritiro a Tenero, è alle prese con le prove generali in vista dei campionati mondiali che si terranno a metà settembre a Montpellier. Il programma d’allenamento prevede una serie di esercizi molto impegnativi che variano dalla staffetta in kayak al recupero di pesanti manichini posti in profondità.
Con l’aiuto del cronometro si cerca di ottimizzare lo schieramento delle gare ufficiali. Le numerose prove trascorrono nella massima concentrazione e con grande entusiasmo, nonostante il fastidio della fredda brezza proveniente
dal lago Maggiore. Stupito dalle prestazioni offerte, mi domando come si concluderà la loro esperienza in Francia. Mi chiedo se questo simpatico gruppo costituito interamente da volontari riuscirà a competere con i più quotati professionisti provenienti dall’Oceania.
Consapevole del significativo divario nella preparazione atletica dei migliori al mondo, il team svizzero non sembra però dare segnali di frustrazione. Senza un valido supporto economico dovranno assumersi la maggior parte delle spese inerenti alla
loro avventura agonistica, a testimonianza della forte motivazione e della serietà nel voler rappresentare i confederati in possesso di un brevetto di salvataggio. Nei momenti di pausa riesco ad attaccare discorso con qualcuno di loro.
ni è impartita dalla Società Svizzera di Salvataggio, un membro attivo della Croce Rossa, la quale grazie alle sue numerose sezioni fornisce l’istruzione necessaria a compiere gli interventi di recupero e di primo soccorso. Sotto il «segno di Elia» cerca di ridurre il numero di morti per annegamento che lo scorso anno in Svizzera sono ammontati a ben 53 vittime. Attraverso un lavoro di sensibilizzazione orientato essenzialmente verso la prevenzione degli incidenti, la società propone una notevole varietà di corsi per principianti ed esperti. Per chi volesse approfondire la materia si consiglia di visitare il sito internet (www.slrg.ch). Vi si trovano tutte le informazioni legate alle date dei prossimi incontri nonché, estate permettendo, le nozioni utili per il resto della stagione balneare.
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Ambiente e Benessere
Non solo auto verdi, ma risparmio energetico Motori L’industria sta concentrando
l’attenzione sul riciclaggio, sulla riduzione degli sprechi e sulle tecnologie di recupero dell’energia termica
Il mondo dell’auto s’impegna quotidianamente a tutelare l’ambiente grazie alla progettazione e alla costruzione di vetture sempre meno inquinanti. Tutto ciò non è però sufficiente e lo sa bene il costruttore Kia. Alla crescita delle vendite globali, il costruttore coreano fa corrispondere in Patria – dove si realizza il 46 per cento della produzione mondiale – una riduzione dell’impatto ambientale. Un dato? Il 4,7 per cento di emissioni di CO2 in meno per ogni vettura, realizzata con un risparmio di 30’507 tonnellate di anidride carbonica emessa nell’atmosfera. Tale valore corrisponde all’effetto che si otterrebbe con un bosco di oltre trenta milioni di alberi di pino. Da restare a bocca aperta.
Kia si distingue tra le aziende più verdi, e in Giappone si punta molto sui motori alimentati a idrogeno L’anno scorso Kia ha venduto ben 2’746’643 veicoli (+ 1.4 per cento) migliorando però la sostenibilità dei processi industriali. Nei tre principali impianti coreani, a Hwasung (vedi foto), Sohari e Gwangju, è stata, infatti, messa in atto una strategia di miglioramento dell’efficienza dei processi attraverso la massima attenzione sul riciclaggio, sulla riduzione degli sprechi e sulle tecnologie di recupero dell’energia termica. Va detto che, a causa delle precipitazioni di pioggia ridotte, sono circa un decimo di quelle medie globali; la Corea è considerata una nazione potenzialmente a rischio per le risorse idriche. Ecco allora che anche per questa ragione Kia si è impegnata a diminuire il proprio consumo di acqua. Nel 2013, all’interno dei tre stabilimenti, il consumo di questo bene prezioso è infatti calato di 305mila m3
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rispetto all’anno precedente in cui venivano utilizzati 6,17 milioni di m3 di acqua. Questo corrisponde a una riduzione del 6 per cento, anno su anno, e addirittura del 30 rispetto al dato del 2003. Kia ha registrato anche una riduzione del 3,6 per cento nella produzione di scarti rispetto all’anno precedente, pari a 8’339 tonnellate di rifiuti in meno. Inoltre, sempre nel 2013, il 99,3 per cento delle 221’937 tonnellate di scarti prodotti è stato riciclato. Insomma, non ci sono dubbi sul fatto che Kia sia un costruttore automobilistico attento all’ambiente. Tant’è che l’autorevole organizzazione Interbrand l’ha posizionata al 37° posto nella classifica mondiale delle aziende più «verdi» ed ecosostenibili. Dobbiamo ricordarci che anche se i primi beneficiari di queste attenzioni sono proprio i coreani, l’aria che respiriamo è la stessa e non ha bisogno di prendere aerei o di esibire passaporti per spostarsi da una parte all’altra del mondo. Passando ad altro, è notizia di questi giorni che Toyota supporterà le autorità del Giappone e degli Stati Uniti nel creare un’infrastruttura adeguata e capillare che consenta di accelerare lo sviluppo di auto alimentate a idrogeno. La notizia non è ancora stata ufficializzata ma, secondo una fonte locale, la prima vera Toyota a idrogeno di serie costerà intorno ai 69 mila dollari, si chiamerà Mirai, parola giapponese il cui significato è «futuro». Un portavoce della divisione americana di Toyota ha specificato che il nome della vettura sarà reso noto ufficialmente nell’imminenza della commercializzazione che avverrà inizialmente negli Stati Uniti e Giappone nell’aprile del 2015. Intanto, la compagnia petrolifera giapponese JX Nippon Oil & Energy ha annunciato l’obiettivo di costruire nel Sol Levante 100 stazioni per auto a idrogeno entro la fine dell’anno fiscale 2018/19. Già una ventina di strutture fuel cell saranno realizzate entro il mese di aprile del 2015. È evidente che in Giappone si crede nei motori alimentati a idrogeno.
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Ambiente e Benessere
La difficile pasta al pomodoro Oggi voglio affrontare un argomento veramente difficile: la pasta al pomodoro. Non sorridete, non c’è ironia in me. Ma è la verità: scrivere dei piatti più semplici è difficilissimo, mentre scrivere dei piatti più complessi è più semplice. Infatti, la ricetta più difficile in assoluto da scrivere e commentare è il riso in bianco… Vediamo quindi come fare la pasta al pomodoro al meglio. Iniziamo dalla scelta della pasta. Ne esistono tantissime. Quali scegliere? Ognuno di noi, ne ha scelta una, in funzione del suo gusto e del caso, e va bene così. Comunque la pasta costa pochissimo a porzione. Quindi il consiglio è quello di non lesinare sul prezzo, che rimarrà comunque un piatto veramente economico, anche se usiamo la pasta più cara.
Un segreto? Il burro è fondamentale perché serve a legare nel migliore dei modi il sugo alla pasta Proseguiamo. Sono convinto che per fare dei buoni spaghetti di pomodoro bisogna utilizzare dei buoni pomodori freschi, sempre, tutto l’anno. So che sobbalzate, ma d’inverno ci sono le serre che funzionano più che bene: magari, anzi sicuramente, lo stesso pomodoro è più buono d’estate, ma anche quello invernale è ragionevolmente meglio di quello in barattolo. Andate quindi da un bravo fruttivendolo e comprate dei pomodori. Come sceglierli? È facilissimo. Anche in questo caso prendete quelli più cari, che costano comunque poco. A parità di tutto, la variante ciliegino è ottima, anche se poi richiede tanta pazienza per pelare i singoli pomodorini. Personalmente amo molto i cuori di bue, non facili però da trovare. E anche quando ci riuscite, in genere, saranno comunque acerbi, quindi teneteli a tempera-
tura ambiente per qualche giorno fino a quando saranno maturi: mi raccomando, non metteteli mai in frigo, degradano! Poi lavorateli così. Portate al bollore una pentola colma di acqua. Spegnete e calate i pomodori, scolateli dopo 2’, pelateli, divideteli a metà, eliminate i semi, spezzettateli sommariamente e fateli scolare in un colino per 20’, in modo da eliminare tutte le parti acide. Ed ecco la ricetta del sugo. Per 4 persone. Mondate 2 scalogni (vanno bene anche le cipolle e i porri, ma gli scalogni sono, sia chiaro a mio parere, più adatti a questo sugo), spezzettateli, stufateli con poca acqua per 20’ e frullateli. Mettete in una casseruola 300 g di pomodori lavorati come indicato sopra, unite uno spicchio di aglio mondato e leggermente schiacciato, il soffritto di scalogno e una punta di concentrato di pomodoro stemperata in poca acqua calda (serve a dare un bel colore denso al sugo), portate a leggero bollore e cuocete per circa 5’ a fuoco dolce, mescolando. Regolate di sale e di peperoncino (ma poco…) e unite, a piacere e secondo stagione, basilico spezzettato a mano o prezzemolo tritato (molti oltranzisti dicono che solo il basilico va bene, io non sono d’accordo). Nel frattempo portate in ebollizione in una pentola abbondante acqua, salatela con 8 g di sale grosso a litro e calate da 320 a 400 g (dipende da quanto prevedete di mangiare prima e dopo) di pasta a piacere. Scolatela a 2/3 della cottura indicata in confezione e calatela nella casseruola della salsa di pomodoro. Aggiungete un mestolino di acqua di cottura e portate la pasta a fine cottura mescolando delicatamente, e unendo altra acqua quando necessario. Spegnete e legate con 40 g di burro freddo da frigorifero. Il burro è fondamentale: serve a legare al meglio il sugo alla pasta. Lo so, molti dicono che va bene solo l’olio extravergine di oliva, io per questo piatto preferisco il burro: ma se usate olio vi perdono.
CSF (come si fa)
Blue Lotus
Allan Bay
Brian Ammon
Gastronomia Quando l’apparente semplicità richiede il tocco di un maestro per venir descritta
Due super basi fatte con la pentola a pressione. Le ricette sono di Manuela Vanni, che oltre ad essere una fotografa è anche una brava autrice di cucina. Vediamo come si fanno. Brodo di manzo semplice «grande marmite». Per circa 7 dl di brodo. Mondate 2 porri delle foglie più esterne, lavateli e tagliateli a rondelle. Mondate e affettate 2 carote e 1 gambo di sedano.
Schiacciate 1 spicchio di aglio con il palmo della mano. Mettete 1 kg di polpa magra di manzo nella pentola e unite 1 litro di acqua fredda. Aggiungete 1 osso di bue con il midollo, 1 cipolla picchettata con 2 chiodi di garofano, 1 spicchio d’aglio, 1 ciuffo di timo, 1 pizzico di sale e qualche grano di pepe. Chiudete con l’apposito coperchio, mettete sul gas a fiamma vivace e al sibilo, riducete la fiamma al minimo. Cuocete per 25’ poi spegnete. Aprite la valvola per fare uscire il vapore; in breve la pressione si sarà scaricata e non uscirà più alcun getto di vapore. Aprite la pentola e filtrate il brodo. La carne conservatela per altre preparazioni, le verdure frullate diventano un ottimo soffritto, oppure servitele calde o fredde, condite con 1 filo d’olio di oliva.
Brodo di manzo ricco «petite marmite». Per circa 7 dl di brodo. Mondate 1 porro delle foglie più esterne, lavatelo e tagliatelo a rondelle. Mondate e affettate 1 carota e 1 gambo di sedano. Mettete nella pentola 300 g di polpa di manzo magra, 300 g di biancostato, 300 g di gallina, 1 osso di bue con midollo, 1 litro di brodo di manzo, le verdure e 1 cipolla picchettata con 2 chiodi di garofano, quindi chiudete con l’apposito coperchio. Mettete sul gas a fiamma vivace e al sibilo, riducete la fiamma al minimo. Cuocete per 25’ poi spegnete. Aprite la valvola per fare uscire il vapore. Aprite la pentola e filtrate il brodo. La carne e le verdure conservatele per altre preparazioni oppure servitele calde, in brodo, o fredde, tagliate a pezzetti o a cubetti, condite con 1 filo d’olio di oliva.
Manuela Vanni
Oggi vi proponiamo una pizza, anche se farla in casa prende tempo, ma comunque più semplice di quanto possa sembrare, e una ricetta di un pesce molto buono ma poco diffuso, cioè la razza
Manuela Vanni
Ballando coi gusti
Pizza Margherita
Razza al burro nero
Ingredienti per 4 persone: 500 g di farina 00 · 10 g di lievito di birra · 300 g di salsa di pomodoro · 200 g di mozzarella fiordilatte · olio di oliva · zucchero · sale
Ingredienti per 4 persone: 4 tranci di razza da 200 g l’uno · 1 cucchiaio di capperi
Sbriciolate in una ciotola il lievito e scioglietelo con 1 dl di acqua tiepida. Amalgamateci 50 g di farina e un cucchiaino di zucchero. Quindi fate lievitare l’impasto in un luogo tiepido per 30’. Versate a fontana 450 g di farina sulla spianatoia, cospargetela con sale, unite il panetto lievitato, 2 dl di acqua e 2 cucchiai di olio. Impastate fino a ottenere una pasta morbida; se risultasse appiccicosa unite ancora un po’ di farina, e dividetela in 4 pagnotte. Copritele con un telo e lasciatele lievitare in luogo tiepido finché saranno raddoppiate di volume. Lavorate la pasta ancora per qualche minuto e lasciate ri-lievitare al coperto per 30’. Stendete l’impasto allo spessore di circa 5 mm, ricopritelo, lasciando liberi circa 2 cm di bordo, con la salsa di pomodoro e la mozzarella scolata e tagliata a dadini e lasciate riposare per 30’. Condite con un filo d’olio e cuocete in forno a 220° per circa 15’.
Dissalate i capperi sciacquandoli in una ciotola colma d’acqua tiepida, poi sgocciolateli e tritateli. Disponete i tranci di razza in un cestello per la cottura a vapore e cuoceteli per 6’. Levate i tranci di razza e disponeteli su un vassoio, tenendoli in caldo. Sciogliete il burro in una casseruola e fatelo diventare nero, quindi versatelo sul pesce. Nella stessa casseruola fate ridurre l’aceto della metà. Distribuite i tranci al centro dei piatti da portata, coprite con i capperi e nappateli nuovamente con il burro nero che si sarà raccolto sul fondo del vassoio. Versate sopra la riduzione di aceto, cospargete con prezzemolo tritato e servite.
sotto sale · 1 mazzetto di prezzemolo · 2 dl di aceto di mele · 80 g di burro
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Ambiente e Benessere
La pace agreste del Beaujolais Vini senza frontiere Zona in cui si producono notevoli rossi dal gusto fresco e fruttato
Questa regione di Francia, famosa per i vini dal gusto fresco e fruttato, è situata a sud della Bourgogne. È una zona che comincia a meridione di Macôn – situata sulla destra del fiume Saône – per terminare nelle vicinanze di Lyon, dove sorgono alcune collinette destinate a coltivazioni viticole, la cui pace agreste oggi è insidiata dall’urbanizzazione. Il Beaujolais è situato principalmente nel dipartimento del Rodano, ma anche in quello della Saône-sur-Loire. Si lascia Lyon lungo la nazionale No. 6 in direzione di Villefranche per giungere nel cuore di questa regione viticola. La cittadina più importante del Beaujolais è appunto Villefranche-sur-Saône. È la più vasta zona vitata di tutta la Bourgogne e vanta antiche tradizioni. I suoi vini erano infatti destinati al mercato della città di Lyon. Con l’estensione del canale di Briard, nel 1642, cominciò ad aprirsi sul mercato di Parigi. Ai nostri giorni il Beaujolais è noto soprattutto per il vino rosso – il Beaujolais nouveau – che è il primo, ogni anno, a essere posto sul mercato, e a rendere note al consumatore le caratteristiche principali della nuova annata. Questa iniziativa risale intorno agli anni Sessanta, e il personaggio di spicco cui essa deve il notevole successo che ha via via riscontrato si chiama Georges Duboeuf. Negli Stati Uniti d’America è noto come King of Beaujolais. Il vitigno principale, il solo, da cui
Geoff Wong
Grimod
si ottiene il Beaujolais è il Gamay. I vini si raggruppano in tre categorie. 1. vini precoci, fini, poco colorati, da consumare quasi subito dopo il raccolto e la successiva vinificazione. Sono i seguenti vini «teneri»: Fleurie, Lanciér, SaintEtienne-sur-la-Varenne, Chenas, Durette. 2. Poi ci sono i vini fini, «corsés»,
che possono essere anche di lunga durata. Se ne raccomanda il consumo a partire da marzo. Alcuni nomi: Régnié, Odenas, Chiroubles, Morgon, Julienas. 3. Infine, i vini semi fini, da consumare dopo l’estate. Queste le principali vigne coltivate: Beaujeu, Quincié, Latignié e altre vigne del sud verso Villefranche.
Nella regione si fanno quasi esclusivamente vini rossi. Si producono tuttavia alcuni Beaujolais bianchi da uve Chardonnay, che si dimostrano di una qualità veramente buona. Le tre categorie di vini sopra menzionate sono raggruppate in due zone principali, quella dell’alto Beaujolais e quella del basso
Beaujolais, denominata anche Beaujolais-Bâtard. È la suddivisione proposta dall’ingegnere agronomo ed enologo Louis Poquelin e dall’accademico-gastronomo René Polain nella loro monumentale opera Vignes et Vins de France (1962Flammarion). Nell’alto Beaujolais sono situati i migliori vigneti, nei cantoni di Beaujeu e Belleville. Voler elencare tutti i villaggi presupporrebbe la pubblicazione di una carta geografica tipo Siegfried a grande scala. Nel basso Beaujolais, a ovest e a sud di Villefranche, il rendimento è migliore ma la qualità dei vini è inferiore, meno teneri, meno netti e meno completi, sovente marcati dal terroir: ricordano quelli del Mâconnais. Il limite è costituito dal Nizars, piccolo affluente della Saône. Il cantone di Villefranche è sicuramente il più apprezzato. Il vigneto del Beaujolais supera i 16 mila ettari, quasi il doppio della superficie vitata del nostro cantone. Léon Daudet scriveva che la città di Lyon fosse bagnata da tre fiumi: il Rodano, la Saône e il Beaujolais. Concluderei sturando un Beaujolais-Villages 2012 – costa sotto 12.- Fr. la bottiglia – per gustare un sorso di rosso tinto di viola scuro con una leggera spuma che si dissolve sui bordi del calice, ha un profumo intenso di marasca e al gusto sensazioni allegre e perduranti, che invogliano ad accompagnare una fetta di salame e pane casereccio. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Nuove leggi per cavalli
Mondoanimale Nell’aggiornamento delle normative dell’Ufficio federale di veterinaria si ricorda cosa è vietato fare
Maria Grazia Buletti Secondo l’articolo 26 (cpv. 1 lett. A) della legge federale sulla protezione degli animali (OPAn), «Chiunque maltratta un animale, lo trascura o lo sottopone inutilmente a sforzi eccessivi compie un atto di maltrattamento». Questo vale anche per cavalli, pony, asini, muli e bardotti, come ricorda l’articolo 2 (cpv. 3 lett. p) sempre dell’OPAn, che dice: «È vietato infliggere ingiustificatamente dolori, sofferenze o lesioni a un cavallo, porlo in stato d’ansietà o ledere in altro modo la sua dignità». I cavalli, come ormai quasi tutti sanno, sono animali gregari, vivono in branco e si difendono con la fuga da quelli che individuano come potenziali pericoli. Proprio la loro natura di preda li fa andare in ansia per un nonnulla e sta all’uomo, dunque, trattarli adegua-
Il pipistrello ritrovato A distanza di 120 anni ritorna il pipistrello che si credeva estinto in Nuova Guinea. Lo hanno scoperto un gruppo di scienziati guidati da Catherine Hughes della School of agriculture & food sciences dell’Università del Queensland, che sull’Australian Museum Journal ha pubblicato lo studio Rediscovery of the New Guinea Big-eared Bat Pharotis Imogene from Central Province, Papua New Guinea. I primi e unici esemplari di pipistrello dalle grandi orecchie della Nuova Guinea (Pharotis imogene), un chirottero della famiglia dei Vespertilionidi, furono raccolti nel 1890 e poi nessuno li ha più visti, tanto che la Lista rossa dell’Iucn li considerava, oltre che specie in pericolo critico, probabilmente già estinta. Bentornato pipistrello!
tamente in modo da evitare loro inutili paure e sofferenze. Per queste ragioni, l’Ufficio federale di veterinaria (Ufv) ha emanato una serie di informazioni tecniche utili a chi detiene o lavora con i cavalli, con la seguente premessa: «Per offrire loro una vita il più possibile consona alla specie, è necessario rispettarne le caratteristiche nel trattamento, nell’utilizzazione, nella detenzione e nel trasporto». Sono dunque stati passati in rassegna i principali punti che devono essere soddisfatti. Ad esempio, secondo l’articolo 4 dell’OPAn (cpv. 2) sottoporre i cavalli a un sovraffaticamento può causare gravi danni alla loro salute ed è quindi vietato. Si intende che se i cavalli sudano in modo eccessivo, perdono importanti quantità di acqua corporea e di elettroliti. Inoltre, un lavoro pesante può comportare un’iperacidificazione dei muscoli e questo, a sua volta, può sfociare in complicazioni fatali come danni muscolari o renali. Per questo, l’Ufv consiglia: «Affinché a seguito di prestazioni faticose come battute di caccia, traino di legname o di una carrozza, i cavalli non abbiano problemi cardiocircolatori, crampi muscolari, tendenza a stare sdraiati o non presentino danni permanenti, essi devono essere sufficientemente allenati, resistenti e sani». Un altro interessante aspetto regolato dalla legge è quello del doping. Come negli esseri umani, infatti, anche nei cavalli si cerca di aumentare la prestazione sportiva con medicinali o altri mezzi. Questa pratica è naturalmente vietata (art. 16 cpv. 2 lett. G) «a causa dei rischi per la salute che ne derivano e per motivi di distorsione della concorrenza». L’Ufv insiste anche sullo sbarramento, inteso come metodi che provocano dolore o paura nel cavallo per indurlo ad alzare maggiormente le zampe nel salto a ostacoli. Questa proibizione
Thomas Quine
per evitare lesioni e sofferenze ai cavalli – Prima parte
vale sia per lo sbarramento attivo («innalzamento dell’asta o del supporto dell’asta al momento del salto»), sia per i metodi passivi come l’uso di un filo di metallo posto sull’asta. Anche lo sbarramento chimico è proibito: «come l’applicazione alle zampe del cavallo di una sostanza che provoca dolori se l’animale tocca l’ostacolo». Oltre a regolare con una chiara proibizione la Rollkur («metodo di iperflessione della testa del cavallo impiegato nel dressage»), si ridefinisce l’utilizzo degli apparecchi a scarica elettrica: «I cavalli non possono essere incitati o puniti con dispositivi a scarica elettrica quali speroni, frustini o altri apparecchi elettrici di conduzione (art. 21 lett. c)». Interessante anche l’appunto circa il fatto di non poter impiegare nelle competizioni i cavalli a cui sono stati anestetizzati o tagliati i nervi delle zampe. Si tratta di una pratica veterinaria per far sì che questi cavalli non sentano più dolore in caso di navicolite e, quindi, non zoppichino più. Per questo non bisogna poi continuare a solle-
citare normalmente la zampa malata, compromettendone ulteriormente la funzionalità. L’Ufv regola in modo ancora più preciso anche l’aspetto della detenzione dei cavalli, attraverso l’art. 59 (cpv. 3) dove si parla dei contatti sociali e si ricorda la natura di animali da branco di questa specie. Perciò: «I cavalli devono avere almeno un contatto visivo, acustico e olfattivo con un altro cavallo, pony, asino, mulo o bardotto». In quanto animali da preda, da soli si sentono in pericolo e hanno quindi bisogno della compagnia di un altro equide con il quale possono riposare e praticare la reciproca cura del mantello. Dovrebbe essere superfluo ricordare quest’altro appunto, ma tant’è: «La privazione intenzionale di acqua a scopi di addestramento rappresenta un maltrattamento». Così come è pure proibito trascurare la cura degli zoccoli che vanno tagliati regolarmente; è vietato modificare la posizione naturale dello zoccolo o impiegare ferrature dannose e fissare pesi alla regione degli
ORIZZONTALI 1. La paura a tombola 7. L’ultimo è Silvestro 9. Ha avuto già un proprietario 10. Fa sempre la stessa strada 12. Morbida borraccia 13. Indennità 15. Vanno in cerca di alibi 16. Lettera greca 17. Sermoni sacri 18. Le iniziali del giornalista Floris 19. Un’onda tra gli spalti 20. Un anagramma di già 21. Viene in camera dopo me 22. L’attore protagonista di Autunno a New York 23. Andare a Parigi 24. Il Morricone musicista
Sudoku Livello medio
zoccoli per modificare l’andatura del cavallo. I peli tattili che i cavalli hanno attorno agli occhi, alle narici e al muso servono per percepire l’ambiente circostante e non vanno tagliati a scopi estetici (art. 21 lett. e). Per quanto attiene al taglio della coda, che all’estero capita di vedere: «In Svizzera è vietato accorciare il fusto della coda dei cavalli». Verrebbe da obiettare che tali proibizioni dovrebbero essere scontate, ma ovviamente se la legge OPAn ne parla, qualcuno in passato si dev’essere cimentato in questo tipo di pratiche che arrecano dolore e ledono la dignità del cavallo. Dignità dell’animale tutelata fino in fondo: «I cavalli malati o feriti devono essere curati. Se non è possibile lenire i dolori cronici, ad esempio in caso di navicolite o tendinite incurabile, oppure di tumori maligni in stadio avanzato, i cavalli devono essere abbattuti o macellati». Così l’art. 5 (cpv. 2) della legge OPAn indica all’uomo ciò che, in fondo, si spera sappia valutare da sé, per il bene del proprio cavallo.
Giochi Cruciverba Il Mar Morto è chiamato così perché ospita solo batteri e nessun’altra forma di vita, a causa dell’acqua troppo salata, caratteristica che permette a chi … Termina la frase leggendo a soluzione ultimata le lettere evidenziate. (Frase: 3, 2, 7, 2, 11)
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Completare lo schema classico (81 caselle, 9 blocchi, 9 righe per 9 colonne) in modo che ogni colonna, ogni riga e ogni blocco contengano tutti i numeri da 1 a 9, nessuno escluso e senza ripetizioni.
VERTICALI 1. Parenti acquisiti 2. Più versa più guadagna 3. Differente, diverso 4. Figlia di Zeus e di Eris 5. Stanno in coda 6. Mancanza di stimoli affettivi 7. La moglie di Abramo 8. Hanno due punte divergenti 11. Un metallo 13. Cantava Piazza Grande 14. Un pezzo degli scacchi 16. L’attore Clooney 18. Competizioni 20. Risultato di rigore... 22. Pronome personale 23. Rendono parenti i preti
Soluzione della settimana precedente
Avviso per i clienti – Resto dell’avviso: ...ma se dovessi tardare. Rileggere il messaggio. M E D I O A S T E
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Politica e Economia Calcio e politica in Italia Breve storia dei rapporti tra due mondi apparentemente lontani e invece molto legati
Balochistan, dramma ignorato Le istituzioni internazionali sembrano trascurare la volontà di autonomia di una regione che sconta l’ostilità e le violenze del regime pakistano
I consigli di Banca Migros Anche in questa nuova puntata della consulenza di Albert Steck si parla di edilizia
Separazione problematica Le ragioni che spingono la Scozia all’indipendenza sono reali o illusorie?
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Keystone
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Stallo a Gaza
Medio Oriente Dopo un mese di guerra, il bilancio del conflitto fra Hamas e Israele è pesantissimo. Le due parti
risultano indebolite e hanno siglato una tregua, in attesa di un cessate il fuoco «definitivo» o di riprendere a combattere
Marcella Emiliani Per quanto aride le cifre dell’Operazione Protective Edge (Margine protettivo) lanciata da Israele contro la Striscia di Gaza sono drammaticamente significative. Secondo l’Onu, al 5 agosto, quando finalmente le due parti hanno accettato il cessate il fuoco dopo 28 giorni di guerra, i morti palestinesi erano circa 1900, i feriti 9.500, gli sfollati almeno 485.000 e le distruzioni tali da richiedere non meno di 187 milioni di dollari per avviare la ricostruzione. Sull’altro versante gli israeliani morti erano 67, di cui 3 civili, i tunnel distrutti 32 e i razzi neutralizzati dal sistema Iron Dome almeno 3.000, circa il 90% di quelli lanciati da Gaza. Mentre stiamo scrivendo, peraltro, nulla ci assicura che allo scadere dei tre giorni di tregua «umanitaria» i combattimenti non riprenderanno più feroci di prima. È vero che Israele ha ritirato le truppe di terra dalla Striscia il 5 agosto, ma le ha attestate appena oltre il confine, pronte a intervenire di nuovo se anche un solo spillo cadrà di nuovo sul suo territorio nazionale. Dal canto loro Hamas e Jihad islamica – stando ai servizi segreti israeliani – hanno ancora a disposizione almeno altri 3000 razzi con cui minacciare le città di Israele. Tutto dipende dalla
capacità di convinzione e dalla credibilità del mediatore principe di questa guerra senza fine, il generale Abdel Fattah al-Sisi, signore dell’Egitto, che al Cairo fa la spola tra la delegazione israeliana e quella palestinese (rappresentata da alFatah e da Hamas) poiché i colloqui tra le parti sono «indiretti», le parti cioè non vogliono nemmeno parlarsi a quattr’occhi. Il generale al-Sisi è spalleggiato nei suoi sforzi dal segretario di Stato americano John Kerry, dall’Onu, dalla Lega araba e dall’Unione europea. I due contendenti, invece, sono arrivati al tavolo dei negoziati più deboli di quanto sperassero quando hanno fatto ricorso alle armi. Hamas innanzitutto. Lo scopo per cui il 7 luglio ha violato la tregua concordata con Israele il 21 novembre 2012, era quello di spezzare una volta per tutte l’isolamento regionale in cui si è venuto a ritrovare dopo aver «perso» i padrini di sempre (Siria, Iran e Hezbollah libanese impelagati nella guerra civile siriana, poi nel braccio di ferro tra sunniti e sciiti scatenato in Iraq e Siria dalla sanguinosa irruzione dell’Isis del califfo al-Baghdadi). Isolamento che è stato reso ancor più drammatico dalla estromissione dalla scena politica egiziana di un suo prezioso alleato, il presidente Mohammed Morsi incarcerato dal suddetto generale
al-Sisi il 3 luglio dell’anno scorso assieme a tutta la leadership della Fratellanza musulmana da cui lo stesso Hamas è nato nel lontano 1967. Conoscendo fin troppo bene la reazione israeliana al lancio dei razzi, Hamas confidava che i Paesi arabi più influenti, Arabia Saudita ed Emirati del Golfo in testa, di fronte ai morti e al sangue nuovamente versato dai palestinesi finissero per scordare che si era alleato con i nemici sciiti delle petrol-monarchie del Golfo, ma così non è stato. Con l’unica eccezione del piccolo Qatar, la maggioranza dei Paesi arabi si è indispettita per la fuga in avanti di Hamas. Detto in parole povere, si è sentita tirare per la giacchetta mentre a impensierirla sono gli esiti delle primavere arabe, la minaccia rappresentata dall’Iran sciita (l’unico che abbia incitato Hamas a «distruggere» Israele), dalla moltiplicazione degli emuli di Al Qaeda e dagli epigoni della Fratellanza musulmana ormai messa fuori legge in tutto il Medio Oriente (sempre Qatar escluso) come organizzazione terroristica. Ufficialmente, dunque, la Lega araba sostiene la tregua, ma la sua distanza da Hamas si è approfondita, con buona pace delle opinioni pubbliche mediorientali che rimangono sempre traumatizzate dalla macchina bellica israeliana. Hamas però nell’in-
furiare dell’Operazione Protective Edge, ha riacquistato credito presso tutti i palestinesi ed è riuscito a farli scendere in strada a protestare contro Israele anche in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, come non succedeva da anni. Cosa spera allora di portare a casa Hamas dopo un mese di sanguinosissima guerra? Innanzitutto la fine o un allentamento significativo dello strangolamento a cui è sottoposta la Striscia. Le Israeli Defence Forces poi dovrebbero sospendere ogni atto di aggressione contro i palestinesi e non boicottare più il governo di unità nazionale creato con al-Fatah il 23 aprile scorso. Per ultimo: Israele dovrebbe anche liberare la cinquantina di prigionieri politici già scarcerati nel 2011 come «prezzo» per il rilascio del caporale Shalit, sequestrato nel 2006. Quei 50 infatti sono stati ri-arrestati per «attività sovversive contro lo Stato ebraico». Sulla carta non sembrano richieste inarrivabili, ma sono uno scoglio durissimo da dribblare per il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Abituato alle proteste dell’opinione pubblica europea, non si aspettava di aver contro, questa volta, una buona fetta dell’opinione pubblica americana, in genere estremamente favorevole a Israele. Non si aspettava che nella vecchia Europa Protective
Edge diventasse il pretesto per un pericoloso rigurgito di antisemitismo, ma soprattutto si è ritrovato, lui, falco tra i falchi, ad essere accusato di «passività» dall’estrema destra israeliana che peraltro fa parte del suo esecutivo. Il ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, ha addirittura ritirato il suo partito, Israel Beitenu, dalla coalizione di governo, pur mantenendo il dicastero degli Esteri. Quanto al ministro dell’Economia Naftali Bennett, leader del partito HaBayit HaYehudi, non aspetta altro che Netanyahu subisca un tracollo per guidare un nuovo eventuale esecutivo. Insomma, agli estremisti di Hamas e della Jihad islamica da una parte fanno da contraltare gli estremisti alla Lieberman e alla Bennett che non riconoscono il diritto dell’«Altro» ad uno Stato e che spingono per soluzioni radicali francamente impossibili da realizzare. Israele non potrà mai aver ragione militarmente della guerriglia di Hamas e della Jihad islamica se non al prezzo di un bagno di sangue degno solo di uno «Stato canaglia». Hamas e Jihad, dal canto loro, non potranno mai cancellare Israele dalla carta geografica del Medio Oriente. Allo stato attuale, allora, una tregua negoziata è l’unica via di uscita praticabile. Finché durerà, se durerà.
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Politica e Economia
In campo la partita è politica Sport nazionale Fin dagli inizi del 900 la storia italiana testimonia degli stretti legami che sussistevano
tra le classi dirigenti e le vicende calcistiche negli stadi
Alfio Caruso Winston Churchill ha scritto: «Mi piacciono gli italiani, vanno alla guerra come se fosse una partita di calcio e vanno alla partita di calcio come se fosse una guerra». Quando vergava simili giudizi nel 1946 l’ex primo ministro britannico aveva ancora freschi i ricordi del conflitto appena concluso, quindi la totale impreparazione dell’Italia. Il folle azzardo di Mussolini l’aveva scagliata al fronte priva di tutto: dall’addestramento alle armi. Agli occhi disincantati di Churchill con quello spirito approssimativo, avventuristico, goliardico si potevano affrontare gli incontri di football, nel quale, viceversa, aveva visto dispiegare da parte degli italiani una somma cura e massima attenzione persino ai particolari, neanche se il calcio fosse più importante della guerra. A quasi settant’anni di distanza l’acuta osservazione di uno dei più decisivi statisti del Ventesimo Secolo rimane di straordinaria attualità. Il calcio continua a essere una delle espressioni più veritiere del popolo italiano. Non tanto perché rappresenti, come si diceva negli anni d’oro, la quinta azienda del Paese, bensì perché esprime con esattezza il suo meglio e il suo peggio. Di conseguenza il fallimento nelle due ultime edizioni dei campionati mondiali racconta in modo veritiero la lunga crisi dell’Italia raramente così in basso in ogni settore, malgrado il successo di Nibali al Tour e l’oscar cinematografico vinto da Sorrentino con La grande bellezza. Non a caso i titoli iridati conquistati nel 1982 e nel 2006 hanno coinciso il primo con la rinascita dopo gli anni bui del terrorismo, delle contestazioni sindacali, della caduta economica; il secondo con l’ultimo sprazzo industriale-finanziario. L’attualità, invece, gronda modestia da ogni lato. Anche il pallone sconta un’impressionante carenza di strutture e di organizzazione. Al pari della politica, dell’imprenditoria, delle banche è in mano a vecchi arnesi privi d’immaginazione e d’idee. Con l’aggravante di non aver nemmeno un Renzi per inseguire il cambiamento. L’aspirante presidente federale, Carlo Tavecchio, è un grigio burocrate ultrasettantenne, con alcuni precedenti penali, fedele espressione della lega Dilettanti, da cui proviene. La sua candidatura tende a rassicurare i mediocri che la sostengono. Talmente inetto dall’esser scivolato, nel discorso di presentazione, dentro un’inutile frase di bieco razzismo. Tavecchio ha in tal modo consentito alle forze politiche di buttarsi a pesce in quest’elezione per confermare una volta di più che il calcio gode di troppo potere per lasciarlo in mano ai suoi dirigenti. Furono i Savoia nel gennaio del 1911 ad affidare un ruolo di rappresentanza alla nascente disciplina sportiva, che stava avvincendo rapidamente i cuori. Attraverso il famoso
Il successo italiano ai Mondiali del ’34 spinse Mussolini ad anticipare la promulgazione delle leggi razziali. (globo.com)
esploratore Luigi Amedeo Savoia duca degli Abruzzi, appassionato del gioco e introdotto in federazione, chiesero che la nazionale adottasse i colori della dinastia regnante, cioè l’azzurro dello stendardo più lo scudetto sabaudo. Così contro l’Ungheria, il 6 gennaio 1911, fu accantonata la camiciola bianca degli inizi e nacquero gli «azzurri».
Il colore azzurro della casacca, adottato nel 1911, si deve allo stendardo della dinastia Savoia All’inizio degli anni Trenta, benché insensibile ai rimbalzi della sfera di cuoio (prediligeva automobilismo e scherma), Mussolini ne intuì le enormi possibilità propagandistiche: non badò a spese per organizzare in Italia la seconda edizione del mondiale con lo scopo precipuo di vincerlo e di trasformarlo nella vetrina del regime. Divenne il regista occulto delle trame che spianarono la strada alla squadra: il culmine fu raggiunto con il ventottenne arbitro svedese Ivan Eklind. Era un iscritto al partito fascista scandinavo e uno sfegatato ammiratore di Mussolini, che lo invitò a cena nella residenza di Palazzo Venezia. Per la prima e unica volta nella storia della competizione iridata Eklind diresse sia la semifinale, con l’Austria (1-0 con gol irregolare), sia la finale, con la Cecoslovacchia (2-1). Prima del fischio d’inizio una foto, mai pubblicata in Italia, lo immortala mentre effettua il saluto fascista dinanzi al
duce in tribuna d’onore. Quattro anni dopo, Mussolini sfruttò ancora il mondiale: il massiccio entusiasmo suscitato dall’inatteso trionfo della nazionale in Francia lo indusse, secondo la testimonianza postuma di Eraldo Monzeglio, uno dei pochi bi-campioni, ad anticipare di alcuni mesi l’introduzione delle nefande leggi razziali. Una delle liti, che segnarono il Ventennio fascista, quella tra il sottosegretario agl’interni nonché presidente della federazione Leandro Arpinati e il segretario del partito Achille Starace, esplose per la mancata concessione di alcuni biglietti gratuiti. Alla caduta della dittatura i meriti calcistici salvarono molti personaggi coinvolti con essa. Lo stesso Monzeglio messo al muro nell’aprile del ’45 venne graziato dal comandante partigiano incaricato dell’esecuzione: lo liberò affermando che non avrebbe fucilato un idolo della sua giovinezza. Con il ritorno della democrazia e l’avvento della Repubblica il connubio si strinse viepiù. Il calcio divenne la scorciatoia per piccole e grandi ambizioni. Molti equivoci personaggi arricchitisi nelle convulse vicende del dopoguerra vi cercarono e ottennero il prestigio in grado di far dimenticare la spregiudicatezza con la quale avevano fatto i soldi. Nel 1953, il giorno seguente la sonante vittoria dell’Ungheria (3-0) all’Olimpico di Roma appena inaugurato, apparve sulla prima pagina dell’«Unità», il temuto organo del partito comunista, un corsivo anonimo dedicato alla partita. Si era alla vigilia delle elezioni nazionali: il capo del governo, il democristiano Alcide De Gasperi – un oriundo nato nel Trentino
asburgico, protagonista della rinascita, lo statista più rimpianto assieme a Cavour – aveva proposto un modesto premio di maggioranza al partito in grado di superare il 50 per cento dei consensi. Il segretario del Pci, Togliatti, tra i più servili collaboratori di Stalin durante le tremende purghe in Urss, lo aveva ricoperto di contumelie accusandolo di perseguire disegni dittatoriali. Ebbene in quel corsivo era scritto che se gl’italiani desideravano entusiasmarsi per una nazionale imbattibile come l’Ungheria, capace di ammaliare con i suoi schemi e soprattutto di primeggiare su ogni campo, avrebbero dovuto votare per il Pci. Infatti, soltanto l’instaurazione di un sistema socialista, al posto del deprecato capitalismo, avrebbe potuto consentire l’allestimento di una formazione come quella magiara. All’inizio degli anni Settanta, durante le accese dispute fra gli operai, in gran parte immigrati meridionali, e la proprietà della Fiat, avvenne una singolare svolta nella Juve, giocattolo preferito di Gianni Agnelli. Furono acquistati un mediano siciliano, Beppe Furino, un fantasista pugliese, Franco Causio, un difensore sardo, Antonello Cuccureddu. Tutti e tre segnarono l’epoca trionfale dei sette scudetti in dieci anni. Tuttavia, lo stesso Agnelli, pochi anni appresso, spiegò a Boniperti, l’uomo di fiducia messo alla guida della Juve, che avrebbe dovuto rinunciare all’accordo appena raggiunto per comprare dall’Argentinos Juniors il diciottenne Maradona: costava un miliardo di lire, una bazzecola, però in grado di suscitare la vibrante reazione dei sindacati impegnati in un aspro rinnovo dei contratti aziendali.
Non c’è stato successo di una squadra di club o di una rappresentativa azzurra che non sia avvenuto al riparo di un pezzo da novanta o non abbia scatenato la corsa allo sfruttamento intensivo da parte d’interessati protettori. Nel 1983, all’indomani del campionato vinto dalla Roma, Giulio Andreotti, all’epoca il politico più influente, telefonò al presidente dell’Inter, Fraizzoli, per dissuaderlo dall’acquistare il centrocampista giallorosso Falcao. Nel 1994 Berlusconi sarebbe mai diventato il protagonista di un altro ventennio, per fortuna meno cruento del primo, senza la fama e il lustro assicurati dai trionfi internazionali del Milan? Le televisioni e i giornali gli hanno consentito la diffusione delle sue promesse, mai mantenute, ma a conferire la patina d’inarrestabile uomo di successo in grado di trasformare in oro tutto ciò che toccava è stato il Milan. Grazie alla trasversalità del suo tifo, Berlusconi ha avuto la possibilità d’allacciare rapporti anche con accaniti avversari politici, che però avevano il cuore foderato di rossonero. Non a caso il suo mesto tramonto è accompagnato dalle traversie del Milan per la prima volta in un quarto di secolo escluso dalle coppe europee. L’esatto contrario di quanto accade alla Juve. La grande rinascita internazionale della Fiat targata Marchionne, i considerevoli proventi garantiti alla famiglia Agnelli hanno consentito di destinare alla società bianconera quei finanziamenti che le altre avversarie si sognano, almeno in Italia. E i tre titoli consecutivi ne sono stati la logica conseguenza. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 11 agosto 2014 ¶ N. 33
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Politica e Economia
La guerra dimenticata Pakistan Intervista con Brahumdagh Bugti, leader del maggiore partito che si batte per l’indipendenza del
Balochistan, la vasta regione situata al confine con l’Iran, da decenni oppressa dal potere centrale e teatro di violenze
Francesca Marino «Io sono stato fortunato, perché ero giovane e capace di camminare e di correre. Allora speravo ancora che un giorno avrebbero capito, che avrebbero cambiato politica e noi saremmo potuti tornare indietro. Ma non è successo. Quando mio nonno è stato ucciso ho perso ogni speranza e sono scappato in Afghanistan, e dall’Afghanistan qui a Ginevra. Per tutta la situazione, per la mia posizione politica, mia sorella e sua figlia di nove anni sono state ammazzate a sangue freddo a Karachi mentre tornavano da un matrimonio. È umanità questa? E anche mio nonno: aveva ottanta anni e una gamba paralizzata. Come pensi che un uomo in queste condizioni possa combattere o fare il guerrigliero?» A parlare è Brahumdagh Bugti, leader del Baloch Republican Party in esilio a Ginevra dove attende che gli sia concesso asilo politico. Brahumdagh, a poco più di trent’anni, ha già vissuto una vita degna di un romanzo. Rimasto orfano di padre quando era appena un bambinetto, Brahumdagh è stato allevato dal nonno. Un nonno importante, quel Nawab Bugti che nel 2006 è stato ammazzato dalle truppe mandate dall’allora presidente Musharraf tra le montagne del Balochistan a combattere contro i nazionalisti. La versione ufficiale della storia, rilasciata dal governo di Islamabad, riporta che Bugti è morto assieme ai suoi combattenti nel crollo di una caverna dove si era rifugiato. Il suo corpo non è mai stato restituito alla famiglia, è stato sepolto in fretta e furia dai militari. Come prova della sua morte sono stati esibiti il suo orologio e i suoi occhiali, rimasti intatti e senza un graffio come per magia dopo il bombardamento e il crollo della suddetta caverna. Brahumdagh era l’erede politico del nonno e il nome successivo sulla lista delle persone da eliminare. È scappato in Afghanistan, a Kabul, dove ha subìto diversi attentati alla sua vita da parte dei servizi segreti pakistani. Nel 2010 è approdato a Ginevra con tutta la famiglia. Per rappresaglia e come «avvertimento», sua nipote e sua sorella sono state uccise l’anno dopo in un orribile quanto vergognoso agguato in uno dei quartieri eleganti di Karachi. Sotto gli occhi dei poliziotti, convenientemente girati dall’altra
Secondo Islamabad siete dei terroristi, finanziati dall’India e dagli Stati Uniti.
Marcia di protesta di famigliari di attivisti politici rapiti nel Balochistan. (Keystone)
Magari. Se fosse vero certo non saremmo ancora in questa situazione. Certamente, ci stiamo adoperando con mezzi pacifici per ottenere attenzione e sostegno da parte della comunità internazionale. Sostegno per cosa?
parte mentre un «eroico» commando sparava a una donna indifesa e a una bambina. Secondo Islamabad, Brahumdagh è un terrorista, ricercato da servizi segreti e polizia. All’accusa Bugti risponde che: «È facile formulare accuse, e in Pakistan è più facile che altrove. Ciascun dittatore, ciascun capo dell’esercito, ciascun potente userà questo tipo di accusa per giustificare i massacri compiuti sulla popolazione innocente: stiamo ammazzando terroristi, combattiamo contro criminali. Chi vuoi che ammetta il massacro di civili innocenti colpevoli soltanto di chiedere i loro diritti di cittadini?» Ma perchè Islamabad combatte contro i Balochi?
È una lunga storia, cominciata ai tempi dell’Indipendenza. A farla breve, noi siamo stati di fatto occupati dal Pakistan che ci tratta come cittadini di serie B sfruttando le nostre risorse senza dare nulla in cambio. Negli ultimi cinquanta anni abbiamo provato in ogni modo a risolvere la situazione pacificamente, agendo per via politica. Mio nonno è stato un ministro federale, ha cercato di fare accordi di ogni genere che, però, non sono mai stati messi in atto dal governo di Islamabad. La situazione del Balochistan è
molto simile a quella del Tibet
casi cadavere ai bordi delle strade.
Sì, sia in senso politico che culturale. Siamo non soltanto occupati militarmente, ma anche culturalmente. Hanno bandito dalle scuole l’insegnamento della lingua e della letteratura Baloch, proibiscono ogni genere di attività culturale autoctona. Senza parlare delle centinaia di poeti, cantanti e intellettuali arrestati, che spariscono spesso senza lasciare traccia.
Si tratta di ciò che chiamano kill and dump, non è vero?
La questione delle persone scomparse in Balochistan è all’attenzione ormai di tutte le organizzazioni umanitarie.
Non si tratta di persone scomparse, ma di persone ammazzate a sangue freddo dopo essere state prelevate da casa. Solo, noi non sappiamo quando. E non sappiamo quanti di loro sono già stati uccisi e quanti attendono ancora la morte in qualche prigione segreta. Mesi fa sono state scoperte due tombe di massa piene di corpi non identificati. Non sappiamo quante altre ce ne sono, non sappiamo chi giace in quelle tombe. Che cosa è successo quando le tombe sono state scoperte?
Niente di niente. L’area è stata sigillata dall’esercito e questo è tutto. Nessuno è stato autorizzato ad avvicinarsi per non intralciare le «investigazioni» del governo. Intanto, la gente continua a scomparire per riapparire poi in molti
Sì, una strategia del terrore cominciata qualche anno fa. Qualcuno viene prelevato dall’esercito o dai servizi segreti e scompare per riapparire poi dopo qualche giorno o qualche mese cadavere. Gettato in una fogna o ai bordi di una strada, dove tutti possono vederlo. E dove tutti possono vedere i segni delle torture subite prima di morire. Si tratta di un modo per avvertire la popolazione che, se fai attività politica, tu potresti essere il prossimo a subire quella sorte. Mesi fa è toccato anche a un bambino di dieci anni, colpevole di appartenere a una famiglia di attivisti. Lei fa parte di un’organizzazione chiamata Baloch Republican Party: cosa chiedete, per cosa state lottando?
Non c’è soltanto il Balochistan Republican Party ma un certo numero di altre organizzazioni, come il Balochistan Liberation Front o il Balochistan Republican Army che combattono con vari mezzi per l’indipendenza. Per cosa lottiamo? Per la libertà. Il riconoscimento dei nostri diritti, il controllo sulla nostra terra, la fine del genocidio ai danni della nostra popolazione. L’indipendenza dal Pakistan, insomma.
Vogliamo un referendum, un referendum di autodeterminazione, sotto l’egida delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea, che permetta alla popolazione del Balochistan di decidere sul proprio futuro. Che ci lascino decidere della nostra terra e di come disporne. Poi, se la maggior parte di noi decide di voler rimanere sotto l’egida di Islamabad va benissimo, chi sono io per imporre la mia volontà al mio popolo? Nawab Bugti ha cercato per anni di negoziare sull’autonomia del balochistan, mettendo da parte le istanze indipendentiste. C’è ancora spazio per trattative in questo senso col governo di Islamabad? Vi accontentereste dell’autonomia rinunciando al referendum e all’indipendenza che, per inciso, il Pakistan non sarà mai pronto a concedere?
Dipende dalla nostra gente, ma per il momento nessuno è disposto a fare un tentativo. Negli ultimi sessanta anni dal governo del Pakistan abbiamo avuto soltanto torture, uccisioni extragiudiziali, prigioni, cadaveri ai bordi delle strade, occupazione militare e oppressione a ogni livello. Abbiamo provato per cinque volte, per cinque volte è finita in un bagno di sangue. Perché dovremmo perdere ancora tempo e vite umane? Sei anni di democrazia a Islamabad non hanno prodotto cambiamenti?
Democrazia? Quale democrazia? Tutti in Pakistan si riempiono la bocca con questa parola ma non ho mai visto alcun segno di democrazia nel Paese. Sfido chiunque a darmi un esempio concreto di un reale processo democratico in Pakistan. La verità è che qualunque gesto o parola di democrazia viene soppressa e schiacciata dalle istituzioni. La gente, e non soltanto in Balochistan, viene uccisa, torturata, minacciata e imprigionata per aver parlato di argomenti scomodi o per aver esercitato i propri diritto di cittadini. Questa è la democrazia secondo Islamabad.
La riforma della tassazione per le imprese Fisco La terza fase della revisione totale del regime fiscale delle imprese è pronta. Andrà in consultazione
in settembre, ma si manifestano già parecchie opposizioni Ignazio Bonoli La consigliera federale Eveline WidmerSchlumpf dovrà affrontare un’altra aspra battaglia per portare in porto la prevista terza riforma della tassazione delle imprese. Il progetto del suo dipartimento verrà probabilmente posto in consultazione a partire dal mese di settembre, ma già i mesi estivi sono caratterizzati da dibattiti sul tema, le cui grandi linee sono già note. Uno dei temi più contrastati è certamente l’introduzione di un’imposta sui guadagni in capitale, anche se accompagnata da una riduzione dei tassi d’imposta sugli utili aziendali. Parecchio contestata sarà anche l’introduzione di 75 nuovi ispettori fiscali federali. A compensazione delle perdite di gettito fiscale sono previsti un aumento della partecipazione dei cantoni all’imposta federale diretta (IFD) e un aiuto temporaneo ai cantoni più deboli. Questa terza riforma della tassazione delle imprese tiene in debita considerazione le numerose critiche formulate
soprattutto dall’UE e dall’OCSE contro la Svizzera e in particolare contro quei cantoni che consentono agevolazioni fiscali particolari alle imprese (vedi «Azione» del 30.6.2014). L’UE include queste problematiche (che qualifica di concorrenza sleale) nell’ampia discussione sugli accordi fiscali bilaterali con i suoi membri. Uno dei punti più importanti della riforma consiste nella soppressione di tre regimi fiscali cantonali particolarmente favorevoli alle imprese, in particolare alle holding, alle società di sede e alle società miste. Se questo dovesse provocare la fuga di imprese interessanti, si avrebbe un calo delle entrate fiscali di 3,6 miliardi di franchi per la Confederazione e di 2 miliardi per i cantoni. Diventano perciò importanti le misure volte a salvaguardare l’attrattività fiscale del Paese. Qui si punta in particolare sul cosiddetto «licence box», che consiste nel ridurre l’attuale livello di tassazione dei brevetti, che dovrebbe compensare per i cantoni interessati la soppressione dei
regimi fiscali particolari. In particolare Basilea spera così di salvaguardare l’importante industria farmaceutica tramite misure analoghe a quelle già in atto presso alcuni Stati. Inoltre, i cantoni dovrebbero ridurre l’attuale tassazione media degli utili delle imprese dal 22 al 16 per cento. Le perdite fiscali si aggirerebbero sui 500 milioni per la Confederazione e su 1,7 miliardi per i cantoni, che potrebbero venire compensati da una migliore attrattività fiscale generale. La Confederazione verrebbe comunque in aiuto ai cantoni, aumentando la partecipazione degli stessi all’IFD dall’attuale media del 17,5 per cento al 20,5 per cento, con un miliardo di franchi di entrate in più delle attuali. I cantoni meno favoriti verrebbero inoltre aiutati con circa 180 milioni in più di sovvenzioni. L’aiuto dovrebbe durare una quindicina di anni. Anche il regime attuale della compensazione finanziaria intercantonale dovrebbe venire adeguato, ma non si sa ancora in quale misura. Accanto a questi aspetti principali
è prevista tutta una serie di misure particolari. Suscita qui qualche perplessità tra i cantoni l’intenzione di assumere, tra il 2015 e il 2018, 75 nuovi ispettori fiscali federali, che dovrebbero procurare nuove entrate per 250 milioni di franchi. È prevista anche la deducibilità fiscale di interessi calcolatori sul capitale aziendale che dovrebbe provocare un calo di entrate di 300 milioni per la Confederazione e di 380 milioni per i cantoni. È inoltre prevista una riduzione dell’imposta sul capitale. Un passo importante nella riduzione della fiscalità verrebbe inoltre compiuto con la soppressione della tassa di emissione di obbligazioni, chiesta da tempo, che provocherebbe un calo del gettito di 200 milioni per la Confederazione. È anche prevista la soppressione del limite di tempo (attualmente 7 anni) della deducibilità delle perdite subite nei periodi fiscali precedenti. È infine prevista una deducibilità dei dividendi pagati dalle filiali per evitare una seconda tassazione presso la casa madre: costo pre-
visto, 200 milioni per la Confederazione. Le prime reazioni indicano che la realizzazione dell’impegnativo programma non sarà semplice. L’opposizione maggiore è sicuramente quella contro l’introduzione di un’imposta sui guadagni in capitale già respinta in votazione popolare in tempi recenti (2001). La Svizzera è infatti uno dei pochi Paesi che prevede già la tassazione del capitale come tale. Un’ulteriore imposta aggraverebbe l’attuale doppia imposizione di utili e capitali. La Confederazione prevede qui un’entrata di 1,1 miliardi, che compenserebbe le perdite previste dalle altre misure, ma non valuta gli effetti negativi della nuova imposta. D’altro canto è prevista anche la revisione dell’imposta preventiva (vedi «Azione» del 23.6.2014), che a sua volta promette maggiori entrate. Ma l’introduzione di questa imposta non è il solo motivo di opposizione. I pareri discordano su parecchi punti e già in fase di consultazione, si potrà sentire l’umore del Paese su questo storico riorientamento della fiscalità delle imprese in Svizzera.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 11 agosto 2014 ¶ N. 33
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Politica e Economia
Ci occorrono più spazi abitativi La consulenza della Banca Migros
Albert Steck è responsabile delle analisi di mercato e dei prodotti presso la Banca Migros
Se ho mal di testa, un farmaco contro il mal di pancia non mi aiuta. Se vogliamo curare il paziente «mercato immobiliare svizzero», dobbiamo prima di tutto capire di quale malattia soffra: il problema numero uno è la scarsa offerta di spazi abitativi. Il grafico mostra che nel nostro paese sorgono ogni anno circa 40’000 nuove unità abitative. Fino al 2006 erano sufficienti per fare fronte al progressivo aumento del numero di abitanti. Da allora, tuttavia, la crescita demografica è raddoppiata, mentre l’attività edilizia ha registrato solo una modesta accelerazione. Ma per eliminare questa carenza di spazi abitativi, inasprire le regole per i futuri proprietari è la medicina sbagliata. Così non viene costruita neanche una casa in più. Le regole possono invece contribuire a limitare la speculazione: durante la bolla negli Stati Uniti molti hanno acquistato una casa non per abitarla, ma con l’intenzione di rivenderla in futuro guadagnandoci. Per questo motivo gli Stati Uniti – contrariamente a quanto avvenuto da noi – hanno vissuto un’enorme sovrabbondanza di spazi abita-
tivi. In Svizzera gli acquisti speculativi sono tuttavia piuttosto rari. Un fatto è certo: il problema più grave del nostro mercato immobiliare non può essere alleviato dall’inasprimento delle regole per l’acquisto di proprietà abitative. E, così come per ogni medicina, non si possono ignorare gli effetti secondari: se l’asticella per l’acquisto di un immobile è fissata su un livello troppo elevato, per esempio impedendo prelevamenti anticipati dalla cassa pensioni, aumentano le pressioni sul mercato degli appartamenti in affitto. Anche qui la scarsa offerta ha già provocato considerevoli rincari. Inoltre, se il tasso di riferimento risale dall’attuale 2 per cento al 3,5 per cento, livello del 2008, gli affitti aumentano di un altro 18 per cento (per ogni quarto di punto percentuale di aumento dei tassi gli affitti salgono del 3 per cento).
La scarsità comporta anche affitti più elevati Per tornare alla sua domanda, la nuova disposizione emanata sull’ammortamento dei prestiti ipotecari non riduce esageratamente il margine di manovra degli acquirenti. Il reddito
L’offerta non basta 120000 100 000
Aumento degli abitanti
80 000 60 000 40 000 20 000
Nuovi appartamenti
0 1993 1995 1997 1999 2001 2003 2005 2007 2009 2011 2013
Il numero delle nuove unità abitative è stabile da 20 anni. La crescita demografica ha invece registrato un notevole aumento dal 2007. Di conseguenza scarseggia l’offerta di spazi abitativi.
necessario sale così del 4 per cento circa, come dimostra il nostro calcolo nell’esempio pubblicato su blog.bancamigros.ch. Tuttavia mi piacerebbe che l’attuale discussione vertesse meno sulle regole e di più su come ridurre la scarsità dell’offerta. Proprio
Dati: BfS
Le regole per l’acquisto di una proprietà abitativa vengono gradualmente inasprite. Presto il ceto medio non potrà più permettersi una casa propria?
di fronte alla mancanza di semplici ricette vincenti, un più ampio dibattito sarebbe particolarmente prezioso. Attualità su blog.bancamigros.ch: Nuove direttive per ammortizzare i prestiti ipotecari. Ecco le conseguenze. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la piazza di Angelo Rossi Economia senza lavoratori Continuiamo le nostre riflessioni estive concentrandoci oggi sul mercato del lavoro. Una decina di anni fa, l’economista americano, Jeremy Rifkin, scrisse un bestseller per spiegare all’opinione pubblica mondiale che, con la rivoluzione digitale, era oramai arrivato il momento in cui non ci sarebbe più stato lavoro a sufficienza. I tre capitoli del libro nei quali Rifkin illustrava le sue tesi si intitolavano «Basta coi contadini», «Appendiamo nell’armadio i colletti blu» (i colletti blu sono quelli delle tute dei lavoratori dell’industria e dell’edilizia) e «L’ultimo dei lavoratori del settore dei servizi». Insomma, stando almeno ai titoli di questi tre capitoli, si trattava di una vera e propria liquidazione della condizione di lavoratore. Perché i lavoratori sarebbero scomparsi? Perché non ce ne sarebbe più stato bisogno. Il lavoro l’avrebbero
eseguito i computer e i robot. La tesi di Rifkin non era nuova. Già negli anni Sessanta, in Europa, c’era chi sosteneva che, con la meccanizzazione e l’automatizzazione, il lavoro sarebbe stato svolto dalle macchine e che, per la maggior parte dei lavoratori, si sarebbe aperta una nuova era del tempo libero e del dolce far niente. Se l’economia non ha più bisogno dei lavoratori perché le macchine sono capaci di assumersi, con costi minori, l’onere della produzione, nascono almeno due problemi che non sono facili da risolvere. Che cosa faranno i lavoratori disoccupati del loro tempo libero e come potranno mantenere le loro famiglie se vengono a mancare loro salari e stipendi? Per rispondere a questi interrogativi sono state formulate molte utopie. Anche Rifkin, naturalmente, aveva pronta la sua risposta: un nuovo contratto so-
ciale. Oggi il libro di Rifkin sembra sia finito nel dimenticatoio. Attualmente si teme invece che nel prossimo futuro non verrà a mancare il lavoro, ma i lavoratori. Lo afferma il Boston Consulting Group, una società di consulenza americana che, negli anni Settanta dello scorso secolo, era diventata famosa per aver introdotto la matrice della crescita aziendale distinguendo tra le divisioni di un’azienda a seconda della loro profittabilità (si parlava di mucche da mungere, cani, stelle e gatti selvatici). Nel rapporto, pubblicato di recente, da questo gruppo di consulenti è stata analizzata la probabile evoluzione dell’offerta di manodopera in 25 Paesi, nel corso dei prossimi venti anni. Il concetto usato per le previsioni è quello interno: si opera quindi con un tasso migratorio nullo. Per la Svizzera i risultati della previsione sono preoccupanti.
Nei prossimi sei anni mancheranno al nostro Paese circa 230’000 lavoratori. Questa cifra corrisponde all’effettivo dei lavoratori frontalieri. Tra il 2020 e il 2030 il deficit del nostro mercato del lavoro salirà a 430’000 lavoratori. Solo la Germania, alla quale mancheranno circa 2 milioni di lavoratori, e il Brasile staranno peggio della Svizzera. Che cosa possiamo dire sul rapporto del gruppo di consulenza americano? In primo luogo che ha certamente ragione se conduciamo il ragionamento estrapolando l’evoluzione della popolazione attiva residente. Il nostro tasso di natalità è troppo basso per assicurare la successione dei lavoratori che vanno in pensione e riempire i nuovi posti di lavoro che potrebbero venir creati dalla nostra economia. L’invecchiamento della popolazione continuerà ad aumentare. Nonostante tutto la Svizzera è
ancora fortunata perché la sua offerta di lavoro interna aumenterà leggermente anche in futuro. Paesi come la Germania, l’Olanda, l’Italia, la Polonia e la Spagna, invece, vedranno la loro popolazione attiva diminuire. Secondariamente possiamo aggiungere che queste previsioni sono state prodotte senza considerare i processi di adeguamento che situazioni di scarsità fanno partire in un’economia di mercato. Se i lavoratori vengono a mancare, aumenteranno i salari e se i salari aumenteranno gli imprenditori o delocalizzeranno le loro aziende, o cercheranno di sostituire il lavoro con il capitale. È certo tuttavia che se la Svizzera potesse tener aperta la valvola dell’immigrazione, l’adattamento alla scarsità dell’offerta di lavoro sarebbe molto meno costoso. In più potremmo conservare i posti di lavoro all’interno dei confini nazionali.
in flessione. Ci sono altri settori che tengono in vita le esportazioni scozzesi (nel 2012, dei 50 miliardi di sterline in esportazione soltanto 18 erano legati al petrolio): whisky soprattutto, ma anche servizi finanziari, assicurativi e bancari. E la buona notizia è che il mercato di maggiore esportazione è quello americano, che con la ripresa economi-
ca dovrebbe espandersi ancora di più. Ma l’equilibrio resta fragile, non tanto nell’immediato del post-indipendenza, ma negli anni successivi. Salmond gioca la carta dell’indipendenza economica come garanzia di un futuro sostenibile. Ma il governo di Londra è minaccioso: i tre partiti più importanti – Tory, Labour e Lib-Dems – sono contrari all’indipendenza, dicono che se Edimburgo vuole stare da sola allora deve rinunciare alla sterlina, chiedono anche alle istituzioni europee di intervenire – l’ex capo della commissione Barroso ha detto che la Scozia indipendente avrà difficoltà a stare nell’Unione europea – e perfino la Nato ha fatto sapere la sua (contraria all’indipendenza) mentre tutti i leader che sono passati da Londra negli ultimi tempi hanno ribadito che un Regno Unito senza unità non è pensabile. Ma sul campo gli unionisti sono poco efficaci, nonostante «Better Together», la principale organizzazione guidata dall’ex cancelliere dello Scacchiere Alistair Darling, abbia parecchi fondi, compreso il milione di sterline donato
dalla «mamma» di Harry Potter, J.K. Rowling. I ragazzi che lavorano per il «no» all’indipendenza con telefonate e porta a porta sono tutti «posh Scots», dicono i detrattori, e hanno inquietanti accenti inglesi. In più il Labour, che ha 41 dei 59 seggi scozzesi a Westminster (i Tory sono detestati in Scozia, i cartelloni indipendentisti più esposti sono quelli che dicono: «Mai più un governo dei Tory!»), sta facendo una campagna solitaria e poco coordinata con gli altri. Quando Darling continua a ripetere che la Scozia da sola non ce la farà, gli scozzesi capiscono: resteremo nell’Unione come i fratelli lamentosi, e la pagheremo cara. I sondaggi dicono che gli unionisti vinceranno, ma secondo molti i valori degli indipendentisti sono sottostimati. Se anche gli unionisti dovessero vincere di misura, la questione scozzese non sarebbe certo risolta. C’è da fare attenzione agli «indecisi», quelli che non hanno ancora deciso: secondo un recente sondaggio, voteranno chi promette 500 sterline l’anno di benessere in più.
razione per quel «giovane di carattere e d’ingegno». Canevascini stesso vedeva in lui la figura in grado di scuotere e rinnovare l’intorpidito PSI. Scriveva a Prezzolini nel gennaio del 1915: «Inutile dirle che io approvo Mussolini, sono col «Popolo d’Italia», seguo con viva simpatia la vostra opera, spiacente di non poter operare con voi come voi. Era tempo che in Italia sorgesse un gruppo di giovani volonterosi che spazzasse via tutto il vecchiume». Piaceva, il compagno italiano, anche ai seguaci del Ferri, benché ad un certo punto facesse capolino un dubbio, un presentimento non proprio fausto per le sorti del movimento operaio: «Benito Mussolini ha già principiato per una china che fatalmente – contro, forse, la sua stessa volontà – lo porterà al nazionalismo, anche se mascherato di socialismo o meglio ancora di rivoluzionario». Intanto cresceva il malumore nei confronti degli svizzeri-tedeschi, accusati di colonizzare l’ancora claudicante
economia cantonale. A quel periodo risalgono pure le prime reazioni degli intellettuali alla strisciante germanizzazione del Ticino. «Economicamente noi dobbiamo dipendere dai tedeschi: ecco l’ideale della patria. E quando tu pensi che economicamente la Svizzera dipende dalla Germania, trovi la chiave del problema. Ora è evidente che la sconfitta della Germania farebbe diminuire la sua influenza economica e libererebbe il nostro Paese da questa situazione»: questa la diagnosi che Canevascini presentava all’amico Angelo Oliviero Olivetti dopo l’avvio delle ostilità. L’entrata dell’Italia in guerra, decisa nel maggio del 1915, fu quindi considerata, e non solo dai socialisti, uno sbocco naturale, atteso, lungamente auspicato per finalmente incavezzare «il mostro tedesco» che si era spinto fin quasi alle porte di Parigi attraversando il neutrale Belgio. Ma per fortuna i bollenti spiriti guerreschi rimasero confinati nelle pagine dei giornali e non trovarono sfogo nelle pubbliche piazze del cantone.
Affari Esteri di Paola Peduzzi Scozia, quo vadis? Il 18 settembre gli scozzesi andranno a votare sul referendum per l’indipendenza, uno dei momenti più importanti della storia britannica moderna. Che faccia avrebbe la nazione Scozia? All’apparenza ricca: il reddito pro capite (circa 25 mila euro l’anno) è inferiore soltanto alla zona di Londra e al ricco sud-est del Regno Unito ed Edimburgo, la nuova capitale, con la piattaforma petrolifera di Aberdeen, sono città in cui i salari crescono in fretta, cosa che non avviene nel resto dell’Inghilterra. Ma è una ricchezza che non ha lunga vita, per ragioni demografiche, innanzitutto: secondo uno studio dell’Institute for Fiscal Studies, un think tank, nei prossimi 50 anni la forza lavoro scozzese diminuirà grandemente (già oggi è sotto la media nazionale) mentre quella del resto dell’Inghilterra crescerà. Ci saranno insomma meno lavoratori e più pensionati. Come ha spiegato l’«Economist», i cinque milioni di scozzesi oltre a essere anziani, non godono di buona salute: uno studio inglese sull’aspettativa di vita situa negli ultimi otto posti tre città
scozzesi. Questo significa che nella Scozia indipendente i costi pensionistici e della sanità saranno progressivamente sempre più elevati, pesando su un settore pubblico che, se si escludono le entrate dal petrolio, è molto indebitato. Il petrolio c’è, però, ripete il «premier» scozzese Alex Salmond che vuole trasformare la Scozia in una nuova Norvegia e che è molto ascoltato non soltanto perché è il primo ad aver portato il sogno indipendentista così vicino, ma anche perché è un ex economista esperto di mercato petrolifero. Il petrolio c’è dagli anni 60, quando fu scoperto, e ha già avuto un grande effetto sul nazionalismo: lo slogan «It’s Scotland’s oil» è una delle chiavi per comprendere l’ascesa degli indipendentisti anche nel Parlamento a Londra. Ma le entrate dalle tasse sul petrolio sono diminuite negli ultimi anni – circa 16 miliardi di euro nel 2008-2009 contro 8,2 miliardi nel 2012-2013 – e le previsioni rosee degli indipendentisti dipendono dal prezzo alto (che non è detto resti tale) e da un output in crescita, quando già nel 2014 i numeri sull’estrazione sono
L’«Economist» ha dedicato un suo numero alla Scozia.
Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Le campane di Basilea e i cannoni d’agosto La «belle époque» che precedette la grande guerra fu un vaso di Pandora da cui eruppero lapilli di sventura. Lo scontro non fu repentino e imprevedibile, come ancora taluno sostiene mostrando le foto di spiagge affollate e di famigliole festanti nell’estate del 1914. I venti tempestosi soffiavano da tempo, tant’è vero che nel 1912 l’Internazionale socialista convocò a Basilea un congresso detto «della pace» in cui si levarono voci angosciate per come evolvevano i rapporti di forza tra le grandi potenze europee. I crescenti appetiti coloniali non potevano che sfociare presto o tardi in contrasto aperto per il predominio sull’Africa e su altri territori extra-europei ricchi di materie prime. Il congresso di Basilea, organizzato nel mese di novembre del 1912, vide affluire sulle sponde del Reno oltre cinquecento delegati provenienti da ventitré Paesi. La sfilata per il centro città fu salutata da migliaia di militanti, lavoratori e semplici cittadini, accorsi dai principali centri industriali del continente. Le «campane
di Basilea», dalle quali poi Louis Aragon trasse ispirazione per un suo romanzo (Les Cloches de Bâle), erano quelle del Münster, cattedrale concessa dalle autorità religiose per il raduno. Vasta eco ebbe il discorso di Jean Jaurès, leader del partito socialista francese, in seguito assassinato (31 luglio 1914) in un caffè di Parigi da un fanatico nazionalista. L’Internazionale avrebbe dovuto scongiurare l’immane urto che già si profilava all’orizzonte. Di fatto i singoli movimenti nazionali guidati dai rispettivi partiti già marciavano in direzione opposta. Perfino il partito più forte, la socialdemocrazia tedesca, si era schierata al fianco del Kaiser. L’approvazione dei crediti di guerra, scrisse Rosa Luxemburg, ridusse il partito-guida del socialismo europeo ad un «fetido cadavere». Le cose non andarono meglio – fatte le debite proporzioni – nel piccolo Ticino. Qui la sparuta pattuglia dei socialisti trovò addirittura il modo di scindersi ulteriormente: da un lato i veterani legati
al capo storico Mario Ferri, dall’altro il gruppo influenzato da Guglielmo Canevascini, impaziente segretario della Camera del Lavoro; i primi orientati dal giornale «L’Aurora», i secondi da una nuova testata fondata nel 1913, «Libera Stampa». I battibecchi tra le due fazioni non mancarono, anche perché entrambe seguivano con trepidazione gli spasmi di cui era preda il Partito socialista italiano, anch’esso spaccato al suo interno tra un’ala neutralista e un’ala interventista. Tra gli interventisti spiccava un aitante romagnolo, Benito Mussolini, che alcuni anni prima aveva vagabondato in terra elvetica, e infine era stato espulso. Gli interventi del Mussolini socialista non passavano mai inosservati. Le sue iniziative – tra cui la fondazione del periodico «Utopia», stampato a Lugano dal novembre 1913 al dicembre del 1914 – accendevano ogni volta furiosi dibattiti tra i militanti e gli attivisti del sindacato. I dissidenti di «Libera Stampa» non nascondevano la loro ammi-
Grande concorso per l’inizio dell’anno scolastico! In palio 9 cartelle e 333 scatole di matite colorate Caran d’Ache! Chi vuol dare il meglio di sé, non importa se a ginnastica o a matematica, e restare forte durante tutta la vita come Lovely, deve semplicemente mangiare o bere, ogni giorno, 3 porzioni di latte o latticini: 1 bicchiere di latte, 1 yogurt e 1 pezzo di formaggio. Riuscirà così nel migliore dei modi, a scuola e nello sport. A tutte le bambine e a tutti i bambini auguriamo un buon inizio di anno scolastico!
www.swissmilk.ch
Concorso: Si può partecipare mediante cartolina postale o su www.swissmilk.ch Incollare il talloncino su una cartolina e inviare a: Produttori Svizzeri di Latte PSL, «Inizio anno scolastico», casella postale, 3024 Berna.
Condizioni di partecipazione: Termine di invio: 22.09.2014. Possono partecipare tutte le persone domiciliate in Svizzera, eccezion fatta per le/i collaboratrici/tori della Federazione dei Produttori Svizzeri di Latte PSL. Non si prevedono premi in contanti. Sul concorso non si tiene alcuna corrispondenza. Il ricorso è escluso. Partecipando, Lei autorizza i Produttori Svizzeri di Latte e i loro partner a utilizzare i dati che La riguardano per eventuali scopi di marketing. I dati sono trattati nel rispetto della loro confidenzialità.
Domanda: Che cosa aiuta a riuscire bene, a scuola e nello sport?
T 1 porzione di patatine fritte al giorno T 3 porzioni di latte e latticini al giorno T 1 tavoletta di cioccolato al giorno (324 008 302) Mittente: T signora T signor T con me vivono anche dei bambini nome
cognome
via
NPA / località
n. di tel. durante il giorno
data di nascita
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Cultura e Spettacoli La Grande Guerra Scetticismo e paura nelle illustrazioni di una mostra a Forte dei Marmi
L’inarrestabile ascesa di Jay Z Come pochi altri, il rapper Jay Z ha saputo imporsi ai suoi fan come inarrivabile icona musicale
Il luogo più tranquillo In un recente saggio l’autore austriaco Peter Handke discetta sull’angolo più privato
In viaggio con Terry Blue Continuano i viaggi estivi con persone del nostro cantone molto vicine alla musica
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Strappi d’arte Mostre Palazzo Reale a Milano ospita il maestro del décollage Mimmo Rotella Alessia Brughera Di notte si aggirava per le strade di Roma strappando i manifesti pubblicitari attaccati ai muri della città, poi si rifugiava nel suo studio e qui incollava i brandelli su un supporto per poi lacerarli nuovamente: era il 1953 e Mimmo Rotella inventava i décollages. «Strappare i manifesti dai muri» ebbe a dire l’artista «è l’unica rivalsa, l’unica protesta contro la società che ha perduto il gusto dei mutamenti e delle trasformazioni strabilianti. Io incollo i manifesti, poi li strappo: nascono forme nuove, imprevedibili. Ho abbandonato il cavalletto per protesta. Se avessi la forza di Sansone incollerei Piazza di Spagna». Proprio dal 1953, anno della sua «illuminazione», prende avvio la mostra che Palazzo Reale a Milano dedica all’artista di origine calabrese, arrivando con oltre centocinquanta opere a documentare il decennio che fu cruciale per la formulazione del suo linguaggio. Un momento di tenace ricerca e di proficui confronti, quello, che culminò nel 1964 con la partecipazione alla XXXII Biennale di Venezia, attraverso cui Rotella ottenne la consacrazione definitiva. Dal 1946 al 1952 l’artista vive un periodo di forte crisi perché si rende conto che il genere astratto, che pur aveva sperimentato, è troppo distante dalla realtà. Ritornare al figurativismo avrebbe significato regredire, così decide di connettere l’arte direttamente con la vita penetrando prepotentemente nel mondo che lo circonda. Ed è la strada, traboccante di immagini popolari, il luogo d’eccellenza dove trovare il materiale adatto a concretizzare la sua nuova visione. Di questa realtà identifica i simboli più immediati: i manifesti pubblicitari disseminati nel territorio urbano hanno un potenziale artistico enorme perché sono la testimonianza più vera della vitalità della città e del suo rapido evolversi. Rotella trasferisce così sulla tela l’energia e il dinamismo rubati alla metropoli, creando décollages in cui i frammenti dei cartelloni strappati vengono assemblati su una superficie di cartone o di stoffa grezza e poi ridotti nuovamente a brandelli tramite l’uso di un raschietto appuntito. Si tratta di un’immagine trovata, non più dipinta, che Rotella investe di senso e rende propria attraverso un gesto significativo che la fa divenire una sua creazione. Il manifesto diventa arte. Ai décollages si accostano presto anche i retro d’affiches, opere in cui l’artista applica al telaio la parte posteriore del cartellone pubblicitario con tutto ciò che la colla utilizzata per affiggerlo porta con sé durante lo strappo. Ecco allora che ai lacerti di carta si aggiungono altri elementi quali pezzi di intonaco, terra, tracce di ruggine, colla,
Un celebre décollage di Mimmo Rotella.
muffa. Adesso è la materia a essere protagonista, originando una superficie informe, un magma casuale di componenti che riflette ancor più il caos della realtà esterna, della quale l’artista ha la necessità di far parte. Se nei décollages Rotella avvicina e sovrappone stralci di manifesto dalle tinte intense e vivaci, manipolati anche con l’intervento del colore, nei retro d’affiches mantiene quasi immutato il reperto urbano. Nella mostra milanese è decisamente suggestivo vedere da una parte i grandi décollages con la loro esplosione di nuance squillanti e le loro grafiche di richiamo che quasi aggrediscono visivamente lo spettatore, dall’altra i più smorzati retro d’affiches, come per esempio Not in Venice, del 1959, in cui la cromia pastosa dei vari elementi lasciati così come sono è fatta di tonalità basse e spente, ma dove la superficie granulosa e ispessita dai molteplici strati di frammenti conferisce all’opera una fisicità di grande impatto.
Non dimentichiamo che questi sono gli anni in cui si affaccia un fenomeno assolutamente nuovo, caratterizzato dall’enfasi posta dagli artisti sul segno, sul gesto o sulla materia. Emerge la potenza dirompente dell’action painting americano e dell’astrazione informale europea. Sono anche gli anni in cui a Roma, città che vede protagonista Rotella a partire dal 1952, sono in atto le grandi sperimentazioni di Burri e Fontana, che portano avanti le loro ricerche spaziali e materiche giustapponendo elementi eterogenei sulla tela. In Rotella c’è questo e molto altro, perché ha saputo assorbire con senso critico le più importanti correnti artistiche di quel periodo riuscendo poi a rielaborarle con audacia. Il gesto che sta alla base dei décollages è dettato dall’esigenza di entrare nel progresso, e questo è sicuramente un retaggio del Futurismo. Incollando sulla tela i pezzi di manifesti strappati adotta il collage dei cubisti accostandolo al concetto
dadaista del ready-made. Nella scelta di utilizzare i simboli mediatici e la cultura figurativa dei cartelloni pubblicitari si avvicina alle esigenze della Pop Art (che conosce grazie ai contatti che intesse con gli Stati Uniti). La casualità con cui prende le immagini della città e le accumula sulla superficie si avvicina al flusso di segni ammucchiati sulla tela dagli artisti dell’Informale e dagli espressionisti astratti americani. Di tutte queste contaminazioni rende conto in maniera accurata il percorso espositivo di Palazzo Reale, proponendo insieme ai lavori di Rotella quelli di artisti quali Filippo Tommaso Marinetti, Enrico Prampolini, Kurt Schwitters, Jean Fautrier, Lucio Fontana, Alberto Burri, Piero Manzoni, Andy Warhol e Michelangelo Pistoletto. A questi si aggiungono anche Jacques Mahé de la Villeglé, Yves Klein e Christo, che con Rotella condividono l’esperienza del Nouveau Réalisme, tutti chiamati a farvi parte negli anni
Sessanta dal critico francese Pierre Restany per il loro comune intento di realizzare opere con materiali prelevati dal contesto reale. Emerge così dalla mostra di Milano la figura di un artista il cui cammino è contrassegnato da una costante ricerca e che ha raggiunto risultati di grande originalità. Acuto interprete della contemporaneità, Rotella è stato capace di disgregare le icone rappresentative della società e di proseguire verso la costruzione di un nuovo modo di vedere la realtà. Dove e quando
Mimmo Rotella. Décollages e retro d’affiches, Palazzo Reale, Milano. Fino al 31 agosto 2014. A cura di Germano Celant, Orari: lunedì 14.30 – 19.30; martedì, mercoledì, venerdì e domenica 9.30 - 19.30; giovedì e sabato 9.30 - 22.30, Catalogo Skira Editore, www.comune.milano.it
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Cultura e Spettacoli
Far fronte alle esigenze della memoria Mostre La «Grande Guerra» e il disincanto degli artisti illustrati attraverso vignette, acquarelli e manifesti
in una mostra in corso fino alla fine di settembre a Forte dei Marmi Luciana Caglio Si scrive con la maiuscola «Grande Guerra», alla stregua di un nome proprio che definisce una singolarità: quella di un avvenimento senza pari e senza precedenti. Fu, infatti, il primo esempio di conflitto totale, in grado di coinvolgere il mondo intero e la società in tutte le sue componenti. Si combatteva sul fronte militare, collaudando nuove armi, dagli effetti micidiali: oltre dieci milioni di vittime. E si combatteva sul fronte civile, con le armi di opinioni e di sentimenti contrastanti, diffuse da nuovi mezzi di comunicazione: giornali, manifesti, vignette, fogli di trincea. Si trattava insomma, ed era la prima volta che succedeva, di propagandare una guerra patriottica ma anche discussa e avversata, raccontandola e soprattutto illustrandola. Un compito che spettò agli artisti, chiamati a mettere il loro talento al servizio di una causa superiore: esaltare la patria e denigrare il nemico, tener alto il morale della truppa e condannare il disfattismo. In realtà, le risposte a quest’invito furono ben altre. Per molti artisti, la Grande Guerra, vissuta al fronte o nelle retrovie, doveva trasformarsi in un’esperienza umana sconcertante, carica di contraddizioni e di angosciosi interrogativi. Forse, «un’inutile strage», come l’aveva definita Papa Benedetto XV? Le testimonianze di un conflitto, percepito dallo sguardo disincantato dell’artista, sono riunite in una mostra al Museo della satira di Forte di Marmi che si presenta con il titolo, già rivelatore, La danza macabra della Grande Guerra e con il manifesto La sarabanda finale, opera simbolica di Mario Sironi. La tavola, pubblicata nell’ottobre 1918, doveva alludere alla vittoria, ormai prossima. Invece, l’immagine è cupa, densa di inquietanti presagi. Ritrae una folla di soldati scheletrici e impauriti che, innalzando le tre teste impalate del Kaiser e dei suoi generali, non festeggia. Sembra,
Mario Sironi, Studio per chiaro di luna, 1915.
piuttosto, avvertire minacce incombenti. E in ciò si rispecchia il percorso interiore dell’artista. Sironi, fedele all’ideologia futurista, si era arruolato volontario e, dapprima, fu combattente con il fucile, poi con la penna e il pennello. La guerra, considerata giusta ai fini dell’unità nazionale, gli mostrò l’altra faccia: la sofferenza, la crudeltà, l’incongruenza di un conflitto non risolutivo che, spesso, ne implica un altro. E, intanto, sacrifica vite umane. Più di mezzo milione di morti, nella sola battaglia di Verdun. Domina il senso della morte in molte delle opere esposte, che provengono, insieme a documenti d’epoca (lettere, cartoline, manifesti, volantini, giornali), dalla collezione di Lodovico Isolabella, (l’industriale dell’omonimo Amaro 18). Sono, paradossalmente,
gli stessi artisti, fautori dell’intervento armato, «sola igiene del mondo» come diceva Marinetti, che, a contatto con la vita di trincea, diventano spettatori di una tragedia che sgomenta. Ed è questo sentimento a ispirare una creatività che induce alla riflessione attraverso immagini di forte impatto emotivo. Ne è un esempio l’impressionante acquerello di Ezio Castellucci In cima alla montagna dei teschi, dove siede il Kaiser, simbolo appunto di un tragico massacro. In forme grafiche diverse, si ritrova la stessa atmosfera di lutto nelle cartoline della serie Danza macabra europea di Alberto Martini. E c’è una vena amara anche nell’ironia di Antonio Rubino, futuro disegnatore disneyano: nella vignetta Santa Vittoria il soldato italiano esulta calpestando, però, il corpo di un nemico.
Non mancano le testimonianze di artisti, impegnati sul fronte pacifista: Giuseppe Scalarini, collaboratore del quotidiano socialista «Avanti», autore della serie di volantini Abbasso la guerra, in cui il cittadino civile, onesto lavoratore, quando ha in mano il fucile si trasforma in belva. Singolare, poi, l’esperienza di Gabriele Galantara: socialista anticlericale, si converte all’interventismo per «sconfiggere la Mitteleuropa, covo di reazionari e militaristi». Famosa la sua vignetta La Germania che mangia l’Italia, per certi versi di nuovo attuale. Fra le presenze meno ideologicizzate, emerge Lorenzo Viani, con gli stupendi ritratti di Soldati, compreso un austriaco. E, autentica rivelazione della mostra, Gio Ponti, futuro architetto e designer di prestigio, con le caricature della quoti-
dianità militare, vista con un umorismo non astioso. Con questa mostra, che accoglie anche testimonianze dell’iconografia austro-tedesca (le medaglie di Karl Goetz e le carte geografiche di Walter Trier) la ricorrenza del centenario 1914/2014 si celebra in termini appropriati: sottraendola alla retorica e proponendola come esigenza della memoria. Dove e quando
La danza macabra della Grande Guerra, Forte dei Marmi, Museo della Satira e della Caricatura. Fino al 28 settembre. Mostra e catalogo a cura di Cinzia Bertolotti, Franco Coltoti, Linda Gufoni. www.museosatira.it
Wagner tra ironia e rivoluzione Festival di Bayreuth 2014 Il programma di sala del Ring di quest’anno, nonostante sia stato definito dalla stampa
tedesca «un fiasco tecnico», è all’insegna dell’ironia, figlia anch’essa delle Muse Sabrina Faller Doveva essere un’edizione tranquilla, quella del 2014, la 103esima. Dopo i fasti del 2013, anno del bicentenario wagneriano, con l’allestimento del molto discusso Ring del regista tedesco Frank Castorf, direttore della Volksbühne di Berlino, il Festival di Bayreuth quest’anno non propone nuove produzioni. Su questa non-notizia i giornali si sono scatenati, scrivendo di crisi e assenza di pubblico. Niente di tutto ciò: il
«riposo» produttivo era annunciato da tempo e serve a compensare lo sforzo finanziario dello scorso anno, quattro spettacoli in una volta sola, quando di solito il festival ne produce uno nuovo all’anno. Vero, la Cancelliera Angela Merkel era assente all’inaugurazione, ma del resto il Tannhäuser l’ha già visto nel 2011 e la regola del festival impedisce di inaugurare con Rheingold perché la Tetralogia è un evento unico e indivisibile, e gli ospiti del mondo politico difficilmente potrebbero fermarsi a
Una scena del Rheingold. (Bayreuther Festspiele/Enrico Nawrath)
Bayreuth per quattro sere di fila. Tranquilla però l’inaugurazione del 25 luglio non lo è stata, perché a venti minuti dall’inizio, in pieno Venusberg, la parte tecnica ha ceduto e lo spettacolo è stato interrotto per 45 minuti, che il pubblico ha trascorso nel parco del Festspielhaus. «Ein technisches Fiasko», come dice la stampa locale, non è un gran bel biglietto da visita, ma può capitare. Il teatro è sempre gremito e fuori dalla biglietteria c’è la solita folla con cartello «suche Karte». E la fede riesce a fare il miracolo più spesso di quanto normalmente si pensi. Quest’anno il programma di sala del Ring è all’insegna dell’ironia: una bella citazione da Jankelevitch indica un’ironia «fondamentale che si confonde con la conoscenza e che è, come l’arte, figlia delle Muse». È un’indicazione del regista per chi assiste a questo Ring. Occorre una mente aperta all’esercizio del senso dell’umorismo necessario per accettare i momenti più provocatori dell’operazione registica. La lettura del ciclo wagneriano secondo Castorf passa attraverso la storia dell’oro nero, il petrolio, e delle lotta fra due sistemi politici, capitalismo e comunismo, che si sono contesi il Novecento. La regia si serve di una meravigliosa scena girevole del grande Aleksandar Denic (ci vorrebbe almeno un premio Oscar per celebrarne degnamente il lavoro), ma anche del
cinema, utilizzato con raffinatezza e pertinenza da Andreas Deinert, collaboratore di Castorf, che non è per nulla nuovo a questo mix. Il Rheingold ambientato in un infimo motel della California sulla Route 66 è il tassello più riuscito della Tetralogia, con un cast pressoché perfetto (peccato per la sostituzione dell’eccellente Martin Winkler nel ruolo di Alberich con Oleg Bryjak, troppo convenzionale per questa produzione) in cui gli interpreti sono chiamati ad esprimersi come attori di teatro e di cinema oltre che come cantanti. Wolfgang Koch resta un magnifico Wotan, attento a mostrarcene il progressivo malinconico declino, le tre figlie del Reno (Mirella Hagen, che è anche il Waldvogel in Siegfried, Julia Rutigliano e Okka von der Damerau) non sono da meno. Johan Botha rimane un Siegmund inadatto a una produzione in cui la voce non basta, alieno alla Sieglinde dell’assai più agile Anja Kampe, mentre Catherine Foster si conferma una buona Brunilde, e Lance Ryan continua a perdere colpi (di voce) a fronte di una presenza scenica sempre importante ma incapace di assolverlo dalla fondamentale colpa di avere perso il potente e voluminoso strumento vocale che lo aveva fatto definire dalla critica «il Siegfried dei nostri tempi». Se ne è andato anche Franz Josef Selig dal ruolo di Hunding, ma l’ha sostituito il de-
gno Kwangchoul Youn. E non si può dimenticare la sensualissima Nadine Weissmann nel ruolo di Erda, vero e proprio gioiello della produzione. Dei quattro tasselli del Ring, resta Siegfried il più difficile da accettare per il pubblico. Un po’ per il rumore che a tratti sovrasta e sostituisce la musica di Wagner (il mitra di Siegfried, i rifiuti che invadono la scena ), ma che infine curiosamente la esalta. Un po’ per l’ironia che pervade anche le scene più «sacre», come il duetto d’amore tra l’eroe e Brunilde. I coccodrilli che disturbano i due amanti con le loro gag sono ormai divenuti celebri, ma il punto è che il Siegfried di Castorf è tutto fuorché un eroe. Il direttore d’orchestra Kirill Petrenko rimane in crescita, ma gli accapponamenti di pelle al funerale di Sigfrido sono di là da venire. Nei prossimi anni la linea innovatrice e anti tradizionale di Bayreuth proseguirà, essendo stata riconfermata alla direzione artistica Katharina Wagner fino al 2020, mentre alla sorella Eva dal 2015 è stato offerto un contratto di consulenza. L’anno prossimo ci attende la nuova edizione di Tristan und Isolde per la regia della stessa Katharina, poi Parsifal di Jonathan Meeses nel 2016 e i Maestri cantori di Barrie Kosky nel 2017. La direzione musicale di Christian Thielemann è una garanzia di qualità altissima, e in scena ne vedremo di tutti i colori.
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Cultura e Spettacoli
Jay Z, l’icona perfetta Musica Adorato dai rapper alle prime armi, dagli intenditori, dagli ascoltatori occasionali, Jay Z è sicuramente
tra i personaggi più influenti della scena hip-hop, oltre che un’icona perfetta e il marito di Beyoncé Big Bang Family «Non dimentichiamo mai da dove veniamo»(American Gangster). La storia di Jay, all’anagrafe Shawn Corey Carter, non è molto differente dalla celebre pellicola di Ridley Scott, American Gangster con Denzel Washington nel ruolo del narcotrafficante e con Russell Crowe in quello del capo della narcotici. La trama del celebre film si sviluppa attorno alla figura di Frank Lucas (interpretato da Denzel Washington), un genio del crimine divenuto poi uno dei più grandi imprenditori d’America, proprio com’è successo a Jay. Cresciuto per le strade di Brooklyn, Shawn stringe legami con la malavita immischiandosi in sparatorie e storie di spaccio. «Quando sei negato a scuola e ti devi ritirare perché costa troppo cominci a girare per le strade e conoscere persone, nel mio quartiere giravano solo spacciatori e così lo sono diventato pure io». Già noto con le rime di Schoolly D il gangsta rap diventa un vero e proprio rifugio per i rapper di periferia, un’alternativa composta da successo facile e icone discutibili come quelle create da Martin Scorsese (Goodfellas) e Brian De Palma (Scarface). L’impatto di questo genere musicale sulle masse fu socialmente devastante, artisti mainstream proclamavano la malavita ed il culto per le gang screditando l’istituzione e l’autorità. Musica e malavita, rapper e gangster, personaggi e persone cominciarono a mischiar-
Il rapper americano Jay Z in una recente immagine. (Keystone)
si sempre di più, anche se c’è chi voleva chiudere con quella vita. Jay o Jazzy cominciò ad autoprodursi dedicandosi alla musica e al business musicale fondando Roc A Fella Records e non firmando per una delle tante major esistenti poiché queste volevano costruire un personaggio mentre Jay lo era già. «Il più chiassoso nella stanza è il più debole della stanza» (American Gangster). Sicuramente Biggie aveva più charme, 2Pac aveva molta più personalità e ci sono decine di rapper che ricoprono meglio il ruolo di star hollywoodiana, ma proprio con questo contraddistinto modo di non dare evidente scalpore Jay
Z è diventato una delle icone musicali più forti al mondo, un brand. Capace di curare il suo prodotto come se fosse un’opera d’arte, Jazzy è un vero e proprio artista, infatti ha recentemente sfruttato uno spazio espositivo per riprendere la sua performance canora Picasso Baby, realizzando così il videoclip della traccia, coinvolgendo colleghi (artisti) e fan. Già prima di quest’esperienza legata all’ultimo album Magna Carta Holy Grail (2013), Jay, aveva dimostrato particolare interesse nel curare, in maniera quasi maniacale anche grafica e video. No Church In The Wild, tratto dall’album Watch the Throne in collaborazione con l’amico Kanye West, è solo uno
dei tanti capolavori cinematografici, un «piccolo film», che conferisce un plusvalore alla canzone. Sempre più spesso, infatti, anche parlando di musica rap e senza dover andare negli Stati Uniti, pare che la musica stessa non basti più. Ecco che si ricorre all’ausilio di video, grafiche e merchandising particolari per poter vendere meglio il proprio prodotto, dedicando moltissima attenzione a come viene mostrato e pochissima a come suona il pezzo e che messaggio esprime. Possedere un disco musicale pare diventato solo un pass d’accesso per poter fare una foto con l’artista, per poter chiedere una firma, l’oggetto fisico e la musica hanno
perso valore e anche se questo discorso non riguarda Jay direttamente quale icona musicale, una delle domande più frequenti che gli vengono poste è: Come vedi il panorama hip-hop? «L’hip hop è sempre stato così: ogni tanto s’impantana, ma poi arriva sempre qualche artista a schiodarlo, è sempre successo e succederà ancora. Bisogna dedicarsi al pubblico adulto, a quello capace di amare o odiare i tuoi dischi, fare musica per loro, stampare i dischi per loro. La musica stabilisce un contatto diretto con l’anima delle persone, mostra ciò che l’artista ha dentro, ci sono molti artisti vuoti, così come ci sono pessime canzoni, tutto a suo tempo. Io difendo la mia musica concependola come rappresentazione della realtà, ho ambizioni più grandi rispetto chi la usa per fare semplice intrattenimento». «Lasciare quando ancora si vince, non è lo stesso che lasciare». (American Gangster) «Pensare di smettere? Mi è capitato di frequente, quasi dopo ogni disco, anche se in particolar modo dopo Black Album (2003) ero sicuro che avrei smesso. Mentre lavori a un disco pensi: dopo questo non avrò più niente da dire, ho già raccontato tutto di me. Poi ascolti dischi epici, appena usciti o già editi da tempo e dici: Questo disco è troppo bello, la prendi come una “sfida personale” e sai che l’unico modo per rispondere è continuare cercando di superare quell’artista e per superare album come quelli di Biggie, 2Pac o The Chronic di Dr. Dre ci può voler un’intera carriera». Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Alla ricerca di un luogo tranquillo Pubblicazioni È di recente pubblicazione un interessante saggio di Peter Handke intorno al luogo
più discreto e appartato della vita di ognuno di noi Luigi Forte «Il luogo più caro della terra per lui/ non è l’aiuola sulla tomba dei suoi/ non il confessionale, non un letto di bagascia,/ e non un grembo morbido, bianco caldo e grasso: – scriveva Bertolt Brecht nel suo primo dramma Baal –: il luogo più diletto /per lui sopra la terra fu sempre il gabinetto». Era il 1918 e da allora la letteratura ha visitato più di una toilette. Basti pensare al grande scrittore austriaco Thomas Bernhard, famoso per le sue tirate contro il proprio paese. Nello splendido romanzo Antichi maestri (Adelphi, 1992) Vienna, la città della musica, fa una pessima figura: le sue latrine sono fatiscenti, stambugi nauseabondi come da nessun’altra parte in Europa. Per fortuna ci ha pensato il suo connazionale Peter Handke a risollevarne ruolo e funzione. Nel suo Saggio sul Luogo Tranquillo uscito in originale nel 2012, in occasione dei settant’anni dell’autore, e ora proposto nell’ottima versione di Alessandra Iadicicco dall’editore Ugo Guanda, lo scrittore rovista nella propria infanzia guardando dal buco del suo buen retiro preferito. C’è spesso qualcosa di ossessivamente autobiografico nella prosa di Handke. Qui riemerge la figura del ragazzo riluttante e insofferente di ogni compagnia. Nel suo Luogo Tranquillo, affrancato da volgari e prosaiche implicazioni, egli cerca sé stesso. In Carinzia, nel casolare del nonno, come nelle stazioni ferroviarie, in collegio
Lo scrittore austriaco Peter Handke. (Keystone)
o all’università di Graz, su un aereo, magari da Mosca a Berlino, nell’area di un tempio a Nora in Giappone o a Cascais in Portogallo: dovunque, negli anni si manifesta l’esigenza di un luogo isolato, di una postazione da cui osservare il mondo con la percezione gratificante di un silenzio che si spande ovunque e prepara alla comunicazione, al proprio rientro nella realtà. Nella fitta trama di ricordi e di sensazioni, con balzi improvvisi nello spazio e nel tempo, il viandante Handke cerca un
posto fisso per scoprire altresì le ragioni del proprio nascondimento. La sua prosa è minuziosa, capillare, le sue digressioni eleganti e tali da trasformare l’apparente banalità del tema in oggetto di sofisticata conoscenza. E le toilette sparse nella sua biografia si sublimano in una sorta di metafora: non spazio di deiezioni, ma luogo di metamorfosi, «interamente concepito per il riposo dello spirito», come affermava nel Libro d’ombra lo scrittore giapponese Tanizaki molto amato da Handke.
Certo si ha non di rado la sensazione di muoversi su un crinale assai sottile, fra sublimi riflessioni e gustose, quasi ironiche o parodistiche performance. Come quando il giovane Peter trascorre la notte nella toilette di una piccola stazione ferroviaria austriaca «sdraiato a semicerchio intorno alla tazza smaltata», mentre cerca di leggere i Buddenbrook di Thomas Mann ascoltando una leggera brezza che lo riporta con la fantasia alle lontane sponde del Mississipi e ai romanzi di
William Faulkner. O quando all’alba, nella toilette del tempio di Nara si sente trasformato, pervaso da un’indistinta energia vitale: ecco, quello fu anche un luogo di liberazione – ricorda –, ma, s’intende, dello spirito pervaso ora da un «fuoco inestinguibile». Come Tanizaki anche lo scrittore austriaco sembra inseguire una chiarità che si annida nell’ultima particella d’ombra. Il suo saggio-romanzo lo ha scritto fra Parigi e la Normandia, vagando per le campagne e i boschi in totale solitudine. Pensando ai molti rifugi cercati e scovati nella sua esistenza: capanni, rimesse dei tram, sottoscala, bunker sotterranei. Ma nessuno ha soddisfatto la sua curiosità, il gusto per lo sguardo inedito, l’ossessione per la solitudine come il suo Luogo Tranquillo per eccellenza, che al di là della cosa in sé, da ultimo lo accompagna come idea. È il problema attorno a cui ruota il linguaggio, «la lingua di un narrare che perlustra e delinea». Forse Handke ci ha raccontato ancora una volta l’enorme fatica di ritrovare la parola per tornare fra gli altri. Il percorso, come egli dice, dal mutismo al linguaggio. Ma ci vuole il suo talento per udire dall’angusto spazio di infinite toilette, vere o presunte, le mille voci del mondo. Bibliografia
Peter Handke, Saggio sul Luogo Tranquillo, trad. di Alessandra Iadicicco, Ugo Guanda Editore, Parma, p. 108, Є 13,00. Annuncio pubblicitario
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Tutte le parole del mondo Pubblicazioni Un panorama delle lingue
Stefano Vassere «I Caraibi insulari avevano mosso guerra a genti di lingua arawak, uccidendone gli uomini e prendendone le donne, ripopolando le isole con donne che continuarono a tramandare la lingua arawak alle figlie, affidate alle loro cure, ma non ai figli maschi, che consideravano effeminato l’arawak e presto adottavano la lingua caraibica dei padri». Certo che ci vuole un gran coraggio a decidere di scrivere un libro dal titolo così incontrollabile e ambizioso come questo Le lingue del mondo del linguista e dialettologo, oltre che esperto di lingue del Corno d’Africa, Giulio Soravia. Ci vuole un bel fegato perché un conto è evocare l’immagine e un conto è cercare di afferrarne la sostanza, talmente vasta e inusuale da sembrare scientificamente intrattabile. Eppure c’è, nella linguistica moderna e nella sociolinguistica in particolare, una squadra di indomiti ricercatori che, in barba a questa mostruosa materia, cercano di dare ordine, trovare linee generali, identificare categorie comuni. E soprattutto, questi entusiasti, si concentrano su due filoni fondamentali: che cosa hanno in comune le lingue del mondo o almeno alcune di loro e, se si può, quale è l’origine delle lingue, di tutte le lingue. L’origine delle lingue, prima di tutto. È pieno di miti sull’origine del linguaggio, come, banalmente, la Torre di Babele della Genesi e in genere il mito biblico dell’umanità nascente che condivideva una sola lingua, o l’interpretazione del mito babelico dei rom, secondo il quale «gli uomini costruirono la Torre non per superbia, bensì per onorare Dio e il premio divino non si fece attendere: ciascun essere umano ricevette in premio una lingua». Capito? La moltiplicazione delle lingue come dono, altro che Babele tradizionale. Certo c’è anche la parte più scientifica: da qualche anno ci sono degli studi sulle mandibole di qualche essere a metà tra la scimmia e l’uomo trovate chissà dove, che dimostrano che solo da un certo punto in avanti quegli esseri erano in grado di articolare suoni «superiori» e che quindi è probabile che solo da
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M. Wahlberg, T. Kitsch 6. Monuments Men
G. Clooney, M. Damon
lì l’umanità abbia cominciato a parlare. Il tema dell’origine del linguaggio doveva essere diventato ben barboso se verso la metà dell’Ottocento la prestigiosa «Société Linguistique de Paris» comunicò che «la Società non ammette alcuna comunicazione concernente sia l’origine del linguaggio sia la creazione di una lingua universale». Poi ci sono i modi per classificare le lingue e dare un senso alla loro moltitudine. Così questo libro porta un capitolo sulle diverse classificazioni e uno sulle tipologie, entrambe basate sui tratti delle lingue stesse. Ma le lingue possono essere ordinate anche con le caratteristiche non eminentemente strutturali: per esempio si comincerà a mettere insieme quelle che sono lingue ufficiali, quelle di portata internazionale, quelle che diventano lingue liturgiche, quelle imposte e vietate dalle autorità, quelle minacciate, quelle scomparse, quelle recuperate, quelle improvvisamente rivitalizzate dalle contingenze più strane. Fino alle categorie più imprevedibili: su tutte, le lingue fischiate contrapposte a quelle tamburate. Certo è che di scatoline dove mettere le lingue per incolonnare la loro infinita serie se ne potrebbero inventare moltissime: le lingue parlate anche nei cartoni animati, quelle per cui esiste un’edizione di Harry Potter, quelle che hanno almeno una facoltà o uno straccio di centro che le studia, quelle in cui è scritto il sistema operativo del vostro telefonino, quelle in cui è tradotta la canzone Je t’aime moi non plus e così via per omnia saecula saeculorum. Basta dare etichette, trovare parentele, raggruppare attorno a una qualsiasi logica. «La più famosa e studiata tra le lingue fischiate è il silbo gomero dell’isola di La Gomera nelle Canarie. Dichiarata protetta dal governo delle isole si tratta di un sistema che fa uso di otto segnali fischiati, udibili anche a distanza di chilometri, che costituiva un modo di comunicare dei pastori». Bibliografia
Giulio Soravia, Le lingue del mondo, Bologna, il Mulino, 2014.
Top10 Libri 1. Andrea Camilleri
La piramide di fango, Sellerio 2. Gianrico Carofiglio
Una mutevole verità, Einaudi 3. Markus Zusak
Storia di una ladra di libri, Frassinelli 4. Paulo Coelho
Adulterio, Bompiani 5. John Green
Colpa delle stelle, Rizzoli 6. Marcello Simoni
L’abbazia dei cento peccati, Newton
7. The To Do List
A. Plaza, R. Bilson / novità 8. Grand Budapest Hotel
R. Fienner, J. Law 9. Frozen
Animazione
7. Autori Vari
Vacanze in giallo, Sellerio 8. Sveva Casati Modignani
La moglie magica, Sperling 9. Joël Dicker
La verità sul caso Harry Quebert, Bompiani
10. American Hustle
C. Bale, B. Cooper
10. Anna Premoli
Finché amore non ci separi, Newton
Flickr
possibili, delle loro origini e delle loro classificazioni in un libro di Giulio Soravia
Ai fornelli!
Cucina colta Per chi aveva amato la Biografia sentimentale
dell’ostrica c’è di che rallegrarsi: è tornata Mary F. Kennedy Fisher
Mariarosa Mancuso Vi fareste dare consigli di cucina da una signora americana che, per sua stessa ammissione, non sa friggere un paio d’uova? Testuale: «Ogni volta che ci provo è una tragedia; mi vengono dure, con i bordi che sembrano trina inamidata e un sapore a metà tra lo zolfo e la carta bruciata». Noi sì, se la stessa signora americana dedica un capitolo dello stesso libro di ricette a «Come far bollire l’acqua»: «Esiste solo un momento in cui è au point, dopodiché è troppo cotta, proprio come una bistecca o una crêpe suzette. L’antica immagine del bricco che sobbolle tutto il giorno in attesa di regalare una deliziosa tazza di tè, irrita chi ama farlo con un’acqua vivace e non con un liquido sfibrato e insapore». Bugia, o perlomeno mezza verità, detta con il senno di poi (i giornali sono pieni di articoli che cercano di richiamare l’attenzione del lettore, e noi faremmo qualsiasi cosa per attirarvi qui invece che lasciarvi vagare venti centimetri più sotto, più sopra, più a lato). Di Mary F. Kennedy Fisher avevamo già letto Biografia sentimentale dell’ostrica, concordando con i giudizi entusiastici che sui suoi libri – collocati nel più vantaggioso punto d’incontro tra la cucina, i viaggi e l’autobiografia – diedero John Updike e W. H. Auden. Dunque ci siamo gettati su Come cucinare il lupo, uscito da Neri Pozza come il precedente. E siamo stati ampiamente ripagati. Il titolo fa riferimento al modo di dire inglese «To have the wolf at the door»: vivere in ristrettezze, o essere assillato dai creditori (quando si andava a far la spesa chiedendo al negoziante di segnare la somma sul
libretto, o «l’ardoise», come dicono i francesi, poi veniva il momento in cui non facevano più credito). Mary Fisher lo scrisse nel 1942, la penuria di cibo causata dalla guerra si faceva sentire anche negli Stati Uniti. Lo riprese in mano nel 1951, aggiungendo una serie di nuove ricette. Non sapeva friggere le uova, ma aveva tradotto la Physiologie du Goût di Anthelme Brillat-Savarin, il colto gastronomo di fine Settecento, imparando tutto quel che c’era da imparare. Né il mezzo secolo trascorso, né l’invasione dei ricettari scritti da chi l’uovo al tegamino lo fa in due tempi, sporcando tre stoviglie e usando il forno – prima si addensa il bianco, scavando una fossetta, poi si aggiunge il tuorlo e si passa al forno – riesce ad appannare la verve, l’intelligenza, la brillante conversazione di una scrittrice buongustaia che ama la zuppa di cipolla. Tranne quelle mangiate quando abitava dalle parti di Vevey, dal 1936 al 1939. La racconta così: «Era troppo densa e non abbastanza scura, servita agli irriducibili come me alla fine del ballo nei locali di second’ordine della Svizzera francese. Si trattava, in realtà, di serate di beneficenza a favore della categorie più strane – dai cantanti di jodel affetti da laringite ai cercatori ipovedenti di edelweiss – e si tenevano in vecchi casinò, affascinanti quanto decrepiti, con tanto di champagne e orchestrine jazz provenienti da Parigi. Io ero una habitué, ma non sopportavo la zuppa alle prime luci dell’alba...». Odia anche la vichyssoise, untuosa e insipida, ma tanto alla moda nei ristoranti di New York e San Francisco. Meglio la vellutata di patate, o un minestrone, o il gazpacho, o la minestra con
le polpette di carne avanzata. Sì, ha sentito dire che certi indigeni dell’Orinoco mettono nella zuppa polpette di fango, e che l’etichetta imporrebbe di commentare «Que deliciosa!». Ma Mary Fisher odia «il terzomondismo imperante», e rifiuta il complimento. Motivo in più per adorarla. A differenza dei cuochi frigidi che odiano i sapori o gli odori forti e considerano la cucina un’arte astratta, non trova neppure necessario liberare l’appartamento dall’afrore dei broccoli o del cavolo bollito: «Se volete potete bruciare incenso, ma spero di non entrare mai a casa vostra». Il burro rimasto sulla carta d’argento è ottimo come crema per le mani, e lo stesso vale per l’ultima goccia d’olio della bottiglia. Siamo al capitolo, «Come affascinare il lupo»: non è detto che una cuoca in ristrettezze non possa permettersi un corteggiatore. E certo, odia anche i guanti di gomma: vanno bene per maneggiare la carne viva, non la carne morta. Si sogna sul consommé alla Talleyrand – «grattugiate quattro bei tartufi» – e si impara a riempire un puntaspilli con i fondi del caffé (impedisce che arrugginiscano). Il forno va sempre riempito al massimo, bisogna risparmiare il gas o l’elettricità, e allora perché non aggiungere se c’è spazio una teglia di mele? Scartata invece la camera di cottura con il fieno a far da isolante (si leva la pentola con le patate mezze cotte, e si lasciano al caldo finché diventano morbide): in città è difficile da trovare. Son gli stessi consigli che ritroviamo nei manuali di consumo consapevole – del tipo: «fate la doccia in due per risparmiare acqua». Prendete nota, e farete bella figura quando un ecologista invasato ve li ripeterà con meno brio.
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Cultura e Spettacoli
La sottile linea di Terry Blue
Compagni di viaggio Dove finisce la poesia e dove inizia la musica? Ma poi, esiste davvero
una linea di confine fra le due discipline? Terry Blue non ne sembra così convinto
A cura di Zeno Gabaglio Leo Pusterla, in arte Terry Blue, è nato il 12 dicembre 1995 a Lugano e da ormai tre anni si muove sulla scena musicale ticinese: prima come cantante nella band funky Taste The Jam e poi, a partire dal 2013, come solista e cantautore folk. Maturata una nuova idea musicale, assai lontana dal funky, nel corso del 2013 ha infatti registrato sette brani, pubblicati nel primo Ep Six Ruins, One Less Hope registrato a Certara con Matteo Mazza e completamente autoprodotto. In seguito ha partecipato a diversi concerti in tutto il Ticino continuando a scrivere nuove canzoni. Brani che sta registrando in questi mesi e che a dicembre 2014 verranno pubblicati nel disco The Burning Trees, album che vedrà partecipe – oltre alla chitarra e alla voce di Terry Blue – anche il basso di Alan Gerster, la chitarra di Giovanni Giovannoli e la batteria di Matteo Mazza. Compagni di viaggio
Fino a quattro o cinque anni fa odiavo Bob Dylan. Lo trovavo fastidioso, gracchiante, tutt’altro che musicale. Mi sembrava di sentire un ragazzetto stitico con una chitarra e un sacco di cose brutte di cui parlare. E io non avevo alcuna intenzione di stare ad ascoltare così tante cose brutte, tutte insieme. Per diversi anni quella figura mi è apparsa poco interessante o addirittura noiosa. Crescendo, tuttavia, la musica ha assunto un valore sempre più profondo nella mia vita, diventando per davvero un elemento costante, vitale e necessario. E, tra i vari artisti che mi hanno accompagnato in questo percorso, Bob Dylan si è rivelato davvero importante, perché in lui ho trovato la migliore unione di poesia
(specchio grottesco e disastrato del nostro mondo, cioè del suo che più del mio) e di musica. Il secondo compagno di viaggio è un altro Dylan. Quando ho cominciato a pensare, seriamente, ad un progetto solista, ho riflettuto molto su ciò che volevo fare: da un lato raccontare di tutto e di tutti, dall’altro filtrare questa mia esperienza, contaminarla con quella di altri, andare un poco oltre me stesso. Proprio per questo ho cominciato a leggere i poeti di cui conoscevo soltanto il nome o la figura, poeti che già altri avevano raccontato nella loro musica (come Bob Dylan, in Desolation Row: «And T.S. Eliot and Ezra Pound, fighting in the capitain’s tower»). Quanto marcato è il confine tra musica e poesia? È la domanda che inevitabilmente mi sono posto. E quanto è lecito ignorare quella linea? Il mio secondo compagno di viaggio è perciò frutto di queste scoperte più recenti: ancora non so se sarà fondamentale per il mio percorso musicale, ma sempre di più in ciò che scrivo emergono la violenza e l’ingenuità di Dylan Thomas. Matteo Mazza, il terzo compagno di viaggio, è un ottimo musicista e un concertista dalla grande esperienza, già collaboratore di Giorgio Conte, Nanni Svampa e Vad Vuc. Ci siamo incontrati per puro caso, due anni fa, quando decisi di incidere il mio primo disco. Non essendo ancora inserito nel contesto musicale ticinese, faticavo nella ricerca di un luogo dove lavorare e registrare seriamente. Conoscere «Peo», lui si fa chiamare così, e il suo piccolo studio in Val Colla è stata una delle esperienze più importanti, non solo a livello musicale. Nei giorni di registrazione, di notte, scrivevo molto: quel luogo, quella dimensione pacifica, isolata dal mondo, è forse l’unica condizione in cui mi sia
TeleCamere il taglio andava fatto Visti in tivù Piperno
permettendo, il programma di Anna La Rosa era un autentico cascame
Antonella Rainoldi
Il cantautore ticinese Terry Blue, aka Leo Pusterla.
mai sentito davvero in pace. Giovanni, mio coetaneo e mio carissimo amico, è stato fondamentale nel portarmi a trasformare in autentica passione quello che prima era un interesse. Come tanti ho scoperto la musica in famiglia, negli ascolti dei genitori che, successivamente, sono diventati i miei: da De André a Bob Dylan. Ma la necessità di conoscere e di ascoltare sempre di più è stata alimentata dalla figura di «Gio». Nella nostra esperienza comune e condivisa risiede una delle forze motrici della mia ricerca e del costante desiderio di scoperta. Come ultimo compagno di viaggio, accanto ai nomi importanti sin qui scomodati, voglio portare un’altra persona che, quotidianamente, si affaccia
nella mia vita. Rancore è un giovanissimo rapper italiano, per ora artista di assoluta nicchia, che mi sembra esempio calzante della coesistenza tra poesia, musica ed esperienza personale: la nuova frontiera del cantautorato italiano. Anzi, Rancore sta un passo oltre, preso da una ricerca più complessa, forse più intellettuale. Un elemento che ritengo fondamentale e, soprattutto, preziosissimo. I compagni
Bob Dylan Dylan Thomas Matteo Mazza Giovanni Giovannoli Rancore
La soppressione andava fatta. E così è stato. Lo diciamo subito, con onestà. Non ci siamo scomposti quando, poco meno di due settimane fa, il direttore di Raitre Andrea Vianello ha cancellato dal palinsesto autunnale TeleCamere, il salottino con i pasticcini dove Anna La Rosa si è esercitata per anni a inondare di melassa ogni politico italiano suo ospite. Come abbiamo già scritto, fossimo stati al posto dei dirigenti del Servizio pubblico, ci avremmo pensato due volte prima di varare un simile programma, forse il più brutto e inutile cascame di tutta la tv italiana. Il problema più grande di TeleCamere era naturamente la padrona di casa. Per tanto tempo abbiamo creduto che la signora Anna La Rosa, sponsorizzatissima in maniera bipartisan, fosse completamente inadatta al ruolo di giornalista-conduttrice, nonostante la presentazione di un curriculum degno di nota: troppe domande scontate, troppe moine, troppa condiscendenza, troppa piaggeria, troppi dolci di mandorle e crema. Continuiamo a crederlo fermamente, anche se l’azienda avrebbe potuto riservarle un’uscita di scena più dignitosa. Poi però abbiamo letto l’Elogio dell’ipocrisia di Alessandro Piperno, apparso domenica 3 agosto su «La Lettura» del «Corriere della Sera», e la dubitanza per un attimo ha preso il sopravvento.
Tom Petty, grande fedeltà stilistica CD Il nuovo lavoro dell’instancabile cantautore costituisce ulteriore conferma della lodevole
professionalità di un vero rocker, che ha fatto della sua passione un punto di riferimento Benedicta Froelich Vi sono, nel mondo del pop-rock internazionale, nomi che da decenni costituiscono vera e propria garanzia di professionalità e alta qualità, sia dal punto di vista puramente creativo che da quello delle performance dal vivo. Nella maggior parte dei casi, si tratta di artisti di esperienza e ormai «navigati», per i quali gli esordi hanno coinciso con quella magica stagione musicale che, negli anni 70, ha fatto da sfondo a tanti sommovimenti politici e sociali; e sarebbe difficile trovarne un esempio più calzante di quello offerto dal 63enne cantante americano Tom Petty, senz’altro uno dei più onesti e nobili modelli di vero rocker – ovvero, di quella rara e preziosa raz-
Hypnotic Eye, la recente fatica di Tom Petty.
za di performer da sempre innamorati del proprio mestiere. Un mestiere che Tom svolge con instancabile dedizione dal 1976, quasi sempre accompagnato dalla storica e rodatissima band degli Heartbreakers, con la quale ha appena dato alle stampe un nuovo e attesissimo album dal titolo di Hypnotic Eye. Si tratta di un lavoro dal sapore vintage, che non a caso richiama alla mente proprio quella peculiare nota di polemica rabbia rock che caratterizzava i primi lavori di Petty e compagni, come Damn the Torpedoes (1979) o Hard Promises (1981). E se gli inconfondibili assoli di chitarra elettrica per i quali gli Heartbreakers sono giustamente celebri risuonano in ogni traccia di questo nuovo disco, il fattore sorpresa consiste stavolta nelle inaspettate contaminazioni che colorano alcuni tra i brani, come nel caso dei virtuosismi blues di Burnt Out Town (che sembra uscita direttamente da un fumoso localino di New Orleans) e della ritmata Power Drunk, dagli assoli potenti e suggestivi. In effetti, la vera particolarità di quest’album è offerta da quei pezzi che si distaccano in parte dall’abituale impostazione stilistica di Petty: vere e proprie gemme, come nel caso del delicato lento Full Grown Boy, che si distingue per le sobrie sonorità jazzate, o la struggente ballata Sins of My Youth, dall’approccio cantautorale riflesso nell’uso di tonalità particolarmente romantiche. Ma il filo rosso che lega tra loro le
tracce del disco resta, come sempre, la poetica sviluppata da Tom attraverso le sue liriche, la cui disinvolta e aggraziata semplicità risulta sempre in bilico tra la più disperata perdizione e la speranza di una possibile redenzione: si vedano, in questo senso, pezzi intimisti come l’efficace Red River o il nervoso e dolente Forgotten Man («non vi è né bramosia, né rabbia o pensieri cattivi: solo il dolore, che ancora permane»), il quale richiama storici brani dei primi anni della band come One Story Town o Between Two Worlds. Lo stesso vale per Fault Lines, classica ballata à la Petty che ha forse l’unico difetto di ricordare molto da vicino alcuni singoli tratti da Highway Companion (2006), ma le cui liriche agrodolci sono intrise di quelle sottili metafore da sempre tanto care all’artista. D’altronde, ascoltando quest’album si ha, una volta di più, la conferma di come, nel corso degli anni, Tom Petty abbia fatto del proprio inconfondibile stile un vero e proprio «marchio di fabbrica»: la sua particolare voce strascicata e la fenomenale strumentazione rock degli impeccabili Heartbreakers hanno dato vita a una sorta di prestabilito codice stilistico che, specialmente negli ultimi anni (ovvero dopo il prevedibile flop del pur bellissimo concept album The Last Dj, 2002, tagliente satira sull’avidità delle case discografiche), Petty sembra aver deciso di riproporre con scientifica precisione in ogni nuovo lavoro. Qui sta l’unica reale imperfe-
zione di Hypnotic Eye, che non riesce a evitare di offrire qualche brano un po’ troppo simile ai classici del passato: ad esempio U Get Me High, che suona un po’ come la versione aggiornata dei pezzi più uptempo del repertorio della band, o American Dream Plan B, il cui arrangiamento quasi hard rock non riesce a mascherare un ritornello dalla struttura ormai nota. Così, ciò che sembra mancare in questo disco sono forse i brani di più ampio respiro — non necessariamente adatti a divenire singoli dal garantito appeal radiofonico, ma comunque dotati di incontestabile fascino narrativo (un esempio per tutti, le ballatone malinconiche di un album come il sottovalutato Echo, del 1999); laddove la tracklist di Hypnotic Eye vede invece Tom andare per certi versi «sul sicuro», offrendo al pubblico proprio ciò che noi tutti sappiamo riuscirgli perfettamente, e concedendosi delle variazioni soltanto sui già citati brani dalle atmosfere blues-jazz. Pur premettendo ciò, Hypnotic Eye resta un lavoro più che riuscito da parte di Petty e della sua infaticabile band; anche perché quella stessa, incrollabile fedeltà stilistica che in parte indebolisce l’impatto del disco ha anche l’effetto di renderlo particolarmente accattivante per i fan di vecchia data – a ulteriore conferma che la musa del loro eroe è ancora viva e vegeta. E c’è da scommettere che lo rimarrà ancora a lungo, per la gioia di ogni amante del rock targato USA.
La conduttrice di TeleCamere Anna La Rosa. (Facebook)
Piperno aborrisce la sincerità, detesta le persone schiette, adora gli ipocriti, ha un debole per gli oncologi pietosi, gli avvocati ottimisti, i ruffiani di ogni foggia e colore. Nel pezzo si diverte a smontare la retorica del pane al pane. A un certo punto racconta: «Un grande scrittore francese del secolo scorso diceva che la sincerità è la bava del cattivo umore. Non sempre naturalmente, ma molto spesso l’esigenza di dire una verità spiacevole cela un’inconfessabile frustrazione, un malanimo dissimulato». E conclude ripensando a suo nonno: «Una volta, a una cena, lo sentii elogiare la bellezza degli occhi di una donna la cui bruttezza era proverbiale, e vidi quella donna arrossire di piacere. C’è qualcosa di civile, di tenero nella piaggeria». Ora ci troviamo di fronte a un dilemma: ma davvero c’è qualcosa di civile, di tenero nella piaggeria? E se così fosse, un critico televisivo che si rispetti quali parole dovrebbe usare per definire Anna La Rosa e il defunto TeleCamere?
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Idee e acquisti per la settimana
shopping Il pollo al cestello anche a casa Novità Grazie alla nuova sfiziosa salsa per pollo al cestello di produzione ticinese potrete gustare la nota specialità
comodamente anche a casa vostra Davide Mitolo – titolare del Pastificio L’Oste di Quartino, noto produttore dei ravioli e degli gnocchi nostrani, nonché di alcune specialità gastronomiche pronte, tutti disponibili nei supermercati di Migros Ticino – su richiesta della Migros ha recentemente sviluppato un prodotto molto apprezzato anche alle nostre latitudini: la salsa per il pollo al cestello. Sono molti i ticinesi che per gustare il pollo al cestello con tanto di tipica salsina «segreta» sono pronti a farsi chilometri di strada, arrivando addirittura a varcare il Gottardo pur di concedersi la pietanza. Ebbene, ora, grazie a Davide Mitolo, la specialità si può portare in tavola anche a casa propria. Questa salsa si distingue per la ricchezza di burro, panna e vino bianco. Essa può essere utilizzata sia fredda che calda, in quest’ultimo caso è sufficiente scaldarla brevemente nel forno a microonde, togliendo il coperchio del vasetto, e versarla direttamente sul pollo appena cotto al grill o in forno. A proposito: il pollo svizzero già grigliato da asporto lo trovate presso i maggiori reparti gastronomia Migros. La grande versatilità della carne di pollo
Salsa per pollo al cestello 90 ml Fr. 2.60 Carta oleata a fogli Fr. 2.– Cestino intrecciato Fr. 8.90 In vendita nelle maggiori filiali Migros.
Flavia Leuenberger
Il pollo al cestello accompagnato dalla celebre e sfiziosa salsa è solo uno dei mille modi per gustare la carne di pollo. Il pollo è sicuramente uno degli alimenti più consumati al mondo, praticamente ogni paese possiede la sua ricetta tradizionale a base di pollame. Succosa, magra, gustosa e, non da ultimo, molto vantaggiosa, la carne di pollo possiede un sapore neutro, e si presta quindi perfettamente alla preparazione di un’infinità di piatti, sia semplici che più sofisticati, non importa se grigliata, cotta in forno, bollita, arrostita o in umido. Inoltre contiene pochi grassi ed è ricca di proteine, vitamine e sali minerali. Il nostro consiglio: scegliendo per il vostro pollo al cestello i prodotti Optigal della Migros, potete esser certi di cucinare del pollame gustoso di produzione svizzera, allevato nel rispetto di severi standard qualitativi. Il benessere degli animali è assicurato da ampi pollai con accesso tutto l’anno a uno spazio esterno coperto.
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Idee e acquisti per la settimana
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Idee e acquisti per la settimana
Tutto il buono della carne di maiale Attualità Al Ristorante Ai Piee di Brione Verzasca abbiamo assaggiato un piatto che valorizza al meglio le costolette
di maiale. Scegliendo la carne dei Nostrani del Ticino o TerraSuisse otterrete un ottimo risultato anche a casa vostra
Costoletta di maiale al mirto con pinzimonio e patate al cartoccio Ingredienti per 4 persone
La convinzione diffusa è che la carne suina sia pesante da digerire e troppo grassa. In realtà questo è in parte vero, ma solo per i suini impiegati per la produzione di salumi. Tagli magri del suino come l’arista, le costolette e la lonza, venduti come carne fresca, sono meno calorici di un analogo taglio di carne bovina e anche il contenuto di grassi può essere inferiore o uguale. Anche il contenuto di colesterolo del maiale magro è analogo a quello della carne bovina e ovina. Quanto alla composizione dei grassi, sempre nella carne di maiale leggera, essa presenta una frazione significativa di grassi polinsaturi e una quota minore di grassi saturi rispetto alla carne bovina. Diverso il discorso quando si mangiano altri tipi di tagli,
ma qui il modo di cucinarli ne cambia la composizione e può incidere sulla quantità di grassi presenti. Ad esempio le costine cotte alla griglia contengono sicuramente meno grassi delle medesime cotte al forno o in umido. Attualmente i macellai di Migros Ticino consigliano di assaggiare le succulente costolette, tagliate dalla lombata o dal carré dei nostri maiali «Nostrani» oppure di quelli certificati «TerraSuisse», che si possono cucinare in diversi modi: con le mele, alla griglia, all’aglio e rosmarino, ma anche dando spazio alla vostra fantasia, come la ricetta che Azione vi propone questo mese. La cottura di queste costolette, il cui spessore ideale è di ca. 2 cm, dovrebbe essere di ca. 6-8 min. per parte. / Davide Comoli
Dario Maggi e Marco Piras, rispettivamente titolare e chef del Ristorante Ai Piee di Brione Verzasca. (Flavia Leuenberger)
Ingredienti 4 Costolette di maiale* (ca. 200 g l’una) 4 dl di mirto di Sardegna 4 dl di demi-glace (sugo di carne) Sale/pepe q.b. 1 scalogno 2 carote 1 ½ cetriolo Rapanelli 1 belga 1 testa di finocchio 2 dl di salsa italiana ½ kg di sale grosso 4 patate *disponibile in qualità TerraSuisse o Nostrani del Ticino.
Preparazione Per la salsa al mirto: Tritare lo scalogno, soffriggerlo lentamente, sfumare con il mirto e far evaporare l’alcool, unire la demi-glace e far ridurre a fuoco lento. Per le patate al cartoccio: Lavare accuratamente le patate in acqua corrente, avvolgerle con un velo di carta stagnola, versare due manciate di sale grosso su un tegame da forno, capiente. Adagiarvi le patate e ricoprire con il restante sale. Infine infornare a forno caldo a 200° per 20’-25’ circa. Per il pinzimonio: Tagliare a listarelle parte delle carote e cetrioli e il restante a spicchi. Per la carne: Salare, pepare e infarinare leggermente la cotoletta, scottarla in padella a fuoco moderato per circa 2’-3’, per lato, e finire in forno per 7’ circa.
Per l’impiattamento Disporre la patata tagliata in due, salata (e a discrezione una nocetta di burro). Al centro del piatto adagiare la costoletta con l’osso verso l’alto, salsare con la salsa al mirto e il piatto è pronto. È bene servire le verdure in una boule con ghiaccio, a centro tavola. Tempo di preparazione 20-25 minuti
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Idee e acquisti per la settimana
Caffè e dolcetto?
Naturali e senza glutine TuttaNatura è sinonimo di gelati di elevata qualità, con alte concentrazioni di succo di frutta, assolutamente privi di glutine e a base di soli aromi naturali. Fragoloso, il ghiacciolo alla fragola con cuore di gelato alla vaniglia, è un connubio perfetto degli aromi più tradizionali; mentre Limonice, il ghiacciolo al li-
mone con cuore di gelato al limone e bastoncino alla liquirizia, piacerà a tutti coloro che cercano irresistibili momenti di golosa freschezza. Le due novità appena introdotte nell’assortimento di Migros Ticino sono prodotte artigianalmente in Toscana da Giuntoli, storica azienda attiva nel settore sin dal 1955.
Fragoloso 6 pezzi/ 300 g Fr. 4.50
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Limonice 6 pezzi/ 300 g Fr. 4.90
È sempre un piacere ritrovarsi con gli amici al Ristorante Migros preferito per una golosa pausa caffè chiacchierando delle vacanze appena trascorse o di quelle programmate a breve. Tanto meglio poi se il caffè e il dolce sono offerti ad un prezzo particolarmente vantaggioso, come è di fatto il caso attualmente e fino alla fine del mese di agosto nei nostri ristoranti e De Gustibus, al mattino fino
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alle 11.30 e al pomeriggio dalle 14.30. L’offerta prevede cappuccino o espresso in combinazione con un irresistibile pasticcino a scelta, rigorosamente di produzione artigianale, nella fattispecie gipfel al cioccolato, tartelletta alle fragole, berliner, diplomate alla frutta, plunder oppure ancora cannoncino alla crema. L’offerta è valida anche nella forma take-away ai De Gustibus.
Vinci l’ultimo romanzo di Il barometro Sveva Casati Modignani dei prezzi L’ultimo avvincente romanzo della nota scrittrice milanese Sveva Casati Modignani, «La moglie magica», edito da Sperling & Kupfer, narra la storia di Mariangela che, lasciato il suo paesino di montagna, va a vivere con il marito in un’elegante palazzina di Milano. Qui Mariangela nel tempo si trasforma da ragazza allegra e piena di vitalità in una donna nervosa e triste a causa della possessività e gelosia del marito. Ma un giorno, finalmente, troverà il coraggio di ribellarsi…
Informazioni sui cambiamenti di prezzo
Migros riduce il prezzo dei ghiaccioli M-Budget al limone e all’arancia. Gli hamburger M-Classic invece rincarano a causa della forte richiesta da parte dei consumatori di carne di manzo svizzera; la quale supera l’offerta e quindi fa balzare il prezzo d’acquisto verso l’alto. Anche i prezzi delle ca-
ramelle per la gola aumentano. Queste caramelle sono certificate da Swissmedic. Dal momento che la certificazione richiede condizioni più severe, la produzione delle caramelle rincara. Migros si assume una quota dei maggiori costi e riversa solo parzialmente l’aumento ai consumatori.
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Concorso Vinci 1 dei 5 romanzi «La moglie magica» di Sveva Casati Modignani in palio!
Compila questo tagliando con i tuoi dati e imbucalo nell’apposita urna posta presso i reparti libri delle filiali Migros di Locarno, S. Antonino, Lugano, Agno e Serfontana. Ultimo termine di partecipazione: 23 agosto 2014. Un Nome Cognome Via Località E-mail
solo tagliando per partecipante. I collaboratori di Migros Ticino sono esclusi dal concorso. I vincitori saranno avvisati per e-mail. I partecipanti al concorso acconsentono a che i dati personali siano utilizzati per l’invio di informazioni sul «Mondo Libri» Migros.
Alcuni esempi:
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M-Budget ghiaccioli limone/arancia, 24 x 52 ml M-Classic hamburger surgelati, 8 x 90 g M-Classic caramelle gola alla piantaggine, 2 x 80 g Bonherba caramelle alle erbe s. zucchero, 150 g Bonherba caramelle alle erbe con salvia, 150 g Prima caramelle Mocca ripiene, 200 g
3.85 9.40 3.50 3.80 3.80 2.50
Nuovo in Fr.
in %
3.75 10.40 3.70 4.10 4.10 2.70
–2,6 10,6 5,7 7,9 7,9 8,0
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50% 29.00 invece di 58.00
33%
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 11 agosto 2014 ¶ N. 33
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Idee e acquisti per la settimana
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Uva bianca senza semi Italia, vaschetta da 500 g
Tutti i drink allo yogurt da 500 ml 20% di riduzione, per es. alle fragole
Coppa prodotta in Ticino, affettata fine in vaschetta, per 100 g
Prosciutto crudo San Pietro Rapelli Svizzera, per 100 g
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Tutto l’assortimento di formaggi Auricchio per es. dolce a fette, in conf. da 100 g
Tutti i tipi di crème fraîche 20% di riduzione, per es. al naturale, 200 g
Salame fiocco Italia, al banco a servizio, per 100 g
Costolette di vitello, TerraSuisse Svizzera, imballate, per 100 g
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PESCE, CARNE E POLLAME Carne di manzo macinata, Svizzera, al kg 10.80 invece di 18.– 40% Prosciutto cotto Puccini Rapelli, aha!, Svizzera, per 100 g 2.55 invece di 3.70 30% Prosciutto crudo San Pietro Rapelli, Svizzera, per 100 g 5.40 invece di 7.75 30% Sminuzzato di pollo Optigal in conf. da 3, Svizzera, 3 x 222 g 14.65 invece di 22.– 33% Croccantini di pangasio M-Classic, d’allevamento del Vietnam, 900 g 12.60 invece di 18.– 30% * Coppa, prodotta in Ticino, affettata fine, in vaschetta, per 100 g 3.35 invece di 4.90 30% Costolette di vitello, TerraSuisse, Svizzera, imballate, per 100 g 3.25 invece di 4.70 30% Piatto grill misto di manzo, TerraSuisse, Svizzera, in conf. da ca. 500 g, per 100 g 2.35 invece di 3.40 30% Galletto speziato Optigal, Svizzera, in conf. da 2 pezzi, per 100 g 1.– invece di 1.45 30% Salame fiocco, Italia, al banco a servizio, per 100 g 4.30 invece di 6.20 30% Filetto di manzo, Uruguay, al banco a servizio, per 100 g 6.30 invece di 9.– 30%
*In vendita nelle maggiori filiali Migros.
Tutti i tipi di crème fraîche, per es. al naturale, 200 g 2.10 invece di 2.65 20% Tutti i drink allo yogurt da 500 ml, per es. alle fragole 1.25 invece di 1.60 20% Tilsiter dolce, per 100 g 1.05 invece di 1.35 20%
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Chips al naturale o alla paprica M-Classic in sacchetto XL, per es. alla paprica, 400 g 3.– invece di 6.– 50% Tutti i biscotti M-Classic, per es. discoletti, 400 g 3.90 invece di 4.90 20%
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Idee e acquisti per la settimana
Così cremosi, così fruttati Gli yogurt Excellence sono sorprendentemente cremosi e in alcune varianti arricchiti con squisita frutta. Sono eccellenti anche come dessert unico
Excellence Yogurt ai lamponi Gold 150 g Fr. 1.10
Excellence Yogurt Nature 150 g Fr. –.90
Excellence Yogurt Fragola di bosco 150 g Fr. –.95
Veronika Studer
Excellence Yogurt Vaniglia 150 g Fr. –.95
Al naturale oppure con frutta finissima: gli yogurt Excellence sorprendono per la loro particolare consistenza cremosa.
L’industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui gli yogurt Excellence.
Alcuni li preferiscono al naturale, altri con una deliziosa nota fruttata. Ma in una cosa sono tutti d’accordo: più lo yogurt è cremoso, più elevato è il piacere gustativo. Grazie al loro alto contenuto di grasso del latte, gli yogurt Excellence risultano particolarmente cremosi. In
Svizzera annualmente vengono consumati in media 18 kg di yogurt pro-capite*, ciò che corrisponde ad un record in confronto alla media europea. Oltre che per la loro consistenza cremosa, gli yogurt Excellence convincono anche per il gusto raffinato. Soprattut-
to l’Exellence Gold ai lamponi, un delicato yogurt al cioccolato con un alto contenuto di frutta, vale certamente un peccato di gola. Anche le varietà alla fragola di bosco e vaniglia spiccano per la loro nota aromatica e si lasciano gustare al meglio come dessert. / AW
*Rapporto sul mercato dell’Ufficio Federale dell’Agricoltura, statistica del latte 2012
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Idee e acquisti per la settimana Pubblicità del caffè nel 1955: le immagini di un tempo oggi non sarebbero più accettate.
Il caffè dà l’ispirazione Il caffè non è solo un noto stimolante. La nera e bollente bevanda ha addirittura ispirato a Gottlieb Duttweiler l’idea luminosa di fondare la sua Migros Gettare un ponte fra produttore e consumatore: era l’intenzione del fondatore della Migros Gottlieb Duttweiler. Ma come? È stato il caffè a indicargli la via. Quando lui stesso lavorava a Le Havre in qualità di commerciante di caffè, infatti, vide quanto guadagnavano gli intermediari sull’oro nero (che a quel momento non era il petrolio, bensì il caffè). Decise così di acquistare la sua merce direttamente dai produttori. Tornato in patria, si rese conto di quanto nel commercio svizzero il prezzo del caffè fosse tenuto artificialmente alto, senza che i produttori ne beneficiassero. Così decise di fondare un sistema distributivo di nuovo tipo con prezzi calcolati lealmente e commercio diretto. Dei primi sei prodotti degli autocarri di vendita Migros facevano parte anche due tipi di caffè. / CS
La Migros apre a Zurigo uno stabilimento di torrefazione del caffè. È la sua prima impresa industriale propria.
Dai sili in cui è stato immesso, il caffè giunge direttamente nell’imballaggio. (Foto ca. 1940)
Effetto calamita: a Zurigo gli avventori affollano i banconi del caffè di un baretto Migros per gustarsi la stimolante bevanda.
Dopo il suo ritorno dal Brasile, nel 1925 Gottlieb Duttweiler avvia sulle strade il primo autocarro di vendita Migros. Il primo prodotto offerto è il caffè. Il prezzo al chilo per le due miscele Brasil e Mokka è di 3.85 rispettivamente 4.90 franchi.
La località di Birsfelden risulta essere particolarmente strategica e vantaggiosa poiché le materie prime possono essere stoccate direttamente dalla nave al magazzino senza trasporti supplementari.
A Gottlieb Duttweiler il caffè stava particolarmente a cuore. Lo gustava anche volentieri.
Pubblicità dal «Brückenbauer» del 1954.
Il caffè decaffeinato Zaun giunge sul mercato.
Gottlieb Duttweiler e sua moglie vivono in Brasile. Duttweiler si cimenta nella coltivazione del caffè. 1922–24
Le varietà di caffè Exquisito e Zaun completano l’assortimento. Entrambe sono disponibili a ancora oggi. 1925
1930–31
La Migros lancia il primo caffè solubile: Voncafé. Fine anni 40
La prima filiale MIgros di Basilea: visto che le era stato negato il permesso di aprire un bancone per la vendita di cibi da asporto, Migros decide di inaugurare il suo primo bar caffè. 1952
Lo stabilimento di torrefazione centrale si trasferisce a Birsfelden, dove si trova tuttora. 1954
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Idee e acquisti per la settimana
OFFERTE DELLA SETTIMANA Approfittate anche questa settimana delle numerose offerte speciali. Nell’edizione attuale allegata ad Azione troverete tutte le megapromozioni dell’industria Migros.
L’industria Migros produce numerosi prodotti Migros molto apprezzati, tra cui anche il caffè di Delica.
Exquisito caffè in chicchi 500 g Fr. 6.50
Boncampo caffè in chicchi 500 g Fr. 4.40
Exquisito caffè macinato 500 g Fr. 6.50
Boncampo caffè macinato 500 g Fr. 4.70
M-Classic Zaun caffè decaffeinato macinato 250 g Fr. 3.50
M-Classic Extra-Mild caffè in chicchi macinato 250 g Fr. 4.25
Caruso Ristretto caffè in chicchi 500 g Fr. 8.10 Nelle maggiori filiali Caruso Imperiale Crema caffè in chicchi 500 g Fr. 8.20 Nelle maggiori filiali
Café Royal Lungo Forte capsule per caffè 10 pezzi Fr. 3.80 Nelle maggiori filiali
Appena macinato, il caffè ha il sapore migliore.
Il caffè solubile è molto apprezzato. Dal 1967 esiste anche decaffeinato. Nel 1967 il Voncafé, decaffeinato solubile, è il primo caffè Migros che viene liofilizzato. Oggi si chiama Noblesse.
Per molti clienti una novità: alla Migros si può macinare da sé il proprio caffè. ca. 1960
1967
Quando si è in viaggio, oggi il caffè si beve così. Nel 1977 era raro vedere sulla strada passanti che bevevano caffè.
Il primo Migrolino apre le porte allo Zeughauspassage di Berna, e per la prma volta qui si offrono bevande come il caffè anche da asportare. Oggi il «Coffee to go» è proposto non solo al Migrolino, ma anche nei reparti M-gastronomia e nei Take-away Migros. 1977
Foto: Delica, Archivio FCM, collezione di cartelloni ZHdK
Café Royal Espresso capsule per caffè 10 pezzi Fr. 3.80
Delica (precedentemente Migros Betriebe Birsfelden) sviluppa per la Migros, sotto la marca Delizio, un proprio sistema a capsule. Delizio è il numero uno sul mercato svizzero come alternativa a Nespresso e fino a oggi si posiziona al secondo posto nel mercato delle capsule dopo Nespresso. 2004
Ora quasi l’intero assortimento di caffè della Migros è composto da caffè certificato UTZ. Il certificato attesta una produzione di caffè responsabile e sostenibile. 2010
In maggio alla Migros si introduce il Café Royal: le capsule si adattano a tutte le macchine Nespresso correnti e riscontrano un grande successo. 2012
A Birsfelden Delica lavora 12’200 tonnellate di caffè greggio all’anno. 2013
30% 1.55 invece di 2.25 Luganighe per la griglia prodotte in Ticino, imballato, per 100 g
30% 3.25 invece di 4.70 Costolette di vitello, TerraSuisse Svizzera, imballate, per 100 g
30% 30%
2.35 invece di 3.40 Piatto grill misto di manzo, TerraSuisse, Svizzera, conf. da ca. 500 g, per 100 g
1.– invece di 1.45 Galletto speziato Optigal Svizzera, conf. da 2 pezzi, per 100 g
30%
7.70 US-Rib-Eye, costa schiena di manzo USA, al banco a servizio, per 100 g
9.90 invece di 10.20 Salsiccia con pepe Valle Maggia prodotta in Ticino, conf. da 2x180 g In vendita nei maggiori supermercati di Migros Ticino. OFFERTE VALIDE DAL 12.8 AL 18.8.2014, FINO AD ESAURIMENTO DELLO STOCK.