Azione 31 del 28 luglio 2014

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXVII 28 luglio 2014

Azione 31 55 ping M shop ne 37-42 / 51i alle pag

Società e Territorio Montatori di gru: gli «acrobati» dei cantieri

Ambiente e Benessere Rumori e qualità di vita, le molte voci dell’inquinamento fonico

Politica e Economia Caso Ruby: Silvio Berlusconi assolto in appello

Cultura e Spettacoli Dall’antichità a oggi: cosa ne è di ozio e di lavoro?

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Chi ci aiuta a orientare le scelte

di Stefania Hubmann pagina 3

Uguali ma diversi di Alessandro Zanoli Pare di vederlo, Luigi, mentre davanti allo specchio si dà i ritocchi necessari alla barba. L’uomo (questa volta il nome è vero, si chiama proprio Luigi Nardini, detto Gigi) è stato favorito dalla natura in modo originale. Nardini è infatti da quarant’anni, come tiene lui stesso a sottolineare, il sosia di Luciano Pavarotti. Verrebbe da aggiungere l’aggettivo «ufficiale», ma in questo campo è difficile tracciare linee precise. Nel sosianesimo (si dirà così?) il rischio è che ci sia sempre qualcuno «più uguale» degli altri. E poi in fondo che importa. Quante volte è capitato di imbattersi in sosia del tutto improbabili ma con una carica umana così forte e una volontà di immedesimazione così cocciuta da risultare più veri dell’originale? Nardini comunque, forte del prestigio e dell’importanza attribuita universalmente al suo omologo, sente di possedere un carisma altrettanto efficace e persino di avere una missione da compiere. Da anni si batte, quindi, per rivendicare i diritti di proprietà della sua particolare fisionomia e per valorizzarla. E oltre a questo vorrebbe estendere a tutti i sosia del mondo la consapevolezza del proprio

valore. Dal suo indirizzo di posta elettronica partono a scadenza regolare comunicati stampa che divulgano il suo impegno. La battaglia in cui Nardini vorrebbe guidare questo esercito di cloni è curiosa, antropologicamente interessante. Secondo il suo pensiero, i sosia sono utili perché esaltano l’immagine delle personalità socialmente rilevanti e le portano a contatto con la popolazione, regalando quanto meno occasioni di divertimento e svago. Nei casi migliori, possono addirittura prendere il posto dei loro modelli, ad esempio fungendo da controfigure sui set cinematografici. Quindi vanno tutelati nella loro specificità. La volontà di autoaffermazione dei sosia è veramente... originale. Fino ad oggi chi godeva di questa particolarità poteva al massimo andare incontro a un destino tragico. Pensiamo ad esempio allo stuolo di sosia (destinati al massacro) di cui si sono circondati i peggiori dittatori. Vista però l’importanza che l’immagine fisica riveste oggi nella società, il richiamo al rispetto dei «diritti dei sosia» lanciato da Gigi Nardini dà da pensare. Se Nardini ha ragione, il suo discorso potrebbe allargarsi, perché no, a ognuno di noi. La «dichiarazione dei diritti dei sosia» potrebbe far presagire

una società in cui ognuno possa decidere a priori di scegliere il personaggio a cui assomigliare, e adoperare tutti i mezzi per raggiungere lo scopo. Passeremmo quindi la vita a perfezionare il nostro abbigliamento e i nostri movimenti: studieremo ore e ore di video per imparare a muoverci come il nostro modello, sviluppandone persino i tic. Un’immagine grottesca ma non molto lontana dalla nostra realtà quotidiana. Da adolescenti, in fondo siamo stati tutti sosia dei nostri eroi. E oggi, non siamo forse sosia delle personalità più in vista, di cui citiamo le affermazioni, di cui prendiamo in prestito opinioni e idee? Resta da capire cosa succede a quella parte della vita del sosia che è esclusa necessariamente dallo schema della somiglianza. Un sosia, cos’è, prima di avere la coscienza di assomigliare a qualcuno? Cosa rimane di lui quando sveste i panni della sua doppia identità? Se pensiamo alla fatica compiuta da ognuno di noi per cercare di imboccare la propria strada, per scoprire le nostre doti e capacità, l’idea di Nardini sembra tutto sommato affascinante ma non originale. La difficoltà della vita, in fondo, è nell’impegno quotidiano che mettiamo per diventare dei sosia credibili di noi stessi.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 28 luglio 2014 ¶ N. 31

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 28 luglio 2014 ¶ N. 31

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Società e Territorio Vivere la multiculturalità Inizia in questo numero una serie di articoli dedicati alla multiculturalità attraverso l’esperienze di persone che la vivono quotidianamente. Incontro con Cristiana Zenari docente di danza africana

A cena in infradito La moda delle ciabattine resiste facendo la felicità di chi le adora e le indossa in qualsiasi occasione, ma non mancano i mugugni di chi rimpiange una tramontata «arte del vestire»

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Scegliere con il cuore Competenze e attitudini Alla scoperta dell’attività di orientatrice

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scolastica e professionale indipendente con Giovanna Ballabio-Malandra: le passioni al centro del sostegno offerto a giovani e adulti Stefania Hubmann

Lavorare sospesi Edilizia Abilità e rischi di chi monta

e smonta le gru nei cantieri: intervista a Giancarlo Marabese pioniere dei corsi di formazione in Ticino

«Ma guarda quante gru ci sono». L’espressione è di chi usa le gru come una sorta di termometro per misurare la temperatura dell’edilizia. Più gru ci sono e meglio vanno le cose, per il settore e in definitiva anche per tutta l’economia. Meno frequente è invece una riflessione sulla sicurezza di queste gru e sulla formazione di chi le innalza e le usa. Lo scorso 8 luglio il braccio di una gru è caduto in un cantiere di Paradiso, fortunatamente senza provocare feriti. L’11 giugno a Saint-Sulpice nel canton Vaud si è invece rovesciata una gru intera, uccidendo un operaio. Di che chiederci se in questo mondo che sovrasta le nostre teste tutto funziona a dovere. E così per saperne di più abbiamo interpellato un esperto in materia. Oggi pensionato, Giancarlo Marabese ha vissuto nel settore per una quarantina d’anni ed ha trascorso tutta la sua vita professionale sulle gru. Alla fine degli anni ’70 è stato uno dei pionieri in Ticino dei corsi di formazione per questo tipo di lavoro, che oggi si tengono presso il centro professionale di Gordola. «Ci vuole una certa passione – ci dice il signor Marabese – come prima cosa bisogna superare alcune visite mediche perché lassù non ci può salire chiunque, ci si deve muovere cum grano salis. C’è bisogno di sangue freddo e di equilibrio psico-fisico». Al di là di queste attitudini di base, il montatore di gru deve avere prima di tutto una solida formazione elettrica e meccanica. E deve essere disposto a mantenersi sempre formato e informato perché le marche delle macchine sono tantissime e ognuna ha i suoi segreti. In questo settore esistono dei veri e propri libroni che raccolgono tutte le informazioni necessarie, fornite dai fabbricanti, per conoscere questo o quell’altro tipo di gru. Insomma come in tante altre professioni – forse in tutte – occorre rimanere al passo con i tempi. Per il montatore di gru non esser aggiornati significa mettere in pericolo un cantiere e tutto quello che ci sta attorno. La gru deve essere in mani capaci e la formazione del manovratore, del

Azione Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

gruista avviene in un centro specializzato. Come per le automobili, dapprima si fa un esame teorico che permette di ottenere un patentino. Dopo un periodo di ulteriore formazione si affronta l’esame pratico, con alla fine l’eventuale diploma: la patente federale di gruista. È la Suva, la società assicurativa in caso di infortunio, che gestisce questi esami e che controlla non solo i gruisti ma anche lo stato di salute, chiamiamolo in questo modo, delle stesse gru, con frequenti collaudi tecnici. I controlli vengono fatti molto spesso sui cantieri ma sui cantieri non operano solo i gruisti. La gru – con la base, la torre, il gruppo di rotazione, braccio e controbraccio – viene eretta non dal gruista ma da una squadra di montatori. E qui cominciano i problemi. «Di montatori qualificati ce ne sono pochi – fa notare il signor Marabese – di montatori improvvisati invece ce ne sono parecchi». E il signor Marabese sa di cosa parla perché, seppur pensionato, tra i suoi compiti c’è ancora quello del controllo delle gru e il loro collaudo. Il problema si pone in particolare per le imprese edili più piccole che molto spesso non posseggono una gru, anche perché quelle più grandi possono costare fino a mezzo milione di franchi. Queste piccole società devono limitarsi a noleggiare le macchine. E il noleggio comprende anche il montaggio. «In questo ambito c’è chi fa il proprio lavoro seriamente e chi invece spacca i prezzi – ci dice il signor Marabese – E poi il personale non sempre rispetta i principi deontologici della professione e mal digerisce i richiami degli esperti che operano sul campo». Certo le macchine, salvo rare eccezioni, non cadono ma lavorano male e non sfruttano in pieno le loro capacità operative. «Tra i noleggiatori non abbiamo a che fare con degli esperti del settore – continua Marabese – ma con dei commercianti di gru e di altro materiale da cantiere. Sono loro ad assumere i montatori, e spesso mi chiedo con quale criteri lo facciano, visto che a mio modo di vedere il montatore è lasciato alla stato brado, impara lavorando. Invece tocca al datore di lavoro provvedere ad una

formazione continua per i propri dipendenti». E qui val la pena ricordare che il montatore lavora sospeso nel vuoto. Dispone di un’imbracatura e di funi di sicurezza ma rimane una sorta di acrobata del cantiere, con tutti i rischi che questo comporta. «Esistono delle norme ben precise – fa notare il signor Marabese – ma i montatori spesso non le conoscono, i loro datori di lavoro non li hanno informati». «Ricordo comunque che gli incidenti dovuti alle gru sono rarissimi – fa notare Nicola Bagnovini, vice-di-

rettore della società impresari costruttori, sezione Ticino – Questo vuol dire che i criteri di sicurezza sono rispettati. È vero manca un curriculum formativo per i montatori, ma la realtà ci dice che il loro lavoro viene svolto nel pieno rispetto delle regole di sicurezza. Anche perché le nostre ditte lo sanno bene, in questo ambito non ci si può permettere di speculare». Gli incidenti sono effettivamente molto rari ma la fretta con cui oggi si lavora sui cantieri e la concorrenza a cui sono sottoposti gli operatori rappresen-

tano certamente un fattore di rischio. «Se il montaggio di una gru un tempo richiedeva dieci ore, oggi bisogna farlo in sei ore e con prezzi ridotti al minimo», ci dice ancora Giancarlo Marabese, ribadendo che per la sicurezza delle gru occorre fare di più. Agli operatori del settore – imprese edili, gruisti, noleggatori e montatori – il compito di analizzare nei dettagli la situazione, per capire se la sicurezza delle gru e dei cantieri è davvero la migliore possibile o se ci sono margini per accrescerla ulteriormente.

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Scoprire le proprie passioni, focalizzare i propri interessi e in seguito valutarli, tenendo in considerazione competenze e attitudini. Per trovare un percorso formativo e professionale fonte di soddisfazione è questa la via da seguire con, se necessario, il sostegno e l’accompagnamento di un orientatore o un’orientatrice. Giovanna Ballabio-Malandra l’ha sperimentato personalmente, completando gli studi di psicologia all’Università di Zurigo con un’ulteriore formazione di due anni in orientamento scolastico e professionale. Oggi è una delle poche diplomate a svolgere anche un’attività indipendente nel suo studio di Origlio. Questa figura professionale in Ticino è infatti presente soprattutto nel settore pubblico, in particolare presso l’Ufficio dell’orientamento scolastico e professionale e tramite il medesimo nelle scuole medie e medie superiori. Meno diffusa e conosciuta la sua attività a livello privato. Nella Svizzera tedesca invece gli orientatori indipendenti sono una quarantina, lavorano come liberi professionisti, sono riuniti in un’associazione e si possono facilmente rintracciare via internet. Interesse e necessità sono in crescita ovunque, viste anche le mutate condizioni economiche e sociali che sempre più spesso portano gli adulti a dover rivedere il proprio percorso professionale, come pure l’accresciuta scelta nell’ambito formativo con la quale si devono confrontare gli adolescenti al termine della scuola dell’obbligo. Al rientro in Ticino alla fine degli anni Novanta Giovanna Ballabio-Malandra è stata dapprima attiva quale formatrice per l’Associazione Dialogare con la quale collabora tuttora. Una pausa dedicata alla famiglia e diverse supplenze – come orientatrice per adulti all’Ufficio dell’orientamento scolastico e professionale e sempre presso Dialogare – caratterizzano gli anni seguenti fino alla decisione nel 2012 di aprire uno studio privato. Attraverso «Gio ti orienta» offre consulenza per un bilancio professionale e personale, la scelta scolastica e professionale e le modalità di candidatura. Un ambiente ospitale immerso nel verde accoglie adolescenti e adulti che attraversano un periodo di confusione,

indecisione e anche scoraggiamento. Non sapere cosa fare, nutrire dubbi sulle scelte passate o comunque non essere contenti della propria situazione professionale crea malessere. Come uscirne? In che cosa consiste la consulenza dell’orientatrice? Risponde Giovanna Ballabio-Malandra: «Gli interessi sono un ottimo punto di partenza, perché quando c’è passione, l’impegno è meno gravoso. Lo studio diventa più facile e il successo più accessibile. Se poi succede che in futuro fattori esterni impongano un cambiamento, dopo un simile percorso si hanno comunque a disposizione gli strumenti necessari per trasformarsi. Oggi la professione per la vita non esiste più. Tutto evolve molto in fretta ed è difficile prevedere quali saranno le esigenze del mercato del lavoro fra dieci o quindici anni quando il percorso formativo di un adolescente che intende proseguire gli studi sarà concluso. Per completare ad esempio liceo, bachelor e master bisogna calcolare almeno nove anni. È chiaro che sono necessarie anche determinate competenze e attitudini come il piacere di studiare. Queste valutazioni vengono approfondite in un secondo tempo, unitamente alle particolari condizioni di lavoro di certe professioni. Ad esempio non tutti sono fisicamente in grado di adattarsi a un lavoro a turni. Come orientatrice mi prendo il tempo per ascoltare in modo empatico i miei utenti. Per individuare gli interessi a volte ricorro anche a un test d’interessi in immagini, fotografie che le persone scelgono d’istinto secondo ciò che le attira e stimola e non in base a quello che pensano di saper fare. Il test è basato su fotografie scattate nel mondo del lavoro da due orientatori confederati. L’Università di Zurigo ha trasformato la loro iniziativa, risalente già a diversi decenni fa, in un vero e proprio strumento di valutazione valido per tutte le regioni linguistiche del Paese. Il test si basa su due differenti modelli teorici inerenti agli interessi professionali. Da una parte fornisce indicazioni sui campi d’interesse, dall’altra sul tipo di personalità legato ai medesimi, ad esempio realistica, sociale, artistica. È evidente che lavorare in un ambiente che corrisponde alla propria personalità è più gratificante».

Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–

L’orientatore aiuta ad affrontare indecisione e scoraggiamento. (Keystone)

Allievi di scuola media (terza e quarta) e giovani adulti che dopo un primo anno di apprendistato o di una scuola superiore a tempo pieno (o anche al termine di queste formazioni) non sono contenti della strada imboccata rappresentano la casistica principale dell’attuale attività indipendente di Giovanna Ballabio-Malandra. Non manca nemmeno qualche adulto già iscritto all’università o alla Scuola Universitaria Professionale SUP. «In questi casi si tratta spesso di un momento di crisi, magari legato all’avvicinarsi dell’entrata nel difficile mondo del lavoro. La consulenza è utile perché permette di confrontarsi con i propri dubbi, di parlarne senza essere giudicati, potendo comunque giungere anche alla conclusione di mantenere la propria scelta». Le donne che devono o desiderano valutare la loro situazione professionale e formativa l’orientatrice le incontra soprattutto quale consulente allo Sportello Donna dell’Associazione Dialogare. La consulenza privata rappresenta un’offerta complementare a quanto già proposto sul territorio, come avviene nel resto della Svizzera. L’intervistata sottolinea a questo proposito l’importanza del lavoro in rete. «Da un lato il sito del Cantone www.orientamento.ch costituisce una preziosa fonte di informazione per il professionista come pure per i diretti interessati. Di fronte alla quantità d’informazioni disponibili l’orientatrice aiuta a capire, confrontare e valutare i possibili scenari formativi e/o professionali del suo assistito. Dall’altro lato, in presenza di particolari situazioni di disagio, derivanti ad esempio da problemi di ansietà o mancanza di autostima, si consigliano altri servizi o specialisti, nei casi citati una consulenza psicologica o dei corsi ad esempio per rafforzare la considerazione di sé». Al termine della consulenza Giovanna Ballabio-Malandra consegna un diario di bordo che intende riassumere gli interessi, i punti forti del carattere, le competenze specifiche, i prossimi passi da compiere per la realizzazione del progetto elaborato. «In molti casi ci soffermiamo anche sulla questione delle candidature. Redigere correttamente un curriculum vitae e una lettera di presentazione ha la sua importanza, così come prepararsi a un colloquio, che a volte simuliamo». E non mancano nemmeno i feed-back. «Dopo diversi mesi può capitare di ricevere una email o una breve chiamata per un aggiornamento, la richiesta di un piccolo consiglio o di un nuovo incontro». Ascoltare, capire, riuscire a motivare sono le forme di sostegno e accompagnamento che l’orientatrice offre, certo a pagamento, ma in linea con la tariffa applicata dall’inizio del 2013 anche dall’Ufficio per l’orientamento scolastico e professionale per i giovani adulti (sopra i 16 anni) con una prima formazione conclusa e ben al di sotto di quanto fatturato dai professionisti oltre Gottardo. La possibilità di rivolgersi a un’orientatrice privata in Ticino non è ancora scontata come nel resto della Svizzera. La nostra interlocutrice lo capisce anche dall’orario in cui si richiede l’appuntamento, di preferenza extrascolastico. Il cambiamento culturale è sicuramente in atto ma ci vorrà ancora un po’ di tempo affinché si realizzi pienamente.

Accendere la curiosità Vacanze al Museo I laboratori creativi

presso il Museo Cantonale d’Arte di Lugano avvicinano i bambini all’arte

Veronica Tanzi: «mi interessa insegnare al bambino che dal semplice si può creare tutto». (Stefano Spinelli)

Sara Rossi Come far trascorrere ai propri bambini in modo divertente e costruttivo una parte delle vacanze scolastiche nei periodi in cui si resta in città? Al Museo Cantonale d’Arte a Lugano, per il quinto anno consecutivo, vengono proposte le «Vacanze al Museo»: nel corso del mese di luglio si susseguono quattro diversi laboratori creativi, di durata settimanale, che offrono la possibilità ai partecipanti – giovani visitatori dai 4 ai 10 anni – di avere un approccio approfondito con l’arte, alternando alle visite negli spazi museali attività pratiche e momenti di gioco. Un modo per «infarinarsi» con l’arte senza avere l’impressione di smettere di giocare. L’idea è venuta a Benedetta Giorgi Pompilio, responsabile della mediazione culturale, mamma anche lei, quindi consapevole della necessità di impegnare la propria figlia durante i periodi estivi: «Mi è sembrato interessante offrire ai bambini una vacanza un po’ speciale, solo per loro, per conoscere l’arte partendo dalle opere esposte in museo. Alle classi, durante l’anno scolastico, vengono proposti atelier con visita guidata, ma normalmente si fermano circa un’ora e mezza. Ho pensato che potesse essere invece affascinante passare un’intera settimana in un museo». Visto il successo riscosso già dalla sua prima edizione nel 2010, le «Vacanze al Museo» sono state organizzate anche in altri periodi dell’anno, in particolare durante le vacanze autunnali, natalizie e pasquali. D’estate, però, è possibile iscriversi a più di un atelier, perché ogni settimana si è guidati da un animatore differente, che organizza il tempo al museo (mattina o pomeriggio, a seconda della fascia d’età) tra le sale espositive e il laboratorio creativo. Così, nel luglio 2014, traendo ispirazione dalla mostra attualmente in corso dal titolo «Ti-Ch. Arte svizzera nelle acquisizioni del Museo Cantonale d’Arte 1999–2014», due artiste, Carolina Maria Nazar e Veronica Tanzi, un attore, Luca Chieregato, e una ceramista, Claudia Ferrando, stanno animando le giornate dei bambini. I partecipan-

ti possono anche restare per il pranzo, preparato e servito dal Laboratorio Al Ronchetto della Fondazione Diamante. Visitiamo l’atelier creativo «L’arte a misura di bambino» di Veronica Tanzi, art director e artista, il secondo che si tiene quest’estate. La raggiungiamo di mattina, quando è il turno della fascia d’età dei più grandi. I bimbi sono in cortile e giocano: è la pausa di metà mattina, dopo una piccola merenda. Poi li seguiamo nelle sale del museo, per guardare insieme a loro alcune opere in mostra. Il tema di oggi è la natura. Ci avviciniamo dunque ad alcuni lavori che raffigurano immagini di boschi, fiumi, animali, paesaggi. Veronica guida con domande i bambini e questi descrivono, interpretano, fanno ipotesi. In breve: si incuriosiscono. «Questo è lo scopo: incuriosire i bambini avvicinandoli all’arte attraverso il gioco», dice lei. Ogni giorno l’animatrice sceglie un filo conduttore e lungo quello si va alla scoperta di una parte sempre nuova della mostra. Poi ci sono i momenti in atelier: una sala molto bella, all’ultimo piano con ogni sorta di materiale a disposizione. Per chi ha finito il suo lavoro, ci sono libri e giocattoli. «Mi interessa usare materiali di riciclo, per insegnare al bambino che dal niente, dal semplice, si può creare tutto», indica l’artista. I bambini, dopo aver osservato un quadro, alcune fotografie e un video al primo piano, sanno che ora tocca a loro. Dalle sale del museo salgono verso l’atelier e si mettono all’opera con foglie secche e colori. Fierissimi mi mostrano anche i pupazzi che hanno costruito il giorno precedente con dei barattoli vuoti di shampoo e detersivo. I bambini, si sa, si avvicinano all’arte in maniera molto aperta. Dicono quello che percepiscono senza paura di sbagliare (se messi nelle condizioni adatte), e poi sono pronti per nuovi esperimenti usando mani, braccia e cervello: vederli lavorare con il grembiulino sporcandosi faccia e dita è un piacere. Informazioni

www.museo-cantonale-arte.ch


Ricetta e foto: www.saison.ch

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Ingredienti: 2 pomodori, 1 cucchiaio di concentrato di pomodoro, 3 cucchiai d’aceto balsamico bianco, 1 cucchiaio di miele di fiori liquido, 5 cucchiai d’olio d’oliva, sale, pepe, 4 cervelat, 12 fette di pancetta, 300 g di rucola Preparazione: incidete a croce i pomodori. Sbollentateli per ca. 30 secondi in acqua bollente, poi passateli sotto l’acqua fredda. Pelate i pomodori, dimezzateli, privateli dei semini e tritateli grossolanamente. Fate rosolare brevemente il concentrato di pomodoro in una padella. Toglietela dal fuoco, aggiungete l’aceto e mescolate. Riducete in purea con i pomodori, il miele e l’olio. Insaporite il condimento al pomodoro con sale e pepe e mettete in frigo. Avvolgete ogni cervelat con 3 fette di pancetta. Rosolate in una padella per ca. 8 minuti. Condite la rucola con la salsa al pomodoro e servitela con le cervelat alla pancetta tagliate a pezzi. Accompagnate con il condimento restante, a mo’ di ketchup. Tempo di preparazione 30 minuti Per persona 26 g di proteine, 48 g di grassi, 11 g di carboidrati, 2450 kJ/580 kcal


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Società e Territorio

L’Africa come terapia Radici intrecciate Cinque incontri per parlare di multiculturalità, attraverso l’esperienza personale

Alessandro Zanoli «Come è diventata danzatrice e come ha scoperto l’Africa dentro di sé?». Abbiamo aperto con una doppia domanda, forse un po’ bizarra, l’intervista a Cristiana Zenari. È attiva da diversi anni a Lugano e il suo lavoro si gioca su più fronti. Da un lato in progetti dove danza e teatro si legano tra loro per dar vita a spettacoli corali: la dimensione sociale, relazionale, dell’espressione corporea diventa perno e motore del racconto. Oltre a ciò Cristiana Zenari, come didatta, tiene da tempo corsi di danza africana molto seguiti e apprezzati. Chi vi partecipa viene guidato in un’esperienza, per quanto culturalmente lontana dalle nostre abitudini, vissuta con naturalezza e divertimento. «Non è che l’Africa sia nata in me» risponde stando al gioco, Cristiana Zenari. E alludendo all’antica progenitrice della specie umana continua: «Diciamo che l’ho riscoperta. L’Africa è dentro ognuno di noi. A partire da Lucy. L’hanno chiamata Lucy: è la nostra mamma africana, l’australopiteco». Cristiana Zenari ci racconta poi di come la danza sia stata per lei un mezzo di comunicazione e di elaborazione del proprio vissuto, fin da piccola. «Il mio corpo aveva bisogno di muoversi e non solo attraverso il gioco ma anche attraverso l’espressione delle emozioni danzate». Le piace notare che già da allora era in qualche modo un’appassionata di World music. «Mi affascinavano molto le musiche diverse. Per me era come premere un bottone: se ascoltavo Schubert potevo tirar fuori le mie tragedie; ero folclorica con Los Paraguajos; ero appassionata con Edith Piaf. E poi danzavo proprio tutta la mia storia. Era un modo per parlare, per dirmi». Poi, verso i 6 o 7 anni l’incontro con Papa Pata di Miriam Makeba. «Lì si è aperto un mondo... In seguito ogni volta che ascoltavo la musica africana ne ero molto attratta. Le ragioni le ho scoperte in seguito». Per quanto una pratica come la danza sembri coinvolgere prevalentemente la dimensione fisico-corporea, nel caso di Cristiana Zenari il ballo è anche un metodo per approfondire la conoscenza della propria vita interiore. «Col tempo ho scoperto che quell’attrazione era il mio modo di mettere i piedi per terra. Credo che ognuno di noi senta a volte una spinta a migliorarci, a guarire da

quello che ci tormenta. Io vivevo questa forte spinta a tornare nelle radici, a tornare a questo senso di appartenenza, alla terra, alla Grande madre». All’Africa, alla Grande madre da cui deriva il genere umano, Cristiana Zenari arriva dunque in modo istintivo, senza nemmeno esserci stata. «La danza africana è entrata seriamente nella mia vita professionale solo più tardi. Dopo aver studiato Ausdruckstanz a San Gallo, sono stata a Lione a continuare la mia formazione. Lì ho trovato un’insegnante che era etnomusicologa. Aveva fatto molto lavoro sull’Africa e dava anche lezioni di danza. Io continuavo sulla mia linea contemporanea e moderna, e quella africana rimaneva un interesse personale, per me sola». Poi la scintilla. Per una combinazione di eventi, le capita di partecipare a un workshop tenuto a Lugano da due maestri africani. «Erano eccezionali, bravissimi: davano lezioni di ritmo, facevano cantare, facevano suonare, facevano danzare. Erano ottimi didatti, perché avevano capito che dovevano mettere il loro linguaggio musicale in relazione al linguaggio musicale occidentale». Questo incontro con l’Africa fa nascere in lei il desiderio di una comprensione più profonda. Vista la sua buona predisposizione, i due docenti le offrono l’occasione di accedere a una formazione specifica come docente di danza africana. Seguirà, con successo, la loro scuola per sei anni. Così come gli insegnamenti di molti altri danzatori africani. E dopo il diploma ecco giunto il momento della partenza. «Ho detto: «adesso voglio andare a studiare in Africa». Avendo conoscenza coi musicisti e con altre persone dell’ambito artistico di laggiù, ho potuto entrare nel loro l’ambiente e nel loro quotidiano». In Senegal Cristiana Zenari ha modo di osservare da vicino la società e i suoi meccanismi relazionali: «È un paese molto turistico, dove si è aperta tra l’altro una corrente di turismo sessuale. Agli occhi di alcuni senegalesi la donna bianca è associata all’immagine dell’avventura sessuale. Volendo entrare in contatto con gli uomini in modo non distorto e soprattutto volendo entrare in contatto con le donne, ho dovuto imparare le regole dell’appartenenza sociale. Nel caso del Senegal, occorre ad esempio non scoprire le gambe, che sono un segnale seduttivo».

Stefano Spinelli

di chi la vive quotidianamente. Cristiana Zenari, danzatrice, docente di danza africana e attrice – Prima puntata

Per un’occidentale, comprendere il codice da adottare in queste situazioni è un esercizio pratico di multiculturalità. «Multiculturalità è avere curiosità, vuol dire guardare senza giudizio. Capire anche perché si è creata una regola. Nello specifico aver voglia di provare anche l'esperienza. Pensare: «Sì, fa caldo, avrei voglia di mettere degli shorts; però che bello, mettere una gonna lunga e sentirsi così femminili!»». Come maestra di danza Cristiana Zenari, forte di queste esperienze, diventa quindi una mediatrice culturale: «Uno potrebbe pensare, è chiaro, “Perché io dovrei fare danza africana? Non è una mia tradizione perché devo entrarci?”. Lì allora è compito mio far sentire, far capire cosa succede dentro, quale aspetto carente si ricompone. Spesso all’incontro con le altre culture sei spinto ad arrivare perché te ne interessano degli aspetti, ti divertono. Invece c’è dell’altro, che è più profondo. A volte le persone non ci pensano neanche e spesso io non vi accenno. Agisco e accompagno in una fortissima consapevolezza, anche senza verbalizzarla. Che lo si sappia o no, non è sempre importante. L’importante è che l’esperienza avvenga. E se avviene, automaticamente apre lo sguardo

sul mondo». Da questo punto di vista la multiculturalità sembrerebbe quasi una terapia. È vero, invece, che la diversità culturale è spesso vissuta con diffidenza, persino timore. La preoccupazione verso gli stranieri produce, per reazione, una voglia di ritorno al passato, magari a voler recuperare ipotetici retaggi celtici. «C’è sicuramente un aspetto positivo nel voler difendere le proprie tradizioni. Io penso però che sia anche importante scoprire che esistono dei parallelismi. Lo dico soprattutto quando vado a lavorare coi giovani, nelle scuole: queste tradizioni africane non sono così diverse dalle nostre: anche noi ballavamo ai matrimoni, anche noi danzavamo ai battesimi, anche noi celebravamo le feste con la danza, la musica e il canto». La pratica della danza africana è una specie di spinta a cercare qualcosa che si è perso, che si è lasciato indietro? «Secondo me, di nuovo, non è l’Africa culturale, non è l’Africa geografica che le persone vengono a cercare» spiega Cristiana Zenari. «Sono i valori dell’Africa. Chi viene a danzare lo fa per il gruppo, un gruppo in cui sono nate delle amicizie, sono nati legami e vicinanze. Questa per me è la più grande riuscita del corso

di danza. È un aspetto comunitario, sperimentato nel corpo e proiettato nella vita». Torniamo all’Africa reale: certo laggiù non sembrano molto più aperti di noi alla multiculturalità. «È vero: molti africani non sono per niente teneri gli uni con gli altri. Anzi, fanno fatica ad assimilarsi, sono fermi sulle loro etnie. Tanti di loro sono cambiati emigrando, però. Quelli che vivono qui, quando tornano in Africa ritrovano i loro paradigmi, tolgono vestito e cravatta, indossano l’abito tradizionale. Qui riescono a costruire una famiglia con regole più aperte, ma laggiù sottostanno ancora alle leggi tradizionali». Sono questioni complesse, la cui composizione richiederà ancora tempo. Per quello che ci riguarda, comunque, conoscere il loro modo di vedere la vita è un’esperienza arricchente. «La bella cosa dell’andare incontro a un’altra cultura, è che ci permette di rivisitare la nostra. Lo stesso vale per la religione. Tutto fa parte di un patrimonio da conoscere: poi è come avere tanti colori da usare. Perché devo essere rozzo come un’ascia, se posso essere versatile come un coltellino svizzero?» conclude con una bella immagine «elvetica» Cristiana Zenari.

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Jennifer A. Nielsen, Il principe perduto, Feltrinelli. Da 12 anni Orfani miserabili che diventano principi, identità segrete, complotti, intrighi, agnizioni, duelli, misteri, paura e un po’ di romanticismo: ingredienti ottimi ma da dosare con perizia, e all’autrice la perizia certo non manca. Sul filo di una scrittura accurata, senza ridondanze, dall’ottimo ritmo e dai brillanti dialoghi, la Nielsen guida il lettore, che la segue incantato, fino all’ultimo colpo di scena di questo bel romanzo d’avventura, ambientato in un Medio Evo immaginario, tra castelli, locande, carrozze e passaggi segreti. Non c’è magia, ma l’ambientazione in regni fantastici, con tanto di mappa nelle pagine iniziali, lo apparenta al fantasy, anche se l’accurato tratteggio dei vari personaggi è realistico, così come le loro relazioni. La famiglia reale del regno di Carthya è stata assassinata con il veleno. E il principe più giovane, Jaron, era scomparso in mare anni prima, in seguito

ad un attacco dei pirati. Tra i nobili si scatena la competizione per proclamare un nuovo re. A meno che non venga miracolosamente ritrovato Jaron: ed è proprio quello che l’avido cortigiano Conner vuole provare a mettere in scena, reclutando tre orfani somiglianti al principe, per poi scegliere chi tra loro reggerebbe meglio la finzione. A costui andrà la corona, e un futuro da burattino nelle mani di Conner. Agli altri due, ormai scomodi testimoni, il prezzo della vita.

La storia è in prima persona, narrata da Sage, uno dei tre orfani: la prospettiva è la sua, ma è sua anche la scelta di cosa raccontare, e quando, in questa costruzione romanzesca coerente e coesa, dove tuttavia le sorprese non mancano. Il principe perduto – di cui la Paramount ha già opzionato i diritti cinematografici – è il primo libro di una trilogia che i lettori aspetteranno con impazienza. Julie Sternberg, Come un cetriolino su un biscotto, illustrazioni di Matthew Cordell, Edizioni Clichy. Da 7 anni Non come il cacio sui maccheroni, ma come un cetriolino su un biscotto: l’inadeguatezza dell’accostamento è proprio ciò che fa scaturire il senso di questa storia. Quando nella rassicurante normalità della vita succede qualcosa di storto, di inaspettato, di inadeguato, appunto, alle aspettative. Per un bambino, questo scarto dalle aspettative può essere fonte di ansia, a

maggior ragione se riguarda un distacco. E poco importa se il distacco (come succede alla piccola Eleanor che deve congedarsi dalla sua amata baby-sitter Bibi, costretta a trasferirsi per accudire il padre) non è propriamente un abbandono: per un bambino è comunque una perdita, da elaborare come un lutto. Tuttavia nessuna di queste parole «adulte» risuona nel linguaggio di Eleanor, che racconta in prima persona la sua esperienza: il suo è un linguaggio semplice, diretto, senza enfasi, ma con

le ridondanze infantili e l’attenzione ai dettagli: «Natalie mi ha sorriso. Io le ho risorriso un pochino. Ma non molto. “Devi essere Eleanor” mi ha detto. “Sì” ho risposto». I verbi che accompagnano il discorso diretto (ho detto, ha aggiunto, ho risposto, ecc.) vengono esplicitati anche per facilitare la comprensione dei lettori alle prime armi, ma la semplicità del linguaggio non è banalità, anzi: il testo è molto accurato, e i continui «a capo», che sembrano dargli una forma verticale, da poemetto in versi liberi, sono in realtà acuti accorgimenti per dare una scansione ai concetti, facilitando la comprensione: «Poi abbiamo mangiato i coni / velocemente / prima che il gelato si sciogliesse». Il lieto fine c’è, ma non sta tanto negli eventi (anche se Natalie, la nuova baby-sitter, è un’ottima persona), quanto nel cambiamento interiore di Eleanor, che capirà che Bibi c’è, e «sarà sempre la mia Bibi». Va citato infine il sostanziale apporto delle illustrazioni di Matthew Cordell.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 28 luglio 2014 ¶ N. 31

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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Il sangue di Danton I padri fondatori dell’antropologia ritenevano che la differenza fra la nuova disciplina e la sociologia classica consistesse nel fatto che, mentre i dati di quest’ultima consistevano eminentemente in elaborazioni statistiche o comunque dati già elaborati, il metodo etnografico della nuova disciplina si basava sull’osservazione diretta e spesso partecipata della ed alla vita del campione umano in questione. L’analisi dei fatti direttamente osservati e descritti oggettivamente – di contro alle elaborazioni mediate della sociologia che lasciavano inevitabilmente spazio all’interpretazione e, dunque (o no?!) all’arbitrio – avrebbero garantito conclusioni teoriche in presa diretta, per così dire, con quello che Husserl, Schultz e Weber (faccio nomi così potrete fischiare i colpevoli), pionieri di una sociologia «etnografica», chiamavano il Lebenswelt – il «Mondo della Vita». Non a caso i Nostri (ma qui non faccio nomi per ragioni di caritas), che erano empiristi radicali della serie «credo solo a quello che vedo», non consideravano la storia parte del

mandato conoscitivo della disciplina. Come abbiamo visto due settimane fa col caso emblematico della Presa della Bastiglia non sempre – cioè quasi mai – la storia storieggiata corrisponde alla storia santificata: alla Bastiglia, etnograficamente parlando, si andò non tanto per liberare le masse incarcerate dalla tirannia (trattavasi di sette prigionieri perlopiù dementi) ma per approvvigionarsi di munizioni. Il tutto poi avvenne secondo una trattativa che degenerò prima in rissa, poi in confusa sparatoria dovuta non tanto all’ostilità fra le parti ma alla rottura di una catena del ponte levatoio che gettò nel panico una folla di dimostranti tanto determinati a fare (e sfare), quanto poco chiari sul cosa e sul come. La storia è, comunque e largamente e fin troppo spesso il risultato di intenzioni volute e non realizzate che risultano, storicamente, in azioni realizzate e non volute. Niente di più lontano – dunque – di quella chiarezza osservabile nel Mondo della Vita che i primi antropologi ritenevano dovesse costituire il metodo della Nuova Disciplina. La storia

accuse di tirannia ed atteggiamento dittatoriale nella gestione del cosiddetto Regno del Terrore – il periodo post-rivoluzionario durante il quale, dopo quelle del re e della regina, erano cadute nei cesti della ghigliottina tante teste da essere ormai troppe. Fedele al suo soprannome – L’Incorruptible – Robespierre si difese rilanciando: accusò egli stesso membri della Convenzione di aver promosso e pilotato ad arte il Regno del Terrore al fine tanto di sistemare vecchie ruggini interne all’Ancièn Regime per poi (parole profetiche?) gettare zizzania nel campo rivoluzionario e promuovere un’azione revanscista controrivoluzionaria e filomonarchica. La sera stessa Robespierre fece lo stesso discorso al club giacobino: il successo dell’arringa sembrò garantirgli la vittoria. Di nuovo in aula di fronte alla Convenzione il giorno successivo, l’Incorruptible si trovò di fronte al silenzio (a tutt’ora controverso) di Saint-Just, l’amico di sempre. Aveva questi capito che la partita – la grande partita di una rivoluzione che avrebbe potuto/do-

vuto cambiare le sorti del mondo) era persa? Nel caos e nella confusione del momento, per una fatale svolta nella sua carriera di tribuno della plebe, Robespierre si trovò a corto di parole. «È il sangue di Danton che lo soffoca!» gli fu sbattuto in faccia. Danton: giudice della prim’ora, rivoluzionario professionale e moderato, era stato decapitato con l’accusa – attribuita vox populi a Robespierre – di essere troppo economico con la ghigliottina. A quest’ultima, potente e falsa accusa, Robespierre, ormai costretto all’angolo, trovò la forza di ribattere: «Vigliacchi! Sono stato io ad aver difeso Danton contro la vostra furia!». Ed eccoci al dunque. Conseguenze non volute di azioni volute: il 28 luglio 1794 Maximilien Robespierre, sofferente da una mandibola fracassatagli nella notte da una pistolettata incompetente – sua in un tentativo di suicidio o di un certo zelante gendarme Jean-André Merda (I fatti! I fatti!) – veniva ghigliottinato. Ironia della sorte, ironia della storia. Orsono duecentotrentaquattro anni e non è finita.

figlio ideale, ad Ettore con resta che contrapporsi diventando un adolescente imperfetto, un figlio deludente. Il processo è fisiologico ma l’esito, come si vede, piuttosto negativo. La prima cosa da fare, quindi, è evitare di confrontarli e di valutarli: nel bene e nel male ognuno è diverso dagli altri, è unico e impareggiabile. Cercando di inserirlo nel suo gruppo, Giacomo involontariamente sottolinea l’esclusione del fratello, l’inadeguatezza, l’immaturità del minore. Gli adolescenti sono molto selettivi nel scegliere gli amici, non accettano suggerimenti ed esortazioni, anzi li considerano controproducenti. Il vostro contributo, cari genitori, consiste piuttosto nel separare i vostri figli in modo che ciascuno trovi la sua strada. Se il primo pratica uno sport,

l’altro seguirà un’attività differente, le vacanze potranno essere diverse, le amicizie separate. Certamente avete trasmesso ai vostri figli gli stessi valori, il medesimo stile di vita ma, i rapporti che intrattenete con l’uno e con l’altro non sono gli stessi. Per il semplice fatto di essere il primogenito, Giacomo è stato accolto in modo particolare. Su di lui si sono concentrate le aspettative della famiglia e proiettati i vostri ideali. Il secondogenito rimane invece più schermato ed è per questo che si permette di essere, entro certi limiti, più autonomo e trasgressivo. In ogni caso, soprattutto quando sono dello stesso sesso, vi è tra i primi due figli, una certa competizione. Se il primo è di carattere debole e non si sente in grado di realizzare le attese dei genitori, il secondo assume una

posizione dominante se invece, come nel vostro caso, corrisponde in pieno all’immagine proposta, l’altro si rifugia nell’inadempienza. In entrambi i casi occorre sottrarli al confronto e, valorizzando i talenti di ciascuno, che magari non corrispondono a quelli privilegiati dalla scuola, rinforzare l’autostima del più fragile. Se riuscirete a divaricare i loro percorsi, vedrete che anche Ettore si farà apprezzare, come già avviene con la nonna.

ciò che logicamente andrebbe coperto: natiche e cosce rese tremolanti dalla cellulite, schiene aggredite dall’acne, gambe segnate dalle vene e, ovviamente, piedi in libertà, affidati a una calzatura ridotta al minimo. Che però, ha allargato il suo impiego al massimo. Persino, a cena al ristorante. Proprio così, In Flip-Flops Zum Dinner, s’intitolava, a tutta pagina, un commento della «Neue Zürcher Zeitung», del 16 luglio scorso, dedicato appunto alla diffusione generalizzata della ciabatta: indizio di un fenomeno, ormai radicato nel nostro costume, che merita un’attenzione in chiave critica e storica. C’è, dunque, da chiedersi, quando, come e perché, è avvenuto un cambiamento dagli effetti, magari sconcertanti, ma in definitiva liberatori. A quale prezzo? Secondo Linda Przybyszewski, docente di storia all’università di Notre Dame, nell’Indiana, ciò che è andato perso è un’arte: The Lost Art of Dress, come spiega in un saggio, chiaramente ispirato al rimpianto per valori forse

irrecuperabili. L’autrice allude alla scomparsa di norme che facevano capo a un buon gusto e a un buon senso, che spesso coincidevano, insomma a criteri anche d’ordine morale, per non dire moralistico, ma non soltanto. Sono intervenuti anche fattori d’ordine economico e sociale: se l’abito ha perso importanza, diventando un oggetto qualsiasi, è perché non rappresenta più un desiderio difficile da soddisfare, e soprattutto non è più il frutto del proprio lavoro, quando le attività artigianali erano ancora praticate: per necessità e per piacere. Comunque implicavano capacità e conoscenze che, oggi, si tenta di ripristinare. Ora, non manca di stupire che un discorso del genere provenga dagli Stati Uniti che, notoriamente, non è la patria dell’eleganza. Senza mezzi termini, la Przybyszewski, parla di «una nazione di sciatti», dove ci si presenta pubblicamente «in stracci da jogging», ciabattando ed esibendo tatuaggi. Ma non è stato sempre così. Come emerge dalle sue ricerche, l’Art of Dress figurava,

è – ahimè – non il risultato di ciò che i fatti sono – ma il risultato di ciò che i fatti diventano dopo essere passati per il filtro – cinico, implacabile, a volte pure mendace – del tempo che li interpreta. E qui, si badi, non si tratta affatto di sostenere posizioni relativiste (la vergogna del negazionismo aspetta i cinici sempre lì, dietro l’angolo). Si tratta invece di sottolineare che la storia è – sempre e comunque – storia contemporanea: scelta morale ovvero che ci interpella a capire e decidere quello che per noi deve essere il mandato della storia nel qui ed ora. Questo ahimè ci tocca, al di là ed oltre il fatto di quell’inversione pasticciosa fra intenzioni e risultati della quale si è parlato poc’anzi. «È il sangue di Danton che lo soffoca!» – ci dicono abbia esclamato un membro dell’assemblea nazionale provocato dall’improvvisa ed inaspettata balbuzie di Robespierre, chiamato a giustificarsi di fronte alla Convenzione Nazionale – il Parlamento Rivoluzionario. Era il 26 luglio 1794 – Ottavo Termidoro secondo il Calendario Rivoluzionario. A Robespierre erano rinfacciate

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Il figlio «inadeguato» Cara Silvia, siamo genitori impegnati nell’educazione dei nostri figli, due adolescenti di 15 e 17 anni, ma mentre il primo, Giacomo, corrisponde ai nostri ideali e si comporta sempre secondo le nostre aspettative, il secondo, Ettore, è una continua delusione. A scuola non s’impegna, negli sport arranca, è solitario, scontroso e musone. Eppure da piccolo era una delizia e non ci ha mai dato preoccupazioni, solo con l’adolescenza il suo carattere è cambiato. Ma non sappiamo perché. In fondo noi siamo gli stessi per entrambi e abbiamo sempre cercato di essere giusti e coerenti. Saremmo ipocriti se non rilevassimo le differenze ma, sottolineandole, non facciamo che inviare a Ettore messaggi negativi per cui ora non ha più fiducia in sé stesso. Si considera «sbagliato» e

«sfortunato», anche se vive un’esistenza agiata, protetta e scaldata dal nostro affetto e da quello dei nonni. Se si confida con qualcuno, lo fa con la nonna: l’unica persona di cui dimostri di aver stima e fiducia. Il fratello non lo giudica, lo accetta così com’è, cercando di aiutarlo, allenarlo e inserirlo nel suo gruppo. Ma Giacomo rifiuta ogni mano tesa e si chiude sempre più a riccio. I professori dicono tutti la stessa cosa: «Potrebbe fare di più ma è svogliato e non si impegna». Cosa possiamo fare? / Angela Per certi aspetti, cara Angela, il comportamento di Ettore si può giustificare col fatto che, per uscire dall’infanzia e diventare sé stesso, deve differenziarsi dal fratello più grande. Poiché Giacomo è un ragazzo perfetto, un

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Infradito sotto processo L’ultima condanna è di qualche giorno fa: il Touring Club denunciava la pericolosità di una calzatura che non assicura agli automobilisti un contatto stabile con i pedali del gas e dei freni. Una raccomandazione che lascerà il tempo che trova. Al pari di quelle, ripetutamente lanciate da medici e podologi che, da anni, segnalano i danni provocati dall’uso improprio di una ciabatta da spiaggia promossa a scarpa da città e persino da escursione. Ugualmente inascoltata, figurarsi, la voce di un parroco del Comasco che invitava i fedeli a presentarsi alle funzioni, in una tenuta adeguata: niente nudità, niente ciabatte. Insomma, come ogni estate, ritorna sul banco degli imputati l’infradito. E non tanto per le sue colpe effettive, di accessorio a volte pericoloso e non sano, quanto per il suo significato simbolico. È, infatti, diventato l’attributo più rappresentativo, una sorta di marchio, di un abbigliamento improntato alla comodità in termini estremi. Come dire, è un farsi i fatti propri, anche in

materia vestimentaria, quindi senza badare a situazioni, obblighi, regole d’ordine sociale, professionale, estetico o morale. Con il rischio di danneggiare la propria immagine, mostrando anche

Il saggio di Linda Przybyszewski.

addirittura, fra le materie d’insegnamento nelle scuole e nelle università, impartita dai cosiddetti Dress Doctors, i «dottori dell’abito». Sotto il patrocinio dell’Ufficio federale per l’economia domestica, nel 1923 questa branca si proponeva di dare concretezza al principio: «Vestire bene non è una questione di soldi ma di conoscenze». Insomma, con un’ingenuità prettamente americana, si tentava d’indirizzare verso il meglio qualcosa che, in realtà, rimane incontrollabile. Superfluo citare i grandi studiosi del fenomeno moda, quale Georg Simmel, per dire che la scelta del vestiario esprime bisogni di segno opposto: imitare gli altri e in pari tempo distinguersi dagli altri. Guardandosi intorno, si constata, che l’imitazione prevale. Tanto che, nella folla degli svestiti, fa macchia il cittadino in pantaloni lunghi, camicia, magari giacca e addirittura scarpe chiuse. Comunque, a scanso di equivoci, va segnalato che esiste anche un’associazione dei difensori dell’infradito; forse ingiustamente vituperato.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 28 luglio 2014 ¶ N. 31

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Ambiente e Benessere Spreco alimentare Il consumatore dovrebbe cambiare atteggiamento e acquistare solo ciò che consuma

Sulle Ande alla festa del sole Un viaggio in Perù per assistere alla Inti Raymi, una festa Inca che celebra il solstizio d’inverno

«Gusta il borgo» ad Ascona Sabato 30 agosto torna l’attesa scampagnata tra diverse novità non solo enogastronomiche

Avventure pericolose Attenzione ai nostri gatti: d’estate rischiano di cacciarsi nei guai esplorando l’esterno

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Inquinamento fonico e qualità di vita Mondo di suoni Quando i rumori eccessivi

molestano a tal punto da diventare persino pericolosi

Loris Fedele Si chiama inquinamento fonico o acustico e quindi si riferisce al suono o, meglio, al rumore eccessivo. Come succede per quello atmosferico, anche l’inquinamento acustico, superati certi livelli, può diventare pericoloso. Eppure, nonostante esistano dati statistici provati scientificamente sulla sua lesività, l’inquinamento acustico non è ancora abbastanza considerato. Lo prova il fatto che annualmente diverse associazioni promuovano una giornata di sensibilizzazione al riguardo. Quest’anno è caduta il 30 aprile e poneva l’accento sul tema del rumore stradale. Come è noto, grazie a un credito quadro di 12 milioni di franchi concesso dal Gran Consiglio per il periodo 2012-2015, sono stati avviati progetti di risanamento fonico su vari tratti stradali del nostro Cantone. Ma il traffico è in costante aumento, aggravando situazioni di per sé già critiche. Considerato che per contenere il rumore è meglio intervenire alla fonte, le misure cantonali che si vogliono promuovere sono dapprima la pavimentazione a bassa emissione fonica, la moderazione del traffico, la riduzione della velocità e l’adozione di pneumatici silenziosi per poi passare, solamente in un secondo tempo, a un’ulteriore costruzione di ripari fonici. Ma anche il privato è chiamato a fare la sua parte per difendersi dall’inquinamento acustico, in particolare, quando possibile, dotando la sua casa di finestre fonoisolanti. La vita quotidiana ci immerge in un mondo di suoni che, purtroppo, sono soprattutto composti da rumori. La differenza che corre tra suono e rumore può essere soggettiva perché non tutti sono disturbati allo stesso modo. Pensiamo al rumore emesso dalla marmitta di una nota marca di motociclette che per i suoi utenti, e non solo, può avere aspetti armonici gradevoli tanto da definirlo una musica. Il rumore altro non è che un suono che per irregolarità, intermittenza e casualità delle sue oscillazioni viene percepito come sgradevole. In questo, l’intensità dello stesso gioca un ruolo

fondamentale. Siamo immersi nei rumori, il rumore ci circonda, ma anche noi lo produciamo, diventando attori e vittime dell’inquinamento fonico. I più frequenti assalti alle nostre orecchie sono l’inevitabile rumore del traffico come sottofondo continuo, i lavori in corso fuori dalla finestra, il vicino che tiene radio, TV e musica ad alto volume e il fastidio prodotto, anche quando non diventa insopportabile, può arrecare danni alla salute. L’orecchio umano percepisce solamente una certa gamma di suoni di frequenze comprese tra i 20 Hz (suoni bassi) e i 16-20000 Hz (suoni acuti). L’intensità delle onde sonore si misura in decibel (dB), unità che valuta il livello di variazione di pressione acustica relativamente alla capacità uditiva del nostro orecchio. Un valore di zero dB è pari al livello minimo udibile a 1000 Hz, la soglia del dolore è fissata attorno ai 130 dB. Per dare qualche idea concreta ricordiamo che un aereo al decollo, alla distanza di 50 m, ci invia un rumore di 125 dB, un martello pneumatico e una sirena circa 120 dB, una motosega 100 dB, un urlo o il trillo di un fischietto 90 dB. Possono causare danni permanenti all’udito elevati e durevoli livelli sonori (si parla di soglie oltre i 150 dB) ma, più frequentemente, gli effetti uditivi del rumore provocano alterazioni funzionali transitorie e reversibili. Tuttavia anche a livelli bassi i suoni indesiderati possono compromettere il benessere fisico e psichico. Il rumore è un suono fastidioso e in sua presenza l’organismo si mette in allerta. Produce, per esempio, ormoni dello stress come l’adrenalina e il cortisolo. Aumentano anche il battito cardiaco, la pressione sanguigna e la frequenza respiratoria. Le persone reagiscono al rumore in modo diverso: l’atteggiamento individuale, le condizioni di salute, l’età e l’orario sono fattori che concorrono alla sensibilità verso questa fonte di inquinamento. Oltre alle conseguenze di una sovraesposizione diurna al rumore sono ancora più preoccupanti quelle che derivano da un sonno disturbato. Perfino quando si crede di

Tra i grossi produttori di rumore, il decollo di un aereo e le autostrade. (Marka)

aver dormito bene, se siamo stati in presenza di un rumore di fondo superiore ai 35 dB il nostro cervello ha continuato a percepirlo e la fase di addormentamento e di sonno più profondo, nella quale il riposo è maggiore, sono state disturbate. Per questo non è consigliabile dormire con il sottofondo del rumore di un’aria condizionata – certi alberghi dovrebbero pensarci! – o in presenza di un frigorifero in funzione. I disturbi del sonno, specie nel momento di addormentarsi, derivano anche dalla quantità di rumore assorbita durante il giorno. Per valutare e limitare l’inquinamento fonico la legislazione definisce dei valori di pianificazione (legati alla creazione di nuovi impianti), valori limite di immissione (cioè di esposizione al rumore) e valori di allarme per i diversi tipi di rumore. I dati sono fissati nell’ordinanza contro l’in-

quinamento fonico (OIF). In un’abitazione il valore di pianificazione è fissato in 55 dB per il giorno e 10 di meno per la notte, il valore limite di immissione rispettivamente 60 e 50, mentre quello d’allarme in generale è 70 dB per il giorno e 65 per la notte. Il traffico sulla strada è di gran lunga la fonte principale di rumore in Svizzera. Una persona su cinque durante il giorno e una su sei la notte è esposta a casa sua a rumori molesti dovuti al traffico autostradale. L’85 per cento delle persone di questa statistica vive in città e agglomerati urbani. Chi può si trasferisce in zone più silenziose lontano dai centri, ma questa fuga dalle città comporta un aumento del pendolarismo di lavoro con annesso rumore. Bisognerebbe vivere nei centri urbani dove si lavora, ma la mobilità odierna e l’organizzazione del lavoro ci dicono che non

è possibile. L’urbanistica legata al «design sonoro» ha ancora molto da fare. La pianificazione territoriale e la gestione delle zone rumorose sono oggetto di ricerche da parte dell’ufficio federale dell’ambiente (Ufam). Anche fuggire temporaneamente dalle città verso oasi di quiete può rilassarci. Quiete non è necessariamente sinonimo di silenzio perché certe fonti sonore (il cinguettio degli uccelli, il rumore di un fiume) possono darci sensazioni di benessere. Ma ben sappiamo che spesso il rumore di un’autostrada ci raggiunge anche in boschi e vallate. Al rumore non si sfugge, l’unica cosa è cercare di limitarlo alla fonte. Le conquiste tecnologiche devono aiutarci: motori più silenziosi, freni meno stridenti e pavimentazioni stradali fonoassorbenti sono misure da sostenere e da promuovere.


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Ambiente e Benessere

Due Smart totalmente inedite

AZIONE

Motori Fortwo e Forfour sono state disegnate

su misura per la mobilità urbana

Il 16 luglio a Berlino è stata presentata in pompa magna la nuova generazione di Smart Fortwo e Smart Forfour. Due vetture completamente inedite disegnate su misura per la mobilità urbana del futuro.

Intanto nel mondo elettrico e ibrido la Leader è la Nissan Leaf, di cui circolano oltre 120 mila unità I riflettori si sono quindi accesi sulla capitale tedesca per una vera e propria anteprima mondiale. Non una sbirciatina e via, ma un debutto ufficiale caratterizzato da foto, video e dettagli tecnici per la piccola erede dell’utilitaria che ha rivoluzionato il traffico cittadino, almeno per quanto riguarda le dimensioni, ormai quindici anni or sono. La nuova Smart si distingue per sbalzi molto corti, lunghezza ridotta all’osso e raggio di sterzata minimo. La Fourtwo è lunga, infatti, solo 269 cm, larga 166 e alta 155 mentre la Forfour, che ha quattro posti, è lunga 349 cm. Il motore è posteriore per entrambe come anche la trazione. Per il cambio si può scegliere un manuale a cinque rapporti o un confortevole automatico. Al momento della commercializzazione che avverrà entro fine anno si potrà scegliere tra due propulsori benzina di origine Renault entrambi da 900 cmc che si differenziano per la potenza disponibile: 71 e 90 cavalli. Si sa anche che nel 2015 arriverà un motore con 60 cavalli e che di diesel non se ne parla. Già noti i prezzi che si aggireranno sul mercato tedesco intorno ai 12mila euro, 650 euro in più per la versione quattro porte. Insomma di notizie sul nuovo modello, il Gruppo Daimler ne ha

date davvero molte. A volte però a diventare la notizia più importante, perdonate il gioco di parole, è una non notizia. Eccola: non si è parlato di versioni ibride oppure elettriche. Ma come? Oggi in Svizzera è già in vendita una Smart elettrica con prezzi a partire da 24’500 franchi ma è basata sul vecchio modello. Sembra davvero strano che Smart non ipotizzi di applicare questa tecnologia al nuovo, che non realizzi una NewSmart a emissioni zero. Eppure nelle informazioni date alla stampa non se ne parla ancora e considerando quanto l’ecologia e l’ambiente siano temi sensibili questa «dimenticanza» appare ancora più singolare. Basti pensare che in base a uno studio del californiano «Plug-In Hybrid & Electric Vehicle Research Center», a tutto giugno 2014 le vendite globali di vetture elettriche e ibride plug-in hanno già superato la soglia delle 500mila unità. Leader tra i modelli è la Nissan Leaf, di cui circolano oltre 120 mila esemplari sulle strade. Seguono la Chevrolet Volt e la sorella Opel Ampera, più staccate Toyota Prius plug-in e Tesla Model S. Gli U.S.A. oggi sono il mercato principale con 200mila veicoli. Insomma un mercato importante quello delle vetture ecologiche. Lo dimostra, se mai ce ne fosse bisogno, anche il Gruppo Volkswagen con l’ottava generazione della Passat che è stata svelata anch’essa in questi giorni presso il suo Centro Design di Potsdam. Volkswagen ha dato molti dettagli sul nuovo modello, sulla commercializzazione che è prevista da novembre dopo la passerella al Salone di Parigi. In merito ai prezzi, partiranno in Germania da 25’875 euro per la berlina e 25’950 euro per la wagon. Gli uomini Volkswagen non si sono però dimenticati di raccontare che per la prima volta nella storia, la Passat sarà disponibile anche con una variante ibrida plug-in abbinando un motore TSI da 115 kW a uno elettrico da 80 kW per una potenza complessiva di 211 cavalli. E Smart?

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Ambiente e Benessere

Quegli alimenti buttati nel cestino Elia Stampanoni Sono lontani i tempi in cui una buona parte della popolazione ticinese soffriva la fame. Quella vera, quando i nostri nonni erano obbligati a triturare anche le sedie di casa per aumentare la quantità di polenta o di farina di castagne nel piatto. Casi estremi, ma certo significativi di un passato di difficoltà, sebbene già allora si invitasse a non buttare il cibo (qui sotto i manifesti di alcune campagne americane sul tema).

Secondo le statistiche una famiglia di quattro persone spreca in media circa mille franchi l’anno di cibo A un secolo di distanza la situazione si è ribaltata. La disponibilità di cibo non è più la preoccupazione prioritaria e anche in Svizzera, globalmente, ci si trova piuttosto di fronte allo spreco alimentare che, quantificato, farebbe di sicuro indignare i nostri avi. Diverse pertanto le iniziative volte a sensibilizzare la popolazione sulla problematica. A livello elvetico è per esempio attiva l’associazione foodwaste.ch, una piattaforma di dialogo e d’informazione indipendente in tema di sprechi alimentari. Anche l’Associazione consumatrici e consumatori della Svizzera Italiana (Acsi) è molto attenta al tema e collabora alla campagna condotta dall’Alleanza svizzera delle organizzazioni di consumatori (con il sostegno dell’Ufficio federale dell’ambiente). Già nel 2012, l’Acsi condusse

una ricerca sui prodotti freschi scaduti, avviando così la propria campagna contro quest’aspetto assurdo del benessere moderno: gettare il cibo. L’Acsi ha pure pubblicato diversi consigli, sia sulla Borsa della Spesa sia sul suo sito internet, e ha partecipato alla mostra itinerante Sprecare il cibo. Che stupidità. Nel 2014 ha infine proposto un concorso che premierà le idee innovative per la riduzione di questi sprechi. Secondo i dati pubblicati dall’associazione foodwaste.ch e basati su ricerche scientifiche, nel percorso tra il campo e la tavola, circa un terzo delle derrate alimentari prodotte in Svizzera vengono gettate. Questa mole corrisponde a circa due milioni di tonnellate all’anno di cibo paragonabili a circa un carico stipato in 140mila autocarri. Il consumatore può fare molto, dato che la metà di questi rifiuti vengono prodotti proprio nelle economie domestiche e nella gastronomia. Si stima che ogni

giorno sono quasi 300 i grammi di alimenti che ogni persona butta nella spazzatura. Impressionante anche il piccolo calcolo finanziario che ne deriva: una famiglia composta da quattro persone, sempre in media, perde circa mille franchi l’anno per il cibo che finisce nell’immondizia. Uno spreco di soldi, ma anche di risorse ambientali ed energetiche: pensiamo che per produrre un chilo di mele occorrono circa 700 litri d’acqua, per un litro di latte circa mille e per 1 chilo di carne di manzo oltre 15mila. Gettare il cibo significa insomma, oltre che sprecare il proprio denaro, anche sprecare importanti e preziose ricchezze naturali. Come ogni problema anche questo dello spreco alimentare ha attivato diversi meccanismi. Il film Salvatori del cibo (traduzione di Die Essenretter) del regista tedesco Valentin Thurn è un’interessante raccolta d’iniziative attuate in tutto il Mondo. In Olanda esiste per esempio un’azienda (con oltre 4mila filiali) che si è specializzata nella valorizzazione di alimenti in fase di scadenza. La ditta ritira generi alimentari freschi e invenduti, che altrimenti finirebbero nella spazzatura, per poi cucinarli e rivenderli sotto forma di prodotti cotti. Nel nord d’Europa sta insomma nascendo una nuova e interessante attività con un grande potenziale e cifre d’affari già significative. In Inghilterra le varie attività per sensibilizzare le persone hanno permesso di ridurre lo spreco e i dati parlano di un 13 per cento in meno rispetto al resto dell’Europa. Le strategie degli inglesi? Agire su più livelli: tecnologie e innovazioni nell’industria per diminuire gli sprechi (con degli investimenti che saranno ancor più redditizi quando il prezzo del cibo tornerà a salire); valorizzazione di verdure e frutti imperfetti; porzioni adeguate nei ristoranti e anche incentivi per chi non crea avanzi nella ristorazione. L’obiettivo di base è di correggere la mentalità della gente affinché acquisti volumi conformi alle proprie necessità. Il cliente dovrebbe insomma acquistare quantitativi che riesce a consumare, rispettivamente imparare a valutare se un prodotto scaduto può ancora essere consumato senza problemi. A Berlino è invece attivo Second Bäck, un servizio di panetterie che ritirano il pane a fine giornata per rivenderlo il giorno seguente a prezzi decisamente favorevoli. Si evitano così importanti sperperi di questo

Anche Migros Ticino, contro lo spreco alimentare La quota della spesa alimentare sul totale del reddito disponibile è passato dal 40 a meno del 10 per cento nel giro di settant’anni (Ufficio federale di statistica). Lo scarto rappresenta un costo ed è logico che tutti cerchino di mantenere questo volume il più basso possibile. Anche Migros Ticino è molto attiva e sensibile alla problematica, applicando diverse strategie per ridurre lo spreco alimentare. Ecco gli esempi più significativi. Ordinazioni merce: un sistema parzialmente automatizzato di venditaordinazione permette di mantenere uno stock ottimale nel punto vendita. Ribassi: per ridurre eventuali merci invendute Migros Ticino propone riduzioni del 25, del 50 per cento o

eccezionalmente fino al 75 per cento (a seconda degli assortimenti, degli stock e degli orari). Con questa misura si elimina o si riduce notevolmente la rimanenza di merce la cui data di vendita sta per scadere. Collaborazione con Tavolino magico: Migros Ticino consegna la merce con data di vendita scaduta ma con data di consumo ancora valida all’associazione Tavolino magico che la distribuisce entro i termini di consumo. Scarti e rifiuti: scarti e rifiuti alimentari vengono ritornati presso la sede centrale di S. Antonino in appositi contenitori e quindi raggruppati. Qui vengono pressati o pretrattati per essere poi consegnati alle aziende di riferimento per la successiva

lavorazione o eliminazione. In alcuni casi servono da materia prima per ulteriori usi (per esempio gli scarti ortofrutticoli vengono consegnati alla Ökostrom di Contone che produce biogas). Migros Ticino fa dunque parecchio per ridurre lo spreco alimentare. Da calcoli risulta che il 98,6 per cento dei prodotti offerti nei negozi e ristoranti Migros è consumato quale alimento. Del quantitativo restante l’1,1 per cento viene riciclato (0,2 nell’alimentazione animale; 0,8 nella fermentazione e produzione di biogas; 0,1 destinato alla produzione di compost) e solo lo 0,3 per cento dei prodotti alimentari offerti finisce quindi nei rifiuti destinati al termovalorizzatore.

Tim Jewett

Sostenibilità Il 2014 è l’anno europeo contro lo spreco alimentare: il consumatore può fare qualcosa

prodotto che, nella lista degli alimenti sprecati, è tra i primi assieme a verdura, frutta e pesce. A livello svizzero si sta invece sviluppando il foodsharing, un’iniziativa nata in Germania e Austria e che ora ha varcato i confini approdando, fino a questo momento, in 26 città elvetiche (tutte a nord delle Alpi). Qui si tratta di una piattaforma di scambio di prodotti acquistati in eccesso. L’offerta è valida solamente per alimenti non deperibili e non cucinati (per esempio conserve, miele, cereali, pasta, riso, farine,…) e l’utente, registrandosi sul portale di myfoodsharing, può offrire quegli alimenti che non riesce a consumare e quindi evitare che vangano buttati nella spazzatura. I potenziali acquirenti possono cercare online un’offerta che può rivelarsi vantaggiosa, sia per chi compra sia per chi vende, ma soprattutto per l’ecosistema. Lo «scambio di cibo» è solo agli inizi, ma già sono diversi i privati, le società e le associazioni, oppure anche i ristoranti, gli alberghi e i commercianti che ne stanno approfittando, contribuendo così a diminuire lo

spreco alimentare e lo sperpero di risorse ambientali ed economiche. Indirizzi utili

Associazione consumatrici e consumatori della Svizzera Italiana: www. acsi.ch; Associazione foodwaste: foodwaste.ch; Foodsharing Svizzera: ch.myfoodsharing.org


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Ambiente e Benessere

Inti Raymi! Viaggiatori d’Occidente Galleggiando

tra le nuvole alla Festa del Sole Paolo Brovelli, testo e foto La prima volta che sono entrato al Cusco, la terra aveva un odore d’erba secca. Era di notte, e venivo dalla puna, come sempre si fa, steppa infinita, riarsa per le tenui piogge di maggio, perduta oltre i quattromila metri dell’altopiano andino. Il Cusco m’aspettava da secoli, pesante sopra le pietre ancestrali che mille operai schiavi avevano cavato nella notte dei tempi, e levigato in una cava lontana, a fondamenta della gloria dell’Inca. Era un miraggio che galleggiava tra le nuvole, miraggio scuro ma leggero come le alture intorno, gonfie come colline in groppa alle montagne. Sulla sua conca s’erge il Cristo blanco che guarda giù, redentore, tra i campanili delle chiese antiche e le tegole d’arancio fosco. Veglia pietoso (e lontano) sugli stessi volti di sempre, lisci di vento, bruni di sole, su sguardi dagli occhi aguzzi e corpi tozzi, che altalenanti si dileguano tra le stradine insieme all’eco di vecchi tacchi lisi. Il Cusco è l’ombelico, nella lingua degli incas, d’un mondo che ormai da tempo hanno perduto e che però, ogni anno, s’affannano a ritrovare nella messinscena d’una festa dedicata al sole: l’Inti Raymi. Ecco perché sono qui, stavolta. Quest’anno ricorre il settantesimo: nel 1944 un manipolo di intellettuali cusqueños si batté per resuscitare la gloria della capitale imperiale. Cusco è pur sempre una città indigena. Faustino Espinoza Navarro, si chiamava il più fervente, un mestizo, meticcio, che si batté anche per il recupero «colto» della lingua quechua, quella dell’impero incaico, imposta dalle dinastie dei Figli del sole a tutti i sudditi, dalle province montane dell’Ecuador fino al Cile. Lì tuttora è parlato, in molte varianti, da una decina di milioni di persone. Espinoza redasse (in quechua) la sceneggiatura dell’Inti Raymi e interpretò per quattordici anni la figura più importante della rappresentazione,

l’Inca (re) Pachacútec, artefice dell’impero di cui sopra (1438-1471). Si tratta di un’opera d’invenzione, colpevole la discordanza delle fonti coeve, una per tutte i Commentari reali degli Inca, di Garcilaso de la Vega (1609), possibile testimone oculare. La settantesima festa non è più quella del ’44, anche se mantiene alcune scene originali, come i riti della chicha o il sacrificio del lama. Ora si comincia con il saluto dell’Inca al Sole – Intilláy! Taytalláy! Sole mio! Padre mio! – dal Coricancha, il Tempio d’Oro, nel perimetro della chiesa di San Domenico. Squadre in costumi antichi, tutti diversi per la supposta provenienza, disegnano schiere silenziose nelle terrazze del giardino, dove si dice vi fosse rappresentata tutta la flora e la fauna dell’impero in statue d’oro a grandezza naturale. Al ritmo d’un tamburo, finché l’inca, da lassù, non ha finito la sua parte. Poi via, in fila indiana, tra una folla di spintoni, occhiali da sole e fotografie, a guadagnar la Plaza Mayor, l’antica Huakaypata, dove tra visi d’ogni razza, l’inca di oggi incontra il sindaco e gli consegna ritualmente la potestà. La grande rappresentazione però si tiene su, nella spianata del Sacsayhuaman, l’antica fortezza, dove s’allestiscono tribune per le centinaia di paganti, mentre sui rilievi intorno s’accalca gratis chi più diritto avrebbe: per nascita, per tradizione, per credo. La festa è sentita nel profondo. Se ne tengono di simili in tutte le Ande, sotto altri nomi, ma con lo stesso significato. È il solstizio d’inverno, quando il sole, padre mitologico della dinastia incaica, è in agonia, e i sacrifici faranno sì che risorga e torni a crescere. Dalla Huakaypata la processione in costume prende la via della montagna, seguita da stuoli di civili locali, e forestieri pallidi affamati d’ossigeno – che a 3400 metri d’altezza si fa sospirare – per un paio di chilometri, fino a sotto le mura ciclopiche della fortezza incaica. Sono le stesse pietre del Co-

Vicolo di Cusco.

ricancha, le sue, del mitico palazzo dell’Inca Roca, ora dell’arcivescovo. Gli stessi macigni squadrati e rigonfi incastrati ad arte (incaica!), senza malta, ad argine dei vicoli stretti come gole della città, che non a caso in quechua si dico-

no kijllu, non «via», ma «crepa», nella roccia. Come se la montagna si fosse fatta urbe. Fu il teatro dell’ultima resistenza dell’ultimo e più esteso impero d’America. Poi, la roccaforte fu smantella-

Saluto Corikancha.

Il cuore estratto simbolicamente durante la cerimonia.

Plaza de Armas di Cusco.

Sacsayhuaman con la statua del Cristo.

ta. Ne rimane solo una parte, la base, a suggerire la maestosità del complesso. Ma ecco, dall’altura cominciano a gocciolare i primi gruppetti variopinti, al ritmo dei musici. Vanno verso il palco allestito in mezzo alla spianata, un piedistallo di pietre di cartapesta dove, in portantina, viene trasportato l’inca per ricevere i doni e i resoconti degli emissari dei quattro cantoni del suo impero, il Tahuantinsuyo. S’allineano danzanti provenienti dai quattro punti cardinali assoggettati all’inca: il Qollasuyo, a sud, l’altopiano, il Chinchasuyo, l’arido nord, il Kuntisuyo, il ponente, e l’Antisuyo, le genti seminude del levante amazzonico. Recano notizie dai remoti territori da cui nessuno poteva mai uscire senza il permesso reale. E la gente fotografa, e segue il copione sul libretto che è stato dato all’entrata, anche se non si capisce niente. Solo colori e suoni da sciamani. Ecco la cerimonia della chicha, la bevanda rituale fermentata dal mais. Gli alti dignitari la ripartono per il brindisi al Sole, che oggi ci ha beffati giocando a nascondino con le nubi… La festa culmina con un sacrificio. Qualcuno preleva un lama, anzi un alpaca, nero come vuole la tradizione. Lo trascina al piedistallo, lo issa, lo corica sull’ara sacrificale, lo lenisce… si cheta. Poi il boia alza il tumi, il coltello rituale. Mostra l’arma, declama e la cala, decisa, tra coloro che trattengono la vittima. Fino a estirparne il cuore, che per fortuna – brandito ai quattro venti – appare enorme. È quello d’una vacca. Ci siamo risparmiati il sacrificio, ma il sole non s’è accorto. Eccolo là, che esce allo scoperto e ci sorride soddisfatto! L’inca se ne va, sale sulla lettiga e viene portato in trionfo sotto gli spalti, che applaudono con forza. Me ne vado anch’io, guardando con complicità questo sole del Duemila, che non ha più bisogno di sangue per gioire.


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Nove tappe per nove chilometri Gusta il Borgo Appuntamento ad Ascona, sabato 30 agosto, per la terza edizione

dell’atteso evento enogastronomico Organizzata dall’associazione Amis da la forchéta, sta per tornare la bella scampagnata mangereccia da condividere in compagnia di amici e familiari. Nove tappe per nove chilometri di facile passeggiata, permetteranno agli 800 iscritti di scoprire la nuova offerta enogastronomica: un degno festeggiamento per il terzo anno di vita di Gusta il Borgo. L’intento resta lo stesso di sempre, ovvero quello di far scoprire e promuovere i prodotti locali con i loro produttori autoctoni accuratamente selezionati in un contesto che valorizzi natura e paesaggio per mezzo di ghiotte tappe dislocate in magnifici angoli che il borgo asconese offre. Diverse le novità per questa nuova edizione, oltre l’offerta culinaria ed enologica rivista. Per citare alcuni esempio, si va dall’applicazione scaricabile per gli smartphone che permetterà di geolocalizzarsi durante l’interno percorso, all’introduzione delle forchette blu alfine di permettere di dissetarsi lungo il percorso e sensibilizzare i partecipanti per quanto riguarda l’uso dell’acqua potabile. Si ricorda inoltre che esiste pure il percorso handicap friendly per coloro che hanno difficoltà motorie, oppure per le famiglie che effettueranno la passeggiata con bimbi in passeggino. Gli organizzatori auspicano che i partecipanti optino per mezzi di locomozione ecosostenibili oppure l’utilizzo dei mezzi pubblici per raggiungere il fulcro centrale della manifestazione,

Informazioni

Amis da la forchéta, c/o Hotel Mulino, 6612 Ascona.

ovvero l’ex aerodromo di Ascona (segnalato all’arrivo in paese) con ampi parcheggi gratuiti a disposizione. In loco si effettuerà il check-in e si riceverà il packaging indispensabile per la passeggiata dalle 08.30 alle 11.40. Successivamente si potrà portare a casa un ricordo tangibile dell’happening mangereccio, per mezzo del mercatino allestito da tutti i produttori presenti alla Gusta il Borgo, oppure

fermarsi alla buvette degli Amis da la forchéta per finire degnamente la giornata passata a degustare e scoprire la qualificata filiera enogastronomica regionale. Le iscrizioni per mezzo del portale www.amisdalaforcheta.ch sono aperte dal 4 agosto: «I primi 800 iscritti saranno i benvenuti» affermano gli Amis da la forchéta, aggiungendo che «Siamo entusiasti e cercheremo di sorprendervi dall’offerta enogastronomica che vi sarà proposta: vi aspettiamo numerosi! Gustosi saluti». La manifestazione si terrà con qualsiasi tempo.

Gusta il borgo, sabato 30 agosto, fulcro centrale all’ex aerodromo di Ascona

In palio 4 pass Migros Ticino mette in palio 4 pass (2 pass per 2 vincitori). Per aggiudicarseli basta telefonare mercoledì 30 luglio alle ore 10.30 al numero 091 840 12 61. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

La moda di mangiare pesce Gastronomia Un alimento proteico che sta sostituendo nell’immaginario collettivo

Allan Bay Il pesce è sempre più di moda. Tutti o quasi dicono che lo amano perché è buono, fa bene, eccetera. Di fatto ha sostituito nel nostro immaginario collettivo il ruolo che per secoli ha avuto la carne bovina rossa: ovvero l’«essenza» delle grandi, nobili proteine. Per quanto i fan della carne rossa – è una mia stima, non ho statistiche – siano ancora in maggioranza, i seguaci del pesce sono sia pur una minoranza, ma di certo robustissima, perlomeno in Occidente. Tuttavia l’anno scorso, il dato fa impressione, la produzione globale delle sole specie acquatiche allevate ha raggiunto i 66 milioni di tonnellate, superando per la prima volta quella di carne bovina – anche se 42 di quei 66 milioni sono allevati in Cina, un mondo a sé, dove allevano pesci da millenni. Se si considera poi il consumo di maiale e altre carni e quello del pesce pescato, soprattutto di aringhe e sardine, il re dei pesci conservati (ma la produzione totale del pesce pescato è comunque in discesa dato che i mari sono esausti), in realtà non so quale sia il risultato, oggi. È probabile che in pochi anni, poco ma sicuro, il pesce allevato la farà da padrone. Basti considerare che solo 30 anni or sono era una piccola parte del pescato totale… Sì, il mondo cambia e di corsa.

Se il pesce non viene cotto, più che l’origine naturale o coltivata dello stesso, a fare la differenza è la freschezza perché il sapore è simile Ma com’è questo pesce allevato? La tecnica dell’allevamento, sia quella in vasche a terra sia quella in mare, non è ancora del tutto a punto, si continua a studiare e a cercare le soluzioni migliori, come è inevitabile che accada con un’industria così giovane. Due cose sono cer-

te: da un lato la qualità si sta innalzando anno dopo anno, molto velocemente, e anche i problemi di inquinamento legati a questo allevamento diventano sempre più gestibili. Dall’altro, è assodato che i maestri assoluti saranno i cinesi, i quali allevano da sempre e hanno una competenza accumulata inarrivabile. Una penultima considerazione da fare è che lo sviluppo dell’allevamento dei molluschi, per i quali stravedo, sarà, pare, più tumultuoso e con risultati più entusiasmanti; nonostante, di fatto, i molluschi non siano pesci, ma piuttosto, diciamo così, equipollenti. Alzi la mano chi si sente turbato da quest’ultima notizia… Infine, ancora da dire di interessante è che oggi, e ragionevolmente anche domani, un branzino pescato, magari all’amo, dopo che viene cotto è molto meglio di un suo confratello allevato cotto nella stessa maniera. Però se mangiato crudo, a parità di freschezza, la differenza è molto meno marcata: e questo vale per tutti i pesci. È la freschezza che fa la differenza, più che l’origine, se il pesce non si cuoce. Quindi? Quindi mangeremo sempre più sushi, tartare e carpacci di mare. Pazienza, mi sento di dire, soprattutto perché a me il pesce crudo piace! Questo boom del pesce allevato, dunque, è un bene, è un male? Direi in risposta che è semplicemente un fatto inevitabile. Per millenni la carne consumata è derivata dalla caccia, solo «recentemente» (in millenni sia chiaro) abbiamo imparato ad allevarla, prima i polli poi tutto il resto. Oggi la caccia in funzione di sostentamento non esiste più. Domani la pesca, che è l’equivalente marino della caccia, sparirà o quasi: o meglio, prima i pesci pescati costeranno uno sproposito mentre quelli allevati diventeranno di norma; infine quelli pescati diventeranno introvabili come lo sono oggi una quaglia selvatica o un fagiano non allevato. Allevando tanto i pesci, comunque, alla fine diventeremo altrettanto bravi così come già facciamo oggi con i nostri bovini.

Mike Peel

il ruolo ricoperto per secoli dalla carne bovina

CSF (come si fa)

Oggi vediamo come si fanno due risi dolci, dei dessert, ambedue veramente preparazioni molto classiche e facili da preparare. La prima si chiama mahallebi o muhallebi, ed è un piatto della tradizione turca. Si tratta di una crema a base di riso e di fecola di riso arricchite con panna, molto dolce come vuole quella tradizione. La seconda, credo che sia di origine siciliana, come molti dolci peraltro: comunque non

è un dono degli arabi, poco ma sicuro; anche se scoprire la ricetta primigenia di un dessert così semplice è virtualmente impossibile. Sappiamo però che il cioccolato è arrivato in Europa ben dopo che gli arabi sono stati espulsi dalla Sicilia. Se invece è di un’altra tradizione italiana o non, chiedo scusa fin da subito. Mahallebi. Per 6 persone. Cuocete 100 g di riso a piacere per 20’ o fino a quando risulterà molto morbido. Toglietelo dal fuoco, scolatelo e versate in una ciotola l’acqua di cottura, filtrandola attraverso una pezzuola. Quando si sarà raffreddata, unite 120 g di fecola di riso, 6 dl di panna, 250 g di zucchero e il riso, quindi mescolate delicatamente. Versate il composto in una casseruola e cuocete rimestando continuamente finché inizierà a prendere

una consistenza gelatinosa. Toglietelo dal fuoco e lasciate raffreddare sempre mescolando. Dividete il composto in 6 coppette di vetro, spolverate di zucchero a velo e di cannella in polvere o con acqua di rose e conservate in fresco fino al momento di servire. Riso nero. Per 4 persone. Portate a bollore 2 litri di acqua, salatela, tuffateci 150 g di riso a piacere e lessatelo. Tritate finemente 50 g di cioccolato fondente. Scolate bene il riso e conditelo subito con il cioccolato tritato mescolando velocemente perché si sciolga completamente e colori di nero il riso in modo uniforme. Versate su un piatto di portata e spolverizzate con 2 cucchiaiate di zucchero a velo mescolato con 2 cucchiaini di cannella in polvere. Servite il riso freddo.

Manuela Vanni

Oggi due ricette delicate, cotte a vapore. Le fave sono arricchite con ricotta, meglio se di capra, gli spaghetti sono una versione cinese dei mitici spaghetti «with meat balls» americani.

Manuela Vanni

Ballando coi gusti

Fave, melograno e ricotta

Spaghetti cinesi con polpette di carne

Ingredienti per 4 persone: 1 kg di fave già pulite · 200 g di ricotta (meglio se di

Ingredienti per 4 persone: 300 g di spaghetti cinesi · 300 g di carne di manzo

capra) · 2 cipollotti · 2 melograni · 1 mazzetto di mentuccia · 1 limone · olio di oliva · sale e pepe.

tritata · 1 mazzetto di prezzemolo · 1 mazzetto di mentuccia · 40 g di pinoli · 1 uovo · 2 scalogni · 1 spicchio d’aglio · olio di oliva · sale.

Lavate le fave, poi cuocetele a vapore per 15’. Nel frattempo, sgranate un melograno e ricavate il succo dal melograno rimasto tagliandolo a metà e spremendolo allo spremiagrumi, come fareste con un pompelmo. Mondate e tritate la mentuccia. Mondate e tagliate a rondelle i cipollotti. Grattugiate lo zest del limone, ricavatene il succo da una metà. Emulsionate il succo di melograno con il succo del limone e 4 cucchiai di olio. Aggiungete i cipollotti, la mentuccia, lo zest, insaporite con un pizzico di sale e uno di pepe e mescolate. Trasferite le fave in una ciotola, conditele con l’olio aromatizzato e mescolate. Unite la ricotta spezzettata grossolanamente, guarnite coi chicchi di melograno e servite.

Ammollate gli spaghetti in una ciotola colma di acqua fredda per 10’. Nel frattempo, mondate e tritate gli scalogni, l’aglio e la mentuccia. Tostate i pinoli in una padellina. Frullate la carne con la mentuccia, l’aglio e gli scalogni. Unite l’uovo e frullate ancora fino ad avere un composto omogeneo. Regolate di sale. Con le mani formate delle polpettine della grandezza di una noce e cuocetele a vapore per 8’. In un cestello a parte, cuocete gli spaghetti per 5’. Distribuite gli spaghetti in 4 ciotole, unite le polpette e i pinoli. Condite con un filo di olio e mescolate. Cospargete con il prezzemolo tritato prima di servire.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 28 luglio 2014 ¶ N. 31

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Ambiente e Benessere

Il dono degli Inca

Bacco a tavola Che vino accostare alla «regina» patata

Davide Comoli Alzi la mano, chi tra di voi nell’immergere le dita in un piatto o cartoccio di patatine fritte, acquistate durante una fiera o una sagra del paese non abbia provato piacere nell’ignorare un divieto dietetico. Mangiare un alimento senza colpevolizzarlo pur sapendo di infrangere certe regole, quelle legate al consumo di una pietanza tanto avversata dai discorsi dei medici che la ritengono troppo grassa, troppo calorica, ebbene è un gesto dal buon sapore della libertà! Sentite il profumo, il buon aroma che emanano le patatine fritte. Davanti a questo piatto i ricordi ci riportano ai nostri favolosi 18 anni, quando a Jersey C.I. con i pochi scellini che ci rimanevano nelle tasche, ci compravamo il cartoccio di «fish and french fried» belle grasse e poi per strada o lungo la spiaggia, alla sera con Kate, mangiavamo senza piatti, senza posate, senza paura di ungere le dita: com’eravamo felici con poco. È difficile stabilire come e quando la patata è entrata a far parte dell’alimentazione umana. Alcuni reperti ne accertano la coltivazione fin dal 2500 a.C., in vaste zone e fino a un’altitudine di 4500 m: questo significa che veniva utilizzata là dove il mais non poteva crescere. I primi Europei a incontrare la patata nel 1537, facevano parte di una pattuglia di soldati Spagnoli di stanza a Sorocota, villaggio sperduto tra

le Ande Peruviane. Si narra che questi conquistadores, saccheggiando le povere capanne del villaggio, oltre a fagioli e mais, trovarono degli strani tuberi, di diverse misure e colori. La popolazione Inca (vedi reportage a pagina 13) non usava questi tuberi solo come cibo: una volta tagliati a rondelle potevano essere usati a scopo lenitivo per curare reumatismi, mal di testa e calmare il fastidio dato dalle punture dei numerosi insetti presenti. Fu verso il 1570 che la patata coltivata in Spagna, fece la sua apparizione sul mercato di Siviglia, da dove il cattolicissimo Filippo II (1527-1598) inviò a Papa Pio IV alcuni di questi tuberi: era l’anno 1585. Molto probabilmente furono delle Guardie Svizzere al servizio del pontefice a introdurre nel nostro paese (1590) il tubero, non utilizzato come alimento, ma bensì come pianta ornamentale. Nel 1596 il naturalista basilese Bauhin nella sua celebre opera Phytopinax, nel descrivere la patata, la cataloga con il nome latino Solanum tuberosum e ulteriormente in altri suoi scritti, parla delle sue utilizzazioni. Contemporaneamente il navigatore inglese Sir Raleigh, il protetto di Elisabetta I, favorirà la coltivazione a scopi alimentari di questo tubero in Irlanda da prima e poi in Inghilterra, ma nonostante le numerose carestie, si continuò per ragioni diverse a disdegnare le patate. Fu la fame e l’alto costo della vita, ma soprattutto furono le pressioni delle autorità, in fin dei conti a favorire la

coltivazione di questo tubero quale alimento e tra i «pionieri» delle patate, non possiamo non citare il farmacista francese Augustin Parmentier che, a cavallo della Rivoluzione Francese, dimostrò come grazie alla facilità della coltivazione, la patata poteva sconfiggere la miseria. Dopo la Rivoluzione, la fama della patata si sparse dovunque, ma a prezzo di disastri, come la grande tragedia che colpì il popolo irlandese legata alla peronospora negli anni del 1850. Ma Parmentier aveva ottenuto il suo scopo e in suo onore, molte ricette a base di patate portano il suo nome. La patata è diventata un prodotto indispensabile in cucina e gastronomia, essa entra in un’infinità di preparazioni. La patata è la base dei purées e dei gratins; si sposa a tutte le carni e pesci; a dipendenza dell’uso, bisogna scegliere la varietà che più confà (bintje, monnalisa, agata, belle de fontenay, charlotte, ecc.). Su un vecchio ricettario, abbiamo trovato più di 240 modi di preparare le patate, vapoeur (all’inglese), il purée (già citato), i gratins (savoyart o dauphinois), al forno, sotto la cenere, boulangère (al forno con cipolle), noisette, solo per citarne qualcuno. Esistono piatti di patate della cucina classica, pommes souffées, Anna, duchesse, dauphines. Le stesse fritte così popolari, si suddividono in: allumettes, paille (più fini delle tradizionali fritte), Pont-Neuf (più spesse), chips (rondelle) soufflées, ecc. Un vino bianco giovane, secco e

Marka

e alle molteplici ricette con cui possiamo cucinarla?

fresco d’acidità potrebbe ottimamente accompagnare delle patate al rosmarino, ad esempio potrebbe essere perfetta una Falanghina Campana. Uno Chasselas di Vully verrà gustato invece con dei rösti à la mode d’Uri. Un Jacquère con un gratin savoyard, mentre un buon Pouilly-Fuissé troverà conforto in una pie irlandese. Con un piatto di gnocchi burro e salvia o ai formaggi, dove grassezza e aromaticità richiedono un gusto più deciso,

provate un Riesling del Canton Zurigo e non vi pentirete. Se invece i vostri gnocchi saranno conditi con un ragù di carne, provate un giovane Morellino di Scansano. E se dopo questa abbuffata di patate, vi sentirete un piccolo peso sullo stomaco, non disperate, in vostro soccorso può essere d’aiuto – servito freddo, ma mai con aggiunta di ghiaccio – un Taffel Akvavit, un’acquavite danese distillata di sole patate. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Attenti al gatto! Mondoanimale Caldo e atmosfera estiva invitano i felini di compagnia a lanciarsi in avventure

che potrebbero causare seri grattacapi ai loro proprietari

Maria Grazia Buletti Curiosi, agili, furbi, avventurieri… e con sette vite, si dice. Ma anche fosse, perché sprecarne qualcuna? Parliamo dei gatti e dei pericoli a cui possono andare incontro, complice il caldo e l’arrivo dell’estate. In primis, ne citiamo qualcuno inerente la salute, che può essere facilmente evitato con pochi piccoli accorgimenti. Pensiamo ai parassiti come pulci e zecche che possono attaccare anche i felini, oltre che i cani. Gli esperti ci rendono però attenti sul fatto che per i gatti bisogna prestare particolare attenzione ai prodotti antipulci utilizzati, perché quelli per cani contengono sostanze – come la permetrina – che possono risultare tossiche per i gatti. Per non parlare, poi, delle vere e proprie battaglie nelle notti estive che vedono protagonisti intrepidi felini alla conquista di una gattina. In queste occasioni è probabile che qualcuno si ferisca ed è importante disinfettare graffi e ferite per evitare che si creino ascessi dovuti alla presenza di pelo o di

altre sostanze. Chi possiede un gatto e chi viene chiamato a soccorrere quelli in difficoltà lo sa bene: bisogna prestare particolare attenzione alle finestre, soprattutto d’estate, quando il caldo si fa sentire. Ce lo conferma la guardiana di animali e volontaria della Società protezione animale di Bellinzona (Spab), Jeanette Ruedi: «Per un gatto le finestre ribaltabili sono la ghigliottina, il braccio della morte: se si sceglie di tenere aperta una finestra per lasciare libero accesso ai gatti, non bisogna mai lasciare aperta una finestra di questo tipo! Sono già morti diversi gatti che, per loro sfortuna, non sono più riusciti a liberarsi». Jeanette consiglia di optare per una finestra aperta normalmente oppure per le porticine cosiddette gattaiole. Inoltre ci ricorda che il temperamento notturno dei felini andrebbe assecondato: «Il gatto è un animale crepuscolare notturno e non perde mai il suo istinto di predatore. Noi umani, invece, per nostra serenità, tendiamo a lasciarlo uscire di giorno e lo teniamo in casa di notte. Effettivamente bisognerebbe fare

Gatti musicali Il violoncellista americano David Teie della National Symphony Orchestra e lo studioso di psicologia dell’University of Wisconsin Charles T. Snowden hanno effettuato alcuni studi sul comportamento degli animali durante l’ascolto della musica e hanno scoperto che, incredibile ma vero, i gatti coltivano veri e propri gusti musicali! I due studiosi si sono resi conto che i felini amano una musica che risponde a rigorose regole armoniche e quella più apprezzata contempla i fruscii che ricordano il suono dell’allattamento, seguiti dalle sonorità più gaie dei versi

di animali come i cinguettii che pare li stimolino positivamente. Al contrario, alcuni suoni di norma graditi a noi esseri umani sembrano non essere apprezzati dagli animali in genere, i quali preferiscono altre sinfonie musicali, anche particolari come quelle dei gatti. Il violoncellista americano si è talmente entusiasmato della scoperta dei gusti musicali dei gatti, al punto da decidere di comporre musica esclusivamente per animali, a partire, manco a dirlo, proprio dai felini ai quali ha dedicato il progetto musicale Music for Cats.

Le «stranezze» degli edifici umani sanno mettere in difficoltà i nostri gatti… (Hisashi)

qualche parte: ad esempio in un garage o in una cantina. Può succedere che si infili in qualche canalizzazione di una casa da dove bisognerà poi provvedere a salvarlo…». Jeanette suggerisce la regola del buonsenso: «Per prima cosa, sarebbe opportuno valutare la situazione insieme ai vicini di casa e chiedere loro se hanno visto o sentito qualcosa…». Per concludere: «Un gatto che è abituato a vivere in un appartamento, senza uscire, potrà andare incontro a guai seri molto più facilmente di un gatto che è sempre stato abituato a vivere fuori e, per questo, ha imparato a convivere con la natura, con le stranezze degli edifici degli umani e nell’ambiente circostante». Anche la nostra guardiana di animali dice di aver avuto a suo tempo qualche gatto che ha abituato da subito a stare sia in casa sia fuori: «Se la sono sempre cavata egregiamente e soprattutto hanno potuto fare una vera vita da gatti!».

proprio il contrario!». Però attenzione ai gatti che poi restano intrappolati sui rami degli alberi, soprattutto quelli che sono abituati a restare al chiuso durante l’anno e non si sono potuti allenare nelle istintive arrampicate: «Ricordo un picchetto della Spab durante il quale avevamo ricevuto diverse chiamate di aiuto per gatti che erano sugli alberi e non ne volevano sapere di scendere. Abbiamo spiegato ai loro proprietari che di norma si deve intervenire solo se il gatto è sull’albero da almeno due o tre giorni e difatti, verso sera, aveva cominciato a piovere e tutti i gatti, eccetto uno, sono scesi da soli dagli alberi per rifugiarsi all’asciutto in casa». Probabilmente quell’unico micio rimasto lassù non era abituato a trovarsi in una situazione del genere: «…era il gatto d’appartamento della sorella di una signora che lo aveva temporaneamente a pensione e non ne conosceva le abitudini. Lo aveva lasciato uscire a esplorare, poi qualcosa lo aveva inti-

morito e d’istinto si era arrampicato sull’albero dal quale, però, non aveva più saputo scendere». Per fortuna lo sfortunato e sprovveduto gatto è stato tratto in salvo dalla Spab e comunque ci permette di riflettere sulle abitudini dei felini e su come una svista o scarsa consapevolezza da parte di chi li accudisce può causare qualche grattacapo. Jeanette Ruedi ci racconta invece di una sua amica che aveva preso con sé una gatta con due suoi cuccioli: «Vivendo in campagna, i gattini potevano uscire regolarmente e abbiamo osservato come i piccoli si arrampicavano sugli alberi per esercitarsi. Quando poi erano in difficoltà, mamma gatta li raggiungeva per mostrare loro come scendere». Infine, la nostra interlocutrice affronta l’annosa questione del micio che sparisce per qualche giorno: «È abbastanza normale: il gatto non ha l’orologio al polso! Comunque può anche succedere che, durante le sue esplorazioni, esso rimanga chiuso da

ORIZZONTALI 1. Assomiglia alla mora 7. Fiume della Francia 8. Il Sawyer di Mark Twain 9. Gemelle in gonnella 10. Cacciano senza fucile 10. Un capitolo del Corano 12. Insenatura costiera 15.17. A Londra è il numero uno 18. Contrassegnare con un timbro 20. Andò al centro 21. Si chiede per una piccola colpa 22. Sono uguali nel fidanzamento 23. Contrapposto al nadir 24. Appesi ad un filo 25. Ha forma ellittica 26. Attrezzo per carpentiere

Sudoku Livello per geni

Giochi Cruciverba Trova il proverbio, rispondendo alle definizioni e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 2, 7, 8, 3, 5, 3)

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Scopo del gioco

Completare lo schema classico (81 caselle, 9 blocchi, 9 righe per 9 colonne) in modo che ogni colonna, ogni riga e ogni blocco contengano tutti i numeri da 1 a 9, nessuno escluso e senza ripetizioni.

VERTICALI 1. Lungo in tedesco 2. L’aglio dei francesi 3. Simbolo del magnesio 4. Leone di mare 5. Ora canonica corrispondente alle quindici 6. Il prefisso che dimezza 10. Luogo di origine e sviluppo 11. È discesa dalla parte opposta... 12. Spartitraffico circolare 13. Congiunzione inglese 14. Antico prefisso nobiliare 15. Possono essere offensivi 16. Carme funebre 18. Si dice approvando 19. Ripartizioni di una scienza 21. «O» latino 23. Centro della Tanzania 24. Le iniziali dello scultore Canova

Soluzione della settimana precedente

Per saperne di più – Resto della frase: … Il fiore più grande del mondo.

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Politica e Economia Giglio addio A due anni e mezzo dal naufragio la nave da crociera Costa Concordia ha lasciato l’isola per fare rotta su Genova dove verrà smantellata pagina 23

Obama, Putin e l’Europa Per il presidente americano la politica estera in questo momento è uno scenario da incubo. Il declino degli Stati Uniti si accompagna tuttavia all’inconsistenza politica dell’Europa e ai progetti minacciosi di Putin

Perequazione 2015 I cantoni Zurigo e Zugo rimangono i maggiori contribuenti al fondo di solidarietà nazionale pagina 25

pagina 24

I processi Berlusconi al palazzo di giustizia di Milano sono eventi mediatici. (Marka)

Il fatto non sussiste Processo Ruby I giudici della seconda Corte d’Appello di Milano hanno assolto Silvio Berlusconi,

imputato per concussione e prostituzione minorile Alfredo Venturi E adesso ridatemi il mio seggio di senatore. All’indomani dell’assoluzione da parte della corte d’appello di Milano, Silvio Berlusconi sogna il grande colpo di spugna. Il verdetto rovescia la sentenza che in primo grado lo aveva condannato a sette anni di carcere per concussione e prostituzione minorile. Stavolta i giudici hanno argomentato che non ci fu concussione, perché quando Berlusconi telefonò alla questura milanese per chiedere il rilascio di Ruby, la ragazza marocchina al centro del bungabunga, non esercitò una pressione promettendo benefici. Quanto ai rapporti sessuali con una minorenne, non ci fu reato perché ne ignorava l’età. Dunque assolto, ed è comprensibile l’esultanza dell’interessato e dei suoi fidi, che da anni denunciano l’assedio dei giudici «rossi». Meno comprensibile il collegamento con la decadenza da senatore, che non fu dovuta al caso Ruby, allora fermo alla condanna in primo grado, ma alla sentenza con cui la corte di cassazione aveva definitivamente chiuso un altro processo. L’imputazione era grave in sé, gravissima per uno statista: frode fiscale. Poiché di tutto quello che si muove sotto il sole si dà in Italia una let-

tura politica, la decisione della corte d’appello milanese viene messa in relazione con il mutato clima nei palazzi di Roma, in particolare con la scelta di Matteo Renzi che trattando direttamente con Berlusconi in quanto capo del centrodestra lo avrebbe di fatto sdoganato. Trasformando il politico bersagliato dalla magistratura, il disinvolto anfitrione delle cene di Arcore, l’uomo accusato di corrompere parlamentari e testimoni, nel padre della patria con cui concordare il nuovo assetto istituzionale dello stato. Non a caso i collaboratori di Renzi salutano la sentenza con sollievo: temevano che in caso di nuova condanna il partito di Berlusconi, percorso da insofferenze e malumori, sarebbe letteralmente esploso, e allora addio grandi riforme condivise. Il fatto è che ben poco è cambiato con l’assoluzione. Prima di tutto perché il bunga-bunga, anche se non più reato, continua a restargli appiccicato addosso: il fatto che nella visione dei giudici di appello quei comportamenti non abbiano rilevanza penale nulla toglie al loro determinante influsso sulla percezione diffusa del personaggio. Questo vale in Italia e soprattutto all’estero, dove il proposito dell’ex presidente di ripresentarsi come esponente del partito popolare europeo s’infrange contro

un’immagine ormai compromessa, un declino visibile e inarrestabile. Inoltre la ragnatela giudiziaria che da sempre lo avvolge rimane densa e insidiosa. Oltre a essere stato condannato per frode fiscale, Berlusconi è imputato per compravendita di parlamentari e indagato in due distinti procedimenti per corruzione di testimoni. Dopo avere sempre sostenuto che dietro tutto questo c’è accanimento giudiziario, persecuzione, complotto, il fronte berlusconiano interpreta la sentenza favorevole sul caso Ruby come un primo passo per metterci una pietra sopra. Al tempo stesso attenua la furibonda polemica contro la magistratura («la maggioranza delle toghe è ammirevole», arriva a dire il diretto interessato), e prosegue l’attuale politica di opposizione costruttiva, trattando con il governo per scrivere insieme le nuove regole istituzionali. Una tendenza facilitata dall’altra consistente opposizione, i grillini, che con il loro comportamento altalenante non hanno saputo proporsi come interlocutori privilegiati del governo nel dibattito sulle riforme. Intanto la proposta avanzata da Forza Italia, approfittare del momento per riunire i moderati, divide gli ex alleati di Berlusconi, quei transfughi da Forza Italia che costituirono il nuovo

centrodestra attualmente al governo con il partito democratico. Ma i più la respingono al mittente. Berlusconi ha fatto il suo tempo, dice Fabrizio Cicchitto, e corre il rischio di rimanere solo. Il ministro dell’Interno Angelino Alfano rincara la dose: un’assoluzione non colma le distanze. Dunque l’iniezione corroborante della sentenza rischia di avere effetti limitati, un balsamo momentaneo e poco più. Il tempo stringe per l’ex presidente che sta per compiere 78 anni, la recente campagna elettorale ha confermato che non ha più la grinta dei tempi d’oro. Ne sono ormai convinti anche all’interno della sua cerchia, sanno che questa sua debolezza, oltre alla mancanza di un erede politico dopo le voci e le smentite sulla possibile discesa in campo di sua figlia Marina, rende velleitario il proposito di una rivincita elettorale che strappi la maggioranza a Renzi. E così Berlusconi, che sconta la condanna assistendo una comunità di anziani una volta alla settimana, concentra la sua attenzione sui meccanismi della giustizia. Vorrebbe una grazia presidenziale per sfuggire alla condanna della cassazione, ma questo presuppone il riconoscimento della colpa e il ravvedimento. Lui non se la sente di ammettere di avere frodato il fisco né di

pentirsene, e dunque per aggirare l’ostacolo vorrebbe una grazia d’iniziativa del presidente, ma Giorgio Napolitano non ci pensa nemmeno e lo ha fatto ripetutamente sapere. Non gli resta che sperare in altre assoluzioni, e per quanto riguarda la condanna definitiva in un verdetto favorevole della corte europea dei diritti dell’uomo, alla quale si è rivolto, che annulli la conseguenza paralizzante della decadenza da senatore. Di più non può chiedere al destino l’uomo che ha imposto all’Italia vent’anni di berlusconismo. In particolare non potrà vedere consacrata la rilettura complottista dell’avvicendamento a Palazzo Chigi nel 2011, secondo la quale perfino la galoppante crescita degli interessi sul debito pubblico (l’imbroglio dello spread, lo chiamano i fedelissimi), viene ascritta alla volontà dei «poteri forti» e dell’Europa, che vollero liberarsi dello scomodo Berlusconi e collocare al timone il fidato Mario Monti. Non è andata così, la verità è che l’Italia stava precipitando nel baratro e occorreva un brusco cambio di rotta. Era ancora ben vivo il ricordo della stupefacente vanteria che lasciò di sasso il pubblico internazionale di una conferenza stampa: io sono di gran lunga il miglior presidente del consiglio che l’Italia abbia avuto in centocinquant’anni...



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Keystone

Politica e Economia

L’ultimo viaggio Pezzi d’Italia Il relitto della Concordia ha lasciato il Giglio due anni e mezzo dopo il naufragio

per raggiungere il porto di Genova dove inizierà l’opera di smantellamento Alfio Caruso Adesso che la Concordia ha definitivamente lasciato il Giglio e incominciato il viaggio verso la sua sparizione dai mari che cosa rimane di questi due anni e mezzo? Il naufragio della nave passeggeri di maggior tonnellaggio (114 di stazza lorda, 87 di stazza netta) mai avvenuto al mondo o il suo strabiliante recupero a metà fra un libro di Verne e un film catastrofistico? Il comportamento opportunistico del capitano Schettino, tra i primi a squagliarsela in barba a tutte le leggende sul comandante, che abbandona il ponte di comando per ultimo o l’eroismo del commissario di bordo, Manrico Giampedroni recuperato a 36 ore di distanza con una gamba fratturata dopo aver aiutato a mettersi in salvo centinaia e centinaia di passeggeri? Il rituale borbonico dell’«inchino», causa principale dell’incidente, o i trentatré morti (ultimo il sommozzatore galiziano Manuel Moreno, deceduto il 1. febbraio 2014 a dieci metri di profondità) sovrastati dalla caccia ai colpevoli, dai patemi dell’emersione, dalle polemiche sulla rottamazione? Le proteste degli abitanti del Giglio su quel gigante mezzo affondato che rovinava il turismo o i bei soldini guadagnati dagli abitanti del Giglio grazie ai tantissimi curiosi attratti sull’isola dall’irresistibile gusto del macabro? L’intenzione delle grandi compagnie d’assicurazione, esposte per un miliardo e 100 milioni di dollari, di togliere dalle prossime polizze la copertura del recupero, costato oltre 600 milioni di dollari, o il pellegrinaggio di alcuni parenti delle vittime prima della partenza del relitto? La rissa fra Genova, Piombino, Civitavecchia, Palermo, Gioia Tauro per aggiudicarsi i lavori della demolizione o l’imperturbabilità di Michael Thamm, amministratore

delegato di Costa Crociere, nel ricordare che la sua società ha contribuito con oltre un miliardo al Pil dell’Italia? Questa tragedia ha mostrato il miele e il fiele di un Paese sempre sballottato tra altruismo e meschinità, ma con la costante di trovarsi spesso affidato in mani insicure. Il protagonista assoluto è Francesco Schettino, all’epoca cinquantunenne comandante della Concordia salpata il 13 gennaio 2012, un venerdì per chi ci crede, dal porto di Civitavecchia. Schettino è assunto in Costa Crociere nel 2002, quattro anni più tardi lo promuovono comandante. Il ruolo pasce la sua autostima, assai sviluppata sin dall’infanzia: lui ne coglie gli aspetti gratificanti e ne sottovaluta le responsabilità. Schettino si sente un comandante rubacuori; sembra convinto di spargere fascino a ogni passo; usa capelli lucenti di brillantina con i riccioli sul collo, che fanno tanto gagà anni Cinquanta. Magari non immagina che a un’ammiraglia come la Concordia – un colosso largo 36 metri e lungo 290, munito dell’attrezzatura più sofisticata e più moderna – possa mai capitare un inconveniente o qualora capitasse ritiene che basterebbe schioccare due dita per risolverlo. L’inconveniente, però, se lo va a cercare appena la Concordia, a bordo 4229 persone (3216 passeggeri, 1013 membri dell’equipaggio), avvia la sua crociera Profumi d’agrumi nel Mediterraneo. La rotta prevede di fare scalo nei porti di Savona, Marsiglia, Barcellona, Palma di Maiorca, Cagliari, Palermo, per poi tornare a Civitavecchia. Schettino ordina di bordeggiare il Giglio: vuol fare l’«inchino» a un vecchio lupo di mare molto stimato nell’ambiente, il comandante Mario Terenzio Palombo. Si vanta di esser stato ai tempi belli l’inventore dell’«inchino»; sostiene che i vertici della Costa ne siano stati sempre informati, benché la società lo smenti-

sca; giura che la manovra serviva per la pubblicità e garantiva sicuri ritorni economici. Nell’autobiografia La mia vita da uomo di mare Palombo racconta la prima volta dell’«inchino», il 1. ottobre 1993 durante il viaggio inaugurale della Victoria, in plancia l’intero stato maggiore della compagnia: «Verso le 22 ebbi anche l’opportunità di passare davanti al porto del Giglio, rallentare sensibilmente la velocità, transitare molto rasente alla costa e salutare la mia isola. Era la prima volta che una nave così grande, l’ammiraglia della “Costa” e della flotta italiana, passava così vicino e salutava la popolazione accorsa sul molo. Una grande emozione».

Che cosa resta della Concordia? Un drammatico naufragio o lo strabiliante recupero a metà strada fra un libro di Verne e un film catastrofico? Da quella sera la pratica si è diffusa, gl’«inchini», soprattutto lungo le coste italiane, si sono sprecati. Ma nessuno ha mai rischiato come Schettino. Forse ingannato dalla navigazione perfetta su un mare piatto, forse voglioso di mettersi in mostra con la ragazza portata in plancia, forse per riconoscenza nei confronti del suo ex comandante, che ha tra l’altro aiutato la sua promozione, azzarda un passaggio da incosciente. Assieme al maître Antonello Tievoli, parente stretto della moglie di Palombo, gli telefona per annunciare che sfileranno a pochi metri dal Giglio. «Due cretini», così li ha definiti Palombo nelle tante interviste concesse per spiegare che lui e le manovre effettuate quand’e-

ra ai comandi niente avevano da spartire con quanto combinato da Schettino. Cioè l’urto con lo scoglio, l’apertura di una falla lunga circa 70 metri sul lato sinistro della carena, la forte sbandata, il conseguente arenamento sullo scalino roccioso del basso fondale prospiciente Punta Gabbianara, la ridda di ordini e contrordini demenziali. E soprattutto i 32 morti, le decine di feriti, la sensazione dei sopravvissuti di esser stati in balia di una mostruosa incapacità con il comandante, che non solo se l’era filata, ma se n’era infischiato anche dell’intimazione del capitano di fregata Gregorio Di Falco, della capitaneria del porto di Livorno, di risalire a bordo. E la fragorosa imprecazione, che l’accompagnava, continua a troneggiare sul web. A inchiodare lo sciupafemmine Schettino è stata la testimonianza della 25enne biondina Domnica Cemortan, moldava più giovane che affascinante. Ex ballerina, interprete e accompagnatrice sulle navi della Costa, ufficialmente in vacanza. I dirigenti hanno garantito che fosse dotata di un regolare biglietto, ma senza una cabina assegnata. Insomma ancora oggi non è chiaro dove avrebbe dormito. Domnica ha raccontato di aver cenato allo stesso tavolo di Schettino nel ristorante più lussuoso ed esclusivo della nave, che Schettino avesse bevuto non poco, che era su di giri, che fosse piuttosto alticcio quando si mise al timone. Le responsabilità del naufragio, il processo che finora gli ha riservato amarezze e colpi bassi, l’ostilità di molti commenti non hanno comunque impensierito Schettino, teso a scaricare ogni colpa sui sottoposti. Si è presentato alle udienze come a una passerella di moda, non è sembrato sovrastato dai sensi di colpa, non ha chiesto scusa. La sua vita sociale ha avuto quasi un’impennata: gli hanno attribuito flirt, nuove conquiste; ha firmato contratti

per interviste e per l’imminente pubblicazione di un libro. Alla vigilia della partenza della Concordia dal Giglio ha partecipato, abbronzatissimo e gaudente, alla festa più modaiola di Ischia, nel corso della quale diverse matrone l’hanno circondato per farsi immortalare con lui. Nella Nazione del perdono obbligato la popolarità conta più dei motivi ai quali è dovuta. Esattamente il contrario di Gianni Lettich, sessantunenne genovese di origini istriane, i genitori e il cognome provengono dall’isola Lussino. Incaricato di guidare la Concordia nelle tre miglia finali verso il Voltri terminal Europa (Vte) del porto di Genova, Lettich era anche il vice pilota, che la mattina del 7 luglio 2005 la condusse verso il varo, a officiarlo la modella Eva Herzigova. Uomo di poche parole, temprato dal mestiere, dal disastro del 2013 con il crollo della torre piloti, sette amici e colleghi defunti. «La portammo in mare aperto dalle acque ristrette del cantiere di Sestri. Ricordo solo che ero preoccupato, ci voleva molta attenzione con una bestia del genere. Nient’altro». Lettich e i suoi uomini si sono allenati per settimane, sapevano che il mondo li avrebbe guardati e più ancora li avrebbero guardati Genova e i suoi mitici camalli. La demolizione della Concordia rappresenta, infatti, la possibilità di una svolta per chi ha avvertito i morsi della crisi come in poche altre città d’Italia. Tolti gli arredi e il materiale non ferroso al Vte, in autunno la nave sarà spostata ai bacini di carenaggio di Sampierdarena per lo smantellamento definitivo. Una commessa da quasi cento milioni di euro, due anni di lavoro per mille persone, e Dio sa se ce n’è bisogno. Potrebbe pure rappresentare la maniera per entrare nel ricchissimo business delle rottamazioni fin qui appannaggio dei porti asiatici.


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Politica e Economia

Putin contro tutti Geopolitica della tensione I rapporti fra Stati Uniti, Russia e Europa hanno subìto una sterzata negativa

Federico Rampini Gaza. Ucraina. Tensioni con Angela Merkel. Riarmo giapponese. Perfino i rapporti col Messico sono tesi, per le polemiche sull’immigrazione. È la «somma di tutte le crisi», uno scenario da incubo, quello che Barack Obama deve affrontare. Questo contribuisce a spiegare – anche se non è l’unico fattore – la debolezza estrema di questo presidente nei sondaggi. Addirittura, in un’indagine compiuta per l’università Quinnipiac, alla domanda «chi è il peggior presidente dal dopoguerra» arriva primo proprio Obama secondo il 33% degli intervistati. Le motivazioni dominanti sono interne, ma gioca anche la percezione di un declino di leadership americana nel mondo.

I problemi di Obama sono legati anche all’inesistenza di una politica europea, alla quale il presidente chiede di risvegliarsi In un interessante retroscena il «New York Times» ricostruisce le reazioni personali di Obama di fronte alla notizia dell’abbattimento dell’aereo passeggero della Malaysian Airlines, uno dei momenti più tragici della guerra ucraina. Com’è noto, una delle versioni dell’accaduto attribuisce l’attacco alle milizie filo-russe, con l’uso di un missile terra-aria fornito direttamente da Mosca. Quand’anche si sia trattato di un errore, per Obama è un errore gravido di lezioni: è proprio per evitare questo tipo di tragedie, sostiene il presidente americano, che lui rifiutò di dare armi alle milizie che combattono il regime di Assad in Siria. Un «errore» con tecnologie belliche made in Usa avrebbe avuto conseguenze drammatiche. «Raramente un presidente è stato confrontato con così tante crisi in simultanea», sottolinea lo stesso «New York Times». Che alla lista aggiunge, oltre a Ucraina e Israele, anche Siria, Iraq, Afghanistan. Le ultime due in questo momento non conquistano le prime pagine dei giornali, e tuttavia non possono essere sottovalutate. In Iraq si sta disfacendo l’unità del Paese, già fragile da molto tempo. Sempre in Iraq l’avanzata delle milizie sunnite jihadiste, talvolta guidate da elementi perfino più radicali della «vecchia» Al Qaeda, fa emergere lo scenario terrificante del «grande califfato» che vuole unificare sotto una guida fondamentalista varie parti del mondo arabo. Iraq e Siria, del resto, sono strettamente legati fra loro: le milizie che dilagano in Iraq hanno le loro roccaforti in Siria. Sono proprio quelle che avrebbero potuto impadronirsi di armi americane, qualora Obama avesse ceduto alla tentazione di fornire aiuti a chiunque combatta contro Assad. In Afghanistan, Obama è fermamente deciso a portare a termine il ritiro delle truppe Usa entro la fine di quest’anno. E tuttavia nulla garantisce che quel Paese non ritorni in mano ai talebani, vanificando 13 anni di impegno militare americano. Non stupisce quindi che in un altro sondaggio, della rete Cbs, il 58% degli americani disapprovi la politica estera di Obama. Alla luce dei risultati, è normale. Gli stessi americani però, interrogati sulle opzioni alternative, non vogliono affatto che il proprio Paese torni a intervenire militarmente. Dunque, si aspettano dal loro presidente che tiri fuori dal cappello «qualcosa», senza sapere bene che cosa. Avvertono che l’America non

è più in grado di dettare legge al resto del mondo – e neppure ai propri amici e alleati – ma non sanno da che parte debba ricominciare un recupero di leadership. Alcuni, come il leader della destra libertaria Rand Paul, predicano puramente e semplicemente il ritorno a un isolazionismo di tipo ottocentesco. Pre-wilsoniano, per intenderci, visto che il coinvolgimento dell’America negli affari mondiali ebbe inizio con Wilson nella Prima guerra mondiale. I problemi di Obama sono legati anche all’inesistenza di una politica estera europea degna di questo nome, visto che l’Europa è il soggetto geopolitico che ha più valori e interessi in comune con gli Stati Uniti. «È un wake-up call, un risveglio», dice Barack Obama agli alleati europei dopo la strage del volo abbattuto sui cieli d’Ucraina. Samantha Power, la sua ambasciatrice all’Onu e una delle persone più ascoltate da Obama, è esplicita: «I separatisti filo-russi non potevano operare quei missili terra-aria senza assistenza esterna». Dunque c’è la responsabilità diretta di Vladimir Putin e dei suoi militari dietro il massacro di passeggeri civili. «Solo la Russia può cessare questa guerra. La Russia deve cessare questa guerra», conclude duramente la Power. I rapporti Obama-Putin, difficili e tesi fin dalle origini, entrano in una fase molto più drammatica. Secondo gli ambienti neoconservatori, che hanno riconquistato un’influenza recente negli Stati Uniti, Obama deve studiarsi una pagina di storia della Guerra fredda: il modo in cui Ronald Reagan reagì a un altro abbattimento di aereo civile 31 anni fa. Era il primo settembre 1983 quando il volo Kal007, un Boeing 747 Jumbo della Korean Airlines in volo da New York a Seul, venne centrato da un Su-15 sovietico mentre sorvolava le isole Sakhalin (mare del Giappone). 269 morti, tra cui un importante parlamentare americano. Yuri Andropov, segretario generale del Partito comunista, era un uomo venuto dal Kgb proprio come Putin. Andropov attese a lungo prima di reagire, poi non volle ammettere responsabilità, infine alluse a un complotto americano, un agguato. La reazione di Reagan fu molto più efficace della sua. Il 5 settembre in un discorso televisivo il presidente americano denunciò «un massacro barbaro, una brutalità disumana, un crimine contro l’umanità». Pochi mesi dopo, nel febbraio 1984 Andropov moriva, secondo alcune versioni «logorato» anche da quel disastro d’immagine. Di lì a poco l’Urss si sarebbe consegnata alle riforme di Mikhail Gorbaciov, quindi alla dissoluzione.

Il progetto di Putin è quello di sconvolgere lo status quo del dopo-Guerra fredda e diventare la potenza dominante in Eurasia Nessuno, ovviamente, s’immagina per Putin e la Russia di oggi uno scenario identico. In molti però, e non solo a destra, pensano che il rapporto ObamaPutin sia destinato a entrare in una fase nuova, con durezze e tensioni che coinvolgeranno anche l’Europa occidentale. Un esperto di politica estera autorevole tra i repubblicani, Fouad Ajami, ha descritto Obama come «un colto studioso costituzionalista in un mondo di banditi». Non è un complimento, per la destra, è sarcasmo allo stato puro. Ma ora anche fra i democratici cresce la voglia di una sterzata in politica este-

AFP

in seguito alla tragedia dell’aereo abbattuto sui cieli dell’Ucraina

ra. La Power, giovane donna che viene dalla militanza per i diritti umani, rappresenta bene i «falchi progressisti». Anche loro in qualche modo convinti che, in un «mondo di banditi», a volte bisogna giocare duro. È un lungo sfogo ufficioso con il «Wall Street Journal», quello che rivela il sentire profondo della Power e di un pezzo della sinistra democratica incrociandolo con le visioni della destra. «The Real Putin», il vero Putin, s’intitola il retroscena. È il momento di aprire gli occhi sulla vera natura di questo leader, per capire la minaccia politica e militare che rappresenta. Il suo progetto è quello di sconvolgere lo status quo del dopo-Guerra fredda, ricostruire la Grande Russia, diventare la potenza dominante in Eurasia. «Era evidente da anni a chi voleva guardare la realtà in faccia: in patria Putin ha saccheggiato imprese, assassinato giornalisti, schiacciato il dissenso; all’estero ha invaso o destabilizzato ogni democrazia confinante che non si piegasse alla sua volontà; ha gettato la maschera in Georgia nel 2008, poi in Crimea ha realizzato la prima annessione territoriale sul suolo europeo dalla fine della Seconda guerra mondiale». In questa sintesi del «Wall Street Journal», che mescola sapientemente i risentimenti dei neocon e le disillusioni dei «falchi progressisti», c’è un’evidente condanna delle ingenuità di Obama I. Nel suo

primo mandato questo presidente sognò un «reset» delle relazioni con la Russia, puntando sul leader sbagliato e cioè l’americanofilo (in apparenza) e totalmente irrilevante Dmitri Medvedev. Poi Obama II aveva già iniziato una correzione di rotta. Al G20 di San Pietroburgo nell’autunno dell’anno scorso (su sfondo di crisi siriana) le relazioni tra i due leader erano già al punto di rottura, così tese che la conferenza stampa bilaterale si prestò a un esercizio di psicanalisi più che di geopolitica: Putin non guardava mai Obama negli occhi, fissava lo sguardo a terra; Obama aveva un sorriso tirato, trasudava ostilità con punte di disprezzo. Il presidente definito «il guerriero riluttante», quello che ha caparbiamente ritirato le truppe Usa dall’Iraq e ora dall’Afghanistan, sembra ormai pronto a una revisione nei suoi metodi di azione. Gli manca però un tassello decisivo: l’Europa. Quella frase citata all’inizio, era rivolta a noi: «A wake up call to Europe and to the world». Per Obama il «risveglio» brutale lo è anzitutto per l’Europa. Alla Casa Bianca nessuno ha dimenticato che proprio l’Olanda che paga il tributo di sangue più alto, insieme con l’Italia e la Grecia, furono i tre paesi più riluttanti a inasprire le sanzioni contro la Russia. I rapporti Usa-Ue non sono gli unici a subire l’impatto della tragedia ucraina. Putin è pronto a rimettere in

movimento un altro scacchiere, quello iraniano. A un inasprimento di sanzioni contro la Russia, Mosca a sua volta può reagire dissociandosi dal fronte che negozia sul nucleare iraniano. Altre conseguenze, che si allargano a cerchi concentrici, implicano la Cina. Già si è vista concretizzarsi una nuova intesa russo-cinese sull’energia. È di questi giorni poi l’offensiva diplomatica parallela di Pechino e Mosca verso il Sud America, il corteggiamento vistoso di due potenze regionali come il Brasile e l’Argentina ambedue insofferenti verso gli Stati Uniti. In effetti l’abbattimento dell’aereo della Malaysian Airlines è un autogol per Putin sulla scena internazionale, ma questo leader ha dimostrato di sapersi giocare molto bene la carta del nazionalismo e del revanscismo russo per consolidare il consenso interno: dunque della sua immagine internazionale può curarsi poco. Lo stesso vale per la Cina, che «costringe» il Giappone a riformare la propria costituzione pacifista, a furia di esibire i propri muscoli militari per affermare le proprie pretese territoriali sui giacimenti energetici offshore. All’estremo opposto del pianeta, ecco un altro regime, quello di Pechino, che può permettersi gesti di sfida senza pagarne prezzi politici al suo interno, dove l’opinione pubblica in nome del nazionalismo è disposta a tanto.


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Politica e Economia

Aumentano i fondi per la perequazione fra cantoni Finanze Ma le difficoltà del momento e le prospettive future poco rosee inducono i cantoni paganti

a chiedere una revisione generale del sistema Ignazio Bonoli Il canton Ticino riceverà 9,4 milioni di franchi in più dalla perequazione finanziaria tra i cantoni. È quanto è emerso dal progetto di compensazione per il 2015 presentato a inizio luglio alla Conferenza dei direttori cantonali delle finanze. Il Ticino viene così confermato nella lista dei cantoni che beneficiano di questo aiuto (35 milioni in totale) accanto a 16 altri cantoni, tra cui il canton Grigioni, che riceverà 276 milioni, cioè 56 milioni in più rispetto a quest’anno. La nuova perequazione finanziaria è un sistema complesso, che tiene conto di vari fattori, i quali possono essere suddivisi in tre grandi categorie: la perequazione delle risorse, la compensazione degli oneri, la compensazione dei casi di rigore. Tenendo conto di questi criteri, il cantone che riceve in assoluto di più è il canton Berna (1233,4 milioni), seguito dal Vallese (558,7 milioni), da Friburgo (417,1 milioni), da San Gallo (405,5 milioni), da Lucerna (332,2 milioni) e dal citato Grigioni. I cantoni che pagano sono invece Zurigo (417 milioni), Zugo (316,6 milioni), Ginevra (256 milioni), Svitto (161,6 milioni), Basilea Città (92,1 milioni), Vaud (27,6 milioni), Nidvaldo (20,8 milioni), Basilea Campagna (4,9 milioni) e Sciaffusa (2,2 milioni). In totale 3,825 miliardi di franchi messi a disposizione da Confederazione e cantoni per la perequazione delle risorse, con un aumento del 2,6% rispetto al 2014. I cantoni più deboli ricevono poi altri 126 milioni di franchi dalla Confederazione per coprire gli oneri speciali e altri 359 milioni per la compensazione dei casi di rigore. Globalmente i

Il Ticino avrà 35 milioni di franchi come aiuto dai cantoni economicamente forti. (CdT - Maffi)

versamenti di compensazione finanziaria raggiungono ormai quasi cinque miliardi di franchi (4,910 miliardi per il 2015). Il contributo della Confederazione per la perequazione delle risorse (compensazione verticale) aumenta a 2,273 miliardi (+2,4%), mentre quello dei cantoni (compensazione orizzontale) sale a 1,552 miliardi. Cambia anche la proporzione fra le due prestazioni e passa dal 67,9% al 68,3%. Il maggior aumento dell’indice delle risorse è sopportato dal canton Zugo (+17,6 punti), a causa del forte aumento del reddito determinante delle persone fisiche. Al secondo posto segue il canton Svitto (+7 punti). Questo

indice viene calcolato sulla base delle entrate fiscali degli anni 2009, 2010 e 2011. Quindici cantoni registrano invece una diminuzione dell’indice delle risorse. L’impatto maggiore è nel canton Grigioni (–3 punti) e Basilea Città (–2,5 punti). Anche il canton Ticino perde 2,3 punti e passa quindi nella categoria dei beneficiari. L’obiettivo della perequazione delle risorse – che consiste nell’85% della media svizzera – viene però superato. I cantoni più deboli, Uri e Giura, raggiungono rispettivamente 86,8 e 86,9 punti. Aumenta però il divario fra il cantone finanziariamente più forte (Zugo) e quello più debole (Uri). Il testo è inviato in consultazione

ai cantoni e la Conferenza dei direttori cantonali delle finanze presenterà le proprie osservazioni dopo l’assemblea del 26 settembre. Nel frattempo è in corso un’indagine per valutare l’efficacia del sistema e prendere in seguito i necessari accorgimenti per il periodo 2016-2019. Già da tempo comunque i cantoni paganti si lamentano del costante aumento di questi oneri. L’aumento del 2,6% previsto per il prossimo anno non li lascia quindi tranquilli, tanto più che la perequazione orizzontale (a carico dei cantoni) aumenta perfino del 2,9%. I cantoni particolarmente preoccupati di questa evoluzione sono i due pic-

coli cantoni della Svizzera centrale Zugo e Svitto. Il responsabile delle finanze di Zugo si è detto scioccato della cifra da pagare, mentre il suo collega di Svitto fa notare che già nel 2013 il suo cantone ha registrato un disavanzo di 141 milioni. Situazione che si era verificata anche in Ticino a causa del lasso di tempo che trascorre tra le basi di calcolo e l’applicazione dell’indice (dai 4 ai 6 anni). A parziale consolazione dei cantoni paganti, la Confederazione prevede di ridurre l’ammontare totale del fondo di compensazione delle riserve per il prossimo periodo quadriennale. Questo non sembra però bastare ai cantoni paganti che chiedono invece una profonda modifica del sistema di calcolo. Guidano la prevedibile crociata contro il sistema i due cantoni della Svizzera centrale e usano dati impressionanti: in media, dal 2008 a oggi, il canton Zugo ha pagato 27’717 franchi per abitante e Svitto 10’019 per abitante. Il cantone che ha ricevuto di più (Uri) ha ricevuto 17’167 franchi e il Giura 14’467 per abitante. Secondo i responsabili delle finanze, la perequazione finanziaria, così come applicata, costa troppo e bisogna cambiarla. Essi giungono perfino a dire di volerla boicottare finché la Confederazione non se ne occuperà a fondo. Tanto più che i cantoni che ricevono i contributi non sempre ne fanno buon uso. In primo luogo, il cantone approfitti a fondo delle proprie libertà e gestisca bene le sue finanze e solo in casi estremi chieda soccorso agli altri. L’opinione non coincide ovviamente con quella dei cantoni beneficiari che sono disposti a discuterne, ma non a sconvolgere questa «opera del secolo» per un paese federalista.

Le cose che non possono durare in eterno… La consulenza della Banca Migros

Perché i giornali non parlano più della crisi del debito? I problemi sono davvero risolti?

Albert Steck è responsabile delle analisi di mercato e dei prodotti presso la Banca Migros

Lo confesso, sono un fanatico dei grafici. Qualche curva dice spesso molto di più di tante parole. Per esempio nell’immagine qui a fianco, dove emerge che lo Stato giapponese spende il doppio di quello che incassa con le tasse. L’osservatore immancabilmente si chiede come sia possibile un simile baratro tra uscite ed entrate. Qui entra in gioco la Banca nazionale giapponese, che acquista attualmente circa tre quarti delle obbligazioni emesse dallo Stato, allentando dunque le pressioni sul governo che dovrebbe rimettere in ordine i suoi conti pubblici. Il risultato è convincente: lo Stato giapponese paga per i suoi debiti un tasso misero, inferiore all’uno percento, benché il suo debito abbia nel frattempo raggiunto il 250 percento del prodotto interno lordo. (Tanto per fare un confronto, nel Trattato di Maastricht l’UE ha stabilito che il debito pubblico non deve superare il 60 percento del Pil). Rispondo quindi così alla prima domanda: la crisi del debito è sparita così in fretta dalle pagine dei giornali per opera delle banche centrali. Ora si spera che il problema del debito si

sia effettivamente attenuato e i programmi di risparmio siano diventati superflui, ma basta guardare il grafico per dissipare questa illusione.

Uno Stato in bilico

Lo Stato italiano non chiude in attivo i conti pubblici dal 1960

90

in 1000 mia. di yen 100

80

Spesa pubblica

70

Il tranquillante delle banche centrali dovrebbe mantenere i suoi effetti ancora per un po’. Ma neppure le potenti autorità monetarie riescono a evitare che lo Stato spenda sempre molto di più di quello che incassa. Oppure, come dice la cosiddetta legge di Stein, «le cose che non possono durare per sempre prima o poi finiscono». Tuttavia questo significa che se le banche centrali alleviano troppo la pressione per il risparmio, in futuro la cura dovrà essere ancora più radicale. Già oggi lo Stato giapponese dissipa un quarto delle sue uscite complessive per pagare gli interessi sul debito, nonostante i tassi siano ai minimi storici. Lo stesso destino, sebbene in misura più contenuta, è condiviso anche da Europa e Stati Uniti. L’ultima volta che l’Italia, per esempio, ha chiuso i suoi conti in pareggio risale al lontano 1960, al 1974 la Francia, dove gli interessi sul debito rappresentano già i due terzi

60 50 40

Entrate fiscali

30 20 80 82 84 86 88 90 92 94 96 98 00 02 04 06 08 10 12 14

In Giappone le entrate fiscali accusano un ristagno da ben 25 anni, mentre la spesa pubblica cresce senza freni. Nel frattempo le spese sono il doppio delle entrate.

delle spese per la formazione. Qui ci si aggrappa alla soluzione del romanziere Oscar Wilde, che una volta ha dichiarato: «Chi non vive al di sopra delle proprie possibilità non ha alcuna fantasia». È indubbio, con un po’ d’immaginazione anche la legge di Stein potrebbe essere riscritta: «Le cose che

Fonte: Ministero delle finanze giapponese

Albert Steck

non possono durare per sempre vanno avanti comunque all’infinito». Proprio come per il principio della speranza. http://blog.bancamigros.ch Partecipate al dibattito nel blog della Banca Migros: Come giudicate l’andamento del debito pubblico?


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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la piazza di Angelo Rossi Perché la disoccupazione è calata così tanto? L’inizio del mese di luglio ci ha portato una bella notizia: il tasso di disoccupazione, in Ticino, è caduto sotto il 4%. Nel «Corriere del Ticino» abbiamo letto un commento del capo della Sezione cantonale del lavoro il quale, dopo aver spiegato che la tendenza al calo in Ticino è stata più forte che a livello nazionale, si è mostrato un po’ impacciato al momento di dover dare una spiegazione. Era quasi come se non credesse ai suoi occhi in particolare perché la diminuzione della disoccupazione si è manifestata in quasi tutti i rami dell’economia. Riducendo all’osso gli argomenti da lui avanzati, questo significa che, oltre alla variazione stagionale, un fattore atteso dovuto in particolare alla ripresa dell’attività turistica, la diminuzione registrata deve essere dipesa anche da fattori di natura più generale. A questo

proposito, il signor Montorfani, così si chiama il funzionario intervistato dal «Corriere del Ticino», ha avanzato due ipotesi: o il numero di nuovi posti di lavoro creato dall’economia è così elevato che il frontalierato non riesce più a coprirli, oppure le aziende, dopo la votazione del 19 febbraio sono diventate più attente alla necessità di far capo alla manodopera residente nel Cantone. Sono due ipotesi che vale la pena di approfondire. Per l’economista il tasso di disoccupazione evolve nel tempo attorno a un valore di base che viene chiamato il tasso naturale di disoccupazione. Il tasso naturale di disoccupazione non è altro che un valore medio, calcolato su un periodo di più anni, in modo da bilanciare i valori bassi del tasso negli anni di crescita sostenuta con quelli alti che si possono registrare negli anni di recessione. A

differenza di altre nazioni, la Svizzera non calcola il tasso di disoccupazione naturale nelle sue statistiche ufficiali. E così neanche il Ticino ne possiede uno. Ma ciò non ci impedisce di stimarlo, riprendendo per esempio il periodo per il quale viene calcolato dall’OCSE: 10 anni. A questo punto occorre precisare che per il tasso di disoccupazione esistono due valutazioni: quella dell’Ufficio federale di statistica e quella del dipartimento cantonale dell’economia e delle finanze che, apparentemente, vengono fatte con il medesimo metodo (rapporto disoccupati/popolazione attiva) ma, di fatto, danno luogo a serie statistiche abbastanza diverse. Così, per il periodo 2004-2013 il tasso di disoccupazione naturale del Ticino, calcolato con la stima del tasso di disoccupazione dell’Ufficio federale di statistica, dovrebbe essere vicino

al 6%; calcolato invece con i valori del Dipartimento dell’economia pubblica ticinese, questo tasso si avvicinerebbe al 4,6%. L’attuale tasso del 3,7% è quindi notevolmente inferiore sia che si prenda come riferimento il primo valore, sia invece che ci si affidi per la comparazione al secondo. Si può di conseguenza affermare che, lo scorso mese di giugno, il mercato del lavoro ticinese era in ripresa. Ma la diminuzione della disoccupazione è dovuta alla solita ripresa stagionale di rami come il turismo o l’edilizia, alla crescita dell’insieme dell’economia, o, ancora, a un possibile cambiamento del regime di assunzione da parte dei datori di lavoro ticinesi? La statistica ci dice che, in Ticino, da gennaio a giugno, il tasso di disoccupazione, di solito, diminuisce di circa l’1%. Se la diminuzione registrata quest’anno fosse stata solo di

natura stagionale, il tasso di disoccupazione di giugno avrebbe dovuto assestarsi sul 4,1%, perché, in gennaio, il suo valore era pari al 5,1%. È invece sceso al 3,7%. La differenza fra il 4,1 e il 3,7%, ossia lo 0,4% è la variazione dovuta a una delle due ipotesi formulata dal signor Montorfani. Personalmente tendiamo ad attribuire questa diminuzione straordinaria alle condizioni particolarmente favorevoli nelle quali si è sviluppata l’economia ticinese nella prima metà dell’anno 2014. A favore della seconda ipotesi depone però il rallentamento nell’afflusso di frontalieri rilevato dalla statistica del primo trimestre di quest’anno. I dati sull’evoluzione del frontalierato, nel corso del secondo trimestre, che saranno pubblicati tra poco, ci consentiranno di effettuare un ulteriore controllo della validità di questa seconda ipotesi.

di stato americano cita come fonti «i social media» fa pensare che forse le immagini satellitari a disposizione degli Stati Uniti non siano così nitide. Infatti Vladimir Putin replica secco: se avete le prove, mostrarcele. Il presidente russo è abbastanza accorto da non dare colpe dirette a Kiev ma a parlare di «responsabilità morale» da parte dell’Ucraina che ha lanciato un’offensiva militare nell’est del Paese, destabilizzando l’area. I capi militari russi dicono che ci fosse un caccia ucraino nei cieli, e che forse l’abbattimento è stato un errore di Kiev: non sarebbe la prima volta, ricordano ghignanti i russi, dopo l’11 settembre nel 2001, gli ucraini tirarono giù per sbaglio un charter diretto in Israele. Le scatole nere infine consegnate ai malesi potrebbero non essere decisive nel determinare le responsabilità. Per questo, il ruolo dell’Europa oggi è ancora più importante. Per evitare che si ritorni al business as usual come

se l’aereo non fosse mai stato abbattuto – tentazione già molto forte. Per evitare che si vada soltanto al traino degli americani, che le sanzioni le hanno imposte ma che come atteggiamento complessivo tendono a lasciare che le crisi si risolvano con l’iniziativa degli attori locali – persino Tony Blair, ex premier inglese odiato per la sua «sudditanza» nei confronti degli Stati Uniti, oggi dice che l’alleanza transatlantica è fondamentale, ma che l’Europa deve camminare sulle sue gambe, dotarsi di una strategia e di una visione. Il problema è che l’Unione europea non pare pronta: la crisi dell’euro ha fatto scivolare via dall’agenda – e dalle competenze – la politica estera, per cui s’è imposto un pragmatismo settoriale dettato dagli interessi nazionali (non essendo «l’interesse europeo» un qualcosa di definito) che ora mostra tutte le sue debolezze. Non trovando un accordo su quasi nulla, il nuovo capo della

Commissione europea, Jean-Claude Juncker, ha deciso di rimandare ogni decisione sulle nomine a fine agosto, confermando quel senso di precarietà che aleggia sull’Europa. E intanto è riscoppiata la crisi con la Russia, che è una delle questioni più importanti per l’Ue, perché è una questione ideologica che divide a metà l’Europa, tra est più belligerante (avendo subito le brutture sovietiche) e ovest più accondiscendente; e perché è una questione economica che sta già avendo conseguenze soprattutto sulla Germania, che rallenta anche a causa delle sanzioni a Mosca. Finora si è cercato con il dialogo di ideare una road map per la pacificazione tra Russia e Ucraina, ma la calma non è tornata, s’è solo fatto finta che lì non ci fosse una guerra: è il motivo per cui lo spazio aereo sopra l’Ucraina dell’est era aperto e l’aereo malese passava di lì. È così che l’ipocrisia europea è diventata complice di una tragedia.

su queste caratteristiche sono scattati, puntuali, i consueti stereotipi: tedeschi «Panzer» e «macchine da guerra». Alla Rai si è evocata una «ferocia tedesca» esercitata nei confronti degli smarriti brasiliani (ripresa inconsapevole di un famoso verso di Petrarca: «Ben provide Natura al nostro stato, quando de l’Alpi schermo / pose fra noi et la tedesca rabbia»).

Tedeschi dunque come unità corazzate comandate, prima che da Joachim Löw, dai generali Rommel e Guderian? Ecco come il passato riemerge per intrufolarsi nelle pagine sportive. E quella tedesca è indubbiamente una storia pesante, intrisa di militarismo, di politica di potenza e di guerra totale, come fu considerata l’operazione Barbarossa (invasione dell’Unione Sovietica). Storia tragica che si sviluppa anche lungo l’asse di una cultura dell’annientamento, dall’uso del gas ad Ypres durante la guerra del 14-18 alla «soluzione finale» praticata dal Terzo Reich per sopprimere gli ebrei. Dimenticare questo livido passato non si può e non si deve. Ma la Nazionale odierna è anche la squadra in cui militano giocatori dal nome esotico, come Boateng, Mustafi, Khedira, Özil, espressione di un paese diventato multiculturale, crogiuolo di lingue, costumi e religioni. Anche loro «Panzer», anche loro discendenti dello spietato Arminio che nell’anno 9 d.C. fece a pezzi le legioni del romano Varo nella foresta di Teutoburgo? Forse il collante – o il segreto – della

Germania riunificata è più semplice, e sta tutto in quel «patriottismo costituzionale» che l’ottantacinquenne Jürgen Habermas suole porre alla base della convivenza civile: i valori repubblicani fissati nella carta costituzionale varata nel 1949, mentre nella parte orientale sorgeva la DDR. Certo, la Germania di oggi incute timore, ma per altri motivi: per la sua efficienza e forza economica, che l’ha proiettata a nazione-guida dell’Unione europea; per la capacità di superare le divisioni interne tramite governi di coalizione; per aver saputo conservare e innovare un settore manifatturiero che è ancora sinonimo di qualità e robustezza (industria automobilistica in primis); per l’adozione di un sistema formativo che non declassa l’apprendistato a curriculum scolastico di serie B. I paesi latini membri dell’Ue dovrebbero lasciar perdere la solita litania di recriminazioni anti-tedesche per avviare invece un serio esame di coscienza sui loro ritardi e le loro insufficienze. La forza degli uni deriva sempre dalla debolezza degli altri.

Affari Esteri di Paola Peduzzi L’ipocrisia europea Per gli olandesi il 17 luglio è come un 11 Settembre, anche se il pathos e lo scorno internazionali sono di misura ben minore. Un aereo di linea malese è stato abbattuto – è «precipitato» recita la versione ufficiale che compare anche nell’ultima risoluzione dell’Onu – sul cielo sopra l’Ucraina dell’est, carico di passeggeri olandesi ed europei che partivano da Amsterdam e andavano a Kuala Lumpur, non è sopravvissuto nessuno. Le immagini sono quasi inguardabili tanto sono tremende, il velivolo s’è spezzato in volo, i passeggeri sono stati risucchiati nel vuoto e sono caduti a terra, assieme alle loro cose, i portafogli, i tablet, le trousse, i peluche. Chi è stato? Ancora non si sa, perché l’Ucraina dell’Est è un posto a due passi dall’Unione europea in stato di guerra, fuori dal controllo sia del governo di Kiev sia con tutta probabilità dal governo di Mosca: piuttosto che risolverlo, quel conflitto, abbiamo

preferito ignorarlo. Fino a che non ci è stato ributtato sotto gli occhi assieme a quei pezzi di carlinga disseminati per 15 chilometri, cadaveri quasi intatti (non è esploso in volo) che per tre giorni sono rimasti lì insepolti, perché gli europei non solo non sono riusciti ad aver accesso al sito per evitare che ci fossero «interferenze», ma non sono nemmeno riusciti a portare a casa i propri cadaveri. A giudicare dalle prove finora esibite potrebbe non esistere una «pistola fumante»: gli americani dicono di avere prove di intelligence che dimostrano che a tirare giù il volo Mh17 è stato un missile sparato dai separatisti filorussi che occupano – con successi alterni – l’Ucraina dell’Est e che il missile è stato fornito dall’esercito russo. Barack Obama dice che le influenze di Mosca sui separatisti sono evidenti e che il Cremlino farebbe bene a collaborare se non vuole finire nell’isolamento totale. Ma quando il dipartimento

Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Tedeschi carristi e latini farfalloni Calata la febbre calcistica, nella mente rimangono impresse le parole, le tante opinioni stampate o consegnate all’etere durante i Mondiali brasiliani. Non esiste sport senza chiacchiera, è risaputo. Il Bar Sport è da sempre luogo e palestra di infiniti e sfiancanti commenti, dove ciascun avventore giura di saperne di più di qualsiasi allenatore o commissario tecnico. Giudizi e anche tanti pre-giudizi, perché sport e sentimento nazionale, per non dire nazionalismo, camminano mano nella mano. Ogni squadra nazionale, d’altra parte, è anche specchio dei vizi e delle virtù del paese che rappresenta; non una fotocopia fedele, ma un insieme di segni che rimandano alla tradizione, al carattere, alla composizione etnica, forse perfino al grado di civiltà. «Segni» sono in primo luogo i comportamenti e l’educazione dei singoli atleti. Ma anche le strategie di gioco, le acconciature e, da ultimo, per la gioia dei lettori di Roland Barthes (Miti d’oggi), i tatuaggi, gli arabeschi disegnati sulla cute che abbondano tra i giocatori delle formazioni latine, meno in quelle nordiche. Così, nel tempo, è nata la boria france-

se, la cialtroneria italiana, l’arroganza tedesca. Categorie che poi ogni scuola giornalistica ha arricchito e perfezionato. I brasiliani sono fantasisti, artisti del pallone ma un po’ indisciplinati; gli italiani «signorine» o «damine» fragili e lamentose; gli spagnoli fieri come toreri ma stucchevolmente leziosi; i tedeschi, va da sé, teutonicamente solidi, ordinati, costanti, super organizzati. E

Tifosi tedeschi ai mondiali 2014. (Keystone)


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Cultura e Spettacoli Per sempre Roma All’Antikenmuseum di Basilea una mostra interessante dagli accostamenti insoliti

Locarno omaggia Agnès Varda La celebre regista sarà presente alla kermesse cinematografica con alcune fra le sue più significative pellicole pagina 31

Cent’anni del primo Charlot Era il 1914, e un comico destinato a diventare celebre, faceva la sua prima apparizione sullo schermo

Rivoluzione digitale Anche nel campo della musica l’era digitale apre nuove prospettive, positive e negative

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Un particolare di Villa dell’Imperatore Adriano (76 d.C.138 d.C) a Tivoli. (Keystone)

Il lavoro delle vacanze

Costume Il concetto di vacanza nei secoli è cambiato, sempre più spesso le settimane di pausa

diventano un impegno

Maria Bettetini Abbazia in Toscana, nel fitto di una foresta di abeti e faggi. Il paese più vicino è a qualche chilometro, la connessione internet sembra una bava di vento che volteggia tra gli angoli degli ampi corridoi, alla sua corte un gruppetto di irriducibili con cellulari e router alla ricerca del segnale, rabdomanti del ventunesimo secolo. Gli ospiti sono più di trenta, hanno scelto di dedicare una settimana delle loro vacanze a lezioni di filosofia. Sono medici, notai, insegnanti, pensionati. Con il loro lavoro si sono costruiti la possibilità di una settimana di ozio puro. Non certo perché oziano mollemente adagiati su un’amaca, ma perché si concedono all’otium come lo intendevano gli antichi. Ma che differenza con le modalità degli antichi! Oggi è il guadagno ottenuto con il lavoro che consente la scelta dell’ozio, ed è l’avere un lavoro che concede qualche giorno di pausa. Nel mondo greco, alcuni lavoravano e basta, altri ozia-

vano e basta. Gli schiavi, gli stranieri, i contadini, i marinai, i pastori e i commercianti, se pur liberi, sospendevano l’attività lavorativa solo in occasione di feste civili e religiose. I nobili e i benestanti, invece, potevano dedicarsi alle arti «liberali», proprie degli uomini liberi. Vivevano tutto l’anno il tempo della scholé, dell’apprendimento libero. Lo stesso accadeva a Roma, dove otium era contrapposto a negotium, la necessità di seguire senza pausa gli affari propri o del padrone. Quest’ultimo aveva altro da fare: spettacoli, feste religiose o tra amici, processioni, studio, scrittura, dibattiti. E poi la guerra, vissuta da ufficiale, e il governo, con il mandato di Roma sulla città e sulle province. «Sempre meglio che lavorare» dice oggi un cinico proverbio a proposito di professioni serie ma con ampi margini di libertà, come il giornalismo o la vita artistica. Sempre meglio che lavorare, affermavano Greci e Latini a fronte dello studio e del governo, civile o mi-

litare. Sì, Catone berciava contro l’ozio padre dei vizi, Giovenale stigmatizzava chi viveva tra banchetti e spettacoli del circo, chi si accontentava di panem et circenses. Ma insomma, niente vacanze (da vacatio, di nuovo un senso di assenza di qualcosa) per nessuno? E quella signorina in bikini che è spuntata sui pavimenti della romana Villa Armerina? E il tuffatore dell’affresco di Paestum? Prima di tutto si deve ricordare che i viaggi non erano per nulla agevoli e comportavano notevoli rischi, si ricordi per esempio Platone venduto come schiavo dai pirati. Poteva capitare un viaggio di piacere, ma sempre nell’ambito dell’otium, come Cicerone che da ragazzo andò a Rodi a studiare filosofia: un nobile romano poteva avere in curriculum un «master» in Grecia. Altrimenti non si usciva da casa propria (Socrate si vantava di non aver mai lasciato Atene). L’esilio era vissuto come pena pesantissima perché allontanava, anche solo di pochi chilometri, dalla patria.

La novità venne col benessere nella Roma imperiale. Augusto, Tiberio, Adriano si fecero costruire magnifiche ville per fuggire la calura estiva, e con loro le famiglie nobili che presero a frequentare le coste laziali e campane. Anche se non ne abbiamo la prova, non sono da escludere quindi fanciulle in bikini anche a Capri e al Circeo. A Tivoli, la villa di Adriano riproduce in piccolo le bellezze che l’imperatore aveva visto durante le campagne militari, piramidi e palazzi, statue e specchi d’acqua. La prima Disneyland di cui si abbia notizia, che dava all’imperatore e ai suoi ospiti il brivido di viaggiare senza abbandonare Roma, in assenza di filmini e fotografie. Fino alla rivoluzione industriale le cose non sono molto cambiate: il mondo era diviso tra lavoratori e oziosi, non sempre dediti all’ozio liberale e sempre più mondani, ma certo non dediti al lavoro. L’organizzazione della nuova società borghese crea invece la figura del lavoratore benestan-

te, del funzionario che guadagna e si può permettere di non lavorare tutto l’anno, dell’operaio che comincia ad avere diritto a una pausa. Il Novecento ha visto un crescendo di vacanze per tutti, negli uffici ha imperversato in termini sempre più drammatici la terribile domanda: e per questa estate che programmi avete? Cui seguono risposte fintamente modeste («solito») e cenni deliranti, vorremmo andare alle fonti del Nilo in deltaplano. Le vacanze sono diventate un altro lavoro, di cui rendere conto al mondo intorno a noi. Non sei mai stato negli USA? Niente notti bianche di Pietroburgo? Niente scheduling nei villaggi, sport animazione feste? Dicono che bisogna lasciare che i bambini si annoino, così da una parte sapranno trovare da soli come impiegare il tempo libero, da un’altra si abitueranno al silenzio, al vuoto, forse ne avranno meno paura. È un’arte la riscoperta e la gestione dell’otium, anche nel silenzio di un’abbazia.


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Cultura e Spettacoli

L’eterno fascino della Roma antica Mostre Una mostra all’Antikenmuseum di Basilea su 2000 anni di scultura romana

Marco Horat Settanta capolavori esposti per la prima volta in Svizzera, provenienti da due prestigiose collezioni private italiane che coprono due millenni di storia, dall’età imperiale al periodo neoclassico: figure, busti di personaggi mitologici, teste scolpite con finezza di lavorazione come doveva essere l’intera statua dalla quale provengono; utilizzando il marmo più pregiato oppure l’alabastro e il porfido, spesso con effetti cromatici di grande impatto. Straordinaria una figura di «spellato» drappeggiato alta 86 centimetri, datata alla seconda metà del XVII secolo e quella di un piccolo putto dormiente realizzato in porfido rosso.

La mostra testimonia una continuità di dialogo con la preziosa eredità classica Così si presenta l’esposizione temporanea recentemente inaugurata in casa Antikenmuseum Basel und Sammlung Ludwig, istituzione diretta da Andrea Bignasca, che in fatto di rapporti museali internazionali non scherza. «Si tratta – spiega il Direttore – di un’iniziativa importante perché inaugura un rapporto di collaborazione con la Fondazione Dino ed Ernesta Santarelli Onlus, grazie anche al supporto della Fondazione Roma e all’organizzazione di Arthemisia, che in futuro porterà ulteriori arricchimenti alla nostra attività espositiva». La mostra è stata curata da Tomas Lochman – già attivo nella sezione della Skulpturhalle annessa la museo basilese – e da Dario Del Bufalo che hanno avuto accesso alle collezioni della famiglia Santarelli e del famoso critico e storico dell’arte Federico Zeri. Quello che emerge è la continuità di un’ispirazione «capace di assimilare e rielaborare correnti artistiche e integrarle nel suo ineguagliabile patrimonio culturale. Il continuo dialogo con l’eredità classica viene evidenziato tramite la comparazione di motivi ed ele-

L’allestimento della mostra all’Antikenmuseum di Basilea.

menti stilistici diversi, ma sempre legati l’un l’altro e inseriti nel proficuo solco della tradizione artistica dell’Urbe» come si legge nella presentazione alla stampa. La scultura, unitamente ad altre espressioni artistiche quali la pittura o l’architettura, è quella che i potenti della terra hanno privilegiato per affermare il loro dominio nei confronti dei contemporanei e tramandare la loro immagine ai posteri. Immagine sia della persona in sé ma anche della temperie culturale dell’epoca, perché al di là dell’elemento estetico, che sembra prevalere quando si ammirano oggetti di squisita fattura, le espressioni artistiche sono anche lo specchio dei valori dominanti (o che si vorrebbe fossero tali) di una data società; e Roma, sede secolare

di imperatori e papi, di ricchezze accumulate e di intrighi di corte, è punto di osservazione altamente privilegiato. In questo senso l’affermazione di valori condivisi dalle classi dominanti tramite espressioni destinate a durare nel tempo (come è una scultura in marmo) serve a perpetuare quel determinato tipo di società che si vuole realizzare. Interessante è analizzare, cosa che fanno alcuni critici, come questi vari elementi che si sono succeduti nei secoli, abbiano interagito e si siano influenzati a vicenda, cosa sia rimasto più o meno immutato e cosa invece si è modificato. Il discorso è complesso ma credo vada affrontato da chi vuole spingersi oltre la pur lecita emozione, o ammirazione estetica, suscitata da capolavori come

quelli attualmente esposti a Basilea nelle sale dell’Antikenmuseum. Ognuno leggerà la mostra a seconda del suo modo di vedere le cose. L’esposizione si snoda lungo alcuni momenti presentati in altrettante sale, senza seguire però un ordine cronologico preciso «ma accostando le opere secondo le loro caratteristiche tematiche, formali e stilistiche». Nella prima sezione, che riporta il visitatore a vivere l’interno di un palazzo romano, prevalgono i ritratti di personaggi eminenti, dalla statua romana del I secolo d.C. fino a quella barocca del XVII secolo. Nella seconda sala ecco invece affacciarsi la mitologia e il mondo allegorico rappresentati dagli animali. Nella terza, dove è stato ricreato l’ambiente

raccolto di una cappella privata, il tema della religiosità, mentre nell’ultima parte gli organizzatori hanno allestito una ideale biblioteca di una casa signorile romana nella quale prevalgono le sculture policrome, quasi ad abbinare le molte sfumature cromatiche della pietra alla varietà e alla ricchezza del sapere contenuto in un libro. Con tutto il fascino che ne deriva. Dove e quando

Roma eterna, Antikenmuseum Basel und Sammlung Ludwig, Basilea (St. Alban-Graben 5). Orari: ma-do 10.00-17.00; lunedì chiuso. Fino al 16.11.2014. www.antikenmuseumbasel.ch

L’impeto della poesia, l’impeto del dialetto Meridiani e paralleli Alcuni motivi per cui è più che doveroso leggere anche il numero 85

del Vocabolario dei dialetti della Svizzera italiana

Giovanni Orelli Il numero 85 del Vocabolario dei dialetti della Svizzera italiana, che porta da cülata a cutè (giudizio, assennatezza, per quelli di Mesocco e…), non porta cioè molto lontano. Ma le oltre sessanta pagine del fascicolo sono istruttive e anche divertenti. Prima di darne qualche cenno, vorrei fermarmi un attimo sul titolo di questa segnalazione. L’impeto di una cosa, la poesia, è riscontrabile, è una qualità anche di altri, per esempio del dialetto, che è altra «cosa». Devo aggiungere che L’impeto della po-

esia è titolo che prendo da un esile libro di finissima critica. Del ticinese, ora «friburghese» Christian Genetelli. Imprimerie Saint-Paul, Fribourg (Suisse), 2012. Ho cioè accostato il titolo di uno studio che tratta di alcune poesie di uno dei maggiori poeti del Novecento, non solo italiano, cioè Eugenio Montale con l’indagine linguistica sui dialetti della Svizzera italiana. Ma quanti lettori della Svizzera italiana leggeranno i suggerimenti (impegnativi, è vero, ed è inevitabile che sia così) che il Genetelli dà per penetrare nel mondo poetico di Montale? In quella indagine, il 1938 è

Una culla per bambole della collezione etnografica dello Stato. (Cde)

anno che si carica di valenza privata (il rapporto di Montale con Irma Brandeis) ma «anche di valenza epocale e collettiva»: la seconda guerra mondiale è alle porte. Le partenze coatte del 1938 «tra l’altro finiscono col far convergere in varie poesie di Montale storia privata e storia pubblica», A Liuba che parte, Verso Vienna, Dora Markus e altro, il moltissimo altro. E vengo all’impeto, di altro genere, del dialetto. Anche se poesia e dialetto sono imparentati. Vedi Belli e Porta per fare due soli nomi, Roma e Milano. Il dialetto (lingua) troverà nella Svizzera italiana più lettori di Montale. Salto le prime pagine del fascicolo 85, con non poche parole di scarso interesse, suppongo, per il lettore d’oggi. Ma non potevano saltarle i redattori del VDSI. Che sono, semmai, e benevolissimevolmente, scusati per aver lasciato fuori una parola composita come la cureisgia du drèisc che suppongo valga la «correggia del drago», cioè l’arcobaleno (mi pare di aver letto la voce in un sopracenerino in suoi endecasilla-

bi in dialetto che parlano di betulleti). Manca qui, se sto all’alta Leventina (ma forse, con gli anni, leggo male io) il cupidè (dormicchiare) e di p. 312, cupidéra, che vanno d’accordo con il piacevole cocava via, postprandiale, come capita spesso, int par int, dent per dent, interdum dei latini, ai nonni, e non solo a quelli. Manca per la vicina pagina 279 cupon nel significato di pugno. Invento: «chèl maràn d’un maràn u m’à molù un cupon» (= quel marrano al quadrato mi ha mollato un gran pugno). Ora, su marrano, parola-insulto nella mia infanzia usatissima, ho potuto leggere (perché non sarò più in vita né da vivo né da morto quando uscirà la lettera M del VDSI) un informatissimo saggio (merito di Guido Pedrojetta) di Arturo Farinelli, in «Studi letterari e linguistici dedicati a Pio Rajna», Hoepli, Milano, 1911, 493-555. Torno indietro al molto che c’è. Come lettore prediligo i Modi di dire di una voce. Per es. per cüna, culla, Ninè la cuna vale, a Mesocco, «avere un figlio in arrivo». Ma girà ul fantìn in la cüna, girare il bambino nella culla,

valeva a Chiasso «rigirare le parole, venire meno alle promesse, ingannare». A Bosco Luganese c’è una rima che dovrebbe far drizzare l’orecchie a non pochi maschi: Ur me marî l’è là ch’al dorm / mi a sum chi a ninaa la cüna, / questa chi l’è ra fortüna / ch’i fa i donn a töö marì. E non traduco per non danneggiare li maschi oltre il ragionevole. Da non dimenticare le voci cüracantoi per (Malvaglia) «restare scapolo» e cüradonn, = per Brissago, «donnaiolo», ma anche «pettirosso». Ma è mai possibile? Se un lettore, un po’ distratto, legge che cüntà significa «contare» e commenta, girando pagina, «questo lo sapevo già fino dalla prima elementare (come noi alpini che non avevamo l’asilo o, modernamente, la scuola materna)», sbaglia. Perde per es. A cüntà i pecaa da braghéta Sa salva gnanca i fiöö da téta. (= se venissero computati i peccati di mutanda, non si salverebbero nemmeno i poppanti: nessuno è immune dai peccati del sesso).


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Cultura e Spettacoli

Talento e intuito, le carte di Agnès Cinema Un omaggio alla coraggiosa e antesignana realizzatrice

Agnès Varda, che a Locarno riceverà il Pardo d’onore

Nicola Falcinella Una donna minuta, indomabile e creativa. Una donna che 60 anni fa ha iniziato a cimentarsi con il cinema e si è con tenacia affermata tra i grandi registi. Agnès Varda, origini greche, nata a Bruxelles nel 1928, parigina da sempre, riceverà il Pardo d’onore Swisscom dal Festival di Locarno che prenderà il via il prossimo 6 agosto. È la seconda volta in 26 anni che il prestigioso riconoscimento alla carriera va a una regista, la prima fu l’ucraina Kira Muratova nel 1994. Il premio locarnese arriva doveroso per una cineasta che è stata apripista in molti ambiti, anticipando stili, tematiche e tecniche. Anticipò la nouvelle vague con un film indipendente e libero come La Pointe Courte realizzato nel 1954. Fino ad oggi la Varda ha anticipato i tempi, avvicinandosi all’arte, cogliendo le opportunità del digitale anche come strumento per raccontare in modo diverso e si è fatta portatrice di un cinema in prima persona molto originale. L’ultimo lungometraggio, Les plages d’Agnès del 2008, è un’autobiografia filmata (scritta, l’aveva già pubblicata nel 1994) a carte scoperte, nella quale la regista si racconta senza censure o quasi. E, per la prima volta, rivela pubblicamente la causa della morte del marito Jacques Demy, scomparso nell’ottobre 1990 quando ella aveva appena terminato le riprese di Garage Demy – Jacquot de Nantes, primo di tre film dedicati all’amato. La produzione di Agnès Varda è vasta, variegata e sfuggente alle definizioni: spazia dalla fiction al documentario, dal cortometraggio al lungometraggio, dai lavori di ispirazione letteraria a quelli che non possono fare

a meno dell’immersione della realtà. Varda, inizi come fotografa a fine anni 40 al neonato Festival di teatro di Avignone diventando celebre per i ritratti del divo Gérard Philipe, è sempre stata curiosa e in avanscoperta. In Cina a fine anni 50, nella Cuba post-rivoluzionaria (Salut les Cubains è uno dei suoi corti più curiosi), negli Usa delle battaglie per i diritti civili, delle libertà e delle Black Panthers, poi il femminismo, l’arte di strada e così via.

Durante il Festival, saranno proposti sette dei suoi lungometraggi girati tra il 1961 e il 2011 A Locarno saranno proposti sette lungometraggi, dal suo più celebre, Cleo dalle 5 alle 7 del ’61, a Les plages d’Agnès del 2008, proiettato la sera del 10 in Piazza Grande in occasione della consegna del premio. Ancora saranno proposti il cortometraggio Uncle Yanco (1967) e i cinque episodi della serie Agnès de ci de là Varda (2011), a oggi il suo ultimo lavoro. Un’opera difficile da classificare che parla di viaggi tra festival, incontri, ricordi... La cifra della sua produzione, in particolare quella più recente, oscilla sempre tra pubblico e privato. Tra i momenti significativi, il sorprendente e divertente incontro schermistico con il grande portoghese Manoel de Oliveira, al tempo già ultracentenario (ne ha fatti 105 a dicembre) e con un lontano passato da atleta e da schermidore. Con sfacciataggine, intuito e un

indubbio talento Varda compensò l’inesperienza realizzando un’opera prima che, pur con debiti verso il Neorealismo (anche se l’autrice ha più volte dichiarato di aver visto i film italiani solo a posteriori), anticipava quel che sarebbe venuto qualche anno più tardi. Mettendo insieme William Faulkner e Piero della Francesca, facendo debuttare sullo schermo Philippe Noiret e con il montaggio di Alain Resnais, realizzò un’opera allora non del tutto compresa se non dal grande André Bazin e pochi altri. Cleo dalle 5 alle 7 resta, insieme a Senza tetto né legge Leone d’oro a Venezia nel 1985, il suo lavoro più noto. La storia di una giovane cantante, filmata quasi in tempo reale, mentre si muove per Parigi attendendo i risultati di un esame medico, è pura nouvelle vague, anche se la regista visse quel movimento un po’ dall’esterno. Che la protagonista vada a vedere al cinema un cortometraggio con Anna Karina e Jean-Luc Godard delinea i punti di riferimento; che appaia il compositore Michel Legrand nel ruolo del pianista conferma la vicinanza anche poetica con Demy, del quale il musicista fu fido collaboratore; che Cleo incontri un giovane soldato in partenza per l’Algeria, e con lui condivida la passeggiata e l’attesa, conferma l’attenzione sempre vigile di Varda per ciò che accade intorno a lei e nel mondo. La Mona protagonista del film di più di vent’anni dopo è invece il prototipo delle ragazze libere, rabbiose e indipendenti (una per tutte Rosetta dei fratelli Dardenne) del cinema là da venire. La giovane fa una brutta fine e il film investiga, nel racconto di chi l’ha incontrata, l’ultimo periodo della sua vita.

La regista in un’immagine recente. (Keystone)

Quasi un instant movie sulla libertà e la fama, e con al centro lo smarrimento per l’uccisione di Bob Kennedy, è Lions Love (… and Lies) girato nel ’69 a Los Angeles, mentre accompagnava Demy in trasferta americana. Un altro film poco considerato che Locarno ripropone. Un po’ come Les créatures, ambizioso thriller psicologico ambientato sull’isola di Noirmoutier e non del tutto riuscito. Michel Piccoli è uno scrittore che immagina storie sugli isolani, mentre Catherine Deneuve è la moglie muta in attesa di un figlio.

Nell’omaggio locarnese figura un altro lavoro fondamentale, il documentario-ritratto Le glaneurs et la glaneuse. Varda si rivede negli spigolatori che vanno a recuperare il grano rimasto sul campo dopo il raccolto o le patate scartate. La regista si identifica in chi recupera prodotti apparentemente di poco valore e, con le patate a forma di cuore, dà respiro alla sua vena sentimentale. E nel filmare i poveri che frugano tra i resti di verdura e frutta dei mercati coglie nuovi vecchi bisogni che si ripresentano.

Il ritorno di Morrissey Musica L’invincibile magia del buon cinismo: tra una polemica mediatica e l’altra, il litigioso Morrissey

torna a emozionare i suoi fans con un album che mostra rinnovata grazia narrativa ed espressiva

Benedicta Froelich Al di là delle solite, inevitabili controversie che lo vedono continuamente in guerra con colleghi e fans, quella del 2013-2014 si sta rivelando un’annata particolarmente intensa perfino per un artista affetto da evidente protagonismo quale il poliedrico (e irritabile) cantautore inglese Morrissey – che, a pochi mesi dalla pubblicazione di una monumentale e ampollosa autobiografia celebrativa, torna ora alla ribalta grazie a un nuovo album, World Peace is None of Your Business, pubblicato a ben cinque anni di distanza dal suo ultimo sforzo creativo (l’interessante Years of Refusal, 2009). E si tratta di un gradito ritorno, perché il buon vecchio «Moz» dimostra di saper ancora graffiare e, soprattutto, di essere divenuto maestro nell’arte di dare ai propri fans esattamente ciò che questi si aspettano; così, se, da un lato, ciò significa che questo nuovo disco non propone grandi sorprese all’ascoltatore, allo stesso tempo bisogna dire che i seguaci di vecchia data dell’artista non potranno che rimanere estasiati davanti a quello che sembra concepito come un vero e proprio showcase delle molteplici gamme espressive proprie dell’ex leader degli Smiths. In effetti, fin dal titolo («la pace nel mondo non è affar tuo»), quest’album

sembra rappresentare un vero e proprio compendio di quella particolare e personalissima forma di songwriting che costituisce il marchio di fabbrica del cantante di Manchester, caratterizzato dalla commistione sapiente della più sardonica ironia e di quella cinica irriverenza che già avevamo imparato ad amare nei brani degli Smiths. Atmosfere che avvolgono l’ascoltatore non appena inserito il CD nel lettore, grazie alla godibilissima title-track di apertura (senz’altro uno dei pezzi più riusciti dell’intero disco), e all’intrigan-

te vivacità dei giochi di parole proposti da brani graffianti quali Neal Cassady Drops Dead e I’m Not a Man. Allo stesso modo, in questo lavoro vediamo ricorrere molti dei temi da sempre cari al cantante – quello del tormentato rapporto tra padri e figli, illustrato dai versi inquieti della bella ballata Istanbul; o, in chiave più ironica, della spietata crudeltà di genitori incontentabili e amici pretenziosi (Staircase at the University). Ritroviamo anche il surreale disprezzo che da sempre Morrissey è ansioso di mostrare verso il genere umano (si

Provocatore di professione: Morrissey sulla copertina dell’ultimo CD.

veda l’irresistibile Kick the Bride Down the Aisle: «prendi a calci la sposa lungo la navata / e fai tesoro di questa giornata»), così come la sua forte etica animalista, qui esemplificata dall’elegante The Bullfighter Dies («Urrà, il torero muore e nessuno piange / perché noi tutti vogliamo che il toro sopravviva»). E tra un brano e l’altro, è impossibile non apprezzare una volta di più la capacità dell’artista inglese di dare vita con poche, sapienti pennellate, a veri e propri racconti, incentrati su surreali e infelici personaggi, il cui disgraziato destino ci viene illustrato nei pochi minuti di ballate taglienti e sprezzanti: in questo caso, dopo la giovane parricida che avevamo conosciuto nel 2006 con il brano The Father Who Must Be Killed (da Ringleader of the Tormentors) ci vengono qui offerte vicende di eroici delinquenti inclini al martirio (One of Our Own) e di amanti casuali affetti da probabili istinti suicidi (Smiler With Knife). L’unico vero limite di quest’album riguarda il fatto che qua e là nella tracklist si avverte una certa ripetitività – l’evidente sintomo di un difetto di cui il Morrissey degli ultimi anni ha già dimostrato di soffrire, giacché il suo insopprimibile egocentrismo sembra precludergli la facoltà di effettuare qualsiasi tipo di scelta relativamente al proprio materiale: come avvenuto per diversi, prolissi capitoli della sua auto-

biografia, il cantante non riesce a eliminare neanche una traccia da questo lavoro, con il risultato che la versione deluxe dell’album è, per certi versi, anche troppo corposa (diciotto canzoni per oltre ottanta minuti di musica). Così, brani quali Kiss Me Alot, Forgive Someone e Art Hounds suonano un po’ scontati e non esattamente degni di particolare nota, laddove è invece apprezzabile la volontà di sperimentazione riscontrata in tracce come Earth Is the Loneliest Planet of All (che presenta sonorità dal sapore spagnolo e una chitarra in stile flamenco), o nel bel lento Oboe Concerto, con i suoi ipnotici assoli. Sottigliezze a parte, questo atteso ritorno di Morrissey costituisce comunque per il cantante un successo creativo: non soltanto in quanto si tratta di un lavoro di ampio respiro, artisticamente sincero e sentito, ma anche perché ci dimostra come il talento di songwriter anticonvenzionale del musicista brilli più che mai, anche nella fase «matura» della sua carriera: il che è quantomeno positivo, giacché permette, per una volta tanto, di concentrarsi sulla musica, anziché sui pettegolezzi o gli innumerevoli «scandali» causati dalle dichiarazioni al vetriolo di un artista dal carattere difficile – che, tuttavia, ha ancora molto da dare al suo pubblico.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 28 luglio 2014 ¶ N. 31

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Cultura e Spettacoli

Che figure quella volta che... Narrativa Niccolò Ammaniti ha curato un volume in cui è raccolta una serie di figuracce

(di scarsa originalità e comicità) capitate a scrittori

Visti in tivù Da metà

luglio si moltiplicano le proposte, tra cui l’atteso Top Crime di Mediaset

Mariarosa Mancuso «Mia moglie non sa nulla di questa storia. La leggerà qui, nel momento in cui verrà pubblicata». Letta la frase in Figuracce, noi maligni pensiamo subito al racconto di Emmanuel Carrère intitolato Facciamo un gioco (entrambi da Einaudi, prima che Adelphi completi la riedizione di uno scrittore strepitoso, che ha avuto bisogno di Limonov e di una copertina pastello per farsi notare). In originale, era L’usage du monde, nel senso del saper stare al mondo e del quotidiano «Le Monde». Il racconto era stato commissionato dal giornale per il supplemento estivo (si fa anche in Italia, con penosi risultati letterari, per non parlare delle rubrichette sugli amori celebri e sulla «vacanza che non dimenticherò mai»). Emmanuel Carrère ebbe l’idea di usarlo come gioco erotico con la fidanzata del momento, in partenza da Parigi per raggiungerlo a La Rochelle. Con tutte le donne che avrebbero preso il suo stesso treno, e con i 600’000 lettori che quella mattina avrebbero comprato il giornale. Poche paginette con il «tu», istruzioni scollacciate quanto basta per irritare qualsiasi donna che se le senta rivolgere in pubblico. Infatti lei lo lasciò: la letteratura è seduzione, d’accordo. Ma bisogna sapersi fermare. Preso atto della frase, e avendo in precedenza letto un romanzo di Francesco Piccolo intitolato La separazione del maschio (femmina nuda in copertina, roba da far inorridire il fondatore della casa editrice), ci aspettavamo una figuraccia alla Emmanuel Carrère. «Va bene, che sarà mai?», avrebbe commentato la consorte, che in Il desiderio di essere come tutti, vincitore del premio Strega, viene chiamata sempre e soltanto Chesaramai. Colpa della reazione composta avuta nel 1994, quando Silvio Berlusconi vinse le elezioni e la sinistra tutta meditava di emigrare (sono ancora lì, ad accapigliarsi su Matteo Renzi).

Antonella Rainoldi

Alla ricerca di un buco in cui sprofondare (per la vergogna). (Marka)

Niente di niente. Quella di Francesco Piccolo non è neppure una figuraccia, a rigor di logica, come era nel progetto di Niccolò Ammaniti, curatore del volume: raccontate la volta che cercavate una botola per sprofondare, tanto l’avevate combinata grossa. L’idea viene dalla raccolta Mortification, curata da Robin Robertson e tradotta da Guanda nel 2005 con il titolo Le umiliazioni non finiscono mai. Settanta scrittori – da Margaret Atwood a Will Self, da Edna O’Brien a Chuck Palahniuk raccontavano le loro brutte figure. Presentazioni disastrose, dal vivo o in tv; ubriachezze moleste, insulti alla moglie dell’editore. Libri con dedica ritrovati sulle bancarelle o nella spazzatura: il povero Simon Armitage ne prese uno, non fece in tempo a dispiacersi per la misera fine, e vide la scritta autografa: «A mamma e papà». Provammo a rifare il gioco in un articolo di dieci anni fa su «Panorama». A memoria, l’unico che aveva una storia divertente da raccontare era appunto Niccolò Ammaniti, che qui si invece si astiene quasi del tutto. Nella prefazio-

ne racconta di una nipotina dodicenne ossessionata dalle brutte figure, e della volta che in un ristorante giapponese scoprì che se tu fai una «grezza», così dicono a Roma, gli imbarazzati sono i commensali. Allora ci raccontò di come aveva sfasciato l’auto d’epoca che il suo editore australiano coccolava più della fidanzata (gli mandò pure una foto che testimoniava il parafango distrutto, di cui Ammaniti non si era neanche accorto). La figuraccia di Francesco Piccolo si riduce a una tassista berlinese che si innamorò di lui perdutamente e unilateralmente, minacciando di seguirlo a Caserta (il matrimonio di Piccolo e di Chesaramai era fissato di lì a una decina di giorni, lui non l’aveva neppure sfiorata, meno che mai baciata, dopo un giro notturno in città). Anche la figuraccia di Diego De Silva è una passione non corrisposta: una lettrice-stalker che gli mandava lettere in inglese ridicolo, pur millantando un padre di Newcastle. Il racconto si intitola You and Me Alone, e contiene perle del tipo: «You opened a world at

me, Diego, lei mi ha aperto un mondo». Oppure «I wouldn’t appear so banal to you», anche questo seguito dalla traduzione, non vorrei sembrarle banale. E via di «I’m thinking to something of more deep. E di qualcosa di più profondo che parlo». La matta va a trovarlo a Courmayeur – il migliore amico di Diego aveva capito subito il genere, e aveva sconsigliato qualsivoglia risposta. Ma, appunto, lo sventurato rispose. Lo sventurato Emanuele Trevi accettò invece l’invito a una crociera per artisti. «Una cosa poco divertente che non farò mai più», per citare David Foster Wallace che oggi tutti credono di poter imitare, come accadeva con Carlo Emilio Gadda, e senza necessariamente saper scrivere in proprio. Paolo Giordano non sa come cavarsela con un venditore di automobili. Solo Christian Raimo ci mette davvero la faccia, grazie a un ricco cocktail di droghe. Scena del delitto, l’appartamento newyorchese della critica letteraria Carla Benedetti, che da anni celebra la scrittura – a noi francamente indigesta – di Antonio Moresco.

Torino di carta Pubblicazioni La storia del Salone del Libro di Torino in un’appassionata pubblicazione

del giornalista e docente universitario Roberto Moisio

Stefano Vassere «Ho cercato più volte di far partecipare Berlusconi al Salone del Libro. Senza fortuna. La storia lo dirà meglio, ma Berlusconi non ha mai avuto feeling nei confronti di Torino. Una delle sue battute, nel consueto stile scherzoso, quando qualcuno gli parlava di Torino, era: “Ah sì, quel paese in fondo a viale Certosa…”». Gran parte delle risorse investite dall’organizzazione del Salone del Libro di Torino, soprattutto nei primi anni della sua ormai tre volte decennale esistenza, sono state concentrate negli sforzi per sottrarsi alle lusinghe di ambienti milanesi per trasferire la rassegna in questa città. Raccontano che durante l’inaugurazione dell’edizione del 1996 il presidente dell’«Associazione italiana editori» e della casa editrice Sperling & Kupfer (a metà di proprietà del gruppo Mondadori) Barbieri Torriani avesse detto che sicuramente l’anno successivo il Salone si sarebbe tenuto, eccome, a Milano. Un romanzo di carta. Storia del Salone del Libro di Torino, la biografia della rassegna scritta dal giornalista e docente universitario Roberto Moisio, rende conto di questi e di molti altri fatti; per esempio delle mo-

Swisscom TV, più serialità americana

tivazioni che mutarono per qualche anno la denominazione in «Fiera del Libro», di quanto nei primi anni fosse stata importante l’intesa tra forze politiche anche non dello stesso fronte, delle sedi, il Parco Valentino poi la fabbrica Fiat del Lingotto, di altre questioni e di altri aneddoti. Ora, se l’autore Moisio è quell’entusiasta «curioso e dubbioso» che si descrive nel risvolto di copertina (e

di sicuro lo sarà, ce lo dice la fotografia), non ce ne vorrà se diremo che la sua storia, seppure puntuale e piena di fatti e documentazioni, è tra le righe e inconsapevolmente soprattutto una specie di informale narrazione sociologica sul libro e sui suoi valori. Sul come e perché mettere in mostra i libri, prima di tutto. Nei primi anni non sono pochi quelli che sorrisero con benevolenza sconsigliando l’impresa agli organizzatori di allora. «L’editoria commerciale, scrive Jason Epstein, per molti anni responsabile della Random House, è per sua natura un’industria artigianale, decentrata, improvvisata, personalizzata, gestita alla meglio da piccoli gruppi omogenei nel modo di pensare, appassionati al proprio lavoro, gelosi della loro autonomia, sensibili ai bisogni degli autori e ai diversi interessi dei lettori». Certo è che i parametri per misurare il successo di questa iniziativa possono essere anche tra i più bislacchi: per esempio sappiamo da questo testo che nel 2003 i libri rubati furono circa il 20% e che quelli che sparirono di più furono quelli di Luciana Littizzetto (il 20% non si capisce, nel testo, se si riferisca alla quota totale dei libri venduti o al totale dei libri e basta). E poi, per tornare alla vecchia discussione della sede,

gran parte del libro è dedicata a spiegare perché nonostante il fatto che l’editoria sia di gran lunga affare milanese, il Salone del Libro si giustifica e trova sue motivazioni soprattutto ed esclusivamente nella città piemontese: politica, capacità di coinvolgere scuole e giovani, addirittura la struttura architettonica della città, giardini e portici in modo particolare. E ciò nonostante l’aria di kermesse disordinata, i prezzi esagerati dei punti-pizza e delle bibite, il rumore che circonda ogni appuntamento culturale. È un po’ tirata per i capelli ma originale, la spiegazione dell’attuale direttore Ernesto Ferrero, secondo il quale il rumore assordante del Lingotto pieno, al di là del luogo comune che vede la lettura conciliata dal solo silenzio, sarebbe per contro un «momento dionisiaco», da interpretare come un disordinato baccano in vista del riordino pacifico della lettura, un «coacervo babelico» che precede la solitudine del libro in intimità. Mah? Cose molto torinesi, certo.

Che bello poterlo annoverare tra i venti nuovi «acquisti» di Swisscom, uno dei più importanti fornitori di tv in Svizzera. Saranno contenti i fedeli seguaci ticinesi del giallo seriale, specie americano. Saranno contenti gli amanti di polizieschi e indagini, di scientifica e analisi comportamentale, di laboratori e aule dei tribunali. Le cose sono andate così: poco più di un anno fa, dopo un intenso battage pubblicitario, ha esordito sul digitale terrestre free un nuovo canale Mediaset: Top Crime. Nel giro di due settimane, siamo stati sommersi da un’unica domanda: «Top Crime si può ricevere anche in Ticino, come in Italia?». Allora l’unica possibilità di accedere ai contenuti della rete tematica era la fuga sul satellite. Perciò abbiamo invitato Swisscom a fare un pensierino su Top Crime come approdo sicuro, visti i suoi punti di forza: dalla buona qualità dei prodotti alla stringente tematicità. Facile, per chi mastica un po’ di tv, presumere un successo. Il crime è anche il genere più seguito in assoluto in tutti i Paesi. In Italia Top Crime ha raddoppiato in dodici mesi il suo bacino d’utenza, passando da un ascolto medio prime time di poco più di 190’000 spettatori a uno di 350’000. Questo risultato importante è stato superato solo da Iris, il canale Mediaset dei film al primo posto nella classifica delle reti free del digitale terrestre. Swisscom avrà fatto qualche ragionamento e ha deciso per il sì. Ottima idea. E così, una decina di giorni fa, la sua offerta si è arricchita di un nuovo elemento di suspence, di un grande catalogo del giallo. Top Crime propone repliche di telefilm come Major Crimes, Hannibal, 24, Bones, Lie to Me, Law & Order, Criminal Intent, Covert Affairs, Rizzoli & Isles, affianca alla library prime visioni o nuove produzioni, mescola film e documentari dello stesso genere con cicli dedicati ai grandi detective, da Agatha Christie a Poirot a Colombo (nelle serate speciali della domenica). Il tutto trasmesso in doppia lingua, a ogni ora del giorno e della notte, secondo uno schema iterabile di settimana in settimana. Segnaliamo infine l’«acquisto» da parte di Swisscom di un altro canale dei telefilm, per la gioia di chi non si stanca mai di seguire le vicende dei propri eroi: si chiama Giallo e fa capo al gruppo Discovery.

Bibliografia

Roberto Moisio, Un romanzo di carta. Storia del Salone del Libro di Torino, Venezia, Marsilio Editori, 2014.

Il suo nome è Poirot, Hercule Poirot.


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Cultura e Spettacoli

Etimologia I possibili restroscena

Buon compleanno Charlot!

di una parola che sembra intramontabile

Anniversari Cento anni or sono fece la sua prima apparizione

Dentro le parole, lo spinello

il comico più celebre del mondo Ottavio Lurati Sono molte le lettere ai giornali, le interviste, gli interventi in parlamento, ma da dove viene mai questa parola? Della parola spinello abbiamo dapprima seguito le tracce nell’Italia meridionale. La si assoda almeno dagli anni Venti. Colpisce il suo circolare insieme a commenti del tipo: quelli sono in botta, in chicca, sono drogati a balla, sono in manco, in crisi di astinenza. Tornando al termine spinello in sé, non è una voce contadina come taluni ipotizzano. Alcune recenti verifiche mostrano spinello circolare dapprima in certe carceri meridionali e nel parlare allusivo che vi regnava. Per questa voce si continua a citare la spina della botte. Ma vi è solo una parentela apparente. Per spina da un lato e per spinello dall’altro si documentano usi del tutto diverso. Per spinello si può ricostruire tutta una gamma di significati («spia», «recluta» ecc.) che non si legano certo alla rigida cannula che i produttori di vino applicano o, piuttosto applicavano, alla botte per spillare il vino. Qualcuno dirà: ma è giusto stare a «fare etimologia» su una cosa cruda, tormentosa per molti giovani, adulti e genitori? Ha ragione. Ma pure la pratica di ricorrere allo spinello è molto diffusa e la parola intriga. Da dove mai verrà? Spinello sembra annunciarsi tra carcerati dell’Italia del sud quanto meno attorno al 1935. Ciò nel significato di «sigaretta che ci si arrotola con le cartine». Poi passerà, ad esempio, tra studenti e liceali di Napoli, Roma, Firenze che ogni tanto si concedevano uno spinello per

Spinello, joint, canna... (Wikipedia)

Top10 DVD 1. The Wolf of Wall Street

L. Di Caprio, C. Blanchett 2. Storia di una ladra di libri

S. Nélisse, G. Rush 3. 47 Ronin

K. Reeves, C. Tagawa 4. Frozen

Animazione 5. Monuments Men

G. Clooney, M. Damon 6. Jack Ryan

C. Pine, K. Costner 7. American Hustle

C. Bale, A. Adams

poter fumarsi del «tabacco forte». Siamo negli anni Quaranta e Cinquanta. Spiega un gruppo di amici di Firenze che negli anni 1960-63, lo spinello, nei cortili dell’università lo si riempie di quel tabacco da pipa che si chiamava Amsterdamer. Procurava una sensazione ben più «energica» delle Gauloises. Molte mamme, professoresse e amici spiegano (2014) che lo spinello si chiama così perché è una sorta di piccola spina: richiamerebbe l’arnese che il bottaio fissava sulla pancia della botte e gli serviva a spillare il vino. Ma, per quanto si sia cercato a lungo, nessuna traccia nelle parlate dei vari e differenti gerghi italiani. D’altronde questa presunta «spina» comporta una rigidità che manca del tutto alle flosce sigarette a base di cannabis. A nostro parere serve piuttosto andare in una direzione diversa, quella cioè del «ricamare» in modo espressivo sulla parola pipa che facevano certi gruppi di gerganti. Da pipa si passò a pipello e a farsi un spipello. Su questo legato a pipa «sigaretta» si costruiva poi «farsi uno spinello». Era infatti assai diffuso il gergale «pipa, pipa tradizionale senza filtro usata per fumare hashish; fumata di stupefacenti da parte di più persone, nei gerghi giovanili degli anni ’70-’80, dove pipa ha anche il valore esteso di persona in gamba, tipo eccezionale». Questa la utile scheda di Ferrero (Dizionario storico dei gerghi, Milano, Mondadori 1991). Ancora: fare una pipa, fare hashish in gruppo (Napoli 2003), quello è impipato, quello è dedito alla droga (Trastevere, maggio 1998). I riscontri che abbiamo via via raccolto sembrano chiari. Per molti detenuti la pipa era la sigaretta che uno si fabbricava in proprio. E pip(p)are era corrente per «fumare la sigaretta». Ciò in varie parlate, comprese quelle lombarde e ticinesi: l’è sempre dré a pipà. Farsi una pipa «prepararsi una sigaretta» si disse a lungo. La voce, poi, venne camuffata (e attenuata) con una lieve deformazione solo fonetica: da farsi una pipa si passava, sempre tra detenuti napoletani (e, forse, di altri carceri), a farsi una spina e poi a farsi uno spinello.

Top10 Libri 1. Andrea Camilleri

La piramide di fango, Sellerio 2. Paulo Coelho

Adulterio, Bompiani 3. Gianrico Carofiglio

Una mutevole verità, Einaudi 4. John Green

Colpa delle stelle, Rizzoli 5. Markus Zusak

Storia di una ladra di libri, Frassinelli 6. Autori Vari

Vacanze in giallo, Sellerio 7. Marcello Simoni

L’abbazia dei cento peccati, Newton

8. A spasso con i dinosauri

Animazione

8. Sveva Casati Modignani

La moglie magica, Sperling 9. Lone Survivor

M. Wahlberg, T. Kitsch

9. Irene Cao

Per tutti gli sbagli, Rizzoli 10. All Is Lost

Robert Redford

10. Anna Premoli

Finché amore non ci separi, Newton

Piero Zanotto Giusto cento anni fa (1914) faceva la sua prima apparizione sullo schermo il singolarissimo personaggio Charlot, invenzione di Charles Spencer Chaplin. Si trattava del breve film Kid Auto Races at Venice, titolo italiano di allora Charlot si distingue (che si può oggi vedere abbinato a La febbre dell’oro, nella sua prima versione originale recuperata e restaurata dalla Cineteca di Bologna). Charles Spencer Chaplin, nato a Londra il 16 aprile 1889 nell’East End, il quartiere della povera gente, era cresciuto nella miseria. Il padre, attore comico e la madre cantante di operetta, l’avevano subito impegnato con piccoli ruoli. Da lì apprese l’abc dello stare sul palcoscenico con tutti i trucchi necessari a intrattenere e divertire il pubblico. Senza che ciò potesse risolvere il problema quotidiano di come sfamarsi. Lo rivela lo stesso Chaplin con dovizia di particolari in una sua autobiografia. Fu notato dall’impresario Fred Karno che lo scritturò per un ruolo di ubriaco nello spettacolo A Night in a London Club. Cominciò a guadagnare. In un giro di recite negli Stati Uniti ebbe la fortuna di conoscere il produttore cinematografico Mack Sennett, ed entrò nel mondo del cinema. La Keystone Film Company lo affidò ai propri registi: Larry Lehrman che firmò la comica Kid Auto Races at Venice fu uno di loro. Nacque così il sussiegoso tramp, vagabondo che infastidiva le riprese di un film su una corsa automobilistica ponendosi di continuo davanti alla macchina da presa. Un debutto che gli consentì di affinare e completare il suo personaggio, dirigendo egli stesso quasi subito dopo i propri film. Avviandosi verso un sicuro successo. Personaggio, Charlot, che si è guadagnato in un tempo brevissimo una fama non inferiore a quella di Amleto o di Don Chisciotte, a proposito del quale Chaplin ebbe a dire che «quel costume mi aiuta ad esprimere la concezione dell’uomo medio: la bombetta, troppo stretta, è un conato di dignità. I baffetti sono vanità. La giacca abbottonata stretta ed il bastone e tutto il modo di comportarsi rappresentano un’aspirazione verso un aspetto sicuro di sé, ricercato e deciso. Lo fa tanto bene che può ridere di sé stesso e un poco autocompassionarsi». Vi era arrivato per gradi a creare il suo vagabondo. Provando e riprovando vari abbigliamenti. Il produttore Adolph Zukor così descrive la costruzione esteriore del personaggio, attraverso l’adozione di capi di vestiario appartenenti ad altri attori: «Chaplin prese un paio di vecchie scarpe di Ford Sterling e, per calzarle meglio, se le infilò al piede sbagliato. Poi prese in prestito un paio di pantaloni del grassone Fatty Arbuckle. Aggiunse una giacca appartenente a Charles Avery, che era più piccolo di lui. Il cappello a bombetta era un capo tradizionale, specialmente se troppo stretto per la testa di chi lo portava. Mack Swain aveva sempre una provvista di baffi sparsi in giro. Chaplin ne provò un paio ma erano troppo grandi e allora cominciò a tagliarli fino a che si ridussero ad una macchia nera sotto il suo naso. Con l’aggiunta di un bastoncino – il simbolo di un reietto che cerca di elevare la propria condizione – Charlie Chaplin ebbe il costume che doveva renderlo famoso in tutto il mondo». Scrisse Giulio Cesare Castello nel suo lontano informatissimo bel libro Il Divismo – Mitologia del cinema che «L’avvento di Chaplin segnò una graduale evoluzione del cinema comico da

forme schematiche, brillanti ma meccaniche, verso forme ben più complesse e ricche di significati umani, oltre che di geniale inventiva. Egli recò nel cinema, oltre al proprio enorme talento, la propria esperienza di vita, risalente agli anni difficili dell’infanzia e della giovinezza londinese... Nacque e si formò Charlot, il più alto e complesso personaggio espresso dal cinema». Chaplin si renderà autonomo nella creazione dei propri film e nella loro libera distribuzione alle pubbliche sale, creando nel 1919 assieme a tre giganti del cinema del tempo ancora silenzioso, David Wark Griffith, Douglas Fairbanks e Mary Pickford, la società United Artist. Charlot soldato, Il pellegrino, Il monello, realizzati nei primi anni venti, sono tra le pellicole più memorabili che il cinema abbia prodotto. Soprattutto la terza, The Kid nel titolo americano. Storia di intensa commozione filtrata da situazioni paradossalmente comiche di un vetrario che trova e adotta un orfanello (prodigioso il bimbo Jackie Coogan) il cui soggetto, nelle memorie di C.T. Robinson a lungo segretario di Chaplin, «altro non è, in realtà, che un capitolo dell’infanzia dell’attoreregista... la sola differenza è che quando Chaplin bimbo fu portato via dagli assistenti sociali, venne strappato dalle braccia della madre, mentre nel film il piccolo è portato via al padre adottivo». Che attraverso stratagemmi ingegnosi (si pensi alle gag sul letto dell’ospizio) riesce però con somma ridente commozione a recuperarlo. Gioco crudele dei sentimenti, sarà il giudizio del citato critico e storico Castello. Innestato in un contesto sociale visto dal basso, dalla parte degli umili e offesi. Con Charlot «difensore» spesso sconfitto ma pervicacemente indomito. Il seguito dell’opera chapliniana sarà un continuo crescendo. In successione verranno i capolavori The Gold Rush – La febbre dell’oro (1925), The Circus – Il circo (1928), City Lights – Luci della città (1931), Modern Times – Tempi moderni (1936), The Great Dictator – Il dittatore (1940). Una evoluzione della «maschera» Charlot che ha raggiunto traguardi sublimi. Cercatore d’oro nel Klondike, quasi un alieno a contatto di una umanità impazzita nella ricerca della ricchezza, innamorato ingenuo (da antologia la «danza dei panini» nella sua casupola nell’attesa vana della bella Georgia, insieme ad altre invenzioni strepitose come la baracca in precario equilibrio sull’abisso e il pasto fornito da una sua slabbrata scarpa cotta a puntino, ripulita dei chiodi come ossicini di pollo e le stringhe simili a spaghetti: il

tutto nella realtà fatto di liquirizia ); involontario clown di esilarante successo; cencioso innamorato della fioraia cieca che aiuta a guarire; alle prese da operaio con la catena di montaggio in fabbrica in quel Tempi moderni che portò allo scoperto le cattiverie dei suoi detrattori. Nota in proposito è la risposta di Renè Clair a coloro che invitavano il regista francese autore del film A nous la liberté a querelare per plagio Chaplin (accusato di avere copiato proprio le sequenze della fabbrica): «Sarei orgoglioso se Chaplin avesse posato il suo sguardo sul mio film». Infine il barbiere ebreo somigliante come due gocce d’acqua al dittatore Hinkel, pretesto per scudisciare nell’ultima sua apparizione come tramp, ora con un dignitoso mestiere, la feroce megalomania di Hitler. Film, Il dittatore, con un finale inneggiante la libertà dalla barbarie. Nel quale caricaturò splendidamente anche la figura di Mussolini rinominato Napaloni nell’interpretazione sbruffona che ne fece l’attore Jack Oakie. Evoluzione anche tecnica in funzione psicologica. S’era accostato con diffidenza al sonoro sopraggiunto mentre nel 1936 stava dando vita a Tempi moderni. Lo introdusse con intelligente pretesto comico: il suono del fischietto ingoiato dall’ignaro Charlot. Abbandonò definitivamente la maschera di Charlot con Monsieur Verdoux, amaro apologo ispirato al serial killer Landrou degli stermini di massa contrapposti alle uccisioni «singole», al dettaglio. Vennero poi Limelight – Luci della ribalta (1952) sofferta e commossa incursione di Chaplin nel proprio passato vissuto sui primi palcoscenici (grandioso il coinvolgimento dell’antico collega in comicità Buster Keaton nel ruolo di pianista che fa confusione con i fogli dello spartito: imperterrita pantomima eseguita con implacabile precisione). Nel 1957 A King in New York, sparata polemica nei confronti del maccartismo che lo aveva privato del passaporto, bloccandogli, quand’era in Inghilterra, il ritorno negli Stati Uniti. Ultimo film, prima della morte avvenuta in Svizzera nel 1977, La contessa di Hong Kong con Marlon Brando e Sofia Loren nel quale si riservò un piccolo cammeo, come steward in una nave da crociera. Unica sua pellicola a colori. Cinque anni prima, tramontata la politica della «caccia alle streghe» che aveva portato a un drammatico smarrimento la gente di Hollywood, aveva accettato di rientrare negli Stati Uniti dove gli fu tributato un Oscar speciale. Un titolo nobiliare glielo attribuirà per il suo ormai immortale Charlot, nel 1975, la regina d’Inghilterra.


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Cultura e Spettacoli

Il suono dei bit

Musica La tecnologia agisce anche su piani a prima vista invisibili: grazie ad essa vengono ad esempio creati

tutta una serie di suoni campionati utili per la realizzazione di jingle e colonne sonore Massimo Negrotti La pervasività dei computer e dei processi digitali è un fenomeno evidente a tutti ma non tutti saprebbero indicare con precisione la vastissima gamma di attività umane coinvolte. L’ambito dei suoni e quindi della musica, per esempio, è sicuramente al centro del processo in questione ma la maggioranza di noi ignora fino a quale punto. Chiunque sa che un compact disc contiene brani di musica riprodotti in via digitale e nessuno dubita che l’esecuzione sia stata registrata dal vivo grazie alla prestazione di un quartetto, di un’orchestra, di un solista e così via.

Fra le varie prestazioni la musica prevede anche l’imperfezione, non contemplata dalla tecnologia In questo senso, la riproduzione digitale non è che una estensione delle tecnologie precedenti, quelle che Walter Benjamin aveva analizzato negli anni trenta in un celebre articolo in cui, piuttosto pessimisticamente, denunciava il degrado della fruizione artistica. C’è però un panorama assai più sottile che Benjamin non poteva conoscere: è quello della tecnica detta di campionamento che sta alla base degli stessi CD ma adottata per prelevare suoni dagli strumenti tradizionali, detti «acustici», come un pianoforte, un violino, una sezione di violoncelli ecc. In sostanza si tratta di una procedura attraverso la quale un esecutore umano, poniamo con un pianoforte, suona separatamente tutte le note della sua estensione mentre un registratore digitale le «campiona», ossia preleva da ogni nota una certa quantità di campioni sonori per se-

Un pianoforte è molto più di un pianoforte. (Keystone)

condo ad una certa risoluzione di bit. Sulla scorta della legge proposta da Nyquist e Shannon nel quadro della teoria dell’informazione, al di là di una certa frequenza di campionamento la perdita di informazione sonora è trascurabile e, in effetti, la riproduzione resa possibile dalla digitalizzazione, con buona pace degli amanti dei dischi in vinile, può raggiungere ottimi livelli qualitativi. Una volta archiviati in vari file, i suoni del nostro pianoforte – campionati più volte per registrare più dinamiche tipiche dello strumento, dal pianissimo al fortissimo, per capirci – sono disponibili per eseguire qualsiasi brano musicale. Per farlo, il compositore, o chiunque desideri eseguire un brano già composto da altri, dovrà impiegare un programma per computer nel quale potrà scrivere il testo musicale anche attraverso la notazione clas-

sica, indicando alla macchina quali strumenti usare per la sua esecuzione. Numerose imprese di vari paesi producono e commercializzano insiemi di tutte le sezioni orchestrali e strumenti solisti con varie impostazioni di base fra cui, ad esempio, la presenza o meno del riverbero, l’accentuazione o l’attenuazione dei «vibrato», la simulazione del «portamento», del «glissato», la forza degli attacchi. Il risultato di tutto questo è che case di produzione cinematografica, radio-televisiva o agenzie pubblicitarie trovano da anni molto più conveniente acquistare intere librerie di suoni campionati, con i quali eseguire le proprie «colonne sonore» o i propri jingle, che non rivolgersi, come si faceva prima, ad esecutori o orchestre di musicisti in carne ed ossa, molto più costosi in termini finanziari e organizzativi. Di conseguenza, da almeno una ventina d’anni, film e tra-

smissioni radio-televisive sono corredate da esecuzioni musicali «virtuali», eseguite da computer guidati da raffinati software che processano suoni campionati. Chi conosce questa tecnologia – e qui il ricordo non può che andare, fra gli altri, al compianto amico Denis Baggi, vero esperto in materia – sa, peraltro, che i suoni strumentali campionati presentano limiti notevoli e in linea di principio insuperabili. È facile osservare, per esempio, che lo spettro di dinamiche possibili ad un pianoforte costituisce un intervallo illimitato: sulla tastiera reale, in altre parole, un si bemolle può essere generato da infinite intensità di pressione sui tasti e sui pedali. Perciò, per poter disporre di uno Steinway o un Fazioli perfettamente campionati, dovremmo disporre di una memoria infinita e, poi, di computer capaci di infinita velocità di ela-

borazione. Per gli archi, per il violino solista in particolare, le cose sono ancora più complicate data la loro grande dipendenza non solo dalla pressione delle dita ma anche dall’intonazione, dal vibrato e da altre proprietà che caratterizzano lo stile dell’esecutore. Dunque, con quale genere di esecuzione musicale abbiamo a che fare, consapevolmente o meno, quando assistiamo ad un film, udiamo un commento sonoro ad un servizio televisivo o siamo avvolti dalle melodie e dai ritmi della pubblicità? E, prima ancora, quanti di noi saprebbero riconoscere la natura campionata di queste esecuzioni? Probabilmente chi ha consuetudine con i concerti effettivi, in teatri e auditorium, riesce più facilmente, sebbene con qualche sforzo, a distinguere i due tipi di sonorità, quella acustica e quella artificiale o virtuale. Tuttavia la nostra esposizione ai suoni campionati è talmente intensa e generalizzata da costituire, ormai, una specie di soundscape il quale, pur essendo il figlio minore di quello reale, sta assumendo un valore di fatto standard per il nostro stesso gusto. L’ascolto diretto di orchestre o solisti reali in molti casi può generare stupore e persino qualche forma di disturbo, dato che, gli esseri umani, non possono raggiungere la completa e ripetitiva perfezione in fatto di intonazione, tempi di attacco e ritmo, possibile invece al computer. In definitiva, siamo quindi davanti ad un ulteriore risvolto della molteplice vicenda di trasformazione culturale innescata dalle nuove tecnologie. Nella fattispecie, il carattere latente e in qualche misura subdolo del fenomeno suggerirebbe l’opportunità di una maggiore dimestichezza con la musica eseguita da esseri umani – i veri destinatari dei compositori – poiché solo da loro ci si può aspettare tutta quella serie di prestazioni, inclusa l’imperfezione, che l’arte musicale offre e allo stesso tempo richiede.

Chiara Fanetti Compagni di viaggio Dalle piccole bibbie dal valore enciclopedico alle voci che da sempre

accompagnano la giornalista in un infinito percorso musicale A cura di Zeno Gabaglio Chiara è giornalista musicale e ha iniziato la sua collaborazione con Rete Tre nel 2002. Per dieci anni ha condotto la trasmissione BandZ On Air, dedicata alla musica indipendente svizzera e ticinese. Attualmente a Rete Tre conduce in particolare il programma Nerd 3.0, coconduce REPresent (la trasmissione hip hop curata da Dj Mardoch della Ciemme) collabora con la redazione musicale e fa parte della redazione del magazine radiofonico Baobab. Da diversi anni è giurata per il festival del Percento culturale Migros M4Music nella categoria rock del concorso Demotape clinic. Ha collaborato con il Festival del film Locarno e il Laboratorio di Cultura visiva della SUPSI. Scrive per YET magazine e per Ticino Welcome. È una grande fan dei Peter Kernel e del duo di artisti NEVERCREW. È nata nel 1984, è cresciuta a Monteggio e vive a Lugano.

teggio quando hai tredici anni può solo diventare la tua migliore amica. Ho iniziato ad ascoltare Radio Deejay perché la seguiva mia sorella. Certo è una radio famosa soprattutto per la musica dance, ma nelle fasce serali ha ospitato per anni il programma che ha preso la mia mente e le mie orecchie e le ha aperte: B-side, di Alessio Bertallot. Una voce incredibile, una cultura musicale infinita. Lì ho scoperto cosa

vuol dire ricerca, sperimentazione, contaminazione. Non ho mai conosciuto Alessio ma una volta ha letto un mio messaggio in diretta, e ho saltato agitata per tutta la stanza. 2. «Rumore» – Non è una persona, ma una lettura è sempre un ottimo compagno. Di riviste musicali ne ho sempre comprate un mare, fin da ragazzina. A Lugano ne trovavo poche e costavano un sacco, così andavo a Pon-

Compagni di viaggio

1. Alessio Bertallot – Lo stereo fu un acquisto fondamentale per la mia cameretta, che era una specie di mondo a parte. Avere la possibilità di ascoltare la mia musica a volumi veramente alti con delle buone casse è stata una svolta nel mio percepire il suono. Lo stereo in camera portò anche la radio, che nelle serate a Molinazzo di Mon-

La giornalista Chiara Fanetti. (Foto Pablo Togni)

te Tresa Italia, poco distante da casa, e spendevo la paghetta che racimolavo lavorando al City Disc (il mio primo lavoro, ricordi magnifici, giusto in tempo prima di assistere alla morte dei negozi di dischi) in riviste musicali, italiane e straniere. «Rumore» mi ha accompagnato per anni. Recensioni pungenti, interviste, resoconti di concerti a cui non potevo assistere. E soprattutto i piccoli manuali in allegato che raccontavano la storia dei generi musicali, con la guida ai dischi e alle band fondamentali. Lo compro tutt’ora, anche se una volta erano più spietati nelle critiche. È stata la mia piccola enciclopedia. Senza saprei molto meno. 3. Gli anni 90 – Io negli anni 5060-70 non c’ero. Negli anni 80 esistevo ma non ho grande memoria della mia percezione di me stessa o del mondo. Negli anni 90 ero piccola, ma mi ricordo tutto. Ricordo quando mia sorella, più grande di me di una decina d’anni, ascoltava il grunge o il trip hop, musiche che io ho assimilato quasi per osmosi. Ricordo quando ho iniziato verso i dieci anni a comprare i miei dischi e uscivano i migliori album di punk californiano, che mi hanno poi portato all’hardcore punk. Verso metà-fine decennio poi ricordo quando ho scoperto l’indie rock, l’emo, il lo-fi, lo shoegaze, il noise. E anche il magnifico rap – americano, ma anche italia-

no e francese – di quegli anni, che non a caso sono oggi definiti come la golden age dell’hip hop. Gli anni 90 tornano sempre nei miei ascolti, e chi se li ricorda solo per l’euro dance guardava dalla parte sbagliata. 4. Ian MacKaye – Ha creato gruppi che hanno segnato nuovi generi musicali, attitudini e correnti di pensiero. Ha saputo schierarsi, sempre, una qualità che ammiro incredibilmente. Ha sempre avuto le idee in chiaro su cosa fare e su come farlo. Non ha mai seguito il branco, ha creato ciò che gli mancava: dal genere musicale all’etichetta discografica. È rimasto indipendente. Con i Fugazi non si esibiva se il concerto era troppo caro o se vietava l’ingresso ai minorenni. Non rilasciava interviste se finivano su giornali di cui non condivideva contenuti o presenze pubblicitarie. Ha portato la filosofia del do it yourself a un nuovo livello. Non è mai sceso a compromessi, forte delle sue idee. Un esempio come musicista, artista, essere umano. La persona che più ammiro in ambito musicale. I compagni

1. Alessio Bertallot 2. Rumore 3. Gli anni ’90 4. Ian MacKaye


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OLTRE 4 MILIONI DI ACQUISTI DIMOSTRANO CHE LA MIGROS È PIÙ CONVENIENTE DELLA COOP. In collaborazione con l’Istituto di ricerche di mercato indipendente LP, dal 1º al 7 luglio 2014 abbiamo ripetuto il più grande confronto di prezzi nel settore del commercio al dettaglio svizzero, prendendo in considerazione oltre 5000 articoli. Nell’ambito di questo studio oltre 4 milioni di acquisti, realmente effettuati, sono stati messi a confronto con acquisti avvenuti alla Coop. Il risultato? Facendo la spesa alla Migros si risparmia il 10,7%. È quindi dimostrato ciò che i nostri clienti sanno da sempre: LA MIGROS È SEMPRE PIÙ CONVENIENTE.

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Idee e acquisti per la settimana

shopping Consigliato dagli chef Attualità Coltivato in Ticino da alcuni produttori FOFT, il pomodoro Intense è una specialità

unica che dà il meglio di sé in molte ricette. Lo trovate in esclusiva a Migros Ticino

State cercando un pomodoro che mantenga bene forma, struttura e colore anche se tagliato finissimo o cotto, il tutto sviluppando un sapore delizioso? In questo caso la risposta ai vostri desideri è data da Intense, un pomodoro del tutto particolare coltivato anche nel nostro Cantone da alcuni orticoltori affiliati alla Federazione Orto Frutticola Ticinese (FOFT). Intense è il primo

pomodoro al mondo ricco di polpa ma praticamente privo di succo, che conserva a lungo la freschezza anche dopo il taglio senza che la sua parte interna si sfaldi. Basti pensare che dopo 5 giorni dal taglio Intense perde solo il 3% del suo peso, contrariamente al 24% di un pomodoro tradizionale. Altri vantaggi di Intense sono la facilità nel pelarlo, il fatto che non macchia e non sgocciola

e la possibilità di affettarlo fino ad uno spessore di 2 mm, aspetto quest’ultimo che lo rende perfetto per creare tante idee decorative. Tutte queste sue caratteristiche fanno sì che il pomodoro Intense sia molto apprezzato dagli chef e dagli amanti dalla cucina, giacché è particolarmente indicato per la preparazione di innumerevoli sfiziose ricette: dalla caprese

alle bruschette, dai sandwich alla pasta, cotto al forno, sulla pizza oppure ancora grigliato. Infine, per convincervi dell’ottima qualità dei pomodori Intense nostrani, in alcuni supermercati Migros vi aspettano delle degustazioni, come da programma seguente: giovedì 31 luglio, Locarno, Serfontana, Agno, Lugano; 2 agosto: S. Antonino.

Specialità nostrane fino al 2 agosto Ancora durante tutta la settimana, i Ristoranti Migros di Serfontana, Grancia, Agno e S. Antonino vi invitano a provare le tradizionali specialità del nostro territorio nell’ambito della rassegna dedicata ai Nostrani del Ticino. La scelta è come consue-

tudine ampia e variata e spazia dalle proposte di piatti freddi al buffet della pasta, passando per i piatti dal grill fino a quelli «à la minute» preparati al momento con ingredienti freschissimi dai nostri chef. Della partita anche condimenti, pane, dessert e rinfre-

scanti bevande, tutte rigorosamente made in Ticino. La variegata gamma di proposte include, solo per citarne alcune, trota in carpione, formaggini freschi con pomodorini cherry e melone, diverse insalate, taiada nostrana, piatto di formaggi, carpaccio

di manzo, differenti raviöö, luganighetta con contorno, lonza di maiale con patate al forno e fagiolini, polenta abbrustolita con formaggella Crenga e gnocchi. Vi aspettiamo numerosi a questo appuntamento con la buona cucina!


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Idee e acquisti per la settimana

Dove l’albicocca è regina Attualità Le albicocche del Vallese conquistano gli scaffali dei supermercati di Migros Ticino. Da gustare da sole,

sotto forma di confettura, sulle torte oppure ancora per preparare corroboranti succhi Torta alle albicocche Per 1 teglia di 30 × 40 cm. Per 12 fette

Grazie ad un clima particolarmente favorevole, secco e abbondantemente soleggiato, gli albicocchi si sono perfettamente adattati in Vallese. Il suolo vallesano oggi può contare su qualcosa come 700 ettari di colture d’albicocco, ciò che corrisponde al 96% del volume di albicocche di tutta la Svizzera. In poche parole, in nessun altro Cantone la coltivazione di questo frutto ha avuto tanto successo come nel Vallese. Vera e pro-

pria capitale delle albicocche vallesane è considerata la località di Saxon. Qui gli albicocchi si estendono a perdita d’occhio verso la piana. Le piante crescono idealmente fino ad un’altitudine di 1000 metri. Oggi, oltre alla tradizionale varietà Luizet, vengono coltivate altre venti tipologie di albicocca precoci e tardive, ciò che permette di scaglionare il periodo di raccolta – che va da fine giugno a metà settembre - in modo ottimale.

Perle di balsamico

Perle di balsamico 50 g Fr. 7.90 In vendita nelle maggiori filiali di Migros Ticino

Un prodotto d’origine italiana particolarmente innovativo è appena entrato a far parte dell’assortimento di Migros Ticino fino ad esaurimento scorte, le perle nere di balsamico. Queste piccole morbide sfere a base del miglior aceto balsamico di Modena IGP sono prodotte dall’Acetaia emiliana «Terra del Tuono», azienda famigliare fondata nel 1892 e specializzata nella produzione di aceti e condimenti balsamici di qualità elevata. Le perle rappresentano un autentico concentrato di aromi e profumi di aceto balsamico. Dall’aspetto simile al caviale, sono perfette per valorizzare al meglio le specialità gastronomiche della grande tradizione mediterranea. Arricchiscono di gusto e carattere piatti quali antipasti, primi, carni, pesce, insalate di verdure, ma sono ideali anche su frutta, gelati e i dessert più disparati. Insomma, un alleato ideale per tutti gli amanti della buona cucina. Infine, oltre alle nuove perle di balsamico, del marchio «Terra del Tuono» a Migros Ticino trovate anche l’Aceto Balsamico di Modena IGP Invecchiato, il Bianco Balsamico Condimento, la Salsa Senape & Balsamico, la Salsa Soia Zenzero & Balsamico e il Condimento Agrodolce 100% mela.

Ma le nostre albicocche non sono solo belle e buone, sono anche ricche di vitamine e sali minerali. Inoltre sono generose in fatto di contenuto di ferro, pertanto consigliate in caso di anemie. L’alta concentrazione di vitamina A le rende indicate in alcune affezioni cutanee e delle mucose, durante la gravidanza e l’allattamento, in convalescenza e in caso di inappetenza e insufficienza epatica.

Ingredienti farina per spianare 100 g marzapane per dolci nei negozi di specialità 1 cucchiaio di farina 1,5 kg d’albicocche 100 g di zucchero

2 Sulla superficie di lavoro infarinata stendete la pasta in un rettangolo dello spessore di 3 mm e adagiatelo nella teglia. Sollevate i bordi. Bucherellate il fondo con una forchetta. Sbriciolatevi il marzapane e cospargete di farina. Scaldate il forno a 240 °C.

Pasta 275 g di farina 15 g di lievito fresco 75 g di burro freddo ¾ di cucchiaino di sale ca 1 dl di latte o d’acqua

3 Dimezzate e snocciolate le albicocche. Incidetele fino al centro. Disponetele in verticale sul fondo. Cospargete con 50 g di zucchero. Cuocete per 40 minuti nella parte inferiore del forno. Sfornate la torta e cospargetela a piacere di zucchero restante. Servite tiepida.

Preparazione 1 Per la pasta, sfregate la farina, il lievito e il burro fino a ottenere una massa di briciole. Unite il sale e il latte. Impastate velocemente in una massa elastica. Appiattitela, avvolgetela nella pellicola trasparente e mettetela in fresco per 30 minuti.

Tempo di preparazione ca 40 minuti + riposo in fresco 30 minuti + cottura in forno ca 40 minuti Ogni fetta ca 4 g di proteine, 8 g di grassi, 43 g di carboidrati, 1100 kJ/260 kcal Ricetta di


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Idee e acquisti per la settimana

Un posticino all’ombra è l’ideale per una festa tra amici e familiari

Suggerimento: glia mettete sulla gri le patate lessate in precedenza. ucchine Cospargete le z di spezie ed olioo d’oliva solo dop averle grigliate

La grigliata patriottica L’arte della grigliata viene celebrata ufficialmente il 1° agosto. La varietà fa da contorno ai cervelat Era il 1891 quando per la prima volta il cervelat fu citato in relazione alla Festa nazionale. Ed anche oggi, 123 anni dopo, un bel cervelat sulla fiamma fa parte del Primo Agosto. La salsiccia nazionale, prodotta con carne di manzo e maiale, lardo, cotenna, sale e spezie, è amatissima in ogni regione del Paese, sia preparata cruda in insalata sia arrostita sul fuoco o sulla griglia. Non è un caso che lo svizzero medio consumi 21 cervelat all’anno. Per offrire una certa varietà ai convitati del Primo Agosto, al cervelat si può senz’altro affiancare un bel pezzo

di carne. Il «maestro del grill» diventa per l’occasione il protagonista assoluto. Dalla sua abilità dipende, infatti, se il pollo arriverà in tavola croccante fuori e tenero dentro. Dovrebbe essere grigliato per un paio di minuti ad altissima temperatura, finché la pelle si abbrustolisce. Poi lo si sposta per qualche minuto ai bordi della griglia, affinché la carne rimanga succosa. Come contorno, insalata di pasta e verdure grigliate… e la festa può iniziare! / Anette Wolffram; foto Salvatore Vinci; styling Regula Wilson; foodstyling Katja Rey

Suggerimento: Cospargete la b con la marinata istecca che avete prepa in precedenza. rato Come pennello usate un ramett o di rosmarino I prodotti illustrati sono in vendita nelle maggiori filiali Migros fino ad esaurimento dello stock.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 28 luglio 2014 ¶ N. 31

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Idee e acquisti per la settimana

Passione al forno Il profumo di pane appena sfornato che proviene dalle panetterie della casa Jowa invade tutto il giorno le filiali Migros. Per il primo agosto, le star saranno le brioche Un primo agosto senza brioche? Inconcepibile! Anche se la tradizione della burrosa specialità non è poi tanto vecchia. Mentre il primo agosto è stato dichiarato festa nazionale nel 1889, infatti, le brioche speciali esistono solo dal 1959. In quell’anno, l’Associazione svizzera mastri panettieri e pasticceri aveva inventato qualcosa di culinario da abbinare ai festeggiamenti patriottici. Le brioche vengono cotte nella panetterie della casa Jowa. Ad esempio dal panettiere e confettiere Gabriel Thali, occupato nella panetteria della casa Jowa della Migros Metalli di Zugo. «Cuociamo le brioche del primo agosto con particolare passione e secondo una ricetta simile a quella delle trecce lievitate», racconta Thali, e spiega che cosa significa il taglio a forma di croce sulla superficie: «Simboleggia le quattro parti della Svizzera». Da mattina a sera brioche sempre fresche

Affinché le brioche del primo agosto siano sempre disponibili fresche, come tutti gli altri pani delle panetterie della casa, nella panetteria zughese dalle quattro di mattina fino a sera sei panettieri hanno il loro bel daffare. Anche Thali, a cui le brioche piacciono specialmente con la confettura. Altri invece le preferiscono meno dolci. Per questo, da alcuni anni a Migros Metalli se ne producono anche con meno zucchero. Alla fin fine, al primo agosto tutti i fan delle brioche devono poter trovare ciò che fa per loro. / CS; foto Marvin Zilm

Brioche del primo agosto 400 g Fr. 3.20

L’industria Migros produce numerosi prodotti Migros molto apprezzati, tra cui anche i pani delle panetterie della casa.

A Gabriel Thali della panetteria della casa Metalli di Zugo piace particolarmente cuocere le brioche.


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Pesche noci gialle Italia / Spagna / Francia, al kg

Mirtilli, bio Svizzera, vaschetta da 250 g

Tutti i Pain Création (esclusi panini a libero servizio), –.40 di riduzione, per es. pane rustico, 400 g

Costine carré di maiale marinate Svizzera, imballate, per 100 g

Luganighetta per grill Svizzera, imballata, per 100 g

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4.20 invece di 5.30

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Pomodori Intense Ticino, imballati, 700 g

Cetrioli nostrani Ticino, sciolti, al kg, 25% di riduzione

Gnocchi di riso prodotti in Ticino, in conf. da 500 g

Michette e panini al burro precotti M-Classic refrigerati 25% di riduzione, per es. michette al burro, 600 g

Diversi prodotti a base di pesce per grigliata* 20% di riduzione, per es. spiedini di capesante con pancetta, MSC, Atlantico nord-occidentale, per 100 g

Filetti di salmone selvatico, MSC* pesca, Alaska, per 100 g, fino al 2.8

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5.90 invece di 7.90

1.65 invece di 2.10

1.95 invece di 2.45

2.30 invece di 2.90

3.70 invece di 5.30

5.40 invece di 7.75

Albicocche Vallese, sciolte, al kg

Formaggella Ticinese 1/2 grassa a libero servizio, per 100 g

Formaggio grigionese alla panna Heidi per 100 g, 20% di riduzione

Tutte le millefoglie 20% di riduzione, per es. M-Classic, 2 pezzi, 220 g

Lombatine di agnello Australia / Nuova Zelanda, imballate, per 100 g

Prosciutto crudo San Pietro prodotto in Ticino, affettato in vaschetta, per 100 g

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Philadelphia in conf. da 2 20% di riduzione, per es. al naturale, 2 x 200 g

Tutti i prodotti Gran Pavesi, Olivia & Marino o Roberto a partire dall’acquisto di 2 confezioni, –.50 di riduzione l’una, per es. Gran Pavesi salati, 250 g

Tutti i biscotti Tradition a partire dall’acquisto di 2 confezioni, –.60 di riduzione l’una, per es. Cremisso, 175 g

Tutte le tavolette di cioccolata Frey Les Délices o Les Adorables da 100 g, UTZ a partire dall’acquisto di 3 tavolette, –.30 di riduzione l’una, per es. Les Adorables al pistacchio

Tutti gli zwieback 20% di riduzione, per es. Original, 260 g

Tutto l’assortimento Exelcat 20% di riduzione, per es. menu croccante con manzo, alimento secco, 1 kg

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Phalaenopsis Table Dance in vaso da 9 cm, la pianta

Cornatur in conf. da 2, bistecca al pepe o polpette alle verdure 20% di riduzione, per es. bistecca al pepe, 2 x 200 g

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Tutto l’assortimento Costa Tutte le capsule Café Royal, UTZ surgelato, 20% di riduzione, per es. Pacific Prawns, a partire dall’acquisto di 3 confezioni, 400 g –.90 di riduzione l’una, per es. Espresso, 10 capsule

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Rose, Fairtrade in diversi colori, gambo da 60 cm, il mazzo da 7

Tutti i sorbetti in barattolo e vasetto 20% di riduzione, per es. al limone, 900 ml

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FRUTTA E VERDURA Carote, Svizzera, busta da 1 kg 1.40 invece di 2.40 40% Pesche noci gialle, Italia / Spagna / Francia, al kg 1.65 invece di 2.80 40% Cetrioli nostrani, Ticino, sciolti, al kg 2.40 invece di 3.20 25% Pomodori a grappolo, Ticino, sciolti, al kg 2.25 Pomodori Intense, Ticino, imballati, 700 g 2.90 invece di 4.20 30% Albicocche, Vallese, sciolte, al kg 5.90 invece di 7.90 25%

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Mirtilli, bio, Svizzera, vaschetta da 250 g 5.60

PESCE, CARNE E POLLAME Bistecca di lonza di maiale marinata, TerraSuisse, per 100 g 2.50 invece di 4.20 40% Cervelas in conf. da 5, TerraSuisse, 5 x 2 pezzi, 1 kg 6.50 invece di 13.– 50% Salametti Rapelli, Svizzera, 3 x 70 g 5.70 invece di 8.20 30% Piatto misto del 1º agosto, Svizzera, per 100 g 3.50 invece di 5.05 30% Fettine di pollo Optigal, Svizzera, per es. al naturale, per 100 g 2.70 invece di 3.30

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Migros Plus in conf. da 2 20% di riduzione, per es. mini tabs, 2 x 40 pezzi, offerta valida fino all’11.8

Diversi prodotti a base di pesce per grigliata, per es. spiedini di capesante con pancetta, MSC, Atlantico nord-occidentale, per 100 g 4.45 invece di 5.60 20% * Luganighetta per grill, Svizzera, imballata, per 100 g 1.20 invece di 2.– 40% Pancetta grill con prezzemolo e aglio, prodotta in Ticino, imballata, per 100 g 2.10 invece di 3.– 30% Prosciutto crudo San Pietro, prodotto in Ticino, affettato in vaschetta, per 100 g 5.40 invece di 7.75 30% Costine carré di maiale marinate, Svizzera, imballate, per 100 g 1.55 invece di 2.10 25%

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Detersivo per capi delicati Yvette in flacone da 3 l Tutti gli articoli M-Plast per es. Color, offerta valida fino all’11.8 (mini size esclusi), 20% di riduzione, per es. cerotti impermeabili, 10 pezzi, offerta valida fino all’11.8

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Spiedino Torcetta gigante di maiale, Svizzera, imballato, per 100 g 1.75 invece di 2.50 30%

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Pommes Duchesse, Pommes Risolées, Pommes Noisette o crocchette di Rösti Delicious da 600 g, surgelate, per es. Duchesse 3.65 invece di 4.60 20% Tutto l’assortimento Costa, surgelato, per es. Pacific Prawns, 400 g 11.– invece di 13.80 20% Cornetti assortiti M-Classic in conf. da 16, 2080 ml 6.20 invece di 12.40 50%

PANE E LATTICINI Tutti i Pain Création (esclusi panini a libero servizio), –.40 di riduzione, per es. pane rustico, 400 g 3.40 invece di 3.80 Drink Bifidus, per es. alla fragola, 8 x 100 ml 6.55 NOVITÀ **

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Il burro, panetto da 250 g, –.20 di riduzione 2.95 invece di 3.15 Grande Caffè, bio, 210 ml 1.70 NOVITÀ *,**

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Formaggio grigionese alla panna Heidi, per 100 g 1.95 invece di 2.45 20% Formaggio del vignaiolo, Svizzera, per 100 g 2.– invece di 2.50 20% Philadelphia in conf. da 2, per es. al naturale, 2 x 200 g 4.15 invece di 5.20 20% Pane milanese M-Classic, TerraSuisse, 300 g 1.70 invece di 2.– Formaggella Ticinese 1/2 grassa, a libero servizio, per 100 g 1.65 invece di 2.10 20%

Tutti i sorbetti in barattolo e vasetto, per es. al limone, 900 ml 4.45 invece di 5.60 20% Tutti i tipi di birra senz’alcol, per es. Eichhof, 10 x 33 cl 6.90 invece di 10.30 33% Tutti gli aperitivi inclusi i prodotti Perldor, per es. Perldor Classic, 75 cl 3.80 invece di 4.80 20% Tutti gli Ice Tea al limone, light o alla pesca in confezioni di cartone da 12 x 1 l, UTZ, per es. al limone 5.40 invece di 9.– 40% Tutta la pasta M-Classic, a partire dall’acquisto di 2 confezioni, –.30 di riduzione l’una, per es. pipe grandi, 500 g 1.20 invece di 1.50 Tutte le salse per insalate e le vinaigrette già pronte, non refrigerate, per es. French Dressing M-Classic, 700 ml 2.05 invece di 2.60 20% Tutto l’assortimento di salse per grigliate Heinz, per es. al curry e al mango, 220 ml 2.60 invece di 3.30 20% Pannocchiette di mais M-Classic, 190 g 1.30 invece di 2.60 50%

FIORI E PIANTE Rose, Fairtrade, in diversi colori, gambo da 60 cm, mazzo da 7 14.80 Phalaenopsis Table Dance, in vaso da 9 cm, la pianta 12.80

Tutti i prodotti da spalmare in conf. da 2, per es. Crème Sandwich, 2 x 200 g 4.90 invece di 6.20 20% Riso Subito Express in conf. da 3, per es. chicco lungo, 3 x 250 g 3.80 invece di 5.70 33%

ALTRI ALIMENTI Tutte le tavolette di cioccolata Frey Les Délices o Les Adorables da 100 g, UTZ, a partire dall’acquisto di 3 tavolette, –.30 di riduzione l’una, per es. Les Adorables al pistacchio 1.80 invece di 2.10

Pancho Villa in conf. da 2, per es. nachos, 2 x 200 g 6.– invece di 7.60 20%

Cantuccini alle mandorle Sapori, 250 g 5.– NOVITÀ *,**

Tutti i prodotti Gran Pavesi, Olivia & Marino o Roberto, a partire dall’acquisto di 2 confezioni, –.50 di riduzione l’una, per es. Gran Pavesi salati, 250 g 2.60 invece di 3.10

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Tutti i biscotti Tradition, a partire dall’acquisto di 2 confezioni, –.60 di riduzione l’una, per es. Cremisso, 175 g 2.80 invece di 3.40 Califora, Eimalzin o Banago in conf. da 2, per es. Banago, Fairtrade, 2 x 600 g 12.60 invece di 15.80 20%

Lombatine di agnello, Australia / Nuova Zelanda, imballate, per 100 g 3.70 invece di 5.30 30%

Tutte le capsule Café Royal, UTZ, a partire dall’acquisto di 3 confezioni, –.90 di riduzione l’una, per es. Espresso, 10 capsule 2.90 invece di 3.80

Filetti di salmone selvatico, MSC, pesca, Alaska, per 100 g 3.70 invece di 5.30 30% fino al 2.8 *

Müesli alla frutta senza zuccheri aggiunti Migros bio, aha!, 20x 500 g 5.60 NOVITÀ ** Fruttolino alle fragole o ai mirtilli, per es. alle fragole, 125 g 20x 2.95 NOVITÀ *,**

Chips Zweifel in busta XXL, per es. alla paprica, 380 g 5.95 invece di 7.75

Michette e panini al burro precotti M-Classic refrigerati, per es. michette al burro, 600 g 4.50 invece di 6.– 25% Tutte le millefoglie, per es. M-Classic, 2 pezzi, 220 g 2.30 invece di 2.90 20% Pizze M-Classic in conf. da 4, per es. del padrone, 4 x 370 g 11.50 invece di 19.20 40% Cornatur in conf. da 2, bistecca al pepe o polpette alle verdure, per es. bistecca al pepe, 2 x 200 g 8.80 invece di 11.– 20%

Tutti gli zwieback, per es. Original, 260 g 2.55 invece di 3.20 20%

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Tutti i Bomboloni, Pandorini, Bonn, Pandolcetti, Plumcake Dal Colle, per es. Pandorino, 228 g 2.40 invece di 3.– 20% Tutto il riso e i risotti pronti Scotti, per es. riso insalate, 1 kg 3.– invece di 3.80 20% I Bibanesi, 250 g 4.90 Rotolo al limone e al lampone, 4/150 g 2.20 invece di 2.80 20% Foresta Nera, 440 g 7.80 invece di 10.40 20% Gnocchi di riso, prodotti in Ticino, in conf. da 500 g 4.20 invece di 5.30 20%

NEAR FOOD / NON FOOD Tutto l’assortimento Exelcat, per es. menu croccante con manzo, alimento secco, 1 kg 4.80 invece di 6.– 20% Tutti i prodotti per il viso e per il corpo L’Oréal (prodotti Men esclusi), per es. crema da giorno Age Perfect, 50 ml 17.25 invece di 21.60 20% ** I am Young Shower o Deo, per es. deodorante spray Cherry Blossom, 150 ml 2.90 NOVITÀ *,**

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Diverse scarpe per il tempo libero, per es. scarpe per il tempo libero per bambini, bianche, numeri 28–35 19.90 ** Tutti i pannolini Pampers (confezioni giganti escluse), offerta valida per 3 prodotti con lo stesso prezzo, per es. Baby-Dry 3, 3 x 48 pezzi 37.60 invece di 56.40 3 per 2 ** Giacca da mezza stagione con cappuccio da bambina, taglie 98–128, disponibile anche nelle taglie 134–164 per fr. 45.– 20x 39.– NOVITÀ *,** Detersivo per capi delicati Yvette in flacone da 3 l, per es. Color 9.90 invece di 16.80 40% ** Vanish in conf. risparmio o in conf. da 2, per es. Oxi Action Pink in polvere, 1,5 kg 15.90 invece di 23.85 ** Migros Plus in conf. da 2, per es. mini tabs, 2 x 40 pezzi 12.45 invece di 15.60 20% ** Carta igienica Hakle in confezioni multiple, per es. camomilla, FSC, 30 rotoli 16.95 invece di 28.30 40% ** Teleria di spugna Tamara, 100% cotone, disponibile in diversi colori e misure, per es. asciugamano 50 x 100 cm, in conf. da 2, blu scuro 9.90 invece di 19.80 50% **


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 28 luglio 2014 ¶ N. 31

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Idee e acquisti per la settimana

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1. Post-it 200 fogli* 2. Friends quaderno per gli appunti* 3. Funny penna stilografica** 4. Gomma Oops!** 5. Pennarelli mini 36 pezzi 6. Zainetto per bambini** 7. Agenda Basic 2014* 8. Astuccio Graffiti* 9. Astuccio 50 pezzi* 10. Borsa sportiva** 11. Scarpe da bambina 12. Zainetto Puma** 13. Wiro quaderno appunti A5**

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Per iniziare col piede giusto Quando nelle prime settimane di scuola tutto va per il verso giusto, anche la voglia di studiare viene da sé. Con gli utensili giusti è più facile per i bambini affrontare i compiti

L’assortimento completo è in vendita nelle maggiori filiali Migros

Dopo le lunghe vacanze estive, in tutta la Svizzera saranno ben 900 000 i bambini che ritorneranno a calcare i banchi di scuola elementare e media. Non per tutti sarà così facile ricominciare con il piede giusto. Sicuramente può essere già d’aiuto disporre del materiale scolastico giusto. Articoli di tendenza quali una penna fluorescente, un astuccio variopinto, una gomma divertente oppure un grazioso zainetto possono indirettamente influenzare la voglia di apprendere, poiché

incrementano il fattore divertimento. Anche i genitori possono contribuire a rendere più piacevole il momento di affrontare i compiti dei propri figli, per esempio facendogli studiare i vocaboli sul prato all’aperto anziché sul tavolo di cucina. Qual è il momento migliore per fare i compiti?

In linea di massima bisognerebbe determinare quando è il momento giusto per fare i compiti. Se i più zelanti si

mettono già all’opera durante la pausa pranzo, altri hanno invece bisogno di sfogarsi prima di trovare la giusta concentrazione. In generale, gli alunni della prima elementare dovrebbero chinarsi sui compiti non oltre venti minuti al giorno, mentre a partire dalla quinta un’ora dovrebbe essere sufficiente. Sul sito www.famigros.ch troverete molti utili consigli e suggerimenti per affrontare al meglio la scuola.

Foto Markus Bertschi; styling Petra Schlaefle

*disponibile con diversi soggetti. **disponibile in diversi colori



Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 28 luglio 2014 ¶ N. 31

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Idee e acquisti per la settimana

Drink al ribes rosso con ginger ale Per 1 drink di 2,5 dl Ingredienti 30 g di ribes rosso 1 cucchiaio di zucchero greggio 2 dl di ginger ale ghiaccio tritato per completare ribes e menta per guarnire Preparazione Con una forchetta staccate le bacche dai rametti e mettetele in un bicchiere con lo zucchero. Schiacciate leggermente le bacche con la forchetta. Unite il ginger ale e riempite il bicchiere di ghiaccio tritato. Guarnite con alcune bacche e foglie di menta. Tempo di preparazione ca. 5 minuti Un drink ca. 1 g di proteine, 1 g di grassi, 37 g di carboidrati, 650 kJ/160 kcal Ricetta di

Ideale da combinare: con Ginger Ale si possono mixare bevande fruttate.

Tre classici per l’estate Sia puri, sia quali ingredienti di un drink o di una bowle, Ginger Ale, Tonic Water e Bitter Lemon sono sempre apprezzatissimi «invitati» a ogni party

L’industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui le bevande Apéritiv.

Quest’anno il primo agosto cade di venerdì. Un’ottima occasione per organizzare un bel party e invitare un paio di amici o conoscenti. Un padrone di casa attento dovrebbe pensare a offrire agli ospiti anche bibite e drink analcolici. I drink analcolici dal gusto amarognolo sono apprezzati in particolare dagli adulti, dato che con la loro nota asprigna offrono un’alternativa alle bibite dolci e quindi si prestano bene ad essere mixati. Con la linea Apéritiv la Migros propone i classici Ginger Ale, Bitter Lemon e Tonic Water, fabbricati dall’Aproz Sources Minérales SA

in Vallese con acqua minerale e aromi naturali. Ginger Ale è una limonata dal sapore di zenzero. Grazie alla sua piacevole dolcezza si presta benissimo per preparare fruttati drink analcolici (vedi ricetta). Ginger Ale è però anche perfetta per una bowle. Tonic Water è la bibita amara per eccellenza. Il chinino, estratto dalla corteccia di China, le conferisce il suo incomparabile gusto amaro. Frizzantissimo è il Bitter Lemon col quattro per cento di succo di limone. Entrambe le bibite sono eccellenti dissetanti nei giorni di calura. Come potrebbe esserlo il primo agosto. / DH; foto Ruth Küng

Apéritiv Bitter Lemon 50 cl Fr. -.80* invece di 1.05 Apéritiv Ginger Ale 1,5 l Fr. 1.40* invece di 1.80 Apéritiv Tonic Water 1,5 l Fr. 1.40* invece di 1.80 * 20% su tutte le bibite Apéro compreso Perldor dal 29 luglio al 4 agosto


PROLUNGA TUTTO IL x 0 1 GUSTO DELLO YOGURT. PUNTI

A NE D O I Z NTA ONFE LA C ML DIVE L. 5 M 6 X 6 PER 100 DA 8

6.55 Drink Bifidus Fragola 8 x 100 ml

Il drink Bifidus è così buono che 65 ml non sembravano mai abbastanza. Grazie alle nuove bottigliette da 100 ml, il piacere fruttato sembra non finire più! Lasciati deliziare dalle tre nuove varietà fragola, multivitaminico e arancia e carota. Ora alla tua Migros. OFFERTE VALIDE SOLO DAL 29.7 ALL’11.8.2014, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 28 luglio 2014 ¶ N. 31

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Idee e acquisti per la settimana

La maratona di Berlino è alle porte Philipp Rölli (33 anni) di Malters è uno dei dieci appassionati di corse podistiche che, grazie alla Erdinger senz’alcool, sarà presente alla partenza della maratona di Berlino in programma il 28 settembre, le cui iscrizioni sono già al completo da mesi. Per prepararsi all’appuntamento, Rölli si allena tre o quattro volte a settimana, con sedute anche in bici da corsa o in mountain-bike. Il suo obiettivo per Berlino è di stabilire un nuovo record personale. Erdinger senz’alcool combina il gusto della birra con lo sport ed è da anni sponsor della manifestazione podistica berlinese. Questa bevanda dissentante dall’autentico sapore di birra è molto amata dagli sportivi, perché è isotonica, povera di calorie e contiene vitamine. Le vitamine B9 e B12 stimolano il sistema immunitario, migliorano le prestazioni fisiche e mentali e riducono l’affaticamento. / JV

Erdinger senz’alcool 6 x 33 cl Fr. 7.50 In vendita nelle maggiori filiali Migros.

«Correre è qualcosa di essenziale. Tutto quel che ci vuole è un buon paio di scarpe» Philipp Rölli

Piatti leggeri e sfiziosi a prezzi attrattivi

Le pietanze leggere Délifit sono disponibili in diversi De Gustibus Migros, questa settimana anche come vantaggiosa offerta combo.

Per tutti coloro che pranzano fuori casa il pasto deve essere buono, veloce e anche vantaggioso. Da De Gustibus questa settimana diverse deliziose pietanze combo Délifit sono proposte a prezzi particolarmente vantaggiosi. I piatti sono costituiti da due fino al massimo tre ingredienti. A seconda

della filiale e della regione essi includono insalate, wrap, panini o müesli, in combinazione con una bibita oppure un panino e un frutto. Prestate attenzione al logo verde Délifit con la scritta «Combo» e informatevi presso il vostro De Gustibus sulle offerte regionali. / SL www.delifit.ch


25% 1.55 invece di 2.10 Costine carrĂŠ di maiale Svizzera, al banco a servizio, per 100 g

6.90 Costata di manzo Angus Irlanda, al banco a servizio, per 100 g

30% 1.75 invece di 2.50 Spiedino Torcetta gigante Svizzera, imballato, per 100 g

35% 9.90 invece di 15.50 Box di pollo con marinata e pennello Svizzera, imballato, al kg

30% 20%

2.10 invece di 3.– Pancetta grill con prezzemolo e aglio prodotta in Ticino, imballata, per 100 g

3.40 invece di 4.30 Spiedini di salmone e merluzzo , al banco pesce Atlantico nord-orientale, per 100 g In vendita nei maggiori supermercati di Migros Ticino. OFFERTE VALIDE DAL 29.7 AL 4.8.2014, FINO AD ESAURIMENTO DELLO STOCK.


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