Azione 30 del 21 luglio 2014

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXVII 21 luglio 2014

Azione 30

Società e Territorio Intervista a Paola Merlini sull’attività di Egalité Handicap

Ambiente e Benessere Importanti risultati di ricerche scientifiche suscitano nuove domande, che cambieranno forse la nostra visione dell’universo

Politica e Economia Cambio di passo di Putin nella crisi ucraina

Cultura e Spettacoli Una Szeemann & Bohdan Stehlik all’Ala Est di Lugano

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Un museo sulla montagna

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di Elia Stampanoni pagina 10

La memoria nelle città di Alessandro Zanoli Fa molto piacere che si sia deciso di dedicare una targa commemorativa a Estival Jazz, in Piazza Riforma, sotto i portici dell’istituto bancario che ne è sponsor. L’onirificienza, per quanto nella forma un po’ semplice di cartoncino su plexiglas, è più che meritata. Ed è un segno di stima anche per le centinaia di migliaia di appassionati, i quali, nel corso degli anni, hanno partecipato con entusiasmo alle esibizioni di un vero Pantheon del jazz internazionale. L’iniziativa fa riflettere, d’altro canto, su come sia andata calando nel corso del tempo l’abitudine di «celebrare» in questo modo l’importanza di personalità o di particolari avvenimenti. L’urbanistica moderna sembra non prevedere più queste finestre temporali, spiragli che ci rendono concreta la percezione del passato e rendono la città uno spazio del ricordo, magari minore, ma significativo. Nella civiltà del presente assoluto manca la volontà di ricordare o mancano le personalità degne di essere ricordate? Partendo dalla targa estivaliera, ci viene la curiosità di un piccolo giro d’orizzonte, sempre rimanendo nei pressi della piazza Riforma. Ecco dunque la

doppia targa commemorativa sull’angolo di Piazza Manzoni (che registra il luogo in cui era installata la celebre tipografia Agnelli e la tragica morte dell’Abate Vanelli, nel 1799). Poco più in là l’epigrafe dedicata al volontario luganese Giovanni Taglioretti, mentre non lontano una targa in bronzo ricorda la presenza a Lugano di Alessandro Manzoni, allievo dei Padri Somaschi tra il 1776 e il 1779. Volendo aggiungere alla lista anche il monumento dedicato a Giacomo Luvini Perseghini nell’atrio del Palazzo comunale, ecco come la Storia ci viene incontro, in una passeggiata in città, con tutto il suo correlato di memoria civile e senso di appartenenza. Se a noi sembrano oggi inutili, il valore sociale delle targhe commemorative era invece ben chiaro ai politici dell’800. In Italia, ad esempio, celebrare luoghi e personaggi, fissare nel paesaggio urbano i fatti risorgimentali, serviva a creare un sentimento di unità nazionale. Non si contano laggiù le case che hanno dato accoglienza a Giuseppe Garibaldi, creando un fenomeno dai tratti anche un po’ umoristici. Nel contesto delle targhe legate al Risorgimento anche la Svizzera italiana può dire la sua, a testimonianza di un legame forte con le

vicende della vicina penisola. La più curiosa è forse quella che si trova sulla facciata dell’Hotel Ravizza a San Bernardino. Vale la pena di citarla per esteso: «In questo albergo / soffermossi nell’agosto del 1858 / il conte Camillo Benso di Cavour / reduce da Plombières / preludio agli eventi / che fecero / l’Italia libera e una». Chissà cosa significa quel «soffermossi»... Dà l’idea di una breve pausa durante un lungo, scomodo, ballonzolante viaggio in carrozza. Il Conte scende, si sgranchisce le gambe, si spolvera il cilindro, entra nell’albergo mentre con un gran fazzolettone pulisce le lenti dei suoi occhialini. Nella testa ha un complicato piano politico: sta tornando da un colloquio segreto tenuto con Napoleone III e nell’incontro ha concordato la possibilità che la Francia sostenga militarmente la causa dell’indipendenza italiana. Il piano andrà a buon fine. Quella lapide ricorda il frammento di un avvenimento epocale che ha modificato l’assetto del mondo: nessuno la noterà ma ha una sua piccola dignità, che vale molto più della pietra su cui è scolpita. È come un segnalibro, e ci ricorda che a volte, al di là della quotidianità distratta, la Storia può passare anche sotto casa nostra.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino 21 luglio 2014 N. 30

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Attualità Migros

C’è pesce e pesce Generazione M Intervista all’esperto ittico di Migros. Perché una gestione attenta della natura

è più importante del profitto Pesce sostenibile alla Migros

Andreas Dürrenberger * La richiesta mondiale di prodotti ittici è in costante crescita. Ma in che condizioni si trovano i mari? E quanto pesce ha senso consumare? Domande che sono spesso al centro dell’interesse dei consumatori: le abbiamo rivolte a Rüdiger Buddruss, il 53enne direttore del reparto prodotti ittici dell’industria Micarna di Migros, con alle spalle una lunga esperienza nella pesca d’alto mare.

Nell’ambito di Generazione M, la Migros promette che entro il 2020 tutti i suoi prodotti ittici soddisferanno le valutazioni del WWF «consigliato» o «accettabile» oppure recheranno una delle seguenti etichette: @ R B b n m s q ` r r d f m ` hk o d r b d c ` ` kkd vamento responsabile.

Signor Buddruss, fino a che punto i mari sono minacciati dalla pesca eccessiva?

Nei diversi mari del mondo ci sono tipi di riserve ittiche molto diverse tra loro. Pertanto a questa domanda non si può rispondere in maniera generale. Un certo tipo di pesca può andar bene in una certa regione del mondo, mentre in un’altra può essere ritenuto una forma di sfruttamento eccessivo.

L R B r s ` o d q o d r b d r d ku ` s hb n c ` b ` s tura ecologicamente sostenibile.

A hn r hf m h3 b ` b g d hk o d r b d o q n , viene da allevamento naturale sostenibile.

Può farci un esempio?

L’anno scorso abbiamo avuto la maggior quantità a memoria d’uomo di catture di merluzzo della Norvegia, perché lì le riserve sono ancora ricche. Nel Mar Baltico, invece, i pesci catturati erano troppo piccoli, il che dimostra che la popolazione non può rigenerarsi in modo sufficiente. Di conseguenza, in quest’ultimo caso le quote sono state abbassate e ai pescatori di merluzzo del Baltico non viene più attribuito il marchio MSC per la pesca sostenibile.

Oggi già il 94 per cento dei prodotti ittici della Migros proviene da fonti sostenibili. La quota di quelli in vendita al banco è addirittura del 100 percento.

A cosa si dovrebbe fare attenzione quando si compra il pesce?

Fondamentalmente si dovrebbe considerare il pesce come un pasto speciale, all’infuori dalle abitudini. Inoltre, marchi come Bio, MSC o ASC (cfr. schede a lato) forniscono al consumatore un buon orientamento sulle caratteristiche delle varie specie.

riserve si trovavano in condizioni di sicurezza biologica, e la tendenza è in crescita. Si tratta di un progresso positivo ed è incredibile quello che può fare il mare. Attenzione però: gli interessi economici non devono pesare più della biologia.

E se, per esempio in vacanza, non ci sono etichette visibili?

Cosa intraprende la Migros contro la pesca marina eccessiva?

Vale la regola di base: il pesce catturato in modo sostenibile proviene dai paesi con acque fredde, le cui autorità effettuano controlli credibili. Ne sono esempi nazioni come gli Stati Uniti o il Canada, che gestiscono già da molto tempo le loro zone di pesca in modo responsabile. Anche nella UE stanno avendo effetto le misure contro la pesca eccessiva.

Chi compra il pesce alla Migros, può mangiarlo con la coscienza pulita. Il nostro compito principale è di scegliere correttamente tra l’offerta di pesce mondiale. Nel corso degli anni abbiamo adeguato l’assortimento in modo che la sostenibilità sia garantita. In questo contesto, facciamo controllare dal WWF ogni prodotto ittico che finisce sugli scaffali della Migros. Inoltre finanziamo diversi progetti, come la pesca del tonno sostenibile con il metodo «pole & line» (canna e lenza, ndt.), usato ad esempio alle Maldive.

Cosa significa in concreto?

Le cifre del Consiglio internazionale per l’esplorazione del mare (ICES) indicavano nel 2005 che circa il 94 per cento delle riserve esaminate non si trovavano all’interno di confini biologici sicuri, venivano perciò sfruttate eccessivamente. Nel 2013, invece, il 59 per cento delle

* Redattore di Migros Magazin Rüdiger Buddruss: «Facciamo controllare dal WWF ogni prodotto ittico». (Jorma Müller)

M Il barometro dei prezzi Informazioni sui cambiamenti di prezzo Articoli

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Azione Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

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La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 21 luglio 2014 ¶ N. 30

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Società e Territorio Coppie in crisi Due punti di vista per parlare della separazione, di come evitarla e di come affrontarla con i figli

Google e il diritto all’oblio Dopo la decisione della Corte di giustizia europea si apre il dibattito su come garantire il diritto all’oblio e il diritto all’informazione

Passeggiate svizzere La storia dello spiaggia-lift di Fürigen, messo in funzione nel 1937 dall’albergatore visionario Paul Odermatt pagina 11

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Eliminare le disparità Egalité Handicap Intervista a Paola Merlini,

avvocato dell’associazione che fornisce consulenza giuridica alle persone con andicap

Barbara Manzoni È di pochi giorni fa la notizia che il Parco degli orsi di Berna sarà reso accessibile a tutti con l’installazione di un ascensore inclinato su rotaie. Lo ha deciso l’esecutivo cittadino che ha approvato un credito di quasi 3 milioni di franchi. È solo uno dei casi in cui la discriminazione nei confronti delle persone disabili ha suscitato indignazione, forse il più eclatante visto il sorpasso di costi per la realizzazione del parco inaugurato nel 2009. Eppure la Svizzera si è dotata da tempo di una Legge federale sui disabili (LDis) che punta a eliminare svantaggi e disparità, inoltre lo scorso 15 aprile ha ratificato la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità. Paola Merlini è avvocato, ha studiato diritto perché fin da ragazza era interessata ai diritti dell’uomo e umanitari, poi la vita l’ha riportata in Ticino, dove ha lavorato per la Tutoria di Locarno e, successivamente, ha iniziato la sua attività presso la Federazione ticinese integrazione andicap (Ftia). Lì, il direttore Lorenzo Giacolini le chiede di adoperarsi insieme a lui perché Egalité Handicap arrivi in Ticino. Ce la fanno nel 2009, da quell’anno in Ticino è attiva l’unica antenna regionale dell’associazione che ha sede a Berna, dove garantisce un servizio bilingue francesce-tedesco. Avvocato Merlini, di che cosa si occupa Egalité Handicap?

Il servizio, voluto e sostenuto finanziariamente dalla conferenza nazionale delle organizzazioni di aiuto privato delle persone con andicap (Dok) e dalla Federazione ticinese integrazione andicap (Ftia), si occupa di dare assistenza giuridica per quanto riguarda l’applicazione del divieto costituzionale di discriminare a causa di un andicap. La consulenza giuridica è assicurata anche per la Legge federale sui disabili e le relative ordinanze nonché le singole norme contenute nelle varie leggi. Poi ci occupiamo di divulgare questo diritto, di farlo conoscere e ci mettiamo a disposizione per organizzare dei corsi di formazione nei vari ambiti, abbiamo un sito internet per informare e fornire documentazione. Il servizio è stato pensato non solo per le persone con andicap e i loro famigliari, ma anche per enti pubblici come la scuola, gli operatori sociali, oppure i datori di lavoro.

In Ticino sono molte le richieste? Quali sono le sollecitazioni più frequenti?

Le richieste sono in costante crescita, basti pensare che il nostro servizio dal 2009 al 2011 era garantito con un’occupazione del 20% sostenuta dall’Ufficio federale delle pari opportunità delle persone con disabilità. Nel giro di tre anni si è dovuto aumentare la presenza e nel 2012 si è passati a un’occupazione del 50%. Dall’inizio di quest’anno, ad esempio, le sollecitazioni sono state circa 60. Le richieste più numerose sono legate al mondo della scuola, soprattutto quella dell’obbligo e ai trasporti pubblici. Poi ne riceviamo tante che non ci riguardano direttamente: sono persone con andicap che hanno un problema e non sanno a chi rivolgersi, ci siamo dunque dati il compito di trovare il referente giusto per ogni situazione, insomma agiamo da trait d’union. Un coordinamento che mancava in Ticino. Il parco degli orsi di Berna sarà adeguato alle esigenze dei disabili. In Svizzera e in Ticino vi capita ancora spesso di imbattervi in situazioni come questa?

Purtroppo sì. La Ftia ha un architetto a tempo pieno che fornisce una consulenza alle persone con andicap che devono adeguare l’abitazione o il posto di lavoro alle proprie esigenze, ma si occupa anche di verificare le domande di costruzione ed eventualmente di fare opposizione nei confronti di chi non rispetta la Legge federale sui disabili e la nostra legge edilizia cantonale. Ogni mese la Ftia inoltra almeno un paio di opposizioni e alcuni avvisi di non conformità. Abbiamo anche organizzato, in collaborazione con la Ftia e con la SIA, dei corsi di formazione per gli architetti e ci siamo impegnati affinché fosse tradotta in italiano la norma SIA 500 (norma tecnica per la progettazione di edifici senza ostacoli, ndr). La nostra impressione è che ancora troppo spesso non si abbia la consapevolezza che mettere a disposizione edifici e mezzi di trasporto pubblici adeguati alle necessità delle persone con andicap è un modo per favorire un gran numero di persone: chi ha bambini piccoli e si sposta con passeggini o carrozzine, gli anziani, chi ha avuto un infortunio ed è temporaneamente limitato nei propri movimenti, ma anche più semplicemente le persone che viaggiano con un bagaglio pesante.

Paola Merlini: «edifici e trasporti pubblici accessibili ai disabili favoriscono un gran numero di persone». (Vincenzo Cammarata) Che cosa vi aspettate dalla ratifica della Convenzione ONU da parte della Svizzera?

Ci aspettiamo che migliori ulteriormente il nostro diritto. A livello svizzero abbiamo un diritto costituzionale che prevede la non discriminazione di una persona a causa di un andicap, la Convenzione in questo senso non aggiunge nulla di nuovo al concetto base, ma darà sicuramente un aiuto importante attraverso norme specifiche per permettere al legislatore di completare il diritto svizzero che per ora è ancora lacunoso. La Convenzione porta degli oneri a tutti, non solo a Confederazione, Cantoni e Comuni ma anche a tutte le organizzazioni delle persone con andicap che si devono impegnare in prima persona a divulgare questo diritto alla parità universalmente pensato: è

questo il mandato che ci è stato affidato dall’ONU. Lo scorso 27 giugno l’Ufficio federale di statistica con un comunicato informava che in Svizzera le persone con disabilità sono più formate ma anche più esposte al rischio di povertà, che cosa pensa di questi dati?

Innanzitutto nello studio dell’Ufficio federale di statistica ci sono anche dei risvolti positivi. Ad esempio è migliorata la formazione e l’accesso alla formazione delle persone con andicap. Il problema è che ciononostante, dal 2007 al 2012 non è migliorato l’accesso al lavoro. Questo dato evidenzia come sussistano ancora delle grandi carenze legislative in ambito di diritto del lavoro, il quale non prevede norme specifiche che garantiscano la non discriminazione in particolare al

momento dell’assunzione. Le statistiche ci mostrano come invece sarebbe necessario intervenire in maniera più incisiva non solo a livello di norme ma anche di sensibilizzazione e di sostegno ai datori di lavoro. Quello che più mi preoccupa dei dati forniti dall’Ustat è però l’ultima notizia: nessun miglioramento sul fronte della capacità di utilizzare i trasporti pubblici in maniera autonoma. Questa è un’ulteriore dimostrazione che il termine stabilito dalla legge federale sui disabili che permette alle aziende dei trasporti pubblici di adeguarsi entro il 2024 ha finora permesso alle aziende di rimandare il problema. Lo abbiamo ben visto con i distributori di biglietti automatici che purtroppo non sono ancora accessibili a tutti, come non lo sono tante stazioni ferroviarie del nostro cantone.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 21 luglio 2014 ¶ N. 30

Società e Territorio

Superare la crisi è possibile Coppia I periodi difficili in una relazione arrivano quasi inevitabilmente, come accorgersene

e correre ai ripari prima che la crisi diventi rottura? Ne parliamo con la psicoterapeuta Barbara Rossi

Elisabetta Oppo La crisi del rapporto di una coppia, quando ci sono dei figli, corrisponde quasi sempre anche alla rottura della famiglia intesa nel senso più stretto e tradizionale del termine. La decisione di una coppia di separarsi determina, infatti, nella vita di due persone uno stravolgimento e la difficile situazione diventa ancora più delicata quando i coniugi hanno figli, in particolare piccoli. I bambini, infatti, risentono inevitabilmente della separazione dei genitori, tutto il loro equilibrio viene scosso e la loro vita scombussolata. Le reazioni a questa decisione presa dagli adulti possono essere le più disparate e testimoniano il malessere per la nuova realtà che si è venuta a creare. Eppure spesso i segnali di crisi di una coppia sono ben evidenti già prima della rottura e in alcuni casi basterebbe prestare un po’ più di attenzione ad alcuni sintomi in modo da evitare la separazione. Sempre più spesso, infatti, molti matrimoni in crisi si concludono con un divorzio. Secondo i dati statistici del movimento naturale della popolazione dell’Ufficio federale di statistica in 40 anni il numero dei divorzi in Ticino è più che quintuplicato passando da 156 nel 1970 a 885 nel 2010. Più difficile, invece, confrontare i dati degli ultimi anni con quelli precedenti, poiché dal 2011 è stato modificato il metodo di rilevamento dei divorzi. Tuttavia è possibile fare un raffronto tra il 2011 e il 2012. In un anno è stata registrata una leggera flessione, passando da 737 a 704 divorzi. Ma quali passi sarebbe opportuno compiere per evitare la rottura? Ne parliamo con Barbara Rossi, psicologa e psicoterapeuta, collaboratrice dell’Istituto ricerche di gruppo di Lugano. Dottoressa Rossi, quali sono le prime avvisaglie di una crisi di coppia, come riconoscerle e cosa fare per intervenire in tempo?

John Gottmann, uno studioso nell’ambito delle relazioni d’amore, sostiene che una relazione è vicina al capolinea se sono presenti i seguenti sintomi: se si considerano gravi e difficilmente superabili i problemi di coppia; se parlarne sembra inutile e si cerca di affrontare le difficoltà ognuno per conto proprio; se si conducono vite

Desiderio, pazienza, disponibilità e rispetto sono buoni ingredienti per rilanciare un progetto di coppia. (Keystone)

parallele; e se si prova un senso di solitudine, anche in presenza del partner. In una ricerca che condussi anni fa con l’Università degli Studi di Padova su alcune coppie in difficoltà, emerse chiaramente come per poter superare la crisi un rapporto di coppia necessiti di alcune funzioni che lo pischiatra e psicanalista Donald Meltzer aveva individuato chiaramente. Secondo Meltzer per fare fronte alla crisi nella coppia sono necessarie due capacità fondamentali: la facoltà di pensare e quella di contenere il dolore. Senza queste due funzioni il rapporto si può considerare «a rischio». Naturalmente non c’è una ricetta che vada bene per tutti, e spesso non si riesce ad affrontare una crisi di coppia da soli. Quando si può dire che è giunto il momento di rivolgersi ad un professionista?

Non credo ci sia un momento giusto e uno sbagliato per rivolgersi a un professionista. Le persone possono chiedere aiuto nei momenti più vari: quando si sentono in difficoltà e temono di com-

promettere il loro rapporto; se qualche aspetto della relazione di coppia non funziona più: ad esempio se si ama ancora il partner ma non si hanno più rapporti sessuali o se non c’è più dialogo di coppia; altre volte sotto pressione di un partner, se non si riesce a scegliere tra moglie e amante; quando la crisi è forte e non si sa come uscirne; per giocare l’ultima carta, prima di separarsi davvero. In generale, direi che è sempre meglio rivolgersi per tempo: quando qualcosa non funziona, ma la relazione non è compromessa, è più facile risolvere o sciogliere eventuali problemi. In molti casi ci si rende conto della gravità della situazione troppo tardi, quando la vita di coppia è ormai logora. È comunque possibile recuperare il rapporto? Quali consigli può dare?

Indubbiamente è più complesso recuperare un rapporto ormai logoro. Ma se c’è il desiderio, io sono ottimista, qualcosa credo si possa fare e comunque vale sempre la pena provarci. La speranza, il desiderio, la pazienza, la

disponibilità, il rispetto sono ottimi ingredienti per rilanciare un progetto di coppia. Nell’ipotesi peggiore, potrà comunque essere un’occasione importante per separarsi senza farsi troppo male, imparando ad attraversare il conflitto se necessario. Non è banale separarsi, non bisogna sottovalutare la complessità e la sofferenza di una separazione. Spesso le persone esprimono il peggio di sé stesse, il che rende ancora più difficile la possibilità di perdonarsi e riconciliarsi, con se stessi in primis. Maggiore attenzione bisogna prestare al modo in cui si affronta una crisi di coppia quando ci sono dei figli. Come ci si deve comportare con i minori già dal primo momento in cui ci si rende conto di essere in crisi?

Anche qui non ci sono ricette. È importante ricordare che se la separazione è difficile per i genitori, benché adulti e con esperienza alle spalle, lo è ancora di più per i figli. Direi che è importante la comunicazione, perché i figli hanno una specie di «radar», per cui se qualcosa non funziona loro se ne accorgono

ma non sempre capiscono cosa accade e perché. È importante usare con loro la stessa correttezza e sincerità che ci aspettiamo da loro. Ma senza esagerare. L’equilibrio è delicato, occorre comunicare, cercando di non travolgerli con il proprio dolore, e cercando di non coinvolgerli nel conflitto. Tutti aspetti ben noti che sono più facili da dire che da mettere in pratica. All’Istituto ricerche di gruppo l’anno scorso abbiamo trattato il tema in una conferenza. Il punto cardine dell’incontro è stato appunto il tema della comunicazione. Quanto essa diventi difficile quando si è travolti dalle emozioni e quanto possa diventare violenta quando si soffre, spesso non prestando la dovuta attenzione a quanto questo atteggiamento si ripercuota sulla serenità dei figli. Vista l’importanza dell’argomento l’Istituto riproporrà un incontro anche nel corso di quest’anno. Informazioni

www.irgpsy.ch

Riconoscere la sofferenza dei figli Pubblicazioni Il nuovo libro della psicologa Simona Rivolta nasce dall’osservazione di come i genitori abbiano

la tendenza a edulcorare l’esperienza della separazione

Laura Di Corcia Possiamo raccontarcela quanto vogliamo, dire che se ci si separa in modo civile, i bambini non sentiranno dolore. Senza voler fare del reazionarismo (due persone che non vogliono stare insieme hanno tutti i diritti di dirsi addio), bisogna ammettere che il divorzio non è una passeggiata per i figli, i quali spesso, come spiega Simona Rivolta nel suo ultimo libro, La nostra famiglia da qui in poi (Bur), rimangono toccati da questa esperienza per tutta la vita. «Lavorando a contatto con le coppie – spiega la psicologa, la cui area di interesse riguarda in particolare la gestione del processo di cambiamento familiare – ho colto la tendenza, da parte dei genitori, ad edulcorare l’esperienza della separazione, che invece va riconosciuta come trauma». Un evento doloroso che però può essere affrontato con

intelligenza, per evitare di peggiorare la situazione. Dottoressa Rivolta, qual è il modo migliore per comunicare la decisione di separarsi ai propri figli?

Non esiste un modo migliore di un altro. A volte si sente dire che questa comunicazione così importante vada fatta assolutamente insieme; ecco, non sono completamente d’accordo. Si può fare assieme o separatamente, tenendo conto della situazione che garantisce più tranquillità al bambino. Se uno dei due genitori è molto sofferente e il suo stato d’animo rischia di invadere il campo della comunicazione con il figlio, allora è meglio che gli parli il genitore meno provato. C’è un modo per proteggere i bambini dal dolore della separazione?

Non si può… non voglio dire che una coppia che non funziona più non possa separarsi, mi preme semplicemente

sottolineare che cadiamo in un’illusione credendo che un cambiamento del genere non provochi sofferenza ai

nostri figli. Solo guardando la realtà possiamo dare ai bambini la possibilità di esprimere i loro sentimenti, anche quando sono negativi. In che fase della crescita il cambiamento è più duro da accettare?

La prima infanzia è il periodo più delicato: durante quella fase i bambini hanno meno risorse sia da un punto di vista cognitivo che emotivo. La presenza di entrambi i genitori è essenziale per costruire una personalità mediamente adattata (non perfetta, la perfezione non esiste) e questo aspetto ha maggiore rilevanza nei primi anni. Va detto che i figli che crescono in famiglie separate diventano grandi in modo diverso e che non si tratta di una ferita che poi si richiude, anche se bisogna stare attenti a non usare quella lente per interpretare tutto. Una crisi adolescenziale, per esempio, non è sempre causata dal divorzio dei genitori, anzi, spesso è un passaggio fisiologico.

Quanto è importante riunire il nucleo familiare, per esempio per le feste o per particolari occasioni?

È un atteggiamento salutare. In generale, credo che sia essenziale non eliminare l’altro genitore dai propri discorsi: fare riferimento a mamma o papà significa lasciare la libertà al bambino di esprimere i propri sentimenti nei confronti dell’ex compagno (o compagna). I tabù non fanno bene ai figli, ma tutto dipende dalla relazione che esiste fra i due genitori: se parlarne significa esprimere disapprovazione o rancore, meglio evitare il discorso. E se uno dei due genitori non riesce a superare il dolore della separazione?

A volte non ci si riesce da soli, è al di là delle proprie forze. In quel caso bisognerebbe farsi dare una mano. Quello che mi sento di sconsigliare è di farsi aiutare dai propri figli. È il genitore che deve sostenere il bambino, non viceversa.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 21 luglio 2014 ¶ N. 30

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Società e Territorio

Dagli spazzini all’oblio Privacy e nuove tecnologie Come sta cambiando l’approccio alle notizie scomode su Internet dopo la sentenza

della Corte di giustizia dell’Unione europea dello scorso 13 maggio

Mirko Nesurini Alcuni anni fa un mio amico finì in prigione. Aveva combinato un guaio pesante. Tutti (o quasi) gli girarono le spalle. Come spesso capita quando ti accade un evento negativo, ti giri attorno e ti accorgi di essere solo. Scontata la carcerazione preventiva, uscì tramortito. Seguì il processo, poi un altro e poi il terzo grado. Risultato: colpevole! Tra l’accusa e il terzo grado di giudizio sono passati una decina d’anni ed Internet si è riempita di notizie negative. Direte: ci mancherebbe altro. Risposta: certo, ma il punto non è questo. Il punto è che dopo avere pagato il conto con la giustizia per il suo errore, questo mio amico che apprezzavo come professionista e con il quale ora ho un rapporto di profonda amicizia, mi ha chiesto cosa poteva fare per liberarsi del suo passato, in altre parole, del suo errore.

«Ripulire» la propria identità digitale: fino a poco tempo fa un servizio piuttosto caro assicurato da società prevalentemente anglosassoni La domanda mi è sembrata lecita, anche se da subito ho ritenuto le intenzioni del mio amico di difficile attuazione. La soluzione, a quel tempo, prevedeva di affidarsi agli «spazzini del web». Il servizio che consisteva nel «ripulire l’identità digitale» del soggetto e costava diverse migliaia di franchi al mese. Tra gli utenti del servizio c’erano molti VIP. Le società che se ne occupavano erano prevalentemente anglosassoni. La strategia era di spingere in secondo piano sui motori di ricerca le notizie cattive o comunque non gradite dal cliente.

L’obiettivo era relegare la notizia negativa nella seconda o terza pagina del motore di ricerca dato che la gente si ferma spesso alla prima pagina di ricerca. Non desidero abusare della vostra pazienza descrivendovi il processo nel dettaglio. La strategia era rifarsi una reputazione con notizie fresche e positive. Non si trattava si nascondere i fatti, ma di dare altre notizie o il racconto della stessa notizia in modo diverso. Tutto questo è ancora attivo, ma oggi c’è un alleato nuovo, grazie al giudice spagnolo Mario Costeja Gonzàlez. Una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea pubblicata lo scorso 13 maggio, ha imposto ai motori di ricerca di rimuovere i collegamenti ad articoli o contenuti di qualsiasi tipo con informazioni inadeguate o non più rilevanti sul conto di utenti espressamente citati. È il primo concreto passo verso il diritto all’oblio. Primo passo perché in realtà cercando bene le notizie ci sono ancora, ma poco importa ai fini di questo articolo. La notizia, credo, è che il tema è ora in un’agenda e questa è una buona notizia per tutte le persone come il mio amico che hanno pagato il conto con la giustizia oppure di gente diffamata in modo ingiusto e che vorrebbe evitare di portarsi dietro le brutte avventure per tutta la vita. Nell’ultimo mese e mezzo le richieste per rivendicare il diritto all’oblio in rete sono state migliaia e in tutti i Paesi europei. Google ha lanciato un servizio attraverso il quale i cittadini europei possono chiedere che vengano cancellati i link a risultati di ricerca che si ritengano inopportuni promettendo di «esaminare ogni richiesta cercando di bilanciare il diritto alla privacy con quello all’informazione». L’avvocato Diego Fulco è un esperto di privacy e gestione dei dati personali con esperienze in diverse multinazionali europee. Gli abbiamo chiesto cosa cambierà in concreto per gli utenti, dopo la sentenza della Corte di Giu-

Anche Google riuscirà a garantire il «diritto all’oblio»? (Keystone)

stizia su Google. Secondo l’avvocato Fulco «l’utente del web potrà presentare alla società che rappresenta il motore di ricerca in uno Stato membro dell’Unione europea una richiesta motivata di non fare più comparire un’informazione che lo riguarda fra i risultati di quel motore di ricerca». Tecnicamente, questa richiesta si chiama «opposizione per motivi legittimi», nel senso che l’utente la deve motivare adeguatamente. Per intenderci, «nessuno può chiedere per un semplice capriccio al motore di ricerca l’eliminazione dai risultati di informazioni che vuole fare scomparire per motivi futili, come sarebbe la domanda di eliminare dai risultati una foto, perché in quella foto non è venuto bene». Bisogna che l’utente spieghi per

iscritto per quali ragioni la presenza di quell’informazione nell’elenco dei risultati può ledere la sua identità personale o la sua dignità. La direttiva europea sulla privacy e le leggi nazionali di attuazione prevedono casi in cui il diritto di cronaca e/o il diritto alla ricerca storica prevalgono sul diritto all’oblio. Soprattutto per quanto riguarda informazioni relative a persone note, l’interesse della collettività ad essere informata vince sul diritto di queste persone a fare scomparire dal web informazioni personali che le mettono in cattiva luce. Voltaire disse che «la tolleranza è una conseguenza necessaria della nostra condizione umana. Siamo tutti figli della fragilità: fallibili e inclini

questa bolla, dalle relazioni umane ai sentimenti più intimi è sospeso, ogni cosa è ovattata, eterea, impalpabile, finta. Svanisce ma poi subito si riforma, la bolla, ogni qualvolta Theodor si scontra con la realtà. Quando la moglie gli chiede se sta vedendo qualcuno e lui risponde di avere una relazione con un sistema operativo, oppure quando il suo collega gli chiede di uscire insieme in quattro e lui risponde «non posso, sto con un sistema operativo». L’ironia si fa ancora più sottile quando raccontando della sua esperienza con Samantha Theodor dice «è bello stare con qualcuno che è entusiasta della vita». La stessa Samantha che poco prima di lasciarlo perché troppo diversi, gli confiderà di avere una re-

lazione con altre 8316 persone ma di amare lui di un amore diverso. E che in un’altra occasione, commentando i suoi contatti sui social network, esclama «Wow, Theodor, sei molto popolare in rete, questo significa che hai un sacco di amici?». In realtà gli unici amici di Theodor sono Amy e suo marito. Anche gli spazi aperti, il rapporto con la natura, non esistono. Sarà così il nostro futuro? Andremo in giro negli autobus parlando con il nostro computer? Risolveremo i nostri problemi d’amore comprando un sistema operativo disegnato per soddisfare tutte le nostre richieste? Che ci accontenta sempre? Faremo scrivere ad altri le nostre lettere perché non abbiamo tempo? Passeremo le nostre serate a giocare con simpa-

all’errore. Non resta, dunque, che perdonarci vicendevolmente le nostre follie». In questo senso, il reiterato presentarsi sulla pagina Google di follie del passato non aiuta a superare i momenti bui, giusti o ingiusti che siano, e nel caso di quelli ingiusti anzi, li acuisce. Nei casi in cui un soggetto ha pagato il suo conto con la giustizia o è stato vittima conclamata di diffamazione, mi pare benvenuta una riflessione sull’uso delle notizie da parte dei motori di ricerca. Rimane in piedi un tema assai difficile da affrontare in termini di regole nella gestione della libertà d’informazione che dovrebbe essere – proprio come dice il nome – il più libera possibile.

La società connessa di Natascha Fioretti «Wilhelm, cosa è mai il nostro cuore, il mondo senza l’amore? È come una lanterna magica senza luce! Ma appena tu vi introduci la lampada, le più belle immagini compaiono sulla parete bianca». Oggi più che su una parete bianca, come ne I dolori del giovane Werther di Goethe, le immagini comparirebbero su uno schermo bianco del pc raccontate dalla suadente voce di un sistema operativo chiamato Samantha. Samantha che nella pellicola Her di Spike Jonze dice al suo Theodor, interpretato da Joaquin Phoenix, quali sono gli appuntamenti della giornata, quali quelli più importanti, quale strada prendere per arrivare prima nel tal posto… Non solo, da agenda parlante super performante, si trasforma in

amica comprensiva e confidente poi, addirittura, in amante passionale e compagna di vita onnipresente quando Theodor la cerca. A tal punto che Theodor non vive più senza lei. Samantha riempie ogni minuto della sua vita, quella vita interrotta dalla dolorosa separazione con la ex moglie di cui non riesce a farsi una ragione. Da quando è solo vive come in una bolla tecnologica. La tecnologia pervade e invade tutte le sfere della sua vita a partire dal pc con il quale lavora alla beautifulletters.com, azienda dove i dipendenti scrivono toccanti lettere per conto di terzi, ai videogiochi olografici con i quali trascorre le serate, alle chat di appuntamenti con le quali interagisce nelle notti insonni. Tutto in

tici ologrammi anziché passeggiare per le strade della città? Guardando il film vien da dire «speriamo di no». Speriamo che l’essere umano del prossimo futuro assomigli più al Giovane Werther che a Theodor. Se il primo vive la sua vita e le sue emozioni, va incontro alle relazioni umane con tutte le gioie e le delusioni che ne derivano, il secondo sceglie di sopravvivere, di non sentire davvero, di non mettersi in gioco. E se il primo è attore del suo destino, si toglie la vita perché non può sopportare di stare senza la sua Lotte, il secondo ne diventa prigioniero e muore ugualmente, piano piano, di tecnologia, di finzione e di ovattata serenità. Se non fosse che alla fine, l’amore reale di Amy, lo salverà. Forse. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 21 luglio 2014 ¶ N. 30

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Società e Territorio

Fili a sbalzo e fieno selvatico

La fornace della Torrazza di Caslano

Valle Verzasca Il sentiero etnografico di Odro è una gita

entrò in funzione era un impianto moderno e produsse calce fino al 1950

Elia Stampanoni Fieno selvatico, fili a sbalzo e sprügh sono alcuni termini che dovrebbero invogliare ad incamminarsi lungo il sentiero etnografico di Odro, un cammino che sale da Vogorno, località verzaschese a 461 metri di altitudine, fino ai 1240 dell’agglomerato sui monti. L’agglomerato di Odro, da dove si apre una bella vista sulla valle e sul Locarnese, era un centro dell’attività agricola fino agli anni 50. Su questi dirupi i contadini salivano per falciare il fieno selvatico, ossia l’erba raccolta su pendii dove le mucche non riuscivano a pascolare, in pratica fino alle cime. Era un lavoro molto faticoso e anche pericoloso, tanto che sono molte le testimonianze di disgrazie dovute alle difficoltà sui pendii. Gli uomini s’inerpicavano su questi maggenghi a piedi, spesso accompagnati dalle donne con tutta la famiglia, e vi restavano il tempo necessario per falciare il fieno a cui ognuno aveva diritto. Norme stabilite dai regolamenti comunali garantivano soprattutto ai paesani di Vogorno, Corippo, Mergoscia e Lavertezzo di falciare sui pendii per raccogliere il prezioso fieno selvatico. Tanti ciuffi d’erba che, sommati, permettevano di rimpolpare le scorte per il lungo inverno, di regola scarse a causa dello stretto ed esiguo terreno coltivabile disponibile nel fondovalle.

Si sale da Vogorno e in due ore e mezza di cammino si arriva a Odro dove si riscopre il duro lavoro di chi, fino agli anni 50, falciava il fieno selvatico Per portare il fieno a valle, accanto al tradizionale trasporto a spalla, i verzaschesi seppero trovare valide alternative, utilizzando per esempio i fili a sbalzo. Di queste infrastrutture oggi rimangono dei segni sul terreno e a Stavèll, un nucleo di monti che s’in-

contra salendo a Odro, si vedono per esempio il punto di partenza e di arrivo. Il filo che scendeva a valle è ancora ancorato a un grosso masso e sostenuto da tre pali. C’era la possibilità anche di spingere il fieno a valle lungo i menadoo, dei corridoi naturali (di roccia o erba) dove il foraggio raccolto scorreva con più facilità. Un’operazione tanto faticosa quanto pericolosa che causò diverse tragedie tra i lavoratori di quel periodo. Le famiglie salivano sui monti nei mesi estivi, da agosto ma anche fino a settembre, e creavano dei piccoli rifugi dove trascorre le poche ore di riposo, oppure, come verso la cima di Bardüghè, avevano un posto dove soggiornare, gli sprügh. Alcuni sono caduti, altri sono stati salvati e oggi utilizzati per altri scopi, come quello in cui troviamo il piccolo museo del fieno di bosco, altro termine per definire il fieno selvatico. La piccola esposizione è il frutto di un’iniziativa di Jean-Louis e Chris Villars, i due operosi agricoltori che a Odro gestiscono un’azienda biologica. Il giurassiano Jean-Louis Villars, dopo essere arrivato in Verzasca un po’ per caso oltre trent’anni fa, ha iniziato a riparare e ricostruire i primi ruderi diroccati e nel 1996 si è trasferito definitivamente su questa radura scoscesa. La coppia attualmente gestisce i terreni e gli stabili: un fiorente agriturismo che accoglie i turisti di passaggio. La loro fattoria si è allargata lentamente e nei rustici restaurati oggi troviamo la loro abitazione, ma anche le stalle, il caseificio, i dormitori e le cascine per gli ospiti. Il piccolo museo è invece stato realizzato poco più a monte del nucleo di Odro, in quella che una volta era l’abitazione temporanea di Luigi Berri (1904-1988). Oggi racchiude i ricordi e le testimonianze di un passato ormai lontano, ma che vuole rimanere vivo nella memoria della gente. Nella casupola ristrutturata trovano spazio diversi utensili, ritrovati da Jean-Louis e Chris che, dopo il restauro e la catalogazione, sono stati donati al Museo Val Verzasca. Una pausa nell’angusto sprügh è il momento ideale per ripercorre la storia

Tratti di muro a secco lungo il sentiero etnografico di Odro. (Elia Stampanoni)

di questi agricoltori che, con il loro ingegno, sapevano trovare utile foraggio anche su questi pendii. Il museo è arricchito dai vari attrezzi utilizzati per la fienagione, come le piccole falcette che permettevano di tagliare anche i ciuffi d’erba più discosti. All’interno pure una fornita documentazione, dove si ricordano le famiglie più attive fino agli anni 50 nella raccolta del fieno selvatico: gli Jacop, i Gamboni, i Domenighini, i Berri, di cui l’ultimo fu Luigi, detto Stevenin. Fieno selvatico, fili a sbalzo e sprügh sono inseriti nel sentiero etnografico di Odro che attraversa almeno una decina di altri punti d’interesse. L’itinerario, riportato sull’opuscolo informativo, sale da Vogorno a Odro per poi proseguire verso l’alpe Bardüghè e riscendere dall’altro sentiero passando da Costapiana. Subito in partenza, sulla sponda sinistra del ruscello della Valle del Molino, a pochi passi da una cappella, ci sono ancora le tracce di un vecchio mulino, mentre oltrepassando un’ostica scalinata si raggiunge l’oratorio secentesco dedicato alla Madonna Addolorata. Situato in località Colletta, l’oratorio è oggi meta della processione che ogni anno al venerdì della Passione (che precede la Domenica delle Palme) attira i fedeli. Il sentiero si snoda in seguito nella bella selva castanile con imponenti castagni monumentali, presenti fino a 900 metri di altitudine. Una tappa importante del sentiero è sicuramente Odro, raggiungibile dopo circa due ore di cammino. Sul terrazzo, troviamo l’azienda agrituristica, ma anche i massi cuppellari. Su un sasso affiorante al centro dell’insediamento sono di fatto ben visibili alcune coppelle. Dal piccolo museo del fieno di bosco la salita continua verso l’alpe Bardüghè, costeggiando lunghi tratti di muri a secco. Altre «battute» di fili sospesi attraversano la valle e, a quota 1’600 metri, si apre il vasto pianoro utilizzato un tempo quale alpe e oggi punto culmine del percorso etnografico. Una gita che si conclude in discesa tra i vigneti di Vogorno e ci fa scoprire i luoghi impervi e discosti della Verzasca, mentre sul fondovalle il fiume si fa sentire in lontananza.

Laura Patocchi-Zweifel

incantevole e istruttiva che permette di scoprire un piccolo museo ad alta quota e scollinare all’alpe Bardüghè

Archeologia industriale Nel 1913 quando

Laura Patocchi-Zweifel In Ticino, fino al secondo Ottocento, per costruire edifici e strade si sfruttavano le ricchezze naturali del proprio territorio. Il Sottoceneri è ricco di numerose varietà di pietre calcaree utilizzate per murature, decorazioni, rivestimenti e per la produzione di calce. In passato mescolando calce, sabbia e acqua si otteneva un’ottima malta che permetteva di realizzare opere edilizie stabili. Da un’inchiesta sulle cave di calce ticinesi del 1895 si può leggere: «Cave di sassi calcari sul versante orientale e occidentale del monte di Caslano. Esplorate da tempi remoti. Furono sempre esercitate dai fornaciai o dai loro addetti e con esito felice. Estensione mq. 21’000. (...) Per la utilizzazione di detti sassi vi sono 6 fornaci a sistema vecchio cotte con legna». La toponomastica della zona indica che le attività estrattive della pietra calcarea e la produzione della calce si trovavano in diretta vicinanza favorendo così il sorgere di una fiorente industria delle fornaci che ha largamente contribuito allo sviluppo dell’insediamento. La calce, oltre ad essere impiegata come componente primario nella preparazione della malta trovava parecchie applicazioni in svariati campi. La si usava per intonacare e imbiancare locali anneriti dal fumo e come rimedio contro muffe, insetti e nei periodi di pestilenza l’imbiancatura fungeva da disinfettante per gli ambienti e le sepolture. Nell’agricoltura veniva utilizzata per correggere i terreni acidi e per combattere i parassiti e nei pollai per eliminare i pidocchi delle galline. Le fornaci della Torrazza, frazione di Caslano situata sullo stretto di Lavena a sud del monte Sassalto, inizialmente venivano gestite per conto della Comunità di Lavena (I) poi col tempo vennero cedute con le cave a privati che vi si stanziarono. La Torrazza fu oggetto di frequenti e aspre controversie fra i caslanesi e lavenesi che si conclusero con il trattato di Varese del 1604 tra i Cantoni Svizzeri e il Ducato di Milano in cui si stabiliva che il territorio della Torrazza era di pertinenza confederata e del comune di Caslano, «tuttavia veniva concesso agli abitanti di Lavena, proprietari di stabili nel territorio di Caslano, di usarli e di goderli con parsimonia: inoltre ai terrieri di Lavena vengono conservati i loro diritti di pascolare, di estrarre sassi e calce, di far legna sul monte di Caslano». La calce ben cotta veniva spedita nel Sottoceneri ed anche nel Sopraceneri su carri o via lago su barconi. Il ponte di Melide, iniziato da Pasquale Lucchini nel 1844 ed aperto al libero passaggio nel 1847, è stato costruito con la calce tratta da Caslano e da Cragno sopra Mendrisio. Nel Malcantone la calce veniva trasportata in gerle. Case, chiese, torri campanarie della Valle della Magliasina e della Tre-

sa sono state edificate con calce di Caslano. La costruzione della ferrovia del San Gottardo inaugurata nel 1882 favorì l’importazione dalla Svizzera interna e dall’Italia di un’ottima calce prodotta in fornaci moderne a prezzi altamente concorrenziali. In breve tempo la maggior parte delle obsolete fornaci ticinesi cessarono la produzione. Anche a Caslano non si produsse più calce per alcuni anni fino al 1913 quando entrò in funzione una nuova e moderna fornace a fuoco continuo costruita di fronte a una cava di pietra dolomitica alla Torrazza. Il forno, di forma cilindrica con tino verticale alto circa 17 metri era alimentato da due focolari contrapposti al primo piano utilizzando la legna come combustibile. Dopo alcuni anni si procedette a una modifica che permetteva una migliore resa. Vennero chiusi i due focolari laterali e il forno veniva caricato dall’alto con strati alternati di pietra e carbone. Una passerella collegata con il piano della cava consentiva di entrare nella cappa del forno e distribuirvi strati di pietrame e carbone. Il ridimensionamento del mercato della calce causò il fallimento della ditta Bellorini gestrice della fornace della Torrazza. La società Sassalto SA ne rilevò i diritti e nel 1931 l’architetto Nino Moccetti assunse con il padre la direzione dell’esercizio alla Torrazza. Alla fornace si produceva calce viva in zolle, calce idrata e concime. Inoltre vennero installati impianti per la produzione di pietrischi calcari usati per il sottofondo stradale, per i viali da giardino, i campi da bocce e da tennis. L’uso sempre maggiore del cemento nelle opere edilizie determinò il declino della produzione di calce e nel 1950 la fornace della Torrazza cessò l’attività mentre l’estrazione e la lavorazione del pietrisco continuò fino al 1976. Oggi la fornace si erge imponente e solitaria, in un commovente stato d’abbandono, sotto la parete del monte Sassalto, parco naturale di straordinario interesse naturalistico. Questa preziosa testimonianza di un’attività industriale ormai dimenticata è stata posta sotto tutela cantonale. Bibliografia

Nino Ezio Greppi, La Vicinia di Caslano, Estratto dall’Archivio Storico della Svizzera Italiana, Agno, 1929. Francesco Dario Palmisano, Documenti per la storia di Caslano, ASPT, Ponte Tresa, 2008. Roland Hochstrasser, La fornace di Caslano. Proposte per la conservazione e valorizzazione del patrimonio storico-culturale regionale, Museo del Malcantone, Curio, 2003. Francesco Gianferrari, Caslano e le sue fornaci, Bellinzona 2004. Ilse Schneiderfranken, Ricchezze del suolo ticinese, Bellinzona, 1943.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 21 luglio 2014 ¶ N. 30

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Società e Territorio Rubriche

Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni L’angoscia rimossa L’aneddotica del passato è ricca di personaggi che – a quanto pare – affrontavano spavaldamente la morte o perfino ne ridevano: il filosofo stoico Zenone, dopo una caduta che lo aveva ferito gravemente, si rivolse alla Morte: «Vengo. Perché mi chiami?», e si diede volontariamente la morte per assecondare il destino. Verso la metà del Cinquecento Montaigne scriveva: «Si sa che la maggior parte dei filosofi ha anticipato volontariamente, o affrettato e facilitato la propria morte». Sempre nel primo Cinquecento, un celebre buffone dei Gonzaga, Mattello, giunto alla fine dei suoi giorni si diede a recitare una pantomima, giocando e scherzando con la Morte finché questa, «scherzando e ridendo l’uccise»: così racconta il poeta d’Isabella d’Este, Antonio Cammelli. E di un poeta del Settecento, l’abate Casti, un suo biografo dice che «morì di coliche barzellettando». Il boia Sanson ha raccontato che durante la Rivolu-

zione francese il duca di Charost, sulla carretta che lo portava alla ghigliottina, rimase immerso nella lettura di un libro; prima di salire i gradini del patibolo piegò l’angolo superiore della pagina come segno del punto a cui era arrivato nella lettura. Certo, sarebbe assurdo concluderne che la morte, in passato, non facesse paura, o che almeno i grandi personaggi la contemplassero serenamente. Goethe, ad esempio, non tollerava né di vedere i morti, né che si parlasse di morte in sua presenza. Quando morì la moglie, Christiane Vulpius, non volle vederne il cadavere; e se qualcuno parlava di morti in sua presenza, era allontanato per sempre dal suo salotto. Dunque, anche i grandi possono temere la morte. Ma una cosa per lo meno è certa: la morte, un tempo, era di casa; oggi, secondo le analisi di studiosi come Ariès, Morin, Vovelle, viene rimossa, occultata, quasi fosse un tabù.

Ci sono molte ragioni alla base di questo cambiamento. Fino a non molto tempo fa per lo più si moriva in casa, e lì avveniva la veglia funebre; oggi si muore in genere all’ospedale o in una casa per anziani, e la visita al defunto avviene nella annessa camera ardente. La morte poi, in passato, era molto più frequente: la durata media della vita viene calcolata dagli studiosi intorno ai 20 anni nella lontana antichità; all’inizio del XX secolo era di circa 50 anni. La mortalità infantile era elevatissima: nel Seicento, a Firenze, oltre il 70% di tutti i funerali riguardava bambini di meno di 10 anni. Ancora nella Francia del XIX secolo, prima che si diffondessero le scoperte mediche di Pasteur, il 20 o 25% dei nati moriva entro il primo anno di vita. Attualmente la speranza di vita si aggira intorno agli 80 anni (per gli uomini) e agli 85 (per le donne) e si calcola che un neonato su due nei Paesi industrializzati ha oggi una

buona probabilità di campare fino a 100 anni. Come sempre, ogni conquista genera problemi nuovi. Lasciamo in disparte le questioni – tutt’altro che semplici – dello scarso ricambio generazionale, delle incerte sorti del sistema di pensionamento e dell’AVS, del più che probabile aumento dell’età di cessazione del lavoro; rimane da chiederci che cosa si perde quando si vince. Si vive molto più a lungo, è vero: ma purtroppo in molti casi non si tratta propriamente di vita, ma di sopravvivenza – qualcosa di simile a quel che Henry Miller chiamava «la morte vivente». Se si giudica in base alla quantità, il progresso è indubbio; ma la qualità della vita lascia perplessi in molti casi. Inoltre, la possibilità crescente di rinviare una morte che in passato sarebbe stata inevitabile, affievolisce quel fatalismo che ha sempre aiutato l’uomo ad accettare

l’inevitabilità della morte. «Quando sarà la mia ora…» – dicevano i vecchi, rassegnati. Ma quell’ora, adesso, sembra procrastinabile sine die. Infine, la consapevolezza del comune destino di morte ha sempre fatto parte della psiche umana, ne ha alimentato la cultura. Non aveva forse torto Dürrenmatt quando scriveva: «Per paura della morte abbiamo creato un aldilà, abbiamo creato gli dei, abbiamo creato Dio. Tutta la nostra cultura è una specie di edificio che si oppone alla morte». Ora, per la prima volta, nella storia dell’uomo, l’esistenza nostra si nutre assai meno del passato e del futuro, e sempre più affonda nel presente. E quel presente, come insegna Pascal, dev’essere divertissement, un distogliere il pensiero dalle ombre del domani sviandolo nel piacere e nella distrazione del momento. La cultura del nostro tempo rispecchia fedelmente questo atteggiamento.

anche se sembra disabitata e l’unico segno di vita sono le bandierine di preghiera tibetane. Poi, camuffati a prima vista dalla vegetazione, di primo pomeriggio a luglio inoltrato, in quel clima caldo-umido poco prima di un violento acquazzone, scorgo sul pendio, i tre piloni dell’ex lift da spiaggia di Fürigen (486 m). Di qui non si passa, muro davanti. Su un cartello è indicata una fortezza-bunker degli anni Quaranta diventata museo. Dietro l’angolo, per fortuna, un sentiero ripido sale su a scalini nel bosco. Un recinto; la porta reticolata con lucchetto però, sotto, è piegata in modo da passarci furtivi. Erba alta sul pianoro, due antichi tavoli da ping pong dove c’è un cero rosso cimiteriale. Lilla delle campanule, maggiorana selvatica. Il pilone d’arrivo o partenza è lì, con la grande ruota sopra arrugginita che ricorda proprio quella degli ski-lift. Sei pulegge sono le altre poche tracce rimaste di quel movimento rotatorio definito tecnicamente nel

gergo degli ascensori: «a paternoster». Ascensore a paternoster, un ciclo continuo come rosario da sgranare. Cerco agganciati gli aggeggi dove si viaggiava in piedi per una manciata di metri, ma niente, spariti. Sciacallaggio di archeologia vacanziera. Chissà l’Odermatt se vedesse com’è ridotto il suo bikini-lift (1937-1982). Eppure, nell’ottobre del 2010, un giornalista dell’«Obwalden und Nidwalden Zeitung», parlando di «monumento della tecnica», si augurava un non degrado. Ora viene giù che Dio la manda. M’inerpico su fino a un gazebo di legno pericolante, ai margini del bosco. La vista si apre un po’, anche se il panorama non è un granché: porzioni di lago, laggiù Hergiswil tagliato dell’autostrada A2. Dirigo di nuovo lo sguardo su quel pilone di sorrisi perduti con la ruota liturgica sopra. Sembra una scultura di Tinguely, ma più interessante. Così priva di fronzoli artistoidi, disinteressata, dimenticata, semplicemente spontanea.

segnale tipico di una situazione. Ma la ricerca di Hausendorf, che ha esaminato ben 8000 cartoline, era rivolta soprattutto a decifrare i significati, per così dire segreti, di questi piccoli saggi di scrittura: il repertorio dei temi, la disposizione delle parole, su linee orizzontali, verticali o traversali, nello spazio a disposizione, e, non da ultimo, le capacità creative degli autori di minitesti. Ed è rivelatrice anche la scelta stessa della cartolina: prevalgono le immagini di paesaggi, ma non mancano i monumenti e il folclore locale. Conclude Hausendorf: «Non si tratta di un’operazione banale». In un certo senso, questo rito vacanziero mette alla prova. A chi si decide d’inviare la cartolina, qual è il luogo che merita un ricordo da far condividere e qual è la motivazione di questo messaggio? Sta di fatto che, nell’era dei viaggi per tutti, la cartolina ha perso il significato di un’esibizione di tipo sociale, da parte di privilegiati che potevano concedersi quel lusso. Prevale, oggi, il significato d’ordine affettivo.

Si scrive ai familiari, agli amici, ai colleghi. E, soprattutto, ci si scrive sul filo della reciprocità. Spesso, una cartolina inviata è la risposta a una ricevuta. Ciò che ha creato una forma particolare di amicizia: fra persone che, magari non s’incontrano, ma si parlano attraverso questo mezzo, già di per sé eloquente. C’è cartolina e cartolina, e conta scegliere quella giusta, in sintonia con il gusto del mittente e del destinatario. E c’è persino chi la cartolina se l’inventa. Qui bisogna citare Mario Agliati che, dalle vacanze in Liguria, inviava cartoncini da lui disegnati e dipinti. Ma, forza segreta delle parole, cartolina non indica soltanto un rettangolo di carta, a uso postale. Nel nostro linguaggio, sino a qualche decennio fa, definiva «una macchietta, un tipo curioso e bizzarro», come si legge nel «Dizionario dei modi di dire» di Ottavio Lurati. L’autore ne attribuisce l’origine alla rubrica «Cartoline del pubblico», che, a partire dagli anni 20, ospitava sulla «Domenica del Corriere», battute scherzose dei lettori.

Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf L’ex spiaggia-lift di Fürigen A Fürigen, sul lago dei Quattro Cantoni, intorno agli anni Trenta, un albergatore visionario di nome Paul Odermatt (1879-1970) mette in piedi un movimentato hotel in anticipo sul Club Med (1950). A grandi lettere bianche, sotto l’hotel, nel bosco, il nome di questa frazione di Stansstad a settecento metri sul livello del mare, era hollywoodianamente scandito. La scritta FÜRIGEN, al contempo anche il nome dell’hotel nato nel 1910, a quanto pare, si vedeva perfino dall’altra parte del lago. Una funicolare collegava l’Hotel Fürigen con la struttura balneare in una insenatura. Tra le varie attività organizzate tipo serate danzanti o tornei di ping pong, risalta una stravagante «zatterata» settimanale. Il signor Odermatt, assieme al fratello Walter, nel giugno 1929 brevetta addirittura una zatteracanoa. Un «mezzo di nuoto adatto per la cura di bagni al lago» prodotto poi in serie per ravvivare le vacanze degli

ospiti dell’hotel. Ma l’idea eccezionale è il lift da spiaggia. Visto che la caletta era piuttosto in ombra, Odermatt crea, al di sopra del lido, uno spiazzo per prendere il sole. E ispirato dagli ski-lift – tra l’altro invenzione svizzera rivendicata da Davos : 1934 – commissiona alla ditta Niederberger di Dallenwil, lo spiaggia-lift. Così, nel 1937 pronti via: e hop, piedi su una pedana circolare, attaccati a una stanga, un tetto-miniparasole sopra la testa. Su e giù per cinquanta metri: nuoto e bagni di sole sopraelevati. Certo, bisogna vedere i manifesti pubblicitari degli anni Quaranta con le ragazze sorridenti in costume da bagno, sospese, per rendersi conto della straordinarietà. Così, oggi, andiamo un po’ a vedere cosa rimane di questo lift balneare nel canton Nidvaldo, unico al mondo, caduto in disuso nel 1982. Cammino spedito senza distrazioni per le vie ortogonali di Stansstad, quattromilacinquecento anime a due chilometri da Stans e a

un quarto d’ora di treno da Lucerna. Il suono dei palleggi di tennis risolleva un po’ i miei passi in questo paese piatto, senza prospettiva. Trovata la baia, lassù si scorge l’hotel chiuso da un paio di anni. Nessuna traccia della struttura balneare, i classici filari di cabine di legno, smantellati. Nessuna spiaggia, addio lido. Al loro posto, un tremendo complesso residenziale al cui interno, c’è il ristorante Aiola al Porto. Un salice piangente isolato su una piattaforma è forse l’unico testimone dei tuffi di un tempo. Giro attorno a questa unità abitativa a ferro di cavallo, incontrando l’entrata del «ristorante mediterraneo». Una foto retroilluminata di una tagliata di manzo sopra una pizza, la dice lunga. Proseguo a passo lento in questa cala incassata a ridosso della roccia verticale, ecco la casa d’aspetto collegata alla funicolare. Di legno, tre piani, balconi, tetto piramidale; costruita nel 1944 dall’architetto locale Arnold Durrer e ora casa d’abitazione,

Mode e modi di Luciana Caglio La cartolina, superstite in buona salute È scomparso il telegramma, diventano sempre più rare, nei rapporti privati, le lettere soprattutto quelle scritte a mano, sono in calo anche i biglietti d’augurio, tutte forme di comunicazione spazzate via dagli sms, dalle e-mail, dai messaggi affidati ai social network. A questa valanga elettronica resiste, invece, la cartolina che, anzi, sembra in buona salute proprio grazie alla sua materialità: un pezzo di carta che reca un’impronta umana. Ciò che ne fa l’unica occasione in cui, oggi, una persona può e deve esprimersi, attraverso la scrittura di proprio pugno, offrendo a un destinatario, di propria scelta, una testimonianza di vita vissuta. Ora, ad assicurare alla cartolina una continuità, controcorrente, rispetto alla supremazia del virtuale, è il ruolo che le spetta nell’ambito turistico. E grazie a una coincidenza storica. La cartolina illustrata, inventata da un librario francese nel 1870, fu subito sfruttata in Svizzera come mezzo di propaganda per far conoscere le bellezze del paesaggio: proprio mentre muoveva i primi passi il

turismo moderno, praticato da precursori inglesi e tedeschi. Per i quali l’invio di una cartolina, su cui figurava una vetta alpina o un lago, documentava una prova di coraggio o una curiosità scientifica: in quei luoghi lontani, loro c’erano stati.

Se sei in vacanza scrivi...

Quest’esigenza di far partecipi gli altri all’esperienza di un viaggio continua ad accompagnare anche i vacanzieri, nell’era del turismo di massa che ha reso accessibili, persino banalizzato, mete un tempo distanti e avventurose. Certo, partendo, oggi, non si affronta più l’ignoto in assoluto, non si fa niente di originale, spesso si seguono itinerari prestabiliti in luoghi arcinoti. Tuttavia, si tratta sempre di un cambiamento rispetto alla quotidianità, qualcosa da condividere con familiari, amici, conoscenti, rimasti a casa, tramite, appunto, la cartolina: sempre attuale. Lo conferma un sondaggio condotto in Svizzera: il 70 per cento degli intervistati ha l’abitudine di mandare cartoline dalle vacanze. Il risultato non ha sorpreso il linguista Heiko Hausendorf, docente all’università di Zurigo, che alla persistenza del «fenomeno cartoline» ha dedicato uno studio scientifico. «Si potrebbe dire, ha dichiarato, che solo chi scrive cartoline è veramente in vacanza». In altre parole, la cartolina rappresenta il


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Ambiente e Benessere Guida turistica o e-book? È forse giunto davvero il punto di svolta, in cui si abbandona il cartaceo per il virtuale?

Roma-Grosseto con gli Etruschi In viaggio sul percorso della Via Clodia, un cammino che serviva per portare le derrate alimentari verso Tuscania e fino all’antica città di Velleia

Vademecum per trapiantati Un manuale che consiglia come organizzare un viaggio o delle vacanze dopo un trapianto d’organi

Viaggiare con gli animali Il quattrozampe di compagnia più facile da portare in vacanza è il cane: ecco come procedere

pagine 16-17

pagina 15

pagina 19

Amble

pagina 14

L’inflazione dell’universo

«Big Bang» Per la prima volta si ha l’evidenza sperimentale di un fenomeno molto misterioso Simone Balzelli Una recente conferenza stampa all’Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics (nei pressi di Boston) ha avuto grande risonanza anche al di fuori del mondo scientifico. Sono stati, infatti, pubblicati i risultati dell’esperimento Bicep2, un telescopio situato al Polo Sud (vedi immagine qui sopra). L’esito è notevole, poiché per la prima volta vi è l’evidenza sperimentale di un fenomeno decisamente misterioso: l’inflazione dell’universo. Il tutto si lega alla teoria del Big Bang, abbozzata per la prima volta dal belga Georges Lemaître nel 1927. Essa descrive la nascita del nostro universo in uno stato estremamente (se non infinitamente) denso, a cui seguì un’espansione che continua ancora oggi e che forse durerà all’infinito. Fra le maggiori prove a favore della teoria del Big Bang vi è la scoperta del cosiddetto C.M.B. (Cosmic Microwave Background), che risale al 1964. Si trat-

ta di raggi a microonde che giungono a noi da luoghi remoti dell’universo (più lontani di qualsiasi altro oggetto visibile al telescopio) e da tutte le direzioni in modo uniforme, come se fossero tutti emessi da regioni con la stessa temperatura. La conclusione è sempre stata che queste regioni fossero, in principio, compresse in uno spazio molto piccolo, come previsto appunto dalla teoria del Big Bang. Essendoci contatto diretto fra le varie parti, non è difficile immaginare che si fosse instaurata una temperatura uniforme. Continuando con le osservazioni, però, è sorto un grosso problema. Ci si è resi conto che le regioni in questione sono troppo lontane le une dalle altre per aver avuto un’origine comune secondo il modello accettato di Big Bang. Questa è una delle ragioni principali per cui è stato proposto, all’inizio degli anni Ottanta, il meccanismo dell’inflazione. Si tratta di un’enorme accelerazione dell’espansione, di durata bre-

vissima ma di portata vastissima, che separa porzioni dell’universo, le quali appena un istante prima erano in contatto, portandole a distanze cosmiche le une dalle altre. Una volta terminata l’inflazione, l’espansione continua, ma a una velocità molto minore, in accordo con quella che viene misurata oggi. L’inflazione è perciò, in sostanza, un argomento inserito ad hoc per far sì che la teoria d’insieme sia coerente, e ha dunque una natura abbastanza speculativa. La ragione per la quale essa venne generalmente accettata fu la mancanza di spiegazioni alternative piuttosto che l’evidenza del fenomeno in sé. Il risultato dell’esperimento Bicep2 al Polo Sud, tuttavia, sembra destinato a cambiare le cose. Il punto è semplice: quando si misura un fenomeno nuovo, ma predetto da una teoria già esistente, la teoria in questione acquista molta credibilità. Ed è proprio quello che succederà se i risultati di Bicep2 verranno confermati.

L’idea che sta alla base dell’esperimento è invece piuttosto articolata. Cercando di riassumerla in poche parole, si può dire che durante l’inflazione, le enormi accelerazioni di materia dovrebbero aver generato delle onde gravitazionali, come se fossero vibrazioni causate da un’esplosione. Queste onde, propagandosi nello spazio, avrebbero poi influito sull’emissione dei raggi a microonde del C.M.B., perturbandoli in modo particolare, e lasciando una sorta di impronta caratteristica (i cosiddetti B-modes), la quale è stata appunto misurata. Siamo di fronte a un capolavoro della speculazione teorica, tanto più che anche il secondo ingrediente necessario per generare i B-modes, cioè le onde gravitazionali, sono un concetto quasi esclusivamente teorico, per il quale non c’è ancora nessuna evidenza diretta. Una conferma dei risultati di Bicep2 sarebbe quindi una nuova, grande conquista della mente umana. Forse

però si può anche guardare il tutto da una prospettiva un po’ più umile. In tempi recenti, stiamo perlopiù assistendo a esperimenti che tendono a confermare le teorie standard del Novecento, mentre lo spazio per nuove teorie, più o meno esotiche, sembra restringersi. Eppure la fisica è lungi dall’essere compresa a fondo, e dovrà pur arrivare un giorno in cui un esperimento porti a dei risultati imprevisti, che siano eventualmente decisivi per la nascita di una teoria più completa e un cambio di paradigma, come è avvenuto per esempio con la nascita della relatività e della fisica quantistica. Conferme di modelli attuali come quella di Bicep2 o quella legata al Bosone di Higgs, fanno nascere il sospetto che questo momento, se anche ci sarà, non sia imminente. A dispetto dell’importanza e della portata dei risultati, resta pur sempre l’impressione di una Natura misteriosa e sfuggevole, reticente a svelarsi nella sua interezza all’uomo.


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Ambiente e Benessere

Cartaceo o virtuale?

Ippopotami e sirene

Viaggiatori d’Occidente Lo stesso destino che sembra essere prossimo per i romanzi

Bussole Inviti

vale anche per le guide turistiche

a letture per viaggiare «Non molto tempo fa mi è stato chiesto di partecipare a un festival con un contributo sui temi del viaggio e dell’incontro. Scelsi di parlare di Erodoto, ma devo dire che il primo pensiero, quando ho ricevuto l’invito, non è andato subito a quello che è considerato il primo storico occidentale. È andato quasi automaticamente a Omero e al viaggio di Ulisse. Superfluo dire perché: il viaggio di Ulisse è il viaggio per antonomasia, il primo di cui la letteratura occidentale racconta le infinite peripezie…»

Claudio Visentin

In Italia le guide su carta sono passate da 11 milioni nel 2001 a 4,5 nel 2012. (Myahya)

alla rete. A ciò si aggiunge il fatto che connettersi all’estero è sempre meno costoso, anche solo per la diffusione del wi-fi. Non a caso dunque la più importante casa editrice di guide turistiche al mondo, l’australiana Lonely Planet, si è affidata a un venticinquenne fanatico delle nuove tecnologie, Daniel Houghton, per chiedergli di cercare l’app perfetta per far riconquistare alla sua azienda viaggiatori svogliati. Il fondatore Tony Wheeler, che nel 1973 aveva fondato la casa editrice scommettendo sul bisogno di informazioni aggiornate dei giovani viaggiatori in Asia nel tempo dell’Hippie Trail, ha

U.S

A volte penso che non sia difficile capire verso cosa stia andando il mondo; più complicato è dire quando ci arriverà. Molte delle previsioni sul futuro avanzate negli ultimi decenni si sono realizzate, ma con tempi diversi da quelli ipotizzati: per esempio la scomparsa dei libri cartacei in favore degli e-book, che era considerata certa qualche anno fa, e che forse solo ora potrebbe essere davvero prossima. Senza contare che spesso il vecchio e il nuovo procedono affiancati per un bel tratto piuttosto che sostituirsi: l’invenzione della stampa non fece certo sparire da un giorno all’altro gli eleganti manoscritti miniati. Di solito, se non m’inganno, si pecca per eccesso d’ottimismo, cioè si prevede un cambiamento più rapido di quello reale. Il tempismo insomma potrebbe essere la principale qualità degli imprenditori di successo, prima ancora della creatività. Adesso proviamo a trasferire questo ragionamento nel campo del viaggio e delle guide turistiche. Da tempo si annuncia la morte imminente delle guide cartacee, ma nei fatti hanno continuato a vendere piuttosto bene, soprattutto per la praticità d’uso e per il basso costo (perderle non è un problema, a differenza dei tablet, e non si corre il rischio di essere rapinati anche in zone poche raccomandabili). Ora però è forse giunto davvero il punto di svolta. Diversi dati sembrano indicarlo: per esempio in Italia le guide su carta sono passate da 11 milioni nel 2001 a 4,5 nel 2012; mentre maturava questo calo impressionante, gli smartphone si sono diffusi con rapidità saturando il mercato e insieme ai tablet sono diventati il principale strumento attraverso il quale accedere

fatto un (ben remunerato) passo indietro, tornando a viaggiare a tempo pieno, quasi avvertisse che una stagione stava per chiudersi. Daniel Houghton crede, assai sensatamente, che tutte le informazioni pratiche – trasporti, alberghi, ristoranti – migreranno sulla rete, aggiornate in tempo reale, mentre le guide stampate saranno sempre più specializzate, curate nella forma, d’autore, utili più per trovare la giusta ispirazione piuttosto che un indirizzo. La guida servirà per dare al proprio viaggio un taglio particolare (per esempio enogastronomico) e soprattutto per entrare più facilmente in contatto con i locali. Anche in questo campo peraltro le app e i social network potrebbero aver molto da dire. Il tradizionale dialogo a due tra l’autore della guida – competente e informato – e il suo lettore bisognoso d’aiuto si frantuma in una molteplicità di conversazioni tra persone con un diverso grado di competenza, dove ciascuno porta il proprio contributo. Il cambiamento al quale assistiamo non è solo tecnologico, ma modifica alla radice l’esperienza stessa del viaggio. In passato il viaggiatore era drammaticamente privo di informazioni – lingua, geografia, storia, costumi – né poteva farsi aiutare dalla sua comunità di origine, dalla quale era radicalmente separato, senza possibilità di comunicare. Per questa sua condizione il viaggiatore era esposto

a ogni sorta di malinteso, al tempo stesso però queste difficoltà rappresentavano anche un potente impulso a superarle con spirito d’iniziativa, apertura mentale, ingegnosità… tutte qualità che restavano dopo il ritorno e rappresentavano i doni del viaggio. Ora invece il viaggiatore, al pari di chi non si è mai mosso da casa, è immerso in una bolla fatta di informazioni, relazioni, dialoghi. Semmai ha il problema di scremare l’utile dal superfluo. Al tempo stesso il suo universo domestico lo segue sin nei luoghi più remoti, sostenendolo con suggerimenti, indicazioni, commenti. Il viaggio diventa più sicuro e prevedibile, ma al tempo stesso perde quel carattere di sfida che era suo da sempre. Dinanzi a questi cambiamenti c’è chi è tornato a parlare di «morte del viaggio» (un lamento ricorrente, e l’ultima volta fu in occasione del diffondersi del turismo di massa negli anni Cinquanta del Novecento), anche con qualche ragione, ma forse di nuovo anticipando troppo i tempi. Dopo tutto, anche all’inizio di questo terzo millennio possiamo ancora sentire quel risveglio di ogni nostra facoltà che ci sorprende piacevolmente in viaggio, possiamo ancora accettare le scommesse che il mondo ci propone, obbligandoci a crescere per poterle vincere. Non sarà una app o un social network a cambiare questo sentimento antico…

Nel mondo antico sono racchiuse le forme del nostro pensiero e della nostra identità e anche il viaggio non fa eccezione. Ma i due modelli di riferimento aprono prospettive completamente diverse. Da un lato il viaggio di Ulisse nell’Odissea celebra la ricerca di sé che si conclude con il ritorno alla propria terra e alla propria cultura: un ritorno conquistato con immensa fatica, sia pure indugiando tra le paure e i piaceri che sanno offrire Ciclopi, incantatrici e sirene. Come scriveva il poeta Costantino Kavafis in Itaca, «Quando ti metterai in viaggio per Itaca / devi augurarti che la strada sia lunga, / fertile in avventure e in esperienze. / I Lestrigoni e i Ciclopi / o la furia di Nettuno non temere»… Nelle Storie di Erodoto troviamo invece un movimento di apertura alla ricchezza del mondo, allargando l’oriz-

zonte geografico a luoghi esotici, con una prima consapevolezza di come popoli e culture siano anche radicalmente differenti tra loro, ma non per questo migliori o peggiori, anche se in ultimo ciascuno tende a radicarsi nella propria cultura d’origine. Nello scorrere delle pagine si disegna un percorso dove la contrapposizione tra civiltà e barbarie perde la sua rigidità e si declina in un percorso di scoperta e fascinazione per ciò ch’è diverso e lontano. Bibliografia

Eva Cantarella, Ippopotami e sirene. I viaggi di Omero e di Erodoto, UTET, 2014, pp. 144, €14,00.

Più acqua o più vino, pensiamoci Giochi matematici Quando per risolvere l’enigma basta un pizzico di logica e un banale calcolo problema consente l’impostazione di un sorprendente gioco di prestigio, che può essere eseguito nel modo qui di seguito descritto. 1. Prendete un mazzo di 40 carte e, dopo averlo mescolato e fatto mescolare più volte, prelevate le prime 20 carte. 2. Girate a faccia in alto queste 20 carte e inseritele tra le altre 20. 3. Mescolate e fate mescolare più volte il mazzo così composto in modo che le carte scoperte si distribuiscano casualmente tra le altre coperte. 4. Porgete il mazzo a uno spettatore e chiedetegli di prelevare di nascosto un insieme di 20 carte, a sua scelta (lasciando ciascuna carta nel verso in cui si trova). 5. Fatevi consegnare il mazzetto di 20 carte così selezionato e sottolineate che

voi non potete assolutamente sapere quante carte scoperte contiene, né tanto meno potete sapere quante ne contiene il mazzetto rimasto in mano allo spettatore. 6. Nascondete il vostro mazzetto (dietro la schiena o sotto il tavolo) e manipolatelo per alcuni secondi. 7. Annunciate che, per effetto delle operazioni da voi compiute, nel vostro mazzetto ora ci sono tante carte scoperte, quante ce ne sono in quello dello spettatore. 8. Chiedete allo spettatore di contare quante carte scoperte sono presenti nel suo mazzetto e mostrate che il vostro mazzetto ne contiene una quantità identica. Che cosa dovete fare, per compiere un simile prodigio?

Soluzione

Molto spesso, un’adeguata impostazione di un problema matematico consente, non solo di ricavare la soluzione corretta, ma anche di ridurre al minimo la quantità di operazioni da svolgere. Un significativo esempio al riguardo è costituito dal seguente enigma, la cui ideazione è attribuita a Lewis Carroll (l’autore di Alice nel Paese delle Meraviglie). Immaginate di avere due bottiglie contenenti, la prima un litro di acqua, e la seconda un litro di vino. Immaginate ora di prelevare un centimetro cubo di acqua e di travasarlo nel vino e, dopo avere mescolato completamente i due liquidi, di ripassare nell’acqua un centimetro cubo della miscela così ottenuta.

Alla fine la percentuale di acqua presente nella bottiglia del vino sarà maggiore della percentuale di vino presente nella bottiglia dell’acqua, o viceversa? Se si cerca di risolvere questo problema, interpretando gli effetti delle due operazioni di travaso, ci si può impelagare in una serie di calcoli insidiosi. La soluzione, però, può essere ottenuta più rapidamente, considerando che, alla fine, le due bottiglie tornano a contenere un litro di liquido ciascuna. Di conseguenza, la quantità di liquido originario che manca in ognuna di esse, deve necessariamente essere stata rimpiazzata con un’uguale quantità dell’altro tipo di liquido. In definitiva, deve esserci tanta acqua nel vino, quanto vino c’è nell’acqua... La logica che è alla base di questo

Per tramutare una quantità d’acqua in un’equivalente quantità di vino, sarebbe necessario un miracolo di... vino. Per far sì che nel vostro mazzetto tutte le carte scoperte diventino coperte (e viceversa), dovete semplicemente ribaltarlo di nascosto. Siccome la quantità delle vostre carte coperte è uguale a quella delle carte scoperte dello spettatore, effettuando questa mossa, avrete tante carte scoperte, quante ne ha lo spettatore. Infatti, se nel mazzetto dello spettatore ci sono X carte scoperte, le rimanenti 20–X saranno coperte. Dato che ci sono in totale 20 carte scoperte e 20 coperte, il vostro mazzetto deve contenere: 20–X carte scoperte e: 20–(20–X) = X carte coperte.

Ennio Peres


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Ambiente e Benessere

Lungo la via Clodia Eco-percorsi La strada degli Etruschi a cavallo, a piedi o in bicicletta

Blanche Greco L’hanno percorsa a piedi, a cavallo e in bicicletta, è stata un’avventura, un bagno di storia e una scommessa esaltante per chi è andato sino in fondo – arrivando da Roma fino a Grosseto. Le celebrazioni per la riapertura della Via Clodia, in parte percorribile, in parte «riscoperta» con tutto il suo patrimonio archeologico, hanno segnato di recente anche l’avvio dei festeggiamenti di «Passione Maremma 2014», una serie di appuntamenti ospitati dalla provincia e dalla città di Grosseto, per sottolineare le bellezze e le particolarità di quella zona.

Norchia è famosa soprattutto per la sua necropoli, nel cuore del paesaggio etrusco fatto di pianori e di gole «È stato un inizio con le fanfare, che ha riportato all’attenzione generale questa mitica strada costruita dagli Etruschi» ci ha detto sorridendo l’architetto Francesco Montuori che si sta occupando del «Progetto Antica Via Clodia». «È stata una sorta d’inaugurazione per incentivare un turismo ecologicamente e culturalmente consapevole verso una zona molto bella e ancora oggi misteriosa. Un’intera area attraversata dall’antica Via Clodia della quale sono

rimasti alcuni tratti, come quello ben visibile all’entrata di Tuscania, il quale è stato in parte inglobato nella trafficata strada asfaltata che porta alla cittadina. Oppure il tratto che attraversa l’antica e famosa città termale di Saturnia che, oltre ad Ansedonia, ne era una delle mete». Dall’alta Tuscia laziale sino alla Maremma, infatti, si estendeva l’influenza dell’antica città etrusca di Vulci, e grazie alla sua importanza in quella zona, chiamata anche il «granaio di Roma», sul percorso della Via Clodia, che serviva agli Etruschi per portare le derrate alimentari verso Tuscania e la capitale, erano nate cittadine come Blera, Barbarano, Norchia e altre più piccole. Ma nel 280 a.C. i Romani decisero di disfarsi dell’alleanza con gli Etruschi, ne conquistarono le città e presero il controllo della Via Clodia. «Era una strada importante per i romani che volevano dominare l’Etruria. Per questo fondarono la città di Cosa, sulla costa vicino ad Ansedonia, e grazie alla Via Clodia – che si snodava attraverso boschi e terreni salubri, e non era infida come l’Aurelia (su terreni paludosi e spesso allagata) –potevano controllare il territorio e andare verso nord» continua l’architetto Montuori. «Non è un caso se in epoca medievale lo stesso Carlo Magno scelse proprio questa antica strada per arrivare a Roma e farsi incoronare Imperatore da Papa Leone III. Più tardi, grazie alla Via Clodia, arrivarono i maestri comacini che a Tuscania costruirono le belle chiese roma-

niche di San Pietro e Santa Maria Maggiore, dove Pierpaolo Pasolini ha girato alcune scene dei suoi film: dell’Uccellacci, uccellini e del Decameron». Oggi l’antico percorso della Via Clodia è ancora per gran parte un mistero, su ciò che si sa, o che si è scoperto, è stata disegnata e inaugurata a maggio, la «pista Vannucci» dal nome di uno degli organizzatori, che collega tutti i tratti conosciuti della Via Clodia e i vari luoghi e siti archeologici etruschi, ed è percorribile a cavallo, a piedi e in bicicletta, anche guadando fiumi, o torrenti, senza rimanere impantanati, o finire «fuori strada» aggirando le recinzioni delle proprietà private. Con questo «nuovo» percorso, risalendo da Roma a Grosseto si arriva a Norchia, altrimenti raggiungibile in auto da Vetralla, dove oltre alle rovine di epoca medioevale del castello, si trova anche lì, una chiesa romanica della stessa epoca di quelle di Tuscania, intitolata a S. Pietro. Norchia è famosa soprattutto per la sua necropoli, nel cuore del paesaggio etrusco fatto di pianori e di tagliate, profonde incisioni che portano nelle valli, simili a gole, percorse da torrenti, dove i pendii sono costellati di tombe etrusche. Ma c’è anche Blera, cittadina moderna che si stende accanto a quella antica, nel comune di Viterbo, e tanti altri luoghi mete di escursioni e passeggiate spesso organizzate dall’Associazione Archeotuscia. Tuttavia la «pista Vannucci», è solo l’inizio, infatti il «Progetto Antica

Cascate del Gorello a Saturnia. (Wausberg)

Via Clodia» mira a individuare tutto il percorso originario della strada che era larga sei metri, lastricata; con due scassi laterali per far passare le ruote dei carri; ed era piuttosto tortuosa. Attraversava, o costeggiava, infatti, tutte le cittadine etrusche. «Per ritrovare l’antica Via Clodia» ci racconta l’architetto Montuori, «stiamo studiando anche le carte utilizzate dall’aviazione inglese (la Raf, nel 1944), soprattutto nel tratto sopra Canino dove la bonifica, negli anni Cinquanta,

ha coperto tutto. Ma l’idea è di utilizzare anche una forma della cosiddetta “archeologia satellitare a raggi infrarossi” per indagare nel terreno con l’ausilio del satellite Galileo, in parte della regione Lazio. E poi ci rimarrebbe l’ultimo atto: lo scavo, per far riemergere la strada, ma sarà l’ultima risorsa, da sfoderare solo quando ormai avremo delle certezze, poiché è la parte più costosa di tutto il progetto, ma siamo fiduciosi anche perché la Via Clodia ha comunque ricominciato a vivere». Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 21 luglio 2014 ¶ N. 30

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Ambiente e Benessere

Ambiente e Benessere

Precauzioni speciali da viaggio Salute Una guida edita da Roche Pharma e redatta da medici specialisti indica alle persone trapiantate

come prepararsi adeguatamente per le vacanze

Maria Grazia Buletti In Svizzera ogni anno oltre un migliaio di persone sono in attesa di sottoporsi a un trapianto di organi per continuare a vivere e il numero dei pazienti che ha ricevuto un organo rimane da tempo più o meno stabile attorno alle 470 unità. Questi i numeri statistici di Swisstransplant, Fondazione svizzera che coordina la donazione di organi nel nostro Paese.

S’intitola: Manuale di viaggio – come organizzare un viaggio o delle vacanze dopo un trapianto d’organi «Quando si ha bisogno di un organo perché uno dei nostri non funziona più bene, significa che la nostra qualità di vita non è più soddisfacente a causa della malattia che, a dipendenza dell’organo colpito, può essere parecchio limitante e invalidante», esordisce Eva Ghanfili, infermiera specializzata in Cure intense e una delle coordinatrici del dono d’organi per il Ticino. Fra le tante limitazioni di chi ancora non ha ricevuto un trapianto, sta pure quella della scarsa mobilità: «Chi è in attesa di ricevere un organo deve spesso sottoporsi a terapie continue e complesse che possono impedirgli di

Per i trapiantati non basta una farmacia da viaggio. (Keystone)

allontanarsi facilmente da dove abita e dall’ospedale dove si deve recare costantemente per cure e controlli medici. In quelle condizioni è molto difficile organizzare una vacanza, senza dimenticare le problematiche di salute

legate all’attesa di un organo e la reperibilità che queste persone devono avere se vengono chiamate da un centro di trapianti per l’intervento». Un momento decisivo che, quando arriva, cambia letteralmente la qualità

della vita di questi ammalati: «Uno degli obiettivi che un trapianto di organi permette di raggiungere è il recupero della possibilità di viaggiare», conferma Eva Ghanfili, la quale a questo proposito ci orienta su di un’interessante

guida redatta da medici specialisti svizzeri, esperti in trapianti appartenenti a diverse discipline mediche: il Manuale di viaggio – come organizzare un viaggio o delle vacanze dopo un trapianto d’organi. Si tratta di una guida per chi, al termine di una convalescenza di circa un anno dopo l’intervento di trapianto, sarà in condizioni di salute stabilizzate tali da consentirgli di potersi mettere in viaggio, anche se Ghanfili puntualizza: «Sempre con le precauzioni necessarie a chi è trapiantato! La guida vuole ricordare i punti importanti, dare i consigli pratici e fornire le liste di controllo di cui la persona trapiantata deve assolutamente tenere conto prima, durante e dopo una vacanza o un viaggio». Comprendiamo che in linea di massima per un ricevente di un organo valgono le stesse regole suggerite per tutti i viaggiatori, anche se egli deve approfondire alcuni punti inerenti la sua salute, i luoghi a rischio dove è meglio non recarsi, la sua terapia farmacologica e la relativa riserva, gli ospedali del luogo di destinazione che devono poter accoglierlo al bisogno e così via: «Il medico curante è e rimane il punto di riferimento di questi pazienti e la guida non sostituisce i suoi consigli, anche se si tratta di un valido aiuto per prepararsi e per sapere bene come comportarsi in viaggio». Prima di organizzare la vacanza, la persona trapiantata deve considerare alcuni principi fondamentali: «La

guida riporta i criteri decisivi per stabilire se una destinazione è appropriata o no, indica a quale tipo di assicurazione si deve pensare e quali vaccinazioni andrebbero effettuate prima della partenza. Poi ci sono i consigli pratici e una check list utile per non dimenticare nessun dettaglio». Ad esempio: «La guida consiglia di scegliere come meta un paese in cui vengono eseguiti trapianti di organi perché se si dovessero manifestare reazioni di rigetto o complicanze (o in caso di emergenza) la persona trapiantata potrebbe rivolgersi a medici esperti per essere curata adeguatamente».

Consigli pratici e una check list utile per non dimenticare nessun dettaglio, come scegliere la meta giusta Inoltre, leggiamo sul Manuale che dovrebbe avere preferibilmente un clima temperato e disporre di elevati standard igienici, ed Eva Ghanfili ci spiega i motivi: «La persona trapiantata deve assumere farmaci che indeboliscono il suo sistema immunitario. È importante che si rechi in paesi dove l’igiene è assicurata proprio per il pericolo di infezioni a cui è maggiormente soggetta». Un ampio spazio viene riservato alla preparazione della terapia farmacologica da portare con sé: «Si consiglia di portare una terapia di riserva sufficiente e di tenerla nel bagaglio a mano, nel caso di eventuale furto o ritardo nella consegna delle valigie se si viaggia in aereo». Un altro aspetto importante da considerare a priori è l’eventuale perdita dei farmaci di cui le persone trapiantate non possono assolutamente fare a meno: «Allora la guida consiglia di mettersi immediatamente in contat-

to con un centro trapianti, un medico o una farmacia nelle vicinanze e portare, naturalmente, una lista dei farmaci che si assumono, comprensiva dei loro principi attivi, in modo da facilitarne la ricerca in un Paese straniero». Ci rendiamo conto che tutti questi aspetti paiono banali, ma non lo sono affatto e potersi preparare con l’aiuto di una guida permette di non andare incontro a spiacevoli problemi di salute che potrebbero anche compromettere il trapianto: «L’assunzione di farmaci durante il viaggio, ad esempio, è un punto molto importante e il Manuale lo sottolinea bene quando dice che per i viaggi in paesi con una differenza di fuso orario fino a 3 ore bisogna assumere le medicine durante il viaggio alla stessa ora come a casa e, quindi, non si deve tener conto del cambio di orario». Altri consigli come conservare le medicine a temperatura ambiente e non esporle alla luce solare completano il capitolo delle cure e danno spazio a quelli più organizzativi come i documenti di viaggio che una persona trapiantata deve avere con sé: «Lettera del proprio medico, libretto sanitario, piano terapeutico e tesserino delle vaccinazioni sono alcuni dei documenti più importanti». Uno spazio particolare viene poi riservato al comportamento durante il viaggio in situazioni di rischio e in caso di complicanze, agli alimenti e alle bevande per i quali bisogna a maggior ragione rispettare scrupolosamente le norme generali per ridurre il rischio di ammalarsi e le relative complicazioni a cui una persona trapiantata è più sensibile. Uno spazio al viaggio con bambini trapiantati e l’importante consiglio del dopo viaggio concludono la guida: «Se al rientro si dovessero manifestare disturbi fisici bisogna andare subito dal medico», conclude Ghanfili augurando a tutti buone vacanze.

Notizie scientifiche Medicina e dintorni intestinale degli animali, i ricercatori sono riusciti a trattare cavie autistiche. Si è aperta così una nuova pista che, entro un anno, approderà a test clinici. Con l’approfondimento del legame tra batteri intestinali e cervello, probabilmente, si troveranno rimedi anche per altre malattie.

Marialuigia Bagni Masticare per dimagrire La masticazione è uno dei fattori che determinano la sazietà. Già affermato nella metà dell’Ottocento, ora lo dimostra uno studio condotto in Francia. Esaminati due gruppi di persone, quello che masticava risparmiava, al giorno, tra le 140 e le 240 calorie, circa il 10 per cento in meno di cibo. Una donna attiva, con una lunga masticazione, risparmia dal 5 al 15 per cento di calorie.

L’origine delle allergie alimentari Che sia un’allergia alle uova oppure al latte – le più frequenti sono reazioni «esagerate» delle nostre difese immunitarie, che identificano un alimento come dannoso. Come spiegano gli specialisti, si tratta di una «irregolarità» immunitaria associata a una forte produzione di anticorpi, le immunoglobuline. Queste si legano alle cellule immunitarie e provocano le reazioni responsabili degli arrossamenti, degli eczemi e dell’orticaria. I bambini, quando i genitori sono allergici, hanno il 40 per cento di rischio di esserlo a loro volta.

Antinfluenzale ed effetti Il vaccino antinfluenzale ha minori effetti sull’uomo. Lo dicono ricercatori dell’Università di Stanford (USA). La reazione immunitaria provocata dal vaccino antinfluenzale si è rivelata meno importante negli uomini che nelle donne. La differenza sarebbe legata a livelli elevati del testosterone, che trattiene il fenomeno infiammatorio. Batteri che tranquillizzano i bebè Le coliche nei primi mesi di vita sono terribili per i bimbi quanto per i loro genitori. Secondo uno studio dell’Università di Bari, sarebbe possibile evitare una mezz’ora di crisi e due rigurgiti al giorno dando probiotici ai neonati, quotidianamente, insieme al nutrimento. Il cocktail di batteri del probiotico favorirebbe lo sviluppo di una flora batterica sana e diminuirebbe, al tempo stesso, i pericoli di stitichezza. «Strizzare» gli occhi fa capire… Questo perché il movimento riduce la parte di informazioni nella corteccia

somatosensoriale, a vantaggio delle informazioni «sonore». In parallelo, l’atto istintivo di «strizzare» gli occhi migliora la percezione dei dettagli di quanto si trova al centro del campo visivo. Ad esempio, spiegano gli studiosi francesi che hanno fatto questi esperimenti, si guadagna dal 10 al 20 per cento di comprensione quando si leggono le labbra dell’interlocutore in un ambiente molto rumoroso dove, viceversa, si comprendono meno le parole. Autismo e batteri Secondo studi condotti al Caltech, la famosa università californiana, esiste un legame tra l’autismo e i microbi. Riequilibrando semplicemente la flora

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Un orecchio musicale diverso Normalmente le capacità musicali vengono acquisite nella prima infanzia, in bambini che vanno tra i 4 e i 6 anni. Ora un’équipe del King’s College di Londra ha scoperto che ciò può avvenire assumendo un farmaco, chiamato Valproate e utilizzato per curare l’epilessia. I giovani che si sono sottoposti all’esperimento dopo una settimana sapevano associare ciascuna nota a un nome. Non hanno certo acquisito un orecchio musicale in assoluto, spiegano i ricercatori, ma per la prima volta la percezione delle note è stata associata al loro apprendimento. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Viaggiare insieme Mondoanimale Prima di partire in vacanza con il proprio animale bisogna preparare ogni dettaglio Maria Grazia Buletti Quando partiamo in vacanza e decidiamo di farlo insieme al nostro fedele amico animale domestico, non dobbiamo trascurare nessun aspetto della questione, a partire dalle regole sanitarie vigenti nel paese di destinazione, passando per le leggi che permettono di varcare la frontiera all’andata (ma pure al ritorno), fino alla preparazione dei dettagli per assicurare al nostro beniamino il benessere necessario a godere entrambi di un meritato periodo fuori casa. Che si tratti di un trekking in montagna, del dolce far niente su una bella spiaggia o di una gita in bicicletta, per partire con animale al seguito bisogna essere davvero preparati e improvvisare non è la scelta migliore. Questi i presupposti che l’Ufficio federale della sicurezza alimentare e di veterinaria (Usav) pone, nell’affrontare il tema dei viaggi con il proprio animale, attraverso le riflessioni del veterinario Charles Trolliet al quale viene chiesto innanzitutto se porterebbe in vacanza il proprio animale: «Tutto dipende dalla destinazione, dalla durata del viaggio, dal luogo in cui mi reco e… dall’animale!» Il dottor Trolliet afferma che l’animale più facile da portare con sé in

vacanza è il cane: «Esso è legato alla famiglia». Mentre il gatto è più legato al proprio territorio e farà fatica ad abituarsi al nuovo ambiente. Perciò, egli suggerisce che è più sensato lasciare il micio a casa e trovare una persona che si occupi di lui, a meno che il luogo in cui ci si reca non gli sia già familiare. A proposito della lunghezza del tragitto, il veterinario ricorda che più il viaggio è lungo, più la destinazione sarà percepita come un luogo estraneo: «In tal caso eviterei di portare l’animale con me». E se già fatichiamo a trasportarlo per dieci minuti quando andiamo dal veterinario, egli ci invita a immaginare lo stress se si intraprendesse un viaggio di sei o sette ore: «Se poi partite in aereo, occorrerà che vi informiate presso le compagnie aeree in merito alle loro condizioni di trasporto». Una volta scelta la destinazione e verificati tutti questi aspetti, chiediamo a che cosa bisogna ancora pensare prima di partire: «È necessario informarsi se il Paese di destinazione accetta gli animali da compagnia. Chiedetevi pure se le vacanze che avete scelto siano adatte anche al vostro animale: se prevedete di trascorrere quindici giorni al mare, non saranno sicuramente delle vacanze ideali per il vostro cane, dato che molto probabilmente gli sarà vietato l’accesso

Più il viaggio è lungo, più la destinazione sarà percepita come un luogo estraneo dal nostro cane. (Marka)

in spiaggia o sarà molto limitato nei movimenti. Se invece prevedete una vacanza più attiva, in montagna ad esempio, in cui farete lunghe passeggiate, il vostro cane sarà ben contento di accompagnarvi». Trolliet ricorda di informarsi anche sulle regole degli alberghi che accettano animali: «Taluni chiedono un supplemento per il vostro animale da compagnia e in tal caso non dimenticate di informarvi sui prezzi!». Poi va considerato l’aspetto sani-

E se Fido resta a casa Sulla questione se il cane percepisca davvero un «senso del tempo», parecchi studiosi rispondono in modo diverso: c’è chi sostiene assolutamente di no, c’è chi è convinto del contrario. La verità la conoscono solo i cani, almeno per ora. Specialmente i soggetti ansiosi sembrano effettivamente non notare la differenza tra qualche minuto e diverse ore di assenza del proprietario, tant’è che quest’ultimo può usci-

re di casa e poi rientrare subito dopo, e venire festeggiato dal proprio animale come se non si fossero visti da secoli. Ma ciò potrebbe semplicemente voler dire che anche solo un minuto senza di noi sembra al cane un’eternità, e questo è sinonimo di amore e non di incapacità nel contare i minuti di assenza. Per contro, pare che i cani soggetti all’ansia da separazione manifestino i sintomi entro la prima mezz’ora

di assenza del padrone e mai dopo. Per far sentire un po’ meno la solitudine al cane, oltre alla compagnia di un altro animale, servono dei punti di riferimento: la sua cuccia, le sue ciotole piene del suo cibo, rumori e odori a cui è abituato. Può pure essere utile insegnargli a fare la guardia a un oggetto finché non torna il padrone, perché lo farebbe sentire utile e saprebbe che ci fidiamo di lui per un compito preciso.

tario sotto tutte le sue sfaccettature: all’andata bisogna informarsi sulle regole a cui ottemperare per varcare la frontiera e sulle leggi sanitarie vigenti nel Paese di destinazione, senza dimenticare che poi si ritorna: «Al rientro, sarebbe opportuno sverminare l’animale ed eventualmente eseguire un controllo parassitologico». Da un punto di vista sanitario, bisogna ovviamente pensare anche alla rabbia: «In tutti i casi, la vaccinazione deve essere effettuata. Controllate bene la durata di validità della vaccinazione ed effettuate un richiamo in tempi utili. Penserei anche alle parassitosi, tipiche dei paesi caldi e in particolare delle regioni che si affacciano sul Mediterraneo». Finalmente in viaggio, dobbiamo comunque pensare ad alcune cose molto importanti: «All’acqua, alle pause, al movimento e alle temperature gradevoli!», ricorda il dottor Trolliet, che dice di restare vigili e riservare particolare attenzione alla zona posteriore dell’auto: «Anche in un’auto dotata di aria condizionata, nella parte arretrata la temperatura è spesso più elevata rispetto all’abitacolo dei passeggeri». Le

soste durante il viaggio devono essere sufficientemente lunghe e permettere all’animale di muoversi abbastanza per sgranchirsi le gambe e fare i propri bisogni. Questo vale anche per il treno: «Potete sempre prendere la coincidenza successiva per dare al vostro animale un po’ di tempo per passeggiare». A proposito di eventuali tranquillanti da somministrare ad animali un po’ troppo agitati, il dottor Trolliet sostiene che «teoricamente non è necessario: questi prodotti hanno effetti secondari fastidiosi come una relativa debolezza muscolare, la perdita dello stimolo della sete e addirittura un abbassamento della pressione sanguigna». Per animali molto agitati, consiglia piuttosto di utilizzare un prodotto ai feromoni: «Gli animali possono anche soffrire il mal di viaggio e, in questi casi, oltre all’abituarli progressivamente, può essere indicato ricorrere agli antinausea». Questi consigli e indicazioni del veterinario sono indispensabili per affrontare la vacanza insieme al nostro animale da compagnia, con serenità, salute e senza brutte sorprese.

Curare le allergie, con la natura Fitoterapia Pur cercando di ridurre anche i sintomi in tempi accettabili,

Eliana Bernasconi I dipinti ottocenteschi ci consegnano immagini di rigogliose foreste, ampie lussureggianti campagne, cieli tersi e chiari. Forse anche allora esistevano disturbi allergici, ma oggi si moltiplicano, ci accompagnano, sono il prezzo che paghiamo alla civilizzazione. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) occupano il quarto posto fra le patologie dei paesi industrializzati; ricerche epidemiologiche dimostrano che negli ultimi tre decenni hanno avuto un picco in tutta Europa e in altre parti del mondo. Conosciamo le cause: espansione massiccia dell’industrializzazione, inquinamento da traffico, polveri sottili, concentrazione di diossidi di azoto, aumento dell’ozono, inquinamento domestico, farmaci, prodotti alimentari e altro ancora, si può sviluppare allergia anche al pelo di alcuni animali. Esiste pure l’ipotesi igienista: il nostro sistema immunitario, non dovendo più combattere contro molti batteri e microbi ormai inesistenti, si scompenserebbe. «Di quale allergia soffrite?» è fra le prime domande che incontri se devi riempire un questionario medico. Fortunatamente molte persone non ne soffrono, ma i bambini che stanno

nascendo e crescendo in questo nostro ambiente inquinato ne risentono, e molto. Al dottor Gabriele Peroni, chimico, farmacista, etnofarmacologo abbiamo fatto alcune domande per meglio capire. Quali mezzi di difesa ci offre la Fitoterapia, e come farne uso?

L’allergia è una risposta, una reazione esagerata del nostro organismo, in particolare del sistema immunitario di fronte a una molecola che di per sé potrebbe non essere considerata pericolosa, come il polline, che non è certo una tossina. Il nostro sistema immunitario è talmente sotto pressione in questo ambiente degradato rispetto ad alcuni decenni fa che reagisce in modo improprio a questi «allergeni», cioè a ogni sostanza in grado di determinare uno stato di allergia. Per esempio?

I pollini, alimenti, polveri, acari, farmaci, prodotti di pulizia… e molti, molti altri. Si può essere allergici a tutto, a qualsiasi sostanza. Vi è allergia da inalazione, come quella dei pollini, e allergia da contatto, come quella scatenata da alcune componenti dei cosmetici. Gli inquinanti e l’immissione massiccia nell’ambiente di molecole nuove tiene in continuo stress il nostro sistema immunitario, situazione che

provoca reazioni allergiche in percentuale molto maggiore rispetto al passato. Come si verifica?

Spesso, al contatto di inalanti (pollini, polveri, eccetera) le persone hanno una reazione simile a quella che un tempo veniva definita come raffreddore da fieno. I sintomi tipici sono starnuti ripetuti e occhi rossi fino, nei casi più sfortunati, attacchi asmatici. Oppure, nel caso di allergia da alimentari, disturbi gastroenterici, dissenteria, anche notevoli reazioni cutanee come l’orticaria, sintomi dovuti al rilascio di istamina e molecole correlate. Si conoscono anche «malattie autoimmuni», patologie in cui il sistema immunitario aggredisce e distrugge l’organismo che dovrebbe difendere. Come agisce la fitoterapia?

Ha un approccio molto diverso da quello sintomatico, (pur cercando di ridurre anche i sintomi in tempi accettabili). L’obiettivo è di riequilibrare il sistema immunitario un po’ esagerato nelle sue reazioni. Fermo restando che ogni caso è sempre un caso a sé, esistono anche schemi generali che hanno trovato riscontro nella pratica terapeutica degli specialisti. È possibile far uso di farmaci tradizionali al bisogno, per esempio con gli antistaminici (e meno male che esistono), e contemporanea-

mente prendere rimedi fitoterapici, che hanno il vantaggio di essere assunti per tempi molto lunghi i quali si addicono alla cura delle allergie. Nella visione olistica è l’individuo nel suo insieme a essere allergico, l’allergene è il fattore scatenante ma su un terreno già predisposto, che dovrà essere riequilibrato. Il trattamento con rimedi naturali può iniziare in qualsiasi momento dell’anno e proseguire per diversi mesi. Tengo a precisare che è la Natura (in senso biologico, non certo metafisico) a guarire, l’operatore si limita a mettere la sua conoscenza ed esperienza a disposizione. Mi parla di un caso che ha trattato?

Ricordo una donna, medico e specialista otorinolaringoiatra, afflitta da anni da fastidiosa allergia a diversi pollini che le procuravano frequenti attacchi d’asma. Dopo esami, prove del caso, innumerevoli terapie farmacologiche e vaccinazioni mi chiese di approntarle un trattamento naturale che durò circa un anno. Da allora non soffre più di allergie e nemmeno di asma. Nel frattempo siamo diventati grandi amici, ha seguito un corso di terapie naturali che consiglia ai suoi pazienti più «versati» al naturale, spesso lavoriamo insieme a un medesimo caso. Purtroppo non tutti i problemi hanno una soluzione tanto felice, ma per quanto riguarda

Marka

l’obiettivo è quello di riequilibrare il sistema immunitario

la mia esperienza e quella riportata in letteratura dagli autori più accreditati, il bilancio è positivo. Che piante si usano?

Raramente si usano tisane; piuttosto sono impiegati prodotti più malleabili come i macerati gliceridi e le tinture madri: preparazioni liquide che si assumono in gocce e si sono rivelati efficaci e fedeli nei risultati. Esistono ottimi testi in proposito. Mi limito a ricordare che nella mia esperienza il «principe» dei rimedi è Ribes nero macerato glicerico, da solo, o più spesso associato (faccio solo alcuni nomi) a uno o più dei seguenti fitoterapici: Elicriso tintura madre, Agrimonia tintura madre, Viburno macerato glicerico, eccetera. Esistono in ogni caso anche rimedi in capsule o compresse, preparate con polvere e l’estratto secco delle piante. Come sempre, benché questi e altri rimedi siano del tutto innocui, per risultati migliori è bene rivolgersi a persone esperte.


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Ambiente e Benessere Cucina di Stagione La ricetta della settimana

Lasagne alle zucchine Piatto principale Ingredienti per 4 persone: 3 zucchine medie · sale · 1 dl d’olio d’oliva · 30 g di man-

dorle tostate e salate · 3 mazzetti di basilico · 2 spicchi d’aglio · 3 pomodori carnosi · 3 rotoli di pasta fresca di 125 g ciascuno · 50 g di parmigiano grattugiato · 1,5 dl di panna. 1. Tagliate le zucchine a fette di 5 mm e salatele leggermente. Rosolatele in olio d’oliva, poco alla volta. Trasferitele in un piatto e mettete da parte. 2. Per il pesto, tritate finemente le mandorle con il basilico, l’aglio e l’olio rimasto in un tritatutto. 3. Scaldate il forno a 180 °C. Tagliate i pomodori a fette sottili. Dividete la pasta in pezzi uguali (calcolatene tre a testa). Accomodate in una pirofilina una sfoglia di pasta. Distribuitevi uno strato di zucchine e di pomodori. Coprite con un abbondante strato di pesto e spolverizzate con poco formaggio. Ricoprite con un’altra sfoglia di pasta e procedete allo stesso modo terminando con una sfoglia. Coprite le lasagne con panna e formaggio e cuocetele al centro del forno per circa 20 minuti.

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Ambiente e Benessere

E ora saremo serviti di... barba e capelli Sportivamente Ancora qualche considerazione sui Mondiali di calcio vinti dalla Germania

Sì, ho gridato «goool!» anch’io quando l’attaccante tedesco Mario Götze ha insaccato con un bel sinistro, dopo aver smorzato il pallone in corsa sul petto, da campione, sul cross dalla sinistra di Schürrle, autore di un’autentica cavalcata lungo la fascia. La Germania ha battuto l’Argentina e vinto il titolo mondiale, evitando la tortura dei rigori. Calci dal dischetto che spesso sembrano soltanto voler punire i protagonisti perché, come lascia intendere il regolamento: «L’avete voluto voi!». Mi accorgo ora che il Mondiale è già passato agli archivi e un po’ mi manca. Non ci sono più partite alla tv, mentre fanno festa in Germania, com’è giusto che sia, e da noi è già bell’e servito il nuovo campionato. Avessimo vinto la finale di Rio (sì, faccio per dire: i rossocrociati) saremmo corsi allo stadio colmi di entusiasmo – «i più forti siamo noi!» – oppure avremmo badato ai preparativi per le vacanze. O, più semplicemente, a un festoso barbecue con gli amici?

Qualche critica dopo le lunghe ore trascorse davanti alla tv, ma è subito campionato svizzero, con tanto di bomboletta spray Fate voi. Al primo weekend del calcio giocato in casa, l’alternativa, per quanto riguarda la squadra più rappresentativa del campionato nazionale, il Basilea, sarebbe stata quella di correre allo stadio del Brügglifeld, come lo chiamavano i nostri cronisti d’antan, quando si recavano ad Aarau al seguito di una delle due o tre squadre ticinesi per riferire in radiocronaca diretta. Vien da dire che fortunatamente non siamo

campioni (del mondo), anche se i nostri giocatori più forti militano all’estero, in Italia e Germania, così che non si sarebbe neppure posto il problema nel caso in cui i rossocrociati avessero portato a casa il trofeo, o fossero stati semplici… vicecampioni, o medaglie di bronzo, o giù di lì. Pensare che l’Argentina, l’avremmo davvero potuta grigliare, esattamente come fanno i gauchos della pampa con le pregiate bisteccone di cui si favoleggia; comprenderanno certamente coloro che sono stati almeno una volta da quelle parti, magari in visita di qualche parente. Poi ci sarebbe stato il Belgio, solido e quadrato come tutte le squadre che avevano superato gli ottavi, ma ormai, forti della convinzione di poter abbattere ancora qualche ostacolo, avremmo magari fatto un sol boccone anche di quell’avversario. E poi? No, contro l’Olanda no. Non si poteva neppure sognare in un miracolo, come forse sarebbe successo al sempre ottimista presidente dell’ASF Peter Gilliéron: l’instancabile attaccante del Bayern Arjen Robben avrebbe messo alla frusta tutti i rossocrociati coi crampi alle gambe e dolori ovunque. Forse avrebbe resistito il solo Rodriguez, sempre più in evidenza. Beh, fermarsi lì sarebbe stato comunque già un colpaccio, di cui vantarci con chiunque. A quel punto la Svizzera avrebbe forse cominciato ad essere interessante anche all’estero e non solo sulle nostre piazze. Magari soltanto la Rai avrebbe continuato a ignorarla, nonostante la presenza di quattro giocatori che potevano riguardare la stampa sportiva azzurra, poiché uno – Stephan Lichtsteiner – fa pur sempre parte dell’undici volte campione d’Italia (ma era in crescente difficoltà col passare degli incontri) e gli altri tre, Gökhan Inler, Valon Behrami e Blerim Dzemaili hanno vinto col Napoli la Coppa Italia. Nel limite del possibile sono stato

Qualcosa di più mi attendevo invece dallo psichiatra, criminologo e saggista Massimo Picozzi, invitato a partecipare soprattutto alla rubrica «Cafè do Brasil». Consulente per la gestione delle emozioni in ambito manageriale e sportivo, autore di una ventina di libri su delitti, rabbia, aggressività, Picozzi poteva indubbiamente risultare una scelta indovinata. Non ricordo però onestamente che abbia detto qualcosa di particolare (complice forse la nostra stanchezza), oppure che abbia fatto un commento che non avrebbe potuto fare anche una persona avveduta e competente residente dalle nostre parti. Eppure il giorno appresso, ce lo siamo ritrovati nelle vesti di criminologo, su una rete italiana mentre si chinava sulla triste storia della povera Yara Gambirasio. Picozzi in tutte le salse, insomma. Troppo. Alla Rsi sembra però sia stato pagato bene, probabilmente anche più di Cerruti, grazie ai suoi titoli. Riconosciamo però che a Comano si sono impegnati per intrattenere bene i telespettatori, allungando lo sguardo oltre gli stadi di calcio, mentre la mia costanza nello zapping mi ha permesso di applaudire anche gli opinionisti della Televisione svizzera di Zurigo, dove un divertente capo degli arbitri svizzeri, il ticinese Carlo Bertolini, ha risposto con precisione e chiarezza agli interrogativi di tecnici, giocatori e pubblico, e infine dei conduttori, sui casi più intricati che coinvolgevano gli arbitri. L’ultima notizia è che la bomboletta spray, ossia la schiuma da… barba usata con successo in Brasile per stabilire con precisione le distanze fra la palla e la barriera nei casi di calci di punizione battuti in prossimità dell’area di rigore, verrà usata anche nel nostro campionato di Super e Challenge League. Se tutto andrà bene, con il nuovo campionato, come si dice, saremmo serviti come in un salone, di… barba e capelli.

Arne Müseler

Alcide Bernasconi

un assiduo spettatore del prima e del dopo le partite. Alla Rai hanno continuato per giorni a piangersi addosso per l’eliminazione degli azzurri, dapprima portati al settimo cielo con la vittoria all’esordio sull’Inghilterra. Va dato atto che un paio di giornalisti più avveduti avevano però analizzato le scarse indicazioni di quel risultato e si schermivano di fronte all’esaltazione continua di Mario Balotelli e del coach Cesare Prandelli, i primi poi a essere fucilati sul campo (si fa per dire), dopo l’eliminazione subita con una sofferenza che sembrava tutt’altro che genuina. Eppure, ho continuato a seguire quel «processo» di mezzanotte, nel quale i conduttori interrompevano di continuo gli ospiti che stavano cercando di rispondere alle loro domande, ex campioni del mondo compresi. C’era sempre un collegamento con Rio o da qualche altra parte, dove transitavano giocatori con le cuffiette appiccicate alle orecchie e non sentivano alcun richiamo. La nostra Rsi La2, per contro, poteva contare su inviati che in alcuni casi sapevano trasmettere simpatia oltre alle indispensabili informazioni tec-

niche. Anche a Comano, nonostante il polverone sollevato sugli emolumenti, gli ospiti che cambiavano a seconda delle partite ci hanno offerto spunti di discussione, d’accordo o meno con le loro opinioni. Io ho sempre fatto il tifo per Kubi Türkylmatz, pur se granata dell’ACB salvo una parentesi bianconera a Cornaredo. Era il nostro uomo di punta della nazionale e mi piaceva il modo con cui esponeva (ed espone) fatti e misfatti della massima rappresentativa. Ora è un commentatore che dice le cose senza girarci attorno e lo sa fare con un tocco di humor. Non è da tutti. Stendiamo un velo pietoso su quanto è successo invece con Julio Hernan Rossi, cui è stato giustamente mostrato il cartellino rosso dopo le pesanti esternazioni sul suo computer riguardo agli olandesi, gli altri si sono comportati bene. Ho molta stima per Alberto Cerruti, una firma della «Gazzetta dello Sport», che applaudo sempre per le sue puntuali informazioni e i giudizi equilibrati, senza mai dimenticare un occhio di riguardo, spassionato e non di maniera, per la Svizzera e i suoi tifosi.

ORIZZONTALI 1. Un vero coniglio 4. Paurosa per gli amici 9. Le figlie di Zeus 10. L’uomo inglese 11. Tra uno e uno dà due... 12. Rendono gelosa Elsa 13. Vela aurica quadrilatera 15. Le iniziali del cantante Dalla 16. La cascata più alta del mondo 18. Supera l’esame di maturità a settembre 20. Un moto dell’animo 21. Il cantante Minghi 22. Ha molto fegato ma non coraggio 23. Incitazione spagnola 24. Titolo di prelati (abbrev.) 26. Centro della Guinea 27. Preposizione articolata 29. Dopo una lunga assenza

Sudoku Livello difficile

Giochi Cruciverba L’aro titano è… Termina la frase leggendo, a soluzione ultimata, le lettere evidenziate. (Frase: 2, 5, 3, 6, 3, 5)

1

2

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,

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5

VERTICALI 1. Moda del momento 2. Sarcastico 3. Articolo 4. Accanito sostenitore 5. Si indossa 6. Pari in coppa 7. Niente per Cicerone 8. Il sonoro... 10. Comune... è mezzo gaudio 13. La colpisce la legge 14. Saluto d’altri tempi 17. Di rilevanti proporzioni 19. Le iniziali dello scrittore Daudet 21. Le spiega anche il 22 orizzontale 22. Celebre moschea di Gerusalemme 25. L’ultimo Silvestro 28. Le iniziali di Tolstoj

Scopo del gioco

Completare lo schema classico (81 caselle, 9 blocchi, 9 righe per 9 colonne) in modo che ogni colonna, ogni riga e ogni blocco contengano tutti i numeri da 1 a 9, nessuno escluso e senza ripetizioni.

Soluzione della settimana precedente

Lo sapevi che? – Resto della frase: … Segno zodiacale di nome Ofiuco.

E L I C A

D I A M L O L C A

S O L A L I E B A U C I

E G N A T Z I O A I A S C O L O C G I N O M O D A O L O G N R A L O A M I T

O D I O F A T O


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Politica e Economia Barbarie mediorientale Hamas è in cerca di resurrezione dopo essersi cacciato in un pericoloso isolamento pagina 23

Le mistificazioni dell’economia Prima parte di una serie di articoli dedicati ai dogmi e alle ideologie che dettano le leggi (anche sbagliate) dell’economia

Non solo narcos Il presidente Nieto ristruttura da capo a piedi l’economia messicana

Fusione a Basilea In autunno si voterà per la riunione dei due semicantoni, separati dal 1833

Hamas gioca alla guerra Conflitto israelo-palestinese Sui cadaveri di quattro ragazzi innocenti si è innescata una strategia della tensione

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pericolosa fatta di lanci verso Gaza e Israele causando molte vittime, fra cui il governo di unità nazionale palestinese Marcella Emiliani

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La faida senza fine tra Gaza e Israele sta mostrando al mondo intero a quali livelli di barbarie sia giunto il vecchissimo conflitto israelo-palestinese. La ripresa delle ostilità è partita dalla sparizione – il 12 giugno scorso – di tre giovani coloni israeliani Gilad Shaar, di 16 anni, Naftali Fraenkel, suo coetaneo ed Eyal Yifrah di 19 anni, rapiti mentre tornavano a casa dalla yeshiva, la scuola religiosa che frequentavano a Kfar Etzion, un insediamento ebraico illegale situato tra Betlemme ed Hebron. I loro corpi sono stati ritrovati solo il 30 giugno nell’area a nord ovest di Hebron, nei pressi di Telem e, mentre il 1 luglio si svolgevano i funerali, le Israeli Defence Forces (IDF) rastrellavano a tappeto la Cisgiordania per arrestare i presunti colpevoli, tutti membri di Hamas. Il governo israeliano e soprattutto il primo ministro Benjamin Netanyahu, infatti, erano fermamente convinti che dietro il rapimento e l’esecuzione dei tre ragazzi ci fosse il Movimento di resistenza islamica.

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La crisi di frontiera spinge Mosca a Pechino Svolta Il primo passo per uscire dal pantano

ucraino Putin lo ha fatto siglando accordi di cooperazione con la Cina. Una manovra rivolta direttamente a Washington

L’Ucraina rischia di diventare una ferita permanente per la Russia. Putin ne è perfettamente consapevole. E considera questa minaccia come esiziale. Per il suo potere e per il suo stesso paese. Su questo sfondo possiamo interpretare il recente cambio di passo e di tono del Cremlino nella crisi ucraina. Se fino a ieri prevalevano i toni da propaganda di guerra – ancora forti nei media, quasi tutti sotto controllo governativo – nella comunicazione diplomatica con l’esterno l’accento è posto sulla necessità di mantenere aperte le porte della cooperazione con l’Unione Europea e con gli stessi Usa. Obiettivo: un accordo fra tutte le parti in causa, dentro e fuori l’Ucraina, che permetta a lui e naturalmente anche ai suoi avversari di salvare la faccia. Come siamo arrivati a questa svolta? In primo luogo, Mosca non può permettersi un coinvolgimento protratto in una crisi senza sbocco, per di più in quello che percepisce tuttora come uno spazio domestico – l’Ucraina madre della Russia imperiale. Già mezzo milione di ucraini provenienti dal Sud-Est investito dal conflitto fra separatisti e autorità di Kiev hanno varcato il confine e cercano alloggio provvisorio o definitivo in Russia. Se la guerra civile a bassa intensità dovesse continuare, il numero dei profughi crescerebbe e con esso costi sociali ed economici pesanti. Secondo, le sanzioni, per ora modeste ma in via di inasprimento, mettono in crisi non tanto l’economia russa (e dei paesi europei in affari con Mosca) quanto le aspettative della nuova classe medio-alta, abituata a uno stile di vita occidentale e indisponibile a sacrifici troppo forti, sia pure nel clima di sciovinismo eccitato dalla propaganda. Un elemento di destabilizzazione potenziale che inquieta il Cremlino.

Infine, Putin ha comunque imboccato la parabola discendente del suo lungo periodo al potere. La lotta per la successione, invisibile, è già cominciata. Una sconfitta in Ucraina, o anche solo la non soluzione della crisi, rafforzerebbe coloro che spingono per un cambio al vertice. Fra questi, importanti settori dell’establishment militare, che hanno sempre visto con diffidenza l’avvento di un uomo dell’intelligence ai vertici del potere. In ogni caso, la successione a Putin non è predeterminata: il rischio che si trasformi in bagarre esiste, con esiti imprevedibili sulla stabilità del paese. Il primo passo per uscire dal pantano ucraino Putin lo ha compiuto il 21 maggio, quando ha firmato a Shanghai 49 accordi di cooperazione con la Cina, tra cui un’importante intesa sul gas. La Russia si impegna ad esportare a partire dal 2018 circa 38 miliardi di metri cubi di gas verso la gigantesca economia in ascesa alla sua frontiera orientale. Un affare da oltre 400 miliardi di dollari. Soprattutto, un indicatore geopolitico. La crisi alla sua frontiera occidentale spinge Mosca verso il suo confine orientale. Verso quella Cina di cui diffida in quanto principale minaccia alla sua sicurezza, non fosse che per il dislivello demografico fra la Siberia russa e l’Impero di Mezzo, che secondo i catastrofisti a Mosca implicherebbe la colonizzazione «gialla» dell’Oriente russo. La Cina ha deciso di accettare l’accordo, dopo dieci anni di stallo nei negoziati, perché in questo modo si garantisce un flusso importante di gas, energia necessaria per ragioni ambientali oltre che economiche al suo sviluppo, ma soprattutto perché in questo modo guadagna più di un punto nel braccio di ferro con gli Stati Uniti. L’intesa tattica con Mosca permette infatti a Pechino di rompere l’accerchiamento geoeconomico e geopolitico con cui Obama sta cercando di allestire un cor-

AFP

Lucio Caracciolo

Dalla ripresa degli attacchi contro Israele Hamas ha ignorato Abu Mazen e Al-Fatah. Per risorgere ora punta solo sulla guerra

done sanitario asiatico destinato a frenarne la potenza. Il paradosso dell’intesa russocinese, accelerata dalla crisi ucraina, è che i due paesi si strumentalizzano a vicenda per meglio negoziare con gli Usa. Per i russi, l’obiettivo primario della trattativa è oggi ottenere la neutralizzazione dell’Ucraina, ossia impedirle di entrare nella Nato, insieme alla regionalizzazione del potere al suo interno, garantendo alle minoranze russe una voce rilevante nell’equilibrio

dei poteri ucraini. Per i cinesi, si tratta di convincere gli americani che trattare la Repubblica Popolare come una riedizione dell’Unione Sovietica è insensato e controproducente. La differenza di fondo è che mentre i russi vogliono essere riconosciuti come polo autonomo paritario, i cinesi vorrebbero concordare con gli americani una sorta di G2, un patto bilaterale di «cosviluppo», di reciproco vantaggio, attraverso il quale codeterminare le nuove regole del gioco geopolitico

e geoeconomico su scala globale. In questi percorsi paralleli Cina e Russia trovano oggi una forte convergenza di interessi, tuttavia mitigata da due fattori: la storica diffidenza reciproca – ai limiti del razzismo – e la diversità degli obiettivi di fondo. Quando gli storici si occuperanno di questa strana coppia, non potranno mancare di notare come una grave crisi alla frontiera euro-russa abbia prodotto esiti tanto rilevanti sul lontano fronte dell’Asia-Pacifico. Paradossi della geopolitica.

La situazione era già critica così, quando il 2 luglio un sedicenne palestinese, Muhammad Abu Khdeir, è stato a sua volta rapito a Shuafat, un sobborgo di Gerusalemme Est, e dodici ore dopo il suo corpo è stato ritrovato in una radura vicina. Era stato bruciato vivo. La polizia ha subito arrestato i tre responsabili, che hanno ammesso di aver agito per vendicare i ragazzi israeliani appena inumati, ma nel frattempo a Gerusalemme Est scoppiava quella che si temeva fosse la Terza intifada. A nulla sono valse le scuse che Netanyahu e il presidente uscente Shimon Peres hanno presentato alla famiglia di Muhammad Abu Khdeir. Sui cadaveri di quattro ragazzi innocenti si è innescata una strategia della tensione pericolosissima fatta di lancio di razzi verso Israele da Gaza e di raid aerei israeliani sulla Striscia che il 14 luglio, una settimana dopo l’inizio del conflitto armato, aveva già causato la morte di 200 civili palestinesi, il ferimento di altri 1500, e una vittima israeliana. Tra i defunti va annoverato anche il governo di unità nazionale palestinese Hamas-Fatah inaugurato da poco più di un mese, il 2 giugno. E dalla ripresa degli attacchi contro Israele Hamas ha ignorato Abu Mazen e al-Fatah. Per «risorgere» ha puntato solo sulla guerra. Quello che Hamas va cercando infatti è una resurrezione vera e propria dopo che l’assedio israeliano alla Striscia di Gaza e gli sviluppi convulsi delle primavere arabe in Siria e in Egitto l’hanno spinto alle corde. Dal 2011 il Movimento di resistenza islamica ha perso l’appoggio dei suoi alleati più preziosi, la Siria e l’Iran, che gli fornivano armi e aiuti. Il solo Iran gli garantiva 20 milioni di dollari al mese, quanto bastava a gestire quella galera a cielo

Il pianto di alcune donne palestinesi a Gaza. (AFP)

aperto che è Gaza. Tre anni fa l’errore di Hamas è stato quello di schierarsi coi ribelli sunniti che si illudevano di dare la spallata al regime sciita-alauita di Bashar al-Assad, alleato di ferro dell’Iran degli ayatollah. Da quel momento Teheran ha sospeso la fornitura di armi e gli aiuti finanziari ad Hamas, compensati nel biennio 2011-2013 dalla salita al potere in Egitto dei Fratelli musulmani e dalla vittoria alle presidenziali di Mohamed Morsi. Il quale Morsi da una parte garantiva «ufficialmente» la pace tra Gaza e Israele non ultimo per mantenere il favore dell’amministrazione americana e di Barak Obama; dall’altra si adoperava per mantenere aperti i tunnel sul confine tra l’Egitto e la Striscia attraverso cui transitavano armi, medicinali e derrate provenienti dalla Siria e dall’Iran via Sinai. Certo, di tanto in tanto, qualche tunnel veniva chiuso, tanto per mantenere credibile il ruolo della nuova presidenza islamica dell’Egitto, ma nella sostanza Morsi aiutava finanziariamente e tatticamente Hamas. La loro luna di miele è durata fino al 3 luglio 2013 quando l’ennesimo colpo di Stato militare in Egitto ha portato al potere il generale Abdul Fattah al-Sisi che ha messo fuori legge i Fratelli musulmani e il loro partito Libertà e Giustizia, ha fatto arrestare Morsi e tutta la dirigenza della Fratellanza e ha apertamente dichiarato di considerare Hamas un’organizzazione terroristica. Di lì a poco anche l’Arabia Saudita, che ha sempre sostenuto e finanziato la Fratellanza musulmana ovunque si trovasse, ha assunto la stessa posizione. In questo contesto sia la riconciliazione con al-

Fatah, sia la pioggia di missili su Israele sono frutto dell’isolamento regionale e internazionale di Hamas, ma il rimedio scelto per uscirne sembra decisamente peggiore del male. Sollecitatissimo dagli Stati Uniti, il nuovo presidente egiziano al-Sisi, affiancato dalla Lega araba, il 14 luglio scorso si è fatto promotore di una proposta di tregua Hamas-Israele, ma la tregua non è durata nemmeno un giorno. Accettata da Israele il 15, è stata violata dopo appena sei ore dai soliti razzi da Gaza mentre Hamas, per bocca del suo portavoce Mushir al-Masri, chiariva che il suo partito non poteva accettarla poiché non consultato sui termini e le condizioni della medesima. Notare che al Cairo si è trasferito dal 2011 Khaled Meshaal, più o meno sfrattato da Damasco dopo l’appoggio garantito da Hamas ai ribelli siriani. Meshaal è ufficialmente il leader più importante dell’ala esterna di Hamas ed è stato sicuramente consultato. La dichiarazione di al-Masri, dunque evidenzia una grave frattura tra l’ala esterna del Movimento di resistenza islamica e l’ala interna, quella confinata a Gaza, guidata ufficialmente da Ismail Haniyeh ma soprattutto da Mohamed Deif, capo militare del braccio armato di Hamas (le Brigate Ezzedine al-Qassam), sostenuto a sua volta da Mahmoud Zahar, noto falco filo-iraniano. Tra Haniyeh e Dief non corre buon sangue e visto l’intensificarsi del lancio di razzi verso Israele c’è da dedurre che l’ala dura di Hamas dell’interno abbia avuto la meglio tanto sull’ala moderata di Hamas dell’interno quanto su Hamas dell’esterno. Detto in altre parole Hamas è profonda-

mente divisa a vari livelli, il che la rende ancora più pericolosa e intrattabile. Se poi completiamo la panoramica di quanti dalla Striscia di Gaza sono in grado di lanciare razzi, il quadro si fa ancora più fosco. Dobbiamo citare innanzitutto la Jihad islamica, che a differenza di Hamas non si è mai esposta apertamente a favore dei ribelli siriani e ha continuato a ricevere aiuti da Teheran; e varie milizie claniche palestinesi che hanno imparato a costruirsi razzi da sole, razzi che anche se non hanno una gran gittata, sono sempre in grado di far danni e di tenere alta la tensione. Tutti, dunque a Gaza, giocano sulla pelle dei civili palestinesi nella speranza che il mondo arabo si mobiliti al fianco delle organizzazioni islamiste della Striscia, Hamas in testa.

L’esibizione di muscoli di Hamas, sempre più isolato e diviso, è una dimostrazione di debolezza più che di forza Ma questa volta la risposta è stata dura e sprezzante. Il 15 luglio il telegiornale serale della tv di Stato egiziana, dopo aver dato la notizia del fallimento della tregua tra Hamas e Israele, chiosava: «Se Hamas pensa di trascinare il mondo arabo nella sua inutile guerra contro Israele, che è costata solo il sangue dei civili palestinesi, sbaglia i suoi calcoli». Il gioco di Hamas, dunque, è stato smascherato, e la sua esibizione di muscoli sarebbe la spia non tanto della sua forza

quanto della sua debolezza. Ma intanto i raid israeliani hanno riportato la Striscia di Gaza «all’età della pietra», come ha commentato un osservatore israeliano. Le cose non sono più chiare sul fronte di Israele, che – ripetiamo – in questa occasione non è causa del riaccendersi del conflitto ed ha tutto il diritto di difendersi. Certo la forza militare di Israele, paragonata a quella di Hamas e Jihad islamica, è soverchiante. Per di più Israele è dotato di un sistema anti-missile, l’Iron Dome, che neutralizza la quasi totalità dei razzi provenienti dalla Striscia, ma il governo Netanyahu si dibatte in un difficile dilemma: attuare o non attuare un’invasione di terra per smantellare la minaccia di Hamas? Il premier Netanyahu e il ministro della Difesa Moshe Ya’alon sono estremamente cauti sull’ipotesi invasione. I servizi segreti stimano in 10’000 i razzi presenti nel sottosuolo di Gaza e distruggerli tutti sarebbe impossibile. Per di più la presenza di soldati e riservisti nella Striscia moltiplicherebbe i bersagli israeliani che Hamas avrebbe occasione di colpire o rapire. Netanyahu inoltre ricorda bene che l’interventismo del suo predecessore, Ehud Olmert, non riuscì a sradicare Hezbollah dal Libano come si era prefisso con la guerra «dei 33 giorni» del 2006, e nemmeno riuscì a sloggiare Hamas da Gaza con l’Operazione Piombo fuso del dicembre 2008-gennaio 2009. Chi spinge apertamente addirittura per la rioccupazione di Gaza è il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman che avendo intenzione di correre per la carica di primo ministro sta giocando anche lui alla guerra.


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Politica e Economia

I Superuomini dell’economia Dogmi duri a morire A partire dagli anni Settanta è iniziata in America un’operazione ideologica che ha idolatrato

i top manager facendone delle star: un’oligarchia di razza superiore, resistente e immune da regole – Prima parte

Federico Rampini Quando parliamo di economia, quanto siamo prigionieri di ideologie? È fondamentale capirlo, perché le ideologie accecano, paralizzano, conducono a commettere errori fatali. Pensate ai casi più estremi, come le religioni che imponevano sacrifici umani per placare gli dei: quante povere vittime innocenti finirono uccise in omaggio a una credenza insensata. Ma più vicino a noi: ideologie nazionaliste o totalitarie contribuirono alle carneficine della Prima e Seconda guerra mondiale. La rappresentazione che noi ci facciamo dell’economia, è vulnerabile ai miti, ai dogmi. La resistenza del neoliberismo è esemplare. Quando si dice neoliberismo non bisogna pensare solo a idee astratte sull’efficienza del mercato, ma a scelte concrete che incidono sulla vita di tutti i giorni. Ne abbiamo avuto una prova recente con il referendum in cui la maggioranza degli svizzeri respinse l’idea di limitare gli stipendi dei top manager. Quel referendum ebbe una risonanza mondiale, finì sulle prime pagine dei giornali di tutta l’Europa e anche degli Stati Uniti. Per il «Wall Street Journal» – massimo organo del neoliberismo americano – quel verdetto fu un esempio del buonsenso degli svizzeri. Una maggioranza di elettori elvetici non si fece condizionare dalla «moda» demagogica ricorrente che vorrebbe demonizzare i top manager, incitare all’odio di classe, istigare l’invidia verso i migliori. Questa la visione prevalente dei neoliberisti che hanno accolto con sollievo nel mondo intero l’esito di quella consultazione. E non c’è dubbio che una parte di loro siano in buona fede. Scrivendo «loro» alludo sia ai teorici della suprema saggezza del mercato; sia agli stessi top manager. Molti dei quali sono persone per bene, convinte delle proprie ragioni. Un esempio: Francesco è una persona squisita, amabile, intelligente, colto, e molto cortese. Ci penso mentre sorseggio con lui un bicchiere di champagne, nel suo salotto, in attesa di passare a tavola. Salotto, è una parola che non rende l’idea. Ci starebbe dentro un’orchestra sinfonica, e l’acustica sarebbe all’altezza di Carnegie Hall. L’appartamento dove vive Francesco con sua moglie, nella zona più esclusiva dell’Upper East Side di Manhattan, ha il soffitto alto come quello di una chiesa. Fu disegnato dall’architetto che costruì il grattacielo, per ospitarvi il magnate che aveva finanziato l’intero progetto edile. Extra-Large, dunque, con una «volta» alta come due o tre piani normali. Arredato con raffinatezza, perché Francesco è fiorentino e sua moglie parigina. C’è una biblioteca a muro, fatta su misura, che per arrivare fino all’estremità del soffitto ha scaffali irraggiungibili. Alle pareti, opere di arte contemporanea di sicuro valore. Francesco è un intenditore: la multinazionale del lusso di cui lui è chief executive finanzia uno dei più bei musei di

Nel 1980, con Reagan al potere, lo stipendio di un top manager era 30 volte quello dei suoi impiegati, oggi è salito a 300. (Keystone)

New York. Mecenati generosi, che credono nella cultura. Francesco è un uomo di ampie vedute, non un reazionario. E tuttavia mi guarda con rammarico, quando parliamo del tema «diseguaglianze sociali». «Tutti puntano il dito contro noi manager – mi dice Francesco – ma noi in fondo siamo dei lavoratori. Il mio stipendio è alto, certo, ma vivo di quello, cioè del mio lavoro. I veri ricchi, i patrimoni che sono la fonte delle diseguaglianze più stridenti, vanno cercati nella finanza. È il capitale ereditato e dinastico, quello che andrebbe colpito. Invece il fisco va a caccia dei nostri stipendi, tartassati anche qui in America. Mentre i patrimoni finanziari la fanno franca, beneficiati da aliquote ridicole, o addirittura esenti nei paradisi offshore». Lo ascolto e mi guardo intorno. Osservo la sua magnifica casa, i quadri appesi alle pareti, l’eleganza di sua moglie. Non riesco a provare irritazione, tantomeno ostilità, verso una persona per bene. E tuttavia mi chiedo quanto ciascuno di noi sia incapace di vedersi «dall’esterno», con gli occhi degli altri. Francesco non ha tutti i torti. Certo, anche per i ricchi come lui, c’è sempre qualcuno più ricco, e perfino di molto. C’è qualcuno sopra di lui, che ha capitali superiori senza aver mai lavorato, ricevuti per successione ereditaria. Non ha torto quando osserva che la rendita finanziaria gode di favoritismi assurdi, mentre uno stipendio milionario da chief executive è tassato a New York con aliquote sul reddito quasi «europee» (secondo lui l’aliquota marginale si aggira attorno al 55% e non ho motivo per non credergli). Sì, anche l’1% dei più benestanti è pieno di persone che hanno faticato tutta la vita, che si fanno un mazzo così,

che dedicano anima e corpo al proprio lavoro e alla propria azienda, che sono ammirati e rispettati dai propri colleghi e collaboratori. Resta che questi chief executive non si rendono conto di essere diventati un’élite predatoria, per il semplice fatto che le loro retribuzioni non hanno più nulla a che vedere con il valore reale che portano all’azienda (per non parlare della società nell’insieme). La media dei chief executive americani prende 20 milioni di stipendio annuo. Nel 1980, quando Ronald Reagan arrivò alla Casa Bianca, l’America era già un paese capitalista. In quell’anno un chief executive guadagnava in media 30 volte lo stipendio dei suoi dipendenti, il che non è male come «sovrappremio», e certo consente di pagarsi tutti i lussi e tutti i privilegi. Ma trentaquattro anni dopo, lo stipendio del numero uno vale in media 300 volte quello dei suoi dipendenti. Cos’è accaduto in questo periodo, quale straordinario aumento nella produttività e bravura dei singoli manager, può giustificare che abbiano spiccato il volo verso la stratosfera, abbandonando noi poveri comuni mortali qui a terra? Mentre stiamo per sederci a tavola, capisco dallo sguardo di Francesco che lui non capisce, proprio non capisce, perché qualcuno possa avercela con la sua categoria. Siamo diventati forse cripto-nazisti, senza saperlo? Il nazionalfascismo di Adolf Hitler rielaborò, strumentalizzandolo e anche deformandolo, il concetto di Superuomo (Uebermensch) che il filosofo tedesco Friederich Nietzsche aveva esposto in Così parlò Zarathustra (1883). Secondo la storica dell’economia Nancy Koehn, docente alla Harvard Business School, oggi un’i-

deologia analoga detta legge in tutto il mondo. È l’ideologia che giustifica i superstipendi per i top manager. Oltre a Nietzsche, la Koehn cita l’influenza di un altro pensatore dell’Ottocento. È lo scozzese Thomas Carlyle, che rese popolare una versione divulgativa della storia: «the Great Man Theory of History», la teoria della storia fatta dal Grande Uomo. Nel suo libro su The Heroic in History, Carlyle sosteneva che la storia dell’umanità è decisa da poche figure eroiche, gigantesche: da Maometto a Napoleone. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti, la storia «fatta dai grandi leader» è stata screditata, sostituita con metodi di analisi ben più completi e raffinati, per esempio la Scuola degli Annali di Parigi (Fernand Braudel, Marc Bloch, Jacques Le Goff) che ha investito nello studio delle strutture sociali, dei costumi popolari, delle interazioni tra ambiente, demografia, cultura, valori. Ancor più di recente studiosi come Jared Diamond hanno aggiunto un sovrappiù di ricchezza interdisciplinare attingendo allo studio delle epidemie, delle migrazioni, della selezione naturale della specie, delle tecnologie. Insomma, la storia è molto più complessa delle trame dei re e dei generali, questo ormai lo sanno anche i bambini. A maggior ragione, sostiene la Koehn, non ha senso mitizzare il chief executive di una grande azienda come un Superuomo. Sappiamo infatti che «gestire un’impresa è uno sport di squadra, è un’attività che dipende da un lavoro di concerto, dalla cooperazione fra tante persone, a tutti i livelli dell’organizzazione». Eppure, a partire dagli anni Settanta, è iniziata in America un’operazione ideologica che ha idolatrato i top manager. Ne ha fatto delle

super-star, sul modello dei campioni sportivi e delle celebrità di Hollywood. Si è finito con l’attribuire il risultato di intere aziende al ruolo del singolo Superuomo (molto più raramente Superdonna) al vertice. La Koehn descrive questa mistificazione ideologica come una forma di «estremismo meritocratico». Ma con una perversione ulteriore. Nel caso dei campioni sportivi, sappiamo che la celebrità è legata ai risultati. Se un calciatore imbrocca una serie di prestazioni deludenti, se la sua squadra sprofonda nel declino, la tifoseria può essere spietata: la star dello sport finisce dalle stelle alla polvere. Almeno questa è meritocrazia. Nel mondo ovattato dei consigli d’amministrazione, come abbiamo visto durante la crisi del 2008, tanti Superuomini che hanno trascinato le aziende nel disastro, hanno continuato a godere di trattamenti economici generosissimi. Nel loro caso l’estremismo meritocratico vale sono in una direzione: per alzare gli stipendi. Mai nel senso inverso. Gran parte delle diseguaglianze attuali si spiega con questa perversione. Come ricorda la Koehn attingendo anche ai dati dell’economista francese Thomas Piketty, se osserviamo lo 0,1% degli individui più ricchi, la punta estrema della piramide sociale nel capitalismo contemporaneo, scopriamo che i due terzi sono top manager. Non star di Hollywood, non super-atleti, bensì i Superuomini che si sono arrogati il diritto di fissarsi da soli i propri stipendi. Le società capitalistiche avanzate, nonché tante nazioni emergenti, si comportano come se davvero questa oligarchia fosse una razza superiore, alla quale non si possono applicare le regole che valgono per gli altri. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

La Revolución liberista Messico Dalla privatizzazione del petrolio alla liberalizzazione dell’economia: ecco come un narco-stato

sta cambiando la faccia dell’economia messicana gestendo immensi patrimoni naturali

Angela Nocioni Venditore della patria o leader pragmatico? Corrotto burattino in mano a chi si vuole divorare il Messico boccone dopo boccone, o concreto e coraggioso capo di Stato deciso a modernizzare il Paese prima che sia troppo tardi?

Peña Nieto non ha ancora spiegato come intende porre rimedio alla gigantesca contraddizione del suo Paese, per non parlare del gap fra ricchi e poveri Su Enrique Peña Nieto, presidente della repubblica eletto dalla destra messicana, i giudizi politici non prevedono molte sfumature: c’è chi lo considera la punta di lancia delle grandi potenze economiche interessate a smantellare le ultime tutele sui beni pubblici messicani, il petrolio innanzitutto, e chi invece lo ritiene l’esecutore coraggioso di una necessaria politica di apertura economica che liberalizzi completamente il mercato messicano, terra di conquista da sempre dei vicini Stati Uniti, ma con sacche di proprietà pubblica protetta ancora dall’antica legislazione post rivoluzionaria (la Rivoluzione messicana del 1910). Fatto sta che il presidente Peña Nieto ha varato una serie di leggi di liberalizzazione che cambiano la faccia dell’economia messicana. Esaminiamone alcune. È stata approvata la Ley Federal de Competencia Económica (legge federale di concorrenza), finalizzata nei suoi propositi a combattere i monopoli e le restrizioni al libero mercato. Il provvedimento, passato con una larga maggioranza di 408 voti a favore e 56 contrari (e 7 astensioni), è stato approvato in tempi record da entrambi i rami del Parlamento, con uno schema che ha visto nuovamente ricompattate le diverse forze del Pacto por el México, una sorta di governo di unità nazionale che comprende gran parte dell’arco parlamentare, dalla destra del PAN e del PRI, al tradizionalmente socialdemocratico PRD. La Camera dei Deputati ha licen-

Il presidente messicano Enrique Peña Nieto. (Keystone)

ziato la legge definendola «una misura che punta a prevenire, investigare, combattere, perseguire, castigare ed eliminare i monopoli, le concentrazioni illecite, le barriere alla libera concorrenza in economia». La legge introduce inoltre «un nuovo quadro istituzionale che fungerà come strumento per stimolare la crescita, la concorrenza e gli interessi dei consumatori, aumentando le sanzioni contro coloro che limiteranno la concorrenza». È stata istituita, per esempio, la Comissione federale per la concorrenza che dovrebbe avere funzioni di antitrust. Per quanto riguarda la riforma delle telecomunicazioni, anch’essa promulgata lo scorso febbraio, è stata decisa la suddivisione delle nuove concessioni televisive, che entreranno in funzione all’indomani dell’entrata in vigore di Riforma. Per il momento sono state fissate due concessioni, con base di gara pari a 63 milioni di dollari ciascuna. La legge è una vittoria di Peña Nieto su Carlos Slim, l’uomo più ricco del mondo, che ha in mano l’80% della telefonia fissa e il 70% della mobile attraverso la compagnia America Movil e che ora si dovrà attrezzare a convivere con altre compagnie in condizioni di non monopolio. Approvato anche il Piano straordinario per le infrastrutture 2014-2018, definito dal presidente della repubblica

«una strategia generale per la costruzione di opere e la realizzazione di progetti, per liberare il potenziale economico del Messico». Si tratta di un grande piano di investimenti, per 587 miliardi di dollari (di cui circa 370 saranno stanziati dal settore pubblico), che riguarda: comunicazioni e trasporti, energia, gestione delle acque, salute, sviluppo urbano, case, e turismo. Enrique Peña Nieto non ha ancora spiegato, però, come intenda porre rimedio alla gigantesca contraddizione del suo Paese che, pur essendo la quattordicesima economia del mondo, è solo sessantaquattresimo sulla scala che misura la qualità delle infrastrutture secondo la stima del World Economic Forum. Per non parlare della forbice tra ricchi e poveri che spiega, in parte, la totale disaffezione alla politica di buona parte della popolazione, soprattutto giovanile e universitaria, che si rifiuta ormai da anni di andare a votare. Il petrolio, pubblico e in quanto tale simbolo della ricchezza messicana per la cultura democratica postrivoluzionaria, è stato privatizzato. Una legge, votata e approvata da entrambi i rami del Parlamento, ha deciso che imprese straniere possono liberamente sfruttarlo senza passare per la Pemex, la gigantesca (e corrottissima) industria di Stato. Ma poiché la politica ha i suoi passi formali da compiere, ed è lì che

gli oppositori navigati concentrano di solito le forze per ottenere il massimo del risultato possibile, è proprio sulla liberalizzazione del petrolio che le riforme di Peña Nieto stanno mostrando di avere i piedi di argilla. Le riforme infatti hanno bisogno di decreti attuativi per poter entrare in vigore concretamente. E nonostante il governo si sia preoccupato di mettere in calendario le votazioni sui decreti attuativi della riforma del petrolio in coincidenza con le partite del Messico ai Mondiali di calcio, il Parlamento ha trovato il modo di rimandare il dibattito e il voto di qualche mese ancora. Poiché la principale obiezione mossa contro il piano di liberalizzazione è la debolezza delle garanzie anticorruzione, per evitare che la privatizzazione del pubblico si risolva in un lauto banchetto per riciclatori del denaro dei narcos (potentissimi in Messico, sempre più strutturato come narco-stato) il governo, secondo quanto dichiarato dal Ministro dell’Economia Luis Videgaray, promette di pubblicare «una completa lista di banche ed imprese legate al narcotraffico». L’elenco è stato stilato dalla collaborazione tra le Nazioni Unite e un istituto antiriciclaggio statunitense. In teoria, a tutti coloro che saranno inclusi nella lista, dovrebbe essere vietato realizzare operazioni economiche e banca-

rie di qualsiasi tipo. Provvedimento nei fatti inapplicabile, perché se le ricchezze dei narcos venissero ritirate dal sistema bancario messicano, ben pochi liquidi rimarrebbero in circolazione essendo quella del narcotraffico la prima industria nazionale. Il Parlamento ha già approvato invece le leggi applicative della riforma politica elettorale, votata lo scorso dicembre: le principali novità prevedono la rielezione di parlamentari e sindaci, nuove restrizioni al sistema di finanziamento dei partiti e spese di campagna elettorale, e la creazione di un Istituto federale responsabile della realizzazione delle elezioni (INE). Tra le leggi attuative, è stata introdotta la triplicazione delle pene per i reati elettorali, compresa la compravendita di voti. Arrivano intanto dal Banco Central segnali di lieve ripresa della crescita: in primavera l’economia del Paese si è espansa dello 0,54%. Molte sono le attese per l’anno in corso, dopo l’entrata in vigore delle riforme e dell’annuncio del Piano di Investimento in infrastrutture, in termini di aumento del Prodotto interno lordo che, secondo stime del governo, nel 2014 dovrebbe attestarsi al +3,9% (3,4% secondo i recenti dati OCSE), al di sopra dell’1,1% del 2013. Aspettative importanti sono legate al rilancio delle attività di Pemex nel 2014, le cui raffinerie opereranno al massimo livello mai raggiunto, con la lavorazione di 1,248 milioni di barili al giorno, circa l’80% della capacità totale delle 36 raffinerie. A mostrare i limiti del settore, i dati diffusi dal Ministero dell’energia: le riserve accertate di idrocarburi sono calate del 3,1% all’inizio del 2014. È stata intanto annunciata la costruzione di un gasdotto per il trasporto di 3,780 milioni di piedi cubici di gas. Il gasdotto, che attraverserà gli Stati di Chihuahua, Durango e Sonora, richiederà un investimento complessivo pari a 2,250 miliardi di dollari, in larga parte provenienti da privati. In questo contesto di megainvestimenti rimane però una disoccupazione reale che è almeno quattro volte quella ufficiale (che non considera i sottoccupati, grande esercito di lavoratori) data al 4,8%, circa 0,3% in più che il 2013. Inoltre gli stipendi si confermano miseri: il 20% di chi lavora regolarmente è povero.

Il Pakistan non è polio-free Francesca Marino «Devo andare a vaccinarmi e sto diventando matto per capire dove si può fare» mi dice un ultrasessantenne amico pakistano. E io, ingenuamente, penso si tratti del vaccino antinfluenzale che comunemente si fa. In genere autunno e non a marzo, quando si svolge questa conversazione, ma vai a sapere. E invece no: si tratta della vaccinazione antipolio, quella della gocce sullo zuccherino che da bambini abbiamo fatto tutti. Il mio amico doveva partecipare a una conferenza a Delhi e l’India, dichiarata polio-free da almeno sei mesi impone da altrettanto tempo a tutti i pakistani che viaggiano nel Paese di mostrare il certificato delle vaccinazioni antipolio. Come misura precauzionale perché in Pakistan la polio c’è ancora. Non solo, diventa sempre più maligna e diffusa. Grazie ai talebani pakistani e ai loro sostenitori, che considerano spie della Cia tutti i medici e i volontari impegnati a somministrare il

vaccino ai bambini. E di conseguenza, con mirabile logica, sparano addosso a tutti coloro che si sobbarcano il gravoso quanto meritevole incarico. Nell’ultimo anno c’è stata nel Paese una vera e propria strage di volontari e dottori, al punto che è sempre più difficile trovare gente disposta a rischiare la vita nel nome della salute pubblica e che anche le organizzazioni internazionali incominciano a rifiutarsi di assumere l’incarico. Il ceppo del virus pakistano della polio è stato isolato anche al di fuori dei confini nazionali, il mese scorso. Esportato da turisti e lavoratori emigrati altrove. Dopo l’India, quindi, anche l’Organizzazione mondiale della Sanità è scesa in campo. E con una decisione senza precedenti ha decretato che tutti i cittadini pakistani che si recano all’estero devono mostrare il certificato con l’avvenuta vaccinazione antipolio. Altrimenti, saranno fermati alle frontiere. La decisione, inutile dirlo, ha scatenato in Pakistan un vero e proprio terremo-

to. Per molti politici più o meno in malafede, quelli che caldeggiano il dialogo con i talebani definiti da loro «angry brothers», addossano la colpa di tutto, manco a dirlo, all’Occidente in generale e agli Stati Uniti in particolare. Colpevoli di aver rintracciato Osama bin Laden, si dice, grazie alle soffiate di un dottore locale che avrebbe rintracciato il Dna dell’ex-pericolo numero uno proprio fingendo di lavorare come volontario nelle campagne antipolio. Ogni discussione è inutile, ogni tentativo di far ragionare i suddetti politici e i loro fratelli talebani ricordandogli che sono i loro figli a rischiare la vita o la disabilità permanente, è inutile e nessuno è riuscito fino a oggi a fermare la strage. Nemmeno Imran Khan, uno dei «fratelli» dei talebani, che è andato di persona con telecamere e fotografi al seguito a somministrare le gocce antipolio ad alcuni bambini a Peshawar e dintorni. La Khyber-Paktunwa e le regioni di frontiera sono le più colpite

dalla malattia, a parte il Baluchistan che è polio-free da almeno due anni. Curiose le misure adottate dal governo di Islamabad: tutti coloro che dalle altre regioni si recano nel dominante Punjab devono mostrare il certificato antipolio o accettare di essere vaccinati all’aeroporto. Peccato che il Punjab non sia affatto libero dalla polio, e che gli abitanti delle altre regioni siano giustamente furibondi per questa ennesima prova della «superiorità» di Islamabad e Lahore rispetto al resto del Paese. Gli abitanti del Punjab sono furibondi invece perché, come il mio amico, stanno freneticamente cercando di ottenere il vaccino e il sospirato certificato capace di non mandare a monte le vacanze all’estero di molti: ma il vaccino non si trova e, soprattutto, non si capisce bene dove bisogna andare per vaccinarsi e ottenere il suddetto certificato. Su Facebook e Twitter si scambiano dritte e indirizzi dei migliori ambulatori come fossero ristoranti alla moda e si disquisisce su

Keystone

Sanità Grazie ai talebani che considerano medici e volontari agenti Cia e quindi li uccidono

che tipo di vaccino adoperare. Perché anche chi è stato vaccinato da piccolo, non avendo alcun certificato, deve rifare la vaccinazione. Intanto, i bambini delle province di frontiera, i bambini dei poveri e degli integralisti stessi, aspettano che la politica e il governo la smettano di giocare sulla loro pelle le loro partite più o meno truccate. E che il Pakistan entri finalmente, almeno sotto questo aspetto, in un futuro senza più bambini poliomielitici.



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Politica e Economia

Un’unica Basilea

Aggregazioni In autunno la popolazione sarà chiamata

a votare la riunione dei due semicantoni

Commercio di materie prime ai vertici Statistica La classifica delle maggiori

Marzio Rigonalli C’è molta attesa a Basilea Città e Basilea Campagna per l’esito della consultazione popolare che si terrà nei due cantoni in autunno. È in gioco l’avvio di un processo di riunificazione delle due entità renane. Negli ultimi mesi, il Gran Consiglio di Basilea Città, a larga maggioranza, e quello di Liestal, con una maggioranza chiaramente meno importante, hanno deciso di imboccare questa strada. Basilea Città conta circa 190’000 abitanti, sparsi su una superficie di 37 chilometri quadrati, e comprende tre soli comuni, la città di Basilea, Riehen e Bettingen. Basilea Campagna ha un territorio più esteso, 518 chilometri quadrati, sul quale vivono circa 280’000 abitanti ed è suddiviso in 86 comuni. I due cantoni collaborano in modo molto stretto in vari settori. In particolare, il loro partenariato comprende istituzioni comuni in materia di sicurezza e nei settori della sanità e della cultura. Come è noto, i due cantoni renani contano mezzo voto nel calcolo della maggioranza richiesta nelle votazioni che mirano a modificare la costituzione federale ed inviano ciascuno un solo rappresentante al Consiglio degli Stati. Sono equiparati ad Obvaldo e Nidvaldo, nonché ad Appenzello Interno ed Appenzello esterno.

Già bocciata dalle urne nel 1969, la fusione torna di attualità nel contesto del progetto teorico di riduzione dei cantoni La divisione del canton Basilea, entrato nella Confederazione nel 1501 come undicesimo stato membro, risale al 1833 e fu la conseguenza di un conflitto tra la città e la campagna. I contadini chiedevano maggiori diritti e volevano essere meglio rappresentati nelle autorità del cantone. I borghesi residenti in città, però, non erano disposti ad accogliere queste rivendicazioni. Ritenevano di essere meglio istruiti e più preparati per assumere incarichi politici e, soprattutto, sostenevano di contribuire in larghissima parte alle risorse del cantone. Questa loro posizione li fece apparire supponenti ed arroganti agli occhi di coloro che chiedevano più diritti. Il conflitto ebbe parecchi momenti di alta tensione e sbocciò nella battaglia di Hülftenschanz, che oppose le truppe della campagna ai soldati della città e che si concluse con la vittoria

della campagna. Più tardi, la battaglia assunse una portata simbolica tale da essere ricordata, soprattutto dagli avversari della fusione residenti a Basilea Campagna, come un mito, un motivo d’orgoglio, un momento fondamentale della storia di questo cantone. La separazione in due parti del territorio di Basilea venne poi sancita dalla Dieta federale, che comunque lasciò la porta aperta alla riunificazione, qualora ne fosse sorta la volontà nei due territori. Nei 180 anni che ci separano dal 1833, non mancarono i tentativi per ripristinare la vecchia unità politica e territoriale. Il più importante avvenne nel secolo scorso. Nel 1936 gli abitanti dei due cantoni approvarono due iniziative che prevedevano il principio della fusione. Due anni dopo venne approvato anche un articolo costituzionale cantonale che mirava allo stesso obiettivo. In un primo tempo però, le Camere federali si rifiutarono di dare la garanzia e si pronunciarono a favore soltanto nel 1960, sulla base di una nuova iniziativa cantonale. Nel 1969, infine, si arrivò al voto popolare su una nuova costituzione cantonale, elaborata da un’assemblea comune, in cui veniva sancita la fusione dei due cantoni. Basilea Città approvò la riunificazione con il 65% dei voti espressi, Basilea Campagna la bocciò con il 59%. Si disse allora che le ragioni della bocciatura erano prevalentemente economiche. La città aveva perso attrattiva nei confronti dei comuni della campagna, in seguito alla riduzione del divario economico tra i due cantoni, divario che era sempre stato favorevole a Basilea Città. Basilea Campagna aveva migliorato e potenziato le sue infrastrutture e si accontentava dell’ottima cooperazione economica che era riuscita a stabilire con la città. Il percorso che i due cantoni cercano ora di affrontare insieme è lungo ed accidentato; il suo successo dipende dall’esito positivo di ben tre votazioni popolari. In autunno avremo la prima votazione popolare, indetta per creare un’assemblea costituente. Il suo principale compito sarà di preparare una costituzione che preveda la fusione dei due cantoni. Questa assemblea dovrebbe comprendere 125 membri, 75 in rappresentanza di Basilea Campagna e 50 provenienti da Basilea Città. Se gli elettori dei due cantoni si esprimeranno in favore del progetto, la nuova assemblea potrà iniziare i suoi lavori ed impiegherà sicuramente alcuni anni, prima di riuscire a sfornare un progetto di costituzione per il nascente cantone. Toccherà allora, di nuovo, al popolo renano esprimersi nelle urne, per approvare

o bocciare la nascita del nuovo cantone. Se anche la seconda votazione popolare avrà un esito favorevole, e se quindi ci troveremo di fronte alla creazione di un nuovo cantone, bisognerà modificare la costituzione federale, con una terza votazione popolare, questa volta a livello svizzero. La modifica della costituzione richiede la maggioranza del popolo e dei cantoni. È difficile fare previsioni sulla scelta che faranno i cittadini renani. Con ogni probabilità, Basilea Città si pronuncerà a favore. Più incerto, invece, appare l’esito a Basilea Campagna. Il peso della storia con i suoi miti, i cliché popolari sulle differenze tra gli abitanti dei due cantoni, trasmessi da una generazione all’altra ed ancora presenti, nonché i dubbi sulle conseguenze pratiche della fusione, non sono trascurabili. In particolare, Basilea Campagna teme di ritrovarsi un giorno troppo dipendente dalla città, dal punto di vista economico e, perfino di dover accettare una situazione fiscale meno vantaggiosa di quella attuale. Sono paure, in parte inconsce, che si confronteranno con i vantaggi che possono essere generati dalla fusione, in termini di efficienza e di razionalizzazione dei compiti, delle istituzioni, delle infrastrutture e dei costi. Vantaggi che possono derivare anche dal probabile rafforzamento della posizione di Basilea nei confronti della Svizzera, e delle vicine regioni dell’Alsazia e del Baden-Württemberg. In ambito elvetico, la procedura avviata dai due cantoni renani arriva dopo il fallito tentativo di creare un nuovo cantone con l’attuale canton Giura ed il Giura bernese. S’iscrive in quel processo, finora rimasto perlopiù teorico, che mira a ridisegnare la carta dei cantoni elvetici, riducendone drasticamente il numero. Un processo avviato all’inizio del secolo, in particolare da Avenir Suisse, che nel 2005 pubblicò uno studio in cui proponeva di suddividere la Svizzera in sei grandi regioni. Da allora, le voci favorevoli alla modifica delle frontiere cantonali si sono moltiplicate. Voci che giudicano gli attuali cantoni troppo piccoli per poter assumere nuove responsabilità e che auspicano la creazione di entità più grandi, capaci di svolgere pienamente un ruolo a livello nazionale ed in grado di rafforzare il federalismo elvetico. La riunificazione di Basilea Città e Basilea Campagna costituirebbe un piccolo passo, un piccolo traguardo, all’interno di un processo in divenire che, fra qualche decennio soltanto, diventerà, probabilmente, di stretta attualità.

In una caricatura d’epoca, la divisione tra Città e Campagna, avvenuta nel 1833. (Wikipedia)

aziende in Svizzera conferma il ruolo di importante piattaforma per questo settore economico

La multinazionale energetica è la prima per cifra d’affari. (Keystone)

Ignazio Bonoli La statistica delle cento maggiori aziende svizzere nel 2014 conferma una tendenza in atto da qualche anno soltanto, ma che vede nettamente in testa per volume della cifra d’affari le aziende del commercio internazionale delle materie prime. È però altrettanto significativo che, se si considera il numero dei dipendenti, questa classifica, allestita ogni anno per conto della «Handelszeitung», vede ai due primi posti due grandi aziende della tradizione industriale svizzera come la Nestlé e la ABB, seguite a poca distanza dai grandi gruppi della chimica e farmaceutica come Novartis e Roche. Ancora una volta, come nei due anni precedenti, la maggiore cifra d’affari è stata realizzata dal gruppo Vitol, con 307 miliardi di franchi e 32’000 dipendenti, occupati però quasi tutti all’estero. La posizione di testa dei gruppi internazionali, operanti nel settore delle materie prime, è confermata dalla presenza della Glencore (215,7 miliardi), dalla Carghill International (123 miliardi), dalla Trafigura (119,7 miliardi) e dalla Mercuria Trading Company (100,8 miliardi). La prima azienda svizzera è ancora la Nestlé, con 92,2 miliardi, ma soltanto al sesto posto. Le banche e le compagnie di assicurazione non sono però comprese in questa statistica, ma fanno parte di un’indagine separata. Sulla base dei dati della cifra d’affari, si può constatare che le aziende che superano il miliardo di franchi crescono di anno in anno, e non solo a causa dell’inflazione. Infatti, le aziende migliori crescono in misura superiore sia al tasso di crescita dell’economia, sia al tasso di inflazione. La statistica della «Handelszeitung», che è iniziata nel 1968, indicava allora soltanto undici aziende con cifra d’affari superiore al miliardo di franchi. Alla fine degli anni ottanta si superava per la prima volta il centinaio e da allora la crescita del loro numero è stata costante. Anche nel 2013, con i primi segni di una ripresa generale dell’economia, si sono osservati interessanti progressi. Per esempio la Pilatus di Stans, con un incremento del 71% delle vendite, ha superato per la prima volta il miliardo di franchi. Lo ha fatto anche la Stäubli di Horgen, attiva nel settore della mecatronica per macchine tessili e dei robot. In totale, questo particolare «Club dei miliardari» ha ormai raggiunto le 160 imprese. Ma sono parecchie le aziende che hanno guadagnato oltre 20 posti in questa speciale classifica generale: tra di esse si possono contare la Apple Suisse (computer), la Octopharma (farmaceutica) o anche il SIX Group, che gestisce la borsa svizzera. È invece tornata nel gruppo dei miliardari la Rieter

di Winterthur (macchine tessili) che ne era uscita durante il periodo di ristrutturazione del gruppo. Nella prima parte della classifica figurano anche i grandi gruppi della distribuzione con Coop (27 miliardi), Migros (26,7), cui si aggiungono Transgourmet (Coop, 8,2 miliardi), Denner (Migros, 3,2 miliardi), Gruppo Bell (Coop, 2,6 miliardi), Coop Mineralöl (2,6 miliardi), Migrol (1,9 miliardi). Aldi Suisse entra pure in questa classifica con 1,8 miliardi (stimati). Nell’orologeria spicca il Gruppo Swatch (8,5 miliardi) cui si aggiunge il Gruppo Omega (2,5). È interessante osservare anche la ripartizione geografica di queste aziende miliardarie: 44 di esse si trovano nel canton Zurigo, 15 in quello di Berna, 14 a Ginevra, 13 a Basilea Città e 13 in Argovia. Zugo ne conta 10, San Gallo 8, Vaud 7, Basilea Campagna 7, Lucerna 5, Neuchâtel 4, Svitto, Nidvaldo e Turgovia 3 ciascuno e gli altri cantoni 2 o una sola, come in Ticino. Solo i due Appenzello, il Giura, Obvaldo e Vallese non ospitano queste grandi aziende. Se però si considera la cifra d’affari, la ripartizione del territorio cambia. Dei 1820 miliardi di franchi realizzati in Svizzera, ben il 36,4% è realizzato a Ginevra, il 14,1% a Zugo, il 9,7% a Basilea Città, il 9,4% nel canton Vaud e solo il 9,3% a Zurigo e il 7,1% a Lucerna. È evidente in questa suddivisione l’importanza dei grandi gruppi internazionali a Ginevra e Zugo, che distanziano nettamente gli altri cantoni. In questo caso è altrettanto evidente l’importanza dei grandi gruppi del commercio internazionale delle materie prime, che da soli occupano ben 7 dei primi 10 posti. Aggiungendo le altre quattro del gruppo arrivano a realizzare una cifra d’affari che è praticamente pari a quella di tutte le altre aziende comprese in questa statistica. La Svizzera ha avuto anche in passato importanti protagonisti del commercio internazionale, grazie alla sua particolare posizione e ai servizi che offre. Oggi però le grandi aziende non sono più confrontabili con le tradizionali ditte svizzere. Il commercio internazionale basato in Svizzera contribuisce in misura di oltre il 3% al prodotto interno lordo del paese e supera quindi il contributo dell’intero turismo. Nessun altro paese al mondo conta una proporzione così alta di aziende multinazionali. Aziende che sono spesso soggette a critiche di tipo ecologico e sociale, il che può creare qualche rischio di reputazione anche per la Svizzera. Non si può però negare anche l’effetto positivo dovuto all’indotto, al gettito fiscale, ai posti di lavoro e ai conseguenti alti salari. È quindi importante mantenere in Svizzera una piattaforma per il commercio internazionale.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 21 luglio 2014 ¶ N. 30

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la piazza di Angelo Rossi Cessione BSI. Sospiro di sollievo e futuro incerto Dapprima la buona notizia. Come tutti i lettori sanno BSI, la più vecchia banca ticinese, ha finalmente trovato un compratore. Per 1,5 miliardi è stata rilevata dalla banca di investimenti brasiliani BTG Pactual. Il giro porta a porta, che durava da più di due anni, per cercare di vendere la banca è quindi terminato. Il proprietario della BSI, le Assicurazioni Generali, hanno trovato un compratore che sembra disposto, rispettate certe condizioni, a garantire un futuro abbastanza autonomo alla banca. Non solo i dipendenti della banca e i suoi fornitori, ma la BSI stessa e anche la piazza bancaria luganese tirano un grosso sospiro di sollievo. Poi ci sono le notizie meno buone. Intanto l’insolita durata del periodo di vendita con notizie di vari compratori, anche svizzeri dapprima, che si interessano

all’acquisto per poi rinunciarvi. Forse chi voleva vendere domandava troppo. In seguito, la traiettoria di decadenza che la BSI sta seguendo, da una cessione all’altra. La possiamo illustrare con i prezzi pagati dai successivi compratori. Vediamo: Generali aveva comperato la BSI, nel 1998, per 1,9 miliardi a un prezzo quindi che era del 26% superiore a quello che paga oggi la banca brasiliana che la rileva da Generali. Ma, purtroppo, c’è di peggio perché, nel 2007, la BSI aveva, a sua volta, comperato la Banca del Gottardo dalla Swiss Life per 1,8 miliardi. In sostanza, quindi, i brasiliani hanno comperato oggi due banche per meno di quello che ieri era il prezzo di una. Come nel supermercato quando ci sono le azioni! Ma se compariamo il valore della BSI di oggi con quello delle due banche alla

fine del secolo scorso ci accorgiamo che la decadenza è stata ancora maggiore. Nel 1999, Swiss Life aveva comperato la Banca del Gottardo per 2,4 miliardi. In quindici anni, il valore delle due banche è passato, quindi, da circa 4,3 a 1,5 miliardi, segnando quindi un calo di circa 2/3. Questa perdita è dovuta in primo luogo alla forte riduzione dei patrimoni amministrati. Con la vendita della BSI termina in Ticino l’esperimento banche associate ad assicurazioni. Quello che, negli ultimi due decenni del ventesimo secolo, in Svizzera, era stato lanciato come il nuovo modello di istituzione finanziaria scompare dalla scena bancaria ticinese come era già scomparso a livello nazionale. La sola differenza è che, da noi, l’abbandono del nuovo modello non ha sollevato le polemiche che aveva sollevato, a suo

tempo, per esempio, il divorzio tra la Winterthur e il Credito svizzero. Swiss Life, dapprima, Generali, oggi, lasciano la piazza finanziaria luganese con perdite di circa il 20% rispetto all’investimento iniziale. La NZZ termina il suo commento alla cessione di BSI affermando che per le Assicurazioni Generali «Ausser Spesen, nichts gewesen» (cioè: oltre ai costi, non c’è stato altro). È vero, ma se teniamo conto del lungo tira e molla delle transazioni sulla cessione, all’assicurazione italiana poteva andare anche peggio. E adesso che cosa succederà? I responsabili di BSI e di BTG Pactual parlano di complementarietà. È vero che le due banche svolgono sostanzialmente la medesima attività, ma è anche vero che operano su due mercati diversi. Pactual è attiva soprattutto nelle Americhe; BSI,

invece, soprattutto in Europa e Asia. Per il momento quindi le attività delle due entità finanziarie continueranno a svolgersi come in precedenza, vale a dire seguendo binari separati. Siccome però il padrone è uno solo, e cioè il brasiliano André Esteves, è molto probabile che, a medio termine, la strategia di BTG Pactual venga applicata anche alla BSI. Esteves vuole realizzare guadagni del 20% sui suoi investimenti. È difficile oggi vedere come la BSI, che operava, come proprietà di un’assicurazione, con criteri di grande prudenza, possa arrivare a soddisfare le ambizioni di guadagno del suo nuovo proprietario. È come se si chiedesse a una vecchia Fiat Millecinquecento di vincere una corsa di Formula 1. Difficile che ce la faccia senza ritocchi alla carrozzeria e al motore.

a meno 2 da Francia ’98). Soprattutto, il Paese ha dimostrato di essere all’altezza del ruolo che si è conquistato e che può esercitare in futuro. E la Coppa è stata portata in regioni remote, come l’Amazzonia e il Pantanal (pur se resta il sospetto che gli stadi di Manaus e di Cuiabà siano stati costruiti anche per ragioni meno nobili). La prova era tanto più difficile perché il Brasile che ha accolto il Mondiale, e tra due anni ospiterà a Rio le Olimpiadi, non era lo stesso che aveva ottenuto i due eventi. La crescita si è fermata. La fiducia dei brasiliani in sé stessi e nel futuro appare incerta. La campagna elettorale appena cominciata si annuncia difficile per la Presidenta Dilma Rousseff, senza che si veda all’orizzonte un leader carismatico in grado di riunificare il Sud «europeo» e il Nord «africano» del Paese, com’era riuscito al sindacalista pernambucano Lula. Non a caso Dilma è stata mandata letteralmente a quel paese dalla folla, sia nella partita inaugurale a San Paolo sia durante la finale al Maracanà (e anche a Belo Horizonte, dopo la disastrosa sconfitta con la Germania); né il suo principale rivale Aecio Neves appare un personaggio che scalda i cuori, mentre il

centrista Eduardo Campos, appoggiato da Marina Silva, popolare ex ministro dei governi di sinistra, può raccogliere i voti dei delusi dal partito al potere ma difficilmente avrà chances di arrivare al ballottaggio, previsto nel prossimo novembre. Ma il Mondiale 2014 dimostra che la storia non torna indietro. Il Brasile è entrato nel consesso delle grandi nazioni, e pur con i suoi limiti e con le sue differenze sociali ancora troppo grandi (visibili in particolare a San Paolo, metropoli dalla dimensione totalmente urbana, priva di quella sorta di melting pot, di livella sociale che sono le grandi spiagge di Rio) si candida a giocare un ruolo-chiave nel mondo globale, forte di un territorio più vasto di quello degli Stati Uniti (senza l’Alaska) e di una popolazione più numerosa di Germania, Francia e Italia messe assieme. Il bilancio italiano è molto meno brillante. Nella rassegnazione con cui è affondata la nazionale azzurra si è intravisto il riflesso della sfiducia che sembra attraversare una parte del Paese. Quasi peggiori della sconfitta sono state le reazioni, che indicano come il movimento calcistico e sportivo

italiano vada rinnovato profondamente. La rarefazione di talenti è segno della scarsa attitudine sia al sacrificio quotidiano sia alla visione del futuro. Lo sport incrocia la politica, l’economia, la società: e l’Italia ha tutte le chances per affacciarsi sul mondo come ha fatto ora il Brasile, e come farà Rio nel 2016. Neppure le Olimpiadi devono fare paura. Due anni fa Londra dimostrò che si possono realizzare grandi stadi e opere pubbliche (che a Roma oltretutto non sarebbero neppure necessarie: molti impianti ci sono già) senza rubare, e creando valore per la comunità nazionale: l’invasione turistica sulle prime non ci fu, ma sulla spinta dei Giochi la capitale inglese è diventata la città più visitata del pianeta, davanti a Parigi e a New York. Roma non è neppure tra le prime dieci. Purtroppo l’Italia ha perso l’occasione di aggiudicarsi le Olimpiadi del 2020, e chissà quando il treno ripasserà. Un’altra nota positiva riguarda la Svizzera: i rossocrociati hanno portato ai tempi supplementari i vicecampioni dell’Argentina, hanno mostrato un ottimo gioco e una squadra multietnica. Complimenti da un italiano deluso dagli azzurri.

per 1000 abitanti – e al primo posto, con 11,4 nascite per 1000 abitanti, figurava il cantone Appenzello Interno – il Ticino, con 8,3 nascite per 1000 abitanti, era il cantone con il tasso di natalità più basso. In gergo tecnico stiamo avvicinandoci al fenomeno noto come «baby crack» o «baby slump» e c’è pericolo che, soprattutto cessando le immigrazioni, la «piramide delle età» possa rovesciarsi con gravi ripercussioni sul piano della politica sociale e dei costi del welfare. Quello della denatalità è sempre stato fenomeno sottostimato e inascoltato dai politici, i quali, per spiegare le culle vuote, preferiscono indicare come responsabile… la crisi economica. Niente di più falso: la crisi attuale causerà effetti in demografia solo fra 30 o 40 anni. Invece l’abbassamento di oggi ha avuto origine alla fine degli anni Settanta (cioè una generazione fa!), quando la crisi non c’era e vigeva un po’ ovunque l’ondata dei «dinks», cioè del «double income no kids», ovve-

ro doppio stipendio, niente bambini. Il conto di questo «stile di vita» (che perdura tuttora, influenzando scelte, priorità e spese sociali) viene ora recapitato anche a chi quando si parla di problemi demografici pensa sempre... all’incontrario, cioè a paesi lontani, a processi legati al sottosviluppo, eccetera. Piuttosto che accettare l’idea che i problemi demografici possano interagire anche da noi, si finge di non sentire chi ci mette in guardia. Come il sociologo Ben J. Wattenberg che nel suo Fewer: How the New Demography of Depopulation Will Shape Our Future ammonisce che, se questa tendenza della denatalità si prolunga e non viene presa in considerazione, «il costante calo delle nascite nei paesi democratici industrializzati rischia di farli sparire. La gente si meraviglia; ma le forze in movimento sono queste. Se si va avanti così le conseguenze saranno fosche». La solita Cassandra? Per gli ambienti politici di sicuro, soprattutto per coloro

che da decenni propugnano interventi «progressisti» che vanno dal controllo delle nascite all’eutanasia e coniugano lo stereotipo della sovrappopolazione sino all’inverosimile. Devo chiudere e ho poco spazio per l’altra notizia, quella più ghiotta. A inizio luglio tutti i media hanno decantato un nuovo servizio ideato dalla Confederazione per informarci in caso di pericoli imminenti: un sistema di allarme generalizzato per tempeste, inondazioni, valanghe, inquinamenti, incendi, frane, terremoti ecc. ecc. Lette le varie relazioni mi sono sorpreso a chiedermi: non sarebbe opportuno ideare un analogo sistema di allarme anche per altri «pericoli incombenti», come l’indebitamento, il calo demografico, la perdita di competitività in interi settori economici, un abnorme indice di dipendenza (quota della popolazione beneficiaria di sussidi), in modo da attivare gradi di allerta e allarmi utili non solo per i politici, ma anche per chi li vota?

In&outlet di Aldo Cazzullo La Storia guarda avanti Ricordate cosa si diceva e cosa si scriveva due mesi fa del Mondiale in Brasile? Lavori non finiti, proteste inesorabili, scontri di piazza, organizzazione non all’altezza… Invece non è accaduto nulla di tutto questo. Qualche sparuto incidente, nel giorno dell’inaugurazione a San Paolo e in quello della finale a Rio de Janeiro, enfatizzato dalla presenza delle telecamere e di giornalisti tra i contusi; ma nessuno scontro grave, nessun disservizio irreparabile. Soprattutto, il Brasile ha dimostrato a sé stesso di saper organizzare una grande manifestazione internazionale. Un segno che il mondo globale è un fenomeno irreversibile; e che i Paesi europei, abituati a essere grandi in un mondo piccolo, saranno sempre più piccoli in un mondo grande. Certo, argentini e brasiliani si sono presi parecchio in giro, e nella notte di Copacabana qualche colpo è volato, dopo che i carioca avevano palesemente tifato Germania (sia pure dopo l’1 a 7 della semifinale) pur di non vedere i detestati vicini alzare la Coppa al Maracanà. Ma al di là delle rivalità sudamericane, si può dire che il Mondiale 2014 sia stato un successo. Anche perché il Brasile ha dimostrato di saper reagire alla peggior

sconfitta della propria storia calcistica con dignità e anche con humour: per intenderci, non si sono avute notizie di suicidi di massa; al punto da lasciar pensare che quelle diffuse nel 1950, dopo il Mondiale perso in casa contro l’Uruguay, fossero esagerate se non inventate. Piuttosto, le proteste viste un anno fa in occasione della Confederations Cup (il torneo organizzato in previsione del Mondiale) hanno senz’altro aumentato la pressione sui calciatori del Brasile, che costretti a vincere al primo gol subito hanno perso la testa. Ma il bilancio più importante non è quello calcistico. Ovviamente c’è stato qualche disagio, che peraltro si era visto anche nelle edizioni tenute nei due Paesi più efficienti del mondo, Giappone (2002) e Germania (2006); e il caso del traffico dei biglietti ha creato più di un imbarazzo alla Fifa, con il responsabile di «Match», società da cui la Fifa si è chiamata fuori, costretto a fuggire dall’ingresso di servizio del suo hotel, inseguito dalla polizia. Il successo organizzativo e anche sportivo del Brasile è fuori discussione: è stato il secondo Mondiale come media di spettatori, dopo Usa ’94, e come numero di gol (si è arrivati

Zig-Zag di Ovidio Biffi Paralleli fra tasse, culle e voti «Sentir parlare spesso di conti pubblici può dare fastidio, ma se i conti pubblici non tornano i fastidi rischiano di essere tutt’altro che grassi. E i conti del nostro Cantone non tornano proprio». Diavolo di un Pontiggia, che iniziava così il suo editoriale sul «Corriere del Ticino» del 5 luglio scorso! Passano pochi giorni ed ecco che il governo scodella un «correttivo» che conduce il deficit del preventivo 2015 sui binari del freno ai disavanzi approvato in votazione popolare lo scorso 18 maggio (limite del 4% delle entrate correnti, cioè «soli» 140 milioni invece dei 245 conteggiati a maggio). Mi dico: se basta un editoriale per dimezzare i deficit, immaginate i miracoli che potrebbe fare l’autocritica dei politici se solo questa virtù figurasse nel bagaglio di tutti i partiti eletti per governare? Subito vengo smentito: tornano a risuonare le sirene d’allarme per un esercizio 2014 che sta esplodendo a causa delle troppe spese. Così mi convinco che stiamo sentendo sulle spalle il peso di

un decennio di lusso trascorso pagando le uscite con carte di credito, oltre che con tutto il contante a disposizione. Il grosso pericolo ora è che, finita l’estate, l’intollerabile venga definito «sopportabile» e, in ossequio all’apertura della caccia elettorale, consentirà alla classe politica di impallinare ancora ogni sforzo per correggere il legno storto delle nostre finanze pubbliche. Non ho alcuna intenzione di cavalcare il fastidio evocato da Pontiggia e allora mi sposto sull’altra sponda del debito cantonale, richiamato da altre due notizie di attualità a mio avviso collegate (o collegabili, dato che nessuno l’ha fatto) con l’indebitamento cantonale. La prima viene dall’Ufficio federale di statistica (Ust) e ci ricorda che, secondo i nuovi dati riguardanti il movimento naturale della popolazione, il Ticino brilla come cantone con il minor tasso di natalità! L’Ust dice che nel 2013, mentre in termini di natalità la Svizzera presentava un tasso lordo di 10,2 nascite


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Cultura e Spettacoli Immagini sublimi La Cons Arc di Chiasso espone una serie di fotografie dell’americana Vivian Maier

Fenomeno Macklemore Anticonformista eppure adorato dal grande pubblico, indipendente e attento alle tematiche sociali: Macklemore alla conquista del mondo

Il valore di Chiesa Un saggio su Francesco Chiesa sonda l’importanza della sue prose per il Novecento ticinese

Teatro e territori Si è appena concluso un festival imbastito sul concetto di «confine»

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Una Szeemann / Bohdan Stehlik, immagine tratta dalla pubblicazione Dann immer erst, immer erst dann 2014.

Tra verità e illusione

Mostre Le opere di Una Szeemann e Bohdan Stehlik a Lugano Alessia Brughera Quattro anni fa il Museo Cantonale d’Arte di Lugano ospitava per la prima volta l’opera degli artisti Una Szeemann e Bohdan Stehlik. In quell’occasione la coppia esponeva insieme ad altri colleghi nell’ambito della rassegna Che c’è di nuovo? Uno sguardo sulla scena artistica emergente in Ticino, una mostra che aveva come obiettivo quello di offrire uno spaccato della produzione delle generazioni più giovani promuovendole nel contesto nazionale. La circostanza fu molto propizia ai due, che vinsero il «Premio Migros Ticino per l’incoraggiamento della creazione artistica» con un lavoro dal titolo Casted Shadows (Wolves and Chair), un’opera a metà tra scultura e installazione che colpì la giuria per la sua capacità di creare un forte dialogo con lo spazio in cui era stata allestita: suggestiva nel suo lento affiorare da un ambiente intriso di magnetismo e immerso in un’oscurità dipanata solo da una flebile luce, l’opera si confrontava già con alcune delle tematiche che sarebbe-

ro state poi ulteriormente approfondite dai due artisti. La scultura si misurava infatti ludicamente con le potenzialità offerte dall’elemento ombra, indagando il rapporto tra verità e illusione e le molteplici modalità per stimolare e irretire la percezione. Forti di quel prestigioso riconoscimento, Una Szeemann e Bohdan Stehlik espongono adesso nuovamente al Cantonale in una mostra dedicata, questa volta, interamente a loro, e che rappresenta il primo della coppia di appuntamenti riservati ogni anno dal Museo ai più interessanti sviluppi della giovane arte svizzera. I due artisti, una nata a Locarno nel 1976 (e figlia del celebre storico dell’arte e curatore svizzero Harald Szeemann), l’altro nato a Karlovy Vary nel 1973, hanno iniziato il loro percorso separatamente per poi intraprendere un cammino comune a partire dal 2006. A unirli, l’affinità sia nei linguaggi attraverso cui esprimersi – che spaziano dalla scultura all’installazione, dalla fotografia al video – sia nel campo di ricerca, orientati come sono verso l’e-

splorazione dei processi percettivi e della relazione tra realtà e rappresentazione. Sebbene fin dall’esordio di questo sodalizio artistico sia sempre stato impossibile individuare nelle loro opere il contributo peculiare di ciascuno, nella più recente produzione (come ben dimostra l’esposizione al Cantonale) ognuno dei due artisti ha deciso di rendere riconoscibili le proprie specifiche caratteristiche, realizzando lavori che portano esclusivamente la propria firma. Una scelta che può essere interpretata come la volontà di rimarcare le rispettive individualità pur nella sempre profonda corrispondenza d’intenti. Quello di Lugano è un allestimento pulito ed essenziale, in cui poche ma significative opere vengono presentate in un’ambientazione che si affida a una luce fioca per esaltare al meglio alcuni loro aspetti. È in questa atmosfera che le sculture e le fotografie di Una Szeemann trattano le evanescenti frontiere tra visibile e invisibile, sondano i limiti tra materia e spirito, i contrasti tra pieni e

vuoti, gli instabili equilibri tra fisicità e apparenza. I suoi lavori sono pervasi ora da riferimenti allo spiritismo di fine Ottocento che richiamano concetti quali quello di ectoplasma attraverso rappresentazioni di forme fluide e diafane che emergono rarefatte da fondi scuri, ora da suggestioni visive che provocano l’occhio e la logicità attraverso svelamenti e occultamenti che stimolano riflessioni sulle nozioni di assenza e presenza. Bohdan Stehlik approfondisce queste stesse tematiche investigando più nello specifico gli squilibri e le alterazioni nel rapporto tra l’oggetto e la sua rappresentazione. Una complessa relazione, questa, in cui è spesso difficile distinguere l’uno e l’altra, tanto labili e ingannevoli sono i loro confini e le modalità con cui si manifestano. Tra asimmetrie e riproduzioni mendaci, l’artista coinvolge lo spettatore sia sul piano sensoriale sia su quello speculativo, allestendo opere che rivelano gli illusori meccanismi della nostra percezione. Solo un lavoro è stato realizzato a

quattro mani, ponendosi come compendio delle meditazioni dei due artisti attorno ai medesimi temi di indagine. Si tratta di una piccola opera che gioca con una realtà che si palesa per quello che non è e che si nasconde per quello che è, diventando l’emblema di quell’invisibile che, citando il filosofo francese Maurice Merleau-Ponty, «è il rilievo e la profondità del visibile». Dove e quando

Una Szeemann / Bohdan Stehlik. Dann immer erst, immer erst dann. Museo Cantonale d’Arte, Lugano. Fino al 31 agosto 2014. A cura di Elio Schenini. Orari: martedì 14.00-17.00; mercoledì-domenica 10.00-17.00; lunedì chiuso. www.museo-cantonalearte.ch In collaborazione con


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Cultura e Spettacoli

Storie di ordinaria normalità

Incontri L'autore olandese ha scritto diversi bestseller internazionali che prendono spunto dalla complessa

(e ipermediatica) realtà in cui viviamo

Blanche Greco «Il mio ultimo libro è come un film di Tarantino. La società che descrivo è sopra le righe e la storia che racconto, è puro cinema». Ci dice l’autore di Odessa Star, lo scrittore olandese Herman Koch, con un piccolo sorriso di divertimento che gl’illumina gli occhi azzurro-iceberg, nel viso abbronzato, di passaggio a Roma per il Festival delle Letterature. Autore televisivo piuttosto noto, giornalista e romanziere, con i suoi ultimi libri: La cena e Villetta con piscina, Koch ha fatto incetta di premi e si è conquistato un pubblico numeroso e affezionato che rimarrà affascinato da Odessa Star, e dal suo protagonista, così attuale da far venire i brividi. Fred, è un «perdente», imbelle e un po’ meschino che vive la vita così come viene, finché non incontra Max, la sua nemesi sin dai tempi della scuola, e inizia un’avventura perversa, una sorta di resa dei conti con tutti quelli che lo circondano, per poter ricominciare da capo, un’esistenza nuova per un Fred «diverso».

Herman Koch nutre una vera e propria passione per la letteratura russa dell'Ottocento «Il mio protagonista guarda la realtà dall’esterno, gli piace rimuginare ogni singolo avvenimento, riviverlo e reinterpretarlo come se fosse un film di gangster. Perciò quando descrive ciò che gli accade, alle volte lo fa in modo approssimativo e lacunoso, oppure con tale abbondanza di particolari, che per quanto ci si sforzi di credergli, si finisce sempre per chiedersi cosa sia realmente successo». La verità, secon-

do Herman Koch, è che in tutti noi alberga il desiderio di essere diversi, tanto da provare l’irresistibile tentazione di passare per ciò che non si è, e se alle volte ci riusciamo per qualche istante, altre compiamo il miracolo e cambiamo davvero, almeno in apparenza, nascondendoci anche a noi stessi. Insomma siamo tutti degli attori, lividi d’invidie, cinici e affamati di attenzioni? «Non esattamente» – puntualizza Koch – «il mio protagonista come molti uomini della classe media oggigiorno, vorrebbe essere un “uomo forte”, un vero “macho”, ma attualmente, a livello culturale, questa sua ambizione non è considerata una virtù, anche se il mio Fred (e molti come lui), la vedono come un enorme vantaggio per vivere bene nella realtà odierna. In effetti Max è così, e ha successo, e Fred sogna di essere come lui». Una vicenda narrata con il ritmo di una «discesa agli inferi», un thriller che ha la qualità di certi fatti di cronaca nera, veri incubi della normalità. «È in parte una storia autobiografica, e Max altri non è, che un mio ex compagno di classe del liceo. Avevamo entrambi diciassette anni, ma lui si era già fatto un nome come “lo spacciatore” della scuola, e più tardi sarebbe diventato il capo della più grossa banda di Amsterdam. È stato assassinato davanti all’Hotel Hilton, vent’anni fa. Era un personaggio interessante. Già alla fine degli anni ’60, in epoca hippy, aveva adottato un modo di vestire elegante, tutto in nero, un po’ stile il “Padrino”. Era un bell’uomo direi, e una persona affascinante, aveva avuto anche una storia d’amore con un membro della famiglia reale olandese, il che causò un certo scandalo». Sorride Herman Koch, ma sembra leggermente imbarazzato quando aggiunge: «A differenza del mio protagonista io non sono mai stato amico del mio ex compagno di scuola, e ciò che

I suoi libri non sono autobiografici ma si ispirano ad avvenimenti che ha vissuto. (Mark Kohn)

ho scritto, è pura invenzione. I miei libri nascono, dalla mia esperienza personale, non dalla cronaca nera dei giornali, ma non hanno nulla di autobiografico, salvo la scintilla iniziale. È stato così anche per La cena. Nel 2005 ero a Barcellona, quando la città si svegliò sotto choc per il crimine commesso da due adolescenti, belli, educati e di buona famiglia. Mi trovai coinvolto mio malgrado, inghiottito nell’incubo di tanti genitori con un figlio di quell’età, proprio come me, e, quasi senza accorgermene cominciai a scrivere La cena». Per Herman Koch è stata la passione per la letteratura russa dell’otto-

cento, a spingerlo a diciannove anni a misurarsi con il romanzo, seguendo idealmente le tracce di scrittori come Turgenev, Dostoevskij, ma soprattutto Čechov per quel suo modo di raccontare chiaro, diretto, poco artificioso che divenne uno dei suoi obbiettivi principali. Ma il suo campo d’indagine preferito è, da sempre, la realtà in cui vive, l’unica «dimensione» che veramente gli interessa in tutte le sue declinazioni. «Anche al cinema, che mi piace molto, detesto la fantascienza, i film di spie e quelli in costume mi sembrano una ricostruzione ridicola, mentre m’immergo volentieri in un romanzo scritto nell’ottocento». Con-

fessa Koch, anche se noi non possiamo fare a meno di trovare la «sua realtà» molto particolare, almeno a giudicare dai suoi libri. L’ultimo, Dear Mister M, appena uscito in Olanda, è la storia di un vecchio scrittore, famoso per un romanzo ispirato alla misteriosa scomparsa di un professore. Quando quarant’anni dopo, riceve una lettera che rimette in causa parte del libro, «Il suo dilemma è se scriverne un altro, raccontando la verità, ma smentendo sé stesso e la fama guadagnata quarant’anni prima, o» – ci dice Koch con uno sguardo di sfida – «mettersi in gioco e realizzare forse un altro best seller!».

La pittura zen e i tessuti sacri dedicati al Buddha Mostre Due mostre a Zurigo e a Ginevra celebrano un’antica arte giapponese

Marco Horat Lo haiku è un breve componimento poetico diviso in tre versi di 5-7-5 sillabe. Uno dei più famosi lo si deve all’estro di Basho, monaco e poeta vissuto nella seconda metà del ’600. Tradotto in italiano (impresa sempre difficoltosa per la metrica e per i livelli di significato delle parole) potrebbe suonare così: Vecchio stagno/rana salta/suono d’acqua. Un flash. Ecco concentrato in 17 sillabe lo spirito del buddhismo zen, che vuole sorprendere e spiazzare il lettore con immagini fulminanti. Proprio come fanno i monaci zen quando prendono in mano il pennello non solo per scrivere versi – ricordiamoci che anche la calligrafia è un’arte – ma per dipingere. Esempio: Sengai, che traccia su un foglio di carta di riso un cerchio, un triangolo e un quadrato tra loro legati. Il titolo ufficiale dell’opera riprende le tre forme geometriche, ma c’è chi lo ha definito «l’Universo umano», dal momento che in pochi tratti vengono evocati l’acqua (cerchio), il fuoco (triangolo) e la terra (quadrato); come dire tre elementi essenziali per la vita, se ci dimentichiamo per un momento dell’aria. Siamo all’astrazione estrema che sconfina nel mondo dei simboli, sempre presenti nell’arte giapponese, impregnata come è di tradizioni millenarie. Al museo Rietberg di Zurigo è ora

aperta una mostra dedicata al grande maestro zen Sengai Gibon (1750-1837) e alle sue straordinarie opere che ancora oggi ci affascinano per la loro originalità. Disegni, penserà qualcuno, che ricordano quelli di un bambino. Niente di più sbagliato: l’apparente semplicità nasconde in effetti verità profonde, come succede nell’arte, nella poesia e nella vita quotidiana, nel passato ma anche nel presente. È il caso dello haiku ricordato all’inizio, che Sengai illustra con pochi tratti di inchiostro, mettendoci ironia e intuito tipiche del buddhismo zen. La rana è l’uomo che deve penetrare i vari livelli della coscienza per raggiungere la saggezza e quindi l’illuminazione interiore. Traguardo che si consegue non infliggendosi do-

lorose punizioni ma standosene serenamente accucciati, in armonia con sé stessi e con l’universo che ci circonda. Uno specchio quindi dentro il quale rimirarsi per meditare sulla condizione umana. Le opere di Sengai vengono presentate per la prima volta al pubblico svizzero in occasione dei 150 anni delle relazioni tra Svizzera e Giappone e provengono dal Museo d’arte Idemitsu di Tokyo, che possiede la più importante raccolta di opere del maestro. Essendo molto sensibili alla luce verranno presentate in due tornate di sei settimane ciascuna. Sono pitture e calligrafie tracciate con l’inchiostro nero, utilizzate a scopo didattico nei monasteri zen della setta Rinzai per l’iniziazione

Rana che medita (zazengaeru), di Gibon Sengai (1750-1837). (© Idemitsu Museum of Arts Tokyo)

dei giovani monaci; anche se noi oggi li ammiriamo essenzialmente per la loro eccezionale qualità artistica. Ma potrebbe essere questa l’occasione buona per approfondire un discorso spirituale sicuramente utile oltre che affascinante. Come di grande interesse sono i tessuti buddhisti che invece vengono esposti nella sede delle Collections Baur di Ginevra, acquisiti nel 1927 dallo stesso Alfred Baur su indicazione di un famoso mercante d’arte giapponese che ne aveva raccolti più di centoventi. Niente kimono o abiti di corte, ma preziosi tessuti per gli altari laterali dei principali templi buddhisti del paese, che risalgono al XVIII-XIX secolo. Un manufatto molto particolare e poco conosciuto, in genere di piccole dimensioni e di forma quadrata detto uchishiki, che veniva confezionato dai famosi tessitori di Osaka e Kyoto utilizzando stoffe di seta che i fedeli donavano al tempio. Nell’intreccio colorato arricchito con fili d’oro e di argento, erano rappresentati motivi tratti principalmente dalla tradizione cinese e giapponese ma pure soggetti riconducibili all’India e all’Europa. Tra i soggetti dominanti vi sono il drago, la fenice, la tartaruga e il liocorno, animali reali o fantastici che simboleggiano la continuità del potere imperiale voluto e protetto dalla benevolenza divina. Accanto a questi una serie di temi floreali quali la rappresentazione delle foglie di paulonia, per la tradizione cinese unico

albero sacro sul quale la fenice si posava. Per gli artisti giapponesi il rapporto con la natura era fondamentale e ogni stagione aveva i suoi simboli floreali di riferimento: la peonia per la primavera, il loto in estate, il crisantemo in autunno e per l’inverno il pruno. (Ancora oggi nel vestibolo di una casa tradizionale dove si accomodano gli ospiti, sia la decorazione floreale sia la pittura o la calligrafia della nicchia alle spalle del padrone di casa, detta tokonoma, devono cambiare con il mutare delle stagioni). Vi è poi tutta una serie di elementi simbolici beneauguranti quali frutti (pesche, melograni e altri), nuvole e pietre preziose che dovevano completare un quadro di devozione nei confronti della divinità del tempio. Anche nei tessuti, così come abbiamo visto per le pitture zen di Sengai, si mescolano astrazione, simbologia e natura che qui rimane sempre in filigrana come punto di riferimento, dal momento che la rappresentazione degli elementi più che rispondere a una descrizione naturalistica, avviene sotto forma di convenzione culturale o di invenzione dell’artista. Le due belle mostre, che si completano a vicenda, rimangono entrambe aperte fino al 10 di agosto. Informazioni

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 21 luglio 2014 ¶ N. 30

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Cultura e Spettacoli

Lo sguardo rivoluzionario Ben & Ryan, 500 milioni di clic di Vivian Maier Macklemore è riuscito a rubare Fotografia Alla Cons Arc di Chiasso le affascinanti immagini

di una donna misteriosa e proiettata nel futuro

Musica

la scena a molti rapper afroamericani

Gian Franco Ragno

Big Bang Family

È stato uno dei fenomeni culturali degli ultimi anni nato sulla Rete, in seguito rimbalzato sui giornali di tutto il mondo, guardato con sempre maggiore curiosità anche fuori dalla stretta cerchia dagli specialisti. Le iniziative espositive che interessano le sue immagini si moltiplicano in modo esponenziale in tutto il mondo. L’ultima delle quali alla sede distaccata dell’importante museo di Jeu de Paume, a Tours. Anche se dobbiamo rendere merito alla scorsa Biennale di Chiasso di avere offerto, tra i primi in Europa, una delle più ricche occasioni espositive. La vicenda di cui parliamo, ormai assai nota, è quella di Vivian Maier: la storia di una governante che, a discapito della sua modesta posizione, è stata autrice di una ricchissima serie di immagini di grande valore storico ed estetico. Nata a New York nel 1926, ma europea di formazione e di cultura, Vivian Maier ha vissuto per molti decenni a Chicago, camminando ai margini della storia con una riservatezza che sfiorava l’invisibilità. Scomparsa nel 2009, proprio mentre qualcuno cercava notizie sul suo archivio di diecimila rullini ritrovato in una vendita all’asta – oggi gode di una sorprendente fama postuma. Perché una volta emersa dall’oblio – dai negativi perlopiù lasciati senza sviluppo – la sua produzione si è rivelata spiazzante. Nel suo percorso del tutto privato e solitario, al di fuori di ogni circuito artistico, Vivian Maier è stata in grado di anticipare – già negli anni Cinquanta – tendenze artistiche degli anni Sessanta e Settanta, così come di superare per soluzioni stilistiche molti dei suoi successori, esplorando intuitivamente le possibilità espressive di un mezzo. Di fatto sconvolgendo l’impianto storico che si è costruito intorno alla fotografia: ovvero quali siano gli autori e le correnti più importanti, le precedenze e la trama delle influenze, e soprattutto, quali fossero le scale di giudizio e valore. Tanto da risultare non solo difficilmente collocabile, ma anche scomoda per la stessa disciplina. Ancora per una settimana è possibile, alla Galleria Cons Arc di Chias-

«Indipendente». Forse è questo l’aggettivo più corretto per descrivere Ben Haggerty, meglio noto come l’astro nascente Macklemore. Cresciuto in una famiglia benestante a Seattle, Ben, dimostra sin da adolescente una forte passione per la musica rap. All’età di quattordici anni scrive i suoi primi testi e nel 2000 pubblica la sua prima demo autoprodotta, Open Your Eyes, firmandosi per la prima volta Professor Macklemore. Contrariamente a molti suoi colleghi, il Professor, gode di un ottimo riscontro con il pubblico che, anche se dapprima in maniera molto ridotta, comincia a essergli fedele e a seguirlo assiduamente.

Vivian Maier JFA_240-06. (Courtesy of the Jeffrey Goldstein Collection)

so, ritrovare l’autrice americana in una veste più contenuta ma non per questo meno suggestiva rispetto alla Biennale dell’Immagine ricordata in precedenza. La sequenza delle immagini segue un ideale percorso nella quotidianità di Vivian Maier: da quando accompagna i ragazzi a scuola a quando, durante la giornata, il suo obiettivo si apre accogliendo una serie di riprese nel vivo della città. Ritornata a casa riesce ancora a cogliere, accanto alle faccende di tutti i giorni, una sorta di lirismo anche nella più banale quotidianità. I guanti di gomma lasciati sul lavello oppure la luce che penetra dalla finestra lasciando la trama delle tende sul giornale. Un percorso che raggiunge anche gli attimi più introspettivi, rappresentati dagli autoritratti. In essi, più che il suo volto, la Maier si mette in scena come figura tra ombre, specchi e riflessi. Riconosciamo immediatamente il suo profilo e l’inconfondibile sagoma, data da un cappello e un cappotto fuori moda, che la fanno sembrare una sorta di Simone Weil nelle terre d’America. Senza contare la sua sorprendente capacità nelle immagini di cambiare registro: dalla toccante umanità nei confronti dei poveri, della popolazione afroamericana, degli anziani alla più pura forma di contemplazione di un dettaglio, di un frammento di vita cittadina oppure di un’inattesa geometria di costruzioni.

Le stampe esposte a Chiasso provengono da uno dei due galleristi – Jeffrey Goldstein – che gestiscono congiuntamente l’archivio dall’autrice scomparsa nel 2002; si tratta di edizioni fotografiche numerate e limitate di grande pregio che rendono l’esposizione senza dubbio meritevole. Ma oltre a ciò, oltre alle iniziative commerciali che si susseguono a suo nome, rimane ad oggi comunque insoddisfatto il desiderio di conoscere qualcosa di più profondo della personalità di Vivian Maier. Quali potessero essere le sue letture, le sue passioni. Intuiamo il cinema, sospettiamo la politica – da alcuni accenni nella sua fotografia. In poche parole si fa uscire una straordinaria donna del Novecento dall’aneddoto, dall’inesatto e reiterato accostamento a Mary Poppins – con la quale non condivide certo la leggerezza esistenziale. Perché Vivian Maier racconta molto del nostro rapporto, anche attuale, con la fotografia avendone frequentato a lungo la magia ed il mistero – essendo stata cosciente del fatto che essa, parte integrante della nostra memoria, potesse costituire parte integrante della nostra identità. Dove e quando

Vivian Maier. Fotografie. Galleria Cons Arc, Chiasso. Fino al 31 luglio 2014. www.consarc.ch

Istanbul la bella, la promiscua Letteratura Di recente pubblicazione per i tipi di Adelphi

un nuovo capolavoro di Georges Simenon, I clienti di Avrenos Simona Sala Nouchi non è bella, il suo volto è irregolare, il suo corpo troppo giovane, il suo passato sotto gli occhi di tutti – all’inizio del Novecento le ragazze di vita si spostavano da un locale notturno all’altro, da una città all’altra, spesso accompagnate addirittura dalla madre. È nella promiscuità di uno di questi locali che la conosce il faccendiere Jonsac: credendo nella possibile redenzione di Nouchi, oppure solo semplicemente sulla scia di un fulmineo innamoramento, egli decide di portarsela appresso a Istanbul, dove vivono in un albergo. Gli amici di Jonsac non sono meglio di lui: nobili decaduti, giornalisti e politici corrotti ammazzano le notti tra le nebbie dell’hashish e i fumi del raki, in un ambiente di decadente perversione, al cui fascino tossico soccombe ben presto anche Nouchi. Lungo il Bosforo si tengono cene ambigue, si leggono poesie, si discute, si fanno vaghi progetti e improbabili congetture. Tutti aspettano il prossimo passo di Nouchi, per scoprire

chi sarà il prescelto fortunato – ma la giovane, dopo una vita difficile, di stenti, dopo essere stata costretta a conoscere troppo in fretta le leggi del corpo e del mondo, ha un unico scopo: quello di concedersi una vita agiata, possibilmente nel ricco quartiere di Pera. Si dà quindi a tutti senza darsi realmente a nessuno, poiché è questo che la vita le ha insegnato a fare, a scapito di chiunque cerchi di appropriarsi della sua anima. I clienti di Avrenos di Georges Si-

menon è ambientato in un’Istanbul lontana (siamo negli anni Trenta del Novecento) da noi e dal mondo globale, permeata ancora di un’aura di fascino come la conosciamo, appunto, dai racconti e dalle immagini di quel tempo. La penna (come sempre magica e agile) di Simenon non si smentisce nemmeno quando a fare da sfondo alle sue torbide e ammalianti vicende vi è una città che frequentò per poco tempo. Ma lo scrittore di origine belga non fa che dimostrarci di essere a casa ovunque, poiché ovunque l’animo umano mostra le stesse debolezze, le stesse pulsioni e le stesse passioni. Che si trovino nell’umida campagna belga, nella provincia piccolo-borghese francese o in una cittadina statunitense, i personaggi di Simenon in qualche modo giocano sempre. Con il destino, con la vita e con il prossimo. E sempre, irrimediabilemente, qualcuno vince e qualcuno perde. Questo romanzo non smentisce la regola: a fare le spese del fascino altrui sarà Lelia. Lelia la seria, la remissiva. Lelia la perdente.

Macklemore è un’icona in carne ed ossa, mainstream eppure allo stesso tempo sempre individualista In pochi anni costruisce delle solide basi artistiche ma, proprio quando potrebbe concentrarsi esclusivamente sulla sua carriera, Macklemore, entra nel vortice autodistruttivo di droga e alcol. Nel 2008, grazie all’intervento del padre, Ben riesce ad ammettere e combattere le sue dipendenze, riprendendo a scrivere e raccontandosi apertamente con fan e stampa. Lo stesso anno incontra Ryan Lewis un giovane appassionato di musica e arti grafiche. Proprio su quest’ultima passione si baseranno le prime collaborazioni tra i due, fotografia e grafica portano Ryan e Ben a stretto contatto, ma è sul piano musicale che i due si rivelano pressoché imbattibili. Nel 2009 e nel 2010 il duo realizza The Vs. EP e The Vs. Redux, due lavori di forte personalità e carattere musicale ma la vera svolta per Macklemore e il suo ormai ufficiale dj/ produttore Ryan Lewis è datata 2012. Il 29 agosto 2012 infatti viene pubblicato Thrift Shop, il video della prima vera hit dall’album The Heist, che ha recentemente superato i 550’000’000 di visualizzazioni. Vincitori di quattro Grammy Awards nel 2013, Macklemore e Ryan Lewis, hanno ridefinito il «sogno americano» dei giorni nostri. Premiati come Best New Artist, Best Rap album, Best Performance e Best Rap Song con Thrift Shop si sono gustati la loro rivincita dal gradino più alto del palcoscenico. Da sempre controcorrente, Ben è diventato un’icona della musica rap pur non assomigliando neanche lontanamente allo stereotipo del rapper. Macklemore ha costruito attorno

a se un’immagine mediatica e carismatica potentissima, dalla cura per i video alla grafica, dai capelli al vestiario, riuscendo ad avvicinare alla musica rap un pubblico «nuovo». Poco d’accordo con il binomio «prostitute e macchinoni» preferisce cantare di negozi dell’usato e di matrimoni omosessuali. Same Love è uno dei brani che più ha colpito la critica, racconta una storia a lui vicina, ispirata ai suoi zii e dedicata a tutte le persone che, non solo sono costrette a vivere avvolte dal pregiudizio, ma che non possono nemmeno manifestare il loro amore, lo stesso amore appunto, unendosi in matrimonio poiché dello stesso sesso. Thrift Shop racconta invece una tematica molto più frivola «ovvero la moda». Macklemore si rivela un appassionato di moda, ma anche affrontando questa tematica non vuole né scimmiottare le veci di uno stilista, né sembrare la pantomima di un altro rapper. Ben, con questa canzone, svela la sua passione per i negozi dell’usato, dicendo che lo costringono a ragionare, cosa che la moda non fa, dovendo abbinare il vecchio al nuovo in maniera innovativa, creativa e originale. Premiato per la sua ironia e la sua freschezza non ha mai dimenticato l’aiuto donatogli dai suoi supporter, e per questo cerca ancora, ogni volta che può, di rendersi disponibile. Macklemore si divide fra il ritratto della star contemporanea, avendo dalla sua numeri e click, e il giovane di Seattle che per l’ansia sta male prima di esibirsi, si destreggia sullo skateboard e strizza la maglietta sudata davanti alle telecamere. Un’icona ma in carne e ossa, un modello arrivabile, la prova tangibile di quanto valga la pena inseguire i propri sogni. A tutto ciò per il rapper si aggiunge la fierezza di essere la star indipendente più premiata degli ultimi dieci anni. Ebbene sì; Macklemore e Ryan Lewis non hanno ancora firmato per nessuna grande major musicale, anzi le sbeffeggiano accusandole di aver avanzato solo pessime proposte. Nasce così Jimmy Iovine, la decima traccia contenuta in The Heist, dedicata all’icona indiscussa del produttore discografico. Il brano descrive l’avventura di Macklemore e assume toni coloriti, incolpando le major e i manager di distruggere l’arte e di uccidere gli artisti musicali. In molti chiedono a Macklemore se in futuro arriverà mai la firma per qualche grossa etichetta discografica, palesemente annoiato dalla tematica, risponde: «State tranquilli. Sicuramente firmerò, le major ci sono e i telefoni squillano, ma firmerò solo un contratto corretto, che ci rispetti e che rispetti il nostro lavoro, dev’essere l’affare giusto ma non credo che esista».

Ryan Lewis e Macklemore in un’immagine del 2013. (Keystone)


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Cultura e Spettacoli

E Francesco Chiesa? Meridiani e paralleli Per una nuova lettura

dei romanzi dello scrittore ticinese

Giovanni Orelli Ogni tanto si riaprono, nel bello e ridente Cantone Ticino, i cosiddetti conti con Francesco Chiesa, numero 1 nella classifica (obiettiva) in campo letterario per il primo Novecento della Svizzera italiana. Nel secondo Novecento il Chiesa poté registrare (registrazione fatta con totale, distaccata dignità) un calo del suo «successo». Che è fenomeno nell’ordine quasi naturale delle cose. Lo diceva già il campione del mondo Dante Alighieri, Purgatorio XI, 103-6: «Che voce avrai tu più...». Un calo che qualcuno attribuisce, semplificando forse un po’ troppo le cose (complesse) all’irrompere di voci nuove, che si vollero personificare, direi correttamente, in Giorgio Orelli per la poesia e Felice Filippini per la prosa. Ma se la sbrighino un po’, se vorranno dire la loro in proposito, gli eventuali critici di nostre cantonali vicende letterarie. Torniamo a Chiesa. Altra questione (non fondamentale) è: se il Chiesa fosse migliore come poeta o come narratore. Con tutti i limiti di quelli che ha un parere e non una lettura «critica» (e neanche questa coincide con la «verità»: «quid est veritas???») ripeterei che il poeta Chiesa è migliore del Chiesa narratore. A portare validi argomenti per una più sostanziosa conoscenza del Chiesa narratore (conoscenza non vuole ancora dire predilezione), è giunto in libreria un denso studio di Alessandro Zanoli, Francesco Chiesa e i suoi romanzi, edito dal Dadò, Locarno, 2013. Il Zanoli, nato a Bologna nel 1958 ma poi cresciuto nell’un po’ meno bello e un po’ meno ridente Cantone Ticino, laureatosi a Zurigo, fa ora il giornalista. La sua ricerca su Chiesa non va assolutamente presa come «divertimento» colto-giornalistico. È ricerca che poggia su dati di fatto indagati con padronanza della materia e con attenta attenzione ai pareri di altri lettori. E a questo proposito mi pare di poter muovere un solo lieve dissenso con l’autore, per il suo non aver tenuto in debito conto del sostanzioso apporto di Romano

Top10 DVD

Top10 Libri

1. The Wolf of Wall Street

1. Andrea Camilleri

L. Di Caprio, C. Blanchett 2. Storia di una ladra di libri

S. Nélisse, G. Rush 3. 47 Ronin

K. Reeves, C. Tagawa 4. Monuments Men

G. Clooney, M. Damon 5. All Is Lost

Robert Redford 6. Lone Survivor

M. Wahlberg, T. Kitsch 7. Jack Ryan

C. Pine, K. Costner

AZIONE

Amerio, in particolare dei suoi Colloqui di San Silvestro con Francesco Chiesa, Fondazione Ticino Nostro, Lugano 1974, e ciò sia detto senza minimamente diminuire i meriti di Piero Bianconi, Mario Agliati e altri; ma Amerio è quello che va più a fondo nell’indagine sull’«animo» di Chiesa uomo e scrittore. Vediamo un paio di punti (tra i tanti che ci sono) toccati nel libro di Alessandro Zanoli: vediamo la pagina 64, sulla presenza nel Chiesa narratore, e come nel gusto del tempo, tra Otto e Novecento (in D’Annunzio e anche in Svevo, Fogazzaro, Pirandello…), di un eroe inetto. O vada il lettore a vedere, soprattutto alla pagina 88, i rapporti con l’Italia fascista: «Chiesa in quell’epoca (facciamo 1925 e seguenti) era ritenuto una personalità importante e influente; la sua difesa dell’italianità nell’ambito della vita culturale ticinese era assolutamente funzionale alla propaganda fascista. Mussolini, che non era alieno da interessi strategici verso “l’Italia svizzera”, teneva a mostrare la sua benevolenza verso il Ticino e a mantenere un rapporto di amicizia che potesse eventualmente preludere a sviluppi politici (se non militari) futuri. L’assegnazione del premio (per il romanzo Villadorna) pare quindi “pilotata” da intenti extraletterari, considerando inoltre che essa coincise con l’attribuzione a Chiesa di una Laurea ad honorem all’Università di Roma, maggio 1928». E dovrei ricordare molto altro. Per esempio la nota 117 alla p. 150. Scrive Alessandro Zanoli: «È indubbio che Chiesa «politico» abbia qui influenzato con le proprie opinioni il Chiesa “scrittore” (…)». Si parla lì di Vincenzo Vela. Oltre al quale («un radicale fiammante») c’è per es. alla p. 145 un’indagine sul locarnese Angelo Nessi, con parole giustamente limitative. Per dire che un giovane lettore, un giovane storico, non fosse che per una ricerca universitaria, troverebbe molto in queste pagine del Zanoli, in questo suo utile e stimolante libro. Molto bello il ritratto del Chiesa di Giuseppe Foglia riprodotto sulla copertina.

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3. Gianrico Carofiglio

Una mutevole verità, Einaudi 4. John Green

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5. Markus Zusak

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6. Autori Vari

Vacanze in giallo, Sellerio /novità 7. Marcello Simoni

L’abbazia dei cento peccati, Newton /novità

8. American Hustle

C. Bale, A. Adams

ANTIADERENZA IN CERAMICA

8. Sveva Casati Modignani

La moglie magica, Sperling 9. Frozen 9. Irene Cao

Per tutti gli sbagli, Rizzoli 10. A spasso con i dinosauri

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10. Anna Premoli

Finché amore non ci separi, Newton

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Cultura e Spettacoli

Territori, un viaggio tra i confini Rassegna Bellinzona ha ospitato un Festival di teatro pensato per spazi urbani; una programmazione

vivace e intelligente che è stata premiata da pubblico e critica Giorgio Thoeni Quando un festival mette in campo una seconda edizione e, soprattutto, quando a crederci – a partire dagli organizzatori – è soprattutto il pubblico, si può esser certi che ha intrapreso la via giusta verso il successo. La filosofia di «Territori. Festival di teatro in spazi urbani» è coerente con la linea editoriale del Teatro Sociale di Bellinzona: si lega alla sua regione, approfondisce un tema e, accanto a ospiti di prestigio, tende a valorizzare la creatività e i pregi artistici locali. Un valore aggiunto che permette di dare spessore a quanto siamo in grado di offrire ma anche su quanto potremo investire in futuro. Quest’anno il soggetto di riflessione è «il confine», un pretesto che la rassegna ha esplorato attraverso una serie di spettacoli di teatro, danza, performance e incontri. Nel giro di cinque giorni (dal 15 al 19 luglio), Gianfranco Helbling e la sua squadra hanno allestito un cartellone ricco, variegato, e stimolante, scegliendo come luoghi topici Villa dei Cedri, il Castello Montebello, l’oratorio nuovo, il Teatro San Biagio, ovviamente il Teatro Sociale ma anche spazi immersi nel tessuto urbano riproponendo, ad esempio, il percorso di Sights della compagnia Trickster-P. Il confine è un soggetto straordinario. Può essere fisico o metaforico. Può riguardare l’alterità, la diversità ma anche l’esplorazione di concetti come educazione e crescita, emigrazione, follia, sogni e incontri fra linguag-

gi artistici. Significativa in tal senso è la performance che ha dato avvio alla rassegna. Con I hate this job (Odio questo lavoro), Ledwina Costantini e Camilla Parini hanno messo in gioco, con ironia e profusione di simbologie, il concetto stesso di uno spettacolo immerso in un’apparente superficialità al confine con i contenuti proposti da due artiste che si mettono liberamente a confronto. Una creazione multidisciplinare che mette in luce l’approccio delle due performer che inventano le loro «provocazioni» ispirandosi al manifesto di Marina Abramovich. Territori è anche luogo di progetti, come il pluripremiato Un bès di e con Antonio Perrotta (Premio Ubu, Premio Hystrio-Twister) e Pitur, due momenti di una trilogia del Teatro dell’Argine dedicata a Antonio Ligabue. La forza di Un bès è tutta nelle mani, nella voce e nel corpo di Perrotta. L’attore e regista pugliese si immedesima nel personaggio del pittore italo-svizzero raccontandone passione e solitudine, la schizofrenia, la marginalità nella ricerca di amore e del bacio di una donna. Carboncino alla mano, la sua stupenda recitazione è accompagnata da disegni su grandi fogli appesi a pannelli movibili dove facce, paesaggi e incubi si materializzano diventando gli attori del suo folle immaginario. Più collettivo ma meno avvincente è lo spettacolo Pitur, la seconda tappa del progetto, un incontro fra teatro e danza con otto attori in scena che regge l’ipotesi dichiarata della descrizione

Antonio Perrotta nello spettacolo Un bès.

del drammatico paesaggio interiore di Ligabue ma risulta più sfuggente e incompleto rispetto alla poetica puntuale ed emozionante di Un bès. Un altro bel momento di Territori è stato l’incontro con Rauw, uno spettacolo di danza contemporanea della compagnia belga «Kabinet K» con la coreografia di Joke Laurenys e Kwint Manshoven. Attualmente impegnato in una lunga tournée europea, Rauw (che significa «crudo») vede protagonisti 7 bambine di età compresa fra gli 8-10 anni, due danzatori e un musicista. È una riflessione sull’età della crescita, sulle sue contraddizioni, sulle battaglie in vista

dell’abbandono dell’infanzia. Spettacolo poetico e coinvolgente, Rauw può risultare spiazzante laddove il contatto fisico con le bambine può evocare immagini controverse sul confine tra due mondi: quello del gioco e dell’innocenza a confronto con l’universo adulto. Non sempre limpido. Su questo aspetto lo spettacolo potrebbe aver diviso parte del pubblico peraltro invece concorde sulla straordinaria bravura delle sette bambine in scena per la loro «guerra dei bottoni». Il festival è anche monologo. È il caso di Ioana Butu, attrice, marionettista e cantante romena che, accom-

pagnata dalla fisarmonica di Daniele Dell’Agnola, ha presentato Questa mamma a chi la do?, un testo scritto da Sara Rossi che racconta e canta storie di «badanti» venute dall’Europa dell’Est. Ma l’offerta di questa edizione di Territori ha spaziato anche nell’arte figurativa con l’originale (e energetico) incontro musicale, teatrale e pittorico tra il bellinzonese Nando Snozzi e lo svizzero-uruguaiano Claudio Taddei con Dove d’arte ci si muove. Una sorta di ideale complemento al «progetto Ligabue» misto a impegno civile di due suggestivi maestri sul confine dei «ladri di idee». Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Il ritorno di Peter Gabriel Musica L’irresistibile tentazione dell’autocelebrazione: Peter Gabriel torna «on the road»

per il venticinquesimo anniversario del suo maggiore successo commerciale

Benedicta Froelich È ormai ufficiale: indipendentemente dal genere o dal performer, la tentazione di rievocare e commemorare qualunque tipo di anniversario creativo è ormai divenuta prevaricante nel mondo della grande musica pop-rock internazionale, tanto da colpire tutti indistintamente – in una sorta di stordimento autocelebrativo davanti al quale non ci resta che cedere alle lusinghe commerciali e disporci (possibilmente senza troppi preconcetti) ad analizzare i risultati di tale tendenza. Una moda che ha colpito anche un nome di portata stellare quale Peter Gabriel, il quale, volendo essere del tutto onesti, non ha mai brillato per modestia o discrezione, giacché il suo abbandono del gruppo dei Genesis è stato principalmente dovuto all’ego ipertrofico che lo aveva reso, da cantante della band, una sorta di deus ex machina intorno alla quale ruotava il destino stesso della formazione. Ma la scelta si è dimostrata fortunata, in quanto la carriera solista di

Gabriel era destinata a grandi successi critici e commerciali, come dimostrato dalla risposta del pubblico al suo album più amato, il celeberrimo So (1986) – la cui pubblicazione fu seguita da un’ambiziosa tournée internazionale, caratterizzata dall’impiego di una band di molti elementi e da quel sound dalle molteplici contaminazioni etniche poi sviluppato dal cantante tramite l’etichetta Real World. A 25 anni di distanza dalla pubblicazione di So, proprio la grandiosità di quest’exploit live è quanto Peter fa rivivere nel nuovo Back To Front Tour, inaugurato nel 2012 e tuttora in corso (una data zurighese è prevista per il prossimo novembre): un’impresa che vede il cantante inglese riprendere la formula degli exploit commemorativi già proposti da personaggi quali gli Who e Roger Waters dei Pink Floyd, offrendo al pubblico la riproposizione dal vivo dell’intero album celebrato, unita a una selezione di grandi hit a completare lo show. Nel caso di Peter Gabriel, però, la volontà di ricreare

il passato – nello specifico, il tour del 1986-7 – si spinge anche oltre, portandolo a riunire la medesima band che lo accompagnò in quella trionfale serie di concerti: il risultato è già stato immortalato in un DVD appena uscito, intitolato semplicemente Back to Front e filmato nell’autunno 2013 alla O2 Arena di Londra. Come prevedibile, si tratta di un prodotto curatissimo in ogni particolare, dall’uso suggestivo delle luci di scena alla regia patinata, fino alla superlativa qualità audio e video offerta dall’alta definizione in 4K – proprio il genere di perfezionismo che solo l’ipertecnologico Peter può concedere ai suoi fans. E sebbene cotanta eccellenza tecnica potrebbe, alla lunga, rischiare di distogliere l’attenzione dall’aspetto puramente musicale del prodotto, bisogna dire che (a parte le superflue interviste autocelebrative che costellano la versione deluxe del film) ogni dettaglio di quest’esperienza live mantiene la spettacolare professionalità a cui Gabriel ci ha abituati. Così, prima di riproporre traccia per

Peter Gabriel si è esibito a Lodz (Polonia) lo scorso maggio nell’ambito del suo Back To Front tour. (Keystone)

traccia l’album So, il cantante suddivide la lunga serata in altre due sezioni distinte: dapprima un breve (e un po’ incerto) set acustico, e poi una roboante serie di classici, tra cui un vibrante e potente Digging in the Dirt e l’immancabile Solsbury Hill, sostenuto da un eccellente accompagnamento di basso. Certo, la voce di Peter non conserva più la morbidezza e fluidità dei tempi di So; ma l’artista compensa tale inevitabile défaillance con la potenza emotiva che caratterizza tutte le performance di questo DVD, giacché risulta impossibile, per i conoscitori dell’opera di Gabriel, rimanere impassibili nel riascoltare brani indimenticabili come la suggestiva ballata In Your Eyes o l’inno pop Red Rain. Così come è inevitabile stupirsi davanti alle innovazioni interpretative qui tentate da Sir Peter o ad alcuni dei suoi riarrangiamenti, pur se non sempre azzeccatissimi – come nel caso dello struggente capolavoro Mercy Street, preceduto da un’interessante intro a capella in chiave soul, ma forse penalizzato da un arrangiamento un po’ trascinato, che attenua la forza espressiva di un setting scenico peraltro suggestivo. A compensare simili perplessità, tuttavia, il concerto offre anche brani meno noti e perfino inediti (l’abbozzato pezzo di apertura Daddy Long Legs e la nuova canzone Show Yourself). Certo, è probabile che, agli occhi dei fan storici, Back to Front non riesca a raggiungere le vette dell’originale tour seguito all’album So e immortalato nell’amatissimo film Live in Athens (1987); eppure, considerando che Sir Peter ha ormai superato la sessantina, fa piacere constatare come l’energia e la passione necessarie a gestire un tour internazionale di questa portata siano ancora parte integrante della sua esperienza di artista e di persona. Il che ci spinge ad augurarci di poter presto assistere alla presentazione dal vivo di un nuovo lavoro del cantante – certo la migliore autocelebrazione che una leggenda vivente del rock possa attualmente offrire al suo pubblico.

Lorenzo De Finti Compagni di viaggio Per scherzo o per sogno, un’interessante

(e forse pericolosa) avventura con Pastorius, Mozart e i Beatles A cura di Zeno Gabaglio Originario di Locarno, e residente a Milano fin da bambino si è diplomato a pieni voti in pianoforte presso il Conservatorio di Milano e in Advanced piano al Berklee College of Music di Boston. È attivo soprattutto in ambito jazzistico con partecipazioni a rinomati festival su scala internazionale (Newport Beach, Umbria Jazz, Estival Lugano, Willisau, Paraninfo Barcellona), con collaborazioni prestigiose (Eric Marienthal, Fabrizio Bosso, Alex Acuña, Frank Gambale, Giorgio Di Tullio) e con due produzioni discografiche a proprio nome: «Beyond the desert» e «Colors of life». È anche animatore musicale per la RSI Rete Due. Compagni di viaggio

Che musicista porterei con me in vacanza come compagno di viaggio? Sono talmente tanti i personaggi, specialmente del passato, che ogni giorno ispirano e danno nuova linfa ed entusiasmo alla mia vita musicale che avrei bisogno di un treno speciale per portarli tutti con me. Prestandomi al gioco – forse improbo – della selezione e adeguandomi alla necessità di ristrettezza porterei con me: 1. The Beatles: anche se sono quat-

tro, la loro misteriosa unità creativa li fa sembrare un’unica persona. Li vorrei con me per chiedere loro – nella tranquillità della vacanza – di spiegarmi per filo e per segno e di condividere con me il segreto della loro alchimia. Come hanno fatto a condividere in quel modo l’attenzione per il dettaglio e la continua curiosità, elementi ben presenti in ogni passo della loro evoluzione artistica, da Twist and Shout fino a A Day In The Life. 2. Jaco Pastorius. Ho avuto la possibilità di incrociare di persona il mitico bassista – già membro dei Weather Report – quando ancora ero un ragazzino e lui era già in caduta libera verso la fase tragica della sua esistenza, che si sarebbe purtroppo conclusa con una fine precoce e violenta, il 21 settembre 1987. A Jaco chiederei di portare quel pizzico di follia che alberga in ogni genialità. La sua è stata una meravigliosa cometa nell’universo musicale che continua sempre a splendere, a quasi trent’anni dalla sua scomparsa. 3. Wolfgang Amadeus Mozart. Forse per lui non è nemmeno necessario esplicitare il motivo dell’invito a condividere un viaggio, anche se tra tutte le sue doti sovrumane mi piacerebbe vedere da vicino l’irrisoria facilità di scrittura (che gli consentì fra le al-

tre cose di comporre 600 opere in poco più di trent’anni di vita) e la leggendaria destrezza nell’improvvisazione. Sono anche consapevole che la sua convivenza con Jaco Pastorius potrebbe risultare problematica per la gestione domestica o delle camere d’albergo, ma questo è un rischio che sento di voler correre volentieri... 4. Arturo Benedetti Michelangeli, uno dei migliori pianisti mai esistiti: una chiarezza interpretativa sempre impeccabile, un suono probabilmente mai eguagliato da nessuno, uniti ad un carattere umano tanto generoso quanto imprevedibile. A lui chiederei di venire semplicemente per suonare, magari nel rilassamento della sera a due passi dai coralli, in modo da chiarire a tutti il vero significato della parola Pianoforte. Suonare qualunque cosa, con una lieve preferenza per la Sonata di Chopin in si bemolle minore. 5. John Meyer: finalmente un nuovo guitar hero. Groove, tecnica, assoli ben ponderati e mirati al punto giusto, profonda voce da bluesman ma con salutari aperture rock e soul. Una promessa già confermata da sei solidi album in studio e tre trascinanti dischi dal vivo. Sarebbe davvero interessante vederlo all’opera con gli altri compagni

Il musicista Lorenzo De Finti.

di viaggio: una continua jam session da sogno! Ecco dunque i cinque compagni che ho scelto per il mio viaggio, una trasmigrata estiva nell’isola di Vanua Levu, nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico: una vacanza dall’esito senz’altro imprevedibile. E approfittando sia della straordinarietà degli ospiti sia dell’agognata occasione di staccare la spina dalla quotidianità, porterei con me anche la mia famigliola. La compagnia perfetta e più gradita. I compagni

1. The Beatles 2. Jaco Pastorius 3. Wolfgang Amadeus Mozart 4. Arturo Benedetti Michelangeli 5. John Meyer

La Rsi e i numeri dei mondiali Visti in tivù Quello

che si è appena concluso è stato un mese d’oro per il Servizio pubblico

Antonella Rainoldi Per una volta niente recensioni, ma solo una filza di numeri. La ragione è presto detta: questa rubrica si è presa qualche giorno di riposo. Lontani dal video, intenti a svacanzare in Bassa Engadina, ci serviamo di questo spazio per tirare le somme del periodo più vivo della programmazione estiva. Inutile fare gli ingenui: in questi anni di convergenza tecnologica e di frammentazione dei consumi, la tv e il sistema dei media sono cambiati profondamente. Ma, come sempre, lo schermo casalingo accresce il suo potere di aggregare pubblico e fare ascolti quando c’è lo sport e soprattutto il grande calcio. Così tocca parlare di un successo fragoroso. Con la messa in onda di tutte le 64 partite, e una copertura complessiva di 111 ore, 21 minuti e 9 secondi, quello dei Mondiali brasiliani si è rivelato un mese da incorniciare per la RSI. Lo testimoniano i dati forniti da Mediapulse. Da metà giugno a metà luglio, tre incontri in particolare si sono confermati un appuntamento altamente remunerativo: Svizzera-Ecuador, il 15 giugno, Germania-Argentina, il 13 luglio, e Svizzera-Argentina, il 1 luglio. Il primo è stato seguito da 109’800 spettatori, il secondo da 107’000 e il terzo da 102’800. A guidare la classifica dei match più visti è dunque stata una delle performance più rilevanti per le sorti della Nazionale. Ma anche quelle «meno rilevanti» hanno riscosso buoni ascolti. Ogni incontro trasmesso dalla RSI ha infatti raccolto una media di 41’000 spettatori, per uno share del 46,4%. Durante i Mondiali brasiliani La2 è stato indubbiamente il canale più visto nella Svizzera italiana, ma anche la programmazione alternativa e complementare della prima rete ha portato i frutti tanto sperati. Grazie soprattutto all’informazione e alle fiction, genere femminile per eccellenza, La1 ha raggiunto, tra le 18 e l’una di notte, uno share medio del 19,1%. Sommando questa cifra al 32,3% portato a casa da La2 nella stessa fascia oraria, si arriva a più della metà della platea televisiva (51,4% complessivo). Tradotto in termini pratici, dal 12 giugno al 13 luglio più di uno spettatore su due si è sintonizzato sulla RSI. A ciò si deve aggiungere il successo della app RSI Mondiali FIFA 2014, scaricata più di 17’000 volte nella versione iOS e più di 5500 nella versione Android.


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Cultura e Spettacoli Rubriche

In fin della fiera di Bruno Gambarotta Per una pacca sulla spalla Ogni scusa è buona per ritornare in Sicilia. Come l’invito da parte dell’Ordine dei giornalisti dell’isola a prendere parte attiva al corso di aggiornamento. Il tema sul quale dovevo intrattenere un centinaio fra giornalisti e pubblicisti della provincia di Agrigento era la deontologia del linguaggio televisivo. Ho accettato con quella discreta dose di incoscienza che non mi abbandona mai e che mi ha sempre permesso di galleggiare sui marosi della vita. Nelle poche occasioni in cui mi è capitato di sedere al di qua di una cattedra ho potuto constatare che per il docente si verifica un benefico scambio con l’uditorio. È necessario che colui che inizia a parlare non abbia idee chiare in testa, così man mano che va avanti se le chiarisce mentre coloro che ascoltano, se sono entrati in aula con qualche certezza, alla fine della lezione l’hanno persa. Ho iniziato prendendola alla larga, citando a memoria una frase di Woody Allen pronunciata in un’intervista che mi aveva molto colpito; il noto regista aveva detto: l’unica cosa

che conta nella vita sono le relazioni. Ne consegue che un giornalista senza relazioni non esiste, la sua ricchezza è la sua agenda, con i numeri di telefono che lo mettono in condizione di raggiungere direttamente i personaggi pubblici, difesi dalle segretarie, dai membri dello staff e dagli addetti stampa; gli atleti se uno si occupa di sport, gli attori o i cantanti se lavora nel servizio spettacoli, i politici se fa il cronista parlamentare o giudici e poliziotti per la cronaca nera. Però tutte le relazioni, nessuna esclusa, sono anche pericolose. Un tempo i giornalisti andavano in cerca delle notizie, adesso devono difendersi dalle notizie, i loro antagonisti sono i colleghi degli uffici stampa che li bombardano di richieste. Un buon ufficio stampa non si limita a redigere degli ottimi comunicati e a inviarli tempestivamente alle varie redazioni; deve anche avere, all’interno di ogni redazione, il suo «agente all’Avana», da attivare per garantirsi che quel comunicato abbia visibilità. In pratica la città è attraversata da una

lui, prima ancora di scambiarci i soliti convenevoli (come stai? dove andrai durante le feste di Natale?) mi domanda: di cosa hai bisogno? Non ho ancora finito di spiegarglielo che mio fratello è già ricoverato. L’amico si congeda dicendo: dobbiamo vederci uno di questi giorni e io so già che quel giorno arriverà quando mi chiederà di fare il moderatore a un convegno che gli sta particolarmente a cuore. Il canale è biunivoco; dopo aver atteso per un mese che gli addetti finissero di installarmi Alice per avere in casa la connessione internet, ho telefonato ai colleghi dell’ufficio stampa della società telefonica ponendoli di fronte a una scelta: preferite che racconti la mia odissea sulle pagine di cronaca locale del giornale al quale collaboro oppure mandate qualcuno in grado di risolvere una volta per tutte il mio problema? Inutile aggiungere che nel pomeriggio dello stesso giorno avevo per casa una squadra di super tecnici. Un bravo giornalista deve fare ogni giorno l’esame di coscienza e chiedersi se il servizio che si appresta

a scrivere o a realizzare possa fare il gioco di qualcuno. Però è difficile resistere alle tentazioni, non tanto di fronte a regali o a favori, quanto a gesti che fanno leva sulla vanità di ciascuno di noi. Gli uffici stampa in questo sono diabolici: nella cena che segue l’anteprima, ti fanno sedere al tavolo d’onore, di fianco alla famosa attrice; poi come fai a scrivere che quel film ti ha deluso? Ti invitano al viaggio inaugurale della nuova linea Torino-Istanbul; in volo si brinda con lo champagne e all’arrivo si viene ospitati in un hotel con vista sul Bosforo. Al ritorno scriverai forse che i sedili erano stretti e che in volo la cabina passeggeri diventa un suk dove vendono di tutto? Non scherziamo. Bisognerebbe imitare i colleghi statunitensi che si fanno assumere come autisti o come camerieri negli hotel che ospitano le delegazioni straniere. Poiché camerieri e autisti sono invisibili, loro possono realizzare gli scoop. Ma loro hanno il premio Pulitzer, noi quando va bene la pacca sulla spalla da parte del capo servizio.

una qualsiasi. Da una buona fortuna che sarebbe potuta capitare anche noi. Non si invidia il rocciatore che ha raggiunto tutti gli Ottomila, lo si ammira, e chi mai di noi saprebbe superare quota tremila, pure in funivia? (ricordo un malore la prima volta che superai quel limite sul Bianco, il nonno mi sostenne, nessuna invidia per Messner). Chi di noi invidia bellezze da Hollywood, pettorali di marmo? Lontani, lontani da noi. L’invidia è solo per coloro «che sembrano o sono i nostri pari, intendendo per pari coloro che sono simili a noi per stirpe, parentela, età, disposizione, reputazione e beni», dice infatti il proverbio citato sempre da Aristotele che «il familiare sa anche invidiare». Si invidia quindi chi ci è simile, si ha «tristezza» per i suoi beni, di conseguenza ci si procura compiti aggiuntivi: maldicenza, diffamazione, godimento delle disgrazie del prossimo, tristezza

per la sua prosperità. Un’attività instancabile, intensa, che non perde occasione per denigrare, insinuare, sforzarsi nell’innaturale godimento per il male (se pur altrui, all’uomo non viene naturale apprezzare le azioni malvagie, quindi è comunque uno sforzo, una fatica). Si accompagna ai primi passi dell’umanità, è vero, in fondo Caino era solo invidioso della benevolenza divina verso suo fratello Abele, anche se probabilmente i sacrifici di Abele erano davvero frutto di sacrifici personali, quelli di Caino forse solo apparenti. Forse. Ma è meglio pensare così, lascia più tranquille le nostre coscienze in cerca di una spiegazione, anche per le preferenze di Dio. Comunque Caino era invidioso e quindi oltre a rodersi per il bene di Abele si sobbarcò la fatica del primo omicidio, e la punizione, l’esilio, l’estrema protezione dello stesso Dio, che gli era sembrato ingiusto eroga-

tore di preferenze: «nessuno tocchi Caino». Un vero labor, lavoro e fatica, questo provare invidia. Donne della generazione sbagliata, non ancora nonne, non più valchirie, respirate a fondo, come vi insegnano ai corsi di yoga che certo frequentate. Queste, queste ragazze che hanno trent’anni, sono un’altra razza, un’altra tribù. Non stiamo a recriminare, forse è anche un po’ merito nostro, anche. Ma ora non è l’ora dei confronti, non siamo pari, non meritano invidia. Sono un’altra cosa. Guardiamole con l’affetto riservato alle nipotine, non affatichiamoci con l’invidia e i confronti, per una volta c’è qualcuno (qualcuna) che si assume responsabilità. Per ora, andate dal parrucchiere, al mare, scrivete quel saggio rimasto a metà, studiate l’ebraico. Vi chiederanno consiglio, aiuto, e vi troveranno riposate, in nulla simili a chi è «di livore sparso».

morte. In realtà quello di suo padre era un ricordo: quand’era giovane a Bagheria c’era un solo fotografo, e siccome per scaramanzia i vecchi non volevano farsi fotografare (lo sapevano bene che quando i figli dicevano loro: «Papà fatti fotografare!», quei ritratti sarebbero diventati gli ovali sulle loro lapidi), il fotografo Coglitore veniva spesso chiamato dalle famiglie in lutto per fare un primo piano del defunto: «Dopodiché, – racconta Scianna – con grande perizia artigianale, a matita, direttamente sulla lastra, gli disegnava gli occhi. Era molto bravo Coglitore e quando presentava il ritratto finale, invariabilmente, con orgoglio commentava: «Non pare vivo?». Il guaio è, però, che si era talmente specializzato nel ritratto del caro estinto che quando fotografava i vivi, per esigenze di passaporti o carte di identità, ne venivano fuori immagini piuttosto cadaveriche…». Sono racconti da 5½ o 6. Come quelli contenuti nel volume, appena uscito, Visti&Scritti (edito da Contrasto). Ritratti e racconti, ogni ritratto una storia. Il bisnonno Giacinto (rigoro-

samente fotografato da morto), larga barba ottocentesca. Due vecchie donne in chiesa durante la settimana santa nel 1964. Contadini al circolo di Riesi (Caltanissetta), «coppole nere per lutto, non per mafia come, chi lo sa perché, si crede al Nord (…), le mani scabre e polite come vecchi utensili aspettano le carte per il gioco». Tre compagni d’oratorio a Bagheria nel 1960: una foto realizzata con la Woigtlander Vito C, che il padre di Ferdinando gli aveva portato da un viaggio «in continente» con la moglie fatto «a risarcimento, forse, di quel viaggio di nozze che, sposati in piena guerra, non avevano mai fatto». Un vecchio pescatore di Porticello, 1964: «Lui è molto contento della sua bella spatola. La spatola è una leccornia cucinata alla ghiotta, con un po’ d’aglio, pomodoro e prezzemolo». Clorinda a Capo Zafferano, 1960, sdraiata per terra, sul fianco, una ragazzina con le spalle nude, mano tra i capelli: «Gli amori adolescenziali sono eterni. A condizione, beninteso, che durino pochissimo…». Michele Troja, 1962: «Bambino era stato colpito dalla poliomielite. Trascinava una gam-

ba. E soffriva di una certa irrequietezza d’umore. Ma nessuno di noi ci ha mai fatto caso. Nemmeno lui, mi pare (…). In piccolo gruppetto facevamo insieme di tutto: la pesca subacquea, il calcio, il cinema, la politica, con occhi e cuore innocenti, soprattutto delle interminabili vasche tra piazza Madrice e Villa Palagonia, a credere di rifare il mondo mentre lo scoprivamo…». La signora Natuzza Evolo, Paravati (Calabria), 1970: ti guarda di sbieco, dentro una chiesa, le grandi mani bianche pendenti sul grembiule: specialità parlare con i morti, infatti il compaesani venivano a trovarla per mettersi in contatto con i defunti, per chiederle consigli per un matrimonio o una malattia. Ogni tanto i morti con cui aveva parlato tornavano in paese, perché non erano morti ma soltanto dispersi in Russia. Poi c’è una lunga galleria di celebrità: da Renato Guttuso (elegantemente seduto con le gambe accavallate su una sedia di bambù, la sigaretta tra le dita, i mocassini lucidi) al vecchio Mario Monicelli con gli occhiali tra le dita e un sorriso malinconico: «Non è morto. Si è ucciso», scrive Scianna. Pare vivo e lo è.

fitta rete di canali privilegiati, dei quali i lettori della carta stampata e gli spettatori dei telegiornali hanno solo, quando va bene, un vago sospetto. Però nello stesso tempo intuiscono nel giornalista la figura di uno in grado di arrivare là dove un comune mortale troverebbe la strada sbarrata. E al giornalista fa piacere coltivare quest’immagine. Mi spiego con un paio di esempi, relativi ai miei comportamenti, così nessuno si offende. Mio nipote ventenne, in partenza per gli Stati Uniti, scopre all’ultimo momento che ha il passaporto scaduto e mi chiede aiuto. Con una telefonata all’amico che lavora in prefettura riesco a farglielo rinnovare in ventiquattro ore ma quando quell’amico mi chiederà di dare spazio a una di quelle cerimonie che interessano solo gli addetti, non potrò negargli il favore. Mio fratello deve essere operato alla prostata, l’intervento è fissato per il gennaio 2013. Un anno dopo è ancora in lista d’attesa e mi chiede se per caso conosco qualcuno che lavora all’ospedale. Come no? Chiamo la persona giusta e subito

Postille filosofiche di Maria Bettetini Niente invidia, non è l’ora dei confronti Pant pant. Fermatevi, donne della generazione sbagliata. Donne che non siete riuscite a essere l’angelo del focolare e nemmeno la professionista di punta. Con la mamma, o la zia, che vi diceva perché non stai tranquilla a casa, con il capo che vi diceva perché tante storie per due giorni di trasferta, due cene con ospiti stranieri. Donne che ancora organizzate la vita pratica della medesima zia, del fratello piccolo, dei vostri figli, di quel signore che vi pare di conoscere, già, il marito; tirate il fiato, come si dice popolarmente. Sono arrivate le altre, le aliene. Belle, magre, energiche, naturali. Rosee, sane, poliglotte. Con figlio, ci può stare. Lontane dal pianeta terra, dal vostro pianeta terra. Non hanno sentore alcuno dei vostri problemi, degli antichi aut aut, il loro sguardo è pacato e sereno come quello della Venere del Botticelli, che sorge dal mare tra pudiche onde, per

nulla turbata da rotondità in eccedenza, la dea che sembra dire al mondo mbeh, che vuoi, eccomi qui. Qualcuno, maligno, potrebbe pensare a invidia. Chi, si domanda l’ingenuo lettore, non vorrebbe avere trent’anni, un corpo sano e non brutto, energia vitale e posti di potere? No, caro lettore ingenuo, è qui che ti sbagli. Le donne della generazione sbagliata non riescono a provare invidia. Un’altra fatica, no. L’invidioso è infatti uno cui il sangue si fa «sì riarso», che si diventa «di livore sparso» se si fosse veduto «uomo farsi lieto», donna farsi lieta. Condizione penosa, così descritta da Dante nel Purgatorio. L’invidioso vede «in», con senso avversativo, vede «contro», non sopporta un bene o una qualità posseduta da altri, in particolare da altri che sono pari o vicini a essere pari. Così Aristotele: «l’invidia è un dolore causato da una buona fortuna», ma non

Voti d’aria di Paolo Di Stefano Non pare vivo? È difficile incontrare un fotografo che sia anche un filosofo e uno scrittore, come capita con Ferdinando Scianna. Scianna è nato nel 1943 a Bagheria, lo stesso paesotto del poeta Ignazio Buttitta, in provincia di Palermo. È stato amico di Leonardo Sciascia come quasi tutti i siciliani della sua generazione. O meglio: come dicono quasi tutti i siciliani suoi coetanei. Il fatto è che Scianna lo è stato davvero. Ventenne, al suo paese mise su la sua prima mostra fotografica d’esordio sulle feste religiose di Sicilia e fu lì che Sciascia lo conobbe apprezzandolo al punto da scrivere subito la prefazione di un suo libro: «È il suo fotografare, quasi una rapida, fulminea organizzazione della realtà, una catalizzazione della realtà oggettiva in realtà fotografica: quasi che tutto quello su cui il suo occhio si posa e il suo obiettivo si leva obbedisce proprio in quel momento, né prima né dopo, per istantaneo magnetismo, al suo sentimento, alla sua volontà e – in definitiva – al suo stile». Scianna si trasferisce prestissimo a Milano, dove diventa fotoreporter per «L’Europeo» passando poi a Parigi come

corrispondente per lo stesso settimanale. In Francia finisce sotto le ali del grande Cartier-Bresson e frequenta il giro prestigioso dell’agenzia Magnum. Da allora per qualche decennio gira il mondo con la macchina fotografica al collo e crea opere d’arte in bianco e nero. L’ho conosciuto la scorsa settimana a Santarcangelo di Romagna, dove si tiene un famoso festival di teatro, e mi ha raccontato che da quando la sua schiena non riesce più a reggere il peso dei mezzi meccanici (rigorosamente non digitali), preferisce raccontare la vita scrivendo, mentre prima la raccontava fotografando. «L’importante è raccontare, non importa come». Quando suo padre, che desiderava un figlio medico o ingegnere, seppe che Ferdinando voleva fare il fotografo, esclamò angosciato: «Il fotografo? Ma è uno che ammazza i vivi e resuscita i morti!». Non era un filosofo, il papà di Ferdinando, e non conosceva certo Roland Barthes, ma suo figlio, dopo qualche anno, avrebbe capito leggendo La camera chiara che molto prima di Barthes suo padre aveva colto il rapporto tra la fotografia e la


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Idee e acquisti per la settimana

shopping La Farina Bianca Nostrana

Le avrete di sicuro viste, se percorrete le strade del piano di Magadino oppure della zona dei Terreni alla Maggia nei pressi di Ascona: le mietitrebbiatrici sono da qualche giorno in azione per la raccolta del frumento. Il fattore meteorologico è fondamentale per la maturazione del grano, che predilige temperature tra i 25° e i 26° C e un’umidità ridotta. In questi giorni si farà il bilancio della produzione di un anno intero e si è in trepidazione per il lavoro che inizierà ad essere fatto nel mulino con la macinatura della farina che sarà sulle nostre tavole l’anno venturo. Pochi lo sanno ma la farina, dopo essere stata accuratamente macinata, va stagionata in sili per alcune settimane in modo da ottenere un prodotto ottimo. Infatti, ossidando la farina migliora le proprie qualità. Questo passaggio è di fondamentale importanza per le farine da panificazione come la Farina Bianca Nostrana che per i cultori dell’arte bianca corrisponde ad una farina italiana di tipo 0, ovvero quella più usata per fare il pane in virtù del suo buon contenuto di glutine, che permette di ottenere un pane perfettamente lievitato e soffice. Anche Alessandro Fontana, a capo della produzione del Mulino di famiglia a Maroggia, usa questa farina per panificare ottime pagnotte come le ciabatte, di cui ci ha regalato la sua personale ricetta. «Ho iniziato ad appassionarmi di panificazione proprio con la produzione del pacco da 1 kg di Farina Bianca Nostrana», ci rivela Alessandro. «Con un formato così comodo mi è

Flavia Leuenberger

Attualità È tempo di raccolto, l’oro dei campi si fa farina

Farina Bianca Nostrana 1 kg Fr. 2.–

venuto spontaneo portare a casa qualche pacco per provare a fare qualche pagnotta, una passione che non mi ha più abbandonato tanto che sono sempre alla ricerca di nuove ricette. Recentemente mi sono cimentato con la ricetta del bürli e devo dire che ottenere risultati equivalenti a quelli di una panetteria è sempre una grande soddisfazione». Oltre che essere ottima per il pane, la Farina Bianca Nostrana è perfetta anche per fare dolci. È ora di tirare su le maniche e impastare! / Luisa Jane Rusconi

La ricetta

Ciabattine del mugnaio Mischiate 220 g di Farina Bianca Nostrana a 220 g di acqua e 5 g di lievito di birra fresco. Lasciate 2 ore a temperatura ambiente in una ciotola coperta con pellicola, poi riponete in frigorifero per 18 ore. Unite 100 g di acqua, un pizzico di zucchero e 2 g di lievito di birra fresco. Da ultimo unite 220 g di Farina Bianca Nostrana, 10 g di sale e impastate finché la farina sarà assorbita. Lasciate nella ciotola coperta con pellicola 2 ore, a temperatura ambiente. Versate l’impasto su un piano infarinato e ripiegate i due lembi esterni dell’impasto uno sopra l’altro, come con una lettera, lasciando la piega nella parte inferiore dell’impasto. Premete leggermente con

i polpastrelli, spolverate con semola, coprite con pellicola e lasciate riposare 30’. Tagliate le ciabatte, spolverate con semola, coprite con pellicola e lasciate riposare 30’. Preriscaldate forno e teglia a 275°C per 15’. Quando il forno è caldo spolverate la teglia con semola e adagiatevi le ciabattine. Abbassate a 250°C, infornate per 15’ lasciando dell’acqua nella teglia inferiore per i primi 5’-7’ di cottura poi toglietela. Gli ultimi 5’ trasferite la teglia vicino alle resistenze e lasciate lo sportello del forno leggermente aperto. Così le ciabatte diventeranno croccanti. Raffreddate le ciabattine su una gratella.


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Idee e acquisti per la settimana

Raviöö all’orto grigliato

Loredana Mutta

Novità Dall’orto al piatto, il gusto delle verdure di stagione

ne e peperoni colorano di sapore questa appetitosa pasta ripiena. Per dare il massimo del gusto ai raviöö le verdure vengono dapprima grigliate per poi essere tritate grossolanamente. La melanzana e la zucchina, con la loro polpa cremosa, ben si sposano al peperone che invece rimane più croccante sotto i

denti. L’uso di peperoni rossi, arancioni e gialli conferisce al ripieno un gusto dolce, morbido e rotondo. Dopo la grigliatura si procede con una marinatura in olio, aceto, aglio e menta lasciando riposare il tutto per una nottata intera, con l’obiettivo di esaltare i sapori delle verdure. L’aggiunta di ricotta nostrana

conferisce morbidezza e cremosità alle verdure, rendendole vellutate e delicatissime al palato. Un primo piatto che si contraddistingue per l’equilibrio tra la texture degli ingredienti e il concerto di sapori che si traducono in bocca in una gioiosa sinfonia di gusto. / Luisa Jane Rusconi

Raviöö all’orto grigliato 250 g Fr. 6.80

Iogurt di montagna per un inizio di giornata equilibrato

Flavia Leuenberger

Il sapore dell’estate racchiuso tra due sfoglie di pasta fresca all’uovo, è quello che propone questa settimana Migros per allietare la vostra tavola. I ravioli nostrani all’orto grigliato del Pastificio L’Oste di Quartino sono farciti con le verdure che contraddistinguono la stagione del sole: zucchine, melanza-

Concedersi una colazione sana ed equilibrata è essenziale per il nostro benessere e per garantirsi la giusta carica energetica per le prestazioni mentali e fisiche quotidiane. Una colazione completa ideale è costituita da cereali quali pane e müesli, che ci forniscono importanti carboidrati, vitamine, sali minerali e fibre alimentari; frutta o succhi di frutta ricchi di vitamine nonché latte e latticini quali iogurt o formaggio per fare il pieno di proteine e calcio; sostanze importanti per mantenere ossa e denti sani e per il buon funzionamento del sistema nervoso e dei muscoli.

Per quanto attiene allo iogurt, la scelta naturalmente non può non cadere sulla gamma di iogurt a km zero della Agroval di Airolo, dal momento che non solo offre una varietà che soddisfa tutti i gusti, ma si caratterizza anche per l’alto valore nutritivo dovuto all’impiego di solo latte vaccino di montagna proveniente da piccoli allevatori della regione che foraggiano i propri animali con fieno e erba di montagna. I freschi sapori più gettonati dell’estate? Ampói (lamponi); Pompianta (mela); Frói (fragola); Natür (al naturale) e Mugnaca (albicocca). Li trovate in tutti i supermercati di Migros Ticino.


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Idee e acquisti per la settimana

La pizza, se ben preparata con ingredienti semplici e genuini, costituisce un pasto completo, al contempo equilibrato, nutriente e sano. Chi poi, invece di andare in pizzeria, la pizza ama prepararsela da sé a casa propria, a Migros Ticino trova un impasto fresco pronto all’uso tutto ticinese. Lanciata con successo lo scorso mese di maggio, la pasta fresca per pizza dei Nostrani del Ticino è preparata dagli abili fornai della Jowa di S. Antonino con cereali coltivati sul Piano di Magadino e nel Mendrisiotto, accuratamente trasformati in farina dal Mulino di Maroggia. Un’irresistibile croccantezza e un aroma caratteristico sono garantiti dall’utilizzo di semola di grano duro e dall’aggiunta di un goccio di olio d’oliva nella miscela. Per ottenere un’ottima pizza è sufficiente spianare con le mani l’impasto su una teglia foderata di carta da forno o ben oleata, lasciar riposare per mezz’ora a temperatura ambiente e farcire a piacere con gli ingredienti preferiti più golosi. Infornare per una ventina minuti nel forno preriscaldato a 210 gradi e… buona pizza!

Flavia Leuenberger

Una pasta per pizza tutta ticinese

Pasta per pizza 500 g Fr. 4.10

A tavola in 5 minuti

Riso Scotti Risotto Parmigiana 5 minuti 580 g Fr. 3.20

Riso Scotti Risotto Porcini 5 minuti 580 g Fr. 3.20 In vendita nelle maggiori filiali di Migros Ticino.

Due nuovi pratici e saporiti risotti del noto marchio italiano Riso Scotti sono entrati a far parte dell’assortimento di Migros Ticino: il risotto alla parmigiana e il risotto ai porcini, entrambi pronti in soli 5 minuti di cottura in acqua. Questi due risotti pronti a base di riso della varietà Arborio non solo ti assicurano un’ottima riuscita, ma si caratterizzano anche per l’assenza di glutine, conservanti e glutammato, e sono pertanto ideali anche per le persone più sensibili agli aspetti salutari. Una confezione è sufficiente per due abbondanti porzioni. La Riso Scotti è oggi un nome e una garanzia a livello europeo nell’ambito della produzione e lavorazione del riso. Quest’azienda famigliare nasce nel 1860 per iniziativa di Pietro Scotti nel cuore della Pianura Padana, territorio privilegiato per la coltura del riso. Innovativa pur rispettando la grande tradizione risicola pavese, la Riso Scotti è stata tra l’altro l’ideatrice in Italia del riso sottovuoto e del riso parboiled. Infine, ricordiamo che alla Migros l’assortimento di Riso Scotti annovera ancora il sempre apprezzato Risotto Milano Classic, pronto in 15 minuti.


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Più benessere animale

Idee e acquisti per la settimana

Collaborare per un valore aggiunto Migros si congratula col suo partner IP-Suisse per il 25esimo compleanno. Insieme hanno fondato nel 2008 il marchio TerraSuisse

I contadini IP-Suisse, che producono per il programma del marchio TerraSuisse, allevano i loro manzi e maiali in stabililmenti rispettosi degli animali, con possibilità di uscire all’aperto. I vitelli vengono allevati in gruppi nel rispetto della loro specie e nutriti con alimenti a base di latte intero e fieno. Le nuove linee direttive di IP-Suisse prevedono che entro la fine del 2014 tutti i vitelli possano uscire all’aperto in permanenza. Il 90 per cento della carne di vitello proposta alla Migros è di qualità TerraSuisse.

Ulteriore sviluppo

L’Associazione svizzera dei contadini che producono in modo integrato, IP-Suisse e il programma col marchio TerraSuisse forniscono su due piani un valore aggiunto per la Svizzera e i clienti Migros. Da una parte, i prodotti certificano «Il meglio dalle aziende agricole svizzere», nel senso di generi alimentari più gustosi e di alta qualità. Dall’altra, i contadini IP-Suisse producono un valore aggiunto in fatto di benessere animale, di colture rispettose della natura e di promozione della biodiversità, che si traduce nella protezione di animali e piante rari e nella creazione di ambienti vitali destinati a tali specie.

Oltre che dalla consapevolezza ideologica, questa cooperazione è caratterizzata anche dallo spirito innovativo. Così IP-Suisse e la panetteria Migros Jowa lavorano per ottenere varietà di cereali svizzeri resistenti alle malattie, che presentino una buona qualità di cottura. Ma per la Migros non è importante solo sviluppare ulteriormente i prodotti, bensì anche approfondire il partenariato in generale. A tal scopo offre ai contadini IPSuisse dei contratti d’acquisto a condizioni interessanti e ricompensa ulteriormente gli allevatori di bovini che accordano ai loro vitelli possibilità di uscire all’aperto superiori alle abituali linee direttive IP-Suisse.

Più Svizzera Nel 2008 la Migros lancia il suo programma per il marchio TerraSuisse, basandosi sulle linee direttive dell’IP-Suisse. I prodotti TerraSuisse provengono al 100 per cento dalla Svizzera. Oltre a ciò, come il suo partner IP-Suisse, Migros s’impegna in molteplici modi per una maggior Swissness nel segmento dei generi alimentari. Entrambi i partner sostengono dal 2012 l’organizzazione Fructus, che si batte per la conservazione di antiche varietà di frutta.

La coccinella come simbolo di un’agricoltura rispettosa dell’ambiente

Latte di pascolo e altro ancora

Quale simbolo di qualità i fondatori di IP-Suisse hanno scelto la coccinella, che dal 1989 contraddistingue generi alimentari ottenuti nel rispetto degli animali e dell’ambiente. Con le loro aziende certificate, 20’000 contadini svizzeri promuovono attivamente la biodiversità, circa 10’000 di loro producono per TerraSuisse, quindi per la Migros. Questo assortimento comprende succhi di frutta, olio di colza, patate, salumeria, pasta, farina, pane, prodotti da forno e, in singole regioni, latte di pascolo. Nutrito anche l’assortimento di carne. In qualità TerraSuisse abbiamo carne di manzo, maiale, agnello e vitello. Circa il 90 per cento dell’offerta di carne di vitello Migros reca il marchio TerraSuisse. / Heidi Bacchilega

Fin dalla prima ora, Migros e IPSuisse costituiscono un partenariato creativo. Così nel 2012 hanno lanciato insieme il latte di pascolo, che è simbolo di una produzione lattiera efficiente e locale. Le mucche che forniscono latte di pascolo brucano erba e fieno della loro azienda e possono uscire all’aperto tutto l’anno. L’alimentazione a base di soia è proibita. Già due anni prima TerraSuisse aveva sorpreso il mercato con una novità: pasta fabbricata con grano duro svizzero.

Più sostenibilità

Il marchio TerraSuisse certifica il meglio dalle aziende agricole svizzere. È garantito dal partenariato della Migros con IP-Suisse. Dei circa 50’000 produttori svizzeri, circa 10’000 producono per TerraSuisse.

Parte di

Generazione M è simbolo dell’impegno sostenibile della Migros. www.generation-m.ch

L’obiettivo nell’ambito del programma di sostenibilità della Migros Generazione M, era di ampliare dal 2010 al 2013 le superficie ricche di viarietà delle azlende IP-Suisse del 30 per cento. Col 50 per cento, questo proposito è stato ampiamente superato.

Più biodiversità I contadini IP-Suisse, che producono nell’ambito del programma TerraSuisse, promuovono la biodiversità mediante misure ecologiche mirate. Ad esempio, inserendo nei campi di cereali superfici seminate a fiori di campo forniscono un ambiente vitale a insetti, uccelli e rettili. Le linee direttive e le basi specialistiche necessarie sono fornite dagli esperti della Stazione ornitologica svizzera di Sempach, che dal 2008 coopera con IPSuisse.

Coltivazione rispettosa della natura Per TerraSuisse la Migros punta sulla farina IP-Suisse. Così in Svizzera la panetteria Migros Jowa è la maggior acquirente di cereali provenienti da coltivazioni rispettose della natura. I contadini rinunciano all’uso di regolatori della crescita, insetticidi e fungicidi. La frutta utilizzata per i succhi di frutta TerraSuisse proviene da circa 200 aziende agricole che coltivano almeno il 60 per cento di alberi ad alto fusto. Si tratta di antiche varietà che contribuiscono anche a offrire un bel paesaggio.


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Idee e acquisti per la settimana

Pane di spelta del 1° agosto Per 3 pani di ca. 350 g

Per il 25esimo compleanno di IP-Suisse, Migros si congratula con TerraSuisse a augura buon appetito. Ingredienti 300 g di farina di spelta originale Classic 500 g di farina di spelta originale chiara 1 cucchiaio di sale 1 cubetto di lievito di 42 g 3-3,5 dl d’acqua tiepida 125 g di quark semigrasso 1 cucchiaio di miele

Procedimento 1. In una scodella ampia mescolate i due tipi di farina con il sale e dispone a fontana. Sciogliete il lievito in poca acqua e versatelo al centro della fontana con il quark e il miele. Amalgamate gli ingredienti e aggiungete il resto dell’acqua poco alla volta. Impastate fino a ottenere una massa liscia e omogenea. Copritela e lasciatela lievitare a temperatura ambiente per ca. 2 ore, finché raddoppia di volume. 2. Dividete l’impasto in 3 pezzi omogenei. Modellate ogni pezzo su poca farina in filoni di ca. 25 cm. Accomodateli in una teglia rivestita con carta da forno. Lasciate lievitare i filoni per ca. 20 minuti. Preriscaldate il forno a 200 °C. Cuocete i pani nella metà inferiore del forno per ca. 30 minuti. Prova cottura: per verificare che il pane sia ben cotto, battetelo con le dita sulla parte inferiore (deve suonare vuoto). Sfornate e fate raffreddare. Tempo di preparazione ca. 30 minuti + lievitazione + cottura in forno ca. 30 minuti + raffreddamento Un pane ca. 42 g di proteine, 7 g di grassi, 188 g di carboidrati, 4250 kJ/1010 kcal

Foto Claudia Linsi, iStock

Esempi di fa Mescolate la rcia: con poca crè senape granulosa e con dadini me fraîche e cetrioli. Sp di ravanelli inferiore del almate sulla metà con fleischkäpane e farcite e foglie d’ins se delikatess alata.

: Esempi di farcia n formaggio o c e n a p il e it rc Fa verdure fresco di capra ecchine e grigliate quali zuate a fette e melanzane taglie aromatiche condite con erb ete con e aglio. Cosparg crescione.

Suggerimento tagliate il pane a metà e farcitelo a piacimento.

Ricetta di

Esempi di farcia: Spalmate il pane di chutney di mango e/o di burro. Farcite con carne secca, fette di pomodoro tagliate fini, erbe aromatiche o foglie d’insalata.

TerraSuisse carne secca tagliata finissima per 100 g Fr. 8.30 TerraSuisse Farina di spelta originale Classic 1 kg Fr. 3.50

TerraSuisse Farina di spelta originale chiara 1 kg Fr. 3.60

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*In vendita nelle maggiori filiali Migros.

Mezza panna per salse, mezza panna acidula e prodotti M-Dessert –.20 di riduzione, per es. mezza panna per salse UHT, 180 ml 1.55 invece di 1.75 Tutte le bevande a base di latte Starbucks, per es. Seattle Latte, 220 ml 1.75 invece di 2.20 20% Latte M-Drink UHT Valflora, 12 x 1 l 12.90 invece di 16.20 20% Gruyère Heidi, per 100 g 1.75 invece di 2.20 20% Raccard Family, 900 g 15.60 invece di 22.30 30% Mini Babybel, retina da 15 x 25 g 5.90 invece di 7.40 20% Pane Passione Rustico e Pane Passione, TerraSuisse, 380 g e 420 g, per es. Pane Passione Rustico, 380 g 2.70 invece di 3.20 20% Pane Piuma grano tenero e integrale, Arte Bianca, 400 g 3.10 invece di 3.90 20% Formaggella Leventina, prodotta in Ticino, al kg 16.80 invece di 24.– 30%

FIORI E PIANTE Minirose, Fairtrade, in diversi colori, gambo da 40 cm, il mazzo da 20 10.80 invece di 12.80 Phalaenopsis 1 stelo, in vaso da 12 cm, la pianta 8.70 invece di 12.50 30% Mix di campanule Get mee, in vaso da 10 cm, la pianta 5.90 invece di 7.80

ALTRI ALIMENTI Cioccolato dell’esercito Frey, UTZ, 50 g 1.50 Tutte le praline Giotto e Raffaello, per es. Raffaello, 230 g 3.80 invece di 4.50 15% Marshmallows Rocky Mountain in conf. da 2, 2 x 300 g 7.80 invece di 9.80 20% Biscotti Chocmidor Coco o Carré in conf. da 3 (in conf. monovarietà), per es. Carré, 3 x 100 g 6.20 invece di 9.30 33% Tutti i tipi di caffè in chicchi da 1 kg, UTZ, per es. Boncampo 5.25 invece di 7.90 33% Tutti i cereali Kellogg’s, a partire dall’acquisto di 2 prodotti, 1.– di riduzione l’uno, per es. Choco Tresor, 600 g 5.80 invece di 6.80 Tutti i sandwich Wasa in conf. da 2, per es. all’erba cipollina, 2 x 111 g 5.20 invece di 6.50 20% Mini pizze alla mozzarella o al prosciutto Casa Giuliana in conf. da 2, surgelate, per es. al prosciutto, 2 x 270 g 6.90 invece di 9.90 30% Scatola del 1° agosto Happy Hour, rotolini per l’aperitivo, 28 pezzi, gipfel al prosciutto, 12 pezzi, quiche gourmet, 12 pezzi 11.85 invece di 16.95 30% **Offerta valida fino al 4.8

Tutti i coni gelato Crème d’or in confezioni multiple, per es. stracciatella, 6 pezzi 7.10 invece di 8.90 20% Tutti i gelati in coppetta, per es. Crème d’or al caramello, 200 ml 2.60 invece di 3.30 20% Hamburger M-Classic, surgelati, 12 x 90 g 7.05 invece di 14.10 50% Tutta la Coca-Cola in confezione multipla, per es. Classic, 6 x 1,5 l 9.90 invece di 13.20 25% Sciroppo al mentastro Heidi, 50 cl 3.50 invece di 4.40 20% Tutti i tipi di pasta TerraSuisse, per es. pipedi spelta originale, 500 g 2.30 invece di 2.90 20% Olio di colza, TerraSuisse, 50 cl 2.65 invece di 3.35 20% Senape Thomy al peperoncino delle Alpi / alle erbe alpine in conf. da 2, 2 x 175 ml 4.20 Maionese, Thomynaise o senape dolce Thomy in conf. da 2, per es. maionese à la francaise, 2 x 265 g 4.– invece di 5.– 20% Ripieno per vol-au-vent M-Classic in conf. da 3, 3 x 500 g o 3 x 400 g, per es. 3 x 500 g 9.70 invece di 12.15 20% Tutte le noci o le miscele di noci Sun Queen Premium salate, per es. miscela di noci, 170 g 3.50 invece di 4.40 20% Snacketti Zweifel in conf. grande, per es. alla paprica, 225 g 4.60 invece di 5.85 Panini misti precotti M-Classic, 270 g 3.20 NOVITÀ ** 20x Tutti i rotoli dolci non refrigerati, per es. rotolo ai lamponi, 330 g 2.95 invece di 3.70 20% Donuts del 1° agosto, 20x 2 x 56 g 2.90 NOVITÀ ** Tutte le torte e i tranci alle carote, per es. torta alle carote, 520 g 6.20 invece di 7.80 20% Tortelloni con carne o ravioli con formaggio e pesto M-Classic in conf. da 3, per es. ravioli con formaggio e pesto, 3 x 250 g 9.– invece di 12.90 30% Thai Chicken Satay o Spring Rolls Anna’s Bestin conf. da 2, per es. Chicken Satay, 2 x 370 g 11.60 invece di 14.60 20% Panettone al metro, 440 g 5.20 invece di 6.50 20%

NEAR FOOD / NON FOOD Tutto l’assortimento di alimenti per cani Asco, per es. Sensitive, 4 kg 9.40 invece di 11.80 20% Tutte le EdT Playboy o i deodoranti spray Body da donna e da uomo, per es. Female Play it sexy, 30 ml 15.90 invece di 19.90 20% ** Pantene Pro-V in conf. da 2, per es. shampoo Repair & Care, 2 x 250 ml 6.15 invece di 8.80 30% ** Head & Shoulders in conf. da 2, per es. shampoo Apple Fresh, 2 x 300 ml 9.40 invece di 11.80 20% **

Società Cooperativa Migros Ticino

OFFERTE VALIDE SOLO DAL 22.7 AL 28.7.2014, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

* In vendita nelle maggiori filiali Migros. OFFERTE VALIDE SOLO DAL 22.7 AL 28.7.2014, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

Always, Tampax e o.b. in confezioni multiple o speciali, per es. assorbenti Always Ultra Normal Plus in conf. risparmio, 28 pezzi 4.40 invece di 5.85 ** Docciaschiuma Kneipp, Principessa del mare o sacchetto per il bagno Viaggiatore dei sogni Kneipp Naturkind, per es. docciaschiuma Delicatezza floreale, 200 ml 7.50 NOVITÀ ** 20x Biancheria intima Ellen Amber Lifestyle in confezioni multiple, per es. slip midi in conf. da 3 9.90 ** Pigiama e camicie da notte Ellen Amber Fashion, per es. camicia da notte 14.90 ** Diversi capi di biancheria intima da uomo in conf. da 3, per es. boxer a righe, taglie S–XL 14.90 ** Boxer da uomo Nick Tyler in conf. da 3, per es. boxer a righe, taglie XS–XL 14.90 ** Boxer da uomo in conf. da 3 con motivo di mucca, taglie S–XL 14.90 ** Pigiama corto da uomo, per es. pigiama corto con pantaloni a righe, taglie S–XL 19.90 ** Salviettine umide Nivea Baby in conf. da 6, per es. Soft & Cream, 6 x 63 pezzi 18.30 invece di 30.60 40% *,** Shampoo extra delicato Nivea Baby in conf. da 2, 2 x 200 ml 6.20 invece di 7.30 15% *,** Detersivi Elan, a partire dall’acquisto di 2 prodotti, 6.95 di riduzione l’uno, per es. conf. di ricarica Flower Moments, 2 l 6.95 invece di 13.90 50% Calgon in conf. da 2 o in conf. risparmio, per es. in gel, 2 x 750 ml 14.90 invece di 19.– ** Ammorbidenti Exelia in conf. da 2, confezione di ricarica + flacone, per es. Florence, 2 x 1,5 l 8.70 invece di 13.– 33% ** Carta per uso domestico Twist in confezioni multiple, per es. Style, FSC, 8 rotoli 5.85 invece di 8.40 30% ** Tutto l’assortimento Tangan, per es. pellicola d’alluminio n. 42, 30 m x 29 cm 2.15 invece di 2.70 20% ** Padelle Titan, set da 2, indicate anche per i fornelli a induzione, Ø 28 + 20 cm 59.– invece di 103.80 40% ** Tutte le cartucce per il filtraggio dell’acqua in confezioni multiple (esclusi articoli dei negozi specializzati), per es. cartucce Duomax Cucina & Tavola, 3 x 3 cartucce 33.– invece di 49.50 3 per 2 ** Tutte le padelle Greenpan, per es. padella a bordo basso Kyoto, Ø 28 cm 27.50 invece di 55.– 50% ** Asciugapiatti in set da 4, diversi colori, per es. turchese 9.80 ** Contenitori per l’ufficio in conf. da 2, per es. trasparenti 29.– invece di 58.– 50% **


È F F A C IL O T T U T U S % 33 DA 1 KG.

5.25 invece di 7.90 Tutto il caffè in chicchi da 1 kg, UTZ 33% di riduzione, per es. Boncampo

In vendita nelle maggiori filiali Migros. Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli M-Budget e quelli già ridotti. OFFERTE VALIDE SOLO DAL 22.7 AL 28.7.2014, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK


E N O I Z U D I R I 20% D 4.00 invece di 5.00

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Duopack THOMY Maionese alla francese 2 x 265 g

Duopack THOMY Thomynaise 2 x 280 g

2.70 invece di 3.40 Duopack THOMY Senape semi-forte 2 x 200 g

Altre informazioni su www.thomy.ch

Nuovo ASSAGGIATE LE SENAPI SVIZZERE

4.20 invece di 8.40 Duopack THOMY Senape con Erbette delle Alpe svizzere e Senape con Peperoncini delle Alpe svizzere 2 x 175 ml

In vendita nelle maggiori filiali Migros.

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Thomy è in vendita alla tua Migros


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 21 luglio 2014 ¶ N. 30

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 21 luglio 2014 ¶ N. 30

Idee e acquisti per la settimana

Festa rossocrociata in mezzo al verde

Un posticino tranquillo all’ombra dei fiori: l’ideale per festeggiare il 1° agosto in grande stile. Istruzioni e consigli per decorare si trovano anche su www.pinterest.com

: Come fare i pon pono otto Stendete uno sull’altr gliateli fogli di carta velina. Ta70 cm. nella dimensione 25 x di 3 Ripiegateli a intervalli n forza a centimetri. Piegate co rdoncino metà e annodate un co llevate al centro. Alla fine, soi di carta. delicatamente i lemb

Con idee semplici ma efficaci si può decorare con stile il posto all’aperto dove si festeggia il Primo d’Agosto. E imbandire una tavolata in cui ogni ospite si senta benvenuto

Non ci vuole molto per trascorrere con un certo stile la Festa nazionale, in compagnia e in mezzo al verde. Con un’appropriata decorazione del tavolo, il padrone di casa può creare un ambiente che si presta perfettamente all’evento. Il tono, naturalmente, lo danno i colori della bandiera rossocrociata. Per esempio, su una tovaglia scura una decorazione rossa e bianca crea un contrasto che si abbina particolarmente bene. Per infondere l’atmosfera giusta, sono indicati come accessori lanterne e lampioncini di carta, oltre naturalmente a qualche fiore. Chi ama le cose semplici ma eleganti, apparecchia il tavolo con stoviglie di porcellana bianca. A volte le idee più semplici sono quelle che ottengono l’effetto maggiore. Per esempio, una bottiglia

dalla bella forma può essere usata come vaso per mazzi di margherite bianche e gerbere rosse. Oppure si può mettere attorno al tavolo qualche vecchia sedia di legno, comprata in un mercatino dell’usato, verniciata di rosso e bianco. Inoltre: non c’è Primo d’Agosto senza mele, che però stavolta servono da base per i cartoncini con i nomi dei commensali a tavola, fissati con uno stuzzicadenti. L’assortimento Migros per il 1° agosto comprende molti elementi decorativi, anche per l’illuminazione. Chi vuol essere creativo, può fabbricare da sé le lanterne, che diffondo la loro calda luce fino a tarda notte. Altrettanto si può fare con lampioncini e pon pon. / Anette Wolffram Eugster; foto Salvatore Vinci; styling Regula Wilson

Suggerimento: Avvolgete il bordo inferiore di alcuni vasetti di vetro con de nastro adesivo colora l Avvolgete dello spag to. sul bordo superiore. o Inseriteci dentro dei ce ri e appendeteli.

I prodotti illustrati sono in vendita nelle maggiori filiali Migros fino ad esaurimento dello stock.

Lampioncini set di 3 pezzi Fr. 6.90

Mini girandola con croce svizzera Fr. 2.–

Palloncini con la croce svizzera 20 pezzi Fr. 6.50

Lumi del 1° agosto 7 pezzi Fr. 4.50

Collana di luminarie da interno 10 LED Fr. 19.80

Candela cubica con croce svizzera Fr. 6.90

Razzo-sorpresa con croce svizzera, coriandoli Fr. 14.80

Stella alpina in vaso Fr. 7.90


TUTTA LA BONTÀ DELLE MONTAGNE SVIZZERE.

1.75 invece di 2.20 Gruyère Heidi per 100 g, 20% di riduzione

3.75 invece di 4.70

5.95 invece di 7.45

2.45

Pancetta alle erbe alpine Heidi* 100 g, 20% di riduzione

Piatto della merenda Heidi* per 100 g, 20% di riduzione

Formaggio grigionese alla panna Heidi per 100 g

3.35 7.20 invece di 9.–

3.25 invece di 4.10

Salumi Heidi* 20% di riduzione, per es. carne secca di montagna, per 100 g

Salsiz del fienaiolo Heidi* 70 g, 20% di riduzione

* In vendita nelle maggiori filiali Migros. OFFERTE VALIDE SOLO DAL 22.7 AL 28.7.2014, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

Burro Heidi 200 g


20% DI RIDUZIONE

Wasa – Il gusto del benessere.

2 Was 0% a San

Duo

dwic

pack

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4.15 invece di 5.20 Wasa Sandwich Duo – formaggio fresco 2 confezioni da 3 x 30 g

5.20 invece di 6.50 Wasa Sandwich Duo – formaggio fresco ed erba cipollina 2 confezioni da 3 x 37 g

In vendita nelle maggiori filiali Migros. OFFERTA VALIDA SOLO DAL 22.7 AL 28.7.2014, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK.

Wasa è in vendita alla tua Migros


30% 4.80 invece di 6.90 EntrecĂ´te di manzo, TerraSuisse Svizzera, imballato, per 100 g

30% 1.10 invece di 1.60 Cosce di pollo superiori speziate Optigal Svizzera, conf. da 8 pezzi, per 100 g

30% 25%

3.80 invece di 5.50

3.90 invece di 5.30

Su tutto l‘assortimento di hamburger, TerraSuisse, Svizzera per es. hamburger al naturale, conf. da 2x115 g / 230 g

Filetto di tonno (pinne gialle) Oceano Pacifico/Maldive per 100 g, fino al 26.7

4.90 Tomino grill con pancetta prodotto in Ticino, pezzo da 110 g

30% 2.30 invece di 3.30 Spiedini Migros, TerraSuisse Svizzera, imballati, per 100 g

In vendita nei maggiori supermercati di Migros Ticino. OFFERTE VALIDE DAL 22.7 AL 28.7.2014, FINO AD ESAURIMENTO DELLO STOCK.


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