Azione 29 del 14 luglio 2014

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXVII 14 luglio 2014

M sh alle p opping agine 39-4 7/

Azione 29

Società e Territorio Nel Gambarogno alla scoperta di Cento Campi e dei suoi tetti di paglia

Ambiente e Benessere Il concetto di «crescita esponenziale» mette in discussione la capacità del nostro pianeta di ospitarci tutti

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Politica e Economia Ashraf Ghani nuovo presidente afghano ma è subito crisi

Cultura e Spettacoli Io, io e ancora io: Zurigo celebra l’artista Cindy Sherman

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di P. Ricard e J-P. Stroobants pagina 23

AFP

Un veterano dell’Europa

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Il labirinto arabo di Peter Schiesser Onestamente: nel 2010, quando a partire dalla Tunisia le prime proteste popolari scossero il mondo arabo, chi avrebbe mai immaginato lo scenario odierno? La sete di democrazia, di libertà, di prospettive di vita ed economiche migliori, in particolare delle nuove generazioni (confrontate con un benessere crescente nel resto del mondo), aveva innescato in brevissimo tempo una dinamica che sembrava inarrestabile: una primavera politica stava risvegliando le speranze delle genti del mondo arabo represse da regimi dispotici. La rapidità del crollo del regime di Ben Alì in Tunisia e le imponenti proteste al Cairo che disarcionarono Mubarak generarono un’illusione collettiva, all’interno e all’esterno del mondo arabo: che – come 25 anni fa con l’Unione Sovietica – bastasse una spallata per far crollare dei regimi che non potevano più trovare posto nella modernità globalizzante del Ventunesimo secolo. La reazione di Gheddafi alle proteste che montavano dall’est della Libia, pronto a bombardare Bengazi, poteva far intuire che non tutti i tiranni avrebbero semplicemente tolto il disturbo. Invece, la volontà di Gheddafi di far

guerra al proprio popolo fu vista come la reazione isolata di un folle despota, cui si poteva por rimedio aiutando, con bombardamenti aerei, gli oppositori del regime, e salvare così la primavera araba da questo tentativo di soffocarla. La spaventosa guerra civile in corso da oltre tre anni in Siria ha invece rovesciato completamente il quadro geopolitico. E la frattura interconfessionale fra sunniti e sciiti che ora sta disintegrando l’Iraq lo rende ancora più incomprensibile e imprevedibile. La primavera araba si è trasformata in un labirinto di campi di battaglia da cui nessuno oggi sa come uscire. Troppo frettolose sono state anche previsioni che la sete di libertà, benessere e democrazia delle giovani generazioni arabe avrebbe relegato ai margini della contesa politica le varie forme di terrorismo e jihad islamica. Si sentenziava che al Qaeda aveva ormai perso il treno. Oggi vediamo invece che ad essere stata superata dagli eventi è l’organizzazione di Osama bin Laden, non il terrorismo islamico, che in parte si sta trasformando militarmente e ideologicamente, assumendo persino le fattezze di un surreale califfato islamico, sorto sulle ceneri fumanti di Siria e Iraq (vedasi il ritratto del nuovo Califfo a pagina 29). Non si dimentichi poi la galassia di gruppi che

si richiamano ancora al fondamentalismo salafita e wahabita che ha influenzato bin Laden: gli uni oggi terrorizzano le regioni del Sahara e subsahariane con le armi provenienti dagli arsenali di Gheddafi, gli altri sfruttano l’instabilità di Paesi come la Somalia e lo Yemen come piattaforma per la loro lotta, anche contro l’Occidente. La parola resta alle armi, e nessuno, nemmeno le potenze occidentali, sa come disinnescare la polveriera araba. Se tre anni e mezzo fa nessuno era in grado di prevedere dove ci saremmo trovati oggi, tantomeno è possibile azzardare ipotesi sul volto che assumerà il mondo arabo fra cinque, dieci anni. La frattura tra Sunniti e sciiti si estenderà ad altri Paesi arabi? Il rischio di disintegrazione contagerà anche Libano, Giordania e altri Stati? Le potenze internazionali e regionali (Stati Uniti, Iran, Arabia Saudita, Russia e Turchia), parteciperanno in prima persona a queste guerre? Non c’è risposta. Solo una certezza: le condizioni – di sottosviluppo e di oppressione – che portarono alle primavere arabe non sono mutate. Pur zittite dalla furia delle guerre, le popolazioni arabe nel loro intimo chiedono ancora pace, benessere, democrazia, giustizia, libertà. Potrà rinascere questa speranza? E quando?


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Società e Territorio A scuola di pronto soccorso Alle elementari di Claro si è tenuta una giornata speciale organizzata dalla Croce Verde di Bellinzona

Tra natura e città Riflessioni sulla rinaturazione della foce del Cassarate

Videogiochi La Blizzard entertainment ha lanciato Hearthstone, un gioco ideato dai due giovanissimi talenti Eric Dodd e Hamilton Chu

La nuova vita di Casa Battaglini

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Capriasca Nel nucleo di Cagiallo Casa Pasquali-Battaglini è sede di esposizioni e incontri,

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dall’inizio di quest’anno è gestita dall’associazione Amici di Cagiallo che ha recentemente allestito una mostra permanente in ricordo dello statista Carlo Battaglini

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Gemma d’Urso

Cento Campi, tante emozioni

Gambarogno La località deve il suo nome a una leggendaria scommessa fatta col diavolo, oggi è un terrazzo naturale

Elia Stampanoni Vangare cento campi in una notte è la scommessa leggendaria che dà il nome a questo luogo, un’oasi di pace sui Monti di Caviano, nel Gambarogno. Sembra che il sagrestano abbia infine vinto la scommessa con il diavolo e sia riuscito a dissodare tutti i campi nel tempo stabilito. Oggi il vasto terreno coltivabile si presenta come un’ordinata scalinata di terrazzi, Cento Campi. Per raggiungere i monti, un’apertura circondata dal bosco, si deve dimenticare l’auto e prevedere una camminata di circa un’ora partendo da Scaiano, frazione sopra Dirinella. La ripida mulattiera è lastricata con ciottoli e pietre e serviva una volta per trasportare a valle il materiale raccolto o prodotto: quindi soprattutto legname, tronchi e fieno. Giunti sul posto, il piccolo nucleo di case si presenta in tutto il suo splendore, con le facciate di sasso e le diverse

Azione Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Gambarogno Turismo

Gambarogno Turismo

Elia Stampanoni

con vista sul lago Maggiore che custodisce l’antica tradizione dei tetti in paglia

strutture in legno. Tutto è circondato dal verde dei prati e dei campi, con i soli rumori della natura da sottofondo. Le case sono tutte raggruppate in un angolo, a ridosso del confine con l’Italia, per lasciare spazio ai terreni fertili, dove l’agricoltura ha avuto in passato un ruolo predominante e vitale. Cento Campi era la prima tappa della transumanza che i contadini intraprendevano ogni anno, a inizio estate, per salire sugli alpeggi. Qui gli animali brucavano qualche filo d’erba che poi veniva falciata e immagazzinata sotto forma di fieno per il lungo e rigido inverno. Le diverse cascine ospitavano le famiglie che seguivano il ritmo della natura, scandito dalla disponibilità di cibo e foraggio. Oggi c’è una sola persona residente tutto l’anno ai 695 metri di altitudine di Cento Campi: è Walter Keller, che nel 1975 è arrivato su questi monti con la famiglia. Proveniente dalle rive del Lago di Costanza, l’agricoltore ha

trovato anche qui un contatto con l’elemento acqua, ma il lago ora può solo vederlo. Il dinamico contadino ha sicuramente contribuito in modo decisivo al salvataggio di un’oasi naturale, dove pace e tranquillità sono tra gli elementi caratteristici. Con il suo lavoro ha permesso di salvare il luogo dall’abbandono: restaurando vecchie stalle decadenti e strappando rovi o vegetali avventizi, ha mantenuto aperta questa macchia verde, limitando l’avanzare del bosco. Sui terrazzi di Cento Campi pascolano oggi mucche, capre e qualche pecora. I terreni vengono in parte falciati e in parte coltivati con patate, granoturco o segale. Dei prodotti che, assieme all’orto e alle uova del pollaio, servono pure al sostentamento famigliare, all’agriturismo (su richiesta è possibile un ristoro con i prodotti dell’azienda) e a mantenere viva una tradizione, quella dei tetti in paglia.

Nel Gambarogno e nella Capriasca l’usanza dei tetti di paglia si è conservata fino al XV secolo. Oggi per rivederne uno bisogna salire a Cento Campi, dove troviamo l’ultima testimonianza di questa tecnica. Le baite presenti nel nucleo avevano in passato una duplice funzione; sopra fienile, sotto ricovero per gli animali. Con il graduale abbandono dell’agricoltura anche queste costruzioni furono dimenticate: alcune sono state ristrutturate e convertite in abitazioni secondarie, altre abbandonate, ma due sono state recuperate nel 1997 dall’Ente turistico del Gambarogno che ha ripristinato la costruzione originale. Il lavoro è avvenuto secondo le preziose indicazioni di un anziano del luogo, che ha permesso di salvare i «segreti» di questo mestiere ormai scomparso. Una volta consolidata la struttura in sasso, è stata ricostruita l’impalcatura del tetto, seguendo le tecniche tradizio-

nali, ossia senza utilizzare né chiodi né filo di ferro, ma solamente legno. I due spioventi del tetto hanno una pendenza notevole (60° al culmine), facilitando lo scorrere dell’acqua e della neve, ma esponendo la copertura al vento. La paglia di segale utilizzata per la copertura del tetto arriva direttamente dai campi coltivati dalla famiglia Keller che ha reintrodotto questo cereale proprio allo scopo. La paglia di copertura si deve infatti rinforzare almeno ogni anno e in dialetto locale si parla di sfolcii’l tecc. I manipoli di paglia seccati al sole vengono legati con ramoscelli flessibili di betulla, ginestra o sorbo e fissati con degli archetti di nocciolo o di castagno sulla cima del tetto. I vari mazzi di paglia di segale sono poi inseriti uno sotto l’altro a lisca di pesce e legati a piccole travi orizzontali. Caratteristico è anche il ciuffo di paglia alla fine del colmo, che pende come conclusione del frontone.

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Con le chiese di San Matteo e Santa Lucia e il lavatoio dell’omonima piazzetta, la Casa Battaglini è parte della memoria storica di Cagiallo, il paesino divenuto frazione di Capriasca nel 2001 quando nacque il nuovo comune dall’aggregazione di Tesserete con i villaggi vicini. Oltre ad accogliere regolarmente mostre, anche prestigiose, l’edificio è stato utilizzato durante gli anni come sede di doposcuola, per gli incontri ricreativi degli anziani del posto – una tradizione mensile mantenuta – e per le colonie diurne. I ragazzi usufruivano inoltre del campetto di calcio e del parco giochi, i quali assieme agli orti comunali occupano i 5mila metri quadrati di spazio verde. Ceduta nel 1991 all’allora comune di Cagiallo, dall’ultimo erede di Carlo Battaglini, l’avvocato Elvezio Pasquali, figlio della sorella dello statista liberale, per la somma simbolica di 117mila franchi, Casa Battaglini avrebbe dovuto diventare sede della scuola d’infanzia e di quella elementare. «A dir il vero tutto è avvenuto un po’ per caso – ci spiega Corrado Piattini che fu sindaco di Cagiallo dal 1988 al 2000 – ero entrato nelle simpatie dell’avvocato Pasquali che non aveva discendenti diretti e gli avevo allora accennato il problema della mancanza di aule scolastiche, non soltanto nel nostro comune, ma nella Capriasca in genere». Nacque così l’idea di adibire l’ex residenza estiva della famiglia Battaglini a sede scolastica. «L’avvocato Pasquali fece quindi eseguire una perizia della residenza estiva costruita nel 1860 dallo zio materno», si ricorda l’ex-sindaco di Cagiallo. Con i suoi 5000 m2 di terreno, l’edificio composto da una dozzina di sale e stanze di cui alcune affrescate, da grandi camini e da una vasta loggia lombarda sotto il tetto era stato stimato a 1 milione e 170mila franchi. «Spiegai all’avvocato che a malapena il comune avrebbe potuto sborsarne un decimo e, con mia grande sorpresa, lui la cedette davvero per 117’000 franchi».

La cessione era vincolata da alcune condizioni, ci racconta Corrado Piattini. Oltre a trasformare la casa in una scuola, l’ultimo erede dello statista chiedeva la posa di una fontana sulla piazza dedicata allo zio e una visita regolare alla tomba della mamma e, una volta lui stesso scomparso, anche alla sua nel cimitero di Lugano. Fino ad ora però, vuoi per il passaggio al nuovo comune, vuoi per mancanza di fondi, la fontana desiderata dal donatore non ha ancora trovato spazio sulla piazzetta. Nemmeno il progetto per la scuola è mai stato realizzato perché nel frattempo la carenza delle aule in Capriasca era stata in parte risolta dall’apertura di una nuova sede elementare a Tesserete, nel prefabbricato oggi ancora occupato nell’attesa che si ultimi la trasformazione dell’ex caserma. «Casa Battaglini è però diventata un luogo d’incontro molto attivo, per gli anziani, per i ragazzi delle scuole, per le feste e le mostre», sottolinea Corrado Piattini. Con il passare degli anni e il cambiamento amministrativo avvenuto a Cagiallo aggregato nel nuovo comune allargato di Capriasca, Casa Battaglini perse un po’ del suo lustro, il suo stato iniziò lentamente a deteriorarsi, perché il nuovo comune non aveva a disposizione sufficienti fondi per restaurarla. La svolta avvenne nell’estate del 2011. Quell’anno, un gruppo di abitanti del nucleo di Cagiallo decise di organizzare nel giardino di casa Battaglini la festa nazionale del 1° d’agosto, aperta a tutta la popolazione. Quella serata fu un successo e diede il via ad una nuova tradizione. Da lì nacque l’idea di costituire un’associazione. «In un primo tempo pensavamo di operare come un gruppo ricreativo incaricato di organizzare incontri conviviali nel nucleo», ci raccontano i quattro membri del comitato, Mireno Campana, Lorenzo Malosti, Alberto Bernasconi e Fabrizio Castrogiovanni, tutti abitanti del posto. «Abbiamo quindi deciso di intervenire concretamente per far sì che casa Battaglini non andasse totalmente a catafascio». Battezzata Amici di Cagiallo, l’associazio-

Costruita nel 1860 la casa è un classico esempio di residenza estiva di famiglia borghese. (Ti Press)

ne ha così preso in mano le redini della conduzione dello stabile e, dallo scorso 1° gennaio, lo gestisce per conto del comune di Capriasca. «Dopo alcuni incontri con le autorità comunali, abbiamo proposto al Municipio di occuparci della casa per un anno, a titolo di prova», precisa il presidente dell’Associazione, Mireno Campana. «Alla fine dello scorso anno, dopo averci organizzato la serata di ricevimento dei diciottenni, i membri dell’Esecutivo si sono accorti che alcuni lavori urgenti andavano realizzati». Sono così state restaurate le due sale del pianterreno, la più grande dove si tengono solitamente le mostre e quella accanto riservata a riunioni e conferenze societarie. Intervenendo però in tutto l’edificio con lavori di manutenzione di base e di pulizia, gli Amici di Cagiallo si sono accorti che in nessun locale dei tanti che compongono la dimora ot-

tocentesca di stile lombardo c’era un accenno diretto al grande statista che l’aveva fatta costruire. Così, dopo un certosino lavoro di ricerche e recupero e un adeguato restauro dei pezzi e dei mobili più danneggiati, curato da Alberto Bernasconi, la grande sala del primo piano è diventata la sede della mostra permanente dedicata a Carlo Battaglini. Vi si possono ammirare alcuni suoi busti, quadri e ritratti, documenti originali, oggetti personali e una cabina doccia molto ingegnosa. «La mostra è visibile su appuntamento – precisa Mireno Campana – e chi è interessato può consultare il nostro sito www.amicidicagiallo.ch». Di progetti, l’associazione ne ha tanti. Saranno realizzati a poco a poco con gli introiti derivanti dall’occupazione della casa, che può essere affittata per riunioni societarie, feste private o esposizioni. Il solo uso esterno del parco è invece gratuito come pure le ri-

Chi è Carlo Battaglini Nasce a Cagiallo il 2 luglio 1812 in una famiglia di intellettuali liberali. Figlio di Antonio, avvocato, il giovane Carlo è destinato alla carriera ecclesiastica e nel 1831 entra al collegio Elvetico di Milano. Considerato troppo liberale, le sue idee non piacciono alla polizia austriaca, perciò Carlo lascia Milano per Ginevra dove intende studiare diritto. Nella città di Calvino si lega a numerosi profughi italiani esiliati tra cui Giuseppe Mazzini con il quale stringe uno stretto rapporto. Nel 1835, conclusi gli studi torna in Ticino e entra come praticante nello studio legale di Giacomo Luvini a Lugano, rafforzando così le sue idee liberali. In poco tempo diventa capo carismatico del partito. Convinto sostenitore dei valori del Risorgimento è vicino alle tematiche socialiste quali l’idea di progresso e di giustizia sociale. Promuove anzitempo una visione euro-

peista. Nel 1838 diventa direttore de «Il Repubblicano della Svizzera italiana» e lo resterà per quasi 20 anni. La sua carriera politica inizia con l’entrata al Gran Consiglio ticinese dove siede dal 1839 al 1848 e successivamente dal 1852 fino alla sua morte nel 1888 e che presiede per ben sette volte. Nel 1844 è deputato della Dieta federale e consigliere nazionale dal 1848 al 1850, dal 1862 al 1875 e infine dal 1882 al 1887. È anche consigliere agli Stati dal 1855 al 1856. Infine dal 1878 al 1888 è sindaco di Lugano. Nel 1861 ha un ruolo importante nei negoziati per la regolamentazione del confine italo-svizzero e nel 1865 è tra i promotori della Ferrovia del Gottardo. Da notare, infine, che Carlo Battaglini si è occupato della progettazione del nuovo codice penale svizzero, a tutt’oggi considerato come uno dei migliori d’Europa.

unioni mensili degli anziani. «La casa è a disposizione di chiunque ne faccia richiesta che abiti o meno in Capriasca» tiene a sottolineare il comitato. Le migliorie previste a medio e lungo termine toccheranno le sei sale del primo piano (oltre a quella che accoglie la mostra permanente) che fungeranno anche da spazi espositivi. La vasta loggia del sottotetto diverrà un open space le cui ampie balconate ora aperte disporranno di un sistema di chiusura per la stagione fredda. «La nostra associazione ha per unico scopo che la casa rimanga un luogo ben tenuto, vivo, dove ci si possa incontrare e trascorrere momenti conviviali» concludono gli Amici di Cagiallo. Municipale del comune di Capriasca, a capo del dicastero del turismo, l’architetto Lorenzo Orsi, lui stesso abitante nel nucleo di Cagiallo, si dice soddisfatto dell’accordo concluso con l’associazione di sostegno: «Casa Battaglini ha un grande valore storico per il quartiere e ci dispiaceva di non essere in grado di intervenire come avremmo voluto, innanzitutto per mancanza di fondi – ci dice –, nel 2013 ci siamo però resi conto che certe migliorie andavano fatte subito. In quest’ottica abbiamo intrapreso alcuni lavori di base al pianterreno, investendo la modica cifra di 15mila franchi. La proposta dell’associazione Amici di Cagiallo di prendere a carico un mantenimento costante dell’edificio è stata ben accetta». Gli fa eco Corrado Piattini, fino al 2012 segretario della Regione Valli di Lugano. Le sorti di casa Battaglini gli sono rimaste molto a cuore: «l’iniziativa mi piace e spero che contribuirà a mantenere non soltanto lo spirito culturale dell’edificio, ma anche quello educativo e formativo dei suoi inizi. Per l’avvenire bisognerà forse pensare a una fondazione in grado di raccogliere i fondi necessari per un restauro completo». Informazioni

La grande sala al primo piano è diventata sede di un’esposizione permanente dedicata allo statista nato a Cagiallo nel 1812 (Amici di Cagiallo)

www.amicidicagiallo.ch


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Società e Territorio

Il pronto soccorso, per gioco e sul serio Bambini La Croce Verde di Bellinzona ha proposto una giornata a scuola per conoscere tutti gli enti di soccorso

coinvolgendo Polizia, Pompieri, Samaritani, reparto di Pediatria dell’Ospedale San Giovanni e il servizio «144 bimbi» Sara Rossi Quando i bambini vedono le «cose vere» si mettono sull’attenti, drizzano le orecchie come marmotte, guardano con curiosità. Quante volte abbiamo notato che i bebè sono attratti dagli oggetti quotidiani più ancora che dai giocattoli? E quante volte i maestri constatano che è più efficace alzare la testa dal quaderno, uscire dalle mura scolastiche, facendo, toccando, sperimentando? Se chiediamo a un ex allievo quello che meglio si ricorda della scuola, otto volte su dieci risponderà una gita, un esperimento concreto, la visita in qualche posto dove si svolge «un’attività autentica». I piccoli apprezzano chi gli parla con voce adulta, spiegandogli il come e il perché si stampa un giornale, si costruiscono le case in un certo modo, per fare un frutto ci vuole un fiore. Ed ecco che recentemente a Claro si è svolta una giornata all’insegna dell’esperienza: i bambini delle Scuole elementari hanno saggiato qualche situazione di pronto soccorso, nel buon umore ma consapevolmente che si stava parlando di cose serie. L’idea è arrivata dall’Assemblea Genitori di Claro ed è stata subito accolta dagli operatori della Croce Verde di Bellinzona, che hanno coinvolto la Polizia cantonale, il Corpo Civico Pompieri Bellinzona, i Samaritani Claro/Bellinzona, il servizio «144 bimbi» e il reparto pediatria dell’Ospedale San Giovanni. Andiamo a parlare con Barbara Schild, specializzata in anestesiologia pediatrica all’ospedale di Bellinzona e direttrice sanitaria della Croce Verde Bellinzona e con Tazio Previtali, soccorritore specialista anestesia, presenti alla

Pompieri per un giorno con il sorriso ma consapevoli che nel caso di incendi e incidenti tutti devono reagire al meglio. (Michela Locatelli)

giornata insieme con altri 8 soccorritori della Croce Verde, 10 pompieri, 3 samaritani e 3 agenti di Polizia. Chiediamo di raccontarci come è andata: «Erano coinvolti circa 160 bambini delle elementari. La scuola e il Gruppo Genitori ci hanno accolti benissimo. Abbiamo preparato le nostre postazioni: in una si provava a spegnere un fuoco, in un’altra si saliva

La giornata con i bambini della Scuola elementare di Claro è stata l’occasione per insegnare i primi soccorsi, fare prevenzione e sdrammatizzare situazioni difficili. (Michela Locatelli)

sull’ambulanza, in un’altra ancora si imparavano i primi soccorsi, per esempio a non muovere un compagno caduto malamente, oppure i bambini potevano provare a eseguire il bendaggio di un arto con il gesso, misurare la pressione, medicare una ferita… insomma moltissime attività diverse, tutte collegate al tema del soccorso, più che altro per incidenti fuori di casa. I bambini erano entusiasti, complice il bel tempo, e non erano per niente intimoriti dai macchinari, anzi. Piacevano le divise, le macchine, le moto, ma anche la cura degli altri, la delicatezza, l’attenzione che bisogna mettere quando succede qualche cosa di più o meno grave per non peggiorare la situazione», raccontano. «Una grande soddisfazione in tutti i sensi: abbiamo fatto prevenzione, abbiamo sdrammatizzato sul quello che ruota intorno alla medicina e agli interventi di soccorso (un bambino tranquillo è sempre meglio salvabile o curabile rispetto a uno che urla ed è terrorizzato) e abbiamo forse reso affascinanti alcune professioni che necessitano sempre di nuove leve, per le quali in Svizzera non ci sono abbastanza giovani che le scelgono». Il confine tra spaventare con un eccesso di ammonimenti (attenzione

a questo, a quello, lì c’è pericolo, anche là…) e la banalizzazione del farsi male (rompiti pure che tanto è semplice ricucirti) a noi sembra sottile; non lo è per chi è del mestiere. I bambini si sono divertiti a scoprire i vari mondi che si aprono andando a mettere il naso nei diversi mestieri del soccorso, però hanno sentito chiaramente che farsi male non è uno scherzo. Gli operatori, chi cioè ogni giorno ha a che fare con casi di emergenza, sanno inquadrare nel giusto spazio attenzione, reazione e distensione: il panico non serve a niente, ci sono regole da rispettare per non incappare in incidenti pericolosi, però quando succede bisogna fare le cose giuste ognuno secondo il proprio ruolo. La pediatria come la si intende oggi all’Ospedale San Giovanni e alla Croce Verde di Bellinzona è cambiata molto rispetto a una ventina o anche una decina di anni fa. Una volta arrivavano molti bambini con il «terrore del camice bianco»; oggi non succede quasi più, e questo soprattutto grazie alla formazione del personale. Per esempio, prima di un’operazione si dà molta importanza alla preparazione del bambino, per farlo sentire a suo agio, sereno e fiducioso. «Ci sono molti trucchi che usiamo», spiega Barba-

ra Schild. «Ma per poter essere liberi di tranquillizzare i bambini, magari facendoli ridere, bisogna essere estremamente preparati nel nostro mestiere. Se non sappiamo bene come riuscire a colpo sicuro un prelievo, non ci possiamo permettere di distrarre il nostro piccolo paziente. Essere pediatri non solo in quanto dottori ma con un’attenzione adeguata anche alla psicologia del bambino è dunque difficile ma essenziale per lavorare meglio, curare più in fretta e non creare traumi». Le giornate come quelle di Claro servono poi a tranquillizzare non solo i bambini, ma anche i genitori. Perché se il ragazzo è contento e torna a casa a raccontare che ci si deve mettere il casco, che non bisogna aver paura dei dottori, che se c’è un pericolo è molto meglio stare calmi, che le ferite vanno disinfettate, allora è come se invece che a una persona abbiamo fatto prevenzione a tutta una famiglia. Visto il successo della giornata di fine aprile alle Scuole di Claro, la Croce Verde e l’Ospedale di Bellinzona hanno intenzione di proporre momenti simili a tutte le scuole elementari del comprensorio. Informazioni

barbara.schild@cvbellinzona.ch.

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani James Patterson, Cacciatori di tesori, Salani. Da 11 anni Un’avventura. Da ridere. Per mare. Con pirati, inseguimenti, misteri. Se a ciò si aggiunge che lo scrittore – sebbene coadiuvato dai due colleghi Grabenstein e Shulman, come leggiamo nel frontespizio – è l’esperto di bestseller James Patterson, autore di thriller di successo per adulti, nonché della fortunata serie per ragazzi Scuola Media, capirete subito che proponendo questo libro a un ragazzino si va sul sicuro. Il romanzo inizia con tutti i Kidd, quattro fratelli più il padre, a bordo della loro barca in mezzo al Mar dei Caraibi. I cinque stanno affrontando «quella che aveva tutta l’aria di essere una tempesta perfetta». Ma, si affretta ad aggiungere l’autore, con il tratto umoristico che lo accompagnerà per tutte le quattrocentosessantatré pagine del romanzo: «era perfetta se eravate la tempesta. Non altrettanto se eravate quelli sbattacchiati sul ponte come calzini bagnati dentro una lavatrice». Insomma, la tempesta

sbalza il padre fuori dalla barca: ora è disperso anche lui, come già la madre tempo prima. E i quattro ragazzi Kidd (Tommy: muscoli, entusiasmo e un debole per le belle ragazze; Stephanie: un po’ sovrappeso, ma cervello geniale; e i

frizzanti gemelli Bick e Beck) dovranno cavarsela da soli. E soprattutto portare a termine la missione intrapresa dai loro genitori, una missione che ha a che fare con tesori scomparsi e pericolosi criminali. Oltre all’incalzare avventuroso dell’azione e allo humour sotteso a tutto il romanzo, un aspetto interessante di Cacciatori di tesori è che la storia è raccontata dal doppio punto di vista dei gemelli, più o meno coetanei dei loro lettori: lui, Bick, la racconta con le parole; mentre lei, Beck, la racconta con le immagini (in realtà uscite dalla penna di Juliana Neufeld). Un contrappunto di testo e illustrazioni che aggiunge vivacità al racconto. Anna Vivarelli, Il mistero del dente perduto, Notes Edizioni. Da 8 anni Notes: un editore piccolo ma di grande qualità, con autori del calibro di Guido Quarzo, Anna Vivarelli, Guido Sgardoli, e tutti gli altri di cui potete farvi un’idea visitando il sito www.

notesedizioni.it. Nella collana «Nuvole raccontano» abbiamo letto Il mistero del dente perduto, di Anna Vivarelli, un viaggio onirico nel paese dei denti (da latte) perduti. Andrea il suo incisivo l’ha messo sotto il cuscino, in attesa della fatina. Tuttavia l’addetto al recupero denti non è una fatina, ma un burbero e

strano personaggio, che invita Andrea a seguirlo, per andare a visitare il deposito dei denti. Bellissima e visionaria la descrizione del deposito, in un Altrove che ricorda i laboratori degli elfi di Babbo Natale, solo che qui, oltre alla dimensione del dono, c’è una dimensione più esistenziale: il dente che cade allude alla crescita, a un’infanzia che procede sul sentiero della vita, un sentiero su cui si comincia a trovare qualche bivio, e a scegliere autonomamente, costruendosi, insomma, la propria storia. Ogni dente un bambino, e ogni bambino una storia, e ogni storia si intreccia con quelle degli altri, perché nessuno di noi è un’isola. Una poetica variante sul mito delle figure fantastiche (fatine, ma in molti paesi anche topolini, come testimonia il recente Ernest e Celestine di Pennac, dagli albi di Gabrielle Vincent), le quali, portando un dono in cambio di un pezzettino d’infanzia che si è perduto, vegliano sui bambini e sui ricordi di chi è stato bambino.


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Società e Territorio

Blizzard, il gigante dal cuore caldo

Videogiochi Anche la più imponente (e conservatrice) azienda videoludica può cambiare, grazie a un gioco

sviluppato internamente da due ragazzi e prestando orecchio alla voce della rete

Filippo Zanoli Immaginate un’azienda tanto potente da generare ogni anno circa un miliardo di dollari di fatturato. Immaginate uno dei suoi immensi palazzoni, zeppi di personale al lavoro su prodotti e marchi leader di settore. Immaginate che, in uno di questi scintillanti alveari iper-tecnologici, due giovani ragazzi stiano lavorando al loro personalissimo prodotto, prendendo appunti su fogli sparsi, su tovaglioli della mensa, buste e cartellette. Da queste annotazioni poi nasce qualcosa che viene presentato ai vertici e piace talmente tanto da diventare, in pochissimo tempo, uno dei cavalli su cui l’azienda punterà nel futuro prossimo. Sembra un estratto da un film hollywoodiano direttamente dall’era yuppie dei self-made men che dalle stalle decollano fino ad arrivare alle stelle, eppure è successo per davvero. L’impresa è Blizzard entertainment, da molti considerata la Pixar dei videogiochi, sdoganatrice dei mondi virtuali, colonizzatrice videoludica dell’est del mondo e detentrice di brand bestseller come Warcraft, Starcraft e Diablo. I due ragazzi invece sono Eric Dodd e Hamilton Chu mentre il gioco da loro inventato partendo, letteralmente, dai ritagli è Hearthstone: Heroes of Warcraft. Blizzard è una di quelle realtà che nel mondo dei videogiochi viene sempre guardata con rispetto e soggezione. Nota per la sua elefantiaca lentezza nel lancio di titoli che arrivano con il contagocce ma sempre levigati alla

perfezione e sempre in grado di fare la differenza in termine di vendite. Come Pixar (almeno, quella di una volta) produce poco ma, quando lo fa, lo fa con chiarezza d’intenti, proponendo prodotti dall’elevatissima qualità e dai budget stratosferici. A differenza della controparte animata, però, sin dai suoi esordi nel 1991 non si è mai distinta per creatività e originalità, preferendo dedicarsi a «fare bene quello che già c’è». Basti pensare ai suoi universi più popolari: quello della serie Warcraft sostanzialmente propone lo stranoto canovaccio «uomini contro orchi» da oltre vent’anni. Simili anche quello di Starcraft: «uomini contro alieni» e Diablo: «uomini contro demoni». Come se non bastasse, nei suoi confronti si sprecano le accuse per plagio per mitologia, onomastica, estetiche e altro da parte di altri creativi e aziende, come è il caso di Games Workshop mamma dei giochi da tavolo della serie Warhammer. Ma l’azienda, sin dalla sua fondazione per mano di tre neolaureati dell’Università di Los Angeles (tutt’ora in posizioni chiave), ha sempre avuto le idee in chiaro ed è andata avanti per la sua strada. Mantra alla base della formula magica: solamente (o quasi) giochi di altissima qualità ed esclusivamente per personal computer. Un integralismo che ha pagato ma, soprattutto di recente, si è dimostrato scomodo e rischioso in un mercato sempre più esigente e in rapido mutamento. Sintomo di questo scollamento con la realtà è la mini-debacle di Diablo

Hearthstone è nato dall’idea dei giovanissimi Eric Dodd e Hamilton Chu. (Blizzard)

III titolo attesissimo che è piaciucchiato ma ha lasciato l’amaro in bocca ai fan che se ne sono lamentati con l’azienda stessa la quale ha però fatto ampiamente, come si dice, orecchie da mercante. E, allora, la gente ha iniziato a disaffezionarsi e a rivolgersi altrove. E tanto è bastato – perché nel presente (e con questa congiuntura) anche il gigante più robusto e inossidabile ha i piedi d’argilla – a far sì che Blizzard cambiasse radicalmente agenda tornando sulla cresta dell’onda (almeno per ora) come una delle realtà più dinamiche ed entusiasmanti della scena: ed ecco arrivare

un’espansione parzialmente gratuita per Diablo III che rinfresca il gioco tanto da renderlo quasi irriconoscibile (e divertentissimo) e il sopracitato Hearthstone, attualmente disponibile senza spendere un centesimo per Pc e iPad. Il figlioletto di Dodd e Chu è un titolo che ricorda il gioco di carte fantasy Magic: l’adunanza. Ve lo ricordate? Inventato dal professore universitario Richard Garfield ha spopolato negli anni 90 e pure oggi viene giocato da un manipolo di fedelissimi. Un mazzo a testa, assemblato con i migliori assi della propria collezione, e si parte per

una sfida all’ultima magia. Anche in Heartstone componente fondamentale è l’acquisto di bustine di carte (virtuali) e la pianificazione delle strategie. Sebbene ricordi a tratti Magic, il gioco ha una sua identità forte e un’immediatezza che permette a chiunque di impararne le basi in poco tempo. Malgrado venga apprezzato in alcune nicchie, quello delle carte collezionabili, non è affatto un genere popolare ed è assolutamente inedito per un’azienda, come Blizzard, che ha sempre fatto del gioco di strategia e di ruolo la sua filosofia. Non stupisce quindi che il titolo abbia inizialmente destato perplessità sia internamente sia tra i fan, dubbi che hanno poi però rapidamente lasciato spazio all’entusiasmo per uno dei prodotti più dinamici e riusciti sfornati dalle fucìne aziendali da molto tempo a questa parte. Un piccolo gioiellino tornito con abilità e passione che riesce a non sfigurare in un carnet di kolossal videoludici da milioni di dollari e che si farà giocare a lungo. Questa politica di sviluppo di videogame che vede piccoli team (composti da grandi talenti) lavorare su titoli di dimensioni più modeste (magari anche gratuiti), da affiancare ai soliti blockbuster stagionali, non è ancora prassi ma potrebbe diventare tendenza dominante in un futuro anche prossimo. È bello sapere che le idee possano ancora comunque trovare l’ossigeno per emergere e fiorire, anche in un campo che si pensava ormai insterilito come quello dei colossi multinazionali. Annuncio pubblicitario Parte di

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 14 luglio 2014 ¶ N. 29

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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Allons enfants (mi scusi, dove?) Quand’è che un fatto, un evento, una res gesta diventa un fatto storico? Quali criteri stabiliscono che, fra mille accidenti ed incidenti della vita quotidiana, alcuni finiscano per aver rilevanza, altri meno, certi nessuna? Altri ancora paiono averla per poi scomparire per sempre dalla memoria storica – o per ricomparire invece magari sotto sembianze ben diverse dall’originale rendiconto quando meno ce l’aspettiamo. La domanda non è oziosa in un’epoca nella quale alcune voci poi non tanto isolate vorrebbero legittimare il negazionismo della shoa e mentre risorgono voci discordanti sulla responsabilità ed il significato di quell’evento orrendo che fu il primo conflitto mondiale nell’anno che ne ricorda il centenario. Per i minimi intenti (auspichiamo solo di spazio e non d’intelletto) dell’Altropologo devono bastare scadenze di un giorno e certo non di epoche. Ma chiedersi, oggi 14 luglio 2014, duecentoventicinquesimo anniversario della Presa della Bastiglia, cosa e perché faccia dell’evento quello che tutti sanno

(o no!?), significa interrogarsi più in generale sulla relazione che intercorre fra «la storia» intesa come sequenza di per sé priva di significato e quella «cultura diffusa» – chiamiamola così – che vaglia e seleziona, plasma, modifica e sceglie – fra tutti – quelli che diventeranno «La Storia». Chiedete a un qualsiasi abitante dell’Occidente europeo che abbia frequentato una scuola di base, che abbia guardato un po’ di televisione o – anche pure – che abbia fatto parole crociate. «La Bastiglia» – o meglio, la sua «presa» – sta nell’immaginario europeo come l’inizio dell’Europa moderna e democratica. Quale scenario più conciso ed adatto a contenere tanto la coscienza quanto il folklore della Modernità: il Popolo, finalmente conscio dei suoi diritti e dei suoi doveri, prende d’assalto la fortezzasimbolo della tirannia reale, dopo una battaglia epica ne libera i prigionieri e dà inizio alla sequenza dei fatti che porteranno di lì a breve alla Rivoluzione Francese, levatrice di tutte le democrazie. O no? Le cose, come sempre, sono molto

più complesse – e molto più confuse, anche. Nel 1789 la Francia languiva in una profonda crisi economica e sociale. Le casse dello stato erano vuote: l’intervento nella rivoluzione americana e un sistema di tassazione iniquo avevano spaccato gli Stati Generali – una sorta di primitivo parlamento basato sul censo – e il Terzo Stato, quello dei Sanculotti, per intenderci, aveva formato per conto suo l’Assemblea Nazionale che aveva a sua volta costituito la Guardia Nazionale: coccarda blu e rossa – i colori di Parigi, con al centro il colore bianco della monarchia di Luigi XVI. Presto le assemblee volanti di cittadini sempre più determinati a imporre una Costituzione passarono dalle parole ai fatti – non ancora «storici», si badi. Dopo aver liberato dalla prigione alcuni granatieri della Guardia che si erano rifiutati di sparare sulla folla (e che furono immediatamente e graziosamente perdonati da un re ormai incapace di capire la reale portata degli eventi) il 12 luglio una folla crescente si scontrò prima con una timida

carica della Cavalleria reale tedesca per poi trovarsi appoggiata dal reggimento delle Guardie francesi che passarono di fatto dalla parte degli insorti. Seguirono ore concitate e confuse: la mattina del 14 luglio fu preso d’assalto l’Hotel des Invalides, dove gli insorti si appropriarono di 30’000 fucili. Mancavano però le munizioni e alla Bastiglia ce n’erano 36’000 chilogrammi: più di un chilo per moschetto – abbastanza per una rivoluzione. L’«assalto» alla Bastiglia fu portato da meno di mille insorti. Invitati a negoziare dal Comandante della Bastiglia, a capo di 82 invalides (soldati invalidi al servizio attivo) e trentadue granatieri del Reggimento svizzero, tre rappresentanti della folla entrarono nella fortezza e lì condussero negoziati senza costrutto fino alle tre del pomeriggio. Attorno alle 13.30 gli insorti si spazientirono ed irruppero nel cortile esterno della Bastiglia. Una delle vetuste catene del ponte levatoio si strappò uccidendo un rivoluzionario. Partirono i primi colpi di fucile seguiti dal panico generale e poi da una

sparatoria. Il Governatore di Parigi De Launay tentò un’estrema mediazione ma gli andò male: attorno alle sei di sera la sua testa issata su di una picca era portata in trionfo per le strade di Parigi. I granatieri svizzeri – tutti eccetto due – furono protetti dalle Guardie francesi per poi essere rimandati ai rispettivi reggimenti. E veniamo ai prigionieri della tirannia reale: al momento della Presa della Bastiglia erano in sette. Quattro erano truffatori falsari di assegni, due erano nobili che erano stati fatti imprigionare dalle loro famiglie perché poco sani di mente ed un settimo, Auguste Tavernier, era stato imprigionato perché complice di un tentativo di regicidio: poco sano di mente, finirà anche lui, come i due nobili suoi compagni di prigionia, in un manicomio. Si racconta che quando il Duca de la Rochefoucauld informò Luigi XVI della Presa della Bastiglia, il Re chiedesse un po’ annoiato: «È una rivolta?». «No, Sire», rispose il Duca, «è una Rivoluzione». La differenza fra un «fatto» e un «fatto storico» sta tutta qui.

affrontare direttamente i suoi. Legga anche lei i libri di sua figlia e cerchi di capire perché la coinvolgono tanto. Eviti di darle consigli e di rievocare «i suoi tempi», non serve a niente. Se la vede particolarmente turbata la abbracci come faceva quando era piccola. Recentemente una ragazzina, appassionata delle stesse letture e degli stessi film prediletti da sua figlia, mi diceva che quelle storie di vita, apparentemente disperate, le danno speranza perché mostrano come non abbia importanza la quantità ma la qualità dei sentimenti. In un attimo di intensità si può concentrare tutto l’amore di cui si ha bisogno. Purtroppo la nostra epoca manca di un lessico dell’affettività. Siamo degli analfabeti emotivi. Per secoli la cultura ha dato voce e immagine al nostro più segreto sentire, ma ora quella sorgente sembra essersi esaurita. Pensi al teatro tragico, all’opera lirica, alla letteratura romantica, alla poesia e ai romanzi

storici, niente a che fare con i raccontini minimalisti, i filmetti televisivi e gli spot pubblicitari, che pure influenzano i nostri ragazzi. Per rimettere in circolo un patrimonio espressivo che rischia di andare perduto, mi auguro che gli insegnanti ripropongano i classici, opere che non hanno età. L’importante è che i ragazzi comprendano che, sebbene lontani, quelle rappresentazioni parlano di loro, delle loro potenzialità, delle possibilità inesplorate che il futuro contiene, aiutandoli a disegnare un mondo al di là della realtà quotidiana, dei piccoli interessi, della paura che spesso frena la creatività dei loro slanci vitali.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi I classici per i ragazzi di oggi Cara Silvia, abbiamo una figlia unica, Elisa, molto amata e molto seguita. Ora ha sedici anni, una figura armoniosa ma un carattere ombroso: è brava a scuola, riesce bene negli sport eppure non è felice. Qualche anno fa ha avuto un periodo di anoressia dal quale, per fortuna, è riuscita a emergere con l’aiuto di una buona psicologa. Ora invece mostra sintomi d’ipocondria. Un giorno si sente stanca, l’altro non dorme, l’altro ancora non digerisce, d’improvviso compare e scompare un terribile mal di testa, ieri aveva una nevralgia ai denti inferiori… Domani chissà! In questa situazione non riesco a capire la passione, condivisa con le amiche, per i libri che raccontano storie di malattie gravissime, come quello di Alessandro d’Avenia Bianca come il latte, rossa come il sangue o la fiction di Rai1 Braccialetti rossi. L’ultima lettura riguarda un gruppo di giovanissimi malati terminali dove, proprio alla fine, scocca un intenso, brevissimo amore. Ho

provato a chiederle che cosa ci trova, e la risposta è stata: «mi piacciono» e basta. Lei che ne pensa? Grazie. / Una mamma in ansia Cara «mamma in ansia», mi scusi se le rispondo prendendo il problema alla lontana ma credo che solo così possiamo comprendere una situazione personale che è anche generazionale. Elisa fa parte della schiera di adolescenti che, anche nella fortunata Svizzera, ha perso di vista l’orizzonte del futuro, oscurato da una nebbia di incertezza e di ansietà. Eppure proiettare le sovrabbondanti energie fisiche e psichiche della giovinezza in un domani possibile e desiderabile, è un compito specifico della crescita. Se questo non accade le energie si ripiegano sull’Io incrementando le cariche narcisistiche, l’amore di sé. Non si dice forse che viviamo in una società caratterizzata da un narcisismo imperante? Fino a

un certo livello l’amor proprio è giusto e opportuno ma, quando supera un certo limite, si trasforma in patologia, in ipocondria. Si parla d’ipocondria quando la sofferenza del corpo è priva di cause organiche corrispondenti. Il beneficio di questa inversione del dolore (dalla mente al corpo) consiste nell’affidare all’organismo l’espressione, ed eventualmente la condivisione, di un malessere che non trova parole per dirsi. Elisa cerca di comunicare, con le sue intermittenti sofferenze organiche, un disagio esistenziale che, in parte deriva dall’età, fragile e inquieta, in parte da una crisi epocale, di cui non siamo in grado di scorgere la fine. Non è soltanto una crisi economica, ma anche morale: un deficit di fiducia e di speranza. Lei mi chiede che cosa potrebbe fare. Innanzitutto rendersi disponibile all’ascolto creando situazioni di calma e intimità. Può essere utile invitare Elisa a raccontare i problemi delle amiche evitando di

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Città cattiva, natura buona: nuovo stereotipo si, urbanisti e politici, anche di casa nostra, impegnati nella tutela e nella valorizzazione degli elementi naturali, contenuti nel paesaggio cittadino. Occorre, giustamente, salvaguardare luoghi quanto mai preziosi, in particolare estuari, foci, stagni, ovviamente là

CdT - Maffi

La reazione è spontanea e giustificata: mentre i centri urbani si espandono divorando spazi verdi e liberi, cresce nei cittadini il desiderio, anzi il bisogno, di riappropriarsi di questo bene sottratto. Parte da qui, da un disagio effettivo e condiviso, la contrapposizione città-natura che, nel corso dei decenni, si è acuita, persino esasperata, caricandosi di significati fuorvianti: d’ordine politico, estetico, morale. Tanto da creare un nuovo stereotipo: la città, simbolo del brutto e del cattivo, la natura del bello e del buono. Da un lato, quindi, cemento, asfalto, traffico, rumori, stress, gli aspetti negativi della realtà contemporanea, dall’altro, boschi, prati, acque limpide, pace, quindi le condizioni che assicurano una vita ideale. Ciò che si è tradotto in una corrente di pensiero popolare e addirittura in una fede che coltiva il mito di una natura tutta virtuosa, garanzia assoluta di benessere individuale e collettivo. Al quale sembrano ispirarsi, a occhi chiu-

dove ancora esistono. E, se non ci sono più, c’è però in serbo una soluzione alternativa. Si ricorre, com’è avvenuto sulle sponde di diversi laghi oltre Gottardo e, recentemente, alla foce del Cassarate, alla cosiddetta «rinaturazione». Si reinventa una situazione del passato, per restituire a un luogo i suoi presunti connotati originali, quelli di prima che venissero alterati da un intervento umano. Si trattava, per lo più, di un argine, un manufatto che, al pari di strade e ponti, nel corso degli anni, era stato assorbito dal paesaggio cittadino, diventandone un elemento, a suo modo storico. Ma questo è un aspetto culturale ed estetico, trascurato dai responsabili del nostro assetto urbanistico che, nel rispetto pure qui di un filone «politicamente corretto», hanno scelto di farsi interpreti, innanzi tutto, della causa della natura. Di conseguenza, si abbatte un argine, cioè qualcosa di utile, che svolge una funzione protettiva, per far posto a un angolo idilliaco, dalla destinazione

vaga. Una spiaggetta, un praticello, una passerella, pietre bianche nel letto del fiume: per fare che? «Per offrire alla gente un punto d’incontro con la natura», rispondono gli ideatori. E poco importa che si tratti di una natura manipolata dal kitsch, del ritorno a un passato che, per forza di cose, non era così. In riva al Ceresio, le donne, sino a un secolo fa, lavavano i panni. Comunque, malgrado gli equivoci a cui si presta, lo stereotipo della natura buona e bella continua a esercitare un fascino e a trovare un seguito, anche fra gli addetti ai lavori. Infatti, la spiaggetta alla foce potrebbe diventare un esempio da imitare. Si è riaffacciata alla ribalta della cronaca la proposta, lanciata anni fa da un gruppo di luganesi bene intenzionati, di rendere balneabile il lungolago, creando spiaggette con tanto di sabbia e ombrelloni. Questa volta, l’idea riparte da persone che se ne intendono, in materia, due giovani donne architetto che puntano, pure loro, su

una possibile riconversione di Lugano: da città finanziaria, commerciale, congressuale, da centro culturale a località vacanziera, di stile mediterraneo. E, come sempre, bisogna rilevarlo, alla base c’è l’esigenza legittima di reagire ai guai provocati da decenni di edilizia speculativa, di dittatura del profitto. Alla quale, adesso, si rischia di sostituirne una di segno opposto: la dittatura che asservisce al culto non della natura vera, che ancora esiste e basta andare a cercarla, bensì di una natura reinventata e illusoria. In gergo, rinaturazione. Insomma, fra città e natura corre un rapporto delicato, a volte ambiguo. E non manca di sorprendere l’incapacità, oggi più che mai imperante, di rendersi conto che, a sua volta, la città rappresenta un bel paesaggio, fatto di pietre, di installazioni, di fabbriche, di ponti, e persino di argini. Per dirla con Mario Botta, «costruire vuol dire trasformare una condizione di natura in una condizione di cultura». Entrambe da accettare.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 14 luglio 2014 ¶ N. 29

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Ambiente e Benessere Mare e divertimento Hotelplan organizza una vacanza balneare a Creta dal 13 al 20 settembre

Tra moschee, madrasse e piazze Reportage dall’Uzbekistan, il paese più ricco di storia fra tutte le repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale

Un pilastro della scienza La scoperte di Andreas Vesalius hanno radicalmente cambiato la medicina

Miniature equine Non dei pony, ma veri e propri cavalli di piccole dimensioni: non si possono cavalcare, ma…

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Pavel Novak

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Quanti umani può ospitare il pianeta? Ecologia e demografia Dopo essersi occupato della Terra dopo di noi, con Conto alla rovescia Alan Weisman

si chiede se non siamo già troppi. Ogni quattro giorni e mezzo c’è un nuovo milione di persone

Lorenzo De Carli Ci sono fenomeni legati ai processi di crescita, e in particolare quella esponenziale, che tendono a sfuggirci – come se non avessimo abbastanza immaginazione, o non avessimo sensi appropriati per percepirli. Un esempio classico è quello che ci chiede d’immaginare di piegare un foglio, e poi ripiegarlo, e poi ancora. È già difficile credere che, meccanicamente, è complicato piegarlo più di sette volte; pressoché impossibile è immaginare che, piegandolo 42 volte, otterremmo un oggetto dello spessore di 395’824 km: la distanza tra la Terra e la Luna. Eppure, il numero 42, ci sembra piccolo. È proprio il concetto di «crescita esponenziale» che ci sfugge; il fatto, cioè, che a un certo punto qualcosa diventa improvvisamente enorme, sfuggendo alla crescita lenta e regolare con la quale abbiamo maggior familiarità. Albert Barlett, un fisico dell’Università del Colorado, racconta di aver chiesto numerose volte al pubblico delle sue conferenze di fare un esperimento mentale, vale a dire d’immaginare a che ora – più o meno – una bottiglia di batteri sarebbe piena a metà, sapendo di far cominciare la duplicazione dei batteri alle 11:00 e che, ogni minuto, si moltiplicano per due. Sono pochi quelli che comprendono che alle 11:59 la bottiglia è piena a

metà. Avessero una coscienza, probabilmente anche i batteri farebbero fatica a comprendere che la crescita esponenziale, a un certo punto, li avrebbe costipati dentro uno spazio improvvisamente apparso angusto e soffocante – eh, già, perché alle 11:30, sembrava esserci ancora molto spazio, e anche dopo un quarto d’ora non si stava poi così male! Così è anche per noi. Nel 1815 eravamo un miliardo; nel 1930 (quando nacque qualche lettore di «Azione»), eravamo due miliardi; lo scorso anno sette miliardi; mentre nel 2050 saremo dieci miliardi. A chiederci di rinnovare la nostra attenzione per questi problemi – dopo anni, durante i quali è stato trattato con sufficienza il lavoro del biologo americano Paul Ehrlich – è Alan Weisman, autore del famoso La bomba demografica e divulgatore scientifico che ha viaggiato in tutto il mondo per interrogare scienziati esperti di ecologia e demografia. Weisman è noto anche per essere autore di La terra dopo di noi, libro nel quale descrive che cosa sarebbe del nostro pianeta dopo la nostra improvvisa scomparsa (inutile dire che conoscerebbe una rapida e rigogliosa ripresa ecologica) e, dopo anni di ricerche, ha scritto Conto alla rovescia. Quanto potremo ancora resistere? La sovrappopolazione è un ar-

gomento sgradevole: nessuno di noi ritiene di essere di troppo e abbiamo, innato, un forte istinto di cooperazione. Ci comportiamo esattamente come qualunque altra specie: disponendo di risorse e di spazio, ci riproduciamo – proprio come i batteri nella bottiglia. Sembra sia difficile coltivare un comune consenso attorno all’idea che, essendo le risorse del pianeta finite, occorrerebbe consumare solo quelle rinnovabili, in modo che anche le generazioni future possano anch’esse goderne. È un’idea che non ci è mai passata per la testa, forse tenuta a distanza dalla convinzione antica che la terra avrà sempre posto e risorse per tutti, e – quella più recente – che gli scienziati «inventeranno qualcosa». Se prescindiamo dalla convinzione, documentata da Weisman in tutte le culture del mondo, che Dio provvederà a risolvere i problemi, lo studio dei sistemi ecologici del passato dimostra che l’ambiente ha una capacità portante, oltrepassata la quale le risorse non si rinnovano più, e prima o poi scompariranno. Esserne consapevoli è difficile, come dimostra bene la lunga serie di società scomparse e documentata da Jared Diamond nel suo Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere. Se ci rendiamo conto che un ecosistema, per quanto complesso, è

comunque un sistema chiuso e finito, allora dobbiamo chiederci quale sia l’optimum demografico. Secondo Weisman «questo sarà il secolo in cui si determinerà quale sia la popolazione umana ottimale per il nostro pianeta. Succederà in uno di questi due modi: possiamo decidere di gestire in prima persona i nostri numeri, di evitare la collisione di ogni linea sul grafico della civiltà; altrimenti sarà la natura a farlo per noi, ridimensionandoci a furia di carestie, sete, caos climatico, ecosistemi al collasso, infezioni opportunistiche e guerre per accaparrarsi risorse sempre più scarse.» Alle parole di Weisman si tende a rispondere, sostenendo che si tratta di catastrofismo gratuito. Il fatto è che tendiamo a negare previsioni sgradevoli, anche perché talvolta non si avverano. Molti ricordano che dopo le previsioni catastrofiste di Ehrlich con la sua Bomba demografica arrivò la Rivoluzione verde, che diede a Paesi come il Pakistan e l’India la possibilità di dar da mangiare a tutti, usando coltivazioni più produttive, fertilizzanti più efficaci, e scavando pozzi per l’irrigazione. Sennonché fu lo stesso Norman Borlaug, il padre della cosiddetta Rivoluzione verde, a ricordare che l’incremento di produttività agricola reso possibile dalle sue ricerche avrebbe

solo procrastinato la necessità di trovare la soluzione del vero problema: la crescita demografica. Intervistando ricercatori di tutto il mondo, Weisman ha maturato la persuasione che l’optimum demografico non significa il massimo numero di persone stipabile sul pianeta come polli industriali, ma il numero di persone in grado di viverci bene senza togliere alle generazioni future la possibilità di fare altrettanto. In Conto alla rovescia s’intrecciano tre filoni di riflessione strettamente interconnessi: la capacità portante dell’ambiente, la sovrappopolazione e i modelli di sviluppo. Weisman è stato in Cina, in Iran, in Giappone, nelle Filippine, in Palestina, in Uganda – dialogando con Cristiani, Musulmani, Buddisti, Induisti; ai quali ha posto molte domande sul tema controverso della pianificazione familiare ma con lo scopo di comprendere qual è il numero di figli compatibile con lo sviluppo sostenibile in questo pianeta. Con Conto alla rovescia Weisman ci sta dicendo che un figlio e mezzo a coppia, in tutti i Paesi, è la misura giusta per disinnescare la bomba demografica, che è indispensabile un’equa distribuzione delle risorse, e che il modello economico che incoraggia il consumismo non è compatibile con il «sistema chiuso» del pianeta Terra.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 14 luglio 2014 ¶ N. 29

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Ambiente e Benessere

«Fino a Samarcanda io ti guiderò…» Reportage Un gruppo di lettori di «Azione» ha seguito l’invito di Hotelplan a visitare l’Uzbekistan

percorrendo un tratto della Via della Seta

Carla Baroni, foto di Lara Bordogna La canzone di Vecchioni, il leopardiano Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, la Via della Seta, Tamerlano, emiri, la steppa: sono le prime cose che vengono alla mente pensando all’Uzbekistan (O’Zbekiston in uzbeko), il Paese più ricco di storia fra tutte le repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale (le altre sono Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Turkmenistan), che annovera la maggior parte delle bellezze architettoniche di queste regioni. Percorrendo un tratto della Via della seta si cammina ovviamente sulla Storia. Le antichissime, affascinanti e misteriose città uzbeke – Tashkent,

mo che nel 15esimo secolo fece erigere un osservatorio, ora ricostruito, di cui sono state ritrovate le fondamenta e la parte inferiore del sestante. La città più sacra dell’Uzbekistan, e forse la più bella, è però Bukhara, con i suoi edifici millenari e un centro storico tuttora abitato, i cui restauri sono stati meno indiscriminati rispetto a quelli di Samarcanda e Khiva, bellissima ma quasi tutta ricostruita. La capitale Tashkent (assurta a «capitale del sud» ai tempi sovietici, prima capitale era Samarcanda) vanta una magnifica Piazza dell’Indipendenza, praticamente un parco curatissimo dove la statua di Lenin è stata soppiantata da una Madre Natura che coccola In alto: la piazza Registan di Samarcanda; in alto a destra, tappeti a Bukhara. Al centro; scene di vita quotidiana. Sotto, il mercato di Tashkent.

Bukhara, Samarcanda, Khiva – costituivano importanti snodi per le carovane che dalla Cina trasportavano le loro merci verso l’Europa. Patrimonio dell’Unesco, conservano preziose testimonianze, ricostruite e restaurate, di una cultura millenaria: abbaglianti moschee («Anche la luna invidia il suo splendore», è stato detto della più bella di Samarcanda), madrasse (le scuole coraniche), mura, fortezze, piazze, palazzi, mausolei, monumenti. Imponente, a Samarcanda, la piazza Registan, l’armonioso complesso architettonico racchiuso fra tre maestose madrasse, la Sher Dor, la Tillya-Kari e la madrassa di Ulug Beg. Quest’ultimo, nipote di Tamerlano, era un matematico e astrono-

un bimbo, il piccolo Uzbekistan che sta crescendo. Eredità dell’URSS, la metropolitana imita in piccolo quella di Mosca, con le stazioni riccamente decorate. Qui abbiamo visto gli uomini cedere rispettosamente il posto alle signore. Educazione d’altri tempi o inconscio retaggio dell’antichità, quando in Uzbekistan vigeva il matriarcato? I tempi del passaggio, delle persone come dei Paesi, sono sempre ricchi di contraddizioni ma anche di fascino, in bilico fra opportunità e rischi, progresso e regressione. Già occupato dalla Russia zarista, poi inglobato nell’Unione Sovietica, l’Uzbekistan si era visto imporre la lingua russa, mentre ora ci

sono le scuole in russo, in uzbeko e in tagiko. La lingua uzbeka, di ceppo turco, originariamente era scritta in caratteri arabi, poi con l’alfabeto latino e in seguito in cirillico, mentre ora si sta cercando di tornare ai caratteri latini. Mancano però le tipografie necessarie per stampare libri a sufficienza per le scuole. Dopo il crollo dell’URSS, il culto di Lenin e Stalin è stato sostituito da quello di Tamerlano (Amir Timur), l’eroe nazionale che sconfisse le orde di Gengis Khan. Il primo e finora unico presidente della repubblica, Islom Karimov, è in realtà un dittatore che viene puntualmente rieletto con percentuali «bulgare» più che sospette. Se non altro cerca di arginare il possibile contagio dei fontamentalismi islamici imperanti nei vicini Afghanistan e Iran. Circa il 90 per cento degli uzbeki è di religione musulmana, ma in genere poco praticante, tranne che nelle campagne (poverissime e arretrate) e particolarmente nella valle di Fergana. Nelle città, le donne vestono all’occidentale, anche con una certa eleganza. Impeccabili gli scolari nelle loro uniformi. Qualche anziana abbigliata in modo tradizionale porta in testa un foulard. Niente veli. Le tribù nomadi, con le loro yurte, sono state stanziate e confinate in una specie di riserva, la Repubblica autonoma del Karakalpakstan. Pulitissime le città (quasi come da noi… una volta), ordinate e sicure. Solo nelle regioni sul confine con l’Afghanistan, dove fiorisce un pericoloso contrabbando di armi e droga, i controlli di polizia sono frequenti. La gente è cordiale e curiosa, rarissimi i mendicanti, non troppo assillanti i venditori, che pure magnificano a gran voce le qualità incerte della loro mercanzia, e preferiscono farsi pagare in valuta estera piuttosto che con fasci di sum (al cambio, per pochi dollari te ne danno una carriolata). Le macchine in circolazione sono praticamente tutte Daewoo (ora confluite nella marca Chevrolet) in buono stato, fabbricate in Uzbekistan, più qualche superstite Lada. L’asfalto delle strade è perennemente disastrato a causa delle escursioni termiche estreme: d’estate si superano allegramente i 40 gradi, mentre d’inverno il termometro scende anche abbondantemente sotto i meno 30. L’Uzbekistan è il secondo produttore al mondo di cotone. L’URSS ne aveva fatto praticamente una monocol-

tura, impoverendo i terreni, causando la penuria degli altri prodotti agricoli e soprattutto provocando la catastrofe ambientale del lago di Aral: una volta il quarto al mondo per estensione, questo bacino d’acqua salata è stato quasi completamente prosciugato dallo sconsiderato uso delle acque dei suoi immissari, utilizzate per irrigare le colture di cotone. Oggi è ridotto a 2 piccoli laghetti, separati da una grande distesa di sabbia e sale. Quello che rimane dei fondali è un cimitero di navi arrugginite, vecchie gru e serbatoi con metalli velenosi.

Città pulite, ordinate e sicure, gente cordiale e curiosa, rarissimi i mendicanti, non troppo assillanti i venditori Il sottosuolo uzbeko è ricco di gas naturale, che finisce tutto in Russia alle grandi compagnie (tipo Gazprom), che poi lo rivendono a prezzi evidentemente maggiorati agli altri Paesi. All’economia locale, tuttora statalizzata, rimane ben poco. Adesso però si stanno costruendo gasdotti verso la Cina, e si pensa che in futuro l’Uzbekistan esporterà tutto il suo gas verso quel Paese. Anche l’uranio va interamente al grande vicino del nord. Nel Paese si coltivano mele, albicocche (si mangiano i noccioli tostati, buonissimi, anche se dovrebbero essere velenosi... sarà tutta questione di quantità), melograni, barbabietole, zucche. Si fa anche il vino, meno da quando Gorbaciov, che aveva dichiarato guerra all’alcolismo, ha fatto tagliare parecchi vigneti. Peccato… Numerosi i filari di gelsi che servono per l’allevamento dei bachi da seta. Vien da cantare: Càta la föia, càtan assée…, come quando anche da noi si produceva quel nobile filato. L’artigianato offre stoffe, tappeti di seta e di lana, oggetti di legno intarsiato, ceramiche. Un po’ di shopping è d’obbligo. Spesi gli ultimi sum e ringraziato Anvar, la giovane guida locale che ci ha accompagnato per una settimana con grande competenza e gentilezza, e con un italiano perfetto, dopo l’esasperante burocrazia aeroportuale il vasto cielo di madreperla di Tashkent ci dà l’ultimo saluto.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 14 luglio 2014 ¶ N. 29

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Ambiente e Benessere

Ambiente e Benessere

L’origine della moderna anatomia Scienza medica Cinquecento anni dalla scomparsa di un grande protagonista del Rinascimento:

Andries van Wezel, alias Andreas Vesalius

Marco Martucci Il 31 dicembre del 1514, cinque secoli or sono, nasceva a Bruxelles Andrea Vesalio, destinato a rivoluzionare la scienza medica e aprire così la strada alla moderna anatomia. Il suo vero nome, fiammingo, era Andries van Wezel, dalla città di Wesel, oggi in Germania, dove la sua famiglia aveva a lungo risieduto. Com’era costume a quei tempi, per farsi conoscere nella comunità scientifica, il nome fu latinizzato in Andreas Vesalius e, per la fama conquistata nelle prestigiose università italiane, divenne Andrea Vesalio.

Vesalius, con il suo De humani corporis fabrica, uno dei pilastri della storia della scienza, ha radicalmente cambiato la medicina Suo padre, discendente di una famiglia di droghieri e medici, era farmacista di corte presso l’imperatore Carlo V e la madre, inglese, era benestante. In questo favorevole ambiente e in un’Europa percorsa da nuovi e profondi fremiti culturali, il giovane Andries non tardò a lasciar sbocciare il suo genio di grande protagonista del Rinascimento. Seguendo la tradizione di famiglia, intraprese lo studio della medicina,

prima a Lovanio, poi a Parigi. A quei tempi, in quelle università e non soltanto, la scienza medica era dominata dalla scuola di Galeno, il medico greco del secondo secolo, indiscussa autorità della medicina europea durante ben oltre un millennio. Per meglio comprendere la situazione della medicina nel Cinquecento europeo e contestualizzare l’opera di Vesalio, è utile soffermarsi un momento sulla persona di Galeno. Nato attorno all’anno 190 nella città di Pergamo, allora nell’Impero romano, oggi in Turchia, il giovane Galeno si formò nelle province orientali, fu ad Alessandria, operò a Pergamo come medico dei gladiatori e, infine, si stabilì a Roma, alla corte di Marco Aurelio. I maggiori risultati, Galeno li ottenne nell’anatomia, lo studio della struttura del corpo. Pur non sezionando cadaveri umani, a quel tempo non s’usava, Galeno osservò e descrisse con grande cura l’interno dei corpi di animali, cani, maiali, pecore, scimmie. Non tutto si poteva applicare alla struttura del corpo umano e ciò rappresentò uno dei limiti di Galeno che, tuttavia, scoprì diversi muscoli, il loro funzionamento, l’importanza della spina dorsale, e l’uso del polso in diagnostica, inoltrandosi in tal modo anche nel campo della fisiologia, lo studio del funzionamento del corpo. Ma, e questo fu il suo secondo grande limite, le idee di Galeno sulla fisiologia e, in particolare, sulla circolazione del sangue erano ben lontane dalla realtà.

Questo era dunque lo stato della medicina europea ai tempi del giovane Vesalio: era più giusto (e, certamente, meno pericoloso) «sbagliare con Gale-

no che aver ragione contro di lui». Ma ormai, in pieno Rinascimento, i tempi erano maturi per una profonda e definitiva rivoluzione scientifica, la nascita

della nuova scienza fondata sull’osservazione, la misura e l’esperimento, il cui coronamento sarebbe giunto di lì a poco con Galileo, nato – un caso? – nello stesso anno della morte di Vesalio e di Michelangelo. Vesalio rompe con la tradizione praticando lo studio dell’anatomia del corpo umano attraverso l’osservazione diretta. Già altri, Leonardo da Vinci mezzo secolo prima e il bolognese Mondino de’ Luzzi addirittura nel Trecento, avevano sezionato cadaveri umani. Ma con Vesalio la pratica anatomica entra in modo definitivo e sistematico nella scienza medica e rivela con precisione e completezza la vera struttura del corpo umano. Già durante gli studi di medicina, il giovane Vesalio era convinto – giustamente, possiamo dire oggi – che, per conoscere davvero com’era fatto un corpo umano, fosse indispensabile sezionarlo. Questa pratica, però, non era vista di buon occhio. In Italia, sull’onda del Rinascimento, si godeva di maggior libertà e, così, Vesalio andò a Padova e in quell’antica università si laureò nel 1537. Prendeva così avvio una brillante carriera accademica, che lo portò a insegnare anatomia nelle storiche università di Pavia, Pisa e Bologna. E proprio in questo antico ateneo, il 15 gennaio del 1540, tenne la prima lezione di anatomia moderna: fu la prima «diretta» anatomica. Diversamente dall’uso del tempo, con il professore in alto sulla cattedra intento a leggere dai libri mentre un assistente

procedeva a una sommaria dissezione, Vesalio riprese l’abitudine – nel frattempo caduta in disuso – del trecentesco Mondino de’ Luzzi. Procedette così in prima persona alla dissezione del cadavere e alla contemporanea descrizione della tecnica usata e degli organi individuati. Questa didattica estremamente in-

novativa e controcorrente contribuì ad accrescere la fama di Vesalio, alimentando al tempo stesso, come sempre succede, invidie e critiche, ma attirando anche torme di studenti. Fra questi, il modenese Gabriele Falloppio (15231562), che proseguì l’opera di Vesalio e passò alla storia soprattutto per le sue osservazioni dell’orecchio interno, la

scoperta delle tube che collegano ovaie e utero – che ancor oggi portano il suo nome – e per l’invenzione del profilattico maschile. Le fondamentali scoperte di Vesalio, nate dall’osservazione diretta e precisa del corpo umano sezionato, difficilmente sarebbero sopravvissute alla sua morte, se non fossero intervenuti almeno tre fatti concomitanti. Primo: il grande successo della stampa, inventata da Gutenberg neppure un secolo prima; secondo: le magnifiche e dettagliate illustrazioni; terzo: il denaro necessario. Così, Vesalio, non ancora trentenne, raccolse tutte le sue osservazioni e pubblicò una delle massime opere nella storia della scienza: Il De humani corporis fabrica, un capolavoro della cultura mondiale, pietra miliare nella storia dell’umanità. Nell’opera, composta da sette libri – sogno di ogni bibliofilo! – è descritta perfettamente l’anatomia umana e le stupende illustrazioni, ancor oggi di grande attualità, opera di Jan Stephen van Calcar, discepolo di Tiziano, presentano il corpo umano in pose sorprendentemente naturali. La prima edizione fu stampata a Basilea nel 1543 per i tipi di Johannes Oporinus. Nello stesso anno, per una singolare coincidenza, fu pubblicato a Norimberga il De Revolutionibus Orbium Coelestium di Nicola Copernico che, insieme al capolavoro di Vesalio, mette fine a secoli di erronee credenze, segnando l’inizio della Rivoluzione Scientifica. A Basilea, mentre seguiva la stampa dei suoi volumi, Vesalio non dimenticò la sua passione anatomica e sezionò il cadavere d’un criminale, ricavandone lo scheletro, ancor oggi visibile al Museo di anatomia dell’Università di Basilea, il più antico preparato anatomico esistente al mondo. Vesalio aveva idee antiquate in fisiologia, campo in cui seguiva la dottrina di Galeno. Mentre in anatomia era talmente eccellente e innovativo d’aver

fatto letteralmente a pezzi la visione di Galeno, della quale dimostrò oltre duecento errori. Nell’interpretazione del funzionamento del corpo umano, egli restava ancorato a non dimostrate credenze, come quella secondo cui il sangue sarebbe passato dalla parte sinistra del cuore a quella destra, ciò che, come fu dimostrato nel 1628 dallo scopritore della circolazione sanguigna, l’inglese William Harvey, non avviene. Dopo la pubblicazione del Fabrica, Vesalio si ritirò dalla ricerca e fu nominato medico di corte di Carlo V e, poi, di suo figlio Filippo II di Spagna. La fine di Vesalio è avvolta nel mistero. Per ragioni che ancora non si conoscono, invidia o forse eresia o forse ancora per aver sezionato un corpo ancor vivo ritenendolo defunto, Vesalio partì dalla Spagna. Con la moglie e la figlia, si mise in viaggio per Bruxelles, sua città natale. Ma, a un certo punto, da solo, prese la via per Gerusalemme. Il 15 ottobre 1564, durante il viaggio di ritorno in Europa, la sua nave naufragò al largo dell’isola greca di Zante, oggi Zákynthos. Il suo corpo non fu mai ritrovato.

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Un nobile pollo Gastronomia Il segreto di un buon cappone sta nel suo grasso, che dev’essere ben distribuito Allan Bay Poco prima di iniziare a scrivere questo articolo, mi ha telefonato un amico. Parlando del più e del meno, gli ho «svelato» il tema che avevo deciso: il cappone. Lui si è sorpreso, mi ha detto: «Ma il cappone si mangia a Natale!» Io gli ho risposto che a me piace e che io lo mangio tutto l’anno e che non ci vedevo nulla di strano. All’inizio è rimasto un po’ interdetto, poi ha aggiunto: «Ma è difficile da trovare in questa stagione». E in effetti questo è un altro discorso: non sono molti i macellai che, seppur con previa prenotazione, sono in grado, in qualsiasi mese, di procurarsi dei capponi. Sostengono infatti che, dicembre a parte, negli altri mesi nessuno glielo chiede, e di conseguenza i clienti non lo trovano. Come uscire da questa impasse? Non lo so. Nel mio piccolo non posso fare altro che suggerire di mangiare il cappone quando volete, anche d’estate! E chiedetelo, insistendo, ai macellai. È poco, lo so, tuttavia se la richiesta dovesse aumentare, poco a poco… Ma parliamo un po’ di questo amato pennuto. Il cappone è un pollo maschio macellato a 6-7 mesi di vita, grosso (arriva anche a 2.5 kg di peso) e castrato almeno 70 giorni prima dell’abbattimento: ed è proprio la castrazione a rendere gli animali più grassi, sia a livello superficiale sia intramuscolare, e con una carne povera di tessuti connettivali, quindi molto tenera. Senza dubbio la castrazione è una procedura molto antica e tradizionale ma anche molto violenta. A molti la cosa non piace, tuttavia – pur essendo un discorso molto importante – l’etica del manipolare e mangiare animali è un argomento che trascende da questo articolo. Dopo la castrazione, i capponi vengono alimentati in modo molto attento, ma per lo più a granturco, per garantire il raggiungimento delle caratteristiche

qualitative richieste. Questo è un punto importante. Se sono alimentati veramente bene e sono allevati ruspanti, il grasso si distribuirà in maniera ottimale. Se sono alimentati in batteria (in Svizzera vietate, ndr.) e mangiando «meno bene», qualunque cosa voglia dire, il grasso risulterà mal distribuito: ed è proprio l’uniformità della distribuzione del grasso a determinare la qualità del cappone. Cercate capponi con il grasso ben distribuito. Anche le femmine sono a volte alimentate come i capponi – ma senza sterilizzazione. Così alimentate si chiamano pollanche. Sono diffuse in Francia, dove vengono chiamate poularde e dove sono considerate il meglio fra i polli. Concordo. Però trovarle è arduo.

Più che il cappone, in Francia sono molto diffuse le femmine: le poularde Come si cuociono i capponi? In tutte le maniere, proprio come i polli, ovviamente avendo l’accortezza di allungare i tempi di cottura. Il brodo di cappone è considerato il più nobile dei brodi: per ottenerlo basterà logicamente lessare a lungo il nostro cappone. Consiglio sempre di chiarificare questo nobile brodo, che vuol dire eliminare tutte le impurità per renderlo limpido. Procedete così. Tenete il brodo per una notte in frigorifero, poi sgrassatelo, è facile farlo perché il grasso si sarà solidificato in superficie. Poi mettetelo in una pentola e unite 4 albumi leggermente sbattuti. Portatelo a bollore, mescolando, e lasciatelo sobbollire per 40’: le impurità si concentreranno in superficie, in una crosta facile da eliminare. Togliete dal fuoco, eliminate la crosta e filtrate con una mussola bagnata.

CSF (come si fa)

I lampascioni sono difficili da trovare al di fuori della Puglia, la loro patria elettiva, ma si coltivano anche in Abruzzo e in tutto il sud. Sono un bulbo commestibile di una pianta erbacea che ricorda una piccola cipolla, ha un gradevole gusto amarognolo. Si raccoglie in estate/autunno. Dopo l’acquisto va consumato rapidamente perché deperisce. Può essere bollito, fritto, cotto al forno o conservato sott’olio e sott’a-

ceto: e, quasi sempre, se si trova fuori dal sud Italia è nella forma sott’aceto. Il modo più semplice per prepararlo è bollirlo in acqua salata e consumarlo con olio e aceto. Si puliscono come una cipolla: si eliminano la buccia e le radichette e poi si sciacquano in acqua fredda. Per togliere il gusto amaro si può lasciarli a bagno in acqua e aceto per circa 30’ oppure lessarli cambiando l’acqua a metà cottura. Conditeli poi con un’emulsione di 2 cucchiai di olio extravergine di oliva, 1 cucchiaio di buon aceto, una presa di peperoncino, un ciuffetto di finocchietto selvatico tritato, sale e pepe. Vediamo due ricette canoniche. Lampascioni all’abruzzese. Per 4 persone. Mondate 600 g di lampascioni e lessateli in acqua bollente leggermente salata per 15’, poi scolateli. Preparate

una pastella con farina, 2 uova, una manciata di pecorino grattugiato, una manciatina di prezzemolo tritato e un pizzico di sale, poi passateci i lampascioni. Friggeteli in abbondante olio di semi di arachide, scolateli tamponandoli su carta assorbente da cucina e serviteli. Lampascioni con uova. Per 4 persone. Mondate 600 g di lampascioni e lessateli in acqua bollente leggermente salata per 30’, cambiando l’acqua dopo 15’. Scolateli, asciugateli, infarinateli e rosolateli in una casseruola con un filo di olio. Appena saranno dorati unite 4 uova, leggermente sbattute con 80 g di pecorino grattugiato, una macinata di pepe nero e un pizzico di sale e proseguite la cottura mescolando per pochi minuti. Le uova devono rimanere cremose.

Manuela Vanni

Oggi due dolci semplici, che di più non si può: nel primo c’è un gelato, da fare assolutamente in casa… ma se lo comprate va bene lo stesso.

Manuela Vanni

Ballando coi gusti

Lamponi, gelato alla crema, aceto balsamico

Zuppa fredda di melone e frutti di bosco

Ingredienti per 4 persone: 3 vaschette di lamponi · glassa di aceto balsamico tra-

Ingredienti per 4 persone: 1 melone di circa 900 g · 1 vaschetta di lamponi · 1 vaschetta di more · 1 rametto di menta · 100 g di zucchero semolato 100 g · un pizzico di sale

dizionale · 4 uova · 100 g di latte · 80 g di zucchero · 1 baccello di vaniglia · 500 g di panna fresca da montare · menta Dividete in una bacinella le uova e conservate i tuorli. Lavorate i tuorli con lo zucchero fino a ottenere una consistenza cremosa ma non montata. Portate a bollore il latte e versatelo sui tuorli. Rimestate con cura fino a che la crema non risulti liscia e cremosa. Lasciate raffreddare e nel frattempo montate metà della panna. Quando la crema risulterà fredda, incorporate prima la panna liquida e poi la panna montata. Conservate in congelatore per almeno 3 ore. Ogni 20’ con una frusta lavorare delicatamente il composto per garantire che la preparazioni ghiacci ma mantenga una cremosità simile a quella del gelato. Mondate e lavate i lamponi, quindi conditeli con la glassa di aceto balsamico. Raffreddate in congelatore quattro coppette per il servizio e disponete per ogni coppetta il gelato a palline e i lamponi glassando con alcune gocce di aceto. Infine guarnite con la menta fresca.

Mondate e private di buccia e semi il melone. Tagliate il melone grossolanamente in cubi. Mettete il melone in una ciotola e irrorate con un pizzico di sale e di zucchero. Lasciatelo in frigorifero a macerare per almeno 1 ora rimestando ogni tanto per permettere l’estrazione di più liquido possibile dal frutto. Scolate il melone dal liquido in eccesso e frullatelo a fondo fino a ottenere una crema omogenea e sufficientemente fluida. Servitela molto fredda in un piatto fondo e ultimate con i frutti rossi.


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Ambiente e Benessere

Saper bere

Vini senza frontiere Il vino è anche fonte

di amicizia

Chi conosce un po’ i francesi, sa scoprire l’organizzazione che essi si sono imposti nella vitivinicoltura, organizzazione che costituisce un segno di civiltà. I francesi hanno selezionato le piante, i ceps, le vigne e i crus (i poderi). Il loro clima è più stabile e i loro vinificatori hanno potuto stabilire gli standard dei vini prodotti. Essi fanno il vino con una tecnica notevole, per non dire insigne. Talvolta spingendosi all’eccesso, e allora c’è qualcosa che non va; bevendo certi vini si ha un po’ l’impressione di baciare una donna troppo truccata. È qui che interviene ancora il Brera dicendo: «Sempre donna è, ma sarebbe meglio al naturale».

Grimod Il grande giornalista sportivo Giannni Brera, tragicamente scomparso nel 1992, era anche un appassionato di gastronomia e gustoso scrittore. Nel suo libro La Pacciada ha scritto, tra l’altro, che «bisogna bere con cauto ritegno e poetico abbandono». Lo ricordava Libero Olgiati (1908-1986), maestro di pensiero in materia, il quale si diceva lieto delle visite degli amici: «Non è generosità, è egoismo perché posso sturare le bottiglie da me scelte, da sottoporre al giudizio di esperti». Al di là della lunga frequentazione di casa sua, imparando da lui molte cose, ho anche avuto l’onore di essere citato nel suo libro Le arti della tavola/Menu e ricette per quattro stagioni (Salvioni 1985): «Con un Montrachet Marquis de Laguiche ammiro la bevuta con cauto ritegno dell’ing. Carlito Ferrari e con un Musigny del Comte Georges de Vogüe la beva, con poetico abbandono del pittore Guido Bagutti, ahimè scomparso del vigore dell’età matura». Credo sia importante e lodevole l’orgoglio delle persone che vogliono bere e capire sempre quello che fanno non solo bevendo. Insomma, per citare ancora una volta Gianni Brera a memoria: «Sarai un vero uomo se saprai bere mantenendo sempre il cervello a fine di brentino». Parecchia gente crede che basti il denaro per bere bene. Al contrario, si può bere male disponendo di un vino ottimo, anche se è inevitabile bere male con un vino cattivo.

Mai dimenticare il seguente aforisma: «Un vino lo si guarda, lo si respira, lo si gusta e alla fine se ne parla» Saper bere è forse più difficile che saper mangiare. Sovente dà più imbarazzo e noia allo stomaco un bicchiere di vino superfluo, inadatto al cibo o ingrato al gusto, che soverchia abbondanza di cibo. Il grande gastronomo francese BrillatSavarin scrisse che il terzo bicchiere di vino non ha sapore, forse per dire che cambiando cibo si dovrebbe abbinare un altro vino. Ciò vale quasi come un comandamento per pranzi e cene importanti a più portate. Dove i vini si ser-

La degustazione di un vino va fatta in compagnia di amici che abbiano la stessa passione.

vono nell’ordine inverso ai piatti: dai più leggeri ai più pesanti. Bere con ritegno vuole anche dire farlo con educazione, senza mai dimenticare il seguente venerabile aforisma: «Un vino lo si guarda, lo si respira, lo si gusta e alla fine se ne parla». Colore, profumo, gusto e intelligenza sono le qualità occorrenti per conoscere, riconoscere e classificare un vino. È pacifico che, come in amore, la degustazione cominci dagli occhi. Perciò bisogna condannare i bicchieri colorati, preferendo quelli di cristallo unito (cioè senza intagli e/o smerigliature) per poter giudicare il colore e la limpidezza, in altre parole, la veste del vino. Il bicchiere riempito a metà – o anche di meno – si deve coccolare tra le mani imprimendo un leggero movimento rotatorio per aiutare l’aerazione. Solo lo sprovveduto si precipita sull’orlo del bevente e lo svuota senza respirarne gli effluvi, privandosi così

di una delle più grandi gioie della degustazione. Infine si gusta il vino. Si accosta perciò lentamente alle labbra il bordo superiore del bicchiere e lo si alza delicatamente quel tanto che basta affinché la lingua ne sia ragionevolmente bagnata: papille gustative, palato, retro bocca danno la giusta misura del gusto, della acidità e del vigore del vino. Esso va bevuto a piccoli sorsi che ad ogni contatto papillare rivelano una nuova finezza di corpo, un’altra forza nascosta, una sfumatura del bouquet. E quando il bicchiere si allontana dalle labbra, mentre l’animo del vino scivola delicatamente nello stomaco, si ringrazia l’oscuro artigiano che gli ha prodigato tante amorevoli cure. Insomma, scoprire lentamente tutti i segreti di un vino, ascoltarli e coglierne ogni dettaglio è un’arte nella quale più che la predisposizione, valgono l’esperienza e l’applicazione. Il buon assaggiatore non beve subito il vino. Ne assorbe un picco-

lo sorso, lo fa passare per la lingua e per il palato e lo riconduce alle labbra. Allora, atteggiandole a cul de poule come dicono i francesi, aspira un po’ d’aria che si carichi di tutti gli aromi, riempia il palato e ne sveli i più intimi segreti. Per finire, non si sarà mai ripetuto abbastanza, se ne parla come piace parlare di un’emozione. Il che sottintende l’osservanza della regola secondo cui la degustazione di un vino – dei vini – va fatta in compagnia di amici che abbiano stesse passioni e competenze. Degustare un vino non è un piacere solitario. Se ne parla, talvolta anche diffusamente soprattutto quando la bevanda in esame è di qualità superiore; perciò suscita discussioni lunghe appassionate. È sufficiente che uno degli astanti comunichi una sua impressione «sghimbescia» per far nascere soavi e interminabili dispute. Dispute tranquille, anche animate che, per finire, rinsaldano i vincoli di amicizia. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 14 luglio 2014 ¶ N. 29

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Ambiente e Benessere

Miniature perfette

Mondoanimale Quando la Natura ci si mette d’impegno, è in grado di rivelare sorprendenti

meraviglie miniaturizzate Maria Grazia Buletti Pesa dagli ottanta ai centocinquanta chilogrammi. Da un minimo di sessanta centimetri può raggiungere un’altezza massima (ndr: al garrese, vale a dire all’attaccatura del collo) di ottantasei/novantacinque centimetri, secondo la sua appartenenza a una delle due tipologie presenti in America. È longevo perché può vivere addirittura fino a trenta/quarant’anni. Gentile e docile, è a tutti gli effetti un… cavallo in miniatura! E non stiamo parlando del pony, dal quale il mini cavallo (Mini Horse) si distingue proprio perché ha le stesse proporzioni di uno vero, mentre il pony ha zampe corte e torace molto sviluppato. È così perfettamente simile al suo parente di normali dimensioni da sembrare una meravigliosa miniatura vivente.

«Si può fare tutto ciò che si fa con un cavallo: pulirli, spazzolarli, abituarli alla capezzina e alla corda, giocarci…» Troppo carini per non interessarsene e «toccare con mano», siamo andati a conoscerli da Edith e Axel Mueller che in Ticino posseggono un allevamento di queste miniature equine. «Quando ero piccola avevo sentito parlare dei cavalli Falabella da cui discendono i mini cavalli (ndr: vedi box). Io sono amazzone e quando non ho più potuto cavalcare a causa di seri problemi di salute alla schiena, mi sono detta che la mia carriera equestre non sarebbe certo finita in questo modo», Edith racconta così il legame che viene a crearsi con i cavalli, tanto da non poterne fare più a meno.

Proprio questa passione l’ha portata ad avvicinarsi ai Mini Horses: «Con loro si può fare tutto ciò che si fa con un cavallo: pulirli, spazzolarli, abituarli alla capezzina e alla corda, portarli a spasso, lasciarli in un prato a mangiare l’erba, giocare con loro come al circo, ma non si possono cavalcare come un cavallo!». La nostra interlocutrice ci racconta tuttavia come anche i mini cavalli possano eseguire esercizi di alta scuola e addestramento, ma senza il cavaliere in sella, semplicemente accompagnati con la corda; persino il salto a ostacoli non rappresenta un problema se eseguito nello stesso modo. «E inoltre possono anche trainare il carretto», spiega Edith che, quando ha deciso di partire alla ricerca di questi piccoli gioielli, si è messa all’opera in modo determinato pur di portarne a casa qualcuno: «Inizialmente sono stata in Argentina, Paese di origine del Falabella che è il capostipite della razza di mini cavalli, ma non avendo i contatti giusti, non sono riuscita a trovare i mini horses che cercavo». Edith non si è però persa d’animo e racconta di essere andata quindi a Ve-

rona durante la Fieracavalli annuale e di essere entrata in contatto con dei referenti in America, ma anche di aver preso una cosiddetta cantonata attraverso le vendite via Internet: «Poi, con mio marito, siamo stati in Italia, in un allevamento di Falabella, e in Svizzera interna dove abbiamo trovato chi vendeva American miniature horses e lì ne abbiamo acquistati due: uno stallone e una giumenta». Inizia in questo modo un po’ rocambolesco l’allevamento di Edith e Axel, i quali in seguito si sono recati anche negli Stati Uniti per acquistare altri esemplari: «Oggi abbiamo sei mini horses qui in Ticino e uno stalloncino è momentaneamente in Svizzera interna per l’inseminazione di altre piccole giumente», racconta Axel ribadendo la versatilità di questi cavallini che risvegliano sempre grande curiosità, proprio per le loro dimensioni lillipuziane e la loro incredibile somiglianza con un cavallo di normale statura: «Sono sensibilissimi e hanno un carattere molto più docile del pony, per questo sono adatti a chi non può cavalcare ma non vuole rinunciare al contatto con un cavallo, e

L’unica cosa che non si può fare con i mini cavalli, è cavalcarli. (Axel e Edith Mueller)

all’ippoterapia: sono pratici anche per chi non si può muovere ad esempio da casa o dall’ospedale dove è molto facile poterli condurre proprio per le loro dimensioni ridotte». Gli fa eco Edith: «Inoltre si può insegnare ai bimbi piccoli a prender-

Falabella: capostipite della razza dei mini cavalli Il Falabella (o pony argentino) è una razza equina di origine argentina la cui altezza non deve superare i 78 cm. In particolare, esso conserva perfettamente le proporzioni del cavallo che sono caratterizzate da ossa sottili e piedi piccoli. Per questo, risulta essere a tutti gli effetti un cavallo in miniatura e non un pony che è più alto e forte e non mantiene le proporzioni del cavallo in quanto presenta un ampio torace e zampe corte. Il Falabella è dunque un vero cavallo in miniatura

originale, allevato nel ranch della famiglia Falabella, in Argentina, da più di 150 anni. La sua storia ha inizio nel 1845, quando un signore irlandese di nome Patrick Newell scoprì che alcune tribù di indiani delle Pampas argentine possedevano cavalli di statura relativamente piccola (circa 102 centimetri), insieme ad altri cavalli di statura normale. Egli riuscì ad avere alcuni di questi esemplari perfettamente proporzionati e già nel 1853 aveva crea– to una mandria di piccoli cavalli. Nel

1879 egli trasferì tutte le sue scoperte, esperienze e conoscenze sulla razza a suo genero Juan Falabella che continuò con lo sviluppo, immettendo nella mandria purosangue inglesi della statura più piccola che riuscì a trovare: pony Shetland e il Criollo, il cavallo delle Pampas argentine. Quando un suo discendente iniziò a venderne alcuni esemplari a clienti selezionatissimi come l’allora presidente americano J. F. Kennedy, su di questi mini cavalli si accesero definitivamente i riflettori.

ORIZZONTALI 1. Ben tracciato 7. Il padre dei vizi 8. Le iniziali del Duca della Vittoria 9. Nome femminile 10. Si portano sulle spalle 11. Due vocali 12. Il luogo di Dante 13. Imprese di costruzioni 17. Il cantautore Paoli 18. Un tessuto luccicante 19. Si segue... senza raggiungerla 21. Infossatura del polmone 22. Città italiana 24. La cantante Pausini 26. Scampò alla distruzione di Sodoma 27. Arbusto con fiori a grappolo 28. Personaggio leggendario

Sudoku Livello medio

sene cura, senza incutere loro il timore delle dimensioni di un cavallo grande. Con i mini cavalli, i bambini imparano che non è importante solo cavalcare, ma anche accudire l’animale, ad esempio: spazzolarlo, pulirlo, portarlo a spasso e controllare gli zoccoli, che fra l’altro non necessitano della ferratura del maniscalco». La passione di Edith e Axel ci ha permesso di vedere con i nostri occhi queste meraviglie della natura che, tra qualche settimana, si potranno ammirare anche in Ticino: «Saremo presenti alla manifestazione Luci e Ombre che si terrà a Locarno dal 24 al 26 luglio, nel prato dinanzi ai canottieri, dove i nostri mini cavalli faranno diverse dimostrazioni delle varie discipline e si potranno anche fare piccoli giri in calesse trainato da loro», spiega Axel che nel 2007 ha fondato il club «Miniature horses swiss briders» e ci invita a visitare il sito www.minicavallo.ch per entrare nel mondo di questi bellissimi e piccoli animali.

Giochi Cruciverba Lo sapevi che esiste un tredicesimo… Termina la frase leggendo a soluzione ultimata le lettere nelle caselle evidenziate. (Frase: 5, 9, 2, 4, 6)

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VERTICALI 1. Soffitte 2. Nome del presentatore storico di «Striscia la notizia» 3. Avverbio di tempo 4. Lascia l’amaro in bocca 5. Parte della scarpa 6. Non si deve nutrire 10. Li scuote il bebè per giocare 12. Vi muore l’onda 13. Organo propulsore di mezzi navali 14. Fiume della Svezia 15. Vi si corre un Gran Premio 16. Le iniziali del noto Elkann 17. Angusto passo montano 19. Un frutto 20. Destino, sorte 22. Foschi, tenebrosi 23. Negazione inglese 25. Le iniziali del noto Carrisi

Scopo del gioco

Completare lo schema classico (81 caselle, 9 blocchi, 9 righe per 9 colonne) in modo che ogni colonna, ogni riga e ogni blocco contengano tutti i numeri da 1 a 9, nessuno escluso e senza ripetizioni.

Soluzione della settimana precedente

L’ILLUSIONE – Resto della frase: … ALLE PERSONE, TUTTE APPLAUDONO


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 14 luglio 2014 ¶ N. 29

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Attualità Migros

M 30 anni di ICE TEA Cult Migros

Riducendo si migliora

Concorso Occhio

Generazione M Ecco le nuove promesse alla

ai tappi delle confezioni da 0,5 l in PET

generazione di domani: una di esse riguarda la diminuzione di zucchero, sale e grassi negli alimenti confezionati

Senza sale, zucchero e grasso i cibi sarebbero insipidi e noiosi. In ogni caso, molte persone sono portate ad abusarne. Il risultato possono essere problemi fisici al sistema circolatorio, oppure di sovrappeso. Visto che per Migros la salute è un argomento di fondamentale importanza, ha deciso di ridurre entro il 2018 il contenuto di sale, zucchero e grassi in 150 dei suoi prodotti, aumentando nel contempo dove possibile il contenuto di fibre alimentari. È una delle sue promesse nell’ambito della campagna Generazione M (vedi Box qui a lato). Per raggiungere questo obiettivo, Migros in collaborazione con la zurighese Scuola superiore per le scienze applicate (ZHAW) ha elaborato delle linee direttive generali per la preparazione di cibi confezionati. «Abbiamo analizzato circa 1400 prodotti di marca Migros» spiega Annina Erb, responsabile del settore alimentazione e salute di Migros. I prodotti sono stati divisi in 25 categorie, ad esempio «cibi pronti», «iogurt», «minestre» e «cereali per la colazione». In queste categorie Migros tiene conto dei dati messi a disposizione dalla scienza dell’alimentazione così come

delle limitazioni tecnologiche. Oltre a ciò, i prodotti sottoposti all’ottimizzazione dei contenuti nutrizionali devono mantenere la stessa gradevolezza nel sapore. «In circa 150 articoli abbiamo valutato la necessità di una rielaborazione della ricetta» dice Annina Erb. Uno di quelli che ha già subito il processo di ottimizzazione è il Müesli Actilife. «Abbiamo diminuito il contenuto di zucchero di un quarto, fino al 21 per cento» spiega la responsabile del progetto. «Nello stesso tempo abbiamo aumentato il contenuto di fibre vegetali da 6 a 9 grammi». Queste ultime sono importanti per la digestione e contribuiscono al senso di sazietà. Molte di esse si trovano ad esempio nelle verdure o nei cereali integrali. Non sempre è possibile o ragionevole intraprendere un adattamento dei prodotti alle direttive alimentari. Anche in questo caso Annina Erb ci rammenta un esempio tratto dall’assortimento dei cereali: «I nostri Sugar Flakes sono ricoperti di zucchero. Anche qui siamo riusciti a ridurre il contenuto di zucchero del 10 per cento, ma senza la copertura zuccherata non avrebbero più potuto essere Sugar Flakes…». / Andreas Dürrenberger

«Promettiamo di produrre a partire dal 2019 oltre 150 articoli con meno zucchero, sale e grassi, ma con più fibre alimentari», dice una delle tre nuove promesse di Generazione-M. (Marka)

Generazione M: le due altre promesse «Promettiamo di ottimizzare sotto il profilo ecologico entro la fine del 2020 oltre 6000 t di materiale da imballaggio». Seguendo il motto «evitare - ridurre - riutilizzare» Migros riduce sempre dove possibile il numero di imballaggi, usa materiale riciclabile o impacchetta i propri prodotti in buste invece che in flaconi. Se si contano tutte le ottimizzazioni in una volta sola, entro il 2020 complessivamente oltre 6000 tonnellate di materiale da imballaggio dovranno essere realizzate ecologicamente.

Informazioni su queste e sulle altre promesse sono disponibili nel sito www.generazione-m.ch

M I contadini svizzeri vi invitano al brunch Festa Nazionale Un’esperienza nuova per un 1° d’agosto

diverso dagli altri: in fattoria

Il prossimo 1° agosto 2014 per la ventesima volta molte famiglie contadine svizzere apriranno i cancelli delle loro aziende al pubblico, e proporranno un modo diverso di trascorrere la Festa Nazionale: un brunch in fattoria. Anche quest’anno saranno quindi più di 350, ripartite in tutte le regioni della Svizzera, le fattorie che dalle 9.00 alle 13.00 attenderanno i circa 150’000 ospiti previsti. Come tali, avrete la possibilità di gustare in abbondanza, in un’atmosfera particolare, formaggio, pane, carne, frutta, latte e molte altre specialità culinarie. In loco potrete informarvi sulla provenienza e la qualità dei prodotti e constatare da vicino di quanto lavoro e impegno siano necessari per ottenere questi prodotti. Vista la forte richiesta, è assolutamente necessaria l’iscrizione presso la fattoria scelta. Il prezzo del brunch è compreso tra i 20 e i 35 franchi per l’offerta standard. Le aziende che partecipano all’iniziativa sono segnalate con manifesti o indicatori stradali con la scritta «Brunch». Dal 1° luglio 2014 altre in-

Un ricco menu di prodotti freschi e genuini.

formazioni si possono richiedere al numero di tel. 056 462 51 67 (giorni feriali dalle ore 8.00 alle 12.00 e dalle ore 14.00 alle 17.00) oppure scrivendo una e-mail a: info@brunch.ch. Le iscrizioni sono da effettuare direttamente presso le famiglie contadine, al più tardi entro il 30 luglio 2014, per telefono o per e-mail.

«Promettiamo di aumentare del 30 per cento entro la fine del 2016 il nostro assortimento per chi soffre di allergie». In Svizzera più di due milioni di persone vanno soggette a intolleranze alimentari. Con la linea di prodotti aha! Migros offre alle persone toccate dal problema un ampio assortimento indicato per chi soffre di allergie, ad esempio ai latticini, al pane, alla pasta e ai dolciumi. Entro il 2016 Migros incrementerà di un terzo il numero di prodotti in questo settore.

La lista delle fattorie disponibili in tutti i cantoni della Svizzera è pubblicato su www.brunch.ch.

Brunch in fattoria, 1° agosto 2014, in 350 fattorie svizzere

Da oggi, i fan dell’ICE TEA Cult Migros possono assaporare l’estate con ancor più gusto: tutti i tappi delle bottiglie PET da 0.5 litri di ICE TEA Cult Migros si trasformeranno infatti in biglietti d’ingresso per diverse attività. Può trattarsi di un ingresso allo zoo o in piscina, un supplemento notturno per i trasporti pubblici, la visita a un museo o l’entrata a festival del film all’aperto. Per la campagna è stato possibile reperire numerosi partner interessanti nelle maggiori città svizzere. Lo Zoo di Zurigo, il Museo Tinguely di Basilea, il cinema all’aperto Marzilli-Movie di Berna e il Lido di Lucerna sono solo alcuni dei numerosi partner ingaggiati. L’azione si protrarrà fino al 14 settembre di quest’anno. Le bottiglie PET da 0.5 litri realizzate per l’anniversario dell’ICE TEA Cult Migros (qualsiasi gusto) hanno un tappo particolare, dotato di un adesivo con un codice. Tra loro si trovano parecchie decine di migliaia di biglietti d’ingresso dei quali possono approfittare i fan dell’ICE TEA Migros. Il numero dei biglietti, pertanto, è limitato. Dopo essersi registrato sulla pagina Internet per l’anniversario www.sweetticket.ch, il fan sceglie una città e l’attività desiderata. In seguito potrà attivare il suo biglietto d’ingresso, digitando il codice. Importante: il biglietto dovrà essere utilizzato nell’arco di 24 ore. Con il tappo dell’ICE TEA Migros e il biglietto stampato avrà poi diritto all’ingresso gratuito sul posto. Alla pagina Internet per l’anniversario è possibile tenere traccia giornalmente del numero di biglietti ancora disponibili per le singole azioni.

Elenco delle fattorie ticinesi Agriturismo Strada Costa, 6928 Manno, Enzo e Cristian Crotta ■ Agriturismo Alpe Grassa, 6872 Salorino, Pietro Gerosa ■ Agriturismo Cantina Böscioro, Via Monte Ceneri 13, 6516 Gerra-Piano (Locarno), Sandro Vosti ■ Agriturismo Dosso dell’Ora, Monte Generoso, Franco Cereghetti ■ Agriturismo Pian Marnino, Al Gaggioletto 2, 6515 Gudo, Tiziano Tettamanti ■ Agriturismo Scinghiöra, Cangscei, 6692 Brontallo, Vasco Ryf ■ Alpe Bolla Carassina, 6720 Campo Blenio, Marisa e Fausto Martinelli ■ Alpe Campo la Torba, 6696 Fusio Giorgio Dazio, Sci club Lavizzara ■ Alpe Cava, Val Pontirone, 6710 Biasca, Vito Bortolotti ■ Alpe Cedullo, 6575 San Nazzaro, Maurizio Minoletti - Sylvia Wyss ■ Alpe di Pazz Via Lema, 6986 Novaggio, Monica Moriggia ■ Alpe di Pozzo-Valle Malvaglia, 6713 Malvaglia, Athos Tami, Consorzio Caprino Nera Verzasca Malvaglia ■ Alpe Duragno, 6805 Mezzovico, Chantal Poggiati & Ivano Cereghetti ■ Alpe Grossalp, 6685 Bosco Gurin, Arcioni Michele e Laura Azienda Agricola ■ Alpe Montoia, 6571 Indemini, Flavia Anastasia ■ Alpe Mügaia, 6637 Sonogno, Ester & Christian Monaco ■ Alpe Pianca, Strada dala Bareta 1, 6822 Arogno, Luca e Sara Prestinari ■ Alpe Pietrarossa, 6951 Colla, Christian Signer ■ Alpe Sorescia, S. Gottardo, 6780 Airolo, Angelo Lombardi ■ Alpe Zalto, Gola di Lago, 6950 Capriasca ■ Alpetto Monte Caprino, 6822 Arogno, Annina e Florian Staub Bessler ■ Alta Magliasina Alle-

vamento, Ponte di Vello, 6937 Breno, Giovanni Berardi ■ Ambri, Via Rio Secco 11, 6775 Quinto, Leila & Emilio Bossi ■ Azienda Agri BI & BE, Via Canvera, 6592 S. Antonino, Andrea Bizzozero, Gioventù Rurale del Piano di Magadino ■ Azienda Agricola Dagro in Valle Malvaglia, 6714 Semione, Giovanna & Diego Dandrea ■ Azienda agricola Campiscioni, Via Mondette 13, 6752 Quartino, Silverio e Christelle Sargenti ■ Azienda Agricola I Piccoli Contadini, Moneto, 6659 Camedo-Moneto, Davide Guerra ■ Azienda Agricola Maroni, Bisacca Tania, 6715 Dongio, Maroni Roland e Nadia ■ Azienda Agricola Mattei, St. Antonio di Peccia, 6695 Peccia, Francesca, Luca e Ivan Mattei ■ Azienda Agricola Rodoni Paolo, Via Sprügasc 6, 6710 Biasca ■ Azienda Agricola Scoglio, Bagnada, 6939 Mugena, Marco Scoglio-Lovo ■ Azienda Al Pian, Via Case Tinetti 7, 6710 Biasca, Luca & Brunella Buzzi ■ Azienda Cairoli, 6838 Cabbio, Rodolfo Cairoli ■ Cantina Carrara, Via Sasso Misocco 37a, 6596 Gordola, Graziano Carrara ■ Fattoria Bianchi, Via San Vigiglio, 6821 Rovio, Giacomo Bianchi ■ Fattoria della famiglia Forni, Via cantonale, 6966 Villa Luganese, Manfredo Forni, Azienda Agricola «La Pastorella» ■ Fattoria Giacomo, Al Saliciolo, 6598 Tenero, Enrico e Giacomo Pedrazzini ■ Fattoria Poma, Azienda agricola, 6939 Arosio, Gianmaria Poma ■ Fattoria Storni, Ai Trasi, 6702 Claro, Prisca Storni ■ Fondazione Diamante, Sosta della Quaglia, 6515 Gudo.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 14 luglio 2014 ¶ N. 29

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Politica e Economia Chiesa e mafia Forte discorso di Papa Francesco in occasione del suo viaggio in Calabria con il quale condanna il crimine organizzato

Casse pensioni in pericolo? Il parlamento chiede al Consiglio federale uno studio sulle conseguenze del ritiro del capitale di vecchiaia per favorire l’acquisizione di un alloggio

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L’ambizione europea di Juncker Ritratto Il presidente designato della Commissione europea, che prende il posto di Barroso, è un veterano dell’Europa

pagina 27

federalista e della costruzione europea. Per 8 anni ha guidato l’Eurogruppo dedicandosi al salvataggio dell’euro Philippe Ricard e Jean Pierre Stroobants*

AFP

pagina 24

Il caos afghano

Presidenziali Secondo i risultati preliminari del ballottaggio ha vinto Ashraf Ghani, di etnia pashtun come l’ex

presidente Karzai, uomo delle multinazionali e dell’Occidente. Lo sfidante Abdullah non riconosce la vittoria Francesca Marino «Ovviamente Abdullah, che aveva già perso nel 2009 le elezioni presidenziali contro Karzai, non è disposto a tollerare ancora una volta alcun genere di broglio elettorale. È la seconda volta che si trova a dover affrontare una sconfitta dovuta a giganteschi potenziali brogli e questa volta è ben deciso a difendersi e a contestare i risultati. Penso che la cosa crea di fatto una tremenda crisi politica all’interno dell’Afghanistan, non presa nella dovuta considerazione a livello internazionale perché oscurata dai recenti avvenimenti in Medio Oriente. C’è però il rischio concreto che una crisi politica in Afghanistan conduca di fatto a una guerra civile tra la fazione di Abdullah e i sostenitori di Ghani». A commentare così i risultati preliminari delle elezioni presidenziali afghane, che contro ogni pronostico e smentendo i risultati ottenuti al primo turno hanno dichiarato vincitore Ashraf Ghani (nella foto) contro il favorito Abdullah Abdullah, è il giornalista pakistano Ahmed Rashid. Che ritiene

in gran parte responsabile del risultato, come la maggior parte degli afghani, il presidente uscente Hamid Karzai. I fatti si riassumono in breve: dai primi risultati ottenuti dai conteggi preliminari, Ashraf Ghani risulta in netto vantaggio su Abdullah per avere ottenuto il 56,44% dei voti contro il 43,56 del suo sfidante. Abdullah non ha accettato il risultato, gridando ai brogli elettorali e chiedendo che i risultati siano calcolati al netto dei voti «fantasma». Dei voti, cioè, infilati dentro le urne elettorali dopo le votazioni da chissà chi e chissà come. Pare difatti che, nonostante le Commissioni elettorali, gli osservatori indipendenti nazionali e internazionali e quant’altro, risultino, dati alla mano, esserci più voti che votanti. Nella fattispecie, voti che attribuiscono la vittoria a Ghani: di etnia pashtun come Karzai e, come Karzai, uomo delle multinazionali e dell’Occidente. I risultati ufficiali saranno annunciati il 22 luglio, saranno ricontati i voti di circa settemila seggi, ma il Paese è già in ebollizione. E a poco valgono i moniti

di John Kerry, che vista la crisi è pronto a volare in Afghanistan, che ritiene ogni forma di violenza o l’implementazione di «misure extra-costituzionali» nel Paese completamente ingiustificata. Kerry, per conto della Casa Bianca, ha annunciato che gli americani ritireranno qualsiasi forma di supporto finanziario all’Afghanistan se qualcuno cercherà di prendere il potere illegalmente andando contro i risultati delle urne e la volontà popolare. O quello che per volontà popolare si cerca di spacciare in queste elezioni dichiarate fair enough, abbastanza regolari, fin dal principio. Ovviamente «abbastanza» non è abbastanza per i sostenitori di Abdullah, che sono scesi in piazza chiedendo, almeno per il momento giustizia. Giustizia e non vendetta, il che all’interno del complicato panorama politico afghano è già qualcosa. Anche per i manifestanti, dietro alle frodi ci sarebbe il presidente uscente Hamid Karzai. Che avrebbe deciso di sostenere il pashtun Ghani a dispetto di Abdullah. La questione, in breve, è la seguente: Ghani, pashtun come Karzai, raccoglie i consensi della maggioranza pashtun

e anche dei talebani. Abdullah, mezzo tajiko ed ex-collaboratore del defunto comandante Massoud, avrebbe la possibilità di raccogliere consensi al governo anche tra la comunità tagika e, attraverso il suo vice, tra gli Hazara. E non è poco. C’è anche però chi ritiene che Karzai abbia organizzato tutto per mantenere di fatto il potere: se la situazione diventasse ingovernabile, difatti, e la guerra civile paventata da Rashid diventasse una possibilità concreta, Karzai potrebbe dichiarare lo stato di emergenza nazionale e continuare a governare il Paese a tempo indeterminato. Dietro i candidati ci sono poi i giocatori esterni: subito dopo l’annuncio della vittoria di Ghani molti giornalisti e analisti pakistani su Twitter commentavano i risultati così sintetizzando: Pakistan 1 – India 0. Ghani è difatti il candidato favorito dall’estabilishment pakistano, che caldeggia da tempo i colloqui per riportare al potere dentro il processo democratico i talebani e che questi colloqui tenta da altrettanto tempo di gestire continuando a tenere dentro i confini nazionali il mullah Omar e il mullah Baradar.

Pedine chiave, come sanno ormai anche i bambini, per siglare qualunque tipo di accordo con i buoni, vecchi studenti di teologia a cui Islamabad ha fatto negli anni da levatrice e da balia. Non è escluso, difatti, che dietro alla messe di voti a favore di Ghani ci sia anche lo zampino dei servizi segreti di Islamabad: che da anni infiltrano pashtun pakistani in Afghanistan cambiandogli nome dotandoli di documenti afghani e che potrebbero aver giocato un ruolo determinante nel truccare i risultati. Il Pakistan, nel momento in cui gli americani completeranno il ritiro delle loro truppe, non intende infatti perdere il «controllo a distanza» sull’Afghanistan e vedere a Kabul un altro presidente filo-indiano dopo Karzai. Al momento, nessuno può davvero prevedere cosa succederà e, soprattutto, se gli americani riusciranno a tenere in piedi questo fantasma di democrazia per il tempo sufficiente a tornare definitivamente a casa dichiarando di aver lasciato un Afghanistan democratico e pacificato. Non resta che aspettare, e vedere cosa verrà fuori dal cilindro magico dei risultati definitivi del 22 luglio.

Il 27 maggio, in occasione di un vertice dei leader del Partito popolare europeo (PPE) – la formazione che si è confermata la prima forza politica al Parlamento di Bruxelles – un Jean-Claude Juncker combattivo prova a forzare il destino chiedendo di poter condurre egli stesso, come capofila della destra, le trattative con il Parlamento europeo in vista della sua nomina alla presidenza della Commissione. Ma subito si è dovuto scontrare con Angela Merkel che aveva preferito affidare al presidente del Consiglio Ue, Herman Von Rompuy, una missione di sminamento: la Cancelliera tedesca sperava ancora di evitare una crisi con la Gran Bretagna e con David Cameron che giudica Juncker troppo federalista. Ma così non è stato. Lo scontro è passato pressoché inosservato, ma la dice lunga sulle reali intenzioni di Angela Merkel e sulla determinazione di Juncker a rimpiazzare il presidente uscente José Manuel Barroso. In primavera la Merkel aveva accettato svogliatamente la candidatura del lussemburghese al posto di Michel Barnier per guidare la campagna elettorale della destra. Dopo il voto pensava di essere in grado di scartarlo, rimpiazzandolo con una personalità più in linea con i desideri di Cameron. All’inizio di maggio la Merkel aveva anche sondato le intenzioni di Christine Lagarde, direttrice generale del Fondo monetario internazionale e ex ministro del governo Sarkozy, non sapendo però che non sarebbe stata accettata dal presidente francese Hollande. Niente è andato secondo i programmi della Cancelliera. Il 27 maggio la Merkel deve rispondere alla stampa che le chiede spiegazioni sul suo ruolo in questo affare e capisce che non può continuare a sbarrare la strada al candidato del suo partito, sostenuto da una probabile maggioranza di eurodeputati. I giornali tedeschi e gli eletti del suo partito CDU-CSU tuonano che deve ottemperare gli impegni – «Un obbligo democratico» –, mentre la stampa inglese si scatena contro Juncker, bollato da David Cameron come un «uomo del passato». Il «Sun» scrive addirittura che è «l’uomo più pericoloso d’Europa». Per la prima volta nella sua vita Juncker è assalito dai paparazzi, una sorta di pena del contrappasso per un uomo che ha sempre difeso strenuamente la sua vita privata.

gruppo per la sua capacità di sedare le tensioni». Il suo ruolo europeo non gli ha tuttavia impedito di gestire gli interessi del Granducato allo scopo di preservare il più a lungo possibile quel segreto ban-

naria del suo Paese, che durante un grande torneo di calcio lo ha visto scendere dalla sua auto bloccata nel traffico per condividere la vittoria con i tifosi portoghesi. Sembrava la sua squadra del cuore.

re alle peggiori tragedie (The March of Folly, 1992). La politica e l’Europa sono il motore della sua carriera, ad essi si è dedicato anima e corpo. Di lui ci si è fatti un’idea

cario e quel dumping fiscale che hanno fatto la fortuna della piazza finanziaria lussemburghese. La sua longevità come primo ministro del Lussemburgo – 18 anni fino al dicembre 2013, quando uno scandalo legato ai servizi segreti lo ha costretto ad uscire di scena – ne ha fatto un profondo conoscitore dei meccanismi comunitari, con molte conoscenze e amicizie. «Ama la gente, ha facilità di contatti e una reale capacità di empatia», spiega una funzio-

I portoghesi formano la più importante comunità straniera del Lussemburgo. Che cosa gli piace davvero? «La politica, nient’altro che la politica», confessa un suo amico. Legge soprattutto saggi e analisi politiche. In particolare quelli della storica americana Barbara Tuchman che ha descritto gli inizi della Grande Guerra (The Guns of August, 1962) e i disastri della guerra di Troia e la guerra del Vietnam, dimostrando come gli errori di grandi dirigenti possano condur-

di un uomo del passato poiché gli piace ricordare il passato e l’idea che l’Europa è soprattutto una garanzia di pace. Un giudizio in parte corretto durante la campagna per le elezioni europee del PPE grazie alla capacità di Juncker di aver saputo ricorrere alle nuove tecnologie e ai social network. Non ha convinto coloro che sanno che il candidato scrive con una Montblanc e ha imparato da poco a inviare un messaggio elettronico. Dotato di un’energia fuori dal co-

Alcuni diplomatici s’interrogano sulla capacità fisica dell’ex primo ministro lussemburghese di tenere testa ai ritmi sfrenati della Commissione Jean-Claude Juncker, in realtà, non merita né tanto odio né tanta passione. Nel corso degli anni questo veterano della costruzione europea e dell’euro, ministro delle Finanze durante i negoziati del Trattato di Maastricht, si è fatto una reputazione come mediatore. Ha fatto da cuscinetto tra Francia e Gran Bretagna prima e durante la crisi monetaria. Secondo un vecchio commissario francese, Juncker «è considerato sulle due sponde del Reno come il minimo denominatore comune, messo alla testa dell’Euro-

Keystone

Caccia alla tigre Si fa pericolosa in Cina la lotta alla corruzione di Xi Jinping

mune, Juncker non si fa illusioni: «La vita che sto per impormi non è l’ideale per il mio fisico», ha confidato ai suoi collaboratori dopo una delle estenuanti sedute a Bruxelles, ma sa anche di essere dotato di una buona capacità di recupero. È stato accusato di avere un debole per tabacco e alcool. Alcuni diplomatici mettono in dubbio la sua capacità fisica di essere alla testa della Commissione, la cui guida non ha nulla a che vedere con quella di una città-Stato. Durante la campagna europea, il candidato del PPE era apparso logorato da questi anni di crisi dell’euro e facilmente irritabile. «I dibattiti sono inutili», ha sbottato una volta quando il suo staff lo voleva costringere ad andare in giro in Europa e a partecipare a dibattiti televisivi. L’immagine d’altronde non è la sua principale preoccupazione. Sorride quando i giornali parlano di lui, salvo quando i tabloid inglesi sono arrivati a scrivere che suo padre era un simpatizzante nazista quando fu arruolato a forza nella Wehrmacht. Per Juncker è importante apparire distaccato dal potere anche se lo desidera ardentemente. Quando si è visto sfuggire tre incarichi o quando tre partiti si sono coalizzati per farlo uscire dal governo del suo Paese alla fine del 2013, ha cercato di prenderla con filosofia. Si è definito un uomo libero che non ha bisogno del potere, sottolineando di non essere un politico di mestiere ma di essere un avvocato, anche se nessuno può dire di averlo mai visto esercitare. Ha addirittura dichiarato, senza convincere però nessuno, che un giorno o l’altro si sarebbe dato al giornalismo. Perché no, in effetti? Quest’uomo è in grado di adattarsi a qualsiasi situazione senza perdere né la spontaneità né quella sua particolare forma di pungente umorismo. Il suo linguaggio franco e spigoloso gli ha fatto strani scherzi, ma alla fine è quello che piace ai giornalisti abituati al grigio burocratese. Non si diventa importanti in Europa e nelle dinamiche di palazzo senza suscitare inimicizie e frustrazioni. Nicolas Sarkozy lo detestava e non aveva mai parole abbastanza dure per criticare la sua scarsa iniziativa all’inizio della crisi finanziaria. Nel suo curriculum politico non si possono ignorare decisioni che tradiscono una certa incostanza. Come nel 2004, quando Jacques Chirac gli chiese di lasciare il dipartimento di acque e foreste per diventare presidente della Commissione europea, Juncker rinunciò per onorare la sua promessa agli elettori del Granducato, ai quali aveva giurato che non li avrebbe abbandonati. Nel 2009, pur sostenendo di non essere interessato, ha lavorato dietro le quinte per conquistare la presidenza del Consiglio andata alla fine al belga Herman Von Rompuy. E dopo la sua recente sconfitta politica nel Lussemburgo, è andato a capo dell’opposizione alla Camera dei deputati nell’incredulità generale. Forse questi zig-zag pubblici erano semplicemente un modo per coprire un’ambizione che non lo ha mai lasciato. Forse le critiche di David Cameron sono diventate la migliore garanzia del successo di un suo ritorno: rinunciare a Juncker avrebbe dato ragione al primo ministro britannico e avrebbe provocato una grave crisi con il Parlamento europeo. Uno scenario che non sarebbe piaciuto a Angela Merkel, François Hollande e i loro omologhi europei. *© 2014 Le Monde. Traduzione dal francese di Monica Puffi


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Politica e Economia

La «caccia alla tigre» di Xi Jinping Lotta alla corruzione Lanciata dal presidente, è ormai diventata una purga semi-staliniana,

che prende di mira gli uomini dell’ex leader Hu Jintao, abbastanza potente da opporre una resistenza significativa Beniamino Natale In meno di due anni, il primo importante risultato è stato raggiunto. Era la fine del 2012 quando il 61enne Xi Jinping, da poco eletto segretario generale del Partito Comunista Cinese (PCC), promise che avrebbe estirpato la corruzione dalla Cina, colpendo senza distinzioni «moscerini e tigri», cioè funzionari di qualsiasi livello. Da allora circa 200 membri della corte dell’ex-potentissimo mandarino Zhou Yongkang sono finiti in prigione e lo stesso Zhou è pronto per essere colpito. La lotta contro i corrotti è stata spietata, come il Nuovo Imperatore aveva promesso ma è stata diretta esclusivamente contro i suoi avversari politici, richiamando alla memoria le purghe del dittatore sovietico Jozif Stalin. Lo stesso Zhou, 72 anni, è finora sfuggito alle grinfie della Commissione Centrale per le Ispezioni di Disciplina, l’organismo delegato alla lotta alla corruzione diretto da Wang Qishan, un alleato di Xi. L’ultima volta è comparso in pubblico nell’ottobre scorso, quando si è fatto fotografare mentre stringeva le mani a giovani soldati dell’Esercito di Liberazione Popolare. Ora si ritiene che viva barricato nella sua lussuosa residenza di Wuxi, nella provincia del Jiangsu, in attesa degli eventi. La sua sorte, secondo indiscrezioni, sarà decisa in una prossima riunione del Comitato Centrale, probabilmente in settembre. Una serie di recenti arresti e il gossip che filtra da Zhongnanhai (il complesso residenziale nei pressi della Città Proibita di Pechino dove vivono la maggior parte dei dirigenti cinesi) indicano che il prossimo obiettivo del segretario-presidente è ancora più ambizioso: si tratta niente di meno che del suo predecessore Hu Jintao. Zhou Yongkang era uno dei pochi dirigenti del massimo livello – dal 2007 al 2012 è stato uno dei membri del Comitato Permanente dell’Ufficio Politico (CPUP) del Politburo comunista, considerato il vero depositario del potere politico in Cina – ad essersi fatto strada con le sue forze, cioè senza essere parte dell’«aristocrazia rossa» costituita da figli e nipoti dei «grandi rivoluzionari del passato» (Xi Jinping, ad esempio, è figlio di Xi Zhongxun, un alleato prima di Mao Zedong poi di Deng Xiaoping). La sua forza derivava dagli appoggi che si era costruito nel corso della sua carriera prima nelle imprese petrolifere pubbliche, poi come responsabile dei servizi di sicurezza. Per arrivare al vertice aveva però dovuto forgiare un’alleanza con un «principino» – come vengono chiamati i dirigenti con i pedigree in regola – che prometteva di andare lontano: Bo Xilai che, dopo un’irresistibile ascesa verso il vertice ha pestato i piedi sbagliati e oggi sta scontando l’ergastolo dopo essere stato processato per corruzione e abuso di potere. Anche l’ex presidente Hu Jintao fa parte di questa minoranza di casta bassa inflitratasi nei ranghi dell’aristocrazia. Al contrario di Zhou, Hu ha dalla sua parte molti dei dirigenti attuali del Partito e dello Stato, cose che in Cina in larga parte coincidono. Il personaggio più vicino a Hu ad essere stato colpito finora è Ling Zhengce, che al momento del suo arresto in giugno ricopriva la carica, di livello medio, di vicepresidente della Confe-

Il segretario generale del PCC Xi Jinping. (Keystone)

renza consultiva del popolo della provincia dello Shanxi. Zhengce, 62 anni, è il fratello maggiore di Ling Jihua, ex-braccio destro di Hu Jintao. Jihua potrebbe essere il prossimo bersaglio degli investigatori sguinzagliati in tutto il Paese da Wang Qishan. Ling Jihua ha iniziato la sua carriera nella Lega dei Giovani Comunisti (CYL nell’acronimo inglese) quando Hu ne era il segretario, tra il 1982 e il 1985. La sua ascesa è stata bruscamente interrotta nel 2012, quando suo figlio Ling Gu è rimasto ucciso in un incidente mentre guidava la sua Ferrari nera alla periferia di Pechino. Con la drammatica morte del giovane Ling è emerso anche il suo eccentrico stile di vita – peraltro condiviso da molti «principini» di terza e quarta generazione: automobili costosissime, frequenti viaggi all’estero, festini con droga e prostitute, come forse erano le due giovani donne che erano con Ling Gu sulla Ferrari la notte dell’incidente e delle quali non si sono più avute notizie. Lungi dal procuragli una tregua, come qualche ingenuo potrebbe essersi aspettato, la morte del ragazzo ha scatenato contro Ling Jihua un’ondata di attacchi dei suoi avversari politici che, tra l’altro, hanno messo sotto accusa anche la moglie Gu Liping. La donna avrebbe ammassato una considerevole fortuna lavorando come «consulente» di grandi imprese pubbliche. In un commento all’arresto di Ling Zhengce l’agenzia Nuova Cina ha scritto che i corrotti «usano i legami di sangue e di matrimonio per creare dei “clan della corruzione” i cui membri si

proteggono l’uno con l’altro...». La sorte di Ling Jihua è dubbia: sembra che più volte Hu Jintao in persona lo abbia difeso affermando che, dato che lavorava nel suo ufficio «16 ore al giorno», non era in grado di controllare il comportamento della moglie e del figlio.

Continuando a colpire i fedeli di Hu Jintao, Xi Jinping potrebbe perdere l’appoggio dei clan che lo hanno portato al potere La corrente dei fedeli di Hu Jintao conta nei suoi ranghi funzionari ancora più in alto di Ling Jihua, per colpire i quali Xi Jinping potrebbe doversi creare più nemici di quanto non abbia fatto nei 18 mesi scorsi. Il più illustre seguace di Hu Jintao sta molto, molto in alto: si tratta infatti di Li Keqiang, il capo del governo. Li, un burbero economista che in omaggio al suo ruolo si sforza di sorridere bonariamente in pubblico, era considerato un possibile successore di Hu Jintao prima di essere superato nella corsa alla poltrona di numero uno da Xi Jinping, più attento alle alleanze e forte del suo impeccabile pedigree. Ha scritto Willy Lam, uno stimato osservatore del PCC basato ad Hong Kong: «...il premier è stato tradizionalmente il principale responsabile delle decisioni per i problemi della finanza e dell’economia. Mentre le principali decisioni devono essere discusse col segretario generale e gli altri membri

del CPUP, il premier ha la responsabilità ultima dell’economia. Xi, in ogni caso, ha creato il Gruppo Centrale per l’Esauriente Approfondimento delle Riforme alla fine del 2013 per arrogarsi l’autorità sull’economia». Lam aggiunge che anche un altro «Gruppo Centrale», quello che si deve occupare dell’economia e della finanza, è presieduto da Xi Jinping. Rispondendo via e-mail alle domande di «Azione», Lam ha sostenuto che Xi «non potrà mantenere questo ritmo frenetico di attacco a “moscerini e tigri”... presto sarà isolato a meno che non si allei ad altri gruppi di potere, come quelli che fanno capo all’ex-presidente Jiang Zemin e all’expremier Li Peng. Al momento, la maggior parte dei grandi clan sono contro Xi Jinping. Se commetterà un errore in politica interna o in politica estera sono pronti a saltargli addosso». Un elenco dei dirigenti vicini a Hu Jintao che sono in posizioni chiave è sufficiente ad indicare la difficoltà del compito che si è dato il «cacciatore di tigri» Xi Jinping. Nell’attuale Politburo, oltre a Li Keqiang, ci sono altre quattro persone fedeli all’ex-presidente: si tratta del vicepresidente Li Yuanchao, dei vicepremier Wang Yang e Liu Yandong e di Hu Chunhua, segretario del PCC nella provincia industriale del Guangdong. Inoltre, Hu Jintao può vantare l’investitura che gli fu data, a suo tempo, dal «mostro sacro» Deng Xiaoping, mentre la candidatura e la promozione finale a numero uno di Xi Jinping sono state il frutto di un compromesso tra i principali «clan» che dominano la vita del Parito Comunista Cinese.

Notizie dal mondo Uruguay: la vendita legale di marijuana deve attendere Mercoledì 9 luglio in un’intervista all’agenzia di stampa AFP, il presidente dell’Uruguay José Mujica ha detto che l’inizio della vendita legale di marijuana nel Paese non inizierà, come previsto, entro la fine del 2014, ma sarà rinviata al prossimo anno. Ci sono infatti, ha spiegato Mujica, alcune «difficoltà pratiche» nell’attuazione della legge che era stata approvata nel dicembre del 2013. Il presidente dell’Uruguay ha anche giustificato la lenta attuazione della legge con la volontà di «fare bene le cose» e ha criticato quello che sta accadendo negli Stati Uniti, e cioè l’autorizzazione della vendita di cannabis per scopi medici in 23 Stati e per scopi ricreativi in Colorado e nello Stato di Washington dove due giorni fa hanno aperto i primi negozi: «Hanno liberalizzato la droga con un grado irresponsabilità che spaventa», ha detto Mujica. L’anno scorso l’Uruguay è stato il primo Paese al mondo a legalizzare la produzione e la vendita della marijuana. Permette a tutti i maggiorenni di coltivare la marijuana in casa con il limite massimo di sei piante e una produzione annuale che non può superare i 480 grammi a persona. Le farmacie autorizzate potranno vendere fino a un massimo di 40 grammi al mese per ciascun acquirente. La vendita dovrebbe essere riservata solo ai cittadini uruguaiani e a chi ha la residenza nel Paese. La marijuana potrà essere fumata in qualsiasi luogo dove è già possibile fumare tabacco. Chi sarà fermato alla guida sotto gli effetti della marijuana subirà le stesse sanzioni di chi ha bevuto alcol. Addio a Shevardnadze Lunedì 7 luglio è morto all’età di 86 anni Eduard Shevardnadze. Nel 1995 era diventato presidente della Georgia, da poco indipendente, ma nel novembre 2003 venne rovesciato dalla cosiddetta «rivoluzione delle rose». Fu anche l’ultimo ministro degli Esteri dell’Unione Sovietica e ebbe un ruolo importantissimo nella politica di distensione internazionale promossa da Mikhail Gorbaciov. Shevardnadze nasce nel 1928 a Lanchkhuti, otto anni dopo che la Georgia – a quel tempo Repubblica Socialista Sovietica di Georgia – entra a far parte dell’Unione Sovietica. Nel 1946 si unisce al movimento giovanile del Partito Comunista di cui divenne ben presto primo segretario (1972-1985). A partire dagli anni Sessanta si fece notare dal governo sovietico per la sua lotta contro la corruzione condotta contro molti funzionari locali. Sotto la sua guida la Georgia conosce un periodo di crescita economica, sia in campo industriale che agricolo, grazie a una importante riforma che restituiva il potere decisionale a livello dei governi locali. Nel 1985, in seguito all’elezione di Mikhail Gorbaciov, e in quanto giovane riformista, Shevardnadze diventa ministro degli Esteri dell’Unione Sovietica sostituendo Andrej Gromiko, storico responsabile delle relazioni con l’estero dell’Urss in carica da quasi trent’anni. Shevardnadze è stato il promotore della «Dottrina Sinatra», nome che il governo sovietico usò – facendo riferimento alla canzone My way di Frank Sinatra – per descrivere una nuova politica estera basata sulla non ingerenza nella politica interna dei Paesi dell’est che facevano parte del cosiddetto blocco comunista. In base a questa linea, Shevardnadze impedisce diversi interventi armati per reprimere i movimenti popolari di protesta, andando dunque contro il principio leninista di solidarietà internazionalista fra le forze socialiste mondiali.


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Politica e Economia

L’anatema del Papa

Chiesa e mafia Un rapporto che ha origini antiche ma dopo il forte discorso sulla scomunica pronunciato da Papa

Francesco in Calabria il clima sembra essere cambiato Alfredo Venturi È mai possibile che uomini come Giovanni Brusca, capaci di sciogliere nell’acido un bambino figlio di un «infame», cioè un mafioso pentito, e di azionare il telecomando di una strage come quella di Capaci, possano ricevere quegli stessi sacramenti che si negano a un divorziato? A questa domanda, che collega il nodo dei rapporti fra Chiesa e crimine organizzato con quello altrettanto controverso dell’etica familiare, papa Francesco ha dato una risposta che sul primo dei due punti segna una svolta. Lo ha fatto durante un viaggio in Calabria, nel regno della ’ndrangheta, e lo ha fatto con parole molto chiare: «la vostra terra... conosce i segni di questo peccato: l’adorazione del male e il disprezzo del bene comune... Coloro che nella vita percorrono questa strada... non sono in comunione con Dio, sono scomunicati». Già vent’anni or sono, nel solenne scenario della valle dei templi ad Agrigento, Giovanni Paolo II aveva condannato la mafia con estrema durezza, sia pure senza parlare di scomunica. Al discorso di Wojtyla seguì una risposta devastante, gli attentati contro le chiese romane di San Giovanni e San Giorgio al Velabro. Di fronte alle prese di posizione papali, il clero nelle aree critiche reagisce in maniera tutt’altro che compatta. Ci sono preti che difendono la legalità e sfidano la violenza fino ad affrontare la morte, come Pino Puglisi assassinato dalla mafia a Palermo o Beppe Diana ucciso dalla camorra a Casal di Principe. E ci sono preti, come Benedetto Rustico parroco a Oppido Mamertina alle falde dell’Aspromonte, che non esitano a rendere omaggio al boss locale, facendo sostare davanti alla sua casa la tradizionale processione della Madonna delle Grazie. Quella statua che s’inchinava davanti alla dimora del capoclan, condannato all’ergastolo per svariati omicidi all’interno di una faida che lasciò sul terreno decine di morti, ha seguito di pochi giorni la denuncia del Papa. Intanto alcuni detenuti nel carcere di Larino nel Molise confermavano la loro fedeltà alla ’ndrangheta interpellando il cappellano: se siamo scomuni-

La processione della Madonna a Oppido Mamertina, in Calabria. (Keystone)

cati, che cosa ci veniamo a fare a messa? Le quattro mafie che sfidano da sempre il potere statale in Italia, cosa nostra, ’ndrangheta, camorra, sacra corona unita, hanno sempre fatto sfoggio di un’intensa religiosità devozionale. Il fenomeno ha ragioni antiche, radicate in un Mezzogiorno che dopo avere opposto l’insorgenza sanfedista alle aperture liberali portate dalla rivoluzione francese visse con disagio l’unificazione nazionale, percepita da larghi strati popolari come una sopraffazione da parte degli italiani del Nord. Poiché il processo risorgimentale si era svolto contro la Chiesa e il suo potere temporale, il clero del Sud si ritrovò su un terreno comune con quei gruppi che contestavano l’autorità del nuovo Stato e a loro volta si servivano della devozione popolare per acquisire identità, legittimazione, consenso. Ecco i mafiosi che finanziano le attività caritative, i restauri delle chiese e le feste religiose, ecco i santi e le madonne che s’inchinano davanti alle dimore dei capi. La

stessa ritualità dell’iniziazione mafiosa, con tanto d’immagini sacre bruciate sul palmo della mano, attinge a piene mani alle liturgie cattoliche. Così il rapporto si consolida, e non muta nemmeno di fronte alla progressiva trasformazione delle mafie da centri di potere alternativi capaci di garantire l’ordine a vere e proprie organizzazioni criminali dedite al racket, alla prostituzione, al traffico di stupefacenti, abituate a sparare e uccidere. Di queste organizzazioni, parte del clero arriva a negare l’esistenza. Citato da Isaia Sales, autore del saggio I preti e i mafiosi, un sacerdote si è espresso in questi termini: «Chi ha detto che a Corleone c’è la mafia? Non è affatto vero. Tant’è vero che alla processione del venerdì santo... partecipa tutto il paese. Come si fa a spargere una calunnia del genere?». La tendenza a ignorare o sminuire il fenomeno non risparmia le alte sfere clericali: il cardinale Ernesto Ruffini, arcivescovo a Palermo negli anni Cin-

quanta e Sessanta, pur prendendo le distanze dai fatti di sangue parlava con un certo fastidio della «cosiddetta mafia», che era comunque «meglio del comunismo». Nel quadro del programma di rinnovamento promosso dal papa argentino, la decisione di eliminare ogni ambiguità nella condanna del crimine organizzato suscita interesse e attesa. E anche qualche preoccupazione. Il magistrato Nicola Gratteri, autore assieme al criminologo Antonio Nicaso di un libro dal titolo Acqua santissima sui rapporti fra Chiesa e ’ndrangheta, ha dichiarato in un’intervista che le mafie temono la pulizia e la trasparenza imposte dal Papa alle finanze vaticane, e questo lo espone a rischi. D’altra parte la reazione dei detenuti di Larino al discorso sulla scomunica conferma che Francesco ha colpito nel segno: i mafiosi tengono moltissimo allo scudo religioso, ne va della loro immagine, del loro radicamento territoriale. Certo non è facile intervenire su

costumi tradizionali così radicati, su certi singolari intrecci di ruolo e di funzione. Per esempio la famiglia del parroco di Oppido Mamertina, i Rustico, è notoriamente vicina al clan di Giuseppe Mazzagatti, il destinatario dell’inchino. Il vecchio Giuseppe ha un figlio, Rocco, anche lui in carcere per crimini assortiti, che prima di dedicarsi alla ’ndrangheta studiò in seminario. Insomma nella sua scelta di vita si trovò davanti a un bivio: prete o mafioso. Intanto il parroco nega che si sia voluto rendere omaggio a chicchessia, denuncia la «montatura» della stampa, sostiene che il percorso della processione è lo stesso da sempre. E il maresciallo dei carabinieri che ha abbandonato il corteo denunciando l’imbarazzante episodio e invitando la gente di Oppido a «non avere paura di vivere liberi»? Quello è uno che vuol fare carriera, dicono in paese. Intanto un vescovo provvede a scagionare l’involontaria protagonista dello scandalo: si è inchinata una statua, non la Madonna! Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

Favorire l’accesso alla proprietà mette in pericolo le casse pensioni? Previdenza professionale Una mozione del Parlamento chiede al Consiglio federale uno studio

sulle conseguenze del ritiro del capitale di vecchiaia del II pilastro per finanziare l’acquisizione di un alloggio Ignazio Bonoli All’inizio dello scorso mese di giugno, dopo il Consiglio Nazionale, anche il Consiglio degli Stati ha accettato una mozione che obbliga il Consiglio federale a presentare un bilancio delle conseguenze del ritiro anticipato degli averi dell’assicurazione professionale (II pilastro) per finanziare l’acquisizione di un’abitazione in proprietà. L’autorizzazione era stata prevista nella Legge sulla previdenza professionale (LPP) per favorire l’accesso alla proprietà, che in Svizzera è molto minore che in altri Stati. Oggi però il problema – accompagnato dal progetto di revisione totale della previdenza vecchiaia, entro il 2020 – si presenta sotto un aspetto diverso. Anche in questo caso l’evoluzione demografica da un lato e la situazione finanziaria dall’altro pongono problemi di un certo peso alle casse pensioni. Rimedi a questa situazione sono già stati visti, da un punto di vista tecnico, sia con la diminuzione dell’interesse da pagare sul capitale di vecchiaia, sia con la riduzione del tasso di conversione di questo capitale in rendita. Ora si teme però che il prelievo di capitale per scopi previsti dalla legge (abitazione propria, ma anche avvio di un’attività in proprio o partenza definitiva all’estero) possa provocare in pratica un trasferimento di oneri dall’assicurazione professionale a quella di base, cioè l’AVS, con l’addentellato dell’AI e delle prestazioni complementari (PC). Infatti, chi ha prelevato il capitale di vecchiaia per procurarsi un’abitazione e, magari, deve ancora sopportare interessi e ammortamen-

Nel 2012, un miliardo e 900 milioni di franchi sono stati ritirati dalle casse pensioni per finanziare la propria abitazione. (Keystone)

ti di ipoteche, può venire a trovarsi nell’indigenza e chiedere prestazioni complementari all’AVS (o all’AI) al momento del raggiungimento dei requisiti previsti (età o invalidità). Effettivamente, se questa tendenza continua e si generalizza, potrebbe verificarsi un trasferimento da un’assicurazione all’altra, di per sé contrario al principio secondo cui la previdenza professionale deve servire a formare con l’AVS e l’eventuale terzo pilastro un reddito di pensione vicino a quello del precedente periodo lavorativo. Più oltre, c’è perfino chi vede in questo fe-

nomeno parziale una messa in pericolo del sistema svizzero dei tre pilastri, adducendo – giustamente – che la previdenza professionale è stata creata per la vecchiaia (o l’invalidità) e non per finanziare la propria abitazione. Per il momento non ci sono però dati sicuri che provino la pericolosità di questo fenomeno. Per questo viene chiesto al Consiglio federale uno studio specifico sui rapporti fra ritiro del capitale di vecchiaia e ricorso alle prestazioni complementari dell’AVS. Un recente lavoro di diploma di scuola professionale ha analizzato la situazione, ma è

giunto alla conclusione che non vi sono a tutt’oggi dati sicuri che possano provare un rapporto diretto fra ritiro del capitale di vecchiaia (LPP) e il ricorso a prestazioni complementari all’AVS. In realtà, le istanze interessate non elaborano statistiche di questo tipo, perché per il momento il fenomeno si limiterebbe a casi singoli. Non è però escluso che possa generalizzarsi. Per il momento (2012) gli averi di vecchiaia (617 miliardi) sono stati prelevati in misura di 5’500 milioni per ritiro del capitale invece della rendita, per 630 milioni per versamenti a superstiti o in-

validi, per 1’900 milioni per finanziare la propria abitazione e 630 milioni per fondare un’azienda o per partenza all’estero. Dei 1’900 milioni prelevati per l’abitazione 348 sono stati rimborsati. Le esperienze maturate fin qui da alcune istituzioni non provano in nessun caso che ci sia una tendenza a sperperare denaro per poi ottenere prestazioni complementari. Chi finanzia in questo modo la propria abitazione dispone di un certo reddito e difficilmente giungerà al pensionamento con una rendita che esige le prestazioni complementari. Vi sono però anche casi di redditi bassi che preferiscono il ritiro del capitale. In molti casi si tratta però di capitali molto modesti, che in ogni caso genererebbero anche rendite molto modeste. In questi casi anche le prestazioni complementari sarebbero in ogni caso necessarie. Sarebbe quindi molto difficile stabilire un nesso diretto fra ritiro del capitale e prestazioni complementari AVS. Ciò è riconosciuto anche dall’Ufficio per la previdenza professionale, salvo appunto in casi eccezionali. Del resto trascorrono di regola parecchi anni fra il ritiro del capitale e la richiesta di prestazioni complementari. Queste ultime sono di competenza dei cantoni e quindi finanziate dal contribuente. Un argomento in più per chiarire bene la situazione, prima di prendere provvedimenti. Dal canto suo l’UFPP sta valutando la situazione, ma ci risultati non saranno noti prima della fine dell’anno. Comunque, certi limiti sono già previsti nella legge: le Casse pensioni potrebbero limitare a un quarto del capitale dell’assicurazione obbligatoria l’erogazione al momento del pensionamento, generalmente però non lo fanno.

Parliamo di lepri e tartarughe La consulenza della Banca Migros

Albert Steck Purtroppo ho aspettato troppo ad acquistare azioni. È giusta la mia impressione che tanti altri investitori si sono persi il momento d’oro?

Albert Steck è responsabile delle analisi di mercato e dei prodotti presso la Banca Migros

Conosce la favola della lepre e della tartaruga? La lepre prende in giro la tartaruga per la sua lentezza, fino a quando quest’ultima propone di cimentarsi in una gara. La lepre si mette subito a correre con i suoi lunghi balzi poi, ben sicura di vincere, a metà percorso va a coricarsi nell’erba, si addormenta e si sveglia soltanto quanto la tartaruga taglia il traguardo accolta dall’esultanza degli spettatori. Anche tra gli investitori ci sono lepri e tartarughe: l’impetuosa lepre si precipita sulle azioni quando i prezzi salgono. Se la borsa perde terreno, vende le sue posizioni altrettanto velocemente con l’intenzione di riaffacciarsi sul mercato in un secondo momento, quando le quotazioni sono più convenienti. Tuttavia, nella perenne speranza che i prezzi scendano ancora, si lascia sfuggire le buone opportunità di acquisto. E, immancabilmente, si perde il boom. La tartaruga, invece, studia prima di tutto scrupolosamente il ritmo di marcia (ossia la quota azionaria) che fa al caso suo. Una volta che ha individuato la strategia, si attiene co-

erentemente ad essa, anche di fronte agli scivoloni della borsa. Infatti la tartaruga sa che, a lungo termine, i prezzi salgono e ha la necessaria perseveranza per beneficiare della ripresa, quando arriverà.

La costanza negli investimenti paga

Boom troppo poco sfruttato +30% +20% +10%

Rendimento «acquista e tieni»

0 –10%

Nella prassi gli investitori tendono al comportamento irruente della lepre: quando i prezzi salgono, acquistano in uno slancio di ottimismo, ma quando le borse correggono si precipitano a uscire. L’effetto è raffigurato nel grafico, con il confronto tra le due curve. La linea blu mostra l’andamento effettivo del patrimonio azionario dei privati in Svizzera dal 2002. La curva rossa superiore mostra invece la performance di una strategia del tipo «acquista e tieni», ossia se l’investitore mantiene costante la quota azionaria, analogamente alla perseverante tartaruga. Dal grafico risulta che la distanza tra la curva blu e quella rossa aumenta continuamente, perché i privati hanno ridotto le loro posizioni azionarie dopo il ribasso. Per questo ora possono beneficiare solo limitatamente del

Rendimento effettivo

–20% –30%

2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2012 2013 2014

Dopo la correzione dei mercati gli investitori privati hanno ridotto le loro posizioni azionarie. Per questo guadagnano meno durante l’attuale boom. La curva blu indica l’effettiva performance azionaria conseguita dai privati dall’inizio del 2002. Con una strategia del tipo «acquista e tieni» (ossia con una quota azionaria costante) avrebbero ottenuto un risultato di gran lunga migliore. Fonte: Banca Migros

boom delle borse. E la somma in ballo è ingente, come dimostrano i seguenti dati: attualmente i privati detengono azioni per un valore di circa 280 miliardi di franchi. Con una strategia del tipo «acquista e tieni» orientata a lungo termine questo patrimonio sarebbe tuttavia maggiore di 24 miliardi

di franchi. Se solo gli investitori si fossero comportati un po’ di più come tartarughe! Attualità su blog.bancamigros.ch: «L’occasione persa del boom delle borse». Così abbiamo calcolato l’utile di 24 miliardi sfuggito di mano in borsa.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 14 luglio 2014 ¶ N. 29

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la piazza di Angelo Rossi Frenare l’insediamento di nuove aziende? Già alla fine dello scorso febbraio, Avenir Suisse, il think thank che cerca di applicare i principi dell’economia di mercato a tutti i problemi della Svizzera, aveva proposto, come misura alternativa al contingentamento della manodopera straniera, di sopprimere tutte le facilitazioni ed esenzioni fiscali che i Cantoni accordavano alle aziende che intendevano insediarsi sul loro territorio. Il ragionamento di quei ricercatori era il seguente: le aziende straniere che si insediano da noi fanno largamente ricorso a manodopera estera. Se, sopprimendo le esche fiscali, si riesce a contenerne l’aumento si avrà un effetto di freno anche sull’immigrazione di lavoratori. In sé, il discorso non fa una grinza. Ha anche, per chi lo ha formulato, il vantaggio di spostare la responsabilità

dell’eventuale immigrazione eccessiva dalle aziende, che assumono i lavoratori stranieri, verso i Cantoni, che promuovono l’insediamento di aziende straniere, vale a dire dal privato verso il pubblico. Difficile dire, in mancanza di dati precisi, quale potrebbe essere la portata di questa misura. Forse anche per questo la stessa non ha ricevuto molta attenzione al momento della sua pubblicazione. A metà giugno di quest’anno, però, la soppressione dei vantaggi fiscali per le aziende è tornata in prima pagina perché la stessa è entrata a far parte del catalogo di misure con le quali il partito socialista svizzero propone di controllare l’immigrazione di lavoratori stranieri. Vale quindi la pena di soffermarvisi un momento. La storia della politica regionale svizzera

conosce due tipi di intervento promozionale di natura fiscale. Nel primo caso si accorderebbero facilitazioni fiscali alle aziende per aiutarle a superare momenti di crisi, o le necessità di una ristrutturazione, insomma perché possano conservare i loro posti di lavoro. Il secondo caso è invece quello che vorrebbero attaccare Avenir suisse e PS. Si tratta di esenzioni e facilitazioni fiscali con le quali si cerca di rafforzare l’attrattiva di un Cantone, in particolare per aziende che provengono dall’estero, nell’intento di creare nuovi posti di lavoro. Sull’efficacia di questo secondo tipo di facilitazioni fiscali gli economisti sono divisi. I tradizionalisti, fino alla fine del febbraio di quest’anno, hanno sempre sostenuto che le esenzioni alle aziende non facevano altro che modificare le

condizioni di concorrenza, creando inefficienza all’interno del mercato elvetico, senza creare veramente un numero importante di posti di lavoro. Gli economisti regionalisti, invece, hanno provato più volte e nel caso di diverse realtà periferiche che l’esenzione o la facilitazione fiscale porta direttamente alla creazione di posti di lavoro. Nessuno ha invece potuto dimostrare finora che le facilitazioni fiscali per le aziende abbiano avuto un effetto significativo sull’aumento della produttività. Numerosi sono invece i casi documentati nei quali si è verificato che, una volta scaduta l’esenzione, la nuova azienda ha chiuso i battenti oppure ha spostato la sua sede in un altro Cantone, per cercare di approfittare di facilitazioni analoghe. Ora, indipendentemente dalla strada

che seguirà, nel corso dei prossimi mesi, il dossier sul contingentamento della manodopera estera, è molto probabile che la proposta di Avenir Suisse e del PS diventi di attualità. Nasceranno discussioni attorno agli obiettivi e alle misure di promovimento economico dei singoli Cantoni e, quindi, anche di quelli del Ticino, uno dei Cantoni maggiormente impegnato nell’attrarre aziende straniere. A meno che a scaricare le nostre autorità non ci pensi il parlamento italiano, adottando la proposta della Regione Lombardia, con la quale si vorrebbe promuovere la creazione di una zona franca (vale a dire una zona con forti agevolazioni fiscali per le aziende) alla frontiera con la Svizzera, per contenere l’emigrazione di aziende verso i comuni del Sottoceneri.

soltanto un paio di foto, senza barba, si sapeva che era diventato capo di al Qaeda in Iraq perché a nessuno interessava più di tanto quel fronte, c’erano battaglie ideologicamente e militarmente migliori da combattere, un funzionario del jihad, secondo i suoi nemici un semplice postino che abitava nella casa che s’affacciava sul cortile in cui i corrieri di al Qaeda si scambiavano materiali e informazioni. Si sapeva che era nato a Samarra, nel 1971, che era arrivato appena diciottenne nella periferia ovest di Baghdad, quartiere misto di sciiti e sunniti, e che lì aveva studiato la legge della sharia. Oggi che i reporter cercano di ricostruire la storia di questo califfo dalla bella voce e dalla vista corta a capo del più potente e ricco gruppo jihadista del mondo, sappiamo che i contatti con l’estremismo sono arrivati negli anni a Baghdad, che con l’arrivo degli americani al Baghdadi è finito in prigione (pochi mesi), che la sua intuizione è stata applicare una logica manageriale alla guerra santa. È così, con la determina-

zione e nell’indifferenza sostanziale del mondo intero, che al Baghdadi è riuscito a costruire lo Stato islamico, arrivando al punto di rompere con al Qaeda, per ragioni ideologiche – al Baghdadi voleva il califfato subito, al Qaeda lo vuole dopo la cacciata degli occidentali e dei loro sostenitori – e per ragioni anche opportunistiche: lo Stato islamico era ben più forte e pieno di soldi, perché dover ubbidire agli eredi di Osama bin Laden? I fatti gli hanno dato ragione: mai un gruppo jihadista aveva conquistato una città come Mosul, la seconda più grande dell’Iraq, la pietra fondativa del Califfato. Che si basa su un modello di business preciso: c’è un organigramma della struttura, c’è un bilancio, ci sono gli obiettivi da raggiungere, c’è una strategia comunicativa che pare clonata dalla perfetta macchina elettorale dell’era obamiana, ora con il sermone pubblico a Mosul c’è anche il consenso popolare che ancora mancava. Il califfo Ibrahim chiede la sottomissione del mondo islamico, annuncia

che il prossimo traguardo è Baghdad, laddove si sta concentrando la resistenza sciita del premier Nouri al Maliki e dei suoi alleati. È una prova di forza nel mondo islamico, nell’infinta e sanguinosa lotta tra sciiti e sunniti, e anche un cortocircuito internazionale: può l’Occidente allearsi con al Maliki – e quindi con l’Iran – contro lo Stato islamico? Non può. Può agire da solo? Pare non voglia farlo. Può rifugiarsi nel suo attendismo? È la via finora intrapresa. Ma la situazione siriana dimostra che non è una strategia a lungo termine. Soprattutto perché per il califfo Ibrahim la caduta del regime di Assad – che vorrebbe anche l’Occidente – ha un risvolto personale. Gira voce che la moglie del neocaliffo, madre dell’unico figlio che dovrebbe avere circa undici anni, sia siriana e che sia stata fatta prigioniera dal gruppo qaedista che combatte in Siria, Jabat al Nusrah, che però è in lotta con lo Stato islamico, oltre che con il regime di Assad. La signora al Baghdadi sarebbe così la Elena di questa moderna, feroce, ideologica guerra di Troia.

svizzero, ha già formulato la sua tesi da contrapporre alle denunce della sinistra: «nel confronto internazionale – si osserva nel quaderno Distribuzione – la Svizzera è tra i Paesi dove la disuguaglianza è minore, inferiore ad esempio a quella dei suoi tre grandi Paesi vicini», ossia Francia, Germania e Italia. Questo per dire che l’andamento economico degli ultimi anni non ha tramortito il ceto medio com’è avvenuto altrove, conseguenza di un generale impoverimento provocato dall’incremento del debito privato e da un giro di vite abnorme della pressione fiscale. Controllare la mole e i movimenti del capitale è comunque difficile, se non impossibile in regime di «discrezione» e di «segretezza». Ma a volte basta una cifra, una percentuale, un indizio per cogliere lo spirito del tempo o, più banalmente, l’aria che tira. Così, nella «NZZ» dello scorso 19 giugno, pagina «Borse e mercati», possiamo leggere che nel 2013 il patrimonio dei più facoltosi al mondo ha raggiunto

la cifra primato di 52 620 miliardi di dollari. «In Svizzera – prosegue il quotidiano zurighese – tra il 2012 e il 2013 il numero dei milionari è cresciuto di un sesto, toccando quota 330 000. Nel confronto internazionale la Confederazione si colloca al settimo posto, preceduta solo da Paesi di ben altra consistenza demografica, come gli Stati Uniti, Giappone, Germania, Cina, Gran Bretagna e Francia». Di fronte a questa graduatoria ci si può legittimamente chiedere: il fatto che nel nostro Paese il ceto medio continui a vivere dignitosamente, al riparo dal rischio povertà, basta a giustificare aliquote fiscali così favorevoli ai benestanti? Il Ticino ha storicamente sempre avuto un occhio di riguardo per le classi di reddito più povere, facendo leva su una tassazione fortemente progressiva. Altri Cantoni, specie nella Svizzera centrale, hanno invece imboccato la strada opposta, sperando così di attirare frotte di classi agiate nella loro regione. Ma la presenza di un alto numero di ricchi

in un’area determinata (e, all’opposto, un alto numero di poveri) non è socialmente neutrale: si pensi solo alle conseguenze sul prezzo e la disponibilità di terreni edificabili, sugli affitti, sul livello dei prezzi in generale. Anche sul piano dell’evoluzione demografica le traiettorie divergono, giacché la prevalenza dell’uno o dell’altro polo, della ricchezza o della povertà, condiziona il numero dei figli e la composizione etnica e sociale di un dato territorio. La ricchezza è benvenuta. Meglio vivere in un Paese ricco che in un Paese povero: parola di Adam Smith, il padre della scienza economica moderna. Ma una politica degna di questo nome non può chiudere gli occhi sulle disparità sociali, sulle implicazioni giuridiche ed etiche legate all’afflusso di capitali sporchi, su modelli di sviluppo fondati su concorrenze fiscali scriteriate; insomma, su tutti quei «danni collaterali» che ogni eccesso sperequativo finisce per creare a danno dell’intera società.

Affari Esteri di Paola Peduzzi La guerra di Troia irachena Il califfo Ibrahim si è fatto vedere, per la prima volta, nella moschea di Mosul il primo venerdì di Ramadan, e ha tenuto un sermone erudito e battagliero: il discorso di fondazione del Califfato, quell’entità istituzionale che al mondo musulmano rimanda all’età d’oro dell’Islam, quando Baghdad e la meravigliosa Samarra erano le capitali del mondo. Il califfo Ibrahim finora l’abbiamo conosciuto come Abu Bakr al Baghdadi (nella foto), è il capo dello Stato islamico, un gruppo jihadista che nasceva da al Qaeda in Iraq e che poi ha trovato una sua identità in contrapposizione con la stessa leadership alqaedista: a garantire l’ascesa dello Stato islamico è stato il vuoto di potere in Siria, i ribelli fragili da una parte e il regime spietato dall’altro, un’occasione per conquistare territorio, finanziamenti, consenso, visibilità. Fino alla conquista di Mosul, avvenuta a inizio giugno, il quartier generale di al Baghdadi era a Raqqa, in Siria, e da lì è partita l’operazione irachena che ha portato il leader dello Stato islamico a dichiarare la nascita del

Califfato, con i suoi confini in espansione – comprende, nei piani, anche la Giordania. Del califfo Ibrahim non si sa molto, secondo gli esperti di intelligence mediorientale persino i servizi segreti internazionali faticano a compilarne il profilo completo: prima del sermone a Mosul, esistevano di al Baghdadi

Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Seduzioni e illusioni del capitale Il capitale circuisce e ammalia, alimenta sogni e genera invidie. Ma soprattutto dà lavoro agli economisti e talvolta fa la fortuna loro. Il volumone del francese Thomas Piketty – oltre 900 pagine più un copioso apparato statistico on-line – ha riacceso il dibattito sulla questione della distribuzione della ricchezza nelle società occidentali. Il pesante tomo, che in italiano uscirà in autunno presso l’editore Bompiani, s’intitola Le capital au XXIe siècle, titolo che, ovviamente, richiama alla mente uno dei grandi classici dell’economia politica dell’Ottocento, quel Das Kapital che Marx dette alle stampe fra mille ripensamenti e dubbi nel 1867. Allora quel primo Capitale vendette poche copie, qualche migliaio appena; troppo ardua la lettura, troppo tortuoso il ragionamento. Il secondo Capitale, quello di Piketty, è invece diventato immediatamente un caso editoriale. Subito pubblicato anche in inglese – apprendiamo dal mensile «Alternatives économiques» – ha già venduto

400mila copie e ora è in traduzione in venticinque lingue. La diagnosi di Piketty, che si appoggia su dati empirici raccolti sul lungo periodo, ha destato interesse anche in Svizzera, Paese in cui il capitale, la sua accumulazione, concentrazione ed eventuale ridistribuzione attraverso i canali della socialità, è sempre stato al centro del confronto politico. Questo perché il capitale si accoppia ad un insieme di fattori, come il segreto (in primis quello bancario), la fiscalità (sistema tributario, concorrenza intercantonale, livello di evasione), le disuguaglianze tra ceti sociali e regioni economiche, la forza della piazza finanziaria (banche e fiduciarie), la reputazione del Paese come «paradiso fiscale» o come «porto sicuro» dei tesori d’oscura provenienza (criminalità organizzata, traffici illeciti, riciclaggio). In previsione di un rilancio del dibattito sulla distribuzione dei redditi, Avenir Suisse, la cellula riflessiva (think tank) del mondo padronale


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Cultura e Spettacoli Musica e montagna Di recente uscita un volume che raccoglie spartiti musicali la cui veste grafica si ispira alla montagna

Antropop di Canestrini Cosa contraddistingue l’uomo del XXI secolo? Anche nell’era dei reality le fisime non mancano

La Sicilia di Buttafuoco Incontro con il giornalista e scrittore che osserva e descrive lo spirito della sua isola

La SMUM a Estival L’orchestra luganese spicca un balzo qualitativo e si guadagna uno spazio in Piazza Riforma

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Io sono un’altra Mostre Cindy Sherman al Kunsthaus

di Zurigo con i suoi autoritratti provocatori Gianluigi Bellei Chi sono io? Una domanda banale alla quale in genere una persona risponde con delle ovvietà. Sono un idraulico, un commesso, un professore, una casalinga… Il modo più semplice per saperlo è controllare la propria carta d’identità: riconosceremo così il nostro nome, l’altezza, il colore degli occhi, la data di nascita e, a parte casi patologici, sapremo identificarci, anche tra e con gli altri. In realtà, a parte la professione che oggi come oggi può essere fluttuante, la nostra identità è frutto di una complessa interrelazione fra noi e in primo luogo la realtà famigliare, fatta di parenti, figli, nipoti. Poi il nostro raffrontarci con il gruppo di appartenenza, sia esso religioso, politico, calcistico, che rafforza la nostra identità e, in un certo senso, la rassicura facendoci ritrovare all’interno di un determinato assetto sociale, meglio se immutabile. Naturalmente il confronto con l’altro, il diverso, viene rafforzato e vissuto positivamente solo se queste nostre esperienze stabili e acquisite diventano convenzionali e la nostra conoscenza diviene riconoscimento. Tutto questo serve a rassicurarci e nello stesso tempo a interpretare e affrontare la realtà con quel sentimento di identità che è l’immagine del sé. Il non riconoscimento del sé può portare al delirio e di conseguenza a «produrre idee irrazionali». Ma a volte la creatività o il progettare cambiamenti radicali della società possono essere il tentativo di non assoggettarsi al conformismo e in alcuni casi alla conoscenza del sé.

Truccandosi e mettendosi in scena l’artista americana cerca di smascherare l’ipocrisia moderna Molti artisti hanno comportamenti o realizzano volontariamente lavori, diciamo così, «deliranti». Fra questi, magari, rientra Cindy Sherman. Nata nel New Jersey nel 1954, ha studiato a Buffalo dove ha conseguito il Bachelor of arts nel 1976. Si dedica inizialmente alla pittura per poi incanalarsi verso la fotografia. All’ultima Biennale di Venezia, quella curata da Massimiliano Gioni, ha presentato un progetto curatoriale composto di duecento opere di trenta artisti. Una sorta di album fotografico degli anni Sessanta che Sherman ha collezionato nell’ultimo decennio. Immagini di quotidiana normalità di donne che cullano delle bambole, posano con la loro borsetta, di uomini che si travestono e si truccano… Una sorta di au-

torappresentazioni che, come scrive lo stesso Gioni in catalogo, «compongono un teatro anatomico nel quale sperimentare e riflettere sul ruolo che le immagini hanno nella rappresentazione e percezione di sé». Da qui probabilmente l’ossessione di mettersi in gioco: come donna, artista, essere umano. Nei suoi lavori troviamo quasi sempre lei in diversi contesti e situazioni ma soprattutto la vediamo truccata ed agghindata tanto da sembrare una persona sempre diversa. I meccanismi di identificazione e riconoscimento sociale si spezzano, come pure l’appartenenza di genere. Sherman incarna così diversi personaggi senza mai ritrovarsi. Tra il 1988 e il 1990 si traveste per riproporre delle figure tratte da vecchi dipinti di Caravaggio, Raffaello, Goya, Fouquet in una sorta di storia dell’arte surrealista (vedi l’immagine qui a lato, Untitled #216 del 1989). Verso il 1992 lavora con delle protesi mediche e delle bambole da sexshop in maniera provocante e assurda. Tra il 1994 e il 1996 lavora sulle immagini di corpi in putrefazione dei morti in guerra e tra il 2003 e il 2004 la troviamo travestita da clown quasi a ricordarci la nostra infanzia, il divertimento ma anche la mostruosità. Il Kunsthaus di Zurigo le dedica una retrospettiva organizzata assieme all’Astrup Fearnley Museet di Oslo e il Moderna Museet di Stoccolma. Questo dopo il successo ottenuto nel 1997 al Moma di New York, nel 2006 alla Galerie Nationale du Jeu de Paume a Parigi e la partecipazione a grandi mostre come per esempio Post Human nel 1992, L’Informe. Mode d’emploi del 1996 o la Biennale di Whitney del 1993. Nel 1995 il Moma le ha comprato le 69 immagini di Untitled film stills per un milione di dollari e un suo lavoro oggi può valere fino a 2 milioni di euro. Centodieci le opere in mostra al Kunsthaus, disseminate fra le sale in forma disorganica ed eclatante, fra lavori piccoli e altri enormi. Nessun percorso cronologico, quasi a voler riunire i vari periodi e le diverse stagioni creative in un unico dispiegarsi caotico che porta con sé l’indistinguibilità e la coerenza di un percorso costellato di incognite e perdizioni. Tutte le foto sono senza titolo (anche se in realtà per convenzione l’avrebbero) per lasciare lo spettatore libero di crearsi il proprio. Disposte a volte come in una galleria ottocentesca, le opere assumono così un valore immaginifico che travalica il singolo lavoro per ricomporsi in un discorso più complesso. Utilissimo in questo senso il catalogo che, al contrario, presenta le opere cronologicamente così da poter verificare l’evoluzione dell’artista. Intrigante la scelta dei testi che non sono realizzati da

storici dell’arte o da critici bensì da artisti e scrittori che sono stati influenzati dal suo lavoro. In ogni caso troviamo la sensualissima Cover girl del 1976, le immagini orrorifiche degli anni Ottanta, come l’incredibile Untitled#140 dal volto innocente e pensoso di un maiale, le immagini magmatiche e ripugnanti di Untitled#239 del 1987-91 e quelle di carattere esplicitamente sessuale e un po’ perverse degli anni Novanta fino a quelle tragiche e grottesche del 1999. Poi la serie dei clown e l’ultima stagione barocca e serena di qualche anno fa. Melodramma, malinconia, disgu-

sto, grottesco, provocazione, sorpresa, ma soprattutto narcisismo in questi lavori dove non esiste il personaggio originale. Tutte le variazioni sono l’originale, in un caleidoscopio di ruoli che sanno di delirio. Chi volesse immedesimarsi, per perdersi, può usufruire delle parrucche e degli oggetti vari, che si trovano nel salone d’entrata, per travestirsi e autofotografarsi nell’apposita cabina per fototessere (naturalmente fra le risatine dei presenti). Il 31 agosto alle ore 12 all’Arthouse Movie 2, sempre a Zurigo, il Kunsthaus

organizzerà la proiezione del film di Cindy Sherman Office Killer del 1997, una sorta di commedia horror nella quale la regista si cimenta con un occhio straordinario per gli ambienti claustrofobici e maleodoranti. Dove e quando

Cindy Sherman – Untitled Horrors A cura di Mirjam Varadinis Kunsthaus. Zurigo. Fino al 14 settembre. Catalogo Hatje Cantz, fr. 49.– www.kunsthaus.ch, www.arthouse.ch


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Cultura e Spettacoli

Sullo sfondo, la montagna Musica e illustrazioni Di recente pubblicazione il bel libro Spartiti delle montagne,in cui si disegna

un prolifico e interessante binomio Piero Zanotto In qualche modo serve a festeggiare il 140mo anno di attività del Museo della Montagna «Duca degli Abruzzi», filiazione del Club Alpino Italiano, che dal torinese Monte dei Cappuccini sembra abbracciare con lo sguardo il Po e l’intera città. Si tratta del nuovo bellissimo e insieme severo volume che testimonia di un ulteriore specifico settore dell’ormai immenso suo patrimonio collezionistico riguardante l’intera iconografia delle montagne. Il doppio titolo, Spartiti delle Montagne e Copertine di musica ne rivela già il contenuto. Scritto e composto a sei mani, quelle in primis di Aldo Audisio direttore del Museo, segugio instancabile nel cercare, e trovare, nuovi cimeli in tema su carta e su nastro (e disco) di fotogrammi ad arricchire il Centro Documentazione e la Cineteca Storica. Con lui i due musicologhi Andrea Gherzi e Fran-

cesca Villa. Attivo in didattica e concertistica il primo, oltre che autore di pezzi pianistici e varie melodie. Violoncellista la seconda con esibizioni da solista in più Paesi anche extraeuropei. «Capita spesso di cercare un po’ ovunque queste montagne da collezionare», scrive Audisio. «Magnifiche ossessioni, alimentate con sogni e simboli del nostro immaginario». Nel caso presente, copertine «da ascoltare», seducenti inviti a percorrere un’ideale alta via al ritmo di polka, mazurka, galop e, soprattutto, valzer. Come la copertina del Valzer della Neve musicato da Enrico Matteo Giordano nel 1904 (e dedicato ai genitori), insieme a Torino, scovato da Audisio presso uno degli antiquari di San Telmo a Buenos Aires. «Caro ricordo della Patria lontana di qualche emigrante», è il commento. Apre da staffetta la rassegna di copertine e spartiti, suddivisa per argomenti ognuno preceduto

da chiarificante introduzione, spesso anche di natura storica. Vi si racconta nascita e vita dello spartito, ovvero l’editoria musicale attraverso le varie tecniche di stampa. Piano piano essa si è vista sempre più spesso munita di copertine illustrate di gradevole grafica, affidata a disegnatori di bella sensibilità, talora accarezzando il gusto del pubblico del loro tempo, in Europa e nelle Americhe. Una Suite Alpestre, per dirla ancora con Audisio, che inizia col capitolo Suggestioni Alpine. Inevitabilmente ripetitivi i titoli dei tre brevi saggi introduttivi: Le montagne declinate in musica, Le illustrazioni della musica, Le montagne sul pentagramma. Eppure essi risultano chiari nel loro tentativo di differenziare nei contenuti i capitoli dell’offerta, che riguarda un vasto panorama geografico e insieme idealistico. Per quest’ultimo va citato, col gruppo di copertine di suggestione anche enfatica, La patria alpina: come la marcia di Sabatini e Sanguinetti (1915), Trieste redenta, e dello stesso anno l’inno Trento e Trieste, musica di Wando Altrovandi. E ancora gli inni e le canzoni dedicate agli alpini, Inno degli sciatori e I fior della montagna. Dopo gli alpini, per il Cai, sono gli alpinisti a iniziare dall’inno del maestro Rotoli del 1882, con due illustrazioni: Excelsior Excelsior... Si diceva della geografia montana. Una bella serie ha per protagonisti siti alpini svizzeri. Da ricordare la Mazurka per piano L’Engadine del 1890, e tra altri, L’idille di Kling (1896), Au village suisse, oltre alla elaborata figurazione della copertina «Souvenir de l’Exposition Universelle de Paris 1900» per il Valse du village suisse del maestro A. Caro. Per gli alpinisti e gli sciatori c’è una divertente campionatura di copertine umoristiche e alcune dedicate ai vulcani – si vedano gli spartiti per i galop e i canti popolari per il napoletano Vesuvio, da La Funico-

A destra, uno spartito alpestre del 1908, a sinistra uno spartito statunitense del 1926.

lare (1900) all’allegro del maestro Denza dello stesso anno Funiculì funicolà. Alle montagne d’oltre oceano dell’Alaska, dello Wyoming, del Klondike, del Colorado e per i pellerossa Navajo e le Rocky Mountains, altri spartiti e altre copertine suggestivamente espressive: valzer, marce, tanghi. Momenti idilliaci, anche, come La Travesia de los Andes, valzer per piano di Pedro Datta (1916). Così come si colorano di folklore e di ricordo «eroico» copertine e musiche per il pioniere polare britannico (1926 e 1930) Richard E. Byrd per il documentario Paramount With Byrd at the South Pole. Una seconda parte del ricco libro edito da Priuli & Verlucca si chiama Pagine di Musica. Con le traduzioni dei testi in inglese e in sequenza tutte le schede

degli spartiti. Il posto d’onore in chiusa dei capitoli viene riservato a La Montanara del vicentino Antonio (Toni) Ortelli (1904-2000), il quale – si legge – non poteva immaginare che un giorno sarebbe stata tradotta in centocinquanta lingue, diventando il canto di montagna più famoso al mondo. Musicista dilettante, appassionato alpinista, Ortelli di sentì balenare in mente parole e musica un giorno del 1927, scendendo da un pian della Mussa (Val d’Ala), suggestionato da un pastore che cantava al Pian Ciamarella. Di La Montanara il libro pubblica più copertine, una anche disegnata con semplice tratto dallo stesso Ortelli, sottotitolo Canto dei Monti Trentini, assieme alle pagine del pentagramma nelle diverse versioni dalla prima alla definitiva.

Tradurre è tradire, soprattutto sul grande schermo Cinema Le fantasiose (e infedeli) versioni italiane dei titoli originali di molti film

Giovanni Medolago «The Wolf of Wall Street: ma perché non tradurlo in italiano? Ah, irrecuperabile provincialismo italiota». Iniziava così la recensione di Paolo Mereghetti dell’ultimo film di Martin Scorsese, apparsa sul «Corriere della Sera». Per una volta non siamo proprio d’accordo con Mereghetti, poiché il presunto provincialismo italiota, nei decenni scorsi, ha portato a veri e propri scempi, grazie (si fa per dire…) alla fantasia dei distributori azzurri. Tradurre è tradire, dicono i filologi e i titoli dei film hanno pagato pesanti dazi a questo adagio. Gli esempi sono innumerevoli e dunque siamo costretti a limitarci agli esempi più clamorosi di titoli farlocchi. Iniziamo con una delle pellicole più celebrate della storia del Cinema: Stagecoach (Diligenza) diventò nel ’39 Ombre rosse, e sin qui possiamo intravvedere qualche ragione di tale scelta: l’eroico John Wayne deve far fronte ai pellerossa… Sempre aggirandosi tra le ombre, meno giustificabile il fatto che The Letter (non occorre traduzione), opera di William Wiler che portò la grande Bette Davis alla sua quarta Nomination all’Oscar, nel ’40 fu intitolato Ombre malesi. Più inquietante, poiché qui si tratta di censura ideologica, che Rebel Without a Cause divenne nel ’55 Gioventù bruciata, leggi: se ti ribelli bruci! Gioventù, amore e rabbia fu invece il titolo

imposto a The Loneliness of the Long Distance Runner (la desolazione del corridore da lunghe distanze), opera che nel ’62 impose Tony Richardson quale profeta del Free Cinema inglese e rivelò il talento di Tom Courtenay.

L’adattamento al mercato italofono a volte risponde a una logica non del tutto comprensibile Chiudiamo il capitolo ribellione con Western Union di Fritz Lang, tradotto con Fred il ribelle. Torniamo alla gioventù… più o meno bruciata: ecco che The Blue Lamp (il lampione blu), archetipo del poliziesco inglese interpretato nel ’49 da un Dirk Bogarde che sfoggia «una sessualità minacciosa» (M. Morandini) divenne I Giovani uccidono. Lo stesso Bogarde fu poi vittima di altre due traduzioni: The Mind Benders (mind è facile, ma benders può essere bevute, bicchierate, ma pure mezzo scellino o ciò che piega) uscì inspiegabilmente come Il cranio e il corvo; mentre Libel (Calunnia) fu titolato Il diavolo allo specchio. In tempi più recenti, era invero difficile tradurre il verso del poeta inglese Alexander Pope (Eloisa e Abelardo, 1717) che dà il titolo originale al bel film di Michel Grondy interpre-

tato da Jim Carrey e Kate Winslet: The Eternal Sunshine of the Spotless Mind (azzardiamo: L’infinita letizia della mente candida). Ma resta un mistero come si sia potuto giungere a Se mi lasci ti cancello. Se dalle loro traduzioni dei titoli in inglese traspare un’indiscutibile fantasia, va rivelato come – riguardo i film francesi – i distributori italiani, responsabili della traduzione dei titoli, puntino soprattutto sui sottintesi di carattere sessuale. Risaliamo al ’60, quando Marcel Carné vide mutarsi il suo Terrain vague in un’ammiccante Gioventù nuda, mentre due anni prima Cristina, con la coppia Romy Schneider-Alain Delon, cambiò nome divenendo L’amante pura. Un altro titolo molto poetico, Nous ne vieillirons pas ensemble, in cui Maurice Pialat descrive il deterioramento di un rapporto sentimentale, diventa un crudo L’amante giovane. Altrettanto cruda la traduzione di 36 fillette, bel film di Catherine Breillat in concorso a Locarno nell’88 e uscito in Italia come Vergine taglia 36. La palma della traduzione più astrusa riguardo la cinematografia transalpina va però divisa tra Claude Chabrol e François Truffaut. Nel caso del primo, i distributori italiani giocarono sul minimalismo: il suo Les biches (Le cerbiatte, col tris d’assi JeanLouis Trintignant, Stéphan Audran – già moglie del regista – e Jacqueline Sassard) divenne semplicemente Le-

Nella versione originale questo western si intitolava Stagecoach (diligenza).

sbiche, togliendo uno spazio tipografico e la esse finale. Quanto a Truffaut, forse si starà ancora rigirando nella tomba pensando che il suo Domicile conjugal divenne un ridicolo titolo wertmulleriano: Non drammatizziamo: è solo questione di corna. Lina Wertmuller torna in campo anche per

l’ultimo esempio di traduzione-tradimento che vi proponiamo: il recentissimo Le cochon de Gaza, del cineasta franco-uruguagio Sylvain Estibal, ce l’hanno proposto come Un insolito naufrago nell’inquieto mare d’Oriente! Caro Mereghetti, ben vengano i titoli in inglese…


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Cultura e Spettacoli

A ognuno il suo pensiero magico

Zoo umani Nel suo Antropop – La tribù globale l’antropologo italiano Duccio Canestrini si sofferma su quelle

che sono le manie e le convinzioni dell’uomo consapevole del XXI secolo Mariarosa Mancuso Dalla venere ottentotta ai reality show. Era il titolo di una raccolta di saggi uscita in Francia (l’editore italiano è Ombre rosse). Metteva in parallelo, con una certa audacia compensata da una ricca documentazione, l’esibizione di popolazioni che una volta eran chiamate primitive – e che ora la correttezza politica ribattezza «di interesse etnologico» – con il Grande Fratello. Non più nel senso di George Orwell – in 1984 the Big Brother era il dittatore che nello stato totalitario chiamato Oceania teneva sotto controllo i cittadini tutti. Nel senso del programma tv dove un gruppo di persone volontariamente prigioniere vivono per qualche settimana inquadrate dalle telecamere.

Oggi siamo interessati a sapere dove sono e cosa fanno le persone che conosciamo Nell’Ottocento, quando gli zoo umani erano uno spettacolo popolare e non c’era esposizione universale che non esibisse esquimesi, boscimani o pellerossa, i visitatori erano incuriositi dall’esotico. Negli anni zero del secolo ventunesimo, viene messa in mostra la normalità della vita quotidiana. Quella che una volta si sbirciava nelle case di ringhiera e nei paesini dove tutti sapevano tutto di tutti. Quella che oggi, oltre che in televisione, viene resa nota all’universo mondo attraverso Facebook e Twitter. Virtualmente, perché poi quel che davvero ci interessa è sapere dove sono e cosa fanno le persone che conosciamo. Due secoli fa, la più famosa attrazione degli zoo umani – noti anche come freak show, in una tradizione che comprende il film con lo stesso titolo girato da Tod Browning nel 1932, un celebre saggio di Leslie Fiedler e le fotografie di Diane Arbus – era Saartjie Baartman. Appunto, la Venere Ottentotta dalle grosse natiche, a cui Abdellatif Kechiche (il regista di La vita di Adele) ha dedicato qualche anno fa un film bellissimo e molto odiato anche

La mia macchina, la mia vita. (Keystone)

dai fan del francese di origine tunisina. Venere nera metteva lo spettatore nella posizione del voyeur – al cinema lo siamo sempre, ma qui lo spettacolo era quantomai imbarazzante. La ragazza callipigia veniva invitata nei salotti intellettuali di Parigi, incatenata come una bestia feroce e costretta a esibirsi in danze erotiche e selvagge. Gli scienziati non furono da meno: la misurarono, la studiarono, teorizzarono che fosse l’anello mancante tra la donna e la scimmia, presero calchi dei suoi genitali per esporli al museo. La fine fu tragica, chi dice per vaiolo chi dice per sifilide, dopo un periodo come prostituta, prima di lusso e poi da pochi soldi. I suoi resti tornarono in Africa solo nel 2002, dopo una lunga battaglia anticolonialista. La Venere Ottentotta era citata nel

libro di Alberto Arbasino intitolato La vita bassa, e compare sulla copertina di Antropop – La tribù globale, il saggio di Duccio Canestrini appena pubblicato da Bollati Boringhieri. Una divertente cavalcata tra gli svarioni degli antropologi, che quando gli indigeni australiani alla domanda rispondevano «kan-ga-roo», vale a dire «non capisco», pensavano fosse il nome dell’animale saltellante da quel momento in poi noto come canguro. E un esercizio di antropologia applicata a noi medesimi, al didietro di Rihanna, a chi si vanta del proprio relativismo culturale e culinario, poi stramazza quando gli servono pipistrello bollito per cena. A vederlo fa ribrezzo, a rifiutarlo si offende l’indigeno che amorosamente lo ha cacciato e cucinato. Visti da fuori, con un po’ di ironia e distacco, abbiamo anche noi le no-

stre forme di pensiero magico. Basta pensare alle intolleranze alimentari: sono cibi che non ti hanno mai procurato né bolle né orticaria, ma proprio per questo i nuovi credenti li considerano pericolosi. Basta pensare ai rivolgimenti culturali che Duccio Canestrini riassume così: «Un secolo fa i futuristi inneggiavano alla velocità, oggi i rivoluzionari si infiammano per la lentezza. Una volta le donne rivendicavano l’uguaglianza, oggi le femministe rivendicano la differenza. Ieri gli immigrati andavano generosamente integrati, oggi salta fuori che loro per primi non si vogliono integrare». Una palla di neve scagliata contro un’automobile – quando Canestrini faceva il servizio militare, ma l’antropologo discendente da antropologi, l’antenato si chiamava Giovanni e nel 1878 pubblicò un Manuale di antro-

pologia, ha sempre l’occhio attento – produce una meravigliosa disamina del cruscotto. Il guidatore uscì furioso, minacciando sfracelli in nome degli affetti più cari: «l’è me mama». Non è che dentro ci fosse la madre, è che in macchina dormiamo, mangiamo, facciamo l’amore, andiamo a sposarci e veniamo trasportati al cimitero. Da qui l’effetto «caverna magica». Da qui il gusto per gli ammennicoli che la rendono, specialmente al sud, un salotto in miniatura: fodere coprisedili (anche a palline di legno che tenevano freschi quando ancora non c’era l’aria condizionata), foto dei figlioli con la scritta «non correre papà», volante in pelle o ricoperto di peluche, arbre magique per il profumo di pulito. La nostra macchina rivela la tribù di appartenenza, e da oggi cominceremo a guardarla con occhi diversi. È l’effetto che fanno i libri intelligenti.

Dentro e fuori la burocrazia Pubblicazioni Il linguaggio burocratico nel mondo delle istituzioni e al di fuori di esse in un saggio

del linguista Sergio Lubello Stefano Vassere «Gli insegnanti del turno pomeridiano, nella giornata in parola, presteranno servizio in turno antimeridiano in situazione di contemporaneità operativa. Ugualmente in orario antimeridiano troverà sviluppo, nella medesima giornata, il servizio di istituto del personale ATA». Una delle caratteristiche fondanti del linguaggio burocratico italiano è la sua diffusione allargata: esso infatti non si limita a restare nelle sedi dove è nato e si è sviluppato, ma è rappresentato anche altrove nel sistema delle varietà della nostra lingua, come «infiltrato non pertinente, come registro stilistico, come serbatoio da cui attingono altri linguaggi». In questo senso lo troviamo nelle scritture dei semicolti, nei testi letterari, nel linguaggio della politica quotidiana e nel politichese. È questo collocarsi anche al di fuori della burocrazia, lontano da uffici e scartoffie, che fa di questo italiano un tipo di lingua decisamente interessante.

Forse il settore dove questa migrazione sociolinguistica sembra essere meno giustificata è il linguaggio delle classi semicolte; eppure è lì che lo scarto tra contenuti forse semplici e lessico elementare da un lato e stili spropositati dall’altro è clamoroso oltre che ormai cosa nota ai linguisti: sono scelte strane, e ben esemplificate da una lettera privata citata da Pietro Trifone nel suo ricco Malalingua. L’italiano scorretto da Dante a oggi di qualche anno fa: «Adorata Erica, ti notifico con la mia presente che io godo buona salute come spero di te». Non è facilissimo spiegare opzioni linguistiche di questo genere e cerca di farlo in modo documentato e puntuale Sergio Lubello, autore di questo Il linguaggio burocratico, appena uscito nella preziosa collana delle «Bussole» Carocci. Il libro porta un profilo storico dell’italiano burocratico che risale alle prime tracce della nostra lingua, un’analisi dei tratti di questo modo di parlare, una rassegna di testi della burocrazia, cenni sul burocratese (ap-

punto) fuori dall’ambito burocratico, le misure istituzionali volte a porre rimedio ai difetti di queste abitudini, che ricadono direttamente sul cittadino e

sulle sue esigenze fondamentali. Ora, si capirà che il ricorso al burocratese grottesco, da Totò in giù, è soprattutto una questione di atteggiamento linguistico quando non di prestigio frainteso: «una sorta di norma per parlanti e scriventi di bassa cultura e semicolti che usano un formulario di locuzioni e frasi fatte, e memorizzato nel tempo, quasi a esibizione di una qualche competenza anche in testi e contesti non pertinenti»: si crede, insomma, che parlare così conferisca maggiore autorevolezza. Le piste di approfondimento in varie direzioni sono molte. L’ambito della lingua della burocrazia è ampio anche all’interno della sua diffusione originaria, e nel contenitore degli usi amministrativi un paragrafo di questo libro è dedicato all’italiano comunitario e all’unico italiano istituzionalizzato fuori d’Italia, quello svizzero. E tra le fortunate intuizioni, c’è quella di Giuseppe Antonelli, che individua in queste scelte una tecnicità immotivata:

non ci sono motivi per parlare difficile, nemmeno l’esigenza di precisione tipica dei linguaggi scientifici; semplicemente, come in un gergo, questa lingua ha anche lo scopo di distinguere gli addetti ai lavori. E ancora, Lubello dedica pagine alla burocrazia «trasmessa» e alla schizofrenia del burocratese affidato al web, che si vorrebbe, secondo canone diffuso, aperto, democratico, esplicito, comunicativo, chiaro. «Il viaggiatore che, all’atto del controllo, in treno risulti sprovvisto del titolo di viaggio o esibisce un titolo di viaggio scaduto di validità o non convalidato o convalidato in modo irregolare, alterato o contraffatto, sarà regolarizzato secondo la normativa vigente. Il biglietto deve essere conservato nelle sue condizioni di stampa originali e nella misura di mm. 112x42». Bibliografia

Sergio Lubello, Il linguaggio burocratico, Roma, Carocci editore, 2014.


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Della Sicilia, di culture e di simboli Incontri A colloquio con lo scrittore italiano Pietrangelo Buttafuoco Eliana Bernasconi Nel panorama letterario italiano i libri di Buttafuoco hanno grazia e luce speciale. Scrittore, giornalista e saggista, («Il Foglio», «Repubblica», «Il Sole 24 ore»), Buttafuoco, nato a Catania nel ’63, è un dissacratore graffiante e scanzonato, imprevedibile e spassoso, sempre controcorrente e con capacità teatrali (basti ascoltarlo su Mix 24 di «Radio 24»). È proprio di questi giorni l’uscita di Buttanissima Sicilia, Bompiani, pamphlet politico appassionato, un instant book che denuncia gli antichi mali dell’autonomia regionale siciliana. La sua scrittura riattualizza i cunti, testi della narrazione orale siciliana. In Il dolore pazzo dell’amore, edito da Bompiani, con ritmo incalzante insegue leggero la poesia dei due sentimenti «che ti straziano l’animo», amore e dolore. «Perché all’amore bisogna credere sempre, anche quando ci fa pazzi di dolore» scrive, «come bisogna credere a chi sta per morire, (non alla morte), ai racconti dei barbieri della sua infanzia, alle preghiere, alla luna piena in campagna, luogo dove sempre si torna, e a molte altre cose». Contro la modernità a tutti i costi e la cancellazione di un mondo che non vuole sparire, (che ovviamente non riguarda la sola Sicilia) questo libro non è solo un’immersione nei personaggi della sua terra, (gli zii, il negozio del barbiere, il cappellano militare, il musicante, la signorina Lia) ma interseca presente e passato con la sapienza di chi è padrone della tenerezza, dell’ironia, della metafora. A settembre è prevista l’uscita di un nuovo libro da

Mondadori, I quattro funerali della signora Göring. Fra i romanzi ricordiamo Le uova del drago, Mondadori 2005, fra i saggi Fimmine, ammirarle, decifrarle, sedurle, Mondadori 2009, dove fra i grandi seduttori della storia, fra Carla Bruni e Brigitte Bardot si parla di nostalgia dell’amor cortese: i maschi, dice l’autore, non amano più la donna, non ne cantano la grazia e l’incanto, questo è un danno. Il lupo e la luna, romanzo avventuroso, narra di un personaggio realmente esistito, il messinese Scipione Cicalazadè, che i pirati rapiscono dodicenne al padre, il visconte Cicale e portano alla corte del Sultano. Ma Cicalazadè ha occhi di fuoco, in lui vive lo spirito del lupo, crescendo comanderà gli eserciti ottomani, vince e uccide. Di vittoria in vittoria la nostalgia lo riporterà in patria, presso la madre e i due fratelli cristiani Filippo e Carlo. Contro di loro combatterà, unico è il vessillo del loro casato, ma la sua bandiera porta la mezzaluna, è la donna fatta luna nelle cui braccia ha sognato di dimorare nella pace. Buttafuoco, lei sembra conoscere l’Islam dall’interno...

La Sicilia, sia nella sue espressioni materiali e spirituali, sia nella vita quotidiana, ha un’impronta islamica. Nella profondità del mistero è svelato quello che è una vicinanza all’essere, una prossimità, un’intimità che deriva dal fatto che in questa terra tutto ciò che è diventato bellezza e grandezza ebbe origine proprio nell’anno mille, quando un grande poeta come Ibn Hamdis potè rivelare a sé stesso, a chi

Perché i cantastorie ebbero tanta risonanza in Sicilia?

L’unica risposta è l’abitudine alla parola, all’ascolto, qualcosa che deriva non tanto dall’organo definito cervello che presiede alla razionalità quanto dal cuore che è custode delle emozioni e amministra i sentimenti. Ciò ha determinato una specialità tutta siciliana a narrare le parole e far sì che queste possano avere una plasticità, una forma perfino idiometrica che sappia essere concreta, dura e leggera e che nello stesso tempo possa volare. Al Salone del libro di Torino lei si è indignato per il fatto che a piazza Montecitorio hanno chiuso due vecchie librerie, è tanto grave ?

È nato a Catania nel 1963. È autore de Il dolore pazzo dell’amore.

ebbe modo di ascoltarlo e a noi posteri che lo leggiamo il sentimento della nostalgia, cioè la dolcezza che porta alla conoscenza di dio.

presenza di qualcosa di molto più alto, molto più pregnante, molto più forte e travolgente.

Lei afferma che l’Occidente ha perso la dimensione del sacro.

È vero che un tempo in Sicilia ebrei, musulmani, cristiani convivevano in pace?

L’Occidente per definizione è Abendland, cioè la terra della sera. La terra dove noi abbiamo ricevuto un disvelamento di razionalità, di geometrica descrizione di tutto quanto è reale, di tutto ciò che muove la realtà ma non per questo può essere definita la dimora della realtà. Sono due cose distinte, è reale il fatto stesso che camminando abbiamo la percezione, la concezione delle cose intorno a noi, mentre la verità è ciò che nell’indicibile svela la

No, il concetto rispetto ai meccanismi della contemporaneità è ancora più vasto. La Sicilia non era un luogo chiuso, un cortile. La Sicilia dell’anno Mille, della dominazione araba era come la Berlino ovest dentro il recinto dittatoriale della Germania democratica, la vetrina del bello e del meglio. Era lo splendore ed era il luogo dove tutto il mondo si dava appuntamento, non c’erano solo i monoteismi, ma c’era anche la forte presenza della paganitas.

Intendevo dire che Montecitorio è l’edificio delle istituzioni, la casa di tutti gli italiani. E che proprio nella piazza antistante due librerie tra le più importanti abbiano dovuto chiudere significa che i parlamentari nuovi non hanno nessuna capacità di avvicinarsi alla lettura. Una tabaccheria a Montecitorio non chiuderà mai, una libreria, luogo simbolico per eccellenza, sì. Oggi ha ancora senso parlare di cultura di destra?

No, non ha nessun senso, stiamo attraversando una fase dove i confini novecenteschi non hanno più significato. La stessa destra che voleva essere il termine di una visione aristocratica ed elitaria non può essere ridotta nei ranghi del socialismo, e quindi è meglio astenersi dalle definizioni in attesa che le cose, con una loro concretezza, ci costringano a trovare le parole adatte. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Brian Eno e Fennesz, esperimenti in musica CD Appena pubblicati i nuovi dischi del guru britannico

e del chitarrista austriaco

La gloriosa vecchia guardia Musica Il tesoro nascosto di Crosby & Co.:

il più grande supergruppo del folk-rock angloamericano rinverdisce il proprio mito con un atteso cofanetto

Zeno Gabaglio «Sperimentare» è un verbo che – in musica ma non solo – ha avuto un indubbio successo, andando quasi a costituire una garanzia di qualità, di attualità, di responsabilità culturale, di impegno etico/sociale o di semplice voglia di futuro. Erano tempi belli, quelli, che ormai sono passati per sempre.

Benedicta Froelich

Brian Eno è un genio camaleontico mentre Fennesz spicca per un approccio più radicale Tanto che oggi l’attributo «sperimentale» a proposito degli atteggiamenti musicali invece conduce a un rigetto immediato, soprattutto presso coloro che circa quarant’anni fa lo ricercavano assiduamente e fieramente lo sfoggiavano sul risvolto dell’eskimo. Ciò che «sperimenta» oggi appare come sgradevole, inopportunamente impegnativo, sicuramente incomprensibile, autisticamente masturbatorio. Non ci resta quindi che accettare il riflusso? Sederci nei salotti buoni della conservazione, incrociare le gambe e sorseggiare il tè? Brian Eno – Someday World

«Probabilmente sì» deve aver risposto Brian Eno nel momento in cui – assieme a Karl Hyde – si accingeva a pensare e realizzare il disco Someday World. Un album che a tutti i livelli (melodico, timbrico, strutturale) guarda fisso verso il passato, con una nostalgia a dir poco malcelata. Solo briciole – infatti – rimangono dell’intrepido esploratore di suoni che tutti hanno imparato a conoscere: qualcosa nell’algido epos elettronico di Strip it Down o nell’ossessività vocale di When I Built This World, invero piuttosto debitrice verso il glorioso passato Underworld di Hyde (e in particolare della Born slip-

Top10 DVD & Blu Ray 1. The Wolf of Wall Street

L. Di Caprio, C. Blanchett 2. Monuments Men

G. Clooney, M. Damon 3. 47 Ronin

K. Reeves, C. Tagawa /novità 4. Storia di una ladra di libri

S. Nélisse, G. Rush /novità 5. Frozen

Animazione 6. A spasso con i dinosauri

Animazione 7. Jack Ryan

C. Pine, K. Costner

py di trainspottingiana memoria). Un passo falso, quindi? Nel merito sì, nella prospettiva no. Perché Brian Eno è un genio, uno dei pochi geni musicali degli ultimi cinquant’anni, se per genialità si intende la coesistenza di capacità tecnica, propensione per l’innovazione, trasversale lettura della realtà culturale e risultati dall’alto valore estetico. E anche perché Eno è un genio camaleontico, cui piace mescolare continuamente le carte e alternare produzioni pop altamente commerciali a ricerche anticonvenzionali. Provare ad ascoltare il Lux di due anni fa, per credere. Fennesz – Bécs

Christian Fennesz è invece più radicale, nel senso che non si è mai messo a produrre dischi pop d’alta classifica con U2 o Coldplay, ma che nella propria sperimentazione ha sempre conservato un saldo appiglio a favore dell’ascoltatore. In particolare in questo nuovo disco Bécs, dove la natura solo strumentale e la struttura per fasce distorte potrebbero

Top10 Libri

Top10 CD

1. Andrea Camilleri

1. Artisti Vari

La piramide di fango, Sellerio 2. Paulo Coelho

Adulterio, Bompiani 3. Sveva Casati Modignani

La moglie magica, Sperling 4. Markus Zusak

Storia di una ladra di libri, Frassinelli 5. Pierre Dukan

La dieta dei sette giorni, Sperling 6. John Green

Colpa delle stelle, Rizzoli 7. Irene Cao

Per tutti gli sbagli, Rizzoli

8. American Hustle

8. Gianrico Carofiglio

C. Bale, A. Adams

Una mutevole verità, Einaudi

10. All Is Lost

Bravo Hits Vol. 85 2. Abba

Gold - 40th Anniversary 3. Michael Jackson

Xscape 4. I Nomadi

Nomadi 50 + 1 5. Gotthard

Bang! 6. Moreno

Incredibile 7. Cesare Cremonini

Logico 8. Mondo Marcio

Nella bocca della tigre 9. George Michael

9. Lone Survivor

M. Wahlberg, T. Kitsch

far temere dei brani drammaticamente ermetici, che nella realtà si rivelano però altamente comunicativi, nel senso di evocare all’ascolto immagini vivide, precise ed emozionanti. «Schitarrate da spiaggia deturpata» si potrebbe sottotitolare il disco (rubando il sintagma a qualcun altro, e usandolo qui più propriamente) perché Fennesz è essenzialmente chitarrista, e da lì tutto parte e lì tutto torna. Addirittura con normalissimi accordi maggiori – in pura tradizione spiaggiata – su cui si rovesciano vagonate di distorsione e di suoni sintetici, come in un panorama idilliaco che si dissolve per il sopravvento dei residui della modernità. Una molla arrugginita che spunta dalla sabbia o una colata di cemento che interrompe il litorale. Suggestioni perfettamente calzanti per un brano come Liminality, vera e propria suite post-tutto (rock, prog, glitch, noise,…) che non si stanca di allargare i confini della percezione, in una direzione salvifica che potremmo ostinarci a chiamare sperimentalismo.

È passato poco più di un mese dall’uscita dell’ultima, stravagante opera solista di Neil Young, ed ecco che, nella migliore tradizione dell’odierna industria discografica, una nuova riedizione di stampo fortemente vintage volge di nuovo i riflettori sul grande cantautore canadese – nello specifico, sul passato glorioso che lo ha visto scrivere la storia della musica anche come membro di una formazione che, fin dai suoi esordi nel 1969, ha davvero rappresentato una delle realtà più fresche e interessanti del panorama folk-rock angloamericano degli anni d’oro. Stiamo parlando del mai dimenticato supergruppo composto da David Crosby, Stephen Stills e Graham Nash, occasionalmente accompagnati proprio dal «quarto uomo» Neil Young: una formazione nota al grande pubblico con il poco fantasioso nome di Crosby, Stills, Nash e Young, e ora nuovamente riunita, seppur solo su supporto discografico, in occasione della pubblicazione di CSNY 1974 – un succoso cofanetto di tre Cd più Dvd (con tanto di libretto di ben 188 pagine), che farà la felicità non solo dei fan di vecchia data, ma anche degli storici musicali, in attesa da tempo immemore di questa pubblicazione. Il box set consiste infatti di selezioni dal leggendario quanto ambizioso tour del 1974, durante il quale la band effettuò la sua storica reunion, suonando in oltre trenta stadi sparsi per l’America (e perfino allo storico Wembley Stadium di Londra), con show che in alcuni casi arrivavano a toccare le quattro ore di durata; e certo non era concepibile che questi «grandi vecchi» del rock d’autore ignorassero il quarantesimo anniversario di un exploit che ha rappresentato senza dubbio una delle vette della loro pur lunga carriera. Ma ciò che conferisce davvero valore a quella che, a prima vista, potrebbe apparire come l’ennesima operazione di recupero del passato, sono la cura e l’attenzione con cui Graham Nash e il produttore Joel Bernstein hanno selezionato il materiale audio, passando al setaccio ore e ore di incisioni – così da scegliere, per ogni brano della tracklist, la versione migliore tra le registrazioni originali di quelle nove serate all’epoca immortalate su nastro dalla band. Tuttavia, il box set è stato strutturato come se si trattasse della cronaca di un singolo concerto, così da permettere al pubblico di immergersi dall’inizio alla fine in un tipico show della band: il risultato finale offre quindi una panoramica di rara efficacia sull’attività live di CSNY, a tutti

gli effetti una grande e autorevole formazione rock, in grado di raggiungere, nelle proprie performance, vere e proprie vette di eccellenza e di professionalità, forse non sempre celebrate quanto avrebbero meritato. Lo dimostrano le ben quaranta tracce del cofanetto, suddivise lungo tre Cd che seguono scrupolosamente lo svolgimento delle serate del tour, sempre composte da due set elettrici intervallati da uno acustico – il tutto, naturalmente, qui rimasterizzato in alta risoluzione audio per volontà di Neil Young (il quale, come Graham Nash sottolinea, è da anni un vero fanatico dell’alta definizione). Lo stesso vale per l’immancabile Dvd in dotazione, contenente una selezione di otto canzoni registrate al Capital Center di Landover (Maryland) e al già citato Wembley Stadium – le quali, nella semplicità e spontaneità di riprese televisive quasi amatoriali, offrono un convincente quanto toccante biglietto da visita della perfezione interpretativa incarnata dalla band negli anni 70 e già confermata da album come il leggendario 4 Way Street (1971). Rispetto a quel disco, tuttavia, la rilevanza storica di questo box set sta nel fatto che, all’epoca del tour del 74, Neil Young stava vivendo una fase di assoluta vitalità creativa, nell’ambito della quale ogni nuovo brano veniva subito «testato» sul palco, spesso per poi essere accantonato dopo poche performance: ne consegue che CSNY 1974 racchiude delle vere e proprie rarità, tra cui l’introvabile Goodbye Dick, brano scritto in seguito alle dimissioni del presidente Nixon e bonus irresistibile per ogni completista. E se riascoltare queste incisioni non può che riaccendere la nostalgia dei fan – i quali hanno visto la band riunirsi per un ultimo tour nel 2006, e di certo amerebbero assistere a un nuovo revival – è altrettanto vero che forse qualcuno potrà essere infastidito da questa continua tendenza a rivangare i «bei tempi andati» della musica live anni 6070: un’epoca in cui i concerti rock non erano ancora gli eventi multimiliardari e iper-appariscenti di oggi, e tutto sembrava forse più semplice e spontaneo. Eppure, non è possibile ignorare l’eccellenza e la validità, perfino modernità, del lascito di band come Crosby, Stills, Nash e Young, a tutt’oggi evidenti nella grazia che queste registrazioni ancora trasmettono: un motivo più che sufficiente per salutare questa pubblicazione con il rispetto e l’entusiasmo che ancora si devono a questi arzillissimi esponenti della gloriosa e mai dimenticata «vecchia guardia».

9. Anna Premoli

Finché amore non ci separi, Newton

Symphonica 10. Roby Facchinetti

Ma che vita la mia

Robert Redford 10. Tiziano Terzani

Un’idea di destino, Longanesi

Crosby, Stills, Nash e Young (alias CSNY) durante un’esibizione di qualche anno fa nel Michigan. (Keystone)


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Cultura e Spettacoli

La prima nota? Era la nostra Estival 2014 Guido Parini e Giorgio Meuwly raccontano i loro Estival e la soddisfazione

per la Smum Big Band, con cui hanno aperto la serata di sabato in Piazza

Alessandro Zanoli Torniamo a parlare di big band, gruppi che prendiamo un po’ a filo conduttore dell’estate jazzistica nostrana. La presenza sabato scorso in Piazza Riforma della Smum Big Band si prestava a una serie di considerazioni potremmo dire storiche, per il jazz ticinese. Da tempo infatti mancava nel nostro cantone, pur così attivo e autorevole nel settore, un’orchestra di prestigio. Grazie alla funzione catalizzatrice della Scuola di Musica Moderna di Lugano ecco che questa lacuna viene colmata in modo egregio. I nostri interlocutori per una chiacchierata sull’argomento sono stati inevitabilmente Guido Parini e Giorgio Meuwly, ai vertici della direzione della scuola e anche membri della Smum Big Band. Per entrambi, la partecipazione ad Estival non è una novità, anzi. «Direi che la prima nota in Estival, in assoluto l’abbiamo suonata noi» racconta il chitarrista. «Era la prima edizione di Estival, 1979, al Padiglione Conza (perché pioveva) con Walter Schmocher al contrabbasso e Guido, alla batteria». Parini dal canto suo è salito sul palco in molte altre occasioni: «Ho suonato con Ricky Garzoni, nel gruppo Jasata e nei Jazz Funk Express; poi c’era The Future of Switzerland con Antonio Faraò». Un ricordo, speciale: nel 1988 viene assegnato il premio alla carriera ad Art Blakey: «Avevamo previsto un trio di batterie, un pezzo di un quarto d’ora, Art Blakey, Oliviero Giovannoni ed io. Blakey arriva fino al palco in sedia a rotelle. Sembrava debole, malato. Io ho cominciato a chiedermi suoniamo o non suoniamo? Jacky Marti mi diceva: non ti preoccupare, quando è il momento suonerà. Allora siamo saliti, abbiamo fatto un pezzo io e Oliviero in duo. Poi è arrivato Blakey: si è piazzato,

si sono accese le luci... si è trasformato. Suonava più forte di me e di Oliviero insieme!». Nella stessa edizione di Estival Meuwly ricorda un altro momento eccezionale: «C’era stata una jam session molto bella, l’hanno ritrasmessa alla TV qualche mese fa. Si festeggiavano i dieci anni di Estival: con Flavio e Franco Ambrosetti, c’era Danilo Moccia, c’ero io, c’era Guido, c’era Riccardo Garzoni. Una bella jam sul palco, di quelle belle riuscite bene». I ricordi e gli episodi si incatenano gli uni agli altri. Vien quasi da pensare che questi ragazzi Estival l’abbiano visto più da dietro le quinte che dalla Piazza... Senza contare che da una decina d’anni la loro scuola presenta nei concerti del «Villaggio RSI» gruppi di loro giovani allievi. «Quest’anno erano rigorosamente under 18, insieme a un assistente della scuola», ci conferma Meuwly. Per quello che riguarda però la serata ad Estival di sabato scorso, l’occasione è stata prestigiosa: quasi una consacrazione. «La Big Band della Smum è una formazione impegnativa. Il programma di base è jazzistico al 100 per cento. Negli ultimi anni abbiamo lavorato con grandi musicisti, come Bob Mintzer, Jerry Bergonzi, che hanno portato dei loro arrangiamenti. Poi abbiamo lavorato con quelli di Gabriele Comeglio, di Giorgio Meuwly, di Danilo Moccia». La Big Band della scuola luganese è attiva ufficialmente dal 2012, quando ha partecipato a Blues to Bop. Fanno parte del suo organico i docenti della Smum, che ne costituiscono la sezione ritmica (Giorgio Meuwly alla chitarra, Mario Rusca al pianoforte, Marco Conti al contrabbasso e Guido Parini alla batteria); altri hanno il ruolo di primo strumento nei ranghi degli ottoni (Emilio Soana alla tromba, Danilo Moccia al trombone e Gabriele Comeglio al sassofono). Oltre a loro, però,

Antonella Rainoldi

La Big Band della Scuola di musica moderna di Lugano. (CdT - Maffi)

le file dell’orchestra sono completate da allievi ed ex allievi della scuola. Un caso molto interessante di promozione didattica, visto che ogni docente porta con sé alcuni dei suoi studenti. Meuwly e Parini possono vantare una certa esperienza in formazioni di grande dimensione, progetti che segnano importanti momenti nella storia del jazz ticinese. Il chitarrista è stato per due anni direttore e arrangiatore di una eccellente Lugano Big Band: «Era nell’84. Abbiamo toccato l’apice facendo un concerto con Phil Woods, nell’anno in cui lui aveva preso il premio come miglior sassofonista». Nei ricordi dei due jazzmen luganesi ci sono altre occasioni prestigiose, in particolare nelle collaborazioni con l’Osi. «Nel 2004 abbiamo accompagnato la cantante Patty Austin, nell’omaggio alla Fitzgerald: c’era una parte di

orchestra sinfonica unita alla big band di Comeglio» ricorda Meuwly. A Parini invece è rimasta impressa (con un certo rimpianto) una esecuzione della suite di Ellington Black Brown &Beige in occasione di un altro Estival: «Era il 1999, centenario della nascita del compositore americano: avevamo preparato un vero evento storico. Purtroppo a causa di uno spiacevole problema tecnico non siamo riusciti a registrarlo...». Lo stretto rapporto che lega Smum e Estival viene continuamente sollevato, nel corso della nostra conversazione. «Estival per noi è uno stimolo e una vetrina importante. Permette di evidenziare le doti della scuola ed è una motivazione per noi e per gli allievi» conclude Parini. Un caso esemplare di sinergia tra istituzioni che è una vera ricchezza per il patrimonio musicale del nostro cantone.

Cinema Andrea Arnold, una regista che rappresenta la realtà senza concessioni

Andrea Arnold in pochi anni è diventata una regista acclamata di fama internazionale. Il suo nome incute rispetto e ammirazione e i festival di mezzo mondo si contendono i suoi film che sono attesi dalla critica con immensa curiosità, come se Miss Arnold possedesse un fluido in grado di trasformare la realtà in qualcosa di magico e inaspettato. Tre lungometraggi al suo attivo tra i quali ben due (Red Road e Fish Tank) vincitori del prestigioso premio della giuria di Cannes, una vera e propria prodezza per una regista che ha girato il suo primo cortometraggio solo una decina di anni fa. Il suo legame con il Festival di Cannes si è rafforzato quest’anno grazie alla sua presenza alla testa della giuria della Semaine de la critique, un onore accordato solo alle stelle del panorama cinematografico internazionale. A catturarla sin dall’adolescenza e a spingerla sotto i riflettori nel ruolo di presentatrice di programmi famosi all’epoca come Number 73 o ancora Top of the Pops (dove si esibisce come ballerina «fissa») è stata la televisione. Difficile indovinare il suo passato, vista la sua apparente timidezza e la sua propensione alla discrezione, al riparo dietro a una cinepresa che ora è lei a controllare. A parlare per lei sono giustamente i suoi film, e non la sua vita privata, universo che Arnold vuole mantenere segreto. La sua carriera di regista cominciò con il botto visto che il primo cortometraggio Wasp (2003) vinse un Oscar e

la lanciò sulla scena internazionale. In occasione della premiazione, il suo discorso di ringraziamento, rimasto negli annali grazie all’utilizzo di una parola in slang tipicamente inglese che lasciava poco all’immaginazione, mostrò il suo carattere determinato e fedele alle radici. Originaria del Kent, cresciuta in un complesso di case popolari della contea del Dartford, la regista inglese trae ispirazione per i suoi film da quello che la circonda, dai ricordi della sua infanzia nella periferia inglese, una miscela di natura selvaggia e di fattorie abbandonate. Il suo lavoro è stato spesso (ingiustamente) etichettato come tetro e deprimente, quasi a voler suggerire che la vita dei protagonisti dei suoi film, confinati in luoghi periferici, difficili, in complessi

Visti in tivù Al

Quotidiano un servizio di rara mestizia sulla kermesse luganese del 26 luglio

Un mondo non sempre perfetto Muriel Del Don

RSI abbassa il tiro con la moda

architettonici dai toni militari, sia triste e senza speranza. Ma la regista britannica svela la strana e misteriosa bellezza nascosta negli apparentemente freddi paesaggi urbani. La periferia, le case popolari, sono per lei la quotidianità, l’immagine stessa di una certa fetta della popolazione che troppo spesso guardata con sospetto e commiserazione. I suoi film mostrano l’altra faccia della medaglia e mettono in avanti il lato misterioso e selvaggio di un paesaggio solo all’apparenza triste e soffocante. Red Road e Fish Tank, i suoi primi due lungometraggi, usano lo stesso dispositivo narrativo, che consiste nel mettere in luce i brandelli di speranza che si trovano anche in situazioni apparentemente senza via di fuga. Il sentimento di sollievo è però lieve, quasi microscopico, ed è facile lasciarsi sopraffare dall’angoscia. La magia dei film di Andrea Arnold risiede nel permettere a questi miseri spiragli di luce di emergere dal buio. Il suo è un modo velato per dire che la vita va avanti, malgrado la crudeltà del passato e le difficoltà della quotidianità. Arnold non vuole di certo fare evadere il pubblico con un happy end da fuochi artificiali, ma vuole dargli gli strumenti per riflettere. Il tutto trascritto con una perfezione e un’esattezza estetica che la rendono unica. I suoi film non sono mai facili o banali e per questo sono difficilmente etichettabili, sfuggono al controllo e si insinuano sotto la pelle dello spettatore che ne esce quasi fisicamente trasformato. Essi nascono in terreni aridi, in zone re-

sidenziali semi abbandonate dove anime brutalizzate lottano per sopravvivere, per trovare una scappatoia che gli permetta di andare avanti fino al raggiungimento di un’inevitabile catarsi emotiva. Fish Tank è un intenso dramma realista che mette in scena la relazione ambigua tra un’adolescente e il fidanzato di sua madre, stupendamente interpretato da Michael Fassbender. Andrea Arnold gioca sull’ambiguità del rapporto tra questi due personaggi in equilibrio precario tra lecito e illecito, tra affetto e attrazione sessuale. La loro relazione è innocente o pericolosa? La regista non vuole darci alcuna risposta, ma ammette di amare l’ambiguità di relazioni complesse, spesso incomprensibili e per certi versi inaccettabili. È indubbiamente difficile essere in empatia con i personaggi dei suoi film, che sembrano voler mantenere una certa distanza dal pubblico, coscienti della propria «diversità». Nei suoi film aleggia sempre un’aura di vizio, di pericolo, come a voler cogliere il lato selvaggio e grezzo dei suoi protagonisti. A questo proposito è emblematico l’utilizzo, nella maggior parte dei sui film, di attori non professionisti che regalano ai personaggi una spontaneità difficile da ritrovare in attori con un grande bagaglio di esperienza alle spalle. Andrea Arnold è una regista da seguire da vicino, che al pari di colleghi quali Lynne Ramsay (We Need to Talk About Kevin) e Steve McQueen (Shame) mette in primo piano la qualità e il coraggio di una cinematografia britannica di grande valore.

Solo il senso del dovere impone di resistere al desiderio di fuggire a gambe levate. Ma anche la resistenza ha un limite. Giuriamo che se vediamo ancora una volta un servizio di Leila Galfetti su Moda sotto le stelle, cambiamo canale (RSI La1, il Quotidiano, martedì, ore 19.30). «La kermesse internazionale di alta moda torna a Lugano il prossimo 26 luglio. Per i giovani stilisti ticinesi è un’occasione per farsi conoscere e per l’industria della moda della Svizzera italiana un incentivo per un suo ulteriore sviluppo». Ma quale kermesse internazionale? Un’occasione per farsi conoscere da chi, se buyers e stampa specializzata brillano per assenza? Sarebbe stato interessante capire quanto ha giovato finora ai giovani stilisti ticinesi il traino dei «nomi» in passerella. Sarebbe stato interessante capire a quanti ragazzi Moda sotto le stelle ha procurato stages sul campo. Invece niente, il vuoto, pochi minuti di aria fritta. Maurizio Canetta dovrebbe prendere nota. Che cos’è Moda sotto le stelle? Per lo spettatore a digiuno di fashion, impossibilitato a uscire dall’indifferenziato dei lustrini e delle paillettes, si deve trattare di una manifestazione galattica, al pari o anche al di sopra delle kermesse di Milano, Parigi, New York. A furia di sentirsi ripetere frasi del tipo «Moda sotto le stelle è un evento al top», «Moda sotto le stelle porta il nome di Lugano nel mondo», lo sprovveduto finisce per crederci. Per lo spettatore più avvertito è un incontro modaiolo come se ne vedono tanti, nonostante la tendenza dell’organizzatore Franco Taranto a confondere i sogni con i bisogni: il bisogno di ergersi a guru di riferimento, il bisogno di raccontare la storia di una resistibile ascesa, il bisogno di compiacersi dei propri insuccessi. Franco Taranto, per i più distratti, nasce come fotografo diversamente rinomato, perché non risulta abbia mai pubblicato scatti su riviste rinomate. In passato è stato anche un modello, non di vita ma da passerella, anche se i luoghi delle sue apparizioni sono misteri impenetrabili. In Ticino, spinto dall’urgenza di ottenere un risarcimento artistico-culturale, si è triplicato, indisturbato, rifondando il concorso di Miss e Mister e dando vita a un’agenzia di modelle e alla Camera Nazionale della Moda Svizzera, motore della manifestazione luganese. E poi dicono che per i giovani stilisti è difficile spiccare il volo.

Lustrini e paillettes a Lugano. (CdT Maffi)


300 prodotti ticinesi e genuini. I Nostrani del Ticino sono la riscoperta dei sapori locali e provengono esclusivamente da aziende ticinesi che ne garantiscono la qualità , la freschezza e la genuinità . Essi rappresentano l’impegno concreto e coerente nel sostenere agricoltori, allevatori e produttori alimentari della nostra regione.


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Idee e acquisti per la settimana

shopping Alcuni segreti dei pomodori biologici di Sementina

L’«Orticola Locarnini» di Sementina, inizialmente a carattere famigliare, si è convertita al biologico nel 1995. Una scelta logica per Floriano, che ritiene di fondamentale importanza contribuire a salvaguardare l’ambiente e, conseguentemente, la salute di ognuno di noi. L’azienda rinuncia oggi a qualsiasi tipo di sostanza chimica, privilegiando i sistemi naturali per lottare contro i parassiti e le malattie. L’utilizzo di antagonisti (insetti predatori) è tra i punti forti dell’azienda agricola di Floriano Locarnini che produce spinaci, coste, rapanelli, cavoli rapa, varie insalate, zucchine, melanzane, finocchi e cetrioli, ma cerca anche di offrire regolarmente ai consumatori qualche particolarità. L’azienda Locarnini si affida agli antagonisti anche nella coltura dei pomodori bio, attualmente sugli scaffali di Migros Ticino: «Dopo gli inserimenti di specie utili quali Encarsia formosa o Macrolophus caliginosus, da diverse stagioni la Mosca bianca è praticamente sparita dalle nostre colture e oggi non sono più necessari ulteriori accorgimenti», ci conferma soddisfatto l’orticoltore. Gli altri insetti utili che hanno trovato un ottimo successo nelle serre di Sementina sono Aphidius ervi per lottare contro i pidocchi e Phytoseiulus persimilis contro i ragnetti. L’olio vegetale di colza, invece, si applica solitamente a inizio stagione soprattutto per attenuare l’incidenza d’insetti potenzialmente dannosi come gli afidi. Per gli attacchi crittogamici (causati da funghi), ci sono alcuni prodotti da utilizzare in caso di bisogno: «Regolarmente facciamo uso di EM (microorganismi effettivi) e alghe marine, mentre in casi eccezionali posso applicare un olio a base di finocchio», spiega Floriano Locarnini. I costi per questa strategia non sono da sottovalutare, ma danno maggiori garanzie di successo a lungo termine rispetto ai trattamenti dell’agricoltura di tipo tradizionale (che sovente sfociano in problemi di resistenze) oppure rispetto ai rimedi naturali (che non sempre hanno l’efficacia auspicata). / Elia Stampanoni

Floriano Locarnini, orticoltore bio a Sementina. (Mattia Locarnini)

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Idee e acquisti per la settimana

Profumo di grigliata nostrana nell’aria per la gola i commensali. Perché non scegliere alcuni pregiati tagli a base di carne di animali nati e allevati nel nostro Cantone? In questo caso particolarmente indicati sono: del maiale nostrano, la luganighetta e le fettine di collo; del vitello di montagna, la punta per grill, le fettine di rognonata e le co-

stolette, mentre del manzo Charolais gli spiedini e le bistecche già speziate. Alcuni suggerimenti: marinate i pezzi di carne per almeno una trentina di minuti prima di grigliarli. Non grigliate mai direttamente sulla fiamma. Grigliate i pezzi piccoli a fuoco forte per breve tempo. Arrostite i ta-

gli grossi a fuoco forte brevemente, quindi spostateli ai bordi del grill per terminare la cottura. Tempi di cottura: luganighetta, fettine collo e costolette (15 minuti); fettine di rognonata e spiedini (10 minuti); bistecca (5 minuti); punta di vitello (40 minuti a fuoco lento).

Loredana Mutta

L’odore dell’estate per molti è subito riconoscibile perché nell’aria aleggia l’inconfondibile profumo di grigliate. Se avete deciso di trascorrere una bella serata calda all’aperto in compagnia di amici e parenti accanto al grill, allora è indispensabile procurarsi qualcosa di davvero succulento che prenda

Con splendide giornate estive come queste è impossibile resistere alla tentazione di concedersi un pomeriggio rinfrescante in riva al fiume. Un vero spasso. Tuttavia, anche qui è importante assumere sufficienti liquidi affinché il corpo sia idratato al punto giusto, preferendo acqua o tisane poco zuccherate: per rimanere sani e in forma si consiglia infatti di bere almeno 1,5 litri di liquidi al giorno. Ecco perché, durante la scampagnata, della partita sono anche l’Aquaciara e la Tisana Nostrana di Migros Ticino. L’Aquaciara è un’acqua minerale leggerissima, naturalmente pura, povera di sodio e a bassa mineralizzazione, captata direttamente alle pendici del Monte Tamaro, in località Caslaccio. L’imbottigliamento è fatto dalla Tamaro Drinks di Sigirino. Grazie alle preziose erbe officinali di montagna che contiene, la Tisana Nostrana della Sicas di Chiasso è invece un toccasana in caso di traspirazione eccessiva e problemi di digestione. Essendo leggermente dolcificata con fruttosio e priva di coloranti e conservanti, è ideale anche per i bambini.

Aquaciara naturale 1.5 l Fr. –.70 Aquaciara frizzante 1.5 l Fr. –.70 Tisana Nostrana 0.5 l Fr. 1.90

Flavia Leuenberger

Dissetarsi alla ticinese Caprese sfiziosa Attualità La tipica insalata mediterranea

fatta con l’aromatica mozzarella 100% ticinese Originaria dell’isola di Capri, la caprese è un piatto molto gettonato in questo periodo dell’anno quando si ha voglia di qualcosa di fresco, leggero e facile da preparare. Bastano infatti pochi ingredienti – alcuni pomodori e della mozzarella a fette, qualche foglia di basilico fresco, un filo d’olio d’oliva, origano, sale, pepe – ed ecco pronto un antipasto o piatto principale semplice ma saporitissimo. Per realizzarlo potete utilizzare solo ingredienti di origine ticinese, come i carnosi pomodori del Piano di Magadino e la mozzarella artigianale di Ambrì. Quest’ultima è prodotta nell’Alta Leventina dall’azienda agricola di Emilio Bossi con latte vaccino proveniente dall’azienda medesima.

La lavorazione iniziale – con la pastorizzazione e la cagliatura – è simile a quella del classico formaggio. La fase successiva è invece la più difficile e delicata: la cagliata viene fatta filare a mano in acqua calda a oltre 80 gradi fino al raggiungimento della giusta consistenza; quindi subito «mozzata» (da cui il nome) in «palle» e messa in acqua fredda. Una volta confezionate nelle pratiche vaschette richiudibili raffiguranti il produttore Emilio Bossi, le mozzarelle prendono la via di Migros Ticino. Mozzarella artigianale Nostrana 120 g Fr. 3.50 In vendita al reparto refrigerati delle maggiori filiali Migros.


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Idee e acquisti per la settimana

Precoce dolcezza

Salame del Contadino Citterio Nato nel 1878, il Salumificio Giuseppe Citterio è uno dei produttori italiani più longevi nel settore dei salumi. Negli anni il marchio è diventato un grande protagonista nell’ambito della salumeria italiana nel mondo. Tra i prodotti d’eccellenza di casa Citterio, vi segnaliamo il Salame del Contadino. Esso nasce da una ricetta tradizionale che

Salame del Contadino Citterio 100 g Fr. 6.60 In vendita nelle maggiori filiali di Migros Ticino

Nei reparti frutta di Migros Ticino è da poco arrivata la prima uva da tavola della stagione, la Victoria (o Vittoria) di provenienza pugliese o siciliana. Questa uva bianca con semi è una delle varietà più precoci e si caratterizza per la sua croccantezza, il sapore neutrodolce e la buccia di un bel colore verdegiallo. La sua forma è oblunga, conica e in genere è di grandezza medio-grossa. Oltre ad essere deliziosa, l’uva in generale è un alimento prezioso, particolarmente ricco di glucosio, sostanza quest’ultima che si trasforma rapidamente in energia permettendoci di affrontare nel migliore dei modi le attività fisiche e mentali quotidiane.

Piccoli ma buonissimi

Impossibile resistere alla tentazione vedendo questa graziosa scatola di latta raffigurante finissimi dolcetti di pasticceria italiana. Le Minivoglie di Matilde Vicenzi sono raffinati pasticcini assortiti che si distinguono per i cremosi ripieni, le delicate glasse e le vellutate confetture; vere prelibatezze perfette per uno spuntino o un dessert esclusivi. Sono

prevede l’utilizzo delle parti più nobili del suino, proprio come avveniva un tempo presso i contadini. A macinatura grossa, insaccato in budello naturale e legato ancora a mano, questo salame viene posto a stagionare da quattro a sei mesi, e conquista il palato grazie al suo gusto deciso, caratteristico ma dolce. Da servire a temperatura ambiente.

prodotti da Vicenzi, azienda familiare nata nel 1905 a San Giovanni Lupatoto, nei pressi di Verona, grazie all’intraprendenza di Matilde Vicenzi che vi aprì un piccolo laboratorio di pane e pasticceria con negozio di alimentari annesso. Negli anni, Vicenzi si è affermata nel mondo soprattutto per la produzione di savoiardi, amaretti e sfogliatelle.

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Idee e acquisti per la settimana

Ospite la Swissminiatur Esposizione fino al 26 luglio presso il Centro S. Antonino

A molti di noi la Swissminiatur di Melide rievoca i ricordi più o meno lontani delle passeggiate scolastiche. Un parco in miniatura all’aperto situato in uno dei luoghi simbolo del Ticino sulle rive del lago Ceresio. La zona è circondata da montagne come il Monte Generoso, il San Salvatore e il Monte San Giorgio, recentemente dichiarato Patrimonio Naturale dell’Umanità dall’UNESCO. Su una superficie di 14’000 mq, i visitatori possono ammirare oltre 120 modelli in scala 1:25 dei più famosi edifici e monumenti della Svizzera. Per gli appassionati di ferromodellismo, una rete di 3’560 m di ferrovie in miniatura si snoda attraverso il parco. È affascinante vedere i 18 treni correre sui binari, attraversare ponti e fermarsi alle stazioni. I battelli solcano i laghi, le funivie e le funicolari salgono e scendono dalle montagne e le automobili corrono sull’autostrada. Per gli amanti del giardinaggio, l’intero par-

co è ornato da 1’500 piante e da oltre 15’000 fiori mentre per i bambini sono a disposizione diversi giochi. Nella Mall del Centro S. Antonino, fino a sabato 26 luglio si potranno ammirare 5 fantastici modelli che non mancheranno certo di attirare l’attenzione sia dei bambini che dei più grandi e in particolare dei turisti che frequenteranno questo centro commerciale. Una breve presentazione di queste 5 costruzioni: Dazio Grande

Il Dazio Grande è una costruzione antica e massiccia, risalente alla metà del ’500, che sorge proprio alle porte del San Gottardo. Rappresentava la dogana urana per le merci, ma era anche un luogo di sosta per viaggiatori e cavalli. Rimase in funzione dal Cinquecento fino alla nascita del nuovo Canton Ticino, cioè fino ai primi dell’Ottocento. Torre dell’orologio di Berna

Prima porta occidentale della città, fu costruita attorno al 1191. Il magistrale

Il barometro dei prezzi

gioco di figure, l’orologio astronomico e la suoneria delle ore furono realizzati negli anni 1527–1530 dall’artista Kaspar Brunner. Le principali opere di restauro sono state effettuale in tempi diversi dal 1467 al 1483, nel biennio 1770–1771 e, infine, nel 1930. Municipio di Zofingen

Questo sontuoso edificio, costruito in stile tardo-barocco con una doppia scala esterna, fu eretto tra il 1792 e il

1795, seguendo i piani di Niklaus Emanuel Ringier. Gli interni sono in stile Luigi XVI e i soffitti in stucco sono stati realizzati da Franz Georg Rust. Ristorante Bauernhof di Goldau

Eretta attorno al 1761, questa costruzione è la più antica casa di tutta Goldau. Fortunatamente l’edificio fu risparmiato della terribile frana precipitata nel 1860. L’antica dimora è poi stata trasformata in ristorante.

Segheria Museo Ballenberg

Modello della segheria che si trova al Museo all’aperto del Ballenberg. In occasione di questa esposizione, il Ristorante Migros del Centro S. Antonino, in collaborazione con Swissminiatur, offrirà ai propri clienti buoni sconto per l’accesso a questa storica attrazione, che rappresenta una delle mete turistiche più frequentate della nostra regione.

Vestiti al profumo d’estate

Informazioni sulle modifiche di prezzo

Migros riduce i prezzi per l’olio di colza e di arachidi M-Classic. Il motivo è da ricercare nella diminuzione dei prezzi delle materie prime. Meno cari anche gli oli d’oliva della gamma Don Pablo. Al contrario, l’aumento di prezzo del latte dello scorso anno ha un effetto anche sui prodotti che contengono burro. Per questo diventano più cari ad esempio la Treccia al burro, i Gipfel Rustica e il pane Twister Bio. Quest’ultimo viene prodotto oggi quale novità con lievito Bio, prodotto fino ad oggi a disponibilità limitata e più caro del lievito convenzionale a causa della sua preparazione più costosa.

L’ammorbidente Summer Fresh di Exelia rende onore al proprio nome: con il suo profumo di fiori e frutta, che ricorda un prato fiorito, conferisce agli indumenti una gradevole freschezza e li rende morbidi e vellutati. Protegge il tessuto dall’usura, facilita la stiratura e previene la carica elettrostatica del bucato. Test dermatologici dimostrano la sua tollerabilità cutanea. Con Summer Fresh, Exelia raddoppia il suo impegno ecologico, dato che l’ammorbidente è facilmente biodegradabile oltre che disponibile nella pratica confezione di ricarica.

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Alcuni esempi:

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M-Classic HOLL Olio di colza, 1 l M-Classic Olio di colza svizzero, 1 l M-Classic Olio di arachide, 1 l Don Pablo Olio di oliva extra vergine, 1 l Treccia al burro, 300 g Gipfel rustico, 47 g Bio Twister bianco, 360 g

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 14 luglio 2014 ¶ N. 29

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Idee e acquisti per la settimana

Perfettamente integrati Bella Italia è il motto in auge oggi alla Migros, che già da mezzo secolo propone delizie della vicina penisola Oggi, dopo pranzo o dopo cena, ci concediamo un espresso o un ristretto, forte come quello che si usa in Italia. Anche il tiramisù è diventato popolare come la nostra tradizionale crème caramel. Ma da dove viene il nostro amore per la cultura culinaria italiana? «L’avvento della cucina mediterranea è iniziato solo negli anni settanta», ci dice la storica Sabina Bellofatto, che tra l’altro studia com’è arrivata in Svizzera la cucina

italiana. Nell’ambito di uno studio realizzato a Napoli, ricercatori americani avrebbero riconosciuto un nesso fra consuetudini alimentari e aspettativa di vita. Sabina Bellofatto: «Così si è inventata la cucina mediterranea, un concetto che fino allora non esisteva». Ma allora, com’è la storia dei circa 500’000 lavoratori italiani che a metà degli anni 60 vivevano in Svizzera con le loro famiglie? Non sono stati loro a farci conoscere quel

tipo di piatti? Naturalmente anche loro hanno contribuito a farci accettare la cucina italiana, sostiene Sabina. Però in un primo momento gli svizzeri nutrivano parecchia diffidenza nei confronti di quelle consuetudini alimentari. Ma da quando la Migros iniziò a scoprire i lavoratori ospiti come clienti e ad arricchire il suo assortimento con prodotti italiani, anche gli svizzeri cominciarono a poco a poco ad apprezzarli. / Dora Horvath

Macedonia di pesche e bacche con tiramisù Dessert per 4 persone Ingredienti 2 cucchiai di succo di limone 2 cucchiai di zucchero 4 nettarine piatte 400 g di frutti di bosco misti, ad es. fragole, lamponi, ribes e mirtilli 2 gambi di menta 2 gambi di melissa 300 g di tiramisù

Preparazione Mescolate il succo di limone con lo zucchero. Dimezzate le pesche e snocciolatele. Tagliate la polpa a spicchi. Selezionate le bacche. A seconda delle dimensioni dimezzatele, tagliatele in quattro o lasciatele intere. Staccate le foglioline di menta e di melissa e tagliatele a striscioline. Mescolate il tutto. Servite quattro porzioni di tiramisù con la macedonia. A piacere guarnite con la melissa.

Tempo di preparazione Ca. 20 minuti Per persona ca. 6 g di proteine, 11 g di grassi, 43 g di carboidrati, 1150 kJ/280 kcal

Ricetta

Sélection Aceto balsamico 10 anni 25 cl Fr. 17.50

Espresso Classico in chicchi 500 g Fr. 5.90* invece di 7.40 *Azione dal 15 al 21 luglio Nelle maggiori filiali

Sélection Amaretti cioccolata-arancia 200 g Fr. 7.70 Nelle maggiori filiali

Galbani Mascarpone 500 g Fr. 5.60

Contro la nostalgia: gli stagionali italiani seguono le loro amate consuetudini alimentari.

Aperito Hugo 20 cl Fr. 1.40 Nelle maggiori filiali Tiramisù savoiardi surgelato 500 g Fr. 10.50 Nelle maggiori filiali

Sélection Tartufi neri 200 g Fr. 8.60 Nelle maggiori filiali

Lamponi vaschetta Svizzera, 250 g Fr. 4.20 invece di 5.70


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Idee e acquisti per la settimana

Granita al caffè Dessert per 4 persone Ingredienti 1 baccello di vaniglia 100 g di zucchero 1 dl d’acqua 2 dl di caffè forte o espresso

Preparazione Incidete il baccello per il lungo ed estraete i semini. Unite entrambi ad acqua e zucchero e portate a ebollizione fino a ottenere uno sciroppo. Estraete il baccello. Mescolate lo sciroppo con il caffè. Versate in un contenitore basso e mettete in congelatore per almeno 4 ore. Ogni ca. 30 minuti mescolate la massa con una forchetta. Poco prima di servire raschiate la granita con una forchetta. Distribuitela in tazzine da caffè o in bicchierini e servite subito. Accompagnate a piacere con dei cantucci.

Crostata di albicocche Dessert per 8 persone. Per 1 tortiera di ca. 25 cm Ø

Tempo di preparazione ca. 20 minuti + congelazione minimo 4 ore La cucina italiana cominciò a godere di vasta popolarità solo a partire dagli anni 70.

Per persona ca. 0 g di proteine, 0 g di grassi, 25 g di carboidrati, 450 kJ/100 kcal

albicocche e snocciolatele. Tagliate le mezze albicocche in tre. Mescolatele con lo zucchero gelificante e distribuitele sulla pasta. Cuocete nella parte inferiore del forno per ca. 40 minuti.

Ingredienti burro e farina per la tortiera 200 g di farina 150 g di zucchero 60 g di mandorle macinate 1 presa di sale 1 cucchiaino di lievito in polvere 100 g di burro freddo 1 uovo 500 g di albicocche 2 cucchiai di zucchero gelificante 2:1

3. Estraete la crostata dal forno e lasciatela raffreddare un po’. Staccate la pasta dal bordo della tortiera. Rimuovete l’anello della tortiera. Con un coltello staccate la crostata dal fondo della tortiera. Lasciate raffreddare. Accompagnate con menta, panna montata o mascarpone.

Preparazione 1. Mescolate la farina con lo zucchero, le mandorle e il lievito. Aggiungete il burro a dadi e sfregate il tutto con le dita fino a ottenere una massa formata da tante briciole. Aggiungete l’uovo e impastate velocemente. Fate riposare la pasta in frigo per ca. 30 minuti. 2. Scaldate il forno a 200 °C. Imburrate la tortiera e infarinatela. Stendete la pasta tra due fogli di carta da forno conferendogli una forma rotonda e accomodatela nella tortiera. Dimezzate le

Tempo di preparazione ca. 30 minuti + refrigerazione ca. 30 minuti + cottura in forno ca. 40 minuti + raffreddamento

Per persona ca. 7 g di proteine, 17 g di grassi, 48 g di carboidrati, 1550 kJ/370 kcal

Albicocche al kg al prezzo del giorno

Nettarine extra bianche al kg al prezzo del giorno

Grissini Torinesi 250 g Fr. 2.55

Bialetti Espresso moka argento per 6 tazze Fr. 14.90* invece di 29.80 *Azione dal 15 al 28 luglio

Sélection Cantucci alle mandorle 250 g Fr. 8.40 Nelle maggiori filiali

San Antonio Il panettone 500 g Fr. 6.50 Nelle maggiori filiali

S. Pellegrino 6x1,5 l Fr. 4.–* invece di 6. *Azione dal 15 al 21 luglio

Mini angurie Solinda Italia, al pezzo Fr. 2.60


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Tutti i Crème Dessert, per es. al cioccolato, 6 x 125 g 2.– invece di 2.50 20% Grana Padano grattugiato in conf. da 3, 3 x 120 g 6.– invece di 7.50 20% Mozzarella Galbani in conf. da 3, 3 x 150 g 3.95 invece di 5.70 Büscion di capra, prodotti in Ticino, in conf. da 2 x 3 x 50 g 8.50 invece di 11.60 25% Pane Val Morobbia, 550 g 2.90 invece di 3.40

Prosciutto crudo di Parma Beretta, Italia, 130 g 7.– invece di 10.– 30% Petto di tacchino M-Classic in conf. da 2, affettato finemente, Brasile / Francia, 2 x 144 g 4.90 invece di 7.– 30% Mini filetto di pollo Optigal, Svizzera, per 100 g 2.90 invece di 3.65 20%

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Gamberetti tail-on, bio, cotti, d’allevamento, Ecuador, per 100 g 4.30 invece di 6.25 30% *

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Bistecche di manzo, TerraSuisse, Svizzera, imballate, per 100 g 3.30 invece di 4.80 30% Fettine e arrosto coscia di maiale, TerraSuisse, imballati, per 100 g 1.95 invece di 2.80 30% Galletto speziato Optigal, Svizzera, in conf. da 2 pezzi, per 100 g 1.– invece di 1.45 30%

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Roastbeef cotto, Svizzera / Germania, affettato in vaschetta, per 100 g 4.80 invece di 6.90 30% Branzino 300–600 g, Grecia, per 100 g 1.75 invece di 2.50 30% fino al 19.7

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Gelati da passeggio alla panna gusto vaniglia, cioccolato o fragola in conf. da 24, per es. alla vaniglia, 1368 ml 7.20 invece di 14.40 50% Tutte le Pepsi in conf. da 6 x 1,5 l, per es. Regular 5.50 invece di 11.– 50% Succo d’arancia M-Classic, in conf. da 12 x 1 l 6.90 invece di 13.80 50% San Pellegrino in conf. da 6 x 1,5 l 4.– invece di 6.– 33%

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Tutti i tipi di purea di patate Mifloc, per es. purea di patate, 4 x 95 g 3.60 invece di 4.55 20% Rigatoni Garofalo in conf. da 2, 2 x 500 g 3.50 invece di 5.– 30% Tutti gli aceti Ponti e Giacobazzi, per es. aceto balsamico di Modena Ponti, 50 cl 3.60 invece di 4.50 20% Tutti gli articoli Subito, per es. pasta all’arrabbiata, 160 g 2.15 invece di 2.70 20% Grissini torinesi da 360 g o crocchini al rosmarino da 375 g, per es. grissini torinesi, 360 g 2.90 invece di 3.65 20% Leckerli di Basilea, 1,5 kg 12.– invece di 15.– 20% Tutte le torte svedesi (a fette e intere), per es. torta svedese ai lamponi, 500 g 7.80 invece di 9.80 20%

Tutte le confetture e gelatine Extra in vasetto da 500 g, a partire dall’acquisto di 2 vasetti, –.70 di riduzione l’uno, per es. confettura di albicocche, 500 g 2.– invece di 2.70 Müesli o cereali Actilife, per es. Crunchy Mix Plus, 600 g 4.55 invece di 5.70 20%

Tutto l’assortimento Sun Look (escluse confezioni multiple), per es. Protect & Tan, IP 30, 200 ml 11.80 invece di 14.80 20% ** Tutto l’assortimento Essence Ultîme (confezioni multiple escluse), per es. shampoo Omega Repair, 250 ml 5.50 invece di 6.90 20% ** Tutte le colorazioni Schwarzkopf e Syoss, a partire dall’acquisto di 2 prodotti, 3.– di riduzione l’uno, per es. Nectra 568 castano 8.80 invece di 11.80 ** Tutti gli articoli Gillette Body, per es. rasoio Body 20x 11.90 NOVITÀ ** Prodotti per la rasatura Gillette, Bic e Wilkinson in confezioni multiple, per es. gel per rasatura Gillette in conf. da 2, 2 x 200 ml 6.35 invece di 7.50 ** Tutto l’assortimento I am men e i prodotti per la cura del viso L’Oréal Men Expert (confezioni multiple e deodoranti I am men esclusi), per es. Shower Re-Charge, 250 ml 1.85 invece di 2.20 15% ** Docciaschiuma o deodoranti Axe in confezioni multiple, per es. docciaschiuma Apollo in conf. da 3, 3 x 250 ml 8.90 invece di 11.85 ** Shampoo, deodoranti e docciaschiuma Nivea in confezioni multiple, per es. docciaschiuma Energy for Men in conf. da 3, 3 x 250 ml 7.20 invece di 9.– ** Pantofole per bambini, per es. pantofole da bambina in jersey 14.90

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 14 luglio 2014 ¶ N. 29

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Idee e acquisti per la settimana

Armando De Angelis Tortellini al prosciutto crudo 250 g Fr. 5.90 30% sul duopack fino al 21.7 Fr. 8.20 invece di 11.80

Armando De Angelis Tortelli ai funghi porcini 250 g Fr. 5.90

Armando De Angelis Tortelli alla ricotta e spinaci 250 g Fr. 5.40 30% sul duopack fino al 21.7 Fr. 7.50 invece di 10.80

La pasta è sempre apprezzata anche come primo piatto. (Foto und Styling: Claudia Linsi)

La ricetta segreta della nonna Le paste fresche di Armando De Angelis sono come fatte in casa

Armando De Angelis Sacchettini allo speck 250 g Fr. 5.90

Armando De Angelis esiste davvero. È proprietario dell’omonima azienda familiare a Villafranca presso Verona. Lì da 30 anni si producono paste fresche secondo le ricette di sua nonna, che erano leggendarie in tutta la regione. Mentre a suo tempo il padre di De Angelis fabbricava ancora tutto a mano, oggi nell’impresa che occupa una novantina di persone si usano le macchine. A parte la modernizzazione tecnica, nella produzione la ditta si attiene ai principi tradizionali. Accanto ai ripieni ricchi e fantasiosi preparati con materie prime d’alto valore, nei prodotti di Armando De Angelis va sottolineata in particolare

la qualità della pasta. Una percentuale di uova superiore alla media la rende particolarmente morbida e soffice. È leggermente ruvida in superficie, così che le salse «prendono» meglio. Questa caratteristica è data dalla trafilatura al bronzo, che è il marchio di qualità di molte paste Premium. Inoltre i prodotti vengono delicatamente precotti al vapore, in modo che a casa devono solo essere immersi in acqua bollente da due a otto minuti, a seconda della varietà. I tortelli o i tortellini si prestano anche per un’insalata variopinta, adattissima al clima estivo (vedi ricetta). Sono ottimi naturalmente anche come primo, in brodo o al burro e salvia. / DH

Insalata variopinta di tortellini Piatto principale per 4 persone Ingredienti 2 cucchiai d’aceto balsamico bianco 5 cucchiai d’olio d’oliva 400 g di pomodori cherry 1 mazzetto di cipollotti 1 mazzetto di basilico 500 g di tortellini al prosciutto crudo Armando De Angelis fleur de sel, pepe Preparazione Emulsionate l’aceto balsamico e l’olio in una scodella capiente. Dimezzate i pomodori. Tagliate i cipollotti a rondelle sottili. Staccate le foglie di basilico dai gambi. Lessate i tortellini in abbondante acqua salata per ca. 2 minuti. Scolateli e passateli sotto l’acqua fredda. Trasferite i tortellini, i pomodori, i cipollotti e il basilico nella scodella e mescolate bene il tutto. Condite l’insalata di tortellini con fleur de sel e pepe. Tempo di preparazione ca. 20 minuti Per persona ca. 17 g di proteine, 18 g di grassi, 63 g di carboidrati, 1700 kJ/410 kcal Ricetta di



Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 14 luglio 2014 ¶ N. 29

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Idee e acquisti per la settimana

Totalmente comodi Grazie all’impugnatura integrata, i detersivi liquidi di Total diventano ancora più maneggevoli

I detersivi liquidi di Total hanno alcuni indiscutibili vantaggi: sono comodi da usare e occupano pochissimo spazio, dall’acquisto fino allo smaltimento. Si sciolgono completamente ed eliminano le macchie già a basse temperature, a partire dai 15°C, anche con un dosaggio basso. Ora i designer dell’imballaggio hanno reso ancora più pratico il sacchetto, dotandolo di un manico. Il sistema è stato escogitato in modo intelligente, in quanto il manico è integrato nell’imballaggio mediante un’apertura a triangolo inserita nell’angolo superiore, che sopporta bene il carico e non occupa spazio supplementare. In tal modo è possibile trasportare comodamente i detersivi con due dita ed è anche più semplice dosarli. Quando il sacchetto è vuoto, lo si può ancora appiattire esattamente come finora. Con la loro ampia gamma di prodotti, i detersivi liquidi di Total offrono la soluzione adatta a ogni esigenza. Per la biancheria chiara e bianca è ideale Total Liquid, che contiene uno sbiancante. Per quella colorata ci sono due prodotti: mentre Total Color con una tripla protezione del colore rende brillanti i colori, Total Aloe Vera conferisce alla biancheria una fresca nota particolarmente profumata. Per tutti i capi delle persone con pelle sensibile si raccomanda l’ipoallergenico Total Sensitive. Da 75 anni numerosissime massaie svizzere danno fiducia alla marca propria della Migros Total. I prodotti vengono costantemente ottimizzati sulla base dei più recenti risultati della ricerca. Il gruppo Mibelle gestisce allo scopo un suo proprio laboratorio di ricerca. Si capisce quindi perché i consumatori abbiano recentemente scelto Total quale marca più degna di fiducia nella categoria detersivi. Lo ha stabilito lo studio «European Trusted Brands 2014», effettuato dall’azienda di indagini di mercato Reader’s Digest. / DH

Il manico integrato facilita il dosaggio. (Foto: Salvatore Vinci; Styling: Katja Rey)

Total Color 2 l Fr. 15.90 Total Liquid 2 l Fr. 15.90 Total Sensitive 2 l Fr. 15.90 Total Aloe Vera 2 l Fr. 15.90 L’industria Migros produce numerosi prodotti Migros molto apprezzati, tra cui anche i detersivi Total.


2.90 Costine carrĂŠ di vitello Svizzera, al banco a servizio, per 100 g

30% 3.30 invece di 4.80 Bistecche di manzo, TerraSuisse Svizzera, imballate per 100 g

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30% 1.95 invece di 2.85 Spiedini di polpette con pancetta Svizzera, imballati, per 100 g

3.– invece di 4.40 Scamoncini di agnello Australia/Nuova Zelanda, imballati, per 100 g

25% 25% 2.50 invece di 3.35 Spiedino gigante di maiale/manzo speziato Svizzera, imballato, per 100 g In vendita nei maggiori supermercati di Migros Ticino. OFFERTE VALIDE DAL 15.7 AL 21.7.2014, FINO AD ESAURIMENTO DELLO STOCK.

1.20 invece di 1.60 Spiedino rustico AIA Italia, imballato in conf. da ca. 420 g, per 100 g


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