Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXVII 7 luglio 2014
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Società e Territorio Il selfie: analisi di un fenomeno di massa che nasconde creatività e ironia
Ambiente e Benessere Il Parc Naziunal Svizzer è il più antico delle Alpi e quest’anno festeggia il suo primo centenario
Politica e Economia Si riaccende la tensione fra israeliani e palestinesi
Cultura e Spettacoli A Rancate si ripercorre la carriera di Rosetta Leins
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Franco Banfi
I gioielli di ghiaccio del Naret
di Banfi e Belloni pagina 11
Pennellate di Francia di Peter Schiesser 20 giugno. Il ministro dell’economia Arnaud Montebourg mette fine alla vertenza Alstom, colosso energetico e ferroviario francese: lo Stato diventa azionista di maggioranza e autorizza un’alleanza con la americana General Electric, ma alle condizioni francesi. Restano a mani vuote la tedesca Siemens e la giapponese Mitsubishi. In Francia il capitalismo di Stato ha vinto sul liberalismo. Montebourg statuisce: «vigilanza patriottica». La grandeur è salva, ma al prezzo di un’alleanza con gli americani. 20 giugno, ore 21. Appuntamento in un bar nell’11.esimo arrondissement di Parigi per Francia-Svizzera. Giovani di ogni etnia affollano le strade, poche auto a contendersele; negozietti e locali di ogni genere. La goleada dei bleu impedisce di accorgersi che fra le decine di scalmanati avventori ci sono tre svizzeri. Alla quinta rete, il tripudio è incontrollabile, impossibile distinguere una voce nel coro di una nazione calcisticamente rinata. Poi, la sorpresa: al 5 a 1 battono le mani, al 5 a 2 le mani battono ancora e qualcuno grida Vive la Suisse! Più tardi mi dicono che la Nazionale francese aveva deluso alla vigilia dei Mondiali, che si aveva paura della Svizzera. Siccome non si voleva
un’umiliazione dei rossocrociati, sono state applaudite anche le sue reti, si ammira la forza con cui si battono pur se sconfitti. La blasonata banca BNP Paribas dovrà pagare 8,947 miliardi di dollari agli Stati Uniti per aver aggirato le sanzioni americane nei confronti di Sudan, Iran e Cuba. Il 30 giugno BNP Paribas si è dichiarata colpevole a New York di falsificazione di documenti commerciali e collusione. Come Credit Suisse, non perderà la licenza bancaria negli Stati Uniti, ma dovrà sottostare a umilianti verifiche future sulla correttezza delle sue operazioni. Attraverso una filiale a Ginevra, fra il 2002 e il 2009 BNP Paribas ha fatto affari con i tre Paesi, comprando e vendendo petrolio e gas in dollari (motivo della sanzione), per 30 miliardi. A nulla è valso l’intervento del presidente francese Hollande presso Obama, il quale gli ha laconicamente ricordato che in America il potere giudiziario è indipendente da quello politico. La grandeur francese subisce un colpo secco. BNP Paribas perde la reputazione di banca al di sopra di ogni sospetto, i francesi l’illusione che la banca fosse eticamente superiore alle altre. 21 giugno, Fête de la musique. A Montmartre, atmosfera rilassata, gioioso coinvolgimento del pubblico, una massa allegra si gode la
serata, in una sorta di orgia estiva abbraccia con il suo entusiasmo i suonatori, mangia, beve, incurante dell’ammasso di rifiuti e di cocci di vetro che con le ore ricoprono le strade. Parigi sa ancora divertirsi e onorare gli artisti. Non quelli a caccia di turisti, ma i propri, quelli che ricordano ai parigini che la città è ancora una fucina artistica. Il 2 luglio Nicolas Sarkozy viene posto in stato di fermo per 15 ore. Interrogato dai giudici, viene poi indagato per «corruzione attiva, traffico di influenza attiva e occultamento di violazione del segreto professionale». È la prima volta che un ex presidente viene indagato per reati tanto gravi. In Francia il presidente ha il potere di un re. Ma deve porlo al servizio della repubblica, non di sé stesso. I guai giudiziari di Sarkozy intaccano anche l’immagine dell’istituzione. Sabato pomeriggio al Jardin du Luxembourg. In una grande vasca rotonda una ventina di inaffondabili barchette di legno con la vela vengono sospinte dalla brezza e rincorse per ore da bambini che con un bastone le sospingono altrove quando toccano il bordo della vasca. Un’amica commenta: «adoro questo gioco, non ha mai fine». Qua e là, Parigi vive ancora i tempi lunghi dipinti dagli Impressionisti nella seconda metà dell’Ottocento.
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Attualità Migros
M Tutti promossi, e con 4 medaglie Cooperativa Migros Ticino Pieno successo per i ventidue giovani collaboratori
Nuova collaborazione di Migros con hotelleriesuisse
in formazione giunti al termine del loro percorso Superando gli esami negli scorsi giorni i ragazzi hanno dunque concluso il percorso di formazione. Tra loro, quattro hanno conseguito una medaglia (un argento e tre bronzi) e uno l’attestato federale di capacità con maturità integrata: è il secondo apprendista di Migros Ticino dall’introduzione della nuova ordinanza federale ad ottenerlo. Sedici i ragazzi che hanno ottenuto l’attestato federale di capacità quale impiegato del commercio al dettaglio: Sharon Centurione, Alessio Ferrazzo, Tashi Gyalpo Dresti, Vanessa Häfliger, Arev Jaggi (con maturità integrata), Chiara Michilin (medaglia di bronzo), Aris Pozza, Mattia Tamburini, Fabio Amaro Santos, Patrick Iula, Cristian De Stefano, Nenad Milosavljevic (medaglia di bronzo), Lara Moura de Matos (che ha già conseguito in Migros il Certificato di formazione pratica nel 2012), Natasa Radovanovic, Barbara Ramos Freire (medaglia d’argento) e Sheila Armenio; Serena Giantomaso, Salvatore Mancuso, e Stefania Zinna (tutti con formazione estesa) hanno conseguito l’attestato federale di capacità quale impiegato di commercio, Ahmet Demircan l’attestato federale di capacità quale impiegato in logistica e per finire Thomas Baglioni l’attestato federale di capacità come cuoco. Noemi Invernizzi ha invece svolto uno stage di 52 settimane per il percorso commerciale e ha conseguito la medaglia di bronzo. Undici ragazzi hanno deciso di restare in azienda e nel corso dei prossimi mesi inizieranno l’attività professionale nel loro nuovo ruolo. Nella foto i neo diplomati in occasione della festa per la consegna dei diplomi.
(Bellinzona), Cristian De Stefano (OBI S.Antonino), Sheila Armenio (Locarno), Chiara Michilin (Mendrisio), Natasa Radovanovic (Lugano), Salvatore Mancuso (centrale S. Antonino), Patrick Iula (S. Antonino), Ahmet Demircan (centrale S. Antonino); terza fila: Barbara Ramos Freire (Agno), Sharon Centurione (Lo-
carno), N. Invernizzi (Scuola club Locarno), Vinish Parackal (collaboratore HR), Giorgio Gallotti (responsabile apprendisti di Migros Ticino), Serena Giantomaso (centrale S. Antonino), Stefania Zinna (centrale S. Antonino). Nella foto mancano Alessio Ferrazzo e Aris Pozza.
Per i partecipanti al programma Cumulus, in futuro la prenotazione di alberghi in Svizzera diventerà ancora più vantaggiosa. Grazie alla nuova collaborazione di Migros con hotelleriesuisse, l’associazione degli albergatori svizzeri, ben 2,8 milioni di partecipanti al programma Cumulus potranno approfittare di allettanti offerte alberghiere. In qualità di nuovo partner di Migros, hotelleriesuisse presto metterà a disposizione dei partecipanti al programma Cumulus interessanti offerte per pernottamenti in tutta la Svizzera. hotelleriesuisse è il centro di competenza del settore alberghiero svizzero e rappresenta l’economia alberghiera svizzera di qualità e orientata al futuro. L’offerta alberghiera di hotelleriesuisse comprende oltre 2000 imprese in tutte le regioni della Svizzera ed è variegata tanto quanto lo sono i suoi ospiti. Dall’albergo di tendenza in città fino alle oasi del benessere, passando per strutture con una confortevole atmosfera da châlet svizzero, ce n’è per tutti i gusti. Le offerte potranno essere prenotate su www.SwissHotels.com, una piattaforma online nazionale gestita da STC Switzerland Travel Centre. Le offerte saranno comunicate ai partecipanti al programma Cumulus nella primavera del 2015. Con 2,8 milioni di clienti, Cumulus è il maggiore programma di fidelizzazione della clientela in Svizzera. Cumulus è tra i venti marchi più forti della Svizzera (fonte: BrandAssetTM Valuator 2013 di Y&R). Cumulus, il programma di fidelizzazione della clientela più apprezzato in Svizzera, rende la stima per i clienti un’emozione da vivere, punto dopo punto.
Foto di gruppo per i festeggiati.
Da sinistra, prima fila: Vanessa Häfliger (Giubiasco), Lara Moura de Matos (S. Antonino), Thomas Baglioni (ristorante S. Antonino), Fabio Amaro Santos (Micasa S. Antonino), Mattia Tamburini (Taverne), Nenad Milosavljevic (Hobby Taverne), Tashi Gyalpo Dresti (Ascona); seconda fila: Arev Jaggi
La scuola di Dutti Scuola Club Migros Da 70 anni propone
formazione e attività del tempo libero «Non ci si può limitare a tenere in vita l’essere umano, bisogna anche aiutarlo a vivere in modo consapevole, preservandolo dalla sensazione di essere superfluo». Così si esprimeva Gottlieb Duttweiler a metà degli anni Cinquanta, riferendosi alla formazione continua degli adulti, che considerava uno strumento essenziale per migliorare la qualità della vita della popolazione. La Scuola Club Migros nasce nel 1944 per volontà del fondatore della Migros, il quale già negli anni precedenti la fine della guerra aveva iniziato a proporre ai soci della cooperativa corsi di lingue, ritenendo che con la riapertura delle frontiere buone conoscenze linguistiche sarebbero state molto utili per l’attività economica nazionale. Il successo è immediato: da subito migliaia di persone si iscrivono ai corsi per imparare non solo il francese, l’italiano o l’inglese, ma anche il russo o lo spagnolo. Gottlieb Duttweiler ha così la conferma di essere sulla strada giusta. La prima Scuola Club viene inaugurata nel 1944 a Zurigo (vedi la foto). Ai corsi di lingue si aggiungono ben presto svariati corsi per il tempo libero e corsi di ginnastica e sport, cui segui-
ranno corsi commerciali e formazioni a carattere professionale. Negli anni Ottanta la Scuola Club Migros è tra le prime istituzioni di formazione a proporre corsi di informatica. Nel 1957 negli statuti delle cooperative Migros viene ancorato l’obbligo di destinare lo 0.5% cento del fatturato aziendale ad attività culturali, sociali, economiche e di formazione. Questa norma statutaria permette di assicurare un finanziamento costante alle Scuole Club Migros, che hanno così la possibilità di beneficiare di un sostegno economico che permette di proporre corsi di eccellente livello qualitativo a costi contenuti. Una decisione che risale a oltre mezzo secolo fa e che ha fatto di Migros un’azienda che ha saputo anticipare i tempi in fatto di responsabilità sociale. Attualmente la Scuola Club Migros ha 50 sedi, situate in altrettante località di tutta la Svizzera, che propongono oltre 600 diversi tipi di corsi e formazioni e impiegano oltre 7’500 formatori. Ogni anno i partecipanti che seguono i corsi raggiungono le 400’000 unità. La Scuola Club di Migros Ticino inaugura le sue prime tre sedi a Lugano, Locarno e Bellinzona già nel 1957; qualche
anno dopo apre i battenti la sede di Mendrisio. Anche nella Svizzera italiana sin dall’inizio i partecipanti sono numerosissimi: già nei primi anni superano il migliaio, e nel giro di pochi anni il loro numero cresce in modo esponenziale. Nel 2013 le iscrizioni ai corsi hanno superato quota 16’000. Il contributo finanziario che Migros Ticino nell’arco di oltre 50 anni ha regolarmente destinato alla Scuole Club (attualmente il contributo annuale è di circa 1.6 milioni di franchi) ha dato la possibilità a un numero
impressionante di persone di seguire formazioni in grado di rispondere alle esigenze di un’utenza sempre più ampia ed eterogenea. Questo importante sostegno ha inoltre permesso alla Scuola Club Migros Ticino di essere sempre all’avanguardia. Anche per il nuovo anno scolastico le novità sono parecchie. Presto verrà inaugurata la nuova sede di Bellinzona: una struttura moderna e funzionale, con spazi in grado di accogliere sia corsi di lingue e di informatica, sia varie proposte per il tempo libero – dal fitness
alle attività creative. Ma le novità non si fermano qui. Grazie a un utilizzo sempre più ampio delle nuove tecnologie, i partecipanti possono già ora seguire corsi di formazione a distanza, come le formazioni One2One, che consentono di apprendere ed esercitare le lingue via Skype. La Scuola Club Migros Ticino continua insomma a operare come Duttweiler, da vero precursore, auspicava oltre 70 anni fa: coltivando il valore del sapere quale motore indispensabile per la crescita della comunità.
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Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
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Società e Territorio Scuole comunali Si voterà in settembre sull’iniziativa popolare che chiede di ridurre gli allievi nelle classi e migliorare i servizi para-scolastici
Archeologia industriale La lunga vita della cartiera di Tenero, nata nel 1853 per iniziativa di Tomaso Franzoni e chiusa definitivamente nel 2006
Giornalisti in Ticino Preoccupazioni e inquietudini emergono dall’inchiesta di Michele Andreoli sulle condizioni di lavoro pagina 5
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Keystone
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Autoscatto tra eccessi e ironia
Selfie Un vero tormentone che ha coinvolto perfino il Papa, eppure il selfie è un fenomeno di massa con risvolti
positivi e creativi: le opinioni di Stefano Ferrari, Fabio Piccini e Benedetta Montini Laura Di Corcia È il tormentone del 2014: una volta si chiamava autoscatto ed era praticato da fotografi con tutti i crismi, come Francesca Woodman, oggi, per darsi un tono, si dice selfie. Basta ruotare il telefonino verso se stessi e il gioco è fatto, con risultati altalenanti. Ma a quali esigenze risponde questa moda? Come mai la rete pullula di autoscatti volti a mostrare il nuovo taglio di capelli, la gita in montagna o la tintarella? Secondo uno studio da parte della American Psychiatric Association chi ha la mania del selfie soffre di un disturbo mentale, il «selfitis», che potremmo tradurre in italiano col termine «selfite». I medici che hanno effettuato la ricerca sostengono che gli amanti del selfie soffrano di mancanza di autostima e cerchino, in questo modo, di colmare le lacune nella propria intimità. «Per non essere troppo approssimativi e superficiali, dovremmo parlare più in generale delle diverse dinamiche psicologiche dell’autoritratto, di cui il selfie costituisce solo una piccola variante contemporanea», spiega Stefano Ferrari, che insegna Psicologia dell’arte
a Bologna e ha scritto svariati libri sul tema (l’ultimo si intitola AutoFocus. L’autoritratto fotografico tra arte e psicologia, edizioni Clueb). Il professore ha un atteggiamento meno critico verso questo fenomeno, che, a suo avviso, avrebbe radice nel senso di precarietà che mina la nostra identità. «Soprattutto in un’epoca così travagliata il selfie è innanzitutto una testimonianza di esistenza, un modo di dire “ci sono, qui e ora – protagonista di questo piccolo/grande evento”. Non solo. Visto che prevede la sua immediata messa in rete, esso implica un preciso bisogno di condivisione, il bisogno di far partecipe il mondo della propria esperienza». Anche lo psicanalista Fabio Piccini, autore del libro Tra arte e terapia, rintraccia nell’autoscatto una modalità non per forza malsana di mettere in gioco sé stessi. «Farsi una fotografia è, se ci pensiamo, un tentativo per riuscire davvero a vedersi, a vedere qualcosa di più di sé stessi. Si tratta di una ricerca importante, che magari non approda a nulla perché da soli non si hanno gli strumenti… ma io credo che ad ogni modo non sia una cosa inutile, né dannosa». Non a caso l’autoscatto è
utilizzato da Piccini, ma anche da artisti e fotografi, con finalità terapeutiche, per guarire quegli stessi stati d’ansia che porterebbero gli adolescenti (ma non solo) a infarcire le loro pagine virtuali di autocelebrazioni a colori o in bianco e nero. «Certo, possiamo considerare il fenomeno solo come il sintomo di un disagio – specifica il professor Ferrari –, ma in fondo il selfie è anche una reazione a questo disagio, che di per sé può essere positiva: volere ribadire la propria presenza, testimoniarla e oggettivarla attraverso la rappresentazione e la reiterata duplicazione della propria immagine può avere in sé qualcosa di salutare e fecondo. Di per sé l’autostima avrebbe l’esigenza di ben altri riscontri, ma anche il semplice “mi piace” da parte degli amici della rete può dare un contributo. Dobbiamo però tener conto che molto spesso in queste pratiche c’è una grande, sana componente di gioco, di ironia, di invenzione, che al di là di qualche eccesso, è intrinsecamente creativa». Ma chi sono gli autori dei selfie? Secondo il professor Ferrari, sarebbero proprio i giovani a rivolgersi a questa modalità per affrontare – e magari
superare – i momenti più bui. Dietro le manie presenzialistiche, che lascerebbero pensare al più vieto narcisismo, dietro lo scatto compulsivo si nasconderebbe un vuoto interiore incolmabile, «un’esplicita paura della solitudine e un disperato bisogno di sentirsi parte di una collettività». Benedetta Montini, che utilizza la tecnica dell’autoscatto sia a scopi terapeutici che artistici, organizzando anche workshop, sostiene che invece questa modalità sia particolarmente vicina alla sensibilità femminile. «Il mio percorso artistico nasce con l’autoscatto. Per me è stato automatico iniziare da me, perché quello era il materiale che avevo sottomano. L’arte è soprattutto ricerca», spiega la fotografa, che ultimamente ha anche tentato una sintesi fra fotografia e performance. «I corsi sul self portrait che organizzo sono seguiti molto spesso da persone senza nessuna velleità artistica. Si tratta di una modalità terapeutica e prettamente femminile, una strada per raggiungere l’autodeterminazione. Solo alcuni di questi autoscatti escono da questa zona e riescono a diventare arte». Nonostante le sue
potenzialità estetiche e terapeutiche, il selfie non gode di buona fama nemmeno fra l’opinione pubblica. «Di tutti i fenomeni di massa si tende, anche giustamente, a cogliere quasi sempre gli elementi di criticità: gli eccessi, le banalizzazioni, i rischi… che naturalmente ci sono. – spiega Ferrari – Forse però dietro questo atteggiamento critico può esserci, insieme a una sacrosanta difesa del senso del pudore e della riservatezza, anche la paura nei confronti di una creatività percepita come eccessivamente libera e disinibita e dunque fuori controllo». Secondo Piccini, si tratta di opinionismo da bar operato da persone che parlano della materia senza conoscerla. Nel frattempo, però, pullulano le ricerche che vanno in direzione opposta: una delle ultime? Uno studio condotto presso quasi tremila chirurghi plastici facciali americani, il quale sottolinea che proprio in concomitanza con il dilagare della moda del selfie siano aumentate anche le richieste di ritocchini, soprattutto da parte degli under trenta, sia maschi che femmine. Che si tratti di una semplice coincidenza?
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Società e Territorio
Scuole comunali, si vota a settembre Politica scolastica L’iniziativa lanciata nel 2009 dal sindacato dei servizi pubblici Vpod propone di diminuire
il numero degli allievi per classe e di migliorare i servizi di mensa e doposcuola Roberto Porta Le vacanze scolastiche sono appena iniziate e può sembrare piuttosto impietoso guardare già a settembre. Ma quest’anno in Ticino il ritorno tra i banchi scolastici non porterà con sé soltanto cartelle nuove e matite appena appuntite. Affilate saranno anche le armi della politica perché l’inizio dell’anno scolastico coinciderà con lo scatto finale della campagna in vista della votazione del 28 settembre su un’iniziativa popolare che riguarda proprio la scuola. L’iniziativa si chiama «Aiutiamo le scuole comunali – Per il futuro dei nostri ragazzi» ed è stata lanciata dal sindacato dei servizi pubblici Vpod, che guida un comitato formato dal Partito socialista, dal sindacato Ocst e da una decina di associazioni vicine al mondo dell’insegnamento. Il suo percorso è stato piuttosto lungo, basti pensare che è iniziato nel 2009 con il sostegno di quasi diecimila firme. Ma partiamo dall’inizio e dalle proposte di questo testo, che chiede in sostanza una riduzione del numero di allievi per classe, per la scuola elementare e per quella dell’infanzia. L’obiettivo principale è quello di passare dagli attuali 25 a 20 allievi per sezione, se la classe è composta interamente da ragazzi dello stesso anno scolastico. Per le pluriclassi questo numero massimo andrà ulteriormente ridotto. Da notare che per la scuola dell’infanzia il numero medio di allievi è di 21,7 per classe, la media più alta della Svizzera. Nella scuola elementare si registra invece una media di 18,6 allievi per classe, in linea con i dati nazionali. L’altro grande scopo dell’iniziativa riguarda invece i servizi parascolastici, per avere sul territorio cantonale più mense e più doposcuola per gli allievi. Dai tre anni di età – e non dai
Nel 2009 al momento della consegna delle firme a sostegno dell’iniziativa «Aiutiamo le scuole comunali» Manuele Bertoli era presidente del Partito socialista. (Ti-Press)
quattro come oggi – i bambini avranno inoltre il diritto di essere ammessi nella scuola dell’infanzia, attualmente questa possibilità è data solo se la struttura scolastica dispone dello spazio sufficiente. Dalla consegna delle firme, cinque anni fa, i meccanismi della politica ticinese hanno generato una sorta di stratificazione di provvedimenti nel tentativo di dare una risposta, seppur parziale, alle proposte della stessa iniziativa. E così nel 2011 è stato introdotto il diritto per i bambini di accedere alla scuola dell’infanzia già dai tre anni di età. È stato inoltre potenziato il servizio di sostegno pedagogico per le scuole comunali, con un maggiore intervento finanziario da parte del Cantone. Ed è stata approvata dal Gran Consiglio la nuova legge sulla pedagogia speciale. Tutto questo per migliorare le condizioni-quadro in cui si
muovono docenti e bambini nella prima scolarità, fino al termine delle elementari. Governo e parlamento non hanno invece accolto la riduzione del numero di allievi rivendicata dall’iniziativa ed è ancora al vaglio la questione della mensa scolastica per tutti. Il Consiglio di Stato ha elaborato un controprogetto all’iniziativa proponendo di passare ad un tetto massimo di 22 allievi per classe nelle scuole elementari e alle medie. Il Gran Consiglio però non ne ha voluto sapere. «Questa soluzione, che avrebbe permesso il ritiro dell’iniziativa, purtroppo non è stata accolta dal parlamento, cosa della quale mi rammarico – fa notare Manuele Bertoli, responsabile del Decs –. Ora lo scontro popolare ci sarà ed io spero che la campagna non sia di quelle caotiche, per cui alla fine ad uscirne perdente sarà la scuola stessa, che proprio non se lo merita».
Nella campagna politica si parlerà molto di un’altra ricetta scolastica, approvata dal Gran Consiglio e targata Plr-Ppd. Una misura che prevede di estendere il ricorso ad un docente di appoggio per tutte le classi con più di 22 allievi. «Questa soluzione è sicuramente efficace, in particolare per affrontare i casi più problematici – fa notare il deputato Plr Stefano Steiger –, con il docente d’appoggio in aula l’allievo sarà di certo ben seguito. È una misura decisamente più efficace rispetto alla riduzione del numero di allievi per classe». Questo compromesso avrebbe un costo stimato a circa 3 milioni e 700mila franchi. Molto meno di quanto costerebbe l’applicazione dell’iniziativa. Per le scuole elementari e dell’infanzia la riduzione a 20 del numero massimo di allievi per classe comporterebbe un aumento medio dei costi per Cantone e Comuni di
circa 16 milioni all’anno per la sola gestione corrente. «Non si tratta di costi ma di investimenti per il futuro dei nostri allievi ma anche di tutta la società – fa notare Linda Cortesi del sindacato Vpod –. Ricordo inoltre che la spesa per allievo in Ticino è molto inferiore alla media svizzera. Il nostro cantone occupa il terz’ultimo posto nelle statistiche nazionali. Il margine di miglioramento è dunque ancora molto ampio». Ma al di là degli aspetti finanziari cosa ne pensano gli iniziativisti del compromesso che ruota attorno alla figura del docente di appoggio per le classi numerose? «Questo tipo di docente non è obbligatorio e verrà introdotto solo dopo una decisione del Municipio interessato – continua Linda Cortesi –, questo rischia di creare forti disparità di trattamento tra gli allievi ticinesi, tutto dipenderà dalla forza finanziaria di un Comune». «Non bisogna però dimenticare – replica Stefano Steiger – che ridurre gli allievi per classe comporta anche costi logistici, per la creazione di nuove aule e palestre. E finanziariamente tutto questo oggi le casse pubbliche non se lo possono permettere». Argomenti pro e contro l’iniziativa che animeranno la campagna in vista della votazione. Un appuntamento che vede il capo del Decs in una situazione particolare. Nel 2009 Manuele Bertoli era presidente del Partito socialista e terzo firmatario dell’iniziativa. Oggi è consigliere di Stato e presidente del governo. «Evidentemente dovrò portare la posizione del Consiglio di Stato che sull’iniziativa si è espresso in maniera negativa – replica lo stesso Bertoli –, il principio della collegialità e il rispetto istituzionale me lo impongono». Tutto questo in una campagna che sarà sicuramente accesa, le elezioni cantonali sono dietro l’angolo.
La cartiera di Tenero Archeologia industriale Fondata nel 1853 da Tomaso Franzoni ha
cessato definitivamente l’attività nel 2006 Laura Patocchi-Zweifel L’insediamento di Tenero si è sviluppato su un vasto territorio alluvionale che si estende lungo la sponda destra del fiume Verzasca, dalle rive del lago Maggiore ai piedi del pendio della collina retrostante dove sorge l’antico nucleo. Durante il Medioevo e l’epoca moderna a Tenero dimorano in prevalenza artigiani e massari alle dipendenze di esponenti della nobiltà e borghesia di Locarno a cui appartengono vaste fattorie ed eleganti residenze estive. I proprietari non si recano nei loro poderi soltanto per riscuotere i canoni d’affitto o controllare i lavori agricoli ma anche per trascorrervi rilassanti villeggiature durante la vendemmia e nei periodi di caccia. Dal primo Ottocento i borghesi locarnesi decidono di vendere i loro beni di Tenero ai loro massari o ad altri contadini della zona che ne diventano proprietari. In seguito al sostegno dei ticinesi ai patrioti italiani, alla loro simpatia per la causa repubblicana e infine all’espulsione di 22 cappuccini lombardi accusati di attività pericolose per il Cantone, gli austriaci decretano nel febbraio del 1853 il blocco delle frontiere e l’espulsione di oltre 6000 ticinesi che lavorano e commerciano nel Lombardo-Veneto. Gli effetti sono devastanti, il commercio col vicino regno è sospeso, la disoccupazione, la miseria e la presenza di migliaia di profughi e di espulsi provoca un’ondata di emigrazione oltremare. Ma è proprio in questi tragici frangenti che emergono le figure di
spicco capaci di proporre iniziative occupazionali. È il caso di Tomaso Franzoni (1795-1878), proprietario di una delle più notevoli fattorie di Tenero, che fronteggia la crisi avviando diverse attività industriali e aprendo nuovi mercati al paese. Commerciante attivissimo, appaltatore della Regia dei Dazi, cassiere cantonale, promotore della navigazione sul lago Maggiore, fondatore della Cassa di risparmio, della filanda Belvedere e altri opifici, azionista della tipografia di Capolago, Franzoni è fondatore e proprietario della tipografia del Verbano che stampa le pubblicazioni ufficiali del cantone. Siccome il blocco austriaco rende difficoltoso il rifornimento di carta che giunge da Intra, Franzoni decide di far costruire una cartiera sul suo fondo di Tenero dotato di acqua limpida in abbondanza e in posizione viaria strategica. Luigi Lavizzari nel 1861 annota: «Presso Tenero, (...) s’innalza la rinomata cartiera Franzoni, con corredo d’aque derivate dalla vicina Verzasca, di due turbìne della forza di 35 cavalli, e d’una macchina a vapore della forza di otto. Le macchine e i cilindri sono del più compito recente sistema, quasi tutte uscite dallo stabilimento Escher-Wyss di Zurigo. Vi si fabbrica ogni specie di carta, da lettere finissima, da stampa, da litografia, da tappezzerie ecc., e vi si colora in tutte le maniere, e con tal perfezione, che non cede ai più celebrati opifici di questo genere. Fu eretta nel 1853, ampliata nel 1856; e dà lavoro a quasi cento operai». La materia prima di base sono gli stracci raccolti in zona o importati in gran
quantità dall’Italia nord-occidentale che consente di ottenere giornalmente 10-15 quintali di carta. La carta viene smerciata in Ticino, in Piemonte e in Liguria. Quella destinata all’estero è caricata su barconi nel porticciolo costruito presso l’azienda, scende al lago lungo il Naviglio o la Fiumetta, attraversa tutto il lago Maggiore e termina il suo percorso viaggiando su carri o con la ferrovia dell’Alta Italia. Per ottenere la carta bisognava produrre aria calda per l’essiccazione dei fogli, generata dalla combustione di legna. Nel 1858 un violento incendio, sfuggito al controllo, distrugge la fabbrica, ma in un solo anno il tenace Tomaso Franzoni la ricostruisce. Nell’ottobre del 1868, in seguito a piogge torrenziali, la Verzasca straripa riversando un ammasso di detriti, ghiaia e fango nei locali delle macchine e nel magazzino. Quattordici mesi dopo la cartiera riparte alla grande con macchinari nuovi di zecca sempre della ditta Escher-Wyss che si assume la protezione del trasporto da Flüelen a Bellinzona, facendo accompagnare i mulattieri da vigilanti armati per proteggere il carico dai briganti. Alla morte di Tomaso Franzoni nel 1878 la cartiera passa alla numerosa prole sotto la direzione del figlio Enrico. Con l’apertura del collegamento ferroviario attraverso il San Gottardo nel 1882 la ditta si trova confrontata con la potente concorrenza d’oltralpe. I Franzoni, già in difficoltà, gettano la spugna e nel 1886 vendono la fabbrica al cavaliere Ercole Maffioretti di Brissago. Questo abile
La vecchia macina per la cellulosa, testimonianza della storica cartiera ormai abbattuta. (Patocchi-Zweifel)
industriale, già proprietario di cartiere nei pressi del lago d’Orta, produce in proprio pasta di legno come materia prima per la fabbricazione della carta, al posto degli stracci più difficilmente reperibili. Nel 1911 i Maffioretti vendono la cartiera a un gruppo di emigranti valmaggesi e alla Banca Svizzera-Americana. Dopo la seconda guerra mondiale la cartiera vive il suo periodo d’oro nelle mani della fabbrica di cartone di Deisswil e dal 1978 del Cham Paper Group dando lavoro a circa 350 persone. Diventato troppo piccolo per le esigenze di mercato, lo stabilimento cessa la sua attività fermando definitivamente la sua produzione il 4 dicembre 2006 alle ore 18.37. Pezzo dopo pezzo, questo memorabile edificio industriale è stato
demolito lasciando in molti una senso di malinconico disorientamento. A ricordare la monumentale cartiera resta l’ala spezzata della cabina di distribuzione della corrente elettrica che un giorno verrà pure demolita, una macina per la cellulosa sul piazzale antistante e la solitaria ciminiera destinata a sopravvivere come cimelio. Bibliografia:
Simona Canevascini, Tenero-Contra, Comune di Tenero-Contra, 2010. Giuseppe Mondada, Tenero-Contra, Locarno, 1968. Giuseppe Mondada, Cartiera di Locarno S.A. Tenero 1854-1954, Locarno, 1955.
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Società e Territorio
Le inquietudini dei giornalisti Svizzera italiana Presentata l’inchiesta sulle condizioni di lavoro dei giornalisti svolta da Michele Andreoli:
la situazione più critica la vivono i freelance, ma anche nelle redazioni è peggiorata la qualità «percepita» del lavoro Enrico Morresi Quando, due anni fa, si parlò la prima volta di un rapporto da preparare sulle condizioni di lavoro della professione giornalistica in Ticino, due erano le preoccupazioni principali: la situazione nelle redazioni dei giornali dopo dieci anni di vuoto contrattuale (il CCL dei giornalisti era stato firmato la prima volta nel 1972 e poi sempre rinnovato) e quella dei colleghi occupati nelle radio e televisioni private. Si temevano un peggioramento complessivo delle condizioni di lavoro e di salario e il diffondersi del precariato. L’inchiesta Condizioni di lavoro dei giornalisti (e degli operatori dei media con funzioni giornalistiche) nella Svizzera italiana, svolta da Michele Andreoli per incarico delle associazioni professionali e presentata il 13 giugno, risponde in modo esauriente sui due punti citati ed esprime inquietudine per tutta una serie di criticità, più difficili da scandagliare, che potrebbero rivelarsi più gravi di quelle da cui la ricerca era partita. Comincio dagli interrogativi ai quali Andreoli dà risposta. La maggior parte degli intervistati ritiene che per quanto riguarda i salari la situazione sia relativamente poco cambiata (solo il 27% dice di essere pagato meno, il 28% dice di essere pagato di più, il 45% segnala un trattamento stabile). Peggiorato risulta il tipo di lavoro richiesto (per il 60% la quantità è aumentata, il 34% dice di avere meno tempo per lavorare bene). Il vuoto contrattuale ha praticamente abolito il premio all’anzianità di servizio: il 50% non percepisce il salario minimo previsto dal CCL se si considerano i suoi anni di servizio; il 19% non arriva al minimo del primo anno. Positivo, invece, il giudizio sulla libertà redazionale nei giornali (due terzi segnalano condizioni invariate o leggermente migliorate). Conclusione su questo punto: gli editori ticinesi hanno abbastanza rispettato la promessa di tener conto del precedente CCL, ma con qualche vistosa eccezione (per i nuovi assunti in particolare). Per quanto riguarda
Michele Andreoli durante la presentazione del suo rapporto. (Ti-Press)
radio e tv private, la quasi la totalità delle risposte segnala miglioramenti nel salario, nel tempo di lavoro e persino nella libertà redazionale (su questi progressi devono avere influito le norme federali che hanno accompagnato l’estensione ai «privati» di una parte dei proventi del canone). Alla RSI le condizioni di lavoro sono migliori: questo si sapeva già e il rapporto lo conferma. I giornalisti del servizio pubblico guadagnano in media poco meno di 8000 franchi al mese, molto di più dei giornalisti occupati nei media privati (6153 franchi) e di quelli che lavorano nelle radio e tv private (ca. 5000 franchi); i siti online pagano mediamente 4884 franchi. Scandalosa, tuttavia (e ammessa dal direttore Canetta, che ha
promesso un intervento), la situazione di «lavoro su chiamata» riservata ad alcuni collaboratori della RSI affiliati a ditte private, soprattutto tecnici. Infine, si conferma lo stato di precarietà di una minoranza (ma son pur sempre persone al lavoro!) quella dei colleghi (giornalisti o tecnici) «liberi», cioè pagati a prestazione. Anche oltre San Gottardo, i «liberi» sono una categoria in pericolo di estinzione. Chi pensava di sfruttare un proprio campo di competenze «esclusivo» (c’erano gli specialisti in aeronautica, in… cruciverba) o è stato cooptato in una redazione… o se vive di quello fa la fame. Citato quel che il rapporto dice, vengo alle criticità che il rapporto non ha potuto approfondire ma che indiretta-
mente emergono dalle dichiarazioni di molti intervistati. La più impressionante riguarda il calo (o il ristagno) delle tirature e il forte calo della pubblicità. Rilevo da altre pubblicazioni il calo di diffusione del «Corriere del Ticino»: da 39’567 copie nel 2001 a 35’484 nel 2012, il ristagno della «Regione» (da 32’556 nel 2001 a 32’567 nel 2013), la precaria situazione del «Giornale del Popolo» (17’179 copie nel 2005, 16’804 nel 2013) e dal rapporto Andreoli il calo della pubblicità: per i quotidiani, settimanali e domenicali ticinesi: da 50 a 38 milioni tra il 2011 e il 2013. Andreoli scrive: «Non ci è sembrato che al momento gli editori siano confrontati con acuti problemi esistenziali», ma è una conclusione che lascia perplessi. Dispongono, i giornali, di ri-
serve bastanti a sopportare queste perdite? O il calo o il ristagno delle tirature sono dovuti allo spostamento dei lettori sull’online? Sono diminuiti gli effettivi redazionali, si prevedono diminuzioni? Intanto, però – questo il rapporto Andreoli lo rileva chiaramente – peggiora la qualità «percepita» del lavoro. Pare che invece di correr dietro le notizie importanti si sia un po’ tutti occupati a non perdere di vista Twitter. Insomma, quel che resta da sapere, sullo stato di salute del giornalismo in Ticino, è almeno altrettanto importante di quel che si conosce. I giornali chiedono trasparenza a tutti, ma sui loro affari… zitti e mosca. E l’Università, che dovrebbe avere un Osservatorio anche sul Ticino? In altre faccende affaccendata.
I ragazzi si raccontano di Gian Franco Pordenone Note da Berlino
L’anno scolastico è ormai giunto al termine. Dopo una lezione conclusiva in aula, una cena di classe sotto il cielo stellato e una giornata sportiva nel verde delle nostre belle vallate, arriva fatidico, per allievi e docenti, il momento dei commiati; magari solo per l’estate, forse definitivi. E poi? Poi bisogna certamente ricaricare le batterie, in modo da ritrovare l’adeguata lucidità e la necessaria pazienza, entrambe indispensabili per insegnare come per imparare. L’estate, però, non può limitarsi a questo. Fare un bilancio sereno dell’anno trascorso, trovare il modo adeguato per arricchirsi culturalmente e dotarsi di qualche strumento in più per preparare le sfide a venire, devono poter trovare il loro spazio. Ognuno con le proprie esigenze, tradotte in percorsi individualizzati. E così, per un docente di Storia e Italiano, un soggiorno a Berlino può diven-
Spostandosi tra le strade del redivivo centro storico, si accavallano i simboli delle recenti sconfitte, non solo di una città, ma probabilmente dell’intera umanità. Non lontano dai moderni uffici della Leipzigerplatz, di fronte al polmone verde del Tiergarten, si erige l’ampio Memoriale della Shoa, composto di migliaia di stele ben ordinate in calcestruzzo grigio, che ricordano lo sterminio della popolazione ebraica, perpetuato con angosciante efficacia dal regime nazista, dando progressivamente l’impressione di essere inghiottiti nell’assurdo. Poche centinaia di metri più in là, l’alternarsi di vetrine luccicanti sull’animata Friedrichstrasse, intitolata all’omonimo re di Prussia, lasciano improvvisamente spazio a quel che resta del Checkpoint Charlie, il luogo di passaggio tra le due Berlino: quella orientale, passata in mani sovietiche dopo la sconfitta nazista, e quella sud-occi-
dentale, controllata dai soldati statunitensi. Attorno, quel che resta del Muro, costruito nel 1961 da un regime che, in nome del comunismo, ha imprigionato il suo popolo per evitare che continuasse a fuggire verso il benessere, offrendogli come modesta consolazione la celebre Trabant, l’auto dell’Est, osservata con ironia dai tanti curiosi visitatori del DDR Museum, in riva al fiume Sprea, a due passi dall’imponente Duomo. Seguendo i resti del Muro, che appaiono all’improvviso qua e là, si giunge alla Porta di Brandeburgo, dove nel 1989 i manifestanti hanno festeggiato il suo definitivo crollo, prima di recarsi a Ovest e invadere il Kurfürstendamm, con i suoi negozi e ristoranti di lusso, tuttora vetrina incontrastata della città, che sfocia inesorabilmente nello sgargiante complesso commerciale dal simbolico nome Europa-Center. Smaniosi, a questo punto, di allontanarsi dalla frenesia del centro, si può
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tare un’opportunità per preparare una lezione coinvolgente, destinata a degli allievi di quarta media, confrontati con lo studio del mondo contemporaneo. Il PowerPoint che ne risulta, filo conduttore di un’attività nella quale i ragazzi sono invitati ad ascoltare, prendere appunti e intervenire, prima di redigere un testo espositivo intitolato La pazza storia di Berlino, rinchiude tra le sue slides ben più di un’addizione di nozioni, rese accattivanti da una serie di cartine, foto e video, bensì una particolare lettura, assunta con conoscenza e responsabilità, di un divenire storico che ci costringe, volenti o nolenti, a interrogarci ogni giorno un po’ di più. Una Berlino che, fin dal primo colpo d’occhio sulla rinnovata Alexanderplatz, mostra un intenso bisogno di rielaborare il suo drammatico passato, come doloroso ma necessario passaggio per far emergere i lineamenti di un futuro ancora ai primi incerti passi.
visitare la Berlinische Galerie, il museo d’arte contemporanea, collocato tra le abitazioni del quartiere di Kreuzberg. Una mostra suggerisce un paragone tra Vienna e Berlino: l’arte di due metropoli, illustrando il passaggio dall’originalità dell’espressionismo austriaco d’inizio Novecento all’innovativa creatività tedesca dell’esperienza democratica della Repubblica di Weimar, tra verismo, futurismo e costruttivismo, bruscamente zittita dall’assurdo nazista, che doveva in qualche modo cercare di portare a compimento il passato imperiale, prima di lasciare effettivamente corso a un futuro certamente democratico. Con questo contributo del professor Gian Franco Pordenone che ha seguito gli allievi delle scuole medie di Cadenazzo nel corso della collaborazione con «Azione», si conclude la rubrica.
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Società e Territorio Rubriche
Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni Culture in dialogo Ci sono parole e moduli di pensiero che dapprima fanno la loro comparsa nel libro di uno studioso, poi vengono ripresi da qualche giornalista e dai politici e infine ritornano con una frequenza tale da diventare verità ovvie e autentici luoghi comuni. Così, ad esempio, il multiculturalismo o il pluralismo culturale sono ormai i termini che caratterizzano la nostra epoca e la nostra civiltà. Di qui, e dai princìpi di tolleranza che hanno costruito il nostro modo di vivere a partire dall’Illuminismo, discende un’altra verità ovvia: nei confronti con altre culture l’importante è dialogare. La parola dialogo, nell’uso che oggi ne viene fatto, è diventata sinonimo di «colloquio amichevole finalizzato alla ricerca di un’intesa al di là delle opposizioni, al fine di dirimere conflitti». Se un teppistello imbratta muri e danneggia la cosa pubblica, l’importante è parlarne con lui; se in famiglia si litiga,
occorre dialogare; se in un Parlamento ci si scambia insulti, occorre cercare il dialogo. Il principio, in sé, è civilissimo. Sull’efficacia del dialogo rimangono invece alcuni ragionevoli dubbi, supportati dai dati statistici: mi risulta che siano molti i giovani teppisti che passano di recidiva in recidiva anziché desistere dalla trasgressione; analogamente, i litigi in famiglia e i conseguenti divorzi sembrano essere in aumento. Si può anche sostenere che, forse, non si è dialogato abbastanza. Forse; ma io preferisco analizzare le difficoltà connesse con il dialogo, piuttosto che ribadire retoricamente il principio. Iniziamo da una constatazione banale: ciascuno prende se stesso a misura del valore degli altri. Ne consegue che ogni diversità – quando investe valori, credenze e stili di vita – produce spontaneamente diffidenza e, talvolta, rifiuto. Nel Cinquecento Montaigne
provano i musulmani nei confronti del nostro uso di alcolici, dei vestiti provocanti delle donne e del decadimento del dominio del maschio sulla femmina e del padre sui figli. Bisogna dunque sforzarsi di entrare nell’universo culturale dell’altro per cominciare a comprenderne le reazioni apparentemente assurde. Ogni cultura fissa, più o meno arbitrariamente, norme, divieti, tabù. Perché da noi si mangia carne di vitello e non di cane? Chi è nato e cresciuto negli Stati Uniti rimane inorridito al sentire che da noi si mangiano i conigli; la trippa, che è appetitosa per i fiorentini e per i milanesi, fa schifo alla maggior parte degli americani. Insomma, forse è vero, come sosteneva Thomas Kuhn, che persone appartenenti a culture diverse «vivono in mondi diversi»; ma è pur vero che ogni cultura si è nutrita anche di infiltrazioni provenienti da altre culture,
assimilandole gradualmente. La teologia cristiana, ad esempio, è piena di apporti desunti dalla filosofia greca e deve molto a quelle scuole filosofiche che la Chiesa volle far chiudere nel 529, nell’intento di procedere a una graduale eliminazione della cultura pagana. Ogni sopraffazione e ogni conquista hanno portato la cultura dominante a soffocare quelle sottomesse, ma anche ad esserne ibridata in modo più o meno consistente. Il dialogo è indubbiamente più civile dell’imposizione; ma, per abbandonare ogni ingenuità retorica, occorre rendersi conto che il processo di accettazione reciproca di diversità culturali attraverso il dialogo richiede tempi molto lunghi e ha comunque esiti incerti. Per potere dialogare, occorre che ciascuno presti orecchio all’altro: un ascolto distratto o prevenuto non consente un dialogo. E, quando il dialogo funziona davvero, ciascuna delle due parti ne esce cambiata.
Meinrado e grazie a loro, scoperti e impiccati. Tra l’altro, dove c’era la cella di San Meinrado è sorto poi nel 934 il convento e i due corvi appaiono anche nello stemma di Einsiedeln. Ristorante alla buona, lunghi tavoli di legno e panchine da sagra, selfservice. Eppure, qui, all’ombra di un monumentale platano maculato, delizioso è il coregone fritto sorseggiando il rosé color salmone dell’isola. L’uva è la stessa usata per il rosso, soltanto che gli acini di blauburgunder vengono subito pressati al convento, senza macerazione, mi spiega il gerente Beat Lötscher. A sinistra, lo sguardo abbraccia i vigneti religiosamente ripristinati nel 1986, cinquemila piante di vite. Incredibile quanta vita possa dare, al paesaggio, la vigna. Anche la chiesa di San Pietro e Paolo, fondata nel decimo secolo dalla duchessa sveva Reginlinde sui resti di un tempio gallo-romano, acquista sacralità, con i vigneti davanti. Ma è questa osteria lacustre tra canton San Gallo e Svitto,
non lontana da Zurigo, il fulcro dell’isola. Gli altri compagni di bordo, prendendo una via più breve, sono già qui, laggiù c’è una tavolata-battesimo. Quasi tutti bevono questo rosé benedettino. Là a destra, sopra Pfäffikon, si assapora il tipico paesaggio svizzero di foreste interrotte dai pascoli e prati iperverdi. Lassù in cima c’è l’Etzelpass, dove volendo, in tre ore e mezza di cammino, si scollina verso il convento di Einsiedeln. Arriva diversa gente, tra battelli di linea e barche private. I bambini di prima assaltano una torta di compleanno. Qualche anno fa l’Ufenau è finita sui giornali perché un progetto mica male di un pavillon-ristorante firmato da Zumthor, non è stato approvato. A malincuore lascio il mio posto all’osteria per dare un’occhiata alla chiesa e alla tomba dell’umanista Von Hutten. Attraverso le due ali di vigna. Dalla chiesa ora esce gente goffamente agghindata da matrimonio. Il fotografo cerca di radunare tutti per una
foto di gruppo. Notevole il muretto a secco con la parte superiore conica che si snoda tra i vigneti e i due edifici sacri. Sfilo così ai fianchi della chiesa sposata a un bel vecchio castagno e sul retro, a sud, ecco la tomba in arenaria con scolpito il nome di Ulrich Von Hutten. Umanista mangiapreti amico di Zwingli nato in un castello dell’Assia e morto qui di sifilide. Il suo scheletro è stato trovato solo nel 1959 e nel giugno di quell’anno l’evento è festeggiato inaugurando la tomba in pompa magna e piantando un albero di amarene in suo onore, qui davanti. Nel 1968 però, un antropologo non convinto dell’attendibilità dei resti di Von Hutten, dopo anni di ricerche, rinviene uno scheletro e dimostra, grazie ai segni della sifilide, che quello è il vero Von Hutten. Due anni dopo viene così messo accanto al falso Von Hutten, il Von Hutten vero. Ci sono così due Von Hutten sepolti quassotto. Qualche tuono, le amarene sono mature.
Ma chiariamo subito un possibile equivoco. Gli ascoltatori che, con competenza tecnica o per semplice passione, apprezzano Mozart, Mahler o Stravinsky, non appartengono, salvo rare eccezioni, a una categoria di cittadini isolati in un mondo a parte, all’insegna di una cultura per così dire incontaminata. Del quale, per spiegare il nostro titolo, Martha Argerich è il simbolo. Mentre, Valon Behrami, starebbe a indicare l’opposto, la non cultura impersonata da un ragazzo, che si esprime con un pallone al piede. Creando, a sua volta, momenti magici, e qui sta il punto. Ci si trova confrontati con due forme di magia, che si manifestano su piani e in ambienti lontani, e che, guarda caso, si sono trovati affiancati, in una situazione di diretta concorrenza. Impegnati in quella sfida Argerich-Behrami che si è giocata sul più improbabile dei terreni: nella sala del Palazzo dei congressi, il 20 giugno, durante il concerto di Mozart, per orchestra e pianoforte, con la magnifi-
ca Martha alla tastiera. In quel mentre, però, maledetta coincidenza, gli orologi segnavano le 21 e fra il pubblico, manipolati con estrema discrezione, sono comparsi i display dei telefonini che recavano i primi risultati della partita Svizzera-Francia. E mai pausa fu tanto attesa: finalmente si poteva parlare di ciò che ci stava a cuore. Nell’atrio, erano i nomi di Behrami, Shaqiri, Lichtsteiner ad animare le conversazioni e soprattutto le apprensioni per l’incombente minaccia sulle nostre sorti calcistiche. E non soltanto. Ci si sentiva alle prese con una strana sensazione di rincrescimento quasi colpevolizzante. Tanto da imporre la decisione di andarsene, rinunciando al secondo tempo del concerto per godersi, invece, il secondo tempo della partita. Per quel che mi riguarda, fu determinante quel 3 a 0, letto sul telefonino, mostrato con un rassegnato sorriso dall’architetto Paolo Fumagalli. Scappai via, e non alla chetichella. Anzi, in buona compagnia, fra spettatori che si giustificava-
no: «Il programma della seconda parte non è interessante». Comunque, per quel che concerneva la nostra scelta di melomani in fuga, l’incontro Argerich-Behrami si era concluso con un risultato, a ben guardare, di parità. A riconfermare la forza della cultura di massa, un termine, come spiega Ottavio Lurati, dalla connotazione fortemente negativa e che ha innescato un dibattito senza fine e senza esiti. Infatti, con questa cultura che preferiremmo definire «diffusa», come suggerisce Edgar Morin, ci troviamo a convivere. Le tante, le troppe manifestazioni, mostre, pubblicazioni, trasmissioni, in cui siamo immersi, ci costringono a continue scelte: a selezionare in base a valori generali imposti ma anche a preferenze individuali spontanee. Giungendo, magari, a compromessi. Com’è successo, a Lugano, a proposito del duello fra una pianista e un calciatore. Quindi il titolo è da correggere: non Argerich o Behrami, bensì Argerich e Behrami…
osservava: «Ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi». È una tendenza istintiva. È però vero che la fine della civiltà rurale – di per sé chiusa e conservatrice – e la dilatazione d’orizzonti dovuta all’istruzione, ai viaggi, all’informazione mediatica e agli scambi culturali ha molto mitigato questa tendenza. Ma consideriamo un esempio estremo: lo prendo da un bel libro (Rompere l’incantesimo) del filosofo Daniel Dennett. Un popolo primitivo ha, tra le altre, queste usanze: «considerano un onesto e pulito divertimento la pornografia infantile, fumano marijuana quotidianamente, celebrano cerimonie pubbliche di defecazione e ogni volta che un anziano raggiunge gli ottanta fanno una festa in cui l’anziano si uccide in modo cerimoniale, per essere poi mangiato da tutti». Dennett osserva che il disgusto che noi proviamo di fronte a simili usanze «barbare» è simile a quello che
Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf L’isola Ufenau L’isola Ufenau si trova sul lago di Zurigo, a un paio di chilometri al largo di Rapperswil e a uno neanche da Freienbach, comune del Canton Svitto al quale appartiene. Quest’isola molassica menzionata per la prima volta nel 741 come Hupinauia poi Isola di Ufo, Offo, Ubo, Ubinauia e infine Ufenau o anche solo Ufnau, è proprietà da millequarantanove anni del convento benedettino di Einsiedeln. Un regalo dell’imperatore Ottone il Grande. Salpo da Rapperswil alle 12.35 con il battello di linea Panta Rhei diretto a Zurigo. Lützelau, l’isoletta-camping accanto, scivola via mentre poco dopo ecco svettare con tetto tobleronico, tra gli alberi dell’Ufenau, il campanile della chiesa di San Pietro e Paolo. Dodici minuti di crociera e approdiamo in quattordici. M’incammino così in una giornata temporalesca a inizio luglio alla scoperta dell’isola di Ufenau : poco più di undici ettari, la più grande isola svizzera. Dopo un boschetto, la vista si apre beata sui
vigneti disciplinati di blauburgunder, noto anche come pinot noir. Alle loro spalle, spunta la chiesetta-cappella di San Martino, laggiù una grande stalla. Qui davanti si stendono prati con l’erba alta, delineati da steccati di contorno. Cinque bambini confabulano sotto un tiglio. S’incontrano insoliti fiori di campo e flora palustre, come le spighe apicali purpuree della salcerella e i ciuffi del calamo aromatico, ad esempio. Dall’altro molo, si scorge a fianco della stalla, la sagoma della locanda risalente al 1831: la Gasthaus zu den Zwei Raben. E infatti, a farci caso, sulla facciata laterale sopra una porta, in un tondo, due corvi affrescati in volo. I due corvi ci conducono a Einsiedeln, dove tenevano compagnia a San Meinrado, eremita in una cella nel bosco. San Meinrado, nel gennaio dell’anno 861, viene ucciso a bastonate da due briganti per un presunto tesoro nascosto. Secondo la leggenda, i due assassini, furono inseguiti fino a Zurigo dai due corvi conviventi di
Mode e modi di Luciana Caglio Argerich o Behrami? ta del resto da signori in frack e signore in lungo. Un genere musicale, insomma, che, diversamente da altri, incute una certa soggezione, chiede silenzio e compostezza, induce alla riflessione, mette le ali alla fantasia.
CdT - Gonnella
Ironia della sorte o incidenti di programmazione: fatto sta che protagonisti di avvenimenti fra loro assolutamente non paragonabili, possono sovrapporsi provocando coincidenze imbarazzanti. È successo, a Lugano, il 20 giugno scorso. Quella sera, il calendario delle manifestazioni cittadine proponeva un appuntamento proprio da non perdere: l’incontro di Martha Argerich e dei suoi solisti, fra cui il violoncellista star Mischa Maisky, con l’Orchestra della Svizzera italiana. E non se l’è lasciato sfuggire un pubblico, più che mai folto, di persone che, frequentando un concerto, fanno una scelta culturale di qualità e, in pari tempo, compiono un rito sociale sopravvissuto ai cambiamenti, osservandone precise regole di comportamento. A partire dall’abito elegante, abitudine ormai andata persa nelle altre sale di spettacolo. Ma che qui, più che uno sfoggio esibizionistico, può essere considerato una forma di rispetto nei confronti della grande musica, esegui-
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Ambiente e Benessere L’etica del viaggiatore Disimpegno e rifiuto delle proprie responsabilità sono le costanti di chi parte
Gli insetti «ipsofili» Vivono in alta quota e sono esseri fisiologicamente ben equipaggiati, grazie a una dura, lunga e inesorabile selezione evolutiva
Come esporsi al sole Con le creme solari si approfitta dei benefici del sole e ci si difende dai raggi ultravioletti
Trasporti pubblici… verdi Sulla linea urbana di Ginevra, per la prima volta in Svizzera un autobus alimentato a batteria
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Un secolo di Parco nazionale
Anniversari In Engadina, 80 km di sentieri attraverso una riserva naturale integrale di 170 km quadrati
Marco Martucci Cratschla, la nocciolaia, ci dà il benvenuto al Parco Nazionale Svizzero. Questo simpatico uccello ne è diventato il simbolo. Lo vediamo raffigurato dappertutto, sulle cartoline, sui prospetti, a Zernez, nel nuovo Centro del Parco Nazionale, inaugurato nel 2008 e sulla bella rivista del Parco, che si chiama, appunto, «Cratschla». Perché proprio la nocciolaia? Se osserviamo attentamente il suo robusto becco, vediamo che trasporta qualcosa: una grossa pigna di cembro, ricca di nutrienti e gustosi semi. Ne raccoglie in abbondanza e una parte la sotterra, come provvista invernale. Qualche pinolo di cembro dimenticato germoglierà in primavera, contribuendo alla diffusione di quei magnifici alberi. Siamo in Engadina. Il Parc Naziunal Svizzer, questa la denominazione ufficiale (in Alta Engadina dicono, nell’idioma putér, Parc Naziunel) è proprio all’estremo oriente del nostro Paese, parte in Bassa Engadina, parte nella Val Müstair, la Val Monastero. Confina con l’Italia, dove la natura, facendosi giustamente beffe delle nostre frontiere politiche, non si ferma. Poco oltre, è il Parco Nazionale dello Stelvio. È piccolo, il nostro unico – almeno per ora – Parco Nazionale. Ma è un gioiello, che consiglio davvero di visi-
tare: con calma però. Solo così lo si può scoprire, poco per volta. Cambiando itinerario, scegliendo i giorni e gli orari giusti. Luglio e agosto sono i mesi più adatti. La neve, a parte qualche valletta ombrosa, è sparita. Ci si può muovere agevolmente sugli ottanta chilometri di sentieri. Ma anche settembre e ottobre, da queste parti, offrono spettacoli meravigliosi, come il giallo dorato dei larici e il bramire fortissimo dei cervi che risuona fra valli e monti. Il Parco Nazionale si offre al visitatore nella sua natura selvaggia, lasciata, per quanto si può, a sé stessa. «Riserva naturale integrale» secondo i criteri dell’Uicn, Unione Internazionale per la Conservazione della Natura, nel Parco Nazionale Svizzero sono sotto protezione non soltanto la totalità di specie di piante e di animali ma anche tutti i processi naturali. Presenza e interventi umani sono ridotti al minimo. Il visitatore è tenuto a rispettare alcune semplici regole: non abbandonare i sentieri; non portare cani, nemmeno al guinzaglio; non cavalcare né andare in bicicletta. Non si può accendere il fuoco né bivaccare. La sosta, per ristorarsi, è consentita solo nelle apposite aree, le quali sono messe proprio nei posti migliori anche per l’osservazione. Il Parco Nazionale non è uno zoo, almeno non è uno zoo «tradizionale».
Rimarrà deluso chi si aspetta l’incontro ravvicinato, magari sul sentiero, con stambecchi, cervi e camosci. Ce ne sono tanti, e non solo quelli. Ma loro hanno tutto il Parco a disposizione; noi siamo ospiti di passaggio. Eppure, non è tanto raro avvistare qualche animale. Durante le mie escursioni nel Parco, ho visto nocciolaie, stambecchi, cervi, un camoscio da vicino. Le marmotte, poi, meno timide, si mostrano a pochi metri di distanza. Con l’aiuto d’un binocolo, gli avvistamenti sono ancor più spettacolari. Come il volo dell’aquila reale o gli spostamenti del gipeto. Tanto goffo mentre – simile a un grosso tacchino – cammina, quanto elegante nei suoi lunghi voli planati, il gipeto è il successo di un esperimento di reintroduzione, svolto fra il 1991 e il 2007. Sterminato in tutte le Alpi già a fine Ottocento, perché ingiustamente ritenuto un pericoloso predatore, il gipeto è ritornato anche qui grazie a un progetto internazionale. Si stima che, dei 26 giovani gipeti liberati nel Parco, almeno la metà sia sopravvissuta. Oggi il gipeto, che ormai si riproduce in natura, con la sua apertura alare di quasi tre metri è una delle principali attrazioni del Parco Nazionale Svizzero. Anni or sono, dopo il mio primo incontro con il gipeto, fra le guglie dolomitiche della Val Stabelchod, ebbi l’occasione di scoprire un’altra
importante regola del Parco. Non vi si deve lasciare nulla né si può portar via qualcosa. E ciò vale non solo per i nostri rifiuti o per i fiori. Se ne accorse il mio secondo figlio – all’epoca di sette anni – che aveva raccolto da terra un legnetto di pino mugo e se lo teneva in mano, a mo’ di bastoncino. Prima che raggiungessimo la nostra auto, parcheggiata in uno dei posteggi autorizzati lungo la strada del Passo del Forno, una guardia del Parco, con grande gentilezza ma con altrettanta fermezza, glielo fece notare. Tutto quello che è nel Parco, nel Parco deve rimanere. L’incontro con le guardie che, fra l’altro, si esprimono correntemente anche nella nostra lingua, è sempre una gradevole occasione per porre domande e imparare tante cose. Devono girare parecchio, le otto guardie del Parco, che si occupano dei controlli, della manutenzione dei sentieri, del censimento della selvaggina, dell’informazione. È un compito impegnativo, su un territorio di 170 chilometri quadrati, che va da 1440 a 3173 metri di quota ed è formato per un terzo da bosco, un altro terzo da prateria alpina e il resto da rocce e sassaie. È il più antico parco nazionale dell’Europa centrale e delle Alpi. Fu inaugurato il primo agosto 1914, frutto dell’idea coraggiosa e originale di persone che vedevano lontano e che, proprio per questo, cinque
anni prima avevano fondato la Lega svizzera per la protezione della natura, oggi Pro Natura, la grande associazione per l’ambiente con oltre centomila membri in tutta la Svizzera e che, ancor oggi, versa al Parco un franco all’anno per ogni suo membro. Quest’anno, però, il Parco ha un motivo in più per festeggiare. È l’anno del suo secondo giubileo: il Parco Nazionale Svizzero compie cento anni. La nostra Posta ha emesso per l’occasione una bella serie speciale di francobolli. Al Centro visitatori del Parco a Zernez è stata allestita una mostra dedicata al Giubileo, sono previste varie manifestazioni e la principale avrà luogo il primo agosto prossimo, giorno, non a caso, della nostra Festa nazionale. Dal 2010, il Parco Nazionale Svizzero, insieme alla Biosfera Val Müstair, forma la Riserva della Biosfera Unesco Val Müstair-Parc Naziunal Svizzer. È un vero e meritato successo nato da quei sognatori che, un secolo fa, salvando dai pesanti interventi umani d’allora questo prezioso lembo di nostra terra, donarono alla natura e a tutti noi un tesoro di valore inestimabile. Informazioni
www.nationalpark.ch
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Ambiente e Benessere
La morale del viaggio
Il palazzo delle ispirazioni
Viaggiatori d’Occidente Esiste un’etica per chi parte alla scoperta di nuove mete?
Bussole Inviti a
letture per viaggiare Claudio Visentin Ogni gruppo umano ha proprie regole di condotta, che identificano un comportamento appropriato e dunque rispettabile. Ciò vale anche per i viaggiatori, questa categoria particolarmente mobile e irrequieta? Si potrebbe dubitarne. C’è nel viaggio una fondamentale disposizione al disimpegno, alla sospensione se non al rifiuto delle proprie responsabilità, che in fondo è insita nel partire, nel lasciarsi tutto alle spalle, nel cercare altri ruoli e altri palcoscenici. Per esempio si è spesso sostenuto che il più grande desiderio del viaggiatore sarebbe entrare a far parte della comunità che l’accoglie, ma potrebbe non essere così semplice. Per cominciare, come ha scritto Claudio Magris nel suo L’infinito viaggiare, anche quando sosta tra loro, e con loro si confonde negli usi e nei vestiti, il viaggiatore non è veramente coinvolto nella vita dei locali, perché non ne condivide il destino: qualunque tragedia accada, egli può sempre ripartire la mattina dopo, perché ha un altro luogo al quale appartiene e al quale tornare. La sua presenza, il suo essere lì, è insomma più apparente che reale. È una condizione che spesso discende da una scelta, più o meno consapevole. Il viaggiatore si affretta a uscire dal suo luogo d’origine, sciogliendo i legami che lo trattengono, ma non sempre ha altrettanta fretta di integrarsi là dove è diretto. Parte senza veramente arrivare; attraversa i confini, ma per così dire volentieri indugia e si trattiene in uno spazio tra due mondi dove la sensazione di libertà è piena, dove non ci sono regole né obblighi, dove le possibilità sono infinite. Inoltre il viaggiatore è simile a un attore di teatro: si esprime spesso a gesti, quando non conosce la lingua del luogo; assume un’altra identità in accordo coi propri desideri, spesso frustrati nel domicilio, e soprattutto finge. Certo a volte fingere è una necessità, per ragioni di sicurezza per esempio, ma più spesso è un piacere, e comunque è sempre facile: «A beau mentir qui vient de loin» è un proverbio francese che ogni Paese intende («Long ways, long lies» suona, ancora meglio, in inglese). Del resto per secoli controllare le affermazioni dei viaggiatori, trovare riscontri precisi alle loro parole, è stato quasi impossibile: poteva bastare una carrozza a nolo, abiti sfarzosi e qualche generosa elargizione di denaro per fingere d’essere un importante straniero incaricato di chissà quale missione.
«Per una sorta di triste ironia i leggendari edifici e le istituzioni newyorchesi che inizialmente ci avevano attirato in città a poco a poco sbiadiscono, fino a farsi invisibili. In mezzo al rumore e alla polvere del traffico estivo l’Empire State Building perde il proprio fascino…»
Si dice che il più grande desiderio del viaggiatore sia entrare a far parte della comunità che viene esplorata. (Own)
Nel tempo di Internet e dell’informazione in rete il gioco si è fatto forse più difficile, ma sino ad allora i viaggiatori hanno ampiamente approfittato di questa sostanziale impunità, di questa libertà quasi perfetta, per quanto limitata al tempo sospeso che corre tra la partenza e il ritorno. Tra loro Pietro della Valle, il grande viaggiatore d’Oriente nella prima metà del Seicento, che scriveva: «Passato attraverso i siriani e poi i persiani ho di nuovo assunto il nostro abito europeo. In Turchia e in Persia non mi avreste riconosciuto, non mi avreste potuto scambiare per un altro in India, dove ho quasi ripreso la mia prima forma». Ora questa capacità di fingere, questa mancanza di sincerità, è un difetto – chi potrebbe dire il contrario? – che risulta però molto, molto utile anche nella vita di società. Non è l’unico esempio di utile vizio. Lungo tutta la stagione del Grand Tour, sino alla fine del Settecento, i giovani nobili inglesi venivano mandati all’estero per lunghi mesi in quella fase cruciale dell’esistenza che segue la conclusione degli studi ma precede l’inserimento nella vita adulta attraverso una fondamentale assunzione di
responsabilità: il lavoro, la famiglia. Oltre a offrire una conoscenza del mondo di prima mano, l’intento sottaciuto, ma non per questo meno chiaro, era dar loro l’opportunità di compiere alcune fondamentali esperienze di vita, spesso al confine tra lecito e illecito, al riparo da sguardi indiscreti. Un’opportunità che i giovani comprendevano benissimo e si affrettavano a cogliere, tra feste e case di cortigiane, facendo impazzire i poveri precettori (non per nulla detti bear-leader, conduttori di orsi ammaestrati) che comprendevano presto come il loro compito fosse quello di regolare i piaceri e gli eccessi dei giovani protetti almeno quanto quello comunemente riconosciuto di far loro svolgere un serio programma di studi. Anche il turismo ha ereditato dal tempo dei viaggi questa rilassatezza di costumi. Negli anni Cinquanta del Novecento, lungo le coste spagnole scoperte e colonizzate dal turismo di massa, la vacanza si svolge all’insegna delle quattro S: Sun, Sea, Sand, Sex (sole, mare, sabbia, sesso). Fu Hans Magnus Enzensberger a spiegare come questa libertà avesse tuttavia un carattere più negoziato con la società di provenienza rispetto al passato. A fronte dell’impe-
gno a rientrare nei ranghi dopo un tempo fissato (di solito due settimane) – un impegno garantito dal biglietto aereo di andata e ritorno – si poteva chiudere un occhio su quel che accadeva in vacanza, soprattutto da quando i ritmi di vita e di lavoro si erano fatti tanto più intensi. Per questa loro natura di soggetti senza regola, le autorità hanno spesso tenuto i viaggiatori sotto la stretta sorveglianza di informatori e agenti, ma presto o tardi anche i viaggiatori hanno compreso che non possono lasciare ad altri la definizione delle proprie regole di condotta. Nasce da qui, già negli anni Settanta, e non a caso nell’ambito delle chiese riformate, una riflessione sull’etica dei viaggiatori che ha portato poi, dopo diversi passaggi, al movimento del cosiddetto «turismo responsabile». Responsabile perché, invece di fuggire i problemi, cerca di dare risposte. Perché gli altri Paesi non sono un campo da gioco, ma luoghi dove la nostra presenza lascia segni e conseguenze; perché spazi di libertà e tolleranza vanno prima di tutto conquistati e difesi con coraggio là dove viviamo ogni giorno.
In ogni città che ho visitato ci sono luoghi che sembrano possedere una misteriosa energia: lì le persone si radunano spontaneamente, storie si incrociano, storie vengono raccontate. Uno di questi è senza dubbio il Chelsea Hotel, un grande palazzo di dodici piani in mattoni rossi, al 222 della 23esima Ovest, nella zona di Chelsea, a Manhattan. Sorto da una visione utopica del mondo come una comunità ideale ispirata ai principi del socialismo utopista di Charles Fourier, il Chelsea Hotel si è rapidamente trasformato in un magnete di innovazione e creatività in ogni campo: musica, letteratura, arte. Per le sue stanze sono passate legioni di spiriti attivi in ogni campo d’espressione umana: tra essi – ma sono davvero soltanto alcuni – Mark Twain, William Burroughs, Allen Ginsberg, Bob Dylan, Janis Joplin, Jimi Hendrix, Stanley Kubrick, Andy Warhol, Christo, Sid Vicious, Madonna… Per trovare ispirazione, sostegno materiale e morale, la convinzione di aver fatto la scelta giusta, ciascuno di loro aveva bisogno di incontrare i propri simili, di intrecciare le vite e le idee, e questa fu infine la principale funzione svolta dal Chelsea Hotel. Qui Edgar Lee Masters, l’autore dell’Antologia di Spoon River, scoprì che per creare arte si deve prima creare la vita da cui l’arte possa scaturire; e la vita degli artisti è per definizione fragile, poco tollerante di limiti e convenzioni. Per questo la storia del Chelsea Hotel è anche una triste storia di eccessi: dipendenze da alcool e droghe, pornografia, suicidi, omicidi… il lato oscuro dell’esistenza che rivendica i propri diritti. Bibliografia
Sherill Tippins, Chelsea Hotel. Viaggio nel palazzo dei sogni, EDT, 2014, pp. 516, € 23.
Farmaco o placebo? Giochi mentali Il paradosso matematico generato dalla lettura dei dati statistici
placebo 26/60 = 43% 90/140 = 64%
Il direttore, osservando che, in entrambi i test, il farmaco si è rivelato superiore al placebo, decide di divulgare tale risultato, pubblicando uno studio complessivo. Sarebbe sua intenzione affermare che il farmaco ha fornito una media di successi, pari al: (45%+67%)/2 = 56% , mentre il placebo del: (43%+64%)/2 = 53,5%. Analizzando con maggiore attenzione la situazione, però, si accorge che, complessivamente: 110+90 = 200 pazienti hanno ricevuto il farmaco e, di questi: 50+60
tà maggiore rispetto a quelli guariti col farmaco. Ma, allora, deve ritenersi più efficace il farmaco o il placebo? Che decisione deve prendere il direttore dell’ospedale?
Soluzione In linea di massima, non si possono mettere a confronto delle percentuali, senza prendere in considerazione i valori che le hanno generate. Per determinare i valori definitivi della sperimentazione in questione, non è corretto effettuare la media delle percentuali ottenute (come, istintivamente, si sarebbe portati a fare). Bisogna, invece, valutare i risultati complessivi dei due test: quelli a favore del placebo sono: 26+90 = 116, mentre quelli a favore del farmaco sono: 50+60 = 110. Se si tiene conto che le quantità globali di pazienti coinvolti sono rispettivamente: 110+90 = 200 (farmaco) e: 60+140 = 200 (placebo), le percentuali corrette, risultano essere: 110/200 = 55% (farmaco) e 116/200 = 58% (placebo), come evidenziato nella seguente tabella.
farmaco 1° test 50/110 = 45% 2° test 60/90 = 67%
= 110 sono guariti; mentre: 60+140 = 200 pazienti hanno ricevuto il placebo e, di questi: 26+90 = 116 sono guariti. Quindi, in assoluto, i pazienti guariti col placebo risultano essere in quanti-
placebo 26 su 60 90 su 140 116/200 = 58%
mentre quella col placebo è del: 90/140 = 64%. I due primari consegnano al direttore dell’ospedale i risultati da loro ottenuti, che possono essere così riassunti.
farmaco 50 su 110 60 su 90 110/200 = 55%
In Matematica il termine paradosso indica una proposizione sorprendente, ma vera. Lo stesso termine viene comunemente utilizzato anche per definire un’affermazione che appare incredibile, semplicemente perché scaturisce da un ragionamento errato (ma che, ingannevolmente, sembra corretto). In un caso del genere, si dovrebbe parlare più propriamente di: sofisma, se l’inganno logico è intenzionale, e di: paralogismo, se invece è involontario. L’insidia del paralogismo può colpire anche quando i ragionamenti da compiere sono relativamente semplici, come nel seguente esempio. In due diversi reparti di un ospedale vengono effettuate due sperimentazioni, per valutare la reale efficacia di un nuovo farmaco. Nel primo repar-
to sono ricoverati 170 pazienti; a 110 viene somministrato il farmaco e, di questi, 50 guariscono. Ai rimanenti 60 viene somministrato un placebo, e si registrano 26 guarigioni. Il primario di questo reparto calcola che la percentuale di guarigione con il farmaco è del: 50/110 = 45%, mentre col placebo è del: 26/60 = 43%. Di conseguenza, il farmaco risulta essere più efficace del placebo (anche se di poco). Nel secondo reparto sono ricoverati 230 pazienti; a 90 viene somministrato il farmaco e, di questi, 60 guariscono; ai rimanenti 140 viene somministrato un placebo e si registrano 90 guarigioni. Il primario di quest’altro reparto, senza conoscere i risultati ottenuti dall’altro collega, conclude che il farmaco sia più efficace del placebo, dato che la percentuale di guarigioni col farmaco è del: 60/90 = 67%,
1° test 2° test totale
Ennio Peres
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Ambiente e Benessere
Iceberg di casa nostra Mondo sommerso Sassolo: il Laghetto Inferiore; e mai l’aggettivo inferiore fu tanto malamente usato Sabrina Belloni, foto di Franco Banfi L’acqua costituisce un ponte fra terra, ghiacciai e cielo: si origina dal cielo e dai ghiacciai e scorre sulla terra colmando torrenti, che si intersecano fra loro dando luogo a vere e proprie reti fluide a lento scorrimento, e a laghi. L’acqua, i ghiacciai e i fiumi hanno generato le valli alpine. La magnifica zona del Naret, di cui il Laghetto di Sassolo fa parte, ne è un esempio inconfutabile. È situata ai piedi del Pizzo Cristallina, ben oltre i 2000 metri di quota, al limite settentrionale della Vallemaggia. La strada si inerpica come un serpente lungo i fianchi della valle. In villaggi e case sparse, vicoli stretti e scalinate separano e uniscono le vecchie abitazioni in pietra, come in intricati labirinti, come nelle reti d’acqua di cui sopra. Qui si trovano gli iceberg di casa nostra. Queste sculture naturali di ghiaccio rimandano l’immaginazione al grande Nord (Artico) o all’immenso Sud (Antartico), a spedizioni leggendarie oppure al riscaldamento globale. Pochi sanno che gli iceberg possono formarsi anche nelle Alpi e offrire alcune avventure «esotiche» ai visitatori di quelle località, laddove il turismo di massa rimane una parola a dir poco sconosciuta. Durante gli inverni freddi, la superficie di alcuni laghi alpini oltre 2000 m di altitudine si solidifica e la neve, cadendo sulla banchisa lacustre, si compatta in uno spesso strato di ghiaccio. Questi bacini raccolgono gli accumuli instabili di neve che rotolano a valle dai ripidi pendii delle montagne circostanti; la neve si accumula sulla superficie ghiacciata, si comprime, si consolida e sprofonda sott’acqua a causa del suo stesso peso. Nella tarda primavera-inizio esta-
te, quando il ghiaccio comincia a rompersi, in quota si verificano frequenti temporali e severe tempeste che spazzano i laghi, costringendo i frammenti di ghiaccio a compattarsi nuovamente in blocchi. I venti spingono questi pezzi di ghiaccio verso le rive dei bacini, dove si accumulano nuovamente. Durante le notti gelide, a causa delle basse temperature, essi si consolidano. Il cosiddetto rough-ice offre splendide formazioni sia sopra sia sotto la superficie. Ma è imprevedibile e pericoloso. Le piattaforme ghiacciate e le formazioni di ghiaccio libere si muovono lentamente attraverso il lago, spinte dai venti, e possono chiudere un’area precedentemente libera dai ghiacci, impedendo l’accesso (nella migliore delle ipotesi) o la fuoriuscita dei sub. L’estate porta temperature miti anche a queste altitudini. Ci vogliono mesi perché il ghiaccio si assottigli, ma quando il disgelo ha inizio, la trasformazione avviene in modo rapido. I subacquei che vogliono provare l’esperienza di un’immersione sotto il ghiaccio alpino devono impegnarsi in una sfida contro il riscaldamento, per raggiungere la destinazione durante le condizioni ideali per l’immersione: una destinazione solo per sub addestrati. Gli iceberg fluttuano su e giù, si muovono lateralmente e – quando sono sospinti verso la riva – raschiano contro il fondo del lago. Con ogni brezza alpina, gli iceberg vengono sollevati e mossi dalla superficie solo per poi rovinare nuovamente sulle rocce. Ad ogni impatto, pezzi di ghiaccio si staccano e galleggiano in superficie. Questa situazione totalmente imprevedibile crea un ambiente d’immersione particolarmente impegnativo. L’esplorazione dei ghiacci richiede buone condizioni di salute e fisiche, ma soprattutto un’enorme determinazione.
La magnifica zona del Naret, di cui il Laghetto di Sassolo fa parte, è situata ai piedi del Pizzo Cristallina, ben oltre i 2000 metri di quota, al limite settentrionale della Vallemaggia.
Dopo aver affrontato le difficoltà logistiche per raggiungere il sito, ci ritroviamo immersi nel silenzio delle Alpi. Seduti su una roccia, guardiamo la superficie nera e impenetrabile del lago; siamo pervasi da un senso di calma e di rispetto dell’ambiente. Dobbiamo essere assolutamente consapevoli dei nostri limiti e sapere cosa fare in ogni eventuale caso di emergenza. Esplorare le gallerie sommerse e le grotte sottomarine all’estremità nord del lago richiede una profonda esperienza di immersione anche in grotta, oltre a quella della formazione dei ghiacci, al fine di prevenire ogni potenziale pericolo. Questo è un ambiente che non perdona alcuna irresponsabilità. Ma il Laghetto Sassolo è anche un indicatore ambientale. I laghi di alta quota sono soggetti a condizioni climatiche estreme; sono spesso difficilmente accessibili perché posti in zone remote, circondati e abitati da flora e fauna particolari, e hanno da sempre affascinato i ricercatori. Il ruolo dei laghi alpini come indicatori ambientali è stato messo in evidenza soprattutto dalle ricerche svolte a partire dagli anni 80 nell’ambito di progetti finanziati dall’Unione Europea (Emerge, Molar, Al:Pe2 e Al:Pe1, Eurolimpacs).
Il Laghetto Sassolo: per le immersioni è un luogo tanto bello e incredibile, quanto molto pericoloso Gli studi hanno evidenziato come, pur essendo collocati in aree remote, lontani da fonti di inquinamento e non interessati da disturbo antropico diretto, i laghi alpini possono essere soggetti a fenomeni di inquinamento attraverso le deposizioni atmosferiche e sono particolarmente suscettibili all’acidificazione. Anche i territori dell’alta Vallemaggia sono affetti da questo fenomeno, cioè da quel processo attraverso il quale le sostanze gassose emesse in atmosfera dalle attività umane – dopo essersi trasformate in acidi – alterano le caratteristiche chimiche degli ecosistemi, modificando la funzionalità di acque, foreste e suoli. L’acidificazione consiste in una progressiva riduzione del pH e dell’alcalinità delle acque, e nel rilascio in soluzione di metalli pesanti come l’alluminio, a causa di un incremento di acidità che nel caso dei laghi alpini è rappresentato dalle deposizioni atmo-
sferiche, le note piogge acide. Il processo precursore è la dissoluzione dei minerali. L’intensità di tale fenomeno dipende non solamente dalla litologia (cioè dalle caratteristiche delle pietre) ma anche dalla copertura vegetale, dall’ampiezza del lago e del bacino imbrifero. In primavera-estate, durante la fase di disgelo, le sostanze inquinanti che si sono accumulate nella stagione invernale vengono rilasciate. Le variazioni chimiche indotte dall’acidificazione sono importanti perché introducono modificazioni degli ecosistemi e rendono i laghi inospitali per la maggior parte delle comunità biologiche. L’acidificazione si sviluppa nelle acque caratterizzate da una limitata capacità di neutralizzare gli apporti acidi, per esempio nei laghi che si trovano in bacini a composizione geolitologica acida. I suoli, generalmente assenti o di limitato spessore, l’elevata pendenza, il basso rapporto tra superficie del bacino e del lago, il basso tempo di ricambio
delle acque sono tutti fattori che concorrono a incrementare la sensibilità degli ambienti lacustri all’acidificazione, poiché ostacolano i processi di dilavamento delle rocce e dei suoli del bacino. Negli ultimi 20-25 anni si è verificata una riduzione di carichi acidi di origine atmosferica, grazie soprattutto alla riduzione delle deposizioni atmosferiche di solfati; conseguentemente i laghi dell’arco alpino mostrano segnali di recupero. Questa tendenza è destinata ad attivare processi di recupero biologico e di resilienza, favorendo la ri-colonizzazione di fauna e flora che erano temporaneamente scomparse. Tali fenomeni sono stati monitorati costantemente anche con un incarico assegnato nel progetto europeo Emerge (European Mountain Lake Ecosystems Regionalisation Diagnostic & Socioeconomic Evaluation), presso il Laboratorio Studi Ambientali (L.S.A.) del Cantone Ticino. In questa ricerca sono analizzati sei laghetti, fra cui anche il Laghetto Inferiore o Sassolo.
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Ambiente e Benessere
Lassù, non solo marmotte, camosci e stambecchi Biodiversità La vita pulsa anche alle più alte quote Alessandro Focarile Estate, stagione di escursioni e di ascensioni in montagna. Il frequentatore che si spinge oltre i pascoli e le praterie più elevate, e lo fa con animo, occhi e orecchi ben aperti, si rende conto che non è solo. Anche dove la vegetazione diventa più rada e immiserita, tra i nevai, le morene dei ghiacciai, le colate di detriti e di ammassi rocciosi, sui ripidi pendii, alla base delle pareti. Farfalle, uccelli, un furtivo topolino alpino lo accompagnano in alto, e queste visibili presenze sono ben poca cosa a confronto della multiforme, ricca e insospettabile vita minuta che sta ai suoi piedi. Sono gli insetti (e altri artropodi) «ipsofili», dal Greco: che vivono in permanenza in alto. Parliamo del gran numero di esseri fisiologicamente ben equipaggiati, i quali attraverso una dura, lunga e inesorabile selezione evolutiva, sono riusciti a elaborare e sviluppare meccanismi tali da consentire loro il brillante superamento delle avversità fisiche proprie dell’alta montagna. Ostacoli fisici che si realizzano attraverso le maggiori radiazioni ultra-violette, la minore quantità di ossigeno disponibile, i forti scarti di temperatura tra il giorno e la notte, e tra le zone in ombra e quelle in pieno sole, la notevole ventosità e aridità atmosferica del suolo e delle rocce scoperte. Infine, un innevamento che può prolungarsi fino a 9-10 mesi nel corso di un anno.
Le severe condizioni dell’ambiente alto alpino hanno originato una dura selezione tra gli esseri viventi in ecosistemi-limite Sono tutti fattori-filtro determinanti, che hanno creato nel corso del tempo (e parliamo di milioni di anni!) una rigorosa selezione biologica e hanno consentito la sopravvivenza e la continuità di vita soltanto agli organismi meglio equipaggiati. Aspetti di questa organizzazione efficiente sono: 1. Il metabolismo rallentato con il conseguente prolungamento del ciclo vitale dall’uovo all’adulto. Ciclo che può svolgersi entro 2-4 anni invece che nel corso dell’anno. 2. La diminuzione delle dimensioni del corpo. 3. Le zampe accorciate: in alta montagna è inutile correre. 4. La progressiva scomparsa delle ali: in quota è saggio non volare, a causa delle permanenti turbolenze. 5. Per la continuità della specie non occorre il partner. Grazie al fenomeno della partenogènesi, la madre genera solo femmine, semplificandosi la vita. 6. La produzione di composti chimici (glicoli) anti-gelo, che consentono di superare le basse temperature invernali grazie al fenomeno dell’ibernazione. 7. Verso i tremila metri di quota e oltre, temperature superiori a 6°C / 8°C a livello di radici (10 centimetri), obbligano la fauna minuta a trasferirsi negli strati inferiori del suolo, per trovare situazioni micro-climatiche più confacenti, compiendo continue migrazioni nel fitto reticolo di fessure. Parliamo delle particolarità di vita e di comportamento, dell’inesauribile e originale capacità di adattamento – sempre più affinate – alle avversità in un ambiente, per noi ostile, che ospita questi esseri, e pur tuttavia
1. Adula (3402 metri) – (Giovanni Kappenberger), con Leptusa baldensis raccolta a 3380 metri. (Alessandro Focarile)
consente loro di vivere. L’origine di questa fauna minuta, permanentemente presente in altitudine, è legata alla formazione delle montagne del sistema alpino (orogènesi). Montagne che sono il risultato di un gigantesco scontro tra due placche continentali: quella africana (mobile verso Nord) e quella centro-europea (rigida, a Nord). Il sollevamento delle Alpi è tuttora continuo: 1-2 millimetri all’anno nel massiccio del Monte Bianco. In altri settori del sollevamento «alpino» (come nel Tibet), questo può raggiungere 20 centimetri all’anno. Al termine della primavera, e grazie al calore solare, il suolo si riscalda, consentendo il rapido sviluppo della vegetazione erbacea. La vita riprende improvvisamente e clamorosamente. Miriadi di insetti affollano i bordi dei nevai in pieno sole, e la neve fondente alimenta il rinnovato rigoglio della vita. Si ricostituiscono le catene alimentari: vegetali, produttori primari, larve di moscerini (ditteri) consumatori primari, insieme con detritivori, predatori, e parassitoidi (piccole vespe), consumatori secondari. Tutti questi esseri hanno una vita effimera, nell’incessante lotta per il cibo e la procreazione. Tutto si deve concludere nell’arco di alcune settimane, prima delle precoci nevicate settembrine, che preannun-
zieranno il lungo inverno, la morte, oppure la stasi di ibernazione. Gli organismi ipsofili dipendono direttamente oppure indirettamente dalla presenza della neve. Costituiscono i primi anelli di una lunga e articolata catena alimentare, che ha origine dai licheni (foto) e dai muschi, attraverso lo strato erbaceo, fino ai consumatori primari: le marmotte, i camosci e gli stambecchi (tra i vertebrati) che se ne cibano. Tutti animali d’alta quota, giunti, una volta di più, dall’Asia centrale dopo la ritirata dei ghiacciai alpini: 12/15mila anni or sono. Oltre una certa quota, durante la buona stagione e dopo lo scioglimento dei nevai, la fauna – con esclusione dei vertebrati – è organizzata su tre livelli: 1. Quello formato dalla fauna aliena (alloctona) trasportata passivamente dalle correnti ascensionali di aria calda e destinata a soccombere ritrovando un ambiente estraneo e ostile. 2. Quella stanziale sulla superficie del suolo e delle rocce. 3. Infine, quella che popola gli strati più o meno superficiali del suolo e degli sfasciumi di vario calibro. In questi strati, la fauna minuta (insetti e altri artropodi) compie permanenti spostamenti alla ricerca di condizioni di umidità favorevoli. Quest’ultima componente della fauna alto-alpina è la più significativa
3. Una minuscola (5 millimetri) lumaca ipsofila (Vitrina), il cui guscio è molto sottile a causa della carenza di calcare. (Alessandro Focarile)
4. Selatosomus rugosus, 4478 metri. (Alessandro Focarile)
e interessante. Essa è formata da entità faunistiche arcaiche, testimonianze giunte fino ai nostri giorni dopo un lunghissimo cammino evolutivo (si tratta di milioni di anni) e derivata da ceppi che hanno seguito l’innalzamento delle Alpi (il fenomeno dell’orogènesi) e quello delle altre montagne del sistema alpino, dall’Himalaya ai Pirenei. È giustificato definire questi esseri, dei veri fossili viventi. Dei lontani progenitori dell’attuale fauna di insetti alto-alpini, molti sono scomparsi perché estinti. Si trattava di una fauna primigenia popolante le pianure prima della formazione delle Alpi e del sistema alpino. Altri, gli antenati della fauna attuale, hanno seguito lentamente l’orogènesi, e si sono progressivamente adattati alle nuove situazioni ambientali. Ed è proprio grazie a questo fenomeno di notevole valenza biologica che conosciamo specie viventi in permanenza fino a 6300 metri come i Collemboli («Azione» 12.05.2014 – n° 20) e tutta una microfauna che prospera oltre i 5000 metri. Sulle Alpi, gli attuali record altitudinali sono detenuti da alcuni coleotteri. Come l’elatèride Selatosomus rugosus (foto), privo di ali funzionali e raccolto sulla vetta del Cervino (4478 metri), quando l’eccelsa montagna non era ancora frequentata e calpestata da eserciti di «alpinisti». Inoltre, da un minuscolo (1,5 millimetri) stafilinìde (Leptusa janetscheki), scoperto in cuscinetti di sassifraghe sulla Meije (3874 metri), una impegnativa ascensione nelle Alpi del Delfinato, in Francia. E, per restare in casa nostra, da segnalare il rinvenimento di Leptusa baldensis, da parte di Giovanni Kappenberger a 3380 sull’Adula (foto). Lassù, dove saliamo con corda, piccozza e ramponi, c’è vita molto in alto. Bibliografia
2. Il lichene Stereocaulon alpinum: una delle più elevate manifestazioni di vita in alta quota. (Alessandro Focarile)
5. Dichotrachelus sulcipennis, 3538 metri. (Alessandro Focarile)
Mahadeva Subramania Mani, Ecology and Biogeography of High Altitude Insects, Dr. W.Junk NV Publishers (The Hague), 1968, 527 pp. L. Nagy et al., Alpine Biodiversity in Europe, Springer (Berlin, Heidelberg, New York), 2003, 477 pp.
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Ambiente e Benessere
Amico Sole Salute La funzione protettiva dei prodotti solari preserva la pelle dai raggi nocivi e aiuta a godere dei benefici Stare all’aria aperta è tutta salute e i raggi solari sono una benedizione per il buon funzionamento del nostro corpo. Lo sanno bene anche alla Lega contro il cancro, che nella pubblicazione Amo stare all’aria aperta ma mi proteggo dal sole invita a stare all’aperto, anche se con la necessaria attenzione: «Una prudente, anche breve, esposizione solare può essere utile specie nei bambini e negli anziani, per indurre la produzione di vitamina D che aumenta le nostre difese immunitarie». Per godere dei benefici dei raggi solari non bisogna però tralasciare la dovuta cautela che aiuta a difendersi da quelli ultravioletti, che si possono rivelare nocivi per la nostra pelle. Precauzioni che abbiamo passato in rassegna nel precedente articolo Radiazioni ultraviolette («Azione» del 23 giugno), a coadiuvare le quali, alleata della nostra pelle, sta l’importante famiglia dei prodotti per la protezione solare. Ce lo conferma l’Ufficio federale della sanità pubblica (Ufsp), ricordandoci di tener presente che purtroppo la Svizzera fa parte dei primi dieci Paesi al mondo per diffusione del carcinoma alla pelle causato dall’eccessiva esposi-
zione al sole ed è pertanto importante rispettare alcune regole: «Ogni anno si pone il problema di una protezione solare ottimale. La permanenza all’ombra, insieme all’utilizzo di prodotti per la protezione solare con filtro UV, rientrano nelle misure necessarie per la protezione solare, perché riparano dai raggi ultravioletti e dai loro eventuali danni alla salute». Per sottolineare importanza, efficacia e vantaggi dei prodotti per la protezione solare, l’Ufsp afferma chiaramente che «finora si possono escludere danni alla salute dei consumatori derivanti dall’applicazione dei filtri UV autorizzati in Svizzera». L’Ufficio federale della salute pubblica va oltre e conferma l’innocuità dei prodotti per la protezione solare anche per le donne in gravidanza o per quelle che allattano: «I vantaggi dell’allattamento durante i primi sei mesi di vita prevalgono di gran lunga sulle preoccupazioni riguardo ai rischi di sostanze nocive presenti nel latte materno». Di fatto, studi nell’ambito del Programma nazionale di ricerca (NFP50) hanno dimostrato che la sostanza 4-metil-benzilidenecanfora (4-MBC), utilizzata come filtro UV, è presente anche nel latte delle donne che allattano e secondo l’Ufsp se
ne deduce che «la sostanza contenuta nelle creme solari giunge nel corpo attraverso la pelle. Le concentrazioni rilevate nei campioni di latte materno sono tuttavia così limitate che, alla luce delle attuali conoscenze scientifiche, appaiono assai improbabili dei danni alla salute del bambino». Anche le gestanti e le mamme che allattano possono perciò godere dei benefici dell’aria e dei raggi solari, con le dovute precauzioni e con un comportamento corretto: «Una moderata esposizione al sole durante la gravidanza e l’allattamento, nonché un utilizzo limitato di prodotti per la protezione solare, permettono di ridurre al minimo la contaminazione del feto nel grembo materno e del lattante attraverso il latte materno, determinata dall’impiego di filtri UV che potrebbero rivelarsi problematici per la loro salute». In ogni caso, l’Ufsp ha stilato un elenco dei filtri UV contenuti nei prodotti per la protezione solare autorizzati in Svizzera con i nomi delle relative marche (ndr: Liste des filtres UV autorisés, disponibile in francese): «L’elenco contribuirà a migliorare la comprensione di questa complessa problematica», afferma l’Ufsp che rimanda anche alle raccomandazioni
della Commissione europea, la quale ribadisce a sua volta che «le sostanze per la protezione solare hanno una funzione “protettiva” importante contro i raggi UV e i possibili danni alla salute che ne potrebbero conseguire. Affinché tale funzione sia soddisfatta, verificare l’efficacia dei prodotti e fare
abbronzatura in modo sano e veloce, in quanto la sostanza attiva Melano Bronze contenuta è in grado di stimolare la naturale produzione di melanina, col risultato di un’abbronzatura naturale più intensa senza l’uso di autoabbronzanti. Per proteggere la pelle esposta al sole, nella quale si formano i radicali liberi che la danneggeranno anche durante le ore successive, la linea Sun Look anti age si avvale della combinazione di principi attivi Colar Protect-Complex. I prodotti della linea Sun Look active sono indicati per gli sportivi: idratano a fondo la pelle
irritata dal sole, mentre la linea Ultra Sensitive (consigliata dal Centro allergie Svizzera aha!) è particolarmente indicata per le persone ipersensibili ai raggi solari e ai prodotti cosmetici tradizionali. Arriviamo quindi ai prodotti della linea Kids, sviluppati in modo specifico per la pelle sensibile dei bambini e disponibili con indici di protezione più elevati. Sun Look aprés rappresenta infine la cura ideale dopo una giornata al sole, mentre Sun Look selftan è consigliata per chi non vuole rinunciare a una bella abbronzatura, ma non può esporsi ai raggi solari.
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Migros: protezione solare «su misura» Migros propone la linea Sun Look: realizzata in base ai più recenti ritrovati scientifici e secondo severe direttive, essa non contiene il filtro 4-Methylbenzyliden Camphor (4-MBC) sopra menzionato, perché ciascun tipo di pelle necessita di un trattamento studiato su misura. A ciascuno il prodotto individualizzato e giusto: per questo, Sun Look offre nove differenti prodotti, tutti resistenti all’acqua, con una protezione ottimale e un trattamento intenso che permette di ottenere una bella abbronzatura, ma soprattutto sana. L’efficace ed equi-
librato sistema di filtri UVA e UVB protegge la cute dalle scottature solari e dai danni dei raggi UV. Con la vitamina E e gli estratti di fico messicano, Aqua Cacteen cura la pelle sollecitata dal sole. Sun Look basic è la linea adatta a tutti i tipi di pelle e offre una protezione efficace dai raggi solari, preservando l’idratazione della cute per 24 ore. Gli spray Sun Look light & invisible si spalmano facilmente sulla pelle, grazie alla loro formula trasparente: si assorbono rapidamente e non ungono. La linea Sun Look protect & tan permette di acquisire una bella
in modo che i consumatori comprendano bene il contenuto dei foglietti informativi». Per tenere conto dello scetticismo e delle preoccupazioni di alcuni esperti in materia di innocuità dei prodotti con filtri solari, il consiglio d’Europa prima (ndr: dicembre 2005) e la Commissione europea poi (ndr: settembre 2006) hanno pubblicato delle raccomandazioni in merito, mentre la Svizzera era rappresentata in entrambi i gruppi d’esperti che hanno redatto le raccomandazioni, una delle quali è ad esempio la seguente: «I prodotti per la protezione solare devono proteggere in modo sufficiente dai raggi UV B (responsabili delle cosiddette scottature solari) e dai raggi UV A (causa dell’invecchiamento prematuro della pelle e di disturbi al sistema immunitario)». Siccome entrambi contribuiscono notevolmente allo sviluppo del tumore della pelle, l’Ufsp non può far altro che ribadire di utilizzare i prodotti di protezione solare e di esporsi con prudenza, coprendosi con un abbigliamento adeguato e solamente durante le ore meno calde della giornata.
Greenhope, tra sport e beneficenza Evento Quando giovani talenti della mountainbike s’impegnano per raccogliere fondi a favore della lotta contro il cancro Il progetto Greenhope biking against cancer nasce nel 2011 per unire la formazione di giovani talenti della mountainbike alla raccolta di fondi per la lotta contro il cancro. L’idea deriva da una passione (quella per la bicicletta) e un destino (la perdita di un genitore per via di un tumore) in comune tra Luca Cereghetti e Claudio Andenmatten. Fin da subito il progetto ha raccolto molte simpatie, tant’è che attorno ai quattro corridori lo staff è cresciuto (oggi conta otto membri e un’agenzia di comunicazione, Ander Group, tutti al servizio della causa a titolo volontario), gli sponsor sono molti e generosi, e la schiera di supporters e donatori è in espansione.
Tra questi ultimi vi sono alcuni volti molto noti nell’ambito sportivo come la sciatrice Lara Gut, l’ex campione del Mondo di Mtb Ralph Naef, il pilota Jarno Trulli (che per Greenhope produce un ottimo Montepulciano), il ciclista Enrico Gasparotto e l’Hockey Club Davos, impegnato in prima linea a favore dei bambini malati di tumore. Anche il regista ticinese Niccolò Castelli è molto vicino al progetto, sostenendolo nella realizzazione dei video promozionali. Dal lato sportivo Greenhope si occupa di creare le giuste basi per lo sviluppo di speranze nell’ambito nazionale. I quattro corridori sono in età comprese tra i 17 e i 20 anni. Uno di essi, Luca Ta-
A San Bernardino per la Sanbike Greenhope vi invita a partecipare alla Sanbike il prossimo 26 e 27 di luglio. L’evento, organizzato in collaborazione con il Cycling Group Ceresio e l’Ente Turistico Regionale del Moesano, si sviluppa su un intero weekend. Il sabato è dedicato ai più piccoli e alle famiglie grazie al Sanbike Migros Family Day: corsi di mountainbike con diploma finale per i bambini e animazione presso la zona «lungo Moesa» vivacizzeranno il villaggio. La domenica sarà invece dedicata alle competizioni vere e proprie con l’MXC Sanbike Multivan Merida Trophy. I percorsi saranno tre:
il Fun popolare (2 giri attorno al paese), il Medio e il Lungo (con ascesa al passo del San Bernardino). Per tutti quanti la partenza è prevista alle 10.30 dal villaggio. L’intero ricavato sarà devoluto in beneficenza per tramite del progetto Greenhope biking against cancer. Da notare che al via, oltre a diversi professionisti della MTB, tra i quali il vincitore 2013 Ralph Naef, vi saranno pure il fondista Curdin Perl, la sciatrice Deborah Scanzio e l’ex beniamino dei ciclisti ticinesi Mauro Gianetti. Info: www.sanbike.ch, www.facebook.com/sanbike
vasci, mira ai Giochi Paraolimpici, mentre gli altri (Timothy Mazzuchelli, Jan Eichenberger e Casey South) puntano ad arrivare il più in alto possibile nelle rispettive categorie. Per questi ragazzi, tale esperienza ha però un significato più ampio, come ci spiega il responsabile sportivo Claudio Andenmatten: «Da noi non si parla solo di sport. La componente benefica assume una grande importanza con i ragazzi, e ci permette di crescerli pure dal punto di vista più umano. Ad esempio, approfittano molto del contatto che instaurano con dei loro coetanei impegnati a lottare contro veri problemi, decisamente più seri di una gara di Mtb. Essere confrontati con queste malattie permette di sensibilizzarli, e l’impegno dimostrato nella raccolta fondi ne è la conferma». Per quel che riguarda la componente benefica, Greenhope sostiene delle associazioni e fondazioni che nel concreto si adoperano a favore di bambini malati e delle loro famiglie. I finanziamenti sono mirati sulla copertura dei costi di attività puntuali, alle quali spesso il team partecipa in prima fila, come ad esempio le vacanze autunnali della Kinderkrebshilfe Schweiz, con la quale fin da subito è nato un rapporto di amicizia e di collaborazione. Quest’anno l’obiettivo è di poter muovere dei primi piccoli passi anche all’interno degli ospedali, e per fare questo Greenhope si affiderà anche all’esperienza dell’allenatore dell’Hockey Club Davos Arno Del Curto, il quale con i suoi giocatori visita spesso i bambini malati.
Il progetto si finanzia grazie al contributo degli sponsor, alle donazioni e alla vendita di gadgets, come ci spiega Luca Cereghetti. «Ci teniamo molto a far sì che ognuna di queste tre fonti possa sostenere sia il progetto benefico, sia quello sportivo, ed è per questo che ripartiamo sempre i fondi tra i due. Il tutto nella più totale trasparenza e nel rispetto di chi ci sostiene. Abbiamo inoltre la grande fortuna di essere un progetto piccolo ma ben organizzato, e questo ci permette di abbattere nella loro quasi totalità i costi amministrativi». Anche nell’ambito della comunicazione l’impegno è molto importante: «...direi che viviamo anche di questo! Per noi è infatti essenziale poter far capire alla gente chi siamo, cosa facciamo e soprattutto perché lo facciamo. Il fatto di aver incontrato sulla nostra strada un amico come Florian Anderhub è stato un grande regalo. Grazie al suo sforzo in pri-
ma fila e a quello dei collaboratori di Ander Group, oggi possiamo permetterci di comunicare in maniera ottimale. Oltre al sito abbiamo una rivista, un canale video su Youtube e dei social media molto trafficati che ci aiutano a raccogliere fondi e ad aumentare la schiera di sostenitori. In futuro non puntiamo a crescere come dimensioni: col gruppo attuale abbiamo raggiunto, a nostro modo di vedere, un buon equilibrio tra efficienza e flessibilità. Siamo infatti piccoli al punto giusto per esser molto dinamici e grandi abbastanza per aver ben in mano entrambi i progetti benefico e sportivo». Informazioni
www.greenhope.ch
Sanbike, il 26 e 27 di luglio, a San Bernardino
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Ambiente e Benessere
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Quando le pensiline diventano punti di ricarica elettrica Elettromobilità Rapporto sul progetto Tosa di Ginevra: un autobus di linea elettrico con trazione a batteria
e stazioni di ricarica rapida
Alle fermate prestabilite, un braccio semovente montato sul tetto dell’autobus si aggancia al polo elettrico sotto la pensilina della fermata. Il sistema di connessione e rifornimento automatico da 400 kW consente di trasferire al bus 1,7 kWh durante la sosta di 15 secondi (vedi box), rimpinguandone l’autonomia di quel tanto che basta a raggiungere il punto di ricarica lampo successivo dopo 3 o 4 fermate.
Benedikt Vogel* La società di trasporto pubblico di Ginevra (TpG) impiega, sulla linea urbana e per la prima volta in Svizzera un autobus alimentato a batteria. L’energia per la trazione è fornita da un’apparecchiatura di piccole dimensioni e leggera che viene ricaricata in pochi secondi presso fermate predisposte, mentre i passeggeri salgono e scendono. L’elettromobilità è un argomento di grande attualità, tuttavia incontra i suoi limiti nei grandi autobus di linea per il trasporto pubblico urbano: un autobus articolato comune a tre assi, con 134 posti in piedi e a sedere, ha un peso a vuoto di 20 tonnellate e un peso massimo ammissibile di 30 tonnellate. Se un autobus di questo tipo dovesse caricare a bordo una batteria in grado di erogare una quantità di energia sufficiente per farlo funzionare una giornata intera, questa batteria dovrebbe pesare ben nove tonellate. L’autobus sarebbe così pesante da consentire di caricare solo pochi passeggeri. Per questo motivo in Svizzera, questi mezzi non circolano. Con un’eccezione: a Ginevra è operativo, già da alcuni mesi, un demo bus elettrico di grande capacità che collega l’aeroporto di Ginevra al Palexpo, centro espositivo internazionale della città, percorrendo una distanza di 1,8 km. L’autobus articolato è di dimensioni normali e può trasportare un numero di
«Non vogliamo trasportare batterie, ma persone», ha dichiarato Olivier Augé, Product Manager e Responsabile Innovazioni presso ABB, Gruppo leader nelle tecnologie per l’energia e l’automazione. (element p)
passeggeri pari agli altri autobus cittadini. La batteria che alimenta i due motori elettrici pesa tuttavia solo 1040 kg. «Non vogliamo trasportare batterie, ma persone», ha dichiarato Olivier Augé, Product Manager e Responsabile Innovazioni presso Abb, Gruppo leader nelle tecnologie per l’energia e l’automazione, che ha sviluppato la batteria e la relativa tecnologia di ricarica, nonché prodotto alcune parti del sistema. Il progetto è attualmente in fase di sperimentazione per la prima volta in Svizzera presso la città di Ginevra. A differenza degli altri autobus a trazione elettrica, questo autobus non è alimentato tramite una linea aerea con due conduttori elettrici sospesi sulla sede stradale, bensì da una batteria. La sua
velocità massima è 85 km/h. Mentre la ricarica è paragonabile a un lampo, dato che esige solo 15 secondi. L’autoarticolato di Ginevra è in grado di trasportare 135 passeggeri, nonostante la sua batteria pesi solo una tonnellata al posto di nove, e possa immagazzinare solo 38 kWh di energia anziché mille. L’autobus può prelevare, infatti, esattamente una minima quantità di energia che serve a spostarsi e alimentare le luci di servizio fino alla successiva fermata di ricarica. Un’operazione che richiede solo 15 secondi direttamente presso fermate predisposte mentre i passeggeri salgono e scendono, e che avviene grazie a un nuovo tipo di meccanismo automatico di ricarica lampo.
L’energia elettrica utilizzata per il nuovo autobus articolato proviene da fonti di energia rinnovabili Il progetto pilota è in uso fra l’aeroporto di Ginevra e il centro espositivo Palexpo. La distanza percorsa misura solo 1,8 km, pertanto sono sufficienti due stazioni di ricarica. Il demo bus percorre questo tratto di strada da tre a quattro volte alla settimana dal maggio 2013 e il progetto è terminato nel mese di marzo di quest’anno. Olivier Augé è soddisfatto dei risultati: «Il processo di ricarica è affidabile e l’intera infrastruttura di ricarica ha superato la prova pratica». In fase sperimentale l’autobus ha consumato da 1,5 a 3,5 kWh di energia elettrica
per chilometro, in base al profilo del percorso, al numero di passeggeri e alle condizioni atmosferiche. Queste ultime giocano un ruolo importante nel momento in cui l’autobus deve essere riscaldato elettricamente in inverno e climatizzato d’estate. Dei 38 kWh di capacità della batteria, possono tuttavia essere disponibili 26.6 kWh, poiché l’apparecchiatura può essere scaricata al massimo fino al 30-40 per cento della sua capacità per assicurare una durata media di dieci anni. Il sistema di ricarica flash consente all’autobus di non fermarsi mai per la ricarica (a parte ovviamente quando lo richiedono le soste dei passeggeri), assicurando un’autonomia sufficiente e la necessaria riserva. E il tutto con una batteria per capacità energetica di dimensioni doppie rispetto a quella di un’automobile elettrica di classe media. «Finora siamo molto soddisfatti dell’autobus», ha commentato Thierry Wagenknecht, direttore tecnico dell’azienda comunale dei trasporti pubblici di Ginevra (TpG), che traccia un bilancio positivo del progetto: «La collaborazione tra i partner è eccellente». Al progetto partecipano, insieme a TpG e ad Abb, l’utility per l’energia di Ginevra SIG, che gestisce la rete elettrica della città, e l’Office de Promotion des Industries et des Technologies. Le lettere iniziali dei nomi dei quattro partner hanno dato il nome al progetto stesso: T.O.S.A.
L’autobus elettrico operativo a Ginevra è dotato di una batteria di dimensioni relativamente piccole che viene ricaricata in pochi secondi alle fermate. Giunto sotto la pensilina, l’autobus si aggancia alla stazione di ricarica (visibile nella figura sopra il tetto dell’autobus). (ABB)
Il quale si avvale del finanziamento dell’Ufficio federale dell’energia che fornisce anche servizi di consulenza. Il parco veicoli della società TpG comprende attualmente 210 autobus diesel oltre a 90 filobus e a diverse centinaia di tram. «Il nostro obiettivo a lungo termine è l’elettromobilità al cento per cento», ha dichiarato Thierry Wagenknecht, che ha aggiunto: «Diverse strade portano al nostro obiettivo, e Tosa è una di queste». La TpG sta studiando insieme al Cantone di Ginevra la possibilità di impiegare il nuovo autobus a ricarica rapida su una linea completa del trasporto urbano. «La decisione dipenderà dal risultato finale del progetto pilota attualmente in corso, ma dovrà dare una risposta anche alle esigenze in materia di pia-
nificazione del trasporto pubblico e in materia di finanziamento», ha spiegato Wagenknecht. Il progetto pilota di Ginevra suscita grande interesse nelle aziende di trasporto pubblico nazionali e straniere. La TpG è impegnata regolarmente ad accogliere delegazioni che desiderano informarsi su questa variante di elettromobilità urbana. Per Abb si prospetta uno sbocco commerciale nei mercati su scala mondiale per il proprio sistema di ricarica, che sarà pronto per la commercializzazione nel 2015. Fino ad allora la ricerca proseguirà per migliorare il prodotto. Attualmente si sta considerando anche un potenziamento della capacità di carica della batteria da 38 a 50 e 80 kWh. Secondo il manager di Abb, Augé, dai calcoli effettuati si evince che i costi
d’investimento per gli autobus e per la relativa infrastruttura di ricarica non superano i costi per l’installazione di una nuova linea di filobus con linee aeree. Se si considerano la maggiore durata media di un bus elettrico (e i conseguenti tempi di ammortamento più lunghi), i ridotti costi di manutenzione dell’apparato propulsore elettrico e i minori costi legati al consumo di energia, il sistema di Abb può misurarsi addirittura con i moderni sistemi diesel per il trasporto pubblico. Un’alternativa con vantaggi e svantaggi. Oggigiorno, infatti, l’installazione di linee aeree sospese è spesso fonte di critiche e incontra una forte resistenza per la concessione delle relative autorizzazioni. A fronte di queste difficoltà, gli autobus a batterie potrebbero rappre-
sentare un’alternativa gradita. Questo autobus si basa tuttavia su una propria tecnologia che non può essere confrontata con quella di tram, filobus, autobus diesel o metropolitane. Le aziende di trasporto che optano per la nuova tecnologia devono pertanto adeguare anche le proprie infrastrutture di manutenzione e provvedere a un’adeguata formazione del proprio personale, con un conseguente aumento dei costi. Tosa può tuttavia fornire un importante contributo all’ulteriore sviluppo dell’elettromobilità. «Il punto critico è naturalmente rappresentato ancora dagli accumulatori. A tale riguardo siamo curiosi di vedere se raggiungeranno l’auspicata durata media di vita nelle versioni con alta corrente di carica», afferma Martin Pulfer che segue il programma di ricerca Trasporti dell’Ufficio federale dell’energia. È concepibile anche l’idea che le esperienze con Tosa possano essere efficaci pure in altri contesti. La società di trasporto pubblico di Ginevra intende, infatti, sfruttare in futuro gli accumulatori di energia per energizzare i filobus con gruppi di continuità a batteria e per recuperare energia frenante dei tram per mezzo di supercondensatori. *Articolo redatto su incarico dell’Ufficio federale dell’energia (UFE). Informazioni
Per maggiori informazioni sul progetto è possibile contattare Martin Pulfer (martin.pulfer@bfe.admin.ch), Responsabile del programma di ricerca Trasporti dell’UFE. Mentre al seguente link è disponibile un videoclip informativo sul progetto creato su incarico dell’UFE: http:// player.elementp.ch/bfe (tedesco, francese)
Stazioni di ricarica efficienti Quanto più corto è il tempo di carica, tanto maggiore dovrà essere la potenza per rifornire una batteria di una determinata quantità di energia. L’autobus elettrico a ricarica rapida operativo a Ginevra preleva molta energia in poco tempo durante il processo di ricarica lampo. Ciò rappresenta una sfida sul piano tecnico a livello di infrastruttura perché se le stazioni di ricarica sono collegate alla rete urbana a bassa tensione, le «potenze di picco» disponibili sono necessariamente limitate. Per non dover potenziare la rete di distribuzione elettrica appositamente per le stazioni di ricarica, queste vengono dotate di supercondensatori (detti anche supercapacitori). Questi ultimi sono dei particolari condensatori che hanno la caratteristica di accumulare e scaricare una quantità di carica elettrica in tempi eccezionalmente rapidi. Essi prelevano potenza dalla rete (50 kVA) nei due minuti e mezzo che precedono l’arrivo dell’autobus alla fermata, e la cedono quindi alla batteria nell’autobus mentre i passeggeri salgono e scendono. Le stazioni di ricarica predisposte alle fermate intermedie erogano 400 kW, mentre al capolinea sono sufficienti 200 kW perché gli autobus devono sostare diversi minuti e c’è quindi più tempo a disposizione per la ricarica: qui dura 4 minuti durante i quali vengono riforniti 13 kWh di energia elettrica. Le stazioni sono peraltro progettate in modo tale da essere energizzate solo se un autobus è agganciato. / BV
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Ambiente e Benessere
Calle: bianche o colorate? Mondoverde Interrate in primavera regalano da giugno a settembre eleganti fioriture, sia in vaso sia in piena terra
Sono belle per antonomasia. A tal punto che la bellezza viene espressa dal loro stesso nome: dal greco, infatti, kalos, significa proprio «bello». Negli ultimi anni si trovano facilmente in commercio tuberi di calla colorata, con sfumature dal giallo brillante all’arancio-rosso, fino al più prezioso viola carico. Sono, infatti, molte le nuove varietà, che si caratterizzano dalla taglia contenuta, dal colore, dal profumo e persino attraverso il fogliame decorativo. Per conoscerle ed evitare così errori nella coltivazione, ecco pronta una guida che consentirà agli appassionati con il pollice verde di ottenere fioriture prolungate negli anni. Anzitutto va detto che le calle coltivate appartengono alla specie Zantedeschia aethiopica, la classica calla bianca con rizomi che danno luogo ogni primavera a cespi di foglie lunghe cinquanta centimetri e fiori che raggiungono anche il metro; Zantedeschia albo è invece maculata con le foglie più piccole, ma con graziose macchie bianche e con fiori anch’essi bianchi ma dall’interno scuro; Zantedeschia elliottiana ha i fiori gialli, mentre Zantedeschia rehmannii sfoggia fiori rosa con sfumature bianche o viola. Da queste ultime tre specie derivano le numerose varietà a fiore colorato, come la Cameo, dal fiore arancio-salmone o la Mango dalle spate arancioni. Le uniche due eccezioni sono date dalla
F.D. Richards
Anita Negretti
Green Goddess bianca con punta verde e Pink Mist rosa pallido, derivanti direttamente da Zantedeschia aethiopica. Nelle calle vi è un organo particolare, la spata, che è una foglia trasformata per attrarre gli insetti ed è quella che erroneamente viene chiamata «fiore»; avvolge lo spatice (cilindro giallo) che a sua volta porta i veri fiori, piccoli
e poco attrattivi. Se la calla bianca ha come radice un rizoma, ovvero un fusto sotterraneo ingrossato che predilige essere interrato in suoli umidi e ricchi di sostanza organica, come fossi, rogge e a bordo di laghetti e stagni, le varietà colorate si sviluppano da tuberi e richiedono terreni sabbiosi e ben drenati in quanto assai sensibili ai marciumi.
La messa a dimora per tutte le varietà è la primavera, quando il pericolo gelate è ormai terminato. È necessario fare attenzione a manipolare con i guanti le radici, visto che possono irritare la pelle. Esposte al sole o a mezz’ombra, non scordiamoci di coprire le radici con un buono strato di corteccia per mantenerle fresche. La giusta
profondità del rizoma o del tubero è di dieci centimetri sotto al livello del terreno, che va mantenuto sempre umido nel caso della Zantedeschia aethiopica. Inoltre, per tutte le varietà, è importante intervenire con un buon concime se vogliamo riuscire a ottenere piante fiorite due volte al mese. Al contrario della calla bianca, che una volta interrata può essere lasciata nel terreno per anni, le calle colorate devono esser messe a riposo tra una fioritura e la successiva: ad ottobre si estraggono i tuberi, li si ripone in cantina dopo averli spazzolati dalla terra e li si conserva in un luogo buio con una temperatura di 8-10°C fino alla primavera successiva. Molti sono gli abbinamenti delle calle con altri fiori, siano essi arbusti, erbacee perenni o bulbose: un ottimo contrasto è dato ad esempio dalla varietà Schwarzwalder con spate viola scuro, quasi nere, accostate all’achillea gialla o rosa chiaro. Oppure rende bene l’accostamento dei bei fiori rosa scuro Pink persuasion – già valorizzati dalle foglie verdi maculate di bianco – con le ortensie o la delfinium blu. Prima di concludere, vi regaliamo una piccola curiosità botanica: il nome del genere, Zantedeschia, complicato da ricordare, è frutto di un omaggio da parte del botanico tedesco Kurt Sprengel a Giovanni Zantedeschi, altro botanico italiano, in onore ai lunghi anni di studio delle piante trascorsi insieme. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 7 luglio 2014 ¶ N. 28
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 7 luglio 2014 ¶ N. 28
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Ambiente e Benessere
Un Mondiale tutto (o quasi) da piangere Sportivamente Più che a belle partite, sul piano squisitamente tecnico abbiamo assistito fino ai quarti
Alcide Bernasconi Appartengo a una generazione che ricorda brandelli di radiocronache sportive, che vide nel 1954 il primo Mondiale calcistico alla tv, solo un paio di partite su un grande schermo dove scorrevano le immagini ingrandite; ci fu chi vide la Svizzera battere due volte l’Italia, appartenente già allora all’elite del calcio mondiale. Non ricordo particolari scene di giubilo, non avendo proprio visto io le due gare in questione: quella vinta 2-1 alla Pontaise di Losanna, pomposamente chiamata «Stadio olimpico», e quindi lo spareggio di Basilea (4-1 per i rossocrociati). Vidi però gli azzurri imporsi con lo stesso risultato contro il Belgio. Fu una memorabile, calda domenica di giugno, con ben 26mila spettatori (!) che assieparono lo stadio di Cornaredo quasi nuovo di zecca (era stato inaugurato nel 1951). Di quell’avvenimento (avevo 9 anni) ricordo ben poco. Più nette rimasero invece nella mente le immagini tv della storica finale vinta dalla Germania sull’Ungheria. A Lugano andai con mio padre al Caffè Federale, poiché le poche salette dotate di grandi schermi degli altri ritrovi pubblici erano ormai tutte piene da scoppiare. I primi televisori erano soltanto per i ricchi e così i bar fecero affari d’oro in quei tempi pionieristici, ma solo a partire dall’anno successivo, con il gioco a quiz Lascia o raddoppia? condotto da Mike Bongiorno. C’erano cinque milioni di lire di allora da vincere per chi rispondeva correttamente a tutte le domande. Quel gioco teneva tutti sulle spine, per via dei dubbi che assalivano i concorrenti. La prima vincitrice fu, se ben ricordo, una bionda mozzafiato, di nome Paola Bolognani, detta la «Leonessa di Pordenone». La materia che scelse fu il calcio, tema considerato allora per soli uomini! Incredibilmente sapeva tutto e, quando entrò in cabina, sciorinò – come scrisse-
ro allora – i nomi di tutti i titolari della nazionale azzurra, dagli albori fino alle ultime formazioni. Torniamo però alla finale giocata al Wankdorf di Berna. Fu una drammatica partita. L’esito del match lasciò in parte delusi gli spettatori in sala. Molti sostenevano, infatti, i magiari, guidati in campo dal grande Puskas, che fu poi una stella del Real Madrid. Le cronache raccontano che quello fu il primo caso clamoroso di doping collettivo nello sport, poiché i tedeschi entrarono in campo nella ripresa letteralmente… trasformati. Felici furono invece coloro che, senza potersi dire tifosi della Germania, applaudirono la sconfitta degli ungheresi, solo perché… comunisti. Diciamo che da allora sono passati anni luce e che non tutte le edizioni dei Mondiali di calcio furono memorabili. Quella che stiamo vivendo in questi giorni è di fatto una Coppa del mondo tutta (o quasi) da piangere. Per mille motivi. All’inizio per via di un arbitraggio smaccatamente favorevole ai padroni di casa del Brasile contro la Croazia, nella gara d’apertura. Poi per l’eliminazione degli azzurri, portati al settimo cielo anche dagli esperti, ospiti fissi alla Rai tv, dopo la vittoria sull’Inghilterra («vuoi che adesso dobbiamo temere la Costa Rica?», dicevano quasi in coro, salvo qualche vero esperto, più realista e anche onesto). Poi ecco il «pianto» infinito, infarcito di critiche pesanti indirizzate al comodo capro espiatorio Mario Balotelli, con cui in tv e sui giornali si è occupato il vuoto lasciato dalla squadra tornata a casa quasi fra l’indifferenza generale. Il temuto lancio di pomodori e verdure andate a male appartiene ormai al lontanissimo 1966, dopo l’eliminazione in Inghilterra per mano della Corea del Nord. Non ha invece pianto l’azzurro Chiellini per il morso a una spalla di cui è stato vittima ad opera dello sfrontato (o peggio?) uruguayano Suarez, detto «il
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a una serie di incontri drammatici e incerti fino all’ultimo
pistolero» e ora perfino «il mostro». Anche la Spagna, campione del mondo uscente, è stata eliminata, ma il popolo iberico era in altre faccende affaccendato tanto da non potersi mettere a piangere per una questione di secondaria importanza, visti i tanti trofei portati a casa, anche dalle squadre di club. Quanto all’Inghilterra, rispedita immediatamente in terra d’Albione, ormai i britannici ci hanno fatto il callo. A casa dopo tre partite anche il Portogallo, del quale non ci ricordiamo quasi di aver visto giocare il «Pallone d’oro» Cristiano Ronaldo. Subito fuori anche le squadre dirette da tecnici italiani d’eccezione quali Capello (Russia) e Zaccheroni (Giappone); è passata invece agli ottavi di finale la Svizzera, a cui le televisioni (e pure i giornali) della vicina Repubblica hanno dedicato lo spazio minimo, nonostante i rossocrociati schierassero ben tre giocatori del Napoli (Inler, Behrami e Dzemaili) nonché Lichtsteiner della Juventus campione d’Italia.
Per la critica a noi più vicina – mica quella d’Oltralpe però – l’eliminazione della Svizzera sarebbe stata per l’Argentina del campione Leo Messi solo una formalità. Invece tutti hanno dovuto ricredersi e qualcuno ha pur avuto il coraggio di riconoscere che la Svizzera avrebbe meritato non soltanto di giocarsela ai rigori, ma addirittura il successo contro gli argentini. È stata, questa sfida, davvero amara per noi. Perfino Kubi Türkylmaz, ex capocannoniere rossocrociato ora commentatore tv, ha ammesso, commosso, che stava per piangere. Sul posto – mentre al telecronista Rsi Armando Ceroni si erano aggrovigliate le corde vocali, messe a dura prova non soltanto in questo ottavo di finale – il commentatore tecnico Toni Esposito stava piangendo calde lacrime. E noi, a casa? Dopo il gol decisivo firmato dall’argentino Di Maria, io me la sono cavata con un groppo in gola, perché nonostante tutto imprecavo con Lichsteiner per il pallone malamente perso; col portiere Benaglio
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Cruciverba Tra zanzare: «Devo essere veramente molto brava, infatti quando svolazzo intorno…» Termina la frase risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 4, 7, 5, 10)
ORIZZONTALI 1. La conduttrice D’Eusanio 4. Luogo di una famosa battaglia detta anche delle Echinadi 10. Abbreviazione ecclesiastica 11. Reparto d’Investigazione Scientifica 12. Splende in tubi di vetro 13. Le iniziali della ballerina Titova 14. Un albero nel frutteto 15. Congiunzione tedesca 16. Sommando i… quattro venti 18. Se le dà lo spocchioso 19. Vi si svolgevano antiche gare 20. Primo cardinale 22. Può scandalizzare 23. Pizzo 25. Strumenti musicali
Scopo del gioco
Completare lo schema classico (81 caselle, 9 blocchi, 9 righe per 9 colonne) in modo che ogni colonna, ogni riga e ogni blocco contenga tutti i numeri da 1 a 9, nessuno escluso e senza ripetizioni.
27. Contrapposta alla teoria 29. Lamenti, pianti 30. Il nome della Perego 31. In lista dopo la prima 32. L’attore Zingaretti 34. Timorati di Dio 35. Composizioni poetiche 36. L’antica città greca dei giochi 37. Non è reato ammazzarla VERTICALI 1. Bagna Firenze 2. Un Enrico politico italiano 3. 505 romani 4. Elenco 5. Boccone fatale 6. Un anno a Parigi
7. Cellule nervose 8. Possono essere offensivi 9. Il Luciano di Medicina 33 11. Nel Nord America si chiamano caribù 14. Un piccolo centro 17. Paralleli della sfera terrestre 18. Nome femminile 20. Dividono l’Europa dall’Asia 21. Germoglio, pollone 23. Cadde... per un cavallo di legno 24. Reagiscono con le basi 26. L’attore Bova 27. Vescovi di Roma 28. Un Continente 33. Le iniziali dell’attrice Mastronardi 35. Una coppia di anelli
Soluzione della settimana precedente
W il cioccolato! – resto della frase: … previene le malattie cardiovascolari
per quell’evitabile rimessa dal fondo voluta forse per guadagnare tempo, mentre sul fronte avanzato Seferovic reclamava palla con un lancio tempestivo, per tentare un affondo risolutore; e infine imprecavo con il tecnico Hitzfeld, per aver mandato in campo Dzemaili soltanto negli ultimi spiccioli di partita. Tutto ciò mentre avrei dovuto prima di tutto rendere omaggio ai «nostri», a cominciare da Ricardo Rodriguez, alzandomi in piedi per spremere semmai quella lacrima che altre volte, anche per questioni minori, era caduta invece spontaneamente. Mi faceva rabbia pensare che mentre tutti piangevano io fossi rimasto lì a cercare di decifrare l’ultimo urlo, gutturale, dell’amico Armando, il telecronista che ha fatto vibrare ancor di più il popolo ticinese nelle piazze, nei locali pubblici o nei salotti di casa. Chissà se egli pensava intanto a una squadra unica per il nostro cantone, paragonabile a quella schierata da Hitzfeld, naturalmente con doverosi cambiamenti? Dimentichiamo allora la partitaccia contro la Francia e ricordiamoci di alcuni begli episodi come la vittoria in extremis sull’Ecuador, o la tripletta di Shaqiri contro l’Honduras. Battiamo le mani a tutti questi ragazzi, sperando che ci sia da piangere in altro modo la prossima volta. Intanto suona il telefono. È lei, donna Michelle, la «pasionaria del tennis», rimasta a casa con la governante Victoria. L’ordine è perentorio: «Vieni a sostenere Federer. Ora o mai più. Mi spiace per Wawrinka, che a Wimbledon potrà vincere nei prossimi anni, ma questo Roger merita tutto il nostro sostegno. Basta con il calcio: la Svizzera è stata eliminata. O no?». Quasi quasi scoppio a piangere pure io. Per la Svizzera? No. Per il derby crudele fra Roger e Stan? Macché. Per donna Michelle? Ecco, proprio per lei. Era da un po’ che non la vedevo, e così mi sono commosso. Capita anche ai vecchi tifosi.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 7 luglio 2014 ¶ N. 28
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Politica e Economia Linee-guida europee I 28 riuniti la scorsa settimana in Belgio definiscono il piano quinquennale di crescita
Un Paese allo specchio Salvador de Bahia, cuore coloniale e povero del Brasile, è anche una delle sedi del Mondiale: 5. e ultima parte della serie dedicata al grande Paese sudamericano
Milano poco meneghina Il 40 per cento delle attività commerciali della città sono in mano a stranieri
Aiutare per compensare Intervista a Peter Niggli, direttore di Alliance Sud, sull’aiuto allo sviluppo elvetico
Più crescita, meno austerity
Vertice Ue Si è svolto a Ypres, in Belgio, luogo simbolo della Grande Guerra: fissato il programma per i prossimi
cinque anni centrato sulla crescita, e designato il nuovo presidente della Commissione
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largamento ai Paesi dell’Europa centrale ed orientale, convinta che un numero elevato di Paesi membri avrebbe frenato ogni progresso verso l’Europa federale. Non ha aderito al trattato di Schengen e non ha adottato l’euro. Londra ha sempre voluto e vuole che il Continente europeo rimanga una vasta zona di libero scambio. È una posizione che non trova molti consensi in Europa e che meriterebbe di essere finalmente chiarita. Cameron ha promesso ai britannici un referendum sull’appartenenza all’Unione europea nel 2017, se sarà ancora primo ministro. Forse, sarebbe saggio anticipare la data del referendum, in modo da consentire alla Gran Bretagna di scegliere il suo futuro e all’Europa di progredire nel suo progetto federale con i Paesi che hanno veramente interesse e che desiderano orientarsi in questa direzione. Dopo aver designato Juncker, il Consiglio europeo ha definito un pacchetto di linee direttive che dovranno caratterizzare la politica europea nei prossimi cinque anni. Viene data molta importanza alla creazione dei posti di lavoro, alla promozione della crescita, all’aumento degli investimenti ed al miglioramento della capacità concorrenziale. Vien assunto l’impegno di allen-
tare l’austerità a vantaggio della crescita, finalizzando così uno slogan che era in vigore da almeno due anni, da quando François Hollande giunse all’Eliseo e dando ascolto ai governi dei Paesi più colpiti dalla crisi economica. L’austerità verrà alleggerita senza cambiare le regole esistenti, bensì cercando di sfruttare meglio il margine di manovra, la flessibilità che esse consentono. In altre parole, il Patto di stabilità e di crescita, che fissa al 3% il rapporto tra il deficit ed il Pil ed al 60% il rapporto tra il debito complessivo ed il Pil, rimane invariato. La stessa cosa vale per il Fiscal Compact che prevede l’introduzione del pareggio di bilancio e l’obbligo per i Paesi con un rapporto tra debito e Pil superiore al 60%, di ridurre il rapporto di almeno 1/20esimo all’anno, per raggiungere quella cifra considerata «sana» del 60%. Quando, però, un governo lo riterrà necessario, può chiedere tempi più lunghi di quelli previsti dagli accordi per rientrare nei parametri di Maastricht e per ridurre il debito, senza dover mettere a repentaglio la propria economia. Toccherà alla nuova commissione, che sarà operativa a partire da novembre, decidere in merito. Nella sua valutazione entreranno in considerazione le misure economiche già adottate e, soprattutto, le riforme strutturali avviate, realizzate, o dimenticate dal governo richiedente. In sintesi: la disciplina di bilancio rimane la regola, ma la riduzione degli squilibri potrà usufruire di tempi più lunghi di quelli concessi fin ora. I capi di stato e di governo si ritroveranno il 16 luglio, per un altro vertice, durante il quale verranno decise altre tre nomine importanti. Il presidente del Consiglio europeo che subentrerà a Herman Van Rompuy, l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, che prenderà il posto di Catherine Ashton, ed il presidente dell’Eurogruppo. Le nuove autorità europee verranno poi completate con la nomina dei commissari, uno per ciascun Paese membro. Una scelta lasciata ai singoli governi, ma sulla quale l’europarlamento esercita un diritto di veto.
bia sparso lacrime quando nel 1967 si diffuse la notizia che i militari del Governo boliviano avevano fatto fuori Che Guevara, impedendo così che, sull’esempio di Cuba, divampasse una rivolta globale di contadini in tutta l’America Latina. Come è emerso diverse volte durante il nostro incontro e le nostre chiacchierate nei giorni passati con lui, don Timoteo non si è mai astenuto dall’ammettere di aver affrontato e superato i momenti peggiori della sua tribolata esistenza grazie anche a «un profondo sentimento religioso». Chi gli è stato vicino,
racconta di averlo sorpreso, la mattina di domenica, mentre ascoltava sulla radiolina la messa della Cattedrale di San Francesco di La Paz. Inoltre nessuno dimentica di sottolineare un’altra sua virtù: quella della frugalità. La testimonianza dei pochi che sono stati alla sua mensa è che si nutre di foglie di coca, «come fanno molti da queste parti, per combattere la fame e la stanchezza: e non dimentica i riti ancestrali della sua gente seminando le stesse foglie alla Pacha Mama, la Madre Terra, negli strapiombi della curva del Diablo…».
Marzio Rigonalli
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Palestinesi reagiscono all’uccisione del tredicenne da parte dei militari israeliani. (AFP)
Fine dell’idillio (anche se era finto)
Medio Oriente La grave tensione fra Israele e palestinesi esplosa dopo il rapimento e l’assassinio di tre ragazzi ebrei
scuote la calma che regnava dopo la Seconda Intifada. Ma è ancora prematuro parlare di nuova insurrezione
Lucio Caracciolo In Cisgiordania e a Gerusalemme Est i fragili equilibri che negli ultimi anni sembravano garantire la pace sono seriamente minacciati. Dopo il rapimento e l’assassinio di tre ragazzi israeliani, attribuiti dal governo di Bibi Netanyahu a militanti di Hamas, e le rappresaglie contro loro coetanei palestinesi culminate nella cattura e nell’uccisione di un giovane arabo a Gerusalemme Est, è lecito domandarsi se la Terza Intifada sia dietro l’angolo. Troppo presto per dare una risposta univoca, ma una vera e propria insurrezione nei Territori occupati non pare imminente. Di sicuro però la relativa calma che regnava dopo la fine della Seconda Intifada (2001-2004) è scossa. Gli interessi tattici di israeliani e palestinesi, fino a ieri sufficientemente affini da evitare un bagno di sangue, oggi lo sono meno. Conviene dunque mettere a confronto le rispettive percezioni della contingenza geopolitica per tentare di tracciare una previsione di breve periodo. Per Israele la questione palestinese è chiusa. Quanto meno in senso stra-
tegico. Non ci sarà un vero Stato palestinese, anche se Netanyahu continua a dichiararsi disponibile a tale soluzione: a ben guardare, però, quella che lui definisce futura Palestina è in realtà una dépendance dello Stato ebraico, segmentata in cento mini-territori, vigilata da truppe israeliane che comunque controllerebbero la valle del Giordano onde tenere ben divisi i palestinesi della Cisgiordania da quelli della Transgiordania (l’attuale regno hashemita di Giordania). Gerusalemme continua a espandere i suoi insediamenti in Giudea e Samaria (Cisgiordania) e nei quartieri Est (arabi) della città che considera sua capitale eterna e indivisibile. Tollera l’amministrazione palestinese di Abu Mazen solo quale prolungamento del suo regime di occupazione, come un’entità di fatto «collaborazionista», tenuta in piedi soprattutto grazie ai finanziamenti europei e americani. Per il resto, Netanyahu si dedica a ben altre priorità, tra cui su tutte il contenimento della minaccia iraniana, percepita esiziale. Per i palestinesi il regime di non spontanea coabitazione sotto Israele
nei Territori occupati non ha per ora alternative, stanti i rapporti di forza e la verificata lontananza dei «fratelli» arabi dalla loro causa. Ma Abu Mazen e associati non possono rinunciare alla prospettiva della Palestina indipendente, sia pure su una frazione del territorio storico che essi continuano a considerare la propria patria, illegittimamente sequestrata da Israele. Fino a ieri, l’Autorità palestinese sembrava contentarsi di gesticolazioni e dei peraltro vacui tentativi di mediazione americani, nei quali il segretario di Stato Kerry aveva investito senza successo molto del suo prestigio personale. E che restano oggi più che mai senza sbocco. Mentre i negoziati ristagnano la crisi si inasprisce. Di recente, poi, l’accordo fra gli uomini di Fatah e quelli di Hamas, destinato a riunificare il fronte palestinese, ha cambiato il quadro geopolitico. La leadership di Hamas, confinata a Gaza, continua infatti a respingere l’idea del compromesso con lo Stato ebraico, che formalmente considera un’entità da distruggere. Per Netanyahu è dunque anatema conce-
pire un qualsiasi tipo di trattativa con un’Autorità palestinese che conglobi anche i «terroristi» di Hamas. È naturale che in tale doppia ma simile dinamica siano gli estremisti a guadagnarne, su entrambi i fronti. Ma nessuno di loro ha in mano la «pallottola d’argento», la soluzione magica. I palestinesi non hanno gran voglia di riesporsi al «martirio» implicito in una Terza Intifada. Gli israeliani non intendono spendere troppo tempo, risorse e uomini contro i palestinesi. Ma l’irrigidimento fra Netanyahu e l’Autorità palestinese segna la fine di quella che un acuto analista, Noam Sheizaf, ha definito la cheap occupation, l’occupazione a buon prezzo. Un palestinese di spirito ha bollato quel rapporto come room service occupation, nella quale la collaborazione fra governo israeliano e para-governo palestinese si spingeva al punto che se Gerusalemme chiedeva la testa di un sospetto terrorista palestinese, bastava telefonare al quartier generale di Abu Mazen e questi glielo avrebbe consegnato. Il picco del finto idillio si toccò nel 2012, quando non si contò nemmeno
una vittima israeliana in Cisgiordania. Quella fase è finita con il rapimento e l’assassinio di tre giovani studenti ebrei di una scuola religiosa e con le parallele rappresaglie israeliane. E se per ora fra i palestinesi non tira aria di Terza Intifada, non vuol dire che nei prossimi mesi la situazione sarà calma. Già prima del rapimento dei tre ragazzi israeliani c’era stato un aumento degli atti di violenza da parte palestinese, sia in Cisgiordania (lanci di sassi e Molotov contro la polizia) che a Gaza (razzi sparacchiati contro villaggi dell’Israele meridionale). Il governo israeliano è diviso su come reagire. I «falchi» sono stati finora tenuti a bada da Netanyahu. Il premier cerca di trarre il massimo profitto diplomatico dalla crisi senza scatenare una guerra. Quanto a lungo potrà prevalere il suo pragmatismo, se le violenze non si placheranno? E viceversa, difficile immaginare che l’Autorità palestinese possa tenere sotto controllo i suoi estremisti. Un grande punto interrogativo spicca su quelle terre contese, per le quali non si troverà probabilmente mai un assetto stabile.
L’Europa dei piccoli passi si è di nuovo imposta al recente vertice di Ypres, città martire della Prima guerra mondiale, situata nelle Fiandre occidentali. Dopo l’avanzata degli euroscettici alle elezioni europee del 25 maggio, era attesa una reazione forte, capace di togliere argomenti agli avversari della costruzione europea, nonché di convincere sulla futura rotta che i leader dell’Unione europea intendono seguire. La reazione c’è stata, ma è risultata decisamente inferiore alle attese. Due sono i principali punti emersi: la designazione del nuovo presidente della Commissione ed un alleggerimento della politica di austerità che è stata applicata negli ultimi anni. Come successore del portoghese José Manuel Barroso è stato chiamato il lussemburghese Jean-Claude Juncker. La sua nomina deve essere ancora confermata il prossimo 16 luglio dal nuovo europarlamento, ma tutto indica che dovrebbe trattarsi soltanto di una formalità. Juncker è un veterano della costruzione europea. È stato capo del governo lussemburghese per ben 18 anni e già nel 1995 partecipò per la prima volta a una seduta del Consiglio europeo. Ha, quindi, una vasta esperienza delle riunioni a livello europeo. È stato anche, per ben 8 anni, presidente dell’Eurogruppo, organismo che riunisce i ministri delle finanze dei Paesi che hanno adottato la moneta unica. Proviene da un Paese piccolo, situato tra la Francia e la Germania, di cui condivide le lingue e le culture. Il Lussemburgo è un po’ il trait d’union tra due Stati, senza il cui consenso niente d’importante avviene nel processo d’integrazione europea. Di lui, si dice volentieri che sia molto abile a mediare ed a trovare compromessi. Non mancano, però, gli osservatori e i politici che vedono in lui il simbolo della vecchia Europa, un leader che non porta alcuna novità, in un momento in cui ce ne sarebbe bisogno. Altri, invece, vedono in lui un garante della stabilità, necessario in questa delicata fase per l’Unione europea, esposta al fuoco continuo dei suoi nemi-
I 28 a Ypres durante la cerimonia per il centenario della Grande Guerra. (Keystone)
ci. Juncker diventerà il terzo presidente lussemburghese della Commissione europea, dopo Gaston Thorn (1981-1984) e Jacques Santer (1995-1999). La designazione di Juncker ha avuto due retroscena. Il primo si è manifestato all’interno delle istituzioni europee, nei rapporti tra il Consiglio ed il Parlamento; il secondo ha avuto come fulcro le relazioni tra l’Ue e la Gran Bretagna. Appoggiandosi sul trattato di Lisbona, i principali gruppi europarlamentari, i popolari ed i socialisti, avevano designato un loro candidato alla presidenza della Commissione, Jean-Claude Juncker per i primi e Martin Schulz per i secondi, e avevano convenuto che il posto spettava al candidato del gruppo che avrebbe avuto i maggiori consensi elettorali. L’iniziativa riduceva drasticamente la libertà di scelta di cui godevano i capi di stato e di governo. All’inizio, il Consiglio europeo si mostrò contrario, ma poi si rassegnò, visto l’impatto politico che la vicenda aveva assunto, anche sull’opinione pubblica. Il Consiglio, quindi, ha accettato di designare il candidato del partito che aveva ottenuto più voti, evitando così un possibile conflitto istituzionale con il Parlamento. Lo ha fatto a maggioranza, con 26 voti favorevoli
e due contrari, la Gran Bretagna e l’Ungheria. È un cambiamento non trascurabile all’interno dell’Unione, perché i futuri presidenti della Commissione non verranno più scelti in virtù di un accordo tra i capi di stato e di governo, ma sulla base del risultato delle elezioni al Parlamento. La distanza tra i cittadini ed il presidente della Commissione viene così ridotta. Le relazioni con la Gran Bretagna hanno registrato un ulteriore peggioramento. Il primo ministro David Cameron si è schierato sin dall’inizio contrario alla candidatura Juncker. Lo ha fatto con numerose prese di posizione pubbliche e tentando di trovare alleati sul Continente. Ha invocato la necessità di scegliere un leader in grado di garantire le riforme necessarie per snellire l’Unione europea, ma in realtà si è opposto al candidato lussemburghese, perché vedeva in lui un federalista che vuole continuare sulla strada percorsa fin qui. Cameron ha perso la sua battaglia e si è ritrovato praticamente solo, con l’unico supporto del primo ministro ungherese, Viktor Orban. La Gran Bretagna è sempre stata contraria all’integrazione europea. Ha aderito alla Comunità per ragioni meramente economiche ed ha approvato l’al-
Don Timoteo Apaza, l’uomo semaforo Storie di viaggio Regola il traffico sulla Curva del Diablo in Bolivia Ettore Mo/foto Luigi Baldelli Si riparava sotto un telo di plastica verde lungo la Carrettera de la Muerte e nel tratto più pericoloso, biblicamente definito la Curva del Diablo: ed è proprio lì che ebbe luogo il mio primo incontro con don Timoteo Apaza, l’uomo semaforo. Munito di due grandi racchette, una verde e una rossa, il suo compito era di agevolare il traffico – in salita come in discesa – degli automezzi (camion, corriere, minibus, trattori e jeep) che salivano verso Coroico, dove le vette più alte trafiggono il cielo. «Mestiere – confidava – intrapreso nel giugno del ’92, quando una corriera con 40 passeggeri a bordo precipitò in fondo a un baratro e ci furono otto morti, Ma il lutto più grave risale all’estate del ’94, quando in pochi mesi, 26 veicoli finirono nei burroni della Carrettera de la Muerte, fino a 200 metri di profondità».
Separato dalla moglie e dai figli che si erano trasferiti a Potosì, a casa della madre, Don Timoteo abitava solo nel villaggio di Yolosa, una manciata di casupole rannicchiate sul fondovalle. Ma non sembrava triste. Era allenato alle tragedie, orfano dall’infanzia, aveva raggiunto anzitempo la maturità. Un’infanzia amara, la sua, una favola triste. «Fino a sette anni – raccontava – sono stato a casa di una signora che era vedova e aveva un sacco di figli. Mi trattava male, da matrigna, mi faceva lavorare e non mi mandava a scuola. Lavavo i piatti e anche i pavimenti. Insomma ero il cenerentolo, il brutto anatroccolo. Poi ho fatto il minatore, dai 14 ai 16 anni, cercando l’oro nei fiumi senza mai trovarlo». A Yolosa, quasi tutte le case sono tiendas, cioè negozietti che espongono merce di ogni genere, le facciate dipinte in un tenue azzurro. L’abitazione dell’uomo-semaforo, contrassegnata
dal numero 45, è attigua al locale abitato da uno «splendore di ragazza» che si chiama Maria, la grande massa di capelli neri ondeggianti sulle spalle e, senza sprechi, tutto il sorriso della giovinezza. L’impegno del semaforo-umano tiene occupato don Timoteo dalle otto e mezza del mattino fino alle sei e mezzo di sera, sempre lì inchiodato sulla Curva del Diavolo. Non percepisce nessun salario né alcun tipo di compenso. Vive solo con le mance (pochi Bolivianos) che gli autisti dei camion in transito sulla carrettera gli fanno scivolare sulle racchette e che alla fine gli consentono di farsi uno spuntino in qualche bettola. Non è un uomo incline alle confidenze, don Timoteo Apaza, e non ama parlare delle sue affiliazioni politiche, ma porta in testa un berrettino con le iniziali maiuscole «MBL» - Movimento Bolivia Libre -, partito decisamente di destra. Ammette di essere un vecchio conservatore ed è probabile che non ab-
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Politica e Economia
All’ombra di santi e colonnelli Un Paese allo specchio Salvador de
Bahia, città coloniale del Brasile e bacino (poverissimo) di voti per Dilma Rousseff, è anche una delle sedi del Mondiale – 5. e ultima parte Angela Nocioni Bahia «de todos os santos», di molti miracoli e di un solo colonnello, ha una nuova devota. Se la presidente Dilma Rousseff, minacciata dalle proteste di piazza e dalle favelas in rivolta, può ancora guardare serenamente alle elezioni di ottobre per il rinnovo del mandato, lo deve in buona parte allo sterminato bacino di voti sicuri nel nordest brasiliano. Il miracolo è opera dei discendenti degli schiavi portati qui dall’Africa, quegli elettori poveri e neri che popolano le statistiche sui maggiori indici di miseria del Paese e che hanno regalato al governo del partito dei lavoratori (pt) percentuali di preferenza in alcune zone superiori all’80%. Bahia è terra di antichi latifondi e vecchie mafie. I padroni del sertão, delle grandi distese dove un tempo si coltivava cacao e dove ora fanno capolino tra le palme le lamiere ondulate delle fabbriche di materiale edilizio, sono anche i padroni del potere politico locale. E delle autostrade, delle farmacie, delle tv, delle scuole private, di tutti i palazzi affittati dalle istituzioni pubbliche.
Più potente di tutti, anche del Partito dei lavoratori, è la famiglia Magalhaes, proprietaria di buona parte dello stato di Bahia, terra di antichi latifondi e vecchie mafie Più potente di tutti, proprietaria di buona parte dello Stato di Bahia, è la famiglia Magalhaes, prosperata sotto l’ombra del colonnello padrino di Bahia Antonio Carlos Magalhaes, morto in una clinica di San Paolo nel 2007 e noto dentro e fuori il Brasile, semplicemente come ACM. L’ultimogenito Antonio Carlos Magalhaes neto (ossia nipote) è l’attuale sindaco di Salvador. Ha ereditato tutto dal nonno che è stato tre volte governatore, una volta sindaco, quattro volte deputato, una volta ministro e due volte senatore. È stato anche presidente del Senato e protagonista di una lunga serie di scandali. Una volta l’hanno sorpreso mentre manometteva il tabellone delle votazioni. Proprietario di una tv, un giornale e una radio. Padrone della più potente arma propagandistica locale, tv Bahia, affiliata alla rete di O Globo. L’impero di
Antonio Carlos Magalhaes ACM, ereditato prima dal figlio e ora dal nipote, si estende su tutta la periferia industriale di Salvador, un piccolo inferno cresciuto a dismisura a pochi passi dalle spiagge bianche dei surfisti. Verso il mare i grandi cancelli della villeggiatura dei ricchi di San Paolo, case basse e pareti di rampicanti in fiore, dall’altra parte i capannoni dell’indotto dell’industria dell’auto e tutt’intorno le casupole senza intonaco dell’esercito di immigrati che dalle campagne si è riversato a Salvador. La famiglia Magalhaes ha deciso tutta la vita pubblica di Bahia dell’ultimo secolo. ACM aveva cariche pubbliche durante la dittatura, finita nell’85, e ha continuato ad averne con il ritorno della democrazia. È stato alleato dell’ex presidente socialdemocratico Fernardo Hernique Cardoso, come prima lo fu dei militari. Ha studiato da medico, ma voleva fare il giornalista. Fu così che si comprò il suo primo quotidiano, «Correio da Bahia», e finì per pubblicarsi da solo due libri comprando la casa editrice che avrebbe dovuto editarli: «Não era fácil ser revolucionário» (non è facile essere rivoluzionario) e «Meu compromisso com o Nordeste» (il mio impegno nel nordest). La politica, però, gli è sempre riuscita meglio dei libri. Vecchio colonnello del gruppo Arena (Aliança renovadora nacional), partito puntello del governo militare, contribuì alla fondazione del partito del fronte liberale (Pfl), che ora ha cambiato nome e si chiama partito democratico. Durante il primo mandato da governatore, dal 71 al 75, fece di Salvador il polo turistico che consacrò la città tra le principali mete di viaggio del Brasile, con creazione del relativo indotto. Dopo aver stanziato finanziamenti per un grosso pacchetto di opere pubbliche ebbe l’idea grandiosa: far risorgere a nuova vita il Pelourinho, il centro storico di Salvador, gioiello coloniale celebrato dai romanzi di Jorge Amado. Fu la consacrazione definitiva del suo nome. L’antico padrone si conquistò così l’appoggio grato dei bahiani, compresi i rasta, gli Odum, i capoeristi, i sambisti, gli afroreligiosi tutti. Antonio Carlos Magalhaes aveva una figlia adorata, Ana Lucia. Direttrice del «Correio de Bahia». A 28 anni si è sparata alla testa. Il principale erede politico era il figlio Luis Eduardo. Secondo i piani del papà avrebbe dovuto candidarsi alla presidenza della Repubblica finita l’era Cardoso. Invece morì di infarto, nel 98, facendo jogging. A lui sono intitolati una città e l’aeroporto di Salvador, come fosse un eroe nazionale. Nella strada
Uno scorcio della città coloniale di Salvador de Bahia. (Keystone)
principale che esce dalla capitale è stato eretto un busto in suo onore. Suo padre andava di notte in pellegrinaggio a parlare alla statua. Il vecchio Antonio dal lunedì al venerdì a Brasilia amministrava la «cosa pubblica» come fosse roba sua. Dal venerdì alla domenica lasciava invece, da antico colonnello, che fuori dalla porta del suo ufficio, a Salvador, si accalcasse una folla festosa con il cappello in mano. Povera gente venuta a chiedere favori, protezione, giustizia. Lui faceva ricevere tutti dai suoi segretari. Prometteva e spesso manteneva, alimentando così la leggenda del vecchio padrone tiranno e generoso. Il 4 settembre, giorno del suo compleanno le campane delle chiese di Salvador suonano ancora a festa. Per anni, quel giorno, ACM si è fatto portare una poltrona nella piazza principale verso le otto di mattina per poi sedersi lì e lasciare che i suoi fedeli si mettessero in fila per baciargli la mano. L’impero Magalhaes ha una rete tentacolare di poteri appaltati ad altre famiglie asservite e influenti. Una è quella dei Carneiro. Clan indissolvibile con tentacoli in tutti i partiti che contano. Il patriarca si chiama João Durval Carneiro, ex governatore. Il figlio João Henrique e la nuora, Maria Luz sono stati eletti nel parlamento locale dello stato di Bahia con il partito democratico del lavoro. Il primogenito, Sergio Carneiro, sta nel Pt (a dimostrazione che nessun partito è impermeabile alla mafia di famiglia nel nordest), deputato federale. Anche il più piccolo del clan Carneiro si è trovato un posticino. All’assemblea legislativa, insieme alla cognata Maria Luz di cui è stato in campagna elettorale virtualmente contrapposto. Ce l’hanno fatta tutti e due, così come ce l’ha fatta il cognato del
vecchio João Henrique, eletto deputato federale del pdt. Ogni pranzo di famiglia è un festival di cariche pubbliche. Poi c’è il gruppo dei Lomanto. Leur Antonio de Brito Lomanto, trentenne, diplomato all’istituto alberghiero, è stato eletto per il Partito del movimento democratico brasiliano del lavoro all’assemblea legislativa dello Stato. Lo sostengono il papà, Leur Lomanto senior, deputato federale per sette mandati consecutivi, e il nonno, ex governatore. Il suo slogan ad ogni elezione è uguale a quello del nonno «Lomanto esperança do povo», (speranza del popolo) seguito da quello del padre della campagna del 1983 «Gente nova, sangue novo». È in questo nordest poverissimo, prosciugato dalla mafia dei colonnelli, che il partito dei lavoratori ha il suo zoccolo duro di voti per il governo federale. L’ex presidente Lula da Silva ha spesso voluto iniziare simbolicamente qui la sua campagna elettorale. È stato lui ad insegnare a Dilma Rousseff come, dopo aver baciato i bambini, abbracciato i vecchi, ricevuto sorrisi, amuleti, benedizioni e stregonerie varie, si deve soffiare sul fuoco dell’orgoglio nordestino perché si trasformi in una valanga di voti. «L’oligarchia di San Paolo ha votato contro il popolo. Ma chi l’ha fatta la ricchezza di San Paolo? La gente del nordest è stata» dicono sempre i candidati lulisti chiudendo i comizi a Salvador. E giù applausi. Il Pt di Lula e Dilma, più volte salvati nelle elezioni dalle percentuali bulgare raccolte nel nordest mentre le grandi metropoli brasiliane voltavano loro le spalle, sa quanto deve alla base bahiana del partito, conquistata a forza di programmi sociali che negli ultimi dieci anni hanno distribuito denaro e assistenza in maniera diffusa in tutto il
Paese, ma soprattutto tra i poverissimi di Bahia. Denaro e cibo in cambio della garanzia di scolarizzazione dei bambini. Solo nel piano Borsa famiglia (alimentazione minima garantita, buono da 30 dollari), sono coinvolti 11 milioni di nuclei familiari, circa 40 milioni di persone. Novanta reais al mese per figlio, Bahia è il primo Stato che ha goduto del programma che ha portato l’energia elettrica a 91 mila famiglie senza luce, cento nuove scuole e assistenza medica di base. Certo, non è tutto oro quel che luccica e dietro a quei programmi c’è un antico sistema di elargizione di elemosina di Stato che di solito a ridosso della campagna elettorale funziona. E infatti ha funzionato. Il programma Fame zero ha unificato e coordinato una trentina di piani di assistenza federali ai più poveri. E ha ridistribuito per mano governativa 4700 milioni di euro di media all’anno. Lo scavalcamento del sistema feudale del clan nordestino da parte del Pt, è stata una vittoria dovuta alla riuscita della politica di assistenza agli indigenti che ha spezzato il blocco di interessi al governo del nordest dalla seconda metà degli anni Cinquanta. Non è piccola cosa per il Pt aver sconfitto nell’urna l’idea della modernizzazione conservatrice del Brasile secondo lo stile Magalhaes: sviluppo economico diretto da un’oligarchia contraria a ogni riforma sociale e basato sull’esercizio mafioso del potere. La famiglia Magalhaes continua però ad essere padrona di mezza Bahia. I suoi vassalli sono ancora lì, tutti al loro posto. E ogni bahiano in cerca di favori sa che a quelle antiche porte bisogna ancora bussare. Lo sa anche il Pt, che in piazza grida «l’impero è morto» , ma poi con grande discrezione chiede di essere ricevuto a casa Magalhaes. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
Milano vendesi Vecchi e nuovi proprietari Nella città meneghina attualmente il 40 per cento delle attività commerciali
è in mano a stranieri, anticipando di dieci anni ciò che accadrà nel resto della Penisola Alfio Caruso Di chi è Milano? Di tanti, ma non dei milanesi intesi come coloro che ci abitano, ci lavorano, ci votano. La società di calcio, che da sempre s’identifica con lo spirito imprenditoriale della città, l’Inter dei «bauscia», cioè della medio-alta borghesia meneghina, per distinguerla dal Milan dei «casciavit» (cacciavite), cioè dei proletari, è stata acquisita da un indonesiano, Erik Tohir. Suo padre Teddy è di sicuro un miliardario in dollari, lui finora se l’è cavata versando 75 milioni di euro alla famiglia Moratti e con i finanziamenti delle banche, alle quali sono stati conferiti in pegno asset della società nerazzurra. La pasticceria più famosa e più cara, Cova in via Monte Napoleone, è finita nel variegato portafoglio planetario di Bertrand Arnault (LVMH). Se volete un ritorno alle origini: la Confetteria era stata infatti fondata nel 1817 da Antonio Cova, soldato delle armate di Napoleone, che rientrato a casa si era messo a sfornare pasticcini. Aveva aperto il primo locale in galleria De Cristoforis nei pressi della Scala: lì è rimasto per un secolo abbondante, ha perfino superato indenne i bombardamenti del 1943, nel 1950 il trasferimento nella sede attuale. Anni addietro la stilista Mariuccia Prada aveva avanzato un’offerta, 12 milioni di euro, giudicata risibile dal titolare Mario Faccioli: «Per quella somma non cedo neppure una vetrina». Pare che Arnault abbia più che raddoppiato la cifra e lasciato una quota di rappresentanza a Paola e Daniela Faccioli, le figlie di Mario. In tal modo si è aggiudicato il salotto più conteso dentro il Quadrilatero della moda, la pasticceria di Hong Kong, inaugurata nel 1994, la diffusione dei prodotti Cova in Oriente, da Tokyo a Shanghai, su alcune navi da crociera e in apprezzati locali storici italiani. Attualmente oltre il 40% delle attività commerciali è in mano a stranieri, che magari sono stati così tenaci nel volersi adeguatamente inserire all’interno dell’ambiente di lavoro da imparare il dialetto milanese. La leadership nella ristorazione è araba o meglio egiziana. Gli chef più coccolati dei locali alla moda, gli autori dei risotti e delle pizze per i quali si fa la fila provengono quasi sempre dal Cairo, da Alessandria, a volte da Tunisi. Simbolo della svolta il Riad Yacut in via Cadore, uno dei cuori della movida, approdo della nuova borghesia arabo-meneghina. Velluti, damaschi, rifiniture in oro, al centro del locale una passerella di vetro con l’acqua sotto e in alto un fontanone a getto continuo, ai cui piedi la band giordana canta e suona tutta sera. Cinquanta euro per l’antipasto e una tazza di thè alla menta. I titolari di nuovi e vecchi patrimoni intercontinentali allungano le mani sulla città, dove per decenni l’unica eccezione erano stati i rivenditori cinesi arroccati attorno a via Sarpi, nel milanesissimo quartiere dell’Isola, vicino a Brera e alla napoleonica Arena.
A Milano Galleria Vittorio Emanuele. (Keystone)
Serrande aperte dall’alba a notte fonda, un’espansione continua dai negozi agli appartamenti fino alla conquista del quartiere oggi indicato come una delle principali Chinatown del Vecchio Continente. Non a caso l’Isola è il terminale di un progetto immobiliare destinato a cambiare il profilo cittadino: la residenza Porta Nuova-Garibaldi-Isola, un investimento superiore ai 2 miliardi di euro, le tre supertorri affidate ad altrettanti architetti di grido, Arata Isozaki, Daniel Libeskind, Zaha Hadid. Di questo gioiellino il fondo sovrano del Qatar, proprietario pure della maison Valentino, detiene il 40 %; il resto appartiene a una cordata capeggiata dalla filiale italiana del fondo statunitense Hines. I tedeschi di Allianz sono diventati gli alleati di Generali nei cantieri di Citylife abbandonati da Ligresti. La crisi di «don Salvatore», travolto dallo scandalo Fonsai, ha segnalato anche la crisi delle dinastie edili milanesi, dai Fossati Radice ai De Albertis, capaci di dominare la scena per un settantennio. Una categoria nella quale è a lungo rientrato lo stesso Berlusconi: la base delle sue fortune fu il mattone con Milano2 e Milano3. Sono stati sostituiti da Unipol delle cooperative rosse, da Beni Stabili di Del Vecchio, il patron di Luxottica, dalle società di Coppola, resuscitato dai vecchi guai giudiziari. D’altronde Milano si accaparra ben il 70% degli acquisti di appartamenti degli stranieri in Italia: nella
preferenza precede addirittura Vienna e Zurigo. Accanto ai vecchi stabili ottocenteschi, viene prediletto il supermoderno. Così si spiegano le tante iniziative in sboccio: oltre a Citylife, oltre a Porta Nuova-Garibaldi-Isola, palazzi e grattacieli, uffici e alloggi sorgeranno nell’ex area Falck di Sesto San Giovanni, a Santa Giulia Nord e Sud, a Porta Vittoria, in via Ripamonti. Offerte di ogni misura, dai 50 mq ai 300, prezzi per tutte le tasche: il mercato difatti guarda con somma attenzione agli extracomunitari già in possesso di quasi il 17% degli immobili. E nel novero, accanto a tanti salariati, il cui investimento medio mai supera i 100 mila euro, i paperoni russi e cinesi: uno di essi ha appena sborsato una quindicina di milioni per un attico super terrazzato. Le voci del Quadrilatero sostengono che sia alla ricerca di un’adeguata magione pure Zhu ChongYun, l’imprenditrice titolare della Shenzhen Marisfrolg Fashion, azienda leader sul mercato asiatico del prêt-à-porter di fascia alta. Ha appena concluso l’acquisizione di Krizia, il marchio creato all’inizio degli anni Cinquanta da Mariuccia Mandelli, ritiratasi alle soglie dei novant’anni. Mancano le cifre ufficiali, quelle ufficiose girano ben oltre il miliardo di euro. Dovrebbe, comunque, esserci la garanzia di una solida prosecuzione della griffe, non come sta accadendo al gruppo Ferré posto in liquidazione dalla Parigi Group. Sullo
sfondo, la preda più ambita di tutte, Armani: a ottant’anni è più vispo che mai, non manifesta l’intenzione di ritirarsi, tuttavia sono pronti i dossier degli operatori finanziari per una successione giudicata non lontana. Ha cambiato proprietà anche l’Hotel Gallia, citatissimo dalle guide per la posizione strategica, accanto alla Stazione centrale, per lo stile «Belle époque», per aver ospitato trent’anni di calcio mercato con le pittoresche conseguenze. Figura fra le mille proprietà di Tamin bin Hamad Al-Thani, l’emiro del Qatar, ancora lui, che è stato in trattative con Berlusconi per un ingresso nel Milan, prima di riversare le proprie attenzioni sul Paris Saint-Germain. Ma il vero interrogativo tra le aziende dell’ex capo del governo non riguarda la società di calcio, bensì Mediaset, la polpa dell’impero. A suggerire la necessità di un intervento esterno è lo stato dei conti, fiaccati dalla lunga crisi della pubblicità. Il candidato più probabile, quanto meno per una collaborazione iniziale, appare Murdock, felice dominatore del mercato della pay tv con Sky. L’invasione più penetrante e silenziosa avviene a piazza Affari, sede dello storico edificio della Borsa ridotto a reliquia dal web. D’italiano e quindi di milanese vi è rimasto ben poco. La stessa società Borsa di Milano ha fornito l’esempio nel 2007 accettando di essere incorporata dalla Borsa di Londra. A stringere la presa negli ultimi
mesi è stato il fondo americano Black Rock. Risulta proprietario di una quota superiore al 5% di Unicredit e Intesa SanPaolo, eredi dei due più importanti istituti milanesi, il Credito Italiano e soprattutto la Banca Commerciale. La vecchia e prestigiosa Comit ha scritto gran parte della storia finanziaria del Novecento italiano; dalle sue file provenivano importanti uomini politici, Giovanni Malagodi e Ugo La Malfa, e i due banchieri che per decenni hanno segnato le sorti dell’asfittico capitalismo casareccio, Raffaele Mattioli ed Enrico Cuccia. Pure il 5,7% di Monte dei Paschi di Siena è stato recentemente comprato da Black Rock, dando ulteriore sostanza alla campagna acquisti incominciata nel 2013: nel suo portafoglio compaiono titoli per quasi 16 miliardi di euro, i tre quarti dell’intera esposizione dei fondi americani in Italia. Alle quotazioni del momento significa possedere una quota assai sostanziosa dell’intero listino. I soci stranieri hanno ormai sopravanzato il peso delle storiche Fondazioni bancarie. Pesano e non poco i petrodollari con il fondo di Abu Dhabi, con ciò che resta della Banca Centrale Libica, con l’immancabile Al-Thani interessato ad acquistare tutto ciò che gli altri sono disposti a vendere. La cronaca insegna che Milano anticipa di dieci anni, nel bene e nel male, ciò che poi accade nel resto della Penisola. Non c’è da stare allegri. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
«È una compensazione sociale» Aiuto allo sviluppo Intervista a Peter Niggli, direttore di Alliance Sud, sull’evoluzione della cooperazione
allo sviluppo svizzera, sugli Obiettivi del millennio ONU, sulla nuova agenda globale e sul ruolo della Svizzera rio. È stato un meccanismo internazionale non vincolante, ma che ha funzionato molto bene. Per questo motivo, si tenterà di inserire un sistema analogo nell’Agenda post-2015, dichiarazione che succederà agli Obiettivi di sviluppo del millennio e in cui saranno definiti i prossimi traguardi nella cooperazione internazionale.
Luca Beti Nonostante gli enormi progressi e i successi ottenuti, una persona su otto va a letto ogni sera con la pancia vuota, un bambino su sei di età inferiore ai cinque anni è sottopeso e uno su quattro soffre di disturbi della crescita. Da oltre cinquant’anni la Direzione dello sviluppo e della cooperazione svizzera e numerose organizzazioni non governative si impegnano nei Paesi poveri nel tentativo di colmare il divario tra Stati del Nord e del Sud. Nonostante gli enormi sforzi profusi, sconfiggere la miseria sembra più che mai un traguardo irraggiungibile, quasi una chimera. «La riduzione della povertà nel mondo è un problema gigantesco», ci spiega Peter Niggli, direttore dal 1998 di Alliance Sud, comunità di lavoro delle ONG svizzere attive nell’ambito della cooperazione Swissaid, Sacrificio Quaresimale, Pane per tutti, Helvetas, Caritas e Aces. Incontrato nella sede centrale dell’associazione, Peter Niggli, in una chiacchierata ad ampio respiro, ci parla della sua visione dell’aiuto allo sviluppo e dei meccanismi che hanno trascinato i Paesi poveri verso il baratro sociale ed economico. «Nel 1982, molti Stati in America latina e in Africa sono precipitati nella cosiddetta crisi del debito. Dopo averli sommersi di prestiti negli anni Settanta, la Banca mondiale ha somministrato loro cure di cavallo, sotto forma di riforme strutturali che hanno favorito la depredazione delle risorse locali da parte delle compagnie multinazionali, invece di promuovere l’economia interna. Così, i Paesi del Sud sono piombati in una lunga depressione, madre di conflitti sociali e politici. In un contesto simile non ci può essere sviluppo. Ecco perché i progressi in molti Stati sono stati limitati, nonostante l’aiuto allo sviluppo». Un antico proverbio insegna di non dare un pesce a un povero, perché avrà da mangiare solo per un giorno, ma di insegnargli a pescare affinché mangi tutti i giorni. Questa massima è ancora valida nell’aiuto allo sviluppo?
È un’idea che si è fatta largo a livello internazionale dopo la fine della Seconda guerra mondiale, quando si prese coscienza del divario esistente tra Paesi del Nord e del Sud. Il primo a diffondere questo concetto è stato il presidente americano Harry Truman. A distanza di quasi 70 anni, questo pensiero è più che mai attuale. I vari programmi elvetici che conosco perseguono proprio tale obiettivo. Spesso lo raggiungono, a volte lo mancano parzialmente. Nonostante la sua disarmante semplicità, questa idea non è ancora riuscita a riempire la pancia all’intera popolazione mondiale: circa 800 milioni di persone continuano a soffrire la fame.
Non dobbiamo dimenticare che al mondo c’è una disparità abissale per quanto riguarda le opportunità concesse dalla vita a una persona. I nostri destini, il suo e il mio, sono stati determinati dal luogo geografico in cui siamo nati. Solo questo. Non sono stati il nostro impegno, le nostre capacità a portarci dove siamo adesso. Se fossimo nati in una discarica di Manila, la nostra vita avrebbe preso una piega ben diversa. Sono l’ambiente o le condizioni in cui le persone crescono e vivono a impedire loro di sfuggire alla povertà estrema o alla fame. Malgrado abbiano imparato a pescare. Per questo motivo, ritengo che i Paesi ricchi debbano aiutare quelli poveri e che la cooperazione allo sviluppo debba essere intesa come una sorta di compensazione sociale tra chi è nato a Zurigo e chi in una township in Sudafrica.
Quali obiettivi dovrà contenere l’Agenda post-2015?
In questo documento quadro saranno formulati dai 10 ai 15 obiettivi volti a favorire uno sviluppo mondiale sostenibile in settori dove si ritiene sia possibile ottenere dei progressi con le attuali conoscenze tecniche. Obiettivi probabili potrebbero essere una migliore gestione dell’acqua oppure l’annullamento della povertà estrema entro il 2030, come ha già comunicato la Banca mondiale. Con l’Agenda post2015, la comunità internazionale ha ora l’opportunità di definire un documento fondato sui diritti che concilino giustizia sociale, lotta contro la povertà e protezione dell’ambiente. Se da una parte c’è un ampio consenso sulla necessità di formulare un quadro di riferimento globale sullo sviluppo sostenibile, dall’altra non si può affermare che ci sia un’intesa sul suo finanziamento. Trovare una base comune a questo proposito sarà ben più difficile.
Peter Niggli, direttore di Alliance Sud: «La Svizzera versa 2,5 miliardi di franchi all’anno in aiuto ai Paesi del Sud; questi perdono ogni anno 5 miliardi di franchi, evasi al fisco e depositati nella banche svizzere». (Keystone) Una compensazione sociale costata alla Svizzera oltre 2 miliardi di franchi nel 2013. È una cifra che alcuni giudicano eccessiva. Come giustificare questo contributo in favore dell’aiuto allo sviluppo?
A questo proposito le propongo un piccolo calcolo. La Svizzera registra ogni anno un bilancio economico positivo con i Paesi in via di sviluppo di 20 miliardi di franchi. Secondo le nostre stime, gli Stati a Sud perdono annualmente circa 5 miliardi di franchi a causa del deposito su conti bancari in Svizzera di averi non dichiarati al fisco da parte di loro cittadini. Nel 2013, la Confederazione ha versato circa 2,5 miliardi di franchi in favore dell’aiuto allo sviluppo, ossia circa il 10 per cento della somma di bilancio economico ed evasione fiscale. È un calcolo noto a tutti, magari non in Svizzera, di sicuro però nei nostri Paesi partner. Oltre alla Svizzera, molti Stati investono nell’aiuto allo sviluppo…
Nel 2013, i Paesi industrializzati hanno previsto oltre 130 miliardi di dollari per l’aiuto allo sviluppo. Tuttavia, solo il 75-80 per cento di questi miliardi è stato davvero impiegato nei Paesi del Sud. Il resto serve per coprire i costi di transazione delle agenzie e altre spese che non hanno nulla a che vedere con l’aiuto allo sviluppo, come quelle legate alla gestione dei richiedenti l’asilo nel primo anno. In Svizzera, questa cifra raggiunge il 15-20 per cento del contributo annuo per l’aiuto allo sviluppo. Se i circa 100 miliardi di dollari venissero investiti solo nei Paesi fragili o meno avanzati, i progressi sarebbero davvero notevoli. Invece, questi fondi sono distribuiti a ventaglio. Molti Stati considerano l’aiuto allo sviluppo come una sorta di strumento della propria politica estera attraverso cui salvaguardare e promuovere gli interessi geopolitici ed economici. Essi investono in Paesi più sviluppati ed economicamente più interessanti, riducendo di riflesso i fondi per i Paesi che ne avrebbero davvero bisogno, per esempio, gli Stati dell’Africa, dove nel 2013 si è registrata una diminuzione dei contributi pari al 5,6 per cento rispetto all’anno precedente.
Al fine di concordare e definire le priorità dell’aiuto allo sviluppo, nel 2000 le Nazioni Unite hanno formulato otto obiettivi, i cosiddetti Obiettivi di sviluppo del millennio, che gli Stati membri dell’ONU si sono impegnati a raggiungere entro il 2015. Quale bilancio si può trarre da questo impegno comune?
Per una valutazione conclusiva dobbiamo attendere lo scadere di questi obiettivi. Tuttavia, si può affermare che il bilancio è a tinte chiaro-scure. A livello globale, alcuni traguardi sono stati quasi o completamente conseguiti, come il dimezzamento della povertà estrema. Questo obiettivo è stato raggiunto soprattutto grazie alla Cina, che a partire dagli anni Ottanta ha vissuto uno sviluppo economico eccezionale, favorito da una riforma agraria e da un’industrializzazione galoppante. Naturalmente, in molti Stati dell’Africa, la povertà estrema non è stata ridotta della metà. A prescindere dai singoli Stati, a livello globale si sono ottenuti dei progressi dal Duemila in poi?
Sì, la maggior parte dei Paesi ha fatto
dei progressi, senza raggiungere completamente gli Obiettivi del millennio. La cooperazione allo sviluppo ha svolto un ruolo importante, per esempio, per quanto riguarda una maggiore scolarizzazione nell’Africa nera o l’ampliamento dei sistemi sanitari o la lotta contro alcune malattie endemiche, come la malaria. Altrove, i risultati dell’impegno internazionale non sono altrettanto positivi. Nella riduzione della mortalità infantile non si sono registrati particolari passi avanti poiché non basta un semplice intervento chirurgico per migliorare la situazione; è necessario lo sviluppo di un intero sistema sanitario, che molto spesso è carente nei Paesi poveri. Un bilancio a tinte chiaro-scure, favorito da un inatteso meccanismo...
Sì, proprio così. Dopo aver sottoscritto la Dichiarazione delle Nazioni Unite, i Paesi donatori sono entrati in competizione tra di loro per quanto riguarda l’elargizione dei fondi destinati al raggiungimento degli Obiettivi del millennio. E anche i Paesi poveri hanno aumentato i contributi pubblici a favore della formazione e del sistema sanita-
Un simile documento sarà siglato soltanto se ci sarà un accordo su un sistema di compensazione economica. In sintesi, i Paesi ricchi dovranno essere disposti a sobbarcarsi buona parte degli oneri finanziari dell’Agenda per uno sviluppo sostenibile. In questo momento, le trattative sono rese particolarmente difficili dalla crisi finanziaria perché gli Stati industrializzati si sentono poveri. Inoltre, è in corso un acceso dibattito sulla necessità di coinvolgere l’economia privata in tale finanziamento. C’è chi sostiene che le attività di quest’ultima negli Stati del Sud potrebbero essere considerate un contributo in favore del raggiungimento degli obiettivi dell’agenda dello sviluppo. Questo è un argomento molto controverso. Quale sarà il ruolo della Svizzera?
La Svizzera si è già impegnata molto in vista della stesura di questo nuovo testo programmatico. Ha elaborato una presa di posizione in cui sono confluite le opinioni di ONG, personaggi politici, esponenti dell’economia privata, del mondo universitario e della ricerca. I principi di base presentati in questo documento sono condivisibili e sostenibili. Tuttavia, quella della Svizzera sarà una voce tra molte e non si ergerà sopra le altre nella formulazione dell’Agenda post-2015.
«Il tasso di natalità si riduce rafforzando il ruolo della donna» EcoPop. Non è il nome di un nuovo prodotto dell’industria alimentare, bensì l’acronimo di un’organizzazione ambientale «Ecologia e popolazione», creata nel 1971 per sensibilizzare la popolazione sui legami tra crescita demografica, sfruttamento delle risorse e peggioramento delle condizioni ambientali. Per raggiungere i suoi obiettivi, l’Associazione, che conta circa 1500 soci appartenenti a quasi tutti gli schieramenti politici, ha lanciato con successo nel maggio 2011 l’iniziativa popolare «Stop alla sovrappopolazione – sì alla conservazione delle basi naturali della vita», sulla quale l’elettorato elvetico dovrà esprimersi il 30 novembre di quest’anno. Il testo dell’iniziativa chiede che il saldo migratorio netto annuo – ri-
sultante dalla sottrazione tra immigrazione ed emigrazione – non superi lo 0,2 per cento della popolazione residente, ossia 16’000 persone. Inoltre, l’iniziativa «EcoPop» chiede che la Confederazione investa il 10 per cento dei fondi destinati alla cooperazione e allo sviluppo in favore della promozione della pianificazione familiare volontaria. Peter Niggli, direttore di Alliance Sud, ricorda che «solo con il rafforzamento del ruolo della donna, ossia sostenendo la formazione, il diritto sulla proprietà e la possibilità di conseguire un reddito, si favorisce una migliore pianificazione familiare. La riduzione della natalità si raggiunge non attraverso una migliore distribuzione di anticoncezionali, bensì gettando le basi, sociali e giuridiche, affinché anche la
donna abbia voce in capitolo sul proprio utero e non solo l’uomo. Da anni, la Svizzera investe ben oltre il 10 per cento nel miglioramento del livello di vita, nella formazione e, appunto, nel rafforzamento del ruolo della donna nei Paesi in via di sviluppo». «Il testo dell’iniziativa è fuorviante», continua Niggli. «Non è possibile salvaguardare l’ambiente con la politica demografica. Basta un semplice esempio per dimostrarlo. La popolazione dell’India dovrebbe quasi quadruplicarsi, ossia raggiungere i 4 miliardi, invece degli attuali 1,2 miliardi, per produrre gli stessi effetti sull’ambiente di 313 milioni di americani. Se volessimo davvero proteggere l’ambiente con la politica demografica, dovremmo ridurre drasticamente la popolazione nei Paesi ricchi». / LB
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 7 luglio 2014 ¶ N. 28
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Politica e Economia
Ipoteche convenienti grazie alla BCE La consulenza della Banca Migros
Albert Steck Nel blog della Banca Migros ho letto che i tassi ipotecari sono tornati sui minimi storici. Anche se come proprietario di un immobile non può che farmi piacere, ho una sensazione sgradevole: non dobbiamo tutto ciò alla politica monetaria estremamente espansiva in Europa?
Albert Steck è responsabile delle analisi di mercato e dei prodotti presso la Banca Migros
Prima di tutto, la somma che i proprietari di un’abitazione risparmiano grazie ai tassi bassi è davvero enorme. Attualmente i privati spendono circa 13 miliardi di franchi l’anno per gli interessi ipotecari. Rispetto al livello dei tassi del 2008 sborsano ben dieci miliardi di franchi in meno. Neppure gli inquilini rimangono a mani vuote: il tasso di riferimento determinante per gli affitti sarà presumibilmente rivisto ancora una volta al ribasso nei prossimi mesi. Secondo un detto popolare, a caval donato non si guarda in bocca. Ma noi lo facciamo comunque: i tassi bassi sono sostanzialmente ascrivibili a tre fattori. Cominciamo con quello più rassicurante, l’inflazione moderata. Come illustra il grafico, nel 2008 avevamo una pressione inflazionistica piuttosto forte di oltre il 2 percento, che ha spinto anche i tassi al rialzo. Attualmente l’inflazione è invece
vicina allo zero. Pure nella zona euro il caroprezzi è altrettanto contenuto, con lo 0,5 percento. La causa numero due è rappresentata dalle fiacche prospettive di crescita: in Svizzera godiamo di una congiuntura vigorosa, ma i Paesi industrializzati, soprattutto in Europa, devono prepararsi a tassi di crescita inferiori. I motivi sono da ricercare nell’abbattimento del debito e nell’andamento demografico.
I proprietari immobiliari potrebbero far fronte a un rialzo dei tassi
Tassi ipotecari ai minimi storici 4% Ipoteca fissa a 5 anni
3% 2% 1% 0% Tasso d’inflazione
-1% -2%
La terza causa è la politica monetaria. Che lo vogliamo o no, quello che decidono le banche centrali a Francoforte e a Washington si ripercuote direttamente sul nostro portamonete. Con il recente taglio dei tassi la Banca centrale europea (BCE) intende prima di tutto agevolare l’accesso al credito per le imprese del sud dell’Europa. Come effetto collaterale del suo operato, i prestiti immobiliari da noi diventano più convenienti. In altri termini, il nostro mercato ipotecario è in balía delle forze della politica monetaria globale? Per fortuna no, soprattutto grazie alle collaudate «regole d’oro del finanziamento», conosciute da noi in Svizzera. Un finanziamento
2006
2008
2010
2012
2014
Il tasso d’interesse dell’ipoteca fissa a cinque anni è sceso fino all’1,3 percento. Le cause sono da ricercare nella bassa inflazione, nelle fiacche prospettive di crescita e nella politica monetaria espansiva delle banche centrali.
ipotecario viene autorizzato solo se il cliente è in grado di affrontare anche un massiccio aumento dei tassi. Alla Banca Migros prevediamo per questo un tasso del 4,5 percento, sebbene i tassi attuali su molte ipoteche siano di poco superiori all’1 percento. Per risalire all’ultima volta che in Svizzera abbiamo assistito a
tassi superiori al 4,5 dobbiamo andare alla metà degli anni Novanta. A quei tempi la BCE non esisteva ancora. E nemmeno la «politica dei tassi zero». Attualità su https://blog.bancamigros. ch: Partecipate al gioco a premi – cerchiamo i più originali desideri di casa. Annuncio pubblicitario Parte di
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Politica e Economia
Un freno delle banche al credito ipotecario Mercato immobiliare Andando incontro ai timori delle autorità
politiche e di sorveglianza, Gli istituti svizzeri propongono di inasprire l’accesso al credito ipotecario, ma con piccoli palliativi
Ignazio Bonoli Da qualche tempo la Banca Nazionale Svizzera stava lanciando segnali d’allarme sulla bolla che caratterizza il mercato immobiliare svizzero. Poi – di tanto in tanto – l’allarme rientrava, poiché si constatava che l’eccesso di febbre immobiliare colpiva in pratica soltanto i grandi centri economici, in particolare le regioni di Zurigo e Ginevra. Negli ultimi mesi, dopo qualche timoroso accenno, non si sono più visti segni di rallentamento, per cui all’allarme della BNS si è aggiunto quello del Consiglio federale e dell’autorità di sorveglianza dei mercati finanziari (FINMA). La situazione non è però giudicata grave al punto da esigere drastici interventi delle autorità politiche. Le banche hanno però accolto l’invito a moderare l’attività del settore immobiliare, mediante qualche misura di freno. Hanno quindi deciso, lo scorso 24 giugno, di inasprire leggermente le misure di freno già adottate da qualche tempo sulla concessione di crediti ipotecari. Dall’estate 2012, le banche chiedono infatti un capitale proprio di almeno il 10% per poter ottenere un prestito ipotecario. In
pratica si tratterebbe ora di ridurre il periodo di ammortamento da 20 a 15 anni e di rivedere l’ammontare del debito da ammortizzare. Il rimborso deve inoltre avvenire per quote regolari. A prima vista non sembrano misure molto incisive, ma si distanziano notevolmente dalle abitudini di questi ultimi tempi, di concedere periodi di ammortamento molto lunghi o di lasciare al debitore la facoltà di rimborsare il debito a sua disposizione. Inoltre, dovrebbe essere possibile restituire totalmente il debito alla scadenza dei 20 anni, anche se abitualmente ciò non avviene. Queste misure hanno comunque l’effetto di ridurre il potenziale di nuovi debitori ipotecari. Infatti, l’ammortamento su 15 anni costringe il debitore a fare una valutazione precisa della sopportabilità del debito ipotecario, dal momento che deve rimborsare quote di debito maggiore. Queste misure interessano in particolare i giovani debitori ipotecari che in genere contano su periodi molto più lunghi per il rimborso del debito. In concreto, una persona di 35 anni, che accende un debito ipotecario, deve rimborsare i due terzi del debito totale entro
i 50 anni d’età e non i 55 anni. Finora, in Svizzera, si poteva considerare di rimborsare una seconda ipoteca (il terzo rimanente) entro il compimento dei 65 anni. Le banche, prima di concedere il credito, ne valutavano la sopportabilità, tenendo conto anche di un interesse calcolatorio del 5 o 5,5% e dei costi di manutenzione, di regola dell’1% del valore commerciale dell’immobile. Le banche sono state piuttosto largheggianti, sia nella concessione del credito ipotecario, sia nell’esigere l’ammortamento, in alcuni casi perfino rinunciandovi. Il periodo si prestava a questi atteggiamenti, da un lato perché i prezzi degli immobili erano in costante aumento e quindi miglioravano la garanzia del pegno, dall’altro perché il denaro abbondava e le prospettive di investimenti finanziari non erano molto attraenti. Il che non dimostra però ancora che le misure proposte possano produrre un sensibile rallentamento della costruzione. Ma un inasprimento del mercato ipotecario può essere visto nelle due altre misure fiancheggiatrici. Da un lato la scelta del valore minore fra il valore di mercato e il prezzo d’acquisto di un
Le proposte delle banche per raffreddare il mercato immobiliare non sembrano incisive, ma segnalano un cambiamento di corso. (Keystone)
immobile per valutare l’ammontare del credito ipotecario. Dall’altro – ma molte banche lo applicano già – l’impegno solidale del partner quando il debito viene chiesto da una coppia. In sostanza, con queste misure, le banche (e per esse l’Associazione svizzera dei banchieri) completa le misure anticongiunturali adottate nel 2012, anticipando la possibilità che regole magari più severe per questo mercato vengano adottate a livello politico o di organo di controllo. La FINMA aveva infatti già sottoposto ai banchieri un progetto in tal senso, che però non era stato accettato. Le misure ora proposte sono quindi la risposta autoregolante da parte delle banche. Dai primi commenti si vede un certo scetticismo sull’efficacia di queste misure. Ci sono però anche associazioni di proprietari di immobili che vedono un inasprimento delle condizioni che colpi-
scono soprattutto i piccoli proprietari e il ceto medio in generale. Va comunque precisato che le nuove regole non si applicano alle ipoteche in essere e a quelle in procinto di essere prorogate. Per le nuove costruzioni si potrebbe assistere a una leggera pressione su un rallentamento che è già in atto, ma non tale da incidere su un movimento di tipo congiunturale. Dal canto suo, il 2 luglio la FINMA ha dato luce verde alle proposte delle banche, sostenute a sua volta anche dal Consiglio federale, il quale, fiducioso che il lieve rallentamento del mercato proseguirà, non prevede l’introduzione di nuove misure. Un forte indebitamento ipotecario è comunque sempre stato una caratteristica del mercato immobiliare svizzero, grazie anche alla facilità e al costo del credito ipotecario. Le nuove misure decise dalle banche entreranno in vigore il 1. settembre 2014.
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la piazza di Angelo Rossi La cultura, un bene di prima necessità Dopo una lunghissima attesa, Lugano sta per ricevere il suo nuovo centro culturale. E molti si stanno chiedendo se il santo varrà la candela, ossia se l’investimento che è stato fatto dal Comune, e che peserà per anni sui suoi conti, avrà riscontri interessanti. Si tratta di una questione alla quale si può rispondere in più modi. Per esempio cercando di dare contorni un po’ più precisi, di quelli che possono essere suggeriti dal solo potenziale di popolazione, alla domanda culturale della città. È quanto hanno fatto, di recente, due collaboratori dell’Istituto di ricerche economiche dell’USI, Stefano Scagnolari e Aleksandar Gogov, utilizzando i risultati di 422 interviste fatte a frequentatori di attività culturali, svoltesi a Lugano tra l’estate del 2012 e l’estate del 2013. Il
primo risultato che sorprende chi, come il sottoscritto, ha sempre pensato che le spese per la cultura a Lugano, come ad Ascona e a Locarno, non fossero che un complemento delle spese a favore dei turisti, è costituito dalla composizione del campione di intervistati a seconda della provenienza. Due terzi dei «consumatori» di attività culturali intervistati sono infatti residenti nel Luganese. I possibili turisti invece, non rappresentano che il 14% del campione e raggiungono questa percentuale solo se nell’effettivo dei turisti includiamo i frequentatori provenienti dall’Italia (12%). A Lugano, quindi, si fa cultura dalla regione per la regione! Nell’articolo dei due ricercatori, pubblicato nella rivista «Dati» dell’USTAT non si specifica quali siano stati i criteri che hanno presieduto
alla composizione del campione. Si ha tuttavia l’impressione che l’aspetto della rappresentatività, rispetto alla composizione effettiva della domanda culturale luganese, non sia stato curato in modo particolare. Peccato, perché nei prossimi anni più aumenterà la pressione fiscale e più il contribuente della città si chiederà per chi vengono spesi i soldi destinati a finanziare le attività culturali e, se del caso, anche quali possano essere le ricadute economiche, per esempio per un settore come quello turistico. Ovviamente, se la questione dovesse diventare pressante, si potrà sempre promuovere un nuovo progetto di ricerca. Ma torniamo all’identikit del consumatore di avvenimenti culturali di Lugano. Per il 60% si tratta di persone giovani,
con meno di 44 anni. Si tratta, in seguito, per il 75% di persone con formazione liceale o universitaria. Il 62% lavora, a tempo pieno o a tempo parziale. Questo dato fa presumere che il campione di intervistati sia composto in prevalenza da uomini. Sarebbe interessante sapere se è così, perché pregiudizialmente io sarei dell’idea che a usufruire di avvenimenti culturali siano maggiormente donne che uomini. Quanto al reddito, il 54% degli intervistati ha dichiarato di guadagnare meno di 50’000 franchi all’anno, ossia un po’ meno di 4’100 franchi al mese. Si tratta di una salario basso anche per il Ticino. Già questo dato basterebbe per convincere i più che la cultura a Lugano non è un bene di lusso. Che sia così ce lo ribadiscono poi le stime dell’elasticità di reddito per le
diverse attività culturali: esse sono tutte inferiori a 1. Per esempio, per i concerti e gli spettacoli musicali l’elasticità di reddito è uguale a 0.75. Questo significa che quando il reddito aumenta, per esempio del 10%, la spesa del consumatore di eventi culturali aumenta del 7.5%, ossia in misura meno che proporzionale, come è il caso dei beni necessari. L’elasticità per la cultura musicale è la più elevata. Per musei, gallerie, cinema, monumenti e siti archeologici, il valore dell’elasticità di reddito è inferiore a 0.3. Per farci capire ancora meglio: una elasticità del reddito di questo tipo è più o meno quella della spesa per la casa. Altro che bene di lusso: stando ai risultati di questa inchiesta, la cultura a Lugano sembra proprio essere un bene di prima necessità!
no di affogare. Ma le anime belle che difendono la tratta di Lampedusa, dietro il paravento umanitario, in realtà difendono lo schiavismo moderno. Invece la rotta di Lampedusa bisogna chiuderla. Le drammatiche testimonianze degli uomini dello Stato italiano impegnati nell’operazione Mare Nostrum non possono essere ignorate. I marinai raccontano una situazione insostenibile: «Qui è un inferno, bisogna esserci per rendersene conto. È un inferno di proporzioni enormi che solo chi fa il nostro lavoro può capire». Non è possibile fare come se tutto questo non stia accadendo. Lampedusa è al centro di una vera e propria crisi internazionale. Che va affrontata e risolta. Ripeto: salvare i naufraghi è un dovere. Ma non basta. Bisogna fermare gli scafisti. Invocare la povertà dei migranti non è sufficiente. La carità va sempre praticata. Ma la dignità non è un valore meno importante. Il divario tra Nord e Sud del mondo non si colma salendo su un barcone, mettendo la propria vita e quella dei propri cari nelle mani dei mercanti di carne umana, e affidandosi ai capricci del caso e ai cavilli del diritto, per cui appro-
dare in un lembo di terra vicino alle coste africane dà accesso al mondo che va dalla Sicilia alla Scandinavia. Un mondo che è certo infinitamente più ricco, ma che in questo momento non ha bisogno di manodopera (anzi ha un eccesso di manodopera), e che prima rinchiude i disperati in campi strapieni e disumani, per poi destinarli spesso al ruolo di manovali della malavita o del lavoro nero. Non è in discussione il diritto di asilo per i profughi. A maggior ragione per i profughi della guerra siriana, da cui l’Occidente ha distolto gli occhi. Ma la dignità di un profugo non può essere affidata a un mercante di schiavi. I Paesi al confine della Siria, a cominciare dalla Turchia, ospitano già milioni di siriani. Salvare loro la vita è un dovere della comunità internazionale. Ma la salvezza non passa dalle carrette che percorrono il Canale di Sicilia. Non si tratta ovviamente di rimpiangere Gheddafi, e tanto meno i suoi aguzzini, che per anni hanno esercitato sui migranti e sui profughi ruberie e violenze. Ma è chiaro che Frontex, l’impotente agenzia europea che dovrebbe fermare i flussi clandestini, non può prescindere da una politica
molto più ambiziosa rivolta a stabilizzare i nuovi governi nordafricani e a costruire con loro partnership e accordi seri. La tragedia che si consuma tra la Libia e Lampedusa è uno dei frutti avvelenati del collasso di Stati — non da ultimo la Somalia — in cui si sono insediati gli estremisti islamici, che approfittano della debolezza del potere centrale per occupare intere regioni e imporre la propria legge, sollevando ondate di fuggiaschi. Si tratta di una questione epocale, che richiede un impegno lungo e difficile, e anche un consenso convinto dalle opinioni pubbliche. Oggi questo consenso non c’è. L’aria tira semmai verso il disimpegno e l’isolazionismo. Le notizie dei morti in mare generano tentativi di strumentalizzazione, che sfruttano da una parte il senso di colpa, dall’altra l’indifferenza e l’allarme sociale per l’immigrazione. Se la lotta per stabilizzare il Sud del Mediterraneo appare oggi difficilissima, da qualche parte bisognerà pur cominciarla. Fermare la rotta di Lampedusa, non sbarrando la porta nell’ultimo miglio ma chiudendola sulle coste da cui parte il traffico di vite umane, è il primo passo. Rimandarlo sarebbe delittuoso.
quindi pieno di discorsi diretti. Così inizio qualche ricerca. Nel libro non trovo il brano proposto dal lettore, ma solo qualcosa di pertinente: commentando la felicità del giusto e l’infelicità dell’ingiusto, Socrate si sofferma sulle quattro forme di governo esistenti – timocrazia, oligarchia, democrazia e tirannide – e a ognuna fa corrispondere quattro tipi diversi di uomo. A questo punto, anche per eventualmente trovare una diversa paternità al brano citato, affido il testo al motore di ricerca «Google». L’operazione non è facile anche perché Google, a mio personale avviso, oltre a essere diventato uno strumento sofisticato, più facile da manipolare che da guidare, sovente disorienta e propone riferimenti fuorvianti. Alla fine approdo a una spiegazione accettabile: il brano citato dal lettore è una libera traduzione (così dicono diverse fonti, ma è forse più esatto parlare di rielaborazione) del pensiero del filosofo greco, scritta da Indro Montanelli nel maggio
del 1992. Provo a scrivere al giornale a cui si è rivolto il lettore, ma dopo tre giorni rettificare è inutile: ormai il falso testo di Platone è stato contrabbandato, migliaia di lettori lo avranno letto e magari anche diffuso o archiviato come pensiero del filosofo greco sulla democrazia. Alcuni giorni dopo sul sito «Il Post» mi imbatto in un articolo del giornalista irlandese Mark O’Connell che denuncia un caso analogo. Aveva letto questa frase attribuita a Schopenhauer: «Ricorda che una volta arrivato in cima alla collina comincerai ad andare più veloce». Da profondo conoscitore del pensatore tedesco ha subito capito che era un falso. Avute conferme anche da altri autorevoli professori, decide di andare a fondo, per cercare di scoprire il vero autore o chi ha dato avvio all’errore. Avvia una ricerca su internet, orientata sui siti specializzati nelle citazioni, ma trova unicamente conferme della falsità: l’aforisma ormai è attributo
a Schopenhauer su quote-wise.com, searchquotes.com, quote.lifehack.org, quotespedia.info e tanti altri siti. Così O’Connell arriva alla conclusione che, avendo in internet tante e autorevoli convalide «ufficiali», la falsa citazione ormai è libera di circolare come autentica e di approdare in posti in cui non ci si sarebbe mai aspettati di trovare Schopenhauer. Ad esempio sulla pubblicazione Fitness Magazine, in cui il monito viene usato per stimolare chi cerca di modellare glutei e addominali con la ginnastica; o, peggio ancora, su un sito di neonazisti americani, sempre a mo’ di stimolo per i propri adepti, ovviamente con finalità un po’ diverse! Si finisce così per scoprire che anche il falso Schopenhauer è prigioniero/ vittima del suo stesso detto: «una volta arrivato in cima alla collina comincerai ad andare più veloce»; talmente veloce che, anche se si attribuiscono le parole a un falso autore, pochi se ne accorgono e, soprattutto, nessuno se ne preoccupa.
In&outlet di Aldo Cazzullo Il paravento umanitario Le notizie sempre più drammatiche che provengono dal Canale di Sicilia sono uno schiaffo alla coscienza di tutti. Anziché aiutare l’Italia, l’Europa la mette sotto accusa per la prassi (invero un po’ opportunista) di non registrare gli sbarcati, nella speranza che spariscano nei giorni successivi
alla volta di altri Paesi, magari con l’aiuto non certo disinteressato di qualche organizzazione criminale. A ben vedere, l’ipocrisia è l’attitudine dominante in tutta la gestione dell’emergenza sbarchi a Lampedusa. Non è in discussione il dovere morale di salvare le vite di coloro che rischia-
Zig-Zag di Ovidio Biffi Citando il falso che male ti fo’? Assieme a tanti altri, mi porto dietro un difetto grosso: un metodo di lettura che mi vede sempre impegnato a sottolineare, sia nei libri che negli articoli, frasi o paragrafi, nella speranza che la sottolineatura in qualche modo rafforzi la memoria. Ovviamente non riesce a farlo: dopo poche ore, di quella frase o di quel concetto mi rimane solamente un nebuloso ricordo. Per non so quale privilegio però, spesso per reconditi motivi, appena mi imbatto in un argomento analogo o comunque assimilabile a qualche sottolineatura, questa mi suggerisce potenziali agganci o paragoni, obbligandomi a lunghe ricerche e a riletture. L’ultima di queste «maratone» è iniziata dopo aver letto su un quotidiano lo scritto di un lettore che, per commentare l’attuale indebolimento della democrazia, proponeva questa lunga citazione tratta dal Libro VIII del Repubblica di Platone: «Quando un popolo divorato dalla sete di libertà, trova coppieri che
gliene versano quanta ne vuole fino a ubriacarlo, accade che i governanti pronti a esaudire le richieste dei sempre più esigenti sudditi, vengano chiamati despoti. Accade che chi si dimostra disciplinato, venga dipinto come uomo senza carattere, un servo… Accade che il maestro non osi rimproverare gli scolari e che questi facciano beffe di lui, che i giovani pretendano gli stessi diritti dei vecchi, e per non sembrare troppo severi, i vecchi li accontentino. In tale clima di libertà e in nome della medesima non v’è più rispetto e riguardo per nessuno. E in mezzo a tanta licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la tirannia». Citazione non solo a effetto, ma attualissima e assai pertinente con quanto accade in democrazie di Paesi a noi vicini. L’indicazione dell’autore però mi instilla un dubbio poiché ricordavo Repubblica scritto in forma di lungo dialogo (Platone fa parlare il suo maestro, Socrate, con altri personaggi),
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Cultura e Spettacoli A tavola con Cesare Il Musée Romain di Vallon propone una mostra che spiega le abitudini alimentari antiche
La vocazione di Rosetta Leins Alla Pinacoteca Zuest di Rancate l’opera dimenticata di una pittrice ticinese che negli anni 30 scelse con coraggio la difficile carriera d’artista
Storia di un’italiana Monica Vitti, grande attrice che ha impersonato figure femminili fuori dai canoni tradizionali
Donne al «flashring» Edo Bertoglio espone i suoi ritratti, in un confronto tra gli anni 70 e il presente
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santalessandro.org
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Il destino che attende implacabile Brembate come Tebe Alla ricerca dei punti di contatto tra una vicenda di cronaca nera moderna
e un dramma della classicità greca Maria Bettetini «Ti ha scoperto contro il tuo volere / il tempo che scorge ogni cosa», così il Coro al verso 1214 dell’Edipo re di Sofocle. Tutti i personaggi di questa tragedia antica di ventiquattro secoli hanno cercato di proteggere sé stessi e i loro cari dalle disgrazie pronosticate da Apollo, tutti hanno agito come inconsapevoli strumenti del feroce destino. Per scoprirlo, è bastato il tempo, «che solo rivela l’uomo giusto: / per riconoscere il malvagio basta un giorno solo» (vv. 614-615). Il tempo, che è galantuomo, sostiene più semplicemente il detto popolare. Che spesso, scorrendo senza sosta, scopre verità nascoste, sepolte. A volte si dice: meglio tacere un piccolo tradimento, una debolezza, all’amico o al partner, portare da soli la croce del rimorso e non permettere che offuschi l’orizzonte di chi non ha, non ancora, motivi di dubbio. E magari non ne avrà mai. Ma forse, invece, quel galantuomo ne farà una delle sue, sbattendo in una prima pagina metaforica o reale gli eventi che parevano ormai
passati, lontani, irraggiungibili. «No, in nome degli dei. / Se ti sta a cuore la tua vita, non fare altre ricerche. / Basta già il mio strazio», il mio nosos, alla lettera «la mia malattia». Così Giocasta, che scopriremo madre e moglie di Edipo, implora l’ignoranza, la stessa invocata dal cieco Tiresia consultato da Edipo: «è tremendo sapere, quando fa male a chi sa». Tiresia non vuole parlare, vuole fuggire: «Lasciami tornare indietro. / Se ti lasci convincere, tu reggerai meglio il tuo destino, e io il mio». Ma noi lo sappiamo già, Tiresia non se ne andrà, e le sue poche parole basteranno per innescare l’esplosione di tremende verità. Tebe è colpita dalla peste perché l’assassino di Laio è impunito. L’assassino di Laio è suo figlio Edipo, abbandonato in fasce per evitare l’avverarsi della profezia che lo prevedeva patricida e incestuoso. Edipo, salvato da un pastore, sarà adottato dal re di Corinto, da dove fuggirà per evitare, di nuovo, di diventare patricida e incestuoso. E, così fuggendo, trova per strada Laio, che uccide, poi salva Tebe dalla Sfinge, ne diventa re e sposa sua
madre, Giocasta. Da un lato una tyke, una sorte che non si riesce a cambiare con tutta la buona volontà. Dall’altro, i peccati più esecrati, incesto e parricidio, che sporcano sia il peccatore che la comunità. Per i Greci non c’era soluzione di continuità tra l’agire del cittadino, soprattutto se al governo, e la salute della polis, del nucleo sociale. L’impuro va allontanato, per il bene di tutti. E tutti hanno diritto a sapere chi ha attirato su di loro l’ira divina, come nella vicenda biblica di Giona. La nave con cui il futuro profeta cerca di sfuggire alle richieste di Dio è in preda alla tempesta: «Che cosa dobbiamo fare di te, perché si calmi il mare, che è contro di noi?», chiedono i marinai. «Prendetemi e gettatemi in mare e si calmerà il mare che ora è contro di voi, perché io so che questa grande tempesta vi ha colto per causa mia», risponde Giona. Poi in verità tutto finisce bene, grazie al pesce che inghiottì Giona e lo riportò a riva, un po’ più mansueto verso i comandi del suo Dio. Sembrerebbe impossibile fuggire al destino, sia quello di uccidere il padre e avere figli dalla madre, sia
quello di andare a convertire la città di Ninive. Siamo allora solo marionette, che più tentano di sfuggire ai fili più vi rimangono avvinghiate? In fondo sarebbe comodo. Ma noi oggi abbiamo approfondito quella conoscenza, quel «tremendo sapere» da cui voleva fuggire Tiresia. E sappiamo che tutti hanno nel corso della loro vita la possibilità di compiere delle scelte. Non possiamo scegliere da chi, dove, quando nascere. Ma, poi, fin da piccoli incrociamo dei bivi e costruiamo, mattone su mattone, la nostra vita. Non decidiamo noi chi incontriamo, quali malattie ci potranno colpire, quali imprevisti la tyke ci riserva. Ma la personalità che ci siamo costruiti nel tempo ci porterà a reazioni diverse, che sembrano magari inevitabili, ma che sono in verità frutto di tante piccole scelte quotidiane. Così è per «la costruzione di un amore», che «spezza le vene delle mani / mescola il sangue col sudore / se te ne rimane», è un lavoro faticoso, si perdoni Ivano Fossati accanto a Sofocle. Così è per le conseguenze delle proprie azioni. L’assassinio brutale di una bambina, un
uomo accusato attraverso la scoperta scientifica dell’adulterio della madre, rivelato ai media del mondo. L’elenco delle vittime si allunga: con la bambina e la sua famiglia, un padre che si scopre non padre e marito tradito, due fratelli gemelli che si trovano senza più un padre, perché quello vero è morto con il suo segreto (o così pensavano i protagonisti della trista vicenda). Una moglie adultera, una nuora che si sente tradita. Probabilmente la peste c’era già, in quei paesi di poche anime del bergamasco: era quel sapere e non dire che avvelena i rapporti tra le famiglie, e nessuno ricorda nemmeno perché. Era la leggerezza con cui si compivano azioni sicuri di rimanere nascosti. Poi la gravità del sacrificio di Ifigenia, innocente, capace di condurre la ricerca del vero fino al «tremendo sapere». Non abbiamo più lacrime, ci facciamo ciechi come Edipo. Forse questo pubblico ludibrio è più di qualunque condanna penale, ma vorremmo davvero che gli spiriti maligni non chiedessero ancora sangue innocente per purificare la peste che ci ammorba.
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Cultura e Spettacoli
Tutti a tavola, Romani!
Mostre Al Museo di Vallon usi e abitudini alimentari dell’antica Roma ma anche delle nostre terre
Marco Horat «Abbiamo concepito un’esposizione – dice Clara Agustoni direttrice del Musée romain di Vallon nel Canton Friborgo – che mettesse in risalto gli stretti legami tra Roma e le nostre regioni attraverso tre tipi di documenti». Come? Ci sono i testi di autori classici che descrivono le abitudini dei romani a tavola: vengono in mente i nomi di Petronio, Ovidio, Seneca, Marziale, Plinio il Giovane, forse Apicio per le ricette. Ci sono poi le rappresentazioni di banchetti, prime fra tutte quelle che provengono da Pompei; in mostra vi è una ricca scelta di riproduzioni con lacerti di affreschi pompeiani, molto suggestivi per le scene che illustrano con dettagli gustosi. Se quelle raccontate con parole e immagini erano le regole in auge al centro del mondo romano, cosa succedeva però in zone periferiche come le nostre? Qui entra in gioco il terzo elemento espositivo, l’archeologia con i ricchi ritrovamenti effettuati nella regione da molti anni a questa parte, che ci permettono di confrontare gli oggetti descritti o rappresentati con quelli che venivano utilizzati quotidianamente da noi negli stessi periodi. Il confronto dimostra come vi sia una corrispondenza talvolta sorprendente tra gli oggetti: preziose stoviglie da tavola, prestate dal Museo di LosannaVidy, come ne sono state rinvenute in altre parti d’Europa, una testina di ariete in bronzo sorella di quelle trovate a Pompei, una brocca con patera per uso rituale da Avenches del tutto simile ai manufatti romani, una specie di samovar con decorazioni incise (ne sono stati trovati in Svizzera tre esemplari) presente anche sulle tavole dei ricchi romani. Molto interessante ciò che rimane di un triclinio usato nei banchetti, con un piede di bronzo arricchito da intarsi di rame e argento, che gli archeologi hanno potuto stabilire era stato fabbricato a Delo nel I
La preparazione di un banchetto in un affresco di Pompei.
secolo e poi trasportato a pezzi fino ad Avenches due secoli più tardi, dove fu facilmente rimontato grazie a un sistema di lettere greche che indicavano le parti da abbinare; esattamente come si fa oggi quando si acquista un letto smontabile e lo si porta a casa. «Tutto questo dimostra – afferma Clara Agustoni – come ad Avenches, che era una capitale importante ma anche in generale nella nostra regione, la romanizzazione sia stata un fattore molto importante di sviluppo per la nostra cultura; ma anche come il tenore di vita delle élite locali fosse assolutamente paragonabile a quello delle classi dominanti che vivevano nelle regioni centrali dell’impero». La mostra si apre con la grande
maquette della villa romana, sui resti della quale è stato costruito il Musée romain di Vallon. Quello che colpisce è la grandezza che nel complesso residenziale era stato riservato alla cucina e alle sale adibite a banchetto: la cucina aveva una superficie di 100 mq, come dire la più ampia mai documentata; la sala principale era quella del famoso mosaico della caccia che è il più grande mosaico trovato in Svizzera, mentre nel larario, una specie di biblioteca-ufficio, sono venuti alla luce resti di cibo e di stoviglie. I romani raccontati dagli autori classici consumavano tre pasti al giorno, leggeri o leggerissimi i primi due (Seneca dice che nemmeno si sedeva né lavava le mani), più importante la cena
che prendeva avvio dopo le abluzioni o un passaggio alle terme, verso le 4 del pomeriggio e poteva protrarsi per ore. I commensali invitati mangiavano carne, pesce, verdure condite con salse varie servite in coppette di vetro o legno e una specie di polenta di cereali macinati cotti con cavoli, porri, ceci, lenticchie e fave, detta pulsa. Il cibo arrivava sulla tavola già tagliato per cui si mangiava con le mani (la destra soprattutto visto che sul triclinio ci si sdraiava appoggiandosi sul braccio sinistro); al massimo si usava un cucchiaio ma niente coltelli e forchette. Intorno alla tavola tra una portata e l’altra potevano esibirsi poeti, musicisti, cantori e ballerini. Le donne erano in generale ammesse al banchetto, sia le mogli ufficiali degli
ospiti sia in alcune circostanze gentili dame e giovinetti che avevano il compito di allietare la compagnia maschile. In occasione di avvenimenti importanti venivano poi organizzati banchetti speciali con decine e decine di invitati e con menu particolarmente raffinati. Il bon ton era richiesto ai partecipanti, uomini o donne che fossero, e il tutto era regolato da norme di comportamento codificate che gli autori ci hanno tramandato e che in mostra vengono riproposti capitolo per capitolo. Grazie a questi testi si fanno curiose scoperte: Plinio il Giovane scrive a un amico lamentandosi del fatto che seppur invitato, questi sia andato a cena da altri, mancando così un menu eccezionale che Plinio gli ricorda per fargli capire cosa abbia mancato. Marziale invece si lagna di una cena con 60 partecipanti nella quale è stato servito dal padrone di casa un solo cinghiale per di più piccolo, senza verdure o altri contorni, come pure del fatto che ogni volta che lo invitano a cena è per fargli declamare i suoi versi, cosa che lo indispone. Della vita popolare o di quella delle campagne, di come e cosa si mangiasse ad esempio, si sa molto meno, anche se studiosi come Cathérine Salles cercano di illuminare questa faccia nascosta dell’Impero romano. Al di là di tutto, dalla ricca mostra di Vallon emerge un ritratto della romanità riunita attorno alla tavola più corrispondente alla verità storica di quanto tramandatoci da Petronio attraverso i frammenti rimasti del suo Satyricon e poi da romanzi, film e telefilm vari. Trasgressione e débauche ci saranno certo state come in tutti i tempi, compreso il nostro. Ma non erano la regola. Dove e quando
Vallon, Musée romain. Autour de la table, usages et savoir-vivre à l’époque romaine. Fino al 22 febbraio 2015. www.museevallon.ch
Le voci di Berlino Meridiani e paralleli Storie e personaggi che hanno animato
la capitale tedesca in un libro di Mario Fortunato Giovanni Orelli Tra i molti (troppi) libri di narrativa proposti dall’editoria italiana in questa stagione (è anche stagione di premi letterari) ne propongo due, belli (non dico che siano i soli ad essere belli) della Bompiani: il migliore mi pare quello di Fausta Garavini, fiorentina: Le vite di Monsù Desiderio; segue quello di Mario Fortunato, Le voci di Berlino. Della Garavini già dissi qualcosa ai lettori di «Azione». Di Mario Fortunato fra poco. Ma è quasi necessaria una quasi ovvia premessa. Sul quanto vale, quanto è attendibile il parere, il giudizio di un giudice-lettore? È un parere determinato in buona parte dalla, per dirla in una parola, soggettività. Chi legge può non star bene quando legge. Può aver dormito male. Eccetera ecceterone. Per l’eccetera faccio un esempio di quasi cento anni fa. Il 24 ottobre del 1920, da Parigi, un certo James Joyce scrive a un suo conoscente di nome Frank Budget, e in quella lettera fa il nome di un certo Marcel Proust in questi termini (e copio direttamente dalle Letters of J. Joyce (…) Faber and Faber, London, 1957, p. 148): «I have read some pages of his. I cannot see any special talent but I am a bad critic» («Ho letto un po’ di pagine sue. Non riesco a vederci un talento
particolare, ma sono un cattivo critico». Un cattivo critico Joyce? Macché. Probabilmente un lettore geloso del geniale Marcel Proust. Siamo intorno agli anni Venti.
Il passato della città, una delle più importanti per la storia della cultura del 900, è messo a confronto col presente Ho così rubato spazio al libro di Mario Fortunato, che avvincerà un lettore curioso, un lettore che anche dice di non amare le parole difficili. Ma che qualcuna la potrà trovare anche qui. Un solo esempio, pagina 179 a metà: «la gioventù è una condizione che intrattiene molti commerci con la tautologia». E che cos’è la tautologia? Solo per chi mi legge, se ce n’è uno, sul San Gottardo, e non ha lassù dizionario sottomano, gli leggo la definizione, una delle varie: «è la ripetizione del già detto (tautò = lo stesso, + logos = discorso), ripetizione, solitamente inutile, di parole e di concetti identici fra di loro. La tautologia deve essere accuratamente evitata» dice il dizionario. Ma, cari giovani, sareste caduti
così in basso??? Tre punti di rispettosa domanda. Forse lo avvincerà meno nelle pagine iniziali, e anche in quelle finali, legate alla Berlino dei nostri tempi. Ma tutto il vasto corpo centrale del libro, sulla Berlino ai tempi della sciagurata dominazione nazista e ai tempi del coraggioso dopoguerra, con in primo piano tante donne che avevano preso il posto di tanti congiunti maschi uccisi nella guerra-stoltezza, è il ritratto di un generoso e illuminato ravvedimento. A cominciare dalla pagina 21: «Da molti punti di vista, Berlino appariva alla fine degli anni Venti del secolo scorso come il centro dell’Europa. Tutto ciò che era sperimentale e inconsueto veniva da lì. La pittura della Nuova Oggettività e quella espressionista, l’architettura del Bauhaus, il teatro politico di Piscator e Brecht, la musica di Kurt Weill, i film di Fritz Lang (…)»: un po’ caricato? Concediamolo. Facciamo qui grazia dei molti nomi (p. 22). Alcuni di questi nomi torneranno in primo piano in alcuni riusciti ritratti del sèguito. Come Wystam Auden poeta e Christopher Isherwood romanziere. Ma sono pagine da leggere, e non da riassumere in tre righe. Vedere l’incontro di Auden con Gerhart Meyer, 39 e sgg., specialmente la 41-42. C’è poco oltre il ritratto di Marinus van
Intervento di Street Art a Berlino, del francese JR. arrestedmotion.com
der Lubbe detto anche Dempsey perché era forte come il pugile americano Jack Dempsey, allora campione dei pesi massimi. Ma lui puntava sulle idee e non sulla forza. «E la polizia, di rado incline alle sottili dispute ideologiche, gli ruppe la testa un paio di volte». (p.49). Ma vada avanti il lettore con i figli di Thomas Mann, con Marlène Dietrich. Ecc. Non dimentichi il lettore, se può, le
pp. 84-85 e altro: la 105, sul che cosa è la gioventù. Ma devo saltare al 1990, alla p. 150, per incontrare Monica. «Tornava a casa la mattina presto, quando gli altri uscivano per le loro occupazioni. In metropolitana, guardava le facce assonnate degli sconosciuti come fossero l’atlante di una terra derelitta». Eccetera. Con questa intensità. Non si trascuri l’Epilogo, 179 e seguenti.
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Cultura e Spettacoli
Un’anticonformista in Ticino Mostre La Pinacoteca Züst di Rancate riscopre la pittrice Rosetta Leins
Alessia Brughera Capita, a volte, che artisti abili e con una carriera ricca di riconoscimenti cadano nell’oblio. Il tempo li mette negligentemente da parte finché qualcuno si interessa a loro e si impegna a recuperarne la memoria e a riscoprirne l’opera. È quello che è successo con la mostra curata da Simona Ostinelli alla Pinacoteca Züst di Rancate, che ha il merito di riportare l’attenzione sulla figura della pittrice ticinese Rosetta Leins. Certo non si spiega come un’artista di questo calibro, considerata una delle più valide in ambito svizzero, abbia potuto essere dimenticata per anni. Acquista quindi un’importanza maggiore l’esposizione proposta dalla Züst, che, fedele al suo obiettivo di valorizzare il nostro territorio, «ritrova» una personalità artistica che finora non era stata celebrata a dovere. Lo sguardo fiero e risoluto di Rosetta Leins ci accoglie a inizio mostra in un delicato ritratto a matita realizzato dal suo maestro Otto Lüssi, e sembra volerci mettere subito al corrente che ciò che ci attende nelle sale del museo è l’opera di una pittrice determinata e, come cita il titolo dell’esposizione, anticonformista. Sono proprio la determinazione e l’anticonformismo, infatti, che l’hanno spinta a rinunciare a un lavoro sicuro nella tipografia paterna per indirizzarsi verso la pittura – in un periodo (gli anni Trenta) in cui la crisi economica costringeva gli artisti a una vita di stenti – e che l’hanno condotta a intrapren-
dere un percorso personale refrattario a qualsiasi omologazione, ma al tempo stesso aperto alle sperimentazioni e attento alle tendenze che si sviluppavano anche fuori dal Cantone. Nata a Bellinzona nel 1905, Rosetta Leins si dedicò con devozione e passione alla pittura per oltre trent’anni. Scelse Ascona come luogo in cui risiedere, richiamata dal fervore culturale che animava il borgo. Qui si avvicinò al gruppo degli espressionisti svizzeri entrando in contatto con personalità quali Epper, Müller, Pauli, Schürch, Kohler e il già citato Lüssi, che tanta parte ebbe nell’incoraggiare e sostenere la sua carriera artistica. Fu una pittrice prolifica, Rosetta. I tanti lavori pubblici e privati realizzati con assiduità hanno permesso di ricostruire in maniera abbastanza completa il suo tracciato biografico e professionale, nonostante per la mostra non sia stato possibile consultare l’archivio conservato ad Ascona. Grazie alle selezionate opere di Rancate riusciamo così a ripercorrere la sua storia: la formazione privata nel campo dell’arte, il viaggio a Parigi fra il 1931 e il 1932 alla scoperta del postimpressionismo francese che influenzò i suoi dipinti di quegli anni, la decisione di stabilirsi ad Ascona, il soggiorno in Toscana per approfondire la tecnica dell’affresco attraverso lo studio dei grandi maestri italiani del passato (Giotto, Masaccio, Paolo Uccello, Piero della Francesca), le molteplici esposizioni in Ticino e Oltralpe. Ad affiorare è la figura di un’artista con una forte predisposizione al confronto, che sa guardare ciò che la pro-
Era nata a Bellinzona nel 1905.
pria terra ha da offrire, ma che sa anche scrutare ciò che accade al di là, per riuscire infine a coniugare in maniera personale tutti questi stimoli. Visitando la mostra troviamo un primo nucleo di dipinti che hanno per soggetto il paesaggio, sezione importante, questa, perché le opere di Rosetta Leins sono fra le rappresentazioni più riuscite dei luoghi ticinesi: dal «retroterra di Ascona» al Luganese, al Mendrisiotto, di cui cattura scorci lacustri, colline, vicoli e casolari. Molti di questi lavori non recano una data precisa, ma poco importa, perché si pongono come una rassegna dei territori più cari all’artista, immortalati nella loro quieta intimità. Ecco allora la strada di Ronco sopra Ascona in un pomeriggio d’estate, Losone in una giornata autunnale, le viuzze assolate in cui passeggiano silenziosamente alcune monache, i giardini rigogliosi in riva al lago teatro di squisiti brani di quotidianità, il tut-
to in uno stile che rivela ora l’influenza della pittura francese, ora una più marcata ascendenza da quella contemporanea d’oltralpe. Per Rosetta Leins le opere pubbliche costituiscono una parte rilevante della produzione. Tra queste c’è la decorazione murale della Sala dei matrimoni nel Palazzo Civico di Lugano, ben documentata in mostra da quattro bozzetti preparatori che rappresentano scene di vita familiare e lavorativa in cui figure al contempo semplici e imponenti, debitrici nei confronti della pittura dei primitivi, si dedicano con serenità alle loro incombenze quotidiane. A questo lavoro si aggiungeranno molte altre commissioni pubbliche: dall’affresco per la Cappella del Cimitero di Losone e del Cimitero di Fehraltdorf a quello per il Palazzo del Governo a Bellinzona. L’artista si interessa anche al genere della natura morta, che le permette nel
corso degli anni di ricorrere a soluzioni audaci e di approdare a una semplificazione compositiva. Emblematica in mostra è l’opera Frutta di maggio, del 1952, in cui il soggetto viene inquadrato dall’alto e realizzato con colori intensi e brillanti, a rimarcare la grande libertà di esecuzione e l’alta qualità cromatica raggiunte dalla pittrice. Gli ultimi esiti artistici di Rosetta Leins sono raccontati attraverso alcuni lavori eseguiti negli anni Cinquanta e Sessanta, ancora un momento di grandi sperimentazioni in cui è evidente l’interesse per il neocubismo. Le forme si fanno ora più rigide, come succede nell’opera I Re Magi, arrivo e sorpresa, dipinta per la Casa Belsoggiorno di Ascona, in cui l’artista riduce gli elementi a profili geometrici accentuando così la bidimensionalità e raggiungendo un elevato grado di sintesi. Anche in questa stagione finale non mancano gli amati paesaggi del Cantone: Inverno 1961 a Losone San Giorgio raffigura il paese ricoperto da una spessa coltre di neve, immerso in un’atmosfera ovattata e, soprattutto, ancora intriso di quel delicato lirismo che ha accompagnato tutta la produzione di Rosetta Leins lungo i suoi insoliti e incisivi percorsi. Dove e quando
Rosetta Leins. Vita e opere di una pittrice anticonformista 1905-1966 Pinacoteca cantonale Giovanni Züst, Rancate. Fino al 17 agosto 2104 A cura di Simona Ostinelli Orari: martedì-domenica 14-18. Lunedì chiuso, aperto tutti i festivi www.ti.ch/zuest Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Monica Vitti, ritratto di un’attrice fuori dal comune Cinema «Le attrici, diciamo, bruttine che oggi hanno successo lo devono a me. Sono io che ho sfondato la porta» Giorgia Del Don Per usare un paragone sicuramente azzardato, la rivoluzione «estetica» che Monica Vitti ha scatenato nel cinema italiano a cavallo fra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, è paragonabile a quella innescata da Kate Moss negli anni Novanta. Una vera rimessa in questione degli stereotipi in vigore, uno stravolgimento non solo dell’immagine stessa della donna ma anche e soprattutto dei valori ad essa legati. Le curve sexy devono loro malgrado lasciare il posto alle pianure misteriose, così come l’immagine rassicurante della donna-mamma scansarsi per fare posto agli enigmi di una nuova donna, moderna e libera. I valori legati ad un modello estetico sono frutto di tutto un bagaglio culturale caratteristico della società che li crea, e ne diventano in un certo modo il riflesso. Da questo punto di vista il caso di Monica Vitti e quello dell’inglesissima Kate Moss sono distanti anni luce. Ciò nonostante quello che li accomuna è la necessità di rompere con gli stereotipi in vigore per proporre qualcosa di completamente nuovo e per certi versi quasi sconcertante. Se le curve mozzafiato delle super models che hanno preceduto Miss Moss hanno l’arroganza e l’opulenza degli anni Ottanta, quelle della Mangano, della Loren e della Lollobrigida si innalzano a emblema dell’italianità, rassicuranti, rincuoranti e fertili. Se da una
parte sono le valchirie a dominare le passerelle, dall’altra sono i seni sodi e le gambe chilometriche ad invadere il grande schermo. Quello che accomuna malgrado tutto questi «modelli» di donna, lontani storicamente e territorialmente, è il fatto che entrambi incarnano il fantasma di un certo immaginario maschile che sfida il tempo e che (purtroppo) non passa mai di moda. Detto questo, e per ritornare al cinema, Monica Vitti ha creato una vera e propria rivoluzione in un contesto che da sempre si tiene ben stretto il suo ideale di «classica bellezza italiana», e vi si aggrappa con un fervore che a volte sfiora il fanatismo. Durante gli anni Cinquanta si è visto il proliferare sul grande schermo di figure femminili che respirano l’italianità: prosperose, generose, di una rassicurante bellezza latina. La prestanza fisica si insinua in modo quasi naturale, basti pensare che le vedettes di quel periodo sono Gina Lollobrigida, Sophia Loren e Lucia Bosé, tutte e tre passate dal concorso di Miss Italia. In questo contesto Monica Vitti è di sicuro un’aliena. Non per niente, malgrado le sue qualità di attrice siano già riconosciute, il mondo del cinema all’inizio fatica ad aprirle le porte. Con quella voce roca atipica e quei tratti poco comuni, Monica Vitti è un quesito, un oggetto bizzarro ed affascinante che non si sa dove piazzare. Sarà quindi in un primo tempo il cinema comico (meno interessato alle curve mozzafiato) che le permetterà di dar prova del suo talento.
La realtà (quella che oggi nessuno oserebbe mettere in dubbio) è che Monica Vitti non è solo bella, è splendida, forte ed intelligente, di una modernità che Antonioni sarà il primo a cogliere e a capire veramente. Fra di loro nascerà spontaneamente un sodalizio che ci regalerà dei personaggi meravigliosi: Claudia di L’avventura, Valentina di La notte o ancora Vittoria di L’eclisse o Giuliana di Deserto rosso; ruoli che sembra siano stati cuciti addosso all’attrice che li impersona, ritratti di donne che sono ancora oggi di un’attualità sconcertante, senza tempo. Monica Vitti incarna finalmente una donna nuova, moderna ed inquieta(nte), diversa dai personaggi rappresentati fino ad allora nel cinema italiano. Antonioni, che come lui stesso dice, è cresciuto attorniato da figure femminili, sa cogliere le inquietudini più intime dei suoi personaggi: dal turbamento di Claudia (L’avventura) che non riesce a non lasciarsi coinvolgere in un’avventura che sa già finirà male, fino alle nevrosi di Giulia (Deserto rosso), incapace di adattarsi ad un mondo che percepisce come vuoto e meschino. Monica e Michelangelo, una coppia davvero unica che non ha paura di sfidare le convenzioni dell’epoca dandoci una sua visione della donna. Il cinema di Antonioni, fatto di silenzi e sottintesi, riesce a cogliere un universo interiore estremamente ricco, celebrando una «femminilità» multiforme
Monica Vitti ne L’avventura di Michelangelo Antonioni (1960). (Keystone)
che non si limita certo all’aspetto esteriore ed alle sue convenzioni. Solo lui poteva vincere la scommessa di farci quasi dimenticare le fattezze da miss a favore dell’universo interiore del suo personaggio. In un vero e proprio gioco di specchi, La signora senza camelie mette in scena una Lucia Bosé costretta ad interpretare un personaggio che deve giustamente fare i conti con la superficialità del mondo del cinema. Monica Vitti dal canto suo ci dimostra che, sebbene Antonioni l’abbia portata alla vetta della sua arte, la sua mo-
bilità è tale da permetterle un cambio di rotta radicale: in poco tempo diventa una delle regine della comicità italiana. Una forza la sua che è il marchio solo delle più grandi attrici: camaleontiche, affascinanti e atemporali. Senza Monica Vitti attrici italiane di talento quali Mariangela Melato o ancora la più giovane Alba Rohrwacher non avrebbero forse avuto lo stesso coraggio di imporsi per la loro «singolarità», così difficile da accettare in un mondo, quello del cinema italiano, che purtroppo, troppo spesso, non brilla di certo per coraggio. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Mauro Harsch Compagni di Viaggio L’estate in una comitiva immaginata
di alcune delle personalità musicali che operano nel nostro cantone
Una ricerca della profondità umana
Qualche anno fa un’amica mi chiese quale fosse la missione del musicista nella nostra società. Oggi sono più che mai convinto che l’arte – e la musica in modo particolare – costituisca una via privilegiata nella ricerca della dimensione più profonda dell’esistenza umana. Proprio in questo particolare periodo storico ogni artista deve soprattutto saper trasmettere valori che aiutino l’umanità a crescere. L’uomo è alla ricerca di armonia, di sentimenti autentici, del senso della bellezza. Il tema della bellezza è sempre stato presente nell’opera e nella vita di Fëdor Dostoevskij. Anselm Grun, monaco benedettino, racconta che il grande romanziere russo andava spesso a contemplare la bellissima Madonna Sistina di Raffaello, rimanendo a lungo in contemplazione davanti allo splendido dipinto. Nei suoi romanzi egli ha sempre penetrato le zone più oscure dell’animo umano, riuscendo tuttavia a vedere la Bellezza anche nell’anima dei personaggi più perversi. Letture appassionanti e rivelatrici. Dal 1974 al 1989 ho seguito il ma-
Top10 DVD 1. The Wolf of Wall Street
L. Di Caprio, C. Blanchett / novità
Benedicta Froelich
È pianista, docente e animatore culturale.
estro Herbert von Karajan a capo dei Berliner Philharmoniker ogni volta che mi è stato possibile. Salisburgo era la meta preferita. Nella grande sala del Festspielhaus ho vissuto dei momenti unici. Mai scorderò la straordinaria ricerca di perfezione, di trascendenza e di bellezza del suono che Karajan sapeva ottenere da ogni singolo strumentista coinvolgendo l’ascoltatore in una sorta di incantesimo. La ricerca dell’armonia e del senso del bello l’ho ammirata anche nei capolavori del regista Franco Zeffirelli. Sia nelle opere cinematografiche, sia nelle regie teatrali e operistiche la forza carismatica del grande maestro ha sempre esercitato su di me un fascino particolare. Le memorabili traduzioni cinematografiche di Romeo e Giulietta e dell’Amleto, la spiritualità commovente del film dedicato a San Francesco e la travolgente regia dell’Otello alla Scala, nel 1976, sono solo alcuni esempi che confermano come, attraverso l’arte, un regista abbia saputo trasmettere valori essenziali per il bene e la crescita dell’umanità. Giovanni Paolo II è stato un importantissimo compagno di viaggio, che diede un ulteriore impulso alla mia convinzione che l’arte non può essere tale se non illuminata dal sen-
so del trascendente e che un artista, anche quando scruta gli aspetti più sconvolgenti del male, manifesta in un certo senso il suo innato desiderio di redenzione. Quando presentai al grande papa polacco la documentazione sulla nascita dell’associazione Ars Dei, egli mi diede un grande incoraggiamento che mi spinse a continuare con entusiasmo sulla via intrapresa, soprattutto nella creazione del «Villaggio della Musica» a Sobrio. In questi ultimi mesi, proprio durante la preparazione del SobrioFestival, ho conosciuto la pianista Anna Kravtchenko con la quale è nato subito un sincero legame d’amicizia e una perfetta sintonia nel modo di concepire la musica. Abbiamo parlato molto, pensato, suonato insieme, abbiamo condiviso tante belle esperienze. Con mio grande piacere, Anna inaugurerà la prima edizione del SobrioFestival il prossimo 12 luglio, nella Chiesa di San Lorenzo a Sobrio. I cinque compagni
1. Fëdor Dostoevskij 2. Herbert von Karajan 3. Franco Zeffirelli 4. Giovanni Paolo II 5. Anna Kravtchenko
Top10 Libri
Top10 CD
1. Andrea Camilleri
1. Artisti Vari
La piramide di fango, Sellerio 2. Paulo Coelho
2. Lone Survivor
Adulterio, Bompiani
Bravo Hits Vol. 85 2. Abba
Gold - 40th Anniversary
M. Wahlberg, T. Kitsch 3. Sveva Casati Modignani 3. American Hustle
La moglie magica, Sperling
3. Michael Jackson
Xscape
C. Bale, A. Adams 4. Markus Zusak 4. A spasso con i dinosauri
CD Il nuovo album della conturbante Lana
Del Rey la conferma come reginetta di un vintage pop d’autore traboccante disagio e inquietudine
A cura di Zeno Gabaglio È docente di pianoforte e musica da camera presso la Scuola Universitaria di Musica del Conservatorio della Svizzera Italiana dal 1987. Ha suonato in Svizzera e all’estero e realizzato incisioni discografiche che hanno ottenuto unanimi consensi di pubblico e di critica. Nel 2002 ha costituito una Fondazione che promuove iniziative artistico-culturali nella Svizzera italiana volte a favorire la formazione di studenti e l’attività di giovani artisti. Nel 2014 ha creato Il Villaggio della Musica a Sobrio (Leventina), un centro d’incontro internazionale dove studenti, giovani artisti e musicisti affermati operano nella ricerca e nella sperimentazione in campo artistico e pedagogico. Il Villaggio ospita masterclass, corsi di vario genere e un festival estivo dedicato al pianoforte e alla musica da camera (www.arsdei.org/festival). Recentemente ha ricevuto importanti riconoscimenti nell’ambito di produzioni discografiche dedicate all’opera di Fryderyk Chopin. A lui la parola.
Riflessioni di una novella Dark Lady
Storia di una ladra di libri, Frassinelli
4. I Nomadi
Nomadi 50 + 1
Per quanto ridicolo ciò possa sembrare, il motivo principale per cui Lana Del Rey è recentemente risalita alla ribalta ha ben poco a che fare con la musica, essendo da imputarsi soprattutto alla sua «scandalosa» quanto ritrita dichiarazione sull’ambizione di soccombere a una morte precoce, da «vera rockstar». E se, in questo frangente, la 28enne Lana ha subito ricevuto un’appropriata quanto sdegnata risposta da parte di Frances Bean Cobain, figlia di Kurt, non sarebbe probabilmente troppo azzardato supporre che una simile dichiarazione potesse nascondere un malcelato desiderio di pubblicità in occasione di un evento cruciale quale l’uscita del suo nuovo album — Ultraviolence, terzo lavoro dell’artista, che giunge a due anni di distanza dal fenomenale successo di Born to Die (2012), a sua volta preceduto da un esordio ben poco celebrato (Lana Del Ray, 2010). Del resto, l’ascesa allo stardom internazionale della seducente Dark lady Lana (all’anagrafe Lizzy Grant) è stata a dir poco fulminante, visto che Born to Die si può tranquillamente definire come uno dei dischi di maggior successo degli ultimi vent’anni. La particolare impronta stilistica della Del Rey — la cui voce suadente, ma, allo stesso tempo, vagamente inquietante, si combina perfettamente alle atmosfere conturbanti e alle liriche irrequiete delle sue ballate — la rende immediatamente riconoscibile come cantrice di un certo disagio tipicamente americano, dalle sfumature molto cinematografiche e alquanto retrò, condite di ampi riferimenti (anche letterari) all’universo della cultura pop degli anni 50-60. In tal senso, anche l’impostazione di questo Ultraviolence è evidente fin dalla traccia di apertura, la suggestiva Cruel World, che presenta subito all’ascoltatore il particolare registro emotivo su cui la vocalità dell’interprete si muove: la voce accattivante, da novella «cantante confidenziale», della Del Rey sembra provenire direttamente da un film noir degli anni 30, e si fonde magistralmente con lo sguardo disagiato e cinico espresso dai testi delle sue canzoni, le cui atmosfere quasi gotiche la fanno sembrare una crepuscolare Jessica Rabbit dalle pericolose tendenze autodistruttive. Una percezione confermata anche da un lento ipnotico e avvolgente quale la titetrack Ultraviolence, che non avrebbe sfigurato come colonna sonora di un thriller alla Raymond Chandler, e dalla bella ballatona romantica Brooklyn Baby, la cui gradevole e tutt’al-
tro che prevedibile andatura melodica riflette l’amarezza di liriche agrodolci e struggenti; e non è sicuramente una coincidenza se brani come Shades of Cool paiono richiamare le atmosfere avvolgenti tipiche delle soundtrack dei film di James Bond e della tradizione di grandi interpreti angloamericane del calibro di Shirley Bassey. Allo stesso tempo, però, si ha l’impressione che pezzi pur gradevoli quali la «sconveniente» Fucked My Way Up to the Top e Pretty When You Cry sarebbero forse risultati più efficaci se lievemente accorciati e interpretati con minore enfasi; come se la Del Rey stesse un po’ abusando dei tratti caratteristici della sua particolare connotazione stilistica — quel tono di voce a volte esasperatamente lamentoso (si veda un lento come West Coast, primo singolo tratto dall’album), e, soprattutto, l’uso un po’ troppo palese di filtri vocali e imbellettamenti da studio di registrazione, con le conseguenti, ben note difficoltà nelle esibizioni dal vivo. Tuttavia, per la maggior parte del disco l’equilibrio sembra reggere, dando vita al fascino orecchiabile di pezzi come l’avvolgente Sad Girl o lo sprezzante Money Power Glory: quasi degli esercizi da crooner à la Nina Simone, ma con in più un genuino spirito lisergico del tutto odierno (del resto, non è casuale che Lana si sia tatuata i nomi «Nina & Billie» sul torace, in omaggio proprio alla Simone e a Billie Holiday). Ciononostante, i brani forse più interessanti e studiati dell’album risultano essere proprio quelli che si distaccano dal tenore generale della tracklist — come la riflessiva e autorivelatrice ballata Old Money, che sembra riprendere le atmosfere del tormentone Videogames (primo grande successo di Lana tratto da Born To Die), ma con l’aggiunta di un testo ben più complesso; o il blues volutamente sgraziato di The Other Woman, dal sapore cantautorale che ricorda l’estro della compianta Amy Winehouse. In questo senso, l’acida e tagliente verve interpretativa della Del Rey riesce a mantenere Ultraviolence su un piano qualitativo più che interessante, anche considerando come l’estremo cinismo e sprezzo che ne caratterizzano il songwriting non mancheranno di procurare nuovi adepti a questa seducente sacerdotessa del rock, riuscita a far guadagnare al disco l’ambìto adesivo nero che, dalla copertina, avvisa della presenza di linguaggio esplicito nei brani. In attesa che, con gli anni e l’esperienza, Lana si senta meno obbligata a scandalizzare il pubblico, e magari più incline ad ampliare i propri attuali orizzonti stilistici.
Animazione 5. Pierre Dukan 5. Frozen
La dieta dei sette giorni, Sperling
5. Gotthard
Bang!
Animazione 6. John Green 6. Monuments Men
Colpa delle stelle, Rizzoli
6. Moreno
Incredibile
G. Clooney, M. Damon 7. Irene Cao 7. Jack Ryan
Per tutti gli sbagli, Rizzoli
7. Cesare Cremonini
Logico
C. Pine, K. Costner 8. Gianrico Carofiglio 8. The Butler
F. Whitaker, O. Winfrey
Una mutevole verità, Einaudi / novità
8. Mondo Marcio
Nella bocca della tigre 9. George Michael
9. The Counselor
B. Pitt, C. Diaz
9. Anna Premoli
Finché amore non ci separi, Newton
10. Roby Facchinetti
Ma che vita la mia
10. All Is Lost
Robert Redford
Symphonica
10. Tiziano Terzani
Un’idea di destino, Longanesi
Testi non adatti ai minori per l’ultimo album della cantante americana.
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Cultura e Spettacoli
Un ticinese a New York Mostre Alla Galleria Cortesi di Lugano gli scatti del fotografo luganese Edo Bertoglio Gian Franco Ragno Capita spesso di associare una città a un’epoca d’oro di grande fermento artistico. Quartieri ad affitti modici, incontri tra culture diverse, inguaribile desiderio di libertà e di dialogo, personalità trainanti sono spesso alcuni degli ingredienti di un mix tuttavia impossibile da riprodurre. La Parigi negli anni Venti, la Swinging London degli anni Sessanta e sicuramente la New York degli anni Settanta-Ottanta sono tra questi periodi in parte anche mitizzati. È proprio nella «Grande Mela», dopo gli studi di cinematografia a Parigi, che il ticinese Edo Bertoglio (Lugano, 1951) vive e diviene testimone d’eccezione per quindici anni di una straordinaria e irripetibile stagione artistica. Lavora per la rivista «Interview» di Andy Warhol, artista faro con la sua officina artistica The Factory, vero fulcro di una nuova scena multiforme che comprende teatro, cinema d’avanguardia, performance e musica underground – ma che vede anche il nascere un fenomeno nuovo, quello della street art, nata al di fuori delle istituzioni artistiche. Ritrae artisti e musicisti per riviste di moda e case discografiche: tra i molti nomi Keith Haring, Jim Jarmush e Debbie Harrie, la cantante dei Blondie, una vera e propria musa per il fotografo ticinese. Incontra un giovanissimo Jean Michel Basquiat, il quale diventerà protagonista del suo primo documentario, Downtown 81 - girato appunto ad inizio anni Ottanta, ma rimasto per molti anni nel cassetto. Dallo Studio 54 - prima discoteca alla moda dalla clientela strettamente su invito - sino ai bassifondi (allora) scrostati dei quartieri a sud dell’isola di Manhattan (Soho, East Side), Bertoglio come af-
ferma in un’intervista, «lavorava sempre e mai allo stesso tempo», ideando progetto su progetto, ritratto su ritratto. Vive insomma un’epoca di edonismo sfrenato, quella reaganiana, in cui tutto sembrava facile, soprattutto diventare ricchi come nel romanzo di Jay McInerney Le mille luci di New York che ben ritrae quel clima. Alla Galleria Cortesi Contemporary di Lugano, Bertoglio mette in scena un inedito confronto fra due serie di ritratti femminili: la prima, fotografate appunto a cavallo dagli anni Ottanta, tra il 1978 ed il 1982 a New York (nella foto Anya
1979), le altre a trent’anni di distanza, dal 2010. Da una parte, ritratte perlopiù sul tetto del suo loft al Greenwich Village - in Bleeckers Street dove visse un altro artista svizzero e americano d’adozione, Robert Frank - le Figurines si mettono in posa in un mattino albeggiante con tutto il loro eccentrico orgoglio, nei loro vestiti sgargianti e capigliature sperimentali. Il viso bianco elettrico, ottenuto attraverso l’uso di un flash ad anello – il ringflash, che presta il nome all’esposizione – si offre allo spettatore in pieno contrasto con la realtà circostante, appena intuita alle spalle della protagonista. Nell’om-
bra, metaforicamente, rimangono le insidie di quella New York molto diversa da quella odierna, dove, oltre la violenza, protagonista era la droga. Sostanze consumate in grande quantità che a loro volta consumavano, portavano via definitivamente molte delle energie creative degli stessi protagonisti dell’ambiente artistico, come lo stesso Basquiat. Qualche anno più tardi apparse un altro spettro, quello dell’Aids che colpì Robert Mapplethorpe e Keith Haring. Tornando a oggi, a fare da controcanto alle Figurines, ecco le Ladies: un progetto iniziato in condizioni totalmente diverse nel 2010. A differenza delle prime, le ragazze d’oggi sono ritratte in studio, in un ambiente senza riferimenti spaziali né temporali. L’autore si concentra maggiormente sul viso, in una poco percettibile ma efficace tensione data dall’asse del corpo leggermente divergente rispetto al volto. Non più caratterizzate dall’abbigliamento, poco truccate e spesso con i capelli raccolti, appaiono consapevoli della propria identità, rinunciando temporaneamente a ciò che non sia essenziale. Come per le polaroid di Warhol, entrambi progetti fanno parte di un unico personale diario di incontri di chi, come Bertoglio, si dichiara face addict, sempre alla disperata ricerca di volti – non a caso, affermazione scelta come titolo del suo secondo documentario che racconta un impossibile ritorno agli incredibili anni newyorkesi.
Un pianeta sconosciuto sta entrando nell’orbita terrestre. L’impatto con il nostro Mondo ne decreterà la fine. I popoli dall’Africa all’Arabia con preghiere e danze invocano salvezza. Gli americani seguono su grandi schermi la traiettoria della minacciosa cometa. Così iniziava dal gennaio 1934 sulle grandi tavole colorate dei supplementi domenicali d’una infinita catena di giornali statunitensi l’affascinante saga fantaspaziale intestata a Flash Gordon. Disegnata con superba agilità da Alex Raymond (1909) che aveva già dimostrato il proprio talento lavorando come ghost tra l’altro alla serie Cino e Franco di Lyman Young. Biondo aitante sportivo laureato a Yale e rinomato giocatore di polo: lo vediamo passeggero d’un aereo in volo intercontinentale colpito ad un’ala da un frammento d’asteroide e per questo paracadutarsi fuori e salvando così anche un’altra giovane passeggera, Dale Arden, aggrappata a lui. Finiscono vicino al laboratorio dello scienziato dottor Zarkov che forsennatamente sta lavorando a un razzo che potrebbe evitare l’impatto tra i due pianeti. Costui sembra impazzito. Li crede delle spie. Li costringe a entrare nel razzo che lancia verso il cielo. Ne segue una colluttazione, mentre l’astronave impatta nel temuto pianeta Mongo, governato da Ming, crudelissimo dittatore «giallo». Col quale Flash Gordon comincerà subito a scontrarsi, in uno scenario che miscela sogno imaginifico a concreti pericoli «fiabeschi» che soltanto l’aitanza fisica dell’impavido terrestre riesce a superare. Per difendere sé stesso da congiure di corte,
Antonella Rainoldi Mentre si è conclusa martedì la corsa della Nazionale ai Mondiali brasiliani (numeri da record per la partita Svizzera-Argentina: una media di 101’700 spettatori e un picco di 120’000 sul finale, uno share del 73,1% e un picco di massimo ascolto del 77,1% nel secondo tempo supplementare), prosegue la programmazione di Cafè do Brasil (RSI La2, ore 21 nella seconda fase). Per ripetere cose già dette, Cafè
Enrico Carpani. (RSI)
Il progenitore dei supereroi moderni.
Giornale che si contrappose subito alla tranquilla stampa per ragazzi presente in edicola con pur dignitosissime storie e personaggi. Flash Gordon in prima pagina dal primo numero e all’interno pure Jungle Jim e X-9. In poche settimane tirature da capogiro: cinquecentomila copie, assestatesi poi sulle trecentomila. E poco importa se frettolose traduzioni fecero passare Gordon per un agente di polizia e il nome di Zarkov mutato in Zarro. Una bomba editoriale rivoluzionaria, con prudenze autocensorie nei confronti delle beltà femminili che vennero un po’ mitigate dall’aggiunta di vesti meno trasparenti. Raymond, figlio di un architetto, studi d’arte, disegnò la sua «space opera», sui soggetti di Don Moore, per il potente King Feature Syndicate, per 539 domeniche fino alla tavola del 30
Con Carpani e il suo programma scommessa vinta sul piano del coinvolgimento
Dove e quando
Fumetti La fantascienza fiabesca nelle storie di Alex Raymond da aggressivi uomini scimmia, e la bruna Dale dalle concupiscenze di Ming. Aiutato da Zarkov divenuto subito suo prezioso amico, capace con strumenti di estrema semplicità di approntare magari (sequenza sbalorditiva) un «solidificatore di atomi lucenti» per ridare forza alle colonne luminose che sorreggono a cinquemila metri la città degli Uomini Falco, sudditi di re Vultan. Perché infatti si alternano lungo la saga assieme a fantasiosi animali tra i quali tigri cornute dai denti a sciabola e lupi col corpo corazzato, varie altre razze umane: uomini leone, uomini marini, uomini lucertola e altro ancora. Un insieme fantastico che impegna il terrestre in estenuanti lotte fisiche, tenendo pure lontane le sinuose fanciulle dal corpo perfetto, in testa la principessa Aura, figlia di Ming, innamorata follemente di lui, vestite di veli come del resto Dale che per questo soffre di gelosia. Un insieme che miscela abilmente atmosfere (ed icone costumistiche) medievali e selvaggi preistorici scenari naturali. Tutto proiettato in un futuribile di ardite architetture, armi laser e una televisione che già indovina ciò che è ora nel nostro presente elettronico: colloqui a distanza su monitor tra Gordon e Ming. In un’aura di accattivante segno di ricordo Liberty. Flash Gordon conquistò immediata popolarità, mentre Raymond veniva impegnato nella creazione di altre serie: quella esotica intestata a Jungle Jim e su testi del giallista Samuel Dashiell Hammett l’altra animata dal Secret Agent X9. Serie che fecero l’immediata fortuna dal 14 ottobre 1934 del settimanale a fumetti italiano, pubblicato a Firenze da Nerbini, «L’Avventuroso».
Visti in tivù
Edo Bertoglio. Ringflash. Galleria Cortesi Contemporary. Lugano. Fino al 19 luglio 2014.
Flash Gordon compie 80 anni Piero Zanotto
La bella sorpresa di Cafè
aprile 1944, quando venne chiamato col grado di capitano nel Corpo dei Marines con incarichi di Art Director e osservatore-artista a bordo di una portaerei dislocata nelle acque del Pacifico. Congedato agli inizi del 1946 diede vita ad un’altra serie poliziesca con l’investigatore Rip Kirby. Altri avrebbero portato avanti le vicende di Flash Gordon però snervandone la bellezza fiabesca in intrecci unicamente astronautici. Soltanto un altro disegnatore, suo ammiratore, Al Williamson, dopo la morte di Raymond a 47 anni avvenuta il 6 settembre 1956 per un fatale incidente automobilistico, affrontando il personaggio in una breve serie di comic books, riuscì a rendergli omaggio cercando di rimanere fedele con impegno grafico da elogiare al suo universo avventurosamente onirico.
do Brasil non è un programma per intenditori di calcio: è qualcosa di diverso, più vicino ai gusti del pubblico femminile, poco interessato ai dettagli, all’analisi tecnica. Si fonda su una discussione in studio secondo i canoni classici del talk show, e si dispiega fra i contributi degli ospiti e gli episodi di vita vissuta in Brasile, proposti attraverso servizi di pochi minuti. Lo diciamo subito: con Cafè do Brasil è una scommessa vinta, innanzitutto sul piano del coinvolgimento. A garantire la riuscita della trasmissione sono diversi aspetti. Il primo è senza dubbio la conduzione. Lontani i tempi in cui Stefano Ferrando presentava quel repertorio di sciocchezze chiamato Happy Euro! Enrico Carpani, responsabile del Dipartimento Sport, è un grande professionista, conosce il mestiere e sa scegliere ospiti in grado di esprimere un’opinione. In più riesce a imporre la sua personalità e, di conseguenza, il marchio di fabbrica (qualcuno ricorderà la felice esperienza di Club Africa, premiata anche dal magazine del «Tages Anzeiger»). Mettiamoci la presenza fissa di uno come Kubilay Türkyilmaz, un signor commentatore amato da un pubblico trasversale, intergenerazionale, e il gioco è quasi fatto. Un altro aspetto riguarda i servizi mandati in onda, tutti realizzati da un bravissimo Emiliano Bos. Cafè do Brasil è anche questo: una pagina televisiva intensa. Impossibile non seguire con partecipazione storie di vita come quelle dei bambini ai margini, costretti nella favela di Santa Terezinha, alla periferia sud di San Paolo. La testimonianza di Alberto Eisenhardt, che con la moglie li ospita nella Casa dos Curumins, ha raggiunto momenti di intensa commozione. L’idea di gettare uno sguardo sull’altro Brasile, quello estraneo ai campi dei Mondiali, è buona anche per un’altra ragione: indirizza la discussione in studio su temi non meno importanti del pallone.
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta Com’era Mozart da vicino? Ci sono molti modi per iniziare la storia che sto per raccontare. Uno dei tanti, il mio preferito, parte dagli Stati Uniti, nei primi due decenni dell’Ottocento, quando la città di New York, con i suoi 100 mila abitanti, non è ancora la più popolosa dell’Unione: Philadelphia ne conta 150 mila. Gli italiani residenti a New York sono all’incirca una dozzina; fra questi c’è un tale che, fra tante altre attività, una più fallimentare dell’altra, per un po’ di tempo ha aperto un negozio di articoli coloniali. Un giorno si presenta il dottor Ellis, un medico melomane. Non vuole fare acquisti ma porre una domanda al titolare: «Com’era Mozart da vicino?». Perché un italiano che fa il droghiere a New York dovrebbe sapere qualcosa di un musicista salisburghese morto quasi 30 anni prima (il 5 dicembre 1791) e la cui fama postuma non fa che crescere? La risposta è semplice: quell’uomo si chiama Lorenzo da Ponte e ha scritto i libretti di tre opere immortali di Mozart: Le nozze di Figaro, Don Giovanni, Così fan tutte. È successo a Vienna
molti anni fa, dall’autunno del 1875 al gennaio del 1790, ma come dimenticarlo? Lorenzo è sbarcato negli Stati Uniti, dopo 57 giorni di traversata, nel giugno 1805, partendo dal porto di Gravesand in Gran Bretagna, avvertito da un poliziotto compassionevole che il giorno dopo sarebbe stato arrestato per debiti (aveva avallato cambiali non onorate da un lestofante). L’anno precedente era stato preceduto dalla moglie Nancy con i quattro figli (il quinto sarebbe nato in America). Un momento: moglie e figli? Ma Lorenzo da Ponte non era un prete? È così, ordinato sacerdote il 27 marzo 1773 nel seminario di Portogruaro, non ha mai buttato la tonaca. Se è per questo, prima ancora era ebreo e aveva un altro nome. Arrivati a questo punto, forse è meglio cominciare dall’inizio. Lorenzo da Ponte viene al mondo, con il nome di Emmanuel Conegliano, il 10 marzo 1749 nella cittadina di Ceneda, nella Serenissima Repubblica di Venezia. Nel 1861 Ceneda viene unita a Serravalle e forma la città di Vittorio, in onore del re d’Italia
e poco dopo il nome è modificato in Vittorio Veneto. Il padre si chiama Geremia e la madre Teresa Pincherle (ricordiamo che è il vero cognome di Alberto Moravia). La madre muore e il padre, per potersi risposare con una ragazza cattolica, deve convertirsi al cattolicesimo e con lui i tre figli: Emmanuel, Baruch, Anania. Il vescovo di Ceneda si dedica personalmente alla preparazione dei catecumeni. Il nostro Emmanuel è alto, bello, sveglio, ansioso di piacere, impara senza sforzo i libri che riesce a leggere, è un genio dell’adulazione. Il vescovo ne è così colpito da dargli il suo stesso nome e il 29 agosto 1763 Emmanuel Conegliano sparisce e al suo posto compare Lorenzo da Ponte. Ha 14 anni e sua matrigna, Orsola Pasqua Paietta, ne ha solo 17. Nove mesi e tre giorni dopo le nozze nasce Agostino, il primo dei 10 figli, 3 maschi e 7 femmine. Per un giovane di talento che avesse la disgrazia di non nascere ricco c’era un solo modo per proseguire gli studi, entrare in seminario; il vescovo paga la retta per lui e suoi due fratelli. Lorenzo
possedeva una straordinaria attitudine a scrivere versi ma non ci occuperemmo di lui se il suo percorso non avesse incrociato quello di Mozart. Fra testi originali e adattamenti ha scritto una cinquantina di libretti e i suoi versi hanno sempre una meravigliosa musicalità ma, legati a opere dimenticate, sono condannati all’oblio. Ordinato sacerdote, Lorenzo ha bisogno di farsi notare per emergere. Insegnante di latino al seminario di Treviso, organizza un’accademia poetica dove sostiene le tesi di Rousseau; processato e giudicato incapace d’insegnamento in qualunque scuola pubblica, non gli resta che il lavoro di precettore privato. Ma intanto si è fatto notare dai nobili progressisti che lo assumono per far scuola ai loro figli. Lorenzo ha una relazione con una donna sposata che scodella un figlio dopo l’altro, finiti tutti alla ruota dell’orfanotrofio. Quando gli Inquisitori della Repubblica vogliono colpire il nobile Giorgio Pisani che anima un circolo di cospiratori, si rifanno sul precettore dei suoi figli e Lorenzo, con il pretesto
della relazione adulterina, è condannato in contumacia a quindici anni di esilio. Inizia una peregrinazione che lo porterà a Vienna, capitale dell’opera lirica negli anni 80 del 1700, grazie all’imperatore Giuseppe II che era un patito della musica e si occupava personalmente della stagione. I due, Da Ponte e Mozart, non erano amici; avevano in comune la condizione di emarginati e la voglia di emergere; i frutti del loro lavoro hanno qualcosa di miracoloso, dal momento che nessuno dei due parlava bene la lingua dell’altro. Una stagione troppo breve, chiusa dalla morte di Giuseppe II e dalla salita al trono di suo fratello Leopoldo II. Mozart sarebbe poi morto non ancora 35 enne, mentre Lorenzo muore a New York il 17 agosto 1838, quando gli mancano sei mesi a compiere 90 anni. Il suo funerale è celebrato nella chiesa di San Patrizio; un coro di fanciulli canta il Miserere di Gregorio Allegri, quella musica che il tredicenne Mozart aveva ascoltato a Roma ed era riuscito a trascrivere a memoria nota per nota.
dell’amore dei partecipanti al simposio. La prof sembra che sonnecchi o pensi agli affari suoi, ma sente tutto. Così, quando sente «il maschile e il femminile secondo Aristofane devono compiere un percorso per ricongiungersi», fa un balzo sulla sedia. «Uh mamma, ho sbagliato?». No, no. È che mi sono ricordata da dove è probabile che derivi questa mania del percorrere. C’è una trasmissione della tv privata dove più ragazzi cercano di farsi scegliere da una ragazza o più ragazze da un ragazzo. La stessa dove «si fa la propria scelta», un altro tormentone: come prendi il gelato, con o senza panna? Hai fatto la tua scelta? E all’interno di questa trasmissione, i e le pretendenti parlano del tempo trascorso a corteggiare in pubblico e – non sempre – in un privato reso pubblico dalla telecamera, e lo definiscono «percorso». Io e te, cara Samantha (con l’acca?) o cara Debora (senza acca?), ormai abbiamo compiuto un percorso importante. Caro Mirko, caro Demian, è stato bello compiere questo percorso con
te. Ma percorso da dove a dove? Dov’è tutto il senso della fatica, della crescita, dell’acquisizione di sapienza esperienziale che si cela dietro un cammino? Che ostacoli da superare, che tensione alla meta. La meta, poi, è quella di sempre: apparire in tv (certo nessuno sarà così sciocco da pensare che quegli sgallettati siano lì per risolvere problemi di cuore e di futuro). Per raggiungerla sono disposto/a farmi vedere senza trucco, a sentirmi rifiutato/a, a litigare con i/le rivali. A essere valutato/a a peso, come al mercato, vedere i denti, gli zoccoli. Così, anche le uniche difficoltà garantite per la crescita di ogni adolescente, le pene d’amore, diventano spettacolo. A chi farà paura un percorso simile a quelli visti in tivvù? E allora, certo inconsciamente, proviamo anche con Platone, intraprendiamo insieme questo percorso, chissà che la prof non si intenerisca e mi copra se non di petali di rose, come alla tele, almeno di trenta e lode e congratulazioni. Per il mio percorso.
Lo sport è anche letteratura. Lo sapeva anche Giovanni Arpino, che ha scritto un libro, Azzurro tenebra (5½), dedicato al Mondiale 1974, che fu disastroso per l’Italia. Un ottimo giornalista sportivo, Darwin Pastorin, ha citato, in un recente articolo, il poeta T.S. Eliot: il pallone «è un elemento fondamentale della cultura contemporanea». Uno specchio dell’animo umano. Anche i grandi poeti, a volte, dicono ovvietà. Questa è un’ovvietà sacrosanta. Se dovessi segnalare un personaggio opposto al cannibale Suarez farei il nome del portiere del Brasile. Il racconto di Pierluigi Pardo (5+), sul «Foglio», gli ha reso giustizia. Julio Cesar Soares Espíndola, noto come Julio Cesar (6) e soprannominato Acchiappasogni, ha un animo gentile e un sorriso solare. A 33 anni è stato cacciato dall’Inter dopo aver conquistato il Triplete: il 30 agosto 2012, prima dell’ultima partita, entrò in campo con i suoi figli e con le lacrime agli occhi lesse ai tifosi una lettera in cui, ringraziandoli, ripercorreva i sette anni
trascorsi con la maglia nerazzurra. Finì in una squadra inglese che fu retrocessa nonostante i suoi miracoli in porta, con le sue mani enormi e il fisico ancora felino. Passò l’anno seguente in tribuna, prima di essere ceduto al Toronto in prestito. Nonostante il suo immenso talento e le centinaia di parate decisive, si pensava che la sua carriera fosse ormai agli sgoccioli: troppo vecchio, superato, largo ai giovani... Il Mondiale brasiliano l’ha fatto rinascere e parando due rigori (la sua specialità) è uscito da eroe dalla partita-chiave contro il Cile. Per la verità, un eroe timido. Anche lì, davanti alle telecamere che lo intervistavano, è scoppiato in lacrime irrefrenabili che gli impedivano quasi di parlare. «Nel kit tecnico e psicologico del ragazzo di Rio de Janeiro – ha scritto Pardo – c’è questa clamorosa sensibilità, il lato sentimentale della vita che irrompe nel bene e nel male, ed emoziona». Mani enormi come il cuore. Del resto, un cuore è un cuore, è un cuore, è un cuore.
Postille filosofiche di Maria Bettetini Percorsi generazionali «‘Ngiorno prof, per il suo esame ho scelto il percorso quello con Spinoza». «Salve, ho fatto il percorso di Aristotele». Si siedono, mostrano il libretto, del quale posso guardare solo la prima pagina per verificare l’identità dello studente, la privacy vieta da un paio d’anni di sbirciare i voti precedenti, che era così utile per capire subito se avevi di fronte Lucignolo o Einstein. Che poi in fondo si capisce lo stesso, da come salutano, si siedono, portano o non portano i libri di testo. Bene, Giuseppe si è seduto, l’ho riconosciuto sul libretto, segno la data sul verbale, è il momento magico dell’inizio. Per lui, Giuseppe, intorno è silenzio, anche se i suoi compagni ciarlano e si tirano gli aereoplanini, Giuseppe sente solo il battere del suo cuore, non percepisce nemmeno il sudore delle mani e quel delicato rossore che dal collo sale a imporporargli il viso, è un esame, e ogni volta ci si sente messi interamente in discussione, è sempre stato così, perfino all’esame di guida. La prof chiede i testi
scelti tra quelli previsti nell’elenco riportato sul sito dell’università. Giuseppe proferisce verbo, nel silenzio totale della sua apprensione, e la magia cade tutta sul «percorso». Ma cosa hai percorso? Ma dove sei stato? L’interrogazione procede, Giuseppe se la cava anche se caracolla un po’ sulla prima domanda, che è una domanda a piacere. Strano, vero? Eppure: è noto, e da me dichiarato, che la prima domanda è quasi (quasi, mai rassicurare troppo) sempre a piacere; inoltre la domanda a piacere consente a chiunque di dire qualcosa, fosse anche un ricordo delle scuole medie o il parere dello zio Alderico sui quadri di Picasso (al netto delle espressioni indecenti). Eppure. Eppure molti implorano: no, la domanda a piacere no, dica lei, mi chieda lei, prof, per favore! Molti rimangono spiazzati: mh sì, a piacere, mh, non so, Platone, ne ha già parlato qualcuno? Sì, molti, è il primo autore a essere spiegato a lezione e il primo filosofo non si scorda mai. Ah, allora, non so, non posso proprio parlare
di Platone? Ma sì, va bene, magari della Repubblica, non del Simposio. Ma… è dal Simposio che parte il mio percorso. Agh. Mi mangerei il cappello come Rockerduck, avrei lo sguardo di Paperino che fa Glab!, colpirei di bastone come lo zio Paperon de’ Paperoni, se fossi a Paperopoli. Ma sono tra umani (i Muggles, i Babbani di Harry Potter). E quindi tutto ciò che è umano mi riguarda, come dicevano i romani con Terenzio: Homo sum, humani nihil a me alienum puto. Pertanto: va bene, mi parli del Simposio, e non dica più «percorso». No, non è una parolaccia. È che io sono stufa di sentire il resoconto dei percorsi da percorrere o già percorsi. Il Paese segue un percorso di cambiamento, prima di dipingersi le unghie è opportuno seguire un percorso di rinforzamento. Sono a metà percorso del trasloco. Cara amica, se ci guardiamo alle spalle, che bel percorso abbiamo fatto insieme. Rifletto, e intanto ascolto il nostro Giuseppe riportare con dignità i diversi pareri sulla natura
Voti d’aria di Paolo Di Stefano Un morso è un morso, un cuore è un cuore Un morso è un morso, è un morso, è un morso. La parafrasi del famoso verso di Gertrud Stein dedicato alla rosa è solo per dire che non può esserci equivoco: un morso è un morso. Dunque, che Luis Suarez (1), attaccante dell’Uruguay, lo ammettesse o no, il morso a Chiellini c’è stato. Tra l’altro, se non fossero sufficienti le prove televisive, basterebbe dare un’occhiata ai segni rimasti incisi sulla spalla del difensore italiano. La confessione del reo e le scuse, in questo caso, sono davvero tardive e insignificanti. A meno che non si voglia dar retta a quelli che sostengono che sono arrivate, confessione e scuse, per esigenze di ingaggio con il Barcellona: Suarez avrebbe sottoscritto un contratto con una clausola-morso. Qualora dovesse tornare ad addentare l’avversario, il contratto con la squadra catalana cesserebbe e il giocatore sarebbe costretto a pagare una penale. Così si spiegherebbe la svolta buonista, dopo le ridicole dichiarazioni precedenti, consegnate
alla Federazione internazionale: «È stato un gesto involontario, avevo solo perso l’equilibrio e ho sbattuto la faccia contro la spalla di Chiellini…». Ha poi aggiunto che l’urto gli ha procurato un livido e un forte dolore alla mascella, donde la farsa del piagnucolamento infantile sul campo per il (presunto) danno subìto. Dopo il gesto, dopo la sceneggiata e dopo le bugie, Suarez si è guadagnato una sanzione minima: nove partite internazionali e quattro mesi di sospensione da ogni attività calcistica. È dunque passato in breve tempo dal morso al ricorso al (finto) rimorso. Il peggio, se possibile, è arrivato dopo. Quando cioè Chiellini è uscito dal delirium tremens e dalle convulsioni seguite all’attacco cannibale dicendo non solo che accettava le scuse (giusto), ma che era tutto dimenticato e che anzi sperava che riducessero la squalifica al povero squalo ferito. Dopo il pestaggio, i rantoli, le accuse, i pianti, gli urli, i rotolamenti, un penoso balletto in punta di fioretto
(di Twitter) da vecchie signore all’ora del tè (2). «Morsi e rimorsi» è stato il titolo, quasi univoco, dei commenti del giorno dopo. «Morsi e ri-morsi» sarebbe stato più adeguato, visto che finora si sono contate otto aggressioni dentali di Suarez contro i difensori avversari. Non due o tre, ribadisco, ma otto. Corsi e ricorsi (storici). Un precedente è quello della furia bestiale del pugile Mike Tyson che in un incontro di boxe con Evander Holyfield gli morse un orecchio staccandogli la cartilagine. Il campione dei pesi massimi ammise (tardivamente anche lui) in un’autobiografia che avrebbe voluto non solo staccare l’orecchio all’avversario, ma ucciderlo. Ne venne fuori una rissa gigantesca e quando si ritirò in camera, dopo essere stato bloccato da una cinquantina di uomini, Tyson non aveva ancora sbollito la rabbia: «Ho fumato dell’erba e bevuto del liquore prima di andare a dormire». Gli fu revocata la possibilità di scendere sul ring per un solo anno.
prodotti a km zero di casa nostra. I Nostrani del Ticino sono la riscoperta dei sapori locali e provengono esclusivamente da aziende ticinesi che ne garantiscono la qualità , la freschezza e la genuinità . Essi rappresentano l’impegno concreto e coerente nel sostenere agricoltori, allevatori e produttori alimentari della nostra regione.
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A N G NI s SE RA INO gro AS T C i lio R OS TI li M lug N EL ia 1 D fil l 2 lle a ne fino
shopping
Pane al mais nostrano, un pane per tutta la giornata Flavia Leuenberger
Attualità Buono a colazione, gustosissimo per un panino, ottimo grigliato È una giornata di sole, attorno a noi fervono i preparativi per il Festival Moon and Stars che da oramai quasi dieci anni elettrizza Piazza Grande lungo una settimana e mezza ricca di performance musicali di altissimo livello. In piazza ci troviamo con Alfredo, turista spagnolo originario di Murcia appassionato di boulder climbing. «Sono 3 anni che ogni estate vengo in Ticino per arrampicarmi sui massi rocciosi», ci dice sorridendo. «Nessun luogo in Europa è così ricco di elementi naturali, dalla roccia, all’acqua alle piante generose di frutti e noci. Per me che amo immergermi nella natura è un paradiso. Mi piace ritagliarmi un po’ di tempo per me stesso e in solitudine esploro i boschi, alla ricerca di una roccia alla quale aggrapparmi. Parto la mattina con il mio zaino e l’essenziale, come una buona pagnotta al mais nostrano per rifocillarmi. Mi piace perché è un pane che si conserva morbido a lungo ed è molto versatile. Posso gustarlo la mattina a colazione come usarlo più tardi in giornata per farmi un panino pomeridiano». Il pane al Mais Nostrano ha come particolarità una mollica compatta e giallo brillante, data dalla farina di granoturco sapientemente miscelata con farina di grano tenero ticinese. La sua forma ricorda quella del sole e con la copertura di mais croccante evoca la stagione estiva. «Con l’arrivo delle belle giornate, ciò che mi piace di più fare è arrampicare a contatto con la roccia, in uno stato quasi meditativo. Dopo aver passato la giornata nei boschi praticando bouldering, una grigliata è l’ideale per recuperare le energie e riposare un po’ il corpo. Con il pane che mi è rimasto faccio delle gustose bruschette che gusto con della carne grigliata oppure con delle verdure. È sufficiente tenere il barbecue ad una fiamma bassa e tostare velocemente il pane per un paio di minuti su entrambi i lati. Il pane diventa bello croccante fuori mantenendo la morbidezza interna della mollica, vi assicuro che è una vera e propria prelibatezza! Per il dopocena invece mi piace scendere a Locarno, specialmente durante il periodo del Moon and Stars perché la piazza è molto viva e c’è una bella atmosfera di festa». Per un’estate scoppiettante date fuoco alle braci e sfoderate le pinze del barbecue, basta del buon pane al mais nostrano tagliato a fette, qualche luganighetta e verdure grigliate ed è subito festa. E poi tutti a Locarno a fare due salti ascoltando gli artisti del Moon and Stars! Luisa Jane Rusconi
Pane al mais nostrano (Pan da formentón) 300 g Fr. 3.20
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Idee e acquisti per la settimana
Così vicino, così buono Attualità Carnosi, peretti, cuore di bue, cherry, ramati, datterini… al via la stagione
dei pomodori nostrani, i quali hanno letteralmente invaso le filiali di Migros Ticino. La dietista Pamela Beltrametti ci parla delle incredibili proprietà di questo ortaggio
Pamela Beltrametti, dietista diplomata S.S.S., titolare dello studio di consulenza e terapia dietetica «La Dietista» di Cadenazzo www.ladietista.ch
«I pomodori sono considerati verdure, anche se in realtà sono dei frutti, della famiglia delle solanacee. Sono originari dell’Ecuador e del Peru, e furono portati in Europa nel sedicesimo secolo. La stagione alle nostre latitudini inizia a aprile-giugno e va fino a settembre. I pomodori contengono una molecola dal potere antiossidante, il licopene, che con il betacarotene è un pigmento responsabile del colore del pomodoro. Le sostanze antiossidanti proteggono il DNA dai radicali liberi. Il licopene è presente soprattutto nella buccia del pomodoro e nel pericarpo (parte attorno ai semi). Si raccomanda di consumare i pomodori maturi, e non verdi, poiché contengono solanina, un alcaloide. Questa sostanza si scompone durante il processo di maturazione, cedendo il posto a licopene e beta carotene. Si raccomanda inoltre di tenere i pomodori fuori dal frigo, così da preservare il loro aroma. Per ottenere il maggior beneficio dalla presenza di licopene, è necessario cuocere il pomodoro; il licopene, contrariamente ad altre vitamine e sostanze vegetali secondarie, non è sensibile al
caldo. Gli studi mostrano che l’aggiunta di olio di oliva durante la cottura del pomodoro aumenta di molto l’assorbimento del licopene. Un esempio è la tradizionale salsa di pomodoro, meglio se con la buccia e affinata con olio di oliva. L’interesse nutrizionale del pomodoro, oltre che alla presenza del licopene, si spiega con la presenza di fibre e di betacarotene. Il betacarotene o provitamina A può essere trasformato dall’organismo in vitamina A, ma è sensibile al calore. Le perdite di questa vitamina sono in media del 20 % con la cottura. Per questo motivo, oltre a consumare pomodori cotti, sotto forma di sughi o zuppe, è interessante consumare i pomodori crudi, con la buccia. Un classico estivo è la caprese o la bruschetta. Interessante notare che un pomodoro che sta nel palmo di una mano apporta circa la metà del fabbisogno giornaliero di betacarotene per un adulto. Le proprietà di questo ortaggio lo rendono protagonista nell’alimentazione equilibrata di adulti e bambini, e le tante varietà e colori abbelliscono i nostri menu estivi, unendo varietà e piacere a tavola».
Manuela Kraus di S. Antonino, orticoltrice e produttrice di pomodori per Migros Ticino. (Giovanni Barberis)
Pomodori Nostrani in degustazione 11 e 12 luglio
Migros Serfontana
12 luglio
Migros Biasca
16 e 17 luglio
Migros Locarno
16 e 17 luglio
Migros S. Antonino
18 e 19 luglio
Migros Agno
18 e 19 luglio
Migros Lugano
19 luglio
Migros Taverne
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Idee e acquisti per la settimana
I mirtilli di S. Antonino Attualità Le bacche coltivate da Cesare Bassi sono pronte a conquistare il palato
dei buongustai Foto di Giovanni Barberis: Cesare Bassi coltiva mirtilli da oltre vent’anni.
Da alcune settimane sugli scaffali di Migros Ticino possiamo acquistare e gustare i mirtilli ticinesi. Una parte di essi provengono da S. Antonino, dove l’azienda Bassi li coltiva ormai da oltre vent’anni. I frutti, anche se hanno l’aspetto di bacche, in realtà sono false bacche, perché si originano, oltre che dall’ovario, da sepali, petali e stami. La raccolta dei mirtilli dura circa 40 giorni e, come ci spiega Cesare Bassi, comincia già da metà giugno: «Avviene in modo rigorosamente manuale: con il consistente appoggio della moglie Raffaella e dei suoceri Tino e Silvietta, visitiamo le 350 piante della piantagione (distribuita su 1500 m2) due volte a settimana». In questo modo i frutti vengono raccolti al culmine della loro
maturazione e il giorno seguente sono a disposizione dei clienti. I quantitativi variano secondo la stagione, ma si aggirano tra i sette e i dieci quintali, prodotti in modo completamente naturale: «I mirtilli non hanno per ora bisogno di alcun tipo di trattamento fitosanitario; l’unico problema, recente, è l’arrivo della Drosophila suzukii, un moscerino che attacca i mirtilli maturi». Per limitare i danni, l’azienda Bassi posiziona diverse trappole nel frutteto, delle bottiglie con una miscela a base di aceto dove l’insetto viene attratto. Un’altra minaccia arriva invece dal cielo, dagli uccelli (passeri e merli) che sono particolarmente ghiotti di mirtilli: «Non sempre mangiano il frutto, ma anche solo beccando i mirtilli li
rendono invendibili», racconta il dinamico agricoltore. Per salvare i frutti, anche dalla grandine, è quindi necessario coprire le colture con delle reti, chiuse ermeticamente. L’azienda Bassi di Sant’Antonino è attiva anche con i ribes o con le ciliegie, mentre in agosto sarà il tempo delle mele che, assieme alla vigna, completano i 16 ettari dell’azienda famigliare situata all’imbocco del Piano di Magadino. Oltre alle colture frutticole, Cesare Bassi si occupa anche di circa 25 vacche nutrici che, con i loro vitelli d’estate salgono sull’alpeggio, lasciando un più di tempo a lui e ai famigliari per dedicarsi alla fienagione e alla raccolta di frutti, bacche e degli altri prodotti della terra. / Elia Stampanoni
Trote nostrane al grill Attualità Le trote iridee nostrane della
Piscicoltura di Pura sono ottime anche cotte sulla griglia. Vi proponiamo un’irresistibile ricetta preparata con questo versatile pesce in vendita presso i reparti pesce di Migros Ticino Trota grigliata con foglie d’alloro Piatto principale per 4 persone Ingredienti 4 trote intere nostrane eviscerate di ca. 250 g 1 limone 8 foglie d’alloro sale 4 cucchiai d’olio d’oliva
Preparazione Sciacquate le trote eviscerate sotto l’acqua fredda e asciugatele con carta da cucina. Tagliate il limone a fette. Fissate con lo spago da cucina, da entrambi i lati, le foglie d’alloro e le fette di limone. Condite le trote con sale e
olio d’oliva. Accomodate le trote su un foglio di carta alu oliato. Cottura: grill sferico a carbonella: preparate la brace. Grigliate le trote su un foglio di carta alu a fuoco indiretto, con coperchio chiuso, per 8-10 minuti. Grill sferico a gas o elettrico (grill a cinque posizioni): scaldate il grill a 220 °C. Grigliate le trote su un foglio di carta alu, sulla posizione 3, con coperchio chiuso, 4-5 minuti per lato. Grill a carbonella senza coperchio: preparate la brace. Sistemate la griglia sulla scanalatura più alta. Grigliate le trote su un foglio di carta alu sulla brace non troppo forte, 7 minuti per lato.
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Ricordi d’estate Novità Gelato nostrano
al lampone e yogurt: delizia stagionale che fa sognare
sempre ha lo stesso gusto e a dipendenza del luogo di produzione, della tipologia del frutto, dell’esposizione al sole e del tipo di clima si possono avere variazioni di sapore che vanno dall’acidulo al più dolce. Per la propria frutta Lucibello si rifornisce da due produttori locali che producono le passate di frutta usate per aromatizzare i gelati. Lo yogurt proviene dalla Agroval di Airolo e tutti gli ingredienti sono certificati Ticino, come d’altronde anche quelli usati per le varietà Uva Americana, Farina Bona e Fiordilatte già in assortimento a Migros Ticino. / Luisa Jane Rusconi Flavia Leuenberger
«Una cucchiaiata e sono trasportata dai ricordi alla mia infanzia», racconta la compagna e socia di Ivano Lucibello, produttore dei gelati nostrani per Migros Ticino. Julita La Mantia ama da sempre i lamponi, che predilige sopra ogni altro frutto. «Penso che tutti i bambini li adorino, così dolci e freschi, e neanche noi adulti siamo da meno». Nel laboratorio «Mastro Lucibello», dove nascono i gelati 100% ticinesi, ci facciamo spiegare da dove giunge questa passione. Dopo anni nella pasticceria, Ivano Lucibello si interessa al gelato iniziando con tecniche di lavorazione più comuni (che richiedono l’uso di paste aromatizzate) per poi decidere di produrre unicamente gelato 100% artigianale. Una lavorazione complessa che richiede molte prove per ottenere un prodotto con la giusta dolcezza; e difficilmente la produzione delle varie stagioni ha lo stesso sapore. La frutta fresca non
Gelato nostrano al lampone e yogurt 400 g Fr. 7.70
Grande successo per il decimo anniversario della Festa dei Vicini Manifestazioni Premiati i dieci vincitori del concorso fotografico sostenuto da Migros Ticino
Mirador: informazioni errate sulla confezione Da inizio anno, il condimento in polvere alle erbe Mirador della Migros è prodotto secondo una nuova ricetta senza lattosio. Tuttavia, durante la fabbricazione il condimento aromatico è stato accidentalmente prodotto ancora secondo la vecchia ricetta contenente lattosio, finendo in commercio nella nuova confezione (in foto). Gli articoli in questione (numero 1062.205) riportano le date di scadenza 21.5.15 oppure 5.6.15. Le ricariche (articolo numero 1062.212) riportano invece le date di scadenza 7.9.15 o 24.11.15. I lotti interessati sono stati venduti tra gennaio ed aprile 2014. Le persone intolleranti al lattosio e i vegani non dovrebbero consumare il condimento in questione, ma possono restituirlo a una filiale Migros dietro rimborso del prezzo di vendita.
Lettere, testimonianze ma soprattutto tante, tante fotografie! La Festa dei Vicini 2014, giunta al suo decimo anniversario, ha registrato un consenso senza precedenti: oltre 16 feste organizzate in tutto il luganese: da Pambio-Noranco a Molino Nuovo, da Breganzona a Gandria, da Pregassona a Loreto, Cadro, Davesco-Soragno e Castagnola! Per ogni
festa sono state segnalate in media tra le 10 e le 30 persone per una stima complessiva pari a oltre 500 partecipanti. Tante le testimonianze di entusiasmo da parte degli organizzatori che hanno allestito tavolate colorate e scattato foto creative a forma di cuore, con le braccia alzate al cielo oppure a comporre la scritta «Festa dei Vicini». Al punto che
la scelta dei dieci vincitori delle carte regalo Migros di Fr. 100.– ciascuna è stata difficile e un premio di ringraziamento è stato inviato a tutti i partecipanti. Ecco dunque i nomi dei dieci vincitori per l’edizione 2014: A. Ragusa (Pambio Noranco); E. Caroli (Gandria); C. Gerosa (Besso); F. Tollo (Loreto); S. Moroni (Molino Nuovo); M. D’Angelis (Pambio-
Noranco); O. Jackson (Lugano centro); L. Rinaldi (Breganzona); S. Borellini (Cadro); D. Finelli e M. Caforio (Massagno). Tutte le foto della Festa dei Vicini 2014 sono visibili al seguente link: www.lugano.ch/diis oppure sulla pagina facebook del Dicastero integrazione e informazione sociale: www.facebook.com/ diislugano.
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Idee e acquisti per la settimana
Il Lardo di Colonnata
Il paesino di Colonnata, frazione di Carrara sulle Alpi Apuane, è la patria di uno dei salumi (forse) più pregiati d’Italia. Un lardo bianco, saporito, profumato e dolce, che deve la meritata fama al luogo in cui è stato inventato. Come a Carrara e negli altri comuni della zona, il marmo estratto dalle cave è da secoli fonte di sostentamento per la popolazione, così è a Colonnata, dove però il marmo ha un insospettabile pregio in più: serve a fare maturare il lardo. Il lardo, la parte adiposa della schiena del maiale, viene tagliato a fette di almeno 3 cm, che alternate a strati di sale marino naturale, pepe e spezie, vengono poi chiuse in contenitori di marmo (conche) e lasciate stagionare per almeno 6 mesi. Durante questo periodo il lardo, a contatto con il sale, produce la cosiddetta «salamoia», indispensabile per la maturazione del salume. La sua lavorazione è semplice, ma le peculiarità ambientali del paesino di Colonnata sono uniche. Oltre a sfruttare le caratteristiche del marmo, Colonnata è a due passi dal mare, dove per buona parte dell’anno si gode un microclima fatto di temperature costanti.
Dal 7 al 19 luglio la gastronomia della vicina Penisola sarà ospite dei Ristoranti Migros del Cantone con molte sfiziose proposte all’insegna della buona tavola e della tradizione. L’offerta, che può variare giornalmente, include le seguenti specialità: Saltimbocca alla romana con risotto allo zafferano; Merluzzo alla livornese; Costoletta valdostana; Trancio di tonno all’aceto balsamico su letto di rucola con grana e pomodorini; Fritto misto; Costata di manzo; Sogliola alla Sorrentina; Arrostini di pollo alla birra e Piccata alla milanese con risotto alla parmigiana. Inoltre, non mancano anche diverse paste, pietanze fredde nonché dessert tipicamente mediterranei.
Lardo di Colonnata 100 g Fr. 6.30 In vendita nelle filiali di Migros Ticino con banco a servizio.
Piadine solo vegetali
Quando si va di fretta ma non si vuole rinunciare a qualcosa di genuino e gustoso, una piadina farcita con i companatici preferiti è spesso la soluzione ideale. Quando poi questa è fatta con ingredienti 100 % vegetali ed è priva di lievito, proteine del latte nonché grassi idrogenati tanto meglio, anche per la gioia degli intolleranti a queste sostanze nonché dei vegani. Le due piadine firmate Borioni soddisfano queste esigenze, giacché sono realizzate con fari-
Specialità italiane nei Ristoranti Migros
ne di malto d’orzo le une e mais e farro le altre. Sono pronte in un baleno scaldandole brevemente sulla teglia del forno oppure in una padella antiaderente.
Piadina Malto d’Orzo Borioni 300 g Fr. 4.90 Piadina Mais e Farro Borioni 300 g Fr. 4.90 In vendita nelle maggiori filiali Migros.
Freschi sapori dal sud
Nativa dell’Africa centrale, l’anguria (Citrullus lanatus), era coltivata e consumata nell’antico Egitto molto prima del 2000 a.C. Probabilmente fu introdotta in Europa dai Saraceni quando invasero la Spagna. L’anguria è considerata un dessert nella maggior parte del mondo occidentale, mentre nelle regioni aride è utilizzata sia come sostituto dell’acqua che come contenitore per il trasporto di quest’ultima. Si tratta generalmente di un frutto voluminoso, dalla polpa rossa, rosa o gialla, che può arrivare a pesare fino a 20 chili, ma oggi esistono anche varietà in formato mini con le medesime caratteristiche di quelle di grande formato. Composta per oltre il 90 per cento di acqua, ha un gusto dolce e una consistenza farinosa che si scioglie in bocca, rinfrescandola. La si gusta da sola, sia come frutto che come bevanda, ma si abbina bene ad alcuni formaggi ed è perfetta per la preparazione di sorbetti. Attualmente a Migros Ticino trovate alcune varietà di anguria d’origine italiana.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 7 luglio 2014 ¶ N. 28
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 7 luglio 2014 ¶ N. 28
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Idee e acquisti per la settimana
Amata da dive e regine La focaccia farcita esisteva già in tempi antichi. Ma sono stati i pomodori e la mozzarella a portare la pizza al successo Quando, nel 1889, il pizzaiolo napoletano Raffaele Esposito volle creare una pizza in onore della regina Margherita di Savoia, ricoprì con pomodori, mozzarella e basilico il tradizionale impasto di farina, acqua, lievito e sale. Nacque così la Pizza Margherita con i tre colori della bandiera italiana, come ancora la conosciamo oggi. Intanto, un altro pizzaiolo che qualche anno prima aveva aperto la prima pizzeria di Roma, aveva fatto fallimento. Evidentemente, nella città eter-
na a nessuno era piaciuta quella focaccia destinata ad aver così tanto successo. Poi, però, anche Roma fu conquistata dall’entusiasmo portato dalla Regina. Anni dopo, gli emigranti esportarono la pizza nella loro nuova patria oltreoceano e la resero talmente popolare che negli Stati Uniti già alla fine degli anni Cinquanta esistevano le prime pizze precotte. I lavoratori italiani portarono la pizza anche in Svizzera, nella stessa epoca in cui gli svizzeri iniziavano a viaggiare in Sud
Sophia Loren l’ha sempre saputo: una semplice pizza con pomodori, mozzarella, acciughe e olio d’oliva fa parte dei grandi piaceri della vita.
Italia e ad innamorarsi di Margherita e compagnia. La moda della pizza ispirò anche la panetteria Jowa della Migros, che cominciò a sfornare pizze già verso la metà degli anni Sessanta. Stelle del cinema come Sophia Loren contribuirono al successo mondiale di questa pietanza: far la pizza in casa può essere un’attività molto seducente… Anche se la diva ha sempre dato il merito della sua linea agli spaghetti, da buona napoletana la Loren adora la pizza. / Testo: Claudia Schmidt
Pizza alle erbe con pancetta Piatto principale per 4 persone Ingredienti 1 pasta per pizza rettangolare già spianata di 580 g 300 g di mozzarella 300 g di pomodori cherry 4 rametti d’origano 4 rametti di timo 1 cucchiaio d’olio d’oliva ½ mazzetto di basilico 100 g di pancetta piana a fette
Preparazione Scaldate il forno a 230°C. Srotolate la pasta per pizza e dividetela in quattro. Accomodate la pasta su una teglia foderata con carta da forno. Dimezzate la mozzarella e tagliatela a fette sottili. Dimezzate i pomodori cherry. Staccate le foglioline di origano e di timo. Farcite i quarti di pasta con gli ingredienti. Irrorate con poco olio d’oliva. Cuocete le pizze nella scanalatura più bassa del forno per ca. 20 minuti. Estraete le pizze. Staccate le foglie di basilico e distribuitele assieme alla pancetta sulle pizze.
Tempo di preparazione ca. 20 minuti + cottura in forno ca. 20 minuti
Per persona ca. 30 g di proteine, 40 g di grassi, 66 g di carboidrati, 3150 kJ/755 kcal
Ricetta di:
Longobardi Pomodori pelati e triturati 280 g Fr. 1.10
Anna’s Best Pasta per pizza spianata 580 g Fr. 3.90
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TerraSuisse Prosciutto posteriore in confezione doppia, Fr. 2.10* invece di 3.– per 100 g * 30% di sconto dall’8 al 14 luglio.
Citterio Salame Milano confezione maxi Fr. 5.– per 100 g Nelle maggiori filiali
M-Classic Champignons tagliati 115 g Fr. –.85
Alfredo Mozzarella 150 g Fr. 1.50
Taglierina per pizza Rotopizza Fr. 2.90
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Idee e acquisti per la settimana
Autenticamente italiana Le pizze di La Pizza sono fatte a mano, con un bordo croccante ed arioso e un fondo sottile
Il segreto della cucina italiana sta nella sua raffinata semplicità. La linea La Pizza comprende pizze fatte a mano in diverse variazioni, nonché alcuni spuntini come le pizzette, tutti prodotti secondo il suddetto principio. L’altissima qualità delle pizze emerge al primo morso. Dopo una breve cottura nel for-
no, il bordo diventa croccante e il fondo morbido pur essendo sottile. Condita con ingredienti freschi, emana i sapori della pizza cotta nel forno a legna. Dato che la pasta viene stesa con movimenti ondulatori invece che spianandola, la pizza assume una consistenza particolarmente ariosa. Viene prodotta alla
vecchia maniera dall’azienda a conduzione familiare Margherita S.r.l. di Fregona, in provincia di Treviso. Il processo di produzione tradizionale comincia già dalla pasta e dalla lunga lievitazione, che dura ben 24 ore. In questo modo la pasta resta particolarmente ariosa, perché non viene spianata, ma tirata a
mano dai pizzaioli che la fanno roteare. Anche i condimenti vengono apposti a mano. La maggior parte provengono da produttori locali. Naturalmente, pure l’acqua dell’impasto proviene dalla regione ed è particolarmente pura. Un altro dei segreti della pizza perfetta. / DH
La Pizza Margherita 330 g Fr. 6.80
La Pizza 4 Stagioni 420 g Fr. 7.80 30% di sconto su La Pizza Margherita o La Pizza 4 Stagioni in confezione doppia dall’8 al 14 luglio.
Sia l’acqua dell’impasto che la maggior parte degli ingredienti provengono dalla regione attorno a Fregona, in provincia di Treviso.
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ALTRE OFFERTE. FRUTTA E VERDURA Lattuga rossa Anna’s Best in conf. da 2, 2 x 150 g 4.60 invece di 5.80 20% Pomodori a grappolo, Svizzera, al kg 2.70 invece di 4.50 40% Meloni Galia, Spagna, al pezzo 1.35 invece di 2.30 40%
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PESCE, CARNE E POLLAME Bistecca di lonza di maiale speziata, bio, Svizzera, per 100 g 1.90 invece di 2.75 30% Specialità ticinesi per grigliate Rapelli, Svizzera, 575 g 7.90 invece di 13.20 40% Prosciutto cotto, TerraSuisse, in conf. da 2, per 100 g 2.10 invece di 3.– 30% Salame, bio, Italia, o prosciutto crudo della Foresta Nera, bio, Germania, per es. salame, vaschetta grande, per 100 g 4.15 invece di 5.20 20%
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Detersivo Total Color o Classic in conf. risparmio Detersivi Total in flacone da 5 l XXL per es. 1 for all, 5 l 7,5 kg
Ali di pollo Optigal, Svizzera, per es. speziate, 6 pezzi, al kg 9.– invece di 14.50 33% Salmone affumicato, bio, d’allevamento, Scozia, 260 g 14.50 invece di 20.80 30% *
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Salame del Mendrisiotto, prodotto in Ticino, pezzo da ca. 400 g, per 100 g 2.95 invece di 4.35 30%
Detersivi per capi delicati Yvette in conf. da 2 20% di riduzione, per es. Color, 2 x 2 l
Pancetta arrotolata, prodotta in Ticino, affettata in vaschetta, per 100 g 2.95 invece di 3.75 20% Costine di maiale, Svizzera, imballate, per 100 g 1.15 invece di 1.80 35% Racks d’agnello, Nuova Zelanda / Australia, imballati, per 100 g 4.05 invece di 5.40 25%
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Ghiaccioli Ice Party, 980 ml 7.80 invece di 11.15 30%
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PANE E LATTICINI Panna intera UHT Valflora in conf. da 2, 2 x 500 ml 4.65 invece di 6.70 30% *In vendita nelle maggiori filiali Migros.
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Grande Caffè Macchiato, Cappuccino e Zero in conf. da 3, per es. cappuccino, 3 x 210 ml 3.60 invece di 4.50 20% Tutti gli yogurt Bifidus in conf. da 6, per es. al mango / alle fragole / ai mirtilli, 6 x 150 g 3.95 invece di 5.10 20% Asiago, per 100 g 1.25 invece di 1.60 20% Tilsiter alla panna, bio, per 100 g 1.50 invece di 1.90 20% Xetabel in conf. da 2, per es. alla provenzale, 2 x 100 g 5.10 invece di 6.40 20% Pane al mais Nostrano –.50 di riduzione, 300 g 2.70 invece di 3.20 Sbrinz, a libero servizio, per 100 g 1.60 invece di 2.30 30%
Albicocche, bio, surgelate, 600 g 5.20 NOVITÀ *,**
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FIORI E PIANTE Girasoli, mazzo da 5 8.90 Phalaenopsis, 2 steli, in vaso da 12 cm, la pianta 11.70 invece di 16.80 30% Rose in vaso a fiori grandi, in vaso da 12 cm, la pianta 7.80
ALTRI ALIMENTI
Tutti i sughi per la pasta e le conserve di pomodoro Migros Bio, per es. pomodori tritati, in barattolo, 280 g 1.05 invece di 1.35 20% Tutti i tipi di olio d’oliva o di aceto Monini, per es. olio extra vergine, 1 l 10.15 invece di 12.70 20%
M&M’s e Maltesers in confezione grande, con il 10% di contenuto in più, per es. Peanuts M&M’s, 250 g + 25 g gratis 3.10 invece di 3.40
Tutti gli antipasti Polli, Conserva della Nonna o Dittmann, per es. pomodori secchi sott’olio Conserva della Nonna, 340 g 3.75 invece di 4.70 20%
Tutti i biscotti rotondi in confezione a tubo (articoli M-Budget e Alnatura esclusi), –.50 di riduzione, per es. biscotti margherita, 210 g 1.40 invece di 1.90
Tonno in olio o in acqua M-Classic in conf. da 8, per es. tonno in olio, 8 x 155 g 11.40 invece di 15.20 25%
Nutella in barattolo da 1 kg 6.20 Müesli e fiocchi Farmer in conf. da 2, per es. Low Fat ai frutti di bosco, 2 x 500 g 8.60 invece di 10.80 20%
Tutti i prodotti in scatola Migros Bio, per es. purea di mele, in barattolo, 450 g 1.35 invece di 1.70 20%
Fettine vegetariane in conf. da 2, bio, per es. fettine alle erbe, 2 x 165 g 7.30 invece di 8.60 15% Piadine vegetali, al malto d’orzo e al mais e farro, 300 g 3.90 invece di 4.90 20% Ciambelle Nostrane, 3 pezzi, 99 g 2.20 invece di 2.80 20%
NEAR FOOD / NON FOOD Tutto l’assortimento di alimenti per gatti Vital Balance, per es. Adult con pollo in vaschetta, 4 x 85 g 3.10 invece di 3.90 20% Prodotti Candida in confezioni multiple, per es. peppermint, in conf. da 3, 3 x 125 ml 5.90 invece di 8.85 3 per 2 Salviettine cosmetiche, fazzoletti Linsoft e salviettine umide Linsoft e Kleenex in confezioni multiple, per es. fazzoletti Linsoft Design, FSC, 42 x 10 pezzi 4.– Camicie con motivo alpino, camicette e accessori per bebè e bambini, per es. camicia con motivo alpino da bambino, taglie 98–140 14.90 Detersivo Total Color o Classic in conf. risparmio XXL, 7,5 kg 24.10 invece di 48.20 50% Detersivi Total in flacone da 5 l, per es. 1 for all, 5 l 19.75 invece di 39.50 50% Detersivi per capi delicati Yvette in conf. da 2, per es. Color, 2 x 2 l 17.80 invece di 22.40 20% Total Color Protect in conf. da 2, 2 x 30 pezzi 10.60 invece di 15.20 30% ** Cestelli o detergenti per WC Hygo in conf. da 2, 1.20 di riduzione, per es. detergente Power Fresh Pearls, 2 x 750 ml 5.60 invece di 6.80 Carta igienica Soft in confezioni multiple, per es. camomilla, FSC, 24 rotoli 11.25 invece di 16.80 33% Salviettine detergenti umide Soft, per es. salviettine umide Sensitive in conf. da 3, 3 x 50 pezzi 6.20 invece di 7.80 20%
Chips Zweifel in conf. da 2, per es. alla paprica, 2 x 175 g 6.30
Flacone di ricarica per diffusore di profumo Créateur d’Ambiance, per es. Parfum Rosé, 25 ml 20x 5.90 NOVITÀ *,**
Tutte le barrette ai cereali Farmer, a partire dall’acquisto di 2 confezioni, –.80 di riduzione l’una, per es. alla mela e al cioccolato, UTZ, 290 g 3.70 invece di 4.50
Biscotti prussiani, 500 g 3.20 invece di 4.80 33%
Candele con supporto, 10 pezzi 2.90 NOVITÀ *,**
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Spargitore a 4 scomparti per zucchero decorativo, 4 x 25 ml 7.90 NOVITÀ *,**
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Tutte la frutta secca e le noci Migros Bio, per es. gherigli di noci, 100 g 2.35 invece di 2.95 20%
Insalata di tagliatelle tailandese Anna’s Best, 350 g 20x 6.90 NOVITÀ *,**
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Filetti di merluzzo impanati Pelican con semi, MSC, surgelati, 240 g 4.40 NOVITÀ *,**
Tutte le salse per insalata Anna’s Best e Tradition, per es. French Dressing Anna’s Best, 700 ml 4.60 invece di 5.80 20%
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Agnolotti all’arrabbiata o pasta fresca bio in conf. da 3, per es. agnolotti all’arrabbiata, 3 x 250 g 11.70 invece di 14.70 20% Fagottini al formaggio M-Classic, 2 x 95 g 3.90 NOVITÀ *,**
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 7 luglio 2014 ¶ N. 28
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Idee e acquisti per la settimana
Extra Confettura Fragole 500 g Fr. 2.95
Extra Marmellata Arance amare 500 g Fr. 2.10
Extra Confettura Albicocche 500 g Fr. 2.70
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Senza il minimo sforzo Ora, tutte le confetture Extra sono dotate di coperchio «easy open». L’apertura del vasetto diventa un gioco da ragazzi
L’Industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra i quali anche le confetture Extra.
Per molti la marmellata è parte integrante di una buona colazione. Le confetture Extra sono tra le più vendute in Svizzera e va ricordato che l’offerta di marmellata in generale ha sempre avuto la massima priorità alla Migros: al momento del suo lancio, nel 1928, costituiva il secondo articolo prodotto in proprio da Migros. Ora, su suggerimento dei clienti, la Migros ha pensato a come si può rendere più facile il
prelievo della confettura Extra dal vasetto, perché spesso bambini e anziani non hanno abbastanza forza nelle mani per aprire il coperchio senza fatica. Il risultato è un coperchio dotato di una filettatura di facile apertura. Grazie alla rotazione in due scatti il vasetto di vetro si apre in un battibaleno. Non c’è più bisogno di aiutarsi con accorgimenti vari, perché lo sforzo richiesto si è ormai dimezzato. Una fa-
cilitazione benefica soprattutto per le persone affette da reumatismi, motivo per cui anche la Lega svizzera contro il reumatismo raccomanda questo nuovo tipo di coperchi. Attenzione però: il periodo di conservazione garantita – una volta aperto l’involucro sottovuoto – rimane immutato. Naturalmente, il vasetto si lascia anche richiudere senza fatica, prima di essere riposto in frigorifero. / AW
Anche i vecchietti si rallegrano: ora le confetture Extra si aprono con la metà della forza grazie al coperchio con sistema a due scatti.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 7 luglio 2014 ¶ N. 28
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Idee e acquisti per la settimana
Ice Tea Classico limone 1 l Fr. –.75
1986 L’Ice Tea si trova già da due anni sugli scaffali della Migros. È originario degli Stati Uniti. Ice Tea Classico pesca 5 dl Fr. –.95
Oggi
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La gamma di produzione dell’Ice Tea, diventato ormai bevanda di culto, comprende ora 7 varietà.
Un tè di successo compie 30 anni: auguri! Già poco dopo il suo lancio, l’Ice Tea della Migros si è fatto un nome in tutta la Svizzera. Un ingegnere l’ha introdotto nel nostro paese nel 1984. Oggi se ne producono circa 50 milioni di litri all’anno Ci sono prodotti che devono la loro nascita a una circostanza fortunata. La creazione dell’Ice Tea si basa sull’idea di un ingegnere che lavorava allora al reparto sviluppo della Bischofszell Nahrungsmittel AG (Bina). Aveva provato la bevanda più di 30 anni or sono negli Stati Uniti e ne era entusiasta. Con spirito innovativo, nel 1983 alla Bina si iniziò la fase di sperimentazione e sviluppo. Già un anno più tardi nei negozi Migros si poteva trovare il
primo infuso di Ice Tea in Svizzera. La classica bevanda veniva prodotta in contenitori da 2000 litri secondo il metodo dell’infusione (vedi intervista), e nel corso degli anni il procedimento veniva continuamente ottimizzato. Nel 1985 nella produzione venne introdotto il sistema a turni, aumentando così la produzione giornaliera a 4500 litri. Dal momento che tutto procedeva a meraviglia, nel 1999 fu creata la linea Premium-Tea-House, che compren-
de gustosissime varietà come Rooibos Vaniglia, Green Tea Lime o erbe alpine bio. Dal 2012 Bischofszell si muove anche in senso sostenibile: per la produzione della bevanda si utilizza esclusivamente tè nero proveniente da coltivazioni dell’isola di Giava certificate UTZ. / Anette Wolffram Eugster; Foto: Daniel Ammann (2), documentazione FCM L’apprezzatissimo Ice Tea va in tournée nelle filiali. Info sul sito: www.bina.ch
Intervista «Abbiamo ridotto drasticamente il contenuto di zucchero»
Ruedi Bärlocher, 30 anni fa lei ha contribuito ha sviluppare l’Ice Tea classico. Come le è venuta l’idea?
Il nostro caposettore dell’epoca aveva portato l’idea dalle sue vacanze negli Stati Uniti, dove il tè freddo era già sul mercato quale bibita non zuccherata. Decidemmo di provarlo anche da noi, ma con una variante dolcificata, per renderlo conservabile più a lungo. Tentativo dopo tentativo abbiamo sviluppato il metodo dell’infusione che è utilizzato ancora oggi.
essiccate. Nel corso degli anni abbiamo ottimizzato il procedimento, mantenendo però il metodo dell’infusione. Oggi produciamo 700’000 litri di Ice Tea al giorno. La formula si è modificata?
La formula dell’Ice Tea, infuso a base di foglie di tè, è sempre la stessa. Vi si aggiunge succo di limone, zucchero e sciroppo di fruttosio. Si rinuncia ai conservanti. Tuttavia, nel corso degli anni il contenuto di zucchero è stato ridotto drasticamente.
Come funziona il metodo dell’infusione?
Quante varianti di Ice Tea esistono oggi e qual è il suo favorito?
Il metodo si basa sul principio della preparazione del tè in una tazza, grazie al quale l’Ice Tea sembra fatto in casa. All’inizio si produceva il tè in contenitori da 2000 litri nei quali si appendevano sacchetti di stoffa pieni di foglie di tè
Secondo il metodo dell’infusione produciamo Ice Tea limone, pesca, limone light, Green Tea, Fan Edition Berry, mango & ananas, zero e tutti gli Ice Tea Bio. Il mio favorito è l’Ice Tea Bio erbe alpine.
Ice Tea Classico Green 5 dl Fr. 1.10
Ha contribuito a sviluppare l’Ice Tea: l’ingegner Ruedi Bärlocher.
L’industria Migros produce numerosi prodotti Migros molto apprezzati, tra cui anche l’Ice Tea.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 7 luglio 2014 ¶ N. 28
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Tre prodotti, un solo prezzo Per un’alimentazione piena di sapori anche fuori casa, la Migros propone i leggeri pasti Délifit, che sono stati sviluppati in collaborazione con i nutrizionisti in base alla piramide alimentare svizzera, allo scopo di soddisfare le esigenze di una dieta equilibrata. Le pietanze Délifit vengono preparate giorno per giorno utilizzando ingredienti freschi e di alta qualità, come l’olio di colza e l’olio di oliva. Ad esempio, i croccanti panini integrali sono imbottiti con freschissima insalata e strisce di pollo speziate. Questa settimana, i prodotti della
marca Délifit, come i sandwich Caesar, Tandoori o Mediterraneo, sono proposti in una vantaggiosa offerta combinata che comprende anche una bevanda e un frutto. Oltre che sui panini, l’offerta vale anche per i pasti combinati con insalata e wrap. E, allora, questa settimana tenete d’occhio il simbolo verde o rosso delle pietanze Délifit oppure informatevi sulle offerte regionali nel vostro Take Away Migros. / SL www.delifit.ch Annuncio pubblicitario
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