Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXVII 23 giugno 2014
Azione 26
Società e Territorio Integrazione attraverso lo sport, l’esperienza di Shark Team 2000
Ambiente e Benessere L’Ufficio federale della sanità pubblica rinnova la campagna contro l’esposizione al sole d’estate, ricordando i pericoli per la pelle e i modi per proteggersi da scottature
Politica e Economia La guerra del gas fra Ucraina e Russia
Cultura e Spettacoli Il caso di Pierre Rivière nella ricostruzione di Michel Foucault
pagina 9
pagina 4
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Dalla primavera araba all’inverno jihadista
Dino Balestra, il direttore che non voleva essere amato
di Peter Schiesser
di Antonella Rainoldi
pagina 29
A pagina 2: I risultati della votazione generale 2014 della Cooperativa Migros Ticino
Stefano Sp®inelli
La presa (lampo) di Mosul da parte dei miliziani dell’ISIL (vedi a pagina 20) ha stravolto il quadro mediorientale e introdotto un elemento dal potenziale altamente esplosivo, le cui scosse si faranno sentire anche in Occidente. Stati Uniti e Iran se ne sono accorti subito, i tentativi di Washington e Teheran di forgiare un’alleanza contro lo Stato islamico dell’Iraq e della Siria guidato dall’iracheno Abu Bakr al-Baghdadi sono un buon indicatore della gravità della situazione. La prima conseguenza immediata è la possibile frantumazione dell’Iraq in uno Sunnistan, uno Shiastan e un Kurdistan, come sostengono numerosi osservatori. Già nel 2006 era scoppiata una guerra sanguinosa fra sunniti e sciiti in Iraq, fomentata dal ramo iracheno di al Qaeda guidata da al Zarkawi. Gli americani erano riusciti a fermarla solo riuscendo a tessere un’alleanza fra governo iracheno (retto dagli sciiti) e clan sunniti, disgustati dall’indiscriminata violenza di Zarkawi nei confronti di chiunque. In questi ultimi anni il premier iracheno al Maliki è però riuscito a inimicarsi la comunità sunnita, a forza di discriminazioni, eliminando ogni personalità sunnita aperta al dialogo e – nei mesi scorsi – rovesciando barili di esplosivo sulla popolazione civile sunnita nelle città della provincia di Anbar ribellatesi al potere centrale. La rapidissima avanzata dell’ISIL è diretta conseguenza del fossato che al Maliki ha creato fra sciiti e sunniti: meglio i fanatici miliziani dell’ISIL che l’oppressiva dominazione degli sciiti, è il ragionamento che fanno oggi i sunniti iracheni. Considerato che l’ISIL dichiara apertamente di volere l’eliminazione fisica di tutti gli sciiti, c’è da aspettarsi una carneficina che potrebbe durare anni. Per i curdi, che dalla seconda invasione dell’Iraq da parte degli americani godono di uno statuto di autonomia, la guerra apertasi fra sunniti e sciiti apre la prospettiva di una completa indipendenza. Infatti, all’indomani della presa di Mosul, i peshmerga curdi hanno occupato Kirkuk e numerose altre località a maggioranza curda fin qui amministrate da Baghdad. Kirkuk è la «Gerusalemme» dei curdi, ma al di là della retorica nazionalista, è il cuore di una regione che galleggia su un mare di petrolio e potrebbe dare indipendenza economica ad un Kurdistan. Un sogno che i curdi cullano da sempre e che i Paesi circostanti – Turchia, Iraq, Iran – hanno sempre impedito. Sarà diverso in futuro? In Medio Oriente le alleanze sono tattiche, i nemici di ieri possono essere gli amici di oggi e i nemici di domani. Turchia e Iran accetteranno uno Stato curdo che potrebbe risvegliare sogni di autonomia o di secessione da parte dei curdi che vivono sul loro territorio? La frantumazione dell’Iraq e la creazione di nuovi Stati avranno un unico denominatore comune: una lotta sanguinosa. La nascita, indotta con la forza, dello Stato islamico dell’Iraq e della Siria rappresenta inoltre una rottura dell’ordine seguito alla Seconda guerra mondiale. Per la prima volta vengono ridisegnati i confini di un Paese arabo: il califfato dell’ISIL, compreso fra l’Eufrate e il Tigri, si estende dalle porte di Aleppo fino a quelle di Baghdad, raggruppa un terzo della Siria e quasi la metà dell’Iraq. La forza militare è notevole, benché conti oggi al massimo 10 mila miliziani in Iraq e 12 mila in Siria, ma ancora maggiore è la forza economica, che con il mezzo miliardo di dollari sottratto alle banche a Mosul supera i 1300 milioni di dollari. Da non sottovalutare poi il controllo degli sbarramenti idrici su Eufrate e Tigri, in un contesto regionale in cui l’acqua conta quasi più del petrolio. Ma l’Occidente ha anche altri motivi per preoccuparsi: l’ISIL oggi ha una forza di attrazione ideologica per gli jihadisti superiore a quella di al Qaeda, persino centinaia se non migliaia di fanatici musulmani europei combattono nelle sue fila. Una nuova al Qaeda fattasi Stato alle porte dell’Europa è l’incubo peggiore che ci si poteva immaginare quando sorse la Primavera araba.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 23 giugno 2014 ¶ N. 26
Attualità Migros
Intervento impegnativo per rane e rospi Generazione M Nell’ambito del progetto Generazione M, Migros vuole sensibilizzare bambini e ragazzi sui temi
della sostenibilità. A fine maggio si è tenuto ad Aarwangen un intervento ambientale per gli anfibi minacciati
Fa caldo nella cava di ghiaia di Aarwangen, nel Canton Berna. Non ci sono cespugli a fare ombra, né correnti d’aria che provvedano a un po’ di refrigerio. Cosa spinge 18 tra ragazzi e ragazze a lavorare così intensamente in questo finesettimana di maggio? Stanno prendendo parte alla Panda-Action , il programma ambientale per giovani proposto dal WWF. All’azione possono partecipare membri del WWF tra i 14 e i 18 anni, a condizione di portare ognuno un amico. Queste iniziative sono rese possibili tra l’altro dal sostegno di Migros: dal 2009 l’azienda ricopre il ruolo di sponsor principale di tutti i progetti che riguardano la formazione giovanile del WWF. Oltre a ciò, all’interno della campagna Generazione M ha formulato la promessa di sensibilizzare entro il 2015 200’000 bambini e ragazzi su temi ecologici. Ad Aarwangen i ragazzi devono contribuire ad offrire agli animali un migliore habitat. Le cave di ghiaia sono un’alternativa importante per gli anfibi fortemente minacciati, come ad esempio l’ululone dal ventre giallo (Bombina variegata), il rospo o l’alite ostetrico (Alytes obstetricans). Pieni di energia i giovani si mettono al lavoro: quattro ragazzi prendono una vanga fra le mani e iniziano ad alzare alcuni ciottoli, mentre il resto del gruppo costruisce muri a secco. Trascinano pietre pesanti, le mettono una sull’altra e riempiono gli interstizi con sabbia. Il responsabile del settore lavori sul terreno della fondazione Landschaft und Kies, Samuel Bachmann, è molto riconoscente per il concreto aiuto dei giovani. «Per creare strutture ideali per gli anfibi è necessario ricorrere al lavoro
Le cave di sabbia sono un habitat molto apprezzato dagli anfibi.
manuale» dice, «Per questo siamo molto contenti per la collaborazione volontaria come quella dei giovani del WWF». Dopo una ben meritata pausa sulle
sponde del fiume Aare, con uno spuntino vegetariano, al crepuscolo i giovani tornano di nuovo sul greto sassoso e si mettono in ascolto del gracidare e del ri-
I neo pensionati Alcuni collaboratori di Migros Ticino giunti alla meritata quiescenza hanno incontrato il Comitato di direzione dell’azienda il 23 maggio scorso
chiamo dei rospi e degli allocchi che nel frattempo si sono svegliati. Stanchi ma felici i ragazzi della comitiva si avviano sulla strada di casa.
Informazioni
www.pandaction.ch
Risultati della votazione generale 2014 22’161 soci hanno votato (partecipazione al voto 24,5%)
1. Approva i conti annuali 2013, dà scarico al Consiglio di amministrazione e accetta la proposta per l’impiego del risultato di bilancio? Da sinistra a destra: Teresa Cadenazzi, Teresa Minoretti, Adelina CocilaCataniaCucchiara, Elide Cassina, Franca Giudice, Roberto Soldini, Philppe Borner. Erano assenti: Alba Turel e Tiziano Genini.
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch
Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11
La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
Stampa: Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
2. Legge Azione, il settimanale di Migros Ticino? SI, regolarmente: 17’878
82,9%
SI, saltuariamente: 2419
11,2%
NO: 330
1,5%
SI: 20’916
97,7%
Non lo ricevo: 716
3,3%
NO: 486
2,3%
Altro: 222
1,1%
Esito della procedura elettorale Elezione dell’Ufficio di revisione: per un mandato di due anni (2014-2015) è stata eletta Mitreva, Fiduciaria e Revisione SA, Zurigo. Il Consiglio di amministrazione ringrazia per la fiducia accordatagli Tiratura 98’645 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
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Società e Territorio Campioni davvero speciali La pratica dello sport integrato è una realtà consolidata nel nostro cantone: alcune società la promuovono, ottenendo anche importanti successi pagine 4-5
Ricominciare dal lavoro L’attività della Fondazione Sirio offre l’opportunità di mettersi alla prova, nella prospettiva di un reinserimento professionale pagina 6
Armonia tra mente umana e cervello elettronico. (Keystone)
La meditazione nell’era di internet
Tempi moderni C’è spazio per la consapevolezza di sé nel mondo irretito dalle tecnologie della comunicazione?
Le riflessioni di Ivo Quartiroli Lorenzo De Carli Attorno alla metà degli anni Novanta, proprio mentre il web stava cominciando a tessere la sua rete e a diffondersi ovunque, lasciando l’ambito ristretto dei centri di ricerca nei quali era nato, si andavano pubblicando numerosi libri, nei quali si rifletteva sulle tecnologie della comunicazione da un punto di vista che ne metteva a fuoco il carattere sociale. Si stavano ovviamente diffondendo molti manuali dedicati all’uso di Internet, ma i siti web «dot com» erano ancora pochi, la «bolla della e-economy» ancora lontana, e le linee direttrici di riflessione per coloro che si stavano interessando a Internet senza essere tecnici erano tre: la sociologia delle comunità virtuali, gli ipertesti, e l’emersione di una non meglio definita «intelligenza collettiva». La sociologia delle comunità virtuali, antesignane degli odierni social network, fondava le sue osservazioni sui BBS. Acronimo di Bulletin Board System, i BBS altro non erano che un computer che raccoglieva i contenuti condivisi da una comunità, che vi si collegava per mezzo di un modem. Sulla rilevanza sociale di queste comunità che fiorirono alla fine degli anni Ottanta soprattutto negli Stati Uniti le
più conosciute riflessioni furono quelle di Howard Rheingold, un critico letterario, sociologo e saggista statunitense che aveva pubblicato alcuni libri, il più noto dei quali è stato Comunità virtuali. Parlare, incontrarsi, vivere nel ciberspazio. Le riflessioni di Rheingold non avevano la qualità degli studi che sarebbero in seguito apparsi di Manuel Castells, ma avevano nondimeno il merito di far conoscere ad un vasto pubblico il vissuto personale di molti utenti di computer che vedevano trasformata la loro vita sociale. Negli stessi anni, in ambito umanistico, il critico letterario George Landow era il capofila di una serie di saggisti, che studiavano gli effetti cognitivi, sociali e creativi degli ipertesti in contrapposizione alla linearità dei testi cartacei con cui era stata diffusa la cultura fino ad allora. Ma furono filosofi e sociologi come Patrice Flichy o Pierre Lévy, con saggi dedicati all’«intelligenza collettiva», che indicarono la strada per una fertile riflessione sulle trasformazioni antropologiche causate da quello che, allora, si chiamava «ciberspazio», e che oggi altro non è che la nostra vita quotidiana, caratterizzata da una inestricabile compenetrazione di reale e virtuale, di materiale e digitale, di tangibilità del territorio e im-
palpabilità delle reti che lo innervano. È proprio nell’orizzonte dell’odierno mondo digitale che Ivo Quartiroli, dopo aver pubblicato nelle edizioni Apogeo e Urrà innumerevoli libri dedicati all’uso e alla sociologia delle tecnologie della comunicazione, torna ad uno stile di riflessione più vicino agli anni in cui del web si parlava ancora come di una cosa separata dalla nostra vita quotidiana e, scrivendo Internet e l’io diviso, affronta un argomento che stride con l’odierna apologia delle tecnologie della comunicazione: posto che qualcuno di noi aspiri ancora a praticare una qualche forma di «ricerca interiore», Internet la agevola oppure ostacola? Possiamo essere sempre online e, nello stesso tempo, dedicarci all’introspezione? Nelle pagine del libro di Quartiroli confluiscono riflessioni che durano da una ventina d’anni. Il titolo fa eco al celebre L’io diviso, dove lo psichiatra Ronald Laing descriveva la schizofrenia non solo come un disturbo psichico, ma anche come malattia del nostro tempo, che spinge sempre più persone a mettere in scena falsi Io per difendersi dalla realtà. Quartiroli si chiede se la digitalizzazione della realtà non produca quegli effetti di allontanamento dal vero sé descritti da Laing. Ingegnere di formazione, osser-
vando come le tecnologie della comunicazione ci abbiano totalmente irretiti per mezzo di mille lacci e laccioli, visibili e invisibili, Quartiroli ci dice che siamo diventati non solo una estensione delle macchine che usiamo, ma addirittura un loro stesso dispositivo: «tendiamo a obliterare la consapevolezza di essere dei servomeccanismi illudendoci che la tecnologia possa ampliare le nostre scelte e la nostra libertà, dandoci maggiore potere e capacità». Sospinti da un flusso costante d’informazione che rimanda solo ad un’esperienza virtuale, abbiamo perso contatto con la realtà e reso difficoltoso l’accesso a noi stessi. Ispirandosi alle tradizioni di meditazione e di consapevolezza occidentali e orientali, Quartiroli dichiara che: «attenzione continuata, consapevolezza e introspezione, le qualità necessarie all’affrancamento da una mente automatizzata, diventano particolarmente difficili da acquisire quando siamo sommersi dalle informazioni, per lo più brevi e rivolte all’attualità». Con i suoi ripetuti shock, l’informazione costantemente rinnovata, genera una sorta di surrealtà, estendendo a tutti quell’esperienza di estraneazione dal mondo che il filosofo Walter Benjamin aveva dichiarato essere tipica del Movimento Surrealista, alimentando
senza interruzione quella «società dello spettacolo» così ben descritta da un altro filosofo, Guy Debord, il quale non poteva immaginarsi che le tecnologie della comunicazione avrebbero trasformato tutto in «spettacolo», allontanandoci non solo dalla realtà ma anche da noi stessi: «con i media abbandoniamo noi stessi troppo presto, lasciamo andare la presenza e la connessione con il corpo e con il mondo interiore» (Quartiroli). Per Quartiroli, dopo quelli tradizionali, i nuovi media portano a compimento il sabotaggio delle pratiche di consapevolezza che richiedono distanza, silenzio, raccoglimento, autoriflessione, ascolto di sé, lentezza, armonia, equilibrio; e il sabotaggio è tanto meglio riuscito, in quanto le tecnologie – con l’illusione di una intelligenza distribuita in reti interconnesse – mimano quella «coscienza universale» alla quale aspirano le pratiche di meditazione. Sicché, l’ultima astuzia delle tecnologie della comunicazione è quella di far credere che il nostro non è un «Io diviso», bensì un io riconciliato con l’«intelligenza collettiva», un «profilo» facilmente rinnovabile e accomodabile secondo necessità; e che la «realtà aumentata» è molto meglio della realtà. Un’astuzia degna di Matrix.
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Società e Territorio
Ricomincio da qui Integrazione Dragonato e Fondazione Sirio unite offrono atelier in cui prepararsi a un reinserimento professionale
Sara Rossi Facile dire lavoro. A volte non è facile per niente. La testa va per conto suo e non ne vuol sapere di aiutarti a vivere. Se non hai le gambe, se le tue braccia non si muovono, nessuno verrà a chiederti di camminare o di compiere lavori manuali. Ma se è la tua mente che ti gioca brutti scherzi, allora la gente dice: non c’è niente che non va. E pretende. Pretende che lavori, che ti esprimi, che vivi normalmente, come tutti. Quando qualche cosa non funziona a livello mentale per un certo periodo, si parla di disagio psichico. E quando passa, ricominciare non è sempre facile.
Il rapporto che si crea non è tra operatori e utenti, ma vuole essere quello tra datore di lavoro e dipendenti La Fondazione Sirio esiste dal 14 dicembre 1967 grazie al lascito di Aurelio Camani di Losone. Questo signore aveva capito che era importante «aiutare e reintegrare nella società gli utenti dell’Organizzazione sociopsichiatrica cantonale e promuovere iniziative e servizi atti a favorire l’autonomia e la qualità di vita di persone con handicap psichico e difficoltà relazionali» e così gli scopi della Fondazione Sirio sono questi fin dall’inizio. Da un anno circa si è fusa con la Fondazione Dragonato che dal 1989 si occupa di persone con disagio psichico e relazionale, che per varie circostanze della vita si trovano momentaneamente in difficoltà. L’obiettivo principale del Centro consiste nell’attivare le «risorse personali e le potenzialità di ogni individuo e della sua rete significativa, favorendo la possibilità di cambiamenti qualitativi nei diversi ambiti della vita». Dopo la fusione il nome è rimasto Fondazione Sirio e i servizi si suddividono in ambito abitativo, lavorativo, ricreativo e progettuale. Noi abbiamo de-
Vecchie sedie decorate con fumetti trovano una nuova vita. (Stefano Spinelli)
ciso di visitare gli atelier che si svolgono nella palazzina in via Lugano a Bellinzona: due di cucina, Servizio Catering e Osteria Zanzibar, e poi lavori di serie, artistici e di artigianato. Dei laboratori culinari sono responsabili due cuochi: Giordano e Gianfranco. Entrambi hanno il pallino della Fourchette Verte e sono molto fieri di applicare con passione le regole di un’alimentazione sana, leggera e gustosa. Dopo il diploma di cuoco tutti e due hanno sentito di voler sviluppare una parte più sociale, unendo l’amore per il buon cibo a quello per le relazioni umane. Giordano e la sua squadra preparano un menu settimanale (pensato in modo equilibrato) per vari nidi e
Un percorso di apprendimento attraverso il lavoro. (Stefano Spinelli)
scuole dell’infanzia e un’azienda; circa una sessantina di portate al giorno. Gianfranco e i collaboratori dell’Osteria Zanzibar, in via Lugano, offrono un servizio di ristorazione eccellente cinque giorni a settimana. La particolarità dell’Osteria, oltre ad essere un laboratorio della Fondazione Sirio, è certamente un uso sapiente delle spezie. Per mantenere prezzi bassi e qualità ottima, Gianfranco chiede se possibile ai suoi clienti di telefonare entro le dieci del mattino per annunciare la propria presenza in funzione di ridurre al minimo gli sprechi di cibo, scelta che si collega alla filosofia della cucina. In una casetta adiacente alla bella villetta in cui si situano gli uffici, l’Osteria e le cucine del Catering, ci sono invece gli altri atelier. I datori di lavoro questa volta sono educatori che conducono lavori su commissione, di imbustamento, rilegature, stampa e taglio di biglietti da visita e altri compiti di questo genere, per enti privati e pubblici del Cantone. Visitiamo un vero e proprio laboratorio creativo che in questo momento si dedica al collage di fumetti. Una libreria di Lugano ha avviato una collaborazione con la Fondazione Sirio, vendendole a basso prezzo libri di fumetti, che i collaboratori ritagliano, ricompongono come un collage e cuciono su buste plastificate che diventano degli originali porta tabacco. Di impatto ancora più spettacolare: incollano le varie strisce disegnate su vecchie sedie ripitturate. Un negozio di abbigliamento di Piazza Nosetto
vende queste belle sedie e sembra che la domanda non faccia altro che aumentare. Gli obiettivi di questi atelier sono tanti quanti sono i collaboratori che vi partecipano: un ragazzo in cucina ci dice che vorrebbe diventare cuoco, mentre un altro si impegna solo per recuperare dimestichezza con le regole e le responsabilità che vigono in un ambiente professionale. E così anche gli altri: alcuni proseguiranno in quella direzione, altri troveranno la propria vocazione in attività differenti da quelle che praticano oggi. Quando si torna da un viaggio pesante e doloroso di ordine psichico, la prima cosa da fare è riappropriarsi della capacità di rispettare gli orari, di mantenere e adeguare il proprio aspetto e il proprio linguaggio alla situazione lavorativa in cui ci si trova e così via. Sul lavoro, cioè negli atelier, non si parla della terapia che si sta seguendo, dei farmaci che si prendono, della malattia che si è subita. Si decostruisce la figura del malato, portando in avanti solo il ruolo di persona sana, capace, indipendente. C’è un datore di lavoro che va chiamato tale, anche se ha una formazione in ambito educativo, e ci sono i collaboratori (solo così vengono chiamati gli utenti degli atelier). Se c’è qualche cosa che non va, collaboratore e datore di lavoro si prendono uno spazio per parlarne, ma se la questione non riguarda l’ambito lavorativo, si relega la discussione ai colloqui individuali con il servizio di consulenza della Fondazione, che è composto da altre persone.
La parola d’ordine è normalizzazione: gli atelier non sono un modo per occupare il tempo, bensì dei veri progetti di reinserimento professionale, delle «palestre relazionali», dove la persona ha la possibilità di confrontarsi con le regole, i ruoli e le relazioni presenti in un qualsiasi posto di lavoro. Quando si considera che il collaboratore è pronto, gli si propone uno stage esterno che sarà monitorato; poi insieme si cercherà una formazione o un posto di lavoro, fino alla completa autonomia della persona presa a carico. E funziona, ci dicono: il tasso di riuscita è alto, sebbene sia difficile definire statistiche precise. Abbiamo parlato unicamente di quella parte della Fondazione Sirio che si occupa di reinserimento professionale, perché quelle oggi abbiamo visitato; le proposte ricreative, di integrazione e le strutture abitative non possono essere descritte in questo breve spazio tutte insieme. Ciò che ci è piaciuto degli atelier è l’ambiente tranquillo ma efficiente e la consapevolezza degli educatori che l’unica cosa che si può trasmettere agli altri è il proprio modo di essere. Dice lo scrittore Ugo Cornia: «l’educazione volontaria, come fatto intenzionale, in cui uno dice io adesso insegno a quello la data cosa, mi è sembrata sempre un’assurdità perché uno insegna agli altri quel che è e non quel che vuole». Parole che ognuno dovrebbe ricordare ogni tanto e che abbiamo visto aleggiare in tutta la loro modestia e saggezza negli atelier della Fondazione Sirio. Annuncio pubblicitario
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Società e Territorio Rubriche
Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni A bocca aperta Lo scorso maggio l’autorevole rivista medica «The Lancet» segnalava che nel 2013 si registravano nel mondo 2,1 miliardi di persone in sovrappeso o obese. La cifra è in costante aumento: nel 1980 gli individui in sovrappeso assommavano a 857 milioni. La progressione è dunque rapida: quasi un terzo dell’umanità s’ingozza di cibo; secondo i parametri che definiscono l’obesità, 671 milioni sono obesi. Questo, naturalmente, nei Paesi del benessere; poi ci sono quelli in cui si muore di fame. Principalmente a causa della denutrizione, soprattutto nell’Africa subsahariana e nell’Asia meridionale, muoiono ogni giorno, prima di arrivare ai cinque anni, più di ventimila bambini. 2000 calorie al giorno sono necessarie per stare bene; ma circa un terzo della popolazione mondiale non raggiunge questa quota e di questo terzo il 30% (pari a 500 milioni di persone) dispone di meno
di 1500 calorie al giorno – ovvero, soffre la fame. Nei Paesi occidentali il consumo quotidiano di calorie è di circa 2900. La fame, noi occidentali, ce la siamo lasciata alle spalle. Non poi da tanto tempo: ci sono ancora persone anziane che ricordano quanto fosse scarso il cibo e come nulla andasse sprecato, neppure i bargigli del gallo, quando si riusciva a procurarseli. La bibliografia sulla fame, spettro costante dei secoli andati, abbonda in ogni lingua; e molti ancora ricorderanno – malgrado il film La febbre dell’oro sia del 1925 – la scena gustosa (o disgustosa?) in cui Charlot mette a bollire le scarpe e se le mangia di gusto, assaporandone i lacci come se fossero deliziosi spaghetti. Ma quei tempi sono andati e, come di solito succede con i cambiamenti radicali, si passa dall’uno all’altro estremo. Il cibo, prima che sopravvenisse l’era dell’abbondanza, era un
caristico è ora limitato a una sola ora prima del rito. Non tutti concordano con questa condiscendenza: il teologo Enzo Bianchi ha scritto che «solo un cristianesimo insipido può liquidare il digiuno come irrilevante e pensare che qualsiasi privazione di cose superflue (dunque non vitali come il mangiare) possa essergli sostituita». In tempi di «cristianesimo insipido», dunque, non sarà la religione a ridurre il numero degli obesi. Ma, forse, ci riuscirà la paura. Sappiamo che la nostra è un’epoca salutista e che questa nostra società è medicalizzata, come denunciava già, più di trent’anni fa, Ivan Illich: siamo sempre più ossessionati dall’idea di stare in buona salute e sempre più ricorriamo ad esami clinici e all’assistenza medica. Ebbene, in base ai dati statistici del 2010, l’obesità sarebbe all’origine di 3,4 milioni di morti all’anno in tutto il mondo. Già nell’antica Roma si diceva che «ne uc-
cide più la gola che la spada»: oggi che la spada è in disuso, il detto è indiscutibilmente vero. E le autorità, politiche e sanitarie, correranno ai ripari e ci saranno campagne preventive sempre più incalzanti con indubbi risultati positivi. Ma per un altro verso, paradossalmente, l’alimentazione è già, per molti, una sorta di incubo ossessionante: sono in costante aumento le persone che vivono adottando una forma esasperata di salutismo, distinguendo meticolosamente tra cibi sani e cibi pericolosi. Scelta comunque non facile: il pesce contiene mercurio, la carne può provenire dalla mucca pazza, l’aviaria può aver infettato il pollo, lo zucchero provoca il diabete, il burro fa crescere il colesterolo, l’insalata e la verdura sono piene di pesticidi… L’elenco dei rischi alimentari è sorprendente: c’è da rimanerne a bocca aperta. Anzi, per prudenza è meglio tenerla chiusa.
tinte turchesi che richiamano il colore irreale del lago oggi che entra dalla finestra a nastro di undici metri. Ed è, oltre al tetto-giardino e la pianta libera, uno dei tre elementi già presenti qui, dei futuri cinque famosi «princìpi della nuova architettura» dettati da Le Corbusier, pseudonimo, va anche forse prima o poi detto, di Charles-Edouard Jeanneret. Già che ci siamo, va anche citato il cugino Pierre Jeanneret (18961967), co-autore di questo progetto, come pure di Villa Savoye (1929), ma rimasto sempre un po’ all’ombra del gigante Le Corbusier. La lampada grigia ideata da Bernard-Albin Gras negli anni Venti spiove da sopra la magistrale finestra come novant’anni fa, sospesa sul tavolo a ribalta disegnato da Le Corbusier; fuori, ormeggiata, una barca. Una coppia distinta esce felice da questi sessanta metri quadri. Nel piccolo salone blu oltremare verso l’uscita in giardino, spicca un lavabo. Due scalini e sono sotto il portico: lo scorcio av-
vistato prima dalla strada. Là, il tanto fotografato pezzo di muro sul lago con riquadro in corrispondenza di un tavolo in pietra attaccato al muro: mancano le due sedie e la vecchia Paulownia delle foto. «È stata abbattuta nel 2012, era malata» mi dice Alexander, segretario dell’associazione Villa «Le Lac» Le Corbusier. Al suo posto è stata piantata una nuova Paulownia, sembra, con dei semi trovati nelle fessure del muro sul lago, dunque una sua discendente diretta. Stessa sorte per il grande ciliegio che c’era contro la parete sud, rivestita nel 1951 in lamiera d’alluminio striata orizzontalmente. Non sembra siano stati trovati noccioli di discendenza però, nel caso del giovane ciliegio che se ne sta lì timido. Dalla finestra nel muro si vede un tipo che fa del paddle surf; il lago, così incorniciato, sembra quasi più bello. «Perché il paesaggio conti, bisogna limitarlo» scrive Le Corbusier. Del resto, lago a parte, tutto questo giardino di dieci metri quadri
è delimitato da mura come un antico hortus conclusus, definito allegramente «salle de verdure» dall’insuperabile architetto umanista nato a La Chauxde-Fonds. Diciassette gradini nascosti dietro la parete ovest in fondo e sono sul tetto. C’è il divieto di salirci, ma è Le Corbusier che ha scritto «l’architettura si cammina», perciò due passi li faccio. Erba, margheritine, trifogli. Da qui si vede bene la piscina pubblica e il palazzo multinazionale della Nestlè dove sventola la bandiera svizzera. Il resto della casa a un piano (camera da letto, sala da bagno, angolo-vestiario, lavanderia, cucina) esplodono di semplicità, ai limiti della capanna. E rimandano agli interni a misura d’uomo ancora più modesti di quel radicale, spartano, favoloso Cabanon (1952) a Roquebrune-Cap Martin, località della costa azzurra dove Le Corbu muore in mare. M’incammino per andare a bere un bicchiere di Saint-Saphorin a SaintSaphorin.
l’invito a preferire cibi locali e regionali ha incontrato il favore più spontaneo dei consumatori. Lo confermano, fra altri, i risultati dell’operazione lanciata da Migros Ticino all’insegna del «Nostran». Ora, come detto, sul filo di un successo, diventato persino moda, il «Chilometro zero» ha continuato a estendere il suo raggio d’azione toccando settori sempre più diversi e ormai lontani da quelli agricoli e artigianali. Vestiario, arredamento, elettrodomestici, computer, automobili, attrezzi sportivi, cosmetici, insomma l’intera gamma dei consumi quotidiani si sono trovati per così dire, sotto processo: per il semplice fatto di portare un marchio straniero o, comunque, di non potersi dichiarare completamente autoctoni. In tal modo, anche questo movimento d’opinioni e di comportamenti, in sé legittimo e necessario, ha subito uno stravolgimento scivolando verso derive insidiose. Di questa formula si fa spesso un uso rovesciato, rispetto agli intenti iniziali: non pro ma contro.
Non per promuovere le buone cose di casa nostra bensì per denigrare, anzi proibire, le cattive cose di casa altrui. Un evidente controsenso dagli effetti assurdi, nell’era degli scambi internazionali, in cui viviamo, e tanto più, per quel che ci concerne, in una Svizzera che campa anche grazie al prestigio del «made in Switzerland» nel mondo. Sta di fatto che si è sviluppata una sorta di ideologia che si muove confusamente fra nazionalismo e ambientalismo, fra destra e sinistra, e che precipita, per forza di cose, in autarchia, parola d’infausta memoria. Fu praticata nell’Italia fascista, in URSS e Paesi satelliti, ed è ancora in auge, figurarsi, nella Corea del Nord. Siccome, però, le balordaggini e un certo fanatismo fideistico non conoscono confini, anche in Europa non mancano gli incidenti di percorso proprio sul «Chilometro zero». Il più recente risale alla scorsa settimana, è avvenuto in Francia, e ha avuto per protagonista un giornalista, Benjamin Carle, 28 anni: per un anno ha voluto vivere al
«100%» francese. Quindi, mangiando e bevendo prodotti di origine nazionale controllata. Indossando, ciò che fu più difficile, jeans e magliette fabbricate in patria, anziché in Cina o in India. Per completare la sua immagine di francese tutto d’un pezzo, si è pure disfatto dei mobili svedesi, di una bicicletta inglese, si è privato del frigorifero dato non gli era stato possibile trovare quest’elettrodomestico veramente «made in France», e ha rinunciato persino ai dischi di David Bowie, messo al bando perché straniero. Qui sta il guaio: l’anatema colpisce gli oggetti ma anche gli svaghi e la cultura. Comunque, per il ministro dell’economia Arnaud Montebourg, «Benjamin è un modello da imitare». Ma altri politici sono inciampati sul «Chilometro zero». Anni fa, il ministro dell’agricoltura Luca Zaia, sotto le feste, aveva invitato gli italiani allo «sciopero dell’ananas» per favorire lo smercio delle arance indigene. Che, a loro volta, diventano frutti esotici, varcando la frontiera. Il patriottismo economico può essere un boomerang.
bene prezioso che andava assunto con parsimonia, e tutte le istanze educative – dalla famiglia alla scuola e alla Chiesa – prescrivevano la moderazione. Tra i sette vizi capitali c’era anche «la Gola», e si sa in che modo Dante, nel sesto canto dell’Inferno, pensasse la punizione dei golosi: sferzati da una pioggia «etterna, maladetta, fredda e greve», immersi nel fango fetido, squarciati e dilaniati dal mostro a tre teste, Cerbero. Non direi che oggi un ghiottone raccolga altrettanto biasimo. Ma i tempi sono cambiati anche nella morale ecclesiastica. Il digiuno, che per secoli fu una pratica d’obbligo non solo di venerdì, ma per tutta la Quaresima e in un sacco di altre ricorrenze religiose, oggi non è più prescritto, almeno dalla Chiesa cattolica, che ne limita l’obbligo al Mercoledì delle Ceneri e al Venerdì Santo; e anche il digiuno precedente il sacramento eu-
Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf La piccola casa di Le Corbusier a Corseaux Corseaux è un comune accanto a Vevey, proprio all’inizio di quei vigneti terrazzati in un puzzle strepitoso che ti leva il fiato, noto come Lavaux. Qui, a quattro metri dal Lemano, c’è la piccola casa concepita nel 1923 da Le Corbusier (1887-1965) per i suoi genitori, conosciuta come Villa Le Lac. Quattordici minuti dalla stazione di Vevey per avvistare, sulla strada, subito oltre gli alberelli delle barche, l’iconico lato est di questa casetta-scatola: la prima traccia di architettura moderna in Svizzera. Rimango lì un po’ imbambolato a guardare questo scorcio-preludio: tetto-giardino, due esili colonne bianche, porticina aperta da cui si scorge dentro la lampada Gras. Sulla soglia, due ortensie e la superficie di acciaio zincato a coste. Questo rivestimento aggiunto nel 1931 – impiegato contro le intemperie nei tetti spioventi delle fattorie giurassiane e che ricorda le carlinghe aeronautiche – è chiamato « carapace utilitario » dallo stesso Le
Corbusier in Une petite maison (1954). E così, a metà pomeriggio verso la fine di giugno entro nella piccola casa di Le Corbusier a Corseaux: Route de Lavaux numero ventuno. Abitata fino al 1973 dal fratello violinista Albert Jeanneret, dal 1924 al 1960 ci abita Marie Charlotte Amélie Jeanneret-Perret, la mamma «musicista» di Le Corbusier, condividendola solo un anno con Georges Edouard Jeanneret, orologiaio «fervente della natura» e papà di Le Corbusier. Oggi è proprietà della fondazione Le Corbusier ed è visitabile tutta l’estate, il weekend, dalle dieci alle cinque. Nel vestibolo, ecco la foto in bianco e nero del leggendario bancone del bar del Circolo Ermitage a Epesses, opera di Alberto Sartoris (1901-1998), teorico e architetto al quale è dedicata qui una mostra ed è tra l’altro autore, proprio a Corseaux, di Villa De Grandi (1932). A sinistra, in due secondi, si è nel soggiorno, forte corrente d’aria. In un angolo mura e scaffali di legno a
Mode e modi di Luciana Caglio Incidenti sul chilometro zero «Nomen Omen», un nome che racchiude un presagio. A volte succede. È stato, appunto, il caso di «Chilometro zero»: così s’intitolava il programma presentato, nel luglio 2008, dalla Coldiretti Veneto, l’associazione dei coltivatori della regione. Questo il punto di partenza di una formula di successo che, ben presto, diventò un motto popolare e uno slogan multiuso. Tanto da entrare nel linguaggio corrente e ottenere anche il nulla osta dei linguisti. Figura, ormai, nei dizionari fra i neologismi che hanno segnato l’epoca. In seguito, la locuzione doveva allargare incessantemente il suo significato e la sua portata. Certo, il concetto di fondo rimane sempre la difesa e il rilancio dei prodotti locali, contrapposti a quelli importati, e sempre da più lontano come vuole la globalizzazione. Si trattava, agli inizi, soprattutto di generi alimentari, ortaggi, frutta, formaggi, salumi, carni, vini, ricavati da colture e allevamenti sul posto e lavorati sul posto. Ciò che sottintendeva motivazioni d’ordine economico, come pure
gastronomico e, non da ultimo, morale. Quindi, cibi da apprezzare perché sono freschi e genuini e perché fanno vivere attività e tradizioni che, altrimenti, rischiano di andar perse. Del resto, proprio nell’ambito alimentare,
L’ex ministro Zaia, artefice nel 2010 della linea McItaly nei McDonald italiani, un flop gastronomico. (Keystone)
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Ambiente e Benessere In cerca di avventura Un viaggio per risvegliare l’immaginazione, fare incontri e trovare storie da raccontare
Agricoltura africana In un documentario di Marie-Monique Robin, due progetti agrari in Africa permettono di ottenere buoni risultati senza Ogm, fertilizzanti o pesticidi
Sicurezza al volante Tutte le misure applicabili in viaggio per non esporsi ai pericoli valgono anche per i nostri animali
La Svizzera ai Mondiali Dopo il gol della vittoria contro l’Ecuador, come andranno le altre sfide?
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Tra i consigli: poca esposizione solare diretta, all’ombra dalle 11 alle 15 e ricordarsi le creme solari. (Marka)
Radiazioni ultraviolette da evitare Salute Bisogna imparare a proteggere la pelle dai raggi UV perché ne basta una piccola quantità
per ritrovarsi con una scottatura Maria Grazia Buletti Quando l’estate è alle porte, si rende necessario affrontare il discorso di protezione della nostra pelle dall’irraggiamento solare. Per lo meno bisogna ricordarsi delle indicazioni di base che, seppur conosciute ai più, vengono spesso e volentieri dimenticate o se ne sottovaluta l’importanza per la nostra salute. Così deve aver pensato l’Ufficio federale della sanità pubblica (Ufsp), che ritorna sull’argomento ed esamina, punto per punto, tutti gli aspetti che ruotano attorno all’esposizione solare estiva, ai suoi pericoli, ai metodi che si possono (e devono) mettere in atto per proteggersi da scottature e da problematiche ben più dannose che si sviluppano solo nel tempo. Di fatto, con i nostri occhi vediamo la luce cosiddetta «visibile» e i raggi infrarossi li sentiamo sulla pelle attraverso la sensazione di calore. «Questi due tipi di raggi non costituiscono solitamente un pericolo per la nostra salute», esordisce l’Ufsp, ricordando però che non si può dire altrettanto per i raggi ultravioletti (UV):
«La nostra pelle non è in grado di percepirli: sono radiazioni molto energetiche, responsabili dell’abbronzatura della pelle e delle sue scottature, e sono pure in grado di danneggiare gli occhi». I rischi per la salute possono essere davvero pesanti, perché i raggi UV sono responsabili dell’invecchiamento cutaneo precoce e provocano danni che possono portare persino all’insorgere di un tumore della pelle: «Possono causare dolorose infiammazioni agli occhi, come ad esempio la cecità della neve, o un annebbiamento della vista (cataratta), che nei casi più gravi può comportare la perdita totale della vista. Infine, il nostro sistema immunitario può essere indebolito a tal punto da non reagire più a dovere, esponendoci maggiormente alle malattie». Bisogna dunque riuscire in qualche modo a prevenire gli effetti dannosi dei raggi UV, soprattutto all’aperto, quando l’irraggiamento solare è forte. L’Ufsp ricorda perciò le consuete raccomandazioni, che vale la pena passare nuovamente in rassegna: «Stare all’ombra è la migliore protezione dai raggi
solari. Bisogna inoltre potersi proteggere con vestiti e un cappello a falda larga; portare un paio d’occhiali da sole dotati di filtro UV integrale e applicare sulla pelle creme solari dall’elevato fattore di protezione (ndr: si consiglia un fattore di almeno 20) in dosi abbondanti, rinnovando l’applicazione dopo ogni bagno in acqua». L’unità di misura per un sano rapporto con il sole è data dall’indice UV, come spiega molto bene l’Ufsp: «È l’unità che quantifica l’intensità dei raggi ultravioletti emessi dal sole: più alto è l’indice UV, più intensa – e quindi più dannosa – è la radiazione solare». Quest’unità di misura ci permette dunque di valutare con maggior precisione la radiazione solare e adottare di conseguenza le misure di protezione più adeguate contro i suoi effetti dannosi, proprio perché con un indice UV elevato, il rischio d’insolazione è maggiore rispetto a uno moderato. Per avere un’idea dell’indice UV e delle conseguenti misure di protezione, l’Ufsp ci ricorda che la sua misurazione e interpretazione sono identiche in tutto il mondo: «Chi prevede di andare in
vacanza all’estero, troverà indicazioni su come consultare l’indice UV in altri Paesi sul sito www.uv-index.ch». Naturalmente, lattanti e bambini meritano un’attenzione ancora maggiore per la loro effettiva protezione dall’irraggiamento solare e le regole diventano ancora più rigorose. Ad esempio, l’Ufsp ricorda che i lattanti fino a un anno di vita devono stare solo e soltanto all’ombra, comunque ben protetti dagli indumenti come cappellino, maglietta e pantaloncini, se possibile senza alcuna crema antisolare. Fino ai sei anni: «Poca esposizione solare diretta, all’ombra dalle 11 alle 15, indumenti e cappellino e crema antisolare adatta ai bambini sulle parti non coperte». Fino ai dodici anni si ripetono i consigli della poca esposizone solare diretta e dello stare all’ombra nelle ore centrali della giornata, come pure quello di rimanere con maglietta, cappellino e calzoncini. La crema solare consigliata è con fattore di protezione di almeno 25. Indicazioni assolutamente molto importanti, quelle sui bambini, che non devono essere vittime di un’insolazione: «Ogni singola insolazione
subita da un bambino aumenta il rischio di contrarre un cancro della pelle più tardi. Un’insolazione grave può addirittura costituire una minaccia letale e deve quindi essere subito curata da un medico». L’Ufsp sottolinea pure che «il sole è fonte di gioia e di benessere: la sua luce e il suo calore consentono la vita sulla terra». Di fatto, i raggi UV permettono al nostro organismo di produrre la vitamina D, molto importante per la formazione delle nostre ossa. Però, per beneficiare di questo, non è necessaria un’esposizione diretta: «Una normale esposizione all’aria aperta è sufficiente per garantire un sano approvvigionamento di vitamina D». Ma il sole può anche nascondere gravi pericoli perché i suoi raggi UV danneggiano la nostra salute e i maggiori rischi li corrono soprattutto i bambini. Per questo, è importante seguire i consigli: «Nel secondo anno di vita, il vostro bambino può essere esposto al sole solo se è ben protetto». E naturalmente ci dobbiamo ricordare di essere d’esempio per i nostri figli, evitando a nostra volta di fare le lucertole.
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Ambiente e Benessere
Asini, mulini e castelli
Dalle Marche all’Abruzzo
Viaggiatori d’Occidente Reportage dal Casentino, passo dopo passo
Bussole Inviti
a letture per viaggiare Claudio Visentin, testo e foto Di nuovo in viaggio, dopo una sosta forse troppo lunga, che ha arrugginito mente e gambe. Questa volta la meta è in Toscana, vicino ad Arezzo, nelle foreste del Casentino, ma in un primo momento fatico a fissare le coordinate e i riferimenti: curioso che in una regione tanto nota, a pochi chilometri da Firenze, ci siano ancora spazi così ampi per la scoperta. Il mio itinerario è semplice: scenderò verso il santuario francescano della Verna, dove San Francesco ricevette le stigmate nel 1224, passando per l’eremo di Camaldoli. E tuttavia il mio non è un pellegrinaggio, neppure nella sua forma laica: lo è invece per molte delle persone che incontro lungo il cammino e che, superata l’iniziale estraneità, hanno tutte una storia da raccontare, un dolore da smaltire passo dopo passo, degli allineamenti dell’anima che non tornano più... La mia curiosità verso questi luoghi fu risvegliata da storie di lupi, che qui sono ricomparsi da qualche anno, quando già si credevano estinti. Vedere un lupo è difficilissimo; nonostante la sua fama di aggressività è un animale sfuggente, ma l’impronta che scorgo grande e nitida sul sentiero dopo qualche giorno di cammino rappresenta quasi un saluto a distanza. Del resto, anche se sono in una riserva naturale tra le più antiche d’Italia (una parte, il Sasso Fratino, è inaccessibile ai visitatori), io non viaggio per vedere alberi o animali rari. Viaggio per risvegliare l’immaginazione, cerco incontri e storie da raccontare. La strada aperta dinanzi a me è il simbolo dell’avventura e ogni svolta promette una sorpresa. Di certo viaggio per ritrovare gli amici asini, qualche anno dopo l’ultimo viaggio in loro compagnia. Ed è come sempre un’esperienza divertente, piacevolmente sconclusionata. Due belle asine, madre e figlia, porteranno tutti i miei bagagli – tenda, abiti, cibo – in un viaggio leggero per il corpo quanto per la mente. Gli asini sono intelligenti, a dispetto del luogo comune, e non si limitano a eseguire gli ordini, ma partecipano al viaggio e ne condividono i momenti tristi e allegri. E poi,
«Il silenzio tellurico del ventre di L’Aquila, la luce rosa del Gran Sasso, l’energia contagiosa di Pescara, la bellezza intimissima di Ortona, la fanteria elettrica di Torricella Peligna, la magica luce del cimitero di Colledimacine, la magnificenza terribile della Maiella, la solitudine travolgente della ferrovia di Palena… Tutti luoghi, tranne Pescara, che hanno in comune una merce preziosa, assai rara oggi: il silenzio…»
Per la via con due singolari compagni di viaggio.
un uomo che cammina a fianco di un animale, stringendo una cavezza nella mano e accordando il passo, è il viaggio più antico che si possa immaginare, ma anche quello più intenso e profondo. Aggirandomi per i boschi dove passava la via Romea mi immergo nella mente della generazione di mercanti e pellegrini che percorrevano queste antiche strade, e imparo del Medioevo più che in molti libri di storia. Perché viaggio dunque? Viaggio per scendere dal piedistallo della civiltà, come predicava l’amato Stevenson, padre putativo di tutti noi asinai dilettanti. Viaggio per ritrovare la durezza e l’essenzialità della terra, per riscoprire la fame e la sete, la stanchezza del corpo e il riposo della mente, la grammatica del vivere insomma. Forse viaggio anche per scostare il velo digitale che si è frapposto tra noi e la realtà: un velo meraviglioso, incantato, ma che di tanto in tanto occorre sollevare... Il mio è un percorso a ritroso: mentre il mondo avanza spedito verso Internet 2.0 o 3.0, io conto alla rovescia e torno alla realtà in versione 0.0. Non servono neppure eccessi di zelo. Lo smartphone resta acceso nella tasca:
tiene memoria del percorso e della posizione (in caso di necessità potrebbe tornare utile) e risuona di tanto in tanto per i messaggi di amici lontani, ma non ho fretta di leggerli. La gerarchia tra reale e virtuale si stabilisce spontanea, come dovrebbe essere, ma come raramente è. Soprattutto viaggio per incontrare persone, come l’orco della fiaba che sente da lontano il profumo della sua preda. È un’impresa facile. Chi viaggia a piedi, stanco e impolverato, tirandosi dietro un buffo animale che sembra uscito da una fiaba, appare inoffensivo: non un potenziale cliente da far fruttare, semmai una creatura bisognosa di aiuto. Davanti a lui tutte le porte si aprono, l’asino anacronistico rompe il ghiaccio, accende la macchina del tempo, apre il contenitore delle storie. A Molin di Bucchio (www.molindibucchio.it) – il primo mulino dell’Arno, che gli scorre accanto ancora bambino e ignaro di Ponte Vecchio e del mare – mi raccontano la storia di Pietro, l’ultimo di una serie infinita di mugnai che lavorarono qui e che, dopo aver subito quello che riteneva un torto, condusse per decenni una vita ritirata e
solitaria, sino alla morte, mentre attorno a lui l’antico mulino del Duecento cadeva in rovina. Nella cucina ottocentesca col gigantesco camino, dove nulla è cambiato da secoli, il nuovo proprietario mi racconta della sua sorpresa quando scoprì di essere stato nominato erede universale da quel suo lontano parente mugnaio, e della sua quotidiana lotta per riportare questo luogo alla vita e alla bellezza. Soltanto pochi chilometri più in là, a Castel Porciano, sotto la gigantesca torre medievale restaurata, un’altra storia di abbandono e salvezza: la contessa Marta mi narra di suo padre, George Anderson Specht, avvocato del Minnesota e volontario nella Seconda guerra mondiale, che in quei frangenti conobbe e sposò una crocerossina italiana, Flaminia Goretti, dedicando poi larga parte della vita comune e delle sostanze al restauro del Castello medievale di Porciano, che la giovane sposa aveva ereditato in condizioni rovinose. Sono passati solo pochi giorni dalla partenza, ma il fluire spontaneo delle storie mi rassicura e mi restituisce alla gioia profonda del viaggio.
Paolo Merlini è ospite abituale delle pagine di «Azione» con il racconto dei suoi viaggi per vie traverse utilizzando i treni locali e le corriere di linea. Dopo aver girato l’Italia e una buona parte dei Balcani, come capita a molti viaggiatori di questi tempi, ha ristretto il suo raggio d’azione ma al tempo stesso ha reso più largo e profondo lo sguardo, scoprendo che l’esotico è dietro l’angolo, che l’Africa è nel giardino di casa, come cantava qualche anno fa Adriano Celentano in Azzurro. E così dopo Un altro viaggio nelle Marche (2012), ecco una seconda puntata dedicata al vicino Abruzzo. Sono al tempo stesso libri di viaggio e guide, com’era al tempo dei viaggiatori settecenteschi, che guardavano con curiosità a questa regione così vicina a Roma e al tempo stesso così diversa e quasi irraggiungibile. Cibo e vino sono sempre un filo conduttore importante, ma soprattutto come occasione per raccontare i luoghi e per incontrare pastai, ristoratori, vignaioli, pastori, tutta una varia e colorata umanità della quale non ci si stanca mai. Siamo però lontani mille anni dall’algido senso di superiorità delle guide gastronomiche più affermate, anzi raramente un viaggiatore ha mostrato tanto desiderio di condividere con altri le gioie del viaggio, mostrandolo facile e possibile, quasi necessario. Un viaggio gioioso, ingenuo, fanciullesco, alla portata di tutti: per definizione ripetibile. / CV Bibliografia
Paolo Merlini e Maurizio Silvestri, Dove comincia l’Abruzzo. Due terranauti in autobus tra saperi e gusto, Exorma, 2014, pp. 288, €14,90. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Autenticità, biodiversità e libertà Agricoltura alternativa Intervista a Jonathan
Nossiter regista del documentario-film intitolato Resistenza Naturale
Ciat
Blanche Greco
Una vincente agroecologia africana Nutrizione Film-documentario di Marie-Monique Robin; il successo
dell’agricoltura biologica in Europa e l’esempio di sistemi agro selvicolturali e agro ecologici nel Malawi e nel Kenya Elia Stampanoni Ogni giorno 24mila persone muoiono a causa di malnutrizione. Questi i dati divulgati dall’Onu, l’Organizzazione delle nazioni unite, e che ci portano in Africa, dove avvengono la maggior parte di questi decessi. La seconda tappa dell’inchiesta di Marie-Monique Robin nel film documentario I raccolti del futuro (vedi la prima parte su «Azione 7» del 10 febbraio 2014) si svolge di fatto nel Malawi, uno Stato dell’Africa orientale. Qui i periodi di siccità provocano spesso importanti crisi alimentari, come accadde nel 2005 o nel 2011, l’anno in cui la giornalista francese visitò il Paese per le riprese del suo documentario. Grazie a questa coincidenza temporale, Marie-Monique Robin ha potuto vedere e vivere in prima persona come il Malawi sta cercando di sopravvivere alle difficili condizioni. Non con culture Ogm, fertilizzanti o pesticidi, ma con un programma agro selvicolturale avviato nel 2007 dal governo malawiano e che oggi si sta rivelando come uno dei più riusciti.
Artefici del successo agroecologico in Kenya sono due erbe: Desmodio uncinato ed Erba dell’elefante Il progetto prevede di utilizzare le risorse delle piante per accrescere la fertilità del suolo, dato che i terreni del Malawi sono particolarmente poveri di azoto e fosforo, i due principali nutrienti. La soluzione è stata individuata in una piccola pianta della famiglia delle Fabacee, la Gliricidia. Come le altre leguminose, l’arbusto è in grado di fissare l’azoto atmosferico in prezioso nutriente, utile alle colture. Le foglie di Gliricidia vengono inoltre interrate tre volte all’anno e fungono così da ulteriore fertilizzante per le piante di granoturco, il cereale più coltivato nel Malawi. I risultati? In quattro anni dall’inizio del progetto ci sono stati grandi miglioramenti, con una resa raddoppiata o triplicata. Un successo ottenuto con le sole risorse della natura e che oggi libera completamente gli agricoltori del Malawi
dall’uso di fertilizzanti chimici. L’auto approvvigionamento di molte famiglie è oggi garantito e, alcune di esse, riescono pure a vendere parte della produzione. L’agro selvicoltura sembra essere una valida alternativa alle problematiche esistenti in molti Paesi delle zone aride. Gli alberi hanno la grande capacità di fissare l’azoto a l’anidride carbonica presenti nell’atmosfera e renderli disponibili e in forma assimilabile ai vegetali e alle colture. Un ulteriore aspetto che ha contribuito al successo del progetto malawiano è la protezione del suolo e il mantenimento dell’umidità che gli alberi possono garantire. Un’altra storia dall’esito positivo, e presentata nel documentario I raccolti del futuro, ci conduce in Kenya. Anche qui, grazie a dei vegetali gli agricoltori hanno trovato nuova speranza. I due maggiori problemi della campicoltura kenyana sono i danni provocati dalla Piralide del mais (un lepidottero le cui larve danneggiano il fusto della pianta) e dalla Striga (un’erba che si nutre delle radici del mais). Dopo anni di ricerche, un team di agronomi ha infine scovato due erbe capaci di portare giovamento alle coltivazioni. Il metodo, definito come «una tecnica agroecologica basata sulle conoscenze delle piante», è stato denominato «push and pull», ossia repulsione e attrazione. Artefici del successo sono due erbe: Desmodio uncinato ed Erba dell’elefante. La prima copre il terreno proteggendolo dall’erosione e impedendo la crescita della Striga. Il suo odore allontana inoltre l’insetto della Piralide, che viene invece attratto dall’Erba dell’elefante, piantata ai bordi del campo. L’Erba dell’elefante produce anche una sostanza appiccicosa capace di annientare le larve della Piralide. In tre anni la Striga e la Piralide sono stati eliminati dai campi dell’azienda sperimentale ampi due ettari, e così si è potuto anche qui rinunciare all’impiego di fertilizzanti, Ogm o pesticidi. Questo sistema tanto affascinante, oggi viene adottato da oltre 50mila contadini kenyoti, che hanno ritrovato l’indipendenza alimentare e la speranza per un raccolto sostanzioso. Le due erbe impiegate possono poi essere utilizzate come foraggio per gli animali, rendendo ancor più autonoma l’intera azienda. Il concetto di globalità azienda-
le, di circolo chiuso, sta pure al centro dell’agricoltura biologica. Anche in questo caso ne fornisce un interessante esempio Marie-Monique Robin nel suo film documentario. Per questo spezzone la giornalista è rientrata in Europa, visitando un’azienda agricola in Germania che, nel 1968, si è convertita all’agricoltura biologica. L’intento era quello di capire i motivi della conversione ma anche di indagare se questo tipo di agricoltura possa effettivamente produrre sufficienti derrate alimentari per sfamare l’intera popolazione mondiale che, si stima, nel 2050 toccherà i nove miliardi. Diversi i motivi che hanno portato quest’azienda tedesca verso la coltivazione biologica: «La terra si era impoverita, era divenuta chiara e bianca, aveva perso la sua fertilità e necessitava ogni anno di sempre più fertilizzanti chimici. Altro fattore: l’uso sconsiderato di fertilizzanti (sparsi con l’ausilio di elicotteri!) che ha portato a un problema con un insetticida: non aveva più alcun effetto», racconta Manfred Wenz, il quale con il figlio Friedrich gestisce 33 ettari di terra alle porte della Foresta Nera. Da questa esperienza è quindi scaturita la decisione di passare all’agricoltura biologica, che ha richiesto dieci anni di tempo per funzionare in modo ottimale. Oggi l’azienda si è adattata alle nuove tecniche di lavorazione, che prevedono la rinuncia all’aratro, la semina diretta, l’uso di colture intercalari, di associazioni colturali e altre strategie agroecologiche. Tutte misure che permettono oggi di produrre sufficienti derrate alimentari con il minimo dispendio di energie fossili. Altre ricerche dimostrano una tendenza singolare, ossia che a lungo termine l’agricoltura biologica non comporta rese minori e, inoltre, contribuisce a preservare la fertilità del suolo e la microbiologia del terreno, con effetti positivi su tutto l’ecosistema e l’ambiente. Anche in Svizzera e in Ticino sono diverse le aziende che stanno già lavorando con questa visione. Quali allora gli ostacoli di una maggiore conversione al biologico in Europa? Secondo Marie-Monique Robin, gli interessi di chi vende prodotti chimici e il prezzo ancora troppo basso dell’energia: «Finché le risorse fossili saranno disponibili a buon mercato, se ne farà un uso sconsiderato».
«Vignaioli ribelli», «artisti del vino»: Jonathan Nossiter parla di «vino naturale» e dei suoi creatori. Su questo argomento che sta agitando il settore, ha realizzato il suo ultimo provocatorio documentario, in questi giorni, nelle sale cinematografiche italiane e francesi: Resistenza Naturale. Un film che definisce «una meditazione sul rapporto tra cinema e agricoltura», in cui racconta il movimento, anarchico, ma sempre più forte, degli agricoltori naturali che si ribellano all’omologazione agro-alimentare, e salva solo loro nel quadro dell’attuale congiuntura mondiale: «Il cinema sta crollando, il giornalismo sta perdendo la sua missione, la cultura è sempre più ignorata, e tutto questo non è frutto della crisi, che non c’è, ma che viene evocata come fonte di tutti i mali, perché questo catastrofismo di comodo evita di ammettere il cambiamento mondiale, irreparabile, avvenuto a livello sociale, politico ed economico» ci dice Nossiter. «Oggi il movimento dei ribelli è sempre più forte, è transnazionale e solo in Francia conta mille vignaioli naturali e quattrocento in Italia».
È davvero la crisi la fonte di tutti i mali? O è solo un catastrofismo di comodo per non ammettere la realtà? Dopo il suo film Mondovino, presentato in concorso a Cannes nel 2004, Jonathan Nossiter torna a puntare la sua cinepresa sulle vigne e, in una sorta di docu-film, racconta una realtà nuova che va dalla Toscana alle Marche, dall’Emilia Romagna al Piemonte, fatta di persone che si sono lasciate alle spalle l’università, gli anni di studi e di lavoro in città, nelle banche, in economia, ingegneria, per tornare alla campagna e impegnarsi in attività agricole. Ribelli che adesso lottano per l’autenticità, la biodiversità e la libertà. «Questi nuovi contadini stanno prendendo forse il ruolo che era degli artisti, che per antonomasia erano considerati dei contestatori, portatori di nuove idee, mentre adesso tacciono.
Il loro non è un movimento ideologico, è una risposta etica al crollo generale di una società. Perchè questi vignaioli, questi agricoltori che guardano al futuro attingendo a piene mani dal passato e dalla tradizione, senza trascurare il presente, sono dei visionari per i quali il vino diventa l’ambasciatore del proprio impegno, finalizzato a preservare la terra e a rivitalizzare la cultura contadina» continua Jonathan Nossiter: «Se quindici anni fa mi avessero parlato di queste cose, sarei stato un po’ scettico, ma oggi è diverso. I vignaioli naturali, sono alle volte considerati quasi dei “fuorilegge”, perché devono combattere contro le regole dettate dal mercato per poter creare qualcosa di completamente artigianale e personale in un mondo intollerante rispetto a ciò che non è riproducibile e commerciabile su grande scala. Il vino naturale, rispetta il territorio, la cultura da cui proviene e i cicli della natura». Nel film si fa l’esempio di un vino, un verdicchio delle Marche, che a causa di un’estate particolarmente calda e assolata, ha un colore giallo-oro carico invece di quello classico giallo paglierino tenue, dai riflessi verdognoli e per questo «non è riconosciuto» come «verdicchio» dalle varie associazioni preposte. «Il mercato internazionale dei vini naturali da cinque anni a questa parte sta avendo un grande impulso» conclude Nossiter, «basti pensare che mentre dieci anni fa c’era un solo importatore di vino naturale in Giappone, oggi ce ne sono dodici, soprattutto di vini italiani e francesi». Ma se nel film di Nossiter l’agricoltura la fa da padrone, nel piccolo gruppo dei protagonisti di Resistenza Naturale, tra i vignaioli naturali, non è un caso se troviamo anche un uomo di cinema come Gian Luca Farinelli, uno dei grandi esperti di restauro cinematografico e direttore della Cineteca di Bologna, perché anche lui è un sapiente artigiano che, da anni, lotta per preservare dalla distruzione i grandi capolavori del cinema internazionale. Anche Farinelli è un «ribelle», uno che va controcorrente: dopo averli restaurati, infatti, s’impegna strenuamente, battagliando con il mercato avido di blockbuster, per riuscire a mostrare quei meravigliosi «vecchi» film di grandi registi, al pubblico che ne ha solo sentito favoleggiare.
Una scena tratta dal film-documentario: Resistenza Naturale .
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Ambiente e Benessere
Viaggiare in sicurezza Mondoanimale Durante un viaggio in auto la sicurezza di conducente, passeggeri e animali
va sempre salvaguardata adeguatamente
Due feriti di media gravità, un cane deceduto, uno ferito gravemente e due illesi: questo il bilancio di un incidente della circolazione che qualche tempo fa è avvenuto sull’autostrada A2, in territorio di Muzzano. I fatti, in sintesi, raccontano che la conducente di una Toyota ha perso improvvisamente il controllo del veicolo, il quale è andato a sbattere contro una parete di sostegno, in cemento, lungo i binari della linea ferroviaria Lugano – Ponte Tresa, per poi ribaltarsi e terminare la sua corsa al centro della carreggiata. Assistite adeguatamente le persone ferite, i soccorritori si sono dovuti occupare anche degli altri passeggeri: quattro cuccioli di cane che si trovavano in una cesta all’interno del veicolo. Gli agenti della polizia hanno dovuto constatare la morte di uno di essi, e si sono presi cura degli altri tre in attesa dell’arrivo della Protezione degli animali che li ha portati da un veterinario. E potrebbero essere stati proprio gli inconsapevoli cagnolini, la causa dell’incidente. Non è infatti difficile da immaginare come gli animali avrebbero potuto distrarre la conducente. L’esito dell’incidente, per fortuna, non è stato grave per gli occupanti dell’auto che sono guariti, mentre un cucciolo è deceduto, quello severamente ferito aveva due zampe fratturate ed è stato curato dal veterinario, e gli altri due hanno trovato alloggio temporaneo al rifugio di Gorduno – Gnosca della Protezione degli animali di Bellinzona. «Dalle nostre parti sono davvero rari gli incidenti della circolazione che vedono coinvolti animali trasportati in automobile», così afferma l’aiutante
Sushiesque
Maria Grazia Buletti
Alvaro Franchini, della sezione stradale della Polizia cantonale da noi interpellato per fare luce sulla sicurezza del trasporto in automobile dei nostri animali da compagnia. I cuccioli in questione avrebbero potuto distrarre la conducente perché posti in una cesta sul sedile e, dunque, liberi di muoversi nell’abitacolo e non assicurati in alcun modo in caso di frenata. A Franchini chiediamo di spiegarci cosa dice la legge sulla circolazione stradale a questo proposito: «Dice chiaramente che il conducente non deve essere ostacolato in nessun modo dai pas-
La legge italiana La legge italiana sulla circolazione ha subito una modifica che oggi obbliga il soccorso agli animali investiti su strade e autostrade. La discussione è nata dal fatto gli animali investiti venivano ignorati e lasciati morire sul ciglio stradale, senza che il conducente rallentasse o si fermasse a constatare la gravità dell’investimento. Certo, non sempre la situazione permette al conducente di potersi fermare o ritornare indietro, ad esempio in caso di
investimento in autostrada. Però ora, in Italia, la legge parla chiaro e dice che, in caso di investimento di ogni sorta di animale (cani, gatti, uccelli, selvatici e quant’altro), bisogna avvertire il 117. La centrale sa se deve aprire un’inchiesta che serve anche per eventuali assicurazioni, ma nel contempo avverte il guardiacaccia della zona e la protezione degli animali per il soccorso ed eventualmente il trasporto dal veterinario.
seggeri, né dal carico. Questo significa che il conducente deve far allacciare le cinture di sicurezza ai suoi passeggeri, deve assicurare i bambini ai seggiolini omologati e, ovviamente, deve anche assicurare ogni tipo di carico. Per analogia, dunque, è responsabile e ha il dovere di fissare anche qualsiasi animale durante il suo trasporto in automobile, sia esso di piccola o grande taglia, tranquillo o vivace». Significativo l’esempio portato dal nostro interlocutore: «In caso di decelerazione violenta, già a 30 chilometri orari la massa di un oggetto aumenta di venti volte e, se non assicurato adeguatamente, diventa pericoloso per gli occupanti del veicolo». Pensiamo alla semplice cassa di acqua minerale da 6 bottiglie di un litro e mezzo: 1,5 l. x 6 = 9 x 20 volte a 30 Km/h sono pari a 180 Kg di peso. La legge parla chiaro: «Tutte le misure applicabili per evitare la messa in pericolo durante il viaggio sono a carico del conducente e questo criterio, lo ripetiamo, vale anche per gli animali». Ma la legislazione non indica come bisogna salvaguardare la sicurezza nel trasporto dei nostri beniamini a quattrozampe. «Questo è vero», conferma Franchini invocando la regola del buonsenso che tutti dovrebbero
riuscire ad applicare senza grossi grattacapi: «Ci sono tanti sistemi di messa in sicurezza nel trasporto di animali, normalmente sono cani o gatti, che vanno dagli appositi box, dei quali in commercio se ne trovano di diverse misure e materiali, a confortevoli e sicure cucce da porre nel bagagliaio o assicurate sul sedile posteriore, fino alle reti che nell’abitacolo separano i cani dal conducente, e alle griglie di inox che vengono montate in seconda battuta, sempre per far sì che il cane non vada addosso o a importunare il conducente in caso di frenata brusca. Inoltre, in commercio si trovano anche apposite pettorine munite di cinture di sicurezza da applicare sui sedili posteriori, in modo che l’animale sia adeguatamente fissato e non possa andare a zonzo, né cadere all’interno dell’abitacolo». Nell’elencare la varietà di misure tra cui il conducente può scegliere, l’aiutante Franchini osserva che «gli incidenti di automobili che trasportano cani a bordo sono relativamente rari, anche perché si può presupporre che il conducente guidi con criterio ancora più scrupoloso, proprio perché trasporta il proprio animale». Certo è che la legge non indica chiaramente come obbligatorie le mi-
sure elencate dall’ufficiale di polizia che pure rimane fiducioso nei criteri di giudizio dei conducenti: «Non posso che ripetere che il buonsenso del conducente e la sua scrupolosa osservanza dell’obbligo di non venire ostacolato alla guida, siano ancora la via più giusta e sicura per evitare spiacevoli o infauste conseguenze». Stessa responsabilità anche nel caso in cui il conducente dovesse causare un incidente per aver tentato di non investire un animale libero sulla carreggiata: «Può succedere che un cane sfugga al proprietario, oppure che un selvatico ci attraversi la strada. In questo caso la legge parla chiaro e dice che, sì, devo frenare, ma senza causare incidenti a terzi, dei quali sarei l’unico responsabile». Franchini si spiega con un esempio: «Viaggio su una strada a due corsie e un cane mi attraversa la strada. Per scansarlo, sterzo e faccio un frontale con l’auto che sopraggiunge in senso inverso. Dal profilo della legge sulla circolazione la responsabilità è solo mia». Anche se a malincuore, egli ricorda a giusta ragione che: «La legge ci obbliga a fare un distinguo fra i vari animali e la salvaguardia della vita umana che rimane suprema. E mi sento di affermare, nuovamente, che la migliore via è sempre quella del buonsenso».
Le buone erbe Mondoverde L’importanza della fitoalimurgia, ramo della botanica che studia le piante spontanee commestibili Anita Negretti A chi non è mai capitato di vedere lungo strade trafficate persone ricurve intente a raccogliere delle erbe, come ad esempio il tarassaco, per poi prepararsi una saporita insalata? Più che buona quell’insalata sarà però ricca di residui di piombo, polveri sottili accompagnate da un vario campionario di sostanze tossiche, che annientano tutti i principi salutari contenuti nelle foglie appena colte. Tuttavia, è proprio guardando simili operazioni di raccolta che mi sono incuriosita e ho scoperto l’affascinante mondo delle erbe spontanee, che crescono nei prati, lungo ruscelli o all’inizio del bosco. Ottime nel piatto, sono un vero elisir per la salute, a patto però di raccoglierle in luoghi veramente sani, lontano da fonti di inquinamento, strade e fabbriche, campi diserbati o vicino a torrenti dalle acque non proprio cristalline.
Vi è addirittura un termine per definire questa pratica: fitoalimurgia (da phyton, pianta, e alimurgia, ovvero alimenta urgentia). Coniato nel 1919 dal professor Mattirolo, rappresenta un ramo della botanica volta a studiare e classificare le erbe spontanee, che rappresentano un importante fonte di sostentamento per i popoli in periodo di guerra o di carestia. Più o meno facili da individuare, anche i meno esperti di botanica potranno distinguere e raccogliere svariate essenze, con un semplice manuale e partendo magari da quelle più semplici, come l’ortica (Urtica dioica) le cui tenere foglie perderanno con la cottura la loro proprietà urticante, regalandoci risotti saporiti e ricchi di sali minerali. Nelle minestre si possono aggiungere ciuffi di silene (Silene alba e S.vulgaris), malva (Malva sylvestris), salvia dei prati (Salvia pratensis), o se
preferite gustare le erbe senza brodo, potete assaggiare le cime dell’asparago selvatico (Asparagus tenuifolius) o del luppolo (Humulus lupulus), ricor-
dandovi che i getti di luppolo selvatico sono più gustosi quanto più sono grossi. Una volta lessati per 5-10 minuti, con poca acqua o al vapore, si possono
Un esemplare di Taraxacum officinale. (H. Zell)
consumare direttamente, oppure saltare in padella per pochi minuti. Gustose frittate si ottengono mischiando a uova e sale, delle tenere foglie di borraggine, di salvia dei prati (Salvia pratensis) o di lamio (Lamium maculatum) accompagnando il piatto a una sana (ma amara!) insalata di tarassaco (Taraxacum officinalis, o «Dente di leone») con l’aggiunta di foglioline di margherita (Bellis perennis), viole (Viola odorata), agli selvatici, acetosella (Oxalis acetosella). Se queste erbe vi hanno conquistato, vi ricordo che potete trovarne molte allo stato spontaneo per aromatizzare le bevande, come la melissa, l’origano, la menta, l’assenzio (Artemisia absinthium), il timo, la santoreggia e le foglie di sambuco. Infine, per i più golosi o per coloro che guardano con diffidenza la fitoalimurgia, ecco una vera delizia per ricredervi: fiori di robinia trasformati in frittelle saporite.
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Ambiente e Benessere Cucina di Stagione La ricetta della settimana +,#//* "& !*+#,-&) $,E 9E?N *) (#)-* )). ’# CAJ ).(#,&D $,E I?E7
Orecchiette con verdure primaverili e culatello Piatto principale
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Ingredienti per 4 persone: 400 g di orecchiette · sale · 1 scalogno · 300 g di piselli freschi col baccello · 4 cucchiai d’olio d’oliva · 1 cucchiaio di burro · 1,5 dl di vino bianco secco · pepe macinato · 2 manciate di spinacini · ¼ di mazzetto di basilico · 80 g di prosciutto crudo, ad esempio culatello · 8 mozzarelline, ad esempio di bufala.
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1. Lessate le orecchiette al dente in abbondante acqua salata. Scolate, fate sgocciolare e tenete in caldo. 2. Nel frattempo tritate lo scalogno. A piacimento, dimezzate i piselli. Scaldate in una padella ampia la metà dell’olio e il burro. Aggiungete lo scalogno e fate soffriggere per circa 3 minuti. Unite i piselli e soffriggeteli brevemente. Bagnate con il vino e fate ridurre un po’. Condite con sale e pepe. Mescolate i piselli con gli spinaci e le orecchiette. Spezzettate e distribuite le foglie di basilico e il prosciutto crudo. Servite con le mozzarelline intere e irrorate con il resto dell’olio. Gustate subito.
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Ambiente e Benessere
Lode alla scienza non esatta
Sportivamente Viva gli inglesi che hanno inventato il football e viva la Svizzera multiculturale che vince
una gara di pallone facendo sentire gli elvetici per una volta più europei, a modo loro beninteso
Alcide Bernasconi Il vecchio pensionato è a volte anche un vecchio tifoso. Va allo stadio un po’ per abitudine, un po’ per intrattenersi con gli amici (o i colleghi – non sempre amici fino alle midolla – d’un tempo). Qualcuno di quelli che si ritrovano a Cornaredo è parso perfino intenerito per il finale arrembante, anche se soltanto dimostrativo, dei suoi bianconeri, i quali hanno chiuso al secondo posto il campionato di Challenge League. Con un sotterfugio, c’è pure chi è riuscito a superare il sottile sbarramento verso il campo, per andare ad abbracciare il presidente Angelo Renzetti, al quale alcune vere lacrime scendevano discretamente dagli occhi, rigandogli il volto quasi con rispetto. E rispondeva con un sorriso all’abbraccio dello sconosciuto. Allenatore e giocatori inscenavano una forma di danza rituale ma non studiata, a beneficio dei pochi tifosi della «curva» e delle tribune. I luganesi avevano chiuso il campionato battendo la capolista Vaduz, fresca di promozione nel massimo campionato. Era un bel pomeriggio per chiudere una malinconica stagione. Chiasso salvo per il rotto della cuffia, Locarno retrocesso e sogno di una nuova compagine che rappresentasse tutto il Cantone svanito nel nulla. Meglio così.
Tutto grazie a un gol confezionato a tempo quasi scaduto, nella prima gara della Svizzera al Mondiale brasiliano Il Lugano, quella sera, si è sentito di nuovo come il rappresentante più autorevole, dopo la scomparsa dell’AC Bellinzona – sparito dalla classifica per i debiti a cui l’aveva portato un presidente salito da Milano con qualche
La prima gioia dei tifosi svizzeri. (CdT - Crinari)
idea molto confusa, ma rimasto vivo nei cuori dei suoi tifosi e tenuto miracolosamente in vita da un gruppetto di samaritani granata – e ancora in grado di covare un progetto di rinascita seppur consapevole degli ostacoli sportivi e di bilancio che l’attendono con tutta certezza. Noi abbiamo dunque vissuto così il finale di una stagione giocata da tutti i ticinesi sulle sabbie mobili di mille difficoltà, altro che sui campi che la Federcalcio vorrebbe vedere attorniati da costose infrastrutture, facendo finta di non sapere che i club, da soli, non ce la fanno a realizzarli e gli attuali proprietari, ossia i comuni, non possono al momento toccare neppure un mattone, visto che gli spiccioli rimasti nelle casse comunali, oltre ai soldi versati dai cittadini, andranno spesi anteponendo altre priorità. Detto questo, al vecchio tifoso non
rimaneva che aspettare il Mondiale brasiliano per sperare di esultare, come non troppe volte gli è stato possibile fare nella vita. Le premesse (lasciamo perdere quelle sollecitate dalla stampa che ha fiutato il buon momento dei rossocrociati per battere il chiodo e tornare a raccogliere qualche soldo in più in questo tempo di crisi) erano buone. La Nazionale di calcio, quando le cose girano per il verso giusto, sa entusiasmare come nessun altro. Ce ne accorgemmo otto anni fa, ai Mondiali in Germania, che i tempi stavano mutando. Ma ancora riesco a ricordare, se proprio volete, quando gli elvetici batterono ben due volte l’Italia, ai Mondiali organizzati in casa, nel 1954. Erano i tempi del grande ciclismo d’Italia e Svizzera, quello del Dopoguerra, quando a far sognare grandi e piccini erano da una parte Bartali e Coppi e, dall’altra Kübler e Koblet: un Giro a te e uno
a me; un Tour a te e un paio a noi; un Mondiale a Varese per Kübler e uno a Lugano per Coppi. E così via. Insomma respiravamo a pieni polmoni per gridare «gooool!» e manifestare il nostro tifo sulle strade. L’altra sera mi sono limitato ad alzare al massimo il volume del televisore dopo il gol del 2-1 nei minuti di recupero: l’incredibile cavalcata di Behrami è partita da quel suo piede che aveva appena fermato in area di rigore un affondo apparentemente decisivo dell’Ecuador e poi via, di gran carriera, stringendo i denti e tutto il resto, scattando in piedi come una molla dopo essere rotolato per un fallo netto a centrocampo, proseguendo la sua corsa come in un numero circense, col beneficio della regola del vantaggio concessa dal direttore di gara (ohibò!), il passaggio all’ala per Rodriguez e il centro per l’accorrente Seferovic con palla in gol.
ORIZZONTALI 1. 1. Lavorano in miniera 7. Pianta con foglie carnose usata in erboristeria 8. Stanno in mezzo al freddo 9. Articolo spagnolo 10. Aggettivo possessivo 12. Un quinto di five 14. Le iniziali dell’attore Abatantuono 16. Incitazione spagnola 18. Ventre, parte interna 21. Padre del re di Norvegia 23. Il pittore Salvador 24. Capitale del regno assiro sotto il re Sennacherib 26. Lo stesso 28. Se ci... capovolgete 29.Malattie ereditarie 31. Fu dato in pasto a Tereo 32. Emettere, sprigionare 33. Sono uguali nel catalogo VERTICALI 1. Le iniziali di un noto Angela della TV 2. Isola francese 3. Passa... in cucina 4. Le iniziali dell’attore Eastwood 5. Preposizione articolata 6. Nasce in un attimo 10. Il nome dell’attore e regista Brooks 11. Giovani belli e seducenti 13. Un avvenimento inedito 15. Sogna di stare in un paese meraviglioso 17. È un’arrampicatrice... 18. Le spiegava l’Ippogrifo 19. Paesi in poesia 20. Il suo simbolo chimico è «Ho» 22. Due quarti dell’anno 25. Il «de» olandese 27. Settima lettera dell’alfabeto greco 30. Articolo romanesco
Sudoku Livello difficile
Giochi Cruciverba Lo sapevi che il colibrì è l’uccello più … e che … Termina la frase leggendo, a cruciverba risolto, le lettere evidenziate. (Frase: 7, 3, 5, 4, 3, 8).
Scopo del gioco
Completare lo schema classico (81 caselle, 9 blocchi, 9 righe per 9 colonne) in modo che ogni colonna, ogni riga e ogni blocco contenga tutti i numeri da 1 a 9, nessuno escluso e senza ripetizioni.
Soluzione della settimana precedente
Frutto tropicale – Frase risultante: Casimiroa originario del Messico.
Ecco il momento più bello della stagione, che non è solo del vecchio tifoso, bensì di tutti. È la Svizzera multiculturale che va a segno. Forse esultano anche nel Kosovo e noi che siamo figli di Mamma Elvezia sentiamo quasi un nodo alla gola. Su ancora un po’ con quella tele, per raccogliere e amplificare il grido della folla, cambiando canale con una maestria che non sapevamo di avere, per raccogliere il parere di tutti coloro che si potevano raggiungere allo stadio di Brasilia. La gatta, spaventata, salta da destra a manca, il cane del vicino si mette a ululare mentre i grilli, improvvisamente, tacciono. Dopo tanti rimbrotti espressi solo mentalmente per un comportamento fatto, sì, di grande impegno, ma tutt’altro che brillante, privo di velocità e di un lampo di genio, alla fine è arrivato comunque il gol che ha squarciato il cielo negli ultimi istanti di recupero. Ecco, davvero, il calcio non è una scienza esatta. Per questo piace da morire quando le cose vanno così. Poveri ecuadoregni. Stavolta, viva noi! Viva i nostri, viva anche il commissario tecnico Hitzfeld, il cui volto si raggrinza ancor di più nel momento… di gioia suprema. Lo scuotono gli assistenti sulla panchina, mentre lui, forse, si aggiusta la cravatta quasi per darsi un contegno. Ci dispiace che queste annotazioni non potranno leggerle subito, i nostri trentotto lettori. Le mettiamo allora in uno dei capacissimi frigo della Migros, in attesa di pubblicazione. E chissà che cosa sarà successo ancora nel frattempo. Rimane comunque una certezza: quella sottolineata dall’urlo strozzato nella gola del vecchio tifoso durante un momento impagabile. Comunque vadano le cose, evviva la scienza non esatta del gioco del pallone, evviva gli inglesi inventori del football, evviva la nostra piccola Europa del calcio che, forse, ci fa amare anche dal Kosovo.
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Politica e Economia
Il ritorno del Califfato Iraq Il gruppo estremista dell’Isis guidato da al-Baghdadi punta a innescare una vera e propria guerra settaria
fra sunniti e sciiti. L’Iran preoccupato chiede la collaborazione di Stati Uniti e Turchia
Marcella Emiliani Quando il 10 giugno scorso i jihadisti dell’Isis (Stato islamico dell’Iraq e della Siria) hanno conquistato Mosul, la seconda città dell’Iraq, si è capito che la formazione guidata da Abu Bakr al-Baghdadi aveva cambiato strategia di destabilizzazione, alzando il tiro e puntando decisamente a innescare una guerra settaria sunniti-sciiti che non intendeva «fare prigionieri». Non più dunque attentati suicidi o sortite occasionali fuori della provincia di Anbar – la loro roccaforte –, ma una campagna militare vera e propria che ha sorpreso e sconcertato non solo l’Iraq ma il mondo intero. Presa Mosul, infatti, l’Isis l’11 giugno ha raggiunto Baiji e si è spinto fino alla città natale di Saddam Hussein, Tikrit, assumendone il controllo. Qui, ai jihadisti si sarebbero affiancate piccole formazioni ba’thiste rimaste fedeli a Saddam Hussein e milizie tribali sunnite.
I jihadisti si sono vantati di aver giustiziato 1700 militari sciiti, terrorizzando il primo ministro al-Maliki nella loro feroce corsa verso Baghdad Già il 12 giugno ha assediato Samarra, attaccato Dhuluiya e con una corsa folle il 17 ha raggiunto Baquba, 60 chilometri a nord di Baghdad, puntando decisamente sulla capitale. Oltre alla determinazione militaresca, l’Isis ha usato un modus operandi che non ha lasciato nulla al caso ed è fatto di disciplina ferrea, ferocia inaudita, scelta delle città da conquistare suggerita dall’importanza simbolica e/o economica degli obiettivi e una indubbia capacità di usare i social media. Prima del racconto dei testimoni, sono state le immagini postate dall’organizzazione jihadista a dare il polso della situazione: le divise e gli elmetti abbandonati alla rinfusa sul terreno dai militari dell’esercito iracheno fin dall’assalto dell’Isis a Mosul dove il rapporto di forze era di 800 a 30’000. 800 miliziani hanno cioè messo in fuga 30’000 effettivi delle forze armate irachene, quelle addestrate dagli americani, che sono costate all’erario Usa fior di milioni di dollari. Per non parlare delle foto postate su un sito jihadista e diffuse
Un curdo peshmerga controlla Kirkuk dall’assalto dell’Isis. (AFP)
in parte su Twitter il 15 giugno con teste mozzate, mucchi di cadaveri, esecuzioni di massa. I terroristi per l’occasione si sono vantati di aver «giustiziato» 1700 militari. Difficile verificare, ma l’obiettivo è stato comunque raggiunto: terrorizzare l’esercito iracheno, gli sciiti e il primo ministro al-Maliki. Gli «uomini neri» dell’Isis, evitano accuratamente di ingaggiare scontri prolungati con le forze armate (in tutto si stima siano non più di 10’000 tra Siria e Iraq): la loro è una strategia del rullo compressore che fa della velocità e dello sconcerto causato dal terrore un’arma letale. Dietro la ferocia e la corsa folle verso Baghdad, però, non hanno mai perso di vista i propri interessi economici. A Mosul e nelle altre cittadine conquistate hanno rapinato banche, svuotato magazzini di derrate e depositi di armi dell’esercito, senza dimenticare en passant di aprire le porte delle patrie galere. Soprattutto a Baiji (210 km a nord di Baghdad) hanno assunto il controllo quasi totale della raffineria di petrolio più importante del Paese. È soprattutto in quest’area che si è concentrata dal 17 giugno la controffensiva dell’aviazione irachena, con quali risultati sul terreno è difficile dire. Il primo ministro alMaliki ha licenziato generali e biasima-
to l’esercito, ma quanto fosse grave la situazione lo si è capito fino in fondo il 13 giugno, quando è arrivata la chiamata alle armi dei volontari da parte della massima autorità spirituale sciita irachena, l’ayatollah Ali al-Sistani. L’Iran, dal canto suo, per ora ha inviato in Iraq solo un piccolo contingente delle forze speciali al- Quds, che fanno capo ai pasdaran, per dare man forte all’esercito di Baghdad, come ha fatto in Siria per sostenere Bashar alAssad. Se intervenisse massicciamente nel Paese vicino, avrebbe ragione in tempi rapidi dei jihadisti dell’Isis. Ma Teheran frena perché se da un lato non vuole perdere l’innegabile influenza che esercita sull’Iraq, dall’altra non vuole avere la responsabilità dichiarata di aver alimentato la guerra settaria che sta travolgendo il medesimo Iraq e tantomeno vuole ampliare un conflitto che rischia davvero di dilagare nell’intera regione. Come non reagire però quando l’Isis minaccia di distruggere i luoghi santi iracheni dello sciismo a Najaf e Kerbala? Sono perciò giorni molto inquieti quelli della Guida della rivoluzione Ali Khamenei e del presidente Hassan Rouhani, che – messi alle strette dall’incalzare degli avvenimenti – non hanno esitato a chiedere alla luce del
sole la collaborazione degli Stati Uniti e della Turchia contro l’Isis, attirandosi le ire dei pasdaran, dell’establishment clericale conservatore e anche di molta parte dell’opinione pubblica. Per gli Stati Uniti si è incaricato il segretario di Stato John Kerry di non chiudere la porta in faccia agli iraniani, ma anche gli Usa tentennano e non sanno quale strategia adottare. Il 17 giugno hanno inviato in Iraq solo 275 militari e meditano di usare i droni per fermare l’avanzata dell’Isis su Baghdad. Va coi piedi di piombo anche la Turchia cui l’Isis ha rapito un’ottantina di concittadini a Mosul. Ma più passa il tempo, più l’Isis si rafforza. Per ottenere cosa? Volendo coniare uno slogan, potremmo dire che Al Qaeda ha deciso di farsi Stato. L’Isis non può assolutamente illudersi di conquistare l’intero Iraq e infatti non è a questo che mira. L’Iraq vuole spaccarlo e avere il pieno controllo delle province settentrionali (quelle non a maggioranza curda) e centro-occidentali dove è concentrata la popolazione sunnita per poi unirle alle province siriane nord-orientali che ha conquistato dal 2011 ad oggi. L’Isis insomma mira a creare un Califfato islamico in un Sunnistan a cavallo – per ora – tra Siria e Iraq. Nelle sue fantasie
più sfrenate oltre a parte dell’Iraq e della Siria c’è lo Sham che nella sua accezione storica comprende tutta la vecchia provincia ottomana della Grande Siria, dunque anche la Giordania, il Libano e la Palestina. Per questo l’intero Medio Oriente è in fibrillazione e da una capitale all’altra volano insulti e accuse. Il principale imputato è il premier iracheno al-Maliki che concentrando nelle proprie mani e in quelle degli sciiti tutto il potere e le risorse economiche ha «spinto» i sunniti tra le braccia della nuova Al Qaeda. Nuova perché l’Isis al comando di Abu Bakr al-Baghdadi non ha più nulla a che vedere con l’organizzazione che fu di Osama bin Laden oggi guidata dall’egiziano Ayman al-Zawahiri. Per lo strappo dalla casamadre, fatale è stata la Siria. Al-Zawahiri non voleva che l’Isis tracimasse in Siria, che doveva rimanere territorio del Fronte al-Nusra. Ma al-Baghdadi si è ribellato. Anzi ha usato proprio la Siria come base per preparare la propria grande offensiva in Iraq. In Siria si è rifornito di armi e risorse (oltre ai finanziamenti di privati sauditi e degli Emirati) e ora si sta giocando la Grande Carta dello Sham letteralmente su un mare di sangue. Mentre il mondo sembra stare a guardare attonito e imbelle. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
Passerella di strada Un Paese allo specchio Storia della fortuna straordinaria di «Daspu», il marchio di moda di Rio de Janeiro
fondato da una ex prostituta – Terza parte Angela Nocioni Il camicione è di buon taglio. Stretto sul seno e largo sui fianchi, qualche trasparenza nonostante l’aria vagamente anni Sessanta. Il passo è quello ancheggiante del marciapiede. Un po’ per vezzo e un po’ per abitudine. La scritta è invece in caratteri stampati neri sull’orlo: «Tesoro, il bottone sta più in basso». Lunghe soste, mani sui fianchi, baci al pubblico che fischia, applaude e ride. La passerella di legno è stata tirata su alla meglio in un vicolo maleodorante del centro. I tassisti non vogliono fermarsi. «Ladri e puttane, ecco tutto quello che c’è qui» protesta Roberto Parrinho, da quarant’anni al volante per le strade dell’ex capitale brasiliana.
Daspu è la contrazione di das putas, brand nato nel 2005 all’interno di Davida, organizzazione non governativa Invece questa sera c’è dell’altro. In una delle stradine piene di bar malfamati dietro piazza Tiradentes, in pieno centro, sfila Daspu, abbreviazione di «das putas», il marchio supertrendy di moda creato da prostitute di Rio. Venti ragazze, qualche bionda finta, molte taglie forti. Niente top model: è la serata di chi viene dalla strada. La collezione si chiama «Putaarte». Funk assordante e birra nei bicchieri di plastica. È l’evento che prende in giro (e ruba attenzione mediatica) a Fashionrio, la ricchissima saga modaiola carioca. «Tra il bottone e la spada» si chia-
ma la collezione. Un trionfo di corsetti con aperture laterali, calzoncini attillati e bellissime casacche. Grandi corone occhieggiano qua e là sulle stoffe leggere. Facendo il verso al logo della coroncina a tre punte di Osklen, uno dei migliori marchi della moda brasiliana. Otto anni fa Daspu sfilava in strada. Ormai è un evento, ha una vera passerella, grandi specchi, ottimi amplificatori e un pubblico fedele che la segue ovunque. Le professioniste della strada distribuiscono sorrisi e baci in passerella. Le accompagnano uomini lucidi di olio solare, vestiti in lycra. «I colori sono quelli dei preservativi colorati – spiega agli invitati il volantino di Daspu – le nostre guerriere vanno alla lotta colorate e divertite, senza segni di sconfitta addosso». L’idea del marchio è di Gabriela Silva Leite, prostituta per 15 anni e pioniera del movimento di categoria in Brasile. Piccola di statura e con un’aria da imprenditrice in ciabatte, l’essenza di Daspu lei la spiega così: «Quando le vedo sfilare, altere, senza vergogna di mostrarsi puttane, credo che stiamo facendo politica: e con intenzioni rivoluzionarie». La prima sfilata è stata nel 2006 e ha avuto un gran successo. Daspu aveva proposto le sue magliette (10 euro) e le camicie da notte (40 euro) a Rio fashion week che l’ha rifiutate. Allora è venuta l’idea della sfilata alternativa, organizzata con somma furbizia contemporaneamente al defilé di Giselle Bündchen, la famosa modella brasiliana adorata all’estero e trattata come una regina in patria. Un ottimo servizio di pubbliche relazioni ha fatto il resto. Le grandi agenzie hanno distribuito i fotografi tra i velluti dell’even-
to ufficiale e le sediole di plastica delle puttane-stiliste. Risultato: l’intera produzione esaurita in due giorni. Da allora nei chioschetti radical chic del posto 9 di Ipanema, il chiosco più alla moda della spiaggia più bella di Rio, fa molto trendy presentarsi in maglietta lilla con la scritta: «non sono una puttana, sono la puttana». Dietro Daspu c’è una ong, Davida, che organizza campagne di prevenzione delle malattie a trasmissione sessuale e ha chiesto al Parlamento il riconoscimento della prostituzione come professione, con conseguente diritto alla pensione, alla copertura sanitaria e alla istituzione di un sindacato. Da anni esiste in Brasile un progetto di legge presentato da Fernando Gabeira, ex deputato verde, che prevede la regolamentazione del mestiere. Gabriela assicura che la produzione di Daspu esce tutta dal lavoro di una ventina di prostitute del centro di Rio, aiutate da una stilista, e che il ricavato della vendita serve a finanziare Davida, sempre da lei fondata, che ha messo il capitale iniziale. Una manna dal cielo per Daspu è stato l’incontro-scontro con la boutique più cara di Sao Paulo, Daslu, la cui proprietaria prima si è indispettita minacciando la denuncia per usurpazione del marchio, poi ha fiutato l’affare e si è messa anche lei nel processo di produzione. E ha fornito pubblicità, pubbliche relazioni e un’infinita schiera di facce note, come testimonial a costo zero. C’è il suo zampino nella costruzione del sito www.daspu.com.br dove un’ombra femminile su sfondo viola presenta la linea Daspu: «siamo prostitute, creiamo vestiti, non discriminiamo donne di altre professioni e men che
mai gli uomini. In fondo si sa, da sempre facciamo moda». Gabriela viene da un famiglia cattolica conservatrice di São Paulo. Nel 1969, al primo anno di sociologia, ha iniziato a prostituirsi. «Non è stata esigenza economica, la mia, era semplicemente una scelta conveniente – spiega ora – guadagnavo in una notte quello che non avrei messo insieme in un mese lavorando come segretaria. E poi volevo praticare la rivoluzione dei comportamenti sessuali, non predicarla soltanto». Nel 1979, sfidando la repressione militare, organizzò la prima marcia pubblica di protesta contro la corruzione della polizia. Portò in piazza migliaia di prostitute accompagnate da artisti famosi. «In Brasile la prostituzione non è un reato. Ognuno è libero di usare il proprio corpo nella maniera che ritiene più giusta. È un reato invece lo sfruttamento, l’intermediazione» racconta intanto Jasmine Frazeira, che lavora con le prostitute in un programma di prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili finanziato da donatori privati dell’Arpoador, quartiere esclusivo di Rio de Janeiro incastonato tra le due spiagge di Copacabana e Ipanema. «Altra cosa, è il problema dello sfruttamento sessuale di minori, che è un reato gravissimo. Il problema c’è, esiste, e riguarda anche l’ambito della prostituzione tradizionale, rivolta ai brasiliani – dichiara Célia Saternjeld di Cemina, altra ong di Rio – in alcune zone è molto visibile, come nella zona di Central Do Brasil (ndr.: la stazione ferroviaria di Rio) e in un quartiere posto proprio a ridosso dello stadio di Maracanà. Il problema è che spesso, anche per chi lavora come noi da anni sul territorio, è quasi impossibile di-
stinguere fra una ragazza minore di 14 o 15 anni e una ragazza maggiorenne. È molto difficile». Daspu è vista con favore da tutte le persone impegnate nei lavori di prevenzione e di assistenza alle prostitute con cui abbiamo parlato. Nel primo incontro nazionale delle prostitute, organizzato a Rio da Davida e Daspu insieme, non fu possibile mettere insieme più di ottanta partecipanti, ma ora la rete nazionale di cui Davida e Daspu fanno parte tiene insieme più di 30 associazioni in tutto il Brasile. La campagna di prevenzione dell’Hiv ha come strumento un giornalino di strada «Beijo da rua» (e il suo sito www.beijodarua.com.br) in cui il Ministero della salute fa la sua parte. Ricca la produzione di eventi culturali con marchio Daspu: ci sono le Mulheres Seresteiras ossia le prostitute che «cantano e incantano», l’opera teatrale di «Cabaret Davida» sulla prevenzione dell’Aids e il blocco del carnevale di Rio, ossia una sfilata in strada con samba e maschere, «Prazeres Davida». Alla Biennale di São Paulo, Daspu è stata invitata dall’artista sloveno Tadej Pogacar ad esporre nel suo spazio. Pezzo feticcio del debutto: un vestito da sposa fatto con le lenzuola degli hotel. Daspu non è solo moda da sfilata. Organizza mostre itineranti nei vagoni dei treni e ovunque ripete il comandamento della moda «das putas»: «Daspu não se usa, Daspu se vivencia». Le sue creatrici dicono che non si tratta propriamente di metter su sfilate, ma di partecipare a una «crociata della moda», una «battaglia di attitudini». Alla fine è soprattutto un grande show. Come quasi tutto a Rio de Janeiro, Mondiali di calcio compresi.
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Politica e Economia
14-18, 100 anni fa Storia Molti degli attuali problemi internazionali hanno origine
nel Primo conflitto mondiale
Paolo A. Dossena Pensiamo alle matrioske dell’arte popolare russa: metaforicamente molti degli attuali problemi internazionali sono come l’insieme delle bambole di legno di varie grandezze, la più piccola delle quali – la Prima guerra mondiale –può essere considerata come il seme. Quei pochi colpi di pistola che a Sarajevo, il 28 giugno 1914, assassinarono gli arciduchi d’Austria Franz Ferdinand e Sophie, uccisero in realtà decine di milioni di persone, le vittime della Prima guerra mondiale (19141918). Ma sarebbe più corretto dire che, cento anni dopo, quei colpi di pistola stanno ancora mietendo vittime in tutto il mondo. Soprattutto nell’area euro-asiatica, un tempo appartenente all’impero ottomano. Dalla Prima alla Seconda guerra mondiale
Dunque il «seme» della storia attuale è la Grande guerra che diede origine ai vari trattati di pace: Versailles, SaintGermain, Trianon e Sèvres. I primi tre cancellarono dalla carta dell’Europa l’impero tedesco (Versailles 1919) e l’impero d’Austria-Ungheria (SaintGermain 1919 e Trianon 1920). Le condizioni di «pace» imposte a Berlino, Vienna e Budapest furono «cartaginesi», ovvero durissime e umilianti. Dopo la guerra, esistevano, per programmare il futuro, due proposte. La prima era quella di Lenin, che credeva dogmaticamente che il conflitto fosse stato provocato dal capitalismo, e che una rivoluzione mondiale avrebbe posto fine ai conflitti tra gli Stati. La seconda proposta, altrettanto dogmatica, era quella di Woodrow Wilson. Il quale, nel sistemare l’Europa post-bellica, disse di ispirarsi a Giuseppe Mazzini, le cui idee aveva studiato all’Università di Princeton. L’entusiasmo di Wilson era condiviso dal primo ministro britannico (il radicale Lloyd George). Il risultato di questa Europa «mazziniana» (in cui ogni nazionalità doveva costituirsi in Stato-nazione) fu che il Continente si coprì di frontiere di vecchi e nuovi Stati in competizione tra loro. Oltretutto, questi astratti principi
di nazionalità furono applicati solo ed esclusivamente a vantaggio dei vincitori. A Versailles e a Saint-Germain, gli sconfitti furono trattati come tali. A tutto questo si aggiunse, dieci anni dopo, il crollo dell’economia mondiale, con oltre sei milioni di disoccupati in Germania. Fu questa combinazione di fatti (piuttosto che un presunto «spirito tedesco») a portare Hitler al potere, e dunque alla Seconda guerra mondiale. Nel 1945 l’Europa giaceva in macerie. Ma nel 1957, in un colpo solo, col Trattato di Roma, si risolsero tutti questi problemi, con l’istituzione di quella che è oggi l’Unione Europea. Contrariamente ai vecchi Stati-nazione, le cui origini sono fatte risalire a un fatto mitologizzato (ghigliottine rivoluzionarie, «popolo in armi» e guerre d’indipendenza), l’Unione europea nasce dalle ceneri di un’immane, doppia sconfitta collettiva. Invece di commemorare un fatto mitico, eroico e fondativo del passato, cerca di garantire che il passato non ritorni. Dopo l’orrore di due guerre mondiali, i superstiti di una popolazione decimata, circondata da un paesaggio lunare e metafisico (crateri, macerie, città distrutte), hanno deciso di voltare pagina. Nel 1957, l’Europa occidentale chiuse il capitolo apertosi nel 1914. Ma questo capitolo è tutt’ora aperto nell’Europa orientale e nel Medio Oriente. La grande area ottomana
L’attuale disordine in Iraq, le guerre balcaniche del 1991-1999, la persecuzione dei curdi e l’odio che divide israeliani e arabi hanno la stessa origine. Tutti questi territori, dal Kosovo all’Iraq, erano infatti appartenuti (fino al 1912-1919) all’impero Ottomano. La caduta del quale, alla fine della Prima guerra mondiale, e il conseguente trattato di pace Sèvres (1920), sono all’origine degli attuali drammi internazionali. La rivoluzione nazionale turca contro il trattato era in realtà cominciata in seguito allo sbarco (1919) greco a Smirne (i vincitori avevano concepito la colonizzazione della Turchia).
Questa ribellione avrebbe completato l’opera dei Giovani turchi precedente la guerra. Mentre la rivolta turca, ispirata ad un aggressivo nazionalismo, si sviluppava, altri disastri si preparavano dai Balcani all’Iraq. Dalla Jugoslavia all’Iraq
Le frontiere e i conflitti etnici si moltiplicavano. Nel 1918 nacque il regno dei Serbi-Croati-Sloveni, dal 1929 Jugoslavia. Lo Stato era in pessimi rapporti con tutti i suoi vicini, e le tensioni interne erano tali (l’eccidio di deputati croati in parlamento nel 1928, l’assassinio del re, da parte di terroristi croati e macedoni nel 1934) che il Paese esplose in una serie di guerre civili per due volte, nel 1941-1945 e nel 1991-1999. Più a sud, la mappa del Medio Oriente veniva ridisegnata da Winston Churchill, ministro delle colonie britannico nel 1921-1922. È lui che letteralmente inventa un Paese nuovo di zecca: l’Iraq. Sotto tre secoli di dominazione ottomana, il territorio dove oggi si trova l’Iraq non era mai stato altro che un insieme di etnie diverse, che i turchi divisero in tre aree: Baghdad, Mosul, e Bassora. Dopo la Prima guerra mondiale, in base all’accordo segreto Sykes-Picot, gli inglesi ottengono anche queste tre aree. L’Iraq è costruito da Churchill nel 1921. Sono forzatamente accorpate le tre ex province ottomane di Mosul (area prevalentemente curda e iraniana, cioè etnicamente indoeuropea del tipo iranico e islamica sunnita); Baghdad (la città degli arabi sunniti, ma anche dei cristiani e degli ebrei); e Bassora (la città degli arabi sciiti, le cui simpatie vanno all’Iran, oltre confine). Nasce così, nel cuore del Medio oriente, un Paese dichiaratamente nazionale, e in realtà pieno zeppo di minoranze linguistiche e religiose, un paese-polveriera. Le cronache di questi giorni ci dicono che sunniti e sciiti non hanno mai smesso di sgozzarsi tra loro (e qui chiediamoci quale fu il livello di arroganza irresponsabile che portò all’invasione americana dell’Iraq del 2003). E ci dicono che la zona etnicamente più confusa è anche quella più ricca di petrolio: il
Gli arciduchi d’Austria Franz Ferdinand e sua moglie Sophie a Sarajevo. (Keystone)
nord. Certo il vilayet di Mosul è unito all’Iraq dopo l’epoca Churchill, ma questi non riuscì ad assicurare tutela sufficiente alla minoranza curda quando ne aveva ancora la possibilità. Dal Kurdistan alla Turchia e a Israele
Il risultato è che oggi i curdi vivono divisi tra Iraq, Iran, Siria e Turchia, Paesi dove sono, o sono stati, regolarmente perseguitati. E qui torniamo alla Turchia, la cui rivolta nazionalista era nel frattempo guidata da un altro mazziniano: Mustafa Kemal Atatürk. Questi fu membro della loggia «Machedonia Resorta et Veritas» di Salonicco, il gran maestro della quale era l’italiano Carasso, figura prominente del movimento dei Giovani turchi (ispirati da «Giovine Italia» di Mazzini. Infatti l’impero Ottomano era stato infiltrato dalle logge italiane grazie al mazziniano Emmauel Veneziano). La guerra di Mustafa Kemal Atatürk contro i vincitori si concluse nel 1923, con un nuovo trattato, quello di Losanna, che lascia alla nuova Turchia l’Armenia occidentale e il Kurdistan settentrionale, che sono tutt’oggi fonti di tensioni etniche. Un altro, destabilizzante Stato nazionale di questo tipo, anche lui immaginato da Churchill, sarebbe nato nel 1948: Israele. Tutto incomincia durante la Prima guerra mondiale, quando l’ebreo polacco Chaim Weizmann, un sionista, stringe amicizia con Chur-
chill. Nel novembre del 1917 (un momento drammatico in cui l’Intesa sa di star perdendo l’alleato russo) è stesa la «dichiarazione di Balfour». Ovvero una lettera che il ministro degli Esteri britannico, Arthur J.Balfour, manda a Lord Rothschild, riconoscendo agli ebrei in Palestina una Home (sede) nazionale. Questo è l’inizio di un conflitto etnico (e non religioso) che oppose un’altra ideologia secolare e mazziniana (il sionismo di Theodor Herzel) al nazionalismo arabo. Il quale, con il teorico Michel Aflaq (il cristiano siriano mentore politico del dittatore laico Saddam Hussein) si tinge a sua volta di mazzinianesimo. Infatti, Aflaq studiò alla Sorbona di Parigi i maggiori pensatori delle generazioni precedenti, primo fra tutti Giuseppe Mazzini. Rieccoci al «seme» della matrioska. Se negli anni Novanta abbiamo assistito all’implosione della Jugoslavia, se nel 1992 abbiamo assistito alla dissoluzione della Cecoslovacchia, se oggi vediamo tutto il Medio Oriente come una gigantesca polveriera, non dobbiamo limitarci a guardare la «madre», la bambola più grande, i problemi di oggi. Dobbiamo aprire una bambola dopo l’altra, fino ad arrivare al «seme». Ovvero le decisioni prese da leader come Woodrow Wilson, Lloyd George, Winston Churchill, Georges Clemenceau (un altro radicale) e Vittorio Emanuele Orlando, tra Versailles, SaintGermain, Trianon, Sèvres e Losanna.
Imposta preventiva, prassi più restrittiva Fiscalità Aziende e fiduciarie si lamentano dei milioni da pagare per multe e interessi di ritardo.
Nel 2013 più incassi che nei dieci anni precedenti
Ignazio Bonoli I consuntivi 2013 della Confederazione hanno chiuso il bilancio con un miliardo di avanzo d’esercizio. Il risultato non deriva soltanto dal buon funzionamento del freno alla spesa, ma anche dal buon livello delle entrate, buona parte delle quali è dovuta a imposte e tasse di competenza della Confederazione. Tra queste figura anche l’imposta preventiva, cioè l’imposta che viene prelevata «alla fonte» quando vengono pagati interessi o distribuiti dividendi. Il gettito di questa imposta viene contabilizzato nell’anno in cui viene percepita, ma il contribuente ha diritto di chiederne il rimborso, entro tre anni, dichiarando la percezione di interessi e dividendi. Per questo motivo il saldo attivo di questa imposta non è mai sicuro al cento per cento. L’esperienza di parecchi anni permette però di valutare con molta affidabilità quanto rimane nelle casse federali.
Secondo i dati del consuntivo 2012, il gettito lordo dell’imposta preventiva è stato di oltre 22 miliardi di franchi. I rimborsi, in misura dell’80% del totale, sono stati pari a 17,7 miliardi, lasciando quindi un’eccedenza di entrate di 4,3 miliardi. Già nel 2010 e 2012 si è notato un aumento delle entrate dovute a multe e interessi di ritardo, pari a 22 e rispettivamente 32 milioni di franchi, ciò che di conseguenza ha fatto aumentare il gettito totale dell’imposta. Questa tendenza ha subito una forte accelerazione nel 2013, superando i 300 milioni di franchi di multe e interessi di ritardo. Mentre in passato la proporzione di queste entrate era inferiore all’1%, nel 2013 è salita a oltre il 6%. Va ricordato in proposito che l’imposta preventiva è stata concepita come incentivo contro la frode fiscale. Per questo, ancora oggi, il suo tasso normale è del 35% ed è quindi superiore al tasso medio di imposi-
zione di tutti i redditi in Svizzera, che è di circa il 31%. L’improvvisa impennata dell’incasso di multe e interessi di ritardo ha sorpreso alcuni esperti del settore che hanno voluto sapere il perché di questa evoluzione. Si è scoperto, da un lato, che l’Amministrazione federale delle contribuzioni (AFC) è diventata molto meno tollerante e dall’altro che le piccole e medie aziende fanno spesso fatica a seguire tutte le richieste delle amministrazioni statali, comprese quelle del fisco. Si tratterebbe di oltre un centinaio di piccole e medie aziende che negli ultimi due anni si sono viste chiedere somme enormi di interessi di ritardo, alcune delle quali potrebbero mettere in forse la sopravvivenza dell’azienda stessa. In alcuni casi si tratta dell’annuncio in ritardo della distribuzione di dividendi all’interno di un gruppo. Di regola l’AFC non puniva questa prassi quando chiaramente non c’era l’intenzione di frodare il fisco. Da due
anni a questa parte però il fisco è diventato più severo, perfino applicando la nuova prassi retroattivamente per cinque anni e questo benché le aziende interessate possano chiedere il rimborso completo dell’imposta preventiva. L’AFC si basa su una sentenza del Tribunale Federale del 2011 concernente i termini per l’annuncio di dividendi da partecipazioni in società estere. Se il termine non viene rispettato, la società deve pagare il 35% di imposta preventiva. L’AFC ne deduce di poter prelevare gli interessi di ritardo retroattivamente fino a 5 anni. La prassi solleva problemi di ordine giuridico, come evidenzia il professore di diritto fiscale dell’Università di Zurigo René Matteotti. Pretendere milioni di interessi di ritardo perché un formulario non è stato inviato nei termini prescritti non rispetta il principio di proporzionalità. Inoltre mancherebbe perfino la base legale, poiché il pagamento di dividendi
è esente dall’imposta preventiva in base a trattati internazionali, per cui il fisco svizzero non avrebbe potuto pretendere interessi di ritardo in ogni caso. Ci sono perfino società di revisione che parlano di «scandalo» o di «una guerra fra aziende e fisco» come scrive la «Handelszeitung», sulla base di notizie confidenziali. E la Camera dei fiduciari aggiunge perfino di aver constatato disparità di trattamento fra aziende. La Camera ha già interessato il Dipartimento federale delle finanze, la cui direttrice ha promesso un’inchiesta interna, dichiarando però di attenersi alla sentenza del Tribunale Federale, così come farà anche l’AFC. Stupisce però che, nel 2013, con 323 milioni il fisco abbia incassato di più che nei dieci anni precedenti. Probabilmente si dovrà attendere una nuova sentenza per ottenere un cambiamento della prassi, ma il Parlamento dovrà occuparsi di un’iniziativa che lo chiede esplicitamente.
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la piazza di Angelo Rossi Il rompicapo dei contingenti La crescita dell’economia è un obiettivo della politica economica per il governo della Confederazione come per quello del Cantone. Lo è per una questione molto semplice: solo se il Pil cresce è possibile realizzare una certa ridistribuzione dall’alto verso il basso della piramide dei redditi e assicurare maggior potere di acquisto ai ceti medi e bassi della popolazione. Ma la crescita non è mai stato il solo obiettivo di politica economica dei nostri governi. Facciamo un esempio che forse oggi le giovani generazioni conoscono male. 50 anni fa, il governo federale varò un piano di lotta contro il surriscaldamento dell’economia con il quale intendeva frenare il tasso di crescita del Pil per evitare, da un lato, il rincaro e, dall’altro, l’aumento della quota di popolazione straniera. E ci riuscì: i tassi di crescita della secon-
da metà degli anni Sessanta furono infatti molto più contenuti di quelli della decade tra il 1955 e il 1965. Poi vennero i terremoti economici a livello internazionale dell’inizio degli anni Settanta a ridimensionare la velocità con la quale l’economia svizzera si sviluppava, con la depressione del 1975 che, di fatto, è stata sin qui, la maggior crisi attraverso la quale sia passata l’economia svizzera negli ultimi 70 anni. Tra le misure adottate nel 1964 quella forse più efficace – nel senso del colpo di freno alla crescita – fu l’introduzione del contingentamento per i lavoratori stranieri. I tassi di crescita annuale si ridussero di uno 0,3%. Non si sa invece quale poté essere l’effetto di questa misura sulla disoccupazione, semplicemente perché fino al 1978, la Svizzera non disponeva di una statistica sulla disoccupazione, in quanto
non esisteva l’obbligo di assicurarsi contro questo fenomeno. La lezione del piano anti-surriscaldamento dell’economia svizzera del 1964 è quindi che se si contingenta la manodopera estera, il tasso di crescita del Pil diminuisce, rispetto ai valori che potrebbe invece raggiungere in una situazione di libera circolazione. Più difficile invece è fare previsioni sull’evoluzione del tasso di disoccupazione, perché, finora, non disponiamo di esempi storici ai quali riferirci. Il contingentamento che dovrebbe essere introdotto, in forza del risultato della votazione federale del 9 febbraio di quest’anno, provocherà una riduzione dei tassi di crescita del Pil. È probabile che la riduzione sarà maggiore in Ticino che a livello nazionale. Per quel che riguarda l’economia nazionale disponiamo ora di due revisioni delle
previsioni per il 2014: quella di marzo e quella di giugno. A marzo, il KOF, prevedeva una diminuzione dello 0,2% del Pil rispetto alla previsione di fine settembre 2013. A giugno la diminuzione è salita allo 0,3%. È importante sottolineare che queste riduzioni non sono ancora la conseguenza di misure di contingentamento della manodopera estera. Delle stesse, infatti, si continua a discutere in toni accalorati senza muovere un passo in avanti. E questa situazione durerà per lo meno per il resto dell’anno. No, la diminuzione avviene perché se da un lato è oramai chiaro che vi saranno misure di contingentamento, dall’altro nessuno sa quale forma le stesse prenderanno, come potrebbero incidere sulle esigenze di manodopera e sulla domanda di prodotti e servizi dei diversi rami dell’economia, o delle
economie delle diverse regioni del Paese, né quando tali misure entreranno in vigore. Questa insicurezza sul tipo di misure e sulla loro entrata in vigore è quello che distingue il caso del 1964 dal quello odierno. Nel 1964, la decisione di contingentare fu presa dal nostro governo e fu subito comunicata. L’insicurezza sul come la politica di immigrazione sarebbe stata regolata fu subito eliminata. Oggi, invece, le misure dovranno essere negoziate con l’UE e nessuno è in grado di anticipare né di che tipo saranno, né quando potranno entrare in vigore. Per gli agenti economici oggi l’insicurezza è maggiore e rischia di durare per un lungo periodo. Lo sapevano i pasticceri dell’iniziativa contro la libera circolazione che in effetti sarebbe stato così laborioso fare il buco nelle ciambelle del contingentamento?
ha perso in Borsa metà del suo valore (anche se ora è in ripresa); l’abolizione degli incentivi ha lasciato invenduti elettrodomestici e automobili; il tentativo di tagliare i costi dell’energia ha gettato sul lastrico i distributori, e ora il governo deve spendere denaro pubblico per salvarli. I brasiliani amano il calcio. Ma non
si accontentano di panem et circenses («Più pane meno circenses» è il nome immaginifico di uno dei movimenti che si oppone alla Copa). Chiedono ospedali e scuole. Nell’enorme Paese si è creata una classe media di 40 milioni di persone, che dispongono di redditi a livello europeo. Ma le università restano molto care e quindi esclusive, i servizi sono scadenti, i trasporti pure; mancano strade, infrastrutture, tecnologia. La borghesia brasiliana non intende più vivere in un Paese del terzo mondo. Per questo valuta che i soldi investiti nel Mondiale potevano essere spesi meglio. Non a caso l’inaugurazione è avvenuta in un clima asettico. Non ci sono stati scontri gravi (anche se sono stati enfatizzati dal fatto che tra i feriti c’erano due inviate della Cnn). Non si è ripresentata insomma l’atmosfera di odio e di rivolta vissuta un anno fa con la Confederations Cup. Però non c’era entusiasmo autentico. Più che il Mondiale sudafricano, inaugurato nel 2010 nell’euforia tra i canti tribali delle curve, tornava in mente l’Olimpiade di Pechino 2008, in una capitale svuotata
delle bancarelle e dell’anima, che celebrava l’alleanza tra la borghesia degli affari e il regime, tagliando fuori non soltanto l’immensa periferia del Paese ma anche i ceti emergenti e i giovani. Anche quello brasiliano è un popolo giovane, che si è ribellato all’apice della più grande espansione economica della sua storia, come i turchi, come i tunisini, come l’Europa degli Anni 60, quella affluente non quella di oggi ripiegata su sé stessa. Alla fine il dividendo dei Mondiali arriverà; com’è accaduto a Londra, disertata dai turisti durante i Giochi ma divenuta sulla spinta del successo olimpico la città più visitata del mondo. Gli stadi in mezzo al nulla costati uno sproposito porteranno nel mondo il nome dell’Amazzonia e del Pantanal, attireranno l’attenzione su un Paese troppo spesso ridotto ai suoi luoghi comuni. Resta da capire come i brasiliani reagirebbero a una sconfitta della loro squadra. Di solito gli ultras sono più pericolosi quando vincono che quando perdono. Ma qui si tratta di un popolo, di solito dolce, gentile, disponibile. Fino a quando non perde la pazienza.
intonato da Camillo Langone su «Il Foglio»: «La legge (italiana) sulla delega fiscale che sprona il governo a mettere ulteriori limiti al contante è passata alla Camera con 309 favorevoli, 99 astenuti e 0 (zero) contrari. Essendo il denaro, marxianamente parlando, un mezzo di produzione, una legge che ne sottomette l’uso alla volontà collettiva, statale, è una legge comunistizzante foriera di miseria e di oppressione. Sapendo che la più grande furbizia del diavolo è far credere di non esistere, ci si domandi come mai il comunismo usa lo stesso trucco». E il diavolo delle leggi non ha tardato a manifestarsi: pochi giorni dopo da una cassa self-service della stazione di servizio in località Santa Maria della Misericordia a Sala Consilina, nel Casertano, ignoti hanno rubato tremila euro. Dopo avere forato la cassa esterna, i ladri hanno aspirato tutto il denaro contante in essa contenuto usando… un aspirapolvere. Piano manifestamente diabolico!
Il lettore mi dirà: ma sono cose che riguardano l’euro e l’Italia, non la Svizzera e il franco. Anch’io la pensavo così. Però poi ho scoperto cosa significa per un cittadino svizzero rimanere senza euro e con banconote da duecento franchi svizzeri che in un centro turistico a pochi chilometri da Basilea nessuno accettava di cambiare (rifiutato in tre banche). Ha scritto un altro premonitore, John Maynard Keynes: «L’amore per il denaro, per il possesso del denaro (da non confondersi con l’amore per il denaro che serve a vivere meglio, a gustare la vita), sarà agli occhi di tutti un’attitudine morbosa e repellente, da affidare con un brivido agli specialisti delle malattie mentali». Oggi urge una precisazione: a essere malati di mente e bisognosi di cure non credo siano i singoli individui, ma piuttosto coloro che pur di avviare e favorire il capitalismo di debito hanno programmato di abolire il contante.
In&outlet di Aldo Cazzullo Una «Copa» impopolare al ribasso le stime per il 2015, dall’1,5% all’1,44), e il commercio mondiale cresce attorno al 2,5%: un guaio per un Paese che vive sui consumi interni e sull’esportazione delle materie prime. La crisi è stata aggravata dagli errori di Dilma: per abbattere il prezzo della benzina si è penalizzata la Petrobras, la compagnia petrolifera, che in due anni
Keystone
È uno strano Brasile. E non solo perché la Seleçao è più forte in difesa che in attacco, contrariamente alla tradizione. A parte il tifo per la Nazionale, il consenso popolare per la «Copa» – qui il Mondiale si chiama così – resta basso, come quello per Dilma Rousseff, la Presidenta passata in un anno dal 56 per cento al 38 (34 secondo altri sondaggi) di intenzioni di voto. Il governo ogni giorno diffonde dati entusiasti. Il Ministero del turismo comunica che nel Paese si sposteranno 3 milioni e 700 mila turisti; numero spropositato, che si riferisce ai transiti aerei; e comunque spenderanno quasi 7 miliardi di real (2 miliardi e 300 milioni di euro), creando 200 mila posti di lavoro. In realtà, i brasiliani il Mondiale non lo volevano e non lo vogliono. L’accoppiata calcio-Olimpiadi (che si terranno a Rio tra due anni) era stata cercata e ottenuta – non dalla Rousseff, che è solo il capro espiatorio del malcontento; dall’amatissimo Lula – quando il Paese cresceva a doppia cifra, proprio come il commercio mondiale. Ora il Brasile cresce a ritmi europei (il governo ha appena rivisto
Zig-Zag di Ovidio Biffi Il contante non conta più Saluto un amico, ritrovato dopo alcuni anni. Ha lasciato la sua fiduciaria ed è in pensione. «Hai chiuso o hai ceduto a qualcuno?» gli chiedo. «Chiuso, chiuso. È finita. Non era più un lavorare» precisa lui. «Eh sì, è come dopo la guerra, con il contrabbando di sigarette, finita la richiesta…» gli ribatto io, provando a rubargli un seguito. La sua risposta è lapidaria: «Non sono i clienti che mancano. È il contante che non c’è più, e mancando il contante…». Quelle drastiche parole mi suggeriscono di cercare altri riferimenti sulla sparizione del denaro contante. Ne elenco tre o quattro in rapida sintesi, sperando di dare al lettore sufficienti stimoli. L’inizio è spiegato da Ralf Dahrendorf in un’intervista (una delle ultime prima della sua morte, nel 2009) in cui il lucido autore del saggio Quadrare il cerchio ieri e oggi radiografava con largo anticipo il passaggio della nostra società dalla mania consumistica alla gioiosa abitudine di fare debiti: «Quando è
cominciato questo percorso? Di sicuro negli anni ’80 c’erano già persone che per un centinaio di marchi facevano un giro del mondo di sei settimane pagando le ultime rate dei costi effettivi quando già più nessuno dei loro amici e conoscenti voleva vedere le diapositive scattate a Rio o Bangkok. Giustamente Daniel Bell parla dei pagamenti a rate come del peccato originale. Allora il capitalismo, che era già mutato dal capitalismo di risparmio a quello di consumo, si avviò fatalmente verso il capitalismo di debito». Nell’intervista Dahrendorf stigmatizzava le mosse di chi vuole controllare i flussi di denaro: «Il capitalismo di oggi è un grande parassita. Cerca ancora di appropriarsi della ricchezza di territori vergini, intervenendo con il suo potere finanziario dove è possibile accumulare i maggiori profitti.(…) La finanza ha creato un’economia immaginaria, virtuale, spostando capitali da un posto all’altro e guadagnando interessi. Il
capitalismo produttivo era migliore perché funzionava sulla creazione di beni, mentre ora non si fanno affari producendo cose ma facendo lavorare il denaro. L’industria ha lasciato il posto alla speculazione, ai banchieri, all’immagine». È il momento del passaggio dal reale al virtuale, dell’abbandono della creazione di valore e risparmio in favore del commercio dei derivati e della spirale di indebitamenti che ben conosciamo. E cambia anche la mentalità: l’iniziale «Enjoy now, pay later!», dilatandosi con l’alibi di fronteggiare la crisi e passando dai debiti privati a quelli pubblici, si è tramutato in pozzo che aspira e ingoia il contante. In fondo, la storia è semplice: lo strumento necessario per risparmiare, passando ad un capitalismo di debito diventa obsoleto e può (anzi: deve) sparire. Solo teoria, e per di più tutta liberale? Può darsi. Ma pochi mesi fa, a fine febbraio un De Profundis per le illusorie libertà individuali sul contante viene
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Cultura e Spettacoli Garutti alla Buchmann Una sottile riflessione sul tempo in una mostra che espone opere dell’artista Alberto Garutti
Il ritorno del vinile Sulla scia della passione di Alessandro Bassanini per il disco d’antan è nato un negozio second hand
Il nuovo cinema del nordest Nuovi film, a tratti molto divertenti, si affacciano sul panorama italiano
Ri-valutazioni Due mostre in corso a New York ci offrono una riflessione sui legami tra arte e politica
Berta, uno sguardo prezioso
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Personaggi Il ticinese Renato Berta, direttore della fotografia acclamato in tutto il mondo,
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ha recentemente ricevuto il «Deutscher Kamerapreis»
Giorgia Del Don
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Una scena di Moi, Pierre Rivière... film realizzato da René Allio nel 1976.
Il parricida dagli occhi rossi Pubblicazioni Lo studio del «caso Rivière» da parte di Michel Foucault e dei suoi allievi, a 30 anni dalla morte
del filosofo francese
Di certo non succede tutti i giorni che un concittadino riceva il «Deutscher Kamerapreis», il premio alla carriera più prestigioso nel campo della fotografia. Eppure è successo, e a dirla tutta la cosa non sorprende di certo i cinefili attenti, quelli che sanno come un occhio preciso ed eclettico come quello di Berta, genialissimo direttore della fotografia di fama internazionale, possa cambiare il destino di un film. Così come è magico il cinema lo è stato il percorso del nostro regista bellinzonese che, grazie alla sua tenacia e soprattutto grazie alla sua passione, ha saputo marcare in modo indelebile la storia del cinema europeo. Nato sessantanove anni or sono nella capitale ticinese, Renato Berta non osa all’inizio nemmeno sognare un lavoro nel mondo del cinema (bisognerebbe innanzitutto sapere che tali lavori esistono!). Come lui stesso ammette, con humour e lucidità, il festival di Locarno era all’epoca l’unica manifestazione che gli permettesse di toccare con mano un mondo di sicuro affascinante, ma misterioso e lontano anni luce dalla sua quotidianità. Nonostante ciò Berta, allora ancora apprendista meccanico, cerca di giocare al meglio le sue carte nutrendosi avidamente dei corsi di storia del cinema dati all’epoca a Locarno da uno dei monumenti nel campo del cinema in Svizzera (ed allora direttore della cinemateca): Freddy Buache. La sua è pura curiosità, quella per un mondo affascinante ed inaccessibile che scopre piano piano essere creato da una miriade di «uomini dell’ombra». Berta vuole a tutti i costi capire come operi la magia del cinema, vuole fare parte di questo spettacolo quasi surreale. In questo senso il festival di Locarno è stato per lui un luogo em-
Nel 2009 Renato Berta a Locarno ha ricevuto il Ticino Cinema Prize. (Keystone)
blematico in cui è entrato in contatto con cineasti di fama internazionale, i quali gli hanno fatto riconsiderare il cinema dall’interno, da un punto di vista nuovo, spaventoso ed eccitante. Sarà proprio uno di questi, il brasiliano Glauber Rocha, a incitarlo a frequentare una scuola di cinema. È così che da Bellinzona il ventenne Renato Berta si ritrova a studiare a Roma, al «Centro sperimentale di cinematografia» con maestri quali Visconti, Fellini e soprattutto Pasolini. Un’esperienza, quella romana, che marca l’inizio di una meravigliosa avventura che porta il nostro direttore della fotografia ticinese a lavorare a strettissimo contatto con i più importanti registi europei marcando con il suo sguardo film memorabili come L’homme blessé di Pa-
tric Chéreau, Les nuits de la pleine lune di Eric Rohmer o ancora Au revoir les enfants di Louis Malle (vincitore di un César per la miglior fotografia). Ma saranno innanzitutto i film del cosiddetto «nuovo cinema svizzero» a segnare l’inizio della sua carriera. Charles mort ou vif di Alain Tanner (Leopardo d’oro a Locarno) rappresenta il suo esordio come direttore della fotografia e dà il via ad una collaborazione che si prolungherà su sei film emblematici. Il suo lavoro su luce e inquadrature, preciso e unico, parteciperà alla costruzione di questo nuovo cinema svizzero, povero finanziariamente ma ricco di contenuti e immagini di un’attualità sconcertante. Durante gli anni Ottanta, richie-
sto regolarmente da tutto il cinema francese «d’autore» (Rohmer, Rivette, Téchiné, Malle, Chéreau,…), Renato Berta si trasferisce definitivamente a Parigi imponendosi come uno dei più grandi nomi della fotografia europea. Fuori dall’esagono si sviluppano altre due importantissime collaborazioni, quella con Manoel de Oliveira e soprattutto quella con Amos Gitai. Per capire fino in fondo l’importanza del lavoro di Berta bisogna cominciare con il definire chi è di fatto il direttore della fotografia, termine generico che confonde più che chiarire. Berta stesso lo dice: il termine non gli piace molto e preferirebbe piuttosto quello di «direttore dell’immagine». Sì, perché quello del direttore della fotografia è un lavoro complesso che si
sviluppa su due fronti: quello della luce (la fotografia) e quello dell’inquadratura; ed è necessario trovare un giusto equilibrio tra i due. Se il regista è colui che tiene le redini del film, il direttore della fotografia è sicuramente il suo braccio destro, «il suo occhio». La collaborazione fra di loro si avvicina ad una storia d’amore, fatta di fiducia reciproca e fedeltà, un lavoro di squadra verso un obiettivo comune. Una delle particolarità più apprezzate di Renato Berta è proprio quella di sapersi adattare, in modo quasi camaleontico, alla sensibilità del regista con cui lavora, di entrare a poco a poco nel progetto non attraverso scelte riflettute a tavolino, ma piuttosto lasciandosi guidare dal proprio istinto, dalle proprie intuizioni ed emozioni. Capire la natura intima del film che si sta girando, la sua coerenza, queste sono le sue prerogative. Definire uno «stile Berta» è quindi di per sé impossibile. Ciò che egli porta all’immagine non è una visione predefinita, poiché la sua impronta è completamente inafferrabile, istantanea. Renato Berta possiede quel sesto senso indispensabile che gli permette di sentire il temperamento di ogni attore, di anticiparne le mosse e di adattarsi a quell’imprevedibilità che può rendere magico un piano. Provvisto di una generosità unica, il direttore della fotografia bellinzonese si lascia sorprendere, perde coscientemente il controllo, studia ogni movimento con attenzione e agisce man mano che la storia si sviluppa, che l’atmosfera del film lo avvolge. Un «non-metodo» il suo che ha saputo contagiare i registi più celebri d’Europa, poiché egli è un maestro nell’arte di cogliere l’immediatezza di una situazione, l’inquietudine di un viso. L’unico capace, come dice bene Bernard Payan «di rendere tangibile su pellicola la grazia dei fantasmi».
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Daniele Bernardi «Un tempo si videro delle Giaeli contro dei Sirara, delle Giuditte contro degli Oloferne, delle Charlotte Corday contro dei Marat; ora dovranno essere degli uomini a ricorrere a questa mania, sono le donne che comandano oggidì, questo bel secolo che si dice dei lumi, questa nazione che sembra aver tanto gusto per la libertà e la gloria, ubbidisce alle donne». Questo leggiamo nelle sconcertanti pagine di La Memoria di Pierre Rivière, il giovane «parricida dagli occhi rossi» che fu oggetto di indagine da parte di Michel Foucault (Poitiers, 1926 – Parigi, 1984) e dei suoi allievi, negli anni dei seminari del Collège de France (il risultato di questo studio fu la pubblicazione del volume Io, Pierre Rivière, avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello... edito nel 1973 dalle Editions Gallimard di Parigi). All’epoca il filosofo francese era il noto autore della Storia della follia nell’età classica (1962), della Nascita della clinica – Una archeologia dello sguardo medico (1963) e di Le parole e le cose (1966), opera che fu al centro dell’accesa polemica sullo «strutturalismo». Attraverso il suo scavo nelle roccaforti della Storia, Foucault aveva individuato, all’interno dei discorsi e dei contesti, degli spazi al-
tri – spazi demarcati da scissioni, tagli e divisioni che, in un dato periodo, «ogni società è obbligata a istituire» per contenere e rendere produttive delle differenze che non è in grado di gestire altrimenti. Queste zone che, col tempo, vennero isolate ai bordi delle mura dell’ordine condiviso, sono appunto quelle delle diversità irriducibili, come la follia, la malattia – oppure il crimine. Una delle sue celebri opere fu Sorvegliare e punire – Nascita della prigione (1975), un saggio che analizza come, via via, lo sviluppo dei «dispositivi» punitivi e disciplinari, divenendo sempre più sobrio, abbia portato ad un subdolo dominio dei corpi che coinvolge l’insieme degli apparati sociali nella loro interezza e che intrappola il soggetto, imbrigliandolo in una fitta rete di intrecci che lo definiscono e controllano come fosse una bambola meccanica. Il caso di Pierre Rivière, il giovane contadino che, nel 1835, aveva massacrato a colpi di roncola parte della propria famiglia, destò l’attenzione del filosofo perché si era svolto negli anni in cui si cominciò ad ipotizzare di applicare i concetti della psichiatria negli ambiti della giustizia criminale e, soprattutto, per via della singolare «bellezza della Memoria» che questi aveva redatto su richiesta del magistrato incaricato dell’i-
struttoria. «Tutto è iniziato dalla nostra stupefazione» scrisse Foucault nella sua presentazione al volume. All’interno della sua confessione il ragazzo, che aveva un’istruzione minima ed «era conosciuto da tutti come una specie d’idiota o di innocente, e che lo s’indicava comunemente con il nome di: la bestia dei Rivière», espone le «idee e i suoi pensieri» che, afferma il filosofo, «si sono un giorno (…) trasformati in discorso-arma» portandolo a progettare e compiere il delitto. La rivelazione con cui motivò il suo gesto (dopo avere, dapprima, sostenuto di essere stato ispirato da una visione divina – «Dio me l’ha comandato per dar prova della Sua provvidenza» affermerà inizialmente) è la seguente: egli voleva liberare suo padre dalle angherie della moglie. L’omicida, oltre a sua madre, uccise la sorella perché aveva sempre preso le parti della donna e il fratellino, che era tanto amato dal genitore, per guadagnarsi definitivamente l’odio paterno ed essere poi condannato a morte. La madre, Victoire Rivière, viveva separata dal marito e da tempo lo tormentava per questioni di proprietà, disseminando debiti di cui questi doveva costantemente rendere conto. Nei decenni successivi alla Rivoluzione francese, fanno notare Jean-Pierre Peter e
Jeanne Favret, l’uomo delle campagne è preda di un bisogno di riscatto nato dalla nuova condizione di cittadino libero e, reclamando la propria smania di possedimento, «si aliena» e «si perde» nell’illusione dell’acquisto. Incapace di sfuggirne la morsa, il padre di Pierre era un umiliato in balia di una donna che, con lui, incarnava la voracità dei poteri del proprio tempo e rivendicava un continuo, infinitizzato, diritto di possedimento. Pierre Rivière voleva forse restaurare la legge con il «linguaggio spaventoso del crimine». Ispirato dagli eventi storici del passato, come un oscuro don Chisciotte, si rifece a «delle letture fondanti» che lo spronavano a compiere il massacro: «Volli sfidare le leggi, mi sembrò che sarebbe per me una gloria, che mi sarei immortalato morendo per mio padre, mi raffiguravo i guerrieri che morivano per la loro patria e per il loro re, il valore degli allievi del politecnico al momento della presa di Parigi nel 1814, dicevo tra me: quelli là morivano per sostenere il partito di un uomo che non conoscevano e che neppure li conosceva, che non aveva mai pensato a loro; ed io morirò per liberare un uomo che mi ama e mi predilige». Nelle pagine del suo memoriale leggiamo passaggi che, paradossalmente,
ricordano le parole di un Amleto che cerchi di incitare sé stesso alla vendetta. Ma, all’opposto del personaggio shakespeariano, gelato dalla nevrosi, Pierre Rivière era inebriato dalla certezza: «Pensai che l’occasione era giunta di innalzarmi, che il mio nome avrebbe fatto scalpore nel mondo intero, che con la mia morte mi sarei coperto di gloria e che nei tempi a venire le mie idee sarebbero state adottate». Solo a reato commesso lo stato estatico si attenuerà, lasciando vagare il giovane tra le foreste, come «un essere mitico» che si nutre di radici in una terra che non è segnata su nessuna mappa, dove va a caccia di piccoli animali e prega scrutando il cielo notturno alla ricerca della «cometa di Halay». Quello che seguirà sarà l’arresto ed il proliferare dei vari discorsi (quello della legge, delle medicina e delle cronache) che cercheranno di organizzare e padroneggiare «il suo teatro». Michel Foucault e i suoi allievi, centocinquant’anni dopo, cercarono di mettere in evidenza questi sistemi, senza sottoporre la scrittura di Rivière alla violenza dell’interpretazione, in un libro che, raccogliendo i materiali giudiziari, ci mostra quanto ogni delitto chiami in causa l’intera comunità umana – e quanto noi contemporanei, oggigiorno, «non siamo liberi verso questi morti».
mettono in mostra le doti di due altrettanto ottimi musicisti ticinesi Border Quartet, Across the Border, Altrisuoni 326
Il Border Quarter è un vero gruppo «insubrico», nato e cresciuto di qua e di là dalla frontiera lombardo/ticinese. Across the border, il loro primo disco, allude con il suo titolo al desiderio di superare l’appartenenza dei musicisti a due realtà territoriali politicamente diverse, in nome di una concezione artistica del tutto affine. Il batterista Silvano Borzacchiello e il trombonista Danilo Moccia, dalla nostra parte della
frontiera, sono tra i più maturi esponenti del jazz nostrano, oltre ad essere due eccellenti didatti. Sul versante insubrico meridionale, mettiamola così, militano invece con altrettanta autorevolezza il giovane vibrafonista Marco Bianchi e l’ormai navigatissimo Stefano Dall’Ora, vera eminenza grigia del jazzismo lombardo. Il loro disco spicca per la sua struttura compositiva corale, democratica: due brani a testa per i membri del gruppo (uno solo per Dall’Ora, più uno del sassofonista Achille Gajo), uno standard (Willow Weep for Me) mostrano come la compartecipazione artistica dei componenti della band sia programmatica. L’album è infatti denso e intenso non tanto per la complessità delle composizioni in sé ma per l’intelligenza esecutiva, per l’impegno nella resa di ogni singolo brano. Si percepisce la volontà di cercare nuove soluzioni espressive, e soprattutto di non incorrere in facili cliché. C’è un pensiero solido di gruppo, intessuto comunque da un senso dello humor e da un desiderio di immediatezza che l’ottima registrazione
curata dal grande Carlo Cantini cerca di catturare e mettere in risalto. Un disco con una carica funk non indifferente, comunicativo e brillante. Nello scaffale affianca (gli altri tre Border non se abbiano a male), con molta soddisfazione, i begli album di Danilo. LABOttega, Live @ campione d’Italia, incontra Paolo Fresu, Brambus Records
L’uscita di un nuovo disco a firma Claudio Pontiggia è sicuramente un evento musicale degno di interesse. Il musicista ticinese, molti lo ricorderanno, aveva avuto uno strabiliante inizio di carriera negli anni 80. Dopo essere entrato far parte della Vienna Art Orchestra, dopo aver partecipato a grandi eventi musicali tra cui una storica edizione del Festival di Montreux nel 1991, dopo aver registrato alcuni dei più begli album jazz svizzeri dei primi anni 2000 e aver ricevuto un premio da parte della Fondazione Suisa, Claudio era incorso in una serie di problemi fisici che gli avevano reso impossibile continuare a suonare il suo strumento,
il corno francese. La sua attività musicale non si era per questo interrotta, ma focalizzata nell’insegnamento e nella direzione orchestrale. Passato attraverso esperienze con risultati artistici dalla diversa fortuna, negli ultimi anni Pontiggia sembra aver ritrovato un terreno solido su cui misurare il suo talento. Spinto dal desiderio di valorizzare il vivaio musicale ticinese ha creato organici a cui affidare via via le sue personali concezioni della musica orchestrale, esperienze non più condotte solo in ambito jazzistico ma integrando nel sound elementi folk ir-
landesi, lombardi, ritmi afro e fusion. Questo ultimo album contiene una performance live di una delle più recenti incarnazioni della sua LABOttega, atelier musicale a geometria variabile. Il concerto prevedeva tra l’altro la presenza di un ospite speciale, il trombettista italiano Paolo Fresu, e ci dà quindi il modo di ritrovare sotto i migliori auspici il mondo ampio e pastoso della musicalità di Pontiggia. Un suono intessuto di silenzi e di svolte inattese: musica che respira e coinvolge gli spettatori, accompagnandoli in un’esperienza piena di sorprese e scoperte. Tra apparenti esitazioni e détours, il viaggio muove attraverso alcune versioni di colonne sonore famose, brani originali di Pontiggia e persino un tema di Haendel reso con grande libertà espressiva, come fosse un moderno standard. Un disco ricco e autorevole, dunque, senza momenti morti né prolissità così tipiche delle esibizioni dal vivo. Un disco «vero» in cui ritrovare solidamente espressa la poesia di Pontiggia e dei suoi compagni di avventura. Una bella sorpresa. /AZ
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Cultura e Spettacoli
Tutti gli attimi dell’arte Mostra Le opere di Alberto Garutti alla Galleria Buchmann
Alessia Brughera Una lunga tela colorata scorre lentamente. Il suo movimento è quasi impercettibile, bisogna osservarla per un po’ prima di riuscire a coglierlo. Avvolta sul fusto di cinque rulli mobili installati a parete, compie una rotazione completa nell’arco di una giornata: ventiquattro ore per svelare tutte le ampie campiture di tinte pastello che si avvicendano ininterrottamente sulla sua superficie, interagendo con le condizioni di luce e ombra dello spazio. Anche di notte, quando nessuno la sta guardando, la tela continua il suo quieto avanzare. È un’opera che riflette sulla dimensione del tempo, su quell’attimo che racchiude il palpito e l’unicità del presente, ed è stata realizzata dall’artista lombardo Alberto Garutti appositamente per la Galleria Buchmann di Lugano. «Il lento procedere della sequenza è da un lato un racconto silenzioso di luoghi o spazi ideali,» spiega l’artista, «dall’altro un accedere a tutti gli attimi di presente della nostra vita, l’allestimento meccanico e poetico dell’incontro tra il tempo e l’atto del guardare, tra memoria e immaginazione». A dispetto del congegno imperturbabile e freddo con cui si palesa, l’opera intesse un rapporto intimo con lo spettatore, che rimane irretito dal suo pacato variare, capace di scandire il tempo attraverso colori e sensazioni. D’altra parte è un requisito peculiare di Garutti riuscire a instaurare una forte relazione tra i suoi lavori e chi li osserva, un incontro in cui è il fruitore a conferire all’opera un pieno signifi-
cato. E la sua scelta di prediligere l’arte pubblica, che si addentra nella realtà del mondo esterno («propagandosi come una miccia nel tessuto sociale») e che diventa parte integrante della vita della comunità, non va a discapito di tale caratteristica. Perché se è vero che questo tipo di arte vive della dimensione collettiva, è altrettanto vero che i lavori di Garutti riescono a conservare e a valorizzare il contatto privilegiato con il singolo. L’artista ama dialogare con la gente, ama unirsi a essa e stimolarla facendo delle proprie opere una sorta di spazio condiviso che attiva meccanismi di partecipazione in cui ciascuno ha un ruolo fondamentale. Basti pensare all’installazione permanente ai piedi della Torre Unicredit nel quartiere milanese di Porta Nuova, un’opera da vedere e ascoltare «attraversata» dai suoni della città, oppure all’intervento compiuto a Bergamo, Roma, Gent, Istanbul e Mosca, costituito da lampioni sistemati in punti strategici della città che, collegati con il reparto maternità degli ospedali, iniziano a pulsare ogni volta che nasce un bambino. Oltre al pezzo presente nello spazio di Lugano, la mostra, che tra l’altro è la prima dedicata all’artista in canton Ticino, propone nella Galleria Buchmann di Agra un piccolo ma esemplificativo nucleo di lavori realizzati da Garutti dagli anni Novanta in poi. Tra questi troviamo una lastra in marmo inserita a filo del pavimento su cui compare la scritta «Tutti i passi che ho fatto nella mia vita mi hanno portato qui, ora» che fa parte di un gruppo esposto negli anni passati in aeroporti e stazioni, luoghi di
Alberto Garutti, Senza Titolo, 2014 (stampa a getto di inchiostro su tela).
(© Courtesy Buchmann Galerie Agra / Lugano and Alberto Garutti; foto: Rémy Steinegger) passaggio (o meglio «non-luoghi») in cui ognuno sembra perdere la propria identità. L’opera riesce a riaffermare l’individualità di chi decide di soffermarsi a leggerla, stimolandolo a ripercorrere le esperienze che lo hanno condotto fino a quel punto preciso. Questa lastra può stare ovunque, nei frenetici spazi battuti ogni giorno da migliaia di persone così come nella tranquillità di Agra, portandosi dentro il vissuto di tutti. Anche quando si confronta con la tradizione, Garutti si colloca in un territorio nuovo. È quello che succede con l’opera Madonna (pure in mostra), una scultura in ceramica creata nel 2007 per una chiesa di Trezzano sul Naviglio. La sfida era quella di reinterpretare un soggetto sacro che appartiene
da secoli all’immaginario popolare. Ciò che l’artista realizza è una sorta di ready-made, una copia di una statua ottocentesca che però racchiude al suo interno un dispositivo in grado di riscaldarla e portarla alla stessa temperatura del nostro corpo. Garutti reinventa così un’iconografia classica attraverso un linguaggio contemporaneo capace di trasmettere quell’umanità e spiritualità che un tale tema richiede. L’arte di Garutti non è quasi mai immediata, anzi, esige attenzione e meditazione. È un’arte concettuale, anche se definirla in questo modo la può caricare di una certa complessità intellettualistica che invece non possiede, perché, seppur allusiva, mantiene sempre chiarezza e spontaneità.
Le opere di Garutti hanno sempre una forte componente narrativa: raccontano, spiegano, coinvolgono, diventando l’impronta palpabile della profonda relazione che l’artista riesce a creare con il singolo soggetto e con la collettività. Dove e quando
Alberto Garutti, Buchmann Galerie, Via Gamee – Agra e Buchmann Lugano, Via della Posta 2 – Lugano. Fino al 26 luglio 2014. La visita alla Buchmann Galerie di Agra è su appuntamento, Tel. 091 980 08 30. Orari Buchmann Lugano: ma-sa dalle 13.00 alle 18.00. www.buchmanngalerie.com buchmann.lugano@bluewin.ch Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
L’amore per il vinile a tutto Tondo Vintage Alessandro Bassanini ha creato a Maroggia il più grande
Chrissie ci riprova da sola Musica Non solo Pretenders: Chrissie Hynde
negozio di vecchi dischi del Ticino
dona una nuova prova della propria classe di interprete «matura», stavolta come solista
Zeno Gabaglio
Benedicta Froelich
L’idea sbagliata, nel posto sbagliato, nel momento sbagliato: potrebbe essere questo il riassunto di un’iniziativa imprenditoriale recentemente nata nel sud del Luganese. Perché i negozi di dischi anziché aprire stanno tutti chiudendo, perché in un paesino come Maroggia non c’è nessuna prospettiva per il commercio culturale, perché il disco di vinile appartiene ad un’era neozoica rispetto al presente fatto di musica liquida e ubiquità digitale. Queste dunque le premesse logiche e di rigore. Eppure Tondo – questo il nome del negozio – da cinque mesi è proprio lì, traboccante di vecchi dischi. Fondato da un italiano che ha passato la maggior parte della propria vita negli Stati Uniti, e che in America ha cominciato a raccogliere dischi già durante i mitici anni Settanta. «Era una passione che condividevo con i miei fratelli – ci racconta Alessandro Bassanini – e proprio nella frenetica concorrenza famigliare ho imparato a conoscere ed amare il disco in vinile, fino a scoprirne i lati anche meno appariscenti». Come la differenza tra la prima tiratura di un disco e le sue successive ristampe, perché lungi dall’essere un vezzo puramente feticistico «è proprio la qualità del suono a cambiare tra la prima edizione e quelle successive. Il passaggio dai nastri di studio al disco di vinile veniva curato dagli ingegneri del suono solo fino alla prima pressatura. Nelle stampe successive poteva accadere di tutto, dalla riduzione dello spessore del disco all’utilizzo di matrici non più performanti, o al semplice fatto che non c’era più un abile ingegnere del suono a salvaguardare la resa musicale». Problema risolto? Solo fino a un certo punto, perché «sino al 1972 nei crediti dei dischi non c’era traccia della presenza o meno dell’ingegnere di masterizzazione, e per orientarsi anche nelle tirature successive bisogna oggi consultare lunghissimi cataloghi editoriali». Come ad esempio per il disco
Nell’infinito olimpo delle cosiddette «meteore» che hanno popolato la scena pop-rock angloamericana degli anni 80, relativamente poche formazioni sono riuscite a conservare una presenza e credibilità costanti nel panorama delle classifiche internazionali. In questo senso, la band dei Pretenders vanta il privilegio di essere stata in grado di rimanere nel cuore e nella mente del pubblico ben oltre il proprio (relativamente breve) periodo d’oro: fin dagli esordi nel lontano 1978, il gruppo si è infatti distinto per la sua disinvolta capacità di fondere magistralmente la tradizione melodica inglese con i requisiti del pop radiofonico e da classifica di quegli anni. Molto di ciò si deve alla grintosa frontgirl del gruppo, l’ormai sessantenne Chrissie Hynde – la vulcanica ragazza americana che, trasferitasi a Londra dall’Ohio nel 1973, apparì da subito predestinata a una carriera da rockstar. Infatti, oltre a divenire la compagna di Ray Davies, leader dei mai dimenticati Kinks, Chrissie sarebbe presto assurta all’invidiabile posizione di vero e proprio «modello»
Top10 DVD & Blu Ray 1. Monuments Men
G. Clooney, C. Blanchett / Novità 2. Frozen
Animazione 3. A spasso con i dinosauri
Animazione 4. Jack Ryan
C. Pine, K. Costner 5. Lone Survivor
M. Wahlberg, T. Kitsch
Alessandro Bassanini all’interno del suo negozio. (Foto Alan Alpenfelt)
The Wall dei Pink Floyd, di cui esistono 81 diversi numeri di catalogo riferibili al solo primo anno di pubblicazione, il 1979. E proprio questi numeri di catalogo consentono di stilare una graduatoria che indica quale tra questi dischi – all’apparenza tutti uguali – suonano meglio e quindi valgono di più. «Per la discografia avere una prima stampa è come per le arti visive possedere un originale, rispetto alla copia che in discografia è invece costituita dalla ristampa». E qual è dunque l’originale cui Alessandro Bassanini è più legato, nella sua collezione privata di oltre 16’000 dischi che si va a sommare a tutto quanto esposto in negozio? «C’è una prima risposta semiseria, che è anche semitragica. Perché viaggiando in Europa con una mia ex-fidanzata avevo sentito per radio il pezzo Walking On Sunshine e una volta a casa avrei ardentemente voluto riascoltare l’intero disco di Katrina & The Waves. Dopo lunghe ricerche la mia ex disse che il disco non era più lì perché
Top10 Libri
Top10 CD
1. Andrea Camilleri
1. Artisti Vari
La piramide di fango, Sellerio 2. Paulo Coelho
Adulterio, Bompiani 3. Sveva Casati Modignani
La moglie magica, Sperling 4. Markus Zusak
Storia di una ladra di libri, Frassinelli 5. Pierre Dukan
La dieta dei sette giorni, Sperling / Novità
Bravo Hits Vol. 85 2. I Nomadi
Nomadi 50 + 1 3. Gotthard
Bang! 4. Michael Jackson
Xscape
Sicuramente la cantante non imbocca nuovi percorsi musicali, ma non cade mai nella routine di rocker femminile anticonformista e indipendente, divenendo l’anima di una band storica, simultaneamente colpita dalla grande fortuna commerciale e dalla più cupa disgrazia. Con le morti per droga del chitarrista James Honeyman-Scott e del bassista Pete Farndon (e i successivi licenziamenti dei loro svariati rimpiazzi), la Hynde sarebbe difatti rimasta l’unico membro stabile ed effettivo del gruppo dai primi anni 80 fino al 2008, data a cui risale Break Up the Concrete, l’ultimo album pubblicato con il nome di Pretenders; e fa un certo effetto pensare che solo ora, a distanza di tanto tempo, la Hynde si senta pronta a presentarsi al suo pubblico con un album inciso a proprio nome, dichiarandosi così come una solista a tutti gli effetti. Ma fin dal primo ascolto di Stockholm (questo il titolo del lavoro), è chiaro come, con la mezza età, Chrissie sia giunta all’apice delle proprie forze ed energie creative: così, non solo questo disco la vede ripresentarsi al pubblico con tutta l’insopprimibile verve e il savoir faire a cui anni di exploit con i Pretenders ci avevano abituato, ma rivela anche una grande sicurezza come performer – di cui, del resto, la Hynde aveva già dato ampia
5. Abba
Gold - 40th Anniversary 6. Roby Facchinetti
6. The Butler
F. Whitaker, O. Winfrey
lo aveva prestato, e dopo ulteriori indagini scoprii che lo aveva prestato al suo amante». Mai disco fu più (tristemente) utile. «E poi c’è la seconda risposta, quella seria. Qualche anno fa ero in auto negli Stati Uniti e dovevo assolutamente trovare una toilette. Entrai perciò nel primo esercizio pubblico, un negozio di materiali vari e usati. Prima ancora di trovare il bagno fui attratto da una pila di dischi dove c’era anche The Freewheelin’ Bob Dylan. Era un album ovviamente ristampato in milioni di copie, eppure quella davanti a me era una prima stampa originale. Mi avvicinai tremolante alla cassiera chiedendo quanto avrebbe voluto per il disco. “30” fu la prima risposta, e per non far trapelare l’incredulità verso un simile prezzo – all’incirca un millesimo del valore di mercato – rilanciai spavaldamente al ribasso: “25!”. Ma solo una volta estratto il portamonete compresi che il prezzo preteso dalla signora era di altre cento volte inferiore: 25 centesimi di dollaro!».
dimostrazione con partecipazioni a showcase indimenticabili quali il celebre The Isle of View (1995), che avevano dimostrato come la sua classe di cantante si fosse, con il passare degli anni, ulteriormente affinata e perfezionata. In questo senso, Stockholm appare come l’ideale prosecuzione del percorso artistico inaugurato dai Pretenders: lo dimostra una tracklist di ammirevole equilibrio stilistico e impeccabile eleganza formale, nella quale non mancano alcuni richiami al passato – su tutti, Dark Sunglasses, un bel brano ritmato eseguito e cantato nel più puro spirito Pretenders, al punto da sembrare quasi un outtake del celeberrimo album Learning to Crawl (1984). Più «classica» appare l’inevitabile dichiarazione d’amore dell’orecchiabile ballata You Or No One, non a caso prescelta come primo singolo (di sicuro successo) del disco; ma vale la pena notare come, con mirabile autoironia, Chrissie accompagni il brano con un videoclip in cui il legame celebrato dalle liriche è in realtà quello tra un misantropo di mezza età e il suo cane chow chow. Tuttavia, la Hynde è in grado di inanellare anche brani dal sapore decisamente più hard rock, che forse saranno una sorpresa per gli ascoltatori usi al lato più melodico del repertorio dei Pretenders: l’amara Down the Wrong Way (con la partecipazione dell’inconfondibile e nervosa chitarra di Neil Young) e l’arguta House of Cards ne costituiscono ottimi esempi, così come A Plan Too Far, con i suoi graffianti assoli elettrici. Comunque, accanto a simili esperimenti troviamo, come da copione, anche le immancabili ballate dolci e coinvolgenti tipiche della seconda fase di carriera della (ex?) band di Chrissie – ad esempio, la riflessiva In a Miracle e la più ritmata Like In The Movies, brano agrodolce sulla difficoltà di accettare la realtà quotidiana. In questa vena, tra le gemme dell’album vi sono sicuramente il lento di chiaro sapore biografico Tourniquet (Cynthia Anne) e il poetico brano di chiusura Adding The Blue. Certo, volendo trovare un limite in questo lavoro, bisogna riconoscere che probabilmente Chrissie Hynde non sarà mai una sperimentatrice di nuovi terreni musicali; ma se è vero che, in termini stilistici, Stockholm non offre nulla che non potessimo aspettarci da lei, è altrettanto vero che l’artista ritrovata in quest’album è una donna piena di energia e voglia di fare, la cui invidiabile sicurezza nella scrittura e nell’esecuzione di ogni singola traccia non mostra la minima esitazione, né si stempera mai in routine: in tal senso, la lezione appresa dalla lunga esperienza con la sua band si rivela più preziosa che mai in quest’esperienza solista di Chrissie – che ci auguriamo possa essere solo la prima di una lunga serie.
6. John Green
Ma che vita la mia
Colpa delle stelle, Rizzoli / Novità 7. George Michael
7. American Hustle
C. Bale, A. Adams 8. Last Vegas
7. Irene Cao
Per tutti gli sbagli, Rizzoli / Novità
Symphonica 8. Moreno
Incredibile
R. De Niro, M. Douglas 8. Tiziano Terzani 9. All Is Lost
Un’idea di destino, Longanesi
9. Cesare Cremonini
Logico
Robert Redford 9. Anna Premoli 10. The Counselor
B. Pitt, C. Diaz
Finché amore non ci separi, Newton
10. Mondo Marcio
Nella bocca della tigre
10. Andrea Vitali
Quattro sberle benedette, Garzanti Chrissie Hynde in un’immagine di qualche giorno fa. (Keystone)
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Cultura e Spettacoli
La porta verso est diventa un set
Cohle e Hart senza visibilità
Cinema Sempre più film di successo ambientati nel Nordest italiano
in prima visione su RTS un finisce a tarda ora
Nicola Falcinella
Antonella Rainoldi
Non è così comune un film ambientato nel Nord-est dell’Italia, almeno non lo era fino a pochi anni fa. Se si eccettuano la sempre fascinosa Venezia e la misteriosa Trieste, non sono molti i film tra Veneto, Friuli e Trentino AltoAdige che hanno lasciato un segno, salvo ricostruzioni belliche come La grande guerra e poco più. Tranne il celebre Signore e signori di Pietro Germi, risalente al 1965 e ambientato a Treviso, sono ancor meno quelli che hanno provato a raccontarne la realtà sociale. Gli ultimi (1963) di Vito Pandolfi e David Maria Turoldo fece scandalo per aver raccontato la povertà estrema dei contadini della bassa friulana. La tendenza è cambiata prima con la crescita di un cineasta come il padovano Carlo Mazzacurati, che da Notte italiana a La giusta distanza ha narrato il Polesine e la pianura tra dramma
Dopo lo spreco di Downton Abbey, capolavoro assoluto di Julian Fellowes sugli intrighi della nobiltà inglese, lo spreco di True Detective. Spiegheremo poi perché. Se potete, stasera alle 22.20 non perdete gli ultimi due episodi di True Detective, la nuova serie HBO in otto puntate scritta da Nic Pizzolatto e diretta da Cary Fukunaga, trasmessa in prima visione per la Svizzera da RTS un, a pochi mesi dalla messa in onda americana. I motivi sono tanti. Proviamo a elencarne qualcuno. Intanto è un telefilm incentrato su due soli protagonisti: i poliziotti Rust Cohle (Matthew McConaughey) e Martin Hart (Woody Harrelson), separati nella vita ma uniti nella caccia a un serial killer. Il primo è un detective geniale ma borderline, il secondo è un partner investigativo meno raffinato ma più sensibile all’interlocutore. Ambientata in una Louisiana lugubre e opprimente, la serie procede saltando magistralmente attraverso due piani temporali: il 1995, quando la coppia indaga su uno dei tanti delitti, e il 2012, quando il caso si riapre e i due vengono sottoposti a un interrogatorio sui fatti di diciassette
Forse anche a causa della profonda crisi che lo sta segnando, il Nordest si vede protagonista di un nuovo cinema e commedia con sconfinamenti verso est. La nascita a inizio secolo della Film Commission del Friuli, una delle prime e delle più attive in Italia, ha portato nella regione tante produzioni e ha creato i presupposti per la nascita di una cinematografia regionale che comincia a dare i suoi frutti: Zoran il mio nipote scemo di Matteo Oleotto, la commedia cult degli ultimi mesi distribuita anche in Ticino, Tir di Alberto Fasulo, vincitore del Festival di Roma diretto da Marco Müller, e The Special Need di Carlo Zoratti, presentato lo scorso anno a Locarno, ne sono esempi eclatanti. Trentino e Alto-Adige sono tra le ultime a costituire Film Commission, ma sono tra le più munifiche e hanno attirato molti film negli ultimi tempi, anche popolari come Un boss in salotto. Il ticinese Erik Bernasconi, autore
Rok Prašnikar e Giuseppe Battiston in Zoran, il mio nipote scemo.
di Sinestesia, ha scelto l’Alto-Adige per il suo secondo lungometraggio per ragioni produttive. In Trentino è stato realizzato La prima neve di Andrea Segre, storia dell’incontro tra un immigrato rifugiato e un ragazzino che ha perso il padre, con le montagne come scenario. Segre si era fatto notare per l’esordio Io sono Li ambientato a Chioggia, con atmosfere nebbiose a costellare la storia della cameriera cinese Shun Li. Dovendo ripagare il debito a chi l’ha portata in Italia, gestisce un bar nella «piccola Venezia». Si trova spaesata in un locale frequentato da personaggi bizzarri (tra loro Giuseppe Battiston e Marco Paolini), ma l’amicizia con un poeta slavo (Rade Serbedjia) con un passato di dolore le cambia le cose. Nella pianura padovana è girato Piccola patria di Alessandro Rossetto, documentarista noto per Feltrinelli e altri lavori. Due ragazze ricattano sessualmente un violento di paese, tra comizi di indipendentisti, immigrati (Bilal è l’unico personaggio positivo) e segreti. Un lavoro interessante di fusione fra finzione e documentario, con più registri musicali diversi come sottofondo e i cori alpini a farla da padrone. Parte da Jesolo per arrivare sulle Dolomiti con un finale improbabile e magico, la bella fiaba La sedia della felicità completata da Mazzacurati poco prima di morire. Un apologo sulla speranza, zeppo di risate e leggerezza, an-
che se la realtà non è mai dimenticata: due imprenditori in difficoltà (Isabella Ragonese e Valerio Mastandrea) inseguono un tesoro nascosto in una sedia in compagnia di un prete che ha perso tutto al videopoker. Anche Zoran, film di chiusura dell’ultimo Castellinaria a Bellinzona, unisce dramma e commedia, con prevalenza della seconda, e ha un Battiston strepitoso, qui ancora più debordante e mattatore in un personaggio cattivo e sfaccettato. Un quarantenne in crisi, incattivito dalla vita, scopre un nipote che non conosceva: l’ostilità iniziale si trasforma quando si accorge che il sedicenne Zoran non ha rivali nel gioco delle freccette. C’è la tradizione delle osmizze, i locali dove trovarsi a bere e stare in compagnia, ma anche il disorientamento della provincia, sospesa tra vecchio e nuovo. In Tir lo sguardo sul Nord-est, ma non soltanto, è quello di un insegnante croato (Branko Zavrsan) che per guadagnare di più decide di fare il camionista in Italia trovandosi in una situazione lavorativa pesante e complessa. Molto attento al reale (non a caso alcuni di questi registi provengono dal documentario) è un cinema che racconta i luoghi nei quali è collocato con grande conoscenza dei paesaggi e dei costumi, ma per estensione sa cogliere l’attualità dell’Italia e la sua crisi che parte dal profondo.
Visti in tivù La bella serie True Detective
anni prima. True Detective è insieme molte cose: il tentativo riuscito di conciliare le indagini di puntata al racconto della vita privata dei protagonisti, la scrittura capace di approfondire le singole psicologie, la recitazione straordinaria di McConaughey (premio Oscar per Dallas Buyers Club) e Harrelson, la musica indimenticabile di T. Bone Burnett. La televisione romanda fa bene a trasmettere in prima visione un’ottima serie come True Detective. Non smetteremo di ringraziarla per questo. Ma il problema sono i criteri di programmazione. Come si comporta RTS di fronte a questo telefilm? Lo proietta a tarda ora, sposta continuamente la sua messa in onda (una volta alle 22.40, un’altra alle 23.15, un’altra ancora alle 22.20 e così via), scandisce l’appuntamento settimanale riunendolo in due episodi di sessanta minuti. Insomma, lo tratta come semplice riempitivo. È vero che True Detective è possibile vederlo ora in Dvd (la prima stagione è in vendita allo shop di RTS), ma che senso ha umiliarlo con una collocazione in palinsesto a dir poco sfavorevole? E così, com’è successo tempo addietro con Downton Abbey, la prima visione diventa subito un’occasione sprecata.
Matthew McConaughey, che ha ricevuto l’Oscar per il film Dallas Buyers Club. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
«Cambiare è l’unico modo per affrontare i nuovi orizzonti» Personaggi televisivi Il bilancio di Dino Balestra, alla direzione della RSI fino al primo di giugno,
quando gli è subentrato Maurizio Canetta
Non è che il sistema Ticino ha figliato anche alla RSI?
Antonella Rainoldi
No. Non nel mio raggio d’azione.
È andato a riposo poche settimane fa, ma l’inattività non lo tenta. Non ancora. Dice: «Professionalmente continuerò a occuparmi della Comunità Radiotelevisiva Italofona, che promuove e sostiene la lingua e la cultura italiana. Per tre anni manterrò questa presidenza che è interessante perché esci dal perimetro locale e ti connetti con realtà più vaste». Dino Balestra, classe 1947, ha trascorso quarantasei anni alla RSI fino a diventarne direttore. È stato un uomo d’azienda illuminato, capace di prevedere il futuro della comunicazione, di intercettare la voce del molteplice. Il mito della visione è alla base stessa della sua esperienza. Balestra ha mantenuto l’unicità del comando e fruito di questa rendita di posizione. E se ti deve spiegare come si realizzano i progetti, parte dalla parola umanità: «L’umanità è varia, ha diversi livelli. Se tu riesci a vederla come un’orchestra, riesci a far suonare anche i bicchieri mezzi vuoti». Ci conosciamo da anni e ci diamo del tu.
Perché certi bravi professionisti sono usciti di scena?
Tu mi chiedi quali sono i meccanismi che hanno portato a una certa conclusione. E io ti rispondo che la RSI, come tutte le aziende dei media, ha dei tempi molto strani. Se tu sei bravo e non arrivi al momento giusto, il treno passa. Se tu sei meno bravo e arrivi al momento giusto, il treno ti imbarca. Se tu sei bravo e non sei capito, o non dai più quello che si ritiene tu debba dare, il treno si ferma e ti fanno sbarcare. Casualità?
Sì. Ci sono anche queste casualità. Spesso è un mondo così. Io non dico che la RSI ha imbarcato solo i migliori. Non lo affermo. Abbiamo imbarcato situazioni eccellenti e abbiamo imbarcato situazioni normalissime. Da un paio d’anni il fiume delle casualità è però stato arginato. In che modo?
Per ogni posto, c’è un concorso e c’è una commissione di selezione. Quindi ci sono più sguardi, mentre prima lo sguardo era uno solo. Prima non c’era il rigore che adesso si chiede per ogni boarding.
La tua è stata la RSI…
Maurizio Canetta ti ha riconosciuto il merito di aver anticipato il fenomeno della convergenza e dunque la capacità di visione. Trasformare la visione in progetto ti ha creato qualche difficoltà?
Intanto ringrazio Maurizio per questo apprezzamento. Io penso che una delle chiavi di successo nel nostro lavoro sia proprio di riuscire a intuire ciò che sta emergendo oltre l’orizzonte. Per rispondere alla tua domanda, la difficoltà è stata quella di far muovere le persone verso obiettivi che non si vedevano ancora. Il cambiamento ha provocato malumori?
Direi paura. La gente ha paura dei cambiamenti perché passa dal rassicurante all’instabile. Ma se tu sei convinto, se tu sei capace di comunicare la motivazione, se tu sei centrato sul tuo progetto allora gli altri fanno scattare il rapporto di fiducia. E infatti il progetto della convergenza è andato avanti. Una previsione sul futuro approdo della convergenza?
Io penso che nessun media morirà. Penso che ci sarà una velocizzazione di sparpagliamento orizzontale. Uno sparpagliamento frammentato secondo ordine di caos, dove non saremo più in un mare ma in un arcipelago. E ognuno andrà da un’isola all’altra. Che cosa farà il pubblico?
Si dividerà. Quindi io penso che si andrà verso un appiattimento d’uso. I tuoi suggerimenti a Maurizio?
Maurizio ha tutte le carte per giocare la partita. Quindi non mi permetto di dargli suggerimenti. L’unica cosa che continuo a ripetere è che ci vuole la forza della solitudine. Deve essere consapevole che ci saranno parecchie sequenze del suo lavoro in cui dovrà assumere la forza della solitudine.
Che cosa intendi per rigore? Stefano Spinelli
… del cambiamento. Ho lasciato l’azienda in buona salute per finanze e ascolti, contento del fatto di essere riuscito in questi anni a metterla nella condizione di cominciare a capire che bisogna cambiare. Cambiare è l’unica via per affrontare i nuovi orizzonti.
perché se tu le dichiari il minimo che ti capita è di avere la corrente contro.
Altre parole tratte dal catalogo delle interpretazioni apocrife?
Di che cosa stai parlando?
Anni fa dicevano che amavo circondarmi di yesmen, cioè gente che dice solo di sì. Ma non è colpa mia se le persone riesco a convincerle così bene.
Parlo del sistema Ticino. Questo non è un Paese dove tu hai un progetto e sul progetto stai a litigare e però alla fine rimani nella correttezza del progetto. Ti arriva un progetto e ti dicono: «Andiamo a vedere chi l’ha fatto». Poi, sulla base del «chi l’ha fatto», la risposta è «va bene» o «non va bene». Purtroppo è un Paese così. Così, come?
Di scontri frontali fra tribù che continuano a sfasciarsi e a ricostituirsi, sempre in questo autolesionismo dell’annullarsi l’un l’altro, in questo godimento della mediocrità. È un Paese che ha perso ogni energia progettuale. Che rapporto hai avuto con le raccomandazioni politiche?
Ce ne sono state, specie nel passato. Ma io ho sempre scelto le persone che ritenevo andassero scelte. Tutte si sono sempre dimostrate all’altezza delle aspettative?
Nella stragrande maggioranza dei casi sì. Poi tu non sai mai come le persone reagiscono nelle situazioni di criticità. Quando a volte sono nati conflitti non tutti hanno saputo rispondere nel modo adeguato. Allora lì le alternative sono due: o tu intervieni, o lasci che le cose seguano il loro corso. E cioè?
Ho sempre detto a tutti: se venite da me a rassegnare le dimissioni io le accetto. Hai mai contravvenuto a questo principio?
Mai. C’è chi ti attribuisce queste parole: «Nei posti chiave ci metto i mediocri, così mantengo la pace sul lavoro».
In quattordici anni, da direttore, credi di aver fatto tutto quello che c’era da fare?
Sono parole che non ho mai detto.
Penso di aver potuto fare tutto quello che ritenevo di importante si potesse fare. Molte cose le ho fatte in silenzio,
Mi hanno attribuito molte cose, come a Platone, Aristotele. Sai, ci sono gli apocrifi.
Sicuro?
Chiarissimo. La storia della predisposizione a mantenere l’unicità del comando è vera?
È vera. Ma dipende dalle situazioni. In situazioni tranquille, dove tutto va bene, tu puoi anche condividere. Ma quando devi affrontare il guado, attraversare le nebbie, non puoi suddividere il tuo potere, perché devi essere colui che guida, che determina il cammino, il passaggio, gli obiettivi. Quindi l’unicità del comando, per quanto possa essere criticabile, era ed è indispensabile proprio nei momenti di trasformazione. Si dice che tu sia stato un direttore molto temuto ma poco amato.
È vero. Ma io non ho mai cercato di essere amato. L’essere amato ti imprigiona nelle attese altrui. L’essere temuto ti dà molta più libertà. Libertà di far fuori, in senso metaforico, bravi professionisti?
Frottole. Per esempio? Matteo Pelli.
Te lo dico chiaro e tondo: da tempo Matteo dava segni di impazienza e di stanchezza. Ha preso un lungo congedo, e quando è tornato mi ha raggiunto in ufficio e mi ha detto: «Direttore, sono qui per rassegnare le dimissioni. Fra mezz’ora i social le renderanno note». Non è stata una situazione simpatica. Se tu vai dal direttore e gli comunichi le tue dimissioni con queste parole definitive chiudi ogni possibilità. Lì però ho capito una cosa. Quale cosa?
Matteo aveva veramente bisogno di un cambio anche mentale che alla RSI non riusciva a vedere e che noi non sapevamo dargli nella sua pienezza. È giovane, si occupa di mille cose, fa
serate, scrive libri. Penso che sia dentro una dinamica che ha bisogno di perimetri più ampi. E io non lo ritengo una perdita. Ah, no? Con lui Radio 3i avanza.
Mi spiego. Matteo da un lato è una perdita perché è comunque un volto di richiamo, ma dall’altro ci ha obbligati a cercare profili che in qualche modo gli si avvicinassero. Perché ci siamo resi conto che vivere soltanto sulla stampella Matteo Pelli alla lunga poteva diventare pericoloso. In questo senso non è una perdita. Certo, certo. Ti pare che la ricerca sia conclusa?
No. Non ancora. Rete Uno arretra. Il calo di ascolti dell’ammiraglia non desta preoccupazione?
Sulla radio stiamo attenti. Poco prima di lasciare l’azienda ho convocato trenta persone per riflettere su tutta la Rete Uno. Credo che i temi siano un po’ più ampi di Matteo Pelli.
Rigore del profilo per rispetto al bisogno, non certo rigore dei curricula. Tra l’altro io sono un ripetente, lo confesso. Non ho mai avuto una grande considerazione per i titoli di studio, anche se sono importanti. Perché poi, alla fine, conta quello che uno sa fare, conta l’energia che ha dentro, conta l’intuito che ha dentro, conta la capacità di scattare che ha dentro. Eraclito diceva che il troppo apprendere impedisce il comprendere. Tu che studi hai fatto?
Mi sono laureato in Pedagogia all’Università di Bologna. Alla RSI come ci sei arrivato?
Per caso. Era il 1968, studiavo e volevo mantenermi. Ma non avevo nessuna intenzione di rimanerci e tanto meno di fare carriera. Non ti piaceva lavorare alla RSI?
Mica tanto. Prima scrivevo degli articoli per un giornale, ma venivano buttati via perché dicevano che la mia scrittura era involuta. Così mi sono guadagnato da vivere facendo e producendo dei programmi. Ma non ero molto convinto. Però mi piaceva essere autonomo. Quali programmi?
Per adolescenti, per femministe, per la terza età. Ho anche moderato dibattiti. Sempre per caso?
E allora sconfina, ti prego.
Ma sì.
Rete Uno innanzitutto aveva un ascolto comunque eccessivo. Se un’ammiraglia arriva al 70% qualche domanda te la poni. Seconda cosa: con l’estensione di altre radio sul territorio è abbastanza normale che ci sia un’infiltrazione di erosione. Terzo punto: c’è una situazione interna disarticolata.
Ti rendi conto che tutte queste cose accadute per caso sono sospette? Anche le posizioni apicali le hai raggiunte per caso?
Per fare carriera si devono incastrare una serie di circostanze. E così è stato. Se tu adesso mi chiedi «qual è l’errore più grande che hai fatto?»…
Disarticolata?
La risposta è?
Sì. Non ben calibrata tra la Tre e la Uno. Rete Uno, poi, non ha un flusso di piacevole ascolto. È frammentata, poco chiara, ha una tendenza tipicamente provinciale all’enciclopedismo. Parecchia roba dev’essere svecchiata e alleggerita proprio in termini di comunicazione.
Forse è stato quello di venire a lavorare alla RSI.
Il problema non riguarda anche le persone?
È vero che possono mancare delle persone. È anche una questione di non lungimiranza nelle scelte, se lasci delle voci dove non dovrebbero stare.
(Alla fine dell’intervista, a taccuino chiuso, Balestra si corregge. «Ma no, forse l’errore più grande che ho fatto non è stato quello lì. Stavo parlando un po’ a voce alta. Ne fai tanti di errori. Fammi pensare. Forse quando presumi troppo delle persone, e poi non ti seguono. Fammi pensare». Resta in silenzio qualche secondo e poi dice sornione: «Io so qual è stato l’errore più grande: non aver riportato alla RSI Antonella Rainoldi»).
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 23 giugno 2014 ¶ N. 26
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Cultura e Spettacoli
Arte e politica: due mostre a New York Mostre Futurismo italiano e «Arte degenerata» tedesca al Museo Guggenheim e alla Neue Galerie Luciana Caglio «Quando l’arte deve sottostare alla politica, o in genere a qualche ideologia, si trasforma ipso facto in kitsch». Lo sostiene Gillo Dorfles nel suo celebre saggio dove si documenta un fenomeno recente: la creatività al servizio delle dittature del secolo scorso. È proprio il kitsch ad accomunare, al di là delle divergenze ideologiche, fascismo, nazismo, stalinismo. Sia pure in forme diverse, Roma, Berlino, Mosca fecero dell’arte uno strumento di regime. Di cui sono rimaste testimonianze eloquenti. Edifici di un’imponenza fine a sé stessa, dipinti, sculture, monumenti che esaltano le sedicenti gioie e conquiste di un popolo di sudditi consenzienti e di lavoratori virtuosi. Insomma, un trionfo della retorica che, sul piano estetico, ha prodotto orrori. Ma il clima dittatoriale ha avuto anche effetti indiretti, non soltanto per quel che ha fatto ma per ciò che ha impedito di fare. Il nazismo, in proposito, offre l’esempio più rappresentativo di efficienza distruttiva destinata a eliminare elementi considerati di disturbo. Nel 1932, si fa chiudere il «Bauhaus», costringendo all’esilio Walter Gropius e con lui artisti, artigiani, tecnici, che avevano elaborato il concetto, allora avveniristico, del «design». Poi viene sciolto il gruppo «Die Brücke», che riuniva l’avanguardia dei pittori espressionisti e, infine, nel 1937 si sferra il colpo decisivo contro la modernità. Göbbels decide di mettere alla berlina
l’intero movimento del Moderno, definito «Entartete Kunst», arte degenerata: allestisce, a Monaco, una mostra in cui le opere vengono appositamente ridicolizzate. E sono opere che portano le firme di Nolde, Kirchner, Kokoschka, Kandinsky, Chagall, Otto Dix, Grosz e via dicendo. Ai quali, sempre a Monaco, nelle sale, dell’«Haus der deutschen Kunst», si contrappose, con intenti educativi e patriottici, l’arte vera, anzi «ariana», depurata da influssi ebraici e cosmopoliti, ispirata a una visione idealizzata e forviante della realtà: il Terzo Reich avviato al dominio mondiale. Ora, nella primavera 2014, una selezione di queste opere «degenerate», contrapposte a quelle «ufficiali», ci è riproposta, a New York, in una sede quanto mai confacente: la Neue Galerie, dedicata al mondo creativo tedesco e austriaco, e ospitata in una palazzina vecchia di un secolo, antica secondo i criteri americani, e quindi rispettata e venerata. In queste sale ben restaurate, fra pareti e pavimenti di legno, mobili e oggetti d’epoca, si rivive, con emozione, una stagione artistica che rischiava di essere cancellata dalla cecità culturale e dalla violenza al potere. Diventa materia di riflessione e fa capire come l’accanimento nazista non fosse rivolto a una forma d’arte ma soprattutto all’idea di libertà che esprimeva. Una coincidenza ha voluto che, nel calendario espositivo newyorkese, il tema del rapporto arte-politica collegasse la Neue Galerie al vicino
Guggenheim, dov’è in corso l’esposizione-evento Italian Futurism 19091944 Reconstructing Universe. Per sei mesi, fino a settembre, la geniale spirale di Wright accoglie le testimonianze di un movimento culturale in cui la politica ebbe la sua parte. Come indica lo stesso titolo della mostra, il futurismo aveva grandi ambizioni, mirava a cambiare il mondo, dichiarando guerra al «passatismo borghese» e sollecitando fantasie, talenti e intraprendenza ad ampio raggio. All’appello di Marinetti, scrittore, poeta e operatore culturale ante litteram, risposero pittori come Balla, Boccioni, Carrà, architetti razionalisti come Sant’Elia, Pagano, Terragni, ma anche ingegneri che progettavano aerei, locomotive, motori, fotografi, cineasti. Per la prima volta, la tecnica e il paesaggio industriale entravano nell’universo artistico. Ora, proprio quest’aspetto rivoluzionario, ideologicamente confuso, doveva, in un primo tempo, affascinare il Mussolini ex-sovversivo. Tanto da concedere spazio all’esperienza razionalista del gruppo di Como, dove, nel 1927, Giuseppe Terragni progettò la sede del fascio, oggi monumento storico. Ma il futurismo non diventò mai arte di Stato. A Marinetti, membro dell’Accademia d’Italia, fu riservato il ruolo di rappresentare l’aspetto modernista del regime: un’apparenza. In pratica, il monumentalismo classicheggiante sarebbe diventato lo stile ufficiale del Ventennio. Anche se contraddittori, questi rapporti con Mussolini basta-
Umberto Boccioni, La città che sale, 1910-11. (© MoMA, New York)
rono per attribuire al futurismo l’etichetta fascista. Nell’ultimo dopoguerra, ciò significò una condanna ideologica e un prolungato oblio. Da cui sta uscendo adesso un futurismo, in fase di riscatto morale, che intende far conoscere a un pubblico internazionale i suoi reali contenuti. Fu un movimento che presagì e illustrò l’avvento di una società all’insegna della tecnica, della velocità, della grafica, della fotografia. La nostra, insomma. Ed è, appunto a un’epoca ideologicamente insidiosa, gli anni ’20 e ’30, che ci conduce la mostra del Guggenheim, attraverso 360 opere che documentano le fasi alterne di un’esperienza multiforme, in bilico
fra rinnovamento possibile e utopia, fra cedimenti e audacia. Sono 60 gli autori presenti, fra i quali personalità ormai entrate a pieno titolo nella storia dell’arte: da Carrà a Boccioni. Ed ecco – grata sorpresa per una luganese – l’incontro con una figura di casa nostra: a metà percorso, lungo la rampa del museo, un progetto sul tema «Metropoli moderna» di Mario Chiattone. L’opera appartiene al periodo giovanile dell’architetto, allora vicino al gruppo dei razionalisti di Como. Rientrato in Ticino, Chiattone cercò poi di abbinare l’esperienza modernista alla tradizione classica. Degne di particolare attenzione, secondo la critica, la casa di campagna di Condra e il Mercato coperto di Mendrisio. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta La pratica dell’ubbidienza Il quotidiano «La Stampa» chiede ai suoi lettori di indicare il libro che ha dato una svolta alla loro vita, motivando la scelta. Ogni sabato, nello spazio delle lettere al direttore, pubblica una risposta, corredandola con l’immagine della copertina del libro citato per facilitarne il ritrovamento da parte di chi volesse procurarselo. Lodevole iniziativa, come tutto quello che si fa per incoraggiare la lettura. Com’è naturale, mi sono chiesto quale titolo avrei proposto volendo rispondere a questa sollecitazione. Senza esitazione avrei indicato Elogio della fuga di Henri Laborit. Secondo la tesi di questo grande scienziato, il cervello dell’uomo è programmato per gestire solo due reazioni in una situazione di emergenza: l’attacco o la fuga. Se gli infiniti condizionamenti della nostra vita in società complesse impediscono all’essere umano sia di aggredire che di fuggire, le conseguenze saranno il disagio psichico, le nevrosi, l’infelicità. Nei topi degli esperimenti di Laborit si generava l’ulcera. Avessi avuto la fortuna di incontrare Laborit quando
era ancora vivo, mi sarei presentato a lui dicendo: «Caro professore, modestamente io sono programmato per generare una sola reazione, la fuga». Nessuno, se è sincero, può testimoniare di avermi visto attaccare qualcosa o qualcuno. Corollario di questa vocazione alla fuga è la pratica dell’ubbidienza. Nell’atto di ubbidire c’è un piacere ineffabile, una pace dell’anima impagabile. Su questo terreno ho trovato un conforto insperato in Georges Simenon. A pagina 137 dell’edizione Adelphi delle sue sterminate Memorie intime l’autore rievoca le sue reazioni al referto di un radiologo che, dopo averlo visitato per una sospetta frattura di una costola, gli pronosticò al massimo due anni di vita. Non aveva ancora compiuto quaranta anni: «Mi avevano ordinato di evitare ogni sforzo e io ubbidivo. Senza protestare. In fondo, ho ubbidito per tutta la vita agli ordini e alle norme più stupide, anche se intimamente mi ribellavo. Ho guidato svariate automobili per più di cinquant’anni, in tutti i continenti e con i più diversi codici stradali,
quel vescovo che, sorpreso di venerdì a mangiare un tacchino, abbozzato un segno di croce, proclamò: «Ego te baptizo carpam», cioè «ti battezzo carpa», e riprese a mangiare. Ho la fortuna di avere un amico, molto più giovane di me, in grado di leggere dentro le persone con impressionante acutezza. Nel corso di una delle nostre abituali e serrate discussioni, mi ha detto una frase rivelatrice: «Tu, per tutta la tua vita, non hai fatto altro che timbrare il cartellino». Verissimo. Purtroppo quel gesto semplice e sublime non si compie quasi più. In fabbrica, di fianco all’ingresso dei dipendenti, c’era un grande orologio a muro con una rastrelliera munita di tasche ognuna delle quali conteneva il cartellino di un operaio che, entrando o uscendo, lo estraeva e lo infilava in una fessura per timbrare l’ora. Ora nelle aziende ci sono i tornelli funzionanti con una tessera magnetica. Non è la stessa cosa purtroppo. In senso metaforico, «timbrare il cartellino» significa eseguire il compito che ci è stato assegnato e poi non pensarci più, come accadeva
quando, al termine del turno, uscivi dalla fabbrica e non pensavi più al tuo lavoro. Per esempio, vedendo un amico o una persona cara avviarsi su una strada pericolosa, come una dipendenza dall’alcol o dal gioco, metterlo sull’avviso, prospettargli tutte le conseguenze nefaste del suo comportamento, offrirsi di aiutarlo. Poi, eseguito quello che pensiamo sia il nostro dovere, pensare ai fatti nostri. Come a dire: io la mia parte l’ho fatta, ho timbrato il cartellino, adesso tocca a lui. In un contesto meno drammatico, durante la discussione sulla proposta di un nuovo programma televisivo, dopo avere esposto senza riserve le mie perplessità e i miei dubbi e suggerito le correzioni, se le mie parole non venivano prese in considerazione mi rassegnavo senza problemi alle decisioni altrui, al massimo augurando in cuor mio il fallimento dell’impresa. A differenza dei topolini di Laborit, non ho mai sofferto di ulcera. Ho però il sospetto che se tutti ci limitiamo timbrare il cartellino, non andiamo da nessuna parte...
permettere il pallore, in tema con il minimalismo dell’epoca, vestivamo di nero e avevamo riscoperto il fondotinta, abbandonando la «terra» che ci dipingeva di color mattone. La pelle ha ringraziato, anche perché ci accorgemmo che l’esposizione non protetta al sole produce con le rughe e le macchie anche antipatici focolai di brutte malattie. Quindi libertà di colore, moltissima libertà: qualcuno per distinguersi già da quegli anni Novanta si fa tatuare una stellina sulla caviglia, sul polso, sul collo, è un’alternativa meno dolorosa ai perniciosi piercing, e poi indica coraggio, sia per la sopportazione degli aghi, sia perché si presuppone che un tatuaggio sia per sempre. E questo è impegnativo, in una società che è sempre più «liquida» e fugge tutto ciò che è definitivo, sia un matrimo-
nio, sia un abito che non si consuma e quindi impedisce il ricambio gratificante dello shopping. Con le stelle e i cuoricini compaiono date, nomi, fiori. Animali, navi, decorazioni elaborate. Dal nome si passa alla lunga citazione, dal segno del Tao al ritratto di Budda, dalla rosellina al roseto. Schiene, braccia, gambe sono coperte da reticoli che sembrano tessuti, ma spuntano da sotto le maglie, è pelle dipinta con tanti colori, ancora una difesa (prova a toccarmi il teschio che ho sulla pancia), ancora un messaggio (in fondo sono un romantico, leggi qui Neruda dietro il collo). Ma, ahimé, nemmeno le opere d’arte sfuggono alla legge dell’effimero, se mai un tatuaggio può aspirare a tanto, come nella cultura maori. Così gli ultimi fuochi di una moda come altre ne svelano la fragilità, oggi si fan-
no tatuaggi nascosti, all’interno delle labbra (brrr), tra le dita delle mani, nella faticosa ricerca di luoghi corporei che non siano soggetti all’esposizione (ci siamo capiti, sono rare le zone non esposte, non sono quelle che pensate). Ma si deve pur vivere, quindi che dovrà fare un tatuatore che sente il tempo e il guadagno sfuggirgli tra le dita tatuate? Diventa un de-tatuatore, un professionista della ripulitura, che costa anche più della prima mano, per così dire. Così la pubblicità ci informa che il laser di quel centro è quasi indolore e i prezzi contenuti, come se fosse ovvio l’interesse degli utenti: presto, trovare un detatuatore, urgente come avere un buon dentista o un buon parrucchiere. E chi non sa quanto sia importante per la qualità della vita avere un laser di fiducia?
accartocciando il tuo quotidiano preferito («your favourite italian newspaper») per scaraventarlo nel vuoto sussurrando sottovoce un voto senza pietà: One (1)! Nella sua ultima «Bustina di Minerva» (5½), Umberto Eco si sofferma sulla «privacy» chiamandola «privatezza», con il rischio di apparire molto snob. E avverte però che se non la chiami «privacy», nessuno ti prende sul serio. La privatezza è un’ossessione della contemporaneità, dice Eco: ci sono istituzioni che vorrebbero tutelare il nostro diritto alla riservatezza o a essere lasciati in pace («the right to be let alone») contro i tanti che aspirano a violarla, la nostra intimità. Ma quelli che fanno di tutto per infrangerla, a quanto pare, sono troppi: Vodafone ha rivelato di recente che esistono cavi collegati alle reti telefoniche grazie ai quali i governi possono spiare («spy») le nostre conversazioni. Viviamo già a tutti gli effetti dentro una sorta di Grande Fratello. Grande Fratello inteso nel doppio senso: il Big Brother originario inventato da George Orwell (6–) e il suo urticante derivato
televisivo, lo spettacolo-realtà ovvero il «reality show» (2–). Da una parte temiamo l’istanza superiore che vorrebbe sorvegliarci («to monitor»); dall’altra il nostro massimo desiderio è mostrarci in mutande («underwear») sul piccolo schermo urbi et orbi anche a costo di sfidare il ridicolo («the absurd»). Siccome la pubblica esposizione («performance», «exhibition») garantisce l’esistenza sociale, accade per la prima volta nella storia che gli spiati collaborano con le spie al punto da godere dei risultati di questi ultimi. Un esempio? Le squillo («escort»), intercettate dagli inquirenti, corrono a farsi intervistare («interview») nei dibattiti-varietà («talk show») senza vergognarsi di nulla. Bisogna rimanere in scena ad ogni costo, lavare in piazza i panni sporchi («dirty laundry») il più possibile: pensate a quelle trasmissioni in cui le coppie mettono in piazza penose beghe coniugali che un tempo avrebbero giustamente tenuto ben chiuse tra le quattro mura domestiche («at home»): «Io cucino, ma tu non ti occupi dei piatti…». «Già, ma tu ti fai la doccia una
volta alla settimana e puzzi come una scrofa (“as a sow”)». «Hai mai provato a sentire l’odore dei tuoi calzini radioattivi?». «Nessuno ti ha mai insegnato che si tira lo sciacquone («the flush»)?». Il livello dello squallore («misery»), più o meno, è questo. Il paradosso («paradox») è che in un mondo in cui tutti ambiscono a finire in mondovisione (e spesso ci riescono), poco importa se con i calzini in mano («with the short socks in hand»), il vicino di casa non sa chi sei («who you are»): se ti incontra ti saluta a malapena e se non ha incrociato il tuo nome su Facebook non sa neanche come ti chiami. Un mondo scisso tra il mutismo e l’autismo («between mutism and autism») della quotidianità e la voglia irresistibile («lust») di diventare protagonisti di un megaspettacolo qualunque: un mondo di impenetrabili bunker privati («private bunkers») e di non-luoghi frequentatissimi da centinaia di migliaia di persone («millions of people»). E con ciò vi saluto: corro al mio «drink break» quotidiano. Bye bye.
e non ho mai preso una multa. Come disubbidire al destino, allora?». È buffa quest’assonanza con il Balzac del Novecento; anch’io guido da quasi sessanta anni, senza né una multa né un incidente. Ma per il resto... lui ha frequentato 15’000 donne, io una, mia moglie da quasi cinquanta anni. Lui scriveva un romanzo di successo in sei giorni, io per scrivere un romanzo di insuccesso impiego tre anni. Un fatto è certo: più un ordine è insensato, maggiore è il piacere che si prova nell’ubbidirgli. In questo senso per me il servizio militare ha rappresentato una stagione esaltante, dal primo all’ultimo giorno. Sottotenente di artiglieria contraerea, ricordo con commozione il mio colonnello comandante che mi spediva al deposito con l’ordine di far girare a vuoto i gruppi elettrogeni per consumare gasolio, così il contatore avrebbe testimoniato la nostra diuturna attività. Su un grado ancora più alto di godimento si colloca l’arte di aggirare l’ordine o la legge, salvando la forma e tradendo la sostanza. Il mio modello è
Postille filosofiche di Maria Bettetini Detatuatore di fiducia Molto si è detto della pelle non in senso dermatologico. È la barriera tra tutto il resto e noi, la prima difesa, il muro di cinta. È dalla nostra parte: segnala subito le difficoltà, quindi arrossisce per l’imbarazzo, per la paura drizza peli e capelli così da mostrare quanto possiamo essere terribili e capaci di una difesa ancor più strenua. O meglio, se avessimo una pelliccia diventeremmo terribili, come i gatti quando si azzuffano, invece la nostra molle vita da scrivania, supermarket e spiaggia ci ha indotto a essere glabri, e chi non lo è tenta di diventarlo tramite dolorose operazioni. La pelle parla di noi, nei bimbi è morbida, torna poi morbida anche nell’età tarda, a indicare uno stato di fiducia nelle cure altrui, perché piccoli e anziani sono indifesi. Si scurisce per proteggerci dal sole, segnalando che
noi sì che al sole possiamo permetterci di stare, perché siamo sani e benestanti al punto da poter godere di vacanze e sport. Le lampade sono un escamotage per mandare lo stesso segnale senza spostarsi da casa. In questo ambito, la vita sociale gioca un importante ruolo, infatti un secolo fa i signori fuggivano l’abbronzatura, trenta anni fa la cercavano con turpi sistemi (la crema per le mucche, gli specchi ustionanti come quelli di Archimede, le lampade ad alta potenza, gli olii da frittura), sempre per dire Maldive, Monte Bianco, o più semplicemente Sharm. Poi le ventenni carbonella hanno compiuto quaranta anni e non hanno apprezzato i solchi sulla loro pelle, sempre più simile a quella dei bagnini e dei maestri di sci. Altre spese: creme e chirurgia estetica. La pelle dagli anni Novanta si può
Voti d’aria di Paolo Di Stefano I calzini pubblici Anche a chi odia il purismo linguistico ogni tanto viene voglia di mandare a quel paese certi orribili vezzi esterofili. Mondiale 2014. RaiDue, domenica 15 giugno. La conduttrice: «Ci fermiamo un momento e ci sentiamo dopo il drink break» (2). Il «drink break»? Che bisogno c’è? Perché mai non si può usare un buon vecchio termine come «pausa»? E poi: accendi l’iPad per andare a cercare l’edizione digitale del «Corriere della Sera» e, chissà perché, trovi solo la «digital edition». Vai ad aprire «la Repubblica» e la prima pubblicità che ti viene incontro dice che un certo servizio di spedizione è un «Ready Business». Che significa? Chiedetelo a loro. Vai nel sito della «Stampa» e ti imbatti non nelle notizie principali della giornata ma nelle «TopNews». Torni a gettare un orecchio alla tv e nel giro di pochissimi minuti ti accorgi che è sconsigliato dire «naturale», meglio «natural»; sconsigliato «qualità», molto meglio «quality»; niente «cibo», raccomandatissimo il «food»… Poi, leggermente innervosito dall’invasione, oggettivamente fastidio-
sa, di paroline angloamericane in ogni angolo del tuo modesto tran tran quotidiano, decidi di rilassarti e sfogliare un giornale, sperando in una disintossicazione almeno provvisoria. Di fronte a «leader», «dossier» e «premier» rimani giustamente imperturbato: sono parole ormai decisamente acquisite. Ma quando tra pagina 2 e pagina 7 scorri nei titoli un’infilata di «spending review», «bike sharing», «talent», «brand», «cult», «showroom», allora reagisci d’impulso
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Idee e acquisti per la settimana
shopping Freschezza mediterranea Attualità Il melone conquista per dolcezza, leggerezza e proprietà rinfrescanti. Un perfetto alleato dell’estate
disponibile ora in differenti varietà a Migros Ticino
Dolce e succoso, il melone è in grado di smorzare la sete e i piccoli attacchi di fame durante le calde giornate estive. Oltre ad essere ricco di acqua e conseguentemente ipocalorico, il melone contiene pure notevoli quantità di sali minerali e vitamine. Si può conservare in frigorifero intero, per più giorni, nel vano destinato alle verdure a 10-15 gradi, in cantina oppure in un luogo fresco; mentre una volta affettato andrebbe consumato entro due giorni al massimo. Si ritiene che la sua origine vada fatta
risalire all’Africa tropicale da dove, dopo essere passato dall’India, sia giunto nel bacino mediterraneo, in Grecia prima e Italia dopo, già nel primo secolo dopo Cristo. La stagione dei meloni va da metà giugno a metà settembre. Dal momento della raccolta e fino alla fornitura alla Migros è importante che la catena del freddo venga rispettata scrupolosamente affinché il tasso zuccherino resti stabile e il consumatore possa quindi contare su un prodotto di prima qualità.
Il modo più semplice per gustare il melone è al naturale, oppure accompagnato da qualche fetta di saporito prosciutto crudo; ma sa farsi apprezzare anche come ingrediente di una croccante insalatona mista; sotto forma di zuppa fredda; con del cottage cheese, del pesce affumicato e naturalmente per approntare irresistibili dessert, sorbetti o macedonie estive. Si può capire se un melone è maturo seguendo questi criteri: se emana un profumo intenso, se il peduncolo è secco oppure ancora se, picchiettan-
dolo leggermente con le nocche, si sente un suono sordo e non vuoto. Una semplice ma originale ricetta? Dimezzare un melone, privarlo dei semi, della buccia e tagliarlo a fettine. Spremere un limone. Frullare il melone con del latte di cocco, del brodo di verdura freddo e il succo di limone. Condire con sale, pepe e tabasco e servire accompagnando con pane integrale e prosciutto crudo aromatico. Le tipologie di melone più diffuse, attualmente in vendita a Migros Ticino, provengono dal bacino del Mediterra-
neo, e sono le seguenti: Melone Galia: piuttosto grande, ha una buccia giallo-marrone e polpa verde chiaro molto fruttata. Melone Retato: tipica buccia reticolata, forma ovale e polpa color albicocca dolce e profumata. Melone Charentais: frutto tondo, buccia giallo-verdastro con polpa succosa, molto aromatica e dal colore arancione. Melone Jolly: a buccia liscia, tondeggiante, la sua polpa è succosa e zuccherina e di color arancio.
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A
ll’incirca due anni dopo la prima ricerca empirica sulla qualità dell’udito degli svizzeri, gli specialisti dell’audioprotesistica Amplifon e Phonak lanciano il 2° studio nazionale sull’udito. Le conoscenze verranno così ulteriormente approfondite, per aiutare in modo ancora più diretto ed efficiente i clienti a sentirci meglio.
Invitiamo a partecipare al 2° studio nazionale sull’udito tutte le persone che sospettano di avere una limitazione dell’udito ma che al momento non portano apparecchi acustici. Il vantaggio per voi: potrete provare gratuitamente per 4 settimane la più moderna tecnologia per apparecchi acustici sviluppata da Phonak e riceverete inoltre CHF 50.–* a titolo di ringraziamento per la partecipazione. Gli apparecchi acustici facilitano la comunicazione e aumentano la gioia di vivere. Da settembre 2012 a febbraio 2013 Amplifon e Phonak hanno analizzato, in tutta la Svizzera, come l’uso di apparecchi acustici si ripercuote sulla qualità della vita. I 1137 partecipanti ci hanno fornito utili informazioni. Già dopo un breve periodo di utilizzo degli apparecchi, la maggioranza dei partecipanti allo studio ha confermato di provare più piacere nello stare con gli amici e di avere una migliore qualità della comunicazione e della vita a casa. È davvero sorprendente, soprattutto se consideriamo che la maggior parte dei partecipanti al test aveva dichiarato in preceden-
za di non aver bisogno di apparecchi acustici. Potete trovare ulteriori informazioni sui risultati del 1° studio nazionale sull’udito su www.studio-udito-nazionale.ch. I due leader di mercato Amplifon e Phonak si dedicano alla ricerca anche per il vostro udito. Lo studio congiunto mira a ottenere conoscenze scientifiche che confluiranno in modo determinante nel lavoro di Amplifon e Phonak. Per comprendere ancora meglio le esigenze dei clienti, nell’ambito del 2° studio nazionale sull’udito si osserveranno nel dettaglio gli effetti dei più recenti apparecchi acustici sulle singole situazioni di vita. Le esperienze dei partecipanti serviranno a migliorare ulteriormente l’adattamento degli apparecchi acustici alle esigenze della vita quotidiana e a perfezionare la tecnologia. La vostra opinione è importante per noi. Partecipate e approfittate anche voi di questa ricerca a livello nazionale. Lo studio sarà condotto in conformità agli standard scientifici. Tutti i vostri dati saranno trattati con riservatezza e analizzati in for-
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ma anonima da un rinomato istituto di ricerche di mercato. Al termine dello studio i risultati saranno messi a disposizione dei medici e delle cliniche ORL.
* Solo per i primi 1’000 partecipanti che saranno ammessi allo studio e compileranno entrambi i questionari.
Iscrivetevi direttamente su Amplifon: sul sito www.studioudito-nazionale.ch, per telefono chiamando il numero gratuito 0800 800 881, in uno dei 78 centri specializzati Amplifon o tramite il coupon di registrazione allegato. Le iscrizioni sono aperte fino al 31.7.2014. A titolo di ringraziamento per la partecipazione riceverete CHF 50.–* in contanti.
Partner dello studio
Registrazione al 2° studio nazionale sull’udito. Partecipate anche voi! Approfittate di una prova gratuita di quattro settimane nell’ambito dello studio sull’udito. È sufficiente compilare questo coupon, staccarlo e inviarlo. Naturalmente potete iscrivervi anche per telefono chiamando il numero gratuito 0800 800 881, sul sito www.studio-udito-nazionale.ch o direttamente nel centro specializzato Amplifon più vicino a voi.
Telefono (obbligatorio)
Indirizzo Tagliare il coupon e inviarlo a: Nationale Hörstudie, Postfach 306, 8706 Meilen
Data di nascita
NPA / Località M
Nome / Cognome
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Idee e acquisti per la settimana
Quando l’Ice Tea diventa un gelato Il più popolare Ice Tea della Svizzera si presenta ora anche come delizioso ghiacciolo. A trent’anni dal suo lancio, la bevanda prodotta dall’azienda del gruppo Migros Midor si trasforma in gelato e diventa di fatto la grande novità del 2014 in questo settore. Privo di coloranti artificiali ma con solo aromi naturali, il gelato Ice Tea è disponibile nei congelatori di tutte le filiali Migros. Quest’anno l’Ice Tea della Migros festeggia il trentesimo compleanno e nel
frattempo è diventato un vero e proprio prodotto di culto. Nel 1984 Migros fu il primo e unico dettagliante a proporre un tè freddo a base di vero infuso di tè. Oggi il più apprezzato e più venduto Ice Tea della Svizzera può contare su 134000 sostenitori in Facebook. Con qualcosa come trenta litri a testa gli svizzeri sono i maggiori bevitori di tè freddo al mondo. E perché quest’estate come alternativa al tè freddo non vi concedete anche un rinfrescante gelato?
Ice Tea Gelato 576 ml Fr. 6.–
La bontà della semplicità Prova anche tu i nuovi mitici muffin Mr. Day Vicenzi per una merenda diversa dal solito. Questi soffici dolcetti di pasta margherita li trovi ora alla tua Migros Ticino nella variante con pepite di cioccolato oppure in quella con mirtilli. Preparati con ingredienti selezionati seguendo ricette semplici, i muffin Mr. Day Vicenzi saranno apprezzati non solo dai più piccoli golosi, bensì anche da tutto il resto della famiglia. L’azienda veronese Vicenzi è stata fondata nel 1905 ed è ancora oggi una realtà a conduzione familiare. Il marchio è diventato uno dei nomi simbolo della fine pasticceria italiana nel mondo grazie a prodotti realizzati con genuina passione e amore per la grande arte dolciaria.
Mr. Day Muffin al cacao 6 pezzi Fr. 3.50 Mr. Day Muffin ai mirtilli 6 pezzi Fr. 3.50 In vendita nelle maggiori filiali Migros.
Tradizione e innovazione Azienda storica nella produzione di biscotti, l’azienda Campiello nasce nel 1972 a Cuneo distinguendosi fin da subito per l’alta qualità dei suoi prodotti. Materie prime scelte con cura, unite ad una tecnologia di produzione innovativa benché rispettosa della tradizione, hanno permesso a Campiello di eccellere sul mercato nazionale. Appena introdotti nell’assortimento di Migros Ticino, i due nuovi deliziosi biscotti Campiello trasformeranno la tua colazione in un momento speciale. I Carabel al burro sono biscotti con croccante glassa di zucchero, leggeri e ricchi di fibre per un inizio di giornata all’insegna della vitalità. Cereabel con frutta, arricchiti di pezzetti di prugne, albicocche ed uvetta, assicurano il giusto apporto di fibre giorno dopo giorno.
Campiello Carabel al burro 260 g Fr. 4.50 Campiello Cereabel con frutta 220 g Fr. 3.90 In vendita nelle maggiori filiali Migros.
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Idee e acquisti per la settimana
Lo sapevate che…?
…il pomodoro è in assoluto l’ortaggio più importante della produzione orticola ticinese? Oltre a consumarlo crudo, cosa ne direste di valorizzarlo ulteriormente servendolo per esempio sotto forma di pomodoro ripieno al forno? Per quattro persone cuocete in poco olio 300 g di macinata mista di manzo e maiale, salate, pepate e continuate la cottura per una ventina di minuti. Togliete la carne dalla padella e lasciatela raffreddare. Prendete quattro bei pomodori carnosi nostrani, lavateli e tagliateli nel senso dell’altezza, quindi svuotateli. Tagliate
a dadini una piccola mozzarella. In una scodella mettete la carne e unite un po’ di prezzemolo, basilico e aglio tritato. Aggiungete alla miscela i dadini di mozzarella, una cucchiaiata di grana grattugiato, una di pangrattato, sale e pepe quanto basta e mescolate bene insieme tutti gli ingredienti. Riempite i mezzi pomodori con il composto e trasferiteli in una teglia da forno con qualche cucchiaio di olio d’oliva. Infornate per una mezz’oretta a 180 gradi. Serviteli ben caldi, accompagnandoli con riso in bianco oppure pane rustico.
Aperture straordinarie Migros domenica 29 giugno, SS. Pietro e Paolo
Carne di maiale nelle salsicce merguez
Informiamo la spettabile clientela che, domenica 29 giugno, festività di SS. Pietro e Paolo, alcuni supermercati di Migros Ticino potranno restare aperti dalla ore 10.00 alle 18.00, come da deroga del Dipartimento delle Finanze e dell’Economia del Canton Ticino. I punti vendita interessati all’apertura straordinaria sono i seguenti: Ascona, Locarno, Minusio, Solduno e Tenero per quanto riguarda il Locarnese, mentre nel Luganese Cassarate, Lugano, Molino Nuovo e Paradiso. Aperti saranno pure i rispettivi Ristoranti e De Gustibus.
Durante un controllo a campione eseguito a fine aprile presso i laboratori cantonali del Canton Vaud, nelle salsicce merguez è stato rilevato il 2,55% di carne di maiale. La Migros chiede scusa a tutti i clienti che confidano nel fatto che le salsicce merguez Grill mi, munite di apposita dichiarazione, non contengano carne di maiale. I controlli effettuati regolarmente dalla Migros finora sono sempre risultati negativi. Si sta indagando su come la carne di maiale sia potuta entrare nel processo di produzione e i controlli saranno aumentati. Su incarico della trasmissione «On en parle» della Radio Television Suisse Romande (RTS), i laboratori cantonali del Canton Vaud hanno analizzato le salsicce merguez e hanno constatato che contengono il 2,55% di carne di maiale. Questo nonostante il fatto che il prodotto sia munito di una dichiarazione secondo la quale non contiene carne di maiale. Le salsicce interessate (n. d’art. 2301.031) erano in vendita tra il 26.4.2014 e il 30.4.2014. Dopo che i giornalisti della RTS oggi hanno presentato i risultati alla Migros, l’azienda ha subito commissionato ulteriori analisi. Micarna, l’azienda propria della Migros che si occupa della lavorazione della carne, dispone di processi di produzione che impediscono alla carne di maiale di finire nelle salsicce merguez. Inoltre,
Concentrati per gli esami
su incarico della Migros vengono effettuati regolarmente controlli da parte di un laboratorio esterno, i quali finora sono sempre risultati negativi. Anche il campione esaminato solo una settimana dopo l’analisi commissionata dalla trasmissione «On en parle» era privo di carne di maiale. Al momento dunque non è chiaro perché le salsicce merguez analizzate dal laboratorio cantonale vodese contenevano tracce di carne di maiale e si stanno effettuando le relative verifiche. «Siamo profondamente dispiaciuti di avere disatteso la fiducia riposta in noi dalla nostra clientela e faremo tutto il possibile per scoprire come la carne di maiale sia entrata nel processo di produzione», afferma Albert Baumann, direttore dell’industria Migros Micarna.
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Idee e acquisti per la settimana
«Sono felice di andare a Honolulu» Ancora fino al 30 giugno è possibile inviare i tagliandi completi dell’album di raccolta Mega Win. Marco Bigler di Bremgarten BE ha già vinto uno dei sette viaggi intorno al mondo Dal 12 maggio al 14 giugno in tutta la Svizzera sono state febbrilmente preparate le valigie virtuali. Marco Bigler (45) lo può però fare realmente: già il 24 maggio l’informatico di Bremgarten nel Canton Berna è riuscito a raccogliere i sei adesivi per il giro del mondo. «Finora non ho mai vinto qualcosa di simile», dice, rallegrandosi per la grossa vincita. Il vincitore non ha né fatto più spesa del solito, né scambiato o cercato adesivi supplementari. Semplicemente ha avuto fortuna. Solo per l’ultimo adesivo c’è stato il contributo della suocera. Nel mese di aprile del prossimo anno Marco Bigler e sua moglie compiranno il giro intorno al mondo. Durante tre settimane visiteranno New York, Las Vegas, Los Angeles, Honolulu, Tokio, Singapore e Dubai. «Sono particolarmente contento di vedere Honolulu», afferma Bigler, «ma anche le altre città non le ho mai visitate». Per la prima volta negli Stati Uniti con del cioccolato in valigia
Solitamente i Bigler si concedono dei viaggi al di fuori dei circuiti del turismo di massa. «Per noi è importante conoscere altri modi di vivere e tradizioni culinarie. Ma facciamo volentieri anche viaggi in città, vacanze balneari oppure soggiorni di benessere». Ogni due-quattro anni i Bigler vanno oltre oceano, per esempio in America Latina o Centroamerica, Tailandia o Sudafrica. Finora Marco Bigler era un po’ restio ad andare negli Stati Uniti. Ma ora è contento di poter scoprire un nuovo mondo e anche una nuova forma di viaggio. Cosa porteranno con sé i Bigler in valigia il prossimo mese di aprile? «Sicuramente del cioccolato per mia moglie», sorride il «Mega Winner». / DH
Avete incollato anche voi tutti gli adesivi sulle valigie? Per aggiudicarvi il vostro premio, inviate il tagliando per raccomandata a: Migros, “Mega Win”, Casella Postale, 8099 Zurigo. Ultimo termine: 30 giugno 2014.
Marco Bigler già si sta allenando alla partenza per il giro del mondo.
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Idee e acquisti per la settimana
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Affinché la stanch ezza non dell’Uno fa prenda il vorisce il sopravve risveglio c nto: il gio erebrale m co attutino.
Suggerimento: dal Rigi si possono godere delle aurore particolarmente belle. In determinati giorni, dei treni speciali salgono in vetta di primo mattino.
Un risveglio baciato dal sole Svegliarsi di buon mattino e guardare all’orizzonte: quel che si vede è spettacolare Una treccia fatta in casa non è solo una festa per gli occhi, già solo il profumo fa salire l’acquolina in bocca.
Sabato 21 giugno era il solstizio d’estate. È il giorno dell’anno in cui il sole splende più a lungo sull’emisfero settentrionale. Chi, però, non ritiene che il mattino abbia l’oro in bocca, non si è perso granché. Infatti, in estate ogni giorno vi invita a dargli il benvenuto un po’ più presto del solito con un’elegante colazione davanti ad uno dei più emozionanti scenari della natura: il sorgere del sole. Potete farlo sul vostro terrazzo oppure su una collina o una montagna dei dintorni. Attualmente, in Svizzera l’astro fa capolino all’orizzonte attorno alle 5.30. Un consiglio per i dormiglioni: programmate una colazione all’alba in una mite mattina di settembre, quando i primi raggi spunteranno all’orizzonte verso le 7. Idee originali come questa si trovano nel libretto «100 cose da fare quest’estate». / Responsabile del progetto/testo Anna Bürgin; immagini Marvin Zilm; styling Esther Egli
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Idee e acquisti per la settimana
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«100 cose da fare quest’estate» Fr. 7.70 Fino ad esaurimento dello stock. maggiori filiali. al pezzo, nelle 50 4. . Fr , na la rcel lori: tazza di po Una festa di co
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...la treccia perfetta per la prima colazione
1
In una scodella mescolate 500 g di farina e 2 cucchiaini di sale. Aggiungetevi 20 g di lievito e 1 cucchiaino di zucchero precedentemente mischiati. Sciogliete 50 g di burro e versateci 2,5 dl di latte. Unite il liquido alla farina. Impastate il tutto fino a ottenere un impasto omogeneo. Fate lievitare del doppio la pasta, poi dividetela in due parti che rullate a mano fino ad ottenere due strisce della medesima lunghezza. Con queste formate una croce.
2
Passate il filone D sul braccio C. Quindi ponete il filone B su quello D.
Mazzo di carte Uno, Fr. 9.80
Victorinox coltello multiuso, seghettato, Fr. 4.15 Passate il filone A sul filone D. Quindi ponete il filone C su quello A.
4
Ora il filone B viene fatto passare tra i filoni C e D. Quindi ponete il filone D sopra quello B e su quello A. Continuate così finché i filoni sono tutti intrecciati. Adesso lasciate riposare la treccia per 10 minuti. Spennellatela con un tuorlo d’uovo e cuocetela a circa 200° al centro del forno per 45 minuti.
Illustrazioni: Georg Wagenhuber
3
Sarasay al mango, 75 cl, Fr. 1.80* invece di 2.25 *20% fino al 30 giugno In vendita nelle maggiori filiali Migros.
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FIORI E PIANTE Rose, Fairtrade, diversi colori, lunghezza dello stelo: 60 cm, il mazzo da 7 14.80 Girasoli, il mazzo da 5 8.90 Phalaenopsis, 2 steli, in vaso da 12 cm, la pianta 9.90 invece di 16.80 40%
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Idee e acquisti per la settimana
Suggerimento una particolare: nota di colore e di gusto nei bicchieri, graz ai cubetti di ie ghiaccio fatti con lo sciropp o.
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Sciroppo Piña Colada 75 cl Fr. 3.50 Nelle maggiori filiali Migros.
Sciroppi a gogò L’estate sdogana gli sciroppi, ammessi a tutti i party: per aromatizzare varie bevande e dar tono a gelati e frappé Lo sciroppo è molto più della solita bevanda per bambini: acqua di rubinetto col tradizionale aroma di lampone. Grazie ai nuovi gusti come Mojito o Piña Colada sa farsi apprezzare sempre di più anche dagli adulti. Gli sciroppi si prestano bene per preparare cocktali o drink analcolici. Per le serate estive con gli amici o i compleanni L’industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui anche gli sciroppi di Aproz.
dei bambini, preparate coloratissimi cubetti di ghiaccio allo sciroppo, che risulteranno ancora più divertenti se invece di quella classica userete forme speciali. Le varietà di sciroppo alla frutta come fragola, cassis, bacche, granatina o limone sono adatte anche per aromatizzare frappé e frullati o per decorare coppe, pannacotta, semolina o risolatte.
Acqua con le bollicine: un’alternativa frizzante
Fondamentalmente, la bevanda si prepara con una parte di sciroppo e sei parti d’acqua, fermo restando che questo rapporto si può variare a seconda dell’intensità di gusto desiderata. È vero che gli sciroppi di Aproz sono fatti in modo che si gustino meglio se preparati con acqua naturale, ma vale la pena di provarli anche con acqua minerale gasata: per un’esperienza estiva diversa e frizzante.
Sciroppo fragola 75 cl Fr. 3.55 Azione: dal 24 al 30.6 all’acquisto di due bottiglie PET di sciroppo da 75 cl e 1,5 l, Fr. –.50 di sconto su ogni altra bottiglia (M-Budget escluso).
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Idee e acquisti per la settimana
Cose buone dal mare Le conserve di pesce e frutti di mare di Mimare offrono la qualità Premium, e una differenza che si sente. Ragione di più per rimpolpare le scorte in vista di veloci pasti estivi I pesci e i frutti di mare sono simbolo della leggera cucina mediterranea. Con la nuova marca Mimare, Migros lancia una ricca scelta di conserve di pesce e frutti di mare in qualità Premium. L’assortimento comprende otto articoli, fra cui anche quattro insalate di tonno con tonno rosa pronte al consumo. Che cosa caratterizza le conserve Mimare quali prodotti Premium? Tutte contengono ingredienti scelti, a cominciare dall’olio d’oliva di alta qualità. I filetti di sardine sono particolarmente soffici e hanno una consistenza perfetta. Quelli di tonno provengono dalla morbidissima parte ventrale del tonno bianco. Mentre i prodotti di tonno convenzionali sono spezzettati, Mimare offre – come per le sardine – pezzi interi di filetto, che si possono suddividere facilmente. Il tonno proviene da pesca sostenibile ed è catturato con la lenza. La maggior parte dei prodotti Mimare, inoltre, sono certificati MSC. Anche i filetti di acciuga, diliscati e filettati a mano, si caratterizzano per una carne soda e succosa. Provengono dal mare Cantabrico nel nord della Spagna, una regione famosa per filetti d’acciuga della miglior qualità. La miscela di frutti di mare, per finire, propone un mix equilibrato di seppie, molluschi, calamari, oltre a surimi di crostacei e pesci. Le nostre tre ricette dimostrano che anche con le conserve di pesce si possono preparare piatti gustosi, senza bisogno di particolari doti culinarie e di molto tempo. / Dora Horvath; foto Claudia Linsi
Focaccia alsaziana con acciughe, zucchine e capperi Insalata di tonno con sedano, ribes e piselli
Piatto principale per 4 persone
Piatto principale per 4 persone Ingredienti 1 scalogno 3 cucchiai d’aceto balsamico bianco 5 cucchiai d’olio di colza 1 cucchiaio di miele liquido sale, pepe 50 g di ribes 250 g di piselli, o 1 kg di piselli nel baccello 200 g di sedano, con le foglie 200 g d’insalata verde, ad es. lattuga foglia di quercia 2 scatole di ventresca di tonno di 115 g Preparazione Tritate lo scalogno. Mescolate l’aceto balsamico con l’olio, il miele e lo scalogno. Condite con sale e pepe. Aggiungete i ribes alla salsa e
mettete da parte. Sgusciate i piselli e lessateli in acqua salata per ca. 3 minuti. Scolateli e passateli sotto l’acqua fredda. Tagliate finemente il sedano, comprese le foglie. Servite l’insalata con il sedano e i piselli. Scolate il tonno e spezzettatelo sull’insalata. Irrorate con la salsa e servite.
Tempo di preparazione ca. 25 minuti Per persona ca. 16 g di proteine, 16 g di grassi, 14 g di carboidrati, 1150 kJ/270 kcal
Ingredienti 200 g di zucchine ½ cipolla rossa 2 scatole di filetti d’acciuga in olio d’oliva di 100 g 1 confezione di pasta per tarte flambée di 320 g 4 cucchiai di crème fraîche 2 cucchiai d’olio d’oliva pepe macinato fresco fleur de sel 4 cucchiai di capperi
Preparazione Scaldate il forno ventilato a 220 °C. Con il pelapatate, tagliate le zucchine per il lungo a lingue sottili. Tagliate la cipolla a fettine sottili. Scolate le acciughe. Srotolate le paste. Spalmatele con la crème fraîche. Guarnite con le zucchine, le acciughe e la cipolla. Irrorate con l’olio e cuocete in forno per ca. 12 minuti. Sfornate le focacce alsaziane e conditele con pepe e fleur de sel. Cospargetele di capperi e servite. Accompagnate con insalata. Tempo di preparazione ca. 20 minuti + cottura al forno ca. 12 minuti Per persona ca. 14 g di proteine, 23 g di grassi, 43 g di carboidrati, 1800 kJ/435 kcal
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Idee e acquisti per la settimana
Pasta ai frutti di mare con rucola e pomodori Piatto principale per 4 persone Ingredienti 2 vasetti di frutti di mare di 160 g 1 scalogno 2 spicchi d’aglio 400 g di pomodori 40 g di rucola 1/2 limone 400 g di pasta, ad es. penne rigate sale 4 cucchiai d’olio d’oliva pepe Preparazione Versate i frutti di mare in un colino e scolateli. Tritate lo scalogno. Tagliate l’aglio a fettine sottili. Tagliate i pomodori a dadini. Tritate grossolanamente la rucola. Spremete il limone. Cuocete le penne al dente in abbondante acqua salata. Scaldate l’olio in una padella. Fatevi appassire lo scalogno e l’aglio per ca. 2 minuti. Unite i pomodori e rosolate per ca. 2 minuti. Condite con sale e pepe. Unite i frutti di mare e lasciateli scaldare. Mescolate le penne con i frutti di mare, la rucola e il succo di limone e servite. Tempo di preparazione ca. 30 minuti Per persona ca. 25 g di proteine, 15 g di grassi, 84 g di carboidrati, 2400 kJ/580 kcal
Mimare MSC insalata di tonno Niçoise* 250 g Fr. 3.50**
Mimare MSC insalata di tonno Mediterranea 225 g Fr. 3.20**
Mimare MSC insalata di tonno Mexiko 250 g Fr. 3.50**
Mimare MSC insalata di tonno Western* 250 g Fr. 3.50**
Mimare frutti di mare* 160 g Fr. 4.50** Mimare MSC filetti di sardina* 70 g Fr. 2.40**
Mimare MSC filetti di tonno ventresca* 81 g Fr. 3.80**
Mimare filetti di acciuga* 55 g Fr. 4.30**
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Idee e acquisti per la settimana
Una grigliata da regina La variegata gamma di pregiati prodotti Sun Queen fa da corona ad ogni grigliata che si rispetti
Qual è la grigliata perfetta? La maggior parte degli uomini metterebbe sul grill un grosso pezzo di carne e starebbe semplicemente ad aspettare che si cuoci. Le donne invece sono più interessate ai contorni: accanto a una cotoletta o a un’aletta di pollo c’è sempre posto per vitamine e altre sostanze nutrienti. Un’insalata di mais alla messicana si prepara in fretta. Si sgocciola il mais, lo si mette in una ciotola e si aggiungono a piacere peperoni, pomodori, cipolle o tonno. Ci stanno bene anche sottaceti, ananas o papaya. Qui, infatti, impera la regola: va bene tutto quel che piace. I più raffinati la condiscono con olio d’oliva, senape e un po’ di panna acidula Crème fraîche. Non dimenticarsi di riporre l’insalata in frigorifero, prima di servirla in tavola.
La varietà arriva sul tavolo con i prodotti naturali essiccati al sole di Sun Queen.
Barchette di formaggio fresco con palline di Catadou
Anche un cuscus di verdure in insalata si può materializzare sul tavolo senza grandi sforzi. Cuocete i granelli di cuscus e lasciateli gonfiare. Poi aggiungete la miscela di verdure mediterranee al vapore Sun Queen, speziate il tutto e condite con il tipo di salsa che preferite. Come accompagnamento consigliamo le eleganti barchette di formaggio fresco alle noci: grandi e piccini adorano le palline di Cantadou, impanate con noci tritate e servite su una foglia di cicoria. Chi poi vuole continuare a piluccare, trova certamente qualcosa che gli piace nello snack up Sun Queen: questa coppetta richiudibile contiene una saporita miscela di pistacchi e mandorle tostati e salati, assieme a fettine di mango essiccate e uva passa avvolta in cioccolata nera. Troppo allettante per smettere di sgranocchiare! / HB
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Idee e acquisti per la settimana
Dolci leggerezze Non è difficile evitare grassi e calorie. Con semplici trucchi di pasticceria, sfogliate alla crema, coppa svedese e coppa all’albicocca si trasformano in dessert della linea Léger
Per avere il 30 percento di grassi in meno nelle sfogliate alla crema Léger è bastato togliere il terzo strato di pasta sfoglia.
Tra i piaceri della vita ci sono anche i dolci. Ed ora la Jowa SA ne ha creati tre per la linea Léger. Le sfogliate alla crema, la coppa svedese e quella all’albicocca sono classici prodotti di pasticceria, che adesso sono disponibili anche nella variante «light». La gioia per il palato, però, è assolutamente intatta. Nelle sfogliate alla crema Léger è stata aumentata la farcitura, mentre è stata ridotta la quantità di pasta sfoglia. «Già solo questo è bastato a risparmiare il 30 percento di grassi», afferma Andrea Haydon, manager di prodotto nel settore pasticceria della Jowa SA. Inoltre, una sfogliata dello stesso peso è ora suddivisa in tre porzioni anziché in due. Piccoli trucchi, grande leggerezza
Qualcosa di diverso è avvenuto nei dessert in coppa. «Per la coppa svedese si trattava di una grossa sfida: sviluppare una gustosa e caratteristica coppa di marzapane con meno zucchero, che corrispondesse ai nostri criteri qualitativi. Oltretutto il marzapane è ricchissimo di calorie», spiega Andrea Haydon. Per la crema alla vaniglia e la panna montata sono stati utilizzati prodotti Léger. «Per la coppa con pezzetti d’albicocca, al posto della panna abbiamo utilizzato una raffinata mousse di yogurt». E… voilà: con questi piccoli accorgimenti si è risparmiato, rispettivamente, il 30 e il 40 percento di calorie. / DH
Novità: Léger Coppa albicocca 90 g Fr. 3.20* Novità: Léger Coppa svedese 80 g Fr. 3.20* Novità: Léger Sfogliate alla crema 155 g Fr. 2.80* *20x punti Cumulus fino al 30 giugno. Nelle maggiori filiali Migros.
L’Industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui anche i dessert Léger.
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Idee e acquisti per la settimana
Le Farm Chips sono più spesse ed elaborate con la buccia.
Chips come fatte a mano Le nuove Farm Chips sorprendono grazie alle fette tagliate più spesse. Sono prodotte con patate non sbucciate, sono saporite e belle da vedere
Le patatine chips – chiamate spesso in Svizzera pommes chips – sono sicuramente tra gli snack più amati a livello internazionale. Queste sottilissime fettine di patate fritte esistono oggi in una moltitudine di sapori per ogni gusto e desiderio. Le nuove Farm Chips sono di produzione svizzera. Già alla
prima occhiata si differenziano dalle chips convenzionali per le loro fette più spesse, così da sembrare come fatte in casa. Il loro gusto è particolarmente aromatico, poiché vengono lavorate con la loro buccia e le fette fritte tramite uno speciale procedimento. Insaporite con erbe svizzere o servite tradizio-
nalmente al naturale: queste deliziose chips sono l’accompagnamento ideale in ogni party. Tutti i patiti di calcio, i quali durante il Campionato mondiale si concederanno lunghe serata davanti al televisore, si rallegreranno di questo croccante snack rustico quando la fame si farà sentire. / HB; foto Claudia Linsi
Farm Chips Nature 150 g Fr. 2.70 Farm Chips erbe svizzere 150 g Fr. 2.80
L’industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui anche le Farm Chips.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 23 giugno 2014 ¶ N. 26
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Idee e acquisti per la settimana
I cornetti Fun appagano l’irrefrenabile voglia di gelato.
Fun Cornet, Vaniglia/Fragola 16 pezzi da 145 ml Fr. 8.70* invece di 17.40 Fun Cornet, Cioccolato 8 pezzi da 145 ml Fr. 8.70 Fun Cornet, Moca 8 pezzi da 145 ml Fr. 8.70 *50% dal 24 al 30 giugno.
Impulsi irresistibili Il marchio Fun Cornet propone gelati contenenti cioccolato svizzero della migliore qualità L’Associazione dei produttori svizzeri di gelato, Glacesuisse, definisce i cornetti come i tipici prodotti di gelateria che si consumano «per impulso». Questo termine descrive un po’ prosaicamente quella voglia spontanea di gelato, che scatta specialmente nelle giornate di gran caldo. Nel 2013 in Svizzera sono stati prodotti oltre sei milioni di litri di gelato in forma di cor-
netti, distribuiti in confezioni singole o multiple. L’anno scorso i cornetti Fun prodotti negli impianti della Midor AG a Meilen, sul Lago di Zurigo, equivalevano a quasi 800 000 litri. I Fun Cornet sono disponibili nei classici quattro gusti di fragola, vaniglia, cioccolato e moca, qui elencati nell’ordine di preferenza da parte dei consumatori. Quando acquistano un cornetto, i pic-
coli e grandi golosi ricevono in cambio ben tre cose, dato che questo prodotto è costituito da gelato, biscotto e cioccolato. Il cremoso ripieno dei Fun Cornet è composto da panna e latte svizzeri e per fabbricarlo la Midor usa esclusivamente aromi naturali. E così, durante le calde giornate estive, i cornetti Fun offrono una perfetta combinazione di cialda croccante e saporita freschezza. / DH
L’Industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra i quali anche i cornetti Fun.
COMUNQUE LA SVIZZERA , S A R U D N O H L’ O R T N O C I H C GIO TU VINCI.
GIOVEDÌ
26 GIUGNO
APPROFITTANE!
PUNTI
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