Azione 22 del 26 maggio 2014

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXVII 26 maggio 2014

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Società e Territorio Uomini e figli: riflettere e confrontarsi sui diversi ruoli dei padri

Politica e Economia La persecuzione dei cristiani nei Paesi musulmani

Ambiente e Benessere L’utilizzo della luce in medicina per comandare i neuroni del nostro cervello – Seconda parte

Cultura e Spettacoli I percorsi a tratti paralleli di Jean Arp e Osvaldo Licini

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Meglio una fine orrenda Alla riscoperta delle vie d’acqua che un orrore senza fine che uniscono Ticino e Milano di Peter Schiesser Credit Suisse ha avuto la sfortuna di diventare vittima di un nuovo orientamento giudiziario americano: se in passato una denuncia penale (figurarsi per evasione fiscale) significava la morte di una banca o di qualsiasi grande società estera, oggi si può sopravvivere, la licenza ad operare su suolo americano viene salvata, ma a caro prezzo. 2815 milioni di dollari sono la somma più alta che una banca svizzera abbia mai dovuto sborsare in un contenzioso giudiziario. Che appare ancora poca cosa di fronte ai 13 miliardi di dollari che JP Morgan deve pagare per manipolazioni del tasso Libor. Ma che è più del triplo di quanto dovette versare UBS per lo stesso tipo di reato (aver attivamente aiutato cittadini americani ad evadere il fisco). Una conferma del fatto che oggi a Washington la tendenza è di spremere il limone con tutta la forza che una superpotenza egemonica riesce ad esprimere: il vice-ministro della giustizia statunitense James Cole ha sottolineato negli scorsi giorni che dal 2009 le autorità americane hanno comminato multe a istituti finanziari per 50 miliardi di dollari. È la legge del più forte, in cui la giustizia si associa anche all’arbitrio. Tuttavia, a giudicare dalle reazioni, fra i dirigenti della banca, negli ambienti bancari e fra i politici svizzeri prevale il sollievo per aver chiuso la vertenza con il fisco americano (i dettagli a pagina 28). Credit Suisse è una banca di importanza sistemica, un suo fallimento non avrebbe le ripercussioni di un crack di UBS, ma l’impatto sarebbe importante, sia in Svizzera sia negli Stati Uniti, dove impiega molto personale (un aspetto di cui le autorità statunitensi hanno sicuramente tenuto conto quando hanno deciso di non togliere la licenza ad operare alla banca svizzera). Ora Credit Suisse può guardare avanti, liberato dagli scheletri che aveva negli armadi. È dal 2008, quando UBS entrò nel mirino del fisco americano, che il CS è uscito dal mercato patrimoniale americano e che non accetta più capitali non dichiarati al fisco, ma c’erano i decenni precedenti da farsi perdonare, ossia da indennizzare. E questo ora viene fatto. Per risolvere il contenzioso fiscale fra Stati Uniti e UBS ci era voluto un trattato internazionale e la violazione del segreto bancario, con la consegna di migliaia di nominativi di clienti americani – un vero e proprio affare di Stato. Nel caso di Credit Suisse, il fisco americano non ha richiesto i nomi dei clienti, poiché tramite autodenunce o altri canali riesce ad ottenerli comunque, quindi la vertenza è risultata meno «politica». Ciò non tranquillizzerà del tutto gli altri 13 istituti bancari svizzeri sotto accusa negli Stati Uniti. In particolare la Banca cantonale di Zurigo, quella di Basilea e la Julius Bär devono aspettarsi di essere spremute a dovere. Ma allontana comunque per tutti lo spettro di un fallimento. Una volta risolti anche questi contenziosi, si potrà dire che per la piazza finanziaria svizzera sarà terminata un’epoca. Dovranno essere trovati ancora dei meccanismi per regolare le pendenze con Italia, Francia, Germania. Ma con l’introduzione, fra qualche anno, dello scambio automatico di informazioni fiscali, in un contesto in cui le banche svizzere non vogliono più accogliere capitali non dichiarati, si potrà inaugurare una nuova era. Nella quale, per avere successo, le banche svizzere dovranno – nelle parole del presidente della direzione della Banca Nazionale Thomas Jordan: saper offrire prestazioni e servizi sopra la media, essere assolutamente resistenti alle crisi finanziarie (grazie ad abbondanti mezzi propri), godere di una reputazione superiore alla media. Questa è la nuova frontiera. Molto meno rischiosa della precedente.

VOTAZIONE GENERALE 2014 Rinnoviamo a tutti i soci l’invito a partecipare alla votazione generale Migros. Ultimo termine per la spedizione o consegna della scheda

SABATO 7 GIUGNO 2014 Attenzione: diversamente da quanto indicato nella lettera di accompagnamento al materiale di voto, informazioni dettagliate sulle attività e i risultati di Migros Ticino nel 2013 sono contenute nel rapporto annuo pubblicato nel n. 21 di Azione del 19 maggio 2014.

di Claudio Rossetti

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Attualità Migros

Rapidi progressi nella protezione del clima Generazione M L’ambizioso obiettivo della Migros: ridurre del 20 per cento le proprie emissioni di CO2

nei prossimi dieci anni. È il doppio di quanto il Consiglio federale esige a livello nazionale Michael West* Le cifre sono impressionanti: l’anno scorso per conto della Migros sono transitati sulla rete ferroviaria elvetica fino 400 vagoni merci al giorno. Le distanze percorse in treno equivalevano in totale a quasi 11 milioni di chilometri. Dietro questi numeri c’è una chiara strategia: appena è possibile Migros non muove le sue merci sulla strada, ma su rotaia. Da anni, infatti, Migros è il principale cliente di FFS Cargo. E i suoi trasporti ferroviari continuano a crescere: solo l’anno scorso l’aumento è stato dell’ 8 per cento. Puntando sulla ferrovia, Migros evita le emissioni di CO2 con i viaggi in camion, riducendo così il carico ambientale. Nell’ambito del programma di sostenibilità Generazione M, Migros ha promesso di ridurre del 20 per cento le proprie emissioni di CO2. Questo obiettivo ambizioso si avvicina passo dopo passo. Si è già arrivati a una diminuzione dell’8 per cento. Nella strategia della Migros a favore del clima

Un treno merci nel centro di distribuzione a Neuendorf; Migros punta sul trasporto ferroviario, perché più ecologico.

non giocano un ruolo importante solo i trasporti ma anche le filiali. I supermercati utilizzano refrigeranti rispettosi dell’ambiente che, in modo intel-

ligente, recuperano il calore emesso dai loro sistemi di raffreddamento. Al punto che in alcuni casi si può addirittura rinunciare completamente al

riscaldamento degli stabili stessi. Nel 2013, grazie a nuove tecniche di costruzione in altre 20 filiali è stato possibile farne a meno e, di conseguenza,

«La società deve proteggere il clima» Andrea Burkhardt, responsabile della Divisione clima dell’Ufficio federale dell’ambiente, a proposito della diminuzione delle emissioni di CO2 in Svizzera.

Migros intende diminuire del 20 per cento le sue emissioni di CO2 tra il 2010 e il 2020 e ha già conseguito una riduzione dell’8 per cento. Come giudica questo risultato?

del clima, confrontati a quelli di altri Paesi?

nei suoi obiettivi di riduzione del CO2?

Si tratta di un impegno notevole. Ritengo che sia degno di lode il fatto che Migros abbia un approccio globale e adotti iniziative in differenti settori, dalla vendita al dettaglio alla logistica. Per un’azienda della grande distribuzione affidare una grossa quota dei propri trasporti alla ferrovia rappresenta senz’altro una sfida speciale.

Il nostro termine di paragone più importante è la UE, che è anche il nostro maggior partner commerciale. Rispetto alla media europea, siamo in buona posizione. Nella UE le emissioni di CO2 pro capite si attestano a 9,6 tonnellate annue, mentre in Svizzera a 6,4 tonnellate. In questo confronto, noi approfittiamo anche di una produzione elettrica rispettosa dell’ambiente, specie quella delle centrali idroelettriche.

Ma come sono in realtà i risultati della Svizzera in fatto di protezione

Nonostante tutto, la Svizzera dovrebbe essere ancora più ambiziosa

Prossimamente il Consiglio federale prenderà una decisione in merito. In materia di protezione del clima essere ambiziosi è un fattore positivo, tuttavia bisogna anche considerare che alcuni provvedimenti, come l’ammodernamento di interi impianti industriali, non si mettono in pratica dall’oggi al domani. Se il Consiglio federale fissa obiettivi più ambiziosi, questi devono essere condivisi da tutta la classe politica e dalla popolazione. La società nel suo complesso deve avere la volontà di proteggere il clima.

ridurre l ’uso dei combustibili fossili. Migros, dunque, si impegna molto per alleggerire il carico ambientale. Ma come si comporta la Svizzera nel suo insieme in materia di protezione del clima? L’ordinanza sul CO2 chiede al Paese una riduzione del 10 per cento di questo gas a effetto serra entro il 2020. Migros poi s’impegna per una politica del clima ancora più ambiziosa. Lo fa nell’ambito dell’associazione Öbu, una rete di aziende ecologicamente responsabili, della quale fanno parte imprese sia di grandi che di piccole dimensioni. Lo scorso aprile questo sodalizio ha chiesto al Consiglio federale di fissare per il 2020 un obiettivo di riduzione del CO2 più ambizioso. Così, tutto il Paese dovrebbe compiere progressi più rapidi nel campo della protezione del clima. *Redattore di Migros Magazin

Un premio etico per Migros Riconoscimenti L’azienda si impegna anche

all’estero per l’allevamento rispettoso degli animali da reddito e per questo è stata insignita dello Swiss Ethic Award

Allevamento di tacchini, un progetto-pilota in Ungheria: gli animali hanno accesso libero all’aperto.

Nell’ambito della campagna Generazione M, Migros ha promesso di introdurre, entro la fine del 2020, gli elevati standard svizzeri di benessere animale anche per i suoi prodotti provenienti dall’estero. In Ungheria, nell’ambito dell’allevamento di conigli e tacchini, sono già state introdotte direttive grazie alle quali si è potuto garantire l’allevamento conforme alla specie secondo gli standard svizzeri. Il prossimo passo consisterà nell’adeguamento in tal senso dell’importazione di pollame. Grazie a tali misure Migros è sta-

ta insignita dello Swiss Ethic Award. Hansueli Siber, Responsabile dipartimento marketing della Federazione delle cooperative Migros, commenta: «Siamo veramente soddisfatti di tale onorificenza. Essa, infatti, riconosce la nostra posizione di primo commerciante al dettaglio a essersi impegnato a favore dell’allevamento conforme alla specie degli animali da reddito, e ciò non solo in un ambito specifico dell’offerta». Il premio Swiss Excellence Forum riconosce l’elevata importanza sociale del progetto e il potenziale di

espansione di tale impegno ad altre entità sul piano nazionale e internazionale. Migros vende prevalentemente carne svizzera, ma è legata all’importazione nei casi in qui dell’animale in questione ci sia una disponibilità limitata sul suolo elvetico. All’estero, però, le direttive

relative all’allevamento di animali non vantano generalmente standard altrettanto elevati. Per questo motivo Migros, in collaborazione con partner esterni come per esempio l’associazione Protezione Svizzera degli Animali, sviluppa a se-

conda del tipo di animale direttive che garantiscono l’allevamento conforme alla specie secondo standard svizzeri. Migros applica tali direttive all’allevamento di tutti gli animali da reddito e quindi a tutti i prodotti di origine animale quali carne, uova e latticini.

Azione

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La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

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Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

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Società e Territorio Primis, un servizio di Zonaprotetta Il servizio si occupa di promuovere la salute e migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle prostitute: ne parla la coordinatrice Vincenza Guarnaccia

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Keystone

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Il galateo del web Nel volgere di due decenni molto è cambiato nelle regole di comportamento in rete, ma non tutti i consigli di Netiquette sono da archiviare come obsoleti

Uomini e figli Famiglia L’Associazione Progetto Genitori propone degli incontri dove i genitori possono analizzare

e condividere le proprie esperienze, con un occhio di riguardo al mondo dei padri Eliana Bernasconi Recentemente il vicepremier britannico Nick Clegg in un discorso pubblico sosteneva la necessità di garantire ai working father, vale a dire ai papà che lavorano, spazi e tempi adeguati per stare con la famiglia, la moglie che era al suo fianco, la spagnola e neomamma Miriam Gonzales, suscitava l’applauso divertito del pubblico prendendo il microfono improvvisamente e affermando, in un misto di inglese e spagnolo, che gli uomini che si occupano dei figli non sono certo per questo meno uomini, ma, al contrario, hanno «more cojones», letteralmente «più palle». Evidentemente questo tema non è di attualità soltanto in Inghilterra, l’Associazione Progetto Genitori del Mendrisiotto e Basso Ceresio organizza, infatti, gli incontri «Uomini e figli» con la responsabile Martina Flury e il pedagogista Nicola Rudelli, dove i genitori di bimbi in età fra 0 e 3 anni (ma anche oltre) si riuniscono per confrontarsi, riflettere, mettere in comune esperienze. Una delle ultime serate riguardava appunto il cambiamento di un uomo quando diventa padre, come si modificano i suoi ruoli a seconda dell’età dei figli. «Oggi

– spiega Martina Flury – i ruoli sono mischiati, il papà non è più quel papà distante, gli si chiede un accudimento che prima non esisteva, ma anche per quei padri che già sono interessati e disponibili ciò non è sempre facile, come quando si tratta di uscire dal lavoro e rientrati in famiglia cambiare rapidamente registro e occuparsi dei bambini». «Un altro aspetto che mi sorprende – continua Martina Flury – è il veder emergere nei nuovi padri ansie, paure e preoccupazioni che sembravano prima quasi esclusivamente femminili, per esempio nei riguardi della sicurezza del mondo in cui viviamo o dei possibili incidenti e pericoli». Nicola Rudelli, si occupa di interventi psicoeducativi con bambini autistici presso la fondazione Ares di Giubiasco, a lui rivolgiamo alcune domande sul ruolo dei padri e dei genitori in generale. Nicola Rudelli, è davvero importante approfondire in gruppo questi temi?

Non esiste una scuola per diventare genitori. Per svolgere questo compito tanto complesso e differenziato dobbiamo attingere alle nostre esperienze di vita, proprio per questo parlarne con altri padri, condividendo il nostro

vissuto, ci aiuta a crescere e ci fa sentire meno soli.

sono preparati a questi cambiamenti…

importanti, oltre «all’investimento» da parte dei padri.

Nei corsi Preparto all’Ospedale Beata Vergine di Mendrisio lei anima una serata con i padri, ma il parto non è una storia di donne?

Può dipendere dalle proprie esperienze di figlio, cioè dal tipo di cultura che ci è stato trasmesso, o dalla partner, cioè da come la mamma si pone nei confronti del papà, dalla sua attitudine. Ci sono donne che accolgono volentieri il suo accudimento, che gli danno fiducia, mentre in altri casi, alcune mamme possono porre dei paletti stretti e non permettere al papà di sperimentare e di trovare la sua «dimensione genitoriale». L’informazione e il dialogo quotidiano tra genitori permettono la sensibilizzazione su questi importanti temi. Investendo tempo e energia la consapevolezza maschile sta crescendo.

Si dice che meno delle donne gli uomini sappiano parlare delle loro emozioni e sentimenti, è vero?

Che qualità si richiedono per questo?

Non è possibile generalizzare, oggi ci sono famiglie monoparentali, ricostituite, famiglie di lei o di lui… ogni caso è diverso. Poter contare su due figure diverse è sicuramente un punto di forza perché crescere un figlio è un compito impegnativo. Nei casi di separazione, comunque, crediamo che sia possibile continuare a essere genitori insieme, anche se la coppia si è rotta: mettere al centro dell’attenzione il bambino è un modo per superare le proprie divergenze.

La serata con i padri ha lo scopo di informarli e di favorire la condivisione delle differenti esperienze da un punto di vista più maschile. È anche un’occasione per riflettere sul ruolo che si troveranno ad affrontare, visto che oggi, più che in passato, anche i padri si occupano dell’accudimento dei figli fin dalla più tenera età. Come è cambiato il ruolo del padre in questi ultimi decenni, a cosa si deve tale cambiamento?

Nella generazione di mio padre e, soprattutto, di mio nonno, in generale, ci si occupava meno dell’educazione dei figli nelle prime fasi dello sviluppo. Rispetto al passato, il ruolo paterno si è diversificato. Questo cambiamento segue e dipende in gran parte dall’evoluzione della famiglia e della società, sempre più complessa e multiforme. Un esempio è il fatto che sempre più donne lavorano, con le conseguenti nuove necessità e condivisioni. Non sempre e non tutti i nuovi padri

Le strutture famigliari sono più complesse rispetto al passato e questa è una grande sfida, anche perché non ci sono regole generali. Vista la complessità che contraddistingue il ruolo genitoriale, è fondamentale dare fiducia ai papà e permetter loro di esercitare la loro funzione, che è anche quella di consentire alla coppia madre-bambino di separarsi. Flessibilità, competenze comunicative e capacità di apprendere dai propri errori sono tre elementi

Credo che questo sia dovuto in gran parte a fattori culturali e anche in questo caso dipende dai modelli avuti in ambito educativo. Parlare delle proprie e altrui emozioni significa presentarsi in modo più autentico e di conseguenza essere più vicini agli altri. Questo richiede coraggio e fiducia in sé stessi. Molte donne crescono un figlio senza un compagno, per diversi motivi, divorzi, separazioni, o anche per scelta. Cosa comporta l’assenza di una figura paterna?


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IN PALIO FR. 4500.– Attacca questo adesivo che hai ricevuto con il materiale di voto sul retro della tua autovettura ENTRO IL 7 GIUGNO e potrai partecipare a questo concorso gratuito. LE AUTOVETTURE IN CIRCOLAZIONE MUNITE DI QUESTO ADESIVO POTRANNO ESSERE FOTOGRAFATE E FRA QUESTE NE SORTEGGEREMO 9. OGNI VINCITORE SI AGGIUDICHERÀ UNA CARTA REGALO MIGROS DEL VALORE DI FR. 500.– Su Azione di lunedì 30 giugno 2014 saranno pubblicate le fotografie vincitrici – www.azione.ch Non sei socio? Richiedi questo adesivo* al punto accoglienza clienti del tuo supermercato Migros. * Fino ad esaurimento delle scorte

CONDIZIONI DI PARTECIPAZIONE La partecipazione al concorso non implica nessun obbligo d’acquisto. Possono partecipare tutte le persone legalmente domiciliate in Svizzera che hanno compiuto 18 anni. I vincitori se possibile saranno avvisati da Migros Ticino per iscritto o potranno annunciarsi telefonicamente (nel caso il numero di targa fosse protetto) a partire dal 30 giugno 2014 allo 091 850 82 95. Migros Ticino non è tenuta a effettuare ulteriori ricerche. Se entro il 30 settembre 2014 i vincitori non si saranno annunciati, il premio decade. I premi non vengono corrisposti in contanti.


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Società e Territorio

La salute è per tutti Incontri Primis è il servizio dell’Associazione Zonaprotetta che svolge attività di promozione della salute

e di sostegno alle persone che si prostituiscono. Ne parliamo con la coordinatrice Vincenza Guarnaccia

Sara Rossi «Per me non sono prostitute, ma prima di tutto donne». Vincenza Guarnaccia è psicologa, ha lavorato negli anni Novanta con malati terminali, sostenendo le persone sieropositive e seguendole nelle varie fasi della malattia fino all’accompagnamento alla morte. Oggi lavora anche per Radix Svizzera italiana sui temi delle dipendenze e coordina il servizio Primis, che svolge attività di promozione della salute, aiuto e sostegno rivolte alle persone che si prostituiscono e che fa parte di Zonaprotetta, associazione per i diritti e la salute nella sfera sessuale.

«Per me le prostitute hanno un nome, sono Maria, Giovanna, Francesca... insieme tentiamo di migliorare le loro condizioni di vita e di lavoro» Andiamo a trovarla nel suo ufficio di Via Bagutti, in piazza Molino Nuovo. La porta è bella, invita a entrare anche se da fuori non si capisce subito di che cosa si tratta. Si entra nello spazio di Zonaprotetta che è uno sportello di consulenza e informazione per tutta la popolazione sui temi della salute sessuale. Zonaprotetta è nata nel 2008 dall’Associazione Aiuto Aids Ticino, la quale ora è diventata uno dei servizi sotto il cappello «Zonaprotetta». L’associazione si rivolge a chi è affetto dal virus dell’Hiv, ma ha assunto anche moltissimi altri ruoli, in particolare: prevenzione e animazione nelle scuole sui vari temi che toccano la sessualità; sportello sulla strada per ogni domanda relativa alla salute sessuale, l’orientamento sessuale e la prevenzione delle infezioni sessualmente trasmissibili; nei contesti educativi informa e forma studenti e docenti su omofobia, bullismo omofobico; anima gruppi di auto aiuto per persone sieropositive e accoglie persone con il virus e i loro famigliari. E poi c’è Primis, la costola di Zonaprotetta che è attiva sul territorio come punto di riferimento per chi lavora nella prostituzione. «Non ci occupiamo specificatamente di rivendicare diritti sindacali o sociali, come alcune associazioni a Berna o a Ginevra», racconta Guarnaccia. «ma cerchiamo di offrire aiuto e sostegno a chi esercita questo mestiere

La psicologa Vincenza Guarnaccia coordinatrice del servizio Primis. (Stefano Spinelli)

affinché esso sia svolto in maniera libera e indipendente e per permettere ai nostri utenti di conoscere i propri diritti. Andiamo negli appartamenti e nei bordelli, distribuiamo materiale informativo, parliamo di prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili, lasciamo un kit e il nostro numero di telefono». La trousse contiene sia materiale di prevenzione (preservativi maschili e Femidon, lubrificanti, tamponi intimi, sapone intimo ecc.) sia materiale informativo nelle diverse lingue sulle malattie sessualmente trasmissibili e sulla possibilità di effettuare screening di controllo. Con Vincenza Guarnaccia lavorano tre mediatrici culturali, tre donne che hanno avuto un’esperienza di migrazione dai tre Paesi di provenienza più frequenti nelle persone che esercitano la prostituzione: Romania, Brasile e Colombia. Nel rapporto 2013, redatto da Primis e da May Day insieme, si legge che «attraverso il lavoro di prossimità abbiamo incontrato direttamente nei luoghi di prostituzione (bar, saune, case d’appuntamento), 497 persone che si prostituivano, per un colloquio sui temi della prevenzione alle infezioni sessualmente trasmissibili. L’85% lavorava all’interno di un locale erotico, mentre il 15% all’interno di un appartamento

privato. Abbiamo cercato di contattare chi si prostituiva negli appartamenti utilizzando gli annunci sul giornale e su internet oppure attraverso il passa parola favorito dalle prostitute da noi già conosciute. La maggior parte delle sex workers proveniva dalla Romania (242), dal Brasile (92) e rimane alto anche il numero di prostitute di lingua spagnola originarie del Sud America, soprattutto Santo Domingo e Colombia (110), ma spesso con cittadinanza europea». Dall’anno scorso però le cose sono cambiate: con l’operazione di polizia Domino sono stati chiusi molti dei bordelli esistenti che non erano in regola (da 32 sono passati a 8); questo significa che la prostituzione si svolge ora più frequentemente negli appartamenti privati, invertendo le percentuali. Mentre parliamo di tutto questo, Vincenza Guarnaccia riceve una telefonata: è una persona che loro hanno incontrato e che chiama per dire che sarà operata. Grazie al lavoro di Primis, questa persona è andata a fare dei controlli ginecologici e le è stato diagnosticato un tumore. «Il lavoro di Primis prevede anche una linea telefonica nelle diverse lingue», specifica la psicologa. Per concludere con delle cifre, ci mostra che le richieste dell’anno scorso da parte di prostitute riguardanti prevalente-

mente problemi legati alla salute sono state 200; sempre nel 2013 sono stati effettuati più di 360 accompagnamenti ai diversi servizi della Rete di aiuto (soprattutto Pianificazione familiare, Pronto soccorso degli ospedali, May Day, ecc.). Le utenti hanno preso contatto con Primis, tramite la consulenza telefonica, soprattutto per disturbi e problemi a livello ginecologico (spesso sintomi di un’infezione sessualmente trasmissibile), test Hiv, contraccezione e gravidanze. Le mediatrici, nel limite del possibile, hanno accompagnato le utenti ai servizi per permettere una miglior comprensione delle informazioni mediche e terapeutiche. Diversi poi sono stati gli accompagnamenti d’urgenza ai pronto soccorso per svariati problemi di salute (infezioni batteriche, incidenti, svenimenti, ecc.). 27 persone attive nella prostituzione si sono infine rivolte allo sportello di consulenza per diverse ragioni: informazioni su Ist e Hiv, aiuto al rientro, situazioni di violenza e ricatto, problemi di salute, sostegno psicologico, aiuto nel disbrigo di pratiche burocratiche. «Più la persona è sola, più è a rischio sfruttamento», dice Guarnaccia. «Per questo è fondamentale creare un rapporto di fiducia con chi esercita questo mestiere, a forte rischio di stigma-

tizzazione, per permettere a chi si prostituisce di avere punti di riferimento sul territorio a cui rivolgersi in caso di bisogno e necessità». Lo sappiamo: non bisogna confondere prostituzione e tratta, non per forza c’è qualcuno che tiene la lavoratrice del sesso come schiava. Tuttavia, a monte c’è sempre una situazione disperata che spinge la persona a questa scelta e intorno, c’è sempre isolamento, perché conosci solo le tue colleghe che sono anche le tue concorrenti; sempre di più, si trovano donne con passaporto italiano o spagnolo, sopra i 40 anni, che dopo aver fallito altre strade, tentano questa come ultima possibilità. «Lavorare con persone sofferenti ti fa entrare in empatia, ti fa ascoltare di più, ti porta a superare pregiudizi e andare oltre a questi, ti mette in contatto con le tue paure», spiega Vincenza Guarnaccia. «Per me le prostitute hanno un nome, sono Maria, Giovanna, Francesca che vado a trovare e insieme a loro vediamo che cosa si può fare per migliorare le loro condizioni di vita e di lavoro. In fondo questo deve esserci per tutti: qualcuno che si preoccupa se stai bene, se sei rispettato sul lavoro o se hai problemi: ogni lavoratore dovrebbe sapere a chi rivolgersi quando qualche cosa non va».

I ragazzi si raccontano di Inês Marques Fonseca I falsi amici in scena

Se c’è una parola che per me conta, eccome, come per tanti miei compagni, è sicuramente amicizia. Certo, dev’essere sentita, vissuta, autentica; se non è così, è solo un suono vuoto, privo di ogni tipo di significato. Ecco, è di questo che abbiamo discusso durante un pomeriggio di scuola come tanti altri, all’interno di una lezione d’italiano, tra di noi e con il nostro docente. È stato bello e vorrei proprio raccontarvelo. Il martedì pomeriggio, dalle 13.20 alle 15.00, la mia classe, la 3D, ha due ore-lezione d’italiano. Mentre il lunedì mattina studiamo la grammatica, il giovedì alleniamo la scrittura e il venerdì in fine pomeriggio facciamo a turno delle presentazioni su dei temi a scelta, il martedì affrontiamo delle letture. Questa volta il maestro ci ha

proposto un racconto sull’amicizia scritto negli anni 50 da Alberto Moravia. Già il titolo è un programma: Gli amici senza soldi. Parla di un giovane signore, di nome Gigi, che ha appena superato una polmonite. Il medico gli consiglia di andare un mese in vacanza al mare, per recuperare pienamente. Sfortunatamente il protagonista non ha i soldi necessari per pagarsi il soggiorno. Così decide di andare a chiederli in prestito ai suoi amici al bar. Il risultato, però, è deludente: uno gli dice di non averli proprio, un altro di averli appena spesi e un terzo gli consiglia frettolosamente come potrebbe guadagnarli. Allora, tutto deluso, Gigi torna a casa, dove lo aspetta sua madre, poco sorpresa dall’accaduto e già pronta con i soldi in mano, dopo essere andata a impegnare certi suoi averi al Monte di Pietà. E così,

alla fine, Gigi si può permettere il mese di recupero al mare. Al termine della lettura abbiamo costruito delle domande per provare a capire cosa volesse trasmetterci l’autore. Le abbiamo scritte sulla lavagna, poi a coppie abbiamo sviluppato delle brevi risposte, che infine abbiamo letto e discusso in classe. Alla fine della lezione, sul filo del suono del campanello, il maestro ci ha dettato una breve conclusione. Il martedì seguente la classe ha cercato di interpretare il racconto, elaborando e rappresentando a gruppi delle brevi scenette, filmate e poi trasformate dal maestro in un video, sempre molto apprezzato dalla classe. Il mio gruppo, per una volta, è stato particolarmente ispirato, almeno così sembra. Ha presentato la storia di quattro amici che decidono di andare a mangiare una pizza al ristorante.

Quando entrano nel locale, si siedono vicino al bancone, ordinano un abbondante pasto e iniziano a commentare i risultati calcistici della serata precedente. Io occupo il ruolo dell’inserviente, che prima prende l’ordinazione, poi porta, si fa per dire, il cibo e le bevande e, infine, consegna il conto. A questo punto la situazione si fa delicata: un ragazzo dopo l’altro s’inventa una scusa per uscire dal locale, lasciando un apparente amico solo con il conto in mano, costretto a pagare tutto di tasca sua. Il ragazzo ingannato si guarda attorno sconsolato, prima di aprire il suo portafogli, estrarre i soldi ed esclamare deluso: «Che begli amici che ho!». Qui finisce la scenetta, con qualcuno tra il pubblico che grida spontaneamente: «Ma poveretto!». Al termine delle rappresentazioni, abbiamo ragionato sui protagonisti del-

le vicende, sui luoghi prescelti, sugli avvenimenti presentati e sulle diverse morali emerse, costruendo una tabella che ci ha permesso di paragonare le varie scenette. Alla fine, anche questa volta, il maestro ci ha dettato una conclusione. Io, però, vorrei raccontarvi la mia. Per me l’amicizia richiede due ingredienti fondamentali: l’onestà e la fiducia. Se ci sono, si può costruire un vero rapporto d’amicizia, che è un po’ come possedere un tesoro. Forse non lo vedi, ma è al tuo fianco nei momenti difficili della vita, facendoti vivere delle emozioni intensissime e ricordandoti che, in un certo senso, siamo uguali tra di noi. Testi corretti dal professor Gian Franco Pordenone


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Società e Territorio

Netiquette: il computer educato Alfabeto digitale Le regole di comportamento telematico

per rendere equilibrati e rispettosi gli scambi di messaggi sulla rete

Ugo Wolf A proposito dei 25 anni di Web: ci è capitato in questi giorni di ritrovare in rete uno dei vecchi manuali pubblicati allora e che contenevano le prime istruzioni introduttive all’esplorazione del nuovo continente informatico. Uno dei capitoli più divertenti, poiché ormai obsoleto, è quello dedicato alle regole di buona creanza digitale. Si chiamava Netiquette, cioè «etichetta» della rete. Il termine è ancora in uso e indica il codice di comportamento in termini di buona educazione e di rispetto reciproco che sarebbe utile tenere nelle interazioni telematiche tra esseri umani. La lettura odierna di quel testo, quasi un reperto archeologico, stupisce, diverte, e fa pensare. Quante cose sono cambiate in due decenni nel galateo informatico. A rileggere le serie prescrizioni di allora sembra di capire che il popolo degli «internettiani» fosse composto da aristocratici, o da ferrei adepti della politically correctness. Un esempio: «Nella comunicazione via posta elettronica è assolutamente da evitare l’uso eccessivo delle lettere maiuscole. Esse infatti possono essere interpretate dal ricevente come una fastidiosa espressione enfatizzata, paragonabile a un tono di voce urlato». E a proposito di emoticon: «La comunica-

zione scritta in forma elettronica è carente da un punto di vista emozionale. Ecco perché stanno prendendo piede pittogrammi tipografici, che vogliono permettere di comunicare lo stato d’animo di chi scrive. Si consiglia comunque di limitarne l’uso, anche perché non è detto che la persona alla quale li inviamo sia in grado di decifrarne esattamente il significato. Uno smiley non renderà immediatamente felice il vostro corrispondente, specialmente se gli avete appena inviato un messaggio offensivo». Bastano questi due piccoli esempi per mostrare come si è trasformata in due decenni la percezione del dialogo digitale: oggi la scrittura URLATA e l’uso di emoticon sono decisamente alla base di gran parte della nostra comunicazione quotidiana. L’impressione è anzi che le persone passino più tempo a spedirsi faccine che ridono, cuoricini e manine che fanno ciao, di quanto ne usino a scrivere frasi di una certa importanza comunicativa. In effetti l’«etichetta» di Internet è sempre più orientata verso il canale visivo, in una sorta di dialogo veloce che privilegia l’interazione breve, fulminea, iconica. Questo non vuol dire che una serie di regole non vada comunque mantenuta e debba essere insegnata ai nostri figli o a chiunque impara a misu-

rarsi con il mondo digitale. Si tratta ad esempio di regole di sicurezza base (del tipo «non fornire inutilmente informazioni riservate legate alla tua vita privata; non raccontare cose troppo intime che riguardano te o i tuoi amici, perché possono essere utilizzate in modo improprio», ecc.) ma anche regole pratiche del tipo: «ricordati di inserire sempre un oggetto pertinente nel campo apposito delle email che invii, in modo che chi le riceve sappia capire immediatamente di cosa stai parlando»: un consiglio molto importante ad esempio per chi spedisce un curriculum per una ricerca di lavoro. Il vecchio manuale che abbiamo per le mani, comunque, offre abbondanti spunti di riflessione, anche perché dimostra quanto siamo ormai abituati alla «diseducazione» informatica. Si veda ad esempio la regola: «Non spedire mai email a catena; le catene di messaggi sono proibite su Internet» (chi è senza peccato…). Nella sezione in cui la Netiquette si applica al comportamento da tenere nei newsgroup (un mezzo di comunicazione di gruppo oggi ormai abbandonato e soppiantanto dai social network) si legge: «Considera che un gran numero di persone leggerà i tuoi post. Compreso il tuo attuale o il tuo futuro capo. Attento a quello che scrivi». Un consiglio di

Email e post: una questione di rispetto reciproco. (Keystone)

grande utilità che giriamo immediatamente agli utenti di Facebook. Infine, per chiudere in bellezza questo ritorno al passato (rimandando gli interessati all’esaustiva pagina di Wikipedia sull’argomento), ecco la più saggia e confuciana delle regole dell’etichetta web: «Sii conservatore in quello che spedisci e sii liberale verso quello che ricevi. Non inviare post con messaggi

rabbiosi (detti flames, fiamme) nemmeno se provocato. D’altro canto, non sorprenderti se qualcuno potrà prendersela con te e sii prudente quando rispondi ai flames». A 20 anni di distanza dalla sua formulazione, leggendo certe catene di commenti alle news sui siti di informazione odierni, questa regola appare, se non dimenticata, perlomeno molto, molto trascurata. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 26 maggio 2014 ¶ N. 22

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Attualità Migros

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Scuola Club Migros Ticino Tra i corsi offerti, la possibilità di ottenere l’attestato federale

Solidarietà Migros

per insegnare agli adulti La Scuola Club Migros, nata alla fine degli anni quaranta dalla volontà di Gottlieb Duttweiler che considerava la formazione per tutti un «modo per restituire qualcosa alla società», è la maggiore istituzione per la formazione degli adulti della Svizzera. Alla base del successo di un’offerta che va dai corsi di lingue a quelli per il tempo libero, dal fitness alle formazioni con diploma, vi sono l’impegno continuo nei confronti della qualità e la costante attenzione all’aggiornamento delle proposte formative. Questo approccio caratterizza in modo particolare il percorso formativo per conseguire l’Attestato professionale federale di formatore della Federazione svizzera per la formazione degli adulti (FSEA). La Scuola Club offre possibilità di frequentare tutti e cinque i moduli che portano all’ottenimento di questo titolo di studio. Per chi desidera dedicarsi all’insegnamento di adulti è ormai necessario avere una formazione di questo genere, non solo perché il diploma rappresenta un importante requisito per trovare lavoro quale formatrice o formatore, ma anche perché le esigenze specifiche di chi segue i corsi sono molto cambiate. A differenza di un tempo, oggi la formazione continua è infatti sempre più richiesta, e seguita, per motivi professionali: per aggiornarsi, per acquisire migliori competenze linguistiche da utilizzare nel proprio contesto lavorativo, per riorientarsi professionalmente.

Il primo modulo, al termine del quale si può ottenere il Certificato FSEA, costituisce la base della preparazione complessiva. I futuri formatori imparano ad animare un corso rivolto a un pubblico di adulti seguendo un’impostazione data e avvalendosi di supporti didattici già esistenti. I livelli successivi, che portano all’ottenimento dell’Attestato federale, permettono di approfondire vari aspetti specifici: dalla progettazione di un modulo o di un intero corso di formazione, alla strutturazione delle singole lezioni,

dalla gestione delle dinamiche di gruppo all’attività di consulenza in ambito formativo. La formazione permette inoltre di acquisire competenze trasversali alle diverse discipline, nonché fondate conoscenze per quanto riguarda le opportunità formative esistenti sul territorio. Al termine del percorso, il formatore è in grado di strutturare autonomamente un’offerta formativa, progettandone i contenuti e curando tutti gli aspetti che ne permettono la realizzazione. Il primo modulo, «Animare cor-

si per adulti», si svolge nell’arco di 14 sabati. Una scelta fatta per consentire a chi lavora tutta la settimana di poter seguire il corso nonostante gli impegni lavorativi. Il certificato di fine corso abilita a tenere corsi in tutte le istituzioni di formazione per adulti sul territorio elvetico. Per chi vuole fare dell’insegnamento agli adulti una professione questo certificato è infatti considerato indispensabile in tutta la Svizzera, a prescindere dalla disciplina trattata. L’aspetto centrale è però rappresentato dal fatto che questa formazione rappresenta l’occasione di mettere in pratica talenti e inclinazioni, facendoli diventare insegnamento per un pubblico adulto. Quando parliamo di formazione continua va infatti considerato che le conoscenze da trasmettere possono essere, e sono, molto diverse – dalle lingue alle discipline tecniche, dal benessere, all’arte, alla fotografia. Chi è molto versato in un campo del sapere può reinventarsi e proporsi come docente, ma per insegnare e gestire gruppi di adulti non sono sufficienti nozioni tecniche specifiche e una buona conoscenza della disciplina insegnata. È altrettanto fondamentale possedere le competenze che permettono di accostarsi all’insegnamento in modo professionale. La Scuola Club, sempre rigorosa e attenta nella scelta del personale docente, investe molto in questa formazione, anche perché le permette di coltivare e far crescere nuovi professionisti.

lo dona alle vittime delle inondazioni in Serbia, Bosnia e Croazia

La Federazione delle Cooperative Migros ha deciso di destinare mezzo milione di franchi al fondo di aiuto creato dalla Croce Rossa Svizzera per sostenere le regioni colpite dal maltempo, dove molte persone hanno perso le loro case, decine di migliaia sono in fuga e sono costrette a vivere senza elettricità e acqua corrente. Le associazioni locali della CRS offrono sostegno alla popolazione colpita nella gestione dell’evacuazione e forniscono aiuti materiali essenziali quali generi alimentari di prima necessità, acqua, vestiti, articoli per l’igiene e coperte di lana. Le stesse associazioni hanno inoltre allestito alloggi d’emergenza e ricevono il sostegno della CRS per i loro interventi sul posto. «Tutti noi abbiamo amici, conoscenti e colleghi di origine balcanica e numerosi nostri collaboratori hanno famigliari nelle zone sinistrate. Le immagini dell’inondazione del secolo non possono lasciarci indifferenti. Grazie alla donazione alla CRS possiamo contribuire tempestivamente e senza complicazioni burocratiche a lenire la sofferenza dei colpiti» dichiara Herbert Bolliger, presidente della Direzione generale della FCM. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 26 maggio 2014 ¶ N. 22

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Società e Territorio Rubriche

Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni La storia non va dimenticata S’è dato molto spazio, nei giornali, alla notizia delle studentesse liceali sequestrate dal movimento integralista islamico Boko Haram in Nigeria: sono state rapite perché «infettate» di cultura occidentale a causa dei loro studi, e ora saranno vendute perché « appartengono ad Allah». I giornali, si sa, danno risalto alle notizie che meglio possono colpire l’opinione pubblica: e questo episodio indubbiamente fa scalpore perché nega i princìpi sui quali abbiamo edificato la civiltà contemporanea. Nella mentalità nostra i diritti umani prevalgono sulle questioni di fede; la tolleranza è diventata uno dei cardini della nostra civiltà; a noi, oggi, sembra disumano voler costringere con la forza ad abiurare una fede per abbracciarne un’altra. Senonché, questo incredulo stupore di fronte a una simile manifestazione di fanatismo religioso sembra ignorare che esso è anche storia nostra. Un paio

di settimane fa alcuni giornali davano la notizia di un episodio accaduto in Giordania: una ragazza che si era convertita all’Islam è stata uccisa dal padre cristiano. La notizia ha avuto ben poca risonanza mediatica, e comunque di quel che si legge nei giornali si può sempre dubitare. Non c’è alcun dubbio, invece, riguardo alla vicenda di Edgardo Mortara, un bambino ebreo che nel 1858 fu sequestrato per ordine delle autorità vaticane e mai più restituito alla sua famiglia. All’età di un anno il bambino era stato battezzato dalla domestica, di nascosto e all’insaputa dei genitori; le leggi dello Stato Pontificio imponevano l’obbligo di impartire un’educazione cattolica a tutti i battezzati, e dunque il piccolo Mortara fu tolto alla sua famiglia ebrea e da Bologna fu portato in un collegio di Roma. Quando il «caso Mortara» divenne di dominio pubblico ne nacque uno scandalo internazionale: ma

tutte le suppliche e gli appelli fatti alla Chiesa perché il piccolo fosse restituito ai genitori vennero respinti. Si era allora a metà dell’Ottocento e il rapimento del piccolo ebreo urtava la sensibilità nuova che si era andata formando a partire dall’Illuminismo e dall’affermazione dei diritti dell’uomo e della libertà di culto (quei diritti e quella libertà che papa Pio IX condannerà senza appello definendoli «deliramenti» nel Sillabo del 1861); ma quanta violenza in nome del sacro era stata consumata fino ad allora, a partire dall’alleanza dei cristiani con l’imperatore Costantino e poi costantemente per quindici secoli? Come avveniva la conversione dei pagani e dei barbari nell’alto Medioevo? Quante furono le conversioni forzate degli ebrei al cristianesimo, sotto tortura e con minaccia di morte? Come avvenne che gli abitanti del Nuovo Mondo furono convertiti in massa dai conquistadores

e dai missionari al loro seguito? Chi vuole saperlo non ha che da leggersi i libri di storici di valore come Freeman, Peter Brown, Duby, Poliakov, Todorov, Calimani, Craveri, Ginzburg… Ma per molti – la maggioranza, temo – questa storia è coperta da un velo fitto d’ignoranza che porta a drastiche distinzioni: da una parte i buoni (noi, solitamente), dall’altra i cattivi. La storia non va così: mescola il bene e il male senza separazioni nette e senza riguardo per le varie fedi: c’è bene e male nell’islamismo, ce n’è e ce n’è stato nel cristianesimo, e prima ancora nell’ebraismo. Nessuna delle religioni – e tanto meno le tre monoteistiche – va immune dal fanatismo, dall’integralismo, dalla violenza e dalla crudeltà. Rendersene conto e ricordarlo è importante anche oggi, quando i rigurgiti di fanatismo religioso sembrano riemergere dal passato e, come scrive Huntington, stiamo avviandoci a uno

«scontro delle civiltà». È risaputa la tendenza umana a ritenere che il mondo sarà sempre, grosso modo, come lo si è conosciuto, senza scossoni e sconvolgimenti devastanti. «A memoria di rosa – diceva Fontenelle – non si è mai visto morire un giardiniere»: analogamente, di primo acchito sembra impossibile che le conquiste della nostra civiltà possano dileguare insieme ai nostri valori e che il cammino della storia possa volgersi a ritroso. Ma nulla dura per sempre: come diceva Kant, «noi non siamo nati per costruire capanne eterne». Riconoscere dunque che la luce proietta anche ombre e saper distinguere il bisogno di Assoluto dalle voci di uomini che dichiarano di sapere ciò che Deus vult – «Dio lo vuole» – è importante, per non cadere nella tentazione di opporsi con fanatismi ad altri fanatismi. Una buona conoscenza storica è la migliore lezione di tolleranza.

rige in pochi secondi in bocca: non ho parole. Il sogno si completa attraverso un sorso guizzante di Räuschling del lago di Zurigo e dalle semplici patate al vapore cosparse di erba cipollina. La carne della trota fario è soda, ma al contempo si scioglie in bocca emanando sentori appena accennati di foglie di alloro, chiodi di garofano e forse timo. Mangio al rallentatore. «Celestiale, celestiale» sento ripetere al tavolo a fianco dai quattro pensionati capeggiati da un parroco, alle prese con il Gitzi urano, che è poi il capretto. Altro cavallo di battaglia, da Pasqua a Pentecoste: luccica fin qui. Greta svela ai suoi ospiti meravigliati l’uso del marsala e il motto per la salsa: «sempre ridurre un po’ e poi ridurre ancora un po’». Sbuca ora la terza sorella dalla cucina, Leonie. Per capire questo miracolo, va detto, le tre sorelle Sicher, assieme, hanno duecentocinquantadue anni. Chiedo a Greta come fa a fare quella piega alla trota: «fa tutto da sola, è la freschezza». La mia

trotella è stata pescata stamattina in un ruscello della Madranertal. Il tempo delle trote va da aprile a settembre, se ci sono. Ne vorrebbero di più, ma il problema è che quando i pescatori hanno una fidanzata, vanno meno a pescare, mi spiega questo monumento vivente della cucina semplice e dell’accoglienza sincera senza tante smancerie. Dopo il dessert – Brischtner-Birä, strepitose pere caramellate nel vino e cannella con gelato alla vaniglia e panna – Greta si siede al mio tavolo e parliamo di funghi, cacciagione, e ancora di trote. Il blu della trota si crea alchemicamente con aceto bollente e il muco rimasto sulla pelle che ha solo una trota freschissima di montagna. Se l’eccellenza del cibo crea un luogo, anche le persone contribuiscono, e questo luogo unico animato dalle tre sorelle di Gurtnellen, mi sbilancio, ma è un biotopo dell’anima. «Paradies! Paradies! Paradies!» sento di continuo dal parrocco occupato con la seconda portata di capretto.

i prolungati trattamenti per forme tumorali, forse guaribili, che calano il paziente in una situazione ambigua, fra speranza e sofferenze, rese sopportabili grazie alle cure palliative. Ecco le vittime di incidenti, salvate ma poi destinate al coma. Ma con quali prospettive? Qui si arriva, inevitabilmente, al tema insidioso dell’eutanasia, quella attiva in particolare, che divide leggi, opinioni, sentimenti. L’autore l’affronta, chiaramente schierato a favore della libertà di scelta individuale rispettando, però, chi, si rimette a una volontà superiore. Tutte queste situazioni hanno continuato ad allargare la sfera dei contatti fra chi presta cure e chi le riceve attribuendo una crescente importanza alla comunicazione. Ci si deve, innanzi tutto, parlare. Il che ha chiesto al medico lo sforzo di uscire dal linguaggio specialistico per adottare quello corrente. Non è però soltanto questione di parole. Come osserva Noseda, bisogna «entrare nel corpo e nella mente del paziente». Intuirne le necessità, met-

tersi in sintonia con lui. Oggi i medici, soprattutto il medico di famiglia, categoria riscoperta e rivalutata, ci provano: cercando d’instaurare un rapporto basato, non più sulla sudditanza ma sulla parità. Certo, il dottore, già la parola di per sé, non incute più soggezione. Dal canto suo, il paziente ha imparato a far valere le proprie ragioni e persino, a volte, sfoggiando una presunta competenza scientifica, beccata su internet. Distanze abbreviate, quindi. Tuttavia, alla figura del medico si attribuisce sempre un aspetto demiurgico che intimorisce: è lui, insomma, il responsabile della nostra sopravvivenza. Si tratta di un pregiudizio, di fantasia, radicati nel nostro immaginario che, appunto, Giorgio Noseda s’impegna a smentire con questo libro, di gradevole lettura, ricco (forse troppo) di citazioni: pagine in cui il medico confessa la sua vulnerabilità di uomo di scienza tutt’altro che onnipotente, alle prese, invece, con insicurezza e sconfitte. Insomma, uno come tutti noi.

Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf Le tre sorelle di Gurtnellen Oltre alle tre sorelle di Čechov, esistono altre tre sorelle altrettanto teatrali: a Gurtnellen. «A Mosca! A Mosca! A Mosca!» è la celebre battuta di Irina alla fine del secondo atto delle Tre sorelle che rappresenta il sogno vano di tutte e tre, relegate in provinvia, di tornare a vivere a Mosca. Le tre sorelle di Gurtnellen gestiscono invece un ristorante dal 1973, il ristorante Gotthard, continuando la tradizione di famiglia iniziata dai loro genitori, originari del Südtirol, nel 1931. Di questo posto me ne hanno spesso parlato i miei, un loro luogo di sosta andando in macchina oltregottardo o viceversa. La loro specialità è la trota al blu. Le pesca a pochi passi da lì, nella Reuss, un pescatore amatoriale di fiducia. Hanno sempre detto «dalle tre sorelle a Gurtnellen», mai ristorante Gotthard, e sempre queste lodate trote che non ci sono sempre. Ho sempre fantasticato di andarci, però poi ho sempre accantonato l’idea. Ma quando la settima-

na scorsa mio papà mi ha descritto l’ennesima trota al blu, da cospargere con il burro fuso, e ancora l’atmosfera speciale creata dalla cura dei dettagli delle tre sorelle, mi son detto: ci vado. Scrivo il pezzo sulle tre sorelle: a Gurtnellen, a Gurtnellen, a Gurtnellen. Scendo dal treno a Göschenen alle 11.07, gelo fantascientifico, meno cinque. In attesa del bus per Gurtnellen, guardo una vetrina di un negozio chiuso di minerali. Un quarto d’ora di bus, fermata Wiler, frazione di Gurtnellen adagiata nel fondovalle accanto alla Reuss, sotto la Gotthardstrasse. Un drago d’oro con lingua fuori annuncia Hotel Gotthard Restaurant, come c’è scritto sull’insegna al quale è appesa. Un’antica leggenda urana si assorella così a una leggenda culinaria. E dunque, all’ora di pranzo verso la fine di maggio, entro dalle tre sorelle di Gurtnellen (737 m). La gatta Lilli mi dà il benvenuto facendo le fusa, mentre Evi, la sorella più anziana, mangia

tranquilla. La prima sala è anche un luogo di ritrovo per un caffè o un bicchiere di vino, visto che qui non c’è niente. La sala da pranzo ha sette tavoli con immacolate tovaglie d’altri tempi. Sul tavolino c’è un vaso di glicini selvatici blu, sedie in pelle verde jaguar, pareti di legno. La cameriera porta il fornellino con il burro fuso. Accende la candela. È il gran momento. Arriva Greta con la trota sotto una campanacopripiatto d’argento irresistibilmente retrò: scoperchia il piatto e rimango a bocca aperta. Non aveva enfatizzato per niente il giornalista della «NZZ» titolando il suo articolo Una meraviglia blu scuro. Innanzitutto attrae questo blu profondo, ma c’è anche la piega da considerare: una sublime contorsione. La spello con l’apposito coltello su cui c’è in rilievo un bel luccio e la pelle viene via che è un piacere. Si scopre così il rosa antico della carne. L’innaffio con il burro che ora si è punteggiato di marroncino e il primo pezzettino si di-

Mode e modi di Luciana Caglio Medici-pazienti: distanze ravvicinate Hanno un crescente bisogno di parlare, di parlarsi, di parlarci i medici di oggi. E lo fanno, al di là dei convegni e dei dibattiti su temi specialistici, scegliendo le pagine di un libro: che rappresenta una sorta di confessionale, dove ci si esprime anche in forma confidenziale. Succede, in Italia, per citare l’esempio più noto, con Umberto Veronesi, e succede in Ticino. Dopo, Franco Cavalli, con La grande sfida, è adesso la volta di Giorgio Noseda con Una finestra nella tua casa (Capelli editore). Un titolo curioso di cui l’autore spiega il significato: grazie alle cure, in particolare a quelle palliative, si apre una finestra nella casa, altrimenti chiusa, abitata dal malato. Ora, questa stessa finestra dischiude, al lettore, anche l’universo stesso del medico rivelando, appunto, il suo bisogno di uscire dal proprio guscio: abbreviando le distanze dai malati. Che, in tempi non poi lontani, erano invalicabili, quando la figura del medico coincideva con quella, autorevole e autoritaria, del dottore. Oggi, come osserva

Noseda, è scomparsa. Spazzata via, al pari di altri personaggi, simboli del «sistema», dal vento della contestazione. Con ciò il potere, di cui era detentore il signor dottore di stampo tradizionale, quello che si affidava al

Il dottor Giorgio Noseda. (CdT - Maffi)

famoso occhio clinico, appartiene pur sempre alla categoria. È passato nelle mani di una nuova generazione di medici che si affidano alla tecnologia, con il rischio di diventarne dipendenti. Un rischio, del resto, condiviso dagli stessi pazienti. Entrambi, medici e malati, subiscono l’illusione dell’infallibilità di macchine e farmaci in grado di guarire tutto e tutti, allontanando a tempo indeterminato il fin di vita. La realtà, anche in un’epoca di enormi progressi che Giorgio Noseda ha vissuto al fronte, in un’esperienza ospedaliera diretta, doveva rivelare risvolti ben diversi e persino contraddittori. A partire dalla longevità, privilegio delle società occidentali, che però ha prodotto, a sua volta, altre patologie e altri disagi. Sollevando interrogativi d’ordine scientifico, etico, filosofico, religioso, non da ultimo economico, ancora senza risposta. Ecco gli anziani, alle prese con l’Alzheimer, che impongono al medico un nuovo genere di approccio nei confronti di forme di vita, in apparenza svuotate. Ecco


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Ambiente e Benessere Dal Verbano ai Navigli Un viaggio in gommone da Ascona fino a Milano

Addio ai Mondiali di Minsk La Svizzera perde la possibilità di centrare il traguardo dei quarti di finale, ma almeno non è retrocessa pagina 16

La frontiera del mondo Lampedusa, una bella isola nell’Arcipelago delle Pelagie da tempo icona di un turismo contemporaneo

Urgenze e primi soccorsi Dall’ordine dei veterinari un vademecum per le emergenze

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Conoscere e curare il cervello grazie alla luce blu è davvero possibile? (Rosa Menkman)

Per conoscere e curare il cervello Medicina di domani La optogenetica ha già stimolato sperimentazioni in vari settori della medicina dalle quali,

sia pure con certe limitazioni, si attendono utili risultati – Seconda e ultima parte Sergio Sciancalepore Nell’articolo apparso sul numero della scorsa edizione di «Azione» sono state descritte alcune tappe fondamentali che hanno permesso di costituire una nuova scienza, l’optogenetica, la quale unisce le conoscenze e le tecnologie dell’ottica e quelle della genetica. Riprendiamo il filo del discorso, partendo dall’esperimento eseguito nel 2005 dall’équipe di neuroscienziati diretta da Karl Deisseroth dell’università statunitense di Stanford, con il quale si dimostrò che è possibile influenzare il funzionamento delle cellule nervose (neuroni) in modo preciso e specifico, utilizzando le proprietà di certe proteine (le opsine) prelevate da alghe o batteri e un raggio di luce di un certo colore. L’anno successivo, Deisseroth decise di provare se fosse possibile influenzare l’attività di neuroni non più isolati in una provetta ma organizzati in strutture complesse, le aree cerebrali, in cervelli interi di animali vivi. Dopo aver praticato un forellino nel cranio di topi anestetizzati, venne infettata con i virus vettori della opsina ChR2 una parte della corteccia cerebrale, dove si trovano i neuroni che comandano alcuni movimenti: attraverso lo stesso foro, venne infilato un sottile filo di fibra ottica per illuminare da vicino, con la luce blu, quella zona di

corteccia motoria. Deve essere scoppiato un fragoroso applauso nel laboratorio di Deisseroth quando, all’accendersi della luce blu, i topi iniziarono a compiere certi movimenti che cessavano appena la luce si spegneva: le opsine, trasportate dal virus vettore iniettato in quella zona della corteccia, si erano integrate nei neuroni e, stimolate dalla luce blu, avevano attivato quelle cellule, e solo quelle. Evidentemente, ciò che si può realizzare con neuroni isolati, è possibile farlo anche su aree di cervelli interi di animali vivi. I successi dell’équipe di Deisseroth spinsero molti laboratori a fare un ulteriore passo avanti che avrebbe potuto avere importanti conseguenze per la cura di malattie come quella di Parkinson. Nel Parkinson, per motivi non ancora ben noti, si verifica la distruzione dei neuroni di una zona del cervello, denominata Sostanza nera: tale distruzione provoca i ben noti sintomi della malattia, come l’alterazione dei movimenti e la rigidità. Per curarla si usano farmaci specifici che però, con il tempo, possono non fare più effetto: in tal caso si può ricorrere alla stimolazione cerebrale profonda (sigla in inglese, DBS), posizionando – con un intervento chirurgico – un sottile elettrodo a contatto con un’altra area del cervello, il Nucleo subtalamico. La DBS funziona come un pacemaker cardiaco, inviando una sti-

molazione elettrica che normalizza la situazione: tuttavia, poiché la corrente si diffonde (inevitabilmente) anche in altre parti del cervello adiacenti a quella trattata con la DBS, si possono avere effetti indesiderati anche di una certa importanza. E se provassimo – pensò Deisseroth – a usare la luce invece della corrente, più precisa, come gli ormai molti esperimenti di optogenetica dimostrano? Fu così che sui topi – nei quali la malattia era stata indotta artificialmente – venne provato l’uso della luce blu sui neuroni del Nucleo subtalamico modificati, con le consuete procedure, introducendo la opsina ChR2, quella che si attiva con la luce blu: il risultato fu eccellente e la precisone della procedura optogenetica permise di non avere effetti indesiderati. Stessi buoni risultati sono stati ottenuti con la cura dell’epilessia sperimentale usando modelli animali della malattia. Naturalmente, l’applicazione di un tale metodo sull’uomo richiederà ancora una lunga sperimentazione, tuttavia le potenzialità dell’optogenetica appaiono già ben delineate. Un’altra possibile applicazione riguarda l’uso dell’optogenetica per lo studio della struttura e del funzionamento di centri nervosi del cervello e delle loro connessioni, oggi non ancora ben conosciuti: a tal proposito, di grande interesse, è la possibilità – in

parte, sperimentalmente, già attuata – di combinare l’optogenetica con la Risonanza magnetica funzionale. Un altro, importante passo avanti, è l’avvio di sperimentazioni di optogenetica su cervelli più simili a quelli di noi umani, come quelli delle scimmie. Poiché la ricerca optogenetica è in pieno sviluppo, un altro settore in cui questa scienza potrebbe dare un importante contributo – non tanto per la cura quanto per la migliore conoscenza dei meccanismi che determinano certe situazioni nelle quali è coinvolto il cervello – è quello delle dipendenze, ad esempio da droghe o alcol. Chiariamo subito che, finora, non è mai stato dimostrato che chi diventa dipendente è perché ha anomalie del cervello che lo rendono tale: però sappiamo – grazie a studi di neurofarmacologia – che quando si instaura un abuso di sostanze e quindi una dipendenza, si sviluppano, si attivano in modo anomalo centri e vie nervose del cosiddetto «rinforzo», quelle cioè che spingono a cercare e assumere droghe o alcol. Sono già in corso ricerche sperimentali con le precise tecniche optogenetiche su animali come i topi – sì, la ricerca biomedica dispone di topi alcolisti e tossicodipendenti! – per capire meglio le modificazioni cerebrali conseguenti alla dipendenza: l’intento è quello di poter disporre di farmaci in

grado di agevolare l’uscita dalla dipendenza nei casi più gravi. Ancora più delicato è il discorso circa l’uso dell’optogenetica nel campo dei disturbi psichiatrici come la depressione, l’ansia e gravi malattie psichiche come la schizofrenia: in questo caso, ovviamente, i modelli animali riproducono solo in parte queste malattie, non essendo possibile ricreare sintomi e situazioni spiccatamente umane. Per la depressione, tuttavia, sono state già avviate sperimentazioni su animali con l’optogenetica per capire meglio quali strutture cerebrali potrebbero essere coinvolte e in che modo, allo scopo, per esempio, di avere farmaci efficaci anche nei casi – riguardano circa un terzo dei malati di depressione – nei quali i medicamenti hanno poco o nessun effetto. Davvero interessante la storia dell’optogenetica, nata quarant’anni fa dall’osservazione del fenomeno dell’uso dell’energia luminosa da parte di alghe e batteri, un fenomeno che allora, probabilmente, nessuno pensava avesse a che fare con il cervello. Non è retorica, davvero la ricerca scientifica a volte ti fa imboccare strade che non sai dove ti condurranno: l’importante è percorrerle. E magari, tra qualche anno, lungo la strada della ricerca optogenetica, il professor Karl Deisseroth si imbatterà anche in un Premio Nobel per la medicina.


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Ambiente e Benessere

Navigando verso l’Expo Reportage In attesa della grande esposizione ripercorriamo, a bordo di un gommone, il percorso storico

e culturale che unisce il Ticino a Milano

Claudio Rossetti

Era il 29 ottobre dell’anno 1584, l’orologio della chiesa della parrocchia di Ascona segnava mezzogiorno. Dal porticciolo situato sul lungolago del Borgo, saliva un uomo stanco e molto malato: San Carlo Borromeo. Dopo aver navigato tutta la notte – proveniva da Cannobio – era giunto per inaugurare il nuovo seminario e consegnare tredici lettere a sacerdoti, nobili e laici. Febbricitante, venne colpito da un nuovo e più violento attacco di febbre, per cui decise di rientrare a Milano sull’idrovia. Fu adagiato su un lettuccio e posto su una barca che, navigando prima sul lago Maggiore, poi sul Ticino e sul Naviglio Grande, lo condusse fino all’approdo di San Cristoforo, a due miglia da Milano. Da qui, in lettiga, venne portato in arcivescovado: era la sera dei Morti e non gli rimaneva che un giorno da vivere… Una testimonianza che ci ricorda l’importanza storica e culturale che avevano le vie d’acqua in tempi remoti per la regione dei laghi. Un circuito di canali che collegava la Lombardia al Lago Maggiore e che rappresentava la via per merci, persone e idee. Oggi, a 430 anni di distanza, abbiamo ripercorso l’ultimo viaggio di San Carlo da Ascona a Milano. Le vie d’acqua, i Navigli in particolare, sono di recente tornati alla ribalta grazie all’esposizione mondiale Expo in programma l’anno prossimo nel capoluogo lombardo. Le «vie d’acqua» hanno valenza tematica e storica: si connettono ai principali temi legati a Expo Milano 2015 – la salvaguardia di questa risorsa come bene comune e la sua tutela come diritto universale – e ricuciono il legame storico di Milano con l’acqua sulla memoria dei Navigli, delle chiuse leonardesche, della Darsena come porto della città. Alla teoria, ai concetti e convegni meglio preferire i fatti. Da qui nasce l’idea di percorrere queste vie d’acqua in anteprima rispetto l’apertura del villaggio espositivo. Il nostro viaggio inizia ad Ascona e affronta, prima di imboccare i canali e navigli, i quasi cento chilometri del Lago Maggiore. Passiamo accanto alle Isole di Brissago, ammiriamo la curata Cannobio, assaporiamo l’aria fiabesca delle isole di Cannero, passiamo accanto alle Isole Borromee, dimora della grande dinastia del lago, ci fermiamo al discreto e raccolto eremo di Santa Caterina e raggiungiamo la fine del Verbano seguendo l’indicazione di San Carlo, rappresentato dalla gigantesca statua situata poco prima di Arona. Dopo aver percorso pochi chilometri sul fiume Ticino superiamo la Miorina, una diga posta a regolare il livello del Lago Maggiore. Per raggiungere lo storico Naviglio Grande è necessario passare due ulteriori conche, quella della centrale Porto della Torre e quella di Panperduto. Presso quest’ul-

tima diga è in costruzione, nell’ambito di un progetto Interreg, il Museo delle acque italo-svizzere. I progetti sono in fase di realizzazione e per il 2015 sono in previsione i primi viaggi turistici da Arona. Ma per la navigazione privata si dovrà ancora attendere. Noi, organizzato il trasbordo con un autocarro munito di gru, iniziamo l’avventuroso viaggio sul canale e sul Naviglio, un tempo cuore dell’idrovia. Il Naviglio Grande di Milano è un’importante opera realizzata da visionari pionieri della costruzione e dell’ingegneria. La costruzione della via d’acqua iniziò nel 1177 e durò poco più di 80 anni. Il canale ha una lun-

ghezza di 50 chilometri e va da Lonate Pozzolo fino a Porta Ticinese, nel cuore di Milano. Esso rappresentava, assieme agli altri canali artificiali, un’avveniristica via di comunicazione sia per passeggeri che per merci per tutta la Lombardia. Per capire l’importanza dello scalo milanese, è sufficiente ricordare che fino al 1953 la Darsena di Porta Ticinese era al tredicesimo posto, come quantitativi di merce in transito, nella classifica dei porti italiani! Oggi invece non incontriamo alcuna imbarcazione, solamente ciclisti e pedoni che dall’argine ci salutano incuriositi e increduli. A Tornavento, un anziano del paese ci indica dove un

tempo si trovava l’edificio del «Regio Ufficiale Idraulico del Genio Civile» dove per secoli si vigilò sulla derivazione delle acque dal fiume e si controllò il transito dei barconi. I nostri pensieri, accompagnati dal rumore cupo del nostro fuoribordo, ci riportano per un momento ai tempi gloriosi quando decine di barconi percorrevano lentamente queste «autostrade» sull’acqua. I barconi scendevano, partendo dal porticciolo di Turbigo e, sfruttando la corrente, fino al cuore di Milano. Per il viaggio di ritorno bisognava trainarli controcorrente con cavalli prima e trattori più tardi. Un momento glorioso per il Naviglio fu il periodo della costruzione del Duomo di Milano. Per ridurre i costi di trasporto, tutti i materiali utilizzati vennero infatti condotti alla fabbrica attraverso la via d’acqua. Per la prima volta in Italia tale modalità di trasporto assunse rilevanza decisiva nella realizzazione di una grande opera, anche se notevole fu l’onere economico che si dovette sostenere per rendere e mantenere efficiente il Naviglio e per assoggettare a una rigida regolamentazione l’utilizzo delle sue acque. Oggi di questa intensa attività restano ancora diverse testimonianze disseminate lungo gli oltre trenta chilometri: barconi, ville, ponti, lavatoi, magazzini. Un museo a cielo aperto immerso in una cornice naturale davvero particolare. Il viaggio in barca ci avvicina piano piano alla realtà di una grande metropoli come Milano: da

Abbiategrasso compare una colonna di auto e autocarri diretti in città, all’orizzonte appaiono vecchie fabbriche, palazzi… Lo scroscio dell’acqua viene coperto dallo strombazzare nervoso delle auto. Ma ecco il nostro traguardo: superata la cittadina di Corsico entriamo nel «viale d’acqua» lungo alcuni chilometri che termina con la Darsena, il porto di Milano. Realizzata nel 1603 dal governatore spagnolo Pedro Enríquez de Acevedo, la costruzione era addossata alle nuove mura della città. Riceveva il Naviglio Grande e dava acqua al troncone iniziale del Naviglio dove si trova la «conchetta di Leonardo», sapientemente restaurata dall’Associazione Amici dei Navigli. La Darsena è oggi il luogo simbolico di Milano «Città d’Acqua». Il porto storico della metropoli lombarda sarà riqualificato in occasione di Expo 2015 e collegato al sito tramite percorsi ciclabili, pedonali e un simbolico canale. Per noi l’AsconaMilano è stato molto più di uno slogan o di un progetto turistico, è stato un vero percorso alla scoperta di un’opera visionaria fatta da grandi uomini.

Ascona-Venezia in barca, passando da Milano Grazie a un trekking, l’unico al momento esistente, viene data la possibilità a chi fosse interessato, di avventurarsi a bordo di imbarcazioni lungo gli oltre seicento chilometri che separano il Ticino dalla Serenissima: dal Lago Maggiore, al Ticino, al Po passando dai Navigli. Un viaggio di nove giorni verso il mare con fermate nei parchi naturalistici, visita delle città di Pavia, Cremona, Ferrara, Chioggia e Venezia. Grazie a un esclusivo gemellaggio culturale con Venezia viene offerta l’occasione di ripercorrere un tragitto unico dal punto di vista paesaggistico, storico e gastronomico. Prossima partenza: 15-23 agosto 2015. Informazioni:

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Ambiente e Benessere

A Minsk siamo rimasti di ghiaccio Sportivamente Dopo la medaglia d’argento di un anno fa a Stoccolma, la nazionale rossocrociata di hockey

manca la qualificazione ai quarti di finale, rischiando persino una retrocessione, scongiurata però con una reazione d’orgoglio Alcide Bernasconi Sì, un anno fa, ai Mondiali di Stoccolma, la Svizzera dell’hockey vinse nove partite di fila. C’erano squadre di valore, ma i rossocrociati le batterono: la Svezia, il Canada, la Cechia e gli USA. A casa, i fans dell’hockey non credevano ai propri occhi e qualcuno decise di compiere un impegnativo viaggio in automobile per sostenere la nazionale nella finale che si profilava all’orizzonte, senza la certezza di trovare un biglietto per accedere alla Globe Arena. Il finale, nonostante la conquista della medaglia d’argento (non avveniva del 1935), fu però amaro per gli elvetici, battuti 5-1 dalla squadra di casa, che aveva invece superato all’esordio per 3-2. Come a dire che quando le cose si fanno davvero serie, ebbene gli svizzeri quasi sempre si squagliano. In effetti, sono stati errori individuali dei giocatori diretti da Sean Simpson a permettere al team delle «tre corone» di avere il sopravvento nell’ultima parte della gara. Grandi, quindi i rossocrociati, accolti trionfalmente al loro all’aeroporto di Kloten. Ma non grandissimi. L’élite dell’hockey mondiale conta sempre ancora le medesime squadre, quelle che si danno il cambio nella conquista dei titoli mondiali e olimpici: il Canada, la Svezia, la Russia e la Cechia. Un passo indietro c’è la Finlandia cui ogni tanto riesce un colpaccio. Quindi la Slovacchia, laureatasi campione del mondo

nel 2002, quindi medaglia di bronzo nel 2003, la quale guida il gruppo di squadre che hanno tutte un buon potenziale, salite alla ribalta negli ultimi anni, Svizzera compresa. Ai recenti mondiali di Minsk, gli elvetici non sono riusciti a ripetersi. Dopo aver mancato l’obiettivo di una medaglia ai Giochi di Sochi, la squadra ha affrontato il torneo mondiale priva di una decina dei suoi migliori elementi, costretti a dichiarare forfait causa infortuni vari, stanchezza fisica e mentale e anche per rinunce e scuse tutt’altro che convincenti. Con l’allenatore Simpson non confermato dalla Federhockey svizzera per la prossima stagione, dopo una trattativa di cui non si conoscono ancora interamente i risvolti, gli elvetici non affrontavano l’impegno con la determinazione indispensabile. Così, nella gara d’esordio, la Russia, desiderosa di riscatto dopo il naufragio olimpico, li ha autoritariamente messi in riga. Simpson ci ha aggiunto del suo, schierando fra i pali un portiere, Leonardo Genoni, in netta difficoltà già durante tutta la stagione con la maglia del Davos, il quale ha confermato di non avere i numeri per affrontare il torneo mondiale. Numeri che ha messo invece in mostra Reto Berra, tradito però da qualche giocatore, difensore o attaccante (11 i gol in più al passivo rispetto al 2013). A ciò s’aggiungano le due reti annullate per inesistenti fuorigioco contro gli USA (erroracci favoriti

Sean Simpson. (Keystone)

da un gioco diventato vieppiù veloce, che necessiterebbe di un giudice in grado di correggere immediatamente errori di valutazioni grazie alle riprese tv) che hanno tarpato ulteriormente le ali a una Svizzera in cerca di riscatto. Gli elvetici – va loro riconosciuto – hanno disputato anche alcuni incontri esemplari per impegno e determinazione, giungendo a un sol punto dalla qualificazione per i quarti di finale. Per riuscire nell’intento, è stato schiera-

to sempre Reto Berra, autore di prove maiuscole con inevitabili piccoli errori, mentre ha deluso in primis Luca Cunti, incapace di ripetersi sugli alti livelli di un anno prima. Sbiadite anche le prestazioni dei difensori Robin Grossmann, Tim Ramholt, nonché degli attaccanti Benjamin Plüss e Victor Stancescu. Su tutti si è stagliata anche quest’anno la figura di Roman Josi, difensore di una caratura nettamente superiore agli altri, oltre che inesauri-

bile playmaker, tanto da rimanere sul ghiaccio con un minutaggio impossibile per i suoi compagni. Per il capitano Mathias Seger, più volte in difficoltà al suo sedicesimo Mondiale, questo potrebbe essere stato l’ultimo della sua onorata carriera. Sean Simpson, che esordì quale allenatore con lo Zugo, al fianco dell’indimenticato Jim Koleff alla fine degli anni Novanta, conquistando il titolo svizzero nel 1998, ha dichiarato che deve moltissimo al nostro hockey, che gli ha permesso di costruire un’importante carriera di tecnico. Fra alcune settimane Simpson inizierà la sua nuova avventura, andando in Russia per allenare il Lokomotiv Jaroslavl, dopo cinque stagioni alla testa dei rossocrociati. Il suo è stato un percorso di alti e bassi ma con quella medaglia d’argento conquistata a Stoccolma che rimarrà una pietra miliare nella storia dell’hockey svizzero. Campione di Germania nel 2000 con i Barons di Monaco, nel 2009 ha diretto gli ZSC Lions all’ottenimento di due risultati di prestigio internazionale: la Champions League e la Victoria Cup. A Minsk, dove siamo rimasti per così dire di ghiaccio, la Svizzera ha perfino avvertito il brivido della retrocessione, Simpson ha preso congedo dalla nazionale con la vittoria sulla Lettonia, battuta di misura da una squadra che ha comunque inteso onorare il suo coach. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Un tempo di stranieri

Un viaggio …liquido

Viaggiatori d’Occidente A Lampedusa viaggio ed emigrazione si incrociano

Bussole Inviti

a letture per viaggiare Claudio Visentin Qualche anno fa un amico parigino mi confidò il suo desiderio di vedere il Marocco e i marocchini. Osservai che, quanto a questi ultimi, non aveva davvero bisogno di compiere un lungo viaggio, dato che nelle periferie della capitale francese ne avrebbe trovati quanti ne avesse voluti... Ma quei poveri emigranti faticosamente impegnati a inserirsi in un altro mondo per sfuggire alla miseria non rivestivano ai suoi occhi nessun interesse. Quello che cercava erano uomini con pensieri, abiti e mestieri tradizionali, la cui diversità giustificasse il viaggio compiuto per incontrarli. Questa storia mi è tornata alla mente pochi giorni fa leggendo della presentazione di una guida di turismo responsabile dedicata a Lampedusa (Lampedusa, guida per un turismo umano e responsabile, a cura di Ivanna Rossi, Altreconomia). La bella isola nell’Arcipelago delle Pelagie è da tempo una frontiera del mondo contemporaneo. Da un lato, infatti, è uno dei luoghi più desiderati dai turisti per la bellezza delle sue spiagge (a cominciare dalla celebre Spiaggia dei conigli), per il mare limpido, la biodiversità (i nidi delle tartarughe), per le architetture tradizionali (i dammusi) e la cucina mediterranea (couscous).

A Lampedusa il sud dei turisti e il nord dei migranti convivono negli stessi spazi, ma con grande fatica Dall’altro la sua prossimità all’Africa – è più vicina alle coste tunisine che a quelle siciliane – l’ha fatta diventare un punto obbligato nella rotta dei migranti verso l’Europa, e quasi ogni giorno contingenti di disperati sono tratti in salvo nel loro faticoso viaggio verso il nord del mondo. Non a caso nel luglio 2013 papa Francesco ha voluto compiere la sua prima visita pastorale proprio qui, dopo una delle tante tragedie del mare. Inoltre l’isola è candidata al Premio Nobel per la pace. Gli abitanti hanno mostrato molto coraggio nell’accogliere persone in difficoltà, con tutti i disagi per la loro vita di ogni giorno: basti pensare che tra marzo e aprile 2011 gli ospiti erano 6500, a fronte di circa 6000 abitanti. Le continue notizie di nuovi sbar-

«Quello che avete tra le mani è un libro di viaggio. Di un viaggio che nasce da un sogno, come tanti, nato dall’avventura epica di un uomo vissuto tanto tempo fa, e che non disdegnava di sognare…»

L’isola dei conigli a Lampedusa. (Pietro Crincoli)

chi hanno causato inevitabili danni d’immagine per le attività turistiche che costituiscono la principale risorsa dell’isola. E così, se l’arrivo dei pescatori al Porto Vecchio è sempre uno spettacolo ricercato, al Porto Nuovo si va ora a vedere il cimitero delle barche sequestrate... Il sud dei turisti e il nord dei migranti convivono negli stessi spazi, ma con grande fatica. Il turismo balneare è fatto di svago, disimpegno, assenza di pensieri. Nel poco tempo libero che ci viene concesso come premio per il nostro lavoro quotidiano non vogliamo doverci confrontare con le stesse assillanti questioni che vediamo ogni sera al telegiornale. Ma, anche per questo, la vicenda di Lampedusa è di particolare interesse. Da un certo punto di vista, l’isola costituisce un laboratorio della modernità, una sfida da superare nella prospettiva di un futuro migliore. Il vecchio modello turistico con il quale siamo cresciuti non regge più alla prova di un mondo cambiato. Il tu-

rismo è stato per lungo tempo una pratica riservata al tempo della vacanza, breve per durata e ben definita nelle sue semplici motivazioni di svago. Il visto turistico che consentiva un soggiorno di qualche settimana ne era in un certo senso il simbolo, e l’esperienza poteva essere gestita con relativa facilità. Oggi invece tutti sono in movimento e la mobilità dei turisti è solo una forma, e forse nemmeno la più significativa, di quella frenesia di mobilità, di quell’orrore del domicilio (Baudelaire) che caratterizza il nostro tempo. È il mondo del programma Erasmus, dei voli low cost, dei giovani che studiano e lavorano all’estero, degli espatriati. Anche le motivazioni dei viaggiatori stanno cambiando. Alcune recenti ricerche ci dicono che i viaggiatori più motivati non si accontentano più di una posizione sospesa e indefinita al margine della società di accoglienza, pur con tutta la comoda e disimpegnata libertà che ne deriva. Desiderano invece superare quel senso d’estraneità

caratteristico del turismo, essere maggiormente partecipi della vita della comunità locale, lasciare un segno positivo del proprio passaggio. I rapporti con tutta quella popolazione al servizio del turista principalmente per interesse – tassisti, cuochi, camerieri, albergatori, guide turistiche, custodi dei musei – non basta più a soddisfare il desiderio d’incontro con altre persone e altre culture, giustamente avvertito come il senso profondo del viaggio. Anche il viaggiatore, come altre categorie mobili nel mondo globale, aspira a una sorta di cittadinanza temporanea, una più chiara e coinvolgente indicazione dei diritti e doveri di chi soggiorna per un tempo limitato in un territorio. Quello che sta avvenendo oggi a Lampedusa è forse solo l’inizio di un percorso di più profondo significato, che comincia sulle spiagge del Mediterraneo ma potrebbe presto estendersi a molti altri luoghi del nostro intricato, difficile, affascinante mondo globale.

Il viaggio dell’infame cominciò sulle pagine di «Azione» parecchi anni or sono, in una serie di reportage di «Viaggiatori d’Occidente» che ora sono diventati un libro appassionante e corposo. L’infame in questione è il bandeirante (pioniere) portoghese Antonio Raposo Tavares, cacciatore di schiavi e ricchezze in lotta con i gesuiti, le cui spedizioni nell’interno disegnarono il Brasile contemporaneo. Alla fine del 2007 Paolo Brovelli ha ripercorso la sua impresa (bandeira) più lunga, quella che tra il 1647 e il 1651 partì da San Paolo (oggi una megalopoli da undici milioni di abitanti) e si addentrò per diecimila chilometri a piedi e in canoa, sfidando natura e indios, in un continente ancora largamente sconosciuto, sino alle foci del Rio delle Amazzoni. Queste pagine sono la storia di un sogno ricorrente che diventa un’ossessione, della ricerca di un uomo violento e sfuggente, dotato di un’energia sovrumana, e che quasi altrettanta ne richiede a chi voglia seguirne le tracce. Due uomini, due mondi, due tempi, che si intrecciano continuamente lungo le vie d’acqua del Brasile, percorse sui battelli di linea. È un libro liquido – tra fiumi, piogge, pantani– liquido e fluviale come il ritmo del racconto. Un libro scritto con cura, soprattutto un libro ancora percorso da quella passione per l’avventura che troppo presto si considera estinta nella prevedibilità del turismo contemporaneo, e che è invece a portata di mano, e in quantità sorprendente, anche nel nostro tempo. A patto di avere un sogno liquido, e la passione necessaria per seguirlo e trasformarlo in realtà. / CV Bibliografia

Paolo Brovelli, In viaggio con l’infame. Sulle tracce dell’uomo che inventò il Brasile, Corbaccio, 2014, pp. 468, € 22,00.

Collocazioni da collocare Giochi di parole Il sinonimo giusto al posto giusto per non attraversare la strada con il semaforo «comunista»

Se si desidera scrivere con proprietà di linguaggio, è molto importante saper utilizzare i termini sinonimi, in maniera adeguata. Tanto per ricorrere a degli esempi estremi, è vero che «rosso» è un sinonimo di «comunista», ma non avrebbe senso leggere su un cartello: «Vietato attraversare con il semaforo comunista»... Analogamente, una commissione sportiva può convalidare un «record battuto», ma non un «record bastonato»; un gruppo di intellettuali può avere intenzione di «lanciare un appello», ma non di «scaraventare un appello» e così via. Non tutti sanno (e neanche io lo sapevo...) che, in linguistica, vengono definite collocazioni, le espressioni formate da due o più parole che, per uso e

consuetudine lessicale, formano un’unità fraseologica riconoscibile. Le possibili collocazioni sono innumerevoli, alcune più frequenti e comuni, altre più specifiche e raffinate; tutte, però, sono contraddistinte dalla riconoscibilità come unità lessicale che le rende elemento distintivo e caratteristico della lingua. In riferimento agli esempi precedenti, costituiscono sicuramente delle collocazioni comuni le locuzioni: «semaforo rosso», «record battuto», «lanciare un appello»; mentre «semaforo comunista», «record bastonato», «scagliare un appello», sono espressioni non in uso e, dunque, non riconoscibili. Per agevolare la ricerca delle espressioni più appropriate, al fine di riuscire a esprimersi con maggiore proprietà di linguaggio, la Zanichelli ha recentemente pubblicato un pratico Diziona-

rio delle collocazioni, redatto da Paola Tiberii, che contiene oltre 6mila voci di riferimento, per un totale di circa 200mila efficaci combinazioni di parole. Attingendo al materiale contenuto in questa utile opera, mi sono divertito a preparare il seguente test linguistico. In ognuno dei seguenti gruppi di aggettivi, cercate di individuare l’unico che può adattarsi, in maniera appropriata, a tutti i sostantivi riportati di seguito, tra parentesi. 1. abissale – accidentale – allarmante – culturale – generale – salariale – spirituale – verticale (andamento – caso – crollo – divario – fenomeno – indizio – notizia – vicenda) 2. affascinante – breve – competente – complice – cruciale – folle – massacrante – plasmabile (discorso – esperienza – materia – per-

sona – sorriso – tesi – voce – viaggio) 3. debole – facile – graduale – indecifrabile – mobile – permanente – razionale – responsabile (accesso – argomento – bersaglio – indovinello – manovra – ragionamento – sorpasso – uso) 4. esitante – fluente – gradevole – penetrante – pertinente – pungente – salubre – volgare (aria – barba – battuta – domanda – freddo – odore – risposta – sapore) 5. accogliente – artigianale – culturale – durevole – fluviale – industriale – stagnante – tessile (azienda – bacino – disegno – economia – gelato – prodotto – quartiere – settore) 6. allarmante – centrale – commerciale – comune – formale – feroce – individuale – saliente

(amico – bene – caratteristica – caso – credenza – criminale – linguaggio – nome) 7. autorevole – breve – esponenziale – ingente – reale – responsabile – settimanale – superiore (abbonamento – compenso – consumo – crescita – durata – riposo – rivista – spesa) 8. digeribile – finale – fiscale – indispensabile – morale – radicale – sociale – soprannaturale (aiuto – alimento – condizione – controllo – dato – dote – misura – risorsa). Soluzione 1. allarmante – 2. affascinante – 3. facile – 4. pungente – 5. industriale – 6. comune – 7. settimanale – 8. Indispensabile.

Ennio Peres


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Ambiente e Benessere Cucina di Stagione La ricetta della settimana *+#..) "% !)*#+,%( $+? 4?9G )( ’#(,) ((- &# =;D (-’#+%> $+? C9?3

Mozzarella impanata con verdure verdi Primo piatto

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Ingredienti per 4 persone: 100 g di pane raffermo · 1 cucchiaino di peperoncino frantumato · 1 cucchiaino d’erbe secche, ad esempio origano · 2 mozzarelle di circa 150 g · 800 g di verdure verdi, ad esempio asparagi verdi e coste · 1 cucchiaio d’olio d’oliva · ½ limone · 150 g di spinaci a foglie · sale alle erbe · 3 cucchiai d’olio di colza HOLL (resistente alle alte temperature).

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1. Tritate il pane, il peperoncino e le erbe nel tritatutto e versateli in un piatto fondo. Tagliate le mozzarelle a fette spesse, passatele nella panatura e fatela aderire bene premendola sulle fette. 2. Pelate il terzo inferiore dei gambi degli asparagi, spuntateli e tagliateli a pezzi. Tagliate i gambi delle coste con le foglie verdi più belle a pezzetti larghi 5 mm. Fate soffriggere entrambe le verdure nell’olio d’oliva. Spremete il limone e unite il succo alle verdure. Coprite e stufate per 5 minuti. Unite gli spinaci e continuate la cottura finché si afflosciano. Condite con sale. 3. Dorate le fette di mozzarella in una padella, nell’olio di colza, da entrambi i lati. Servitele con le verdure.

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Ambiente e Benessere

Situazioni critiche Mondoanimale Un chiaro schema per urgenze e primi soccorsi

sul sito dell’Ordine dei veterinari ticinesi spiega come comportarsi in caso di emergenza

Maria Grazia Buletti «Tornando a casa la situazione era particolarmente tranquilla: troppo. Bob, il mio Jack Russell, non mi era venuto incontro correndo e abbaiando come di consueto. Ho compreso subito il perché, quando l’ho cercato nella sua cuccia ed è uscito lentamente, mogio mogio, senza poggiare per terra una delle zampe», questo il racconto di Sofia che ha telefonato subito al suo veterinario il quale ha valutato la situazione come un’urgenza e ha visitato Bob: «Le radiografie hanno mostrato che era rotta una falange del piede posteriore sinistro. L’abbiamo curata con medicine e tante coccole, visto che non si poteva ingessare». Più travagliata la disavventura di Rocco, il Golden retriever di Luisa che ancora rabbrividisce nel ricordare i fatti: «Ero nel bosco con Rocco che mi precedeva e d’un tratto si è messo a fare strani ululati, non smetteva, mentre la sua zampa anteriore destra cominciava a gonfiarsi. Sono andata in panico, lo confesso, e mi sono precipitata a casa per chiamare il veterinario, che però non ho trovato: ormai era molto

tardi. Ho lavato bene la zampa gonfia e ho provato a lenire il dolore con un impacco di ghiaccio avvolto in un asciugamano. Ho atteso la mattina seguente e sono corsa dal veterinario, ma per fortuna il problema è poi rientrato e ho saputo che Rocco era stato probabilmente morsicato da un serpente non velenoso». Due racconti, quello di Sofia e Luisa, con un comune denominatore: la situazione d’emergenza che può succedere a un animale da compagnia. Che cosa fare in casi come questi? E quali sono le urgenze più comuni con cui può capitare di confrontarsi? Sul sito internet www.veterinariticino. ch, l’Ordine dei veterinari ticinesi ha redatto un interessante vademecum sui primi soccorsi riguardanti le più comuni urgenze riscontrabili quando si vive con un animale domestico. Nel caso di Sofia e del suo Jack Russell Bob che si è rotto una zampetta, ad esempio, sotto la voce «Zoppìa» viene spiegato che «se il cane o il gatto appoggia la zampa e la zoppia è di lieve entità, si può aspettare qualche giorno, tenendo l’animale a riposo ed eventualmente somministrando degli antinfiamma-

Urgenze fuori orario, che fare? «Il diavolo fa le pentole senza il coperchio»: saggezza proverbiale che conferma come spesso incidenti e situazioni con problemi di salute urgenti capitino proprio tra capo e collo la sera o durante il fine settimana. Che cosa fare? L’indicazione dell’Ordine dei veterinari ticinesi è chiara: «Dapprima bisogna chiamare il proprio veterinario di fiducia». Se

questi non è reperibile, e solamente in caso d’urgenza, esiste un numero telefonico da comporre, lo 0041 900 140 150. Questo numero risponde al costo di 2 franchi al minuto e permette di parlare con un veterinario che saprà dare i consigli giusti. Egli valuterà inoltre la situazione e, se lo riterrà opportuno, sarà disponibile a visitare l’animale.

tori. Se la zampa non è mai appoggiata ed è fonte di forti dolori, contattate il veterinario». Proprio come ha fatto Sofia, scoprendo la frattura e ricevendo direttamente dallo specialista le cure adeguate per il suo Bob. Sulla situazione occorsa al cane di Luisa, che per fortuna si è risolta senza conseguenze, troviamo invece una plausibile spiegazione alla voce «Morso di un serpente»: «Fortunatamente alle nostre latitudini la maggioranza dei serpenti non è velenosa, il loro morso causa però una forte reazione locale molto dolorosa e nei soggetti allergici può causare shock anafilattico». Poiché erano nel bosco, e considerati gli ululati di dolore di Rocco, forse è stato morsicato davvero da un serpente e Luisa ha saputo comunque comportarsi in modo adeguato: «La zona colpita va lavata abbondantemente con un disinfettante e si consigliano impacchi freddi per moderare la reazione infiammatoria locale che arriva a causare delle necrosi». In un caso come questo la visita dal veterinario è comunque indispensabile, anche perché potrebbe trattarsi di un morso di un serpente velenoso, situazione che avrebbe potuto avere un epilogo ben diverso: «In caso di serpenti velenosi, oltre al trattamento sopra descritto, va applicato il laccio emostatico a monte della ferita per rallentare l’entrata in circolo del veleno, l’animale va trasportato su un telo». Tuttavia Luisa ha detto di aver preso un grosso spavento e si è sentita sprovveduta nei confronti delle emergenze e del pronto soccorso: «Ho deciso di prepararmi meglio su queste evenienze e mi sono informata sul sito dell’Ordine dei veterinari ticinesi, alla voce ˝Urgenze e primi soccorsi˝ dove ho potuto crearmi un’idea migliore su come agire in una prossima eventuali-

Dopo le prime cure spesso è necessaria una visita dal veterinario. (Sternren)

tà, sempre sperando che non accada più nulla». Perciò, senza sostituire la figura del veterinario che rimane il riferimento per diagnosi, visita e scelta terapeutica, è comunque interessante avere un’idea degli incidenti più comuni che possono accadere ai nostri beniamini animali, soprattutto per comprendere cosa bisogna fare nell’immediato. Oltre ai due casi di frattura di un osso e morsicatura di serpente descritti negli esempi raccontati da Sofia e Luisa, lo schema delle urgenze e dei primi soccorsi comprende altri importanti temi come i colpi di calore, per i quali si rileva come questi possano essere spesso letali e le insidie stanno proprio nel lasciare l’animale chiuso in automobile: «Attenzione: anche un’automobile lasciata posteggiata all’ombra può essere pericolosa in giornate molto calde e afose, assicuratevi che ci sia una buona circolazione dell’aria interna, lasciando aperti almeno dei finestrini». Ma se non fosse sufficiente? Anche per questa

Giochi Cruciverba Questa pianta si chiama dulcamara, va assunta sotto controllo medico e tra le sue molteplici proprietà depura i reni, cura l’artrite e… Scopri il resto della frase leggendo a soluzione ultimata le lettere nelle caselle evidenziate.

ORIZZONTALI 1. Riduce la visibilità 7. Si contano a scopa 9. Attrezzo per carpentiere 10. Nello strudel 12. Regione storica della Spagna 13. Trasforma il cibo in bolo 15. Preposizione articolata 16. Un testimone dei Promessi Sposi 17. Libretto per appunti 18. Una consonante 19. Lo è a volte la sorte 20. Di Non nel Trentino 21. Le iniziali dell’Arcuri 22. Vengono benedetti il Sabato Santo 23. Pittore francese dell’800 24. Valutazione di un bene VERTICALI 1. Tese del cappello 2. Profeta dell’Antico Testamento 3. Un famoso Ettore regista 4. Si ripete brindando 5. Abbreviazione di ettaro 6. Una nota Sandrelli 7. Di gomito... non si mangia 8. Abbreviazione ecclesiastica 11. Profeta biblico 13. Nome femminile 14. Una qualità del ginnasta 16. Mantiene i liquidi a temperatura costante 18. Competizioni 20. Estro creativo 22. Un figlio di Noè 23. Pronome personale

Sudoku Livello difficile Scopo del gioco

Completare lo schema classico (81 caselle, 9 blocchi, 9 righe per 9 colonne) in modo che ogni colonna, ogni riga e ogni blocco contenga tutti i numeri da 1 a 9, nessuno escluso e senza ripetizioni.

Soluzione della settimana precedente

La multa – Risposta risultante: «La razza non fa differenza»!

situazione si consiglia come agire immediatamente: «La misura terapeutica da adottare in questi casi è rinfrescare bagnando, bagnando e ancora bagnando tutto il cane: è quasi impossibile raffreddare troppo». Superfluo ricordare che la visita dal veterinario è caldamente consigliata. Disturbi gastrointestinali, torsione dello stomaco, ingestione di sostanze e oggetti pericolosi, avvelenamenti, febbre, ascessi, traumi, punture di insetti e attacchi epilettici sono le evenienze che completano l’argomento urgenze e primi soccorsi e che varrebbe la pena di leggere, come ha fatto la nostra interlocutrice Luisa, la quale conclude: «Adesso sono più tranquilla perché ho capito come comportarmi immediatamente se succede qualcos’altro al mio Rocco: non devo andare nel pallone, so che cosa posso fare io e dal veterinario potrò recarmi più serena». Questo a tutto vantaggio della presa a carico della salute di Rocco da parte dello specialista.


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Politica e Economia I cattivi della Rete Sesta e ultima puntata dedicata al volto malefico della nuova economia digitale, ossia ai lati oscuri di Apple, Amazon, Google e Facebook

Scontro titanico sull’Europa Burkhalter e Blocher: le due anime della Svizzera, pro e contro l’Unione europea

La Libia sprofonda nel caos Il generale Haftar ha dato avvio a una battaglia contro il terrorismo islamico per salvare il Paese. Ma c’è chi parla di golpe

Mega-multa per il CS Credit Suisse chiude la vertenza con gli USA pagando una multa di 2,815 milioni di dollari

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Keystone

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Quel tratto di Mar Cinese agitato Tensione Cina-Vietnam Ad accendere la miccia è stata la decisione di Pechino di installare una piattaforma

petrolifera al largo delle isole Paracel contese da entrambi i Paesi Lucio Caracciolo L’ultima guerra della sua lunga storia la Cina l’ha combattuta contro il Vietnam, nel febbraio-marzo 1979, e non l’ha vinta. Pechino sostiene che si trattò di una breve quanto efficace spedizione punitiva, destinata a riportare Hanoi alla realtà, stroncandone i sogni di egemonia nella penisola indocinese. Per i vietnamiti, fu una gloriosa campagna difensiva contro l’espansionismo dell’Impero del Centro, che li riportò a più miti consigli e impedì l’annessione di parti del territorio nazionale alla Repubblica Popolare. Per il resto del mondo, fu un risveglio alla geopolitica dopo decenni di sbornia ideologica: due paesi sedicenti comunisti si combattevano per il controllo di spazi più o meno «vitali» e per affermare il proprio rango nei rapporti fra le nazioni. Quella storia di quasi mezzo secolo fa potrebbe ripetersi? A osservare le tensioni fra i due Paesi, moltiplicate dalla decisione di Pechino di installare una piattaforma petrolifera nelle acque prossime alle contese Isole Paracel, nel

Mar Cinese Meridionale, su cui entrambi i Paesi reclamano i rispettivi diritti storici, parrebbe proprio di sì. Il caso è scoppiato il 7 maggio, quando sono cominciate le perforazioni in una piattaforma petrolifera collocata dalla Cina presso le Paracel. C’è stato uno scontro fra le navi militari cinesi, che proteggevano l’operazione (un’ottantina circa), e quelle vietnamite, con diversi feriti. Ne è seguita una aspra disputa diplomatica, a colpi di scambi di note. In Vietnam, decine di migliaia di persone sono scese in piazza a protestare contro la provocazione cinese. Nei giorni successivi, in alcuni scontri fra manifestanti vietnamiti e cinesi residenti in Vietnam si sono avute decine di feriti e più di venti morti, mentre molti cinesi abbandonavano il Paese (nella foto), nel quale non si sentivano più sicuri. Hanoi ha richiesto il sostegno dell’Asean, l’organizzazione dei Paesi del Sud-Est asiatico, che però non si è troppo sbilanciata. Sicché ora il governo vietnamita pare deciso a investire del caso le corti internazionali deputate

a risolvere questo genere di controversie. Ma il clima fra i due Paesi resta pessimo. Basta un fiammifero per attizzare un incendio che sarebbe poi molto difficile da delimitare. La montante tensione sino-vietnamita è una spia dei caratteri e dei limiti della strategia regionale e globale di Pechino. Nella sua plurimillenaria vicenda l’Impero del Centro ha sempre considerato prioritaria l’affermazione della propria sicurezza nelle terre prossime alla Grande Muraglia, mentre non ha mai considerato decisiva la dimensione marittima. Ora, la sfida che gli Stati Uniti gli hanno lanciato con il cosiddetto «perno asiatico» (pivot to Asia) è centrata proprio sul controllo dei mari che bagnano la Cina, che gli americani, attraverso i loro partner asiatici, vogliono contestare a Pechino per tenere sotto pressione la Repubblica Popolare, minacciandone le vie di comunicazione commerciale con il resto del pianeta. Per questo Obama sta lavorando al contenimento della Cina per mezzo di una cintura che avvolge il rivale

dall’India al Giappone, con il Vietnam vertice della regione indocinese, e con la compartecipazione, fra gli altri, di Indonesia, Filippine, Corea del Sud, per tacere di Australia e Nuova Zelanda. Per ora la morsa è piuttosto aleatoria, come incerta ne pare la componente economica, ossia quella area di libero scambio transpacifica che Washington sta allestendo con tutti i Paesi dell’AsiaPacifico, meno ovviamente la Cina in quanto oggetto del contenimento. Xi Jinping non sembra avere ancora stabilito una controstrategia sul suo fronte marittimo meridionale. Nei vari contenziosi che l’oppongono al Giappone (isole Senkaku/Diaoyu), alle Filippine, al Vietnam e a quasi tutti gli altri Stati affacciati sul Mare Cinese Orientale e su quello Meridionale, Pechino pare muoversi caso per caso. L’obiettivo è affermare i propri diritti allo sfruttamento delle risorse contenute in quelle acque, anche attraverso esibizioni di forza, ma senza arrivare a veri e propri conflitti militari. Le dispute non si risolvono, si tengono aperte. In questo modo i leader cinesi si trovano però

in una condizione di passività, esposti alle sfide e alle provocazioni dei vicini. Se non reagiscono, si svelano tigri di carta. Se sovrareagiscono, o addirittura provocano, rischiano di dover combattere guerre necessarie a salvare la faccia, ma rischiose e onerose, facilitando fra l’altro il compito americano di cementare coalizioni regionali interessate a contrastare il presunto espansionismo di Pechino. Ancora una volta, la Cina sembra privilegiare la dimensione terrestre. Alle crisi marittime che la vedono in condizione di fastidiosa minorità, anche per la non esaltante dimensione della propria Marina, il regime di Xi Jinping risponde stringendo il rapporto con la Russia. Di qui l’intesa stipulata il 20 maggio da Putin e Xi Jinping, che assicura forniture di gas russo alla Cina per trent’anni a prezzi stracciati. Decisamente, l’Asia è in movimento. Né potrebbe essere diversamente, quando il suo principale Paese si appresta ad affermarsi come prima economia del mondo, a sfidare il primato globale della superpotenza a stelle e strisce.


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Politica e Economia

Il canto delle sirene I cattivi delle Rete Ci siamo lasciati sedurre dal fatto che con un «clic» tutto fosse alla portata di tutti, gratis:

in realtà dietro c’è tanto lavoro non pagato, mentre i profitti si spostano verso un’oligarchia meno democratica e egualitaria di quanto voglia farci credere – Sesta e ultima parte

Federico Rampini Servi del potere secondo Beppe Grillo in Italia. Membri dell’establishment di sinistra, secondo il movimento neoreazionario del Tea Party in America. A scelta, obbedienti alla censura o candidati alla galera: secondo Vladimir Putin, Xi Jinping, ed altri autocrati del pianeta. Di conseguenza, ogni analisi sul problema della gratuità di Internet che parli di noi e della crisi dei giornali, suscita diffidenze. Corporativisti, autoreferenziali, descriviamo la Rete come un nemico solo perché al restante 99,9% degli utenti online offre gratis il «nostro» monopolio di una volta, l’informazione. E perbacco, se proprio fossimo destinati a fare la fine dei minatori di carbone nell’Inghilterra di Margaret Thatcher, forse a suo tempo potevamo commuoverci un po’ di più per la sorte dei minatori. Non è facile affrontare questo tema senza che il lettore s’insospettisca sui moventi di chi scrive.

Il diritto d’autore di libri, musica e media viene espropriato quotidianamente da Google, Apple, Amazon Perciò devo parlarvi di Jaron Lanier, genio multiforme della California, non-giornalista, anticonformista, grande tecnologo… e musicista. Lanier è un protagonista della vera contro-cultura della Silicon Valley. A 54 anni, è stimato tra gli scienziati informatici, ha insegnato alla Silicon Graphics e in molte università californiane. È stato uno dei pionieri della «realtà virtuale». Negli anni Ottanta lavorò alla società Atari, un nome che evoca una «preistoria» dell’economia digitale e fu un incubatore di cervelli visionari. Il magazine «Time» lo ha indicato tra le cento personalità più influenti del nostro tempo. Due suoi libri sono tradotti in italiano, Tu non sei un gadget (Mondadori) e La dignità ai tempi di Internet (Il Saggiatore). Lanier ha anche una seconda vita, come musicista di formazione classica, ardito sperimentatore di musiche sia classiche sia d’avanguardia con incroci di strumenti della tradizione asiatica, compositore di colonne sonore cinematografiche. Questa seconda attività è importante quanto la prima ai fini delle sue critiche contro la Rete 2.0. Lanier, amando la musica e i musicisti, denuncia il fatto che la Rete li sta rovinando. Da una parte c’è la religione della gratuità, con il dogma «naturale» per le generazioni più giovani: la musica si ascolta e non si paga. Fenomeno di cui ricordo bene le origini, perché partì da San Francisco con Napster, che mise la pirateria alla portata di tutti gli adolescenti. Dall’altra parte c’è l’anti-Napster, nato sulle ceneri di quella società: cioè il mega-negozio digitale di iTunes, una delle trovate geniali di Steve Jobs. Con pochi comandi del mio polpastrello, sfiorando lo schermo dell’iPod o dell’iPhone, compro su iTunes qualsiasi brano musicale per la modica cifra di 99 centesimi di dollaro. Una semplicità disarmante. Di quei 99 centesimi, quanta parte va al musicista? Quasi niente. Jobs inventò iTunes per arricchire Apple, non i musicisti. Dunque, se sono un teenager normalmente ascolto la musica senza pagare niente a nessuno; se sono un adulto ligio a costumi antichi, ascolto la musica pagan-

Jaron Lanier, lo scienziato informatico e musicista americano che ha denunciato la Rete. (Keystone)

do Apple o Amazon. Chi ci rimane fregato è il musicista. Sempre. Ci siamo tutti fatti sedurre dal canto delle sirene, abbiamo creduto davvero di vivere nel giardino dell’Eden, il paradiso terrestre dove ogni bendiddio è alla portata di un «clic», gratis? Molti giovani appassionati di musica hanno sinceramente visto nella Rete un alleato. Non solo per scaricare brani e ascoltarli a costo zero. Ma anche per creare musica, diffonderla, arrivare direttamente al pubblico saltando l’intermediazione rapace delle case discografiche. Com’è andata? Malissimo, spiega Lanier che quel mondo lo conosce bene. Lui è un musicista di successo, che ha sfondato. Ma i talenti che riescono a emergere sulla scena musicale usando la Rete come piattaforma «sono un numero esiguo», garantisce Lanier. Tutti gli altri: servi della gleba. Producono musica, magari di ottima qualità, che viene consumata gratis. A guadagnarci è YouTube, che piazza la sua pubblicità quando noi clicchiamo su un segmento di video o di audio. Tutta la nuova economia digitale funziona così. Interi mestieri stanno scivolando verso la povertà cronica, sotto-pagati o non pagati affatto. I giornalisti vi stanno sulle scatole? Amazon sta facendo lo stesso con gli scrittori. E Google sta saccheggiando il lavoro dei traduttori che «amalgama e aggrega» nel suo algoritmo di traduzione. Dietro quel traduttore automatico c’è tanto lavoro non pagato. Ecco il nuovo business model. Una massa sterminata di servi della gleba generano contenuti gratis, che poi loro stessi consumano gratis nella loro veste di utente. In mezzo, il sistema è presidiato da potenti aggregatori e intermediari, che ai propri azionisti e top manager garantiscono una ricchezza

smisurata. Perfino gli ingegneri che scrivono il software – pur facendo parte di una tecno-élite ben remunerata – hanno un accesso limitato a questa fantastica creazione di ricchezza, come ha dimostrato la congiura Apple-Google per tenere bassi i loro stipendi, sempre a vantaggio dei Padroni dell’Universo. Ogni singolo utente di Facebook, è chiamato a sua volta a offrire generosamente un contenuto gratuito (informazioni su sé stesso, i propri gusti, le proprie amicizie) che i proprietari di Facebook trasformano in ricchezza privata, vendendola sotto forma di pubblicità e contatti di marketing. Lo stesso fanno gli altri big della Rete: vendono tutto quello che sanno su di noi alle aziende che piazzano prodotti e servizi su iTunes, Amazon, pubblicità a pagamento su Google. Le aziende devono pagare un pedaggio esoso per ottenere dai giganti dell’economia digitale quelle stesse informazioni che noi invece abbiamo regalato senza nessun compenso.

Il «cyber totalitarismo» si annida nelle pieghe apparentemente libertarie e progressiste della Silicon Valley? Se fosse vero che la gratuità di Internet è un generatore di ricchezza alla portata di tutti, dove sono i posti di lavoro? Dov’è la nuova ricchezza diffusa a piene mani grazie a Google, Facebook, Amazon e Twitter? A parte i milionari della Silicon Valley e le oasi di benessere create in alcune tecno-poli come San Francisco e Seattle, gli ultimi vent’anni hanno visto un rattrappimento della

middle class americana, un impoverimento dei lavoratori e del ceto medio. Lanier attacca quello che lui chiama «cyber-totalitarismo» e che vede annidarsi anche nelle ideologie apparentemente libertarie e progressiste della Silicon Valley, come il movimento «open source» e Wikipedia, potenti fautori della gratuità. L’approccio «open source» secondo lui ha distrutto enormi opportunità per i giovani laureati di mantenersi lavorando alla creazione di contenuti, e ha spostato tutto il beneficio economico della Rete a favore dei Signori delle Nuovole (cloud o memoria dei server). Il ceto medio è espropriato, gli utenti sono stati convinti a regalare informazioni preziose su se stessi senza ricevere nulla in cambio, se non un accesso gratuito alla Rete... dove altri servi della gleba creano contenuti anch’essi non remunerati. Interi settori dell’economia – tutto ciò che ha a che fare con forme di creatività intellettuale – vengono inghiottiti nella voragine della gratuità, mentre i centri di profitto si spostano verso quelli che lui chiama i Siren Servers (server informatici come le sirene di Ulisse). Che sia informazione o musica, spettacolo o enciclopedia online, «l’informazione gratuita non è mai veramente gratuita, perché qualcuno ha dovuto crearla». Noi parliamo erroneamente di gratuità, mentre dovremmo riconoscere che il pagamento è stato spostato altrove, a vantaggio di altri. Una nuova oligarchia della Rete, molto meno libertaria, egualitaria e democratica di quanto voglia farci credere. I nuovi Padroni dell’Universo sono stati all’origine di una nuova religione, con tanto di certezze assolute, condivise dalla tecno-casta sacerdotale di esperti che serve i loro interessi. Per esempio, siamo stati indottrinati sulla

meraviglia di un progresso esponenziale nell’informatica. È la famosa legge di Moore (dal nome di Gordon Moore, co-fondatore di Intel che è il numero uno mondiale dei micro-chip), in base alla quale il numero dei transistor nei circuiti integrati raddoppia ogni due anni. La potenza di molti gadget digitali è legata a questa legge: velocità delle operazioni, capacità di memoria, sensori, pixel nelle videocamere digitali, tutto si muove di conseguenza. Lanier sottolinea però che la legge di Moore non si applica affatto al software, e che i programmi informatici continuano ad essere afflitti da difetti di progettazione, incidenti gravi, attacchi di hacker, spionaggio. Su questi i Padroni dell’Universo non vogliono essere chiamati alle loro responsabilità. Si è mai visto un tribunale americano trattare Google come tratta la General Motors? Se un modello di automobile ha un difetto di fabbricazione, i vertici della General Motors sono chiamati a risponderne davanti alla giustizia, colpiti da multe, obbligati a versare risarcimenti. Né Google né Microsoft né Apple né altri consimili hanno mai dovuto pagare per gli episodi in cui le loro vulnerabilità hanno reso noi (i nostri dati personali, le nostre carte di credito) vittime di pirati e truffatori. E mentre eserciti di avvocati della Silicon Valley combattono una guerra senza quartiere per accaparrare brevetti industriali a favore di questo o quel colosso capitalistico, il diritto d’autore dei piccoli creativi è terreno di caccia per scorribande corsare. Istinto monopolistico, concentrazione di ricchezza, intrusione nei diritti dell’individuo: com’è lontano il Giardino dell’Eden che ci era stato promesso, nei Vangeli aprocrifi della mia California.


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Politica e Economia

Politica e Economia

La Libia precipita nel caos

Colpevole di aver sposato un cristiano

Battaglia della dignità Sferrata dal generale in pensione Haftar per combattere il terrorismo islamico, è stata

L’islam e le altre religioni La vicenda di Meriam, accusata di apostasia e condannata all’impiccagione, pone

denunciata subito come un vero e proprio colpo di Stato contro la rivoluzione che ha affossato Gheddafi

La Libia sta rischiando di precipitare in una sanguinosissima guerra civile dalle conseguenze imprevedibili per tutto il Medio Oriente: questa è l’unica certezza sul caos che sta dilagando sull’altra sponda del Mediterraneo, ma sarebbe ingenuo credere che sia in atto un’eroica lotta al terrorismo islamico come sostiene il generale in pensione Khalifah Haftar che dal 18 maggio scorso è partito lancia in resta da Bengasi per far «piazza pulita» – come dice lui – degli estremisti musulmani. A tormentare la Libia e a renderla ingovernabile sul terreno ci sono almeno 1700 milizie che tengono letteralmente in ostaggio un governo debolissimo e istituzioni dello Stato altrettanto deboli che non hanno alcun controllo sul territorio. Un esercito vero e proprio non esiste, come non esiste un confine ideologico credibile tra i vari gruppi armati. Certo, ci sono temibili milizie islamiche come la Brigata Abu Obayda bin al-Jarah, la Brigata Malik, la Brigata 17 Febbraio meglio nota come Ansar al-Sharia infiltrata da al Qaeda (da cui si è staccata un’ulteriore Brigata, la Rafallah al-Sahati), quasi tutte concentrate in Cirenaica, cioè nell’est del Paese. Ma a queste si affiancano milizie tribali, brigate locali interessate solo ad avere il controllo di certe aree e città, e infine comuni bande di malfattori a cui preme unicamente il contrabbando di armi e petrolio o il traffico di carne umana alias di clandestini.

In questa anarchia, allora, che sta succedendo? I fatti innanzitutto. Il 16 maggio scorso il generale Haftar ha lanciato quello che chiama il suo Esercito nazionale libico all’assalto delle postazioni di Ansar al-Sharia a Bengasi. L’ha chiamata «la battaglia della dignità» cui si sono associati reparti dell’esercito regolare di stanza nel capoluogo cirenaico e soprattutto l’aviazione di stanza a Tobruk. Il primo ministro ad interim Abdullah al-Thinni, che avrebbe dovuto lasciare il posto dopo due giorni al neo-eletto premier Ahmed Maiteeq, ha subito denunciato l’attacco come un vero e proprio «colpo di Stato contro la rivoluzione» (laddove per rivoluzione deve intendersi la caduta del regime di Gheddafi del 2011) e ha chiamato a raccolta i corpi speciali, i reparti dell’esercito regolare e le stesse milizie islamiche a difendere Tripoli, la capitale. Haftar ha immediatamente controbattuto con le parole e coi fatti: innanzitutto ha dichiarato che se golpe c’era stato era la designazione di Maiteeq a capo dell’esecutivo da parte di un parlamento a suo avviso manovrato dagli islamisti in combutta con la milizia di Misurata (Maiteeq è un uomo d’affari di Misurata). Poi ha lanciato il suo attacco a Tripoli avendo però dalla sua gli uomini della milizia di Zintan, una delle più forti nel variegato panorama delle brigate, che raccoglie consensi soprattutto nell’ovest del Paese e – nella capitale – ha il controllo di uno dei due aeroporti, quello internazionale. Sareb-

Soldati dell’Esercito libico di guardia all’entrata di Tripoli. (AFP)

be opera dei miliziani di Zintan l’attacco al parlamento libico del 19 maggio che praticamente ha impedito il voto di fiducia a Maiteeq. Lo stesso parlamento poi è stato destituito, come ha annunciato alla tv il colonnello Mukhtar Fernana, a nome di Haftar. La battaglia del 19 maggio ha portato il numero dei morti ad almeno 70 e quello dei feriti a 140 nel corso di appena due giorni di combattimenti. Nel frattempo Maiteeq è sparito e il 20 maggio Abdullah al-Thinni, assieme al parlamento virtualmente destituito e comunque autosospeso, ha annunciato che le elezioni per il nuovo parlamento si svolgeranno

il 25 giugno. Certo, bisogna arrivarci al 25 giugno, possibilmente vivi. La gravità della situazione è stata avvertita soprattutto dai Paesi confinanti con la Libia. La Tunisia ha schierato sul confine 5000 uomini per impedire tracimazioni di armati sul proprio territorio. L’Algeria ha letteralmente blindato le frontiere e ha minacciato di fare intervenire il proprio esercito qualora all’Egitto venisse l’insana idea di scendere in campo a fianco del generale Haftar. Algeri col suo monito non ha fatto che dar voce al sospetto diffuso che Haftar voglia diventare «il Sisi n.2», voglia cioè imitare l’attuale uomo forte

del Cairo avviato a vincere le imminenti elezioni presidenziali in Egitto. Ma al Sisi un vero esercito dietro le spalle ce l’ha, per di più abituato a gestire il potere dal 1952. Lo stesso non si può dire di Haftar che può contare solo su spezzoni di forze armate deboli e su milizie rissose e pronte a cambiare bandiera. Può aver alzato il vessillo della lotta al terrorismo islamico come al Sisi, ma il suo è tutt’altro film. Haftar, soprattutto, manca di credibilità. Fino a poche settimane fa veniva considerato un vecchio arnese dal passato militare non esaltante. Ha combattuto per Gheddafi quando il colonnello si lanciò nell’avventura del Ciad negli anni 80, uscendo sconfitto. Era stato fatto pure prigioniero dai ciadiani e, una volta liberato, si era rifugiato negli Stati Uniti dove è rimasto in esilio fino alla «rivoluzione» del 2011. In virtù del suo passato americano oggi viene demonizzato dagli islamisti radicali libici come «un cane della Cia». Haftar al soldo degli Usa? È tutto da provare. Questo non toglie che con la sua «battaglia della dignità» non speri di trascinare dalla sua parte gli Stati Uniti, l’Europa e forse lo stesso Egitto per diventare il nuovo raïs libico. È più probabile che intenda rafforzare le velleità secessioniste o autonomiste della sua Cirenaica, l’Eldorado petrolifero, sbarazzandola anche dell’ingombrante presenza dei salafiti che proprio in Cirenaica hanno la loro roccaforte. Sempre che la Libia sopravviva. Annuncio pubblicitario

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Giorgio Bernardelli Condannata alla morte per impiccagione per i reati di apostasia e adulterio. È la sentenza pronunciata in primo grado da una corte del Sudan contro Meriam Yehya Ibrahim, donna ventisettenne sudanese, incinta all’ottavo mese e madre di un bimbo di un anno e mezzo. Una notizia che – grazie a una campagna lanciata da alcune Ong da

Nel mondo musulmano la libertà religiosa resta una questione gravemente irrisolta anni impegnate per far conoscere le quotidiane violazioni dei diritti umani che avvengono nel Paese africano governato dal 1989 dal colonnello Omar al-Bashir – questa volta ha suscitato una mobilitazione internazionale che ha permesso per lo meno di fermare la mano al boia. Con la promessa che ci sarà un nuovo processo durante il quale non dovrebbe essere contemplata la pena di morte. Resta comunque il fatto che da tre mesi in Sudan c’è una donna incinta chiusa in carcere per il semplice fatto di essere nata musulmana e di avere poi sposato un cristiano (e per questo considerata «apostata» e «adultera»). La vicenda riporta in primo piano la questione caldissima della condizione dei cristiani nei Paesi a maggioranza musulmana. Che certamente non è uguale dappertutto; ma è altrettanto innegabile che nel mondo di oggi vi siano almeno alcune situazioni in cui si può apertamente parlare di persecuzione. La vicenda di Meriam pone infatti la questione di uno dei grandi nodi scoperti nel rapporto dell’islam con le altre religioni (e con il cristianesimo in particolare): la questione – appunto – dell’apostasia. Se infatti nella tradizione musulmana c’è una certa tolleranza nei confronti dei fedeli nati all’interno delle comunità delle altre due religioni del Libro (l’ebraismo e il cristianesimo) – a cui storicamente veniva garantita una propria giurisdizione su questioni come il culto e il diritto di famiglia – la questione della libertà religiosa resta lo stesso gravemente irrisolta: l’ipotesi che un musulmano possa scegliere di diventare cristiano nella maggior parte dei Paesi a maggioranza islamica non è solo un «peccato», ma anche un vero e proprio reato penale. In alcuni Paesi (Arabia Saudita, Iran, Afghanistan, Pakistan, Kuwait, Yemen, Mauritania e Sudan, ad esempio) la legge prevede addirittura la pena di morte. E ce ne sono anche altri – ad esempio l’Egitto, l’Algeria e il Marocco – dove è comunque previsto per questa fattispecie giuridica il carcere o un’ammenda. Proprio il fatto di essere sancita dalla legge dello Stato come reato rende l’apostasia (in arabo ridda) una questione inaccettabile nel contesto del mondo globalizzato di oggi. In gioco – infatti – non c’è il comportamento di un gruppo fanatico ed estremista come può essere Boko Haram, la formazione che in Nigeria si sta rendendo protagonista del sequestro delle duecento studentesse cristiane forzatamente costrette ad abbracciare l’islam. Di fronte a violenze di questo tipo è relativamente facile per le istituzioni musulmane prendere le distanze, sostenendo che non si tratta «dell’autentico volto dell’Islam», religione che nella seconda Sura del Corano predica come parola del Profeta il principio «nessuna costrizione nelle materie di fede». E infatti dall’Università di al Azhar al Cairo fino al gran mufti dell’Arabia Saudita hanno aderito tutti alla campagna #bringbackourgirls lan-

ciata su Twitter per invocare la liberazione delle ragazze nigeriane. Sull’apostasia, invece, il discorso è diverso: è vero infatti che non esiste nel Corano un’indicazione chiara che parli di una condanna a morte per chi lascia l’Islam. Ma tesi di questo genere esistono negli hadit, i detti del Profeta, che sono la seconda fonte di riferimento per il mondo musulmano. E va aggiunto che in ambito islamico oggi c’è chi dice che sono espressioni che vanno interpretate storicamente a partire dal dato di fatto che – nell’Arabia del VII secolo – abbandonare l’Islam significava stare dalla parte di chi combatteva contro i musulmani. E anche che nell’evoluzione del diritto islamico vi sono stati inviti a considerare fino a che punto il presunto «apostata» fosse realmente un devoto musulmano prima di abbandonare la sua fede (principio che nel caso della sudanese Meriam dovrebbe contare, dal momento che questa donna è considerata musulmana per il semplice fatto che lo era suo padre che poi l’ha abbandonata all’età di cinque anni). Però la questione della posizione dell’islam di fronte a un diritto umano fondamentale come la libertà di religione rimane comunque ambigua. Ed il dibattito anche all’interno delle comunità islamiche «di minoranza», che vivono in Occidente, è ancora all’inizio. Del resto il caso di Meriam non è affatto isolato: una sorte simile era già toccata nel 2006 all’afghano Abdul Rahman, condannato pure lui a morte per essere diventato cristiano. Anche allora la vicenda si risolse solo grazie a una mobilitazione internazionale. E comunque Abdul Rahman dovette pagare il prezzo dell’esilio dal suo Paese: dal 2006 vive infatti in Italia. Proprio quello dell’abbandono della propria terra probabilmente è l’esito più prevedibile anche per la vicenda di Meriam Yehya Ibrahim, che se anche venisse scarcerata rischierebbe in Sudan di venire uccisa da qualche fanatico. Al tema dell’apostasia va accostato – per analogia – anche a quello delle leggi sulla blasfemia, che colpiscono chiunque offenda la religione islamica. In questo caso il Paese simbolo è il Pakistan dove a volerle fu il generale Zia, ancora negli anni Ottanta, con una modifica del codice penale che non è mai stata toccata da nessuno dei governi che si sono succeduti a Islamabad. Il problema di questo tipo di leggi – in teoria assimilabili ad altre norme di tutela dei sentimenti religiosi – è la loro assoluta vaghezza; così in contesti fortemente segnati dalla presenza dell’Islam fondamentalista, come è appunto quello pachistano, in oltre trent’anni l’accusa di blasfemia è stata utilizzata decine di volte per arbitri indiscriminati nei confronti delle minoranze cristiane, a volte per ammantare di una motivazione religiosa semplici dispute legate alle proprietà delle terre. Anche qui c’è un caso molto noto: quello di Asia Bibi, un’altra madre di famiglia cristiana, che si trova in carcere ormai da quattro anni e mezzo perché accusata da alcune testimonianze (senza prove certe) di aver insultato il Profeta durante una giornata di lavoro. Sempre in Pakistan nel 2012 si era arrivati addirittura ad accusare una bambina undicenne affetta da sindrome di Down – Rimsa Masih – per l’incendio di alcune copie del Corano. Ma sono solo i casi più noti approdati in tribunale e dunque finiti sotto la lente dei media internazionali. Non così le altre decine di nomi di cui parlano alcuni rapporti molto circostanziati stesi dalle comunità cristiane pakistane: tutte persone colpite a morte in questi trent’anni da gruppi di fondamentalisti islamici invocando a giustificazione le leggi antiblasfemia. Anche in questo caso la vicenda

Una donna sudanese tiene la croce mentre prega (AFP).

del Pakistan è il volto più eclatante, ma leggi di questo genere esistono praticamente in tutti i Paesi a maggioranza musulmana. E là dove avanza il radicalismo islamico la loro applicazione diventa un’arma utilizzabile contro chiunque. È il caso ad esempio oggi del Nord della Siria sconvolta dalla guerra, dove le milizie dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante – formazione di stampo qaedista – hanno costituito nella provincia di Raqqa un proprio

mini-califfato nel quale è stata imposta un’applicazione molto rigida della legislazione islamica. Al punto di tornare ad applicare ai cristiani persino la jizya, la tassa che nell’antichità veniva imposta a chi non è musulmano. Un’altra situazione di gravissima persecuzione per i cristiani a opera di musulmani è infine quella della Somalia, Paese africano dilaniato da una lunga catena di conflitti e abbandonato oggi alla legge del più forte. Qui i pochi

cristiani rimasti sono costretti letteralmente a nascondersi per sfuggire alla persecuzione violenta delle milizie islamiche degli al Shabaab. È di pochi giorni fa la notizia dell’uccisione di una giovane donna di nome Sufia, prelevata dalla sua casa e giustiziata in piazza semplicemente perché cristiana. Un fatto che non è approdato nemmeno tra le brevi sui nostri giornali, tanto grande è ormai il silenzio che circonda tutto ciò che accade oggi in Somalia.

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Politica e Economia

La madre di tutte le battaglie CH-UE La posta in gioco nello scontro incarnato da Christoph Blocher e Didier Burkhalter sulle relazioni future

con l’Unione europea è la sopravvivenza della Via bilaterale come l’abbiamo conosciuta negli ultimi 20 anni Marzio Rigonalli Blocher-Burkhalter. Nelle ultime settimane, il binomio è stato evocato e proiettato nel futuro come l’espressione più sintetica dello scontro destinato a caratterizzare la scena politica elvetica nei prossimi due anni. Uno scontro che, al di là delle due personalità coinvolte, avrà come fulcro i futuri rapporti tra la Svizzera e l’Unione europea. Vediamo quali sono le premesse ed i contenuti di questa futura battaglia. Christoph Blocher lascerà fra poco il Consiglio nazionale per potersi dedicare interamente alla questione europea che, dopo la votazione popolare del 9 febbraio, ha assunto una posizione dominante nelle priorità della politica estera elvetica. Blocher si sente investito di una missione: impedire l’avvicinamento della Svizzera all’Unione europea. Per adempiere a questa missione è pronto a mettere a disposizione tempo e mezzi finanziari (si parla di parecchi milioni di franchi), e sta perfezionando la strategia e le azioni che ne deriveranno. Il suo principale punto d’appoggio sarà il «Comitato contro l’ingresso strisciante nell’UE», un organismo appena creato, al quale avrebbero già aderito 50 organizzazioni e un migliaio di persone. La presidenza di questo comitato viene assunta dallo stesso Blocher. Il leader dell’UDC può contare anche su due altre strutture d’appoggio. Innanzitutto, sul suo partito, di cui egli rimane vicepresidente e principale ispiratore ideologico. Poi sull’ASNI, l’Azione per una Svizzera neutrale ed indipendente. Creata nel 1986 da Cristoph Blocher e da Otto Fischer, ex direttore dell’Unione svizzera delle arti e mestieri (USAM), l’ASNI ha svolto costantemente un’azione contro l’apertura della Svizzera verso l’esterno. Tre settimane fa, ha eletto come nuovo presidente Lukas Reimann, un giovane san gallese di 31 anni, consigliere nazionale UDC. Reimann viene considerato un talento politico e la personalità giusta per rivolgersi alle giovani generazioni. Per di più, l’assemblea dell’ASNI ha incaricato il nuovo presidente di preparare un’iniziativa popolare che consenta alla Svizzera di ritrovare la sua sovranità in quei settori dove, secondo lei, l’ha persa, a causa degli accordi bilaterali con l’UE. Blocher si appoggerà su queste strutture e condurrà un’azione, di cui si possono già tracciare le grandi linee. La difesa dell’indipendenza del Paese e di ogni parcella di sovranità contro un’intesa con l’UE, il rifiuto di qualsiasi in-

Burkhalter e Blocher: in prima linea nella battaglia pro e contro l’attuale politica di avvicinamento della Svizzera all’Unione europea. (Keystone)

gerenza esterna nell’ordinamento giuridico interno, attraverso le sentenze di tribunali e di giudici internazionali, la denuncia dei pericoli insiti in ogni forma di apertura, come la criminalità importata, la spada tratta a supporto della democrazia diretta e sicuramente anche gli attacchi alla «classe politica», ritenuta incapace di interpretare la volontà e le aspirazioni del popolo. Con la sua azione, Blocher cercherà di preparare l’opinione pubblica a due scadenze importanti, le elezioni nazionali del 2015 e la probabile votazione popolare sui rapporti con l’UE nel 2016. L’obiettivo per l’anno prossimo è di riconfermare, e possibilmente consolidare, il primo posto dell’UDC fra i partiti politici svizzeri, trasformando la questione europea in una questione vitale per la Svizzera. Nel 2016, invece, si cercherà di far fallire qualsiasi avvicinamento con l’Unione europea, che potrebbe subentrare sia attraverso l’accordo istituzionale, il cui negoziato è appena stato avviato, sia attraverso qualsiasi altra intesa che potrebbe venir concordata nei prossimi due anni. L’obiettivo finale è di annullare gli accordi bilaterali con l’UE e di sostituirli con un accordo di libero scambio.

Didier Bukhalter punta ad altri obiettivi. Primo fra tutti quello di preservare la via bilaterale con l’Unione europea. Nella sua veste di ministro degli esteri, rafforzata quest’anno dalla presidenza della Confederazione, è il titolare del dossier Europa nella compagine governativa. Deve gestire i rapporti con Bruxelles e favorire il raggiungimento di compromessi che saranno poi sottoposti al Consiglio federale, al Parlamento ed, in ultima istanza, al popolo. Burkhalter non ha né il carisma, né il seguito popolare di cui gode Blocher. Per di più, l’appartenenza ad un collegio di sette ministri non gli offre infinite possibilità di profilarsi. Quando era capo del dipartimento dell’interno, la sua azione non fu certo contraddistinta da scelte coraggiose e nemmeno da progetti suscettibili di garantire un futuro sereno allo stato sociale. Negli ultimi tempi, però, qualcosa è cambiato. Burkhalter ha reagito in modo pacato al voto popolare dello scorso 9 febbraio e ne ha subito accettato le conseguenze. Come presidente dell’OSCE, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, ha saputo raccogliere elogi sul piano internazionale e su quello interno, per

il modo in cui ha cercato e sta cercando di mediare nella crisi ucraina. Elogi che hanno rafforzato la sua posizione ed anche l’immagine internazionale della Svizzera. L’azione di Burkhalter si muove su due assi principali. Il primo riguarda l’applicazione pratica dell’iniziativa popolare approvata il 9 febbraio. Il Consiglio federale ha promesso un primo progetto prima dell’inizio dell’estate. Un progetto che andrà in consultazione e che sarà oggetto di discussioni anche con Bruxelles, per verificarne la compatibilità con la libera circolazione delle persone. Il secondo asse porterà alla conclusione di un accordo istituzionale, di cui si parla da anni e che è la condizione sine qua non per poter continuare la via bilaterale con l’UE. Si tratta di concordare le modalità sulla ripresa del diritto europeo da parte della Svizzera, di definire la procedura per risolvere i conflitti di applicazione dei numerosi accordi bilaterali, nonché di prevedere sanzioni in caso di violazioni. Il dialogo con Bruxelles registrerà, probabilmente, momenti difficili, con battute d’arresto e blocchi negoziali, e nel 2016 avrà una prima importante verifica interna. Per quell’anno, Burkhal-

ter ha annunciato una votazione popolare sui nostri rapporti con l’UE. Non si conosce ancora la domanda che verrà sottoposta al popolo, ma si può presumere che si tratterà, in qualche modo, di votare a favore o contro la via bilaterale adottata fino ad oggi. In vista di questo appuntamento, il presidente della Confederazione appare abbastanza isolato nella sua azione. Non dispone certo dell’artiglieria messa in campo da Blocher. Gode dell’appoggio incondizionato del NUMES, il Nuovo movimento europeo svizzero, ma dispone di pochi altri sostegni. I partiti politici, favorevoli alla via bilaterale, preferiscono attendere proposte concrete prima di impegnarsi. Perfino il PLR, cui appartiene Burkhalter, non si espone molto. Sono posizioni, cui non sono estranee le considerazioni preelettorali in vista delle elezioni nazionali dell’anno prossimo, ma che non aiutano la formazione dell’opinione pubblica. La prossima votazione popolare sull’Europa sarà molto importante e potrebbe avere la stessa portata ch’ebbe il voto sullo Spazio economico europeo del 6 dicembre 1992. La sua preparazione, quindi, richiede tempi lunghi e non alcuni mesi. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia Rubriche

In&outlet di Aldo Cazzullo La rabbia buona di Grillo L’ospitata di Beppe Grillo da Bruno Vespa sarà ricordata come la svolta della campagna elettorale delle Europee 2014, così come la puntata di Servizio pubblico in cui Silvio Berlusconi andò da Michele Santoro fu la svolta della campagna delle Politiche 2013. Il meccanismo è esattamente lo stesso. Il leader va nello studio del suo peggior nemico, dell’uomo che ha attaccato e fatto attaccare (anzi, insultato e fatto insultare) fino al giorno prima. Si rivolge a un pubblico che non è il suo. Manda un messaggio all’esterno: non temo nulla e nessuno. Si sottopone a un’intervista che ha una sua apparente spigolosità (Santoro e Vespa sono due grandi professionisti, ognuno alla propria maniera), ma che sottende un’operazione win-win: vincono entrambi, agli occhi dei rispettivi estimatori, sia l’intervistato sia l’intervistatore. Del resto, Santoro e Vespa hanno fatto il record degli ascolti. Berlusconi uscì rivitalizzato dallo studio del «nemico», con un colpo di reni che in questa campagna elettorale non è riuscito ad avere. E Grillo è riuscito a trasmettere ai moderati il messaggio che gli stava a cuore: non sono un pazzo estremista,

sono uno di voi, arrabbiato come voi, ma di una «rabbia buona». È possibile che queste Europee siano l’ultimo grande successo di Grillo. Stavolta non si vota per il governo. Le elezioni saranno un grande sfogatoio. Gli elettori italiani si sentono traditi dall’Europa e dalla Germania; è normale che esprimano un voto

semburghese Juncker. Grillo è l’unico davvero libero di tuonare contro la cancelliera, contro l’euro, contro ogni sorta di istituzione e di rappresentanza, alternando lusinghe e minacce, sorrisi e insulti. Non a caso, dopo essere apparso in versione «moderata» nel salotto quasi istituzionale di Bruno Vespa, il giorno dopo Grillo è tornato al linguaggio e ai toni da tribuno, promettendo «processi online» a imprenditori, politici e giornalisti. Un argomento che non deve stupire. Il Movimento Cinque Stelle è il volto italiano di un fenomeno internazionale: la rivolta contro le élites, contro le istituzioni, contro i capi dei sindacati, contro le banche, contro i giornali, contro la finanza, contro le grandi imprese: tutti accomunati, al di là dei loro meriti o demeriti, come colpevoli della crisi. E ovviamente le élites – o presunte tali – hanno le loro responsabilità. Ma le cause della crisi sono molto più complesse, e crudeli. Il mondo globale fa sì che il lavoro venga esportato nei paesi in cui costa meno, o importato e affidato agli immigrati più disposti di noi a sacrificarsi. È la jobless society, la società senza lavoro, in cui le macchine

intelligenti e Internet sostituiscono il lavoro umano. Il messaggio di Grillo ignora tutto questo. È un messaggio consolatorio. Usciamo dall’euro, non paghiamo il debito pubblico, diamo mille euro a tutti in cambio di nulla (il famoso reddito di cittadinanza). Misure impossibili, mescolate ad altre di buon senso: non portare in Parlamento i pregiudicati, tagliare drasticamente gli stipendi dei politici, abolire davvero il finanziamento pubblico dei partiti. I ritardi con cui si muovono il Parlamento e il personale politico tradizionale fanno sì che Grillo continui a crescere. Renzi ha impresso senza dubbio un’accelerazione alla politica italiana. Ma i risultati per ora non si vedono. Il premier sperava di arrivare al voto avendo ottenuto il primo sì del Senato alla propria estinzione. L’obiettivo è molto lontano dall’essere raggiunto. E anche la nuova legge elettorale è stata approvata solo dalla Camera. La tentazione di tornare al Mattarellum – la legge che prevede i collegi uninominali – e andare al voto anticipato il prima possibile si farà sentire sempre più forte il 26 maggio.

Non è quindi semplice, nelle poche righe di un articolo come questo, riassumerne il contenuto. Dovremo per forza di cose limitarci a ricordare solo un paio di messaggi tra i molti che abbiamo potuto rilevare. Sono quelli che ci hanno colpito in modo particolare. Il primo è che, nonostante i progressi della liberalizzazione, le frontiere restano. Restano perché, come afferma Mazzoleni nella sua introduzione, esse sono «manifestazioni di un limite, di una differenziazione, di una barriera sociale, culturale, politica, economica, ma anche, allo stesso tempo, punti di contatto, di mediazione e di comunicazione, espressioni di spazi intermedi». Questa visione dialettica del concetto di frontiera ispira buona parte dei contributi, in particolare quelli che si occupano delle dimensioni globale e locale dei problemi legati alla frontiera

e quelli che insistono sulla frontiera come barriera, da un lato, ma anche come punto di incontro dall’altro. Il secondo messaggio ci viene dal saggio del geografo Martin Schuler, il quale mostra che in Ticino il frontalierato è sempre stato un fenomeno complementare. Insomma, da noi, i frontalieri aumentano perché aumenta l’occupazione, proprio come il consumo di benzina aumenta con il numero di macchine in circolazione. La proporzione dei frontalieri nell’occupazione resta quindi sempre più o meno costante. Se l’occupazione aumenta del 10%, anche l’effettivo dei frontalieri aumenta del 10%. Se vuoi che il numero dei frontalieri diminuisca, poniamo del 10%, è quindi molto probabile che anche l’occupazione si ridurrà del 10%. Detto in modo più spiccio: se vuoi mandare a casa 5000 frontalieri è

probabile che dovrai licenziare anche 15’000 lavoratori residenti. E qui casca l’asino perché se le cose stanno così, ossia se il frontalierato è un complemento necessario dell’occupazione in Ticino, contingentare i frontalieri non significherà sostituirli con lavoratori residenti, ma, purtroppo, condannare un elevato numero di aziende alla chiusura. Senza benzina, l’automobile non marcia più. Di questi possibili effetti catastrofici nel libro che stiamo presentando non se ne fa parola anche se, nel saggio finale di Remigio Ratti, si ritrova qualche indizio di quello che potrebbe capitare. Per esempio il fatto che dei quattro scenari verso i quali potrebbe evolvere la governanza transfrontaliera insubrica, tre sarebbero da scartare e uno solo, quello che forse ha meno probabilità di essere realizzato, è desiderabile.

Il termine «confinante» mi ricorda un bellissimo aneddoto. Fine anni Sessanta, Lugano ormai in pieno «boom», con la zona pedonale ancora da inventare. Una sera la polizia ferma un giovane (apprendista al «Giornale del Popolo») che transitava in auto lungo via Nassa. «Non ha visto il cartello di traffico vietato all’inizio di questa strada?». «Ho visto il divieto, ma leggendo mi sono convinto che io potevo passare» risponde il giovane. «Non dica stupidaggini; cosa avrebbe letto?». «Sul cartello del divieto c’è scritto “Confinanti autorizzati” e io sono confinante». «Ah, lei abita qui?». «No, ma sono un confinante: abito a Luino». Ecco, a torto o a ragione, questo aneddoto per me certifica che il «frontaliere» aveva ancora un po’ di strada da percorrere per imporsi alla grande, termine cucito addosso ai 60’000 cittadini italiani che ogni giorno raggiungono posti di lavoro in Ticino. Penso ai tanti frontalieri con cui ho

avuto il piacere (ed anche il privilegio, sperando che ciò possa essere reciproco) di lavorare: partendo dai colleghi giornalisti giungo fino a tanti tipografi e, allargando il campo alle conoscenze extra-professionali, mi accorgo che sono un battaglione. È incredibile come un esercizio così semplice (quanti frontalieri possiamo elencare al nostro servizio, dal fruttivendolo al barbiere, dal commesso al fisioterapista…) consenta sia di rafforzare l’ammirazione sia di relativizzare quei luoghi comuni in cui si finisce per cadere ogni volta che viene sfiorato il tasto dell’occupazione, dei salari ecc. ecc. Ma non spetta a me avventurarmi su certi picchi. Meglio le pianure, meglio contemplare la collegialità e le amicizie. E allora mi piace chiudere questo omaggio al frontaliere con l’aneddoto di un carissimo amico che ha appena concluso la sua carriera professionale in Ticino e ora si gode la pensione dalle parti di Como. Cercherò di non guastaglierla rivelan-

do una sua deliziosa «furbata» che ha un posto particolare nella mia speciale classifica dei frontalieri. Un giorno riceve una telefonata dal compianto Nano Bignasca che lo vuole consultare in vista di un probabile accordo. Fatte le solite schermaglie, è subito intesa: si va a pranzo e si discute «alla ticinese», magari mettendo già a punto gli estremi del futuro rapporto di collaborazione. Bene. Ma non proprio tutto. L’amico, forse suggestionato da quel «alla ticinese», pensa alla sua Rover targata Como e la vede come una specie di minaccia: se il Nano che non guida vuol farsi portare a pranzo o solo mi vede con quell’auto da frontaliere, va a finire che la «nostranità» finisce a ramengo e con lei anche le possibilità di avere il contratto. Così per l’incontro con Bignasca il frontaliere decide di farsi prestare l’auto da un collega ticinese e il contratto viene stipulato: «alla ticinese», ma con un’astuzia «alla napoletana».

anti-europeo e anti-tedesco. Anche Renzi e Berlusconi hanno criticato l’eurocrazia di Bruxelles e la politica della Merkel. Ma Renzi è il capo del governo; con la Merkel deve fare i conti. E Berlusconi è addirittura alleato della Merkel, e sostiene la sua stessa candidatura alla guida della commissione europea, lo scialbo lus-

Il Mercato e la piazza di Angelo Rossi Messaggi dalla frontiera Si può, oggi, in Ticino, parlare della frontiera senza parlare, o quasi, dei ristorni fiscali dei frontalieri? Si può: anzi, si dovrebbe. Questo è almeno il parere condiviso dagli undici autori dei saggi pubblicati nel volume Vivere e capire le frontiere in Svizzera, appena pubblicato da Coscienza Svizzera e Armando Dadò. I saggi della pubblicazione si raccolgono attorno a tre tematiche. «Le frontiere, ragioni e effetti», «Le frontiere della Svizzera italiana» e «La Svizzera, spazio di frontiera». La ricerca socio-economica sul significato e gli effetti della frontiera si può dire sia nata trent’anni fa, nell’ambito di un programma di ricerca nazionale sui problemi regionali. Anche se è vero che l’intera Svizzera è un Paese di frontiera, questo tipo di ricerca si è sviluppato soprattutto per i contributi dei ricercatori delle regioni nelle

quali i flussi transfrontalieri sono più intensi: Ginevra, Basilea, la regione del lago di Costanza, la Svizzera italiana. I problemi posti dalla frontiera e il modo di considerarli variano da una regione all’altra. La pubblicazione di cui vogliamo parlarvi cerca di fare il punto della situazione a livello nazionale, ma anche nelle singole regioni frontaliere, in particolare in quelle della Svizzera italiana. Per soddisfare questo obiettivo i suoi due curatori, Oscar Mazzoleni e Remigio Ratti, hanno chiesto contributi non solo a ricercatori ticinesi, ma anche ad autori di altre regioni di frontiera del nostro Paese e italiane. Un altro merito della pubblicazione è quello di aver fatto appello a contributi pluridisciplinari. Vi primeggiano i saggi degli storici. Ma tra gli autori vi sono anche economisti, geografi, filosofi, politologi e sociologi.

Zig-Zag di Ovidio Biffi Si fa presto a dire frontaliere Ogni tanto capita di interrogarsi sul significato di una parola, magari cercando il suo etimo o la sua matrice. Succede quando qualche parola ci sorprende, oppure semplicemente perché è la prima volta che quel nome, o quell’aggettivo, svelano un significato o un’estensione che ci era ignoto e ci sorprende. Una di queste parole, per me, è «frontaliere», sostantivo ritornato in voga negli ultimi tempi principalmente per le note vicissitudini, politiche prima e sociali poi, citatissimo al punto da diventare titolo di una fortunata serie di «gags» in tv e poi anche al cinema. Consultando i dizionari si apprende che «frontaliere» è entrata nella «legalità» linguistica circa 50 anni fa per denominare un «abitante di una zona di confine tra due Stati; lavoratore, residente in tale zona, che deve giornalmente varcare il confine per recarsi sul posto di lavoro». Lo stesso dizionario mi dice che esisteva anche «frontaliero», caduto in disuso

come sostantivo, ma ancora in auge come aggettivo. Merita segnalazione il Devoto Oli che come esempio propone «frontaliere di Chiasso» e attesta che il sostantivo è derivato dal francese «frontalier», derivazione che forse spiega anche il ritardo della sua entrata nella lingua italiana e nella vulgata della nostra gente. Come sempre, dovendo attraversare terreni per specialisti (linguistica), non mi azzardo a compiere voli pindarici, ma solo piccoli passi e in punta di piedi. Lo faccio unicamente per arrivare a dire che prima degli anni Settanta il termine «frontaliere» da noi non era in uso. Chi dall’Italia giornalmente veniva in Ticino, più per fare il pieno di benzina o acquisti di merci più care (o, a quei tempi, introvabili in Italia), per noi era un «confinante». Chi invece lo faceva per lavoro era uno «stagionale», visto che le occupazioni di allora erano solo quelle legate al primario e dipendevano, appunto, dalle stagioni.



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Cultura e Spettacoli Palco ai Giovani Dal 29 al 31 maggio la sfida tra le nuove leve della musica

Cannes al centro del mondo Il Festival cinematografico più ambito, fra red carpet e grandi film

Steps, un bilancio Si è concluso Steps, il più grande Festival della danza della Svizzera, organizzato dal Percento culturale Migros

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Rousseau ricamato Un libro e una mostra per una moda del Settecento

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Licini e Arp, così vicini Mostre A Lugano l’arte diventa dialogo Alessia Brughera Ebbero vite e caratteri molto diversi Jean Arp e Osvaldo Licini. L’uno sempre impegnato a tessere una straordinaria trama di esperienze e incontri, quasi un nomade il cui intenso attivismo bastava a malapena a saziare il suo grande desiderio di stimoli; l’altro decisamente più solitario, anch’egli curioso e sempre alla ricerca di nuovi impulsi, ma molto legato alla propria terra d’origine, eletta quale luogo più affine al suo animo contemplativo. Due figure apparentemente dissimili, dunque, che non ebbero nemmeno mai occasione di conoscersi, ma dal cui accostamento risultano interessanti assonanze che la mostra in corso al Museo d’Arte di Lugano, con le sue centocinquanta opere, riesce bene a far emergere. Intanto, analoga fu una certa resistenza da parte di entrambi alla piena adesione alle correnti artistiche a loro contemporanee, in favore di quella libertà di pensiero che fu premessa indispensabile per maturare uno stile unico e indipendente. Poi, soprattutto, l’attitudine a riconoscere nell’arte una dimensione spirituale attraverso cui comprendere ciò che sta al di là della realtà oggettiva, e che si traduce per tutti e due nell’approdo all’essenzialità delle forme astratte. Quella di Jean Arp, alsaziano di nascita ma svizzero di adozione, è una vita in cui l’arte coincide con un’incessante attività di ricerca. Arp si avvicina a molti gruppi di avanguardia, frequenta artisti, esplora tecniche. Lo vediamo accostarsi al «Blaue Reiter» di Monaco, partecipare alle esperienze dadaiste prima a Zurigo nel 1916 e poi a Colonia nel 1919, avvicinarsi ai surrealisti nella Parigi degli anni Venti, confrontarsi con il movimento De Stijl e con gli astrattisti di Abstraction-Création e di Cercle et Carré. Nel frattempo porta avanti numerose sperimentazioni (fra cui quella dei collages dominati dalla casualità), per dedicarsi poi, a partire dagli anni Trenta, a un’arte prevalentemente scultorea che tende a imitare le forme organiche nel loro processo di metamorfosi. Le sue opere a tutto tondo, fatte di movenze fluide, di volumi levigati e di sinuose alternanze di pieni e di vuoti, diventano l’emblema di una nuova visione del rapporto con la natura, interessate come sono a tradurre in arte i principi creativi della realtà, con i suoi cicli di germinazione, crescita e deperimento. Nascono così lavori capaci di trasmettere la sensazione di una lenta e inesorabile espansione, in cui le forme si trovano in un momento indefinito dello sviluppo e possiedono ancora molteplici possibili esiti. Dal canto suo, Osvaldo Licini, originario di un piccolo paese delle Marche, è artista altrettanto avido di sollecitazioni. Dopo gli studi all’Accademia

Jean Arp, Deux Têtes, 1927; olio e corda su tela. (Collezione privata)

di Bologna si trasferisce prima a Firenze e poi, nel 1917, a Parigi, dove conosce la pittura di Matisse («uno dei pochi che hanno saputo scoprire il volto della misteriosa bellezza», diceva) e dove stringe amicizia con Modigliani, Soutine e Kisling. Nel 1926 torna in Italia per ritirarsi nel suo paese natio. I viaggi in Europa sono ancora frequenti, ma la quiete dell’entroterra marchigiano meglio si sposa con la sua pittura meditativa e poetica. Il cammino artistico di Licini è molto singolare e il suo passare attraverso diverse fasi è la dimostrazione di un’indole esigente, difficile da appagare: dal «primitivismo fantastico» (come lui amava definire lo stile dei suoi esordi), all’espressionismo lirico degli anni Venti, all’astrattismo del decennio successivo – debitore sì della lezione del gruppo Abstraction-Création e degli artisti della galleria «Il Milione», ma da essi già lontano, proiettato com’è verso

una dimensione suggestiva fatta di fantasia, di colore, di trionfante instabilità e di materia vibrante – per giungere infine all’evocazione visionaria degli anni Quaranta e Cinquanta. Straordinaria stagione, questa, popolata di evanescenti presenze inquietanti, beffarde, intrepide e sensuali, che sembrano librarsi verso lo sconfinato in un’atmosfera onirica che è divina e profana insieme. Ad aprire l’esposizione di Lugano sono i lavori degli anni della formazione di Arp e Licini, quando ancora erano legati alla figura. In queste opere sono evidenti i loro interessi condivisi per il nudo e per la resa plastica dei corpi, con un occhio rivolto da entrambi a maestri quali Matisse, Rodin e Modigliani, pure presenti in mostra come testimonianza della tendenza al raffronto sempre viva nei due artisti. Da qui, il percorso espositivo si sviluppa documentando il passaggio verso l’astrazione geometri-

ca, che rivela interessanti analogie tra Arp e Licini non solo nella scelta degli artisti e dei movimenti verso cui orientarsi (come Kandinskij, Klee, Sophie Taeuber o il gruppo De Stijl), ma anche nella realizzazione di lavori costruiti su equilibri precari fatti di sbilanciamenti, sovrapposizioni e reiterazioni degli elementi, e spesso nutriti di segni e caratteri dal valore simbolico. Opere, queste, per Licini già connotate da una certa impronta emotiva, per Arp già spinte a ricreare la transitorietà delle dinamiche organiche. Nell’ultima ampia sezione della mostra, il confronto tra i due artisti è giocato sul rapporto con la natura, considerata da Arp come una forza da cui estrapolare nuove forme che richiamino quelle ingegnosamente modulate del vivente, da Licini come uno spazio leggendario da cui trarre la materia per la sua pittura volatile e incantata. Uomo e universo sembrano allora compene-

trarsi, tanto nelle fisionomie arrotondate di Arp (bella, in mostra, la scultura in bronzo Donna paesaggio del 1958), quanto nelle incorporee invenzioni iconografiche di Licini, di cui sono esposti emozionanti esempi appartenenti ai grandi cicli degli Angeli ribelli e delle Amalassunte. Il tutto a ricordarci, come scrisse Arp, che «un’opera che non sia radicata nel mito, nella poesia, che non partecipi della profondità dell’essenza dell’universo, è solo un fantasma». Dove e quando

Jean Arp – Osvaldo Licini Museo d’Arte Lugano. Fino al 20 luglio 2014. A cura di Guido Comis e Bettina Della Casa. Orari: martedì-domenica 10.00-18.00; venerdì 10.00-21.00; lunedì chiuso. Catalogo edito da Skira, CHF 39.– www.mda.lugano.ch


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Orme: segni forti di arte integrata Teatro Tre spettacoli andati in scena a Lugano hanno lasciato

impressioni profonde che sono andate oltre il mero intrattenimento Giorgio Thoeni Alterità, diversità. Sono termini entrati ormai nel lessico e adattabili a molte circostanze. Termini che si assomigliano, che si completano. L’altro è sempre oggetto di diversità, la diversità appartiene a qualcos’altro. La società moderna si distingue nella pacifica battaglia di integrare la diversità in una giusta e articolata conquista delle pari opportunità. Sarebbe obsoleto elencare tutte quelle «alterità» e «diversità» che potrebbero entrare in linea di conto. Eppure il mondo di oggi sul terreno dell’uguaglianza deve continuare a fare i conti con una diversa forma di alterità. Quella rappresentata dai cosiddetti «normali»: nel pensiero, nella conformazione fisica, nell’arte, nella creatività; per un’aristocrazia di valori votati alla perfezione, all’omologazione, alla creazione di una barriera di «differenze» che tendono inevitabilmente alla discriminazione dell’alterità. Passi avanti ne sono stati fatti parecchi e in moltissimi ambiti. L’arte è forse quel settore, chiamiamolo così, dove ci sono

ancora territori da ampliare. Come quello legato all’espressione artistica, all’estro, alla fantasia, alla loro comunicazione: un’arte integrata con piena cittadinanza alla pari, insomma. Dopo il successo ottenuto nel 2012 con «IntegrArte», un festival dedicato alla cultura prodotta da persone con disabilità che aveva permesso a più di un centinaio di artisti di esibirsi nel Teatro Foce di Lugano e dintorni in performance teatrali, musicali e di danza, su iniziativa della FTIA (Federazione Ticinese Integrazione Andicap), dell’Associazione Teatro Danz’Abile e sostenuta dal Percento culturale Migros Ticino, quest’anno la manifestazione si è riproposta con un nuovo nome: «Orme - perché l’arte lascia il segno» con tre spettacoli: Un puntino all’orizzonte dei Giullari di Gulliver, Granelli del Teatro Danz’Abile e Cosa ti manca per essere felice? di Simona Atzori. I primi due sono andati in scena con grande successo di pubblico nello spazio de «Il Cortile», l’ultimo appuntamento ha riempito ed entusiasmato la platea del Teatro Cittadella.

Si è trattata di un’occasione molto interessante per assistere a produzioni differenti per tipologia, per cifra stilistica e in un assortimento mirato fra il teatro e la danza. Ma anche per un confronto di impostazioni di lavoro e di finalità drammaturgiche. «I Giullari di Gulliver» diretti da Antonio Cecchinato, con la creazione collettiva Un puntino all’orizzonte, hanno inventato un luogo incerto, con vari personaggi che si ritrovano casualmente su un’isola per accogliere un naufrago: cominciano a sognare, creando universi di solidarietà, divertimento, immagini colorate e ironiche con dialoghi brillanti e sorprendenti, fra cabaret e citazioni emblematiche (come l’evocazione della figura di Don Chisciotte). La linfa creativa di Cecchinato, empatica e contagiosa, diventa un gioco a cui è difficile sottrarsi. Anche come spettatori. Granelli del Teatro Danz’Abile, ha proposto uno spettacolo di teatro-danza farcito di memorie, sogni ed emozioni. Fra performance individuali e d’assieme, sul palco si alternano frammenti di sensazioni che compongono la vita

La ballerina Simona Atzori.

di ognuno dei protagonisti allo scopo di conservare ogni granello che scorre nella clessidra del tempo come momento unico e prezioso accanto a foto incorniciate, parole e frasi emblematiche recitate o scritte col gesso su un fondale di tela. Il gran finale del festival, acclamatissimo, è stato con la celebre ballerina priva di braccia Simona Atzori e con il suo spettacolo Che cosa ti manca per essere felice?, un appuntamento con la danza basato sull’omonima biografia dell’artista, una riflessione sulla propria vita attraverso una serie di episodi per lei fondamentali tramite i quali

rende omaggio alle persone più care. Si è trattato di un momento toccante con un personaggio davvero speciale, un’occasione d’incontro per il pubblico con la danzatrice e pittrice fuori dalla retorica, con l’aggiunta di una forte spinta di positività e serenità interiore. Un successo, in definitiva, che contiene un’ulteriore soddisfazione per gli organizzatori di «Orme», festival che dal prossimo anno si ripresenterà con un programma più ricco e che entrerà a far parte di «Integrart.net», un circuito nazionale che dovrebbe permettergli di lasciare una traccia ancor più profonda anche oltre i nostri confini regionali. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Elektra, l’orrore è normale Opera Al Teatro alla Scala è in scena Elektra, ultima regia di Patrice Chéreau

Sabrina Faller È approdata sul palcoscenico del Teatro alla Scala di Milano l’ultima regia del grande Patrice Chéreau, prematuramente scomparso per malattia nell’ottobre 2013, il cui nome resterà negli annali dei teatri d’opera come riformatore della regia lirica. Dopo il celebre allestimento del Ring del centenario (1976) a Bayreuth, il teatro d’opera non è stato più lo stesso. Il nome di Chéreau stabilisce una sorta di confine che separa il modo tradizionale di fare regia nella lirica e il modo moderno, in cui quel che

Il vero capolavoro di regia è costituito dalla figura di Elektra, con le sue ossessioni e il suo disturbo bipolare accade in scena ci riguarda, fosse anche successo mille anni fa, e i cantanti sono attori. Una grande lezione, ancora oggi fresca e importante per le future generazioni, se si vuole che il teatro d’opera sopravviva. Chéreau fa ancora scuola, perfino con un allestimento come quello dell’Elektra di Richard Strauss e Hugo von Hofmannsthal per il Festival di Aixen-Provence 2013, in cui apparentemente non si scorge nulla di nuovo. Le scene sono quelle «solite» di Richard Peduzzi, sobrie e senza tempo, le luci «ombrose» sembrano riemergere dal Tristan und Isolde della Scala del 2007. Eppure Elektra ha tanto da dire proprio in fatto di regia pura: la gestualità degli attori, con movimenti di scena anche minimi ma fondamentali, la loro aderenza fisica

ai personaggi. E anche la scena, in apparenza nuda e impersonale, ha il suo perché. Che storia si racconta? La storia di delitti efferati che accadono tra mura domestiche, la facilità con cui l’orrore si addensa su mura di case normali, i rapporti tra le persone che abitano quella finta normalità e che costruiscono insieme l’edificio del delitto. Quando si apre il sipario, un delitto è già avvenuto: Agamennone è stato ucciso al ritorno dalla guerra di Troia, dalla moglie Clitemnestra e dall’amante di lei Egisto, e i due ora governano Micene. Elektra, figlia di Agamennone e Clitemnestra, non si dà pace per la morte del padre, vive in disparte, come un animale, senza comunicare con nessuno, meditando vendetta, mentre suo fratello Oreste è stato allontanato dalla corte. La situazione iniziale ricorda quella di Amleto, Hofmannsthal non lo dimentica, e neppure Chéreau. Ma qui, a differenza di Amleto, la vendetta si compie, perché sarà proprio Oreste a vendicare il padre uccidendo la madre e il suo compagno. La tesi registica si esplicita nei primi minuti di spettacolo, che inizia prima della musica. Siamo dentro le mura del palazzo, un interno anonimo, grigio, in cui le ancelle, vere e proprie serve, puliscono il pavimento e le scale con secchi d’acqua e una scopa il cui rumore incessante evoca un’atmosfera di tetra normalità, di routine via via più soffocante. Il pubblico sta per farsi prendere dallo sconcerto, quando la musica irrompe drammatica e potente, ed è l’irrompere dell’orrore nella normalità apparente. Ma il vero capolavoro di regia è il personaggio di Elektra. Dominata e ossessionata dalla figura paterna, oppressa da un contraddittorio e irrisolto rapporto con la madre,

Elektra nella regia di Chéreau rimarrà in scena alla Scala fino al 10 giugno.

Elektra affida a una gestualità perfetta la sua duplice natura, il suo disturbo bipolare di depressa, sospesa tra l’abbattimento e la concitazione. Tra i momenti più riusciti l’isterica e selvaggia danza di liberazione finale, preannunciata all’arrivo in scena di Clitemnestra, danza che si conclude nell’immobilità e nello sguardo vacuo, fisso della protagonista, a follia compiuta. Occorre dire che Evelyn Herlitzius è magnifica in questo ruolo, costruito sulla sua

fisicità e sulle sue caratteristiche vocali. Quanto alla coppia assassina, cioè Clitemnestra ed Egisto, è una piccola coppia di borghesi benestanti, non più una coppia regale. La Clitemnestra di Waltraud Meier è una bella signora, di quelle che affollano il foyer della Scala, il suo delitto è compiuto, se ne vuole liberare e godersi la vita. Anche la sorella di Elettra, la simpatica Crisotemi di Adrianne Pieczonka, vorrebbe godersi la vita e dedicarsi all’allevamento del-

la prole. Un tocco di regalità permane nell’Oreste di René Pape, tenero fratello e implacabile vendicatore. Un cast stellare, dunque, sotto la direzione musicale di Esa Pekka Salonen, fondata sui contrasti e un po’ troppo preoccupata nel sottolineare la tragicità degli eventi, in una parola enfatica, ma di sicuro impatto sul pubblico. Elektra è in scena «in ricordo di Patrice Chéreau» come recita la locandina del Teatro alla Scala, fino al 10 giugno.

Ogni cosa è possibile Palco ai Giovani Dal 29 al 31 maggio ritorna l’appuntamento più amato per i giovani che vogliono ascoltare

e presentare musica nuova; abbiamo incontrato la formazione hip-hop Big Bang Family + Live Band, giunta in finale

Simona Sala Mancano pochi giorni... una manciata a dire il vero, e poi le 17 band che hanno superato la Winter Session lo scorso mese di gennaio potranno salire sul palco allestito come da consuetudine in Piazza Manzoni a Lugano e sfoderare tutto il proprio talento. Dal 29 al 31 maggio infatti Lugano sarà la capitale delle nuove leve musicali attive nel nostro cantone. Se in passato a farla da padrone erano per lo più formazioni a carattere folk, blues e rock, in questa edizione assistiamo a un incremento notevole di band provenienti dal mondo dell’hip-hop, a testimonianza di come questo genere musicale stia conquistando sempre più (forse anche grazie alla danza) i giovani alle nostre latitudini. Fra i finalisti vi è anche la Big Bang Family + Live Band, una formazione del Mendrisiotto composta da Luca, Michele, Alberto (voci), Davide (dj), Ale (batteria), Tava (chitarra), Manuel (basso) e Tobia (sax), e che da qualche tempo collabora con «Azione», proponendo uno sguardo sui grandi fenomeni musicali provenienti da quella che, indiscutibilmente, è la vera mecca del genere hip-hop, ossia gli USA. Abbiamo incontrato questa formazione, che ama definirsi una famiglia.

espansione, evoluzione in seguito ad un’esplosione musicale. I primi approcci, microfono in mano, risalgono al 2004 e si sono poi consolidati nel tempo con l’espansione del nostro messaggio musicale oltre i palchi (essenziali e fondamentali), per approdare alle radio, alla stampa, al web e all’organizzazione di eventi. Perché l’aggiunta di «+ Live Band»?

Questo è il primo anno che partecipiamo alla manifestazione «Palco Ai Giovani». Precedentemente abbiamo assistito, più volte, come spettatori e abbiamo sempre riscontrato una «certa difficoltà» nell’affermazione del genere hip-hop. Questo tipo di manifestazioni esclude qualsiasi tipologia di cover appianando così anche il livello dei testi, che in quanto a originalità ha sempre contraddistinto il genere da noi praticato. Ci siamo quindi concentrati sull’impatto live che volevamo ottenere coinvolgendo i ragazzi della band. L’idea è nata un po’ per gioco, abbiamo

confezionato una performance variata e caratteristica (come tipologia di contenuti e sonorità) e abbiamo formato questo team, chiedendo ai ragazzi di reinterpretare i nostri beat. Il risultato: una bomba! Sicuramente avete dei modelli di riferimento... qualche nome?

In primis il gruppo storico The Roots, poi altre formazioni che prevedono degli strumenti integrati nella performance come i Looptrop Rockers, Diamond D o gli Hocus Pocus! Mentre per quanto riguarda la carica e la determinazione i Dilated Peoples, ossia uno dei collettivi underground più forti al mondo. Insomma, tanti, tantissimi nomi ma diciamo che questi sono quelli che ci accomunano di più, poi ognuno di noi ha i suoi idoli e adora collezionare dischi, vinili e biglietti/pass dei live. Come viene ripartito il «lavoro» all’interno della famiglia? Chi compone e chi scrive i testi?

Vi sono dei temi che vi stanno particolarmente a cuore e che per questo entrano a fare parte delle vostre lyrics?

Cerchiamo di riflettere le nostre esperienze quotidiane basandoci su differenti tematiche. Il nostro fil rouge è senz’altro la positività o il cercare di tradurre ogni canzone ai fini di trasmettere un messaggio positivo a chi ci ascolta (i nostri warriors). Una frase di Q-Tip riassume bene la nostra filosofia: «Positivity is the key». Come ci si sente pochi giorni prima di salire sul palco?

Eccitati e carichi. Abbiamo provato molto le canzoni che vogliamo proporre e abbiamo cercato di confezionare un vero e proprio show. Agitati e positivi. Crediamo molto in questa data e nel progetto della live band, abbiamo raccolto feedback positivi e non vediamo l’ora di dire il classico «senti come suona» al pubblico che si godrà l’evento. Venerdì sera alle 22.00 siete tutti invitati.

Chi è la Big Bang Family e come è nata?

La Big Bang Family unisce i percorsi solisti di Luca (Costa), Michele (Moko), Alberto (Stex) e Davide (Dj P-Kut) in un’unica formazione. Big Bang come

Stex e Costa sono i Beatmaker ufficiali della crew, Palla è il Dj e Moko si occupa di tutto quello che è grafica o comunicazione visiva in generale. I testi sono frutto delle esperienze singolari riguardanti un argomento comune. È interessante trovarci in studio e sentire cosa ha scritto l’altro o preparato, nel caso di P-Kut e dei suoi scratch.

Cosa vi aspettate da Palco ai Giovani?

I membri della Big Bang Family + Live Band.

Calore, positività e un pubblico che vuole divertirsi con noi. Durante le selezioni abbiamo raccolto diversi

consensi e pareri entusiasti, abbiamo visto grandi e piccini divertirsi. Siamo fieri di quanto abbiamo creato e pronti a riproporlo. Palco ai giovani non è solo una competizione, vada come vada è un grande palco e come sempre, davanti a 1, 10, 100 o 1’000 persone siamo pronti a farci valere. Progetti per il futuro e sogni nel cassetto?

Le «carriere» soliste non si sono mai interrotte, ognuno di noi è attivo con molti progetti solisti, forse il più vicino alla realizzazione finale è Moko con il suo EP. I progetti della Family comprendono un Disco ufficiale (in dirittura d’arrivo), un progetto secondario estremamente rivoluzionario per le nostre latitudini, inoltre una raccolta di brani editi e inediti (nell’attesa) e un EP in collaborazione con i ragazzi della band. I nostri sogni hanno le stesse caratteristiche dei nostri progetti, molteplici, ambiziosi ed estremamente affini alla cultura che ci ha fatto crescere e maturare. All’inizio erano sogni anche quelli di suonare al «burdell da la sagra», o quello di collaborare con grandi nomi del genere o con artisti locali che ci hanno ispirato, dopo la prima trasferta abbiamo capito che tutto è possibile basta avere lo zaino sempre pronto. In collaborazione con


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Cultura e Spettacoli

Nuove e vecchie energie Festival di Cannes Le sorprese giungono soprattutto dalle manifestazioni collaterali

Vince la RSI, La7 sale nella qualità Visti in tivù In

mezzo le tre reti RAI e le tre reti Mediaset, con risultati poco brillanti

Fabio Fumagalli Lungi l’idea del vostro cronista di peccare di lesa maestà nei confronti di una sovrana assoluta come Cannes. Non sarebbe il caso; ma di qualche turba soffre pure lei. Destinare alla Competizione principale un’antologia di nomi altisonanti, per poi riservare sorprese ed energie scalpitanti nelle sezioni parallele comporta non solo frustrazione da parte di chi non sa più a che santo votarsi, ma va a detrimento di una lucidità d’analisi. Tanto più deprecabile, trovandoci a cospetto della più prestigiosa e completa fra le offerte cinematografiche dell’anno. Non si tratta di affermare che il meglio di Cannes 2014 lo si scopriva al Certain Regard, alla Quinzaine des Réalisateurs o alla Semaine de la Critique; anche perché nessuno riesce a vedere la metà di tutto quel ben di dio. Ma è verso la punta dell’iceberg che si finisce per volgere lo sguardo: e quando questa è illuminata da una corte di venerabilissimi astri (qualcuno più vicino agli ottanta che ai settanta), i Loach, Leigh, Cronenberg, Egoyan, Zhang Yimou, Téchiné, Godard diventano un azzardo speculare sul progresso rispetto a tanti gloriosi passati. Osservata in quest’ottica (ma attenti alla chiusa dell’articolo) la corsa a una Palma d’Oro che i lettori già conosceranno leggendo questo righe dovrebbe andare al film indiscutibilmente più compiuto visto fin qui: quello dei due fratelli del Belgio Jean-Pierre e Luc Dardenne che però… di Palme ne hanno già vinte due (più un Gran Premio, due per l’Interpretazione, uno per la sceneggiatura). A completare una serie inimitabile di capolavori iniziata nel 1999 con Rosetta, Deux Jours, une nuit non è l’unico grande film visto quest’anno a Cannes; ma è il solo che rappresenti un ulteriore, quasi impensabile (visto il proverbiale affinamento al loro lavoro da parte dei due cineasti) passo avanti rispetto alla propria filmografia. Di un’essenzialità mai raggiunta, un’aderenza all’attualità dei problemi esistenziali, economici e sociali nei quali affondiamo, questo minuto, immenso film si fa riflessione filosofica e poetica di una giustezza toccante. Quella di Deux jours, une nuit non è che la storia dell’operaia Sandra (al so-

Antonella Rainoldi

Marion Cotillard in Deux jours, un nuit dei fratelli Dardenne.

lito, meravigliosa Marion Cotillard) minacciata con la sua piccola famiglia dalla disoccupazione; in un weekend, deve convincere (o, meglio, mendicare?) i colleghi di lavoro a rinunciare a un premio offerto dal padronato a condizione che si accetti il licenziamento della giovane impiegata. Uno spaccato di vita dall’emozione fortissima, dalla giustezza implacabile; nel quale non c’è un segno di troppo, non un dettaglio mancante. Passiamo all’attesissimo Winter Sleep, di uno dei più grandi cineasti al mondo emersi negli ultimi dieci anni: Nuri Bilge Ceylan. Il suo pensum di tre ore e sedici minuti girato nel paesaggio maestoso dell’Anatolia ghiacciata come le relazioni umane, conferma tutta l’ambizione autoriale del regista turco. Straordinario nell’approfondimento dialogato (psicologico, culturale, morale) in due lunghe rese di conti fra fratello, sorella, moglie e marito all’interno semioscuro di un albergo confinato in un universo isolato, indiscutibilmente posseduto con magistero assoluto nella scrittura, il film poggia su un’immensa forza d’introspezione. Che non a caso ricorda la grande letteratura russa, dei Dostojevski, dei Cechov. Ripensando allo splendido prece-

dente C’era una volta in Anatolia nasce però il dubbio che il peso della riflessione filosofica, la volontà di chiudersi nel groviglio delle intimità, la seduzione delle metafore abbia tolto alla pellicola una parte del meraviglioso respiro poetico, della contemplazione dell’ambiente che esaltava in precedenza. Egualmente oscurato forse ingiustamente da certi risultati trascorsi di grazia assoluta, risulta un film come Mr. Turner. Mike Leigh propone un’affascinante (ma 180 minuti erano veramente necessari?) immersione nel diciannovesimo secolo del grande precursore dell’impressionismo William Turner. Del pittore, come ricorda il regista, che non solo dipingeva ciò che tutti vedono, spingendosi al di là di tutti i cieli. Grazie alla notevole interpretazione di Timothy Spall il film penetra con una forza che non si fa mai violenta nell’intimità in apparenza anche solo banale di quella dimensione. Con humour britannico, e attenzione ad ogni genere di umori: con qualche ripetizione, ma anche il gratificante senso della misura che ci si attende da un maestro. Ma è la Palma che vorreste obbligarmi a predire? Oltre ai Dardenne, sarebbe un bell’atto di fede da parte della presidente Jane Campion rivolgersi alle

due più belle sorprese che ci ha riservato questo concorso di ex mostri sacri. Still the Water, di Naomi Kawase nasce nell’incomparabile arte giapponese di fondere il destino dell’uomo con il respiro della natura, nel coniugare l’immaginario con i dettagli più intimi del quotidiano. Così, in una straordinaria resa degli attori, l’amore fra due adolescenti, la vita che lascia nel canto il passo alla morte sono resi con la grazia che sola appartiene alle cose più fragili e quindi preziose. Al contrario, Mommy, del prodigio nascente canadese (4 film a 24 anni!) Xavier Dolan nasce nel segno dell’energia di un talento furibondo fuori dal comune. Un figlio affetto da estremi problemi di comportamento fra tenerezza e violenza, una madre vedova, disinibita e sexy che cerca di ritrovare una vita normale; e un’inaspettata vicina che completerà un trio al tempo stesso esaltato, spassoso, impossibile e commovente. Il ritmo è infernale, ma la dolcezza dei personaggi confondente. Gli attori tutti straordinari, la mobilità incessante dello sguardo del regista, la follia delle musiche, l’intelligenza dell’ambientazione conferiscono a Mommy tutta l’esaltazione che il cinema sembra avere perduto. Staremo a vedere.

Ida e la Polonia Filmselezione Incanto e unicità di un film sorprendente

**** Ida, di Pawel Pawlikowski, con

Adam Szyszkowski, Agata Kulesza, Agata Trzebuchowska (Polonia 2013) Cinquantaseienne polacco trapiantato in Gran Bretagna dall’età di 14 anni, autore di alcuni documentari e due lungometraggi che nessuno ha visto (My Summer of Love e La femme du Vème) Pawel Pawlikowski è ritornato a Varsavia per girare questo Ida. Risultato: l’oggetto della meraviglia dell’anno, un gioiello di bellezza brutale, di certo il suo capolavoro. Lo sfondo è quello della Polonia degli anni Sessanta incisa nella memoria dal cinema, quella dei Skolimovski, Wajda, Polanski: il grigio sporcato di neve, le strade di campagna che s’incrociano prima di perdersi all’infinito, quattro mura con quattro cavoli piantati attorno che affiorano dalla nebbia. Soprattutto un paesaggio mentale, uno spazio eternamente occupato, più che da Chopin da guerre, cattolicesimo e antisemitismo, nazismo e Olocausto, stalinismo e Armata Rossa, comunismo e Solidarnosc.

Anna (Agata Trzebuchowska, indimenticabile osservatrice) ha vent’anni, è cresciuta protetta da quelle tensioni, in un convento, nata da genitori che non ha mai conosciuto. È in procinto di prendere gli ordini, ma la madre superiora impone alla novizia di uscire dap-

prima per conoscere una zia, che mai aveva voluto incontrarla: Wanda (meravigliosa profondità umana di Agata Kulesza) la procuratrice comunista, lucida, a dir poco disincantata, nemmeno più rabbiosa, suicidaria in un deriva fatta di sesso frettoloso e vodka. L’iniziazione di Anna alla vita civile partirà dalla conoscenza di essere ebrea, di chiamarsi Ida Lebenstein, di avviarsi in un road movie della memoria, alla ricerca della fossa nella foresta dove i nazisti si sbarazzarono dei suoi genitori. Due donne, lontane in modo diverso da ogni sorta di dogmatismo. Accanto all’impeto libertario con il quale la zia soffoca la mestizia, lo sguardo silenzioso di Ida, perspicace nella fede fragile ben oltre il concetto di tentazione, finirà per incrociare anche quello disinvolto e seducente di un giovane sassofonista; in un equilibrio tutto polacco tra cortina di ferro e jazz d’avanguardia e prima di un finale deviante ma ancora esistenzialmente scavato, l’eco del film risuonerà così anche dei suoni splendidi di Thelonius Monk e John Coltrane.

«Desideravo resuscitare il paese della mia infanzia, e le influenze che ha subìto. Gran parte del mio tempo l’ho dedicato a distillarle, nel tentativo di estrarne un’unica essenza, la semplicità». Ed è quella ad esplodere, a prima vista: l’energia straordinaria dei silenzi, degli spazi vuoti che esaltano quanto conta della rappresentazione, in un bianco e nero favoloso, nel formato delle vecchie foto da solo sufficiente ad esaltare la memoria. La straordinaria vibrazione emotiva di ognuna delle scene spesso fisse di Ida nasce da un’arte sopraffina della composizione: ogni inquadratura rappresenta una commossa geografia dell’animo che si significa a sé, il protagonista dell’azione in primo piano, lateralmente, i restanti due terzi del quadro a focalizzare lo sfondo con i suoi rinvii materiali e psicologici sui personaggi. Fotografie magistrali, ma mai esercizio di stile gratuito, ricerca del bello per il bello: ricerca sublime dell’istante presente che rende Ida e le sue memorie impossibili da cancellare. / FF

Se n’è molto parlato nei giorni passati: gli ascolti televisivi continuano a premiare la RSI. Nei primi quattro mesi del 2014 La1 e La2 hanno totalizzato insieme una media di share sulle ventiquattr’ore superiore a quella dello stesso periodo dello scorso anno: 35,3%, contro il 33,2%. Con il 42,5%, contro il 39,9%, i due canali hanno fatto ancora meglio nella fascia di prime time (tra le ore 18 e le ore 23), sopravanzando nettamente la concorrenza italiana: Canale 5 al 7,2% (8,4% sulle ventiquattr’ore), Raiuno al 6,6% (7,5%), Italia 1 al 5,2% (6,3%), Raidue al 4,2% (4,9%), Raitre al 4% (3,7%), Retequattro al 3,8% (4,4%) e La7 all’1,7% (1,8%). Dai numeri si può dunque evincere un dato di fatto incontrovertibile: la RSI rafforza la sua egemonia incontrastata sul pubblico della Svizzera italiana. Uno dei motivi è senz’altro la mancata erosione dell’ascolto da parte delle reti italiane, impegnate da tempo a disperdere i contenuti migliori nel paniere delle cosiddette «altre tv». Né RAI, né Mediaset, né La7: nessuno di questi poli generalisti è davvero in grado di insidiare la RSI. La7 merita però un discorso a parte. Si discute spesso, anche animatamente, di indici d’ascolto, ma non si ricorda mai abbastanza che a contare non è solo il dato numerico complessivo, ma l’analisi della composizione del pubblico, la fotografia della platea, la qualità dell’audience. Grazie anche a una linea editoriale molto marcata, La7 riesce ad attrarre soprattutto spettatori esigenti come gli appassionati della politica, capaci di apprezzare programmi come Omnibus, con Alessandra Sardoni e Andrea Pancani, Coffee Break, con Tiziana Panella, Otto e mezzo, con Lilli Gruber, Piazzapulita, con Corrado Formigli, Servizio Pubblico, con Michele Santoro e Marco Travaglio, Announo, con Giulia Innocenzi, Bersaglio Mobile, con Enrico Mentana, Crozza nel Paese delle Meraviglie, con Maurizio Crozza, maestro numero uno della satira politica. La media di share dell’1,8% sulle ventiquattr’ore è certo inferiore a quella delle reti RAI e Mediaset, ma in compenso contiene prevalentemente pubblico di qualità, per età (quaranta-cinquantenni e oltre) e istruzione (livelli alti). Su questo terreno il fanalino di coda La7 non ha rivali. (In collaborazione con Lara Moro, RSI, dati Panel TV Mediapulse).

Alain Melchionda, «star» degli approfondimenti nel Quotidiano. (RSI)


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Cultura e Spettacoli

Un workshop di hip-hop Festival della danza Steps Non solo prestigiosi spettacoli, ma anche misure di mediazione per rendere la danza

una disciplina artistica più accessibile al pubblico

Valentina Janner Il Festival della danza Steps, realizzato e prodotto dal Percento culturale Migros, si è concluso lo scorso 17 maggio con un ottimo bilancio: 38’000 spettatori, 6000 in più rispetto all’edizione precedente. 45 spettacoli su un totale di 86 hanno inoltre registrato il tutto esaurito. Il festival propone un ricco programma di attività sulla danza, oltre agli spettacoli ospitati nei teatri di tutta la Svizzera, con l’obiettivo di rendere accessibile la danza contemporanea a un pubblico sempre più vasto. I workshop organizzati nelle scuole s’inseriscono in questa strategia di mediazione della danza. Ai ragazzi viene offerta la possibilità di seguire per tre settimane consecutive due ore di lezione di danza in preparazione alla visione di uno spettacolo in cartellone. Quest’anno la scelta è caduta su Koukansuru, la produzione hip-hop realizzata dalla crew francese Juste Debout e dalle formazioni giapponesi Mortal Combat e Former Action. Circa 3’000 ragazzi dagli 11 ai 16 anni hanno partecipato ai workshop in sei cantoni della Svizzera tedesca. Le lezioni sono state impartite a ciascun gruppo da due pedagoghi della danza locali: un rappresentante della danza contemporanea e un esperto di hiphop. Hanno collaborato al progetto 15 insegnanti di danza, che si sono preparati nel corso di un laboratorio sotto la guida degli interpreti di Koukansuru. Gli artisti hanno spiegato la tecnica del loro stile e la coreografia da insegnare

ai ragazzi sulla musica dello spettacolo. Ma qual è la procedura da seguire per iscriversi a questi workshop? Abbiamo girato questo interrogativo alla coordinatrice dei workshop per Steps Nicole Friedman: «L’iter differisce da cantone a cantone. La prima condizione è che lo spettacolo legato ai workshop sia ospitato in uno dei teatri del cantone, in modo che vi si possano organizzare anche le repliche per i ragazzi. Nel caso di Zurigo, per esempio, è la città che finanzia interamente 20 workshop rivolti a 40 classi, per un totale di circa 700 allievi. Nel canton Grigioni il Dipartimento della cultura ha deciso di partecipare e assieme abbiamo raccolto dei fondi presso alcune fondazioni private per coprire parte dei costi. Le scuole del cantone vengono poi informate della possibilità di seguire i workshop, così i docenti di classe oppure quelli di sport si possono iscrivere». Queste attività didattiche sono interamente autofinanziate, per contro il mandato di Nicole Friedman per la coordinazione e il fundraising è interamente a carico del Percento culturale Migros. Lo scorso 15 maggio abbiamo fatto visita alla scuola media Herzogenmühle, nel quartiere zurighese di Schwamendingen, per dare un’occhiata a una lezione, tenuta dai pedagoghi Christina Sutter (danza contemporanea) e Sacha Lebert (hip-hop) a due classi di quarta media. Dopo un breve riscaldamento, i ragazzi hanno preparato un passaggio di una coreografia che avrebbero rivisto sul palco durante la rappresentazione. È seguito un mo-

Circa 3000 ragazzi hanno partecipato ai corsi promossi da Steps.

mento di improvvisazione a gruppi di tre, durante il quale gli alunni hanno ideato una breve coreografia. Al termine della lezione, l’esperto di hip-hop si è esibito davanti a tutta la classe, che ha applaudito con entusiasmo. Alcuni allievi con esperienza sono stati chiamati al centro della palestra per una breve dimostrazione, incoraggiati dai compagni. Uno di questi, Thajakan (15 anni), ha spiegato come si

è avvicinato al mondo della danza: «Seguo un corso di street dance e hip-hop da tre anni. Oggi ho potuto mostrare ai miei compagni cosa faccio». Abbiamo chiesto ad alcuni ragazzi le loro impressioni sul workshop: «Pratico già molto sport, quindi ho accolto volentieri questa nuova sfida, è fantastico poter testare i propri limiti», Marisa (15 anni). Johnneil ha aggiunto «Sono contento di seguire questo workshop,

perché nel tempo libero ballo volentieri un po’di hip-hop e di locking con alcuni amici. Non seguiamo nessun corso, ma guardiamo dei video e cerchiamo di copiare e riprodurre i movimenti». Alla docente di sport delle ragazze Maria Loiacono abbiamo chiesto cosa l’abbia motivata a iscrivere la propria classe a questo workshop: «Purtroppo durante le lezioni di sport la danza non viene praticata abbastanza, sebbene sia prevista dal programma per l’esercizio del movimento e del ritmo. Penso che la componente artistica della danza faccia molto bene ai ragazzi: sono soliti vedere i ballerini di hip-hop in televisione e pensano: “wow”, senza realizzare quanto impegno e quanta disciplina siano necessari. Già dopo poche lezioni hanno un’illuminazione: capiscono che potrebbero farcela anche loro». Christina Sutter partecipa già da parecchie edizioni ai workshop di Steps e fa regolarmente lezione nelle scuole. «Questo è il primo anno che lavoro con classi dell’età tra gli 11 e i 15 anni. Solitamente ho i più piccoli, che sono più spontanei e si vergognano meno. Quest’esperienza è stata per me molto istruttiva. È bello vedere che anche i ragazzi di quest’età si lasciano coinvolgere e si divertono». Un’interessante esperienza, quindi, di scambio a più livelli, da cui tutti escono soddisfatti e arricchiti. Restiamo in attesa del tema dell’edizione 2016 di Steps, sperando che questo entusiasmo contagi più regioni in Svizzera e che i workshop vengano organizzati anche in qualche scuola ticinese. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

L’incoerente coerenza di Ferretti

DVD Pubblicato in dvd il film sullo storico leader dei CCCP e dei CSI

Zeno Gabaglio

Raffinata nostalgia Musica Magia dell’inedito: l’eccellenza live

dei compianti R.E.M. rivive in un album doppio, tra i migliori prodotti dello storico programma «MTV Unplugged»

Benedicta Froelich Sebbene non si possa dire che, all’epoca, l’annuncio sia giunto come un fulmine a ciel sereno, non vi è dubbio che lo scioglimento della storica formazione rock dei R.E.M., avvenuto quasi tre anni or sono, sia stato un colpo non da poco per l’industria discografica statunitense. All’ovvio apprezzamento per l’onestà della band, resasi conto di essere divenuta ripetitiva nella propria produzione, si è infatti sovrapposto il rammarico dei fan storici, che avevano visto il gruppo crescere fino a raggiungere la notorietà planetaria con l’avvento degli anni 90. Del resto, come chiunque li abbia seguiti dagli esordi può confermare, nel loro periodo d’oro i R.E.M. si dimostrarono davvero tra i migliori performer rock della loro generazione: al di là del songwriting interessante e mai banale e di canzoni splendidamente arrangiate e prodotte, i R.E.M. anni 90 (che, ricordiamolo, furono molto di più degli autori della popolarissima Losing My Religion) si distinsero per l’altissima qualità delle loro esibizioni dal vivo, caratterizzate dall’intensità interpretativa e dal carisma scenico del fenomenale frontman Michael Stipe e ulteriormente impreziosite dalla professionalità di una line-up impeccabile. Una qualità che non sarebbe venuta a mancare nemmeno nell’ultima fase di carriera della band, quando il momento di maggior creatività era ormai trascorso e il sound della formazione ne risultava inevitabilmente alterato. L’innegabile ruolo chiave svolto dall’eccellenza live dei R.E.M. nell’ambito della loro carriera è senz’altro il motivo dietro la graditissima pubblicazione proposta oggi dalla Rhino: il doppio album R.E.M. Unplugged 1991/2001: The Complete Sessions, che, per la prima volta, documenta le esibizioni del gruppo al celeberrimo Unplugged, il programma di MTV i cui set rigorosamente acustici sono ormai da anni «banco di prova» delle rock band di tutto il mondo. Si tratta di un prodotto che i fan ambivano da tempo aggiungere alla loro collezione, anche perché, caso unico nella storia del programma, Stipe & Co. furono ospiti dello showcase per ben due volte: nel 1991 – quando, grazie al best-seller Out Of Time, la formazione stava vivendo il suo momento di maggior successo internazionale – e nel 2001, al tempo della pubblicazione dell’album Reveal. Due set eccellenti, sia da un punto di vista di qualità del repertorio che dell’esperienza d’ascolto; anche se, per gli estimatori di vecchia data, la prima esibizione resta

forse la più significativa, giacché fotografa il gruppo in un vero e proprio «stato di grazia», manifestatosi come il culmine di un processo artistico che, a partire dai sette album realizzati negli anni 80 per l’etichetta I.R.S., aveva gradualmente affinato e plasmato non soltanto il sound dei R.E.M., ma anche le liriche dell’inquieto Stipe. L’avvento del grande successo commerciale con il trasferimento alla major discografica Warner avrebbe visto la band fondere la propria particolare connotazione stilistica con l’assoluta raffinatezza e bellezza formale delle esecuzioni dal vivo: caratteristiche ancor più evidenti nel contesto acustico dell’Unplugged, in cui le canzoni si spogliano di qualsiasi orpello per rivelarsi all’ascoltatore nella loro più rigorosa essenza – in un processo di sintesi musicale che, nel caso dei R.E.M., era pura grazia. Ecco quindi, tra le altre, gemme come la splendida ballata degli esordi Perfect Circle (eseguita in una versione tanto magistrale da risultare ancor più struggente), il tagliente recitativo dell’epico Low, e perfino un’azzeccatissima cover del classico dei Troggs, Love Is All Around. Ma c’è di più, perché il grande bonus offerto da quest’album è rappresentato dalle undici tracce inedite rimaste escluse dalla messa in onda televisiva: esecuzioni dalla caratura notevole, che non hanno nulla da invidiare ai brani già noti. Così, anche l’esibizione del 2001, che vedeva i nuovi R.E.M. affrontare il pubblico di MTV in una formazione a tre dopo l’abbandono del batterista Bill Berry, brilla di sorprese preziose quali un’inaspettata esecuzione di Sad Professor (brano raramente eseguito dal vivo), e un’incredibile versione lenta dell’inno rock The One I Love: valide aggiunte a un set incentrato soprattutto sui brani di Reveal, successore di uno sforzo eccelso ma incompreso come l’album Up (1998), primo lavoro discografico dei R.E.M. dopo lo shock della defezione di Berry e purtroppo «colpevole» di aver venduto meno dei dischi precedenti. Fattore che, iniziando proprio con Reveal, finì per orientare la band verso un sound via via più commerciale e meno sperimentale – per poi contribuire a causarne, esattamente dieci anni dopo, il definitivo scioglimento. Ma in queste ottime registrazioni non vi è alcuna traccia di tali incertezze, anche perché, fino alla fine della loro avventura, i R.E.M. si sono confermati brillanti e appassionati performer dal vivo: un elemento di non scarsa importanza, di cui quest’album a lungo atteso costituisce definitiva dimostrazione.

«Un’erezione un’erezione un’erezione un’erezione triste, per un coito molesto per un coito modesto per un coito molesto. Spermi spermi spermi spermi indifferenti, per ingoi indigesti per ingoi indigesti per ingoi indigesti». Prima che tutto questo accadesse fu l’autore di questo testo a presentarsi, poco più che ragazzino, al cospetto di Mago Zurlì per entrare a far parte dello Zecchino d’Oro. Accanto a lui c’era suor Aurelia, che ce lo aveva voluto portare a tutti i costi, e il repertorio prescelto fu un unico solo pezzo: l’Ave Maria. Troppo, per lo standard musicale del concorso, e così Giovanni Lindo Ferretti dovette tornare senza successo al collegio di Roncolo, in provincia di Reggio Emilia. Ma tanto il prete del villaggio lo aveva già detto, per tranquillizzare la madre preoccupata: «mal che vada ne faremo un cantante». Previsione azzeccata, anche se però è andata molto peggio che male per le aspettative genitoriali e per quelle clericali. Perché Giovanni Lindo appena ha potuto se n’è andato. «Sono stato allevato cattolico e felice, poi con l’adolescenza ho scoperto il mondo moderno e la vita. E poi non ne potevo

più. Perché avrei dovuto scegliere di comprare una casa a schiera, un appartamento, fare un mutuo e decidere che la vita era finita. E allora sono andato un po’ in giro per l’Europa e mi sono ritrovato a Berlino». Lì conobbe – ed era il 1982 – Massimo Zamboni, pure emiliano. «Anche lui voleva cambiare vita. Volevamo fare della musica moderna, volevamo dire la nostra: fieri ed orgogliosi». E nacque così il più radicale, il più iconoclasta, il più celebrato gruppo del punk italiano: CCCP – Fedeli alla linea.

Per quanto negative possano essere, per vivere abbiamo bisogno di chiesa e famiglia L’occasione per tornare sulla vicenda di uno dei gruppi più importanti della musica italiana (contemplando anche le successive evoluzioni CSI e PGR) è la pubblicazione in DVD del film di Germano Maccioni Fedele alla Linea – Giovanni Lindo Ferretti. È difficile scindere la parabola esistenziale di Ferretti

Giovanni Lindo Ferretti in una curiosa immagine.

Top10 DVD & Blu Ray 1. Frozen

Animazione 2. Lo Hobbit 2

M. Freeman, I. McKellen 3. All is Lost

Robert Redford / novità

Top10 Libri

Top10 CD

1. Sveva Casati Modignani

1. Gotthard

La moglie magica, Sperling 2. Markus Zusak

Storia di una ladra di libri, Frassinelli 3. Massimo Gramellini

La magia di un buongiorno, Longanesi 4. Tiziano Terzani

4. Last Vegas

da quella dei gruppi cui ha dato testi e voce, così come è impossibile occuparsene senza affrontare le contraddizioni – latenti o ben evidenziate – nel percorso di un cattolico che si è fatto membro di Lotta Continua, poi punk e poi di nuovo cattolico nei modi più oltranzisti. E il merito del regista Maccioni è proprio quello di sovrapporre il presente di Ferretti – ormai rientrato nella natia Cerreto Alpi e dedito perlopiù all’allevamento di cavalli – con il celebre passato punk, con le immagini recuperate dall’introvabile (se non in rete) documentario del 1989 Tempi Moderni. Per scoprire che – cambiate le fedi e cambiati i colori – non c’è sostanziale rottura tra l’uomo di oggi e l’uomo di allora: tutto torna, con lo stesso rigore e la stessa coerenza che per due buoni decenni le sue canzoni ci avevano riportato. E soprattutto non è venuta meno la lucida visione sull’uomo e sul presente, come quando parla della scelta di tornare a vivere nei paesi isolatissimi dell’Appennino, «sono paesi abbandonati e bellissimi. Il 90% della gente che li ha abbandonati ora abita in case molto più brutte, dove paga l’affitto in situazioni di grande disagio. Però sono convinti di avere fatto un passo verso il benessere, e se la convinzione è questa, le cose stanno così. Vaglielo a dire che no, che prima erano poveri e liberi mentre adesso sono poveri e schiavi. Però è più facile». Oppure ancora quando si tratta di rileggere il proprio turbolento vissuto sulla base di dinamiche inevitabilmente umane. «Quello che ero è la cosa contro cui più mi sono scagliato durante la giovinezza, pensando che l’origine di tutti i mali fosse riconducibile alla famiglia e alla religione. Per poi scoprire che sì, molto di male sta all’interno della famiglia e molto di male sta all’interno della chiesa, però comunque senza famiglia non si vive e senza chiesa non si vive. Per cui il male è impossibile che non ci sia. E anzi questo arricchisce la dimensione dell’uomo, l’uomo deve percepire il tragico dell’esistenza».

Un’idea di destino, Longanesi

Bang! 2. Artisti Vari

Bravo Hits Vol. 85 3. Abba

Gold - 40th Anniversary 4. I Nomadi

Nomadi 50 + 1

R. De Niro, M. Douglas 5. Andrea Vitali 5. The Counselor

Quattro sberle benedette, Garzanti

5. Michael Jackson

Xscape

C. Diaz, J. Bardem 6. Jamie McGuire 6. A spasso con i dinosauri

Animazione

Un disastro è per sempre, Garzanti / novità

6. Cesare Cremonini

Logico 7. Moreno

7. The butler

F. Whitaker O. Winfrey

7. Rick Riordan

Eroi dell’ Olimpo-Il marchio di Atena, Mondadori

Incredibile 8. Mondo Marcio

Nella bocca della tigre 8. Piovono Polpette 2

Animazione

8. Anna Premoli

Finché amore non ci separi Newton / novità

9. Roby Facchinetti

Ma che vita la mia

9. Il grande Match

R. De Niro, S. Stallone

9. Paolo Giordano

Il nero e l’argento, Einaudi 10. I sogni segreti di Walter Mitty

B. Stiller, S. Penn

10. Paolo Cammilli

Maledetta primavera, Newton

10. George Michael

Symphonica


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Cultura e Spettacoli

Il prezioso Rousseau ricamato Pubblicazioni Rari prodotti della storia dell’arte svizzera, i Tableau brodées sono stati studiati

da una ricercatrice ticinese e sono ora in mostra nel Musée Rousseau di Môtiers Alessandro Zanoli Storia dell’arte e storia del costume a volte si confondono. Alcune opere di «artigianato» pregevole, quando non conosciamo i presupposti che le hanno fatte nascere, rimangono per noi difficili da inquadrare. Una recente pubblicazione (Jean-Jacques Rousseau in tableaux brodées svizzeri di epoca neoclassica, ed. Pagine d’Arte, Lugano, 2013) redatta con competenza e passione dalla studiosa ticinese Silvia Mazzoleni, è un bell’esempio di come la conoscenza di un costume sociale possa illuminare la nostra comprensione di una forma espressiva «minore», promuovendola ad «Arte».

Le vicende umane dello scrittore e filosofo ginevrino lo avevano reso un personaggio quasi romanzesco Per apprezzare il soggetto del suo libro, e della sua ricerca, è necessario conoscere la biografia del filosofo ginevrino Jean-Jacques Rousseau e la sua opera. Occorre dunque immaginare il nostro Paese nella seconda metà del 1700, immergerci nel periodo dell’Ancien Régime. Allora, la Svizzera come la co-

nosciamo oggi non esisteva ancora. Rousseau non era ancora svizzero, così come non lo era ancora la calvinista Repubblica di Ginevra. Rousseau non era svizzero ma potremmo dire che sia stato proprio lui a offrire alla futura Svizzera materia di riflessione e di identificazione, e a fissare alcuni valori ideali della «svizzeritudine». Il suo romanzo epistolare La Nouvelle Héloïse (1760), ambientato sulle rive del Lemano, contiene pagine di elogio alla vita sulle Alpi, allusioni ai costumi «naturalmente morali» dei contadini di montagna. Divulgate in tutta Europa grazie all’enorme successo del libro, quelle idee hanno contribuito a imporre un cliché paesaggistico-filosofico di grande popolarità e fortuna. Del resto Rousseau ha fondato gran parte delle sue opere sulla saggezza della natura, sulla sua capacità di infondere equilibrio negli spiriti umani. A partire dal trattato sull’educazione, l’Emile (1762), per non parlare di quanto gli elementi naturalistici siano importanti persino nell’opera politica, il Contratto sociale (1762). (Un interessante «ripasso» delle teorie di JJR lo propone un altro volume ticinese della stessa casa editrice, Un incontro sul pensiero di Jean-Jacques Rousseau, ed. Pagine d’Arte, Lugano, 2013). La sua sensibilità «naturale» alle emozioni e ai sentimenti ha reso l’opera, e la vita stessa, di Rousseau estrema-

mente popolari, quasi romanzesche. In particolare molte donne delle classi più agiate avevano trovato nelle sue pagine una risonanza al loro desiderio di conciliare, nella dignità e nella virtù, i doveri famigliari e la ricchezza di una vita sentimentale. La ricerca della Mazzoleni ci sorprende proprio in questo, mostrandoci come l’amore per l’opera di Rousseau abbia potuto assumere una forma manuale femminile, il ricamo, in cui ago e filo di seta, potremmo dire, sono «guidati» dall’affetto per lui, dando forma a un repertorio iconografico classico (ma già pre-romantico) di eccezionale fattura. Eseguiti da donne e ragazze della buona società romanda tra la fine del 700 e i primi decenni del l’800, i tableaux brodées illustrano dunque alcuni passaggi delle opere di Rousseau e alcuni momenti della sua biografia, divenuta popolare grazie alla recente pubblicazione delle Confessioni (1782). Vita e opere di Rousseau (ma nei quadretti troviamo riferimenti anche ad altri temi e ad altri autori) erano diventate raccolte di situazioni esemplari che ispiravano una forte partecipazione emotiva. Scorrendo il catalogo di immagini, colpisce la grande unità stilistica. Pur nella varietà dei temi e dei soggetti trattati e, oltre a questo, pur affidati alle più diverse «mani», i 27 preziosi arazzi

Uno dei ricami in seta: Rousseau à Môtiers, 24 giugno 1797.

in miniatura danno un’immagine di uniformità di gusto e di scuola che ci sorprende. Disegnano ai nostri occhi un movimento culturale ampio, fortemente radicato in quella società. Un fenomeno sociale durato una cinquantina d’anni che, senza questi affascinanti supporti per la memoria, sarebbe completamente perduto. Al di là del valore storico-bibliografico e della minuziosa analisi dei disegni, il libro ci offre anche il piacevole pretesto per una gita: i quadri

ricamati presentati da Silvia Mazzoleni sono infatti esposti alla Maison Rousseau di Môtiers (www.associationrousseau.ch) fino al 29 agosto. L’occasione della trasferta estiva nella bella regione di Neuchâtel permetterà di visitare uno dei luoghi importanti nella biografia del filosofo ginevrino: nella casa di Môtiers, recentemente restaurata e diventata museo, Jean-Jacques visse una parentesi serena in uno dei periodi travagliati della sua esistenza. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli Rubriche

In fin della fiera di Bruno Gambarotta La vacanza-premio C’è stato un tempo felice nel quale le aziende elargivano ai migliori premi non in denaro ma in viaggi e vacanze, organizzati da agenzie specializzate in «Incentive Tours». Ho avuto la fortuna di prendere parte da imbucato a uno di questi viaggi. L’agenzia che lo preparava mi propose di aggregarmi agli accompagnatori; in cambio dell’ospitalità avrei dovuto tenere un diario quotidiano e semi serio da leggere la sera a cena ai miei commensali, sedendo ogni volta a un tavolo diverso. Con un successo scarso o nullo, ma intanto ho viaggiato gratis in Asia per due settimane. I miei compagni di viaggio non desideravano ascoltare un narratore ma avere a disposizione uno che ascoltasse i loro racconti, manifestando interesse per quello che andavano dicendo. Ho riscontrato lo stesso fenomeno tutte le volte che sono stato in un carcere per incontrare i detenuti. I premiati erano concessionari di automobili dei marchi Fiat, Lancia, Alfa Romeo, risultati fra i primi cento di una classifica relativa al numero di assicurazioni della Sava

sottoscritte insieme all’auto nell’arco di quell’anno. Il viaggio premio era per due persone, perciò i miei compagni erano in tutto duecento, più quattro accompagnatrici e un medico, giusta precauzione per un’età media non verdissima. In maggioranza erano marito e moglie, ma c’erano anche coppie di fratelli, di sorelle, di padri e madri con un figlio o una figlia. In un caso viaggiavano uno zio e una nipote. A Linate, in attesa del charter per Fiumicino, dove ci saremmo riuniti con gli altri per il volo verso Kuala Lumpur, percepivo diretti a me sguardi curiosi e perplessi (erano ancora recenti le mie presenze marginali in programmi televisivi). Captavo voci sussurrate: «Io quello lo conosco ma non riesco a situarlo nella sua area». Mi sentivo un po’ fuori posto, ma una volta arrivati a Roma la signora Franca mi ha tranquillizzato: «Non si preoccupi, in un’ora di viaggio con noi le è già venuta la faccia di concessionario». Era un complimento? Chissà. Di fatto i concessionari sono come i sacerdoti, non staccano mai. In

sbalorditi ma nessuno voleva mostrarsi stupito. Tutti a dire: io lo sapevo già. È iniziata una simpatica gara nel retrodatare nel tempo questo «saperlo già». I primi che si sono pronunciati lo sapevano da tre mesi, altri da sei, poi sono arrivati quelli di un anno. Uno l’aveva saputo da Paolo Fresco quando erano compagni di banco dalle Orsoline. Ha vinto un concessionario di Forlì, raccontando che suo papà era stato messo sull’avviso già nel 1922, nei giorni della marcia su Roma. Partecipavo con gli altri dello staff alle riunioni per redigere il programma quotidiano e prescrivere il tipo di abbigliamento per la cena che variava ogni volta: dall’informale ma elegante, all’elegante ma informale, con tutta una gamma di sfumature diverse. Mai però informale e basta, per evitare il rischio che qualcuno arrivasse con il sedere di fuori. Ricordo con nostalgia la giornata trascorsa in Cambogia, a visitare i templi di Angkor Wat immersi nella foresta. La nostra guida era un italiano che non vedeva l’ora di raccontare la sua vita a dei

connazionali. Ludovico, 47 anni, era di Lecco, da tre anni in Cambogia; era stato sposato una prima volta in Italia a 19 anni con la compagna di banco della scuola d’inglese che ne aveva 18. Aveva un figlio in Italia più vecchio della sua attuale moglie cambogiana dalla quale aveva avuto un bambino di 4 mesi. Mentre ci stava mostrando le foto della seconda moglie è squillato il suo cellulare; era lei che gli chiedeva: mica starai facendo vedere ai turisti le mie fotografie? La ragazza era giovane ma conosceva il suo pollo. Ludovico a Lecco faceva il gioielliere e per anni ha fatto l’importatore di perle dall’Asia. Adesso so tutto sulle perle asiatiche, un po’ meno sui templi cambogiani, ma posso sempre andare su Google. Uno spettacolo emozionante era assistere ai ripetuti tentativi dei venditori di rifilare patacche asiatiche ai miei compagni di viaggio ignorando che si trovavano di fronte a dei concessionari di auto. Un venditore diceva al collega, l’ho sentito con le mie orecchie: noi al confronto siamo dei dilettanti!

avete, abbiamo un bel problema, risolvibile con surrogati mai all’altezza: barbe di finocchio coltivato, finocchietto essiccato, semini… no, bisogna avere quello vero, che è così povero e diffuso da non essere in vendita, paradossalmente introvabile se non si ha un campo alla giusta altezza e temperatura. Ma lasciamo stare questo paradosso, l’ennesimo che sorge a proposito di quella landa contraddittoria che è la Sicilia, e torniamo alle sarde a mare. Queste sono matematicamente da intendersi come una «differenza», ossia il risultato della sottrazione del sottraendo dal minuendo: pasta con le sarde meno le sarde uguale pasta con le sarde a mare. D’altra parte la pasta con le sarde a mare è anche una pasta con i funghi nel bosco, i polli nell’aia, le zucchine nell’orto. Come non essere catturati dalla generazione infinita di sottraendi (con il pepe sulla pianta, con la salsa di pomodoro nel baratto-

lo…) e arrivare a chiudere la domanda sul «che cos’è», giungendo quindi a una definizione, che per definizione ha appunto il compito di definire, chiudere gli steccati per trattenere solo ciò che risponde alla domanda che cos’è? Gli antichi dicevano che la definizione è data dall’unione di un genere e di una specie o differenza (eccola) specifica: il genere animale quando è specificato come razionale dà la definizione di uomo, lo spiegò Aristotele, lo illustrò Porfirio con l’albero che rappresenta tutte le diramazioni delle differenze specifiche. Così classifichiamo ancora animali e vegetali. Ma come giustificare che la pasta con le sarde a mare sia quella lì, da non confondere con le eventuali paste con il vino nella bottiglia e il gorgonzola in frigorifero? Lo dice la matematica, quando ci insegna che ogni sottrazione è in verità una addizione: a un numero positivo si aggiunge un numero negativo, per

esempio a +5 si aggiunge –2 e si ottiene 3. Alla pasta con le sarde si tolgono le sarde e si ottiene la pasta senza sarde. Sarà anche senza peperoni, ma la sua connotazione è quella di essere priva di sarde e non di peperoni. Ciò che non ha è ciò che la definisce. In cucina capita abbastanza spesso, pensiamo al pane azzimo e al pane «toscano», uno senza lievito, l’altro senza sale. O all’ultimo business gastronomico, i cibi glutenfree, definiti dal non avere glutine. Siccome poi siamo sempre tutti presi dalla perversione del dimagrire e del purificare, molti non celiaci mangiano senza glutine, credendo così erroneamente di mangiare più sano. Ma abbiamo già detto dell’inganno pubblicitario del «senza» e del «privo di» (grassi, lattosio, glutine, zuccheri, perché no petrolio, cianuro, ammoniaca). E poi mi si fredda la pasta, mentre quelle sciagurate di sarde se la sguazzano al mare.

prof di matematica, il capoufficio! «Dio mio, oggi sarà una brutta giornata, il Mercato si è svegliato di cattivo umore, avrà dormito male, avrà mangiato troppo a cena, avrà bisticciato con la moglie…». Sarebbe troppo chiedere ai governanti di mandare a quel paese il Mercato anche solo per un momento della giornata e di concentrarsi sulla quotidianità dei cittadini? E sarebbe troppo chiedere a una democrazia che provveda a soccorrere i poveri cristi in fuga dalla miseria, dalla dittatura o dalla guerra? O bisogna aspettare qualche decennio per definire tutto questo, a posteriori, con una parola simile a Olocausto? A proposito di Europa: la settimana scorsa è arrivato il presidente italiano Giorgio Napolitano (5½) a Berna e poi a Lugano. Ha definito «sconcertante» l’esito dell’iniziativa popolare di febbraio che limita il numero di immigrati in Svizzera. Lo sconcerto è un sentimento che ha a che fare con la delusione, il disorientamento

e l’amaro stupore. In effetti è difficile uscire dallo stereotipo della Svizzera opportunista e cinica dopo una votazione del genere. Altrettanto difficile smentire i luoghi comuni sull’Italia cialtrona e truffaldina dopo lo scandalo dell’Expo (2+ all’Expo e a chi lo fa). I pregiudizi si sconfiggono con i fatti, a meno che i fatti non finiscano per confermare la visione semplificata che già avevi. Che armi ti rimangono per difendere l’onore dell’Italia quando accendi la tv e vedi un condannato per evasione fiscale (–1) che, invece di scontare la sua pena in silenzio (e con un po’ di vergogna), si mette a pontificare, tronfio e spudorato, sul destino dell’Europa come se nulla fosse? Che armi ti rimangono se non provare vergogna al suo posto? Ma la vergogna non è certo un’arma, anche se tutto sommato è già qualcosa. Il tema della vergogna sarebbe da affrontare seriamente: «Oh vergogna, dov’è il tuo rossore?» dice Amleto a sua madre. I colpevoli peggiori sono quelli che non si

ravvedono e anzi nemmeno arrossiscono per quello che hanno commesso, ma accusano gli altri della propria disonestà o criminalità certificata: giocatori incapaci che ogni volta che subiscono un gol sputano sull’arbitro. Vergogna!, urlò papa Francesco in ottobre dopo l’ennesima strage di migranti nel Canale di Sicilia. Lasciò passare qualche giorno precisando: «La vergogna è salutare perché ci rende umili». Una volta quella parola veniva utilizzata dalle persone di Chiesa per fare riferimento alle oscenità del corpo e per invocare il comune senso del pudore fisico oltre che morale. Se oggi tornasse davvero nel suo valore più profondo sarebbe una vera grande conquista. «Una brava persona si vergogna anche davanti a un cane», ha scritto Cechov. Si potrebbe aggiungere che un pessimo soggetto lascia che sia il cane a vergognarsi di lui. Il suo motto è sempre: «Non chiederci la vergogna…», piuttosto soldi, favori, una mazzetta, ma la vergogna no, mai.

teoria sarebbero stati in vacanza; nelle dodici ore di volo, ascoltando i loro discorsi, ho potuto farmi un quadro completo della situazione del mercato automobilistico con tutte le problematiche inerenti, senza omettere le proiezioni sul futuro. Guardando fuori dal finestrino del pullman che ci portava dall’aeroporto di Saigon all’albergo, al pensiero che quell’impressionate massa compatta di biciclette e motorini che saturava i viali un giorno sarebbe stata permutata in altrettante automobili tutti avevano le lacrime agli occhi per la commozione. Il picco nella curva dell’interesse per il loro lavoro, i miei compagni l’hanno toccato nell’ultima sera trascorsa a Saigon, prima della partenza per la Malesia. Era una domenica, Internet era di là da venire e iniziavano ad arrivare dall’Italia, indietro di sette ore rispetto a noi, le prime scarne notizie via fax della firma dell’accordo strategico fra la Fiat e la General Motors, condotto in porto dall’allora amministratore delegato Paolo Fresco. I concessionari erano

Postille filosofiche di Maria Bettetini Pasta con senza sarde «Poi fai cuocere la pasta nell’acqua del finocchietto, la condisci con il finocchietto saltato, pinoli, passolina o uva passa come dite al nord, mollica atturrata che sarebbe pangrattato abbrustolito, ed è pronta la pasta con le sarde». Scusa, e le sarde, i pesci? «mah, se vuoi stemperi nel sugo due acciughe, così per il retrogusto». Ripeto, e le sarde? «Macché sarde! Questa è la pasta con le sarde a mare, perché le sarde se ne restano int’all’acqua». Ride l’amica palermitana a cui tentavo vanamente di rubare ricette gustose. Chiama il marito, i figli: «Cercava le sarde, quelle sono al mare!». Ricapitolando: esiste questa modalità di condimento povero per la pasta, per quando non si avevano nemmeno i soldi per due sarde fresche, o per chi viveva sulle Madonie, lontano dal mare se pur in Sicilia. La modalità prevede gli stessi ingredienti della pasta con le sarde, magari un poco più abbondanti, e l’assenza totale

di elementi marini, tolto quel leggero e opzionale tocco di acciughe. Si ottiene così la pasta «con le sarde a mare», lasciando dunque i pesci nell’acqua del mare. Non è interessante vedere come da una sottrazione nasca una positività? La pasta è definita da ciò che le manca, ma non per questo ha meno dignità, sia ontologica («è» una pasta, non è quasi una pasta, né mezza pasta, né meno di una pasta), sia gastronomica. E qui suonano i violini del godimento, perché senza sarde si assaporano ancora meglio le uvette e i pinoli che galleggiano in quello che sembra né più né meno che un mare di alghe, il sugo di olio e finocchietto, quel condimento povero che però non si compra. Perché si raccoglie nei prati, lungo i cigli delle strade, ovunque, è una pianta infestante che resiste a tutto. Dunque non è nei negozi, sarebbe come vendere erba, spighe matte, soffioni. Certo, se vivete dove non cresce

Voti d’aria di Paolo Di Stefano Ciò che non vogliamo Fu scritta novant’anni fa, ma non si riesce a dimenticarla. Non chiederci la parola è una famosa poesia di Eugenio Montale (6+), che si conclude con due versi fulminanti: «Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Certo, per Montale era una dichiarazione filosoficoesistenziale e non politica. Ma come non essere d’accordo con lui in questi giorni di elezioni europee? Come dire meglio l’imbarazzo della scelta, non per eccesso ma per difetto. Ciò che non vogliamo sono banalità, che dovrebbero essere nelle prime pagine delle agende di tutti i politici e che invece sembrano assurdità malinconiche di illusi, idealisti, buonisti e politicamente corretti. Diciamone due, soltanto due. La prima banalità: ciò che non vogliamo, per esempio, è un’Europa bancocentrica, che contribuisca ad aumentare il baratro tra la ricchezza smisurata dei pochi e la povertà degli altri. La seconda: ciò che non vogliamo è che per l’indifferenza dei ministri europei

continuino a crepare bambini, donne e uomini nel Mediterraneo. La risposta dei leader europei (media 4–) è: mica facile…, solo le anime belle possono immaginare che sia possibile risolvere questi problemi con uno schiocco di dita. Risposta insufficiente e alquanto discutibile: stiamo parlando di ciò che per una democrazia dovrebbe essere fondamentale, come le ali per un aereo e le ruote o i pedali per una bicicletta. Se uno lamenta l’assenza delle ali in un aereo è un illuso? Se stai per comperare una bicicletta, ti accorgi che non ci sono le ruote e vai a reclamare, sei un rompiscatole? Pensate se il titolare del negozio vi rispondesse piccato: «Le ruote? I pedali? Lei, caro mio, pretende troppo…». Sarebbe troppo pretendere che una democrazia offra giustizia, sicurezza e lavoro a tutti e la smetta di concentrarsi su Sua Maestà il Mercato (1–). Che ansia svegliarsi al mattino e sentire in radio come prima notizia: «Il mercato oggi è nervoso»… Manco fosse tuo padre, il


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Idee e acquisti per la settimana

shopping Quando una ciliegia tira l’altra Attualità Questa settimana

a Migros Ticino le deliziose ciliegie italiane sono in offerta speciale

Il modo più simpatico per gustare le ciliegie sarebbe quello di raccoglierle direttamente dall’albero e mangiarsele lì sul momento, magari mettendone un paio sulle orecchie a mo’ d’orecchini tanto per restare in tema. Tuttavia, se non possedete un ciliegio, esiste comunque un’invitante alternativa per fare una scorpacciata di questo frutto originario dell’Asia Minore: recandosi alla Migros, dove, questa settimana, le rosse bontà sono proposte ad un prezzo particolarmente vantaggioso. In linea di massima le ciliegie si distinguono tra quelle dolci e quelle acide. Tra le dolci, a maturazione precoce, troviamo le duracine, dette anche duroni – che sono quelle che trovate attualmente sui nostri scaffali – e di cui fan parte per esempio le varietà Giorgia, Roma, Celeste e Ferrovia. Tutte si caratterizzano per la polpa dura e croccante, di colore biancocrema, con buccia di colore rosso, rosso vermiglio o rosso scuro. La loro raccolta inizia a metà maggio e si protrae sino a metà giugno. Un’altra particolarità dei duroni è l’alto tenore zuccherino. Per quanto attiene alle proprietà benefiche, le ciliegie fresche sono un’ottima fonte di vitamina C e antiossidanti. Facilitano l’assorbimento del ferro nel nostro corpo, aiutano in caso di tagli e ferite, mantengono denti e gengive sane, tengono sotto controllo il colesterolo e sono ricche di fibre. Alcuni studi hanno pure dimostrato la loro efficacia nel ridurre il rischio di alcuni tipi di cancro. Conservazione e preparazioni: le ciliegie fresche si possono congelare, dopo averle denocciolate. Fresche, essendo molto delicate, andrebbero consumate subito dopo l’acquisto oppure entro pochi giorni avendole tenute in un luogo fresco. In cucina le ciliegie entrano come protagoniste in dessert, flan, salse, bevande, torte fruttate e ovviamente bevande alcoliche: chi non conosce il kirsch, il noto liquore originario della Svizzera centrale?

Marka

Lo sapevate che…? La trota è un salmonide di fiume e di lago, che ama l’acqua fresca e chiara e fin da tempi lontani è stata allevata per la qualità delle sue carni. Il celebre agronomo Oliver de Serres scriveva che «la trota è un pesce eccellente, paragonabile ad una pernice delle acque dolci» . In cucina la trota si distingue per la sua versatilità e facilità di preparazione: può essere cucinata sia intera sia sotto forma di filetto, con o senza pelle, in mille modi: in

padella, al forno, al vapore, alla griglia. Una delle ricette più apprezzate, anche alle nostre latitudini, è la trota al burro e salvia. Sciacquare il pesce intero sotto l’acqua fredda ed asciugarlo. In una padella far sciogliere del burro e aggiungere qualche foglia di salvia. Infarinare la trota e cuocerla nel burro ben caldo per una quindicina di minuti girandola di tanto in tanto. Aggiustare di sale e pepe e servire.


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Idee e acquisti per la settimana

Acquisto con Subito perché… Attualità Introdotto lo scorso autunno presso il supermercato Migros di S. Antonino,

il sistema Subito per gli acquisti self-service ha conquistato la fiducia di molti clienti per la sua semplicità d’uso. Abbiamo chiesto ad alcuni utilizzatori del self-scanning il loro parere su questo metodo di fare la spesa. (Ultima di quattro puntate)

«Subito è formidabile. È più semplice e pratico rispetto ad altri sistemi analoghi. Ci piace molto anche la sua rapidità: in un baleno si paga e si è subito fuori dal negozio». Joseph (71 anni) e Liliane (72) Rovelli, Odogno.

«Perché è molto comodo, chiaro, veloce e non devo più mettere la mia spesa sul nastro della cassa. Lo utilizzo sempre da quando è stato introdotto qui alla Migros di S. Antonino». Daniela Jorio (40 anni), Giubiasco.

«Perché si sa subito quello che si spende. È la seconda volta che lo usiamo e ci troviamo bene, quindi lo utilizzeremo anche in futuro. Apprezziamo pure il rapporto di fiducia reciproco tra Migros e clientela». Marco (46 anni) e Hind (28) Calabro, Brissago.

«È veloce, di facile utilizzo, si evita la coda e permette di poter pagare con le carte di debito/credito. Vengo spesso appositamente da Giornico per acquistare con Subito». Michela Berguglia (39 anni), Giornico. (Stefano Spinelli)

«Mi piacerebbe vedere i miei libri tradotti in altre lingue…» Presentato lo scorso 29 aprile al Palazzo Sopracenerina di Locarno alla presenza di un folto pubblico, il nuovo libro di Chiara Pelossi-Angelucci «Cento lacrime mille sorrisi», edito da Sperling & Kupfer, ha nel frattempo fatto registrare un ottimo successo di vendite anche nei reparti libri di Migros Ticino. «Non posso nascondere che in fondo al mio cuore speravo in un buon esito. Certo, il mercato è saturo di libri bellissimi, ma io contavo molto sull’affetto del pubblico ticinese, che anche stavolta si è riconfermato», commenta soddisfatta Chiara Pelossi-Angelucci, autrice anche dei precedenti «Di pancia, di cuore da ridere 1 e 2», romanzi comici tra i più letti in Ticino nel 2012-2013. «Centro lacrime mille sorrisi» narra, in modo fresco e allegro, delle vere e commoventi vicende della figlia di Chiara, nata con una grave malformazione all’esofago e che oggi, dopo essere stata curata con successo, conduce una vita normale. Un sogno nel cassetto, Chiara? «Sicuramente di vedere i miei libri tradotti in un’altra lingua. In ogni caso di poter continuare a fare la «racconta storie» ancora per molto tempo. Scrivere per me è una grande passione, sinonimo di “star bene”, perciò sono molto grata a tutti i miei fedeli lettori, nuovi e futuri, che mi spronano ad andare avanti percorrendo questa meravigliosa strada». 20% di sconto su tutti i libri dal 27.5 al 10.6.2014 nei reparti libri di Migros Ticino.

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Idee e acquisti per la settimana

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L’adorata tavoletta La tavoletta di cioccolato è ormai un oggetto di culto. La Migros ne ha in assortimento oltre 50 varietà, prodotte da Chocolat Frey con la massima dedizione e ingredienti di prima scelta

La buona, vecchia, tavoletta di cioccolato svizzero. Si tiene a portata di mano in una tasca, nascosta nel cassetto della scrivania, da mordicchiare davanti al televisore o da portare con sé in passeggiata. Ed è così non solo qui in Svizzera. È molto apprezzata anche dagli stranieri, che l’hanno eletta a souvenir per eccellenza. A convincere è la sua qualità. Il perché molti turisti facciano una capatina alla Migros per far scorta di cioccolata svizzera è presto detto: oltre 50 varietà ne affollano gli scaffali. C’è qualcosa per ogni gusto, sono disponibili perfino varianti senza zucchero per diabetici. Uno sguardo alle classifiche dimostra, comunque, che gli Svizzeri amano i classici. Le tavolette

preferite sono quelle al Latte finissimo, la Noxana con nocciole intere, la Noir Spécial con 72% di cacao e la Giandor con ripieno mandorlato. Sono tutte apprezzate per la loro qualità, il loro sapore inconfondibile e il loro carattere esclusivo. La cioccolata al latte Tourist con uvetta, nocciole e mandorle è un successo sin dal suo lancio negli anni 40. La cioccolata Frey è la più consumata in Svizzera. E tutti i prodotti della storica azienda sono certificati UTZ. Il marchio indica una lavorazione della materia prima sostenibile, favorevole all’ambiente e che garantisce un trattamento socialmente responsabile della mano d’opera. / DH; Foto: Regula Roost; Styling: Urs Affolter

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L’Industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui le tavolette di cioccolato Frey.

Riduzione di 30 centesimi su tutte le tavolette di cioccolato Frey da 100 g a partire dall’acquisto di tre pezzi, esclusi M-Classic, M-Budget, Suprême e confezioni multiple.

IL GIUDIZIO DEL LETTORE Thomas Fässler (53), imprenditore di Studen (SZ) Rituale dopo un buon pasto mi concedo una riga di cioccolata. Amo la cioccolata più di ogni cosa. Impressione generale tutte le varietà sono una delizia. La consistenza è quella giusta: né troppo dura né troppo morbida. Preferiti 1) Extra fine al latte 2) Noxana alle nocciole 3) Giandor.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 26 maggio 2014 ¶ N. 22

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 26 maggio 2014 ¶ N. 22

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Idee e acquisti per la settimana

A tutta freschezza! Quando il caldo blocca la città, una puntatina in montagna è proprio quel che ci vuole, soprattutto se ad aspettarci c’è l’acqua rinfrescante di un bel laghetto. Sia che si scelga di costruire una zattera o divertirsi a bordo di un pedalò, con gli esilaranti suggerimenti del manuale «100 cose», in estate il divertimento è assicurato

Attenz ion di scot e! In monta g tature aumen na e sopratt invisib ut ta note le IP 3 volme to in riva al la 0 Fr. 1 nte. – 4.– Spray go il pericolo Sun L ook lig ht &

ena. a per… la schi L’amore pass

, il gelato onservato Se ben c tto. resta inta

Ricca d’ac qua, l’angu ria è il diss ideale per etante l’estate.

Quando il lago a due passi da casa è ormai tiepidino e non regala più gran refrigerio, la spiaggia del lido è occupata fino all’ultimo centimetro quadrato da persone accaldate alla ricerca di un soffio di vento e il suolo è bollente, tanto da bruciare i piedi ad ogni passo, l’unica soluzione è la fuga. In montagna ci aspetta tutto il piacere dell‘estate, da gustare in piena libertà. I laghetti di montagna sono, infatti, l’ideale per godersi la stagione più calda dell’anno. Baciati dal sole, offrono la giusta dose di freschezza, lontano dall’afa della città. La Svizzera propone oltre 1000 laghetti di montagna, dove una piacevole brezza è pronta a rinfrescare gli animi, ma anche i muscoli dei più attivi, ad esempio durante una corsa con i pedalò. E quando le temperature salgono anche ad alta quota, un tuffo in acqua è la miglior soluzione. Ma attenzione, a seconda dell’altezza, potrebbe essere necessaria una muta oltre al classico costume da bagno. In ogni caso, in montagna - e soprattutto nelle vicinanze dell’acqua - una buona dose di crema solare è assolutamente indispensabile per proteggere la propria pelle. Più in alto si va, maggiore è l‘effetto dei raggi UV. Il pericolo di scottature aumenta, infatti, del 10-15 percento ogni 1000 metri d’altezza e a bordo di un bacino o addirittura in acqua, persino dell’80 percento, a causa del riverbero.

Adesso avanti tutta! E se al traguardo le gambe cedono, per questa volta, barare è permesso.

to: Suggerimen iù sui scoprite di p ntani svizzeri bei laghi moe.migros.ch/it/ su: 100ding lle-rive-di-undivertirsi-su tagna lago-di-mon

La soddis fazione de l vincitore i gialli han : no battuto tutti nella corsa con i pedalò.

Responsabile del progetto Anna Bürgin, Nicole Ochsenbein Testo Nicole Ochsenbein Illustrazioni Marvin Zilm Stilista Mirjam Kaeser


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Idee e acquisti per la settimana … e – per mille marshmallow – tra poco partirà per un’entusiasmante spedizione.

pirati La zattera dei prende forma… eria Spago Papet 0 .9 2 r. 100 m F

Salvagente Intex Lively Print Fr. 3.90 In vendita da SportXX

Minianguria Solinda dall’Italia al prezzo del giorno

Infradito da uomo Obscure Fr. 19.90 In vendita da SportXX

Apparecchio fotografico Sony Fr. 279.– In vendita da M-electronics

to: non Suggerimen arvi potete staccUna ciotola dall’ufficio? ccio con del ghiaentilatore accanto al vla soluzione da tavolo è ra” che “freddacalu cercate.

Peperoni misti provenienza: Spagna/Olanda sacchetto da 500 g al prezzo del giorno

«100 cose da fare quest’estate» Fr. 7.70 Fino a esaurimento dello stock. Quando l’acqua è davvero fredda, una bella muta di neoprene è proprio quel che ci vuole.

La sed ia d Trevolu a campeggio tion è u na prati compa ca gn In vend a di escursio ni. ita da S portXX a Fr. 24

Coltello da tasca Victorinox Spartan Fr. 18.90 In vendita da SportXX

MegaStar Mini ??? give me a name 4 x 65 ml Fr. 5.90

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COME COSTRUIRE …

… una minizattera dei pirati.

1

Raccogliere dei rami sufficientemente grossi e segarli o tagliarli tutti alla stessa lunghezza. Per la base servono due buone controventature stabili e per l’albero maestro un ramo un po’ più sottile. Disporre i rami verticali uno accanto all’altro e legarli con dello spago, incrociandolo tra i singoli bastoni.

2

Per la bandiera, ritagliare un rettangolo da un pezzo di stoffa e dipingerlo a piacere. Dal resto della stoffa ricavare quindi una striscia lunga e sottile. Afferrare la bandiera per un angolo e legare quest’ultimo all’albero con l’aiuto della striscia di tessuto.

3

Una volta annodati saldamente tra loro tutti i pali, fissare le due controventature orizzontali alla base inferiore della zattera. Posizionare a tale scopo un ramo a ogni estremità e assicurarle bene con la corda ai rami esterni della zattera.

4

Appuntire l’albero alla base e infilare quest’ultima al centro della zattera. E ora, non resta che partire alla scoperta dell’isola perduta.

Illustrazioni: Georg Wagenhuber

Carne secca dei Grigioni Bio, dalla Svizzera Fr. 9.40 In vendita nelle maggiori filiali Migros

Set da snorkeling Cressi Marea VIP Fr. 49.80 In vendita da SportXX



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Cappelletti ai funghi o al prosciutto M-Classic in conf. da 3 per es. al prosciutto, 3 x 250 g

Entrecôte di cavallo Canada, imballato, per 100 g

Tutti i tipi di orata per es. orata reale 300–600 g, d’allevamento, Grecia, per 100 g, fino al 31.5

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Ciliegie Italia, in conf. da 500 g

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Latte M-Drink UHT Valflora 6 x 1 l, 20% di riduzione

Tutte le fettine e arrosto coscia di maiale, TerraSuisse Svizzera, 25% di riduzione, per es. fettine di maiale tagliate fini, imballate, per 100 g

Filetti di pangasius, ASC* d’allevamento, Vietnam, per 100 g, fino al 31.5

Prosciutto cotto Puccini prodotto in Ticino, affettato fine in vaschetta, per 100 g

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Pomodori ramati Ticino, sciolti, al kg

Phalaenopsis, 2 steli in vaso da 12 cm, la pianta

Tutto l’assortimento di formaggi Auricchio per es. dolce a fette, in conf. da 100 g

Appenzeller Classic per 100 g, 20% di riduzione

Ossibuchi di vitello, TerraSuisse Svizzera, imballati, per 100 g

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Tutte le tavolette di cioccolato di marca Frey Nidi alle nocciole, biscottini alle nocciole da 100 g, UTZ e discoletti freschi in conf. da 2 a partire da un acquisto di 3 tavolette (esclusi per es. nidi alle nocciole, 2 x 430 g gli articoli Suprême e quelli in confezioni multiple), –.30 di riduzione l’una, per es. Tourist al latte, 100 g

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Tutti i gelati da passeggio Megastar in confezioni multiple 20% di riduzione, per es. alla mandorla, 6 pezzi, 720 ml

Pizza Finizza al prosciutto o alla mozzarella in conf. da 3 surgelata, per es. Finizza alla mozzarella, 3 x 300 g

Chips al naturale o alla paprika M-Classic in conf. XL per es. chips alla paprica, 400 g

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Tutti gli yogurt Farmer 20% di riduzione, per es. al cioccolato, 225 g

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Tutti i biscotti Midor in sacchetto (Tradition esclusi), 20% di riduzione, per es. zampe d’orso, 380 g

Tutti i tipi di purea di patate Mifloc 20% di riduzione, per es. purea di patate, 4 x 95 g

Confetture Extra in conf. da 2 per es. arance amare, 2 x 500 g

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Rose con petali grandi in vaso da 12 cm, la pianta

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Articoli Kellogg’s in conf. da 2 20% di riduzione, per es. Choco Tresor, 2 x 600 g

Alimenti umidi Vital Balance in conf. da 12 o alimenti secchi in conf. da 4 20% di riduzione, per es. Vital Balance Senior, 12 x 85 g

Tutti i tipi di Rivella in conf. da 6 x 1,5 l per es. Rivella rossa

Tutte le insalate di tonno Mimare in conf. da 2, MSC 20% di riduzione, per es. Mimare Mexico, 2 x 250 g

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Tutti gli occhiali da lettura e da sole (incl. SportXX, escl. melectronics), 20% di riduzione, per es. occhiali da sole in materia sintetica, offerta valida fino al 9.6

Tutti i reggiseni dell’assortimento da donna (incl. Sloggi e DIM, escl. Classics by Triumph), 5.– di riduzione, per es. reggiseno con coppa Ellen Amber, offerta valida fino al 9.6

Lamponi, Spagna, in conf. da 250 g 3.90 invece di 5.20 25%

PESCE, CARNE E POLLAME Bistecca di collo di maiale marinata, TerraSuisse, per 100 g 1.25 invece di 2.50 50% Salchicha Pata Negra Gusto del Sol, Spagna, per 100 g 2.15 invece di 3.10 30% Spiedino confederato, Svizzera, 210 g 2.85 invece di 4.10 30% Specialità ticinesi per grigliate, Svizzera / Germania, 575 g 7.90 invece di 13.20 40% Fleischkäse, TerraSuisse, per 100 g 1.50 invece di 2.15 30%

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Latte M-Drink UHT Valflora, 6 x 1 l 6.40 invece di 8.10 20%

Salametti a pasta fine, prodotti in Ticino, in conf. da 2 pezzi, per 100 g 2.75 invece di 3.95 30%

Sminuzzato di maiale, TerraSuisse, Svizzera, imballato, per 100 g 1.95 invece di 2.60 25% Entrecôte di cavallo, Canada, imballato, per 100 g 3.50 invece di 5.– 30% Tutti i prodotti pronti AIA, per es. bonroll classico, prodotto italiano, in conf. da 750 g 9.90 invece di 12.50 20% Filetti di pangasius, ASC, d’allevamento, Vietnam, per 100 g 1.85 invece di 2.70 30% Fino al 31.5 *

Tutti gli yogurt Farmer, per es. al cioccolato, 225 g 1.55 invece di 1.95 20% Appenzeller Classic, per 100 g 1.30 invece di 1.65 20% Cantadou ai pomodori e alle erbette di Provenza, 125 g 2.50 NOVITÀ *,**

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Mozzarelline, bio, 160 g 2.95 NOVITÀ *,**

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Mozzarella Alfredo in conf. da 3, 3 x 150 g 3.60 invece di 4.50 20% Bocconcini al latte, 125 g 2.30 Treccia al burro Leventina, 500 g 3.60 invece di 4.50 Tutto l’assortimento di formaggi Auricchio, per es. dolce a fette, in conf. da 100 g 1.50 invece di 2.50 40%

FIORI E PIANTE

Rose con petali grandi, in vaso da 12 cm, la pianta 7.80

ALTRI ALIMENTI Risoletto Classic Frey in conf. da 2, UTZ, con set da tennis da spiaggia gratuito, 2 x 10 pezzi 14.40 invece di 18.– 20% Tutte le tavolette di cioccolato di marca Frey da 100 g, UTZ, a partire da un acquisto di 3 tavolette (esclusi gli articoli Suprême e quelli in confezioni multiple), –.30 di riduzione l’una, per es. Tourist al latte, 100 g 1.55 invece di 1.85 Tutti i biscotti Midor in sacchetto (Tradition esclusi), per es. zampe d’orso, 380 g 2.30 invece di 2.90 20% Highlanders, Chocolate Chip o Chocolate Chunk Biscuits di marca Walkers in conf. da 3, per es. Highlanders, 3 x 200 g 9.95 invece di 13.50 25% Cafino in busta in conf. da 2, UTZ, 2 x 550 g 13.80 invece di 20.60 33% Confetture Extra in conf. da 2, per es. arance amare, 2 x 500 g 2.90 invece di 4.20 30% **Offerta valida fino al 9.6

Tutte le torte in conf. da 2, 1.– di riduzione, per es. torta alle fragole, 2 x 141 g 4.50 invece di 5.50 *

Farmer Bisc & Nuts, UTZ, Limited Edition, 180 g 4.50 NOVITÀ *,**

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Miscela per cookies, 400 g 4.60 NOVITÀ *,**

Tutte le salse per insalata Anna’s Best e Tradition, per es. French Dressing, 700 ml 4.60 invece di 5.80 20%

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Pizza Finizza al prosciutto o alla mozzarella in conf. da 3, surgelata, per es. Finizza alla mozzarella, 3 x 300 g 6.90 invece di 13.80 50% Gamberetti Pelican tail-on, cotti, surgelati, 750 g 19.80 invece di 25.35 Tutti i gelati da passeggio Megastar in confezioni multiple, per es. alla mandorla, 6 pezzi, 720 ml 7.10 invece di 8.90 20% Gelato in coppetta in conf. da 4, per es. Ice Coffee, 4 x 165 ml 5.75 invece di 7.20 20%

Phalaenopsis, 2 steli, in vaso da 12 cm, la pianta 11.70 invece di 16.80

*In vendita nelle maggiori filiali Migros.

* In vendita nelle maggiori filiali Migros.

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Filetti di trota affumicata in conf. da 3, bio, d’allevamento, Danimarca, 3 x 100 g 10.60 invece di 15.90 33% * Prosciutto cotto Puccini, prodotto in Ticino, affettato fine, in vaschetta, per 100 g 2.55 invece di 3.90 33%

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Tutte le fettine e arrosto coscia di maiale, TerraSuisse, Svizzera, per es. fettine di maiale tagliate fini, imballate, per 100 g 2.15 invece di 2.90 25%

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PANE E LATTICINI

Peonie, il mazzo da 5 11.80 invece di 13.80

Ossibuchi di vitello, TerraSuisse, Svizzera, imballati, per 100 g 1.90 invece di 2.50 20%

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Cappelletti ai funghi o al prosciutto M-Classic in conf. da 3, per es. al prosciutto, 3 x 250 g 9.– invece di 12.90 30% Cornatur in conf. da 2, per es. nuggets vegetariani, 2 x 225 g 6.20 invece di 7.80 20% Pasta al farro e al kamut, bio, poggio del farro, per es. spaghetti di farro, 500 g 3.25 invece di 4.10 20% Amaretti ticinesi Savaris, 250 g 3.70 invece di 4.70

NEAR FOOD / NON FOOD Alimenti umidi Vital Balance in conf. da 12 o alimenti secchi in conf. da 4, per es. Vital Balance Senior, 12 x 85 g 9.35 invece di 11.70 20% Linea Essence Ultîme, per es. Omega Repair Shampoo, 250 ml 6.90 20x PUNTI

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Colorazioni L’Oréal e Garnier, a partire dall’acquisto di 2 confezioni, 3.– di riduzione l’una, per es. Olia 5.3 Castano dorato 11.80 invece di 14.80 ** Tutti i prodotti Candida (confezioni multiple escluse), per es. Fresh Gel, 125 ml 2.35 invece di 2.95 20% ** Prodotti Candida in confezioni multiple, per es. spazzolino Sensitive Plus in conf. da 3 7.60 invece di 11.40 Gel contro l’herpes labiale Sanactiv, 10 g 7.90 NOVITÀ *,**

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Couscous Subito 260 g

Pasta agli spinaci e al formaggio Subito 175 g

Cantadou ai pomodori e alle erbette di Provenza 125 g

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Pasta al parmigiano Subito 175 g

Kikkoman Wok Sauce 250 ml

Mezza panna, aha! senza lattosio, 250 ml

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Mozzarelline, bio 160 g

Gel contro l’herpes labiale Sanactiv 10 g

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7.90 Cerotti per vesciche Pedic extra stark o cerotti per vesciche Pedic in conf. mista per es. confezione mista, 6 pezzi


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 26 maggio 2014 ¶ N. 22

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Idee e acquisti per la settimana

Optigal Pollo Fr. 9.50 al kg

Spiedini di pollo marinati Fr. 3.55 per 100 g

Optigal Cosce di pollo marinate Fr. 1.40 per 100 g* *Nelle maggiori filiali.

Pollo alla diavola Fr. 1.20 per 100 g*

Optigal Cosce di pollo inferiori Fr. 1.50 per 100 g

Optigal Ali di pollo marinate Fr. 1.45 per 100 g*

Optigal Pollo Spiedini Kebab Fr. 2.95 per 100g*

Sticks di pollo marinati Fr. 1.40 per 100 g*

Non manca niente: per un improvvisato party in terrazza il padrone di casa ha preparato ogni sorta di pollame Optigal, con contorno di pitta, lattuga, verdure crude e patatine.

Variazioni di pollo Tenere fettine, croccanti alette o piuttosto un’appetitosa coscia marinata?

I classici prodotti di pollame svizzero non devono mai mancare in una grigliata che si rispetti. Il pollo è tuttora una delle carni più popolari sulla brace. In un pollastrello ognuno trova qualcosa di suo gusto. I bambini adorano sgranocchiare le croccanti alette, chi è attento alla linea preferisce invece le fettine, magre e poco caloriche, mentre di solito il «maestro del grill» ha già riservato per sé le succulente cosce. Sull’impeccabile qualità della carne vi-

gila, ormai da oltre un cinquantennio, il marchio Optigal. Gli allevatori sono selezionati con cura e devono attenersi a prescrizioni molto severe. Ciò significa che devono preoccuparsi affinché nel pollaio lo strame sia sempre pulito, la luce naturale, l’aria fresca e le temperature adeguate. I polli hanno accesso a postazioni sopraelevate e sufficiente libertà di movimento, in modo che vivano nel migliore dei modi anche al chiuso.

Tutti i prodotti Optigal sono realizzati con il migliore pollame svizzero. Tra i classici segnaliamo le cosce di pollo marinate, che grazie alla loro miscela di paprica e spezie aromatiche possono finire direttamente dalla confezione alla brace. C’è solo bisogno di un premuroso «maestro del grill» che le tolga dal fuoco al momento giusto per servirle sul piatto. Lo stesso vale per ali, fettine e spiedini. Tutte parti eccellenti, anche cucinate in padella. / Testo: Sonja Leissing

L’industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui quelli a base di pollo di Optigal.


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Idee e acquisti per la settimana

Tempo di snack: sempre e dappertutto

La frutta secca per te, le noci per me A chi non piacciono le noci e la frutta secca? E se chi non ama le uvette le lascia da parte, nel gruppo ci sarà certamente qualcuno a cui piace particolarmente proprio l’uva passa. È la miscela che conta, e per molti il divertimento consiste anche nel scegliere le noci preferite e metterle da parte per conservarle fino all’ultimo. Dal momento che la miscela di frutta secca e noci è apprezzata da secoli dagli studenti, oggi in tedesco è detta anche Studentenfutter (cibo per studenti). Ai tempi, però, solo i benestanti come gli studenti (di allora) potevano permettersi questo gustoso fornitore di energia. E pare che anche gli ecclesiastici avessero una predilezione per la miscela di noci e frutta secca, come si evince da un’altra denominazione tedesca tuttora ricordata: Pfaffenfutter (cibo del prevosto). Un gustoso fornitore di energia in comode porzioni I tempi in cui solo i benestanti pote-

vano permettersi la squisita combinazione di noci e frutta sono ormai tramontati da un pezzo. Le Cups di Sun Queen reinventano di bel nuovo il cibo per studenti, il che è evidenziato anche dalla moderna confezione: grazie al coperchio richiudibile e dato che i vasetti entrano perfettamente nei normali portabevande presenti nelle automobili, si possono comodamente portare con sé. E se rimanesse qualcosa, non è il caso di preoccuparsi di come mantenerne il pieno aroma: quel che è rimasto resterà fresco e croccante fino alla prossima occasione. Chi apre il vasetto per la prima volta sarà sorpreso, perché anche la composizione di frutta e noci è nuova. La variante «snack up» contiene pistacchi tostati e salati, mandorle, mango e uvetta in cioccolato scuro. Semi di cashew, pure tostati e salati, mirtilli e kiwi, oltre a mandorle ricoperte di cioccolato scuro, sono riuniti sotto il coperchio della «take on». Gustosi snack, quindi, che ricaricano le batterie vuote. In modo piacevole. / Testo: Claudia Schmidt

Sun Queen snack up Cup 140 g Fr. 3.50

Foto: Getty Images; Oliver Bartenschlager

Mentre si gioca o ci si diverte nella natura, si fa una corsa in cabriolet o si è chiusi in ufficio: quel certo languorino arriva quando vuole, e quasi sempre a sproposito. È il momento per uno snack di noci e frutta secca: le nuove Sun-Queen Cups

Estate, sole, macchina scoperta e divertimento all’aperto! Per quel languorino improvviso ci sono gli snack di Sun Queen in vasetto, gustosi e fruttati.

Prima il lavoro, poi… una manciata pescata nella Sun-Queen Cup: per concedersi una porzione della miscela di frutta secca e noci ci sono mille occasioni.

Sun Queen take on Cup* 140 g Fr. 3.50 * Nelle maggiori filiali L’industria Migros produce numerosi prodotti Migros molto apprezzati, tra cui anche le Sun-Queen Cups


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Walkers Chocolate Chip in confezione da 3 25% di riduzione 3 x 175 g

Walkers Shortbread Highlanders in confezione da 3 25% di riduzione 3 x 200 g

Walkers Belgian Chocolate Chunk in confezione da 3 25% di riduzione 3 x 150 g

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Idee e acquisti per la settimana

Foto: Ruth Küng

Un’offerta a più strati: i MegaStar vanno dai classici bastoncini al cioccolato e panna, agli Almond fino a quelli pralinati.

Fresco e croccante È proprio quel «croccante momento», quando si addenta con cautela il rivestimento di cioccolato di un gelato MegaStar, che induce i fan del gelato alla panna ad «azzannare» appena possibile il loro bastoncino preferito. Perché lo sanno bene: sotto il rivestimento si cela una squisita cremosità

La croccantezza del cioccolato è solo uno degli aspetti che i fan della linea MegaStar apprezzano. Perché sanno che sotto il mantello di cioccolato bianco, scuro e al latte, i bastoncini rivelano il loro tesoro interno: un cremoso gelato alla panna con delicata vaniglia, cioccolato o fruttatissime fragole. A differenza di taluni prodotti paragonabili che si trovano nei congelatori, gli ingredienti utilizzati per i MegaStar sono particolarmente scelti. Invece di grasso vegetale, i gelatai della Midor SA utilizzano latte e panna provenienti dalla Svizzera. Gli intenditori lo sentono subito. Gli aromi sono esclusivamente naturali, e il cacao per il ciocco-

lato proviene da coltivazioni certificate UTZ. Con questi gelati ci si può anche concedere di tanto in tanto una ricompensa con la coscienza tranquilla. I bastoncini di gelato alla panna esistono in diverse varianti. I più amati sono disponibili anche in miniformato che spariscono in bocca come per incanto. Almond, inoltre, conquista i palati con le sue scaglie di mandorle sopra il cioccolato. Per tutti coloro che di MegaStar non ne avrebbero mai abbastanza c’è anche una nuova varietà, con una cioccolata bionda tutta nuova con una soprendente nota di biscotto e un tocco di sale. Questo gelato è ancora senza nome, ma

MegaStar Almond 6 pezzi da 120 ml Fr. 8.90

MegaStar Strawberry 6 pezzi da 120 ml Fr. 8.90

MegaStar assortiti 6 pezzi da 65 ml Fr. 5.90

MegaStar praline Almond 12 pezzi da 15 ml Fr.3.90

si trova già sugli scaffali della Migros. Ancora fino al 15 giugno, su www.migipedia.ch potete proporre un nome da dare al «trovatello». / CS

L’industria Migros produce numerosi prodotti Migros molto apprezzati, tra cui anche i MegaStar.


O T N E IM T R O S S A O R E T IN L’ L U 30% S DI VALIGIE E BORSE DA VIAGGIO.

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Idee e acquisti per la settimana

Un «fagotto» di pane La nuova creazione della panetteria Migros Jowa è di carattere. Il «Le Baluchon» è un pane chiaro che, sotto la sua crosta croccante, nasconde una pasta acida aromatica e germi di frumento dal sapore nocciolato

Pain Création «Le Baluchon» 340 g Fr. 3.90

Il buon pane è il risultato di un accurato lavoro artigianale. Oltre a ingredienti di prima qualità, ci vuole anche del tempo affinché l’impasto possa sviluppare tutto il suo aroma. Le Baluchon («fagotto» in italiano) della linea Pain Création è un buon esempio di artigianalità. Il suo sapore caratteristico è dato dalla pasta acida e dal poco lievito. Il leggero aroma nocciolato è invece dovuto all’aggiunta di germi di frumento. Il lungo riposo dell’impasto conferisce non solo aroma, ma permette anche lo sviluppo di bolle d’aria che regalano alla mollica una bella ariosità. Per questo è importante che la pagnotta venga formata accuratamente. Per Le Baluchon il fornaio lavora l’impasto sagomandolo energicamente ai quattro angoli, proprio come se fosse un fagotto – da lì il nome. Prima di infornarlo, si cosparge la superficie con una miscela di semola di grano duro e farina. In questo modo la crosta risulterà bella croccante. Le Baluchon dimostra come un pane possa essere buono quanto la sua ricetta, i suoi ingredienti e, non da ultimo, quanto l’abilità dei panettieri. / CS; Foto: Claudia Linsi

Matrimonio perfetto: «Le Baluchon», carne secca, formaggio e frutta.

L’industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui anche i prodotti della Jowa.


Non farti più sfuggire nessuna occasione!

Replay per 7 giorni

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* TV digitale M-Budget con Internet e collegamento alla rete fissa, opzioni escluse. Le opzioni: in caso di un nuovo contratto di almeno 12 mesi, per un anno intero ricevi in regalo le funzioni «Replay+Registrazione» (fr. 9.–/mese) e «più velocità» (fino a 15 Mbit/s, a fr. 5.–/mese). Costi d’attivazione: fr. 29.–. L’offerta speciale è valida fino al 30 giugno 2014.

www.m-budget-tv.ch I prodotti M-Budget sono inoltre disponibili presso:


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